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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Prologo *** Capitolo 2: *** Capitolo primo: Venti di guerra. *** Capitolo 3: *** Capitolo secondo: Adunata di eroi *** Capitolo 4: *** Capitolo terzo: La cripta *** Capitolo 5: *** Capitolo quarto: Rinascita. *** Capitolo 6: *** Capitolo quinto: Il signore delle tenebre *** Capitolo 7: *** Capitolo sesto: Attacco a Karnak *** Capitolo 8: *** Capitolo settimo: Il mondo sommerso. *** Capitolo 9: *** Capitolo ottavo: Confessioni. *** Capitolo 10: *** Capitolo nono: Fuga verso Themiskyra. *** Capitolo 11: *** Capitolo decimo: L'ora più buia. *** Capitolo 12: *** Capitolo undicesimo: La strega delle tempeste *** Capitolo 13: *** Capitolo dodicesimo: Atlante. *** Capitolo 14: *** Capitolo tredicesimo: Il popolo libero. *** Capitolo 15: *** Capitolo quattordicesimo: La luce e il giorno. *** Capitolo 16: *** Capitolo quindicesimo: Inganno fratricida. *** Capitolo 17: *** Capitolo sedicesimo: Valico di sangue. *** Capitolo 18: *** Capitolo diciassettesimo: Fuoco nel deserto. *** Capitolo 19: *** Capitolo diciottesimo: L'abisso oscuro. *** Capitolo 20: *** Capitolo diciannovesimo: La marcia del titano. *** Capitolo 21: *** Capitolo ventesimo: Sacrifici. *** Capitolo 22: *** Capitolo ventunesimo: L'ombra tra i ghiacci. *** Capitolo 23: *** Capitolo ventiduesimo: Fuoco incrociato. *** Capitolo 24: *** Capitolo ventitreesimo: Le risorse di Atena. *** Capitolo 25: *** Capitolo ventiquattresimo: Disperatamente amore. *** Capitolo 26: *** Capitolo venticinquesimo: Livore profondo. *** Capitolo 27: *** Capitolo ventiseiesimo: Alle porte di Asgard. *** Capitolo 28: *** Capitolo ventisettesimo: L'angelo oscuro. *** Capitolo 29: *** Capitolo ventottesimo: L'urlo degli uomini. *** Capitolo 30: *** Capitolo ventinovesimo: Gli allievi di Dohko. *** Capitolo 31: *** Capitolo trentesimo: Incursione. *** Capitolo 32: *** Capitolo trentunesimo: Pericolo dal mare. *** Capitolo 33: *** Capitolo trentaduesimo: Demoni di guerra. *** Capitolo 34: *** Capitolo trentatreesimo: Gli ultimi re dei mari. *** Capitolo 35: *** Capitolo trentaquattresimo: La grande balena. *** Capitolo 36: *** Capitolo trentacinquesimo: L'ultimo addio. *** Capitolo 37: *** Capitolo trentaseiesimo: Il tramonto degli eroi. *** Capitolo 38: *** Capitolo trentasettesimo: La fine di un sogno. *** Capitolo 39: *** Capitolo trentottesimo: Presagi. *** Capitolo 40: *** Capitolo trentanovesimo: Tirando le fila. *** Capitolo 41: *** Capitolo quarantesimo: I progenitori. *** Capitolo 42: *** Epilogo (e Schede tecniche dei personaggi) ***
Liberamente ispirata a “I CAVALIERI DELLO ZODIACO”
ALEDILEO
presenta:
I CAVALIERI DELLO ZODIACO
7
L’alba dell’ultima guerra
SAGA DI AVALON – Parte 3 di 4
A Pavone, per gli ottimi consigli e per avermi prestato i suoi Areoi.
Aledileo, 2013
That which we are, we are;
One equal temper of heroic hearts,
Made weak by time and fate, but strong in will
To strive, to seek, to find, and not to yield.
(Ulysses,
Alfred Tennyson)
NOTA: Questa storia è ambientata
dopo la Trilogia di Flegias, “L’avvento dell’inverno”
e “Il varco tra i mondi”, la cui lettura è necessaria per meglio comprendere
personaggi e situazioni in corso.
***
PROLOGO
L’improvvisa esplosione di luce
fece scappare le tribù berbere che riposavano al fresco delle oasi. Quando il
primo raggio luminoso le raggiunse, strabuzzarono gli occhi per la curiosità,
ma non appena capirono da dove provenissero si scatenò un fuggi fuggi generale, una ridda di uomini, mantelli, cammelli e
nubi di sabbia che animò l’albeggiante paesaggio nordafricano. Del resto, non capita tutti i giorni di assistere alla discesa di due Divinità dal
cielo! Si disse Kama, nascondendosi dietro alcune rocce sporgenti delle
propaggini del complesso montuoso.
Perché di due Divinità doveva
trattarsi, di questo la Sacerdotessa era sicura. Percepiva la loro potenza
cosmica irradiarsi sull’intera catena e sullo sconfinato deserto che subito si
estendeva oltre i margini meridionali, facendone una barriera naturale contro i
venti e le maree del Mediterraneo.
Questo, quantomeno, era ciò che i
beduini e gli abitanti di quelle terre avevano a lungo creduto. Senza conoscere
la verità sulla sua origine.
Le due figure di luce rilucevano
diafane nell’albore, muovendosi con grazia ed eleganza, leggiadre come fossero
composte di brezza, e con una sicurezza che solo chi conosceva il territorio,
solo chi sapeva dove muoversi, tra i recessi sabbiosi del sistema montuoso,
poteva dimostrare. Quanti giorni, in fondo, avevano trascorso nell’intermundi
ad osservare il pianeta cui avevano dato la prima luce spegnersi poco a poco?
Quell’ultimo gesto, quella guerra risolutiva, non avrebbe cambiato l’esito
finale, il destino della stirpe umana che da sola si era condannata. Di questo,
Etere e Emera erano sicuri.
Così avvolsero l’intera catena
costiera nel riverbero del loro cosmo, penetrando in profondità, scavando nel
suolo e nel tempo, fino a raggiungere i resti di chi là sotto aveva a lungo
giaciuto, crollandovi esausto al termine del disastroso conflitto che aveva
segnato il passaggio dalla seconda alla terza generazione divina. I resti di
chi, a quel sistema montuoso, aveva dato nome.
Non appena il suolo tremò,
scuotendo i rilievi e frantumando rocce, Kama comprese quel che sarebbe
accaduto. E rabbrividì.
Regor
glielo aveva detto anni addietro, condividendo il segreto che lo legava a
quelle terre brulle e perigliose, e dopo la sua morte era stata lei a
custodirlo, lei che adesso avrebbe dovuto avvisare la Dea della Guerra.
Corse fino ai margini meridionali
della catena montuosa, mentre le alture si spaccavano e fenditure si aprivano
ovunque, in cui rocce e sabbia sprofondavano ruggendo, con un gran boato di
rivalsa. Un suono gutturale che aumentò non appena egli riemerse dalla
prigionia dimenticata. Anche da una certa distanza, Kama notò quanto fosse
immenso, almeno cinquanta piedi, e quando si sollevò eretto, allungando le
braccia anchilosate, le parve quasi di vederlo afferrare il cielo, il cui peso
ebbe a sopportare nel Mondo Antico, prima che il padre lo istigasse contro i
nemici Olimpi.
Le due figure ammantate di luce si
avvicinarono al gigante, recitando parole in greco antico di un rito che gli
avrebbe consentito di recuperare in fretta le forze, prima di indicare un punto
all’orizzonte, nell’alba del Mediterraneo. Kama non ebbe bisogno di vedere dove
puntasse il loro sguardo, poiché già lo sapeva. La prima impresa del titano
sarebbe stata quella di punire i carnefici di suo padre, usando la propria
devastante forza bruta per distruggere l’Olimpo e Atene.
***
In quello stesso momento Zeus tremò.
Fu un brivido improvviso a scuoterlo, mentre stava discutendo con
Demetra ed Ermes le modalità con cui avrebbero aiutato i Cavalieri dello
Zodiaco, un brivido sufficiente per farlo vacillare e costringerlo a poggiare
un ginocchio a terra, per non cadere lungo la scalinata di marmo della Sala del
Trono.
“Mio Signore!!!” –Gridò subito il Messaggero Olimpico, correndo ad aiutarlo.
“Sto bene, Ermes, non preoccuparti! È stato solo un presentimento…
un’ombra. L’ombra della fine di tutte le cose.” –Mormorò Zeus, prima di fissare
entrambi gli Dei in faccia e spostare poi lo sguardo sul resto del salone.
–“Era! Dov’è Era?! Dubito che sia già andata in Sicilia!”
A quelle parole Ermes trasalì, il volto una maschera di sudore. Qualunque cosa avesse in mente la Signora
dell’Olimpo di certo non aveva intenzione di recare danni al consorte.
Questo era ciò che si era ripetuto più volte, prima di consegnarle la lama
deicida. Eppure… non aveva pensato…
che forse Era non volesse colpire qualcun altro.
“Voglio solo rimediare a un vecchio errore!”
Le sue parole gli si piantarono nel cuore, instillandogli un così
intenso dolore come mai l’aveva percepito prima, spingendolo a inginocchiarsi
subito di fronte a Zeus, invocando il suo perdono. –“Mio re…
la divina Era… io credo…”
“Cos’è successo, Ermes? Perché quest’ansia immensa mi ha invaso?!”
–Chiese il Nume supremo, mentre il suo cosmo stava scandagliando l’Olimpo, alla
di lei ricerca. Ne trovò traccia sul sentiero che conduceva al mausoleo degli
eroi caduti, ne percepì il respiro affannoso, il turbinare di mille pensieri e
rimorsi e per un momento credette quasi di essere lì
con lei, al suo fianco, ad osservarla mentre in lacrime si recideva i polsi con
la daga dorata, lasciando che l’Ichorruscellasse fuori, macchiando il pavimento di marmo e le
statue che là riposavano.
“Era!!!” –Gridò Zeus a gran voce, aprendo uno squarcio nella parete orientale,
dentro il quale si precipitò all’istante, inseguito da Ermes e da Demetra, che
non capiva cosa stesse accadendo, chiedendo ripetutamente spiegazioni agli
altri Numi. –“Non farlo, Era!!! Non voglio che tu lo faccia!!!”
Aveva compreso infine, il Celeste Signore, quel che la sua divina sposa
aveva progettato, e l’affievolirsi rapido del suo cosmo gliene diede conferma,
prima ancora di osservarne il corpo stanco e fiacco crollare addosso all’ultima
statua rimasta, quella che ancora non aveva beneficiato del suo prezioso
sangue.
“Non così!!! Non così!!!” –Tuonò il Dio del Fulmine, entrando con gran
foga nella cripta sotterranea e precipitandosi dalla sua signora. –“Era,
parlami! Parlami mia adorata! Perché l’hai fatto? Perché?!”
“Ze… Zeus?!” –Balbettò la Regina dell’Olimpo,
il volto emaciato e privo ormai di ogni lucentezza. Un volto su cui Ermes notò
allungarsi un pallido sorriso. –“Sei qui, per me?!”
“Non dovevi farlo! Non tu!!!” –Singhiozzò il possente Nume, carezzando
i lunghi capelli castani della Dea.
“Invece sì! Mio era il compito, come mia fu la colpa! Non crucciarti
per me, ma sii felice, marito mio, presto potrai riabbracciare tuo figlio e
insieme combatterete l’ultima battaglia!” –Aggiunse lei, sollevando a fatica il
braccio fino ad afferrare una gamba della statua alla sua destra, imbrattandola
con il suo Ichor e inondandola con le ultime stille
del suo cosmo. –“Forse l’ombra della fine di tutto sta per scendere su tutti
noi, ma che gran festa sarà se così non dovesse essere. Se tutta l’ansia e i
timori che ti hanno divorato il cuore per secoli dovessero dissiparsi al sole e
tu ancora potessi regnare per secoli e secoli! Oh che smacco per l’ombra
sarebbe! Oh Zeus, mio amato Zeus, stringimi forte, stringimi a te! Stringimi come
non hai mai fatto prima!”
Il Signore dell’Olimpo non disse alcunché, tenendo stretta la sorella e
sposa mentre moriva. Ne assaporò per l’ultima volta il profumo, inebriandosi
del ricordo del loro antico amore, quando si era mutato in cuculo per sedurla,
dei giorni felici in cui credevano che, Dei e immortali, avrebbero vissuto per
sempre. Prima dell’infedeltà, delle scappatelle di Zeus, della gelosia e dei
litigi, prima di conoscere l’ombra.
A quello si aggrappò il Nume per dirle addio, certo che anch’ella vi
stesse pensando, condividendo le memorie di un’esistenza ritenuta infinita.
Quando trovò la forza per staccarsi da lei, depositandone il corpo straziato,
prosciugato di energia vitale, sul bianco marmo, Era aveva già chiuso gli
occhi, il viso rivolto verso la prima delle tredici statue che per tre secoli
avevano giaciuto silenti e sole nel buio della cripta. E che adesso il suo
cosmo aveva acceso della fiamma della vita.
Un sacrificio divino. Proprio come richiesto per rompere la
maledizione.
“Mio…Signore…”
–Mormorò Ermes, dispiaciuto per l’accaduto, prima che uno scricchiolio sommesso
li richiamasse tutti quanti.
“Cosa… sta accadendo? E chi sono… costoro?” –Esclamò allora Demetra con voce
spaventata, quasi sconvolta, dal rapido succedersi degli eventi, osservando i
corpi atletici e rivestiti da armature da battaglia che riempivano il primo
salone del mausoleo. Ne studiò le forme per qualche istante, mentre gli
scricchiolii aumentavano di numero e intensità e sulle statue comparivano crepe
sempre più ampie e profonde, rivelando un riverbero di luce che da pallida
divenne vivida in pochi istanti, anticipando l’esplodere di una dozzina di
cosmi. –“Non saranno…?!”
“Sono coloro che tornano a proteggere gli uomini!” –Commentò allora
Zeus, narrando quel che era accaduto al termine dello scontro sostenuto da Era
e Eracle trecento anni addietro. –“La maledizione è stata infine sciolta, come
la profezia richiedeva! Soltanto il sacrificio di un cuore puro avrebbe potuto
ridare loro la vita! E nessuno ha amato più di Era, la mia adorata Era, Dea del
Matrimonio e della Famiglia, Dea Madre e Dea abbandonata! Dea infine che non ho
mai compreso, che ho tradito, offeso e insultato e che troppo tardi ho
ricordato come amare!”
“Sono sicura che in fondo lei lo sapeva!” –Intervenne la Signora delle
Messi, avvicinandosi al Dio del Fulmine e ponendogli una mano su una spalla.
–“E ti amava lo stesso, fratello mio! Questo atto ne è la dimostrazione!”
Zeus annuì, prima di voltarsi verso le tredici statue adesso rivestite
da un abbagliante lucore e vederle muovere gli arti, stirare i muscoli
irrigiditi, sbattere gli occhi più volte, per essere certi di vedere di nuovo,
e infine parlare, stupefatti per quel prodigio.
“Padre!!!” –Esclamò una ruggente voce maschile, mentre la robusta
sagoma di un uomo avvolto in pelli di leone si avvicinava. Il fisico scolpito,
gli occhi neri e vispi, lo stesso filo di barba di quel giorno in cui si erano
detti addio.
“Eracle!!!” –Lo chiamò allora Zeus, travolto da duplici emozioni. Il
dolore per la perdita dell’amata e l’enorme piacere di poter riabbracciare il
figlio che tenne alto il suo nome nel Mondo Antico. L’uomo che si era fatto
Dio.
“Non credevo ci saremmo rivisti!” –Esordì Eracle, fermandosi di fronte
alle tre Divinità, ma tenendo lo sguardo fisso sul padre.
“Neppure io, lo ammetto. Non in questa vita, almeno!” –E raccontò al
Protettore degli Uomini quel che era avvenuto, sottolineando come la sua
rinascita fosse una conseguenza del sacrificio di Era.
Quelle parole strapparono un sospiro di tristezza al figlio di Zeus e Alcmena che, sebbene in eterna rivalità con la matrigna,
aveva più volte tentato di sanare i loro contrasti, senza mai riuscirci.
“Hai trovato infine come farti perdonare…”
–Sussurrò, chinandosi sul corpo spento della Dea e posandole un bacio in
fronte. –“Lo apprezzo! Addio, Regina dell’Olimpo! Addio, Dea Madre!”
Anche i suoi guerrieri, comprendendo quel che era accaduto, si
inchinarono in segno di rispetto per un avversario che aveva saputo ammettere i
propri errori. Fu solo ad un cenno di Zeus che si rimisero in piedi, mentre il
Nume supremo li scrutava uno ad uno. Ricordava i nomi di tutti loro, i migliori
compagni che Eracle avesse potuto desiderare, eroici, ardimentosi e soprattutto
impavidi. Neppure il peccato di hybris li aveva mai
spaventati, poiché l’unico Dio in cui credevano era uno di loro, un uomo asceso
al cielo più elevato. Ed essi si ritenevano in grado di fare altrettanto.
“Siamo pronti alla guerra, mio Signore!” –Esclamò la giovane voce di uno
di loro, rialzandosi e fissando Zeus negli occhi. –“Non è per questo che siamo
stati risvegliati? Per essere la chiave di volta tra le benigne stelle e
l’oscurità?!”
“È così, Nesso! È così!” –Annuì il Re dell’Olimpo, prima di pregare
Ermes di condurre Eracle e la sua legione alla reggia e offrire loro ristoro e
qualunque cosa necessitassero, soprattutto informazioni. Lui li avrebbe
raggiunti a breve, dopo essersi concesso un ultimo momento per sé, per onorare
colei che troppo tardi era riuscito ad amare.
Demetra rimase ad osservare i dodici Heroes
della Legione dei Migliori uscire dalla cripta e tornare a rivedere il sole,
dopo quasi tre secoli di oblio, chiedendosi quanto la loro presenza avrebbe
potuto spostare gli equilibri della guerra in corso. E a favore di chi.
Capitolo 2 *** Capitolo primo: Venti di guerra. ***
CAPITOLO PRIMO: VENTI DI GUERRA.
Terminata l’assemblea dei delegati dei regni divini, ove tutti erano
stati messi al corrente dagli Angeli della minaccia rappresentata dall’avvento
di Caos, i vari gruppi di Divinità e Cavalieri loro fedeli rimasero a discutere
nell’arena del Grande Tempio, cercando di concordare una comune strategia
difensiva, certi che l’attacco degli Dei Antichi non sarebbe tardato ad
arrivare. Su questo, il consenso era unanime.
Più difficile fu invece giungere ad un accordo riguardo alla
dislocazione delle truppe della nascitura alleanza, ognuno temendo per la sorte
del proprio regno e restio quindi a separarsi da combattenti utili per
proteggerlo. Per quanto, come Avalon ebbe a ricordare più volte, nessun regno
potesse dirsi al sicuro in quel momento, poiché il manto oscuro delle tenebre
sarebbe sceso sulla Terra intera e pretendere di riuscire a difendersi da soli,
contando soltanto sulle proprie forze, era pura utopia.
“Dobbiamo mettere da parte rivalità durate secoli, contese umane o
divine e anche l’orgoglio, se non vogliamo soccombere all’ombra nascente!
Umiltà e fiducia dovranno essere alla base di quest’alleanza!” –Rincarò la dose
Alexer, spiegando di avere un gruppo di guerrieri, da lui personalmente
istruiti alle arti dei ghiacci, pronto a combattere. Anche Andrei snocciolò
numeri sulle forze addestrate presso il Lago Titicaca, i fedeli al culto di Inti che vedevano nel sole la fonte della vita e che
avrebbero lottato con i denti contro chiunque avesse tentato di oscurarne lo splendore.
Nettuno, con voce calma, spiegò di non poter fornire alcun esercito,
avendo perduto tutti i Generali e i Soldati degli Abissi nell’ultima guerra
scatenata contro Atena, ma aggiunse di aver già contribuito a modo suo, per
quanto i suoi impegni non fossero ancora terminati. Avalon annuì alle parole
del Nume Olimpico, criptiche ai più, ben sapendo quel che Zeus stava
progettando, e gli disse che lui stesso li avrebbe accompagnati in Sicilia
entro poche ore.
Quelle parole strapparono un paio di domande incuriosite a Pegasus e ai
Cavalieri dello Zodiaco, che pretesero notizie sul Padre di Tutti gli Dei,
rimasti straniti e un po’ dispiaciuti dalla sua assenza al congresso.
“Il Sommo Zeus è al nostro fianco, non è così, Nikolaos?”
–Chiesero al Luogotenente dell’Olimpo, che si limitò ad assentire, dopo aver
scambiato un fugace sguardo con l’Imperatore dei Mari.
“Sapete bene, Cavalieri di Atena, che le decisioni del mio Signore sono
di sovente imperscrutabili ma più volte egli ha offerto la sua disponibilità
nel lottare insieme contro avversari comuni! Ares, Tifone e Flegias
sono caduti anche grazie alle forze messe in campo dall’Olimpo! Conferirò con
lui quando rientrerò, ma sono certo che, a modo suo, Zeus stia preparandosi
all’ultima guerra! Anzi, da quel che Ganimede mi aveva riferito prima di
scendere ad Atene, da alcuni giorni Efesto è
impegnato in un alacre lavoro per conto del padre, che non è rimasto inoperoso
ad attendere gli eventi!”
“Ne sono convinta anch’io, nobile Eridano!”
–Gli sorrise allora Atena, prima che il Luogotenente accennasse un inchino,
congedandosi dal gruppo e avviandosi verso gli spalti più elevati dell’arena,
dove Euro lo stava attendendo, le variopinte ali della corazza già spalancate,
per rientrare sull’Olimpo e conferire con il Signore degli Dei.
Fu allora che il Signore dell’Isola Sacra notò la Dea della Luna
trattenere a fatica uno sbadiglio, mormorare qualcosa nell’orecchio al
compagno, che si guardò attorno imbarazzato, prima di allontanarsi con lui.
Anche Atena lo notò e si avviò dietro ai due amanti, presto seguita da Avalon,
raggiungendoli all’uscita dell’anfiteatro.
“Divina Selene! Qualcosa vi turba?”
“Nient’affatto, Atena! Sono soltanto stanca!” –Si limitò a rispondere
la Divinità, a braccetto con Endimione.
“Se desiderate riposarvi, le mie stanze sono a vostra disposizione!
Posso farvi preparare un bagno caldo…”
“Ti ringrazio per la premura, ma non è stanchezza fisica ad
infastidirmi! Sono tutti questi discorsi, tutto questo parlare di guerra e
guerrieri, combattenti e armate… Sembrate più degli
strateghi che non Divinità immortali!”
“Forse è proprio questo che ci ha reso deboli e impreparati, l’erronea
certezza di sentirci superiori e destinati a esistere per sempre! In tempi
oscuri come questi, non possiamo fare altro che metterci a disposizione della
causa! Non lo credete?”
“No, non lo credo! E non vedo nessuna causa che possa accomunarmi ad
altre Divinità belliche! Con molte remore accettai la presenza di Sin degli
Accadi nel mio circolo di Seleniti, ben conoscendo la sua indole bellicista, ma
questa alleanza che state cercando di creare va ben oltre quanto io sia
disposta a concedere! Non darò mai il beneplacito a operazioni di guerra
aperta!”
“Un’alleanza che però ben ti è stata utile quando ha impedito ai
Signori della Guerra di radere al suolo il tuo reame beato!” –Precisò Avalon,
fissando la Dea negli occhi e strappandole un moto di disappunto.
“E di ciò vi sono grata! Ve l’ho già detto molte volte, non mi pesa
ripeterlo! Ho apprezzato moltissimo l’aiuto che mi avete concesso, ma quella
contesa ha cambiato tutto, ha segnato la fine del mio progetto per un regno ove
poter vivere in serenità, senza affossare però i miei ideali! Io, in quel sogno
di pace, continuo a credere!”
“Anch’io, Selene! Anch’io!” –Commentò Atena,
avvicinandosi a lei e afferrandole le mani con le proprie. –“Proprio per questo
dobbiamo stare uniti e combattere Caos con tutte le nostre forze!”
“Le mie forze già ve le ho date, credo di aver fatto abbastanza!” –Si
svicolò subito la Dea, dando le spalle alla figlia di Zeus. Quindi, sfiorata
dal lieve tocco della mano di Endimione, si girò di
nuovo, stavolta con gli occhi bagnati di lacrime. –“Cos’altro vuoi da me,
Atena? Cos’altro vuole il gran tessitore dell’isola nebbiosa? Vi ho dato tutto
quel che potevo! I miei Seleniti, gli abitanti del mio regno, e mia figlia!!!
La mia primogenita!!! Me l’hai strappata, facendone un soldato e portandola in
guerra!!!”
“Quello era il suo destino!” –Chiosò Avalon, senza distogliere lo
sguardo.
“O il destino che tu hai scelto per lei?!” –Singhiozzò Selene. –“L’ho persa, ormai! La vedo, la luce nei suoi
occhi, l’eccitazione che precede la battaglia! L’ho vista in tanti guerrieri
che sono caduti nel corso dei secoli, per cosa poi? Per gloria, onore o rendere
grazie a una Divinità che di loro si serviva per espandere la propria sfera di
influenza? Io non voglio dominare su niente e su nessuno, voglio solo un reame
dove tutti possano vivere in serenità! E mi è stato portato via! Non mi è
rimasto niente! Persino le mie figlie preferiscono rimanere qua, sulla Terra,
circondate da Cavalieri che possono difenderle! Soltanto Endimione,
l’amore del mio dolce Endimione mi è rimasto!”
–Aggiunse, carezzando il volto dell’eterno giovane, da lei ammaliato millenni addietro.
“È un amore perverso, il tuo!” –Affermò allora Atena, strappando un
sorriso al Signore dell’Isola Sacra.
“Come osi?!” –Avvampò Selene, alzando il tono
della voce, attirando sguardi persino dal gruppo di Divinità e guerrieri che,
al centro dell’arena, continuavano a discutere.
“Perverso e soffocante. Hai mai lasciato Endimione
libero di scegliere, libero di vivere e morire nel modo che ritenesse giusto?
Lo ami, e ciò è bello e nobile, ma il tuo amore non lo proteggerà, Selene! Quando l’ombra calerà su di voi, affogherete nel
rimpianto di non aver lottato per altro che non fosse la vostra solitudine! E
sarete soli!”
“Proprio tu parli?!” –Gridò Selene, spingendo
indietro Atena con un’onda di cosmo. –“Tu, la Vergine Dea, la Dea che non è mai
stata in grado di amare, che si è rifiutata di amare, per secoli, forse
millenni, nutrendoti solo di sangue e battaglie! Come puoi parlarmi di qualcosa
che non conosci e mai hai provato, perché per scelta te lo sei precluso? No,
Atena, non accetto lezioni sull’amore da te! E ora lasciami tornare al mio
regno lontano! Se lo scopo di Ares e Eris era
prendere il Talismano custodito da Elanor, non ho motivo di temere che tornino,
dal momento che mia figlia ha scelto la sua strada, ha scelto di rimanere qua,
a lottare per gli uomini di questa Terra, una razza troppo infima da
comprendere. Difatti, non la capisco, né capisco perché vi affanniate tanto
contro un nemico che voi stessi avete definito imbattibile.”
“Nessuno vi difenderà, lo sai, vero, Selene?!”
–Intervenne allora Avalon, mentre la Dea prendeva Endimione
per mano e si incamminava fuori dall’arena. Non gli giunse risposta alcuna,
soltanto il leggiadro strascicarsi dei suoi passi sul selciato e il sospiro
sconsolato di Atena, che si chiese se non fosse il caso di farla desistere.
–“Ha già scelto come morire!” –Chiosò il Signore dell’Isola Sacra, scuotendo la
testa.
Poco dopo vennero raggiunti dagli Angeli suoi fratelli, dai Cavalieri
dello Zodiaco e dai Seleniti guidati da Shen Gado
dell’Ippogrifo, che Avalon mise al corrente della situazione. –“Selene se ne è andata! Voi cosa avete intenzione di fare?
Combatterete assieme a noi o tornerete a rinchiudervi in quel pallido recinto
lunare?!”
“Certo che lotteremo! Selene non era la
nostra Dea, soltanto la nostra guida! Con lei abbiamo condiviso un sogno, la
speranza di un mondo migliore!” –Esclamò deciso Mani, il Selenite di Saturno.
–“Ma è in questo che dobbiamo vivere, l’unico rimasto dei nove mondi! Qua
dimorano coloro che un tempo ci adoravano e che abbiamo permesso che ci
dimenticassero, e qua, un giorno, sorgerà un nuovo Yggdrasill,
un nuovo Albero Cosmico!”
“Inoltre anche noi abbiamo persone che amiamo, che vivono in questo
meraviglioso mondo!” –Continuò l’anziana Avatea,
strappando un vagito d’assenso anche a Igaluk e a Hubal.
“Il Selenite di Venere non è di molte parole!” –Mormorò Pegasus ai
compagni, prima che Andromeda lo intimasse di fare silenzio.
“È muto!” –Gli rivelò.
“Una domanda sola, Signore dell’Isola Sacra!” –Intervenne il Custode
del Cerchio di Marte, attirando lo sguardo dei presenti. –“Quell’Anhar di cui hai parlato… devo a
lui la caduta di Nuova Babilonia, non è così? Umpf,
lo sospettavo! Beh, cosa aspettiamo?! Se c’è una guerra da combattere Sin degli
Accadi non si tirerà indietro! Anche perché, mi pare di capire che questa sia
l’ultima, perciò o moriamo combattendo o moriamo aspettando! E la seconda
scelta non l’ho mai contemplata!”
***
Dall’alto
dell’Olimpo Eracle osservava il mondo, consapevole di quanto fosse cambiato in
quei pochi secoli in cui aveva languito in un apparente stato di morte. Un
periodo di tempo molto breve per una Divinità immortale, ma lungo agli occhi
degli uomini. Ed egli, che un Dio non si era mai sentito, ora più che mai
riusciva a vedere tramite gli occhi degli umani, riusciva a percepire la
caducità della vita, il soffio delicato ma incessante dell’autunno che tutto
ricopriva di polvere. Dei sogni e degli ideali che lo avevano mosso secoli
addietro, quando aveva abbandonato l’Olimpo per rifondare Tirinto
e un nuovo ordine di Eroi, non era rimasto niente. L’antica fortezza era stata
abbattuta, le vite di coloro che avevano giurato di morire in suo nome erano
state spezzate e le persone amate… erano state le
prime a morire.
Del
centinaio di Heroes che avevano animato un tempo la
corte di Tirinto, ne erano rimasti soltanto dodici,
tanti quanti quelli che aveva potuto salvare, che adesso riposavano nelle
stanze che Zeus aveva assegnato loro, tornati a nuova temporanea vita solo per
morire di nuovo. Perché era questo che attendeva tutti loro, Dei compresi. La
fine del tempo cosmico.
Questo
Eracle ben lo sapeva, riusciva a leggerlo nel vento, greve e pesante, nelle
stelle, pallide e lontane, e in quell’oscura cappa che pareva opprimere
l’intero pianeta espandendosi a spirale dalle desertiche regioni dell’Asia
centrale. Persino là in alto, nelle beate terre ove un tempo imperava un’eterna
primavera, la foschia era arrivata. Ma egli non la temeva, non l’aveva mai
temuta, né quando, ancora giovane e vigoroso, aveva affrontato le Dodici
Fatiche impostegli da Euristeo, per dimostrarsi degno
del padre che lo aveva generato, né quando, millenni più tardi, aveva detto
addio all’Olimpo per vivere tra gli uomini, e come gli uomini morire.
Già, addio.
Una parola che aveva detto troppe volte, e a troppe persone.
All’amata Deianira, e ai figli da lei avuti, quando, travolto da
venefica pazzia, si era dato fuoco sul Monte Eta. A
suo padre, quando i contrasti tra loro erano divenuti insanabili. Alla cara Ebe, cui aveva spezzato, senza volerlo, il cuore, e ai
figli che ancora gridavano vendetta. Infine agli Heroes,
ai guardiani della pace che aveva condannato a una guerra eterna.
“È strano,
non è vero?!” –La voce placida di Zeus lo raggiunse in quel momento,
costringendolo a voltarsi verso la piana erbosa che si estendeva alle sue
spalle.
Era seduto,
da un paio d’ore ormai, sulla Bianca Torre del Fulmine, limite estremo del
Monte Olimpo, proprio dove Crono e Flegias avevano
imprigionato Atena mesi addietro, dando il via a una cruenta guerra intestina.
Una delle tante che le Divinità greche non avevano imparato ad evitare nel
corso dei secoli, e che anzi parevano smaniosamente cercare a cicli alterni,
quasi fossero incapaci di vivere in pace.
“Essere di
nuovo qua, a casa. Anche se forse tale non l’hai mai considerata.” –Continuò il
Primo dei Dodici, sollevandosi e portandosi in cima alla costruzione, proprio
accanto al figlio con cui non parlava da secoli. –“Temo che in parte sia stata
anche colpa mia, del poco rispetto che ho avuto verso la vita e della mai
confessata paura della fine di tutto, che mi ha portato a rifuggire
quell’eventualità che non volevo accettare, pur sapendo benissimo quanto fosse
reale. È stato questo che mi ha fatto vivere male troppo a lungo, incapace di
comprendere quanto amore mi circondasse, quanto uomini e Dei tenessero a me e
continuassero a farlo nonostante io li spingessi sempre più lontano. Tu,
Eracle, sei tra coloro che ho allontanato. Non ti chiedo di perdonarmi, né
posso adularti con false speranze per un futuro insieme, poiché temo che
nessuno di noi conoscerà mai quel tempo. Posso solo chiederti di aiutarmi a
sorreggere il mio braccio, per scoccare insieme l’ultima folgore sul nostro
nemico! Lo farai, figlio mio?” –Concluse Zeus, posando una mano sulla spalla
del nerboruto guerriero e fissandolo con i suoi profondi occhi blu.
Eracle non
rispose alcunché, accennando un sorriso sentito a parole che troppo a lungo
aveva desiderato udire. Si limitò a poggiare una mano sopra quella del padre e
a stringerla forte, annuendo, prima di alzarsi e scendere a terra con lui.
“I tuoi
compagni ti stanno aspettando!” –Spiegò il Nume dai biondi capelli, camminando
assieme al figlio lungo il prato fiorito, diretto verso la reggia. –“Ermes e
Demetra sono con loro, già sanno qual è il loro compito!”
“Ed io
conosco il mio, padre!” –Assentì con vigore il Protettore degli Uomini.
–“Nessuno vi disturberà fintantoché Efesto non avrà
completato la sua opera!”
“Ciò è di
vitale importanza! Non per noi, la cui esistenza volge ormai al tramonto, ma
per gli uomini che popolano questo mondo che poche volte abbiamo davvero
apprezzato. I Cavalieri dello Zodiaco, i cinque che hanno superato i confini
stessi dell’esistenza, risvegliando lo stadio ultimo della conoscenza, sono il
futuro! Sono tutto ciò che separa la Terra dalla distruzione totale! Noi
possiamo solo aiutarli in questa disperata impresa, sorridendo e gloriandoci se
dovessimo arrivare alla fine!”
“Ho sempre
nutrito grande stima per Atena e i suoi paladini e, da ciò che mi hai
raccontato, questi cinque ragazzi sono ancora più leggendari degli eroi del
Mondo Antico! Sarà un onore assisterli nell’ultima guerra!”
“E noi
saremo con voi, mio Signore! Fino alla morte!” –Esclamò allora un’acuta voce
giovanile, proprio mentre Eracle e Zeus varcavano la soglia della Sala del
Trono, trovando i dodici Heroes in loro fervente
attesa. Tutti rivestiti delle Armature degli Eroi, che Druso di Anteus, fabbro di Tirinto, aveva
creato per loro, servendosi di un frammento di Glory,
la Veste Divina di Eracle, i superstiti delle antiche legioni aspettavano solo
un ordine del Vindice dell’Onestà per scendere in guerra.
“Cos’è in
fondo quel macabro confine? Niente più di un nuovo oblio che già abbiamo saputo
affrontare! Se vivere in un regno di tenebra o morire affinché tale infausta
prospettiva non si realizzi sono le due possibilità che questa rinnovata
esistenza ci offre, noi sappiamo cosa scegliere!” –Disse un altro di loro, alto
ed elegante nelle sue ben lucidate vesti.
“Parli bene,
Marcantonio! Come sempre!” –Sorrise Eracle all’Hero
dello Specchio, mentre anche gli altri fremevano alle sue spalle.
Solo gli
ultimi Olimpi, inginocchiati di fronte alla scalinata che conduceva al trono,
indugiavano, decisi di certo a combattere ma timorosi al tempo stesso nel
doverlo fare. Come Dei, del resto, non avevano mai considerato la prospettiva
della fine.
“Mio vecchio
amico…” –Esclamò Zeus, carezzando la guancia di Ermes
e facendogli cenno di alzarsi. Ugualmente fece Demetra al suo fianco, gli occhi
lucidi per l’emozione ma al tempo stesso risoluti ad andare avanti. –“Ti chiedo
un grande sacrificio, non dissimile dai tanti a cui ti ho obbligato in tutto
questo tempo vissuto assieme! Ma non lo richiedo per me, bensì per i giovani
che meritano di vedere un’altra alba!”
“Sono
pronto!” –Commentò semplicemente il fidato Messaggero, prima che il Nume
Supremo desse loro le ultime indicazioni.
“Dopo una
breve sosta ad Atene, andrete in Sicilia, dove Efesto
vi sta aspettando! Credo che Nettuno già sia in viaggio per l’isola italica ed
io presto vi raggiungerò!”
“Non venite
con noi, mio Signore?” –Mormorò Ermes stranito.
“Non
adesso.” –Chiosò Zeus, per poi voltarsi verso il figlio. –“Eracle vi
proteggerà! Non abbiate timore! Andate, adesso!”
A quelle
parole, gli Heroes ruppero le fila, incamminandosi a
passo fermo verso l’uscita della reggia, tutti tranne uno, i cui servigi erano
stati richiesti direttamente dal Signore del Fulmine.
“Mio Re…” –Commentò Ermes, prima di allontanarsi, la voce
incrinata dal dubbio per una conversazione che non sapeva come sostenere.
“Va tutto bene, amico mio. Non dolerti. Era ha fatto la sua scelta! Era ci ha
ricordato quanto umani siamo in realtà, vittime di emozioni che solo in animi
così profondi e dediti all’amore possono turbinare. Il suo sacrificio non è
stato vano né un gesto folle, ma nato dal perdono che ha saputo palesare.
Quello stesso perdono che adesso, infine, anch’io mostrerò.”
***
Una frenesia
insolita aveva invaso il Santuario delle Origini, il luogo ove gli Dei ancestrali
erano tornati a nuova vita. Una frenesia scaturita dall’inebriante e al tempo
stesso terribile sensazione provocata dalla loro vicinanza, in particolare
dalla Sua. Non vi era guerriero, Dio o creatura che non ne percepisse
l’infinita potenza, così vasta al punto da saturare ogni cosa. Spazio, tempo e
anima, tutto pareva perdersi, tutto pareva scomparire all’interno di
quell’immenso vuoto cosmico celato nel tempio da lui stesso edificato millenni
addietro, all’epoca della creazione del mondo. Tempio che, come Chimera ebbe
modo di osservare in quel momento, entrando nel salone principale da uno degli
innumerevoli corridoi laterali, andava ampliandosi sempre di più, con
l’espandersi del cosmo di Caos. Nuove mura, torri e bastioni di roccia nera
sorgevano ad ogni ora laddove prima vi era solo un’arida superficie. Scosse
continue dilaniavano il deserto del Gobi, aprendo faglie che subito venivano
colmate dal sollevarsi di imperiosi contrafforti, mentre una nube scura ne
solleticava i confini, scivolando silente attorno all’enorme fortezza e
fagocitando ogni forma di vita che ardisse anche solo avvicinarsi ad osservare.
Umpf! Un magro bottino! Osservò il guerriero della bestia dalle triplici fattezze, tirando
un’occhiata, dal portone aperto sul cortile interno, alle carcasse di uccelli e
artropodi che giacevano prosciugate di linfa vitale. Pochi uomini si aggirano in questa landa desolata! Pochi guerrieri! Per
ora! Sogghignò, sbattendo un pugno dentro il palmo dell’altra mano e
incamminandosi verso l’uomo che lo aveva cresciuto e addestrato per quel
momento.
“Lord
Comandante!” –Esclamò, inchinandosi di fronte a Polemos,
che stava urlando le ultime istruzioni ai vari reparti dell’Armata delle
Tenebre. –“Il mio veleno, le mie corna e le mie zanne voraci sono al tuo
servizio! Prendili e usali per uccidere!”
“Di tanta
solerzia non posso che compiacermi!” –Commentò il Demone della Guerra,
spostandosi dietro le spalle i lunghi capelli rosacei. –“Dovresti meritare tu
l’epiteto che mi fu assegnato nel Mondo Antico, Chimera, tu che più di ogni
altro aneli scendere in battaglia! Del resto, come la bestia di cui riprendi le
fattezze, triplice motivazione sostiene la tua furia, non è così?”
“Precisamente.”
–Si limitò a commentare il guerriero dai capelli biondi, memore
dell’umiliazione subita anni addietro, in un altro santuario. Molto meno
oscuro.
Polemos sogghignò, prima di fargli cenno di
alzarsi e seguirlo, per mostrargli come intendeva procedere. –“Con azioni
rapide e mirate! Colpiremo subito, senza aspettare nemmeno un’ora! I nostri
avversari languono e curano le loro ferite dopo la battaglia sul Reame della
Luna Splendente, una battaglia che non posso che definire una completa disfatta
per il glorioso esercito che sono stato chiamato a guidare! Se Ares avesse avuto
anche solo un briciolo della mia strategia bellica, non ci saremmo esposti così
tanto, perdendo in un solo colpo tutte le Makhai!”
“Compiangete
vostra figlia, mio Lord?”
“Ah ah ah!
Non sapevo tu fossi anche ironico, Vaughn! Oh, cos’è
quell’espressione imbronciata? Non era il nome con cui venisti al mondo? Con
cui tuo fratello ti chiamava da bambino? So bene che l’hai abbandonato da
tempo, ma mi piace ricordarti così, come il giorno in cui ci incontrammo!”
“Il giorno
in cui mi salvaste, decidendo di tenermi con voi e addestrarmi, maestro!”
–Abbassò il capo Chimera, con voce per la prima volta incrinata da un doloroso
ricordo. –“Non ve ne sarò mai grato abbastanza!”
“Già…” –Rifletté Polemos per
qualche istante, prima di sfiorare il mento del ragazzo, senza togliergli gli
occhi di dosso. –“Abbiamo condiviso molte cose, Vaughn,
ma ormai sono retaggi di un passato che non tornerà più! Adesso esiste solo il
presente, un presente dove guiderò le vittoriose Armate delle Tenebre e dove tu
sarai il mio Luogotenente! Perciò devo essere sicuro che obbedirai a ogni mio
ordine, ponendo la missione al primo posto, sempre e comunque! Qualunque cosa
accada, servire Lord Caos sarà sempre il nostro obiettivo! Il resto non conta
più niente ormai, né rispetto, né gratitudine, né vendette personali! Tutto si
perde ai cancelli delle tenebre!”
“Io… Sì, Lord Comandante!” –Esclamò il guerriero, ergendosi
fiero e battendo una mano sul cuore, mentre una goccia di sudore gli scivolava
tra gli occhi, umettandogli le labbra. –“Per la guerra, suprema madre del
mondo, e per il Caos, principio e fine!”
Polemos annuì compiaciuto, prima di illustrare al
giovane come si sarebbero mossi, attaccando i principali centri di potere delle
Divinità che ancora resistevano alla grande ombra. –“Non che ve ne siano molti,
in verità! E sono tutte concentrate in soli quattro luoghi!” –Esclamò,
indicando una mappa affissa al muro, che comprendeva oltre al continente
europeo anche ampie porzioni del deserto nordafricano. –“Due in particolare
potranno opporre resistenza, mentre una terza, da poco travolta dagli eventi di
Ragnarök, sarà facile preda della nostra ambizione!
Una volta conquistate le ultime roccaforti in grado di opporsi all’avvento dei
Progenitori, caleremo sulle ignari popolazioni del mondo, avvolgendo le loro
caduche esistenze in una notte senza fine. Cosa potranno fare, a quel punto,
gli impauriti esseri umani, le cui materialistiche società li hanno infiacchiti
al punto da non saper neppure riconoscere il cosmo dentro di sé? Strisceranno come
vermi di fronte all’Armata delle Tenebre, invocheranno persino la nostra
protezione pur di aver salva la vita!”
“E noi non
gliela concederemo!” –Esclamò all’improvviso una voce profonda, che suonò quasi
metallica ai due guerrieri. Si voltarono verso il corridoio che conduceva ai
laboratori sotterranei e nell’oscurità che lo avvolgeva parvero notare due
occhi rossi, simili a tizzoni ardenti, fissarli famelici.
“Voi?!”
–Mormorò Polemos, senza nascondere un certo stupore.
“Checché ne
pensino i nostri nemici, la mia ora non è ancora giunta! Il nostro signore e
padrone, creatore e disfacitore di mondi, dall’alto della sua infinita bontà,
ha accettato di disporre ancora dei miei servigi ed io sono stato ben lieto di
mettere le mie arti e la mia oscura sapienza a sua disposizione!” –Parlò la
voce, invitando i due guerrieri ad avvicinarsi e a seguirlo nei tetri antri del
Primo Santuario, privi di una qualsiasi forma di luce. –“Non ho dimenticato gli
insegnamenti del mio maestro, Athanor della Regina
Nera! Così, per onorare la rinnovata fiducia dell’Unico verso di me, ho pensato
di fargli un gradito dono, e di farlo anche a te, Lord Comandante, al qual
tempo! Cosa ne pensi? Mira la potenza di antiche alchimie, ai più sconosciute,
irrobustite dal sangue divino a Caos offerto in dono!”
Polemos e Chimera si fermarono sulla soglia di
un’ampia sala, al centro della quale riposavano dodici corazze dalle
abominevoli forme, che di primo acchito non riuscirono ad identificare, salvo
poi, accostandosi e studiandole con maggior attenzione, abbinarle ai migliori
guerrieri del loro esercito.
“I Nefari…” –Mormorò il biondo guerriero.
“Dodici
armature per dodici segni mostruosi, il nuovo Zodiaco Nero che sorgerà in
cielo! Che i popoli della Terra lo sappiano, che i popoli tremino di fronte
all’Unico Dio! E quale modo migliore di toglier loro la speranza in un futuro
che privarli di qualcosa che ha infuso sicurezza alle loro misere vite per
millenni? La fissità di un cielo lontano in cui popoli e culture diverse hanno
visto qualcosa, icona o simbolo della loro civiltà! Orbene quei simboli li
distruggeremo, sostituendoli con questi e quando gli uomini avranno l’ardire di
sollevare il capo al cielo non vedranno più l’impavido leone dal crine d’oro o
i pesci in cui Afrodite ed Eros si mutarono per fuggire a Tifone! Oh no, loro
vedranno il terrore! Ah ah ah!”
“Diabolico
piano il vostro, Maestro di Ombre…” –Parlò Polemos, ma l’altro lo fermò, sollevando una mano.
“Non lo sono
più, ormai! Adesso sono oltre!” –Ghignò, avvicinandosi e permettendo al Lord
Comandante di osservarlo meglio, di osservare quel che rimaneva di lui.
Un’oscura corazza integrale, dotata di un elmo a casco, che rendeva impossibile
capire cosa fosse celato al suo interno. Ben sapendo quel che gli era accaduto
mesi addietro, sull’Isola delle Ombre, Polemos
rabbrividì, non desiderando conoscere gli oscuri artifizi che gli avevano
permesso di essere ancora vivo.
Se una vita quella si può considerare! Commentò, staccandosi e avviandosi verso l’uscita, assieme a Chimera,
prima che la voce dell’araldo dell’ombra li raggiungesse.
“Sono il
Gran Maestro del Caos adesso, la Bocca di Caos! E come tale dovrete
considerarmi! Ah ah ah!” –Sghignazzò, la voce
filtrata dalla maschera metallica che portava sul volto e che la faceva
rimbombare per i corridoi sotterranei. Quindi si voltò verso la parte profonda
del suo laboratorio, ove un uomo attendeva in silenzio, celato nell’ombra di
cui aveva nutrito il cuore per molti anni. –“Sei ancora qui?”
“Sto
andando!” –Commentò il suo interlocutore, passandogli accanto. –“Avrei voluto
anch’io un’armatura da voi forgiata! Di certo mi avrebbe dato maggiori
soddisfazioni di questa, di cui non apprezzo il colore chiaro!”
“Oh, non
puoi neanche immaginare quali!” –Ghignò il Maestro del Caos, sfregandosi i
palmi soddisfatto.
“Posso intuirle…” –Fu quel che ottenne in risposta, prima che uno
scintillio azzurro segnalasse la sua dipartita da quel santuario. Anche per
l’allievo di Anhar era tempo di scendere in guerra.
Capitolo 3 *** Capitolo secondo: Adunata di eroi ***
CAPITOLO SECONDO: ADUNATA DI EROI.
Gli Angeli,
Atena e i loro più intimi alleati si riunirono per un consiglio ristretto alla
Casa dell’Ariete, ove erano presenti anche i cinque Cavalieri dello Zodiaco, la
Celebrante di Odino, il Dio egizio del Falco e l’Imperatore dei Mari, intento a
riferire ad Avalon gli ultimi accadimenti sull’isola di Atlantide.
“È stata la
scelta migliore!” –Mormorò il Signore dell’Isola Sacra. –“Anche se capisco
quanto dolore ti abbia generato, dover assistere al suo nuovo inabissamento.”
“Ciò è stato
necessario! Recuperato l’Oricalco, ho restituito le terre al mare e all’eterno
silenzio di chi vi riposa.”
Avalon annuì
gravemente alle parole del Nume, prima di avvicinarsi ad Andrei, Alexer e Asterios che avevano appena disteso su un tavolo una mappa
dell’Eurasia. Una mappa su cui alcuni punti erano stati segnati. Un castello
nero, disegnato al centro del deserto del Gobi, che tutti ben sapevano cosa
indicasse, e altri quattro simboli, che dall’Africa salivano verso nord, ad
indicare i più potenti regni divini in grado di impensierire gli Antichi.
“Dobbiamo
agire in fretta, organizzare subito le nostre difese, onde evitare che la marea
nera ci sommerga tutti!” –Incalzò Andrei, premendo per un’immediata azione.
–“Adesso che la configurazione astrale è stata ricreata, e che le loro forze
sono fresche, i Progenitori non tarderanno ad arrivare!”
“Lo credo
anch’io, fratello!” –Confermò Alexer, cercando lo sguardo preoccupato di Flare, e di Cristal, a lei
vicino.
“La prima
cosa che faranno, ben lo immagino, sarà distruggere i regni divini, quei pochi
rimasti la cui potenza, sopita o manifesta, possa impensierirli, e dato che
tutti noi, e i nostri seguaci, abbiamo avuto modo di combattere contro di loro,
stiamo tutti rischiando una violenta rappresaglia! Asgard, che non si è piegata
all’inverno che Anhar avrebbe voluto scatenare per
mezzo di Loki e che più volte è corsa in aiuto degli
amici di Grecia. Avalon, ove l’Angelo Oscuro ha ricevuto il primo schiaffo
della sua esistenza e che egli vorrà di certo annientare, sebbene ciò sia più
un capriccio suo che non una strategica necessità. La Grecia, dove con tale
nome intendo sia il Grande Tempio di Atene che l’Olimpo, ove dimorano i nemici
per eccellenza della grande ombra, e infine un placido regno che si erge molto
più a sud e che di recente ha dimostrato notevoli segnali di risveglio.”
–Concluse Avalon, mentre Horus, di fronte a lui, corrucciava la fronte con
preoccupazione. –“Caos e Nyx non dimenticheranno
facilmente che le forze dell’Egitto hanno avuto l’ardire di penetrare nel loro
Santuario, liberando due importanti prigionieri! No, giovane Falco, temo che su
Karnak cadrà per prima la ritorsione degli Dei Antichi!”
“Per questo
vi chiedo di perdonarmi se abbandonerò subito quest’assemblea, ma grande è la
mia necessità di rientrare in Egitto! Al pari vostro, temo anch’io che saremo i
primi su cui l’ondata di tenebre si abbatterà!” –Esclamò il figlio di Osiride,
accennando un inchino e incamminandosi poi verso l’uscita della Casa dell’Ariete,
salvo essere richiamato da Avalon poco dopo.
“Non da solo
combatterai questa guerra, Falco d’Argento! Se le mie parole hanno avuto un
senso, durante l’ultima assemblea, è ormai chiaro che un’alleanza deve nascere
e nascerà quando guerrieri e Cavalieri di fedi diverse, di culti diversi, ma
ugualmente mirati al mantenimento della pace e dell’equilibrio, lotteranno
fianco a fianco, schiena contro schiena. E quel giorno è adesso!”
“Guiderò
personalmente una forza in aiuto degli Dei d’Egitto!” –Intervenne allora
Andrei. –“I soldati di Inti non rimarranno a guardare
mentre un altro tempio viene saccheggiato e distrutto, come accadde a Isla del Sol anni addietro!”
Avalon, a
quelle parole, sorrise rincuorato, mentre l’Angelo di Fuoco prendeva congedo,
chiedendo a Horus di seguirlo nell’arena, dove avrebbero organizzato le truppe
da lui scelte. Fu in quel momento che la delicata voce di Flare
parlò.
“Dea Atena,
amici di Grecia e di Avalon, al pari del Falco d’Argento, grande è la mia
preoccupazione per le mie genti, assediate non solo dal freddo e
dall’isolamento ma anche da quest’ombra che non vuole darci pace! Non posso
offrirvi guerrieri, perché nessuno più resta a difendere la cittadella di
Midgard, solo chiedervi il permesso, che non sia scortesia o mancanza di
riconoscenza ai vostri occhi, di rientrare nella mia terra, e là rimanere,
assieme al popolo di cui sono divenuta regina! Il popolo assieme al quale
condividerò lo stesso destino, qualunque esso sia!”
“Nobile Flare…” –Commentò allora il Principe Alexer, avvicinandosi.
–“Del vostro buon cuore ero certo, per questo le vostre parole non mi
stupiscono! Non stupitevi quindi voi se già le mie legioni azzurre difendono la
fortezza di Midgard! In accordo con Avalon, tornerò io stesso in Nord Europa al
vostro fianco, per tentare di tamponare, quanto possibile, le ferite che gli
Antichi ci infliggeranno! E immagino che anche il giovane Cigno sia dei
nostri!”
“Certamente!”
–Annuì Cristal con convinzione, salvo poi voltarsi
verso Atena, a chiederle il permesso.
“Vai pure,
Cavaliere!” –Lo rassicurò lei, prima che la voce di Asterios
li richiamasse.
Era rimasto
in silenzio a lungo, l’Angelo di Acqua, ad osservare la mappa del Mondo Antico,
perdendosi con lo sguardo in terre che a lungo aveva rimirato dall’Occhio,
chiedendosi come fosse vivere in mezzo a così tanta gente, anziché
procrastinare un’eterna, ma solinga, esistenza su uno scoglio lunare, fuori dai
confini del mondo,
“Che ne sarà
degli altri regni?” –Pose infine la domanda che molti temevano. –“Che ne sarà
dei piccoli centri di culto disseminati in India, tra le montagne himalaiane o
nel Sud-Est Asiatico?”
“Non
possiamo difenderli tutti!” –Precisò allora Alexer, trovando Avalon concorde.
–“Abbiamo già evacuato molti di essi! Grazie all’aiuto delle Amazzoni, molti
monaci e santoni indiani sono in marcia verso le rive del Mar Nero, da cui poi
giungeranno in Grecia! Di più non possiamo fare; molto, in guerra, deve essere
sacrificato, purtroppo!”
“E che mi
dici del mondo sommerso?!”
“Uh?!”
–Chiese allora Pegasus, che stava quasi per addormentarsi di fronte a tutti
quei discorsi strategici. –“Quale mondo?!”
“Non sono
solo Asgard, Avalon, Atene e l’Egitto gli unici regni divini ancora in forze,
ve ne è un quinto, celato e sconosciuto ai più, ma che nel corso di lenti
secoli è divenuto una vera e propria colonia. Anche alla luce di ciò che
Nettuno ha riferito, riguardo alle ambizioni imperiali di Forco,
sarebbe opportuno verificare.”
Avalon
rimase in meditazione per qualche istante, consapevole che le parole del
fratello fossero vere, oltre che dettate da sincera e personale preoccupazione
per una costola della sua vita passata. D’altra parte, dividere ulteriormente
le loro forze, proprio adesso che i Progenitori stavano per attaccare li
avrebbe di certo indeboliti. Ma all’accorata richiesta di Asterios
non seppe dire di no, tanto più che, in cuor suo, era convinto che
l’eventualità da lui suggerita potesse davvero concretizzarsi.
“Molto bene, immagino che vorrai
occupartene personalmente!” –Commentò, strappando un sorriso all’Angelo di
Acqua. –“Porta Ascanio con te! Sarò più sicuro!”
“E noi, Signore dell’Isola Sacra?!
Cosa faremo? Rimarremo qui ad attendere gli eventi?!” –Intervenne allora
Pegasus, sostenuto dai compagni.
“No, ragazzi miei, finito è il
tempo dell’attesa, adesso dobbiamo agire! Ma prima dovrete essere messi in
condizione di combattere al meglio, e certo non potete farlo con quelle
armature deteriorate da guerre continue! Per quanto Efesto
le abbia riparate, mesi addietro, le battaglie che avete affrontato, contro
Ares e i suoi figli, contro Anhar, Loki, Surtr e infine sulla Luna,
le hanno danneggiate pesantemente! Urge un restauro appropriato, non credete?!”
–Sorrise il Principe degli Angeli, trovando lo sguardo determinato
dell’Imperatore dei Mari, prima di incamminarsi, assieme a tutti gli alleati,
verso l’uscita del Primo Tempio. –“Tu e i tuoi quattro compagni verrete con me,
prima di tutto, poi decideremo dove dislocarvi!”
“E dove andiamo?!” –Chiesero
Pegasus e Andromeda.
“Sull’Etna!” –Rispose Avalon,
chiudendo la discussione.
Fu in quel momento che una
guizzante sagoma oscurò il sole, proiettando la sua ombra sull’ingresso della
Casa dell’Ariete, suscitando immediate e allarmate reazioni da parte dei
presenti. Timori che andarono aumentando quando tutti poterono percepire una
decina di cosmi comparire, cosmi freschi, vigorosi e molto potenti, mentre
sagome luminose piombavano dall’alto, quasi fossero comete di energia.
“Che…
cosa?!” –Mormorò Pegasus, sollevando le braccia per combattere, mentre già Cristal si poneva di fronte a Flare
e Phoenix e Andromeda circondavano Lady Isabel per proteggerla. Ma fu proprio
la stessa Atena a dire loro di rilassarsi, avendo riconosciuto l’impronta
cosmica di uno dei nuovi arrivati, sebbene non avesse modo di incontrarlo da
molto tempo.
Anche Nettuno lo identificò,
sgranando gli occhi di fronte ad un evento che, complici le recenti parole di
Zeus, giudicava impossibile. O forse, si
disse con un mezzo sorriso, per lui
l’impossibile non esiste? Del resto era un uomo che con le sue azioni si meritò
il titolo di Dio. Che ci si senta o meno, di fatto lo è. Rifletté,
osservando il gruppo di guerrieri appena comparso ai piedi della scalinata che
conduceva al Palazzo dell’Ariete d’Oro.
Erano una dozzina, guidati da un
uomo alto e robusto, dal viso scuro e virile, i corti capelli neri e ruvida
barba incolta. Rivestito da un’armatura scura, che al sole emanava bagliori
violacei, salì i gradini con passo fiero, mentre il lungo mantello di pelle
ondeggiava al vento di Grecia.
“Non può essere…”
–Mormorò Atena, stupefatta, avvicinandosi per guardarlo meglio. Anche a
distanza di anni, di secoli in verità, era ancora lui, l’uomo dallo sguardo
indomito che lottò per divenire un Dio, senza poi mai considerarsi tale.
“Conoscete costoro, milady?!”
–Intervenne allora Pegasus incuriosito, affiancando la Dea, proprio mentre
undici guerrieri in armatura si fermavano qualche passo più in basso, dietro al
massiccio uomo che li guidava.
“Non riconosci il Sommo Eracle,
ragazzo?!” –Parlò uno di loro, con voce spavalda. –“Figlio di Zeus e di Alcmena, Vincitore delle Dodici Fatiche impostegli da Euristeo, Attraversatore
dell’Inferno, Dio della Forza e Vindice dell’Onestà, Protettore degli Uomini e
Signore di Tirinto, nonché Comandante Supremo degli Heroes!”
“Basta così, Agamennone!”
–Commentò allegro Eracle, prima di rivolgere un magnifico sorriso alla Vergine
dai capelli viola, inchinandosi di fronte a lei e baciandole la mano. –“Troppo
tempo è passato, ma non i nostri sentimenti! Non il senso di giustizia che ha
guidato le tue, come le mie, imprese, Atena!”
“Lo so, Eracle! Ti ho ammirato, da
lontano, ma mai avrei creduto di rivederti! Non in quest’era oscura che segnerà
la fine del nostro tempo cosmico!”
“Neanch’io
lo avrei creduto, eppure è stato possibile, grazie al sacrificio di colei che
così tanto mi aveva combattuto!” –Spiegò il figlio di Zeus, raccontando come
Era aveva ceduto il proprio Ichor per ridare loro la
vita. –“Di fronte a quest’ultima guerra, per la sopravvivenza non solo del
genere umano, ma anche della Terra stessa e di tutti i suoi culti, di tutte le
sue diversità, anche antiche contese divine passano in secondo piano. Contese
che mai come adesso appaiono sciocche ai più!”
“Dici il vero, prode Eracle! E la
mia presenza qua lo testimonia!” –Concordò Nettuno. –“Ricordo bene, e di certo
lo ricorderai anche tu, i giorni della prima guerra sacra, da me scatenata per
il dominio dell’Attica! Eravamo giovani, all’epoca. Sì, anche noi Dei lo siamo
stati. Ed eravamo anche molto sciocchi, fermi in convinzioni che, dalla
prospettiva di adesso, avevano solo valore di immediatezza, un palliativo ad
un’eternità di noia, niente più!”
Avalon sorrise, annuendo
compiaciuto all’autoanalisi del Cronide, il cui
risveglio aveva a lungo paventato, prima di avvicinarsi ad Eracle, lieto di
accogliere il coraggioso paladino nelle loro schiere.
“La tua presenza, e quella degli Heroes a te fedeli, è rassicurante! Ogni aiuto, sia pur
minimo, è indispensabile per fronteggiare l’ombra e ben nota è l’abilità
guerriera dei difensori di Tirinto! Possiate
considerare la Terra come una grande Tirinto e
proteggerla come proteggeste la vostra città secoli addietro!” –Precisò, mentre
moti di simpatia e approvazione percorrevano la piccola folla di presenti.
“Come minimo?! Potremmo
offenderci, sapete?! Siamo i migliori combattenti che il nostro Signore potesse
desiderare!” –Esclamò allora una fresca voce maschile, quella di un uomo alto e
snello, rivestito da una corazza dall’elmo leonino. –“Non per nulla siamo la
Legione dei Migliori!”
“Atena, Nettuno, Angeli, questi
sono gli Heroes al mio comando, i più potenti, i più
abili, i più fedeli. I dodici che ho potuto salvare dall’oblio, destinandoli a
una ben diversa fine. Una gloriosa morte in battaglia!” –Spiegò Eracle,
presentando i compagni uno ad uno, iniziando da colui che aveva appena parlato.
–“L’impavido Agamennone del Leone di Nemea! Affiancato da Marcantonio dello
Specchio, da Nestore dell’Orso e da Adone dell’Uccello del Paradiso. Dietro di
loro, le eleganti figure di Alcione della Piovra e di Pasifae
del Cancro Celeste, assieme all’audace Nesso del Pesce Soldato. Il guerriero
con le fruste è Gerione del Calamaro, mentre i due
robusti combattenti ai suoi lati sono Iro di Orione e
Chirone del Centauro. Chiude la fila il meditativo Tiresia dell’Altare Sacro. Il dodicesimo, Neottolemo del Vascello, è rimasto a bordo della Nave di
Argo, avendo già ricevuto un compito dal Sommo Zeus!”
Solo allora, volgendo lo sguardo
al cielo, i Cavalieri dello Zodiaco identificarono l’ombra che aveva oscurato
la luce solare come un grande vascello volante, guidato da un uomo dai lunghi
capelli azzurri che agitò placido una mano verso di loro, per poi roteare il
timone e allontanarsi.
“Molto bene! Con Eracle e i suoi Heroes al nostro fianco saremo invincibili!” –Esclamò
Pegasus, mentre Agamennone gli si avvicinava, battendogli una mano sulla
schiena, con una forza tale da piegarlo in due.
“Dici il vero, ragazzo! Forza,
scendiamo in guerra! Quante ardimentose imprese ci attendono?!” –Incalzò, prima
che Avalon richiamasse la loro attenzione.
“Divino Eracle, la tua presenza
sull’Etna è gradita e necessaria, per proteggere gli Dei durante quella
delicata operazione! Mentre altri tuoi Heroes possono
unirsi alle truppe guidate dai miei tre fratelli, già in partenza per i vari
regni divini!”
“Le mie armate sono le vostre,
Sommo Avalon!” –Concordò il figlio di Zeus, per poi rivolgersi ai suoi
guerrieri. –“Tenetevi a disposizione degli Angeli! In mia assenza, risponderete
direttamente ai loro comandi!”
“Siamo pronti, quindi! L’alba
dell’ultima guerra è infine sorta!” –Concluse il Signore dell’Isola Sacra,
sciogliendo infine l’assemblea e incamminandosi verso l’Arena, ove tutte le
forze dell’alleanza erano radunate per partire.
“Ermes e Demetra devono essere già
sull’Etna! Li raggiungerò all’istante!” –Chiosò Nettuno, subito seguito da
Eracle e da quattro Heroes. Avalon annuì, invitando i
Cavalieri dello Zodiaco a fare altrettanto.
Fu difficile per Cristal separarsi nuovamente da Flare,
sebbene fosse certo che, con Alexer al suo fianco, non le sarebbe accaduto
niente di male. Pur tuttavia, come ogni volta negli ultimi mesi, quando avevano
dovuto salutarsi, una parte di sé tendeva a rimanere con lei, stretta
all’ultimo scoglio che ancora gli restava, l’ultimo affetto che lo attendeva
tra calde e sempiterne mura.
Anche Pegasus avrebbe voluto
abbracciare Atena, al pari del compagno, ma entrambi sapevano che non avrebbero
potuto farlo. Non adesso, non in pubblico, non con il soffio della grande ombra
che alitava sul loro collo. Così si limitarono a guardarsi, un’ultima volta, e
in quello sguardo misero tutto loro stessi, tutte le coscienze accumulatesi in
secoli vissuti assieme, fin dagli albori dei tempi, e poi andarono ognuno per
la sua strada. Lui, assieme a Sirio, Cristal,
Andromeda e Phoenix, seguì Avalon in Sicilia, lei rimase al Grande Tempio,
assieme ai Cavalieri di Bronzo, d’Argento e d’Oro, per organizzarne la difesa.
Quando tutti se ne furono andati,
e l’arena rimase vuota, Atena sospirò, guardandosi attorno. Del centinaio di
ospiti, presenti all’assemblea, non era rimasto nessuno. Tutti erano andati a
combattere in qualche luogo del mondo, un modo edulcorato per dire che tutti
erano andati a morire. Lei questo ben lo sapeva.
Se avesse potuto, si sarebbe
gettata a terra, piangendo e lamentandosi, chiedendo a Dio, al Fato o a tutti i
Numi del mondo, perché continuamente doveva soffrire, perché doveva essere
piegata dall’ombra della perdita. Ma era Atena, Dea della Giustizia e della
Guerra, e aveva fatto la sua scelta tempo addietro.
Combattere e combattere ancora,
finché l’ultimo rimpianto non fosse stato cancellato.
Così afferrò saldamente lo scettro
di Nike e si diresse verso gli alloggiamenti dei soldati semplici. Prima di
rientrare alla Tredicesima Casa, dove Nicole la stava aspettando, doveva
parlare con una persona, affidandogli un’ultima missione. Lo trovò
nell’armeria, mentre si stava vestendo come uno dei soldati del Santuario,
desideroso di combattere con loro, per loro, in nome della Dea adorata
dall’uomo che l’aveva salvato quando era un bambino.
“Non serve.” –Si limitò a dirgli,
sorprendendo il giovane, il cui corpo era ancora segnato dalle ferite subite
dalle Makhai giorni addietro. –“Mi addolora ricorrere di nuovo ai tuoi servigi,
ma è necessario che tu parta subito! Ti potrai avvalere di un jet della
Fondazione e portare i due fratelli con te, ma non dovrai farne parola con
nessuno!”
Di fronte a lei, Cliff O’Kents annuì.
***
Con un boato
tremendo, udibile anche a parecchie leghe di distanza, la Diga di Assuan
esplose.
Costruita
per regolamentare le inondazioni del Nilo, l’enorme costruzione venne sventrata
da un poderoso attacco energetico, che la dilaniò in profondità, scagliando in
aria pezzi di cemento, metallo e brandelli degli uomini che vi stazionavano, in
una tetra iridescenza di colori e getti d’acqua. L’enorme pressione dell’acqua
fece il resto, generando una devastante piena che invase il corso del fiume,
straboccando facilmente nelle terre attorno, per poi proseguire nella sua
dirompente avanzata verso nord.
Niente
rimase della vicina cittadina di KomOmbo, e dei templi che ospitava, dedicati a Sobek, Dio Coccodrillo, e a Horus, travolti dalla furia
improvvisa del Nilo, al pari dei sacerdoti e dei fedeli che vi stazionavano.
Stesso macabro destino incontrarono la città di Edfu
e il rinato tempio del Dio Falco, proprio dove i quattro figli di lui
dimoravano, in attesa del suo ritorno dalla Grecia.
Impiegarono
troppo tempo a capire cosa stesse accadendo, a realizzare di essere sotto un
feroce attacco, nonostante la Dea Gatta li avesse avvisati di tenersi pronti.
Ma forse non si sarebbero aspettati un così diretto assalto.
Uno dopo
l’altro, Duamutef e i suoi fratelli abbandonarono il
santuario dedicato a loro padre, ove si erano riuniti per rendere omaggio al
defunto Osiride, per quanto niente del Nume potesse essere conservato
nell’apposito vaso canopo che per lui avevano realizzato. Indossate le
armature, spiegarono le ali e iniziarono a sorvolare il corso del Nilo,
osservando sconvolti la devastazione imperare sovrana sulla loro amata terra,
la violenza di una natura piegata ai dettami di una volontà superiore. Quella
stessa volontà che li raggiunse, abbattendoli, all’istante.
“Aaargh!!!” –Gridò Qebehsenuf, Dio preposto alla conservazione degli
intestini, venendo colpito da un improvviso fascio di energia, che danneggiò la
sua corazza alata, portandolo a tentare di atterrare quanto prima.
Imset e Hapi gli furono dietro, planando su sabbiose
terre inondate e offrendosi come facile bersaglio a un determinato e preciso
nemico, che li travolse, schiantandoli a terra, in una nube di terriccio, acqua
e frammenti umani.
“Ah ah ah! Fin troppo facile sarà conquistare questo torrido paese!”
–Rise una voce sguaiata, mentre, tra le rovine del Tempio del Falco, emergeva
una figura dal fisico atletico, rivestita da un’armatura marrone dalle fattezze
bestiali. –“Non che mi dispiaccia un po’ di sole in fondo, dopo gli ultimi
giorni trascorsi nell’ombra! Cos’hai da guardarmi, tu, scimmione?” –Ringhiò,
mentre uno dei figli di Horus, trascinandosi a fatica, gli aveva afferrato un
piede, insozzandola con dita sanguinolente. –“Al tuo posto, sotto i miei
zoccoli!!!” –Esclamò deciso, sollevando la gamba e calando poi il tacco sul
volto sfigurato dell’indebolito avversario, sprofondandolo in un cratere che
presto andò macchiandosi con il suo sangue divino. –“Ah ah ah! Come godo!”
“Il gioco è di tuo gradimento, Chimera?!” –Esclamò allora una ben più
adulta voce, mentre un’elegante figura, avvolta in un cosmo amaranto, appariva
accanto a lui, obbligandolo a chinare il capo all’improvviso.
“Sì, Lord Comandante! Stavo solo insegnando a questi insulsi protettori
di budella smembrate qual è il posto che compete loro! Dentro quei vasi! Ma
come cenere! Ah ah ah!” –Rispose il guerriero dai
biondi capelli, torcendo le labbra in un ghigno divertito.
“Molto bene, procedi dunque!” –Concordò colui che guidava quell’assalto,
mentre decine e decine di altri cosmi oscuri piovevano dal cielo, apparendo
alle sue spalle e disponendosi in una precisa formazione triangolare, in cui la
punta era rappresentata da lui, il Demone della Guerra a cui Caos aveva
affidato il comando delle sue armate, l’Esercito delle Tenebre che attendeva un
suo gesto. Voltandosi, guardò il mare di armature nere, violacee e rossicce,
spaziando dai soldati semplici ai membri dello Zodiaco Nero, fino alle Divinità
minori al suo servizio, gloriandosi di quel momento. Quello era l’esercito che
aveva a lungo atteso di comandare, quella era l’armata che pendeva dalle sue
labbra e che adesso avrebbe scatenato contro il regno di Amon
Ra, per farlo suo. –“Distruggete ogni cosa! Radete al suolo il tempio di Horus!
Che sia il primo a cadere degli Dei Egizi, in modo da ricongiungersi al padre
che ha deciso di sfidare il fato! Chi siamo noi, in fondo, per privare un
figlio di un così intenso desiderio?! Ah ah ah!”
Non riuscì neppure a terminare il suo discorso che già due sagome
longilinee erano scattate dalle retrovie, dirette verso i figli di Horus che,
storditi e feriti, tentavano di rimettersi in piedi. Piombarono su di loro,
affondando nei corpi stanchi e inadatti alla lotta, spargendo ovunque il sangue
divino, il cui ruscellare inebriò le demoniache figure intente
a massacrarli. Uno dopo l’altro, gli Dei incaricati di proteggere gli organi
interni dopo la mummificazione caddero sotto i colpi affilati dei due guerrieri
dalle lunghe chiome fluttuanti, mentre, poco distante, Chimera sfoderava la sua
frusta, divertendosi a colpire alcuni membri del suo stesso esercito.
“Avanzate, codardi! Obbedite! Non avete sentito gli ordini del Lord
Comandante, braccio armato di Caos? Sua Eccellenza vuole che il tempio di Horus
venga distrutto, non gli basta che un po’ d’acqua ne abbia allagato le
fondamenta! Deve essere raso al suolo, non deve restarne traccia! Proprio come
dei tuoi capelli, Oizys! Mi hai capito, testone
spelacchiato?!” –Ringhiò il feroce guerriero, mulinando la lunga coda squamosa
della sua corazza con cui sferzava ripetutamente le Astrazioni ancora in vita,
Astrazioni che, dopo sua stessa richiesta, erano state assegnate da Nyx al loro diretto comando.
“Ahi ahi, ho capito! Che male però!” –Brontolò il Dio della Miseria,
avanzando scalzo e con foga, affiancato da Apate, per
quanto il mulinare della verga di Chimera lo facesse continuamente inciampare e
cadere con la faccia a terra, di fronte alle risate sguaiate del suo
torturatore. –“Come stavo bene in quel fresco santuario! E ora eccomi qua, a
morire di caldo in questo postaccio! Che tragedia, che sventura! Santi numi!”
–Borbottò, mentre di nuovo la frusta lo raggiungeva al volto, imbevendosi del
suo antico sangue.
Alle spalle delle Astrazioni, senza che avessero bisogno di alcun
incoraggiamento, gli altri membri dell’Armata delle Tenebre avanzavano,
distruggendo tutto quel che incontravano sul loro cammino. Non ci volle molto
perché il complesso templare dedicato al Dio Falco venisse abbattuto, crollando
sotto poderose artigliate, folgori oscure e pugni devastanti, di fronte al
compiaciuto sguardo del Lord Comandante.
“Quanto tempo dovremo attendere, secondo te, prima che posi il suo occhio
su di noi?” –Domandò allora a Chimera.
“Spero ce ne dia a sufficienza! Non voglio certo perdermi il piacere di
distruggere la sua bella terra! Come lui ha invaso la nostra, noi faremo
altrettanto! Il tempio di Knhoum ci attende poco
oltre! Sarebbe scortese non degnarlo di un’apposita visita!”
“Il tuo garbo mi lascia senza parole! Ah ah ah!”
–Rise allora Polemos, sollevando allora il braccio
destro, sul cui palmo concentrò una devastante quantità di energia, pari a
quella con cui aveva sventrato la Diga di Assuan, liberandola all’istante,
sotto forma di una sfera di energia rosacea, che saettò tra i presenti,
conficcandosi nei profondi basamenti del Tempio di Horus.
Ci volle un attimo, giusto il tempo che Chimera ebbe per voltarsi,
riparandosi gli occhi dall’onda d’urto, prima che esplodesse, scagliando in
aria resti e rovine di quell’antico tempio, proprio mentre le due slanciate
figure terminavano di massacrare i figli di Horus.
“Ora, Cailleach! Scatena i fulmini!” –Ordinò Polemos, splendido e raggiante. E una sagoma alle sue
spalle obbedì, sollevando un bastone nodoso al cielo ed espandendo il proprio
cosmo oscuro, evocando una tempesta di folgori e nubi.
“Caillteanas de dheascatuilenóanfa! Che tutto si perda, travolto dai flutti!”
–Tuonò una rachitica voce di donna, mentre un turbine di vento scosse il già
impetuoso corso del Nilo, generando alti cavalloni che si abbatterono sulle
terre attorno, devastando case, villaggi e campi, mentre in mezzo a quei
fulmini roteavano, quasi attratti dalle nubi stesse, i resti dei martoriati
corpi di Duamutef, Hapi, Imset e Qebehsenuf. Un
turbine che la figura chiamata Cailleach diresse
verso nord, verso un vasto complesso templare che si ergeva in lontananza,
riparato da un viale di sfingi e dal cosmo del suo protettore.
“Dio del Sole, che su queste assolate terre regni, sarai il primo a
conoscere la forza dell’Armata delle Tenebre! Obiettivo ambizioso, e di certo
non facile, sarai, ma la tua testa, il tuo trono, anzi il tuo occhio, saranno
il gradito dono che offrirò ai Progenitori, ringraziandoli per avermi dato
fiducia!” –Mormorò Polemos, rinnovando l’ordine di
avanzare all’intero esercito.
Ares, stolto stratega, se
ancora esisti in qualsivoglia forma, osservami e nota quanto poco meritasti il
nome di Signore della Guerra, titolo che reclamo per me! Guardami adesso, dal
limbo oscuro in cui sei sprofondato e in cui ancora per poco resisterai, e
osserva i miei successi, le sontuose vesti di cui mi addobbo e che mai sporco! Già
la Diga di Assuan è caduta, e con essa i templi di Horus e Sobek,
e presto entrerò nella sala ove Amon Ra troppo a
lungo si nascose! Presto entrerò a Karnak e siederò sul Trono del Sole, e là
berrò alla tua salute!
“Mi avete mandato a chiamare, mio
Signore?!” –Esclamò Nikolaos dell’Eridano
Celeste, entrando nella Sala del Trono.
La parete occidentale era stata
danneggiata e dallo squarcio nel muro passava una brezza leggera, rinfrescando l’aria
stantia di un salone che tempi migliori, e ben più eroici, aveva vissuto. Alla
pari del Nume che sedeva sull’alto scranno.
“Mio Signore?!” –Ripeté il
Luogotenente dell’Olimpo, fermandosi in segno di rispetto ai piedi della
scalinata che conduceva al trono, laddove Zeus sedeva silente.
Il volto stanco, il capo
appoggiato a un braccio, i lunghi capelli biondi che gli solleticavano le dita,
coprendo uno sguardo che trasudava un innegabile timore. Un timore celato per
secoli, che il Dio aveva tentato di rimuovere, di cancellare, di sopraffare in
molti modi diversi, salvo poi dover ammettere a se stesso di non poter far
altro che fronteggiarlo.
“Come coloro che mi hanno
preceduto e che in mio nome sono caduti!” –Commentò infine, sospirando e
mettendosi in piedi.
“Come dite?!” –Balbettò Nikolaos, non comprendendo le sue parole. Ma Zeus gli fece
cenno di lasciar perdere, camminando a passo lento lungo la gradinata fino a
raggiungerlo e a invitarlo a seguirlo nel giardino sul retro.
Che fosse il peso dell’armatura,
il dolore per la perdita di Era o la paura per l’ultima guerra, il Cavaliere
Celeste non poté non notare quanto il Signore degli Dei apparisse vecchio e fiacco,
come quando Flegias lo aveva fatto avvelenare da sua
sorella. Avrebbe voluto dirgli qualcosa, magari che capiva il suo dolore, che
conosceva la spiacevole sensazione di perdere una persona amata, ma preferì
rimanere in silenzio, preoccupato di offenderlo, continuando a tallonare il Dio
nell’ampio parco sulla cima dell’Olimpo. Non dovettero camminare molto, solo il
tempo di portarsi sotto un paio di alberi, dove due feretri di cristallo li
attendevano. Prima ancora di avvicinarsi e di guardare al loro interno, il
Luogotenente capì già che cosa contenessero. O, per meglio dire, chi.
“Madre…padre…” –Mormorò, osservandone le salme mute e immobili.
“Demetra ha tentato di ricomporle,
per quanto fosse possibile, in modo da poter tributare loro il giusto onore.”
–Spiegò allora Zeus. –“So che questa guerra incipiente ci spinge a metter da
parte tutto, strappandoci il tempo nella maniera più brutale, ma voglio che tu
sappia che Elena e Deucalione riceveranno il rito che
meritano!”
“Non… è necessario…” –Mormorò Nikolaos,
il volto segnato dalle lacrime. –“Voglio solo… Vorrei
solo che fossero in pace adesso!”
“Sono certo che è così! Nella
beatitudine riservata ai giusti e ai puri di cuore, ove le loro anime adesso
riposano, ti osservano e ti ammirano assieme a tua sorella Teria.
Finalmente riuniti, finalmente sereni e liberi dai fardelli di questo mondo di
guerra!” –Declamò il Nume supremo, mentre un leggero fruscio alle loro spalle
segnalava l’arrivo di un comune amico. –“Non posso offrirti altro se non una
degna sepoltura! Nella cripta ove giacciono i campioni dell’Olimpo! Se vorrai
farmi il piacere di accettare un così misero dono!”
“Co…
come, mio Signore?!” –Farfugliò Nikolaos, non capendo
cosa intendesse.
Fu allora che Euro, Vento
dell’Est, lo affiancò, sollevando uno dei due feretri, mentre Zeus si faceva
carico dell’altro, invitando il Luogotenente e il figlio di Eos a seguirli
lungo un sentiero che scendeva placido lungo il versante nascosto del Monte
Sacro. Un sentiero di ricordi che negli ultimi giorni svariate volte aveva
inaspettatamente percorso.
“Ci siamo!” –Disse il Signore
dell’Olimpo, quando giunsero all’ingresso della cripta, ritagliato tra alberi
di tasso e frassini. Il suo cosmo spalancò il portone all’improvviso,
accendendo le fiaccole affisse ai muri, prima di varcarne la soglia e
descriverne il contenuto ai suoi fedeli.
“Non conoscevo questo luogo…” –Mormorò il Luogotenente, entrando e osservando il
mausoleo scavato proprio nella roccia e nella terra dell’Olimpo. –“Non sapevo
neppure che vi fosse una cripta sul Monte Sacro.”
“Nessuno ne era a conoscenza, fino
a pochi giorni fa. Soltanto la mia Divina Sposa.” –Chiosò allora Zeus,
permettendo a Nikolaos e a Euro di comprendere.
“Dunque è qua…
che Eracle e gli Heroes giacevano? Immobili e silenti
come statue, hanno aspettato a lungo di tornare a calcare il suolo di questo
mondo prossimo alla fine?!” –Commentò l’ultimo figlio di Eos, strappando al
Nume un cenno d’assenso.
“Proprio qua, al centro del salone
d’ingresso, tredici statue si innalzavano, a ricordarmi il loro destino ogni
volta in cui scendevo a pregare per l’anima di uno dei miei Cavalieri! Ogni
volta in cui uno dei Cavalieri Celesti moriva!” –E, nel dir questo, accese
anche le torce della parte più interna, quella situata proprio sotto la reggia
di Zeus.
Un lungo corridoio scavato nella
roccia, puntellato da colonne bianche, intervallate ad altari cerimoniali e a
statue di marmo. Nikolaos passò tra gli arcaici
pilastri, soffermandosi sui piccoli monumenti funebri e sulle figure scolpite,
mentre il Signore degli Dei continuava a narrare.
“Qua riposano i campioni dell’Olimpo!
Tutti quelli che mi hanno servito con amore, devozione e rispetto! Quel
rispetto che io, ahimè, non ho avuto per loro, mandandoli a morire in una
guerra che non ho saputo evitare! Quel che ho potuto fare, aiutato dal mio buon
amico Ermes, è stato recuperare le loro spoglie dai campi di battaglia, dalle
sorti ingrate cui erano precipitati, per tributare loro il giusto onore! La
sepoltura degli eroi, priva di canti gloriosi e corone d’alloro, solo il sereno
riposo!”
“Giasone…”
–Mormorò il Luogotenente dell’Olimpo, osservando una statua rappresentante il
giovane che guidò la spedizione degli Argonauti, alla ricerca del Vello d’Oro,
la spada sollevata e lo scudo rotondo pronto a difenderlo dagli attacchi
nemici. Ne sfiorò il marmo, ricordando i giorni in cui si erano addestrati
assieme, i loro scontri, le tattiche di combattimento che avevano studiato, e
il momento in cui infine ebbero a metterle in pratica. Il giorno in cui i
fulmini saettarono dall’Olimpo.
“Castore…Polluce…” –Aggiunse Euro, in piedi di fronte a due
giovani, rivestiti da armature speculari, uno con il pugno teso verso la
battaglia, l’altro intento a reggere le briglie di un cavallo. –“Il pugile e il
domatore.”
“E Oreste, Pelope,
Narciso, Paride… tutti i Cavalieri Celesti caduti
negli scontri voluti da Flegias, e altri ancora
vissuti nel Mondo Antico. Tutti trovano spazio alla corte del Signore degli
Dei, proprio come vorrei che anche i tuoi genitori, i genitori del mio
Luogotenente, qui potessero riposare!”
“Sarebbe un onore, mio Signore!
Mio re!” –Commentò Nikolaos, inginocchiandosi di
fronte a Zeus, che gli rispose con un sorriso grato.
Euro sistemò con cura le salme in
un angolo e, prima di allontanarsi, tirò un’occhiata agli spazi ancora vuoti.
Ne erano rimasti quattro, tutti già ornati degli altari e dei loculi atti a
contenere le ceneri o le spoglie dei caduti, in attesa che una statua e le
lettere scolpite sul basamento indicassero il nome degli ultimi Cavalieri
Celesti.
Nikolaos…Ganimede…
probabilmente ShenGado… e?
Per chi è l’ultima tomba? Rifletté il figlio di Eos, per poi voltarsi verso
Zeus, che lo stava osservando interessato, e arrossire. Il Nume parve intuire i
suoi pensieri e accennò un sorriso, prima di invitare entrambi a uscire dalla
cripta.
“Spero che questo viaggio tra i
ricordi non ti abbia turbato, Cavaliere dell’Eridano
Celeste!” –Commentò Zeus, richiudendo il portone e osservando gli occhi lucidi
del Luogotenente. –“Volevo dare serenità al tuo animo, non dolore.”
“E ci siete riuscito, mio Signore!
Davvero! Non solo per l’onore che avete tributato ai miei genitori, ma anche
per avermi permesso di rivedere un’ultima volta i miei compagni, i Cavalieri di
stirpe divina che mi hanno accolto tra loro anni addietro, senza mai farmi
sentire diverso. Senza mai farmi sentire inferiore, per quanto non fossi figlio
di un Dio o un eroe leggendario loro pari.”
“Pari ma non paria.” –Intervenne
allora Euro, ricordando una citazione dell’intrepido Re di Iolco,
e anche Zeus annuì, mettendo una mano sulla spalla del Luogotenente, mentre
camminavano nel bosco di frassini, diretti verso la reggia.
“Per la verità, non sono stato
onesto con te, Nikolaos. Non del tutto!”
“Cosa intendete, mio Signore?!”
“Per tutto questo tempo sei stato
convinto di essere l’unico umano ad aver mai fatto parte della divina legione
dei Cavalieri Celesti, ma in realtà non è così. C’è stato un altro, prima di
te!”
“Non lo sapevo…io…”
“È naturale! Ordinai a Giasone e agli
altri tuoi compagni di non parlartene, perché per molto tempo non volevo neppure
udirne il nome! Il nome di un uomo che mi ha deluso! E anche oggi, ammetto,
pensare a quei giorni, pensare all’amarezza di quel passato bastardo mi irrita
e infastidisce, per quanto ritenga necessario andare avanti. Andare oltre. Ed è
merito tuo, Nikolaos, della tua umiltà, se ho
ritrovato una parte di me che le sontuosità del presente mi avevano fatto
perdere! Merito tuo di avermi ricordato quanto grandi possano essere gli
uomini, in grado di sprigionare, se sorretti dalle giuste motivazioni, un
potere vasto come un Dio, pur rimanendo sempre mortali!”
“Mio Signore?!” –Mormorò il
Luogotenente, senza comprendere a pieno le parole del Nume Supremo.
“Prima di scendere in guerra,
prima di unire le nostre forze a quelle di Atena, Asgard e Avalon, c’è una cosa
che devo fare. E voi mi accompagnerete! Tu, giovane Euro, inciterai i venti a
spingerci in fretta, permettendo al tuo Dio di conservare le energie, e tu,
Luogotenente, conoscerai una nuova storia dell’Olimpo, una pagina buia che ho
voluto cancellare ma che, come altre cose, ho invece dovuto imparare ad
affrontare!” –Spiegò il Nume, mentre i tre giungevano al limitare del giardino
sul retro della reggia, laddove un uomo alto, rivestito da un’armatura marrone
li attendeva.
Nel vederli, il guerriero si inchinò,
presentandosi.
“Neottolemo
del Vascello, Nocchiero di Eracle, al vostro servizio, possente Zeus!”
“Tutto è pronto?”
Neottolemo annuì, prima di rialzarsi e indicare lo
strano oggetto che deturpava il terreno fiorito poco distante. Nikolaos la osservò per qualche secondo, prima di capire
che era un’ancora enorme, cui era legata una lunga catena composta da robusti
anelli metallici che dall’ormeggio saliva in alto verso il cielo, fino ad
entrare nella fiancata di una bizzarra costruzione che li attendeva a vele
spiegate.
“Una nave…”
–Mormorò, mentre Euro sorridendo gli faceva cenno di allungare la mano.
Il Luogotenente esitò un istante,
prima di rispondere al comando del figlio di Eos, stringendogli la mano,
proprio mentre questi spalancava le ali della sua corazza, sollevandosi verso
il vascello e portando Nikolaos con sé. Zeus li aveva
già raggiunti e Neottolemo arrivò per ultimo,
camminando sulla catena tesa con la leggerezza e la grazia di un’angelica
creatura.
“Siamo pronti a partire!” –Esclamò,
ritirando l’ormeggio, di fronte agli occhi stupefatti di Nikolaos.
“Molto bene! Mi compiaccio di
questa solerzia!” –Precisò Zeus, prima di dare ordine a Euro di scatenare i
venti su cui dominava, diretti verso oriente.
“Destinazione, mio Signore?!” –Chiese
l’Hero del Vascello, mentre afferrava il timone della
nave volante.
“Le vette del Caucaso.”
***
Nel silenzio
degli abissi oceanici, Forco riposava tra le braccia
della sua sposa antica, l’unica che avesse mai colmato d’amore la sua
esistenza. Sapeva, dai messaggeri che talvolta giungevano dal mondo di
superficie, che anche gli altri Dei, i giovani Dei cresciuti dopo la caduta di
Crono e dei Titani, erano in grado di amare, ma non con la stessa devozione che
aveva sempre caratterizzato il suo rapporto con lei. Lui, in fondo, non l’aveva
mai tradita, né la sua compagna aveva fatto altrettanto, uniti per sempre da un
patto suggellato nelle acque abissali. Un patto di cui le acque stesse erano
state testimoni e officianti, e che mai era stato disonorato. Del resto, erano
entrambi consapevoli che il tempo trascorresse, anche piuttosto in fretta per
coloro che si affannavano ad agire fuori dalla sicurezza del loro regno. Ne
avevano avuto prova quando avevano ricevuto notizia della morte di alcuni loro figli,
giovani, anch’essi, e incapaci di dimorare troppo a lungo in quella profonda
tranquillità che né Forco né la compagna avrebbero
mai cambiato per nessun’altro regno.
Che Zeus si tenga il suo colle fiorito e Ade il suo
lurido oltretomba! Amava ripetere l’atavico Signore dei Mari,
cullato dal delicato abbraccio di colei cui si era unito tempo addietro e con
cui aveva generato una numerosa prole. Le sorelle Gorgoni, le anziane Graie, la mostruosa Scilla e Ladone,
il Custode del Giardino delle Esperidi, ne erano terrificante rappresentanza.
Ma nessuno di loro, con suo grande rammarico, aveva recepito il così intenso
amore dei genitori verso gli oceani, preferendo dirigersi in superficie a
trascorrere la loro esistenza. Per questo motivo Forco
aveva dovuto cercare altrove, per creare il proprio esercito, tra quegli uomini
così corruttibili cui molte altre Divinità avevano guardato per farne strumenti
di guerra nelle loro mani. Anche Zeus, Nettuno e persino il tenebroso Ade si
servivano degli uomini, restii, forse impauriti, a sporcarsi le mani in prima
persona; e anche se tra le loro fila figuravano figli di Divinità o uomini
graziati di doni divini, la maggioranza delle loro schiere era composta da
esseri mortali.
“Mortali…” –Rifletté Forco in quel
momento, prima che una voce adolescenziale lo distraesse.
Liberandosi
di malavoglia dall’abbraccio della compagna, l’antico Dio scese dallo scoglio
ove riposava, andando incontro al giovane dai capelli rossicci che era appena
entrato nell’ampia caverna sottomarina.
“Chiedo
venia, Imperatore! Ma è arrivato un dispiaccio urgente per voi!” –Esclamò un
ragazzo che non dimostrava più di vent’anni. –“Il Lord Comandante delle Armate
delle Tenebre vi invia le istruzioni per l’imminente attacco!” –Aggiunse,
porgendogli un corno di conchiglia, dentro il quale era incassato un plico
arrotolato. –“Vostra figlia, Steno, lo ha appena consegnato!”
Forco lo afferrò incuriosito, soffermandosi sul
sigillo di ceralacca che lo teneva fermo, il simbolo del potere di Polemos.
“Ridicolo!”
–Commentò con disprezzo, gettando addosso al ragazzo sia la conchiglia che la
missiva. –“Queste patetiche manifestazioni del proprio ruolo suscitano in me
un’ironia sconfinata, Kelpie! E mi sorprende e irrita
al qual tempo che mia figlia si sia prestata alla causa! Pur nella sua
deformità, pur nella sua orrida bellezza, ha chinato il capo al Demone della
Guerra, mettendo a sua disposizione i propri servigi! Umpf,
è assurdo!!!” –Tuonò, alzando la voce, mentre il giovane si rimetteva in piedi,
pur senza permettersi di aprire bocca. –“Gli Dei dei
Mari non si prostrano di fronte a nessuno! Dovrebbe averlo capito ormai!
Compagni, non servi, è questo che siamo!”
Quindi,
vedendo che il guerriero dai capelli rossicci non sapeva cosa fare di quel
plico, sbuffò scocciato, dicendogli di aprirlo e leggerlo in sua vece, cosa che
l’adepto si affrettò a fare in pochi secondi.
“Il Lord
Comandante, suprema guida dell’Armata delle Tenebre, richiede l’intervento
immediato dei Forcidi nella battaglia che sta per
scatenarsi nel continente africano! Seguono le indicazioni esatte dei siti che
saranno attaccati!”
Forco allungò un occhio sulla missiva,
riconoscendo i luoghi ove la sua nuova vita era ricominciata, quando suo padre
lo aveva risvegliato da una prigionia durata millenni. Torse le labbra in un
ghigno serafico, intuendo le ragioni che muovevano Polemos
in quell’assalto, e le comprese, avendo saputo quel che l’esercito egizio aveva
realizzato nei giorni precedenti, meritandosi quindi quella subitanea
ritorsione. Pur tuttavia non sembrò interessato, né diede a Kelpie
alcun ordine riguardo ad un’eventuale risposta, pregandolo soltanto di
congedarsi.
Obiettivo ben poco interessante! Rifletté, ricordando lo sconcerto che l’aveva invaso quando Ponto lo aveva liberato, permettendogli di rimirare, con
occhi propri, le sconfinate distese dell’Africa desertica, interrotte da
sporadiche oasi e da bizzarre costruzioni triangolari. Un regno così diverso
dalla freschezza dei domini oceanici, un regno su cui mai avrebbe voluto imperare,
destinandolo eventualmente solo ad essere una colonia penale, niente di più.
“Quali nuove
dal mondo di sopra, mio amato?” –La soffice voce della compagna lo rubò ai suoi
pensieri, mentre il suo sinuoso corpo lo raggiungeva, affusolandosi attorno al
proprio, assieme al proprio, scambiandosi effusioni e carezze.
Il mondo di sopra. Così lo
chiamava lei, con quella spontaneità che lo faceva sempre sorridere e che
rimarcava di continuo la distanza tra la loro intimità e tutto quel che stava
fuori.
“Polemos ha mosso le sue truppe!” –Spiegò Forco, mettendo di proposito l'accento sull’aggettivo
possessivo. –“Primo obiettivo è stato marciare contro l’Egitto con il duplice
intento di vendicarsi dell’intervento di Amon Ra e
anche di fagocitarne il potere! Di certo Osiride e quegli strambi Dei lunari
saranno stati un antipasto prelibato, ma una splendente e ancestrale Divinità
come il Pastore dell’Universo permetterebbe a Caos di divenire davvero
potente!”
“È dunque
vendetta ciò che anima il nuovo Comandante dell’Esercito delle Tenebre? Un
sentimento così basso e barbaro?” –Rifletté la sua sposa, portando Forco a porsi la stessa domanda.
“Sentimento
che, ahimè, conosco bene, poiché anch’io l’ho provata, e tuttora la provo, nei
confronti di coloro che a torto, nel corso dei secoli, si sono vantati di
essere i Dominatori dei Mari! Ciononostante la mia rivalsa sarà in grande stile
e coinvolgerà anche te e coloro che ci sono fedeli, mia adorata!” –Declamò il
Nume, fissando la consorte negli occhi. –“Se Polemos
ha attaccato il più grande regno divino sulla Terra, noi colpiremo quello sotto
il mare! Il regno sommerso nato dalle rovine della leggendaria Mu! Ordina ai Forcidi di muovere
verso il Pacifico! Attaccheremo adesso e attaccheremo in massa, con tutte le
nostre forze! Piegheremo quelle ridicole Conchiglie e i buffi abitanti che le
abitano! Gli Avaiki degli Areoi
saranno nostri!”
***
Toru guardava la Conchiglia Madre ammirato.
Non era la prima volta che veniva convocato e, sebbene preferisse gli
ambienti esterni, meno affollati dell’immensa capitale, rimaneva ogni volta
affascinato da quell’antica struttura, cuore pulsante del loro impero. Alta,
cento metri e forse più, si innalzava tra silenti e quieti abissi, rifulgendo
di chiari bagliori allo strusciare delle correnti marine. Era vasta e spaziosa
quanto una città degli uomini, o almeno così gli avevano detto quando era
bambino, poiché Toru una città di uomini non l’aveva
mai vista. Lui conosceva solo l’Avaiki dedicato al
grande Ukupanipo, Signore dei Pesci e protettore dei
mari. Là era cresciuto, era stato addestrato ed aveva infine superato la prova,
combattendo contro lo squalo bianco, a mani nude, e dimostrandosi degno della
fiducia ricevuta dal Dio abissale.
Sorridendo a ricordi sereni, l’uomo dal fisico atletico e dai piccoli
ma attenti occhi neri varcò il ponte che collegava la Conchiglia ove risiedeva
con quella principale, percependo un’improvvisa vibrazione. Qualcosa di grosso,
di molto grosso, si stava muovendo. Durò un attimo, quella sensazione spiacevole,
poi scomparve e per quanto Toru scandagliasse il
fondale oceanico con i suoi sensi acuti non riuscì a ritrovarla.
Scosse la testa, stranito, riprendendo a camminare per le strade
interne dell’Avaiki, passando attraverso basse
costruzioni di sabbia e corallo e spazi pubblici, ove numerosi bambini si
allenavano nuotando nelle grandi vasche che sorgevano dal terreno, riempite
direttamente da canali sotterranei che le collegavano al mare.
Anche lui era stato come loro, anche lui era stato un giovane polinesiano
deciso ad apprendere i segreti del mare, trascorrendo giornate intere a
nuotare, per stabilire un contatto con l’oceano circostante, per entrare in
comunione con il mondo che lo attorniava, ben più ricco e profondo di quanto
coloro che vivevano in superficie potevano immaginare. Strani mondi, quelli. Sempre in guerra tra di loro. Forse per questo i
nostri antenati decisero di chiudere con loro ogni rapporto. Si disse Toru, raggiungendo infine il cuore della Conchiglia, ove
sorgeva un palazzo di corallo, l’unico autorizzato ad elevarsi al di sopra
delle altre costruzioni, piuttosto basse in verità, di modo che potesse essere
visibile da ogni parte dell’Avaiki, anche dalle
Conchiglie esterne.
Là Hina lo stava aspettando.
In piedi, al centro del salone principale del santuario di Ukupanipo, l’anziana donna, dal viso scavato dal tempo,
stava ritta di fronte a una colonna di corallo alta circa un metro, sulla cui
sommità riluceva una sfera di luce. Una perla azzurra, grande come un teschio
umano, che emetteva bagliori in grado di rifulgere in tutto l’Avaiki.
“Qualcosa non va!” –Esclamò il muscoloso guerriero, varcando la soglia
dell’ampia sala.
“Lo hai percepito anche tu, dunque!” –Si limitò a commentare la donna
chiamata Hina, senza neppure voltarsi verso il nuovo
arrivato, continuando ad osservare la sfera azzurra.
Toru annuì, ma non seppe spiegare cosa avesse sentito. Di certo niente di
buono se persino la grande Hina del Lactoria, massima autorità nel culto del Signore dei Pesci,
pareva inquieta, al punto da non staccare gli occhi dalla Perla dei Mari. Perché? Cosa potevano dirle, in fondo, i
morti, che lei non fosse in grado di vedere da sola?
“Anche gli spiriti degli aumakuas sono inquieti! Osservali, si agitano come anguille,
quasi volessero avvisarci di un pericolo imminente! Ma quale?!” –Si interrogò
l’anziana Alii, carezzandosi il mento grinzoso con
lunghe rachitiche dita.
“Temete uno tsunami, potente Hina? Per quale
motivo il Signore dei Pesci dovrebbe essere adirato con noi, il popolo che da
sempre lo venera e ringrazia per i pasti che ci concede! Lui sa bene che siamo
gente di buon cuore, che amiamo e rispettiamo il mare in cui ci permette di
risiedere, cacciando solo ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, senza
abusare delle altre specie che popolano il mondo sommerso!”
“Non la collera di Ukupanipo temo. Ma un’ira
ben più violenta e altrettanto arcaica.” –Sospirò la sacerdotessa. –“Ho
avvertito poderose energie oscure divampare nel mondo superiore, sintomi
inequivocabili dell’innalzarsi di un nuovo conflitto.”
“Umpf! Come se fosse una novità! A cos’altro
sono mai stati dediti gli uomini se non a farsi male tra loro? Incapaci di
vivere in pace, sereni e paghi di quello che hanno, di quello che i loro Dei
han concesso loro, hanno sempre desiderato altro, hanno sempre ambito ad andare
oltre, conquistando regni che non erano loro, che non erano neppure pensabili
per esserlo! La nostra antenata, la regina Antalya,
compì un’ottima scelta quando decise di fondare il primo Avaiki,
qua, nel grande oceano meridionale, isolandoci e lasciandoci fuori dai
conflitti del mondo.”
“Non credere che sia stato l’amore per i posteri a determinare la sua
scelta, Toru. Antalya era
stanca. A lungo aveva combattuto, in vita, fronteggiando un’ombra primordiale
come quella descritta nei primi wādei canti di Kumulipo.
Un’ombra che risponde ad un solo nome.” –Spiegò, voltandosi infine e fissando Toru con le cavità dei suoi occhi.
“Pō!” –Convenne l’uomo. –“Oscurità!” –Aggiunse,
rabbrividendo al sol pensiero e cercando al tempo stesso di non distogliere lo
sguardo dalla deformità che segnava il volto di Hina.
Anche con le palpebre chiuse, anche priva dei bulbi oculari, l’anziana Alii poteva comunque spaziare lontano, grazie alla forza
del cosmo,
E fu quell’antica sapienza che le permise di avvertire per prima l’onda
in arrivo.
Si schiantò contro la Conchiglia esposta a meridione, facendola vibrare
per l’intera sua estensione, scuotendola nel profondo e strappando grida di
paura a tutti i suoi abitanti. Per quanto abituati a sconvolgimenti oceanici,
quali maremoti o scosse telluriche, era la prima volta che un maroso di così
intensa potenza si abbatteva non previsto sull’Avaiki.
“Raduna gli Areoi! Siamo sotto attacco!”
–Esclamò Hina, mentre Toru
la guardava sorpreso, non capendo come potesse essere possibile. Aprì la bocca
per porle una delle molte domande che gli riempivano la mente, ma lei lo
prevenne, sollevando un dito e intimandolo di fare presto. –“Cercherò di
rallentarli, mantenendoli all’esterno fin quando Kahōʻāliʻi non mi
chiamerà a sé. Non so quando sarà, ma in quel momento non sarò triste, potendo
riabbracciare coloro che ho perduto in questa lunga vita ricevuta in dono da
mio padre! Ora va’, possente Toru, hai la benedizione
di Ukupanipo e di tutti gli Dei del Mare! Che le
fauci dello squalo bianco squarcino il petto di molti nemici! Che il magnifico
predatore sappia difendere l’Avaiki che lo ha
investito!”
Quando
Pegasus e i suoi amici raggiunsero l’Etna, scendendo nella profonda e calda
fucina, trovarono Efesto intento a lavorare, proprio
come la prima volta in cui gli avevano fatto visita, qualche mese addietro,
affinché riparasse loro le corazze danneggiate dagli scontri sull’Olimpo. Chino
sul tavolo da lavoro, il figlio di Zeus armeggiava con pinze e cesoie, mentre
poco distante crepitava l’ardente fornace, collegata al cuore del vulcano
tramite un complesso, nonché ingegnoso, sistema di cunicoli ideato dal Nume
stesso. Per un momento, ripensando alla tragica fine dell’amata Afrodite,
massacrata davanti ai suoi occhi, Andromeda pensò che forse il Dio della
Metallurgia non facesse altro, se non dedicarsi con tutto se stesso al lavoro,
alle magnifiche opere che, per necessità bellica o per diletto, era solito
produrre per gli Dei di Grecia. Un modo
per tenersi impegnato e non pensare. Rifletté il ragazzo, entrando
nell’ampia caverna sotterranea attrezzata a laboratorio, assieme ai suoi
compagni e al Signore dell’Isola Sacra.
Di lato, per
non disturbare i movimenti dell’alacre fabbro, tre figure attendevano il loro
arrivo. Ermes, il Messaggero degli Dei, che Cristal
fu ben lieto di rivedere, Demetra, Dea delle Messi e delle Coltivazioni, che
accolse tutti, soprattutto Andromeda, con un cordiale abbraccio, e infine
Nettuno, la cui presenza accigliò non poco il Cavaliere di Pegasus.
“Smettila di
essere sospettoso!” –Gli sussurrò Sirio. –“Quelle rughe d’ansia non si addicono
alla nascitura alleanza di uomini e Dei che stiamo tentando di mettere in
piedi. Tanto più che sarebbe follia, per un Dio rimasto solo, privo di un regno
e di un esercito, lanciarsi in qualche proposito imperiale adesso, con la
grande ombra che ci alita sul collo la fine del mondo!”
“Hai
ragione!” –Convenne Pegasus, pur continuando a guardare di sottecchi l’antico
rivale.
Fu allora
che Efesto si voltò verso di loro, togliendosi una
maschera dal viso, che utilizzava per ripararsi dai vapori e dagli effluvi
intensi, che spesso emergevano durante la lavorazione di alcuni metalli.
Effluvi acri che solo il delicato profumo di Afrodite, quell’essenza di eterna
primavera che la sua stessa presenza portava seco, sapeva dissipare.
“Eccovi
tutti, molto bene! Avvicinatevi, per favore! Sì, voi tre, disponiamoci in
cerchio!” –Esclamò, senza perdersi in troppi convenevoli, rivolto alle Divinità
presenti, invitandole a disporsi attorno a quattro scrigni dentro cui erano
adagiati chiari pezzi di una lega metallica che riluceva d’azzurro e argento.
Colori che fecero sorridere Nettuno, non appena intuì quel che contenessero.
–“Ermes mi ha avvisato che Zeus è impegnato a risolvere un’antica questione, ma
arriverà presto! Poco male, possiamo iniziare noi il rito della creazione!” –Così,
prima ancora di aver terminato di parlare, aveva già sollevato le braccia,
stendendo le dita della mano destra parallele all’arto e muovendole di scatto,
tagliandosi i polsi dell’altro braccio.
Uno dopo
l’altro, Ermes, Demetra e Nettuno fecero altrettanto, lasciando che le preziose
gocce di Ichorruscellassero
sopra il materiale lavorato in precedenza da Efesto,
mentre i loro cosmi crescevano, riempiendo la stanza e infondendosi, piano piano, anche ai prodotti della loro unione, di fronte allo
sguardo attento di Pegasus e dei Cavalieri dello Zodiaco.
“Cristal il Cigno!” –Esclamò dunque il Messaggero Olimpico,
mentre il biondo allievo del Maestro dei Ghiacci si avvicinava. –“Ricordo
quando varcasti la soglia del Tempio dei Mercanti, mesi addietro, fermo nelle
tue convinzioni, deciso ad arrivare da Atena, alla Torre del Fulmine. Pianse il
mio cuore, quel giorno, al pensiero di dover combattere con così ardenti e
impetuosi cuori, sorretti da genuina fede di giustizia e da altrettanta
passione, la stessa con cui ti sei fatto strada nelle gelide lande di Asgard,
per portare loro un raggio di sole. Io, Ermes, il più celere degli Olimpi, il
piede alato in grado di correre più veloce del vento stesso, dono il mio sangue
per te, affinché il Cigno possa spalancare ancora le ali e volare sopra il
tetto del mondo, portando ovunque quella stessa fede, quella stessa passione
che covi nel cuore!” –E, mentre parlava, i pezzi dell’armatura riposti nello
scrigno di fronte a lui si sollevarono, componendosi poco dopo nella
scintillante sagoma di un magnifico Cigno di pura luce. Un Cigno che pareva
essere stato scolpito nelle pareti della Montagna del Ghiaccio Eterno, tanto
terso ma resistente appariva.
“Cavaliere
di Andromeda!” –Parlò allora Demetra, la cui voce calma e pacata tradiva adesso
un nervosismo maggiore, forse perché, da tempo ormai, non adoprava il cosmo per
niente più che curare ferite o rinverdire i versanti dell’Olimpo. –“Ho sempre
apprezzato la tua natura umana, la tua indole pacifica volta al perdono. Come
te, anch’io, nel mio piccolo mondo, ho sempre cercato di proteggere, di
conservare, di impedire che qualcosa sfiorisse, profonda sostenitrice di
un’ideale di pace, serenità e quiete, ideale che ritrovo nei tuoi occhi,
giovane Cavaliere dell’Isola di Andromeda! Per questo dono il mio Ichor, perché questa corazza possa preservare intatta la
tua bellezza e la tua natura!” –Spiegò, mentre le varie parti dell’armatura del
ragazzo si animavano, unendosi in una raffinata figura umana, interamente
circondata da roteanti catene argentee, che parevano tagliare l’aria ad ogni
movimento, sprigionando scintille e fulmini rosa.
“Sirio il
Dragone!” –Fu adesso Nettuno a parlare, costringendo l’allievo di Libra a farsi
più vicino, mentre il sangue del Re dei Mari ancora gocciolava sulla corazza
verde smeraldo. –“Una cosa abbiamo in comune! L’elemento dominante! L’acqua! In
cui così tanto a tuo agio ti trovi nel combattere, e in cui io a lungo ho
riposato, dominato e vissuto! Ricordo quel che mi dicesti quel giorno, quel che
dicesti a Julian quando entrasti nel tempio per
proteggere Pegasus. “Per salvare un amico, oserei anche di più!”. Bene, dunque,
che sia lo scorrere eterno dell’amicizia, un fiume che mai potrà andare in
secca, a guidarti e a condurre questo ruggente drago alla vittoria, drago cui
dono la forza e la sapienza degli abissi oceanici!” –Concluse, mentre una
sagoma serpentiforme si sollevava dallo scrigno, scivolando in aria prima di
avvolgersi attorno al corpo di Sirio, stringendolo in fatali ma ristoratrici spire.
“Ultimo, il
Cavaliere di Phoenix, il Cavaliere della Regina Nera!” –Intervenne allora Efesto, strappando un moto di sorpresa al ragazzo dai
capelli blu. –“Sì, conosco la tua storia, ma non devi vergognarti! Tutti
abbiamo conosciuto il male, nessuno di noi può dirsi saggio abbastanza da non
esserne mai caduto preda. Sei un cuore ardente, Phoenix, un uomo che non
rimane, passivo, ad attendere che la vita gli passi davanti; per questo Zeus
aveva scelto Era, una Divinità forte ma al tempo stesso vittima delle proprie
passioni, per dare la vita alla tua nuova corazza! Ma, in sua assenza, darò io
il mio sangue per te, del resto, nelle vene di entrambi ribolle
la stessa fiamma, non è così, Fenice? Anche tu, al pari di me, hai visto morire
la donna che amavi. O forse, dovrei dire le donne?” –Sorrise, per la prima
volta, il Fabbro degli Olimpi, mentre un maestoso uccello di fiamme sgorgava
fuori dallo scrigno di fronte a lui, sollevandosi in aria fino a portarsi
davanti a Phoenix. –“Che questo mio Ichor ti guidi
nella nostra vendetta!” –Sussurrò, espandendo al massimo il proprio cosmo.
Ermes,
Demetra e Nettuno fecero altrettanto, mentre i quattro ragazzi entravano in
sintonia con l’impronta cosmica delle corazze, che si scomposero, andando a
ricoprire i loro atletici corpi. Uno dopo l’altro, Cristal,
Andromeda, Sirio e Phoenix vennero rivestiti da nuove protezioni, simili, come
fattura, alle precedenti Armature Divine, ma ancora più fresche, corroboranti e
coprenti. Una sensazione di rinato vigore li investì, capace di cancellare anni
di fatiche e battaglie, una sensazione che da tempo non avvertivano, forse dal
giorno in cui, tra le rovine del Palazzo dei Tornei, Atena li aveva abbracciati
per la prima volta con il tepore del suo cosmo.
“Incredibile!
Sento pulsare un’energia inaudita dentro di me!” –Commentò Cristal,
muovendo le braccia a spazzare, per testare la flessibilità della corazza,
subito imitato da Sirio.
“Leggere e
resistenti al tempo stesso! Efesto la tua maestria è
indubbia! Quale arte hai usato questa volta, per farci dono di queste
meraviglie?!”
“L’arte
dell’amicizia!” –Chiosò il Fabbro, appoggiandosi stanco ad un tavolo da lavoro,
prima che Ermes, vicino a lui, spiegasse come quelle armature fossero il
frutto, o forse il motivo, dell’alleanza appena nata tra i regni divini.
“È stato il
Sommo Avalon a donare il mithril per forgiare le
vostre corazze! E Nettuno ha aggiunto l’oricalco conservato nei propri
magazzini! Elementi sempre più rari in questo mondo, combinati in modo da
rendere quelle vesti più resistenti di qualsiasi altra corazza abbiate mai
indossato! Ormai non sono più Armature Divine, no, sono vere e proprie Vesti
Divine, sebbene neppure le nostre siano interamente realizzate con mithril!”
“Vuoi dire che… Avalon, hai ceduto il mithril
per noi?” –Esclamarono Andromeda e Sirio, prima che Cristal
puntualizzasse un’ulteriore questione. –“Non sapevo ve ne fosse ancora, Efesto ci disse che era molto raro!”
“Ed infatti
lo è, miei cari!” –Precisò il Signore dell’Isola Sacra. –“Dubito ve ne siano
altre scorte al mondo, quello che il Fabbro Olimpico ha usato deriva da un
meteorite precipitato sul pianeta quasi cento anni addietro, a Tunguska!”
“In
Siberia!” –Affermò subito il Cavaliere del Cigno, ricevendo un cenno d’assenso
dall’Angelo di Luce.
“Proprio
così! A lungo ho atteso questo momento e mai avrei permesso che vi arrivassimo
impreparati! Adesso avete tutto quel che vi serve per confrontarvi con gli Dei
Antichi; la forza, la determinazione, la nobiltà d’animo già le avevate di per
sé! Il Nono Senso lo avete risvegliato in anni di battaglie e migliorie! Le
corazze, permettete agli Dei di offrirvele!”
“Grazie,
Sommo Avalon!” –Esclamarono in coro i Cavalieri dello Zodiaco, prima che un
rumore sordo, simile a un corpo che cade, li distraesse, facendoli voltare
verso il tavolo da lavoro, accanto al quale il Dio della Metallurgia era appena
crollato.
“Divino Efesto!” –Gridò Demetra, mentre Ermes corse verso l’amico,
muovendosi comunque con una lentezza ben maggiore del solito, condizione che non
sfuggì a Cristal e ai paladini di Atena.
“Cosa
succede, Messaggero Olimpico? Perché state così male?!”
“Non dovete
preoccuparvi, Cavalieri dello Zodiaco! Il rito con il quale abbiamo forgiato le
vostre armature vi ha anche trasmesso parte del nostro cosmo, per renderle più
solide, per garantirvi un ulteriore aiuto nei momenti di difficoltà! Così
facendo, impregnandole di una massiccia dosa di Ichor,
sarà come se aveste sempre uno di noi a fianco in battaglia!” –Spiegò il
Messaggero Olimpico, mentre sorreggeva, assieme ad Avalon, Efesto
nel rimettersi in piedi. –“Ciò comunque ci ha indebolito, motivo questo che ha
reso necessaria la presenza di Eracle e degli Heroes
qua fuori, come nostre guardie del corpo, finché non recupereremo le forze! Ma
non temete, accadrà presto, e allora combatteremo davvero assieme contro
l’ombra! E tu, Cavaliere di Pegasus, non avere timore, Zeus Tonante sarà qui
quanto prima e allora anche la tua corazza sarà pronta!”
“Zeus?!
Intendete dire che sarà il Padre degli Dei a donare l’Ichor
per la mia armatura?!” –Esclamò sbalordito il Cavaliere di Atena, strappando un
genuino sorriso al Dio dei Mercanti e dei Commerci.
“Questa è la
sua decisione!”
“Te lo
meriti, amico!” –Commentò Sirio, abbracciando il compagno di mille battaglie. Cristal, Andromeda e Phoenix fecero altrettanto, rimanendo
per un momento tutti uniti assieme, a guardarsi, a ricordare il passato e a
credere nel futuro. Avevano già deciso, nel breve tragitto da Atene alla
Sicilia, che si sarebbero separati di nuovo, dirigendosi ognuno verso un
diverso fronte di guerra, in modo da portare maggior contributo alla causa; pur
tuttavia, adesso che davvero dovevano salutarsi, parevano restii ad abbandonare
i fratelli con cui avevano diviso la vita. Fu ancora una volta Avalon a
prendere in mano la situazione.
“È ora di
andare adesso! Lasciamo gli Olimpi al loro meritato riposo!”
“Dove
andremo, mio Signore?” –Chiese allora Dragone, mentre lo sguardo di Avalon
pareva assorto in nebulosi pensieri, quasi fosse in grado di penetrare la
parete di roccia che li circondava e vedere al di fuori, fin dove fosse
necessario spingersi, oltre la linea di qualsiasi orizzonte. Fu in quel momento
che le fiamme della fornace si levarono alte, fin quasi a raschiare il
soffitto, stupendo tutti i presenti, soprattutto Demetra, che subito strillò,
prima che Avalon li invitasse a mantenere la calma. Non vi era pericolo, del
resto, nel vivere un mistero.
Rapide come
erano sorte, le fiamme si acquietarono e il volto del Principe Supremo degli
Angeli tornò a colorarsi del suo enigmatico sorriso, mentre rivelava ai
Cavalieri dello Zodiaco quel che aveva appena scorto usando la Vista.
“Pare che i
timori di Asterios fossero giustificati! C’è guerra
nel mondo sommerso!” –Rivelò, suscitando l’immediata reazione di Nettuno, che
incalzò per avere maggiori informazioni. –“Numerosi cosmi inquieti baluginano
nelle profondità marine del Pacifico meridionale, laddove le cinque Conchiglie
proteggono il popolo libero delle correnti dai predatori del mondo!”
“Presterò
loro aiuto immediato! Una grande stima mi lega agli Avaiki
oceanici, un rapporto di pacifica coesistenza mai stato violato!” –Esclamò
fiero Nettuno, per quanto Avalon ebbe subito a fargli notare che, sebbene la
sua aura cosmica fosse più vasta di quelle di Ermes o Efesto,
anch’egli era stato indebolito dal rito. –“Non posso rimanere ad attendere gli
eventi! Ho già visto, con questi stessi colpevoli occhi divini, un regno
oceanico sprofondare negli abissi e non voglio che ciò accada di nuovo! Coloro
che vivono dove Mu si adagiò avranno la mia
protezione!”
“Ed anche la mia!” –Intervenne Sirio, strappando un cenno d’assenso al
Principe degli Angeli, che vide in lui il più adatto a tale missione.
“Io scenderò in Egitto!” –Esclamò allora Phoenix, mentre anche
Andromeda si offriva per accompagnarlo, non senza però che Avalon chiedesse
loro di effettuare una piccola deviazione.
“Fermatevi sul Mar Nero, a Themyskira, per
aiutare le Amazzoni a mettere in salvo i profughi dei regni divini minori su
cui di certo l’ombra si è già abbattuta! Poi dirigetevi tutti verso sud, per
prestare aiuto ad Amon Ra! Alexer aveva già
contattato le donne guerriere, ma pare che la loro miglior combattente, questa Pentesilea, sia piuttosto restia a fidarsi o anche solo ad
ascoltare gli uomini!”
“Lo so bene!” –Commentò il Cavaliere della Fenice, prima di
incamminarsi verso l’esterno della fornace, seguito da Nettuno, Sirio, Cristal e Pegasus.
Soltanto Andromeda esitò un momento, quasi come volesse approfittare di
quel momento per parlare di persona con Avalon. Efesto
ed Ermes erano distanti qualche passo e il ragazzo fu certo che il Signore
dell’Isola Sacra potesse benissimo trovare il modo di non farsi udire, se
avesse voluto. Di cosa volesse discutere, neppure lui lo sapeva bene, magari
delle poche parole captate della conversazione tra lui e Asterios
o forse di come egli fosse in grado di comprendere lingue finora sconosciute.
Ci pensò qualche istante, imbarazzato e colpevole, ma poi sospirò, incapace di
affrontare qualsiasi discorso.
Fu Avalon a richiamarlo, afferrandolo per un braccio poco prima che
infilasse il tortuoso corridoio che conduceva fuori dall’Etna, e a sorridergli,
quasi come a cacciar via quell’imbarazzo tra loro. Ma bastò quel contatto, quel
solo gesto, a piegare Andromeda a terra, costringendolo a portarsi le mani alla
testa, travolta da così intense fitte da non permettergli neppure di respirare.
“Libera la mente!” –Gli disse allora Avalon, inginocchiandosi davanti a
lui. –“Ascolta la mia voce e libera la mente!”
Inizialmente il ragazzo non parve capire quel che l’Angelo gli stesse
dicendo, ma poi, piano piano, iniziò a sentire un
cosmo caldo confortarlo e cacciar via le fitte di dolore, per quanto non
riuscisse a vedere niente di ciò che aveva di fronte. Vide invece immagini di
guerra turbinargli davanti agli occhi, immagini in cui lui stesso combatteva a
fianco del fratello. No, contro il fratello! Com’era possibile? No! Non era
possibile. Erano ricordi?Tristi
ricordi? E sopra di loro una tenebra immensa, una nube nera ostruiva il cielo,
togliendo spazio alle stelle. E Avalon… lui era…
Il Cavaliere di Atena riaprì gli occhi di scatto, scuotendo la testa
indolenzita, mentre il Signore dell’Isola Sacra lo aiutava a rimettersi in
piedi. –“Tutto bene, Andromeda? Credo che la tua mente non sia ancora pronta ad
usare la Vista!”
“Co… come?!” –Balbettò questi, sgranando gli
occhi.
“Biliku, quel giorno nella caverna delle
Andamane, ti ha fatto un grande dono, forse ha compreso la tua sofferenza, il
desiderio di pace senza guerra, che albergava nel tuo animo e, consapevole che
il suo tempo cosmico, al pari del nostro, stesse per giungere a conclusione, ha
voluto affidare a te un patrimonio di utili conoscenze. E la conoscenza è
potere, Andromeda. La conoscenza del passato, che si manifesta in ricordi,
anche altrui, e permette di comprendere qualunque lingua, anche antica o in
disuso; del presente, che ti permette di udire suoni, voci o invocazioni anche
distanti, come ti è successo quando avvertisti il richiamo di Odino il giorno
di Ragnarök; e infine del futuro, che si esplica
tramite la Vista. Siamo in pochi, ormai, a possedere quel dono, uno dei più
preziosi, ma anche dei più difficili da gestire. Siine consapevole, non
abusarne mai e non cercare di forzarlo, potrebbe ucciderti!”
Andromeda rimase in silenzio per qualche istante, immagazzinando le
informazioni ricevute dal misterioso e affascinante alleato, prima di ripensare
a ciò a cui aveva assistito poc’anzi. Erano scene confuse, di guerra e
d’azione, scene che forse poteva anche aver male interpretato. Ma di una cosa
era certo, una cosa gli era parsa chiara fin dall’inizio.
Avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto spiegargli il perché delle
lacrime che improvvisamente gli riempirono gli occhi, ma qualcosa, nel comprensivo
sguardo del Principe degli Angeli, gli fece capire che non ce n’era bisogno,
poiché egli già lo sapeva. E le sue parole di poco dopo gli tolsero ogni
dubbio.
“Tutti dobbiamo morire, Andromeda. Persino gli Dei. E se questo sarà il nostro
destino, non ci tireremo indietro, bensì lo affronteremo.” –Gli sorrise Avalon,
prima di fargli cenno di procedere lungo il sentiero che presto li condusse
sulla sommità del vulcano italico, dove Sirio, Cristal,
Pegasus, Phoenix e Nettuno li aspettavano.
Una fresca brezza soffiava da oriente, un vento che, tutti loro
immaginarono, pareva accompagnare l’avanzata della marea d’ombra sull’intero
pianeta. Scossero la testa per non pensarci, scambiandosi un’ultima occhiata,
promettendosi di ritrovarsi a breve, nel bel mezzo di un campo di battaglia.
Come nella loro migliore tradizione.
Andromeda e Phoenix sorrisero, prima di espandere i loro cosmi e
scattare nel cielo verso la penisola balcanica, mentre Sirio e Nettuno facevano
altrettanto, dirigendosi verso sud-est. Rimasero solo Cristal
e Pegasus, il secondo decisamente smanioso di passare all’azione. Fu l’amico a
mettergli una mano su una spalla, incitandolo a trattenere la sua foga e a
liberarla solo per difendere la loro Dea, che da lui avrebbe ricevuto la
miglior protezione possibile. Avalon affiancò il Cigno, prendendolo per mano, e
sollevandosi in una cometa di luce argentata, che subito sfrecciò nel meriggio
di quel giorno.
“Buona fortuna, amici!” –Mormorò Pegasus, conservando nella mente
l’immagine unita dei cinque compagni, cinque dita della stretta mano tesa verso
il futuro.
Quando rientrò nella fucina, per chiedere quando Zeus sarebbe giunto,
notò che Efesto si era già rimesso a lavoro, preciso
e taciturno, sebbene i suoi movimenti fossero più lenti del solito, incapace di
lasciar passare anche solo un minuto senza fare qualcosa. Ermes, invece, sedeva
poco distante, inspirando ad occhi chiusi, per rilassare il corpo e recuperare
in fretta le forze. Demetra, al contrario, era scomparsa.
***
Quando Nyx udì quelle notizie esplose in una
risata soddisfatta, che ai guerrieri riuniti attorno a lei parve più il latrato
di una bestia affamata.
“Un’ottima scelta!” –Commentò, sorseggiando una coppa piena di liquido
rossastro, assisa su un vetusto scranno nel Santuario delle Origini.
“Lo credi davvero, mia Signora e Padrona?!” –Le rispose una voce atona,
parlando direttamente al suo cosmo.
“Dubiti di me?”
“Non mi permetterei! Intendo dire che… dei Cavalieri
dello Zodiaco, Andromeda è il meno incline alla battaglia, colui che trattiene
i pugni, sperando sempre di trovare un’altra via, che non preveda lo scontro o
la morte dell’avversario. Forse sarebbe stato opportuno scegliere un altro dei
cinque, magari il suo burbero fratello o il prode Pegasus, ben più dominati da
istinti e passioni?”
“È proprio la sua indole che gioca a nostro favore!” –Ghignò Nyx. –“Immagina la sua anima, i tormenti che proverà quando
capirà di stare servendo la nostra causa, senza potersi opporre! Una psicomachia completa avverrà dentro di lui, una battaglia
per l’anima che lo porterà alla disperazione, alla pazzia e infine alla morte.
Sarà lui stesso a togliersi la vita, invocando la fine della sua dannata
esistenza, e prima di farlo, trascinerà i compagni nell’abisso con sé. Non
sarebbero capaci, del resto, di lasciarlo affogare da solo!”
“E se fosse la parte buona e speranzosa a vincere? La parte che ha
ardito persino contrastare il Dio che l’aveva posseduto?!” –Congetturò la voce
atona, rivelando una punta di incertezza cui la Dea della Notte rispose con un
ghigno, distruggendo la coppa che stringeva tra le mani e macchiandosi la veste
con il sangue colà contenuto.
“In tal caso… abbiamo ancora un’arma dalla
nostra parte! Non dimenticare di chi è stato il ricettacolo, quel giovane
Cavaliere. Un’ombra che sarà lieta di schierarsi dalla parte giusta! Dalla
parte dei vincitori! Ah ah ah!”
“Sì, Signora della Notte!”
–Commentò la voce che stava parlando al suo cosmo, prima di svanire, lasciando Nyx ai suoi pensieri.
Era soddisfatta, la Prima Dea, di
quanto l’ombra trovasse terreno facile per avanzare, germogliando persino nei
cuori più puri. Del resto Anhar glielo aveva detto,
quel giorno, quando l’aveva trovata nelle montagne della Morea;
le aveva detto quel che sarebbe stato in grado di fare, qualcosa per cui non
era necessario neppure spendere troppo tempo e risorse. Distruggere i regni divini. E lo avrebbe fatto nel modo più
semplice, facendoli scontrare tra di loro, annientandone le forze d’attacco,
livellando le loro difese e lasciandoli infine soli e nudi ad attendere la
punizione finale, quella che li avrebbe colpiti il giorno del secondo avvento.
Pur con qualche insuccesso,
l’Angelo Oscuro aveva avuto ragione. I Cavalieri di Atena e di Zeus erano stati
decimati da guerre che non avevano idea del perché fossero combattute, ed
eguale sorte avevano incontrato i seguaci di Odino, Nettuno e delle altre
Divinità Olimpiche, i cui eserciti erano stati cancellati dalla storia. Persino
Amon Ra era rimasto vittima dei suoi trucchi e
proprio quando gli altri Dei lo avevano abbandonato, incapaci di comprendere
quanto importante per lui fosse il figlio avuto da una Sacerdotessa greca, lui
fu l’unico a consolarlo, a spingerlo ad andare avanti, a perseverare in quella
politica di chiusura che lo avrebbe poi condannato a un volontario esilio.
Ed eccoli adesso! In quanti resistono ancora al vento nero che soffia
dal Gobi? Ben pochi ormai! Enumerabili sulle dita di un Centimane! Ironizzò
Nyx. Peccato
che non ne esistano più!Caduti,
anch’essi, sotto il fuoco letale di Tifone durante la Grande Guerra scatenata
da Ares!
“Ridi e pasteggi senza
coinvolgermi nel tuo piacere, madre e sposa?!” –La interruppe allora una tetra
voce, mentre una figura di pura ombra le si avvicinava, camminando a passo
deciso tra i silenziosi guerrieri inginocchiati di fronte al trono. Guerrieri
che, Nyx ben lo sapeva, avrebbero combattuto, ucciso
e massacrato ad un suo semplice gesto, ma che, in quel preciso momento,
tremarono, scossi nel profondo dell’anima da un gelo mai percepito prima. Un
soffio di morte che parve insinuarsi sotto le loro armature, scardinando cotte
e difese, e solleticare le loro pallide schiene, ricordando loro di essere
creature mortali. E, per tal motivo, spezzabili.
“Credevo tu stessi ancora
riposando, Signore delle Tenebre! Gli Asura e i Jinn di cui Polemos ti ha fatto
dono, nella sua sortita notturna, non erano alla tua altezza?!” –Commentò la
Prima Dea, nient’affatto intimorita dalla sua presenza. Quindi, mentre questi
raccoglieva un frammento del calice insanguinato, portandolo alla bocca ed
assaporando il delizioso nettare divino, fece un cenno ai soldati rimasti, che
si allontanarono rapidi e ben lieti. Per quanto fossero tutti devoti al loro
creatore, accanto a Erebo non volevano, né potevano, restare, consapevoli
dell’infausta sorte in cui incorreva chi a lungo la sua stessa aria respirava.
“Ahrahrahr! Non è di riposo che ho
bisogno, ma di colmare quest’immensa fame che mi porto dentro e ben poco
giovamento ho potuto trarre da quegli ammuffiti Dei, così vecchi da sembrare
uomini decrepiti! Ben altre voglie necessito di saziare!”
“Sarei ben lieta di condividere
ogni piacere con te!”
“Ci sarà tempo per questo! Ora
dimmi, Nyx, quando potrò bere dal cranio reciso dei
potenti, quanto sconsiderati, Dei che si dichiarano nostri avversari? Quando
potrò ubriacarmi del prezioso icore di Zeus Tonante, Nettuno, Atena o di colui
con cui ti sei confrontata sulla Luna? Di interessanti poteri, da quel che mi
hai raccontato, ha fatto sfoggio! Interessanti e arcani!”
“Temo che dovrai sbrigarti a
scendere in guerra, Tenebra Infernale, o ben pochi Dei rimarranno con cui
divertirti!” –Ridacchiò Nyx, spostando indietro i
suoi lunghi capelli viola. –“Il nuovo Lord Comandante delle Armate delle
Tenebre marcia su Karnak, distruggendo templi e città in quella terra desertica
che negli ultimi anni ha conosciuto una certa rinascenza. Poco più a nord, i
nostri sfavillanti figli stanno conducendo il titano dormiente sulle rive del
Mediterraneo a radere al suolo Atene e l’Olimpo. Pare che a noi siano rimasti i
due regni più sguarniti!”
“Avalon e Asgard? Umpf, un’isola di sterpi e meleti, racchiusa in perenni
nebbie, e una rocca a picco sul mare d’inverno? Buoni per stimolarmi a
colazione, ma per pranzo gradirei un piatto ben più sostanzioso! Che ne è del Cronide? Si è rintanato sull’Olimpo assieme ai suoi
tirapiedi? O di nuovo lo hanno abbandonato, rintanandosi in Africa, come quando
Tifone marciò sul Monte Sacro?”
“Di Zeus non ho notizie. Al
momento sembra scomparso.” –Commentò la Dea della Notte, incupendosi per un
istante. –“O sta celando i suoi spostamenti o è già morto, ma dubito della
seconda prospettiva! Gli altri Olimpi invece sono in Sicilia, ho percepito il
radunarsi e l’innalzarsi dei loro cosmi poc’anzi, prima di averne conferma
dalla Divinità nostra alleata!”
“Non mi fido per nulla! La sua
stirpe è fallimentare!” –Precisò Erebo, fissando Nyx
con occhi di brace, l’unica nota di colore in un volto completamente nero. E,
sebbene lei non potesse esserne certa, parve alla Dea di vedere un ghigno
perverso allungarsi sul viso del Progenitore. –“Non sono mai stato in Sicilia,
sai? Se il Fabbro Olimpico ha creato nuove armature, sarebbe scortese, da parte
mia, non fargli visita e aiutarlo a testare la validità dei suoi lavori! Oh sì,
ne verificherò la resistenza quanto prima! Ti unisci a me, madre Notte?”
“La proposta mi aggrada, possente
Erebo, ma un altro luogo richiede la mia attenzione!” –Sibilò lei, prima di
assumere forma di uccello nero e volare via. –“Su un’altra Divinità cadrà la
mia vendetta!”
Capitolo 6 *** Capitolo quinto: Il signore delle tenebre ***
CAPITOLO QUINTO: IL
SIGNORE DELLE TENEBRE.
Agamennone del Leone di Nemea
sbadigliava stanco.
Seduto su una roccia sporgente,
sul versante orientale dell’Etna, osservava il mare incresparsi in lontananza,
afflitto da un’inquietudine che pareva saturare cielo e terra. Di tutti gli Heroes risvegliati al servizio di Eracle, egli era quello
che maggiormente smaniava di combattere, colui che, pregno di ardimento, ad
un’avventura eroica mai avrebbe offerto le spalle. Per questo soffriva e
sospirava sconsolato, nel rimanere inerte a proteggere gli Olimpi.
“Non siamo cani da guardia!”
–Borbottò per la settima volta in pochi minuti. –“Ma leggendari Heroes di Eracle! Zeus se lo è forse dimenticato quando ci
ha confinato su quest’isola? Si è dimenticato i nostri scontri con gli emissari
della sua consorte?”
“Non parlare male di colei che ci
ha riportato in vita, Agamennone! Sebbene astio abbia dominato i rapporti tra
Era e il nostro Signore, il tempo e il perdono hanno vinto su quell’immotivato
odio e rinverdirlo sarebbe inappropriato!” –Intervenne allora una voce pacata,
facendo voltare il guerriero verso il pendio, ove l’elegante sagoma di un
compagno era appena comparsa. –“Inoltre non credo tu abbia bisogno di
dimostrare il tuo coraggio né la tua devozione alla causa, non essendo mai
stata messa in discussione. Né da noi, né tantomeno dal Sommo Eracle!”
“Non ripetermi concetti già noti,
Marcantonio! Sto solo dicendo che, dopo più di due secoli trascorsi in un limbo
da cui non credevo saremmo mai usciti, fremo adesso al pensiero di passare
all’azione! L’artiglio del Leone di Nemea, che il nostro Signore recise dalla
ferina bestia, facendomene dono, necessita nemici da sbranare! È una furia, il
seme di giustizia che in me alberga, che non può essere placata!”
“Sono certo che presto avrai la
tua occasione, rampante leone! La avremo tutti!” –Commentò il compagno dai
folti capelli corvini, poggiandogli una mano su una spalla, prima che un
fischio li distraesse entrambi. –“Lo senti anche tu?!” –Avvampò all’istante,
guardandosi attorno con circospezione.
“Cos’è questo stridore? Sembra… una moltitudine di fischi! Un suono che va
aumentando di intensità!”
“Ahuahuahu! Morite, stolti!”
–Ringhiò una cupa voce, mentre migliaia di strali di nera energia piovevano sui
due Heroes, costringendoli a spostarsi prontamente
per evitare di essere trafitti. Ma per quanto celeri fossero nei movimenti, non
poterono impedire a quel diluvio di dardi di raggiungerli, martoriando i loro
corpi, ferendoli laddove le armature non li proteggevano, scheggiando e
trapassando le stesse.
“Maledizione! Questa pioggia… è così intensa… che non
riesco neppure a capire da dove provengono gli attacchi!” –Imprecò Agamennone,
prostrato a terra da uno strale che l’aveva raggiunto alla caviglia destra.
“Cadono da ogni direzione,
dall’alto e dai fianchi, percependo ogni nostro minimo spostamento!” –Aggiunse
il compagno, raggiungendolo di corsa ed afferrandolo, in modo da tenerlo vicino
a sé, mentre espandeva il proprio cosmo. –“Per cui, c’è solo un modo per ripararci!
Specchio delle stelle!” –Esclamò,
generando la muraglia di energia che, espandendosi su ogni lato, li circondò,
assumendo la forma di un cubo. –“Adesso dovremmo essere al sicuro! Lo specchio
è in grado di respingere ogni attacco e di reinvi…”
–Ma le parole gli morirono in bocca quando si accorse che i neri dardi
trapassavano, senza fatica, la sua difesa, conficcandosi nelle loro carni e
facendoli sanguinare.
“Aaargh!!!”
–Gridò il fedele di Eracle, proprio mentre la frustrazione per lo stallo invadeva
l’animo di Agamennone, portandolo a concentrare il cosmo attorno al braccio
destro, liberando un attacco a raggiera. –“Artigli
del Leone di Nemea!!!” –Gridò, roteando su se stesso e scatenando migliaia
di fasci di energia azzurra che tentò di opporre al martellante diluvio di
ebano. Riuscendovi solo in parte.
“Doppiamente stolti.” –Sibilò la
voce cavernosa di chi li stava attaccando, mentre una sagoma di pura tenebra
piombava su di loro, più veloce persino dei suoi stessi affondi, lasciando
esplodere un’enorme sfera di energia nera e distruggendo il loro pallido
tentativo di resistenza. Compiaciuto, l’appena giunto avversario si voltò per
ammirare il frutto del proprio lavoro, i corpi ustionati di Marcantonio e
Agamennone che giacevano a una ventina di metri di distanza, laddove la
detonazione li aveva scagliati, con le belle armature già distrutte e i volti
contratti da spasimi di dolore.
Fu allora che un’ombra si allungò
sul terreno, portandolo a sollevare appena lo sguardo verso la vetta, laddove un
nuovo guerriero, dall’armatura dotata di ali, si era appena lanciato su di lui,
scagliandogli contro un laccio di pura energia. Incuriosito e divertito da
quella stramba tecnica di lotta, il massacratore di eroi lo lasciò fare,
osservandolo mentre planava di fronte a lui, con sguardo determinato e
compiaciuto, e liberava una corrente energetica molto forte, che percorse
l’intera lunghezza del lazo, solleticando il tenebroso corpo di colui che aveva
attaccato l’Etna. Ma, a parte strappargli una smorfia di tediato disappunto,
non ebbe altro effetto.
“Tutto qui?” –Commentò, mentre il
suo venefico cosmo oscuro disgregava il cappio attorno al suo collo, e la sua
mano destra ne afferrava la cima, lasciandovelo fluire, fino a prostrare a
terra il fedele di Eracle, scosso da così intense convulsioni da impedirgli
persino di respirare. Il nemico lo osservò ancora un istante, mentre vomitava
sangue e liquidi interni, insozzando la sua stessa corazza, prima di muovere la
testa con rincrescimento, scuotere il lazo e sollevarlo con un’onda di energia
oscura, che lo travolse e schiantò molti metri più a valle. –“Tutta quella
freddezza non si accompagna ad eguale forza!” –Analizzò, prima di voltarsi e
trovarsi di fronte il quarto, ed ultimo, guerriero di Tirinto,
la cui stazza, robustezza e possanza superavano quelle dei compagni.
“Ruggito dell’Orso Bruno!!!” –Tuonò
il muscoloso seguace di Eracle, investendo l’invasore con una devastante
corrente di energia, simile alla zampata di un gigantesco plantigrado, che lo
scaraventò in alto, senza impensierirlo minimamente. Con un agile colpo di
reni, la sagoma tenebrosa si lasciò trascinare dalla tempesta, per poi
atterrare stabile sulle proprie gambe, attorno alle quali già avvampavano
strati di cosmo oscuro che, ad un comando del loro padrone, penetrarono nel
terreno, scivolando verso l’indifeso guerriero.
“Addio.” –Si limitò a commentare
la cupa figura, mentre il suolo esplodeva sotto i piedi di Nestore dell’Orso,
scagliandolo in aria e martoriandone il corpo con migliaia di strali
energetici, fino a precipitarlo a pochi metri dai compagni feriti. –“E ora… Ne
manca solo uno!” –Rifletté, voltandosi verso la cima dell’Etna, contro cui si
stagliava una ferma sagoma corazzata, con una clava in mano e lo sguardo fisso
su di lui. –“Bentrovato figlio di Zeus! Sei risorto
giusto in tempo per morire di nuovo! Sarà un onore confrontarmi con te, che
così tante storie, leggende e canti hai ispirato! Sarò lieto di contribuire
alla diffusione del mito, o forse dovrei dire alla demolizione dello stesso!
Peccato che nessun aedo sopravvivrà per cantare le tue gesta!”
“Chi sei?” –Chiese soltanto il
figlio di Zeus, che non riusciva a ritrovare in quell’orrida forma nessun
aspetto degli Dei che aveva conosciuto tempo addietro.
“Mi hanno chiamato in molti modi,
sebbene gli uomini preferissero non avere a che fare con me! A differenza degli
Dei gemelli, io non sono mai stato portatore di luce!” –Chiosò la tetra figura,
avanzando verso Eracle, mentre attorno a sé si espandeva il suo mortifero cosmo
oscuro, simile ad un mantello che lesto si affrettò a ricoprire l’intero
versante orientale del vulcano. –“Nacqui Nyx, prima
figlia di Caos, che fu mia madre e consorte, con cui concepii Etera e Emere! Io sono l’Oscurità Primordiale, il buio profondo
degli abissi infernali! Io sono il Primo Dio procreato, il Tenebroso
Progenitore che risponde al nome di Erebo!”
“Dovrei esserne impressionato?!”
–Ironizzò Eracle, cercando di nascondere il nervosismo che invece, agli occhi
di Erebo, appariva sempre più palese, tanto più si avvicinava a lui, tanto più
l’alito nero pareva lambirlo. –“A cuccia, bestia!” –Tuonò, muovendo la clava di
lato, generando al qual tempo un’onda di energia lucente che si abbatté su
Erebo. O, quantomeno, così il figlio di Zeus avrebbe voluto.
Gli bastò sollevare un braccio,
alla Tenebra Ancestrale, per parare l’affondo nemico, lasciando che si
disperdesse sul palmo della propria mano, per poi chiuderla e stringere le
dita, liberando al qual tempo un’esplosione di energia che sradicò Eracle dal
terreno, scagliandolo in alto e facendogli persino perdere la presa sulla
clava.
“Al pari dei tuoi guerrieri,
barbari privi di raziocinio, sei stolto!” –Si limitò a commentare Erebo,
sollevando il braccio destro al cielo, attorno al quale turbinava il proprio
cosmo oscuro, che assunse presto forma di affilati strali di energia. –“E per
primo morirai, Eracle! Danza di daghe!!!”
La pioggia di dardi oscuri si
abbatté sul Protettore degli Uomini da ogni direzione e per quanto egli
cercasse di evitarla, dimenandosi o contrattaccando con pugni di energia, venne
comunque raggiunto e ferito, sia pur in quantità minore rispetto agli Heroes. Infuriato per la loro sorte, cui stava cercando di
non pensare per non lasciarsi distrarre dai sentimenti, decise di rispondere
all’offensiva di Erebo, con un attacco ad ampio raggio che potesse disperdere
quel profluvio di daghe nere.
“Fede negli uomini!!!” –Gridò, liberando il colpo che aveva
insegnato ai Comandanti delle sue Legioni e che, a modo loro, sia Iro che Alcione, Marcantonio e Nestore avevano fatto
proprio.
La tempesta energetica travolse
quella miriade di strali oscuri, disperdendone alcuni, ma bastò un gesto di
Erebo, un semplice movimento del suo braccio, affinché quegli stessi dardi si
ponessero di fronte a sé, a formare una fitta muraglia di tenebra contro cui
l’assalto di Eracle si esaurì, strappando una smorfia di disappunto al figlio
di Zeus. Sogghignando, il Nume primordiale mosse di colpo l’arto destro,
rinvigorendo la Danza di Daghe e
scagliandola contro l’avversario in linea diretta.
“Maledetto!” –Ringhiò Eracle,
spostandosi di lato, nel disperato tentativo di evitarla, ma venne comunque
trafitto in più punti, perdendo l’equilibrio e ruzzolando sul pendio
accidentato, di fronte allo sguardo divertito di Erebo, sempre più inebriato da
quello scontro che, dall’odore di cosmi che poteva avvertire a breve distanza,
si prospettava a dir poco grandioso.
Volgendo lo sguardo verso la
vetta, il Nume Ancestrale notò un leggero filo di fumo uscire dalla bocca, e
allora si ricordò che stavano combattendo sulle pendici di un vulcano ancora in
attività. Torse le labbra nere in un ghigno mellifluo, dicendo a se stesso che
avrebbe fatto il possibile per favorire l’ultima eruzione dell’Etna, la più
spettacolare di tutte. Oh sì, doveva esserlo, in modo che persino Nyx avrebbe potuto ammirarla da lontano! Un tripudio di
lava, terra e corpi smembrati dei suoi avversari! Sghignazzò fiero, prima di
riportare lo sguardo sul figlio di Zeus e caricare ancora.
***
Non appena esplose il cosmo di
Erebo, all’interno del vulcano Efesto ed Ermes
trasalirono, scambiandosi un’occhiata allarmata. Anche Pegasus lo avvertì, come
avvertì il rapido succedersi della battaglia, l’avvampare e lo spegnersi dei
cosmi di coloro che avrebbero dovuto difenderli dall’avvento delle tenebre.
Persino il Sommo Eracle, la cui vigorosa aura aveva ricordato a Pegasus quella
di Zeus, quando l’aveva percepita per la prima volta alla Torre del Fulmine,
pareva vacillare.
“Chi può tanto?!” –Si chiese il
ragazzo, percependo quanta oscurità si ammassasse in quell’avversario appena
giunto sull’Etna.
Fu il tocco gentile di Ermes a
risvegliarlo dai suoi pensieri, tocco che anticipò una voce concitata.
–“Vattene, Pegasus! Va’ via, ora!!!”
“Divino Ermes…ma… questo cosmo oscuro? È molto simile a quello di Nyx, ma, se possibile, ancora più tenebroso!”
Ermes annuì, mentre anche Efesto lo affiancava,
consapevoli entrambi che soltanto un’entità poteva possedere un’aura così
mortifera e cupa. Di ancestrale lignaggio, figlio della Notte e generatore
dei fratelli di luce. Poteva essere soltanto lui, il cui nome col tempo era
passato a indicare il Tartaro più profondo, ove nessuna forma di luce mai era
giunta. Un luogo di pura oscurità.
“Erebo...” –Mormorò Ermes,
inghiottendo a fatica, e il solo pronunciare quel nome gli costò una fitta al
costato, che quasi lo fece vomitare sangue.
“Messaggero Olimpico…”
–Tentò di intervenire Pegasus, mentre già la robusta mano di Efesto si posava sul pettorale della sua armatura divina,
rinnovandogli l’invito ad andarsene.
“Egli non è nemico alla tua
portata, Cavaliere! Né lo sarebbe se tu avessi la corazza forgiata col sangue
di Zeus o di tutti gli Olimpi, poiché nessuna Divinità è in grado di tenergli
testa!”
“A maggior ragione voglio restare
e combattere al vostro fianco! Non potrei mai abbandonarvi in quest’ora buia!
Già Avalon, sulla Luna, mi disse di andarmene, che avrebbe affrontato Nyx da solo! Ma io non lascerò mai un amico da solo!”
“Ciò ti fa onore, Cavaliere, ma non
ha senso morire tutti qua!” –Lo rassicurò Ermes con ritrovata calma nella voce.
–“Devi salvarti! Se la profezia di Avalon è corretta, e non ho motivo di
paventare il contrario, sei la luce che illuminerà l’ora più buia della Terra!
Sei la speranza di tutti noi, uomini e Dei!”
Proprio in quel momento una
gigantesca esplosione scosse l’intera superficie del vulcano, aprendo uno
squarcio sul versante orientale, da cui una tenue luce iniziò a filtrare poco
dopo, rischiarando la fucina sotterranea. Ermes, Efesto
e Pegasus, sbalzati a terra dalla detonazione improvvisa, si rialzarono giusto
in tempo per osservare una sagoma avvicinarsi barcollando.
I rosacei capelli bruciati in più
punti, il volto fiero ridotto ad una maschera di sangue, l’armatura e le sue
stessi vesti ustionate, distrutte, martoriate fino alle ossa, che tetre
sporgevano dal fisico atletico. Il glorioso Agamennone, che aveva un
tempo lottato contro il Vento del Nord sulla cima di Larissa,
pareva essere stato scuoiato da un branco di licaoni affamati.
“Mi…dispiace…” –Mormorò, usando le ultime stille del proprio
cosmo. –“Abbiamo provato a fermarlo. Abbiamo…
fallito! Non siamo degni del titolo… di eroi…” –Pianse il fedele di Eracle, crollando sulle
ginocchia, lo sguardo perso ormai in un passato di epici ricordi, cui si
aggrappò mentre la vita lo abbandonava.
Pegasus si mosse per sorreggerlo,
ma in quel momento una lama di cosmo nero spuntò dal ventre del guerriero,
trapassato e poi sollevato con estrema facilità da una figura alta e snella,
rivestita da un’aura venefica.
“Di niente sei degno, gattino
spelacchiato, solo di morire!” –Commentò con disprezzo il nuovo giunto,
muovendo il braccio e scagliando il cadavere di Agamennone dentro la fornace
accesa, ghignando compiaciuto quando prese fuoco. –“Ho sempre adorato l’odore
di carne arrostita!”
“Lurido bastardooo!!!”
–Avvampò Pegasus, mentre già una sfera di luce circondava il proprio pugno
destro, ma prima che potesse scagliarsi contro di lui venne afferrato
dall’algida presa di Ermes, che lo fissò negli occhi, intimandolo di non
commettere sciocchezze.
“Rimani lucido!”
“Ahuahuahu! Lascialo correre, buon
vecchio Ermes! Lascia che il cavalluccio di Atena spalanchi le ali e si getti
incontro alla morte! Sarò ben lieto di abbracciarlo!” –Rise il Nume ancestrale,
permettendo a Pegasus, in quel momento di relativa calma, di osservarlo con
attenzione, attratto e al tempo stesso disgustato da una figura mai incrociata
prima.
Alto e agile, sembrava avere il
fisico di un uomo atletico, sebbene ben poco di umano trasudasse dal suo corpo.
Se avesse dovuto azzardare un’ipotesi, a Pegasus sembrò di trovarsi di fronte
un’ombra, come quelle che avevano affrontato quando Flegias
le aveva evocate tramite l’antica maestria, ma corazzata, rivestita di una
lucida armatura nera, a tratti trasparente, dentro cui parevano muoversi sagome
evanescenti. Era una protezione pressoché integrale, ma molto leggera a
vedersi, che gli permetteva di flettere gli arti con naturalezza, quasi fosse
cresciuta sulla sua stessa pelle. Di essa, Pegasus non seppe dire alcunché, in
quanto non vi erano zone scoperte del suo corpo, neppure il volto, riparato da
un elmo a maschera che lasciava libera solo una parte attorno agli occhi.
Rossi, come quelli di Flegias e come le braci sopra
cui ardeva il corpo lacerato di Agamennone. L’unica nota di colore in quella
tenebra infinita.
“Ammiri i miei occhi, Cavaliere di
Pegasus? Di ben raro colore sono, nevvero?” –Rise Erebo, spiegandone l’origine.
–“Un vezzo che mi sono concesso! Ho giurato a me stesso che, fintantoché luce
avesse continuato ad esistere e ad emettere calore di speranza, non sarei
divenuto completamente nero, a ricordarmi il motivo per cui lottare ancora!
Soltanto quando l’ultimo baluginio sarà stato spento, assurgerò ad essere ciò
per cui sono nato, la più completa tenebra ancestrale!”
“Sei folle!!!” –Ringhiò Pegasus,
cui il Nume rispose con una risata sprezzante.
“Tutt’altro! Ogni mio passo è
mosso da un calcolo preciso, Cavaliere di Atena! Mai Erebo si muove se non per
un fine inequivocabile! Per questo sono giunto fin qua, nella fucina degli
Olimpi, per togliervi ogni possibilità di armarvi e difendervi! Oltre alla
forza bruta, che di certo non mi manca, come Eracle e i suoi accoliti
potrebbero testimoniare, se respirassero ancora, ci vuole anche strategia in
guerra! Non credi?”
“Quello che credo è che devi
sparire!” –Avvampò il paladino di Atena, scattando avanti e rivolgendogli il
pugno teso, mentre migliaia di lampi celesti esplodevano di fronte a sé, saettando
sul nemico alla velocità della luce. –“Fulmine
di Pegasus!!!”
“Yawn!!!”
–Sbadigliò annoiato la Tenebra Infernale, limitandosi a spostarsi di lato,
mentre i pugni del ragazzo sforacchiavano la parete alle sue spalle.
Che… cosa?! Si è mosso ad una velocità elevatissima! Neppure gli Olimpi o
Odino si spostavano così rapidamente! Rifletté Pegasus, senza comunque
scoraggiarsi. Non era certo il primo nemico che riusciva ad evitare il suo
colpo segreto e che poi ne veniva sconfitto, con l’espandersi del suo cosmo. Si
voltò per ritentare l’attacco, ma vide che Erebo, ignorandolo, era già andato
oltre.
Con un balzo aveva raggiunto
Ermes, colpendolo con un pugno in pieno stomaco e facendolo piegare sul suo
braccio, mentre artigli di tenebra si allungavano dalla sua stessa corazza
trapassandolo allo sterno e facendogli sputare sangue. Ancora non pago, Erebo
lo scosse come fosse un cencio, sbattendolo a terra e calpestandolo con il
tacco della sua corazza, mentre Efesto, poco
distante, già bruciava il proprio cosmo.
“Lava incandescente!!!” –Tuonò il figlio di Zeus, portando avanti le
braccia e dirigendo contro di lui getti di magma ardente, che il Nume
ancestrale fu lesto ad evitare, balzando indietro, poi in alto e ancora più in
alto, dandosi slancio sulle sporgenze della caverna e sulle attrezzature della
fucina, fino a ritrovarsi a camminare a testa in giù sul soffitto, rivolgendo
al fabbro il più bastardo dei suoi ghigni.
“Crepa, gobbo!” –Lo derise,
puntandogli contro l’indice destro, da cui un lampo nero scaturì all’istante,
concretizzandosi in una selva di dardi che piovve contro di lui. Stanco e
rallentato, il Nume Olimpico non riuscì a muoversi, poté solo sollevare una
muraglia di lava a sua difesa, che venne crivellata all’istante.
Fu allora che Pegasus caricò di
nuovo, infastidito perché Erebo pareva ignorarlo e concentrare sui due Dei i
suoi attacchi. –“Fulmine di Pegasus!!!”
–Gridò di nuovo, scattando avanti con il braccio destro teso. Ma bastò che la
Prima Tenebra volgesse lo sguardo su di lui, fissandolo tenacemente con i suoi
occhi rossi, che la sua corsa si infiacchisse ed egli crollasse a terra,
travolto da un improvviso senso di nausea.
“Che…
diavolo succede? Che mi stai facendo, vigliacco?!”
“Niente! Ti sto solo mostrando
quanto vasta e profonda sia l’oscurità su cui impero, Cavaliere! Se hai sempre
creduto che il buio fosse soltanto quella parte della giornata successiva al
tramonto, allora sarò lieto di demolire i tuoi sogni adolescenziali! Ahuahuahu!
La vera tenebra è infinita!!!” –Gridò, piombando su di lui, le dita della mano
allungate a guisa di lame oscure, piantandole nello schienale dell’armatura del
Cavaliere, proprio dove erano affisse le ali celesti, e strappandogli un grido
di dolore. –“È uno spazio abissale che si estende dove la luce fatica ad
arrivare, un regno persino più oscuro e periglioso del Tartaro, un’agonia
immensa di forme indistinte! Presto ti ci precipiterò, così mi ringrazierai per
averti aperto le sue porte! E con te vi confinerò tutti coloro che ancora
tentano di resistere all’avvento delle tenebre!”
“Ma…
Mai!!!” –Strinse i denti Pegasus, espandendo il proprio cosmo azzurro, che
stupì persino Erebo da quanto fosse vasto per essere quello di un comune
mortale. Spalancò di scatto le ali della corazza, liberandosi dalla presa del
Nume, servendosene per sollevarsi eretto, già con il pugno ricolmo di energia
cosmica. –“Assaggia la mia luce!!!”
“Divertente!” –Sibilò Erebo,
aprendo il palmo della mano, su cui l’affondo di Pegasus impattò, così
rimanendo per qualche istante, il primo avvolto nel suo tetro cosmo venefico,
la cui sola vicinanza era fonte di spasimi e infiacchimento per il Cavaliere,
che continuò comunque a rigettare tutta la propria energia in quel pugno, fino
all’ultima stilla che fosse stato in grado di generare. –“Ma inutile!”
–Commentò il compagno di Nyx, mentre la tenebrosa
aura circondava il braccio del ragazzo, risalendo a spirale verso il suo volto,
logorando le sue forze e le sue difese.
Con orrore, Pegasus vide
l’armatura riparata da Efesto mesi addietro creparsi
e poi andare in frantumi, mentre le schegge di oricalco venivano letteralmente
vaporizzate da quell’alito mortifero. La sua stessa pelle bruciò,
costringendolo ad urlare, mentre macchie nere iniziavano a costellargli il
braccio, le unghie si sfaldavano e le ossa parevano cigolare, senza che egli
potesse fare alcunché, bloccato sul posto dalla volontà di Erebo, deciso ormai
a disintegrarlo del tutto.
Fu Ermes a spezzare la
concentrazione del Nume ancestrale, evocando la magica bacchetta di cui era
custode e puntandola contro di lui.
“Caduceo!!!” –Gridò, liberando un raggio di energia celeste che
investì Erebo su un fianco, senza provocargli danno alcuno, solo una sottile e
sorpresa risata.
“Ancora vivo, Messaggero?! Beh,
potrebbe non essere un male. Potrei inviarti sull’Olimpo, dal tuo padrone,
zoppo e cieco e con una collana di teste decorative attorno al collo, in modo
che anch’egli abbia chiaro quale sorte infausta attende chi la Tenebra
Ancestrale decide di sfidare!” –Declamò, muovendo il braccio destro verso di
lui, scatenando un’onda di pura energia. –“Perché contro l’ombra sorgente non
vi è vittoria! Solo una notte infinita!!!”
Ermes fu svelto a balzare in alto,
venendo soltanto sfiorato dall’assalto, proprio mentre colonne di magma ardente
sorgevano attorno ai piedi di Erebo, allungandosi verso il soffitto e poi
convergendo tutte su di lui, intrappolato in quell’improvvisa prigione che Efesto, apparso alle sue spalle, aveva appena sollevato. Fu
con una gran risata che il Nume ancestrale fece esplodere il suo cosmo,
disintegrando quell’effimera gabbia di magma e scaraventando Pegasus, Efesto e persino Ermes, ancora in volo, molti metri
addietro, contro le pareti della caverna, mentre l’intero vulcano tremava,
scosso in profondità, così vicino al nucleo.
Nonostante l’armatura danneggiata
e le ferite aperte, il Messaggero di Zeus tentò di rimettersi in piedi,
annaspando al suolo alla ricerca del Caduceo. Fu uno scricchiolio sinistro che
gliene indicò la posizione, costringendolo a voltarsi proprio mentre Erebo,
avvicinatosi, ne completava la distruzione, spezzandolo in due sotto il suo
tacco. Con l’altra gamba, intanto, stava già per colpire Ermes in pieno volto,
quando il Dio riuscì a sollevarsi, incrociando le braccia davanti a sé e parando
in parte l’affondo.
“La legge sovrana di ogni cosa,
mortale e immortale, guida facendola giusta l'azione più violenta con mano
suprema!” –Commentò Erebo, citando un poeta greco. –“E mia è la mano suprema,
mia l’azione più violenta!” –Aggiunse, scaraventando Ermes contro i tavoli da
lavoro della fucina.
“Ehi, occhietti rossi!” –Lo chiamò
allora Pegasus che, a fatica, si era rimesso in piedi, tenendosi l’arto
massacrato con l’altro braccio.
“Cavaliere di Atena, ancora vivo?
Tanta resistenza mi sorprende! Hai del potenziale! Peccato che non vivrai
abbastanza per vedere quanto posso espandersi!” –Sghignazzò, sollevando il
braccio destro, attorno al quale spirali di cosmo oscuro subito si agitarono,
assumendo la forma di daghe nere. –“Danza
di…”
“No!!!” –Tuonò allora una quarta
voce, mentre una robusta figura compariva alle spalle di Erebo, chiudendogli le
braccia in un’algida stretta avvolta dal suo cosmo incandescente.
“Eracle!!!” –Lo riconobbe Pegasus,
sebbene del magnifico splendore sfoderato poche ore prima non avesse più
niente.
L’armatura danneggiata, il volto
livido e tumefatto, il peso sul cuore per la sorte dei suoi Heroes.
Ciononostante il Vindice dell’Onestà aveva ancora la forza di lottare e di
gridare al Cavaliere di Atena di mettersi in salvo.
“Molte volte la Dea della Guerra
Giusta mi ha aiutato, in passato, anche due secoli fa! Permettimi di
ricambiarle il favore! Vattene, ragazzo!!!”
“Una domanda soltanto, mio
nerboruto amico!” –Ironizzò Erebo, iniziando a bruciare il proprio cosmo. –“In
quale altro posto dovrebbe andare, quel moribondo Cavaliere, a parte il
profondo Tartaro ove mi confinerò tutti? Quantomeno quel che rimarrà dei vostri
sbriciolati corpi!!!” –Gridò, liberando una devastante onda di cosmo oscuro che
travolse il figlio di Zeus, Pegasus e gli altri due Olimpi, scagliandoli di
nuovo contro le pareti della fucina sotterranea. Ma quella volta, non contento,
Erebo aumentò l’intensità dell’assalto, pressando sempre più i corpi degli
sventurati nemici nella terra e nella roccia, sfondandola e scaraventandoli
fuori dall’Etna, lungo quei devastati pendii ove già aveva massacrato gli Heroes. E dove adesso avrebbe strappato loro la vita. –“E
tu, Cavaliere di Atena, sarai il primo a spegnerti!” –Sibilò, apparendo sopra
Pegasus e calando la mano carica di cosmo su di lui.
Capitolo 7 *** Capitolo sesto: Attacco a Karnak ***
CAPITOLO SESTO: ATTACCO A KARNAK.
Nel deserto egiziano la temperatura era rovente. Non per il caldo
dovuto al pallido sole di mezzogiorno, che faticava a farsi strada nella cappa
oscura che stava avanzando da oriente, bensì per le fiamme di morte che alte si
levavano dalle rovine della Diga di Assuan fino a nord, lungo il devastato
corso del Nilo. Solo macerie restavano dei templi di Sobek
e di Horus, e delle cittadine di KomOmbo e Edfu, travolte dalla piena
del fiume e soprattutto dalla marcia inarrestabile dell’Armata delle Tenebre,
che aveva appena lasciato il segno nell’ultimo santuario incrociato durante il
cammino. Il tempio di Khnoum, presso Esna, che ancora fumava alle loro spalle.
Soddisfatto il Lord Comandante fermò i propri seguaci su una duna,
indicando loro una costruzione che sorgeva in lontananza, dopo una svolta del
Nilo verso oriente, la meta ultima del loro cammino. –“Karnak!” –Declamò, dando
mandato a Chimera di organizzare i reparti per l’assalto finale.
“Avete udito gli ordini del Lord Comandante? Avanzare, avanzare e distruggere!”
–Vociò il suo secondo, mulinando la lunga frusta di squame metalliche e
colpendo al volto, alle gambe, alla schiena i membri del suo esercito, in
particolare quel trio di sfaticati che aveva posizionato deliberatamente in
prima fila. –“Oizys! Marcia! Non vorrai deludere il
nostro Signore?”
“Non ardirei mai a tale oltraggioso comportamento!” –Si prostrò l’esile
Dio della Miseria. –“Pur tuttavia, se mi è concessa una piccola precisazione,
infima e infelice come il sentimento che incarno, vorrei chiedere, a sua
maestosa onnipotenza… perché non abbiamo attaccato
direttamente Karnak? Perché questa scarpinata sotto il sole?”
“Vile! Come osi questionare?!” –Ringhiò Chimera, sferzando la coda e
colpendo l’Astrazione così forte da spingerlo addosso ad Apate,
facendoli cadere assieme nella sabbia. –“Rialzati e fronteggia il tuo
giudizio!” –Lo ritirò su, sollevandolo di peso con la verga avvolta attorno al
suo collo, mentre lungo la stessa scricchiolavano scariche di energia pronte a
esplodere in una devastante fiammata.
“Buon vecchio Oizys!” –Intervenne allora
Polemos, avvicinandosi al figlio di Nyx, aprendo le
braccia in segno di pace e lasciando che i suoi raffinati abiti strusciassero
sul sabbioso suolo. –“Credevo fosse ovvio! Ricordi cosa hanno fatto i fedeli di
Amon Ra solo una manciata di ore fa? Quando sono
penetrati nel nostro Santuario, mettendolo a ferro e fuoco e uccidendo alcuni
dei nostri fratelli? Dei tuoi fratelli?!” –Gli disse, ponendogli un braccio sulle
spalle, mentre Chimera ritirava la frusta. –“Orbene non credi che, prima di
attaccare il cuore dell’impero, sia nostro diritto, nonché piacere, ripagare il
Sommo Ra con la stessa moneta? Io voglio che veda il suo mondo bruciare! Voglio
che senta le grida dei suoi fedeli, degli innocenti che popolano quest’afosa
landa, che maledicono il suo nome per non averli protetti! Così, quando
assaliremo Karnak, il suo spirito sarà prostrato dal dolore, afflitto dalla
perdita e pronto per tuffarsi in un combattimento suicida! Comprendi?”
–Ridacchiò, dandogli un buffetto sulla guancia. –“E adesso che hai capito,
muovi quel tuo flaccido deretano, se non vuoi incorrere nello stesso
trattamento!” –Aggiunse, stringendo un po’ troppo la pelle del Dio minore,
arrossandola, e allontanandosi sghignazzando.
“Mio Lord, i golem sono pronti!” –Lo raggiunse allora Chimera.
–“Apriranno la fila! Dopo di loro i soldati dell’Armata delle Tenebre, i Nefari dello Zodiaco Nero e infine gli Dei. Noi rimarremo
in fondo, sulla cima di questa duna, ad osservare Karnak bruciare e ad
ascoltare le urla di Amon Ra!”
“Un bel progetto, Vaughn! Un bel progetto! Ma
hai dimenticato una cosa…” –Esclamò Polemos, fissando
l’allievo negli occhi. –“Io non sto mai in fondo!” –Detto questo, espanse il
proprio cosmo, avvolgendo l’intero esercito in un unico abbraccio, sollevandolo
di peso e portandolo sull’altra sponda del fiume, agli inizi di quell’antico
viale decorato di sfingi di pietra che conduceva alla residenza del Sole
d’Egitto. –“Ora puoi mandare i tuoi soldatini avanti!” –Chiosò, mentre Chimera
faceva cenno ad un uomo smilzo e dai radi capelli di avvicinarsi.
“Jared del Golem di Sangue al vostro
servizio, miei signori!” –Si presentò, inchinandosi, mentre da ambo i lati
veniva sorpassato da centinaia di rozze figure, dall’altezza di almeno due
metri, che passarono oltre, iniziando ad incamminarsi lungo il Viale delle
Sfingi. Figure inespressive, composte interamente di sabbia, che Jared poteva creare e controllare grazie al proprio cosmo
oscuro e che di certo, in quella terra desertica, avrebbe potuto generare in
abbondanza. Motivo per il quale Polemos lo aveva scelto, oltre che per il suo
essere sacrificabile.
Non riuscirono ad avanzare neppure di cento passi che le figure di
sabbia vennero investite da una selva di raggi infuocati, disintegrandosi,
liquefacendosi al suolo, per quanto Jared continuasse
a plasmarne di nuove e a mandarle avanti, cercando con lo sguardo un ordine del
Lord Comandante. Chimera, dietro di lui, lo incitò a proseguire nella sua
opera, a generare centinaia di nuove sagome deformi, alcune soltanto abbozzate,
che mandò lungo il Viale delle Sfingi, fin dove potevano giungere prima che i
raggi di energia incandescente ponessero fine alla loro esistenza.
“Mio Signore… perdonatemi!” –Mormorò
imbarazzato il Nefario del Golem. –“Quei raggi
caloriferi sono nocivi per le mie creature! Io… non
riesco a controllarle oltre.”
“Poco importa! Mi hai mostrato quel che volevo vedere! La posizione dei
nostri nemici!” –Chiarì il Lord Comandante, poggiandogli una mano su una
spalla, complimentandosi per il lavoro svolto. –“Adesso, Cailleach!
Scatena la tempesta!”
Al suo comando, una donna dal viso butterato, rivestita da abiti
cenciosi, sollevò al cielo un bastone nodoso, pronunciando alcune parole in
gaelico antico. Come al Tempio di Horus, una tempesta d’aria e saette divampò
all’istante, abbattendosi sul complesso templare di Karnak, scheggiando le
piramidi e le sfingi, abbattendone alcune, mentre turbini feroci devastavano il
paesaggio, sollevando sabbia e sradicando le costruzioni attorno, fino a
rivelare quel che Polemos cercava.
Distrutti i loro nascondigli, divelte le protezioni, i Soldati del Sole
d’Egitto emersero nella tempesta, le lunghe spade che rilucevano sotto la
languida luce di mezzogiorno. Alcuni vennero sollevati dalla ferocia della
tempesta scatenata dalla Cailleach, altri vennero
fulminati dalle scariche che saturavano il cielo, morendo o venendo feriti
gravemente, finché un gruppo di loro non riuscì a radunarsi, faticando nel
resistere alla forza d’attrazione della tempesta, puntando le lame verso gli
invasori.
“Siete nella terra del Sole d’Egitto! Andatevene o morirete!”
–Esclamarono, mentre già le spade scintillavano di ardente energia cosmica.
“Potrei dirvi lo stesso!” –Commentò laconico il Demone della Guerra,
sfiorando la spalla del guerriero del Golem di Sangue, che già aveva infuso il
proprio cosmo al suolo di fronte a loro, ove alte si levarono le deformi sagome
di sabbia, intrappolando, ingabbiando, fagocitando i Soldati del Sole. –“Fin
troppo facile!” –Ridacchiò Polemos, ammirando comunque la tenacia con cui
tentavano di opporsi al duplice attacco, portato sia dal suolo che dal cielo.
“Ridi adesso, invasore, poiché presto piangerai!” –Declamò allora una
voce di donna, mentre una scattante figura correva a zigzag di fronte a loro,
schivando la selva di fulmini e distruggendo i golem semplicemente sfiorandoli.
–“E sarò io a farti piangere! Io, Bastet, la Dea
gatta al servizio di Sekhmet!” –Aggiunse, balzando in aria, avvolta dal suo
cosmo argentato, e piombando poi in picchiata, mirando al volto del Lord
Comandante.
“Al tuo posto, gattina!” –Intervenne allora Chimera, srotolando la
lunga coda serpentiforme e afferrando la Dea per un tallone, poco prima che
raggiungesse Polemos, strattonandola via. Ma Bastet
fu svelta a divincolarsi, compiendo un’agile capriola all’indietro e atterrando
a gambe unite ad una certa distanza da entrambi.
“Ecco dunque le difese di Amon Ra! Uomini mortali… e una donna?!” –La canzonò il Demone della Guerra,
osservando la figura appena giunta sul campo di battaglia.
Snella e ben fatta, Bastet sfoderava
deliziose curve flessuose, rivestite da un’armatura marrone, solcata da
striature nere, in grado di adattarsi sia ai combattimenti nel deserto che agli
scontri notturni, in cui la Dea riusciva a dare il meglio di sé, molto più di
altri guerrieri, meno dotati di sguardo attento. Il volto era protetto da una
maschera felina, da cui sporgevano solo labbra carnose e un caschetto di
capelli scuri, fermati all’indietro da una fascia metallica su cui erano
affisse due orecchie da gatto. Uno stile inusuale per una Divinità greca,
analizzò Polemos, ma di certo adatto ad una combattente scattante come la Gatta
Sacra d’Egitto, che puntava più sulla velocità di un attacco, e la conseguente
capacità di prendere di sorpresa l’avversario, che non sulla forza dello
stesso.
“Se la compagnia di una donna non ti è sufficiente, oscuro invasore,
eccone un’altra, di ben più coriacea fattura!” –Esclamò una nuova voce,
ruggendo tutt’intorno all’esercito delle tenebre, i cui membri mossero lo
sguardo in varie direzioni per individuarne la fonte, senza trovarla. Vennero
però investiti tutti quanti, senza preavviso, da una corrente d’aria calda, che
liquefece quel che restava dei golem di Jared,
disperdendo persino le folgori della Cailleach. Una
corrente che ben presto giunse a incendiare l’aria stessa, caricandola di
fiamme che turbinarono attorno all’Armata delle Tenebre, cingendola in un
imprevisto assedio.
“Che diavoleria è mai questa?!” –Latrò Chimera, mentre le fiamme
crescevano ancora, assumendo forme di animali o strane creature che il
guerriero non aveva mai visto e che puntavano alle loro gambe.
“Non il diavolo muove le mie azioni, ma la sincera fede verso il Sole
d’Egitto, il cui occhio è posato su di voi, colpevoli invasori!” –Continuò la
voce ruggente, che adesso Polemos e gli altri poterono identificare come
femminile, sebbene molto più adulta di quella di Bastet.
Identificazione a cui seguì la comparsa di colei che li aveva appena attaccati,
la cui armatura permise al Demone della Guerra di riconoscerla.
“Sekhmet, la Dea Leonessa!” –Commentò, notando la massiccia donna farsi
strada nel rovinato Viale delle Sfingi. Ampie spalle, portamento fiero, una corazza
color ocra che copriva per intero il fisico robusto, il volto incorniciato da
una selva di capelli castani, simili ad una folta criniera agitata dal vento
che ancora turbinava attorno a lei, senza che ne fosse affatto impensierita.
–“Colei che è potente!”
“E tale in effetti sono, demone invasore!” –Rispose decisa la Leonessa
d’Egitto, prima di scattare avanti, il pugno rivolto verso l’esercito
avversario. –“Alito di fuoco!!!”
–Gridò, mentre l’immagine di un gigantesco leone di fiamme e cosmo riempiva lo
spazio che li separava, terrorizzando alcuni membri dell’Armata delle Tenebre, Oizys in primis.
“Santi numi! Siamo spacciati! Ci mangerà in un sol boccone!!!”
–Piagnucolò questi, prima che un colpo di coda di Chimera lo schiantasse a
terra.
“Con le tue avvizzite carni avrebbe ben poco di cui cibarsi! Compiango
la carogna che ti sbranerà!” –Lo derise il Lord Comandante, espandendo il
proprio cosmo e generando una cupola di energia in cui inglobò tutte le truppe
al suo comando, lasciando fuori le fiamme. –“Un epiteto più che appropriato,
dolce leonessa! Ma che certo non genera in me sgomento o stupore, perché vedi,
Dea di questo regno condannato al tramonto, io sono il Demone della Guerra e
non vi è tecnica, di alcun tipo o potenza, che possa sopraffarmi!” –Precisò,
muovendo il braccio verso destra, come per sistemarsi il lungo mantello rosso
che ornava le sue vesti, e generando al qual tempo un’onda di energia che
fagocitò l’ingresso del Viale delle Sfingi, e le sue belle sculture, obbligando
Sekhmet a gettarsi di lato.
Rotolò lesta sul terreno sabbioso, l’abile leonessa, ma venne comunque
lambita dal poderoso attacco di Polemos, che incrinò parte della sua corazza,
spingendola a digrignare i denti, come una fiera pronta al balzo. Ruggì tre
volte, come se quel ruggito potesse allarmare l’Armata delle Tenebre, ma fu
solo quando mosse un passo avanti, oltrepassando l’ormai esauritosi cerchio di
fuoco, che il Demone della Guerra comprese quel che stava accadendo.
Tutto intorno a loro, al segnale convenuto, sbucarono fuori centinaia
di guerrieri armati, nascosti sotto la sabbia, celati alla loro vista e ai loro
sensi dal calore di Ra. Con un rapido colpo d’occhio, Polemos notò che molti di
questi erano Soldati del Sole d’Egitto, compagni di quelli che già aveva
massacrato, ma altri indossavano invece uniforme diversa, corazze simili a
quelle di Bastet e di Sekhmet, che li identificavano
come guerrieri di ben maggiore risma. La guardia scelta da Amon
per difendere Karnak.
“Faraoni delle Sabbie, attaccate!!!” –Gridò la Dea Leonessa, prima di
scattare avanti. Bastet, dall’altro lato, fece
altrettanto, anticipando l’assalto furioso dei soldati egiziani che piombarono
sull’Armata delle Tenebre da ogni lato del triangolo in cui erano disposti,
anche dalle retrovie.
“Oh, finalmente combattiamo!” –Ringhiò soddisfatto Chimera, voltandosi
verso i suoi sottoposti. –“Colpite!!!” –A quelle parole l’esercito al suo
comando si mosse, fronteggiando l’assalto e dando inizio ad una cruenta
battaglia.
Subito le folgori della Cailleach batterono
il campo, costellando il tetro cielo africano, mentre Jared,
alle sue spalle, sfiorava il suolo con la mano, sollevando centinaia di
creature di sabbia, che mandò contro i nemici. Dietro di loro, il grosso
dell’Armata delle Tenebre aveva già sfoderato le armi, preparandosi ad un
confronto fisico con i Soldati del Sole. Lame furono incoccate, frecce
scagliate, asce e mannaie si sollevarono, calando sul nemico poco dopo, in una
battaglia che presto divenne mischia. Il guerriero del Golem di Sangue tentava
di tenere gli avversari a distanza, battendo il terreno e sollevando onde di
sabbia con cui travolse molti Soldati di Ra, permettendo ai golem di piombare
su di loro e stritolarli, soffocarli, affogarli nelle stesse sabbie che avevano
giurato di proteggere.
Un gruppo di robuste figure, alte più del doppio dei normali soldati,
si fece largo nella ressa, incuranti dei raggi di energia che piovvero loro
addosso, protetti da resistenti cotte scure che ne coprivano per intero i
corpi, senza lasciare spazi scoperti, neppure al collo, quasi fossero un’unica
grande placca di metallo lavorato.
“Fa’ avanzare i Lestrigoni! Compatti a
muraglia per proteggere il resto dell’esercito!” –Tuonò Polemos, ordinando a
Chimera di liberare un fianco, in modo da evitare una dispersione delle forze
armate. Ma non ebbe tempo di aggiungere altro che dovette fronteggiare
l’affondo della Dea Leonessa, avvolta in un incandescente cosmo che la
rivestiva quasi fosse la sua seconda pelle.
“Ammiri il calore del sole, demone invasore? Stai tranquillo, presto
sentirai sulla tua pelle quando è penetrante!” –Esclamò Sekhmet, dirigendo un
assalto contro il volto di Polemos, che si mosse di lato, evitandolo, prima di
contrattaccare con un fascio di energia, che la Dea fu abile a schivare,
balzando all’indietro.
Alle loro spalle già infuriava lo scontro tra Bastet
e Chimera, per quanto la scaltra Dea gatta non fosse facile preda per la bestia
dalle triplici fattezze. Appoggiando la schiena a quella del maestro, il biondo
guerriero sogghignò.
“Una per una, mio mentore?”
“Una per una, Vaughn!” –Ironizzò Polemos,
prima di lanciarsi sulla fedelissima di Amon Ra.
–“Sei stata sfortunata, mia bella leonessa, ad incrociare il mio cammino! Non
solo non sarò facile preda, per i tuoi affilati artigli di fuoco, ma prenderò
la tua criniera e con essa avvolgerò la salma del tuo Dio, dopo che lo avrò
stanato dalla sua roccaforte!”
“Come osi, barbaro aggressore?! Credi forse che la Grande e Potente Dea della
Guerra, personificazione del potere mortale dell’astro solare, indietreggi di
fronte a chicchessia? Sono colei che maggiormente rappresenta il calore del
Nume a cui sono devota, colei che sempre gli è rimasta fedele, anche quando non
ne condivideva le scelte! Non ti permetterò di violare i sacri confini di
Karnak! Cadrai, travolto dall’Alito di
Fuoco della Leonessa d’Egitto!!!” –Avvampò, mentre migliaia di fiere
energetiche, dal crine e dagli artigli di fuoco, piombavano su Polemos, che per
un momento ne fu davvero stupito.
Per un momento.
Sogghignando divertito, il Demone della Guerra roteò su se stesso,
sventolando il lungo e raffinato mantello rosso, quasi avvolgendosi al suo
interno, mentre le fiere incandescenti lo raggiungevano, affondando i loro
artigli nella stoffa, dilaniandola e incendiandola. Quando le fiamme scemarono
di intensità, la Dea egizia osservò le ceneri dell’abito sontuoso ardere tra le
fiamme, ma di Polemos più non vi era traccia.
“Cerchi qualcuno?” –Sibilò una voce alle sue spalle, prima che una mano
le sfiorasse il fianco destro, sprigionando un’onda di energia che la investì
in pieno, scagliandola a molti metri di distanza.
“Sekhmet! Mia signora!!!” –Gridò allora Bastet,
intenta a balzare da una sfinge all’altra per evitare i colpi di frusta di
Chimera.
“Pensa per te, gattina! O ti farò il pelo, e non sarà piacevole!”
–Ridacchiò questi, prima di colpirla in faccia, sbattendola a terra, con la
maschera felina incrinata.
“Come… hai fatto?!” –Rantolò nel frattempo
Sekhmet, rimettendosi in piedi. –“Sei… scomparso?!”
“Non hai sentito quel che ti ho detto pochi minuti or sono? Sono il
Demone della Guerra, conoscitore di ogni tecnica bellica fin dagli albori del
tempo, ossia fin da quando la guerra ha imperversato su questo pianeta! Non vi
è modo, per nessuno, di colpirmi! Tanto più che, al pari di altre Divinità che
ho conosciuto e che mi hanno a lungo disgustato, tu sei espressione della
guerra più violenta e selvaggia!” –Commentò nauseato il Lord Comandante.
–“Priva di raziocinio, attacchi e continui ad attaccare, sperando prima o poi
di trovare una falla nelle difese del tuo nemico! Eppure avresti dovuto capire
che falle non ve ne sono, in questa nave diretta al porto del suo trionfo!”
–Ghignò, mentre una forza invisibile schiacciava Sekhmet a terra, ficcandole la
faccia nella sabbia. –“Quello è il tuo posto, prona e vinta! Da lì contemplerai
la rovina di Karnak! Il tramonto del sole d’Egitto!” –Aggiunse, sollevando il
braccio e volgendo il palmo verso la piramide che si ergeva alla fine del Viale
delle Sfingi. Una sfera di energia lucente palpitò vivida sulla sua mano,
mentre le labbra si stendevano in un sorriso divertito.
“Nooo!!!” –Strillò la Dea Leonessa, tentando
di liberarsi da quella presa che la schiacciava a terra. –“Non…
farlo! Maledetto!!!”
“Come desideri!” –Commentò Polemos, facendo esplodere il globo di
energia, ma anziché sfrecciare verso Karnak, l’onda investì lui stesso,
lasciandolo indenne e passando oltre, travolgendo poi Sekhmet, sradicandola da
terra e schiantandola molti metri addietro, proprio in mezzo ai combattenti
dell’Armata delle Tenebre. –“Uccidetela!” –Sibilò, forzando tutti a voltarsi
verso di lei, puntandole le armi contro. –“Smembratela e portatemi la sua
criniera!”
Intontita dall’aver subito l’attacco di Polemos, la Dea non s’avvide
all’inizio delle lame che le sfregiavano l’armatura, facendosi spazio negli
interstizi e là dove la stessa era già stata crepata, strappandole grida di
dolore. Due robusti guerrieri la afferrarono ciascuno per una gamba e un
braccio, iniziando a strattonare da ambo i lati, mentre una creatura
scheletrica, dal volto emaciato e dai lerci capelli grigi, si erse di fronte a
lei, sfoderando artigli di pura energia e piantandoli poi nel suo basso ventre,
proprio dove il Lord Comandante l’aveva ferita.
“Aaahhh!!!” –Gridò la Dea Leonessa,
espandendo il proprio cosmo e cercando di liberarsi da quella pericolosa presa.
Ma una selva di folgori energetiche si abbatté su di lei, sfregiandole il
volto, incendiandole la chioma e scheggiando ulteriormente la Veste Divina,
mentre la rachitica figura della Cailleach compariva
ghignando da dietro uno dei Lestrigoni.
“È tempo di dirci addio, bella leonessa! Trofeo della mia superiorità
sei e tale rimarrai!” –Sibilò Polemos. –“Ad allungare una lista iniziata molto
tempo addietro! Eh eheh!”
–E chiuse il pugno della mano, saturo di energia cosmica, davanti a sé,
osservando compiaciuto l’armatura di Sekhemet andare
in frantumi, tra le grida impotenti di lei e l’eccitazione bestiale dei membri
dell’Armata delle Tenebre. Bastò un ulteriore ordine e il suo corpo venne
smembrato, in due perfette metà.
Soltanto la testa rimase a distinguerle, ancora attaccata alla parte
destra da sottili filamenti di carne. La Cailleach li
incendiò all’istante, liberandola e chinandosi per recuperarla, in modo da
farne dono al Lord Comandante. Ma fu uno dei Lestrigoni
a raggiungerla per primo, scansando la vecchia con una spallata che la gettò a
terra, tra maledizioni e improperi, mentre, poco distante, Oizys
osservava tremebondo l’azzuffarsi famelico dei propri compagni.
“Oimmè, quante ferite! Che lividor! Che
sangue! Che fine orribile quella povera leonessa!” –Piagnucolò, prima di
incrociare il severo sguardo di Polemos e sistemarsi le vesti in tutta fretta,
ricominciando a fare quel che stava facendo poc’anzi. Ovverosia niente.
“Sekhmet!!!” –Gridò la Dea Gatta, che aveva assistito alla sua tragica
esecuzione. –“Maledetti!!! Non vi perdonerò!!! Sacro Mau,
attacca!!!”
“Né te lo abbiam chiesto!” –Commentò Chimera,
strusciandosi il naso divertito alla vista delle centinaia di gatti di energia
liberati da Bastet, gatti che sembrarono spuntare da
ogni direzione. Sulle prime l’allievo di Polemos non se ne preoccupò troppo,
muovendo la coda serpentiforme per scacciarli, ma non appena li sfiorò, i gatti
esplosero liberando una gran quantità di energia, che andò aumentando man mano
che gli animali venivano in contatto l’uno con l’altro, generando infine
un’onda d’urto che scaraventò Chimera a terra.
“Bastarda!!! Ti strapperò le vibrisse una ad una e te le infilerò in
gola!” –Ringhiò, rimettendosi in piedi, privo dell’elmo che gli era volato via.
La Dea tentò di replicare l’assalto appena andato a segno, ma l’avversario la
anticipò, sollevando il tacco e poi calandolo nel suolo, infondendogli tutto il
suo cosmo.
“Zoccolo della Capra Infernale!!!”
–Tuonò, aprendo una faglia nel terreno, ove precipitarono i gatti della Dea,
venendone risucchiati all’istante, richiudendola un attimo prima della
detonazione.
Bastet venne sbilanciata dall’esplosione stessa e Chimera approfittò di quel
momento per balzare su di lei, colpendola con una serie di frustate, fino a
sbatterla contro i resti di una sfinge dalla testa mozzata, fermandone i
movimenti con la lunga coda squamata, che si arrotolò attorno al suo collo.
“Quale ironia! Guarda in alto, la stessa sorte della Dea tua amica!
Com’era quel vostro detto egiziano? Non si accarezza la gatta Bastet prima di aver affrontato la leonessa Sekhmet?! Beh,
in questo caso allora posso dirmi pienamente autorizzato ad accarezzarti! Ih ihih!” –La derise, facendola
avvampare di rabbia. Ma per quanto tentasse di dimenarsi, la stretta di Chimera
era tale da impedirle di muoversi, flagellandole il corpo con fastidiose
scariche di energia. –“E ora, mia tenera gattina, la tua settima vita finisce
così!” –Aggiunse, sollevando un braccio al cielo e caricando le unghie di
energia cosmica.
Non riuscì però a ghermirla che venne raggiunto da un fascio di luce
improvvisa, che lo sbilanciò all’indietro, allentando la presa sul collo di Bastet. Tentò subito di recuperare postura eretta, ma fu
atterrato da un calcio in pieno viso, portato da una figura in armatura grigia
che era appena piombata dal cielo su di lui. Una figura che pareva avesse le
ali.
Scuotendo la testa, stupefatto e confuso, Chimera fece per rimettersi
in piedi, osservando il guerriero appena planato in soccorso della Dea Gatta,
una Dea del suo stesso pantheon.
“Divino Horus!” –Commentò lei, ancora dolorante ma felice di rivederlo.
“Horus?! Sei dunque tu il padre dei quattro che abbiamo massacrato
presso Edfu?! Avresti dovuto sentire come piangevano,
invocando il tuo nome, quegli smidollati!” –Rise il biondo guerriero,
rialzatosi, pulendosi il sangue che gli colava dal naso.
“Duamutef, Hapi, Imset e Qebehsenuf non erano smidollati, bensì divinità preposte alla protezione
degli organi interni dopo la mummificazione, collaboratori di mio padre, il
Sommo Osiride, e patroni dei vasi canopi! Non erano guerrieri, questo è vero,
né selvagge bestie tue pari! Ma erano i miei figli e li vendicherò! Quando avrò
finito con te, nessun vaso canopo ti attenderà, poiché sarai soltanto polvere!”
–Esclamò deciso il Dio Falco, scattando all’attacco.
“Fatti avanti! Chimaira
non teme nessuno!” –Ma, non appena ebbe pronunciato quelle parole, il guerriero
fu costretto ad un passo indietro, accorgendosi solo allora della gran quantità
di cosmi appena apparsi alle spalle del figlio di Osiride.
“Aurora infuocataaa!!!”
Una bomba di fuoco esplose in
mezzo all’Armata delle Tenebre, scagliando in alto una ventina di guerrieri,
tra frammenti insanguinati di corazze e corpi divelti. Quelli che si salvarono
vennero falcidiati da un reticolato di luce che lesto si chiuse su di loro,
prima che un’imperiosa voce li raggiungesse, sfrecciando tra di loro.
“Per il Sacro Leo!!!”
Sull’altro versante quattro figure
ammantate di luce piombarono tra gli stupefatti guerrieri, sfoderando fasci e
comete energetiche, sfere infuocate e marosi d’acqua, con cui li spinsero
indietro, proprio nella direzione ove stazionavano i Soldati del Sole e i
Faraoni delle Sabbie, esponendoli anche al loro attacco.
“Oh Santi Numi! Scappiamo, scappiamo! Lesti!!!” –Strillò Oizys, sollevando i lembi della tunica e iniziando a
correre in mezzo al deserto, assieme ad Apate e alla
figlia di Eris chiamata Disnomia.
Non riuscirono a fare neppure dieci passi che una giovanile figura apparve
davanti a loro, un ragazzo dai folti capelli blu che camminava a qualche metro
da terra, le braccia incrociate davanti a sé, un ciglio sollevato in segno di
disapprovazione.
“State andando da qualche parte?” –Esclamò, rivelando un cosmo fiammeggiante.
Oizys deglutì, voltandosi e cercando un’altra via di fuga, ma alle sue
spalle Jared aveva già sollevato una muraglia di
golem, dirigendoli verso il nuovo avversario, intrappolando il Dio della
Miseria e forzandolo verso un’unica direzione.
“Glom!” –Mormorò, prima che un’esplosione
abbacinante di luce lo investisse.
“È-kish-nu-gal!”
–Tuonò una decisa voce, mentre i golem e le Divinità davanti ad essi venivano
inceneriti da quell’ardente calore, che, quando calò d’intensità, rivelò il
ragazzo dai capelli blu ancora sospeso in aria ad osservare il frutto del suo
lavoro. –“Oh, che maleducato! Ho dimenticato di presentarmi! Sin degli Accadi
per servirvi! O, per uccidervi!” –Sogghignò furbamente.
Capitolo 8 *** Capitolo settimo: Il mondo sommerso. ***
CAPITOLO SETTIMO: IL MONDO SOMMERSO.
La seconda ondata fu peggiore della prima, scuotendo l’intero Avaiki e gettando gli Areoi nel panico più completo. Toru vedeva chiaramente, mentre correva per le arterie
della Conchiglia Madre, lo smarrimento del proprio popolo, che vagava senza una
meta, guardando di continuo verso l’alto, oltre il guscio protettivo che li
separava dal mare immenso. Quello stesso mare che adesso si stava rivoltando
contro di loro.
Perché? Era la domanda che tutti i membri del popolo
libero delle correnti si ponevano, senza darsi risposta. Perché Ukupanipo era in collera con loro? Non erano sempre stati
dei buoni credenti, comportandosi con onestà e rispetto verso la natura, come
il Kapu, loro antico sistema di leggi, prevedeva? O
forse era Paka’a, il birichino, che sollevava le onde
sopra di loro con i suoi venti, incurante dei danni che potesse provocare?
Quale ne fosse il motivo, il guerriero polinesiano lo avrebbe scoperto presto,
dirigendosi verso la Conchiglia più esposta a quella furia improvvisa.
“Comandante! Comandante Toru!!!” –Lo
raggiunse un ragazzetto di quindici anni, magro e snello, con corti capelli
scuri, dello stesso colore degli occhi.
“Non ho tempo per giocare adesso, Kohu!”
“Non voglio giocare, Comandante! Sono venuto a informarvi! Nemici!
Attacco! Creature immonde sferzano il versante esterno della Conchiglia sud!”
“Come?!” –Si fermò infine Toru, chiedendo
delucidazioni al giovane, notando solo in quel momento che aveva indossato la
corazza dell’Istioforo: bianca con macchie scure, simili a squame, aveva una
lunga pinna dorsale affissa sulla schiena e due singolari bracciali, adornati
di una lunga e stretta spada, quello destro, e di una membrana retrattile che
gli ricopriva l’intero arto sinistro.
“È così, è così! Sono delle bestie immense, più grandi degli squali
bianchi! Hanno occhi cattivi e lunghi tentacoli che sbattono e scalciano contro
la parete! Se non li fermiamo, la grande onda ci travolgerà!”
In un altro momento Toru avrebbe liquidato
con un gesto, e con uno schiaffo, le farneticazioni del piccolo Kohu, che probabilmente aveva trascorso troppo tempo con la
vecchia Tiotio, ad ascoltare storie di mostri marini
e fantomatiche creature che, a sentir lei, abitavano negli abissi oceanici,
sebbene nessun Areoi le avesse mai viste. Neppure Afa, l’esploratore
leggendario, né i figli di lui, che a lungo avevano viaggiato lungo i fondali
marini, scandagliandoli e permettendo infine alla colonia di espandersi in
luoghi sicuri. Ma quel giorno Toru fu costretto a mettere
in discussione tutte le sue credenze, quando, assieme a Kohu,
raggiunse infine la Conchiglia Meridionale, restando impressionato dal
disordine che vi regnava, ben stridendo con la sistematica organizzazione che
la caratterizzava.
Uomini e donne correvano ovunque, affannando sul suolo che non smetteva
di tremare, mentre i bambini strillavano e i vecchi invocavano la protezione di
Dei che erano certi di non aver offeso, non al punto da scatenarne la collera e
l’invio di tali mostruosi emissari. Fu in quel momento, guardando oltre le
curve trasparenti della Conchiglia, che Toru vide
oscure entità danzare nell’acqua circostante, riempirla completamente,
ammorbandola e incutendo timore in coloro che dietro quella sottile barriera,
retta dal cosmo di Hina, dimoravano. Vide una piovra
gigantesca, di colore violaceo, sbattere i suoi lunghi tentacoli contro le
pareti della colonia, lasciandoli strisciare per l’intera lunghezza delle
stesse, conficcandoli nel suolo, quasi volesse sradicarla. Attorno a lei danzavano
squali con tre code, una specie che il Comandante non aveva mai visto prima,
accompagnati a un calamaro gigante e da strane creature prive di pinne, dotate
invece di quelle che parevano quattro gambe robuste e una lunga pinna floscia.
Non ebbe il tempo di chiedersi oltre che già la piovra aveva scatenato i suoi
tentacoli, avvinghiandoli alla struttura con massicce ventose che parevano
succhiarne via l’energia, riducendone il cristallino splendore. Qualunque cosa
volesse fare, di certo non ne sarebbe venuto niente di buono per l’Avaiki.
“Dobbiamo fermarla!” –Esclamò allora, sbattendo il pugno della mano
destra nel palmo della sinistra.
“Sono d’accordo, Comandante! Per questo mi sono permesso di agire!”
–Intervenne allora una voce decisa, costringendo l’uomo a voltarsi e a
incrociare lo sguardo di un giovane guerriero armato. La bianca corazza che
indossava era inconfondibile, per il caratteristico elmo dalla lunga zanna
eretta, e ancor più lo era il giavellotto di corallo che reggeva in mano, che
spesso aveva tentato di togliergli nei loro continui allenamenti. Al suo fianco
sorrideva una giovane dal viso delicato e lunghi capelli scuri, la cui mano
stringeva forte quella del compagno e amante.
“Maru del Narvalo!” –Lo salutò Toru, mentre l’altro lo affiancava, spiegando di aver già
inviato una squadra di incursori all’esterno, col compito di allontanare quelle
bestie. –“Armati dei nostri giavellotti energetici, non tarderanno ad averne
ragione!”
Il Comandante dell’Avaiki annuì, per poi
riportare lo sguardo sul fondale oceanico, al di là della Conchiglia, dove uno
scontro era appena iniziato. Da quella distanza, gli Areoi apparivano come
macchie biancastre in un oceano blu notte, ma il luccicare delle loro corazze
li rendeva facilmente identificabili, al pari dello scintillare delle scariche
energetiche emesse dalle armi che impugnavano. Sulle prime Torucredette che avrebbero cacciato con facilità quegli
inquietanti invasori, ma dovette ricredersi quando vide gli squali a tre code
evitare gli affondi dei suoi compagni, azzannandone le braccia e strappando via
le lance e le mani che le reggevano, mentre i lunghi tentacoli della piovra
stritolavano i loro corpi, sbattendoli poi con forza contro le pareti esterne
della Conchiglia, tingendole presto di rosso.
“Non può essere!!! Mai nessun animale si è comportato così!” –Esclamò Maru del Narvalo, osservando stupefatto la scena. –“La
potenza di quelle scariche di energia è in grado di stordire anche i predatori
dei mari, come possono resistere?”
“Temo che ben più pericolosi predatori saremo costretti ad affrontare!”
–Intervenne allora la donna che era con lui, l’Aeroi
chiamato Tara di Diodon. –“Ordina la ritirata, amore
mio, o perderemo l’intera squadra!”
“Io…” –Maru strinse
i pugni, trattenendo a stento la collera e il dolore per il fallimento di
quella sortita. Quindi annuì, prima di caricare il proprio giavellotto di
energia, scagliandolo con forza contro la cupola protettiva, proprio nel punto
in cui la piovra era avvinghiata. Al contatto con la barriera, l’arma rallentò
la sua corsa, illuminandosi d’azzurro, salvo poi sbucare fuori sull’altro lato,
conficcandosi nel cuore della bestia, che furiosa si agitò, dimenandosi e
travolgendo tutti coloro che aveva attorno, fossero uomini o bestie.
In quella, Tara soffiò in un corno di conchiglia, emettendo un impulso
udibile solo da coloro che erano nati e cresciuti nell’Avaiki
di Ukupanipo, segnando la ritirata della squadra
d’assalto, sebbene ben pochi membri fossero sopravvissuti. –“Una strage…” –Mormorò, avvicinandosi assieme ai compagni alla
barriera protettiva che, quasi avesse percepito il cosmo dei suoi stessi
abitanti, tremolò, lasciandoli passare e riportandoli all’interno della
Conchiglia. Solamente in tre.
“Non siate tristi al pensiero dei caduti!” –Parlò allora il possente Toru, ponendo una mano sulla spalla del Narvalo e del
giovane Kohu dell’Istioforo, i cui occhi erano
arrossati di fronte a tanta violenza. –“Le loro anime non sono perdute! Per
sempre permarranno nella Perla dei Mari, assieme agli antenati che li hanno
preceduti! E un giorno, quando Kahōʻāliʻi ci
chiamerà, li abbracceremo di nuovo!”
“Possa quel giorno non tardare
mai!” –Risposero in coro gli altri Areoi.
“Se così tanto invocate la morte,
saremo costretti a darvela!” –Parlò allora una voce maschile, canzonando le
antiche credenze del popolo subacqueo. –“Non che ci dispiaccia, in fondo! Non
sarebbe una guerra se non vi fossero nemici da uccidere!”
“Non sei mai contento, Isonade?” –Lo redarguì una seconda voce, dal chiaro timbro
femminile.
“No, se non c’è un po’ di
violenza, mia deliziosa regina cefalopode!”
“Sciocco!!!” –Ridacchiò l’altra,
la cui voce pareva espandersi per l’intera Conchiglia, rimbombando lungo le
pareti esterne che, al percuotersi continuo dei tentacoli della piovra,
tremavano come fossero sul punto di schiantarsi da un momento all’altro.
“Devo fare qualcosa!” –Commentò
allora Tara di Diodon, bruciando il proprio cosmo e
sollevandosi in aria, fino a portarsi alla sommità della barriera, sfiorandola
con le mani e infondendole nuova energia. –“Devo aiutare Hina!
Se la cupola dovesse cadere, sarebbe la fine per tutti coloro che qui
dimorano!”
“Tara!!! Sii prudente!” –La chiamò
Maru, impossibilitato ad aggiungere altro che una
nuova scossa fece tremare l’intero Avaiki, gettando
gli Areoi a terra. Quando si rimisero in piedi, videro che da uno dei laghetti
che costellavano la superficie della colonia, tre figure azzurre stavano
uscendo fuori. –“Ma… cosa?!”
“Ce n’è voluta, ma infine siamo
riusciti a trovare la via!” –Commentò una di queste tre, un uomo alto e snello,
il cui volto aveva tratti simili a quelli di Toru e Maru, con gli stessi piccoli ma indagatori occhi neri.
–“Ricordavo esistesse un condotto sotterraneo che forniva acqua alle grandi
vasche per l’addestramento!”
“Hai fatto un buon lavoro, Isonade, te lo riconosco! Ma ciò non basta ad ingraziarti
ai miei occhi!” –Commentò la prominente figura al centro del terzetto. Una
donna robusta, rivestita da una corazza azzurra le cui fattezze, in particolare
i lunghi tentacoli affissi al polso destro, richiamavano quelle della grande
bestia intenta a scatenarsi al di fuori della Conchiglia. –“Dovrai fare di
più!”
“Uccidere questi Areoi per
esempio?!” –Ghignò l’altro, incrociando lo sguardo con quello di Maru e permettendo al guerriero polinesiano di
riconoscerlo.
“Ma tu sei…Moeava!!!”
“Umpf,
quel nome non lo uso più, sebbene nel suo significato ancora mi riconosca! Del
resto, chi più dell’Isonade, il violento e sanguigno
squalo dalle tre code, potrebbe incutere timore a chi incrocia il suo
passaggio?!” –Declamò l’uomo dai lineamenti simili a quelli di Toru, la cui coprente corazza, azzurra come quella dei
compagni, era ornata da pinne affilate sui bracciali, sulle ginocchia e persino
sulla schiena.
“Conosci quest’invasore, Maru?” –Chiese
allora Kohu.
“Purtroppo ne ho il dispiacere, e credo anche Toru lo ricordi! Ci allenammo assieme sotto l’attenta guida
del maestro Ono dello Squalo Tigre, ma Moeava non è mai stato incline a rispettare gli ordini e le
leggi! Sfrontato, violento, a tratti sadico nel ferire il suo rivale, faceva
strage di animali solo per il gusto di vedere il sangue spruzzare, cacciando
più di quanto avessimo bisogno. Per questo fu condannato, per aver violato il Kapu! Nessun predatore caccia infatti per piacere, atto che
offende l’equilibrio del mare!”
“Ono era uno stupido! Avrebbe dovuto vestire l’armatura
della conchiglia, anziché dello Squalo Tigre, ben più adatta a un atteggiamento
pauroso come il suo!” –Sghignazzò l’antico compagno di addestramento,
suscitando la sdegnata reazione di Maru.
“Cambiare nome non ha cambiato la tua personalità, a quel che vedo! Sei
ancora il solito monello irritante che amava gloriarsi della propria forza e
che fu bandito da quest’Avaiki! Unico in secoli di
storia a incorrere in tale infamante punizione!”
“Non… parlarmi in questo modo!!!” –Tuonò
allora Moeava dell’Isonade,
portando avanti il braccio destro e liberando una sagoma di energia simile ad
un gigantesco squalo grigio, dotato di ben tre code. Tre, come i movimenti
guizzanti con cui abbatté Toru, Maru
e Kohu, di fronte al compiaciuto sguardo della donna
alta e robusta.
“Bastardo!!! Non solo ti sei macchiato di tradimento verso le nostre
istituzioni, adesso sei tornato per vendicarti assieme alla tua banda di pirati?!”
–Ruggì subito il bianco Comandante, rimettendosi in piedi.
“Non pirati siamo, bensì Forcidi!”
–Intervenne allora la donna dalla corazza rappresentante una piovra. –“Fedeli
servitori dell’Imperatore di tutti gli Oceani, il supremo Forco,
Divinità primordiale che reclama per sé il trono dei mari!”
“Stolto lui e stolti voi! Il mare non appartiene a nessuno, né ha di
certo un trono! E se lo avesse, esso apparterrebbe a tutti coloro che vi
dimorano! Non di certo a bifolchi par vostro!” –Ringhiò Maru,
brandendo il giavellotto e caricandolo di energia.
“Opinione interessante, che parzialmente condivido.” –Sogghignò la
donna nemica, sbattendo a terra i sinuosi tentacoli dell’armatura e lasciando
sfrigolare faville incandescenti. –“Parzialmente!” –Precisò, prima di muovere
il braccio e allungare tali appendici, che avvolsero rapidi il corpo del
Narvalo, piegandogli un braccio in modo da impedirgli di usare la sua arma.
–“Bifolchi siamo, ma non deboli!”
“Maru!!!” –Gridarono gli Areoi sopravvissuti
all’incursione fuori dalla Conchiglia, scattando avanti, con le lance puntate
verso la donna. Ma fu il terzo membro del gruppo di invasori a balzare su di
loro, rapido e preciso, mentre tutto attorno a sé sorgevano cavalli di neri
cosmo, che parvero sfrecciare su un letto d’acqua schiumosa.
“Bäckahästen!”
–Urlò, investendo i tre guerrieri con la carica di quelle giumente furiose.
“Bel lavoro, Settimo Forcide!”
–Si complimentò la donna con l’armatura della piovra, mentre colui che aveva
tradito gli Areoi si faceva avanti, avvolto nel proprio cosmo, in chiaro segno
di sfida verso Toru.
“Canaglia! Se tempesta porti, tempesta
riceverai! Non sia mai che Toru dello Squalo Bianco
rifiuti un confronto, anche se qua, nella sacra terra del popolo libero!”
“Lo sarete ancora per poco! Ih ihih!” –Rise l’uomo un tempo
noto come Moeava. –“Quando lui sarà qui, ti passerà
la voglia di combattere!”
“Lui?! E chi sarebbe?!”
“Il Primo Forcide,
naturalmente! Il più fedele e potente servitore di Forco
e della sua consorte, il cui cosmo è così ampio da generare oscuri abissi di
terrore in chi vi viene risucchiato! E tu, misero guerriero di un regno di cui
mai hai varcato i confini, scoprirai quanto vasto sia l’universo!” –Ghignò Isonade, caricando le braccia di energia cosmica e muovendole
avanti. Ma prima di riuscire a liberare il proprio colpo segreto, la voce
imperiosa della donna che lo comandava lo raggiunse.
“Basta così, Quarto Forcide!
Mi occuperò io di questi reietti! Tu e gli altri tre occupate le Conchiglie
mancanti! A lui lasceremo il nucleo centrale, dove una ben preziosa ricompensa
lo attende!”
“Come comandi, Ozena!” –Dovette cedere
l’uomo, scoccando un’ultima occhiata di sbieco al Comandante degli Areoi.
Quindi, senz’altro aggiungere, fece qualche passo indietro, tuffandosi agile
nel lago interno, seguito dal giovane che era con loro e che aveva atterrato la
squadra di incursori. Tendendo i sensi acuti, Toru
percepì altre due energie congiungersi a Moeava e al
suo compagno, segno che i nemici stavano radunando le loro truppe, pronti a
sferrare l’attacco finale. Al cuore del regno.
“Fermi!!!” –Gridò, muovendosi per inseguirli
ma la donna subito gli si mise davanti, scagliandogli addosso il corpo
imprigionato del suo fedele amico, la cui armatura era coperta di numerose crepe,
da cui sangue aveva iniziato ad uscire. –“Maru…io…” –Esitò per un momento il vigoroso Comandante, gli
occhi che mutavano colore, tingendosi di rosso fuoco, prima che la voce acuta
di Kohu lo anticipasse, prendendo un braccio del
compagno e mettendoselo dietro la schiena, aiutandolo a rialzarsi.
“Mi occuperò io di lui! Lo porterò dalla
grande Hina! Lei lo guarirà!”
“Grazie…” –Si
limitò a commentare Toru, ritrovando la calma, per
quanto l’immagine e l’odore del sangue di Maru
permanessero nella sua mente, mentre Kohu si
incamminava lungo la via principale per raggiungere il ponte che connetteva la
Conchiglia Meridionale con quella Madre.
“Dove credi di andare, bambino? Vieni dalla
mamma, coraggio!” –Ridacchiò la grossa donna, sfoderando i sinuosi tentacoli
che sfrecciarono verso il giovane Areoi da ogni direzione. Fu svelto,
quest’ultimo, a balzare di lato in lato, evitandone la maggioranza, e a
contrattaccare con il proprio colpo segreto.
“Taglio delle onde!!!” –Gridò, calando il braccio destro e generando un
fendente di energia che scheggiò un paio di tentacoli, ma presto si ritrovò
circondato, sopraffatto dalla loro superiorità numerica, e fu afferrato da uno
di questi al tallone e buttato a terra, con Maru che
ruzzolò sopra di lui.
“Ora!!! Fauci dello Squalo Bianco,
dilaniatela!!!” –Tuonò la possente voce di Toru, che
aveva atteso che l’avversaria si distraesse per scatenare la furia del
predatore dei mari. Aveva usato Kohu come esca, era
vero, ma la sconfitta della nemica lo avrebbe ripagato di quel sottile inganno.
Pur tuttavia la donna fu lesta a gettarsi a terra di schiena, muovendo il
braccio a spazzare e investendo l’attacco con una scudisciata dei suoi
tentacoli, danneggiandoli in parte ma riuscendo a disperderlo.
“Resistente quella tua corazza, donna!”
–Ammise allora Toru, mentre lei si rimetteva in
piedi.
“Com’è giusto che sia! È una corazza di puro
oricalco, forgiata dal mio signore Forco all’alba dei
tempi, quando con queste stesse armature volle vestire l’esercito al suo
servizio, quello con cui avrebbe voluto sconfiggere l’usurpatore e i suoi
Generali degli Abissi! Sette Forcidi investì, per
soppiantare i fedeli del fratello di Zeus! Sette Forcidi
ispirati alle possenti creature che terrorizzavano gli uomini di superficie! Io
sono Ozena, la Grande Piovra pestilenziale, lontana discendente del Secondo Forcide originario! A lungo la mia famiglia ha aspettato la
chiamata del nostro re, certa che sarebbe arrivata! Per questo la mia stirpe è
continuata, procreando donne su donne e abbandonando i maschi, che di certo non
avrebbero potuto ambire al ruolo che fu della nostra gloriosa antenata, unica
in mezzo a sei uomini!”
“Umpf, dici che la
tua dinastia è esistita in funzione di questo Forco,
riproducendosi solo per dargli una guerriera? Ti commisero, donna, per aver
così poco vissuto, allora, per aver così poco apprezzato lo splendore di una
vita che, sia pur breve, tu non hai volto ad altro che ad aspettare questa
chiamata!”
“Come osi, ottuso polinesiano?! Credi forse
che fare la voce grossa ti salverà dalla mia furia? Sei solo un pesciolino che
si dimena tra i miei tentacoli! Ti stringerò quella bocca così forte da
frantumarti tutti i denti! Oplà!” –Esclamò Ozena, schioccando le lunghe
appendici e scagliandole verso Toru, che dovette balzare
indietro, su una costruzione poco distante, per evitarle. Ma queste
continuarono a inseguirlo, allungandosi a dismisura e azzerando in fretta la
distanza tra loro.
Infastidito, Toru
capì di non poterle fuggire in eterno, obbligandosi a fronteggiarle; per questo
caricò i pugni di energia cosmica, iniziando a muoverli uno dopo l’altro,
colpendo tutte le fruste che miravano ad imprigionarlo. Non voleva fare la fine
di Maru, non voleva provare la terribile sensazione
di sentirsi schiacciare, per quanto un tempo l’avesse sperimentata, come tutti
gli Areoi. Era la prova della maturità, in fondo, quella a cui venivano
destinati tutti coloro che vivevano nelle Conchiglie sotto il Mar dei Coralli.
La prova con cui Ukupanipo stabiliva se fossero degni
o meno di dimorare nel suo regno azzurro.
A otto anni, tutti i bambini,
indipendentemente dal sesso, venivano mandati fuori dalle porte della
Conchiglia in cui erano nati e cresciuti, per entrare a contatto con il mare
freddo e immenso che li attorniava. Se fossero stati forti abbastanza, se
avessero potuto superare il freddo e la pressione che, a quella profondità,
schiacciava molti di loro, allora sarebbero potuti rimanere, avrebbero potuto
continuare ad addestrarsi per divenire Areoi, gli eroi del popolo delle correnti.
Se avessero fallito, i loro corpi spezzati avrebbero costituito nutrimento per
la fauna oceanica e le loro anime sarebbero ascese al cielo ove riposano gli aumakuas, i loro antenati.
Toru l’aveva superata indenne, così Maru, Tara e Kohu dopo di lui, e molti altri, permettendo loro di
fregiarsi del titolo di figli del mare.
“Se ho sopportato quella pressione, cosa vuoi che siano questi ridicoli
lacci?!” –Avvampò il vigoroso guerriero, le cui braccia ormai erano state
avvinte dai tentacoli della piovra. Espanse il proprio cosmo, stupendo il
Secondo Forcide per quanto fosse cristallino e vasto,
e poi li distrusse, schiantandoli a terra, come i resti delle barche
trasportati dal mare. –“E uguale relitto presto sarai tu!!! Fauci dello Squa…” –Esclamò, scattando avanti, ma
ritrovandosi a tossire di colpo, una dolorosa sequela di colpi di tosse, che lo
piegò in un istante e lo portò a barcollare incerto. –“Che…cosa…?!” –Balbettò, prima di essere investito da un
pugno in pieno viso, che lo spinse indietro, facendogli persino perdere l’elmo
a forma di muso di squalo.
“Senza quel bel copricapo, non incuti poi così tanta paura! Certo, il
fisico è notevole, lo ammiro e lo apprezzo! Ma spezzato quello, cosa ti
resta?!” –Ridacchiò la donna, avvicinandosi a Toru e
afferrandolo per le gambe con i suoi tentacoli.
“Spezzato?! Non credere di avermi già vinto solo perché mi hai colpito
una volta!”
“Per la verità ti ho colpito numerose volte, ma non te ne sei accorto!
Perché credi che il tuo compagno, il Narvalo dal corpo atletico, sia caduto a
pochi passi da me? Non ti ho forse detto poc’anzi il mio nome? Ozena, la piovra
pestilenziale, poiché pestilenziale è l’aura che mi circonda, il cosmo oscuro
che avvelena chiunque mi sia vicino! E tu e Maru, che
dai miei tentacoli siete stati cinti, avete ricevuto una ben massiccia dose di
veleno, sufficiente per indebolire i vostri riflessi ed essere alla mia mercé!
Eh eheh! L’Isonade crede che in guerra vinca chi sparge più sangue, io
ritengo invece che conti la vittoria, a qualunque costo, per compiacere il mio
Signore Forco, per il quale siamo giunti fin qua! Per
spazzar via questo regno che ha osato prosperare sui fondali oceanici,
tenendosi fuori dalle antiche contese per il dominio delle acque, una
neutralità che adesso pagherete, divenendo nostri schiavi!”
“Noi non saremo mai schiavi!!!” –Ringhiò Toru,
sforzandosi di bruciare il cosmo, per quanto fiacco si sentisse e appannata
fosse la sua vista. –“Siamo gli Areoi, il popolo libero delle correnti, e non
pieghiamo il capo a nessun re, Dio o tiranno, solo al mare siamo fedeli! Il
mare che ci ha dato la vita!”
“E nel mare morirete! Addio, bel polinesiano!” –Rise Ozena,
sollevandolo di peso e poi sbattendolo al suolo. Una volta, due volte, dieci,
fino a ricoprire di crepe la sua bella corazza bianca, mentre il veleno
maleodorante penetrava nel suo corpo dalla ferite aperte. –“Porta i miei saluti
ai tuoi antenati!” –E lo scagliò in aria, mentre già sul palmo della sua mano
riluceva un globo di violacea energia. Lampeggiò un istante, prima che Ozena lo
dirigesse contro Toru, in caduta libera di fronte a
sé.
Ma non lo raggiunse.
“Danza di draghi!!!”
–Esclamò una voce all’improvviso, mentre due snelle figure balzavano sul
Comandante degli Areoi, afferrandolo in tempo e portandolo fuori dalla
traiettoria della sfera luminosa, che andò a schiantarsi lontano, sulla parete
della Conchiglia alle sue spalle.
Giganteschi draghi di energia circondarono Ozena, incapace di credere a
quel che stava vedendo. Mosse il braccio per colpirli con le lunghe fruste, ma
questi ruggirono al sol contatto, spalancando immense fauci ove rilucevano
voraci denti affilati. Bianchi e rossi erano i colori delle creature
energetiche che in un attimo furono su di lei, affondando le zanne nei suoi
fianchi e strappandole un grido di dolore.
“Bianco, come il latte materno, di cui tua madre ti ha nutrito, per un
destino gramo lo ammetto, ma sempre con amorevole cura! Rosso, come il sangue
che dal tuo corpo sgorga, che ti ricordi che sei umana e mortale e per quanto
tu segua un Dio, fanatica nelle tue convinzioni, egli sarà sempre per te un
mondo distante, in cui gli uomini esistono solo in virtù di quanto gli possano
servire! E tu, quanto credi di potergli essere utile ancora, adesso che le
nostre strade si sono incrociate?!”
“Chi… sei tu?!” –Esclamò a fatica il Secondo Forcide, rimettendosi in piedi, con la corazza distrutta
lungo i fianchi, e trovandosi davanti un uomo di trent’anni, con corti capelli
neri e occhi scuri che risaltavano su un viso bronzeo, dai ruvidi lineamenti
maschili. Addosso portava un’armatura luminosa e leggera, che appariva
terribile in virtù delle teste di drago che ornavano i due coprispalle.
Una bianca, una rossa.
“Il mio nome è AscanioPendragon,
Cavaliere della Natura! E questi sono i miei compagni!” –Si presentò, mentre
sette cosmi sorgevano attorno a sé, circondando la robusta donna, che si guardò
attorno stupita, riconoscendo vestigia di fatture diverse, come se quegli
sconosciuti guerrieri appartenessero a gruppi differenti di combattenti.
C’erano due donne agili e slanciate, che avevano appena salvato Toru dall’impatto con il suo colpo, e poi quattro guerrieri
rivestiti di corazze dalle tonalità scure, una delle quali possedeva lunghi
tentacoli simili ai suoi. Infine, un settimo uomo dall’armatura rossastra la
osservava silente. –“Te li presenterei uno ad uno, se avessi tempo, ma temo che
poco ne resti! Per cui perdona la mia scortesia, ma questioni più urgenti
richiedono la mia attenzione!” –E le diede le spalle, iniziando a rivolgersi
agli altri che lo circondavano, spiegando loro come disporsi. –“Prioritario è
proteggere la Conchiglia Madre, dove Asterios e la
Selenite della Terra si stanno dirigendo! Se crolla quella, sarà la fine
dell’intero Avaiki!” –Le donne e gli altri guerrieri
annuirono, prima di scattare in direzioni diverse, lasciando il Comandante Ascanio da solo con il Forcide
della Piovra Puzzolente e il corpo di Toru, disteso
poco distante.
“Quanta arroganza! Chi ti credi di essere?!” –Ringhiò la donna,
bruciando il cosmo.
“Il figlio del drago!” –Si limitò a commentare l’allievo di Avalon,
spingendola indietro con la sua aura battagliera, che presto assunse la forma
di due maestosi dragoni di energia.
“Anche l’animale più grande può essere stritolato dai miei tentacoli!” –Tuonò
Ozena, scatenando la fitta pioggia delle sue fruste, che saettarono su Ascanio da ogni direzione, per quanto egli rimanesse
imperturbabile. Solo all’ultimo spalancò il palmo della mano, fermando di colpo
l’avanzata delle sinuose appendici, che rimasero come paralizzate, incapaci di
perforare quell’imprevista muraglia di cosmo. –“Co…
come puoi fare ciò?!”
“È il drago bianco di Albion che mi difende,
simbolo di vita e rinascita! Di colore ben diverso sarà invece la sacra bestia
che ti azzannerà!” –Aggiunse, portando avanti il braccio destro e liberando la
devastante potenza di un drago dalle squame rossastre. –“Attacco del Drago di Sangue!!!”
Le fauci di luce distrussero i tentacoli di Ozena, schiantandoli uno
dopo l’altro, prima di abbattersi su di lei, dilaniando l’armatura di oricalco
e il corpo al di sotto, gettandola molti metri addietro, fin dentro il laghetto
da cui un’ora prima era apparsa assieme a Isonade e
al Forcide del Cavallo Nero. Un gorgoglio agitato
rivelò ad Ascanio che era ancora viva, ma dubitò
fosse in condizioni di proseguire lo scontro. Prima ancora di muovere un passo
verso la pozza d’acqua, la vide immergersi in profondità, lasciando dietro di
sé un’ampia scia di sangue. Certo che non sarebbe andata lontano, il Comandante
dei Cavalieri delle Stelle si incamminò verso Toru,
per sincerarsi delle sue condizioni e per parlare con lui.
Lo trovò riverso su un fianco, il bel volto bronzeo adesso smunto e
pallido, le narici che faticavano a respirare. Gli osservò le ferite e capì che
il veleno di Ozena gli era entrato in circolo, causandogli febbre alta e
perdita dei sensi, oltre che un profondo smarrimento di sé.
“Lascia che me ne occupi io!” –Esclamò allora una voce di donna,
sorprendendo lo stesso Ascanio per il passo leggero
che doveva aver avuto. Ma poi, quando la vide sospesa a mezz’aria, avvolta in
un’aura sferica di colore rosaceo, ricordò di averla notata poc’anzi, intenta a
solidificare la cupola protettiva dell’Avaiki con il
cosmo.
“Tara di Diodon!” –La chiamò, stupendola.
“Come conosci il mio nome?”
“Un amico comune mi ha parlato di te, di tutti voi Areoi! Lo stesso
amico che ci ha portato qua, riunendoci da terre diverse, per portarvi aiuto,
poiché vedi, Areoi del Pesce Istrice, l’ultima guerra è iniziata e neppure il
vostro regno può ritenersi al sicuro dai disordini del mondo! No, nessun regno
lo è più da quanto Caos è tornato!”
***
Ozena raggiunse a fatica una caverna sottomarina dove, poche ore prima,
si era riunita assieme ai cinque Forcidi al servizio
dell’Imperatore dei Mari. Da lì, a pochi passi dalla Conchiglia più esterna,
aveva ammirato lo splendore di un regno che troppo a lungo aveva prosperato,
mentre Forco soffriva e smaniava di riconquistare gli
oceani che gli appartenevano per diritto di nascita. Lì avrebbe potuto
riposarsi un attimo, prima di tornare a combattere per il suo signore. Aveva
commesso un grave errore, abbassando la guardia di fronte a quel giovane che
padroneggiava i draghi di luce, ritenendolo innocuo al pari degli altri Areoi,
e adesso ne pagava le conseguenze.
Non c’era osso del corpo che non le dolesse, non c’era arto in cui non
avesse una ferita aperta. In alcuni punti, anche sulla guancia destra, gli
artigli di Ascanio le avevano strappato via persino
la pelle. Ma quello non le importava; Forco, in
fondo, non l’aveva scelta per la sua bellezza, solo per la sua fede
integerrima. La stessa che, a breve, l’avrebbe riportata in battaglia.
“Hai fallito!” –La raggiunse una voce all’improvviso, risuonando per
l’intera caverna e facendo sussultare Ozena, che, appoggiata ad uno scoglio
affiorante, si tirò subito su, guardandosi intorno impaurita. Per qualche
istante non vide niente, per quanto fosse chiaro che una presenza oscura,
immensa come vuoto cosmico, la stesse circondando, precipitandola, assieme alla
caverna e alle sue rocce, verso abissi così profondi e oscuri che nessuna forma
di vita vi era mai nata.
“Io… pietà, Comandante! Pietà! Ho abbattuto
molti Areoi, ma quell’Ascanio mi ha colpito alla
sprovvista! È un vile!!! Perdonatemi!!!”
“Ascanio?!” –Ripeté la voce, che a Ozena
parve più vicina, nonostante continuasse a non vedere alcunché, solo un’enorme
sagoma nera che la accerchiava.
“Sì, mio Signore, AscanioPendragon
è il suo nome! Io posso… occuparmi di lui!”
“No, non puoi! Lui è affar mio! Ho un debito da riscuotere con il mio
vecchio amico!” –Sogghignò la voce cavernosa, risuonando così forte da
costringere Ozena a portarsi le mani alle orecchie, per tapparle, non
desiderando udirla più. Poteva, in fondo, un uomo spaventarla tanto? Lei, una
guerriera nata per servire Forco, per badare alle
creature che popolavano l’Impero dei Mari, poteva provare timore verso il Primo
tra i Forcidi?
I due occhi gialli che si aprirono di fronte a lei le strapparono
un’imprevista conferma. Due occhi che rilucevano famelici in un mondo di
tenebra assoluta. Due occhi che, poco dopo, le furono addosso, mentre il suo
corpo precipitava in un abisso oscuro. Volle gridare, ma non ci riuscì; tentò
di aggrapparsi a qualcosa, ma non trovò appigli, soltanto un’immensa voragine
nera che la risucchiò, cancellando dalla storia ogni traccia della sua
esistenza.
Il Primo Forcide sogghignò, godendo di tutte
le anime che quel giorno avrebbe precipitato nell’abisso.
Il viaggio dall’Olimpo al Caucaso fu assai breve, ma in quei pochi
minuti la mente di Zeus e del suo Luogotenente fu comunque invasa da molti
pensieri. Non soltanto per quello che li avrebbe attesi una volta giunti a
destinazione, ma anche per la nube nera che andava espandendosi alcune miglia
alle spalle della catena montuosa. È
ancora distante, ma si avvicina. A ritmo vertiginoso! Constatò il Signore
degli Dei, la cui vista spaziava lontano, fino alle profondità del deserto del
Gobi, da cui la grande ombra era sorta.
Aveva già sentito, grazie ai suoi sensi acuti, l’infiammarsi di lontane
battaglie, sia nelle calde terre d’Egitto che in luoghi a lui più familiari,
luoghi che lo toccavano direttamente, al punto da incitare Euro affinché
aumentasse l’impeto dei propri venti. Dei vari focolai di guerra appena accesi,
uno lo stranì, poiché era davvero lontano, pareva provenire dalle profondità
oceaniche del Pacifico Meridionale, da abissi che mai aveva visitato e che
presupponeva disabitati. Stava ancora riflettendo su quanto aveva percepito,
quando la Nave di Argo iniziò a scivolare tra le nubi che circondavano la cima
più alta della catena del Caucaso, nota agli uomini con il nome di Monte
Elbrus.
“Stiamo per atterrare!” –Precisò Neottolemo,
guidando il vascello con maestria tra cime impervie e innevate, fino ad
atterrare su un costone roccioso sufficientemente ampio e sicuro, all’inizio
della cappa di ghiaccio. Un rapido sguardo ai dintorni convinse il Nocchiero di
Tirinto che, in caso di attacco, quella sarebbe stata
una buona posizione per difendersi, e poi allontanarsi.
Zeus, compiaciuto per la prontezza dei suoi riflessi e l’acuta mente
strategica, lo ringraziò per i suoi servigi, dandogli una paterna pacca su una
spalla, prima che il fedele di Eracle si apprestasse ad approntare il ponte di
legno per scendere a terra.
“Strobilus…” –Mormorò allora Euro,
osservandone la caratteristica doppia cima.
“Conosci questi luoghi, figlio di Eos?” –Gli domandò Zeus, mentre anche
Nikolaos scendeva dalla Nave di Argo, lasciando il
solo Neottolemo di guardia.
“Come potrebbero essermi ignoti, mio Re?! Non è forse qua, sulla gelida
vetta di Strolibus che incatenaste il titano
Prometeo, figlio di Giapeto, reo di avervi
disobbedito, sfidando così la collera celeste?!”
“Una storia di così tanto tempo fa che mi stupisco che taluni la
rimembrino ancora!” –Commentò il Nume Supremo, prima di fare cenno ad Euro e a Nikolaos di seguirlo, lungo un accidentato sentiero che
saliva fino all’avallamento al centro dei picchi gemelli. –“Eppure è normale
che sia così! Del resto, potremmo annoverarlo tra i gesti che diedero inizio
alla contesa finale!”
Il figlio di Eos annuì, seguendo il Signore del Fulmine sull’irta
mulattiera, sebbene, grazie alle ali della propria corazza, non avesse bisogno
di sfiorarne l’eterna neve che la ricopriva, limitandosi a svolazzare alle sue
spalle, senza mai avere l’ardire di superarlo. Nikolaos,
al contrario, seguiva entrambi con sguardo silente, rivestito da una cotta di
battaglia piuttosto comune, essendo la propria Armatura Celeste andata
distrutta nello scontro con Cariddi. Osservandola,
Euro la riconobbe; era la tunica protettiva che il giovane utilizzava durante
gli allenamenti con Giasone, Castore e Polluce sull’Olimpo, i primi tempi successivi al suo
arrivo. Frammenti di passato di cui Nikolaos aveva
bisogno, in quel momento, per andare avanti, per continuare a vivere, unico
sopravvissuto dei Cavalieri Celesti e ormai anche unico membro della sua
famiglia.
“Ci siamo!” –Esclamò infine Zeus, fermandosi proprio ai piedi
dell’ultima scoscesa salita che conduceva al picco occidentale, il più alto
delle due cime di Elbrus e anche quello rivolto verso la Grecia.
Euro e Nikolaos sollevarono lo sguardo ma,
sulle prime, non notarono alcunché se non una fitta nebbia che pareva avvolgere
la sommità, in un abbraccio ottundente che ricordò a entrambi la foschia
protettiva dell’Olimpo, il modo con cui Zeus aveva sempre celato le divine
residenze agli occhi degli uomini.
“Mio Signore?!” –Mormorò il Luogotenente, aspettando che il Nume
parlasse, con la stessa franchezza dimostrata nel colloquio avuto nella cripta.
“Non è cambiato niente… Tutto è identico a
quel giorno! Tutto, del resto, è sempre identico al passato finché non compiamo
una diversa scelta! Prometeo lo fece, scelse di tradirmi, o almeno così credetti all’epoca, scelse di disobbedire ad un precetto
divino e andò incontro alla sua punizione! Lo incatenai nudo a questa cima, con
catene forgiate da mio figlio Efesto, intrise di
cosmo divino, proprio là, persino oltre le nuvole, di modo che ogni giorno
potessi vederlo, dalla reggia sull’Olimpo, e lo condannai ad eterno supplizio!
Un’aquila, personificazione della mia possanza e del mio impero sui cieli, ogni
giorno avrebbe banchettato con le sue viscere, e la notte quelle stesse ferite
sarebbero state rimarginate, per permettere all’aquila, implacabile, di
ritornare il giorno seguente e proseguire l’eterna tortura! Una trovata degna
di Ade!” –Sospirò il Nume, presto confortato da Euro.
“Erano tempi oscuri, mio re. I Titani cospiravano per riprendere il potere,
l’evirazione di Crono non li aveva di certo meglio disposti ad accettare la
fine dell’Età dell’Oro. Tutt’altro. Covavano così tanto rancore da attendere
soltanto un pretesto per marciare sull’Olimpo e scatenare l’ultima guerra del
Mondo Antico.”
“E io glielo diedi, imprigionando il figlio di uno dei più fanatici
sostenitori di Crono, dando così inizio alla Titanomachia. La fine della
seconda generazione cosmica.” –Annuì Zeus, tornando indietro a quell’era buia.
–“E la notte dell’ultima profezia.”
***
Un boato fragoroso fece tremare l’intero Olimpo, squassando persino i
pavimenti di marmo della Reggia di Zeus, ove il Nume riposava vigile,
costringendosi a balzare in piedi, già rivestito della sua Divina Veste da
battaglia. Un attimo dopo le alte porte si aprirono e un’anziana figura ne
entrò, zoppicando vistosamente.
“Sono arrivati!” –Si limitò ad asserire, mentre già il cosmo di Zeus si
espandeva, abbracciando l’intero Olimpo, ove assieme alla sua famiglia e ai
suoi fedeli si era installato dopo l’evirazione del padre. Fu un’aurora
improvvisa quella che abbagliò il Monte Sacro, un’aurora che rischiarò ogni
anfratto, ogni sentiero, foresta o palude, raggiungendo tutte le Divinità e i
guerrieri che attendevano la chiamata del loro Signore, del padre, fratello o
amante per cui avevano scelto di lottare e morire, convinti che potesse dare
loro un futuro.
Uno dopo l’altro, gli Dei risposero alla chiamata, scintillando nelle
loro vestigia dai riflessi d’oro e avorio, che il Fabbro Celeste aveva appena
creato. Per prima giunse Artemide, l’unica dei Dodici a non indossare armatura
alcuna, preferendo cingere il suo corpo con ben più pratiche e leggeri pelli di
daino.
“I miei Cacciatori già sono schierati!” –Commentò, inginocchiandosi,
l’arco stretto in mano, la faretra colma di frecce argentate.
“Così pure i Berseker al mio diretto
comando!” –Tuonò allora la voce di Ares, ruggendo tra le fiamme che lo
attorniavano, con un’aria divertita sul volto, un’aria per cui il Consigliere
di Zeus inorridì.
Dopo di loro arrivarono Nettuno e Ade, i fratelli del re, quindi Atena,
con l’Egida saldamente al braccio, Apollo, splendido nella sua armatura
finemente intarsiata, Dioniso, seguito da un profluvio di satiri, menadi e
guerrieri caprini, e tutti gli altri Dei, uniti tutti dalla stessa convinzione.
Debellare per sempre la minaccia dei Titani, coloro che marciavano verso la
cima del Colle Sacro.
Le prime difese erano già scattate, ma i Giganti di Pietra ben poco
poterono contro la furia di Atlante, i cui pugni li mandarono in frantumi, uno
dopo l’altro, riuscendo soltanto a far guadagnare tempo agli Olimpi assediati,
affinché potessero posizionarsi. Fu quando Zeus scagliò la prima onda di
energia, investendo in pieno il fratello del colossale titano, che la guerra di
fatto iniziò, e in breve fu mischia.
Scintillavano ovunque i cosmi dei giovani Dei, ruggivano affamate le
fiamme di Ares, dentro cui si celavano le frecce di Artemide e gli strali
luminosi di Apollo. Volava lesto, da una parte all’altra dell’immenso fronte di
guerra, il Messaggero Alato, scatenando lampi dall’intrecciata bacchetta,
mentre la spada di Ade e il tridente di Nettuno mietevano vittime nell’opposto
schieramento. Dieci anni durò la guerra, dieci lunghi anni di sangue e dolore,
di tradimenti e cambi di fronte, dieci anni durante i quali l’opinione di Vasteras non cambiò.
“Una guerra porta solo ad altre guerre. Credevo lo aveste capito.” –Gli
disse anche quel giorno l’anziano consigliere, dopo che una figura rivestita da
una scura armatura aveva appena lasciato la Sala del Trono. Una figura il cui
gesto avrebbe presto mutato le sorti dell’intera battaglia.
“L’ho compreso, ma non ho scelta. Non ho iniziato io questa guerra e
non voglio perderla! Ne va del futuro della mia stirpe!”
“Ma non capite, Grande Zeus? Siete giovane, bello e astuto, il fato vi
ha arriso già una volta, evitandovi di finire nelle viscere di vostro padre!
Eppure dovrebbe essere chiaro, soprattutto a voi che quel gesto avete compiuto,
quanto tutto sia effimero, quanto breve sarà la storia della vostra
generazione, anche se vinceste!”
“Parole oscure le tue, Vasteras! Spiegati
meglio!” –Lo intimò il Nume, stringendo la folgore celeste.
“La vostra vita, al pari di quella degli esseri umani, non è eterna,
solo parte di un ciclo. Le sorti di vostro padre e del di lui padre Urano
dovrebbero esserne testimonianza valida per farvi comprendere! Vincerete questa
guerra, grazie al fulmine che avete ottenuto, ma quanto durerà il vostro regno?
Un batter di ciglia, niente più, lo stesso gesto con cui Egli vi spazzerà via
quando ritornerà!”
“Non… minacciarmi!!!” –Avvampò Zeus,
generando un’onda di energia con cui schiantò il fido consigliere contro una
parete, scusandosi subito dopo, imbarazzato, per quel gesto irato.
“Non vuote minacce sono le mie parole, bensì foriere di una verità che
non potete dimenticare! Non dovete farlo, se volete sopravvivere! Ricordatelo,
Zeus, ricordate come avete sconfitto Crono e come vincerete i Titani! Unendo
tutte le vostre forze, quelle degli Dei amici, degli alleati, dei soldati che
hanno fiducia in voi! In nessun’altro modo riuscirete altrimenti a contrastare
l’ombra!” –Parlò così, per l’ultima volta, il saggio Vasteras,
prima di spegnersi quella stessa notte, ucciso dalla lama del titano Crio. Eppure, per lunghi secoli, quelle parole erano cadute
nel vuoto.
***
“Avevi ragione, amico mio!” –Sospirò Zeus, asciugandosi i celesti occhi
lucidi. –“Troppo tardi l’ho capito! Troppo a lungo il mio animo è stato invaso
dall’indolenza, un sentimento atto a nascondere la paura per la fine di tutto,
l’avverarsi di una profezia a cui sapevo di non poter fuggire!”
“Voi… sapevate, mio Signore?!” –Azzardò la
domanda Nikolaos, affiancando Zeus nell’ultima parte
della salita, quella che li avrebbe portati nel cuore della foschia sulla
sommità di Elbrus. –“Del ritorno di Caos, voglio dire…”
Il Nume annuì, spiegando di aver avuto uno dei Sette Saggi come
Consigliere, molto tempo addietro, proprio come Nettuno, sebbene nessuno dei
due Cronidi avesse dato loro debito ascolto.
“Ho errato e ne pago le colpe! Ed ho continuato a errare per molto
tempo! I fatti sono noti e non li ripeterò! Dopo la sconfitta dei Titani,
iniziò la nostra Età dell’Oro, l’era della Terza Generazione Cosmica, un’era di
massimo splendore per la nostra civiltà e per gli uomini che ci adoravano!
Templi sorgevano in ogni angolo del mondo conosciuto, offerte venivano raccolte
in nostro onore, sacrifici venivano compiuti in nome di Dei i cui nomi erano
invocati ogni giorno, in ogni momento della giornata di un uomo. Come poteva il
mondo essere più bello di così? Come potevo credere che un giorno tutto sarebbe
finito? No, giovani eroi, non sono mai riuscito ad ammetterlo, eppure l’ho
temuto, per tutto questo tempo, tenendo nascoste le mie paure e sublimandole in
ogni modo possibile, con atteggiamenti lascivi e poco consoni alla figura del
Re accorto e scaltro che sarei dovuto essere! Un Re che del suo popolo ben poco
si curava!” –Ammise Zeus. –“Per questo, quando ritenni che lui mi avesse
tradito, che lui mi avesse disobbedito, come Prometeo millenni addietro, scelsi
la strada della punizione, non della comprensione, vanificando i suoi passati
meriti e decidendo di ricordarlo solo per il suo atto sacrilego! Ti ricordi di
lui, Euro, o la foschia che ho gettato sull’Olimpo lo ha fatto dimenticare
persino a te?” –Esclamò, giunti alla sommità occidentale di Elbrus, una ripida
parete di roccia alla quale un uomo era incatenato, se uomo Euro e Nikolaos potevano definirlo, visto il fisico gracile, quasi
ossuto, che si trovarono a rimirare. –“Vi presento il superbo Toma di Icaro,
l’uomo che volle farsi Dio! Primo mortale ad essere investito del titolo di
Cavaliere Celeste, e ultimo di una lunga schiera di amici che non sono stato in
grado di considerare tali, che non sono mai stato in grado di capire!”
***
Kama non tornava al Grande Tempio da vent’anni, da quando Arles le aveva assegnato quella missione. E se anche da
allora molte cose erano cambiate, per lei come per i compagni con cui era scesa
in Africa, il Santuario della Dea era sempre lo stesso, come se in quella valle
incassata tra le montagne dell’Attica, nascosta agli uomini comuni dal cosmo
della Vergine Guerriera, il tempo si fosse fermato. Tuttavia, varcando il
Cancello Principale, dopo essersi presentata alla garitta delle guardie, notò
un notevole assembramento di forze, assente negli anni in cui aveva vissuto ad
Atene e si era allenata per divenire Cavaliere di Bronzo sotto gli occhi
attenti del suo insegnante.
Soldati riempivano il camminamento di ronda delle mura esterne, altri
passavano marciando, berciando ordini o trasportando carri pieni di legname,
rame e altri materiali di certo destinati alla creazione di armi. Non sembravano
esserci semplici fedeli in giro, nessun uomo o donna, addirittura nessun
bambino, era privo di una cotta da battaglia e tutti guardavano continuamente
il cielo, quasi temessero di vederlo cadere su di loro. Sospirando, la
Sacerdotessa Guerriero comprese che un vento di guerra stava già soffiando
sull’intero Santuario di Atena e che le notizie che avrebbe presto riferito
avrebbero contribuito ad aumentarne l’intensità.
“Kama?!” –Mormorò una delicata voce di fanciulla, costringendola a
voltarsi, per trovarsi di fronte una sua pari, come l’inespressiva maschera che
le copriva il viso testimoniava. –“Sono Yulij del
Sestante, inviata dall’attendente di Atena, Nicole, ad accoglierti!”
“Nicole attendente? Ne ha fatta di strada! All’epoca era solo un ragazzino,
allievo, come me, del grande Magellano della Mensa!”
“Potrai incontrarlo tra breve! Ha ricevuto il tuo messaggio e ti
aspetta alla Tredicesima Casa, assieme ad Atena!” –Spiegò la Sacerdotessa del
Sestante, invitando l’altra a seguirla.
Atena! Mormorò Kama. La Dea che aveva tanto servito,
in terre lontane dalla Grecia, pur senza mai incontrarla, la Dea che le aveva
riempito il cuore e permesso di andare avanti, anche dopo tutta la sofferenza
che aveva incontrato in quel caldo continente, anche dopo che il dolore le
aveva straziato il petto. La Dea che finalmente avrebbe conosciuto. La Dea che forse ho tradito?
Con quel pensiero in mente, e una certa ansia nel cuore, seguì Yulij lungo la strada principale che attraversava il vasto
complesso templare, inerpicandosi poi per un’erta collina, passando attraverso
Dodici Case. Quando era piccola, la maggior parte era disabitata e Kama le
aveva visitate solo una volta, quando Arles aveva
convocato lei, Regor e Magellano.
Nella prima trovò un uomo dai capelli viola intento a riparare alcune
armature. Sembrava molto stanco e fece loro solo un cenno di saluto, forzando
un sorriso e rimettendosi a lavoro, su quella che a Kama parve la corazza
dell’Unicorno.
Deglutì a fatica, ricordando l’uomo cui era stata legata un tempo.
Sospirò, cacciando via quei pensieri, e riprese a salire assieme a Yulij, fino a raggiungere l’ultimo tempio, dove Atena la
stava aspettando. Entrando, fu sorpresa di trovare soltanto tre Cavalieri con
lei: uno era di certo uno dei Custodi Dorati, come testimoniava l’armatura che
aveva indosso, e sedeva tra le colonne laterali tenendo gli occhi chiusi; la
seconda era una Sacerdotessa dai folti capelli rossicci, ma non seppe
identificarne il grado, poiché vestiva una semplice tunica da allenamento,
mentre il terzo, il giovane dalla fluente chioma castana, doveva essere Nicole,
ritto e immobile accanto al trono della Dea. Sì, era decisamente cambiato dai
giorni d’infanzia in cui seguivano le lezioni di botanica, mitologia,
architettura e qualunque altra arte Magellano ritenesse opportuno che
studiassero, per una preparazione più completa del loro ruolo. Non guerrieri, ma protettori. Così amava
definirli il loro maestro.
“Benvenuta ad Atene!” –La salutò la Dea dallo sguardo scintillante,
rivolgendole un cordiale sorriso, proprio mentre Kama si inginocchiava di
fronte a lei, rimanendo per lunghi attimi in silenzio, sospesa tra passato e
presente.
“Dea Atena…io… un
semplice Cavaliere di Bronzo, sono onorata di essere ricevuta direttamente da
voi!”
“Abbiamo passato attraverso tempi in cui il valore dei Cavalieri di
Bronzo è stato ampiamente riscattato!” –Commentò allora Nicole, strappando un
sorriso agli altri presenti, prima di pregare la Sacerdotessa di riferire
quanto di sua conoscenza.
“Lo hanno risvegliato, mia Dea!” –Disse tutto d’un fiato, quindi,
accorgendosi che nessuno sembrava comprendere, aggiunse. –“Il titano dormiente,
colui che giaceva presso la catena montuosa che da lui prese nome!”
“Vuoi dire… Atlante?!” –Sgranò gli occhi
Atena, ottenendo un cenno d’assenso col capo.
“Figlio del titano Giapeto, narrano le
antiche cronache che avesse altezza esorbitante, trenta cubiti, forse più! Si
schierò al fianco del padre, assieme al fratello Menezio,
allo scoppio della Titanomachia, venendo sconfitto e condannato da Zeus a
reggere la volta celeste. Liberato brevemente da Eracle durante l’Undicesima
Fatica, rifiutò di riprendere il suo posto, finendo fulminato da Zeus e
crollando lungo la costa nordafricana, sprofondando in un lento oblio. Leggenda
vuole che tanto devastante fu l’impatto del suo corpo morente che spinse fuori
le montagne dalle viscere della Terra. Dopodiché se ne perse traccia, per
quanto ogni Grande Sacerdote di mente acuta abbia sempre inviato dei Cavalieri
ad effettuare scrupolosi controlli.” –Spiegò allora Nicole, attirando
l’attenzione degli altri.
“Come sai tutto questo?” –Le chiese incuriosita la Sacerdotessa dai
capelli arancioni.
“L’ho letto! Negli Annali del Santuario! Proprio nel libro che il
Cavaliere di Virgo qui presente aveva richiesto due
giorni addietro, sebbene sappiamo che non fosse propriamente lui!” –Sorrise
l’attendente, portando Atena a porre una nuova domanda.
“Quindi tu fosti inviata in Africa da Shin?”
“Per la verità fu l’allora Primo Ministro, Arles
dell’Altare, a inviare Regor della Vela, un Cavaliere
di Bronzo mio pari, che si insediò a Orano, poco distante dalla catena
montuosa, per addestrare apprendisti e al tempo stesso controllare la
situazione. A me fu assegnato un compito più delicato: in virtù dei miei poteri
curativi e delle mie conoscenze botaniche, mi fu chiesto di accompagnare il mio
maestro, il sapiente Magellano della Mensa, in un giro nel continente africano,
per aiutare le varie tribù ad avere una vita migliore.”
“Una splendida iniziativa.” –Commentò Atena, con voce serena, prima di
aggiungere, quasi potesse leggerle nel cuore. –“Non tutti i Cavalieri
combattono in guerra, alcuni sono costretti a prove diverse, senza che questo
sminuisca la purezza dei loro cuori o la loro devozione alla causa!”
“Gra… grazie, mia Dea!”
A quel punto la donna in cotta da battaglia e il Cavaliere d’Oro dagli
occhi chiusi si avvicinarono al trono, sottolineando la necessità di un’azione
rapida.
“Se Atlante è stato risvegliato, di certo andrà a ingrossare le fila
dei nostri nemici! Vorrà vendetta, possiamo starne sicuri, contro Zeus e gli
Olimpi, rei di aver sterminato la sua stirpe!” –Parlò la Sacerdotessa, trovando
il Custode Dorato concorde. –“Dea Atena, è necessario stare in massima allerta!
Assieme all’Olimpo, questo è il posto più probabile dove egli colpirà!”
“Lo temo anch’io!” –Commentò Kama, prima che la Dea chiedesse notizie
sullo stato delle loro difese.
“Asher sta organizzando i vari reparti di
soldati semplici, distribuendoli lungo l’intero perimetro del Grande Tempio, in
particolare ai tre cancelli: orientale, meridionale e occidentale. Il primo
sarà presieduto da Matthew ed Elanor, che hanno accettato di rimanere qua, su
richiesta di Avalon, il secondo sarà difeso proprio dall’Unicorno e da Nemes mentre io mi recherò al varco occidentale, assieme a Reda e Salzius! Il Grande Mur sta terminando di riparare alcune armature e, quando
avrà terminato, presidierà la Prima Casa, Virgo la
sesta e Nicole e Yulij rimarranno qua, a vostra
ultima difesa!” –Spiegò la voce decisa di Castalia.
“Resterò anch’io, se Atena lo permetterà! Minimo è l’aiuto che potrò darvi in
battaglia ma non mi tirerò indietro!” –Intervenne allora Kama, ottenendo un
cenno d’assenso da parte della Sacerdotessa dell’Aquila che le illustrò dove
avrebbe potuto posizionarsi, prima che un rombo improvviso facesse tremare
l’intero Santuario.
Nicole si mise subito di fronte ad Atena, assieme a Castalia e Yulij, mentre Virgo fendeva
l’etere con i propri sensi attenti. Un secondo boato li riscosse, un rumore
sordo che pareva provenire da lontano, ma così intenso da essere udito persino
lassù. Sospettosi e intimoriti, i Cavalieri e la Dea uscirono nel piazzale
antistante la Tredicesima Casa, guardando fissi in direzione del Golfo Saronico.
Proprio da sud, con il sole pallido sopra di lui, un’immensa sagoma avanzava a
passo strascicato. Per quanto fosse ancora distante, non ebbero bisogno di
chiedersi chi fosse, già conoscendo la risposta.
“Nicole! Nel libro che hai letto, viene citato anche un modo con cui
possiamo fermarlo? Esiste un modo per frenare l’avanzata di Atlante?” –Incalzò
Castalia, mentre il compagno scuoteva la testa.
“A meno che qualcuno di voi non sia Zeus, possiamo soltanto
combattere!”
***
“Toma di Icaro?!” –Borbottò Nikolaos, osservando il giovane imprigionato sul fianco
della montagna, proprio come lo fu Prometeo millenni addietro, prima che Eracle
lo liberasse. –“Non conosco questo nome.”
“È naturale! Diedi ordine a tutti
i Cavalieri Celesti e alle Divinità che dimoravano sull’Olimpo di non nominarlo
mai più, pena la morte! Non potevo sopportare di udirne ancora il nome, il cui
suono mi avrebbe ricordato il tradimento in cui ero di nuovo incorso!”
“Quale tradimento, mio Signore?
Cosa vi ha fatto quest’uomo?!”
“A me personalmente? Niente! Ma,
come hai detto tu stesso, è un uomo e tale doveva restare. Invece Toma era
arrogante, altero, sicuro delle proprie qualità, tronfio della sua indiscussa
abilità nel maneggiare le armi e nell’espandere il suo cosmo! Era stato Ermes a
notarlo per caso, portandolo alla mia attenzione, un giovane di talento che
affannava al Santuario di Atena per divenire Cavaliere! Un destino che, con
alterigia, ritenni sprecato per lui, così gli offrii la possibilità di entrare
nella più regale guardia dei Dodici, i Cavalieri Celesti, ed egli si dimostrò
degno dell’incarico, finché non cominciò a volere di più. Come Icaro, il
simbolo della sua corazza, desiderò volare sempre più in alto, accrescendo i
propri poteri, ambendo ad essere potente come un Dio, eterno come un Dio! E,
immagino, crescere in un’accademia frequentata soltanto da figli di Divinità
non fu di grande aiuto alla sua umiltà. Sconfisse Giasone in un torneo,
facendosi vanto di essere il più forte, di essere il novello Eracle del suo tempo.
Sulle prime non me ne interessai, ritenendoli puerili atteggiamenti di sfida
tra maschi, ma quando iniziò a infastidire le ancelle delle Dee, credendosi
degno di incontrarsi persino con una di loro, lo convocai nella Sala del Trono
e lo cacciai.” –Quindi tacque per qualche istante, avvicinandosi al corpo
emaciato del giovane, carezzandogli il volto un tempo bello e sollevandolo,
mentre un torrente di cosmo fluiva dalle dita del Nume verso l’antico
guerriero, risvegliandolo poco dopo.
“Ze…Zeus…” –Mormorò, aprendo gli occhi a fatica. Il Nume annuì,
prima di espandere ulteriormente il proprio cosmo, disintegrando le catene e
liberandolo infine, aiutandolo ad adagiarsi a terra.
“Per anni non ebbi memoria di quel
dialogo, complice l’ambrosia che aveva obnubilato la mia mente, non ricordai
quel che ci dicemmo, dissi a tutti che mi aveva insultato e pertanto lo avevo
punito. La verità tornò a galla solo pochi mesi fa, quando Avalon mi risvegliò,
salvandomi in punto di morte, chiara come era sempre stata, per Toma ma non per
me.” –Confessò, di fronte allo sguardo attento di Euro e Nikolaos,
e a quello ancora frastornato di Icaro. –“Toma sapeva quel che sarebbe
accaduto, quando il varco si sarebbe aperto! Gli avevo parlato, per errore,
della profezia di Vasteras una notte in cui ero
ubriaco e in cui mi aveva aiutato a raggiungere le mie stanze senza che Era se
ne accorgesse. Sapeva e me lo ricordò quel giorno, dicendomi che voleva
diventare più forte per me, per poter combattere al mio fianco, quasi alla pari,
contro l’ombra nascente!”
“Quale…follia…” –Mormorò infine il Cavaliere Celeste, il cui volto
iniziava a colorirsi grazie al cosmo di Zeus. –“Pretendere di diventare un
Dio.”
“Follia che cinque giovani in
questi anni hanno compiuto, mio caro Toma! Sia pur con motivazioni diverse da
quelle che mi rivelasti quella notte!” –Sorrise il Nume. –“Follia che forse non
era realmente, per quanto tale mi apparve! Del resto, in quegli anni di pace e
feste, non mi importava di niente, non volevo che mi importasse di niente! Sapevo
della profezia di Vasteras, del ritorno della prima
tenebra, la sentivo alitarmi sul collo ad ogni tramonto, e volevo nascondermi,
come un coniglio in una buca nel terreno, celando la testa e i muscoli che mi
avevano permesso di sedere sull’Olimpico Trono! Ho dato via Shen
Gado come fosse un oggetto, barattandolo con una Dea disinteressata alle sorti
del mondo; Shen Gado, l’abile guerriero, astuto
stratega che mi era sempre stato fedele! Ho punito Toma perché non potevo o non
sapevo punire me stesso. Ho assistito al tentato omicidio dell'infante Atena da
parte del suo corrotto Sacerdote, senza muovere un dito, del resto la mia
massima fatica è stata per decenni stringere una coppa d'ambrosia o i candidi
seni delle ninfe! Ho lasciato ad Avalon e a dei ragazzini la difesa del
pianeta! Ho permesso che Amon Ra si perdesse nelle
nebbie del tempo, senza fare niente per impedirglielo, senza provare neppure a
dissuaderlo, come se il destino dell'Egitto non mi importasse, come se il
destino di quel regno lontano fosse ininfluente per l’equilibrio del mondo! Per
tutto questo, per non essere stato il dorato re, giusto e accorto, io ti chiedo
perdono, Toma di Icaro, e lo chiedo anche ai tuoi compagni, i valorosi
guerrieri che in mio nome sono caduti. Bronte, Arge, Sterope, Giasone e voi
tutti Cavalieri Celesti, possiate perdonarmi e sostenermi nell’ultima guerra!”
Nikolaos
ed Euro annuirono, sorridendo paghi al Signore del Fulmine, prima di
inginocchiarsi di fronte a lui, rinnovandogli il giuramento di fedeltà. Lo
stesso fece Toma, facendo tintinnare al qual tempo un pendaglio che portava
legato al polso, l’unico ricordo della sua vita precedente all’ascesa
all’Olimpo.
Capitolo 10 *** Capitolo nono: Fuga verso Themiskyra. ***
CAPITOLO NONO: FUGA VERSO THEMISKYRA.
Le Amazzoni erano in rotta, ma Pentesilea non voleva cedere.
L’uomo rivestito di quell’elegante armatura azzurra, magnifica e
temibile come ghiaccio, l’aveva avvisata qualche giorno addietro di tenersi
pronte, ben temendo che quella missione di salvataggio non sarebbe stata
semplice. Ma lei aveva minimizzato, sottolineando la preparazione bellica delle
proprie combattenti, che di certo non avevano bisogno di lezioni di strategia
militare da un elegante damerino venuto dal nord. Alexer aveva sorriso loro e
se ne era andato.
Adesso Pentesilea rimpianse di essere stata così rude, così orgogliosa,
così affrettata. Così me stessa! Si
disse, mulinando l’ascia e mozzando un nuovo robusto tronco di pianta emerso
dal sottosuolo.
Era inutile girarci intorno. Le stavano decimando, e quel che la faceva
infuriare era la codardia dei loro nemici, la loro perversa tattica di
sfiancamento con cui le stavano inseguendo da ore, da quando avevano
abbandonato le rive del Gange, iniziando una lunga marcia sull’altopiano
iranico, dirette verso le coste del Mar Nero, verso la loro ritrovata casa. Non
c’era voluto molto, in realtà, prima che le compagne rimaste nella retroguardia
la informassero che erano seguite, né la notizia l’aveva colta di sorpresa. Si
trovavano, del resto, proprio sotto l’immensa cappa di nubi nere che dal
deserto del Gobi orientale andava espandendosi sull’intero continente, così
vicine alla fonte di tale tenebroso potere.
Solo per quello, per quella malefica vicinanza, alcune Amazzoni erano
cadute. Le più giovani, le più gracili, quelle che più facilmente furono
infettate dal morbo oscuro. Incalzate dalla carica dei nemici alle loro spalle
e dall’opprimente cielo plumbeo, avevano dovuto persino abbandonarne i corpi, trattenendo
le lacrime ma non la rabbia, giurando a loro stesse, e alle compagne perdute,
che sarebbero tornate a tributare loro il giusto addio.
Così adesso stavano correndo, lungo le rive del Mar Caspio, dopo
essersi riposate per una mezz’ora scarsa in una valle pianeggiante che
ritenevano sicura. Non che il loro fisico non fosse abituato a lunghe maratone
sotto il sole o la pioggia, ma l’apprensione continua per un attacco a
sorpresa, il dolore per le perdite e infine il timore per le condizioni di coloro
a cui stavano facendo da scorta avevano spinto Pentesilea a ordinare una pausa
forzata.
Quel che l’ardimentosa condottiera non poteva sapere era che i nemici
erano già intorno a loro. Letteralmente.
All’improvviso, centinaia di robusti steli erano cresciuti dal terreno,
sollevandosi minacciosi e torcendosi, spalancando le loro fauci dai denti
affilati. Stupite da quello che parve loro un incantesimo di magia nera, le
Amazzoni furono lente nel reagire, permettendo che quei fiori serpentiformi, o
qualunque cosa fossero, compissero una strage nella carovana. Furiose e
assassine, quelle strane piante sorgevano ovunque, accanto a loro, sotto di
loro, stritolandole con robusti filamenti, avviluppandole grazie alle
appiccicose secrezioni del fusto e infine fagocitandole con le loro stesse
foglie.
Dopo un breve tentativo di combattimento, Pentesilea aveva dato ordine
di ripiegare, decisa a raggiungere Themiskyra quanto
prima e a chiudersi dietro le sue mura. Là, al sicuro nell’atavica dimora, ove
generazioni di Amazzoni e di loro sovrane si erano succedute, nessun potere
oscuro avrebbe potuto raggiungerle, protette dal cosmo che permeava quel luogo
sacro. Questo, quantomeno, era quel che la snella comandante dai corti capelli
verdi riteneva.
Più difficile fu raggiungere il Mar Nero, mantenendo compatta
l’improvvisata carovana che ben presto si abbandonò ad una fuga scomposta.
“Serrate i ranghi!!!” –Stava urlando in quel momento Pentesilea, mentre
altre Amazzoni tentavano di riportare ordine tra i profughi. Impresa resa
difficile dagli assalti continui che venivano rivolti loro, assalti provenienti
da svariate direzioni e che non riuscivano a controbattere. –“Maledizione!!!
Venite fuori, codardi!!!” –Gridò infine la condottiera, la robusta ascia
sollevata di fronte a sé. –“Finitela di nascondervi
dietro i vostri fiorellini assassini e mostratevi in uno scontro frontale!”
In tutta risposta il cielo, già fosco, si riempì di nuvole del colore
dell’ebano, nuvole che poco dopo scaricarono una devastante pioggia su di loro.
Un acquazzone di certo non naturale, che contribuì ad appesantire il loro
umore, rallentando il rientro a Themiskyra. Prima che
Pentesilea potesse aggiungere alcunché, un nuovo filamento erboso sorse dal
terreno sotto di lei, avviluppandosi lesto alle sue gambe, chiudendole insieme
e gettandola a terra.
“Viscidi bastardi!!!” –Ringhiò la Regina delle Amazzoni, mentre il
tronco della pianta cresceva ancora, fermandole anche le braccia e lasciando
infine scoperta solo la testa, permettendole così di ammirare, in un crescendo
di potenza e spettacolarità, la nascita della foglia madre, che si spalancò di
fronte a sé, rivelando piccioli enormi, simili a denti aguzzi, e una gola rossa
e sanguigna. –“Vogliamo… scherzare?!” –Avvampò
Pentesilea, bruciando il proprio cosmo e riuscendo, con notevole sforzo, a
incendiare la pianta che l’aveva imprigionata.
Ansimando, e chiedendosi il perché di quell’improvvisa fiacchezza, la
comandante vacillò nel rimettersi in piedi, venendo però afferrata da due
braccia robuste prima che cadesse a terra. Percependo il contatto con una dura
armatura da guerra, Pentesilea levò lo sguardo, incrociando quello di Phoenix.
“Cosa ci fai qua?!” –Esclamò all’istante, recuperando postura eretta e
liberandosi dalla sua stretta.
“Sono venuto a darvi una mano, ma vedo che te la cavi piuttosto bene
anche da sola! Tutto sommato!” –Ironizzò lui, gettando una rapida occhiata al
campo di battaglia.
“Il tuo sarcasmo è fuori luogo! Conosci bene il valore delle mie
guerriere, avendolo provato sulla tua stessa pelle! Pur tuttavia questo nemico
ci sta logorando! Da ore mette a dura prova il nostro morale con questi
spregevoli attacchi, rivoltando la natura contro di noi!”
“Rivoltando o abusando della natura…”
–Rifletté il Cavaliere, mentre tutto attorno le Amazzoni brandivano asce e
spade, abbattendo quel giardino di piante carnivore che era sorto per fermarle,
mentre continui scrosci d’acqua e turbini d’aria nera sbattevano loro in
faccia. Persino gli anziani dalle tuniche arancioni, di cui erano la scorta,
sembravano esterrefatti da quella violenza che la natura stava scatenando
contro di loro, mormorando litanie in un linguaggio che Phoenix non conosceva,
ma che gli parve hindi. –“Se a qualcuno piace il gioco sporco, così
giocheremo!” –Avvampò il giovane, bruciando il cosmo e concentrandolo sul pugno
destro, attorno a cui turbinò un vortice di fiamme, prima di sbatterlo con
forza contro il suolo.
Pochi istanti più tardi centinaia di uccelli di fuoco sorsero dal
terreno, distruggendo con rapidi roghi i robusti steli famelici che stavano
impegnando le Amazzoni.
“Verdure troppo cresciute…” –Borbottò
Pentesilea, dando un calcio ai resti carbonizzati di una di quelle piante,
prima di ordinare alle compagne di radunare i monaci e organizzarli per l’ultima
tappa del loro viaggio. Con preoccupato stupore, vide molte di loro faticare
nel muoversi, barcollare e persino cadere a terra, travolte da quel senso di
fiacchezza che aveva invaso anche lei. Guardandole meglio, notò che erano
proprio le guerriere che erano state intrappolate tra le spire di quelle
bizzarre piante a soffrire di più. –“Credo che…” –Ma
non poté terminare la frase che un nuovo gigantesco filamento verde sbucò dal
suolo tra lei e Phoenix, avventandosi sul Cavaliere di Atena e arrotolandosi
attorno al suo corpo. In un attimo il ragazzo venne sbattuto a terra, con gli
arti immobilizzati, mentre una vischiosa sostanza gli imbrattava la corazza e
una bocca dai piccioli aguzzi si spalancava per chiudersi sul suo viso.
“Ah no!” –Commentò la donna, sfoderando l’ascia bipenne e muovendosi
per mozzare la parte alta della foglia, ma questa parve percepire il pericolo,
richiudendosi e sgusciando via, evitando l’affondo, per poi guizzare rapida
avanti, spalancando le fauci e richiudendole sul braccio teso dell’Amazzone. –“Aaargh!!!” –Lamentò questa, tentando di liberare l’arma
racchiusa nella bocca del gigantesco fiore. La strattonò con forza e cedette,
proprio mentre un’aura incandescente, emanata dal corpo di Phoenix, incendiava
il resto dello stelo, permettendo al giovane di liberarsi.
Ancora in ginocchio, prima di rimettersi in piedi, il Cavaliere di
Atena vide che dal suolo sbucava ancora una parte dello stelo, una parte che
andò crescendo in fretta, allungandosi e ricreando le perigliose foglie di
fronte agli occhi sgranati dei due combattenti. Ma prima che potessero agire,
uno scintillio argenteo sfrecciò loro davanti, mentre la pianta veniva
intrappolata in una stretta da una lunga e decorata catena.
“Andromeda!!!” –Esclamò Phoenix, mentre il fratello lo raggiungeva,
rivestito anch’egli della nuova Armatura Divina.
“Non distruggerla, Phoenix! Potrebbe portarci dal mandante di questi
attacchi!” –Spiegò il giovane, suscitando l’interessata reazione di Pentesilea,
che subito chiese come contava di riuscirci. –“Con la mia catena! Dimenticate
forse le molteplici proprietà di cui è dotata?!” –Sorrise Andromeda, prima di
allungare l’arma e conficcarla nel terreno, dandole ordine di seguire il lungo
fusto della pianta fino alla sua origine.
Non ci volle molto prima che la guizzante catena tornasse indietro,
accompagnata da un tremolio del suolo. Con un ultimo scatto, Andromeda
strattonò fuori colui che aveva creato quelle piante da guerra, schiantandolo a
terra con poca grazia, sempre tenendolo nella morsa della sua arma.
“Una donna…” –Mormorò Pentesilea, osservando
la sagoma che si contorceva al suolo, tentando di liberarsi dalla fredda presa
della catena.
Alta e ben fatta, con lunghi capelli arancioni, la guerriera era
rivestita di una corazza nera e verde, con marcati spuntoni posizionati sui
bracciali e sui copri spalle, simili agli aguzzi piccioli delle piante che li
avevano assaliti fino ad allora.
“Chi sei?” –Incalzò subito l’Amazzone, gettandosi su di lei e
afferrandola per i capelli. –“Come osi attaccarci? Paventi forse uno scontro
diretto da ricorrere a simili mezzucci di guerriglia?!”
“Eh eh eh… L’oscura giardiniera niente teme!”
–Sibilò la sconosciuta, fissandola negli occhi per qualche istante. Quindi si
voltò rapida, muovendo le gambe con estrema agilità e colpendo Pentesilea con
un calcio di traverso, nonostante fosse ancora stretta nella catena di
Andromeda, che subito aumentò la presa. –“Via da questi giocattoli!” –E sgusciò
fuori dalla gabbia, sorprendendo i Cavalieri di Atena, ben consapevoli di
quanto fosse vigorosa la presa dell’arma. –“Ci vuol ben altro per tenermi a
bada! La corazza che indosso, al pari delle piante che controllo, è rivestita
da piccole ghiandole che possono secernere una mucillagine collosa o
lubrificante, che mi permette di aderire alle superfici o di scivolarvi addosso
con facilità!”
“Ecco cos’era quella roba appiccicosa!” –Esclamò Phoenix, la cui armatura era
ancora sporca dai resti lasciati dall’ultima stretta.
“Il bacio della drosera lascia evidenti strascichi!” –Ridacchiò la
donna, aggiungendo sardonica. –“Ma non durano mai a lungo, poiché alle vittime
resta ben poco da vivere! Solo il tempo di udire il nome della loro carnefice!
Artemisia della Dionea Assassina, Nefaria dello
Zodiaco Nero al servizio del grande Polemos!”
“Polemos?! Il Demone della Guerra di cui
Sirio ci ha parlato?!” –Intervenne subito Andromeda. –“Pare che la sua forza
sia immensa!”
“Non pare, è! Siete fortunati ad aver incontrato me, e non lui, o non
sareste ancora vivi! Non che siate destinati a rimanerlo ancora per lungo! Ah
ah ah!”
“Se sei forte quanto vigliacca, sarà un bello scontro!” –Esclamò
Pentesilea, facendosi avanti, la lama rivolta verso Artemisia. –“Ho molte
compagne da vendicare!”
“No, fermati!” –La chiamò allora Andromeda, portandosi avanti, di
fronte agli occhi stupiti del fratello. –“Lascia a me quest’avversario! Tu hai
ben altro di cui occuparti, questioni ben più urgenti!”
“Questa donna ha infangato il mio nome, ha massacrato le mie sorelle,
avvelenandole o in qualunque altro losco modo, io devo vendicarle!!!”
“Lo farò io per te! Tu sei una regina, una guida per il tuo popolo, e
hai una missione da portare a termine! Condurre al sicuro i monaci indiani e i
santoni che avete salvato, dietro le mura di Themiskyra!
Non puoi attardarti ancora, non qua!”
Pentesilea rimase un attimo ad osservare Andromeda, l’ascia in mano, lo
sguardo astioso che andava da lui ad Artemisia, finché, con uno sbuffo
frustrato e un rapido colpo di tacchi, non ripose l’arma, dandogli ragione e
voltandosi.
“Oltre ad essere un maschio irritante, ti porti dietro un fratello
saccente! La lista dei tuoi difetti aumenta, Ikki di
Phoenix!” –Brontolò, allontanandosi e strappando un sorriso al Cavaliere della
Fenice.
“Vai anche tu! Temo che lei non sia l’unica!” –Gli disse suo fratello,
trovando Phoenix concorde con i suoi sospetti. Spalancando le ali dell’Armatura
Divina, il giovane dai capelli blu scattò avanti, aiutando Pentesilea a riunire
le truppe e i profughi e a correre lesti verso Themiskyra.
Vedendoli allontanarsi, Artemisia si mosse per seguirli, ma Andromeda
le si parò di fronte, le braccia aperte, le catene che tintinnavano ai lati,
pronte per scattare ad un suo semplice comando mentale.
“Fai sul serio, a quel che vedo! Orbene, lottiamo allora, Cavaliere di
Atena!” –Sibilò la Nefaria, espandendo il proprio
cosmo color verde palude.
“Come sai che ad Atena sono fedele?!”
“Umpf! Le gesta di cinque amici sono ormai
leggenda, cantate già nei regni divini! E il mio maestro, che mi ha donato
quest’armatura, mi ha parlato molto di voi! Male, intendo! Eh eheh! Voi, i bastardi che hanno
assassinato mio fratello, i Cavalieri della Speranza che non si son fatti
remore nell’uccidere un ragazzo di quindici anni!” –Gridò Artemisia, l’indice
destro puntato contro di lui.
“Che stai dicendo? Chi era tuo fratello?!”
“Vedi, neppure lo ricordi! E sia dunque, te lo farò ricordare io,
Andromeda!!! Dionea assassina, colpisci!!!” –Strillò, mentre dal suo braccio
destro sorgeva una gigantesca pianta carnivora di puro cosmo, le cui foglie
aperte parevano bocche affamate che presto si chiusero sull’avversario.
“Catena di Andromeda, poniti a mia difesa!!!” –Esclamò quest’ultimo,
mentre l’arma iniziava a roteare attorno a lui, in infiniti cerchi concentrici,
generando un mulinello contro cui l’assalto nemico si infranse, senza riuscire
a superarlo.
“Se dall’alto non posso passare, posso sempre provare…
dal basso!” –Sibilò Artemisia, volgendo i palmi delle mani verso il suolo e
infondendogli il proprio cosmo assassino. In un attimo un verde stelo sorse tra
i piedi di Andromeda, allungandosi e aggrovigliandosi attorno alle sue
caviglie, stringendo e chiudendo le gambe del ragazzo, facendolo barcollare e
cadere di lato.
Memore di come Phoenix era stato intrappolato poc’anzi, il giovane
bruciò subito il proprio cosmo, liberando una scarica di energia con cui
polverizzò il filamento erboso, prima che crescesse ancora, ma presto altri ne
sorsero tutto attorno a lui, in un tripudio di verde e di rosso. Sogghignando compiaciuta,
Artemisia si preparò per sollevare le proprie creature, intrappolando così
Andromeda e nutrendosi della sua energia, ma, con stupore, vide che il
Cavaliere pareva disinteressarsi di loro, rialzandosi e iniziando a correre
verso di lei.
“Che… cosa?!” –Gridò, sollevando una barriera
di piante a sua difesa, che Andromeda sfondò con la punta della propria catena
d’attacco, abbattendosi poi su Artemisia e scheggiandone l’armatura. Cadendo a
terra, la Nefaria si arrabattò subito per reagire, ma
le sinuose armi del Cavaliere di Atena la raggiunsero all’istante,
moltiplicatesi in così numerose copie che la donna non riuscì a schivarle
tutte, venendo infine afferrata ai polsi, ai calcagni e al collo e bloccata. –“Non…crederti… di aver vinto… Mi basterà espandere ancora il mio cosmo e secernere
abbastanza liquido da…”
“So bene quel che potresti fare!” –Commentò Andromeda con voce atona,
sorprendendo l’immobilizzato nemico. –“Ma non te ne darò il tempo!” –Aggiunse,
concentrando il cosmo sulla mano destra e aprendola poi verso di lei, sì da
investirla in pieno con una scarica di folgori rosa. Una dopo l’altra, si
abbatterono su Artemisia da ogni direzione, colpendola persino in pieno volto,
sfregiandoglielo e insistendo ancora, finché la donna, indebolita e spossata,
non si lasciò cadere sulle ginocchia, grondando sangue. Ma anche allora le
Catene di Andromeda non la lasciarono.
“Vedi… quel che sostenevo è vero. Vi definite
Cavalieri della Speranza, portatori di pace e giustizia, ma siete solo brutali
assassini!” –Rantolò, sollevando la testa e osservando il giovane in Armatura
Divina avvicinarsi a passo lento, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.
Quindi, quasi sentisse il bisogno di giustificare alcune sue affermazioni
precedenti, raccontò quel che era accaduto a suo fratello. –“Il suo nome era Menas ed era stato scelto dal mio maestro per essere uno
dei suoi guerrieri, primi membri della futura Armata delle Tenebre che un
giorno, a sentir lui, avrebbe imperato sul pianeta! Una prova, in vista
dell’ultima guerra! Così ci disse quando venne alla nostra porta, a Kos, a prendere mio fratello! Io, nei suoi progetti, sarei
venuta dopo! Fu l’ultima volta che vidi Menas, poiché
neppure il corpo mi fu riportato! Quando il maestro tornò, in diverse e più
abominevoli forme, mi disse che i Cavalieri di Atena lo avevano ucciso,
decapitandolo, e che egli, per risparmiarmi ulteriore sofferenza, aveva
bruciato i resti, onorandolo anche a nome mio! E che quegli stessi Cavalieri di
Atena lo avevano ridotto in quel modo, costringendolo a vivere come un’ombra!
Capisci, ora? Capisci il mio odio nei vostri confronti?!” –Strillò la donna,
cercando un cenno da parte di Andromeda, di approvazione, di comprensione, di
odio, qualcosa che non fosse l’impassibile sguardo che le stava rivolgendo. Ma
il ragazzo non disse alcunché, limitandosi a portarsi rapido alle sue spalle e
ad afferrare le due estremità della catena con cui le stava bloccando il collo.
Tremando impaurita, Artemisia aprì la bocca per dire qualcos’altro, ma
Andromeda subito tirò da entrambe le direzioni, strappandole un gemito
sommesso, prima di chinarsi e sussurrarle all’orecchio. –“Tutto quel che hai
detto è vero. Noi siamo assassini!” –E la strattonò con così brutale forza da
soffocarla, lacerandole infine la pelle del collo e imbrattando la catena di
sangue nemico.
Solo dopo che il corpo senza vita di Artemisia rovinò a terra e le
catene ripresero a scorrere lentamente lungo le braccia del ragazzo,
riportandosi in posizione difensiva, Andromeda parve notare il liquido
vermiglio che ne chiazzava gli anelli. Lo sfiorò, incuriosito, chiedendosi a
chi appartenesse, prima di crollare sulle ginocchia, sopraffatto dall’enormità
di un gesto che andava contro tutto quello in cui credeva, tutto quello per cui
aveva sempre combattuto.
“Come… ho potuto?!” –Si chiese,
singhiozzando. Ma quando tentò di pulirsi gli occhi, si macchiò il viso di
ulteriore sangue, che pareva moltiplicarsi ogni volta in cui soltanto le mani
lo sfioravano, grondando implacabile lungo la sua corazza, come le lacrime
dell’antica regina offerta in sacrificio a Nettuno. –“Non è possibile…
io non posso aver commesso un simile crimine…
Perché?! Perché?!” –Strillò, battendo i pugni sul suolo, mentre ormai la
pioggia sembrava cessare, lasciando ovunque grosse pozzanghere di fango.
In una di quelle, a pochi passi da lui, comparve l’immagine di una
donna, vestita di raffinati abiti di seta. Una figura snella, dal volto curato,
con lunghi capelli castani e occhi verdi. Gli scivolò accanto, senza che lui
neppure se ne accorgesse, poggiandogli la mano su una spalla e guardandolo con
espressione affranta, ma serena, nient’affatto sorpresa.
“Voi… qui?! Perché?!”
“Sono qui per guidarti, Andromeda!” –Replicò la pacata voce femminile.
–“Per guidarti ad essere ciò che sei! Un assassino!” –
***
Da dietro il vetro dell’Occhio, Selene
osservava il mare.
La chiamavano così, gli scienziati terrestri, quella particolare
configurazione geologica del suolo lunare, sebbene di acqua non ve ne fosse ed
avesse un aspetto ben diverso dalle distese marittime tanto care ad altri Dei
del suo stesso pantheon. Eppure, al pari dei mari terrestri, anch’esso generava
calma e stimolava la mente a pensare, a viaggiare lontano, ad andare oltre.
Oltre cosa? Si chiese la figlia di Iperione
e Tia. Era già andata oltre tutto ciò in cui aveva
creduto. Fisicamente, aveva lasciato il pianeta su cui imperava Zeus e si era
rifugiata in quell’ermo satellite verso cui persino gli uomini parevano aver
perso interesse. Emotivamente, inoltre, aveva rinunciato a tutto ciò in cui
credeva, a quel sogno di pace e serenità che l’aveva spinta a fondare il Reame
Splendente secoli addietro, assieme ad altre dimenticate Divinità. Aveva dato
via tutto ciò che considerava importante, a partire dalle sue figlie, incuriosite
e attratte dalla vita sul pianeta, dai combattimenti dei Cavalieri, da
esperienze che la cattività imposta dalla madre aveva loro precluso. Poi il suo
regno, invaso e messo a ferro e fuoco dai Signori della Guerra, e i suoi
Seleniti, amici con cui aveva creduto di condividere un cammino, ma che adesso
erano morti o l’avevano abbandonata, ripudiando tutti quegli ideali di pace in
cui dicevano di credere.
Da Sin degli Accadi non si era mai aspettata niente, ben conoscendo la
sua indole focosa e guerrafondaia, ma aveva sperato che la lontananza dai
tumulti del pianeta la assopisse, anche grazie alla vicinanza di ben più miti
Divinità, come il saggio Tecciztecatl, o Thot lo
studioso del cielo o Mani, custode dell’ultimo legno di Yggdrasill.
Invece tutti loro l’avevano delusa, tutti avevano scelto di combattere,
lasciandosi trascinare da Atena e da Avalon in una spaventosa guerra che si
sarebbe conclusa soltanto con la distruzione di tutti loro. Cos’altro avrebbero
potuto ottenere, del resto, affrontando le ridestate ombre dei Progenitori?
Selene sapeva, da tempo ormai, quel che riposava nell’intermundi. Era stato
Avalon a parlargliene tempo addietro, quando le aveva chiesto di ospitare il
fratello sulla Luna, per proteggere il regno da un eventuale attacco. In
verità, e solo adesso lo aveva capito, il Signore dell’Isola Sacra voleva solo
mettere le mani sullo Scettro di Luna, il Talismano che Elanor celava, e lei,
stupida, lo aveva permesso! Lei, ingenua, gli aveva permesso di portarle via la
primogenita!
Un’improvvisa rabbia la invase per un momento, spingendola a colpire
con forza il vetro della grande sfera. Lo percosse per qualche minuto,
singhiozzando, finché, troppo debole e insicura, non dovette cedere alla
stanchezza, accasciandosi contro la parete interna dell’Occhio. Sola.
Era così strano esserlo, adesso. Per tutti quei secoli vissuti fuori
dal mondo, e forse anche dal tempo, aveva sopportato gli schiamazzi delle sue
cinquanta figlie, che amavano rincorrersi per le molteplici stanze del palazzo,
i non troppo celati tentativi di Elanor di farsi addestrare ad essere un
guerriero, le richieste di Sin di intervenire negli affari degli Dei terrestri
o le chiacchiere degli altri Seleniti, quasi sempre reminescenze di tempi che
furono, a cui guardavano con nostalgia. Ma adesso, che di quel periodo non era
rimasto niente, soltanto mura abbattute di sabbia lunare, realizzò quanto
fossero stati importanti, tutti loro, per riempire la sua vita, per trasformare
quel solitario satellite in un regno e in una famiglia.
Che cosa mi resta? Si chiese.
Passi leggeri sul pavimento la distrassero, spingendola a sollevare lo
sguardo proprio mentre un giovane dai lunghi capelli celesti entrava nella
sala, portandole una tazza fumante di un infuso appena preparato. Con dolcezza,
la aiutò a rialzarsi, invitandola a sedersi sul morbido velluto di una sedia
imbottita, carezzandole i capelli e pettinandoli all’indietro, in modo da
rivelare il bellissimo viso dalla candida pelle che amava sfiorare con le
labbra nelle loro eterne notti insieme. Fin dalla prima, in quella caverna
nell’Elide, dove era iniziato il loro amore.
“Riposati, mia amata!” –Le disse, baciandola sulla fronte e tenendola
stretta per lunghi istanti. Senza aggiungere altro, ma comprendendo, come solo
anime unite da secoli di amore potevano fare, Endimione la consolò,
infondendole quella sicurezza di cui aveva bisogno, colmando quel senso di
perdita e protezione che l’aveva invasa da quando avevano lasciato Atene e
l’assemblea. –“Prenditi tutto il tempo che vuoi! Ti aspetto nelle nostre
stanze!” –Le mormorò, carezzandole un’ultima volta il viso e allontanandosi.
Come sempre, il figlio di Zeus non aveva detto niente, neppure avanzato
l’ipotesi di criticare la decisione della compagna, e Selene
non poté fare a meno di chiedersi quanto davvero fosse concorde o quanto la
forza del loro amore, di quell’amore che gli aveva soffiato in sonno, secoli
addietro, obnubilasse il suo giudizio. Quale che ne fosse la causa, Endimione
era ancora lì. Al suo fianco. E a quell’unica certezza la Dea della Luna si
aggrappò per farsi forza.
Ecco cosa mi resta! L’amore!
Che Atena e Avalon giocassero pure con i loro soldatini! Che Shen Gado e gli altri Seleniti andassero pure a morire! Lei
non aveva bisogno di loro, lei aveva Endimione ed egli era tutto quel che
desiderava! Egli era la sua vita, tutto il resto sarebbe pure potuto svanire,
divorato da un’ombra che nessun’alleanza avrebbe potuto contenere!
Fu allora che udì dei rumori provenire dal salone di ingresso, un suono
sgraziato ben lontano dall’eleganza con cui l’amato era solito muoversi. Invasa
da un inesprimibile affanno, Selene si alzò di
scatto, lasciando cadere la tazza e la sedia e iniziando a correre lungo le
vuote stanze del palazzo, fino all’atrio centrale. Scalza, quasi ruzzolò sui
gelidi gradini, inorridendo di fronte alla scena palesatasi di fronte ai suoi
occhi.
Sulle scale esterne, proprio dove aveva accolto Atena, Avalon e i suoi
seguaci, a due passi dalle colonne ove Asterios era
solito suonare la cetra, allietando le giornate del reame, giaceva il corpo
senza vita di Endimione, dilaniato da un unico affondo che gli aveva squarciato
il petto, insozzandone le bianche vesti e strappandogli persino il dono di
Zeus.
In piedi, sopra di lui, una donna alta e snella, dai lunghi capelli
viola, rivestita da una tunica scura, reggeva in mano il cuore di colui che
aveva tanto amato. Lo stringeva avidamente, inebriandosi del sangue divino che ruscellava sul suo braccio, e, non appena la vide, la
salutò con un perfido sorriso.
“Non c’eravamo ancora presentati ufficialmente! Permettimi di
rimediare! Il mio nome è Nyx, che è Notte! E sono
tornata per finire il lavoro iniziato giorni addietro e che Avalon mi ha
costretto a lasciare a metà!” –Quindi, senz’altro aggiungere, avvicinò il cuore
sanguinolento al proprio volto e vi affondò i canini, ingorda.
A quella visione, Selene perse ogni controllo
di sé e urlò.
Capitolo 11 *** Capitolo decimo: L'ora più buia. ***
CAPITOLO DECIMO: L’ORA PIU’ BUIA.
Sul pendio crivellato dell’Etna uno scontro violento stava
consumandosi, tra Erebo, Signore dell’Oscurità Infernale, e uno sparuto gruppo
di massacrate Divinità, che ancora tentava di resistere all’avvento delle
tenebre. Con un’esplosione devastante, il Dio ancestrale scaraventò Ermes, Efesto, Eracle e Pegasus a molti metri di distanza,
danneggiando le loro corazze e piombando poi sul Cavaliere di Atena, che così
tanto interesse aveva in lui suscitato, con quel cosmo di notevole potenza che
non avrebbe invece dovuto possedere.
“Sentiti onorato, cavalluccio dei cieli, sarai il primo a cadere, per
la gloria di Erebo!” –Sibilò il Nume, ergendosi dominante su di lui, con le
dita della mano destra tese a guisa di spada e il braccio carico di energia
oscura. Lo calò lesto sul ragazzo, ma questi fu ancora più rapido a rotolare di
lato, sfruttando la declività del versante, e a portarsi ad una certa distanza,
sebbene Pegasus fosse certo che nessuna distanza lo avrebbe messo al sicuro da
lui. –“Esiti, Cavaliere?! Non vuoi abbracciare la mia tenebra? Forse credi non
sia adatta a te, che così disperatamente aneli alla luce? Orbene ti sbagli,
perché la luce che tanto ami ti è stata donata dagli Dei ancestrali, al pari
delle tenebre stesse, è un dono nostro ed è giunto il momento di
riprendercelo!”
“Di che vai cianciando?!” –Borbottò Pegasus, tenendosi il braccio
destro dolorante. Non lo avrebbe di certo ammesso, ma gli doleva oltre ogni
dire, ustionato fino alle ossa da quell’aura venefica che soltanto standogli
vicino Erebo poteva emanare.
“Non conosci la storia della luce e dell’ombra? Dunque non sai neppure
contro chi stai combattendo, Cavaliere di Atena! Una lacuna non da poco in una
strategia bellica, non credi?!” –Rise Erebo con quella voce cavernosa, resa
ancora più metallica dalla maschera che gli copriva il volto. –“E sia, te la
racconterò in breve, come regalo per il cosmo che sei stato in grado di tirar
fuori da quel corpo mortale! Agli albori del Mondo Antico, dopo che il nostro
signore Caos ebbe generato la vita, nacquero i primi Dei, e Nyx,
mia madre e sposa, che avete di recente incontrato, fu la prima ad essere
generata. Ella è la Notte del mondo e dal suo grembo fui partorito io, Erebo,
la Tenebra Infernale, due diversi gradi di oscurità, uno per il regno dei vivi
e uno per quello dei morti. Ma Caos, munifico e misericordioso, comprese che
gli uomini non potevano vivere nell’ombra, poiché nessuno avrebbe potuto
ammirare il grandioso lavoro di creazione che aveva compiuto. Così Nyx ed io ci unimmo, generando gli Dei gemelli, Etere ed Emera, la luce del cielo ed il giorno, in modo da
costituire un quartetto perfetto di Divinità ancestrali, concorrenti e
complementari nei nostri poteri. Ma adesso, a giudicare dallo scempio che voi
uomini avete fatto dei doni del cielo, è arrivato il momento di portarvi via
tutto e ritornare a quel buio primordiale in cui la vita ha avuto origine, e
dove finirà! Addio, Cavaliere di Pegasus!” –Declamò il Nume, puntandogli contro
l’indice destro su cui il suo cosmo lampeggiò vivido.
“A terraaa!!!” –Gridò una ruvida voce
maschile, afferrando il paladino di Atena e gettandolo contro il suolo,
schiacciato da un robusto corpo che venne in parte raggiunto e ferito dal
fulmineo attacco di Erebo.
“So… Sommo Eracle!!!” –Lo riconobbe Pegasus,
mentre il figlio di Zeus affannava nel rimettersi in piedi.
“Stai bene, ragazzo?!” –Ma Pegasus non ebbe il tempo di rispondergli
che già Erebo era balzato in alto, dirigendo migliaia di strali di energia
oscura contro di loro, che dovettero separarsi e correre in ogni direzione per
evitarli, sebbene quella pioggia continua non accennasse a perderli di vista,
seguendoli in ogni passo.
“Ahuahuahu! Correte, sì, correte a nascondervi come topi! Ma non
vi sono nascondigli in questo mondo ove le tenebre non possano arrivare!” –Rise
l’ancestrale Nume.
Eracle, dopo una breve corsa, capì che le parole avversarie erano vere
così si fermò e tentò di rispondere ai colpi di Erebo, espandendo il proprio
cosmo e generando un’onda di energia su cui la pioggia nera si infranse.
“La tua fede negli uomini non basterà a salvarti, figlio bastardo di
Zeus! Come puoi aver fede in una razza così debole e immatura? Ti perderai, per
questo!” –Chiosò la Tenebra Ancestrale, aumentando l’intensità dell’assalto,
ormai diretto per intero contro di lui, fino a piegarlo a terra, ancora con un
braccio alzato, ancora con quell’onda di energia a sua difesa, sebbene molti
fossero comunque gli strali oscuri che la stavano trapassando in più punti. –“Muori,
Protettore degli Uomini! Che la tua morte sia da monito per l’umana stirpe!”
“No!!!” –Gridò Eracle, bruciando al massimo il proprio cosmo divino e
trovando persino la forza per rimettersi in piedi, spingendo entrambe le
braccia avanti, cariche di una così elevata quantità di energia che Pegasus
poche volte aveva percepito.
Fu quel gesto, quella postura di sfida, di mancata rassegnazione, a
spingerlo a reagire. Aveva corso lungo il versante devastato, osservando i
corpi moribondi degli Heroes sparsi sul terreno,
finché l’intensità della pioggia di daghe non era scemata, dirigendosi per
intero contro il figlio di Zeus, un Dio che non aveva mai incontrato, non di
persona almeno, per quanto qualcosa, nei suoi ricordi o forse nelle memorie di
vite passate, gli fosse familiare. Infastidito da quei pensieri fuorvianti,
Pegasus scosse la testa, avvampando nel proprio cosmo celeste e scattando verso
il cielo, incurante del dolore al braccio destro, che portò avanti, liberando
il suo massimo assalto.
“Cometa di Pegasus!!!”
–Gridò, mirando alla schiena del Nume, ancora intento a dirigere i suoi
attacchi contro Eracle, e strappandogli un gemito di genuina sorpresa. Gemito
che comunque non gli impedì di spostarsi di lato, mentre la luminosa sfera gli
sfrecciava davanti andando proprio a cozzare contro l’enorme massa energetica
radunata dall’eroe di Tirinto, lasciando che
esplodessero al sol contatto.
“Bum!” –Sibilò divertito Erebo, balzando indietro con un’agile piroetta
a mezz’aria e atterrando poco sopra i due avversari, separati adesso da un
enorme cratere che aveva ulteriormente sfigurato la morfologia del rilievo.
Ghignando divertito, il Tenebroso li osservò, stanchi e fiaccati, crollare uno
dopo l’altro ai margini di quel buco enorme, proprio mentre un ronzare
metallico richiamò la sua attenzione.
Voltandosi verso il cielo, Erebo vide due strani apparecchi volare
sopra l’Etna, congegni a lui ignoti ma che di certo dovevano essere prodotti
dall’ingegno umano. Due scatole di metallo sopra le quali delle lastre grigie
dello stesso materiale roteavano all’impazzata, producendo quel rumore
fastidioso.
“Abbiamo dei visitatori!” –Commentò, sollevandosi grazie al proprio
cosmo e avvicinandosi per vedere meglio, osservando così lo stupore dipingersi
sui volti degli uomini che effettivamente alloggiavano dentro quegli strani
apparecchi volanti. Uno di loro impugnò quella che a Erebo parve un’arma e la
puntò contro di lui, sparandogli contro una serie di pezzetti di metallo che
andarono vaporizzandosi al solo contatto con l’aura mefitica che lo avvolgeva,
stupendo ulteriormente quegli uomini. –“Patetici esseri umani!” –Sibilò,
aprendo le braccia di lato e generando, da ciascun dito artigliato, un dardo di
energia oscura che coprì in un lampo la breve distanza dagli elicotteri,
raggiungendoli e facendoli esplodere.
In un tripudio di risa e lacrime di contentezza, Erebo atterrò di nuovo
sul pendio dell’Etna, mentre le carcasse degli aeromobili e dei loro occupanti
piovevano ovunque attorno a lui.
“Sei… un folle omicida!” –La voce di Pegasus
lo raggiunse poco dopo, mentre il ragazzo affannava nel rimettersi in piedi.
Erebo lo osservò incuriosito, quasi affascinato da quella determinazione che
non aveva mai trovato in alcun essere umano: aveva l’armatura danneggiata in più
punti, addirittura distrutta attorno al braccio destro, numerose ferite aperte
sul corpo e sul viso, eppure si alzava ancora, mentre Eracle e gli Dei
dell’Olimpo giacevano riversi a terra.
“Perché?!” –Non poté fare a meno di chiedersi, avanzando a passo deciso
verso di lui, deciso a studiarlo in profondità, a capire il mistero che la sua
figura suscitava.
Vedendolo arrivare, Pegasus sollevò le difese, bruciando il proprio
cosmo al massimo, come aveva fatto ogni volta in cui aveva dovuto lottare per
la sua stessa vita, ultimo baluardo per la difesa delle genti del pianeta e di
Atena.
“Fulmine…di…”
–Rantolò, portando avanti il braccio destro. Ma prima ancora di riuscire a
liberare la pioggia di stelle, capì che Erebo si era già portato dietro di lui
e gli aveva afferrato il braccio, torcendoglielo in una posizione innaturale,
strappandogli un grido disperato che saturò la caliginosa aria di quel giorno
d’autunno. Un’ultima pressione e il rumore sordo di un osso che si spezzava. –“Aaahhh!!!” –Gridò il Cavaliere, crollando a terra e là
rimanendo, il volto impastato di sangue, polvere e sconfitta. Non che fosse la
prima ferita in una battaglia, ne aveva subite molteplici nel corso degli anni
e vi era stato persino un tempo in cui, giovane ragazzino arrogante, aveva
ritenuto che ogni ferita fosse una medaglia di cui un maschio avrebbe potuto
gloriarsi, un segno di virilità e coraggio. Col tempo aveva abbandonato quei
pensieri un po’ barbari, pur rimanendo convinto della necessità di rischiare
sempre, di osare sempre, contro qualsiasi nemico, indipendentemente dal costo.
Il calcolo del rischio era un gioco che non aveva mai praticato.
Eppure, in quel momento, con l’alito nero del Tenebroso che incombeva
su di lui, schiacciandolo in una fossa che presto sarebbe divenuta la sua
tomba, capì di essere inutile, di non poter fare niente contro una così potente
e antica Divinità. Anche Eracle e gli altri Dei dovevano averlo capito,
abbandonatisi tutti a quell’ultimo torpore che presto li avrebbe abbracciati in
maniera definitiva.
“Che stai facendo? Rialzati, Pegasus!” –Esclamò una voce
all’improvviso, catturando l’attenzione del Cavaliere. –“Da quando ti lasci
andare? Da quando hai rinunciato a credere in te stesso?”
Pegasus mosse appena un occhio, mettendo a fuoco una luccicante
immagine appena apparsa sul campo di battaglia. Gli bastò guardare l’armatura
che aveva addosso per capire chi fosse, ricordando bene quel che Lady Isabel
gli aveva raccontato sulla Luna. Giovane e bello, con mossi capelli neri e
occhi scuri, Bellerofonte di Pegasus lo fissava con
sguardo deluso.
“Sei il Cavaliere della Speranza! Per Atena e per gli uomini tutti! Non
vuoi tenere fede al tuo nome?”
“Contro Erebo… non c’è speranza…”
–Mormorò il ragazzo, strappando un sorriso al suo antico predecessore.
“Forse è così! Ma anche contro Gemini lo credesti, eppure quattro amici
ti diedero la forza per arrampicarti, privo di sensi, su un’erta scalinata e
recuperare l’Egida che salvò la nostra Dea? E contro Nettuno? Pur di fronte
alla vanità dei tuoi tentativi, a quella maledetta freccia d’oro che continuava
a tornare indietro e a ferire a morte i tuoi compagni, rischiasti tutto quello
che avevi di caro? La tua vita e quella dei fratelli con cui hai condiviso il
cammino. Di certo lo ricordi, non hai bisogno che uno sconosciuto te lo
rammenti! Ma ciò che non puoi sapere è che questo sconosciuto che ti osserva da
tempo, da quando indossasti per la prima volta l’armatura del destriero alato,
crede in te, ultimo eroe di una lunga stirpe! L’ultimo anello di un’epopea
iniziata molti secoli addietro! Su te ricade l’onore e l’onere di difendere
Atena, la Dea di tutti noi Cavalieri! Se non lo farai tu, anch’ella scivolerà
nell’ombra! E io non posso accettarlo, Pegasus! Non posso ammettere di aver
atteso così tanto solo per vederla morire nell’infelicità e nel dolore della
sconfitta! Per cui rialzati, Cavaliere, per tutti i motivi che sai giusti, per
donare amore ad una Dea che scelse di privarsene secoli addietro e per
combattere con lei, tutti assieme, contro l’ombra!”
“Bellerofonte…io…
lo farò!” –Rantolò Pegasus, chiudendo le dita a pugno, mentre Erebo, sopra di
lui, calava di nuovo il tacco sulla sua schiena, spaccandogli un’altra placca
dell’armatura. –“Brucia cosmo delle tredici stelle! Brucia come hai sempre
bruciato fin dal Mondo Antico! Per Atena!!!” –Gridò, mentre tutto il cosmo
accumulato, tutta la fede che aveva sempre provato nel lottare per l’umanità e
la giustizia, esplodeva repentino, in un bagliore abbacinante che stupì lo
stesso Erebo, scagliandolo molti metri addietro.
“Co… cos’era quello?!” –Annaspò sorpreso,
sollevando le braccia di fronte a sé. Per qualche istante rimase immobile,
temendo un nuovo attacco del giovane, ma quando vide che era riverso al suolo,
il braccio destro giù lungo disteso, inutile ormai, rilassò la propria postura,
osservando i bracciali della corazza delle tenebre, che maggiormente erano
stati esposti all’improvvisa vampata del cosmo avversario. Li tastò,
stupefatto, trovandoli caldi, persino fusi in alcuni punti, e inorridì, conscio
di quel che il Cavaliere avrebbe potuto fare se fosse stato al pieno delle sue
forze.
Il Nono Senso. Mormorò, mentre un velo di preoccupazione
calava sui suoi occhi rossi. No, che sciocco.
Non può essere quello, i corpi riversi di Efesto, Ermes
edEracle lo testimoniano. Pegasus è
già oltre!
I suoi pensieri furono interrotti dalla lucida consapevolezza che lo
spinse ad avanzare verso di lui, il cosmo oscuro che cresceva attorno al suo
corpo. Aveva sottovalutato fin troppo quel ragazzino, credendo fosse solo un
semplice essere umano, ma adesso avrebbe rimediato al suo errore, estirpando in
toto la remota possibilità che qualcuno potesse tenergli testa.
“Addio, campione tra gli uomini!” –Gridò, sollevando il braccio e
aizzando un’onda di energia oscura, che sfrecciò verso il corpo inerme di
Pegasus. Fu solo all’ultimo che vide una figura schizzare davanti a lui, aprire
le braccia di lato e gridare.
“Specchio delle Stelle!!!”
–E una muraglia trasparente, di puro cosmo, si interpose tra il suo assalto e
la preda, una muraglia che il suo ideatore faticava a tenere in piedi e che un
attimo dopo Erebo mandò in frantumi, semplicemente sbattendo le palpebre,
scaraventando indietro l’impavido eroe che si era eretto a difesa del Cavaliere
di Atena.
Prima ancora che potesse fare altro, il Nume si accorse di essere
attorniato da una selva di piume rosacee, mentre una nenia riempiva l’aria, una
nenia che uno dei guerrieri di Eracle aveva appena intonato.
“Eterna danza di piume!”
–Cantò Adone dell’Uccello del Paradiso, suscitando l’ilarità della Tenebra
Ancestrale.
“Vorresti intrappolarmi in una gabbia di piume? Giovane eroe, sei
quantomeno stupido da credere che una simile tecnica possa avere effetto su di
me?!” –Avvampò, espandendo il proprio cosmo mortifero che fece appassire le
piume e scivolò sinuoso verso il guerriero cipriota.
“Quel tanto che basta!” –Si limitò a commentare quest’ultimo, mentre
veniva stritolato dalla spirale tenebrosa, che quasi gli mozzò il respiro. Fu
allora che una voce ruggì alle spalle del Nume Primordiale, anticipando una
devastante zampata di energia.
“Ruggito dell’Orso Bruno!!!”
“Di nuovo?! Siete monotoni e privi di strategia!” –Rise Erebo,
voltandosi e aprendo il palmo della mano di fronte a sé, su cui l’affondo energetico
impattò, spingendolo indietro di qualche passo, scavando solchi nel terreno,
prima di esaurirsi, di fronte allo sguardo attonito di Nestore dell’Orso. –“Sei
morto, gigante!” –E glielo rimandò indietro, nella sua totalità, aggiungendovi
anche una miriade di dardi di energia che crivellarono la corazza del
guerriero, scaraventandolo molti metri a valle, in un lago di sangue. –“Pare
che la festa sia finita!”
“Non ancora!” –Tuonarono alcune voci tutte assieme, portando Erebo a
voltarsi e ad osservare tre Divinità rimettersi in piedi, pur con le armature
danneggiate e i volti pesti e logori. –“Tre Divinità del defunto passato che
l’ombroso vento del presente adesso spazzerà via!” –Ironizzò, lanciandosi alla
carica.
“Kerykeion!!!”
Ermes fu il primo ad attaccare, dal punto più alto in cui si trovava,
liberando un rapido fascio di energia, simile ad una lunga asta attorno alla
quale erano avviluppati due serpenti, che piombò su Erebo, costringendolo a
scartare di lato, per evitarlo. Così facendo, il Nume venne investito dalla
marea di lava ardente scatenata da Efesto che, con un
ginocchio e una mano a terra, stava fondendo l’intero versante del vulcano,
mutandolo in magma. Una grossa bolla esplose proprio di fronte al Tenebroso,
distraendolo quel tanto di cui Eracle ebbe bisogno per balzare in alto e
scatenare il più furente dei suoi attacchi, quello che comprendeva le vittorie
e le stragi del suo passato.
“Fiere del mito!!!” –Tuonò
il Campione di Tirinto, mentre una tempesta
energetica piombava su Erebo, una tempesta che aveva la forma delle bestie da
lui affrontate nel Mondo Antico. Osservandola stranito, quasi affascinato, il
Nume Ancestrale vide l’Idra di Lerna, il Leone di
Nemea, gli Uccelli di Stinfalo, persino Ladone, spalancare le fauci e puntare verso di lui, dome e
ormai schiave della forza del Protettore degli Uomini. Rise, per quella
situazione stramba in cui, secondo i tre Olimpi, avrebbe dovuto essere vinto
proprio da simili fiere infernali, progenie degli Dei Ancestrali, e fece per
muoversi, accorgendosi solo allora che il magma ardente era solidificato
attorno alle sue gambe, pietrificandolo sul posto. Poté solo lanciare a Efesto uno sguardo indemoniato prima che la tempesta di
energia lo investisse in pieno.
“Incredibile!” –Mormorò Pegasus, una ventina di metri più in basso,
osservando il devastante assalto raggiungere Erebo. Un potere così vasto e al
tempo stesso fresco e vigoroso, nobile ed eroico, che sembrava tracimare dai
confini del mito. Sorrise, per quanto gli facesse male persino tendere i
muscoli facciali, rimettendosi in piedi a fatica e iniziando ad avanzare verso
lo scontro in atto.
Erebo era imbestialito. L’attacco di Eracle lo aveva travolto in pieno
petto, piegandolo all’indietro, ma essendo le sue gambe murate dentro il suolo
aveva sentito anche dolore agli arti inferiori. Dolore. Qualcosa che mai
aveva provato fino ad allora, neppure quando la Prima Guerra era terminata e la
sua esistenza, e quella degli altri Progenitori, era giunta al termine. Almeno
per quell’epoca.
Era stato un trapasso indolore, in fondo, un atto di misericordia per
permettere al loro creatore di combattere quegli insulsi esseri umani che
avevano ardito ribellarsi a lui, al genitore che aveva dato loro la vita. Con
quel disprezzo nell’animo, aveva accettato di buon grado la richiesta di Caos
ed era scomparso dall’esistenza. E adesso, a eoni di distanza, continuava a
provare lo stesso disgusto per la razza umana e per quegli insulsi Dei minori,
nati da una costola delle antiche entità, che claudicavano nel difenderli.
“Una folliaaa!!!”
–Tuonò, avvampando nel proprio cosmo oscuro, che esplose attorno a sé,
liberandolo da quella temporanea prigionia di roccia e magma e permettendogli
di ergersi in tutto il suo terrificante splendore. –“E la follia va estirpata
nell’unico modo possibile! Tagliandole la testa e cicatrizzandola con il fuoco
dell’oblio, sì da non permetterle di rinascere! Lo sai bene, Eracle, poiché
così tu vincesti l’Idra, nevvero?!” –Sghignazzò il Nume, lasciando scivolare la
tenebrosa aura mefitica lungo l’intero pendio, assorbendo ogni forma di vita,
svuotandola di ogni energia.
Appassirono erba e piante, si
sgretolarono rocce e pietre, crollarono a terra tutti i guerrieri e gli Dei che
attorniavano il Signore delle Tenebre, prostrati da conati di vomito, da fitte
così profonde che avrebbero fatto rimettere loro persino l’anima. Soddisfatto
dall’udire quei gemiti di sofferenza, Erebo volse lo sguardo attorno a sé, ad
osservare coloro che avevano tentato di resistergli e che, dovette ammettere,
l’avevano impegnato più di quanto avesse creduto inizialmente, specialmente
uno, quel ragazzo dalla danneggiata armatura azzurra.
Solo perché ho voluto giocare con loro! Si disse il Nume, torcendo
le labbra sotto la maschera terrificante e lasciando che gli occhi rossi
lampeggiassero divertiti al pensiero della sua prossima mossa.
“Mi…
sento prosciugare…” –Mormorò Adone, che non riusciva
a stare in piedi con le poche forze che gli restavano.
“È come…
se ci stesse svuotando di ogni energia!” –Concordò Marcantonio dello Specchio,
trascinandosi inerte lungo il pendio, desideroso di unirsi al Sommo Eracle e
lottare con lui ma incapace anche solo di chiudere le dita a pugno. –“Presto
del nostro corpo rimarrà solo un simulacro di paura e morte…
niente più…”
“No! No! Io non ci sto!!!”
–Ringhiò Nestore dell’Orso, affannando nel disperato tentativo di rialzarsi, ma
crollando ripetutamente al suolo. –“Abbiamo aspettato secoli per cosa? Per
morire qua, alla prima occasione di lotta? Che ne è stato di tutti i nostri
ideali, dei ricordi dei giorni lieti trascorsi assieme a Tirinto,
dei compagni che abbiamo lasciato indietro? Dobbiamo…
contrastare quest’ombra infinita!”
“Nestore ha ragione!” –Parlò
allora il figlio di Zeus e Alcmena. –“Troppo dipende
da noi, le sorti di un mondo intero che abbiamo giurato di proteggere! Vogliamo
abiurare alla nostra stessa promessa?!”
Gli Heroes
non risposero alcunché, limitandosi a bruciare quel che restava dei loro cosmi,
contrastando con essi i venefici effetti dell’aura nociva di Erebo, e a
rimettersi a fatica in piedi. Eracle aveva già fatto lo stesso, imitato da
Ermes, Efesto e dal Cavaliere di Atena. Adesso erano
tutti attorno al Nume Ancestrale, avvolti nei loro cosmi portati al parossismo,
sette punte di un eptagono i cui colori traballavano pallidi, schiacciati dalla
montante marea d’ombra.
“Grazie, Cavaliere di Pegasus!”
–Gli disse Eracle. –“Vederti combattere, pur tra mille difficoltà e patimenti,
ha ricordato a me e agli altri figli di Zeus per cosa lottiamo! Se un uomo è
disposto a tanto, possono gli Dei essere da meno?!”
Ermes ed Efesto
annuirono, preparandosi a liberare i propri colpi segreti, certi ormai di avere
a disposizione solo un’ultima possibilità. E forse neppure quella.
Erebo sogghignò, sollevando ambo le
braccia sopra la testa, mentre l’aura tenebrosa che lo attorniava si innalzava
di conseguenza, divenendo un’altissima barriera che confluì in una spirale
d’ombra proprio sopra di lui. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, gli Heroes attaccarono dal basso.
“Ruggito dell’Orso Bruno!!!” –Tuonò Nestore, subito affiancato da
Adone e da una tempesta di fiori di energia, prima che la voce di Marcantonio
sovrastasse entrambi, rilasciando un tripudio di colori. –“Cadi Erebo! Sotto il
Glorioso Inno degli Eroi!”
Il triplice assalto sfrecciò verso
il Nume alla velocità della luce, senza che ne fosse affatto turbato. Ghignò,
socchiudendo gli occhi di brace, mentre l’energia nemica confluiva nella
spirale d’ombra, venendone risucchiata, un attimo prima che il Nume abbassasse
le braccia, rilasciando una devastante onda di tenebra che travolse gli Heroes, risucchiandoli in un vortice che maciullò le loro
corazze e i loro corpi.
“Scappate!!!” –Gridò loro Eracle,
gettandosi poi all’assalto, il cosmo che riluceva lungo l’arto destro. –“Fiere del mito!!!” –Ermes ed Efesto colpirono all’unisono e dopo di loro fu Pegasus a
caricare, servendosi del braccio sinistro, con cui scagliò la Cometa Lucente verso il comune nemico.
Ridendo sguaiatamente, Erebo mosse
le braccia verso il basso, servendosi della corrente venefica per darsi lo
slancio e balzare in alto, con una grazia che stupì gli Olimpi, prima di
riportare gli arti sopra il capo, l’intero corpo avvolto da una spirale d’ombra
e radunare il cosmo in un’unica gigantesca sfera nera.
“La fine che tanto paventavate è
giunta! Addio, Dei moderni! Addio, uomini mortali! Questo è il giorno che
dissolverà il mondo terreno in cenere, il risveglio del giudice severo, re di
tremendo potere! Questo è il giorno dell’ira!!! Diesirae!!!”
La devastante sfera di energia
fagocitò gli attacchi avversari, disperdendoli come fossero brezza, prima di
abbattersi tra Pegasus e i figli di Zeus, sventrando il fianco del vulcano, ed
esplodere in una tempesta energetica, mista ai lapilli e ai fiotti di lava che
schizzavano ovunque. Per prima l’inarrestabile onda mirò a Eracle, la cui
corazza già distrutta lo rendeva bersaglio facile, ma non riuscì a raggiungerlo
completamente, frenata dall’agile balzo di una figura che colpì il Dio al petto
col tacco dell’armatura, spingendolo fuori dal nucleo centrale dell’assalto.
“Adoneee!!!”
–Gridò il Campione di Tirinto, osservando il giovane Hero dell’Uccello del Paradiso venire completamente
disintegrato dall’oscura bufera.
Anche Efesto
e Ermes vennero investiti dalla tormenta di ombra e lava, ma il primo riuscì ad
afferrare il Messaggero, offrendo la schiena all’assalto, sperando che la
maggiore resistenza della sua corazza potesse offrir loro adeguata protezione.
Infine fu Pegasus ad essere sbattuto a terra, le ali dell’armatura divina
richiuse attorno a sé, sprofondando in una crepa nel terreno e precipitando in
un lago di magma.
Quando Erebo atterrò di nuovo, sul
devastato fianco dell’Etna si pulì le mani dalla polvere, guardandosi attorno
ammirato: il pendio era ricoperto da uno strato di lava che aveva inglobato
l’intero paesaggio, conferendogli un aspetto infernale e cancellando ogni
traccia dei suoi avversari. Non c’era voluto molto, si disse, a sgominare le
loro difese ed era stato persino divertente. Una guerra, in fondo, lo divertiva
sempre, soprattutto quella, che sarebbe stata l’ultima, poiché dopo di essa gli
Dei non sarebbero esistiti più. Sghignazzando, enumerò sulle dita coloro che
ancora potevano opporsi a lui, cercandone traccia nelle battaglie che stavano
infuriando sul pianeta in quel momento. Atlante ruggiva ad Atene, e gli Dei di
Luce erano con lui, motivo più che sufficiente per ritenere che l’intera Grecia
sarebbe stata cancellata, a breve, dalla carta geografica del nuovo mondo. Polemos e i suoi scagnozzi si stavano occupando del Sole
d’Egitto, la cui luce era destinata a tramontare quanto prima. Sospirando,
volse lo sguardo verso nord, realizzando che a lui era rimasta un’opzione sola,
che per la verità ben poco lo aggradava. Sapeva infatti che, grazie agli
inganni di Loki e Anhar,
nessun Dio era rimasto ad Asgard.
Pazienza! Vorrà dire che mi sbrigherò molto velocemente! Ironizzò,
prima di avvolgersi nel suo cosmo oscuro e sfrecciare nel cielo nero, diretto
verso settentrione.
Capitolo 12 *** Capitolo undicesimo: La strega delle tempeste ***
CAPITOLO UNDICESIMO: LA STREGA DELLE TEMPESTE.
Polemos non fu affatto sorpreso quando vide le forze alleate all’Egitto
intervenire in aiuto di Amon Ra. Quel che lo colpì fu la moltitudine di guerrieri
giunti, la diversità delle loro corazze e quindi della loro provenienza.
C’erano quattro Cavalieri che indossavano armature dalle forme
aerodinamiche, due dei quali impugnavano una spada luminosa e un lungo scettro
dorato, che il Lord Comandante etichettò subito come seguaci di Avalon,
portatori dei Talismani. Dietro di loro un centinaio di soldati dalle uniformi
simili tra loro, anche se non fu sicuro che fossero realmente soldati. A
vederne i volti, la statura, l’aspetto fisico in generale, parevano più
officianti, strenui fedeli di qualche divinità solare, come testimoniato
dall’enorme sole dalle sembianze umane disegnato sulle loro vesti sgargianti,
di colori caldi e luminosi. Polemos sorrise alla vista di quel simbolo, che
pretendeva di dare volto umano ad una potente entità come il Signore del Sole,
qualunque culto lo evocasse. Fu distratto da una serie di scontri in corso ai
margini del rozzo cerchio ove l’Esercito delle Tenebre era ammassato, obbligato
a sollevare lo sguardo e ad osservare un uomo atletico, rivestito da una
corazza dorata, sfrecciare in mezzo ai suoi soldati e falciarne la vita con un
reticolato di vivida luce, mentre, poco oltre, un ragazzetto dai capelli blu
camminava a pochi passi dal suolo emettendo vampe di calore con cui incenerì
una muraglia di golem.
Umpf! Quanta sfrontatezza! Si disse, incamminandosi in quella
direzione, lasciando Chimera, alle sue spalle, a fronteggiare la Dea Gatta e il
Dio Falco, appena giunto in suo aiuto. Non ebbe modo però di fare nemmeno tre
passi che un muro di fuoco sorse di fronte a lui, espandendosi ai lati e
divenendo presto una gabbia di vivide fiamme.
“Chi osa sbarrarmi il passo?” –Tuonò, muovendo il braccio destro per
annientare quelle lingue di fuoco con un’onda di energia, ma accorgendosi di
poterle piegare ma non spegnere completamente. –“Fiamme di puro cosmo! Di un
livello ben superiore ai trucchetti della Leonessa d’Egitto!” –Rifletté,
mentre, oltre la barriera infuocata, un’imperiosa figura apparve.
Alto, robusto, con corti capelli scuri e occhi neri, fissi su di lui,
indossava una maestosa armatura di colore vermiglio e pareva che le fiamme
stessero danzando attorno a lui, come cuccioli felici di vedere il loro
padrone.
“E così devi considerarmi, il Signore del Fuoco!” –Esordì con voce
maschile. –“Il mio nome è Andrei e sono il tuo avversario!”
“Credi di esserne in grado?!” –Sogghignò Polemos, nient’affatto
turbato, mentre l’Angelo puntava un dito verso di lui, cingendolo d’assedio con
vampe sempre più intense e alte, che giunsero a lambire le sue ricche vesti
decorate, strappandogli un moto di stizza e di rabbia.
“Quale affronto!!!” –Abbaiò, liberando un’esplosione di energia che
annientò le fiamme e la sabbia attorno, lasciandolo solo al centro di un
piccolo cratere e obbligando persino Andrei ad incrociare le braccia davanti al
volto per resistere alla pressione di quell’onda improvvisa. –“Piegati, sì,
piegati a me!!! Quella è la posizione cui devono prostrarsi i guerrieri
inferiori!” –Aggiunse, mentre un’enorme forza psichica premeva sulla schiena
dell’Angelo di Fuoco, spingendolo al suolo.
Andrei tentò di resistere, di opporsi a quella morsa invisibile che
tentava di torcergli le sue ginocchia, di renderlo gobbo e schiavo del Lord
Comandante, ma capì presto quanta fatica ciò gli costasse. Ricordò allora un
vecchio insegnamento di suo fratello, ai tempi in cui erano soliti allenarsi
assieme, lui per imparare qualche trucco mentale, al cui studio poco tempo
amava dedicare, l’altro per irrobustire il suo fisico, all’apparenza più
gracile del muscoloso Angelo di Fuoco.
“Se non puoi vincere un potere, unisciti ad esso. Se non puoi
contrastare l’impeto di un fiume, fatti trascinare dallo stesso.”
E aveva ragione. Si disse Andrei, abbandonando ogni difesa e
lasciando che la morsa mentale lo piegasse a terra, sprofondandolo molti metri
dentro la sabbia, di fronte allo sguardo soddisfatto e divertito del Demone
della Guerra. Solo dopo qualche secondo di vanitosa compiacenza, quest’ultimo
notò che il terreno attorno a sé stava iniziando a bollire, mentre volute di
fumo parevano nascere dalla sabbia, e la stessa sabbia, constatò stranito,
sembrava liquefarsi, fondendosi in una poltiglia incandescente simile a magma.
E lui stava proprio al centro di quel lago di lava, ove grosse bolle gorgogliavano
pigre, esplodendogli vicino e schizzando le sue regali vesti.
Concentrò i sensi, per trasferirsi poco oltre, ma si accorse di non
riuscire a muoversi, inchiodato da quel campo di forza esteso quanto il lago di
magma, una gabbia che gli permise di comprendere quel che era accaduto. Torse
le labbra in un ghigno perverso, proprio mentre centinaia di sagome,
lontanamente umane, parevano plasmarsi dalla massa lavica, avanzando verso di
lui, con le braccia protese, pronte a stringerlo in un ardente e mortifero
abbraccio.
“Andate via, spettri di fuoco!!! Non osate sfiorare le mie vesti!”
–Strillò, più infastidito che allarmato, aprendo il palmo e scatenando onde di
energia, annientando man mano le varie figure deformi, girando di continuo su
se stesso, per fronteggiare l’attacco da ogni direzione.
“Ah ah ah! Ti preoccupi dei tuoi begli abiti, Lord Comandante, e non della tua
vita? Hai una strana concezione di ciò che è importante!” –Commentò allora una
voce maschile, che pareva provenire da una di quelle sagome, senza che Polemos
riuscisse a comprendere da quale. –“Ma cosa dovevo aspettarmi, in fondo, da un
Demone della Guerra, di certo non il rispetto per la vita, che continuamente
calpesti con questo scalcinato esercito che ti segue! Più per terrore che non
per fedeltà!”
“La fedeltà dell’Armata delle Tenebre agli Dei Ancestrali è indubbia!”
–Rispose piccato Polemos, spaziando con lo sguardo tra le varie figure di
magma, cercando di individuare il suo potente avversario.
“Un legame basato sul terrore non sarà mai forte quanto la fede di chi
lotta per un ideale, per qualcosa in cui davvero crede e che sa apporterà
felicità e giustizia a questo mondo malato!” –Spiegò la voce di Andrei, che il
Demone sentì a pochi passi dal suo viso, un alito di fuoco in grado di
solleticargli le vesti.
“Idiozie!!!” –Ringhiò questi, aprendo le braccia e generando una nuova
detonazione di energia, con cui annientò tutte le sagome di magma e lo stesso
lago che lo attorniava, osservandolo evaporare in una sola vampata. Quando il
vapore si disperse, e Polemos poté tirare un sospiro di sollievo, vide che
l’uomo dall’armatura vermiglia era di nuovo di fronte a sé, ove l’aveva
schiacciato a terra la prima volta, ancora in forze e deciso a continuare il
loro scontro.
***
La devastante esplosione del cosmo di Polemos attirò l’attenzione di
Jonathan, intento, assieme a Reis, a combattere contro alcuni giganteschi
guerrieri dall’armatura integrale, che la compagna etichettò come Lestrigoni.
“Non temere per il tuo istruttore! Saprà cavarsela certamente!” –Lo
rassicurò quest’ultima, affondando la Spada di Luce nel ventre di uno dei
giganti e infondendovi tutto il suo cosmo, fino a distruggerlo. –“Concentrati
piuttosto su questo scontro! Resistente è la difesa di questi silenti ma rozzi
combattenti!”
“Sono le loro armature ad esserlo! L’hai notato? Guarda il loro grado
di lavorazione! Non hanno niente a che invidiare alle corazze dei Cavalieri di
Atena o di Zeus!”
Reis annuì, evitando la carica di un paio di Lestrigoni e balzando
indietro, mentre il ragazzo dai capelli biondi sfrecciava avanti, liberando
lampi di luce dalla cima dello Scettro d’Oro. I giganti non parvero però
impressionati, quasi l’elmo che copriva loro il volto per intero fosse in grado
di schermarli anche dai riverberi di luce, continuando la loro carica e
travolgendo Jonathan, sbattendolo a terra, facendogli persino perdere la presa
sul Talismano.
Il Cavaliere di Luce fece per intervenire ma una pioggia di folgori
cadde davanti a lei, fermandole il passo, mentre un vento uggioso la travolse,
sollevandola di qualche metro e roteandola in aria, sì da mostrarle colei che
l’aveva appena scelta come sua prossima avversaria. Una vecchia dal viso
pustoloso, ricoperta di un logoro mantello grigio.
“Giovane e bella!” –Le disse, sputacchiando. –“Solo per questo morirai!
Strega delle Tempeste!!!” –Aggiunse,
puntandole contro il bastone nodoso che reggeva in mano. A quel gesto Reis
iniziò a roteare sempre più velocemente, mentre nuove folgori si abbattevano su
di lei, elettrizzando l’armatura e obbligandola a lasciar cadere la Spada di
Luce, tra le grida selvagge che si trovò a emettere. Un secondo gesto e la
ragazza venne spinta lontano, diretta verso una piramide che sorgeva poco
distante. –“Quello sarà il tuo monumento funerario! Igh igh!” –Scaracchiò la
vecchia, prima di notare un lampo dorato sfrecciare nel deserto di fronte a
lei, coprendo in breve la distanza con la piramide e balzare in alto, giusto in
tempo per afferrare Reis prima che si schiantasse contro la costruzione.
“Ouch…” –Mormorò la ragazza, frastornata. –“Ioria?!”
“Stai bene?” –Si preoccupò subito il Cavaliere d’Oro, ricevendo un
confuso cenno d’assenso. Quindi la depositò a terra, dicendole di riposarsi
qualche istante. –“Il tempo di occuparmi di quella megera!”
“Fa’attenzione!” –Gli disse lei, trattenendolo per un braccio. –“Ho un
brutto presentimento! Credo che quest’armata abbia altre frecce al loro arco,
non solo la quantità di guerrieri!”
“Terrò conto delle tue parole! Grazie!” –Aggiunse, sfrecciando via,
diretto verso la sua nuova nemica, che intanto scalpitava sul terreno,
lamentando l’ingerenza di quel Cavaliere.
“Non potevi lasciarla morire, eh? Dovevi per forza comportarti da Principe
Azzurro?!” –Ringhiò, sfoderando pochi denti marci e bavosi. –“Sono gli uomini
come te che rovinano il mondo, sempre pronti ad apparire splendidi e virtuosi
di fronte alle loro donzelle! L’amore è il cancro del mondo!”
“Vuoi continuare a proferire idiozie o intendi batterti a duello,
donna?”
“Non sono una donna, non soltanto, almeno!” –Tuonò subito lei,
espandendo il proprio cosmo, che la avvolse come nubi tempestose, cariche di
pioggia e lampi. –“Io sono Beira della Cailleach, Nefaria dello Zodiaco Oscuro
e Regina dell’Inverno!”
“Ed io invece sono Ioria del Leone, Cavaliere d’Oro di Atena e
Custode…”
“Cosa vuoi che mi importi chi sei? Sei il mio avversario e ciò mi
basta!” –Lo interruppe bruscamente la donna, puntandogli contro il bastone
nodoso e liberando la furia della tempesta. Un istante dopo Ioria si trovò
investito da piogge torrenziali, sospinte da un furioso vento come poche volte
aveva percepito, mentre ovunque attorno a sé schiantavano saette carbonizzanti.
Il Cavaliere d’Oro, dai sensi attenti, subito si mosse, per non essere
raggiunto da quegli artigli di folgore che parevano dilaniare il terreno in
profondità, fulmini oscuri che gli ricordarono quelli di un vecchio nemico
affrontato anni addietro. Un nemico che, alla fine, non si era rivelato tale.
Con quel pensiero nel cuore, e con la promessa che gli aveva fatto,
Ioria scartò di lato, evitando la pioggia di fulmini e preparandosi a
contrattaccare. Il pugno destro fu avvolto da dorata energia, una sfera
attorniata da luminose saette, che il ragazzo lanciò subito verso l’avversaria.
“Per il Sacro Leo!!!”
–Tuonò, mentre il globo di luce sfrecciava nella tempesta, schivando folgori
avverse e venti contrari, fino a piombare sulla Cailleach.
“Igh igh igh!” –Si limitò a sputacchiare quest’ultima, sollevando il
bastone di legno e infilzando con esso la sfera dorata, lasciandola esplodere
di fronte a sé.
Ioria fu costretto a sollevare un braccio, per ripararsi dall’onda di
ritorno, che annientò la bufera attorno a lui, sollevando sabbia e scintille.
Quando abbassò l’arto, vide che la vecchia era ancora al suo posto,
sghignazzando divertita contro le scarse capacità del giovane che era stata
costretta ad affrontare.
“Almeno il Lord Comandante e Chimera hanno tra le mani ben più succulente
prede! A me cosa è toccato? Un gattino spelacchiato che non sa combattere?!”
“Come osi infangare in questo modo il nome dei combattenti di Atena,
vecchia?!” –Esclamò fiero il Cavaliere di Leo, avanzando verso la nemica.
“Infango e rinfango!” –Sputacchiò. –“Io sarò anche vecchia ma tu sei un
idiota! Come puoi pretendere di colpirmi con un attacco che si basa sul
fulmine, quando è proprio quello l’elemento che io domino? Non hai ascoltato
quel che t’ho detto poc’anzi, quella presentazione d’effetto che voi Cavalieri
così tanto amate! Sono Beira della Cailleach, giovane ignorante, e sospetto tu
non sappia chi erano né l’una né l’altra!”
“Co… come?!” –Mormorò Ioria, non comprendendo le parole di
quell’anziana ma vigorosa combattente, che scosse la testa indispettita,
limitandosi a puntargli contro il bastone nodoso, da cui una guizzante saetta
scaturì all’istante, obbligando il giovane uomo a gettarsi di lato.
“Vedi?! Il fulmine è il mio elemento, il cielo in tempesta il mio
spazio ideale, poiché, dei dodici membri dello Zodiaco Oscuro, io sono colei
che controlla le forze della natura nel loro aspetto più puro e distruttivo!
Come l’antica Cailleach, la grande Beira, di cui ho scelto il nome, al fine di
onorarla, io sono la Strega delle Tempeste, sovrana dell’inverno! Comprendi,
adesso, giovane atletico ma sciocco?”
“Chiariscimi una cosa, Cailleach! Hai fatto riferimento a uno Zodiaco
Oscuro… Che cosa intendi?!”
“Umpf, cosa mai vorrà dire, secondo te? è lo Zodiaco che soppianterà quello attuale, dopo che Lord
Caos avrà rifondato il mondo, ponendo fine a questo ridicolo ciclo cosmico!
Dodici segni, come adesso, ma oscuri! Dodici segni che i pochi uomini che
sopravvivranno all’avvento dell’ombra, quegli scaltri che agli Antichi Dei si
prostreranno, vedranno nel cielo ogni volta in cui ardiranno alzar lo sguardo,
rimanendone terrificati, poiché anziché lo splendore delle stelle attuali,
anziché i bei segni che or ora ornano il firmamento, vedranno creature mostruose
e abominevoli! La Cailleach, il Golem di Sangue, il Wendigo e molti altri
soppianteranno i segni dello Zodiaco, destinati a cadere nell’oblio assieme ai
Cavalieri che li rappresentano! E, da quel che so, tu sei uno dei tre rimasti!
Uccidendoti, renderò onore al Maestro del Caos che questi dodici nuovi segni ha
scelto personalmente!”
“Quale orrore!” –Commentò Ioria con disgusto. –“Privare i popoli del
mondo di un antico retaggio culturale, per imporre un nuovo ordine che non
terrà conto di tradizioni durate secoli, di speranza che gli uomini hanno
trovato nel rimirar le stelle e nel leggerne il significato! Non posso
permetterlo! Io ti fermerò, strega!” –Imperò il Cavaliere d’Oro, scattando
avanti e muovendo il braccio destro in modo da generare un reticolato di luce
così fitta che andò chiudendosi attorno all’avversaria.
“Ceann na Cailleach!” –Si
limitò a commentare quest’ultima, aprendo le braccia di lato, mentre un enorme
volto spigoloso e maligno, composto di puro cosmo, appariva davanti a lei, sfrecciando
rapido verso Ioria, spazzando via la gabbia di luce e abbattendosi con foga
contro il Cavaliere. –“Immagino tu non sia mai stato in Irlanda, bel giovane
atletico!” –Aggiunse, osservando Ioria schiantarsi al suolo poco lontano.
–“Altrimenti conosceresti la leggenda sulle scogliere di Moher, altrimenti
dette Scogliere della Rovina? La tua rovina! Igh igh igh! Le erte propaggini
meridionali di queste falesie vengono chiamate Testa di Strega, per la
somiglianza con il volto della Cailleach, che a queste terre era legata! Per
compiere riti che di certo il tuo buonismo non comprenderebbe! Igh igh igh!”
–Sputacchiò, liberando una nuova tempesta di saette oscure, che si abbatté sul
già provato corpo del Cavaliere d’Oro.
Disteso al suolo, Ioria strinse i denti per il dolore, ancora stordito
per la botta ricevuta in pieno petto. L’armatura d’oro lo aveva protetto, per
fortuna, l’armatura che solo il giorno prima era stata quasi distrutta dalla
violenza di Flegias, o Anhar, o qualunque altro nome avesse scelto per sé quel
demone infernale. Ma poi un amico era intervenuto in suo aiuto.
“Mur…” –Mormorò il giovane, ricordando la sorpresa sul suo volto
quando, quella mattina, mentre stava scendendo la scalinata del Grande Tempio
per unirsi all’assemblea convocata da Atena, aveva raggiunto la Prima Casa,
trovando il Cavaliere di Ariete al lavoro.
Stanco, sudato, con le mani che a tratti tremavano per il nervosismo e
l’incertezza per la sorte della madre rapita, Mur lo aveva comunque guardato
con un sorriso, fiero del proprio lavoro.
“Ho pensato potesse esserti utile!” –Aveva esordito, mostrando al
parigrado le vestigia del Leone, rimesse per l’ennesima volta a nuovo. Certo,
la fretta e la stanchezza non avevano permesso al riparatore di armature di
ottenere un risultato perfetto, come dieci anni addietro nello Jamir, rifletté
amaramente, notando qualche scheggiatura che ne deturpava le piastre dorate, ma
era ben più di quanto Ioria avesse potuto desiderare in quel momento.
“Ti ringrazio, Cavaliere!” –Gli aveva detto, espandendo il cosmo ed entrando in
sintonia con la corazza, che subito ruggì, scomponendosi e aderendo al suo
fisico perfetto. E permettendo a Ioria di comprendere quel che era davvero
avvenuto, quel che dava forza al Leone d’Oro da anni ormai, senza che egli se
ne fosse mai reso realmente conto. –“Mur ma… il tuo cosmo… posso sentirlo!”
“Come sai, Ioria, per riparare un’armatura è necessaria una gran
quantità di sangue, tanto maggiore quanto i danni sono profondi, e la tua,
amico mio, era messa proprio male! Cerca di stare attento, la prossima volta,
perché potrei non essere in grado di…” –Aveva mormorato, prima di accasciarsi a
terra, di fronte allo sguardo preoccupato del compagno, che lo aveva afferrato
giusto in tempo, aiutandolo poi a stendersi su una branda poco distante.
“Non avresti dovuto rischiare tanto!” –Lo aveva rimproverato Ioria,
commosso per quel rinnovato gesto di fiducia.
“Avresti fatto altrettanto per me!” –Aveva chiuso così la conversazione
il Cavaliere d’Ariete.
Ed era vero. Ioria avrebbe dato la vita per lui, come per Virgo. Non
solo erano i suoi parigrado, gli ultimi rappresentanti di una casta che era
stata tradita, vilipesa e sterminata anzitempo, ma erano anche i suoi amici, al
cui fianco aveva condiviso più di una sola esistenza. Loro erano i Cavalieri
d’Oro, i massimi fedeli della Dea, coloro che da secoli, millenni addirittura,
costituivano l’ultimo baluardo a protezione di colei che lottava per l’umanità.
E lui era il fratello di Micene, il figlio del valoroso Agamennone del Leone,
uno dei più grandi Custodi Dorati della generazione precedente, discendente di
una stirpe che, dai tempi di Solone, aveva sempre servito Atene e la sua Dea.
Come poteva lui essere da meno? Si disse, rialzandosi, rivestito di un’intensa
aura dorata.
“Mur!!! Virgo!!! Fratello!!! Questo colpo è per voi!!! Per il Sacro Leo!!!” –Ruggì il Leone
d’Oro, liberando una poderosa sfera di luce, che sfrecciò verso la Cailleach,
incurante della tempesta che tentava inutilmente di frenarne l’avanzata.
Ma anche quella volta la Strega delle Tempeste sollevò il suo bastone
nodoso, infilzando il globo dorato e ridacchiando mentre esso esplodeva, con un
boato che attirò l’attenzione di altri contendenti.
Ioria… Mormorò Reis, costretta nel frattempo a fronteggiare
nuovi avversari. Non morire. Abbiamo una
vita da vivere assieme, quando tutto questo finirà. E la vivremo. In qualunque
modo.
Quando la luce scemò di intensità, Ioria vide con orrore la sua nemica
ancora in piedi, il mantello ormai bruciacchiato scivolare via nel vento, il
volto terribilmente butterato e liso. Ma, sopra ogni altra cosa, vide
finalmente la sua armatura, giungendo a capire come aveva potuto sopravvivere
ogni volta ai suoi assalti, pur potenti che fossero.
Nera come la notte, percorsa da violacee striature che indicavano di
certo i punti di congiunzione delle placche metalliche, la corazza aveva forme
sgraziate e irregolari, simile, nel suo aspetto complessivo, ai cenci di uno
straccione, quasi volesse costituire davvero la veste della vecchia. Ma proprio
le striature viola erano percorse da scariche di energia dorata, che andavano
estinguendosi sempre di più, fino a spegnersi di fronte allo sguardo attento
del Cavaliere d’Oro.
“Ecco perché hai lasciato esplodere i miei fulmini! Ecco come li hai
fatti tuoi! La tua corazza possiede il potere di assorbirli, come fosse un
parafulmine!”
“Sono colpita, pensavo in quell’aitante corpo non vi fosse spazio per
il cervello! Ammira le vesti di cui il Gran Maestro del Caos mi ha fatto dono, ispirandosi
a quelle di un figlio bastardo di Ares, Cicno, il Brigante di Anime, in grado
di assorbire l’energia cosmica degli avversari, nutrendosene! Uguale dono ha
fatto a me, la copia vivente di Beira, sua antica alleata in una contesa che
devastò i campi di Britannia! Igh igh igh!” –Ghignò la Cailleach, scatarrando
copiosamente, prima di puntare di nuovo il bastone verso il ragazzo. –“Se
adesso hai capito, saprai per certo che non puoi vincermi! Non ne hai modo, tu
che possiedi attacchi basati soltanto sul fulmine! Per quanto tu possa provare,
i tuoi colpi non mi feriranno mai! I miei, al contrario…” –Aggiunse, aprendo le
braccia e ricreando quella rozza faccia di strega. –“Ceann na Cailleach!” –E nuovamente Ioria venne travolto dalla
possanza delle scogliere di Moher, sbattuto a terra, perdendo persino l’elmo
dorato.
Ha ragione! Mormorò, affannando nel rialzarsi. Non sono certo l’avversario più adatto a
fronteggiarla! Ci vorrebbe qualcuno con poteri diversi! Ma chi? Ed
espandendo i sensi percepì tutti gli altri scontri in atto nella piana che
separava il Nilo dall’ingresso della piramide di Karnak. Jonathan stava
affrontando i Lestrigoni, Reis era alle prese con altri guerrieri, la fiamma di
Sin degli Accadi ardeva continua contro i Golem di Sangue, mentre Andrei teneva
impegnato Polemos e Horus e la Dea Gatta facevano altrettanto con il temibile
Chimera. Nessuno sarebbe potuto intervenire in suo aiuto. Né nessuno interverrà! Si disse, chiudendo le dita a pugno. Un Cavaliere d’Oro di Atena non ha bisogno
di aiuto per affrontare una vecchia rachitica!
Rialzando lo sguardo, Ioria cercò la Cailleach, intenta a gloriarsi del
suo successo, già convinta di meritarsi un posto nel nuovo cielo che avvolgerà
il pianeta dopo la vittoria di Caos. Rabbioso per quella prospettiva, il
Cavaliere piantò un pugno nel terreno, liberando le zanne dorate sotto forma di
molteplici colonne di fulmini che si alzarono tutt’attorno alla nemica, la
quale, per niente intimorita, si limitò a lasciarle strusciare contro la
propria corazza, quasi nutrendosi della loro foga. Quindi, quando fu sazia,
fissò Ioria con perfidia, liberando il proprio violento cosmo.
“Strega delle tempeste!!!”
–Sputacchiò, avvolta dalle intemperie, che presto si abbatterono sul Cavaliere
d’Oro, per quanto questi tentasse di divincolarsi, raggiungendolo,
sollevandolo, stritolandolo in folgori oscure, che bruciacchiarono la propria
corazza, giungendo persino a scheggiarla in più punti, prima di schiantarlo al
suolo, in un cratere di sabbia e sangue.
“Ouch!” –Rantolò il giovane, faticando nel muovere le dita della mano.
–“Il suo fulmine è ben più distruttivo del mio!”
“Questo perché tu non a quello l’hai votato! Non alla distruzione!”
–Parlò allora una voce al suo cosmo, stupendo lo stesso Ioria, che non la udiva
da tempo. –“Bensì a proteggere gli altri, a questo è sempre servito il tuo
fulmine! Mira questo regno per esempio, non è qua che combattesti la tua prima
battaglia, giovane Leone, per difenderlo dall’ombra nascente?!”
“Sì! A fianco di mio fratello!” –Ricordò il Cavaliere, con gli occhi
umidi al sol pensiero che quella strega potesse inquinare il luogo in cui
Micene aveva combattuto e trionfato sul demoniaco Seth. Il luogo della loro
prima e unica battaglia assieme.
“Come vincesti quel giorno, ugualmente vincerai quest’oggi, poiché non
esiste sconfitta per il Leone dalle zanne d’oro, il Leone che cela nel cuore
l’arma più potente di tutte!” –Continuò la voce, permettendo infine a Ioria di
associarvi un volto, quello di un uomo alto e snello, dai morbidi capelli
chiari e dal naso prospiciente.
“Tu sei… Ceo del Lampo Nero!”
“Nemici un tempo, ma così vicini! Come solo con mio fratello Iperione
riuscii mai ad essere! Uniti dalla stessa fede, dallo stesso desiderio di dare
un futuro al nostro popolo, desiderio che poi affidai a te, Cavaliere del
Leone! Ricordalo, ricorda la promessa che ti strappammo quel giorno, nel
Labirinto di Crono, e abbatti il tuo nemico, solo così potrai difendere chi hai
davvero caro!”
“Io… Ceo… Voglio farlo! Ma non ho armi per ferirlo…”
“Non ti servono armi, soltanto le tue sfolgoranti zanne!” –Chiosò la
voce del Titano, prima di scomparire.
Annaspando, Ioria mosse la testa nella sabbia, roteandola verso la mano
destra, nel cui palmo un improvviso lucore lampeggiava, emanando scintille di
vittoria. Sorrise, il Cavaliere di Leo, e anche pianse, memore del dono che Ceo
gli aveva fatto un tempo, un dono che era venuto il momento di rinverdire.
Mettendo da parte il dolore, il giovane si rialzò, incamminandosi fuori
dal cratere e trovandosi di nuovo faccia a faccia con Beira, che lo guardò per
la prima volta stupita, convinta di aver già conquistato il suo spazio nel
cielo.
“Sei duro a morire, ragazzo? Ti capisco, anche la Regina dell’Inverno
lo fu! E altrettanto sarò io!” –Aggiunse, sibillina, prima di evocare
nuovamente le intemperie del mondo.
“Fulmine!!!” –Gridò allora Ioria, bruciando il cosmo al massimo, in uno
scintillio che accecò la stessa Cailleach e molti altri amici e nemici, intenti
a lottare poco distante. –“Che ricevetti in dono da un antico virtuoso nemico,
fai breccia nel suo cuore, per proteggere questa Terra che amo!!! Rifulgi,
Keraunos!!!” –Tuonò, portando avanti il braccio destro, nel cui palmo
risplendeva un’abbacinante sfera di luce, più fulgida di qualsiasi attacco
scagliato prima. Una sfera attorniata da una corona di folgori d’oro che
parevano danzare gloriose, mentre questa sfrecciava nella tempesta, piombando
sulla strega.
Titubante, la Nefaria sollevò di nuovo il bastone nodoso, su cui il
globo si infranse, esplodendo, ma quella detonazione così potente la investì in
pieno, abbattendosi su di lei con una furia che neppure le Streghe delle
Tempeste potevano evocare. La corazza nera andò in frantumi, dilaniata, squartata
da quei fulmini dorati che parevano non stancarsi mai, non esaurirsi mai,
infiniti come la speranza nel futuro di chi li dirigeva. E dopo la corazza le
dilaniarono anche il corpo, vecchio e debole, lasciando solo un pallido
scheletro.
“Co… come hai fatto?!” –Sputacchiò la megera, crollando esanime al
suolo, il sangue che le imbrattava il corpo ossuto e le impastava la bocca.
–“La mia armatura… creata appositamente per me, dal Gran Maestro del Caos…
poteva assorbire i fulmini… perché?!”
“Aveva quel potere, te ne do atto, ma ogni manufatto ha un sigillo!
Ogni incantesimo ha un limite! Dovresti ben saperlo, tu che ti vantavi di
controllare le forze della natura, che la natura pretende equilibrio! Troppo
hai sfruttato quel potere, troppo ne hai abusato, e di fronte alla sconfinata
potenza del Keraunos originario la tua corazza non ha retto, andando in
sovraccarico! Questo, il tuo adorato Maestro del Caos, non te lo aveva detto?”
A quelle parole, un’ombra passò sugli occhi stanchi della Cailleach,
un’ombra che le inculcò il sospetto di essere stata ingannata, proprio come era
accaduto alla prima Beira molti secoli addietro.
Mur era accasciato a terra, le mani che faticavano a stringere lo
scalpello, la corazza di Asher ancora da riparare. Stanco
e fiacco, respirava a fatica, sopraffatto dalle angosce degli ultimi giorni, e
dal timore che tutto fosse prossimo alla fine. Non solo la guerra, che durava
ormai da anni, da quando l’ombra aveva trovato valido aiuto per germogliare sul
pianeta in attesa del suo ritorno, ma anche la sua vita, il mondo come gli era
sempre apparso. Sua madre era stata rapita e per quanto tentasse non riusciva a
localizzarla, non riusciva a capire se fosse viva o morta; la colonia dei suoi
antenati era stata distrutta, e a fatica avrebbero dovuto ricostruire un sapere
che temeva presto sarebbe andato perduto. Atena era di nuovo in pericolo e i
suoi Cavalieri erano rimasti in pochi, provati dalle guerre continue; per
quanto la fede fosse incrollabile, il loro corpo era umano e poteva essere
spezzato. Come le morti di Scorpio e Libra
testimoniavano.
Aveva visto Virgo come si trascinava, l’ombra
del Cavaliere che era stato un tempo e che aveva frenato la corsa di tre
presunti rinnegati suoi pari; aveva notato le rughe di preoccupazione tendersi
sul volto di Ioria, la stanchezza del lanciarsi in
continue massacranti battaglie. E infine aveva visto lo sguardo di Kiki tremolare per la prima volta incerto. Dell’aria
sbarazzina di un tempo, quando si divertiva ad apparire e scomparire attorno
agli amici Sirio e Pegasus, era rimasto ben poco, ma a quel ricordo doveva
aggrapparsi se voleva garantirgli un futuro. E questo era ciò che più di ogni
altra cosa gli premeva in quel momento. Questo era ciò che lo aveva fatto
rientrare in fretta alla Prima Casa, terminata l’assemblea generale, per rimettersi
all’opera.
Quella notte aveva riparato l’armatura del Leone, danneggiata dalle
vampe demoniache di Anhar, ben sapendo quanto ardesse
il compagno scendere in battaglia. Per quanto in grado di autorigenerarsi,
anche dopo essere stata potenziata nelle fucine di Muspellheimr,
era in così gravi condizioni da rendere necessaria una gran quantità di sangue,
che il Cavaliere di Ariete aveva gentilmente offerto, all’insaputa di Ioria, per rigenerarla. Lo aveva fatto col cuore, pensando
a quanti uomini quegli artigli di luce avrebbero ancora potuto difendere, allo
spirito indomito che ne muoveva i passi, strappandogli a volte un gemito di
invidia.
Poi era stato il turno delle corazze del Pastore e di Cassiopea,
distrutte da Cariddi sull’isola leggendaria. Era
stata Nemes, una loro compagna presso l’isola di
Andromeda, a donare il sangue necessario, un gesto di affetto e di perdono,
così lo aveva motivato. Infine era toccato alle corazze dell’Aquila e
dell’Unicorno, che Mur aveva dovuto riparare da solo
e, se la prima non era stata particolarmente impegnativa, adesso sentiva di non
aver più forze per concludere l’opera. Del resto lo scontro con Horkos era stato un massacro a cui era scampato per un
colpo di ventura.
Fu il pensiero della colonia di Mu, dei
sopravvissuti che avevano resistito alla valanga finale unendo i propri cosmi,
a spingerlo a rialzarsi, a risollevare lo sguardo sulla violacea corazza, oltre
che il timore che Kiki potesse sorprenderlo di nuovo
svenuto. Era già successo una volta, dopo che aveva riparato la corazza di Ioria, e si era ripromesso di non farlo accadere più.
“Cavaliere di Ariete?!” –Lo chiamò una timida voce di donna
all’improvviso, forzandolo a sollevare lo sguardo verso il fondo del salone, in
cui una figura ignota era appena comparsa. Guardandola meglio, mentre si
avvicinava, riconobbe la Sacerdotessa che, un’ora prima, aveva seguito Yulij verso le Stanze di Atena, sebbene non ne conoscesse
il nome. –“Sei tu il riparatore di armature?”
Mur annuì, alzandosi a fatica, mente la donna lo raggiungeva,
presentandosi.
“Sono Kama della Poppa, Cavaliere di Bronzo di stanza a Bomihills, in Liberia!”
“Lieto di conoscerti, Sacerdotessa, anche se non ho molto tempo per
conversare, al momento! Ho udito il fragore montante dell’ombra appressarsi su
di noi e devo terminare al più presto la corazza per…”
–Ma non riuscì a terminare la frase che l’intera stanza parve traballare
davanti ai suoi occhi, obbligando Mur a tenersi la
testa e Kama a fare un passo avanti, per afferrarlo prima che cadesse.
“Sei debilitato, Cavaliere! Riparare molte armature stanca! Lo so bene,
il mio maestro me lo insegnò!”
“Devo terminare un lavoro! Poco importa quanto sia stanco!” –Sussurrò
lui, divincolandosi, prima che la voce della donna lo richiamasse.
“È per questo che sono qua! Per aiutarti!” –Aggiunse, portando le braccia
avanti e tagliandosi i polsi. –“Usa il mio sangue per riparare la corazza
dell’Unicorno! Fallo, te ne prego!”
“Sacerdotessa! Quale generosità, offrire il tuo sangue per uno
sconosciuto!”
“Siamo tutti fratelli a difesa di Atena!” –Chiarì Kama, sorridendo
sotto la maschera. –“Inoltre un legame speciale mi univa all’uomo che addestrò
il Cavaliere dell’Unicorno!” –Quindi, vedendo che Mur
la osservava interessato, non capendo a pieno le sue parole, continuò. –“Regor della Vela, il maestro di Asher
di stanza ad Orano, era il mio amante, l’uomo per amore del quale fui tentata
di abbandonare la strada di Atena, mostrandogli il mio volto! E tu conosci le
regole delle Sacerdotesse. Amore o morte. Io scelsi il primo, ma la morte
scelse noi. Qualche mese fa, un suo vecchio allievo tornò con un’armatura nera,
simile a quelle in uso ai Cavalieri dell’isola maledetta, e lo uccise, senza
che io potessi fare niente per salvarlo. Inutile e debole, lo osservai morire,
tenendogli la mano mentre gli promettevo di vegliare sull’Atlante e sul suo
allievo. Una promessa che ho intenzione di mantenere.”
Mur sorrise, rinfrancato dalle parole della donna e dal suo spirito
giusto, riprendendo in mano gli attrezzi da lavoro e mulinando il primo colpo
alla corazza dell’Unicorno. Proprio in quel momento Asher
apparve sull’ingresso della Prima Casa, chiedendo a gran voce la propria
armatura. Atlante era arrivato!
***
Quando la Nave di Argo sbucò dalle nuvole, facendosi strada tra i cirri
ombrosi del meriggio siciliano, Zeus inorridì, e ugualmente fecero Nikolaos ed Euro al suo fianco, osservando il devastato
versante orientale dell’Etna. Pareva che il vulcano fosse stato sventrato, o
che l’enorme pressione del magma fosse fuoriuscita anziché dalla bocca dai
lati, ricoprendo il pendio fino a valle, fagocitando la sia pur rada
vegetazione, le rocce e ogni forma di vita. Spaziando con lo sguardo e con i
sensi sull’apocalittica visione, il Nume Olimpico tremò per un momento,
stringendo con forza il corrimano della nave, fino a schiantarlo. Dei cosmi di Efesto e di Eracle, che avrebbe dovuto proteggerlo, non vi
era traccia, né di alcun’altra impronta cosmica, amica o nemica.
Senza neanche attendere che Neottolemo
completasse la discesa del vascello, il Sommo spalancò le angeliche ali della Veste
Divina, balzando fuori e iniziando a percorrere l’intero versante, scrutando
ogni anfratto con attenzione. Euro lo imitò, lasciando Nikolaos
e Toma a bordo della nave volante. Il Luogotenente si voltò a guardare il
liberato Cavaliere Celeste, seduto ai piedi dell’albero maestro, con una
coperta sulle spalle e una tazza di infuso caldo in mano. Non riusciva a
immaginare come si sentisse, dopo una prigionia durata quindici anni, dopo
quindici anni trascorsi incatenato sulla gelida cima dell’Elbrus, senza
compagnia alcuna se non quella dei ricordi. Pur tuttavia, grazie al cosmo di
Zeus che ne aveva sanato le ferite, il ragazzo pareva riprendersi in fretta e
già il suo viso aveva recuperato colore, sebbene le sue membra fossero ancora
intorpidite per la lunga inattività. Non aveva posto domande, neppure chiesto
perché Zeus avesse preso quella decisione o cosa fosse accaduto in quegli anni
lontano dall’Olimpo. Aveva semplicemente chinato il capo, ringraziando il Nume
supremo per la sua generosità, rinnovandogli il giuramento di servirlo fino
alla morte; quindi si era chiuso in se stesso, trascorrendo il resto del
viaggio a carezzare, quasi fosse una reliquia, lo strano pendaglio che portava
legato al polso destro. Stava quasi per chiedergli cosa significasse, quando la
Nave di Argo atterrò sul terreno accidentato, scuotendoli entrambi.
Affacciandosi dal parapetto, Nikolaos notò che il
terreno era ricoperto di un consistente strato di lava, fredda e compatta, ma
di certo frutto di un’eruzione avvenuta in tempi recenti.
“Qui!!!” –La voce di Euro li richiamò tutti, costringendoli a scendere
dal vascello e a raggiungere il Vento dell’Est a metà del versante, dove anche
Zeus stava convergendo dall’alto, per osservare inorriditi i resti bruciati di
un uomo il cui volto era ormai irriconoscibile.
“È uno dei guerrieri di mio figlio!” –Commentò il Sommo, sfiorandone il
cadavere e scrutando con occhi attenti i pochi frammenti di armatura che aveva
ancora addosso, stringendoli con rabbia fino a distruggerli nel suo palmo.
“Sono stati attaccati! Maledizione!!!” –Avvampò Nikolaos,
guardandosi attorno d’istinto, sebbene niente turbasse la malinconica quiete di
quel luogo. Soltanto sirene che, d’un tratto, parvero provenire dal fondovalle,
rumori insistenti e fastidiosi che andavano aumentando di intensità. –“Credo
che gli abitanti di queste terre stiano venendo a controllare, timorosi forse
di una nuova eruzione dell’Etna!”
“Non ci disturberanno!” –Si limitò a commentare Zeus, socchiudendo gli
occhi e alzando un braccio al cielo, mentre una scarica azzurra scuoteva il
fianco del vulcano, una folgore attorno alla quale scivolarono strati
caliginosi di nembi. –“La foschia che un tempo gettavo sugli umani impedirà
loro di trovarci. Quel tempo di cui abbiamo bisogno per ritrovare i corpi degli
altri!”
Fu allora che uno scricchiolio sommesso li raggiunse, un rumore che
andò crescendo sotto i loro piedi, prodromo di un terremoto che scosse il
versante centrale dell’Etna, spaccando la lava solidificata sotto di loro e
sollevandola verso il cielo, quasi gli inferi stessi si aprissero e liberassero
demoniache figure. E tali in effetti parvero i tre corpi che fuoriuscirono
dalla terra: sporchi, sfregiati, ricoperti di sangue, polvere e magma rappreso,
con le armature distrutte e i bei volti stanchi e tumefatti.
“Eracle, figlio mio!” –Esclamò il Nume, concedendosi un sorriso, che si
allargò non appena vide, alle sue spalle, i corpi claudicanti di Ermes e di Efesto, quest’ultimo che reggeva un ragazzo tra le braccia,
la cui armatura azzurra, dalle lunghe ali spezzate, gli permise di
identificarlo come il Primo Cavaliere di Atena. –“Cos’è successo?!”
“Le tenebre sono scese su di noi, Padre! Le tenebre più oscure e
antiche, quelle che solo colui che le gettò nel Tartaro più profondo poteva evocare!”
–Commentò Eracle, tossendo, facendo rabbrividire i presenti.
“Vuoi forse dire?!”
“Non nominarlo, Padre! Non è necessario, poiché tutti ne conosciamo il
nome! Dei quattro Progenitori, egli è il più temibile! Egli è davvero una
tenebra infinita! Saremmo stati spazzati via se Efesto
non avesse avuto la prontezza di sollevare il magma dell’Etna, usandolo per
ricoprire tutti noi. Al di sotto di quella crosta protettiva, i nostri cosmi
hanno perdurato a baluginare, sia pur deboli e fiacchi, dandoci tempo di
riposare e di… ripensare ai nostri errori…”
“Siamo stati vigliacchi!” –Commentò allora Ermes. –“Lo abbiamo lasciato
fuggire, anziché combatterlo fino alla fine!”
“Abbiamo fatto ciò che era in nostro potere, Messaggero Olimpico! Non
potevamo permettere che Pegasus cadesse! Non ancora!” –Precisò Efesto, cercando lo sguardo del Padre, che annuì,
sospirando, prima di avvicinarsi all’abile fabbro, chiedendogli un ultimo
sforzo, un’ultima fatica, prima della fine. –“Seguitemi!” –Si limitò a
rispondere, incamminandosi verso le profondità dell’Etna, seguito da Zeus, Nikolaos, Euro e Toma.
Eracle ed Ermes rimasero all’esterno, poiché il primo desiderava
cercare i corpi di Nestore e di Marcantonio, convinto che fossero ancora vivi,
sepolti anch’essi dallo strato di lava sollevato da Efesto.
Anche Neottolemo rimase con loro, sul volto
un’improvvisa ansia per le sorti dei compagni.
“Mi dispiace!” –Gli disse il Vindice dell’Onestà. –“Siete appena
tornati alla vita e già vi è stata portata via! Pare che la nostra amicizia sia
marcata da questo, la gioia di un effimero incontro e poi il dolore di un’altra
perdita! Così fu ai tempi delle gloriose legioni di Tirinto,
così adesso, che di quelle legioni ne è rimasta soltanto una!”
“Non dovete crucciarvi, mio Signore! Possiamo solo esservi grati per
averci concesso un’altra opportunità, un dono che a ben pochi uomini è stato elargito!
Lieti siamo stati di combattere per voi a Tirinto, e
lieti siamo di ripeterci quest’oggi!” –Rispose fiero il Nocchiero di Eracle,
prima che la voce di Ermes li distraesse, portandoli ad avvicinarsi al
Messaggero Olimpico, che stava liberando due corpi dagli strati di magma
solidificato.
“Eccoli! Sono ancora vivi! Malconci ma vivi, sento il loro respiro!”
Eracle si chinò su di loro, ne tastò la fronte febbricitante e le
braccia ferite e ustionate dai colpi di Erebo, ma convenne con Ermes che
fossero ancora vivi. Con rabbia, li tirò fuori, depositandoli sul terreno
dinnanzi a lui, afferrando poi le braccia di entrambi, per dare loro un po’ del
suo cosmo.
“Perdonatemi! Perdonatemi tutti, anche voi, Agamennone e Adone, che più
non siete con me! Ma non temete, non dovrete aspettarci molto! Quando questa
guerra sarà finita, saremo di nuovo insieme, nella nostra bella Tirinto, in una Tirinto che
nessun nemico, ombra o demonio violerà! Mai!” –Mormorò il figlio di Zeus,
avvolto nel suo cosmo lucente. –“Ma solo quando questa guerra sarà finita, solo
allora! Non prima!” –Aggiunse, mentre un tuono sovrastava i cieli sopra l’Etna.
***
Atlante era immenso.
Così alto, robusto e fiero che pareva innalzarsi davvero fino al cielo.
Non a caso, si disse Asher, in piedi sulle
mura di lato al Cancello Principale, il mito cantava la sua punizione,
inflittagli da Zeus, a reggere la volta celeste. Come avrebbero potuto
fermarlo purtroppo il mito non lo spiegava e non era affatto certo che le loro
attuali difese avrebbero retto a quell’assalto. Pur tuttavia avrebbero tentato,
come sempre, decisi a sfidare l’impossibile, in modo da renderlo possibile,
come Pegasus e i suoi quattro amici, ai più adesso noti come Cavalieri Divini,
avevano insegnato loro.
E se ce l’aveva fatta quello sbruffoncello
dal ciuffo rampante, perché lui avrebbe dovuto essere da meno? Si disse,
strusciandosi il naso impaziente, pervaso da una frenesia che lo invadeva ogni
volta che doveva scendere in guerra. Una smania che per il momento doveva
tenere a freno, almeno fino a quando Atlante non fosse entrato nel raggio
d’azione dei suoi arcieri.
“State pronti!!!” –Strillò, volgendo un rapido sguardo verso il
piazzale interno del Santuario, ove duecento uomini erano schierati in
formazione, gli archi abbassati, ma le frecce già incoccate, in attesa di un
suo cenno. Li guidava Patrizio, il più anziano dei soldati, un uomo che aveva
visto molte nuvole annidarsi sul Tempio della Dea Guerriera, fin da quando Shin era Grande Sacerdote, sempre convinto che non a lungo
vi avrebbero dimorato, che Atena sarebbe tornata, portando il calore di una
nuova alba. Con quella fede, Patrizio era cresciuto, al pari di tutti coloro
che avevano deciso di impugnare le armi e servire la Dea. –“Caricateee!!!”
–La voce squillante dell’Unicorno lo raggiunse in quel momento, portandolo ad
accendere la stoppa avvolta sulla punta della freccia e a prepararsi. –“Tendete
l’arcooo!!! Ora, tirateee!!!”
Una selva di dardi infuocati solcò le mura meridionali del Grande
Tempio, dirette verso l’altissima figura che ad esse si stagliava di fronte, e
ancor prima che la raggiungessero gli arcieri stavano già ricaricando le loro
armi, fermi e decisi nel loro agire. Non era la prima volta che il complesso
templare veniva attaccato da così bestiali figure, Patrizio e i suoi compagni
lo sapevano bene, ricordando l’infuocata figura di Orochi,
il distruttivo drago che aveva seminato il panico mesi addietro. E, andando
indietro con la mente, l’anziano soldato ricordò quando un gigantesco guerriero
distrusse la porta settentrionale del Grande Tempio, mai più ricostruita,
massacrando tutti i suoi compagni. Lui era stato l’unico a salvarsi quel giorno,
grazie all’intervento della giovane Sacerdotessa dell’Aquila e del Cavaliere di
Leo, che ebbero ragione del temibile nemico al soldo dei Titani.
Atlante era molto simile a quel gigante scarlatto, poiché anch’egli
sembrava davvero un essere umano, uno come loro, sebbene avesse una stazza
colossale e potesse schiacciarli soltanto sollevando un piede. Di sicuro,
almeno una decina sarebbero morti sotto quell’ampia e robusta pianta.
Patrizio cercò di scacciare quel pensiero, limitandosi a scagliare una nuova
freccia, condannata alla stessa sorte delle altre. Per quanto il corpo del
titano fosse enorme, la cotta protettiva ne proteggeva solo una parte,
lasciando spazi scoperti sulle gambe e sulle braccia, sul volto e persino sui
fianchi, dove le piastre metalliche di quella grigia armatura non riuscivano a
chiudersi bene. Eppure, nonostante la fitta pioggia di dardi infuocati, Atlante
continuava ad avanzare, senza neppure sentirli, senza neppure degnarsi di
sembrare ferito, infastidito o lontanamente impensierito.
“Attenti!!!” –Gridò Asher, balzando giù dalle
mura, mentre il gigantesco guerriero le colpiva con un calcio, sfondandole e
scagliando in aria pezzi di roccia e uomini armati. –“Maledizione!!! Non deve
entrare, non deve entrare!!!” –Ripeté, scattando in piedi e balzando avanti, il
cosmo che riluceva fresco attorno al suo braccio destro. –“Corno d’argento!!!” –Tuonò, dirigendo un lucente strale di energia
verso il braccio del titano, che neppure se ne curò, limitandosi a deviarlo con
un colpo di mano.
Frustrato, il Cavaliere dell’Unicorno iterò il proprio attacco,
aumentandone l’intensità e obbligando questa volta Atlante a posare lo sguardo
su di lui. Dovette davvero apparirgli simile ad una formica, per quanto pervasa
da una strana aura violetta, quell’essere così piccolo, così insignificante, ma
che insisteva nell’attirare la sua attenzione. Così lo soddisfò, calando la
mano e chiudendo il pugno su di lui.
“Aaargh!!!” –Gridò Asher,
stritolato da quella devastante pressione.
“Tirate!!! Tirate adesso!!! Colpitelo!!!”
–Tuonò allora la voce di Patrizio, mentre centinaia di arcieri, radunatisi
attorno all’Unicorno, liberavano i loro strali infuocati, mirando all’arto teso
del titano. Ma anche quella volta le frecce tornarono indietro, senza produrgli
danno alcuno. Solo un fastidio di cui Atlante si sbarazzò, muovendo il braccio
a spazzare e gettando a terra decine e decine di soldati.
“Ora, amico!!!” –Intervenne allora un’agile figura, rivestita da
un’armatura blu, cui presto ne seguì un’altra, coperta da una corazza
rossastra. –“Catena di Reda!!!” –Chiosò quest’ultimo, mentre anche il compagno
scagliava la propria arma, avvolgendola attorno ad un dito del colosso,
iniziando a strattonarlo.
“Che fate, stolti?!” –Bofonchiò Asher,
stretto nella mano di Atlante, osservando i discepoli di Albione tentare di
liberarlo con quelli che, dalla prospettiva con cui poteva vedere le cose,
erano semplici fili per fermare i bottoni.
“Cerchiamo di salvarti, sei cieco e non lo vedi?!” –Esclamò Reda, il volto una maschera di sudore per il solo sforzo di
trattenere la mano del titano. Sforzo destinato a concludersi all’istante,
quando Atlante sollevò il braccio, trascinando il ragazzo e Salzius
con sé. –“Aaahhh!!!” –Gridarono i due, mentre il
gigante scuoteva la mano, liberandosi infine della loro fastidiosa presenza.
Fu una scattante figura, rivestita di argentei e turchini bagliori, ad
afferrarli in volo, prima che si spiaccicassero al suolo, ove li depositò poco
dopo, permettendo loro di ammirare la snella sagoma di Castalia dell’Aquila,
appena giunta in loro soccorso.
“Inutile rimanere al muro occidentale, se l’attacco è qua! Date ordine
di ripiegare a tutti i soldati verso il cuore del santuario! Dobbiamo
impedirgli di raggiungere la Collina della Divinità, ove risiede Atena! Tutto
il resto è sacrificabile, anche noi!” –Dispose la donna, ricevendo pronti gesti
di assenso da coloro che la attorniavano. –“E adesso andiamo! Attacchiamo e
attacchiamo ancora! Finché di noi non resterà che cenere!!! Meteora pungente!!!” –E scattò avanti,
caricando il pugno destro di energia cosmica. Balzò sulle mura squassate,
dandosi lo slancio per saltare ancora più in alto, e mirò al volto del titano,
su cui si abbatté uno sciame di comete lucenti.
Asher, ancora stretto nella mano di Atlante, osservò quel centinaio di pugni
di luce, così simili al colpo segreto di Pegasus, perdersi senza produrre alcun
effetto. Ma… come? Borbottò, avendo creduto che,
quantomeno al viso, Atlante avrebbe prestato attenzione. Eppure, come già in
precedenza, l’attacco non lo aveva raggiunto. Com’è possibile? Rifletté il Cavaliere, pur nella scomoda
situazione in cui si trovava. Le vesti dell’Unicorno, appena riparate da Mur, sopportavano a malapena l’estenuante pressione cui
erano costrette, pur tuttavia il titano pareva non stringere troppo, forse
dimentico del moscerino che teneva in pugno.
Orbene, ti farò tornare io la
memoria, bisteccone! Sibilò
il Cavaliere, espandendo il cosmo, come tante volte aveva imparato a fare di
recente. Contro Sterope del Fulmine, Ossilo del Teschio Letale, persino contro Lukas, il suo antico compagno di addestramento presso il
maestro Regor, infine contro Cariddi.
A volte aveva perso, altre volte era riuscito a portare a termine il suo
combattimento, imparando ogni volta qualcosa di più. Era tempo di mettere in
pratica tutta quella conoscenza, era tempo di crescere ancora! Si disse il
giovane Unicorno, mentre un’aura violetta, dalle argentee sfumature, lo
avvolgeva, espandendosi tra le dita del titano e avviluppandogli il pugno come
una nube.
“Asher!!!” –Realizzò Castalia, ordinando a
tutti i soldati un nuovo assalto, per aiutare il compagno a divincolarsi.
“Siamo con te!!!” –Intervennero Reda e Salzius, sebbene non avessero ben chiaro cosa fare e come.
Fu il secondo ad avere un’intuizione, spiegandola in fretta all’amico e
correndo con lui oltre le mura, portandosi tra i piedi di Atlante, che di certo
non stava guardando in basso, quei due moscerini. –“Se non possiamo ferirlo,
con le nostre catene, possiamo comunque rallentarlo!” –Spiegò il ragazzo dai
capelli blu, srotolando per intero la sua arma e avvolgendola attorno ad un
calcagno del gigante, prima di scagliarla in direzione dell’altra gamba. Reda fece altrettanto e in un attimo riuscirono a legare
insieme i due arti inferiori di Atlante, che se ne accorse in quel momento,
quando tentò di muoversi per avanzare oltre le mura.
Incespicò un istante, il gigantesco figlio di Giapeto,
prima che le catene andassero in frantumi, di fronte agli sguardi angustiati
dei discepoli di Albione.
“Siamo proprio inutili!” –Commentò Salzius,
mentre Reda si buttava su di lui, impedendo ad un
grosso masso delle mura in frantumi di cadergli addosso. Frustrati, osservarono
impotenti Atlante varcare il confine del sacro regno di Atena, senza che
nessuno di loro potesse fermarlo.
“In piedi!” –Una frusta colpì il suolo a pochi passi dai due,
sollevando nuvole di polvere e detriti, anticipando la comparsa di una ragazza
dai capelli biondi, rivestita da un’armatura che ben conoscevano.
“Nemes!”
“Coraggio, compagni! La prova è perigliosa, ben più di quelle a cui il
nostro maestro Albione ci costringeva, ma non rinunceremo solo per questo, non
è vero?” –Li apostrofò la Sacerdotessa del Camaleonte, allungando poi una mano
verso di loro.
Reda e Salzius si scambiarono un ultimo sguardo,
annuendo con decisione, prima di afferrare la mano tesa di Nemes
e rimettersi in piedi, rientrando nel Santuario da una breccia aperta nel muro
e gettandosi all’inseguimento di Atlante.
“Punta verso le Dodici Case!!!” –Esclamò una voce, mentre ovunque
volavano frecce infuocate e lance e giavellotti e mazze ferrate, senza che
alcuna arma potesse recargli danno alcuno. –“Verso la residenza della Dea!
Dobbiamo fermarlo!!!”
“Volo dell’Aquila!!!”
–Esclamò Castalia, balzando in alto, dal tetto di un edificio, e mirando al
pugno chiuso di Atlante, dentro cui il cosmo di Asher
bruciava ancora. Il titano la colpì in pieno volo, schiaffeggiandola con il
dorso della mano ancora libera e schiantandola a terra, contro il tetto di una
costruzione, dentro cui la donna precipitò, tra le grida di chi ancora vi
dimorava.
“Così… non può andare…”
–Mormorò, mentre Atlante le lanciava contro anche Asher,
che si schiantò a poca distanza da lei, perdendo l’elmo dell’armatura, con un
vistoso ematoma in fronte.
“Pare che si fosse stancato di portarmi a spasso!” –Ironizzò il
ragazzo, faticando nel rimettersi in piedi, ancora stordito dalla batosta.
Castalia lo aiutò, proprio mentre Kiki appariva
vicino a loro, affiancato da Kama e da Yulij,
guardandosi attorno sconvolto.
“Atlante sta per arrivare alle Dodici Case! Tra poco incomberà su
Atena!!!”
“Dobbiamo far sfollare immediatamente l’intera area degli alloggi! Yulji, Kama! Dovete evacuare tutti i presenti, gli
apprendisti, gli inservienti, le ergantine, anche le
aspiranti sacerdotesse! Non potrebbero nulla contro Atlante!” –Ordinò il
Cavaliere dell’Aquila, prima di correre fuori dall’abbattuto edificio assieme
ad Asher, diretti verso la Prima Casa dello Zodiaco. Nemes, Reda e Salzius
li raggiunsero in quel momento, e anche Kiki infine
si unì loro, stupendoli.
“Voglio combattere! Io posso combattere!” –Precisò, non ricevendo risposta
se non un cenno col capo da Castalia e Asher.
Sfrecciando lungo la via principale, cercando di radunare quanti più
soldati riuscirono a trovare, raggiunsero l’ampio spiazzo di fronte alla Casa
di Ariete, pochi attimi prima che anche Atlante vi giungesse, demolendo, con i
suoi enormi passi, le costruzioni vicine, riservate agli alloggi dei soldati e
all’armeria.
“Quanta distruzione!” –Mormorò Nemes,
ricordando lo sfacelo sull’Isola di Andromeda, quando Scorpio
l’aveva devastata con una tempesta di energia. –“Avrà mai fine?!”
“È la nostra ultima freccia, Cavalieri! Bruciate tutto il vostro cosmo,
bruciate la vostra vita!!! Per Atena!!!” –Gridò Asher
a gran voce, avvolto nella sua aura violetta.
“Per Atena!!!” –Risposero gli altri combattenti, liberando la loro
energia. Una dopo l’altra, cinque figure composte di stelle galopparono verso
Atlante, raggiungendolo nell’interno coscia della gamba sinistra, dove mancava
la protezione dell’armatura. Fu un attacco di media potenza, per cui poterono
sentirsi soddisfatti, ma anch’esso non produsse danno alcuno, sebbene un’aura
luminosa luccicasse ancora per qualche istante nel punto dell’impatto, prima di
dissolversi, di fronte agli occhi sgranati di Asher,
Castalia e dei discepoli di Albione.
L’unica conseguenza diretta fu che Atlante per la prima volta li notò,
chinandosi infastidito su di loro e sbattendo il palmo della mano sul suolo,
generando un’onda di pressione così devastante da crepare il terreno e
sollevare polvere e rocce. Kiki aprì le braccia,
cercando di proteggere gli amici con la tecnica che gli aveva insegnato Mur, sostenuto anche dal potere di Asher
e Castalia, ma bastò che il titano battesse di nuovo il pugno sul terreno per
scaraventarli tutti indietro, contro la parete rocciosa che costellava la rampa
di scale che conduceva alla Prima Casa.
“Abbiamo…fallito…”
–Mormorò l’Unicorno, crollando sulle ginocchia, il sangue che gli colava da una
ferita alla tempia. –“Isabel! Atena! No, nooo!!!”
–Incapace di accettare quella prospettiva, Asher si
rialzò, le gambe tremanti e il passo malfermo, muovendosi lungo la gradinata di
marmo, per intercettare il titano prima che poggiasse il suo enorme piede sulla
stessa.
“Asher!!! Non farlo!!!” –Gridò Castalia,
ancora a terra, assieme agli allievi di Cefeo.
“Devo! Atena deve essere protetta! Sempre!” –Aggiunse il ragazzo,
tirandole un ultimo sguardo, prima di portare il proprio cosmo al parossismo e
lanciarsi contro Atlante, un unicorno di vivida luce, con la punta rivolta
verso il nemico.
Quella volta il titano lo vide e mosse subito il braccio nella sua
direzione, per colpirlo con un poderoso manrovescio, ma inaspettatamente
qualcosa lo frenò, interponendosi tra i due contendenti. Una cupola di energia
dorata, sottile ma estesa, parve avvolgere l’intera Collina della Divinità,
impedendo al figlio di Giapeto di avanzare oltre,
prima che una sola parola echeggiasse tra le rupi scoscese.
“Kaan!!!”
Castalia e i Cavalieri di Bronzo sollevarono lo sguardo al cielo,
laddove una figura ammantata d’oro era appena apparsa. Il volto calmo, gli
occhi chiusi, i lunghi capelli biondi che gli coprivano la schiena, un’enorme
energia che brillava tra le sue mani. Il Cavaliere di Virgo
era appena giunto sul campo di battaglia.
Anche Asher lo osservò ammirato, atterrando
su un costone roccioso, proprio mentre una seconda figura rivestita d’oro
usciva dal pronao della Prima Casa, affiancando il parigrado. –“Non da solo
combatterai quest’ultima battaglia, Shaka di Virgo! Mur dell’Ariete è con te!
E se cader dobbiamo, che sia per Atena!”
Il Custode della Porta Eterna annuì, accennando un breve ma sentito
sorriso, mentre Atlante sollevava il braccio per calarlo di nuovo su di loro.
Capitolo 14 *** Capitolo tredicesimo: Il popolo libero. ***
CAPITOLO TREDICESIMO:
IL POPOLO LIBERO.
Toru ascoltava attento quel che il giovane dallo sguardo fiero gli
stava raccontando, tirando di tanto in tanto un’occhiata di sbieco alle
massicce teste di drago che ornavano i coprispalla della sua corazza. Belle,
realizzate magnificamente, ma al tempo stesso inquietanti, parevano ricordargli
i feroci animali che stavano martellando le pareti esterne delle Conchiglie in
cui il suo popolo dimorava.
Eppure Tara diceva che di quel ragazzo dagli occhi neri potevano
fidarsi. Mentre sospesa in cielo stava infondendo il proprio cosmo alla
barriera, per aiutare la Alii a mantenere la protezione sull’intero Avaiki, lo
aveva visto affrontare la terribile piovra che aveva avvelenato Maru e Toru e
sconfiggerla. Ma altri nemici avevano invaso il regno sottomarino dove gli
Areoi vivevano da secoli, troppo forti perché potessero sconfiggerli da soli.
“Ecco perché siamo giunti fin qua! Per prestarvi aiuto, Comandante
Toru! Questa guerra non riguarda un regno soltanto ma l’intero equilibrio del
mondo, che potrebbe mutare verso l’oscurità più totale qualora perdessimo!”
–Stava spiegando in quel momento Ascanio, mentre Tara, poco distante, terminava
di curare le ferite di Maru e di Kohu.
Aveva un metodo piuttosto bizzarro per medicare i compagni, analizzò il
Cavaliere della Natura, utilizzando la propria armatura allo scopo. Era una
corazza coprente ma interamente rivestita di spine erettili, di varie
dimensioni; persino le mani erano artigliate e questo le permetteva di
stringere il braccio di un compagno, trafiggendolo con tali aculei,
sfruttandoli per assorbire le sostanze tossiche, che venivano trasferite
all’interno della sua corazza.
“Tara…” –Mormorò Maru del Narvalo, riprendendo le forze e ringraziando
l’amata per quell’ulteriore prova d’affetto, preoccupandosi al qual tempo per
le sue condizioni. Ma lei si limitò a fargli un cenno di noncuranza, obbligando
tutti a concentrarsi sul vero pericolo rappresentato dai Forcidi.
“Ce ne sono almeno quattro! Percepisco chiaramente le loro aure
offensive!” –Esclamò Ascanio, volgendo lo sguardo verso la grande Conchiglia
Madre, verso cui i cosmi ostili si stavano dirigendo. –“Troveranno i miei
compagni a sbarrar loro il cammino! Non devono raggiungere la Perla dei Mari!”
“Tu… sai?!” –Toru lo guardò con occhi esterrefatti, non ritenendo
possibile che qualcuno fosse a conoscenza di quel segreto, il cuore del loro
regno sommerso.
Ascanio annuì, dicendo che un amico comune gliene aveva parlato.
“Chi?” –Chiesero subito gli Areoi.
“Qualcuno che ha molto a cuore la sorte della vostra terra e che ha
contribuito a mantenerla isolata dai pericoli del mondo!” –Chiosò il glorioso
Comandante dei Cavalieri delle Stelle, prima di incitare Toru e Maru a
seguirlo.
Fu allora che gli attacchi delle bestie ripresero con maggior violenza,
battendo e percuotendo l’enorme guscio protettivo, scuotendolo fino in
profondità, come se fossero incitati da un’oscura presenza, invisibile,
impalpabile ma reale. Anche Ascanio la percepì, guardandosi attorno con timore,
mentre una gigantesca ombra nera pareva circondare la Conchiglia Meridionale,
oscurando il blu cobalto del mare.
“Non mi piace!” –Mormorò Toru, che aveva sentito la stessa cosa.
–“Nessun pesce o animale può muoversi così silenziosamente da non essere
avvertito dai miei sensi acuti! Riesco a percepire un tonfo in acqua a miglia
di distanza, eppure… quell’ombra… si sposta in silenzio, come se fosse
mescolata con le correnti stesse…”
“Ce ne occuperemo dopo! Adesso dobbiamo pensare ai Forcidi!” –Lo incitò
Ascanio, dirigendosi verso la parte settentrionale della Conchiglia, dove si
trovava il ponte che la collegava alla Conchiglia Madre e dove già qualcuno
stava combattendo.
***
Tisifone si era avvicinata troppo.
Incurante delle scariche energetiche che la Sacerdotessa di Atena gli
aveva appena rivolto, il nemico l’aveva afferrata per un piede, roteandola a
mezz’aria e sbattendola poi a terra, dove avrebbe voluto colpirla di nuovo, non
fosse stato per l’intervento della compagna, che era scattata su di lui,
raggiungendolo con un calcio al petto.
Il guerriero dalla corazza squamata non cadde, limitandosi a barcollare
all’indietro, svelto a muovere una gamba per recuperare appoggio nel terreno,
perdendo però la presa sul Cavaliere d’Argento.
“È un tipo poco loquace, ma a cui piace molto combattere, mi par di
capire!” –Commentò Titis, atterrando accanto alla compagna.
Stavano dirigendosi verso la Conchiglia Madre quando, sul ponte di
collegamento tra i due emisferi, avevano incrociato quel violento personaggio,
intento a picchiare e a squarciare gli abitanti dell’Avaiki. Inorridite, le
donne si erano subito lanciate alla carica, per fermarlo, ma finora non erano
riuscite a portare a segno neanche un colpo.
Era strano, si disse Tisifone, osservando l’avversario. Il cosmo che
emanava era molto ridotto, forse persino inferiore a quello di un Cavaliere
d’Argento. Eppure la sua forza fisica era notevole, in grado di impegnarle
entrambe in uno scontro diretto, e ancor più notevole era la sua resistenza,
come se non avvertisse nemmeno le scariche energetiche che finora gli aveva
rivolto contro.
Alto e robusto, ben piazzato su solide gambe, l’uomo indossava una
corazza azzurra, formata da tante piastre sovrapposte in modo da ricreare una
pelle squamata. Persino l’elmo era collegato al pettorale, da piastre
flessibili che gli permettevano di roteare la testa, riparandola al tempo
stesso, lasciando fuori solo due occhi di colore dorato. Quando gli avevano
chiesto chi fosse, egli aveva borbottato solo una parola strana, che la donna
non aveva compreso.
Afanc. O
qualcosa di simile. Poi le aveva caricate, sbattendone una a terra con una
spallata e muovendo il pugno verso il volto scoperto dell’altra.
“Dobbiamo trovare una breccia nelle sue difese! Gli attacchi a distanza
non servono!” –Propose Tisifone, scattando avanti, le unghie affilate pronte
per affondare nel nemico, il cosmo violetto che la attorniava, liberando
guizzanti saette ad ogni movimento. Tentò un assalto diretto, mirando al viso
del guerriero, ma questi spostò la testa di lato, afferrandole il braccio con
presa robusta, ma lei, che si aspettava tale mossa, era già pronta per roteare
di lato, colpendolo dietro la gamba destra con una raffica di calci. Così tanti
che l’uomo dovette piegarla, trattenendo una smorfia di fastidio.
Tisifone approfittò di quel momento per sgusciare fuori dalla sua
stretta, portandosi dietro di lui e calando l’artigliata mano destra sulla sua
schiena.
“Cobra incantatore!!!”
–Gridò, spingendo a terra il nemico, sotto una raffica di scariche energetiche.
“Ce l’hai fatta!!!” –Esclamò Titis, alla vista dell’uomo prostrato. Ma
non appena questi sollevò la testa, fissandola con sguardo bramoso, capì di
essersi soltanto illusa. –“Attenta, Tisifone! Scappa!!!” –Le gridò, ma il guerriero
fu più rapido, voltandosi di scatto e colpendola a gamba tesa al ventre,
facendola piegare in avanti. Un secondo calcio la scaraventò indietro, contro
il parapetto di roccia e sabbia del ponte, distruggendolo e facendola crollare
a terra.
“Sottile trama corallina!!!”
–Gridò allora la fedelissima di Nettuno, sfiorando il suolo con una mano e
ricoprendolo di un manto colorato, che andò espandendosi in direzione del
nemico, intrappolandogli le gambe all’istante.
Osservando con curiosità quella strana tecnica, il nemico incrociò lo
sguardo di Titis, prorompendo poi in una risata profonda.
“Vorresti fermarmi con dei coralli?” –Parlò infine. –“Credi che bastino
per trattenere un afanc, terrore delle acque lacustri?! Ahr ahr ahr! Sei bionda
e stupida, ragazza!” –La derise, iniziando a muovere le gambe, con foga sempre
maggiore, distruggendo la gabbia colorata creata da Titis, senza neppure usare
il proprio cosmo.
“Incredibile! La tua forza fisica è spaventosa!”
“E la presa delle mie braccia lo è altrettanto!” –Ghignarono i due
occhi dorati, incamminandosi verso di lei, che subito cercò di divincolarsi,
scattando di lato. Ma il Forcide la inseguì, bloccandola mentre balzava verso
l’altro lato del ponte e sbattendola a terra, montando rapido su di lei e
immobilizzandola con il suo corpo robusto. Una mano le afferrò il collo,
torcendoglielo, mentre già nell’altra crescevano grezzi artigli pronti a
squarciarla, come avevano dilaniato gli abitanti dell’Avaiki.
“Sei… un mostro!!!” –Gridò allora Titis, espandendo il proprio cosmo,
come mai aveva fatto prima, e generando un’onda di energia che sollevò l’Afanc,
scagliandolo in aria di qualche metro, prima che riuscisse a stabilizzarsi e ad
atterrare al suolo a piedi uniti. Ansimando, la graziosa sirenetta si rialzò,
mentre anche Tisifone, dall’altro lato del ponte, faceva altrettanto, entrambe
avvolte nei loro cosmi caldi.
“Insieme, Titis!!!” –Scattò avanti la Sacerdotessa di Atena, liberando folgori
di energia che saettarono verso l’uomo, sfregiandogli l’armatura, graffiandola
in più punti, ma mai danneggiandola seriamente. Dei colpi portati a casaccio
dalla bionda nemmeno se ne curò, dandole le spalle proprio mentre Tisifone
balzava su di lui. La afferrò per entrambe le braccia, sbattendola a terra,
mentre gli artigli si conficcavano nella sua gamba destra, strappandole un
grido di rabbia dolorante.
“E adesso….”
“E adesso muori, invasore!!!” –Tuonò una massiccia voce maschile,
mentre la spaventosa sagoma di un grosso pesce, dai denti affilati e sanguigni,
si abbatteva su di lui, scagliandolo indietro. –“Fauci dello Squalo Bianco!!!”
Afanc venne travolto, schiantandosi a terra poco distante, le placche
della corazza danneggiate, quasi sbranate, da quei precisi fendenti di energia.
A fatica si rialzò, il sangue che colava lungo il proprio corpo, trovandosi di
forte un uomo massiccio, dai lineamenti tipici delle isole della Polinesia, la
cui corazza raffigurava uno squalo bianco.
Alla vista di tutto quel sangue, Toru deglutì a fatica, sforzandosi di
rimanere concentrato sul nemico, proprio mentre questi gli si lanciava contro,
tentando di abbatterlo con una spallata. L’Areoi scartò di lato, caricando il
pugno destro di energia cosmica e portandolo avanti, colpendo ad un fianco
l’avversario che stava intanto voltandosi verso di lui. Di nuovo le fauci del
predatore dei mari si chiusero sulla sua pelle, strappandogliela in più punti,
assieme ad organi interni, prostrandolo a terra, debole e ansante. Avrebbe
voluto tentare un ultimo colpo, un ultimo affondo con gli artigli che così
tante prede avevano squartato, ma non ebbe la forza neppure di alzare il
braccio mentre il pugno di Toru gli sfondava il pettorale, strappandogli un
gemito sommesso, prima di farlo cadere al suolo, morto.
“Toru!” –Esclamò allora Maru, raggiungendo il Comandante, il cui
braccio era chiazzato di sangue nemico.
“Va tutto bene!” –Chiuse questi in fretta il discorso, dandogli le
spalle e scuotendo la mano macchiata, mentre Ascanio passava oltre, avvicinandosi
alle due donne ferite.
“State bene?” –Chiese loro, ricevendo un cenno affermativo da entrambe.
–“Dove sono gli altri?”
“Ci siamo separati! Gli Heroes di Eracle si trovano a loro agio in
questi fondali oceanici e hanno sfruttato gli stessi condotti subacquei per
raggiungere le Conchiglie settentrionali. Il Selenite muto invece ha seguito
Avatea nella Conchiglia Madre.”
“Avatea?!” –Intervenne allora il Comandante degli Areoi, affiancato da
Maru e Kohu. –“La Dea della Luna? Ella dunque è tornata?”
Ascanio annuì, prima che un grido di donna riscuotesse tutti i
presenti, portandoli a voltarsi verso la strada appena percorsa. In alto,
vicino al punto più alto della volta della Conchiglia Meridionale, Tara di
Diodon stava avvampando nel proprio cosmo rosaceo, brillando come una stella in
procinto di esplodere. Da fuori giungevano percosse sempre più furiose e
l’intera struttura difensiva tremava e tremolava, di fronte agli occhi
intimoriti degli Areoi che temevano si schiantasse da un momento all’altro.
“Ho paura che quel momento sia arrivato!” –Commentò placido Ascanio,
cui Toru rispose scuotendo la testa nervosamente.
“No! Mai! Non possiamo cedere così! Non possiamo rinunciare alle nostre
terre…” –Stava dicendo, quando un nuovo schianto fece vibrare la cupola
protettiva, spingendo persino Tara indietro.
“Ripiegate! Fate evacuare il vostro popolo verso la Conchiglia Madre!
Sarà più facile per noi combattere in assenza di persone innocenti, che
potrebbero rimanere coinvolte negli scontri, come testimoniano i cadaveri che
questo Forcide ha lasciato dietro di sé! Al tempo stesso, la vostra Alii non
dovrà più sforzarsi per difendere cinque gusci, potendo limitare le proprie
forze alla protezione di uno soltanto!”
“Tu non capisci!!!” –Gli ringhiò contro Toru, avvicinandosi e
fissandolo con sguardo duro, segnato dal dolore di quelle parole. –“Questa è la
nostra terra, e dei nostri avi prima di noi! Non possiamo abbandonarla, sarebbe
un’offesa per gli aumakuas che ci hanno preceduto!”
“Sono certo che anche i vostri antenati preferirebbero che salvaste voi
stessi e le vostre famiglie, legami preziosi e insostituibili, piuttosto che
edifici e luoghi sacri, che possono essere ricostruiti!”
Fu un nuovo tremendo schianto a porre fine a quello scambio di
opinioni, un rumore secco cui seguì il fragore di un’onda immensa.
La barriera difensiva della Conchiglia Meridionale era andata in
frantumi e le onde degli oceani stavano traboccando impetuose all’interno,
sommergendo case, costruzioni e laghetti e tutti coloro che ancora si erano
attardati, sperando in una rapida soluzione di quell’improvviso e inspiegabile
conflitto.
“Ukupanipo, proteggici!!!” –Piagnucolò allora il giovane Kohu, mentre
Toru gridava a tutti di correre via, di superare il ponte ed entrare nella Conchiglia
Madre, e scrosci d’acqua si riversavano ovunque attorno a loro, rallentati solo
dall’ultimo baluginare della cupola protettiva.
Un maroso interruppe la loro corsa, schiantandosi sul ponte e chiudendo
loro ogni via di fuga, costringendoli a indietreggiare, mentre anche alle loro
spalle la furia degli oceani si scatenava, imperversando sui resti della
Conchiglia Meridionale. Fu una luce rosa a salvarli, anticipando il sorgere di
una cupola di energia che avvolse i tre Areoi e i tre membri dell’alleanza
divina, lasciando le acque al di fuori di quel ristretto spazio in cui a
malapena potevano stare in piedi.
“Tara!!!” –Gridò Maru del Narvalo, osservando la compagna apparire in
mezzo a loro, le braccia tese verso l’alto, nel disperato sforzo di sorreggere
quell’ultima barriera a difesa dei compagni.
“Ci sono… ancora… Areoi…” –Mormorò la ragazza, mentre la calotta di
energia si allungava verso le profondità ove fino a poco prima era esistita la
Conchiglia Meridionale, rivelando una seconda cupola, da lei generata, ove
erano riuniti una ventina di donne e bambini dai tratti somatici simili ai
suoi. –“Dovete… portarli da Hina… Subito!!!”
Maru, Toru, Ascanio e Tisifone scattarono subito nel tunnel, incuranti
dei continui smottamenti dello stesso, incuranti degli sguardi truci che le
creature abissali continuavano a rivolgere loro, mentre sfogavano la loro
rabbia con violenti colpi di coda e di tentacoli. Raggiunsero gli intimoriti
abitanti, incitandoli a seguirli lungo la galleria, che Tara dovette restringere
man mano che si avvicinavano al resto dei compagni, per consumare meno energia
e mantenerne a sufficienza per lo sforzo finale: trasportare tutti loro il più
vicino possibile alla Conchiglia Madre.
Inspirando con calma, pensando a tutto ciò di bello che aveva avuto
nella vita, all’affetto di una famiglia che non le aveva fatto mancare niente,
all’amore di Maru e al futuro che sognavano assieme, l’Areoi di Diodon bruciò
ogni stilla del proprio cosmo, mentre le spine erettili della sua corazza si indurivano,
rivelando la reale fattezza di tale armatura, simile al Pesce Istrice cui era
ispirata. Il Narvalo sospirò, trattenendo le lacrime, mentre Toru gli metteva
una mano su una spalla, conscio di ciò che comportasse l’uso di quell’estremo
potere.
“Ci siamo!!! Guardate!!!” –Esclamò il piccolo Istioforo, mentre il
tunnel di energia si faceva strada lungo il fondale oceanico, separando le
acque e allungandosi fino a raggiungere la parete esterna della Conchiglia
Madre, ove il cosmo di Hina perdurava, ristorando per un momento Tara da tale
debilitante sforzo. –“Andiamo!!!” –Incalzò, iniziando a correre, subito seguito
dagli altri abitanti dell’Avaiki, da Tisifone e Titis, da Toru e Ascanio.
Rimase soltanto Maru, a pochi passi dall’amata, osservandone il volto
trasfigurato dal veleno che le era penetrato nel corpo.
“Va’!” –Gli disse Tara, tra le lacrime. –“Non… resisterò ancora per
molto…”
“E allora moriremo insieme!” –Esclamò rabbioso il Narvalo,
avvicinandosi e piantando nel terreno accanto a lei la propria lancia,
generando all’impatto un cerchio concentrico di energia che si espanse attorno
a loro, rischiarando per un momento quell’abissale profondità, accecando
persino le creature fuori dalla barriera. Quindi, senza neppure attendere la
risposta della compagna, le afferrò una mano, stringendola con così tanta forza
da affondare gli aculei nella pelle, espandendo il proprio cosmo e usandolo per
sottrarle parte del veleno, di modo che ella potesse rifiatare.
“Maru…” –Commentò Toru, ormai giunto alla fine del tunnel di energia
cosmica, assieme al resto del gruppo, voltandosi a guardare indietro le due
luci, rosa e dorata, che baluginavano in quelle tenebrose fosse. Ma, conscio
del ruolo che rivestiva, dovette metter subito da parte ogni lacrima, concentrandosi
sulla barriera che si apriva loro dinnanzi, sfiorandola con entrambe le mani e
lasciando che il suo cosmo entrasse in risonanza con quello della Alii che la
sorreggeva. Non ci vollero che pochi secondi prima che nella parete di energia
azzurra si aprisse un buco, nello spazio tra le sue braccia, allargandosi a
sufficienza da permettere al gruppetto di passarvi attraverso, di corsa,
entrando nella Conchiglia Madre.
Toru fu l’ultimo ad oltrepassare la soglia, rimanendo con una gamba
all’interno e una ancora nel tunnel di energia, che ormai ondeggiava
pericolosamente alle proprie spalle. Se avesse potuto, avrebbe giurato di aver
visto Maru sorridergli un’ultima volta, prima che le robuste mani di Ascanio lo
tirassero all’interno della Conchiglia, permettendo al varco nella parete di
richiudersi e alla galleria di scomparire, dissolvendosi nell’oscurità
abissale. Vi fu un intenso lampo di luce e poi il buio più completo.
“Comandante…” –Mormorò la voce spezzata dell’Istioforo, alle sue
spalle.
Ma Toru non voleva rispondergli, non ancora, incapace di guardarlo in
faccia e dirgli che Tara e Maru erano scomparsi. Che anche Tara e Maru erano
scomparsi, assieme a chissà quanti altri amici in quelle poche ore da cui era
iniziato l’attacco.
“Comandante!!!” –Ripeté Kohu, quasi urlando, con una punta di festosità
che mal si addiceva al lutto appena subito. Deciso a rimproverarlo, Toru si
voltò, proprio mentre un alone di luce, appena apparso di fronte a loro,
all’ingresso della Conchiglia Madre, scemava di intensità, rivelando due sagome
ben note, prostrate a terra dalla fatica, ed una, ben più in forze, che invece
il Comandante non conosceva.
“Maru! Tara!!! Ce l’avete fatta!!!” –Esclamò, andandogli incontro. Ma
un cenno del Narvalo lo intimò a tenersi a distanza, portandolo così a
rivolgersi verso l’ignoto guerriero che li aveva soccorsi. Una donna dalle
scure vestigia che, al pari di Tisifone dell’Ofiuco, indossava una maschera
eburnea sul volto.
“Il mio nome è Pasifae del Cancro Celeste, appartengo al gruppo di
Heroes legati al Sommo Eracle! Ho percepito i cosmi dei tuoi compagni in
difficoltà, così mi sono permessa di intervenire in loro aiuto!”
“Ti ringrazio, Pasifae del Cancro Celeste! Ti sono debitore!” –Si
inchinò Toru, prima che Ascanio si facesse aventi, chiedendo alla donna dove
fossero gli altri Heroes.
“Sono impegnati in battaglia sui ponti che collegano la Conchiglia
Occidentale e Settentrionale alla grande madre! Pare che, sebbene fossero a
conoscenza di passaggi sotterranei, tali varchi non permettano ai Forcidi di
entrare direttamente qua, dove il cosmo che permea questo luogo sacro è di gran
lunga superiore!”
“Dobbiamo raggiungerli e prestare loro aiuto immediatamente!” –Affermò lo
Squalo Bianco, prevenendo qualsiasi obiezione Ascanio stesse per avanzare. –“So
cosa vuoi dirmi, Cavaliere dei Due Draghi! Che dovremmo cedere le Conchiglie
esterne e rifugiarci tutti qua, ove mai potrebbero giungere! Ma non siamo
codardi, noi Areoi! È vero, non siamo guerrieri come voi, il nostro animo non è
forgiato alla battaglia, né le nostre corazze resistenti quanto le vostre! Pur
tuttavia questa è la nostra terra, la casa del nostro popolo, e lotteremo con i
denti per difenderla da questi invasori! E la determinazione che ho visto oggi,
nei gesti di Tara e Maru, di Kohu e degli altri incursori, ha spianato in me
ogni dubbio!”
Il Cavaliere della Natura non rispose alcunché, limitandosi a chinare
il capo, asserendo di essere venuto per dargli aiuto, non ordini, sempre
rispettando le richieste del popolo delle correnti. Toru lo ringraziò, prima di
fare cenno a Kohu di seguirlo verso il ponte che portava alla Conchiglia
Settentrionale.
Ascanio si diresse invece verso la Conchiglia Occidentale, seguito da
Pasifae del Cancro, lasciando Titis e Tisifone a sincerarsi delle condizioni di
Tara e Maru. Ma fu proprio quest’ultimo a intimare le due ragazze di tenersi a
distanza, per non essere infettate come lui. Non comprendendo le sue parole, la
Sacerdotessa di Atena gli chiese di spiegarsi, e Maru lo fece.
“La corazza di Tara è in grado di trattenere i veleni al suo interno, una
peculiarità che negli anni ci è stata molto utile, qua nell’Avaiki, per curare
chiunque fosse stato ferito e infettato da un pesce pericoloso o da una qualche
specie vegetale sconosciuta. Solo col tempo ci siamo accorti che, in virtù di
questo, il suo cosmo andava facendosi sempre più venefico, trattenuto solo
dall’armatura che indossa, al punto che potrebbe risultare mortale a chiunque
le stesse troppo a lungo vicino!”
“Un grande dono associato a un enorme rischio.” –Commentò allora Titis,
prima di notare con quanta cura Maru aiutava la donna a rimettersi in piedi, il
bel viso deturpato da violacee cicatrici, ma ancora in grado di sorridere alle
attenzioni del compagno. –“Eppure… tu, come puoi starle così vicino? Sei forse
immune, Areoi del Narvalo, al suo veleno?”
“No, non lo sono!” –Si limitò a risponderle Maru, con gli occhi lucidi.
–“Ma non faresti altrettanto, Sacerdotessa di Nettuno, pur di stare insieme a
colui che ami?!”
Titis non riuscì a rispondergli alcunché, soltanto a sorridere al
coraggioso giovane che per amore avrebbe donato tutto, persino se stesso. Un
comportamento folle che in fondo ben riusciva a comprendere. Tisifone le poggiò
una mano su una spalla, strappandola ai suoi ricordi, prima di indicarle il
palazzo di corallo che si apriva di fronte a loro, al centro della Conchiglia
Madre. Da là proveniva la pulsante energia che manteneva in piedi l’intero
Avaiki, e là stavano adesso concentrandosi gli assalti delle mostruose bestie
marine.
***
Con un solo attacco il Quarto Forcide aveva atterrato Alcione della
Piovra e Gerione del Calamaro. Non che fossero due combattenti inesperti, ma
l’uomo dalla corazza rappresentante un Isonade possedeva un modo subdolo di
combattere, che ben si sposava con le tattiche dell’altro guerriero cui si
accompagnava: un uomo alto e magro, dal viso scheletrico su cui risaltava un
naso aquilino. Entrambi indossavano armature azzurre, di puro oricalco,
rappresentanti bestie marine che avrebbero dovuto nuotare libere nei mari sotto
il regno di Forco. L’Isonade, un mostro marino noto nella mitologia giapponese,
simile ad uno squalo a tre code, e l’Iku-Turso, una creatura appartenente ai
bestiari finlandesi.
“Anziché nasconderti, fatti vedere, codardo!!!” –Ringhiò Gerione,
rimettendosi in piedi, tenendo una mano sul fianco destro, dove le zanne avverse
lo avevano raggiunto, ferendolo. Non ottenne risposta, soltanto un incremento
delle nebbiose correnti d’aria che li circondavano. –“Maledetto! Non credere
però che rimarremo inermi ad attendere un secondo attacco!” –Aggiunse,
avvampando nel proprio cosmo e lasciando schioccare le fruste che reggeva tra
le mani. –“Fruste del tuono, trovate
il nemico!!!” –Gridò, liberando le sfuggenti verghe, che si infiltrarono nella
cortina fumosa, nonostante l’impetuoso soffio del vento ne ostacolasse i
movimenti.
Zac!
Fu quel suono, prima ancora del tendersi della frusta stessa, a
indicare a Gerione che le sue armi avevano trovato il proprio bersaglio,
permettendogli di sorridere. Poco prima che un attacco furibondo scuotesse le
nebbie alle sue spalle, da cui apparvero centinaia di buoi neri, dalle corna
sprigionanti fiamme e lampi.
“Tuonen härkä!” –Imperò una voce, anticipando l’apparire
della sagoma del Quinto Forcide, dietro quell’improvvisa mandria di buoi
scatenati, che miravano alla schiena del giovane eroe, ancora intento a
stringere le fruste in mano.
“Non così in fretta!!!” –Intervenne allora Alcione, scattando a difesa
del compagno, avvolta nel proprio cosmo azzurro, che turbinò attorno ai due
fedeli di Eracle, assumendo la forma di maestose onde schiumose. –“Alti flutti spumeggianti, travolgete la
mandria della morte!!!”
Lo scontro tra le due energie scagliò entrambi indietro, travolgendo
anche Gerione, obbligato a ritirare le proprie fruste, e sbattendolo in malo
modo nella terra bagnata. Lo rialzò un’improvvisa corrente d’aria, che lo fece
roteare verso l’alta volta della Conchiglia Occidentale, costringendolo a
srotolare di nuovo una frusta e a lanciarla verso terra, arrotolandola ad uno
scoglio affiorante.
L’Isonade sogghignò, uscendo dalle nebbie e rivelandosi infine al
giovane guerriero, mentre Alcione, poco distante, doveva fronteggiare la nuova
carica dei Buoi della Morte, senza poter intervenire in suo aiuto.
“Finalmente ti mostri, spregevole canaglia!” –Avvampò Gerione,
bruciando il proprio cosmo e utilizzandolo per stabilizzarsi all’interno del
vortice d’aria, prima di scatenare una fitta pioggia di fruste energetiche. –“Tentacoli predatori!!!” –Gridò, mentre
gli strali azzurri piombavano sul Quarto Forcide, obbligandolo a balzare
indietro più volte, per non esserne investito, stupefatto da quanto veloci e
guizzanti potessero essere nonostante la corrente contraria che ne frenava la
corsa.
“Bastardo! Non mi farò sconfiggere ora!” –Ringhiò, pensando alle enormi
possibilità che gli si erano aperte davanti. Aveva sentito, poco prima,
scomparire il cosmo di Ozena, che di certo aveva commesso l’errore di
sottovalutare Toru. Eppure l’avevo
avvisata di fare attenzione ai denti del mio vecchio compagno d’addestramento!
Sogghignò, senza essere dispiaciuto per la sua dipartita. Del resto, dopo
Cariddi, Ozena era il secondo Forcide a cadere, ed entrambi erano a lui
superiori nella scala gerarchica che ordinava i servitori di Forco. Non che avesse
mai ambito ad essere il primo, posizione impossibile per chiunque da
raggiungere, ma aver guidato l’incursione all’Avaiki di certo gli avrebbe fatto
guadagnare simpatia agli occhi del futuro Imperatore dei Mari, che avrebbe
potuto promuoverlo o affidargli incarichi sempre più importanti.
Immerso in quei pensieri ambiziosi, non s’avvide di un affondo di
Gerione, la cui frusta lo aveva raggiunto al volto, aprendogli un taglio sulla
guancia destra e facendogli persino perdere l’elmo azzurro.
“Umpf! Ferito da un calamaro gigante?! Solo nei sogni di un poveraccio!
Non nei miei che a ben altro ambisco!!!” –Ringhiò l’uomo chiamato Moeava,
mentre il guerriero di Eracle atterrava di fronte a lui. Nessuno ebbe il tempo
di fare alcunché che l’intera struttura tremò, spaventando tutti i presenti e
costringendoli a gettare uno sguardo verso le pareti esterne, ove un’ombra
immensa era appena comparsa.
L’Isonade inghiottì a fatica l’amaro bottone della sconfitta. Avevano
perso troppo tempo in quei canali sotterranei, orientandosi per trovare la via
per la Conchiglia Madre, realizzando troppo tardi che i poteri della Alii
dovevano probabilmente mutarne la conformazione, facendoli sbucare ogni volta
in un lago diverso ma sempre in una delle Conchiglie esterne. Per questo
avevano cambiato strategia, ripiegando su un assalto diretto al ponte di
collegamento, dove erano però stati fermati dagli Heroes di Eracle e costretti
ad uno scontro che troppo a lungo si era protratto.
Adesso che lui era arrivato, vi sarebbe rimasto ben misero bottino per
loro, Forcidi di basso rango, misero come le speranze che restavano agli Areoi,
poiché di certo all’Abisso Oscuro nessuno avrebbe potuto opporsi.
Capitolo 15 *** Capitolo quattordicesimo: La luce e il giorno. ***
CAPITOLO QUATTORDICESIMO:
LA LUCE E IL GIORNO.
Quando Pegasus riprese i sensi si accorse che faceva caldo, molto
caldo. Tirandosi su, a fatica, vide braci ardere poco lontano, mentre un uomo
alto e robusto, curvo su se stesso, levigava un pezzo di metallo celeste.
Chiuse e riaprì gli occhi per capire dove si trovasse, per mettere insieme i
ricordi, prima che una mano si posasse sulla sua spalla e una voce amica lo
rincuorasse.
“Non temere, Cavaliere! Sei al sicuro!”
“Phantom?!” –Mormorò il ragazzo, identificando il Luogotenente
Olimpico. Mettendosi a sedere e guardandosi attorno, riconobbe la fucina di
Efesto, sebbene parte della caverna fosse crollata e regnasse un estremo
disordine.
“Bentornato nel mondo dei vivi, Cavaliere di Pegasus!” –Lo chiamò
allora una solida voce, mentre un uomo alto e bello, con mossi capelli biondi,
gli si avvicinava. Indossava la regale Veste Divina, che gli aveva visto
addosso una volta sola, durante lo scontro finale alla Torre del Fulmine e,
sebbene fosse un fido alleato di Atena, Pegasus non poteva fare a meno di
trovarsi in soggezione di fronte a lui. Di fronte al Padre degli Dei. –“Ti sei
risvegliato giusto in tempo! La tua armatura è pronta!” –Disse, facendogli
cenno di alzarsi e di raggiungerlo presso la fornace, ove Efesto stava terminando
le ultime rifiniture, affiancato da Euro, Vento dell’Est, e da un uomo dai
capelli fulvi che il Cavaliere di Atena non conosceva.
Il figlio di Eos subito gli sorrise, spiegandogli che il Sommo Zeus
aveva offerto il proprio sangue per riparare e solidificare la corazza del cavallo
alato, che appariva adesso più nuova che mai.
“Provala!” –Esclamò subito Efesto, mentre il ragazzo espandeva il
proprio cosmo, entrando in risonanza con l’armatura, che sfrecciò nello spazio
ristretto della caverna, scalpitando come un vero e proprio destriero di luce,
prima di scomporsi in tanti pezzi che andarono a rivestire il fisico di
Pegasus.
“È… straordinaria!” –Mormorò questi, osservandola. –“Percepisco una
vitalità mai provata prima, neppure quando rinacque con il sangue di Atena o
con il mithril!”
“È naturale! Il Signore dell’Olimpo discende direttamente da Crono ed è
il supremo Dio della Terza Generazione Cosmica! Il suo cosmo combina forza,
imperio e una sempiterna freschezza! Di tutte le armature che hai indossato,
questa certamente è la più resistente, ma al tempo stesso leggera e diafana
come una Divinità!”
“Grazie, Sommo Zeus! Grazie per questa corazza con cui lotterò per
Atena e per le genti del mondo!”
“Non ringraziarmi, Cavaliere! Un dono tardivo è questo, per quanto
efficace!”
“Grazie anche per… avermi curato il braccio?!” –Aggiunse il ragazzo,
che sentiva una nuova vitalità anche nell’arto ustionato dalle tenebre di
Erebo.
“Per quello… non ho potuto fare troppo, perdonami! Sono riuscito ad
alleviare il tuo dolore, a rimetterlo in moto, ma l’oscurità che lo ha
infettato è troppo grande adesso, persino per me!” –Confessò il Nume, scansando
lo sguardo preoccupato di Pegasus e dei Cavalieri Celesti. –“Forse, quando
tutto questo finirà e brinderemo vittoriosi alla fine dell’ombra, allora il tuo
bracciò tornerà libero dal maleficio che lo ha colpito. Ma fino ad allora…”
“Fino ad allora combatterò lo stesso!” –Avvampò Pegasus, sollevando
l’arto con il pugno chiuso, desideroso di confrontarsi quanto prima con Erebo e
Nyx.
“Ed io vorrei essere al tuo fianco, Cavaliere!” –Intervenne Nikolaos.
–“Anche se la mia corazza è stata distrutta da Cariddi, combatterò ugualmente
fino all’ultima stilla di vita! I miei genitori, e mia sorella ingannata,
chiedono giustizia!”
“E la avranno, mio fidato Luogotenente! Stai certo!” –Chiosò Zeus,
prima di cercare lo sguardo di Euro. –“A tal riguardo, non credo tu debba guerreggiare
disarmato!”
“Nessuno dovrebbe farlo, tantomeno tu che hai dimostrato coraggio,
abnegazione, spirito di sacrificio e un acume che ti ha portato a scegliere per
cosa lottare, chiedendoti sempre il perché di ogni azione, anche quando gli Dei
a cui eri fedele sembravano aver tradito i loro stessi ideali! Per la tua
gentilezza d’animo, io Euro, Vento dell’Est, donerò il mio ichor, affinché
l’Eridano Celeste possa continuare a scorrere, ruscello di speranza per tutti i
popoli, umani e divini!” –Commentò il figlio di Eos, tagliandosi i polsi e
bagnando i resti dell’armatura di Nikolaos, che Zeus aveva portato con loro.
“Euro Argestes, amico mio! Non so come ringraziarti per questo gesto…”
–Ammise commosso il Luogotenente.
“Lo farai in battaglia! Lo faremo insieme!”
Zeus sorrise compiaciuto, prima di voltarsi verso il taciturno fabbro,
che portava sul volto e sul corpo ancora i segni dello scontro con Erebo.
–“Perdonami figlio mio, devo abusare ancora una volta della tua maestria! Ma
non temere, tutti i tuoi sforzi saranno presto ricompensati, tutti i tuoi
desideri troveranno realizzazione, e tra non molto, invero tra un attimo del
tempo cosmico, ritroverai la tua dolce Afrodite e allora potrete stare insieme
per l’eternità!”
Efesto non disse niente, limitandosi a grugnire e a rimettersi a
lavoro. Ben poche forze gli erano rimaste, di certo in battaglia non sarebbe
stato utile, storpio e ferito com’era, ma l’abilità delle sue mani era un dono
che nessun’ombra avrebbe potuto oscurare.
“E per me, mio Signore, c’è niente?” –Intervenne allora una sesta voce,
appartenente all’uomo dai capelli fulvi che Pegasus non aveva mai visto fino ad
allora. –“Perdonate il mio ardire, ma… potrò avere anch’io un’armatura con cui
lottare?”
“Non un’armatura, Toma, bensì la tua armatura!” –Precisò Zeus, notando
il volto dell’uomo tingersi di un’espressione di sorpresa, e poi di serenità.
–“Non crederai che l’abbia ceduta a qualcun altro! Tu solo sei degno di
indossare le vesti che furono di Icaro! Tu sei il nostro novello Icaro, sempre
pronto a volare in alto, verso il sole, senza paura di scottarti!” –E, nel dir
questo, il proprio cosmo avvampò nell’intera caverna, raggiungendo recessi noti
soltanto al Nume e al di lui figlio, scuotendo il suolo e lasciando apparire
una corazza di color azzurro e avorio.
Toma la riconobbe all’istante, nonostante fossero passati quindici anni
dall’ultima volta in cui l’aveva indossata. Aveva la stessa forma di allora,
che a Pegasus sembrò un angelo con le ali, o un putto, un cupido, non seppe
distinguerla. Vide solo che anch’ella riconobbe il suo possessore, lampeggiando
e scomponendosi, per rivestirlo poco dopo.
“Grazie, mio re!” –Esclamò commosso il Cavaliere di Icaro.
–“Nient’altro ho desiderato, in questa lunga prigionia, se non tornare a
servirvi.”
Zeus annuì, mentre Euro rimase qualche istante ad osservare il giovane,
accennando un sorriso di compiacenza. Era vero, e lui lo sapeva bene, Toma
voleva continuare a lottare; ne avevano parlato spesso, in quelle saltuarie
occasioni in cui il figlio di Eos era andato a trovarlo, spingendosi in volo
fino all’alta cima di Strobilus, sebbene non ne avesse mai fatto parola con
nessuno, per non infrangere un divieto divino che impediva a chiunque, tranne
che a Zeus, di fargli visita. Ma Euro provava pena per lui, vittima di un
destino ingrato, il destino di un uomo che voleva andare oltre, che voleva
sempre di più. Non poteva biasimarlo, in fondo non era poi così diverso dai
suoi simili. Era la natura umana a spingere affinché tali limiti venissero
superati.
Di una cosa però non era certo, che fosse tutto qui ciò che Toma
desiderasse: impugnare di nuovo la sua lancia per Zeus. Il tintinnio di un
pendaglio lo distrasse, ricordandogli una conversazione avuta con il
prigioniero anni addietro, quando gli aveva detto il vero motivo per cui voleva
diventare più forte. Proteggere i suoi cari, in particolare sua sorella.
“Quel pendaglio…” –Mormorò Pegasus, attirando l’attenzione del
Cavaliere di Icaro. –“Mi è familiare… Ma non ricordo dove l’ho visto.”
“Ne dubito, Cavaliere. Ve ne sono solo due esemplari, costruiti a mano
da mio padre, uno per me e uno per mia sorella.” –Chiosò l’altro. –“La sorella
che ho abbandonato anni fa, che forse non si ricorderà più di me e che di certo
ho perduto!”
***
Castalia venne atterrata di nuovo, piombando sul ruvido selciato
accanto ad Asher e agli altri Cavalieri di Bronzo. Avevano tentato un nuovo
attacco, unendo i loro colpi segreti contro Atlante, ma ancora una volta
avevano fallito.
Il titano sembrava non avvertire alcunché, neppure una puntura,
limitandosi a scacciarli, mulinando le sue robuste braccia. Tutta la sua attenzione,
del resto, era dedicata a quella strana cupola di energia che aveva ricoperto
la Collina della Divinità, impedendogli di andare avanti. Furioso, da parecchi
minuti la stava tempestando di pugni, incurante dei dardi infuocati e dei colpi
energetici che da basso i soldati e i Cavalieri di Atena gli stavano scagliando
contro.
La Sacerdotessa dell’Aquila affannò nel rimettersi in piedi, sentendosi,
al pari del giovane Unicorno al suo fianco, frustrata e impotente, e anche
timorosa che la protezione eretta da Virgo e Mur non sarebbe durata a lungo
contro un tale ancestrale potere. Timore che andò crescendo in lei quando vide
due punti di luce apparire accanto alla testa di Atlante, due figure farsi
sempre più vivide.
Non seppe dirsi da quanto erano lì, in piedi sulle spalliere corazzate
del titano, ma la loro presenza le suscitò un’immediata e sconfinata paura.
Silenziose, rivestite solo di candide vesti, di color panna e avorio, le due
entità osservavano l’operato del figlio di Giapeto e la strenua difesa dei
Cavalieri di Atena con attenzione e distacco. Fu solo dopo l’ennesimo pugno di
Atlante, che obbligò i Cavalieri d’Oro a infondere maggiore energia alla
barriera congiunta, che uno dei due abbandonò la sua posizione di osservatore e
si fece avanti, muovendosi tranquillo nel cielo, quasi fosse una falena di
luce.
Castalia lo osservò sgomenta avvicinarsi alla cupola di energia dorata,
sfiorarla con il palmo aperto della mano e… passarvi attraverso, come se non
esistesse. La seconda figura lo seguì all’istante, gettando un ultimo sguardo
alla folla di soldati sotto di sé, prima di entrare anch’ella all’interno della
protezione, dirigendosi decisi verso la sommità del colle, incuranti di tutto
il resto.
Atena, che per tutta la durata dell’assalto era rimasta sul piazzale
antistante la Tredicesima Casa, notò le due figure avvicinarsi, piccole ed
esili se paragonate alla stazza del rabbioso gigante, ma pregne di una
sconfinata potenza. Non ebbe bisogno di interrogarsi sulla loro identità, che
già l’ebbe chiara e capì che quel giorno la sua vita sarebbe giunta a termine.
Del resto, non aveva modo di opporsi a due Progenitori.
“Salute a te, Atena Parthenos!” –Esclamò uno di loro, fermandosi nel
cielo proprio sopra l’ultimo tempio del Santuario. –“Etere e Emera ti porgono i
loro omaggi!”
“Etere e Emera…” –Mormorò la fanciulla dai capelli viola, trovando
conferma alle sue paure. –“I figli della Notte!”
“Etere son io, l’imperturbabile!” –Annuì l’uomo dai capelli avorio,
prima di afferrare la mano della compagna e mostrarla ad Atena. –“E questa è
mia sorella, Emera, la beata! Siamo i signori del giorno e della luce, quella
più pura, che solo le creature più beate posson rimirare! E siamo qui, Atena,
per esprimerti tutto il nostro disappunto!”
“Co… come?!”
“Non ti è chiaro, dolce fanciulla? Ti abbiamo osservato a lungo, dallo
spazio tra i mondi in cui fummo confinati al pari del nostro creatore, il
creatore di tutte le cose, e abbiamo compreso l’ipocrisia insita nel tuo
agire!” –Spiegò Etere, con voce perfetta, priva di qualsivoglia accento o
cadenza. –“Ti proclami Dea di pace, Atena, eppure sei sempre intenta a
combattere guerre. Ti proclami Dea della giustizia, rivendicando un titolo non
tuo, di fatto smentito dalle tue azioni. Infine ti proclami Dea della guerra
giusta e saggia, ma spiegami, Atena Promachos, come può una guerra essere
giusta e saggia? Come puoi dichiarare di amare i tuoi Cavalieri se tutto ciò
che fai, tutto ciò che hai sempre fatto fin da quando nascesti, è stato
mandarli a morire? Giovani, virtuosi, pieni di belle speranze, tu li hai uccisi
tutti, uno dopo l’altro, in una lunga serie di guerre che voi Olimpi avete
avuto la pretesa di definire sacre, come se qualcosa di sacro vi possa essere
in uno scontro armato.”
“Cosa aspettarsi in fondo da una Dea che nacque già bardata di tutto
punto e pronta per quella guerra? Non così nascesti dal cranio di Zeus
parricida? Una barbara guerriera partorita dal sangue di una barbaria!”
–Precisò l’inflessibile voce di Emera.
“Le vostre parole possono anche essere vere, divino Etere, ma come
giustificate allora il vostro agire? Non avete voi invaso questo luogo sacro,
portando Atlante e con sé la distruzione?! Non stanno forse i miei fedeli
rischiando le loro vite solo a causa di un capriccio divino?! È forse a voi
concesso di abiurare al vostro status divino per immischiarvi in puerili
faccende umane?!”
“Entità ancestrali del nostro pari, Atena, non sono tenute a
giustificare alcunché. Noi semplicemente agiamo. E di certo non dobbiamo
motivare le nostre azioni con una ingenua Divinità minore!” –Sibilò la
personificazione del cielo più puro, con una sfumatura di fastidio nella voce.
–“O forse non ricordi qual è il tuo posto nell’ordine delle cose?” –Aggiunse,
accennando un sorriso, mentre un’indicibile pressione schiacciava Atena a
terra, facendole perdere la presa sullo Scettro di Nike, che cadde qualche
gradino più in basso, lungo la scalinata che conduceva alla Dodicesima Casa.
–“Così va meglio! Non trovi, divina sorella?”
Emera, al suo fianco, annuì, osservando la figlia di Zeus rimettersi in
piedi a fatica, il bianco vestito strappato, le ginocchia sbucciate, il viso in
evidente affanno.
“Vuoi sapere perché siamo qua, Atena? Perché domani nascerà un nuovo
mondo, dalle rovine del vecchio, che uomini meschini e deboli Divinità corrotte
hanno inquinato. E inizieremo la riedificazione del mondo proprio da questo
Santuario, empio di colpa e vergogna a causa di una Divinità che si è sempre
reputata protettrice degli uomini, eppure quanti ne ha uccisi nel corso di
millenni? Quanti sono caduti in nome suo? In nome tuo?!” –Parlò la sorella di
Etere. –“Non sei stata degna del tuo ruolo, non hai saputo comprendere che
nessuna guerra poteva essere giusta, né che giusto poteva essere sfruttare
degli adolescenti per risolvere futili contese di potere? Il dominio
dell’Attica? Il dominio sulle terre emerse? Una baruffa per una zolla di terra
oltre le colonne d’Ercole? Per questo hai condannato tutti quegli innocenti,
Dea dell’ingiustizia?! Provo solo pena e disprezzo per il tradimento perpetuato
ai danni del tuo ruolo!”
“Io… Anche io!” –Mormorò infine Atena, inginocchiandosi sul freddo
marmo e stupendo gli stessi Dei di luce.
“Cosa vuoi dire? Ammetti dunque le tue colpe, fallace Atena? Ammetti
dunque di meritare il castigo divino, al pari degli Olimpi tuoi congiunti?”
–Incalzò Etere, mentre la fanciulla amata da Pegasus sollevava infine la testa,
rivelando uno sguardo risoluto ma intriso di lacrime.
“Sì, lo ammetto! So per prima di aver fallito, di non essere stata degna
del mio ruolo di Dea di pace, di garante dell’armonia! Ho fatto quel che
potevo, quel che ritenevo giusto per salvaguardare l’equilibrio del mondo, per
impedire che qualche oscuro potere prevalesse, che Nettuno, Ade o Ares
estendessero il loro dominio sul regno degli uomini, rendendoli schiavi e
privandoli del diritto alla libertà! Pur tuttavia… sono consapevole di aver
fallito. Di non aver salvato questo mondo dalla rovina!”
“Giunge tardiva la tua confessione, ma apprezzata!” –Commentò Etere.
“Non di approvazione ho bisogno, solo di una promessa! E la chiedo a
voi, che nel creato siete gli Dei più immacolati! Risparmiate i miei cavalieri,
risparmiate gli uomini che già molto hanno sofferto, che hanno lottato in mio
nome e nel nome di ideali cui hanno prestato fede! Permettete che vivano la
loro vita, che concludano le loro esistenze, sia pur caduche di fronte
all’eterno, in serenità e pace! Io… offro la mia vita in pegno, per la loro
salvezza!”
“Che… cosa?!” –Esclamarono sorpresi gli Dei gemelli. –“Sei pronta a
dare la tua vita? A rinunciare alla tua immortalità pur di salvare quella di
questi mortali? Perché? A che giova una simile vana follia?”
“Non capisci, Etere, ed è naturale! Come potresti? Hai mai vissuto tra
gli uomini? Ti sei mai sentito uno di loro? Sei mai stato in grado di pensare,
amare, soffrire come loro, parte di un misterioso quanto meraviglioso mondo?”
–Declamò fiera la Dea, avvolta nel suo cosmo luminoso, mentre lo scettro di
Thule tornava nelle sue mani ed ella se ne serviva per rimettersi in piedi.
–“Io sì! In questi lunghi secoli, fin da quando mio Padre Zeus e i suoi
fratelli si divisero il mondo conosciuto, al termine della Titanomachia, ho
vissuto sulla Terra durante ogni mia reincarnazione, nascendo ogni volta in un
corpo mortale! I miei nemici l’hanno sempre giudicata una scelta di debolezza,
un’immotivata rinuncia ad un maggior potere che di certo avrei ottenuto
sfoderando il mio corpo divino! Ma non hanno mai capito che invece, vivere tra
gli uomini, come uno di loro, è sempre stata la mia forza, il braccio in grado
di sostenermi quando credevo di non riuscir più ad avanzare! Grazie a loro, e
per mezzo di loro, ho vinto tutte le mie battaglie, quelle guerre che forse per
voi non sono sacre ma per me lo sono state, perché in quelle guerre ho potuto
difendere l’umanità e la sua libertà! E niente vi è di più sacro per me! Per
cui, Etere e Emera, se siete venuti fin qua per giudicarmi in un sommario
processo, come molti altri Dei hanno tentato di fare prima di voi, dovreste conoscere
tutti i fatti, prima di emettere la sentenza finale, prima di condannarmi per
azioni che non avete compreso!”
“Non dobbiamo emettere alcuna sentenza, Atena! Sei già stata
giudicata!” –Replicò sprezzante il Dio della Luce superiore. –“In un processo durato
millenni, in cui abbiamo potuto osservare la fallacia delle tue azioni! Non
ultima la decisione di unirti ad un mortale, profanando la tua sacra
illibatezza!”
“Ancora non capite, eppure è così semplice, la giusta conclusione di un
processo di umanizzazione iniziato all’epoca della mia prima reincarnazione!
Quello che definite follia, quello spirito di sacrificio con cui offro la mia
vita in cambio della salvezza del genere umano, nasce da un sentimento profondo
e nobile che risponde al nome di amore, il più potente sentimento umano, in
grado di scuotere e ribaltare mondi! E quanti Dei, se volessero ammetterlo,
potrebbero confermarlo! Basterebbero le lacrime che Eos versò per Titone, per
perorare la causa della sua immortalità, o i delicati baci che Afrodite e
Efesto si scambiavano nelle loro notti assieme, sulla cima dell’Etna, a
dimostrarlo! Neppure mio padre fu indenne all’amore o l’orgogliosa Era, che
divenne paladina della sacralità delle unioni! Persino Ares lo sperimentò,
anche se forse egli amava se stesso più di ogni altra cosa! E quando ami
qualcuno, sia esso uomo o Dio, sei in grado di compiere atti miracolosi!”
–Ribatté fiera la figlia di Zeus, ricordando le parole di un’amica, parole che
giorni addietro le avevano toccato il cuore.
“Non c’è niente di triste nell’adempiere al proprio destino! Dovresti
saperlo meglio di chiunque altro! La nostra schiavitù è soltanto una facciata!
In fondo dovremmo essere lieti di dare la vita per proteggere coloro che
amiamo! Nient’altro potrebbe renderci più felici che non donare loro un
futuro!” –Questo era quel che le aveva detto Ilda, e adesso, solo adesso, di
fronte al giudizio finale, lo comprendeva davvero. Solo adesso ne era
pienamente convinta.
Per Pegasus, per i Cavalieri a lei fedeli, che da tempi immemori
combattevano in suo nome, Atena Promachos si sarebbe immolata!
“Belle parole, carenti di contenuto!” –Replicò Etere. –“La tua luce è
destinata a spegnersi, Atena, come questo Santuario è destinato ad essere
distrutto! Ben più intenso è il bagliore del nostro cosmo, quello degli Dei
primordiali, gli Dei perfetti e puri, scevri da ogni macchia e da ogni errore!
Quel tuo bel sentimento, di nome amore, noi non lo capiamo, è vero, e non
capendolo ne siamo fuori, in grado di guardare ogni cosa con il dovuto
distacco, anziché vittime di chissà quale torbida passione! E per quell’amore,
che tanto declami, tu oggi cadrai!”
“Chissà che le cose non vadano diversamente, Divino Etere!” –Commentò
Atena, espandendo il proprio cosmo. –“La tua sicurezza è indubbia, ma non sei
il primo a rivolgermi parole simili! Lo credevano in molti, di essere perfetti,
in quanto Divinità! Mio fratello Apollo e Ade, Nettuno e persino Zeus, tutti si
sono arrogati di volta in volta il diritto di ritenersi superiori agli uomini,
alle loro passioni, ai loro turbamenti. Eppure, così dicendo, così solo
pensando, dimostravano di non esserne fuori, di essere coinvolti a loro volta,
deboli e insicuri, bisognosi di sempre nuove certezze o del reiterarsi delle
vecchie. Chi non capisce questa misera verità non è un vero Dio!”
“Orbene, figlia di Zeus, mostrami cosa significa essere un vero Dio!” –Rise
Etere con voce sprezzante. In tutta risposta, Atena gli puntò contro lo Scettro
di Nike, scagliando un raggio di energia verso lo stupefatto Nume del Cielo, a
cui comunque bastò sbarrare gli occhi per fermare quel ridicolo fascio di luce,
disperdendolo, senza che ciò disperdesse la sorpresa e l’ira dal suo volto.
“Provare passione e fede in qualcosa, e per questo combattere! Non per
generare un nuovo mondo ma per dimostrare quanto può essere bello e pieno
d’amore quello che già esiste!” –Avvampò la Dea della Guerra, prima che Etere
le rivolgesse contro il palmo della mano, schiacciandola di nuovo a terra,
facendola ruzzolare per parecchi metri, fino a schiantarla contro le colonne
esterne della Tredicesima Casa.
Tutti, in quel momento, in ogni angolo del Grande Tempio, percepirono
indebolirsi il cosmo di Atena, schiacciata da un’incredibile potenza, superiore
a quella degli Dei incontrati fino ad allora.
“Questo cosmo… è immenso!” –Balbettò Castalia, osservando dal basso le
due figure di luce sovrastare la Collina della Divinità. Così piccole, ma in
grado di sprigionare una sfolgorante energia.
“Atena!!! Vengo da te!!!” –Gridò Asher, infilando a gran velocità nel
pronao della Casa dell’Ariete, seguito dalla Sacerdotessa dell’Aquila, e
gettandosi in una celere corsa lungo la scalinata di marmo. Ma bastò che Etere
li notasse che un lampo scintillò dal suo dito indice, generando un’esplosione
che devastò la gradinata, scagliando entrambi molti metri addietro, contro le
colonne della facciata posteriore del Primo Tempio.
Mur e Virgo, che stavano riversando tutta la loro energia nella
barriera protettiva, videro i compagni cadere, fremendo per non poter
intervenire in loro soccorso, poiché Atlante, per quanto temporaneamente
frenato, non aveva intenzione di desistere dai suoi propositi, continuando a
tempestare la cupola di violenti pugni e calci.
“Maledizione!” –Strinse i denti l’allievo di Shin dell’Ariete, cercando
un modo per uscire da quella situazione di stallo.
Proprio in quel momento Atena si rialzò, ferita e dolorante per
l’attacco ricevuto, ma determinata a non arrendersi. –“Ti ho offerto la mia
vita, per risparmiare quella dei miei cari, ma credo che tu non voglia
preservare né l’una né l’altra! Ti definisci Dio immacolato e puro, Signore
della Luce, ma nel tuo agire vedo solo l’ombra di tua madre!” –Esclamò,
suscitando la sdegnata reazione di Etere, che si volse verso la sorella,
pregandola di andare a sedersi da qualche parte e di lasciar fare a lui.
“Concluderò in fretta questa faccenda, mentre Atlante raderà al suolo
quest’empio santuario! Nell’attesa, aspettami sorella! Non ci vorrà molto! Solo
il tempo di mettere in riga un’indisciplinata fallace Divinità! Ti prego, non
sporcarti le mani!” –Aggiunse, prima di riportare lo sguardo su Atena e
inchiodarla a terra, sottoposta a un’irrefrenabile pressione. La figlia di Zeus
cercò di resistere, pensando a quanto avevano sofferto i Cavalieri in suo nome,
per tutti quei secoli di lotte armate, avvampando nel suo cosmo e reggendosi
alla Nike, ma l’asta del bastone si schiantò di colpo, gettandola a terra, china
e vinta, mentre Etere discendeva placido verso di lei. –“Osserva un’ultima
volta il regno di cui a lungo sei stata immeritata regina, perché da domani non
ci sarà più!” –Chiosò, puntandole contro un dito, sulla cui cima balenava un’eburnea
scintilla.
Fu un attimo e il lampo esplose, ma non raggiunse Atena, riparata da un
ampio e rotondo scudo dorato.
“E tu chi sei?!” –Esclamò subito Etere, osservando il giovane appena
apparso a difendere la Dea. Indossava un’armatura argentea, dalle strane forme,
con uno specchio rotondo sul pettorale, sebbene il fisico gracile non ne
facesse all’apparenza un guerriero, né l’altezza, che non superava quella di
Atena. Eppure, nei suoi occhi verdi, c’era la stessa determinazione, la stessa
speranza, e forse anche una consapevolezza in più.
“Permettetemi di presentarmi!” –Parlò infine, abbassando l’Egida. –“Sono
Nicole dell’Altare, Cavaliere d’Argento al servizio di Atena, nonché suo
personale attendente!”
***
Anche Matthew ed Elanor percepirono lo scontro in atto in cima alle
Dodici Case.
Dopo che Atlante aveva attaccato il Santuario, abbattendo parte del
muro perimetrale, i due Cavalieri delle Stelle avevano dato ordine a tutti i
soldati a loro affidati di convergere al Cancello Principale e alla via che
conduceva alle Dodici Case, ben intuendo ove il titano si sarebbe diretto.
Rimasero pochi minuti in più, al varco orientale, per verificare che
effettivamente nessun nemico tentasse una seconda sortita, quindi lasciarono
solo una piccola guarnigione prima di iniziare a correre verso la Casa
dell’Ariete, per dare manforte ai Cavalieri di Atena.
Fu mentre passavano l’arena dei combattimenti che Elanor lo sentì,
accasciandosi a terra, travolta da un’ambascia improvvisa.
“Ehi, cosa ti succede? Sei stata colpita?!” –Si sincerò subito Matthew,
guardandosi attorno con circospezione alla ricerca di nascosti avversari.
“No… io… non riesco a respirare…” –Balbettò la ragazza, prostrata da
una fitta di dolore. Il Cavaliere dell’Arcobaleno si chinò subito su di lei,
prendendola per le spalle e forzandola a guardarlo in faccia, in quegli occhi
verdi in cui aveva iniziato a specchiarsi giorni addietro, sulla Luna.
“Con calma! Respira con calma, fai come me!” –Le disse, avvolgendola
nel proprio cosmo e lenendo i suoi affanni. –“Ecco, così! Brava! Ora dimmi,
cosa succede?”
“Mia madre… è in
pericolo! Lo sento! Io… percepisco la sua luce spegnersi…” –Mormorò la
fanciulla, alzando lo sguardo e cercando l’immagine lontana della luna, sebbene
non riuscisse a vederla completamente, oscurata da una cappa di nubi che andava
annerendosi sempre più. Fu un attimo, ma ad Elanor parve di vederla tingersi di
sangue e divenire una mezzaluna rossa. –“Aaah!!!” –Gridò, scuotendo la testa,
mentre Matthew faticava per calmarla. –“Io… devo andare subito sulla Luna!
Sento che mia madre ha bisogno di me!”
“D’accordo, ma come pensi di fare? Jonathan è lontano, è in Egitto ed
egli è l’unico che possa aprire il varco tra i mondi!”
“Sul mio regno… c’è un portale… ricordi quando giungesti con Avalon? È scolpito
sul pavimento della terrazza ed è là che mia madre mi portò, quando scendemmo
sulla Terra, quando Shen Gado ci trovò…” –Mormorò confusa la ragazza, senza
riuscire a ricordare dove fossero sbucate. –“Devo trovare un portale! Devo…”
–Ma una nuova fitta la colpì al costato, piegandola in due e strappandole un
grido di dolore.
“D’accordo! Vieni con me! Forse conosco un modo per raggiungere la
Luna!” –Le disse il compagno, aiutandola ad alzarsi. –“Portali come quello di
cui parli esistono in molti regni divini, so per certo ve ne erano ad Isla del
Sol, ad Avalon e persino ad Asgard! Quindi perché non dovrebbe esservene uno
qua?”
“Tu sai dove si trova?” –Elanor lo guardò speranzosa, tenendosi con forza al
braccio del Cavaliere dell’Arcobaleno, che annuì silente, prima di farle cenno
di seguirlo.
“C’è un solo posto, in tutto il Grande Tempio, dove potrebbe essere
nascosto un artefatto simile! Un luogo sacro e inaccessibile ai più!”
–Aggiunse, facendole cenno di seguirlo e iniziando a correre lungo l’antica via
orientale.
Dopo aver lasciato Andromeda alle prese con Artemisia della Dionea
Assassina, Phoenix aveva aiutato Pentesilea a radunare le Amazzoni e il gruppo
di profughi, dirigendosi in tutta fretta verso la piana di Themiskyra.
Vi si era già recato una volta, dopo la conclusione della Grande Guerra contro
Ares, per partecipare al rito funebre in onore di Ippolita,
la più grande regina delle Amazzoni, che riposava adesso assieme alle
matriarche che l’avevano preceduta, nella città ove le donne guerriere avevano
a lungo dimorato nel Mondo Antico, prima che cadesse in rovina.
Troppo deboli per riconquistarla, era stato Ares a donarla loro di
nuovo, sollevandola dalle macerie del tempo e ricostruendone le mura, in cambio
della loro alleanza nel conflitto che avrebbe scatenato a breve per prendere possesso
dell’Olimpo. All’epoca molte avevano accettato di buon grado il rinsaldarsi di
un antico legame, avendo sempre apprezzato lo stile di vita del Dio della
Guerra, focoso e battagliero, che aveva anche messo al mondo alcune di loro. La
stessa Pentesilea era stata tra coloro che avevano esercitato pressione
sull’allora regina affinché suggellasse l’accordo; del resto, la prospettiva di
tornare a Themiskyra, ridandole l’antico splendore,
era bastata a far dimenticare a molte Amazzoni le barbarie cui Ares era solito
abbandonarsi in guerra.
Poi c’era stata la corsa attraverso i Templi dell’Ira, la caduta di
molte compagne e la morte di Ippolita, il cui lascito
pesava su tutte coloro che le erano sopravvissute. Esiste anche l’amore, non solo la guerra; quello era ciò che la
fiera regina aveva voluto dire loro, un concetto che, ben sapeva, sarebbe stato
accettato a fatica dal popolo di indomite guerriere. Ed ecco che di nuovo
Phoenix tornava, l’uomo che aveva scardinato equilibri di secoli, aprendo una
breccia nell’animo di una di loro, della loro sovrana per di più.
Ancora adesso, a mesi di distanza e con riprovate occasioni per
dimostrare loro la sua fiducia, Pentesilea continuava a chiedersi se avesse
fatto la scelta giusta, quel giorno, a permettergli di varcare le mura della
capitale, per presenziare al rito funebre per Ippolita.
Per quanto adesso fossero alleati, nella guerra contro l’ombra nascente, quel
dissidio interiore in lei non si era placato.
“Scansati!!!” –Le gridò il Cavaliere di Atena in quel momento, rubando
la donna ai suoi pensieri e costringendola a gettarsi di lato, rotolando nel
terreno fangoso, per evitare la carica del suo nemico. Un nuovo bizzarro
avversario che di forza bruta non faceva affatto difetto.
Convinti che il pericolo provenisse dalle loro spalle, Phoenix e le
Amazzoni avevano corso fino alla piana del Termodonte,
nel Ponto, vicino alla cui foce sorgeva la rinata Themiskyra. Ma per quanto la pioggia sferzante li avesse
incalzati, rendendo più lenti i loro movimenti, nessuno li aveva attaccati. Il
nemico, del resto, li stava aspettando fuori dalla loro città.
Alto e robusto, con ampie spalle larghe e braccia possenti, un uomo
rivestito da una corazza rossa, striata di nero, si ergeva fiero di fronte al
portone di ingresso. L’aura del suo cosmo era apparsa così vasta da opporsi
come muraglia all’avanzata della compagnia, osteggiando un chiaro atteggiamento
di sfida. Sfida che aveva dichiarato nel momento stesso in cui aveva portato
entrambe le braccia avanti, liberando un improvviso attacco.
Migliaia di bufali di energia oscura avevano caricato le Amazzoni,
piombando su di loro con le corna tese, furibondi, indemoniati, famelici,
obbligando le donne guerriere a sfoderare gli archi e le asce bipenne per
fronteggiarli. A nulla però erano valse tali armi, inutili contro quelle
manifestazioni di cosmo, e quando già avevano imbracciato gli scudi per
difendersi dall’onda d’urto, ecco che una barriera di energia psichica si era
levata a loro difesa.
“Kaan!!!”
–Avevano gridato i santoni indiani da loro salvati, levitando a mezz’aria,
avvolti da un sottile strato di bianco cosmo.
Phoenix aveva sgranato gli occhi nel sentir quella parola che un tempo
gli era stata ostile, ma Pentesilea gli aveva tolto subito il dubbio, spiegando
che quegli uomini erano stati addestrati da Pavit e Tirtha all’uso del cosmo. Dopo il loro rientro ad Angkor,
mesi addietro, i discepoli di Virgo avevano preso
l’abitudine di riunirsi assieme a santoni e ad asceti che costellavano le
verdeggianti regioni del Sud-Est Asiatico per pregare assieme, trovando nella
meditazione una via per espandere la loro energia interiore, ancora ben lontani
dal padroneggiarla pienamente.
Poco dopo la furia della tempesta che li inseguiva era aumentata, con
nuovi scrosci d’acqua improvvisi, che avevano infastidito il Cavaliere di
Phoenix, portandolo a scrutare tra le nubi nere, alla ricerca della fonte di
quella seccatura.
“Eccoti!” –Aveva mormorato, prima di portare il pugno destro avanti e
liberare un globo di energia infuocata, che aveva incendiato il cielo per poi
abbattersi su un nemico celato, precipitandolo a terra.
Con un ghigno sprezzante , il ragazzo si era avvicinato, trovandosi di
fronte un’altra donna, come era destino in buona parte degli scontri sostenuti
nell’ultimo anno. A differenza di Artemisia, questa era ben più orribile a
vedersi, rivestita di una corazza di color celeste sporco, che si confondeva
facilmente con le pozzanghere fangose che costellavano la riva del Termodonte. Le forme dell’armatura erano sgraziate, ornata
in più punti di artigli e spuntoni, e di una lunga coda retrattile che partiva
dal retro dell’elmo, che a Phoenix aveva ricordato quello dello Scorpione
d’Oro.
“Vritra del Serpente Malevolo!” –Si era
presentata la donna, prima di schizzare avanti, il braccio destro teso e gli
artigli volti al viso del ragazzo, dando inizio al loro scontro, che era durato
ben poco, per la verità. I pochi minuti di cui Phoenix aveva avuto bisogno per
aver ragione delle sue tecniche, basate sul controllo delle nubi d’acqua, e
sbatterla a terra, avvolta in un turbinare di fiamme.
“Come può un serpentello impensierire
una fenice?” –L’aveva derisa, facendole perdere i sensi.
Proprio in quel momento il gigantesco uomo aveva caricato Pentesilea.
Stanca per la lunga marcia, fiaccata dalle strette delle drosere , la
donna aveva evitato l’assalto solo all’ultimo, venendo comunque ferita di
striscio ad una coscia. Prima ancora di riuscire a rimettersi in piedi, il
nemico torreggiava già su di lei, stupendola per la velocità che stava
dimostrando, nonostante la sua mole massiccia.
“Aaargh!!!” –Rantolò la Regina delle
Amazzoni, mentre le mani dell’uomo le stringevano il collo con forza, decise a
spezzarglielo all’istante. Alcune guerriere si lanciarono contro di lui, con le
asce in pugno, ma questi le respinse semplicemente muovendo un braccio e
volgendo loro contro il palmo aperto della mano, da cui una carica di bufali
energetici scaturì furiosa, travolgendo all’istante le donne e lasciandole
agonizzanti a terra.
Altre, da lontano, incoccarono le frecce, sperando di avere maggior
fortuna, ma tutti i dardi vennero annientanti da un’onda di energia che l’uomo
aveva appena scatenato nella loro direzione.
Taciturno, rapido e potente. Tutte qualità che in un guerriero di sesso
maschile Pentesilea avrebbe apprezzato. In
un altro momento. Non adesso, che stava per perdere sensibilità al collo, e
morire, per mano di un uomo di cui neppure conosceva il nome. Un uomo che la
stava fissando con ardenti occhi di brace, fiero della crudezza delle sue
azioni. Un uomo che, d’un tratto, dovette voltare lo sguardo e togliere una
mano dal collo della donna, per controllare cosa lo avesse appena trafitto sul
retro del suo elmo bicornuto.
“Uh?!” –Mormorò infine, ritrovandosi in mano una piuma metallica.
Anche Pentesilea la vide e comprese, radunando tutte le forze per
piegarsi all’indietro e liberarsi, prima che la piuma, assieme a quelle rimaste
conficcate nell’armatura del gigante, esplodesse. Nonostante la sorpresa e il
dolore, nonostante il guanto della corazza e il relativo copricapo fossero
andati in frantumi, ustionando anche la pelle e bruciando i capelli al di
sotto, il colosso si ergeva ancora, più instabile di prima, ma in grado di
mantenere la sua presa su Pentesilea, con un solo braccio. L’altro dovette
usarlo per fronteggiare l’assalto del suo nuovo avversario, piombato su di lui
con spalancate ali di fiamma.
“Pugno infuocato!!!” –Gridò
Phoenix, mirando al cuore dell’uomo, che fu lesto a parare l’affondo con il
palmo della mano, realizzando troppo tardi l’errore.
“Aaargh!!!” –Il fuoco della fenice divampò
lungo tutto il suo arto, espandendosi dalla mano scoperta e ferita poc’anzi,
distruggendo l’armatura in più punti e costringendolo infine a poggiare a terra
un ginocchio. Ma non a cedere la preda, ancora stretta tra le dita della mano sana.
“Resistente!” –Ironizzò Phoenix, prima di colpirlo con un calcio dal
basso, spingendolo indietro, obbligandolo infine ad abbandonare la presa.
Pentesilea subito rotolò di lato, portandosi a distanza di sicurezza,
ansimando per il dolore e la mancanza di ossigeno. Mirina
e altre Amazzoni la raggiunsero, aiutandola a rimettersi in piedi, mentre
Phoenix vociava loro di ripiegare all’interno di Themiskyra.
Nell’udire quella parola, il gigantesco guerriero si rialzò, bruciando il cosmo
e portando di nuovo entrambe le braccia avanti, investendo da vicino il
Cavaliere di Atena con una carica di bufali energetici.
Sballottato, pestato e persino con qualche graffio sull’Armatura
Divina, Phoenix non poté intervenire quando sentì Mirina
gridare alle sue spalle e il rumore di un nuovo scontro in atto, causato di
certo da qualche compagno del corpulento nemico. Deciso a farla finita al più
presto, il ragazzo si preparò ad eseguire il suo massimo attacco, ma fu
sorpreso dalla reazione del gigante che, alla velocità della luce, lo caricò, a
testa bassa, tentando di abbatterlo con una spallata.
Il Cavaliere fu lesto a balzare in alto, aiutato dalle ali della
corazza, evitando il taglio del corno posto sul coprispalla
e afferrando poi lo stesso sperone per roteare su se stesso, ancora in aria, e
colpire il nemico alla schiena con una sventagliata di calci. L’ultimo gli
spaccò in due la placca della rossastra armatura, gettandolo a terra vinto, con
sangue e frammenti metallici sparsi sulla sua schiena.
Solo allora Phoenix poté concentrarsi su quel che stava accadendo alle
porte di Themiskyra, osservando le Amazzoni cadere
una dopo l’altra, travolte, forse trafitte, da quelli che parevano essere strali
di energia argentea. Strizzando gli occhi, per vedere meglio, il giovane
inorridì nel riconoscere le guizzanti catene di suo fratello massacrare le
guerriere del Ponto, e Andromeda stesso ergersi poco
distante, il braccio destro teso avanti a sé, a guidare la macabra danza delle
sue armi.
“Andromedaaa!!!” –Lo chiamò a gran voce,
correndo verso di lui, che parve destarsi a quel suono così familiare. Di
scatto si voltò verso Phoenix, fissandolo con sguardo vacuo, chiedendosi al
qual tempo cosa stesse accadendo. –“Che stai facendo, fratello? Le Amazzoni
sono nostre alleate!!!”
“Alleate?!” –Ripeté il Cavaliere dai capelli verdi, di fronte agli
occhi straniti del congiunto.
“Proprio così! Possibile che non ricordi?! Che ti succede, Andromeda?!”
Questi non rispose, limitandosi a fissarlo in silenzio, salvo poi
scattare su di lui e colpirlo allo sterno con un pugno di energia, che piegò
Phoenix in due dal dolore.
“A…Andromeda…”
–Rantolò il Cavaliere della Regina Nera, prima che un calcio del fratello lo spingesse
indietro. –“Che… stai facendo? Sei impazzito?!”
“Io…io…” –Il
ragazzo non seppe replicare, scuotendo la testa confuso, ma nel vedere Phoenix
a terra, ferito, qualcosa dentro di sé scattò, portandolo a correre verso di
lui, a chiedergli come stesse, ad aiutarlo a rimettersi in piedi, prendendogli
le mani nelle proprie. –“Fratello, io… non capisco…io… stavo combattendo
contro quella donna…Artemisia…
e poi… poi lei è morta! Io l’ho uccisa! L’ho uccisa
io???”
Vedendolo così in difficoltà a spiegarsi, così confuso nei pensieri,
Phoenix comprese che qualcosa di oscuro doveva essere all’opera. Forse quella
guerriera aveva avvelenato la mente di suo fratello con qualche venefica erba?
Eppure, per quel che aveva percepito lottando brevemente con lei, non sembrava
disporre di un cosmo così pericoloso da preoccuparlo. Pur tuttavia anche
avversari con misera forza potevano essere insidiosi da affrontare. Era davvero
successo questo a suo fratello? Era davvero stato ricondizionato
dal veleno di un’ignota pianta? E, se così era, dove si nascondeva Artemisia?
Ancora celata sotto il suolo? Concentrando i sensi, Phoenix fu costretto ad
ammettere di non percepire più traccia di quella guerriera, che davvero
sembrava essere morta come Andromeda affermava.
In tal caso chi…? Ma non riuscì a terminare i suoi pensieri
che fu distratto da urla improvvise, che lo costrinsero a voltarsi verso Themiskyra, fuori dalle cui mura le Amazzoni si erano
radunate, archi in pugno, agli ordini della loro regina.
“No! Pentesilea non farlo!!!” –Gridò, mentre le donne incoccavano le
frecce.
“Mi dispiace, Phoenix, ma tuo fratello ci ha attaccato, ferendo molte
di noi! E chi ci attacca è un nemico! A maggior ragione qua, alle porte della
nostra città sacra! E come tale lo tratteremo!” –Incalzò, senza un alito di
dubbio nella voce. –“Tirate!!!”
La selva di frecce riempì il cielo nero, piombando lesta su Andromeda,
senza riuscire però a raggiungerlo, riparato dietro il vorticante mulinello
della sua catena. Quindi, approfittando del tempo di cui ebbero bisogno per
ricaricare gli archi, il giovane scatenò la furia della Catena d’Attacco.
“Andromeda, no!!!” –Urlò Phoenix, ma anche quella volta non poté fare
niente. Solo assistere impotente al massacro delle Amazzoni, travolte, trafitte
e stritolate dalla persona che più amava al mondo. L’uomo che anni addietro lo
aveva liberato dall’ombra con le sue lacrime, il suo affetto e il suo spirito
di pace. –“Cosa è rimasto di te?!” –Si chiese, prendendo infine la sua
decisione. –“Perdonami, fratello! Qualunque cosa sia accaduta, qualunque demone
ti stia divorando il cuore, devo fermarti!” –E scatenò la furia delle Ali della Fenice, investendo Andromeda
da vicino, sollevandolo e scaraventandolo a venti metri di distanza, facendogli
persino perdere l’elmo della corazza.
A passo greve gli si avvicinò, prima che il fratello riuscisse a
rialzarsi, e lo inchiodò a terra, poggiando un tacco sopra il suo pettorale.
Non aveva di proposito caricato troppo il suo attacco, allo scopo di stordirlo,
non di ferirlo, sperando di aver fatto la cosa giusta. Per sé, e per le donne e
gli uomini che avrebbe dovuto difendere.
“Cosa ti succede, Andromeda?” –Gli chiese di nuovo, con voce gentile.
“Fratello, io non lo so…io…”
–Si agitò il ragazzo, scuotendo la testa e portandosi le mani nei capelli. –“Aiutami… ti prego, aiutami!!!”
Phoenix esitò per un momento, non sapendo più cosa pensare. Che fossero
illusioni? Un trucco mentale che qualcuno stava giocando con lui, proprio con
lui, che in tale pratica era maestro? Qualunque cosa stesse accadendo, doveva
terminare quanto prima, sebbene non avesse affatto chiaro in che modo. A
differenza del fratello.
“Aaahhh!!!” –Gridò Andromeda, espandendo il
proprio cosmo e sbalzando Phoenix indietro con un’onda di luce. Agile, il Cavaliere
della Fenice atterrò a piedi uniti, a qualche metro di distanza, mentre la più
nefasta probabilità andava avverandosi di fronte ai suoi occhi, la necessità di
combattere contro suo fratello.
“Se non lo farai tu, lo farò io!” –Intervenne una voce di donna, mentre
Phoenix, voltandosi, vide la condottiera delle Amazzoni avvicinarsi, l’armatura
sporca di sangue e terriccio, l’ascia bipenne in mano. –“Sai che devo!”
–Aggiunse, concedendosi un sospiro, prima di lanciarsi verso Andromeda.
Questi evitò l’affondo, scartando di lato, ma Pentesilea stava già
roteando su se stessa, agile come una ballerina, mulinando l’arma in
orizzontale, poi in diagonale, mirando al volto del ragazzo, la parte non
protetta dell’armatura. Mentre calò di nuovo l’ascia, le catene scattarono a
difesa del loro padrone, afferrando il braccio della Regina delle Amazzoni e
strattonandolo con forza, facendole perdere la presa sull’arma.
Pentesilea urlò, al rumore secco del polso rotto, ma strinse i denti e
non cedette, spingendo Andromeda indietro con un calcio al ventre, facendolo
cadere a gambe all’aria. In un attimo gli fu dietro, il braccio ancora stretto
nelle catene, afferrando le stesse e usandole per bloccare il collo del
ragazzo, tenendolo contro di sé.
“Pentesilea, no!!! Lascia la presa!!!” –Le intimò subito Phoenix,
precipitandosi avanti. Ma subito un gruppetto di Amazzoni gli sbarrò la strada,
gli archi tesi e pronti a scoccare i loro dardi. –“Lasciala subito o sarà la
fine!!! La tua fine!!!”
“Mi minacci, Phoenix?! Onori così la tua amata defunta regina?
Minacciando la sua succeditrice e portando il fratello a far strage delle sue
compagne?!”
“Ma non capisci! Molla la catena!!!” –La avvisò un’ultima volta, prima
che una violenta scarica di energia scaturita dall’arma stessa la investisse,
facendola tremare, schiantando parti della sua corazza, facendole persino
schizzare fuori il sangue dalle ferite già aperte e infine gettandola a terra,
lo sguardo vitreo, rivolto al cielo nero.
“Pentesilea!!! Regina!!!” –Gridarono le Amazzoni, voltandosi verso
Andromeda, preparandosi a colpirlo. Ma la sua catena corse più in fretta,
abbattendosi sulle donne, attorcigliandosi attorno alle loro caviglie e
sollevandole all’istante, gettandole in aria, sbattendole a terra, scagliandole
contro le mura di Themiskyra, finché non furono
troppo deboli anche solo per accennare a rialzarsi.
“Dei dell’Olimpo!!!” –Rantolò Phoenix, mentre il fratello si rimetteva
in piedi, le catene che di nuovo si ritraevano, tornando attorno alle sue
braccia. Con sguardo confuso e innocente, Andromeda si guardò attorno,
stentando persino a riconoscere la città delle Amazzoni, non capendo perché
tutte quelle donne giacessero riverse al suolo, in pose innaturali e contorte.
Quindi capì, invaso dall’improvvisa consapevolezza di averle ferite, forse
uccise. E quella consapevolezza lo prostrò di nuovo a terra, mentre calde
lacrime gli rigavano il volto.
“Fratello…” –Lo chiamò Phoenix, avvicinandosi
cauto. –“Va tutto bene!”
“No, non va bene!!! Ho ucciso delle persone!!! Io…
come ho potuto?!” –Pianse Andromeda, sentendo la propria intimità violata,
messa a nudo e arsa tra mille tormenti. –“Sono un mostro…
Un assassino!”
“Non lo sei, ti conosco, da anni ormai, e so per certo chi sei! Di
certo non un mostro, e se hai ucciso, è sempre stato per Atena, un gesto di
violenza prima di tutto verso i tuoi ideali! Questo non sei tu, fratello!
Credimi!”
“A…aiutami…”
–Singhiozzò, mentre Phoenix si chinava su di lui, abbracciandolo e annuendo
alle sue suppliche accorate. Solo allora il Cavaliere della Fenice si ricordò
dei monaci, dei santoni indiani e degli apprendisti che le Amazzoni avevano
portato via dal bacino del Gange, sottraendoli alla furia dell’ombra. Voltò lo
sguardo e li trovò riuniti ai piedi delle mura, stretti gli uni agli altri,
incapaci di comprendere cosa stesse accadendo, cosa avesse potuto generare una
carneficina come quella, scatenata tra coloro che avrebbero dovuto difenderli.
Comprese il loro senso di smarrimento e si mosse per andare a parlare con loro,
distraendosi quel tanto che gli fu fatale per non avvedersi dell’insinuarsi di
una catena argentea tra le sue gambe. Vi fu un balenio di luce e il ragazzo si
trovò a gambe all’aria, stretto in una morsa ferrea dalle armi del fratello.
“Andromeda!!! Ma che stai facendo?!” –Gridò, dimenandosi furioso,
mentre l’altro, di fronte a lui, pareva non avere idea di ciò che le sue catene
stessero facendo. –“Richiamale immediatamente!!!”
“Io… non posso… non
ci riesco, Phoenix!!! Le catene agiscono da sole!!!” –Strillò, mentre scariche
di energia percorrevano l’intera lunghezza dell’arma, strappando guaiti
doloranti al Cavaliere della Fenice.
“Ri… chiamale!!!” –Ripeté il ragazzo,
espandendo il proprio cosmo e preparandosi infine a fare ciò che aveva a lungo
temuto. –“Ora!!!”
Andromeda non lo fece, obbligando Phoenix a liberare il fuoco di cui
era custode, rendendo le catene incandescenti, deciso a spingersi oltre i suoi
stessi limiti, anche a costo di danneggiare le vesti create per loro da Efesto. Anche a costo di ferire il suo stesso fratello, o
l’ombra di colui che era stato un tempo.
Fu una donna però a venirgli in aiuto, una donna che, portatasi
silenziosa alle spalle di Andromeda, lo afferrò per i capelli, torcendogli la
testa all’indietro, puntandogli una lama alla gola.
“Pentesilea!!!” –La riconobbe Phoenix, sebbene della vanagloriosa
regina ben poco vi fosse rimasto, sporca di sangue, terra e sconfitta.
“Le mie Amazzoni gridano vendetta!!!” –Sibilò, muovendo la lama per
recidergli la giugulare ma ritrovandosi all’improvviso paralizzata. –“Che… su... cede?” –Balbettò, prima di perdere anche la
facoltà di parlare.
In quella le catene di Andromeda allentarono la loro presa, permettendo
a Phoenix di sgusciarne fuori ed osservare quel che stava accadendo. Una donna,
avvolta in abiti bianchi e vermigli, con lunghi capelli marroni intrecciati in
una ghirlanda di fiori freschi, stava avanzando verso di loro, con una mano
tesa verso Pentesilea. La mosse ancora e la Regina delle Amazzoni venne
scaraventata lontano, ruzzolando inerme al suolo e lì restando. Solo quando fu
più vicina, Phoenix la riconobbe.
“Demetra! Cosa fate voi qua?!”
“Eh eh eh! Giungo ad istruire il mio allievo,
il nuovo membro dello Zodiaco Nero, destinato ad una rapida e gloriosa ascesa e
ad un importante ruolo nel futuro ordine del mondo!” –Parlò la Dea, affiancando
Andromeda.
“Che state dicendo? Cos’è accaduto a mio fratello?! Cosa gli avete
fatto?!”
“A lui personalmente niente, ma la sua armatura è stata infettata con
il mio sangue divino, e come tale maledetta! Adesso Andromeda è un mio schiavo
ed eseguirà compiaciuto ogni mio ordine, non potendo egli controllare la
corazza che indossa!”
“Io… vi sbagliate!” –Tentò di reagire il
Cavaliere. –“Non sarò mai un assassino!!!”
“Oh, ma già lo sei! Da anni ormai, sebbene solo oggi tu abbia ricevuto
l’investitura ufficiale! Eh eheh!”
–Rise la Divinità, bruciando il proprio cosmo che entrò subito in risonanza con
quello emanato dall’armatura rosa che Andromeda indossava.
“Toglitela, Andromeda! Toglila subito!” –Propose Phoenix, venendo
subito schernito dalla Dea.
“Impossibile! Non può farlo, l’armatura risponde solo ai miei comandi
adesso e rimarrà sul suo corpo per sempre! Tra non molto, in verità, non ci
sarà neppure più bisogno di controllarlo, poiché il suo corpo si sarà già
assuefatto all’influsso demoniaco presente nella corazza! Tra poco egli sarà
completamente succube, anche nell’anima, al maleficio da me generato!”
“Io…no… non
voglio!!!” –Gridò Andromeda, lanciandosi sulla Dea, ma bastò che lei
schioccasse le dita per fermarlo sul posto, mentre il suo cosmo oscuro
prorompeva dalla corazza, avvolgendo il Cavaliere, stordendolo, deciso a
privarlo dell’ultimo barlume di coscienza.
“Resistere è inutile al potere dei Numi! Quel che gli Dei vogliono, gli
Dei ottengono! Non l’hai ancora capito, ragazzo? Per cui accetta il fato e
diventa quel che sei destinato a essere, il comandante supremo dello Zodiaco
Nero, di ben più alta levatura rispetto a questi smidollati che Polemos ti ha mandato contro!” –Proferì la Divinità,
tirando uno sguardo ai corpi feriti della donna e del gigante furioso. –“Vritra del Serpente Malevolo e Yama
del Bufalo Nero! Una debole orfanella che voleva divenire Discepola di Virgo e un ammasso di muscoli che ha abiurato alla sua
umanità per non soccombere alla solitudine! Certo, hanno avuto vittoria facile
contro i vecchi Asura, Divinità non note per le loro
capacità belliche, ma hanno fallito nell’eliminare le Amazzoni! Puah! Tu invece non fallirai, non deluderai la tua creatrice,
radendo al suolo quest’empia città e le sue abitanti!” –Commentò, avvicinandosi
ad Andromeda e carezzandogli il mento.
“Perché fate questo? Perché tradite Zeus e la vostra famiglia? Voi che
così tanto amate questa verde Terra, in tutta la sua complessità, come potete
prestarvi alla guerra distruttiva che Caos ha scatenato?!! Siete spregevole,
non vi perdonerò!!!” –Ruggì Phoenix, scattando verso la Dea, il cosmo che
sfrigolava focoso attorno al suo pugno destro.
“È strano che tu parli di perdono, Cavaliere di Phoenix, tu che hai
ucciso mia madre, proprio adesso che, priva della prigionia della cometa Lepar, poteva riunirsi ai suoi figli! Di certo ben
ricompensata sarò da Lord Caos per i miei preziosi servigi, che forse gli
faranno dimenticare il fallimento dei miei fratelli e sorelle sulla Luna!” –Si
limitò a rispondere la Divinità, fermando il volo della Fenice e muovendo il
braccio a spazzare, scaraventando il ragazzo contro le mura esterne di Themiskyra, facendole crollare su di lui.
“Tua madre?! La cometa Lepar?! Dunque tu… non sei Demetra… ma allora
chi sei?!” –Rifletté Phoenix, faticando nel rimettersi in piedi, tra le
macerie.
“Una ben più spietata Dea!” –Sogghignò, mentre il suo viso mutava, al
pari del cosmo, rivelando un volto scaltro e maligno, quello di una donna con maliziosi
occhi viola e lunghi capelli rosa, che scivolavano lisci sulla sua schiena. –“Ate è il mio nome, Consigliera dell’Inganno!”
“Ate!!! Ma certo, ora ricordo! Sei una delle figlie
di Discordia, di cui lei stessa mi parlò nel nostro scontro sulla Luna! Dea
dell’inganno, della rovina e della dissennatezza, la cui crudeltà è degna di
tua madre! Strega!!!”
“E non sai ancora quanto!” –Sibilò lei, mentre l’aura cosmica da lei
sprigionata investiva completamente Andromeda, lasciandolo per un momento in
uno stato di trance. Quando si riscosse, il colore dei suoi capelli era
cambiato, in un verde molto più scuro, e il suo sguardo timido e cortese aveva
lasciato il posto ad un ghigno serafico, lo stesso che Phoenix gli aveva già visto
una volta addosso. Quando Ade si era impossessato di lui. –“La storia si
ripete, Cavaliere, ma stavolta non c’è Atena a riportare indietro tuo fratello
dalla prigionia oscura cui l’ho destinato! Il suo corpo ormai è perduto, da
quando ha indossato quella corazza ha assorbito lentamente il mio ichor, mutandosi in un assassino incosciente ma letale. E
adesso, con la mia vicinanza, con il mio apporto diretto, la possessione sarà
totale! Pochi attimi ancora, pochi secondi, e del fratello che amasti un tempo,
sempre pronto a sacrificare la propria vita pur di non ferire gli altri, non
rimarrà niente! Uccidilo, Andromeda! Uccidi il Cavaliere della Fenice!”
Il ragazzo non disse alcunché, limitandosi ad avanzare verso Phoenix,
mentre le catene striavano d’argento il cielo plumbeo del Ponto.
Una dopo l’altra, in un’infinita sequela, sfrecciarono verso il Cavaliere della
Regina Nera, obbligandolo a spostarsi di continuo, in una corsa che presto
divenne fuga, incalzato da una pioggia di perigliosi strali che infine lo
raggiunsero ad un tallone, facendolo cadere a terra. Subito le catene di
Andromeda si chiusero su di lui, stringendolo in un gelido abbraccio, mentre
lampi di energia stridevano con forza sulla riforgiata
armatura della Fenice, graffiandola, scalfendola, a tratti scheggiandola da
tanta potenza Andromeda stava riversando sul fratello.
“Hai qualcosa da dire, Phoenix? Un ultimo discorso prima di abbandonare questo
mondo terreno e raggiungere il profondo Tartaro ove precipiteremo tutti i
giovani Dei e i loro paladini?!”
“Solo una cosa…” –Mormorò il ragazzo, prima
di placare il proprio cosmo, di fronte allo sguardo stupito di Ate e a quello inespressivo di Andromeda. –“Fratello,
guardami in faccia! Voglio vedere i tuoi occhi un’ultima volta! Ai tuoi occhi parlo,
così puri da non essere degni neppure di varcare le porte dell’Inferno, e a
loro avanzo la mia richiesta! Uccidimi, Andromeda! Uccidimi, se la mia morte
può ridarti la pace!”
Capitolo 17 *** Capitolo sedicesimo: Valico di sangue. ***
CAPITOLO SEDICESIMO: VALICO DI SANGUE.
Cristal dovette proprio ammetterlo. L’efficienza della macchina bellica
messa in moto da Alexer era totale.
Nonostante fosse stato assente appena una giornata, per scendere in
Grecia al concilio di tutti i regni divini, il Principe aveva preventivamente
disposto lo sgombero di tutte le poche aree popolate dell’estremo nord europeo,
invitando gli abitanti a rifugiarsi all’interno della fortezza di Asgard, in
accordo con la Sacerdotessa di Odino. Aveva anche approvato la richiesta del
Cavaliere del Cigno di inviare una squadra dei suoi migliori guerrieri per
mettere in salvo coloro che vivevano nei radi villaggi della Siberia
settentrionale, tra cui Kobotec, la cui salvezza al ragazzo stava molto a
cuore, soprattutto quella di Jacob, Katia e dei loro familiari. Così tutti
erano stati scortati in fretta dentro la cittadella sul Mare Artico, anche a
costo di obbligarli ad una marcia forzosa e scomoda, sebbene tutti fossero
abituati alle rigidità del clima.
Ma non erano solo i venti polari a preoccupare Alexer e Cristal, adesso
riuniti sul camminamento esterno del castello del Principe, arroccato
all’ingresso della Valle di Cristallo, ma ciò che quei venti stavano portando
seco. Quell’immensa nube nera che, dall’Asia centrale, andava allargandosi
sopra l’intero continente, finalizzata a togliere il sole all’ecumene intera.
“È opera sua, vero?” –Chiese il Cavaliere di Atena, rivestito della sua
nuova Armatura Divina. –“Di Caos, intendo!”
Alexer annuì, senza togliere lo sguardo dalla cappa oscura che
lentamente ma inesorabilmente avrebbe ricoperto il pianeta. E se gli uomini
comuni, che vivevano comodi e sicuri nelle loro belle città, credevano si
trattasse soltanto di passeggere nubi temporalesche, l’Angelo di Aria sapeva bene
che non era così. Era soltanto il potere di Caos che cresceva, sempre più, e
quando fosse riuscito a recuperare la sua intera forza primigenia avrebbe
potuto rivestire la Terra tutta.
“Eventualità che dobbiamo scongiurare!” –Chiarì, spostando lo sguardo
in basso, lungo le mura possenti della piazzaforte che chiudeva l’accesso a
chiunque avesse desiderato prendere la via per Asgard. Oltre a loro, e alle
legioni di Blue Warriors addestrati da Alexer, anche alcuni Seleniti
attendevano pazienti. Il campo di forza messo in piedi dagli Angeli, dalla
Regina di Polaris e dagli Asi sopravvissuti avrebbe impedito ai nemici di
teletrasportarsi direttamente alla cittadella sul Mare Artico, obbligandoli ad
un rigido percorso a piedi. –“Questo fintantoché i nostri cosmi rimarranno
vividi e freschi!” –Aggiunse il Principe, ricevendo in cambio un sorriso tirato
dal Cavaliere del Cigno.
Un guizzo d’ombra attirò l’attenzione dell’Angelo di Aria. Ed in
effetti, gettando uno sguardo verso la bianca vallata che si apriva davanti al
castello, Alexer e Cristal riuscirono a distinguere alcune sagome farsi sempre
più nitide. Rivestite da nere corazze, erano facilmente individuabili in
quell’oceano di neve e ghiaccio, sebbene ve ne fossero alcune che si
differenziavano per colori più sgargianti. I probabili capitani di
quell’avanzata, convenne il Cigno, continuando ad osservarli e iniziando al
qual tempo a radunare il cosmo.
Il piano concordato con Alexer e con Flare era piuttosto semplice, in
verità, sebbene la Regina di Asgard fosse stata restia ad accettarlo, temendo
per il giovane Cavaliere di Atena, di nuovo esposto in prima linea al fuoco
nemico. Pur tuttavia era per quello che lo amava, per il suo mettere sempre
prima gli altri rispetto a se stesso, ed alla fine era stata costretta a
capitolare, rimanendo al sicuro dietro le mura di Asgard assieme alla
guarnigione difensiva e ai popoli del nord.
“Arrivano!” –Si limitò a giudicare Alexer, osservando le legioni oscure
approssimarsi all’imboccatura della vallata. Ancora pochi passi e sarebbero
stati dentro, alla loro mercé.
“Che il potere dei ghiacci eterni sia con me!” –Esclamò il Cavaliere
del Cigno, espandendo il cosmo, vasto e glaciale, che invase in breve l’intera
Valle di Cristallo, stupendo sia i Seleniti, che non lo avevano ancora
percepito, sia tutti i guerrieri al servizio di Alexer. –“Madre, Abadir,
Maestro dei Ghiacci, Acquarius! Che da sempre vegliate su di me, stelle
tutelari della mia esistenza, assistetemi anche in quest’ultima prova!”
–Invocò, liberando il proprio cosmo, che scosse i versanti delle montagne
attorno, smuovendo rocce e neve e generando gigantesche slavine che piombarono
feroci verso il fondo della valle, sospinte da un’improvvisa tempesta di
ghiaccio.
L’armata nemica sembrò presa alla sprovvista da quell’assalto
repentino, tentò di abbozzare una qualche forma di difesa, ma tutto fu vano,
venendo travolta dalla furia delle valanghe e sommersa sotto strati di neve e
pietrisco. Fu allora che il cosmo di Alexer si innalzò ruggente, squarciando il
cielo con folgori azzurre, che lasciarono impietriti persino i guerrieri del
ghiaccio a lui fedeli.
“Fulmini siderali, straziate
l’oscura legione!!!” –Tuonò, apparendo in cielo, magnifico nelle sue vesti
azzurre, le ali angeliche spalancate alle sue spalle, mentre migliaia di
folgori riempirono l’aria, abbattendosi con inusitata violenza contro il
mucchio confuso di neve e guerrieri là sotto seppelliti. Alexer rimase in
ascolto, per tutta la durata dell’assalto, percependo la neve sfrigolare e
sciogliersi per il calore generato, la roccia spaccarsi, il suolo tuonare in
risposta, ma neppure un lamento innalzarsi da quell’ammasso di guerrieri
caduti. –“Piuttosto strano…” –Osservò, planando verso terra, per osservare
meglio.
Anche Cristal, ritto sui camminamenti merlati del castello di Alexer,
spalancò le ali della rinnovata Armatura Divina, per unirsi a lui nelle
ricerche, ma non appena fece per tuffarsi, la voce dell’Angelo di Aria lo
raggiunse.
“Non muovetevi!!! È una trappola!!!”
E quello fu l’ultimo suono che il Cigno udì, prima che una moltitudine
di voci, perfide risate e clangore di armi sbattute lo raggiungesse, senza
comprendere da dove potessero arrivare. Il cielo si riempì ulteriormente di
nuvole, sospinte da un fetido vento oscuro, ove nere saette presero a danzare,
e su quello sfondo infernale centinaia, forse migliaia, di sagome corazzate
apparvero all’istante. Cristal sgranò gli occhi quando vide l’esercito nemico
giungere all’assalto delle ultime difese di Asgard a cavallo di grifoni dalle
ampie ali e dagli artigli pronti a ghermire.
“Uccideteli tutti!!!” –Ghignò una voce, proveniente da un guerriero
smilzo che volava di fronte al resto dei suoi sottoposti, un uomo rivestito da
una corazza vermiglia dotata di ali simili a quelle di un pipistrello.
Al tempo stesso la terra tremò sotto i piedi di Alexer, la neve si
sciolse di colpo, anticipando l’emergere violento di terribili serpenti di
fuoco, che obbligarono il Principe a balzare indietro all’improvviso.
Un’orribile figura, che non seppe all’inizio identificare, comparve di fronte a
lui, alta e minacciosa, tre metri e forse più, il corpo ricoperto di squame
purpuree, la testa racchiusa in un vortice di capelli dalla forma di serpenti
infuocati.
“Quale perigliosa minaccia è giunta ad Asgard dalle profondità della
terra?!” –Mormorò Alexer, mentre la bizzarra creatura allungava il periglioso
crine verso di lui, scagliandogli contro strali incandescenti dalle fauci
aperte.
Il Principe espanse subito il suo cosmo azzurro, congelandoli prima che
lo raggiungessero, ma dovette comunque spostarsi di lato in lato per evitare le
incessanti raffiche che la creatura gli stava dirigendo contro. Aiutandosi con
le ali della corazza, sollevò una tempesta di ghiaccio, con cui spinse il
mostro indietro, facendolo accasciare di lato e permettendogli di osservarlo
meglio. Fu in quel momento che le grida dei Blue Warriors lo raggiunsero,
portandolo a sollevare lo sguardo verso la roccaforte, messa sotto assedio da
una moltitudine di guerrieri a cavallo di spietati grifoni. E Cristal che, in
alto sulle torri merlate, li teneva distanti con tempeste di ghiaccio.
“Devo andare ad aiutarlo!” –Rifletté, prima di concentrare i sensi e
percepire qualcosa, oltre al fetido cosmo della creatura da lui appena
abbattuta. –“C’è qualcun’altro!” –Aggiunse, prima di scandagliare i dintorni
nevosi con i suoi sensi acuti e individuare nuove presenze al limitare del
sentiero, proprio all’interno della foresta. Qualcuno stava cercando di
passare, non visto, approfittando del disordine in cui versavano le guarnigioni
di Asgard. –“Mostratevi!!!” –Gridò, generando una scarica di energia azzurra
che rischiarò le propaggini del bosco, permettendogli di vedere una moltitudine
di sagome armate. Ma prima che potesse fare alcunché, guizzanti figure si
scagliarono contro di lui da molteplici direzioni, con una velocità che non
aveva niente di umano.
Solo quando fu sbattuto a terra e portò avanti le mani per proteggersi,
riconobbe che quelle figure erano dei grossi lupi dal pelo grigio, rivestiti di
corazze ornate di macabri spuntoni.–“Lupi da guerra?!” –Mormorò, comprendendo chi lo aveva appena attaccato
e gettando via la bestia dallo sguardo famelico. Ma per ognuna che respingeva,
un’altra lo caricava, costringendo infine il Principe a tenerle a distanza con
un’impetuosa emanazione cosmica, che dilaniò molti lupi, sebbene altri furono
abbastanza svelti da evitare l’onda energetica.
“Non con il freddo vincerete i Warg!” –Esclamò allora una ruvida voce
maschile, mentre un uomo ben piazzato si faceva strada dal limitare della
foresta, in groppa a uno di quei grossi felini, circondato da altri guerrieri.
–“I Lupi di Járnviðr al rigido clima sono ben temprati, fin troppo, al punto da
averli resi spietati e affamati! Non esiteranno davanti a niente pur di
ottenere il bramato cibo che troppo a lungo è stato loro negato!”
“Lupi della Foresta di Ferro?! Credevo che i miei Blue Warriors li
avessero sterminati!”
“E così han fatto! Ma erano troppi per scovare tutti i loro nascondigli
e molti di loro già si erano uniti a me, prostrandosi al servizio del Gran
Maestro del Caos e dei Progenitori! Come ho fatto io, Reidar, per avere la mia
vendetta!” –Parlò l’uomo, dal chiaro aspetto nordico, con lunghi e poco curati
capelli biondi e occhi grigi. –“Credevi che non sapessimo che ci stavate
aspettando? Ah ah ah! L’occhio dell’unico Dio giunge ovunque, Principe Alexer!
Potete impedirci di teletrasportarci ad Asgard ma non potete impedirci di
avanzare! E, in tutta onestà, non mi dispiace affatto! Che guerra sarebbe senza
battaglie? Che vendetta sarebbe se non ruscellasse del sangue? Ah ah ah! Armata
delle Tenebre, all’attacco!!!” –E, prima ancora che terminasse la frase, altri
cosmi si erano aggiunti al suo, anticipando il palesarsi di guizzanti figure
dotate di potenti artigli di energia cosmica, che piombarono su Alexer,
obbligandolo a balzare indietro per non essere affettato.
“Mi prendi per un incauto ragazzino?!” –Tuonò il Principe, espandendo
il proprio cosmo glaciale e respingendo gli assalti di quelle veloci sagome
guerriere.
“Tutt’altro! Vi prendo come un valido combattente, ma, come ognuno di
noi, non può difendersi contemporaneamente da troppi avversari, no?” –Ridacchiò
sornione l’uomo chiamato Reidar, mentre tutto attorno, dalla neve smossa, si
sollevavano decine e decine di creature simili alla prima che aveva abbattuto.
Persino i Warg parvero ritirarsi di fronte all’orrore di quei crani ricoperti
di serpenti infuocati, radunandosi attorno al loro comandante che diede la
carica per andare avanti.
“Dove credete di andare?!” –Esclamò Alexer, ma non poté seguirli che
una pioggia di serpi incandescenti gli sbarrò il passo, costringendolo a creare
un muro di ghiaccio per pararle. Quindi, espandendo il gelido cosmo, roteò su
se stesso, dando vita ad un mulinello d’aria fredda con cui spense tutti i
mostruosi proiettili infuocati che le bizzarre creature gli rivolgevano contro,
aumentandone l’estensione in poco tempo e investendo i nemici, sollevandoli di
peso e scaraventandoli molti metri più a valle.
Solo allora, tirando un sospiro di sollievo, poté voltare lo sguardo
verso Reidar e i suoi compagni, che già galoppavano in lontananza sul dorso dei
Warg, battendo sicuri le vie delle foreste, come se avessero chiaro il
percorso. Alexer fece per lanciarsi alla loro caccia, quando un repentino
frusciare lo fece girare, giusto in tempo per notare una guizzante frusta
attorcigliarsi attorno al suo calcagno, sollevarlo di peso e sbatterlo a terra,
venendo trascinato in basso, verso una torreggiante figura mostruosa che si era
appena rimessa in piedi. Solo in quel momento il Principe notò le fattezze
femminili di quel rozzo corpo, evidenti nonostante fosse rivestito di scaglie;
persino il volto, incorniciato da quella moltitudine di rettili infuocati, era
di una donna. Di una donna triste, si
disse, osservandone lo sguardo, le pupille vuote, spente. E rimanendo così,
bloccato, a guardarla in faccia, incapace di capire perché all’improvviso
avesse perso sensibilità alle gambe, alle braccia, al resto del corpo. Cos’era
successo, quale oscura magia poteva averlo ammaliato al punto da fargli perdere
l’uso dei cinque sensi, proprio lui che era uno delle creature immortali per
eccellenza? Con orrore, osservando l’alta figura mostruosa che incombeva su di
lui, comprese chi fosse infine la sua avversaria e come avesse potuto vincerlo.
Non uccidendolo, non essendone di certo in grado, bensì pietrificandolo.
***
Cristal sentì avvampare il cosmo di Alexer, poi lo sentì quietarsi e
infine agitarsi un’ultima volta, fino a rimanere bloccato in una strana
vibrazione. Non si era troppo premunito di correre in suo aiuto, all’inizio,
ben conoscendo la sua potenza d’attacco e le sue abilità in battaglia,
preferendo rimanere in cima al baluardo, per incitare i Blue Warriors nello
scontro con le armate oscure. Aveva abbattuto molti nemici, travolgendoli con
tempeste di gelo e vento e osservandoli mentre, ridotti ormai a rozzi blocchi
di ghiaccio, precipitavano, schiantandosi a terra. Aveva anche dato vita ad un
breve scontro con un guerriero dall’armatura rossastra e dai folti capelli
viola, di grado superiore alla moltitudine dell’esercito che conduceva. Lo
aveva incuriosito il modo distratto, a tratti diabolico, con cui svolazzava sul
castello di Alexer, sostenuto dalle ali da pipistrello della sua corazza,
scagliando ovunque saette oscure e spingendo indietro i soldati azzurri con
turbini di vento, chinandosi a volte su di loro, afferrandone alcuni e
gettandoli di sotto dai torrioni.
Gli aveva diretto contro uno dei suoi colpi migliori, ma l’uomo,
anziché evitarlo, si era avvolto in un mucchio di nubi piovigginose, che
avevano attutito l’attacco di Cristal, limitandosi a farsi trascinare via,
quasi fosse più leggero dell’aria. Avrebbe voluto inseguirlo, oltre il bastione
sul retro del castello, ma in quel momento aveva sentito svanire il cosmo di
Alexer.
No! Si disse il biondo Cavaliere di Atena,
affacciandosi e guardando in basso, nel sentiero in cui avrebbe dovuto trovarsi
il Principe, dove avevano inizialmente pensato che l’Armata delle Tenebre
sarebbe passata. Non è sparito! È come se
fosse… fermo? Cristal non capì, ma poi vide quell’enorme creatura, dal
corpo avvolto da mortifere fiamme, ergersi sull’Angelo di Aria, e allora prese
la sua decisione, spalancando le ali del Cigno Divino e gettandosi in
picchiata. Falciò alcuni guerrieri con il suo cosmo glaciale, fino a planare
vicino ad Alexer, sopra di lui, colpendo la mostruosa sagoma di fuoco con un
calcio in pieno volto e spingendola indietro, impedendogli di infierire
ulteriormente sul corpo del suo mentore. Corpo che, avvicinandosi e
osservandolo con attenzione, notò era stato pietrificato.
“Ma… che cosa?!” –Esclamò esterrefatto. Si chinò su di lui, sfiorandolo
e trovando conferma ai suoi pensieri. La corazza, il volto, l’intero corpo di
Alexer era divenuto pietra, paralizzato in un movimento che il Principe stava
compiendo, di certo per difendersi dalla bestia. –“Già… la bestia…” –Ricordò
Cristal, voltandosi proprio mentre la bizzarra creatura si rimetteva in piedi e
i serpenti infuocati sul suo capo si drizzavano famelici, al pensiero di aver
trovato un nuovo obiettivo.
Fu mentre studiava la migliore strategia per vincerla in fretta, in
modo da poter tornare ad aiutare i Blue Warriors, che una voce lo raggiunse,
parlando direttamente alla sua anima.
“Sono stato incauto.”
“Co… come?!” –Rantolò Cristal, riconoscendo il suono della voce di
Alexer e subito voltandosi per osservarne il rigido corpo.
“È una Gorgone!” –Aggiunse questi, e allora il Cigno capì quel che era
accaduto.
“Ma certo! Figlie di Ceto e di Forco, erano tre sorelle divine, che
abitavano, si narra, alle bocche degli Inferi! Erano donne bellissime ma
pericolose, in grado di mutare in pietra chiunque le guardasse negli occhi!
Ecco cosa è accaduto ad Alexer!”
Quasi avesse intuito i suoi ragionamenti, la Gorgone scattò alla
carica, tenendo il viso rivolto avanti, verso il Cavaliere del Cigno, e
liberando proiettili di fuoco dal capo.
“Che orrore!!!” –Esclamò Cristal, portando avanti il braccio destro,
sul cui indice già balenava il gelido cosmo. –“Anelli di ghiaccio!” –E congelò tutti i serpenti infuocati,
mandandoli in frantumi, avendo cura di tenere lo sguardo di lato, in parte
rivolto verso Alexer, a memento mori di quel che poteva accadere a guardarla in
faccia, in parte verso il terreno, su cui la sagoma della Gorgone si allungava
minacciosa.
Un nuovo assalto lo obbligò a balzare indietro, dietro al corpo
pietrificato di Alexer, portandolo a sollevare un braccio e a generare una
barriera di ghiaccio contro cui i serpenti di fuoco si infransero, cadendo al
suolo e liquefacendo il terreno stesso. Ma l’emanazione cosmica del Cavaliere
di Atena bastò a congelarlo all’istante, permettendogli di rifiatare un
momento, afferrare il rozzo corpo del Principe e portarlo indietro, al riparo
dietro alcuni alberi. Avesse avuto più tempo, avrebbe provveduto a chiuderlo in
un feretro di ghiaccio, ma l’alito infuocato della Gorgone già incombeva su di
lui, incessante e inquieto, come se a nient’altro anelasse se non ad uno
scontro con lui.
“È piuttosto naturale, se ben ci pensi!” –Gli parlò Alexer, mentre
Cristal danzava sul ghiaccio, schivando i rettili arroventati. –“Non conosci la
storia delle tre Gorgoni e di come Steno sia rimasta sola?”
“Steno?! Si tratta dunque di lei?!”
“Ne sono sicuro! Come sono sicuro che ti odia! Percepisco il suo
rancore; l’astio che ti rivolge in quanto Cavaliere di Atena fa ribollire il
suo sangue divino, incendiando i serpenti che, da tanto odio, le sono cresciuti
sul capo, deformando il suo aspetto in una bellezza mostruosa!”
“Perché tanta ostilità verso i Cavalieri di Atena?!” –Chiese allora
Cristal, sollevando un muro di ghiaccio e fermando il nuovo assalto di Steno.
Quindi, notando uno strisciare lesto sul suolo, fu svelto ad evitare la lunga
coda squamata della Gorgone, balzando in alto e afferrandola poi mentre
sgusciava via, strattonandola con forza e infondendovi il suo cosmo glaciante.
Steno strillò, spalancando la gola, mentre i serpenti di fuoco
turbinarono sul suo capo, saettando in direzione del Cigno, che fu lesto a
contrastarli con una tempesta di ghiaccio, congelandoli uno dopo l’altro. Ma la
Gorgone non arrestò l’attacco, liberando migliaia di dardi roventi, in uno
scontro incessante tra fuoco e ghiaccio che saturò l’aria di vapore e strida.
“Per la solitudine in cui l’avete confinata, condannandola ad
un’esistenza solinga e raminga!” –Tornò a parlare Alexer. –“Delle tre sorelle,
due furono uccise proprio da Cavalieri di Atena! Non ricordi l’impresa di
Perseo, nel Mondo Antico, che tagliò la testa di Medusa, usandola poi per
ornare lo scudo dell’Armatura d’Argento da lui indossata? E, forse non sai, ma
è storia recente, Euriale, seconda sorella di Steno, cadde una decina d’anni
fa, uccisa da due Cavalieri di Atena in una foresta cinese, dove aveva trovato
rifugio, cibandosi di esseri umani, almeno quelli che non aveva pietrificato.”
“Se di tali macabri azioni si era macchiata, non mi stupisce che i
Cavalieri di Atena l’abbiano combattuta! Sono mostri, in fondo!”
“Certo. Ma sono soli. E quindi arrabbiati! Stai attento, Cristal! Delle
tre sorelle, Steno è la più forte, come indica il nome stesso! Non guardarla
mai in volto!”
Il Cigno annuì, continuando a riversare il cosmo nella coda che reggeva
in mano e nella tempesta di ghiaccio che, al qual tempo, aveva sollevato per
impedire ai serpenti infuocati di raggiungerlo. Ma quello stallo non poteva
durare, né gli avrebbe dato la vittoria. Fu il grido rabbioso della Gorgone a
scuoterlo, mentre la coda squamosa andava in frantumi, dilaniata da un freddo
così intenso che neppure la sua fiamma divina seppe contrastare. Colma di
dolore e ira, Steno spalancò le rozze e corte ali che le ornavano la schiena,
sollevandosi e dirigendosi verso il Cavaliere di Atena, i lunghi serpi
infuocati tesi avanti, come lance pronte a intingersi nel sangue nemico.
“Non ti avvicinare, bestia immonda!!! Polvere di Diamanti!!!” –Tuonò allora il giovane di origini russe,
scagliando il proprio assalto verso la Gorgone, che, anziché ritirarsi,
continuò ad avanzare verso di lui, sfidando la tempesta di ghiaccio.
–“Maledizione!!!” –Ringhiò Cristal, accorgendosi di non poter dirigere al
meglio i suoi attacchi se impossibilitato a guardare il suo nemico. Poi,
pensando ad Alexer, che lo attendeva poco distante, e allo scontro sostenuto da
Sirio anni addietro, contro il Cavaliere che utilizzava quel potere micidiale,
si infervorò, deciso a non lasciarsi abbattere dallo sconforto né dalla
prospettiva di una sconfitta. Così roteò il braccio sinistro, posizionando lo
scudo in modo da servirsene per individuare la posizione della Gorgone,
evitandone al qual tempo lo sguardo.
Ma Steno, quasi avesse subodorato il pericolo, fu lesta a scattare di
lato, velocissima, tempestando il Cigno dal fianco scoperto. Raggiunto dal
morso di un serpente di fuoco ad una coscia, Cristal fece esplodere il proprio
cosmo, generando un devastante tifone di gelo che lo avvolse, inglobando in
fretta il suolo attorno a sé e anche la stessa Gorgone, che non ebbe tempo di
sottrarsene. Il confuso turbine di neve, terriccio e combattenti si placò dopo
un mezzo minuto, rivelando una devastata distesa dove non vi era più traccia né
di Cristal né di Steno.
Fu la Gorgone la prima a ricomparire, sollevandosi da sotto un cumulo
di neve e pietrisco, mugghiando furiosa e lasciando sibilare i serpi infuocati,
volgendo rapida lo sguardo attorno a sé, alla ricerca del proprio avversario.
Sopra di lei, nel castello di Alexer, gli scontri tra l’Armata delle Tenebre e
i Blue Warriors erano ancora in corso, ma Steno non aveva interesse né verso la
prima né verso i secondi, solo verso il Cavaliere di Atena. Solo per quel
motivo, per la presenza di almeno uno di loro, aveva accettato gli ordini del
Lord Comandante di unirsi a quell’impresa. E adesso pretendeva quel che le spettava.
La destò un rapido movimento alla sua destra, al limitare della
foresta, uno scintillio bianco che ricollegò subito all’Armatura Divina del
Cigno. Spalancando le ali si precipitò in quella direzione, riconoscendo il
Cavaliere dello Zodiaco che correva verso i boschi, di certo per trovarvi
riparo. Eccitata, lo bersagliò di strali incendiari, che si staccavano rabbiosi
dal suo cranio per affondare nel corpo del giovane, che continuava a correre e
a sfuggirle, infilandosi nella scura boscaglia. Non le ci volle molto,
comunque, per ritrovarlo e piombare su di lui, che si ergeva impavido, o
stolto, con le braccia unite sopra la testa e le dita intrecciate tra loro.
Atterrò davanti a lui, a nemmeno un metro di distanza, e chinò il capo avanti,
spalancando gli occhi vitrei e sfoderando tutto il suo potere. Ma Cristal non
si mosse, né si mutò in pietra, bensì sembrò scomparire in una nube di vapore.
Non capendo quel che fosse successo, Steno vide l’immagine del Cigno
liquefarsi e scivolare via, giù lungo un invisibile muro di ghiaccio che si
ergeva di fronte a lei. Solo allora capì l’inganno di cui era caduta vittima,
proprio mentre il suo corpo cigolava sinistramente, divenendo sempre più
pesante. Con un ultimo massacrante sforzo, torse il cranio per osservare le sue
squame divenire sempre più scure, mutandosi in pietra, vittime della sua stessa
malia.
“Perdonami, Steno, la forte! Hai tenuto fede al tuo nome, ma non posso
lasciarti vivere ancora! Non è volontà sanguinaria a guidare la mia mano, bensì
desiderio di difendere coloro che ho caro e che tu potresti ferire! Per cui,
riposa in pace nei silenti ghiacci! Addio, ultima delle Gorgoni!!! Scorrete,
divine acque!!!” –Esclamò una voce alle sue spalle, liberando un fiume di
energia glaciante che investì la creatura, ricoprendola interamente di un
solido strato azzurro. –“Spada di
ghiaccio!!!” –Tuonò Cristal, piombando su di lei, con il braccio destro
circondato di energia cosmica, e calandolo con rapidità, in modo da distruggere
la rozza scultura e debellare per sempre la minaccia delle Gorgoni.
Ansimando per il duro e veloce scontro, il Cigno placò il proprio
cosmo, voltandosi per tornare fuori dalla boscaglia e sincerarsi delle
condizioni di Alexer. Non ebbe bisogno di camminare molto per ritrovare il Principe
in piedi, in sua attesa, il volto sorridente e grato per averlo liberato da
quella scomoda situazione.
“Un’ottima strategia, me ne compiaccio! Attirare la Gorgone nella
foresta, dove la luminosità è minima, e paralizzarla con il suo stesso sguardo riflesso
in un muro di ghiaccio! Un colpo di genio! Dovresti darmi tu qualche lezione di
tattica…” –Commentò l’Angelo di Aria, dando una pacca sulla spalla del
Cavaliere.
“Non ho dubbi che vi sareste liberato anche da solo.”
“Forse. Ma ci sarebbe voluto del tempo, che noi non abbiamo! Una cosa
sola non capisco! Perché ho visto così tante Gorgoni quando quel guerriero di
nome Reidar mi ha attaccato? Ero convinto di essere circondato e invece ve ne
era solo una!”
“Dunque, tra coloro che sono passati, vi è qualcuno dai poteri mentali
così grandi da riuscire ad alterare persino la vostra percezione della realtà?
Un maestro di illusioni e inganni!”
“Non è certo il primo che ci troviamo ad affrontar…” –Ma la voce di
Alexer si incrinò di colpo, percependo un’improvvisa energia oscura avvicinarsi
rapida. Così oscura come mai l’aveva incontrata prima. Persino Cristal ne fu
sopraffatto, crollando sulle ginocchia, il respiro affannoso, chiedendo al
Principe cosa stesse accadendo.
“A chi appartiene questo cosmo così mortifero?”
La risposta la ebbe sollevando lo sguardo, osservando l’arco dipinto
nel cielo plumbeo da una cometa ancora più nera, che sfrecciò sopra le nordiche
terre, scendendo in picchiata verso il castello di Alexer.
“I Blue Warriors!!!” –Esclamò quest’ultimo, spalancando le ali della
corazza e fiondandosi verso la fortezza, per avvisarli o riuscire in qualche
modo a evitare l’impatto, incurante delle grida di terrore di Cristal alle sue
spalle.
Rimasto paralizzato da quella repentina comparsa di oscuro potere, il
Cigno non poté far altro che rimanere a guardare mentre la cometa di tenebra si
schiantava sulla montagna, generando un’immensa esplosione, udita in tutta la
Valle di Cristallo ed anche ad Asgard. Inorridito, il ragazzo vide la
roccaforte saltare in aria, le torri merlate, i bastioni e le mura esplodere,
dilaniate da un devastante potere, tra le urla di coloro che ancora là
combattevano, amici o nemici. Niente fu risparmiato dalla fulminea apocalisse,
persino Alexer venne investito dal crollo della montagna, che precipitò su di
lui, generando un’immensa slavina che inghiottì la vallata e tutti i suoi
alberi, deturpandone con violenza il paesaggio.
La cometa nera, che si era piantata nel fianco della montagna,
sventrandolo, riemerse poco dopo, contemplando soddisfatta il proprio operato,
ma mentre si preparava per dirigersi verso la fortezza di Asgard, venne
attratta dal bagliore di un cosmo che riluceva cristallino a fondo valle, verso
cui si diresse all’istante.
Cristal, il volto umido di sudore freddo e lacrime per i compagni
caduti in quella devastazione, poté così ammirare colui che tanta distruzione
aveva portato. Un uomo solo, rivestito da una corazza interamente nera, così
scura da non riuscire neppure a notarne le placche che la componevano e i punti
in cui si congiungevano. Ad eccezione per le forme affilate dei bracciali, dei
gambali e dei coprispalle, pareva non avere alcun segno particolare, solo una
scritta dipinta sul pettorale, poco sopra la posizione del cuore. Una scritta
in rosso, che sembrava vergata col sangue di coloro che aveva appena ucciso.
Ερεβος
“Dunque tu…” –Inorridì il Cavaliere di Atena, ricordando le parole di
Avalon sugli Dei Ancestrali risorti con il risveglio di Caos.
“Guarda chi abbiamo qua! Un bel biondino in Armatura Divina! Dalla
stessa mano forgiata di quella che ha creato l’armatura del Cavaliere di
Pegasus, suppongo, sebbene la sua fosse in ben più misere condizioni! Non che,
in fondo, averla nuova o usata possa cambiare qualcosa! Ahu ahu ahu!” –Sghignazzò
l’uomo dal volto celato dietro una maschera nera, da cui trasparivano soltanto
due occhi rossi.
“Hai combattuto contro Pegasus, Cavaliere?!”
“Purtroppo per lui ha avuto la sfortuna di incontrarmi, proprio come
te! E non sono un Cavaliere, bensì un Dio, il Dio! Io sono la Prima Tenebra! Io
sono morte, il distruttore di mondi! E te lo dimostrerò adesso, uccidendoti e
radendo al suolo la fortezza di Asgard, come ho ucciso coloro che si ergevano
sul Monte Etna, fossero uomini o insulse Divinità minori, poiché vedi,
Cavaliere di Atena, tutti gli Dei sono inferiori a me, Erebo, Tenebra
Ancestrale, e se i cadaveri di Efesto, Ermes ed Eracle potessero parlare te ne
darebbero conferma! Ahu ahu ahu! Sei pronto a ricongiungerti con il tuo amico?”
Capitolo 18 *** Capitolo diciassettesimo: Fuoco nel deserto. ***
CAPITOLO
DICIASSETTESIMO: FUOCO NEL DESERTO.
Le rive del Nilo erano in fiamme.
Il viale delle Sfingi che conduceva a Karnak era il teatro di scontri
violenti che da ore andavano susseguendosi, in particolare da quando Andrei
aveva guidato le forze dell’alleanza divina in aiuto dei Faraoni delle Sabbie,
iniziando un combattimento contro il Comandante dell’Armata delle Tenebre.
Aveva già sentito parlare di lui, sebbene le antiche cronache fossero avare di
giudizi. Tutti i testi avevano sempre parlato della sua capacità di infiammare
gli animi in guerra, del suo ruolo di guida degli eserciti in battaglia, del
suo costituire l’essenza stessa della Guerra, il demone furioso che inneggiava
al conflitto, ma nessun testo aveva posto l’accento sulla sua effettiva potenza,
tale da far impallidire persino l’Angelo di Fuoco.
“Ti arrendi, Andrei?” –Lo derise Polemos,
spingendolo indietro con un’onda di energia e godendo di fronte al suo sempre
maggior impegno, mentre egli, al contrario, pareva fresco e riposato, come se
si fosse appena risvegliato.
“Stai scherzando, spero? O temi forse la mia ira?!” –Ribatté l’altro,
espandendo la propria aura cosmica e generando un ampio cerchio di fuoco, che
circondò i due combattenti, isolandoli dal resto delle battaglie in atto.
“Se credi che le tue fiamme possano impensierirmi, allora sei male
informato!” –Rise il Demone della Guerra, avanzando verso Andrei nelle sue
sontuose vesti. Ma bastò che muovesse un piede che subito le vampe di fuoco
presero vita, strisciando sul terreno sabbioso e allungandosi ratte verso le
gambe del servitore di Caos, per quanto l’emanazione del suo cosmo fosse
sufficiente per tenerle a distanza. –“Non penserai di trattenermi ancora a
lungo con questo trucchetto? Hai visto che è
inutile!”
“Non propriamente…” –Si limitò a commentare
l’Angelo di Fuoco, concedendosi un sorriso, prima di infondere ulteriore
energia alle lingue rossastre che si chiusero attorno al corpo di Polemos in una spirale di acceso colore, obbligando il Nume
a liberare una violenta esplosione di energia per togliersele di torno.
“Ah no?!” –Tuonò, aprendo le braccia e osservando, infastidito, le
bruciature comparse a deturpare i suoi eleganti abiti. –“Questi stessi strappi,
con cui hai rovinato le vesti che avevo scelto per entrare a Karnak, te li
procurerò nel cuore!” –Aggiunse, chiudendo le braccia di colpo e sbattendo le
mani, generando al qual tempo un’onda di energia cosmica che sollevò Andrei di
scatto, scaraventandolo in alto ed esponendolo ad un secondo attacco da parte
di Polemos. –“Muori!!!” –Gridò, investendolo con un
globo di energia.
L’assalto sbatté l’Angelo di Fuoco a terra, facendolo ruzzolare sulle
dune per una trentina di metri, e quando si rimise in piedi, scuotendo la
sabbia dall’armatura, Polemos notò che, a denti
stretti, stava ridacchiando. Stupito, gli chiese se non avesse perso il senno,
in quell’ultimo capitombolo, oltre all’elmo dell’armatura.
“Tutt’altro! Il senno mio è assai attento e questo assalto non ha fatto
altro che fugare un dubbio che mi aveva invaso fin dall’inizio di questo
scontro! Un dubbio che, in realtà, mi portavo dietro da un po’, da quando
Avalon mi disse che il tuo nome sarebbe stato tra i demoni antichi che il
ritorno di Caos avrebbe di certo risvegliato!”
“Che dubbio?!” –Mormorò Polemos, facendosi
attento, mentre Andrei si incamminava nella sua direzione.
“Come combatte un Signore della Guerra? Come combatte colui che, più di
qualunque altro Dio o soldato, alla guerra è massimamente devoto, al punto da
farne il perno della sua intera esistenza? Le tecniche e le strategie di Ares
mi sono ben note, fin dal Mondo Antico, e non mi hanno mai entusiasmato! Un
ariete che carica a testa bassa, niente di più! Al pari di quelle infoiate
delle Makhai, tutte urla selvagge e furia battagliera, ma ben poca sostanza!
Tu, invece, hai attirato il mio interesse, perché vedi, Polemos,
dei Cinque Arconti garanti dell’equilibrio io sono quello che ha sempre cercato
di modificarlo, quest’equilibrio. Io sono colui che si è trovato stretto in
questi panni, desideroso di intervenire e scendere in campo, per modificare
l’esito di battaglie che la mia abilità, la mia strategia e la mia potenza
d’attacco avrebbero potuto ribaltare!”
“A modo tuo sei un Signore della Guerra, dunque!” –Precisò
l’avversario, ascoltando interessato.
“No, non la guerra cerco, ma il confronto, l’azione, l’intervento! Io
aborro rimanere ad osservare gli eventi, come mio fratello ha fatto per
millenni! Ma è chiaro che, in un conflitto di proporzioni grandiose come
questo, intervenire significa combattere e quindi sì, scendere in guerra!”
–Ammise Andrei. –“E adesso che ti ho di fronte e ammiro la tua straordinaria
potenza, non posso fare a meno di notare che tu, che della guerra sei il
demone, sembri non amarla affatto!”
“Co… cosa?!” –Balbettò Polemos,
preso alla sprovvista da quella dichiarazione.
“Puoi nasconderlo quanto vuoi, dietro i begli abiti di cui ti orni, dietro la
noncuranza con cui abbatti e uccidi gli avversari, quasi tu stessi schiacciando
fastidiosi insetti, ma la verità è una soltanto! Tu non ami combattere perché
hai paura di perdere! E se questa prospettiva sussiste, significa che esiste un
modo per vincerti!”
“Ah ah ah! Di tutte le idiozie viste e sentite su un campo di
battaglia, questa è la migliore! Complimenti, Andrei! Sei quasi riuscito a
distrarmi con le tue chiacchiere! Adesso possiamo riprendere a combattere, anzi
a non combatterci!” –Sghignazzò il fedele di Caos, prima di spingere
l’avversario indietro con un’onda di energia, cui Andrei tentò di opporsi
incrociando le braccia davanti al viso, avvolto da una solida aura
fiammeggiante che gli impedì di cadere.
“Vedi? Non fai che darmi ragione! Come puoi pretendere di vincermi
senza usare una tecnica segreta? Non ti basteranno certo semplici emanazioni di
energia! Possono andar bene per sconfiggere guerrieri di basso rango ma non un
Angelo mio pari! Non l’Arconte che porta nel cuore il fuoco della vittoria, che
mi attende alla fine di questo scontro!!! Cadi, Polemos!
FlameofVictory!!!” –Tuonò Andrei, muovendo il braccio destro e
liberando una turbinante spirale di fuoco che piombò sul Demone della Guerra,
obbligandolo a balzare in alto, mentre il suolo sotto di lui esplodeva.
Non fu lesto però a portarsi fuori dal raggio d’azione dell’assalto,
venendo raggiunto ai piedi e alle caviglie dalle lingue di fuoco scatenate da
Andrei, che lo sbatterono a terra, faccia nella sabbia, avanzando poi verso di
lui, arrotolandosi attorno al suo corpo e imprigionandolo in una gabbia
fiammeggiante.
“Ti sei…spinto…oltre…” –Sibilò Polemos,
espandendo il cosmo all’improvviso e liberandosi da quell’effimera prigione,
distruggendo le fiamme stesse e la duna sabbiosa su cui si trovava, spianandola
fin quasi al livello del terreno.
“Anche tu, a quanto pare!” –Rispose Andrei di rimando, osservando il
corpo del Lord Comandante, ormai nudo di fronte a sé, con gli ultimi brandelli
di stoffa appiccicati, quasi fusi alla sua pelle.
“Tutt’altro! Io sono appena agli inizi!” –Chiosò questi, sollevando un
braccio al cielo, avvolto nella sua aura amaranto, e urlando un nome.
–“Arma!!!”
Andrei levò d’istinto le sue difese, lasciando che fiamme ardenti
crepitassero sui palmi delle sue mani, ma nessun attacco lo investì, anzi Polemos pareva non degnarsi più di lui, concentrato a
rimirare quel che era apparso sopra la sua testa. Un enorme globo di luce
amaranto dentro cui andava delineandosi una forma ben precisa.
Una biga?! Rifletté l’Angelo di Fuoco, non
comprendendo. Anzi no, è un carro. Ma
certo! Un carro da guerra! Intuì, mentre il cosmo del Nume entrava in
risonanza con quello emanato dall’oggetto, che brillò di un ancor più intensa
luce prima di esplodere e dividersi in una ventina di pezzi, che andarono a
disporsi sopra il corpo ben curato di Polemos,
rivestendolo interamente.
“Sorpreso?! Dovresti esserlo, in verità! È la prima volta, da quando
sono stato concepito, che utilizzo la mia armatura! L’arma suprema di cui possa
disporre! L’Arma! E cosa poteva rappresentare la corazza del Signore della
Guerra se non quella di un carro atto allo scopo?!” –Sogghignò, avanzando verso
Andrei. –“L’ho creata io stesso, sai? Molto tempo fa, agli albori di quello che
la gente di questo pianeta chiama Mondo Antico, amavo passeggiare per le piane
di una penisola oggi nota come Italia. Paesaggi bellissimi, lo ammetto, vaste
distese d’erba e fiori solcate da fiumi e una gran varietà di coste, ambienti
nettamente superiori a quest’isterilito giardino in cui ci troviamo a
combattere. Fu proprio là, in un’area paludosa, presso le rive di un fiume, che
combattei una delle mie prime battaglie, una di quelle imprese per cui, se
fossi stato un eroe, se fossi stato Eracle, sarei stato cantato a lungo dagli
aedi! Ma l’indole dell’eroe non l’ho mai avuta, sebbene in comune con Eracle
abbia una discreta forza!”
“Perché mi stai raccontando tutto questo? Non mi interessano le tue
gesta passate!”
“Ah no?! Credevo tu volessi conoscere la mia vera natura! Poc’anzi mi
hai detto che credi che a me la guerra non piaccia poiché non uso colpi
segreti, ma è una bugia e te lo proverò, anzi te l’ho già provato indossando
quest’armatura, fortificata dal sangue degli Dei massacrati in quella
battaglia!”
“Quali Dei?!” –Avvampò Andrei.
“Quelli che popolavano quelle coste. I loro adoratori, quel popolo
sempliciotto che andò a chiudersi nelle loro casette di roccia e pietra, li chiamavano… Uhm, com’è che li chiamavano? Ah sì, Tina o Tinia, Uni e Menrva! Nomi caduti
nell’oblio, come gran parte della cultura di quel popolo! Perché vedi, Andrei,
io quei villaggi… li rasi al suolo…”
–Sogghignò Polemos, sbattendo l’Angelo di Fuoco a
terra con la sola emanazione del cosmo, schiacciandolo nella sabbia a gambe e
braccia aperte. –“I loro Dei li divorai come spuntino e poiché erano troppo
deboli per saziarmi del tutto mi cibai anche dei loro sacerdoti, stillandone il
sangue per generare quest’armatura, forgiata sulle mie vittorie!”
“Sei… un folle! Un folle assassino!!!”
–Ringhiò il fratello di Avalon.
“Ouh, su questo hai ragione, mio buon amico!
Hai proprio ragione!” –Ridacchiò Polemos, aumentando
la stretta e godendo del vibrare della corazza di Andrei, sottoposta ad una
pressione violentissima. –“Ti sei lamentato poc’anzi perché non uso colpi
segreti? Hai ragione, la verità è che non ne possiedo alcuno! Non potrei
possederne poiché non esiste tecnica senza che esista anche la possibilità di
neutralizzarla! Non esiste attacco che non possa essere parato, schivato o
vanificato, né difesa che non possa essere superata! Lo so bene, io, che
conosco tutte le tecniche di guerra e che, di conseguenza, so come annullarle!
Quello che non sai è che conoscendole sono in grado di farle mie, come sono in
grado di catturare le essenze dei miei avversari! Eccotene
la dimostrazione!” –Sogghignò, espandendo il proprio cosmo amaranto e
avvolgendo Andrei in una torbida foschia dentro la quale alcune sagome
iniziarono a stagliarsi poco dopo. Sagome mostruose, di creature demoniache che
Polemos aveva evocato. –“Ti presento Culsu! La conosci? Non credo! Nessuno conosce i demoni
degli etruschi, un popolo che io stesso ho contribuito a cancellare dalla
storia, come molte altre piccole civiltà sviluppatesi nella penisola italica in
quel lontano passato! Era un demone, una furia bifronte, per l’esattezza! E
come tutti i demoni vigila all’ingresso dell’oltretomba! Guardalo bene,
osservane le fattezze, sarà l’ultimo ricordo che ti porterai con te! Addio,
valoroso guerriero! Addio Arconte di Fuoco!” –Aggiunse il Lord Comandante,
voltando le spalle ad Andrei.
Nella nube di cosmo che lo attorniava, il maestro di Jonathan vide la mostruosa
figura di Culsu avvicinarsi. Il volto era
indecifrabile, coperto da quella strana foschia che contribuiva a fargli
perdere i sensi, a indebolire i suoi riflessi, come il vento che soffia dalle
porte infere, come i lamenti funebri che ti cullano e ti attraggono a sé. Ma
quel che riuscì a vedere bene, mentre la sagoma si chinava su di lui, furono le
braccia rachitiche, che sorreggevano una torcia accesa, ove riluceva una
sinistra fiamma blu, forse un fuoco fatuo, e un paio di enormi forbici.
Andrei si mosse, rotolando su un lato, per quanto quel semplice
movimento gli costasse fatica, i muscoli che parevano strapparsi da un momento
all’altro, la nebbia amaranto divenuta simile a un muro di pietra. Fu comunque
svelto ad evitare il chiudersi di quelle cesoie che molte vite dovevano aver
reciso in passato, vite di cui ancora credeva di udire il grido di morte,
l’ultimo strillo prima di precipitare nel nulla. Non capì perché, ma mentre Culsu calava di nuovo su di lui, per mietere anche quella
vita, ad Andrei parve di udire la voce di Juana, la
donna cui si era unito anni addietro, sulle sponde del lago Titicaca.
Bastò quella voce a distrarlo, quel tanto di cui il demone etrusco
abbisognò per chiudere le sue tenaglie sulla sua mano destra, scheggiando l’armatura
rossastra ma non raggiungendo la carne al di sotto. Poco importò, in realtà,
poiché il potere di quell’arma pareva trapassare ogni difesa materiale,
strappando un sussulto all’impetuoso combattente, a cui sembrò che una stilla
di vita fosse appena stata portata via. Fu allora, mentre Culsu
si rialzava, pronto a colpire di nuovo, che Andrei guardò la torcia con più
attenzione, comprendendo perché credeva di udire quelle voci, quei lamenti. La
fiamma azzurra che baluginava in cima al bastone di legno era davvero un fuoco
fatuo, un insieme di fuochi simili a spiriti, dai volti tremendamente umani. E
tra quei volti, tra quegli spiriti destinati ad eterno tormento, l’Angelo vide
il volto di Juana. O quantomeno le sembrò di vederlo,
prima che Culsu si avventasse su di lui, mirando
quella volta a lacerargli il collo.
“Spiacente!” –Sibilò Andrei, espandendo il cosmo e sollevando le gambe,
fino a chiuderle contro il ventre e poi allungandole di scatto, colpendo il
demone e facendogli perdere la presa su torcia e forbici. –“Ho altri progetti
per il futuro! Se pensavi che la vista di Juana,
condannata a chissà quale penitenza eterna, dovesse prostrarmi, ti sei
sbagliato! Anzi, mi ha ricordato come è morta e la promessa che le feci quella
notte. Parole che mi hanno accompagnato ogni giorno di questi ultimi vent’anni.”
“Promettimelo,
Andrei. Proteggi nostro figlio. Egli
nasconde la luce che illuminerà il mondo.” –Gli aveva detto la donna morendo
tra le sue braccia. E l’Angelo lo aveva fatto, addestrandolo ad essere il
Portatore di uno dei Talismani.
“Promessa mantenuta, Juana!”
–Mormorò, prima di lasciar esplodere il suo cosmo, incenerendo Culsu e la nebbia che Polemos
aveva calato su di lui, disperdendoli in un turbine di sabbia. Quando la nube
polverosa si diradò, Andrei vide che il Comandante dell’Armata delle Tenebre
era ancora davanti a lui, intento ad osservarlo con sguardo interessato. Ai
suoi piedi giacevano i cadaveri di due soldati di Amon
Ra, i corpi sgozzati e il sangue che ancora zampillava fuori dalle ferite.
“Non sei stato svelto abbastanza, a quanto pare!”
–Commentò Polemos, divertito, puntandogli contro
l’indice destro. –“Presta ascolto alle mie parole, Andrei, e non a quelle della
donna cui ti unisti un tempo! Per ogni minuto di troppo che impiegherai nel
vincere i demoni al mio servizio, io ucciderò qualcuno su questo campo di
battaglia! Stavolta è toccata a due Faraoni delle Sabbie…
Chissà, la prossima volta potrebbe essere il turno di…
tuo figlio!”
“Lurido vigliacco!!!” –Ringhiò Andrei, scattando avanti.
Ma già le labbra di Polemos si erano schiuse,
pronunciando due nuove parole. L’Angelo
non le aveva udite ma notò le sagome di pura energia avvampare attorno a lui,
altri due demoni etruschi che aveva sottratto al loro ruolo, facendone armi al
suo servizio.
“Ti presento Vanth,
alla tua destra, colui che tiene in mano il rotolo del destino, ove è scritto
tutto quel che accadrà ad un uomo, e Tuchulcha, alla
tua sinistra, il più possente e furibondo demone infero!” –Suggerì Polemos, osservando divertito le due figure di energia
lanciarsi all’attacco, in perfetta sincronia, obbligando Andrei ad uno sforzo
estremo per difendersi da entrambi.
“Co…
come puoi controllarli?! È un potere che ti ha donato Caos, questo di attingere
alle antiche culture?!” –Rantolò l’Angelo di Fuoco, cercando di tenere a
distanza gli artigli di Tuchulca.
“Tuttut! Nient’affatto! È una prerogativa che mi sono
guadagnato nel corso del tempo, mio buon amico, grazie ad un arguto spirito di
osservazione che mi ha reso quello che sono! Polemos!
La guerra! Non certo un nome scelto a caso, ma che te lo dico a fare, avrai già
capito che le parole sono importanti!” –Rise il Comandante, godendo di fronte
alle ferite che Vanth e Tuchulcha
stavano infliggendo ad Andrei. –“Dici che non uso colpi segreti, che non invoco
a gran voce il nome delle mie tecniche, come è divenuta consuetudine in molti
eserciti divini! Bah, una bizzarria tesa a nascondere la debolezza delle
stesse! Puoi urlarlo con tutto il fiato che hai in corpo, puoi scegliere il nome
più altisonante, ma se la tua tecnica è fallace e la tua forza misera, il tuo
attacco non avrà efficacia alcuna sul tuo nemico! Io ritengo invece che ogni
parola sia importantissima, che non debba essere scelta a caso, proprio come lo
ritenevano i popoli antichi! Anche a Isla del Sol,
immagino, la parola aveva un grande valore; la parola è creatrice, di miti e di
tutto ciò che è sacro! La parola è il mezzo con cui si crea e perpetua il mito,
con cui si dà vita a pensieri, consuetudini e leggende, suscitando in chi la
ode sentimenti di devozione, ammirazione e timore! La parola non deve essere
casuale, ma scelta e, a volte, ne basta una sola! Una soltanto!”
Andrei non prestò molta attenzione
alle farneticazioni del Signore della Guerra, troppo occupato a difendersi
dagli affondi dei due demoni che aveva evocato. Vanth
non sembrava molto forte, aveva il fisico di una donna dai lunghi capelli
serpentiformi, ma era rapida e precisa nel colpire, con quelle sudice unghie
grondanti veleno. Tuchulcha, al contrario, era la
forza bruta fatta persona e l’Angelo temeva che un suo pugno avrebbe potuto
persino crepargli la corazza. Deciso a non permettere a quel pensiero di
trovare conferma, bruciò il proprio cosmo, sperando che le fiamme li tenessero
lontani, ma inorridì nel vederli oltrepassare il muro di fuoco senza esserne
per niente toccati.
“Stolto! Fermare due demoni infernali con delle fiamme?! Neppure le sentono!
Dove credi che abbiano dimorato per tutti questi secoli?” –Rise Polemos, scuotendo la testa, prima di voltarsi e guardare
quel che succedeva attorno a sé. –“Il minuto a tua disposizione è passato,
Andrei! Andrò a far visita a tuo figlio… Oh,
perdonami, lui non sa che sei suo padre! Posso dirglielo?! Ih ihih?!”
“Stai…lontano… da lui!!!” –Tuonò l’Angelo di Fuoco, sollevando un
cerchio di fiamme attorno a sé, sempre più alte e guizzanti, un cerchio che
caricò di tutto il suo cosmo, tutte le sue passioni, tutta la vita che aveva
vissuto fino ad allora, lasciandolo divampare poco dopo. Di quelle fiamme, così
cariche di antica energia, persino Vanth e Tuchulcha ebbero paura, della loro luce così intensa, in
grado di rischiarare la tenebra di qualunque inferno. –“Ecco il cuore del mio
potere, la vampa di vittoria che non può essere spenta! Aurora… infuocata!!!” –Imperò, concentrando il cosmo in un unico grande
globo rossastro che lo avvolse assieme ai demoni, esplodendo poco dopo verso il
cielo.
“Incredibile!” –Mormorò Polemos, impressionato dal potere liberato. –“Un potere in
grado di vincere persino i guardiani degli inferi! Sei proprio l’Arconte di
Fuoco!”
“E ora a noi, Lord della Guerra!
Ti restituisco le parole che mi hai rivolto poco fa! Hai detto che non esiste
tecnica che tu non conosca e che quindi tu non possa vanificare, ma al tempo
stesso, io che sono Signore del Fuoco ti dico che non esiste corpo che non
possa essere bruciato dalla mia fiamma!!! Flameofvictory!!!”
L’immane ondata di calore si
abbatté su Polemos, incendiando l’aria e la sabbia
attorno, i corpi straziati dei servitori di Ra e giungendo infine a lambire la
suprema Arma del Demone della Guerra, ustionandola in più punti, obbligandolo a
portare entrambe le braccia avanti per contenere quel devastante potere. Di
certo, se non avesse indossato l’armatura, il suo corpo avrebbe riportato seri
danni; questo fu costretto ad ammetterlo. Solo
questo, soggiunse, trattenendo un ghigno di trionfo, conscio che ormai
Andrei non avrebbe potuto vincerlo.
“No! Nessuno può vincermi!”
–Gridò, respingendo la marea infuocata contro il suo stesso creatore. –“Nessuno
mai potrà sconfiggere la guerra! Soprattutto con un simile potere!” –Aggiunse,
sibillino, prima di espandere il proprio cosmo, che strisciò lungo la costa
orientale del Nilo fino a raggiungerne le acque, penetrando in profondità e
sollevandole poco dopo. –“Mira, Andrei, la fine delle tue fatiche! Il fuoco che
mi hai rivolto contro sarà spento all’istante! È nella natura stessa del fuoco
essere destinato all’estinzione!” –Chiosò, mentre un gigantesco maroso d’acqua
melmosa sorgeva dietro di lui, abbattendosi poco dopo sull’Angelo di Fuoco,
spegnendo tutte le sue fiamme e risucchiandolo in un vortice che sconquassò la
riva sinistra del Nilo, travolgendo anche numerosi soldati di Inti e dell’Armata delle Tenebre.
Quando la furia del gorgo si esaurì,
Polemos si concesse un sorriso soddisfatto per come
stava procedendo la campagna bellica da lui scatenata. I difensori di Karnak
sarebbero stati piegati entro breve e anche quell’alleanza che i regni divini
superstiti avevano messo in piedi alla bell’e meglio non avrebbe intaccato i
suoi propositi, come la sconfitta di Andrei dimostrava. Un unico pensiero lo
turbava, un quesito a cui non sapeva dare risposta.
Dov’è finito Forco? Avrebbe già dovuto essere
qua, a chiudere all’alleanza ogni via di fuga! Che non trovi la strada? Eppure
le indicazioni che aveva ricevuto erano chiare. Dalla loro base subacquea i Forcidi avrebbero dovuto raggiungere il Mar Rosso,
spuntando dall’altro versante di Karnak e cingendola in un definitivo assedio. Ma delle loro corazze azzurrognole ancora
nessuna traccia! Socchiudendo gli occhi, espanse il proprio cosmo,
lasciandolo correre in cielo, sfruttando la nube nera che si stava espandendo
sul pianeta come uno specchio per guardare in basso, alla ricerca di Forco e dei suoi accoliti, percependone infine traccia, una
debole traccia, molto lontano da lì.
Cosa diavolo ci fanno al largo delle coste australiane? Si chiese,
riaprendo gli occhi e riflettendo che in quel luogo, nel bel mezzo dell’oceano,
non avrebbe dovuto esserci nulla. Di
certo non una battaglia da vincere!
L’apparire di un cosmo oscuro alle sue spalle lo fece sussultare,
spingendolo a voltarsi giusto in tempo per specchiarsi nell’elmo nero di un
uomo che apprezzava e disprezzava al tempo stesso. Sebbene uomo ormai non possa definirsi più!
“Gran Maestro del Caos, voi qua?!” –Mormorò, stupefatto, mentre la
figura rivestita di nero si avvicinava, poggiandogli una mano sulla spalla
destra e spaziando con lo sguardo sull’intero campo di battaglia.
“Volevo vedere come te la cavavi sul campo! Sai bene quanto io ammiri i
Signori della Guerra, suprema madre del mondo! Non male, Caos ne sarà
impressionato! Hai un modo tutto tuo per farti strada, molto diretto e
penetrante! Io, a mio tempo, avevo preferito sottili giochi politici, intrighi
che mi hanno permesso di rimanere nell’ombra, in posizione defilata, ad
osservare uomini e Dei scontrarsi contro vecchi amici o rinverdire contrasti
con antichi nemici! Ah ah ah!” –Commentò, prima di
girarsi verso Karnak, fissarla e rimanere in silenzio. Quindi, prima ancora che
Polemos potesse aggiungere qualcos’altro, il Gran
Maestro scomparve, guizzando come un’ombra verso il complesso templare.
Il Lord Comandante avrebbe voluto fermarlo, dirgli di aspettare, di
concedere a lui, che aveva permesso alle gloriose Armate delle Tenebre di
arrivare fin là, l’onore di abbattere i portoni del tempio e sfidare Amon Ra. Ma scontrarsi con lui a cosa sarebbe servito?
Sotto che luce lo avrebbe messo agli di occhi di Caos?
Stringendo i pugni, Polemos berciò ordini a
Chimera, ma proprio allora un cerchio di fuoco piovve dal cielo, circondandolo
e costringendolo a sollevare un braccio davanti al volto, per evitare che
quelle lunghe lingue rossastre gli ustionassero il volto.
“Non così in fretta! Abbiamo uno scontro da terminare!” –Esclamò una
ben nota voce, prima che la robusta sagoma di Andrei comparisse davanti a lui.
Il corpo bagnato, l’armatura segnata da qualche scheggiatura e chiazzata di
melma e sabbia, una vivida luce di determinazione negli occhi. Persino maggiore
che in precedenza.
“E sia!” –Sbuffò allora Polemos, per quanto,
per la prima volta in vita sua, di quello scontro, in quel momento, avrebbe
davvero fatto a meno. Solo allora, prima che Andrei si lanciasse contro di lui
in un turbinar di fiamme, notò che anche Keres e Lissa erano sparite dal campo di battaglia.
Tirando uno sguardo al Viale delle Sfingi, alla distesa di corpi che
costellava l’ingresso a Karnak, capì dove erano andate e sospirò, dovendo
ammettere infine che la più ambita preda di quel giorno gli era stata portata
via. In nessun modo, rifletté,Amon Ra uscirà
vivo da lì. E riprese a combattere contro Andrei.
***
Da tempo non tornava a Karnak, da quando Micene di Sagitter
era riuscito a convincere Amon Ra ad abbandonare il
suo volontario isolamento, rientrando nel mondo, ma ricordava ancora bene la
pianta semplice dell’edificio. Per cui, una volta superato il Viale delle
Sfingi criocefale, svoltò verso sinistra, aggirando i
piloni esterni, di certo sorvegliati dai Soldati del Sole Nero e da qualche
probabile Faraone delle Sabbie, convergendo verso l’ingresso monumentale che si
apriva a nord, da cui avrebbe ben più facilmente raggiunto il cuore del tempio
di Amon.
Con un’esplosione di immane potenza fece saltare in aria mura e piloni,
penetrando nel grande cortile porticato, presidiato da una guarnigione di
Soldati del Sole, che il Maestro del Caos non degnò neppure di uno sguardo.
Fece un cenno alle due figure alte e snelle che lo accompagnavano, che furono
ben liete di sfogare la loro rabbia sui guerrieri, sfrecciando leste nella
miriade di fasci incandescenti diretti verso di loro, abbattendoli uno ad uno. Anzi no, notò l’araldo del Caos, prima
di strisciare oltre, in un divertito silenzio: massacrandoli uno ad uno, puntualizzò, tra le grida dei fedeli di Amon, il cui sangue e i cui organi interni andarono a
imbrattare le decorate mura esterne della grande sala, aggiungendo nuove scene
di battaglia a quelle già illustrate nei bassorilievi. Sapeva, il Gran Maestro,
quel che avrebbe trovato varcando la soglia del cortile interno, l’immenso
ipostilo che conduceva al vero e proprio tempio di Amon.
“Lei la troverete vicino ai propilei o presso il lago sacro ad Amon, dove di solito si adagia per pregare!” –Aggiunse,
prima di entrare nella grandiosa sala ipostila e iniziare a camminare tra le
centinaia di colonne che ne reggevano l’ampia volta, diretto verso l’altro
versante della stessa.
“Fermo dove sei!” –Esclamò una voce all’improvviso, mentre un plotone
di guardie armate si faceva avanti, le scintillanti Spade del Sole già rivolte
verso di lui. –“Qua si entra nel tempio del Sommo Amon
e tu non sei stato invitato! Per cui torna sui tuoi passi o morirai!”
“L’ombra non ha bisogno di inviti! L’ombra arriva ovunque desideri!”
–Sogghignò il Gran Maestro del Caos, spalancando le braccia e lasciando che
nere evanescenze sorgessero dalle sue mani, scivolando tetre nell’aria e
fiondandosi sui Soldati del Sole. I raggi di energia ardente schizzarono in
ogni direzione, senza riuscire a frenare l’avanzata di quelle fatue tenebre,
generando un infinito timore nei difensori del tempio di Ra.
Fu una luce improvvisa a salvarli dall’annientamento, una luce che
sorse impetuosa alle loro spalle, espandendosi a macchia d’olio tra le colonne
e disintegrando la selva di ombre che il Gran Maestro del Caos aveva evocato.
Una luce che, quando scemò d’intensità, permise all’invasore di ammirare colui
che l’aveva generata.
Alto e nobile, dal portamento fiero e lo sguardo deciso, il Sommo Amon, Pastore dell’Universo, era uscito dalle proprie
stanze, stringendo in mano una lunga asta dorata ornata dall’ankh, simbolo di vita e del sorgere del sole. Fece un breve
cenno ai soldati di ritirarsi alle sue spalle e avanzò verso l’avversario, ben
sapendo chi si nascondeva dietro quell’armatura tenebrosa.
“Puoi occultare le tue fattezze, mutarle e modificarle a tuo
piacimento, se sei stanco del tuo vecchio aspetto, ma l’aura nefanda del tuo
cosmo mai cambierà! Perciò togliti quella maschera, Ingannatore di Dei, e
mostrati a me! Rivela il tuo volto, Anhar!!!” –Tuonò
il Nume Supremo del Sole, bloccando i movimenti del Maestro del Caos,
inchiodandolo sul posto con la sola forza del pensiero, mentre onde di energia
dorata stridevano contro la tetra corazza da battaglia che indossava.
“Cos’è un volto, in fondo? Solo la temporanea manifestazione
dell’ombra! E io, adesso, sono andato oltre! Io sono divenuto l’ombra!” –Chiosò
l’araldo del Caos, togliendosi l’elmo e rivelando una nube di cosmo nero su cui
lampeggiavano due braci ardenti, quel che di vagamente umano rimaneva di lui,
un’entità ormai priva di un corpo. –“Io sono Anhar,
l’Angelo Oscuro, e sono giunto fin qua per spegnere la tua luce!”
“Tuonen härkä!” –Gridò il
Quinto Forcide, scatenando la furia dei Buoi neri della Morte, cui Alcione
rispose con il suo massimo attacco.
“Esplosione dei Silenti Abissi!!!”
Le due energie, detonando, scavarono un ampio cratere nel suolo
sabbioso dell’Avaiki, scaraventando entrambi indietro, l’uomo contro un
edificio adibito a infermeria, la donna contro la parete interna della
Conchiglia Occidentale, dove stavano combattendo da una ventina di minuti. Per
quanto gli attacchi del guerriero noto come Iku-Turso non fossero della stessa
potenza dei suoi, la fedelissima di Eracle non poté fare a meno di notare, con
preoccupazione, quanto riuscisse comunque a tenerle testa, quanto riuscisse a
fiaccarla in uno scontro che avrebbe già dovuto concludersi da tempo.
Eppure il Quinto Forcide era ancora in piedi, mentre Alcione ogni volta
si rialzava sempre più affaticata, sempre più debole, adesso persino con la
vista che pareva giocarle qualche scherzo, dovendo sbattere le palpebre più
volte per mettere a fuoco la sagoma smilza del guerriero di fronte a lei, che
la osservava con ghigno divertito.
“Mi chiedevo quando avresti iniziato a risentirne!” –Commentò spavaldo.
“A risentire di cosa?!”
“Degli effetti del mio colpo segreto che credi di aver disperso con i
tuoi attacchi roboanti! Eppure, a dispetto dei nomi altisonanti che da quasi
mezz’ora urli, non sono stati difesa sufficiente per impedire alle corna dei
Buoi della Morte di ferirti, raggiungendo le numerose parti del tuo corpo non
protette dalla ridicola corazza che indossi, e affondando dentro di esse.
Piccole ferite, forse appena dei fori, ma sufficienti per infettarti con il
veleno racchiuso nelle corna! Cos’è, non sapevi dunque che l’Iku-Turso è il
padre delle nove malattie? Eh eh eh! Non so quale ti abbia colpito, ma posso
dirti per certo che sono tutte mortali!” –Ghignò. –“Un vero peccato non poter
ammirare la tua espressione, di certo attonita e dolorante, sotto quella
ridicola maschera che porti sul volto! Anzi no, perché privarmi di questo
piacere? Te la toglierò e ti guarderò in faccia mentre muori! Che ne pensi,
donna?!”
“Penso che sei folle e ti vincerò!” –Declamò Alcione, lanciandosi
avanti, mentre tutto attorno a sé sorgevano alti cavalloni di energia acquatica.
Ma non appena portò le braccia in alto, per dirigerne l’avanzata, le sembrò di
vacillare, stordita, quasi sul punto di perdere i sensi. Tentò di reagire,
stringendo i denti, ma i marosi energetici ne risentirono, sfuggendole di mano,
e l’attacco risultò inefficace, strappando un nuovo ghigno al Quinto Forcide.
“Mai promettere più di quel che puoi mantenere!” –Ridacchiò, aprendo di
nuovo le braccia di lato, avvolto nel suo cosmo scuro, mentre centinaia di
sagome di armenti furiosi apparivano di fronte a lui.
In quel momento le pareti esterne della Conchiglia Occidentale
vibrarono di nuovo, così profondamente che tutti coloro che ancora vi
dimoravano, nascosti negli edifici o riparati dietro mura di scogli e roccia,
si abbandonarono a grida e pianti isterici. Persino l’Isonade però, impegnato
contro Gerione del Calamaro poco distante, strinse i pugni, concedendosi una
smorfia di disappunto, e l’Iku-Turso capì subito perché.
Aveva percepito anch’egli l’immensa sagoma oscura che aveva invaso le
acque attorno all’Avaiki. E non era una bestia come quelle che avevano
scatenato contro la Conchiglia Meridionale, di certo orribili a vedersi ma
comunque feribili, a incutere loro così tanto terrore, ma una persona sola, di
cui non osavano neppure pronunciare il nome, timorosi che potesse porre lo
sguardo su di loro e confinarli in tenebrosi abissi da cui mai avrebbero potuto
risalire.
Placando la furia del suo cosmo, il Quinto Forcide si guardò attorno,
mentre l’ombra scivolava lungo la barriera energetica, avvinghiandosi poi ad
essa, fino ad aderirvi completamente. Vi fu un tremito, più intenso di tutti
gli altri, che scosse l’Avaiki, facendo oscillare la volta lucente, prima che
un buco nero si aprisse nella parete vicino a loro, ingrandendosi a poco a poco,
fino a mutarsi in una sagoma di tenebra che varcò la soglia della Conchiglia
Meridionale, richiudendo la parete dietro di sé.
Stupefatti e sconvolti da quel prodigio, Gerione e Alcione si riunirono
tra loro per osservare la figura avvolta di nero che aveva appena vanificato
gli sforzi della grande Alii di quel regno, e di colui che la stava sostenendo.
“Non… è possibile!!! Come ha fatto? Come ha potuto oltrepassare la
parete esterna?”
“Imparerai a tue spese che non esiste niente, in questo mondo come in
quello superiore, che io non possa fare!” –Parlò allora la sagoma tenebrosa,
avanzando verso il ponte di sabbia e rocce, assumendo, a ogni passo, ben più
definite sembianze umane.
“Signore!” –Strepitarono l’Isonade e l’Iku-Turso, correndogli incontro
e inginocchiandosi, uno ad ogni lato. –“Stavamo terminando le operazioni di
conquista, per aprirvi la strada alla Conchiglia Madre!”
“Un modo piuttosto edulcorato per dire che non siete ancora stati in grado di
prendere la Perla dei Mari!” –Precisò il nuovo arrivato, ascoltando compiaciuto
l’inghiottire imbarazzato dei suoi sottoposti. –“Potrei saperne il motivo?
Forse la causa di Forco, che vi ha investito del titolo di suoi servitori,
donandovi quelle armature azzurre, non è per voi degna di massimo sforzo e
impegno?!”
“Sì, signore! Noi serviamo e adoriamo l’unico Imperatore dei Mari!” –Si
affrettarono a chiarire i due Forcidi, con un atteggiamento che stupì Alcione e
Gerione per quanto servile fosse, portandoli ad osservare con maggior
attenzione colui verso cui provavano così deferente timore.
Era un uomo alto, rivestito da una corazza di oricalco, al pari dei
suoi subalterni, sebbene fosse di un azzurro ben più scuro, che in alcuni
tratti sfumava in un intenso blu notte, quasi volesse ricreare la profondità
degli abissi oceanici. Non seppero dire cosa rappresentava, non sembrando
legata ad un animale o ad un simbolo specifico, era coprente, essenziale ed
elegante, ma priva di orpelli inutili in battaglia. Neppure il volto dell’uomo
poterono ammirare, riparato dall’ombra di un elmo che a entrambi ricordò quello
di Chirone del Centauro. Solo le labbra erano visibili, torte in un ghigno
freddo e serafico.
“Allora correte al Palazzo di Corallo e recuperate la Perla dei Mari,
uccidendo chiunque tenti di ostacolarvi! O sarò io stesso a uccidervi per il
vostro fallimento!”
“Sì, Signore! Subito!” –Esclamarono i due Forcidi, rialzandosi e
girando i tacchi all’improvviso, lanciandosi in una folle corsa lungo il ponte,
nonostante Alcione e Gerione sbarrassero loro la strada.
“Dove credete di andare?!” –Esclamò il secondo, lasciando schioccare le due
fruste, prima di muovere le braccia e lanciarle avanti. Ma bastò che l’uomo al
comando dell’attacco schioccasse le dita che una sottile massa di energia
oscura, simile a un buco nero, apparve di fronte al suo petto, attirando a sé i
tentacoli del Calamaro, che rimase attonito ad osservarli sparire all’interno
di quell’indistinta massa buia.
“Pensa per te, piuttosto!!!” –Lo schernirono i due guerrieri,
atterrandolo con i loro attacchi, prima di superarlo e dirigersi verso l’altra
estremità del ponte. Neppure Alcione riuscì a fermarli, trattenuta, quasi
inchiodata sul posto, dall’aura cosmica del guerriero giunto per ultimo, ben
più potente dei suoi sottoposti, un guerriero che identificarono infine come il
Primo Forcide.
“In… credibile…” –Rantolò Gerione, rialzandosi e sputando sangue. –“Il
suo cosmo è… immenso… sterminato… simile a quello del Sommo Eracle!”
“No, è ben diverso, sia pure di uguale potenza! Quest’aura ricorda… un
abisso infinito, un baratro senza fondo, un vuoto cosmico in grado di attrarre
a sé ogni cosa, persona o essere vivente, senza restituirla.”
“E tale infatti è il mio potere! Il potere sconfinato dell’abisso,
proprio della Dea primordiale, generatrice della vita, di cui ho preso il
nome!” –Precisò l’uomo, permettendo a entrambi di tornare a muoversi. –“Io sono
il Primo Forcide, servitore dell’unico Nume Ancestrale da cui la vita discende
sul pianeta! E voi, stolti mortali, siete stati sfortunati ad incontrarmi!”
“Parli tanto ma agisci poco!” –Esclamò Gerione, espandendo il proprio
cosmo. –“Anche senza le mie fruste, posso ancora combattere! Tentacoli predatori!!!” –Aggiunse,
scattando avanti, nonostante le grida di Alcione, mentre migliaia di strali
energetici saettavano di fronte a sé, diretti verso il Comandante dei Forcidi.
“Tutt’altro! Puoi solo sparire!” –Commentò questi, aumentando la forza
d’attrazione del buco nero che risucchiò per intero l’assalto del fedele di
Eracle, prima di attirare a sé anche l’incauto uomo.
“Gerione!!!” –Strillò Alcione, srotolando i tentacoli della piovra e afferrando
un polso del ragazzo, ancorandosi al suolo con le gambe. Ma per quanta forza
potesse riversare in quella presa, la donna capì ben presto che non sarebbe
riuscita a vincere quella del buco nero, non ottenendo altro risultato che
stiracchiare il corpo dell’amico, la cui armatura stava andando in frantumi,
sottoposta a tale devastante pressione, e forse anche le ossa al di sotto.
“A… Alcione… Lasciami andare…” –Mormorò, osservando negli occhi il suo
antico Comandante, la donna al cui fianco aveva a lungo combattuto per la
liberazione di Creta dai Turchi Ottomani, in giorni così lontani di cui pochi
avevano memoria.
“No… io… non posso perderti… di nuovo!” –Pianse l’eroina della Piovra, mentre
il buco nero si espandeva lungo il corpo di Gerione, risucchiandogli le gambe
per intero e iniziando a fagocitargli il bacino.
“Non mi perderai. Mai!” –Affermò lui, sollevando un braccio e
caricandolo di quel che restava della sua aura cosmica. –“A un’altra vita,
Alcione!” –Quindi, senza aggiungere altro, lo calò sul tentacolo arrotolato
attorno al suo polso, mandandolo in frantumi e permettendo infine alla forza
d’attrazione scatenata dal Forcide di risucchiarlo al suo interno. Ci volle un
attimo e poi scomparve, di fronte agli occhi sconvolti di Alcione, che crollò a
terra in lacrime. Ma non poté neppure piangerlo, che subito si sentì sollevare
dalla stessa forza che aveva inglobato Gerione, la cui fame ancora non si era
placata.
“Spregevole essere oscuro! Pagherai per ciò che hai fatto al mio amico
d’infanzia!” –Tuonò la combattente, espandendo il proprio cosmo azzurro,
incurante del dolore per le ferite e dello stordimento provocatogli dalle
malattie con cui l’Iku-Turso l’aveva infettata. Per quello, per quelle
sciocchezze materiali, ci sarebbe stato tempo. Adesso voleva solo la vendetta.
–“Alti flutti spumeggianti!!!”
–Gridò, scatenando poderosi marosi di energia, che riempirono all’istante lo
spazio tra i due contendenti, senza provocare reazione alcuna nel Primo
Forcide, solo l’allungarsi di un ghigno sul suo volto celato. Gli bastò roteare
la mano davanti a sé per espandere la macchia nera, in modo da generare un muro
contro cui l’attacco si schiantò, scomparendo al suo interno poco dopo,
precipitando in un vuoto di cui Alcione non riusciva a vedere, né intuire, la
fine. –“Ma… come puoi farlo?”
“Posso perché è nei miei poteri, in quelli della Dea Madre che esisteva
agli albori del mondo, e che io ho ricevuto in dono dal mio Signore!”
“Chi sei? Chi sei, davvero?!”
“Vuoi conoscere il mio nome, fanciulla dalle belle gambe? Orbene te lo
dirò, che ti faccia da compagnia nel lungo viaggio verso l’eterno oblio! Io
sono l’Abisso Oscuro, il vuoto cosmico che impera al di fuori del tempo e dello
spazio! Il Leviatano dell’antica Mesopotamia! Io sono Tiamat!!!”
***
Quando Asterios raggiunse il Palazzo di Corallo trovò una donna anziana
prostrata a terra, a pochi passi dal sostegno che sorreggeva la Perla dei Mari.
Bassa ed esile, così magra che le si potevano intravedere persino le ossa sotto
pelle, con radi capelli grigi che le cadevano in ogni direzione, la Alii
dell’Avaiki era appena stata sopraffatta da un oscuro potere che aveva vinto le
sue difese, distruggendo la barriera che sormontava la Conchiglia Meridionale.
“Ti ho lasciato da sola a sostenere un grande peso!” –Commentò l’Angelo
di Acqua, avvicinandosi a passo lento e sfiorandole le spalle con mano amica.
“Non è mai stato tale, né mai lo sarà. Dovresti ben saperlo, tu che
l’hai retto prima di me!” –Rispose la donna, rialzandosi a fatica.
Asterios ne osservò il volto, deturpato dal tempo e dalle privazioni
cui si era costretta, destinando per quasi due secoli tutto il suo cosmo alla
protezione dell’Avaiki sotto il Mar dei Coralli. Quello, del resto, era il
compito della grande Alii, la madre spirituale del popolo degli Aeroi, questo
era il motivo per cui venivano procreate. Per reggere i destini di un mondo,
nel bene e nel male.
“Adesso lo è diventato! Adesso che l’ombra ha allungato il proprio
manto persino sugli isolati fondali oceanici, non contenta di aver già
inquinato parte del mondo di superficie.”
“Sopra o sotto, che differenza fa? Non sono tutti i mondi forse uno
solo? I confini tra loro ormai sono scomparsi!” –Bofonchiò la vecchia,
scuotendo la testa. –“L’ho sentito, cosa credi, il crollo dell’Albero Cosmico,
l’avvizzirsi di un tempo giunto al tramonto! Per cui faremo la nostra parte,
anche noi Areoi, sebbene misere siano le nostre forze militari, essendo sempre
stati dediti ad altre attività che non la guerra!”
“Lo so bene, figlia mia!” –Le sorrise Asterios, fissandola a lungo e
allungando una mano, per sfiorarle la rugosa pelle del piccolo viso,
soffermandosi sulle cavità che un tempo ospitavano i suoi bulbi oculari.
“Non sono bella da vedersi, eh? Immagino che sulla Luna tu abbia goduto
di ben più piacevoli compagnie! Eh eh eh!” –Ridacchiò Hina, abbandonandosi ad
un colpo di tosse. –“Ma non rimpiango niente di quanto ho fatto finora, neppure
le rinunce che mi sono costate! Nemmeno gli occhi, che ho offerto in dono a
Ukupanipo, affinché li disperdesse nelle acque, permettendomi così di vedere in
tutto il mare grazie al cosmo! Nemmeno Odino o Zeus potevano permettersi tanto
dall’alto dei loro troni celesti!”
“Non avrei dovuto lasciarti da sola… Eppure…” –Asterios fece per
confessarle qualcosa ma l’anziana Alii lo bloccò.
“Ognuno ha un compito nell’universo, me lo spiegasti secoli fa, o l’hai
forse dimenticato, padre? Tu hai avuto il tuo, io il mio, e solo il tempo dirà
se lo abbiamo adempiuto nel migliore dei modi! Sono stanca, lo ammetto, e non
sopravvivrò a questa guerra… e forse non mi dispiace neppure tanto! Ho vissuto
così a lungo che non ricordo nemmeno quanti amici ho visto morire, a quanti affetti
ho dovuto dire addio. Puoi capirmi vero? Per te, per Avalon, per tutti voi, la
vita è stato qualcosa di simile, osservare le persone morire e voi perdurare.
Mi consola il pensiero che presto li rivedrò tutti e allora nuoteremo assieme,
spiriti finalmente liberi nella Perla dei Mari, guscio ove riposano le anime
degli Aeroi!”
“Spero che sia così.”
“Cosa intendi dire?” –Si rabbuiò subito la donna.
“È solo un’impressione, ma non posso fare a meno di interrogarmi sul
perché Caos abbia deciso di attaccare gli Avaiki! Per dominare su un regno
dimenticato e privo di ricchezze? O forse… per carpire l’unico vero tesoro di
questa terra?!”
“Intendi dire… la Perla dei Mari?!”
“Pensaci! Un contenitore di anime! Considerando quanto egli ami
nutrirsi di energia cosmica, degli Dei caduti in particolare, di certo
otterrebbe nuovo vigore, che è ciò di cui disperatamente ha bisogno! Non terre
da dominare o schiavi, potendo, per quello, disporre dell’intero pianeta!”
“Se quel che dici è vero, il mio impegno nell’impedire un simile
crimine, un simile scempio, sarà totale!” –Esclamò Hina, con ritrovato vigore,
prima di avvicinarsi alla sfera di luce azzurra ed entrare in sintonia con essa
tramite il cosmo. Asterios sorrise, ponendosi di fronte a lei, sull’altro lato
del basamento, sfiorandole le mani rugose ed espandendo il cosmo a sua volta.
Bastò quel lieve contatto, quello sfiorarsi tra le loro potenti energie, a
generare una luce celestiale che avvampò per l’intero Avaiki, rischiarando le
profondità oceaniche. Una luce che diede speranza a tutti coloro che
combattevano, arrancavano e pregavano Ukupanipo sotto le volte delle Conchiglie
ancora in piedi e che annientò le bestie mostruose che stavano tentando di
abbattere le pareti esterne.
Asterios non permise loro neppure di gridare, distruggendole e
liberando gli abissi da quella minaccia. Pur tuttavia, lo percepì chiaramente,
altre provenivano dall’interno ed una in particolare era ben più oscura di
quanto temesse.
“Che meraviglia!” –Commentò allora la voce soffice di Avatea, rimasta
sulla soglia della grande sala al centro del Palazzo di Corallo, assieme al
Selenite che l’aveva accompagnata. –“Avevo dimenticato lo splendore di questo
regno, la tranquillità e la bellezza di un fondale marino così ricco di vita e colori!”
Hubal, al suo fianco, la guardò in silenzio, annuendo alle sue parole,
prima che la donna si abbandonasse ad un sospiro. Volsero lo sguardo verso
l’esterno, verso le quattro strade che conducevano alle altre colonie,
chiedendosi da dove sarebbe giunta la prima minaccia. Entrambi percepivano gli
scontri in atto: uno nella Conchiglia Settentrionale, tra due combattenti di
discreta forza, uno sul ponte che dalla Conchiglia Occidentale conduceva al
cuore del regno, dove un’armata di Areoi stava cercando di frenare l’avanzata
di due Forcidi,e infine uno all’interno
di quell’ultima colonia. E fu quello che maggiormente spaventò entrambi, poiché
l’energia cosmica che da là proveniva rivaleggiava con quella di un Dio antico.
***
L’onda di energia oscura abbatté Alcione della Piovra, scagliandola
contro un mucchio di costruzioni di roccia e sabbia, con l’armatura distrutta
in più punti e la maschera ormai frantumata, permettendo al nemico di guardarla
negli occhi. Cosa che lei invece non era ancora riuscita a fare, incapace di
avvicinarsi a sufficienza per poter osservare il volto celato dalle placche
laterali dell’elmo di Tiamat.
“Incredibile…” –Mormorò la donna, rialzandosi nuovamente, tenendosi un
braccio indolenzito. –“Il suo cosmo è pari, se non superiore, a quello del
Sommo Eracle… Quale artificio sostiene i poteri di quest’uomo, perché tale in
fondo è? Quale patto ha stretto per poter disporre di una simile incomparabile
energia che a nessun mortale fu mai data in dono?”
“Questionare su problematiche che non ti riguardano non ti salverà
dalla fine, Alcione dalle belle gambe!” –Sogghignò il Primo Forcide,
avvicinandosi con passo fiero. –“Tanto più che adesso stai per morire, dedica
questi ultimi attimi della tua fallimentare esistenza a pregare per coloro che
rimangono, i prossimi a scivolare nell’abisso!”
“Taci, ombra!!! Esplosione dei
silenti abissi!!!” –Tuonò la donna, portando avanti il braccio destro e
scatenando il colpo segreto che le aveva insegnato il suo maestro, il grande
Linceo della Piovra. Ma, tremando inorridita, osservò come anche quella volta
il suo attacco risultò inefficace, perdendosi interamente all’interno della
chiazza di cosmo nero che stazionava di fronte a Tiamat. Un muro che le aveva
impedito di portare un colpo solo a segno. –“Anzi no, non un muro, bensì un
imbuto dentro cui sono confluite tutte le mie energie, le mie speranze…”
–Crollò esausta a terra, stringendo i pugni per la frustrazione.
Proprio in quel momento sentì esplodere un’energia a lei nota. Il cosmo
di Nesso del Pesce Soldato, fedele amico e impavido guerriero che in passato
aveva salvato Eracle e Tirinto da violenti nemici. E, al pari di lui, anche
altri stavano lottando, per tentare di rallentare l’avanzata dei fedeli di
Forco. Come poteva lei, un tempo Comandante di una delle Legioni di Eracle,
vittoriosa persino sulla Regina Didone, abbandonarsi così facilmente? Lei, che
più volte era stata protetta da Gerione, che più volte aveva sacrificato la
vita come un fratello maggiore, per permetterle di andare avanti. No, non lo farò! Non mi arrenderò mai!
Realizzò, rialzandosi decisa, con il cosmo azzurro che scrosciava attorno a
lei, sotto forma di maestose onde cristalline.
“Qualunque cosa tu voglia fare, deponi le armi e forse ti risparmierò
la vita! Avrò bisogno, in fondo, di qualche concubina nel nuovo mondo che il
mio Signore vuole creare!” –La stuzzicò il Primo Forcide, non ottenendo altra
risposta che il sollevarsi impetuoso di marosi di energia, che Alcione scagliò
contro di lui, riuscendo persino a stupirlo dalla potenza che dimostrò. Potenza
che comunque a niente servì.
“Hai avuto la tua occasione! Ora riposa, per sempre, nell’abisso
oscuro!” –Sibilò Tiamat, mentre il buco nero di fronte alla propria corazza
cresceva, inglobando l’intero assalto della guerriera e attirandola a sé,
nonostante i tentativi della donna di resistergli. A niente valse ancorarsi al
suolo con i tentacoli che le rimanevano, uno dopo l’altro vennero distrutti e
persino le ossa degli arti parvero schiantarsi con loro. Con un ultimo grido,
Alcione vide le proprie gambe confluire in quella macchia oscura senza fondo, e
scomparirvi, senza provare alcunché. Neppure dolore. Solo il vuoto, comprese,
la attendeva al di là della soglia.
Fu una luce a salvarla all’improvviso. Una luce blu che la avvolse, di
fronte allo sguardo sorpreso dello stesso Forcide, che vide la donna
smaterializzarsi e apparire a un centinaio di metri di distanza, sostenuta da
una seconda figura dal volto ricoperto da una candida maschera.
“Pasifae…” –Mormorò stanca Alcione, abbandonandosi tra le braccia
dell’esile compagna.
Tiamat si mosse verso di loro, ma non appena spostò un piede attorno a
sé sorsero centinaia di draghi dalle zanne acuminate, che lo intrappolarono in
una solida stretta, stritolandolo tra squame bianche e rosse, prima che una
nota voce lo raggiungesse.
“Danza di draghi!!!”
Una voce che non udiva da quindici anni.
L’attacco improvviso lo sollevò da terra, scaraventandolo contro una
parete interna della Conchiglia Occidentale, ma Tiamat riuscì comunque ad
atterrare a piedi uniti, senza riportare danno alcuno alla sua resistente
corazza, di certo la migliore tra le sette, irrobustita dal cosmo dell’oscuro
Dio cui era devoto. Quando alzò lo sguardo, vide l’uomo di fronte a sé, ancora
avvolto dall’aura intensa con cui l’aveva investito.
Eccolo lì, si disse, con un moto di stizza, finalmente arrivato. Fiero nel portamento,
gagliardo nel combattere, sprezzante del pericolo, con quello sguardo sicuro
che gli vidi l’ultima volta in faccia. Quella fiducia in se stesso che adesso
gli porterò via.
“Ascanio Pendragon…” –Mormorò, digrignando i denti.
“Come conosci il mio nome?!” –Rispose il Comandante dei Cavalieri delle
Stelle.
“Non sono così vecchio da essermelo dimenticato! Tutt’altro, me lo sono
tenuto bene impresso, per tutti questi anni, sperando di incontrarti di nuovo.
E ucciderti!”
“Eh? Che stai dicendo? Ci siamo già scontrati in passato?!”
“Scontrati?! Possiamo metterla così, se vuoi…” –Ghignò Tiamat,
espandendo il proprio cosmo oscuro e ricreando il buco nero davanti al suo
petto, la cui forza d’attrazione iniziò a richiamare Ascanio verso di sé.
“Aaargh!!!” –Ringhiò quest’ultimo, puntando i piedi per resistere.
“Allontanati!!!” –Gridò Alcione, dall’altro lato dello spiazzo, ben
sapendo quel che stava per accadere. Ci volle poco, infatti, affinché il
Cavaliere della Natura venisse trascinato avanti, scavando con i piedi
corazzati lunghi solchi nel terreno, ma per quanta energia profondesse allo
scopo non riuscì a vincere tale poderosa attrazione.
Fu di nuovo la luce azzurra a salvarlo, la stessa che aveva impedito ad
Alcione di esserne risucchiata. Veloce e silente, Pasifae apparve, afferrò
Ascanio e lo portò alle spalle del Primo Forcide, fuori dalla portata del buco
nero.
“Grazie…” –Ebbe solo il tempo di mormorare il Cavaliere delle Stelle,
che già Tiamat si era voltato rabbioso, travolgendo la paladina di Eracle con
un attacco deciso, che la scagliò molti metri addietro, la corazza sfondata
all’altezza del petto da un pugno di energia nera che ancora sfrigolava sopra
di lei.
“Mi sono stancato delle tue interferenze, donna!” –Sbraitò il Forcide,
rivolto anche ad Alcione. –“E ora che nessuno ci interrompa! Ascanio Pendragon
è mio!!!”
“Se così tanto reclami la mia compagnia, servo di Forco, te la darò!
Eccomi, sto arrivando!!!” –Ringhiò il giovane uomo, portando avanti il braccio
destro e liberando la maestosa figura di un drago rosso, i cui artigli parvero
mirare al cuore di Tiamat.
“Ti piacerebbe…” –Commentò questi, aprendo il palmo della mano di
fronte a sé e ricreando il buco nero dentro cui l’attacco confluì, perdendosi,
di fronte allo sguardo sbigottito di Ascanio. –“Cosa c’è? Sorpreso che esista
qualcuno più potente di te? è
così dura da ammettere, non essere il primo in qualcosa?! O forse sei
semplicemente affascinato dalla Bocca dell’Abisso, suprema tecnica di Tiamat,
in grado di combinare attacco e difesa, senza offrire scampo alcuno
all’avversario?!”
“Voglio sapere cos’è tutto quest’odio che provi verso me, che neppure
ti conosco?!”
Il Primo Forcide strinse i pugni al suono di quelle parole, muovendo
poi il braccio e scagliandogli contro un attacco di pura energia, come quello
che aveva steso Pasifae poco prima, ma ancora più potente. Per fronteggiarlo,
Ascanio dovette incrociare le braccia davanti al volto, concentrandovi tutto il
suo cosmo, ma neppure ciò gli impedì di essere spinto indietro, con i bracciali
della corazza danneggiati e fumanti dall’intensa pressione scaricata da Tiamat.
Che sia davvero lui? La
Divinità primordiale che ha dato origine alla Terra? Che Caos sia riuscito
anche in questo, a risvegliare antichi progenitori di pantheon diversi? Perché stupirsi,
in fondo? Se tutti gli Dei sono un unico Dio, egli può, dall’alto della sua
posizione di creatore, manovrarli tutti! Immerso in quei pensieri, il Comandante di Avalon si avvide troppo
tardi che Tiamat era scomparso, diluendosi in una sagoma nera, che in breve lo
avvolse, quasi navigasse nell’aria attorno a sé, volteggiandogli intorno,
osservandolo e al tempo stesso incutendogli timore.
“Rivelati, pavido!!!” –Gridò infine Ascanio, lanciandosi avanti, verso
la fluttuante sagoma oscura, con il pugno chiuso e carico di energia, ma
ritrovandosi solo a colpire l’aria, mentre già la nera evanescenza si
ricomponeva dietro di lui.
“Attento!!!” –Strillò allora Alcione, affannando nel rimettersi in
piedi, per correre in suo aiuto. Ma non fu lesta abbastanza da impedire a
Tiamat di afferrare il giovane per il collo, ricomparendo alle sue spalle, e
sbatterlo contro la parete interna della Conchiglia Occidentale, avvolto in
lunghi filamenti di tenebra che si avvoltolarono attorno al suo corpo,
insinuandosi nelle aperture tra le placche della sua corazza e raggiungendo la
pelle al di sotto, azzannandola con bramosia.
“Sei… meschino…” –Rantolò Ascanio, il volto una maschera di sudore.
–“Meschino e codardo… forse non sei in grado di affrontare uno scontro
diretto?!”
“Giudica tu quel che sono stato in grado di fare, dove sono stato in
grado di giungere, da quando mi abbandonasti sotto il sole di Grecia!” –Ringhiò
l’altro, avvicinando il volto a quello del Cavaliere, che ancora non riusciva a
vedere altro che tenebra sormontargli le labbra.
“Che… stai dicendo?!”
“La verità. Sei tu meschino e codardo, Ascanio. Su una bugia e su un
tradimento hai costruito la tua fortuna, abbandonando un amico, attratto dal
potere e dalla gloria, la stessa che avevi sempre cercato! Lo ricordo bene, il
tuo sguardo che si illuminava dopo una vittoria, ogni volta in cui mi sbattevi
a terra, cercando compiacimento nelle parole del maestro, negli sguardi dei
presenti, che potevano ammirare il grande Ascanio all’opera! Ti sei preso
tutto, affetti, gloria e trionfi, e non mi hai lasciato niente! Vuoi sapere
quanto ti odio? Vuoi vedere realmente quanto odio provo per te? Allora toglimi
l’elmo!!!”
“Che… cosa?!” –Rantolò il Cavaliere della Natura, sbattuto con forza
contro la parete retrostante e quasi soffocato dall’algida presa di Tiamat sul
suo collo.
“Fallo!!!” –Gli gridò questi di nuovo, costringendolo ad obbedire, ad
allungare la mano verso la sua testa e ad afferrargli l’elmo protettivo,
alzandoglielo di colpo.
Capitolo 20 *** Capitolo diciannovesimo: La marcia del titano. ***
CAPITOLO
DICIANNOVESIMO: LA MARCIA DEL TITANO.
Seduta sopra la Meridiana dello Zodiaco, Emera
osservava il Grande Tempio di Atene scivolare verso quella che riteneva la sua
ultima sera.
Il cuore del santuario era interamente occupato dalla smisurata figura
di Atlante, che lei e suo fratello avevano riportato in vita, su suggerimento
del Gran Maestro del Caos, in virtù delle abilità di cui il titano era dotato.
Una brutale forza fisica, nonché attitudine guerriera, accompagnata ad agilità,
intelletto e notevole potere cosmico, sebbene quest’ultimo fosse inferiore a
quello sfoderato ai tempi della Titanomachia, essendo stato barbaramente
condannato da Zeus ad una lunghissima massacrante dimenticanza sotto le sabbie
del deserto. Pur tuttavia il figlio di Giapeto si
stava comportando egregiamente, avendo già sconquassato una parte del complesso
templare, abbattendo mura e edifici e schiacciando sotto il suo corazzato
tallone chiunque avesse avuto l’ardire di avvicinarsi troppo a lui.
Come quegli stupidi Cavalieri
di Atena! E quella massa ignorante di anonimi soldati! Li derise la Dea del Giorno, osservando con
quanta costanza continuassero a scoccar frecce infuocate contro il titano; con
quanta fastidiosa ostinazione persistessero nel dirigergli contro attacchi
energetici di ogni sorta, non avendo ancora compreso di non possedere arma atta
a ferirlo.
Spostando lo sguardo sul versante del monte rivolto a sud, Emera vide una figura volteggiare a mezz’aria, avvolta in
un luccichio dorato. Uno dei due Cavalieri d’Oro che avevano issato quella
barriera protettiva sull’intero santuario, una difesa che sia lei che il
fratello avevano oltrepassato senza percepire alcun prurito sui loro corpi
perfetti e che avrebbe potuto abbattere in qualsiasi momento. Ma non lo fece, né
aveva voluto farlo Etere, preferendo osservare quanto ancora avrebbero
resistito quei due fanatici difensori di Atena, quanto a lungo credevano di
poter trattenere la furia smisurata di Atlante, ignorando di certo il desiderio
di vendetta che questi covava dentro e il potere che lo sorreggeva.
Infine Emera posò lo sguardo sulla vetta
della collina (che Atena, con vanaglorioso coraggio aveva definito della
Divinità, come se fosse degna di essere considerata tale, quell’ipocrita Dea
minore!), un ampio spazio pavimentato di marmo dove la figlia di Zeus si
opponeva a suo fratello, la Luce del Cielo, affiancata da un giovane uomo di
nome Nicole, che le aveva appena portato un oggetto di piccole dimensioni ma
carico di una potente energia. Un oggetto che si rivelò essere la gloriosa
armatura di Atena.
“Orbene, cosa pensi di fare con quella campana dorata indosso? Di certo
non ti aiuterà nei movimenti! Come potrai dunque evitare i miei attacchi?” –La
derise Etere.
“Vorrei che tu deponessi le armi, Signore della Luce, e ti unissi a me,
a mio Padre, a tutti gli Dei e gli uomini che combattono per impedire che la
Terra scivoli in una seconda oscurità, seconda solo a quella primordiale!”
–Perorò Atena, con voce sincera, strappando una nuova espressione sorpresa al
Nume ancestrale.
“Ribellarmi a Caos?! Abbandonare il progetto di riedificazione del
cosmo?! Perché mai dovrei farlo, Atena? Ti confermi una sciocca e ingenua
sentimentalista se pensi che potrei anche solo pensare di abiurare alla mia
essenza! Io sono Etere, il Portatore di Luce, e questo è il mio compito:
abbagliare il pianeta, dandogli un nuovo inizio!”
“Come puoi convivere con la Notte? I vostri progetti, i vostri stili di
vita, non sono opposti, Etere?! Tu sogni un mondo dominato dalla luce, lei
dalle tenebre infinite! Come potete conciliare le vostre visioni?!”
“Non hai capito, Atena, il progetto di Caos! Egli non desidera il
dominio sul pianeta, come Ade e altri nemici che hai affrontato in passato!
Egli desidera rifondare il mondo, ricominciare da zero, tramite un nuovo
processo di creazione! Ed io lo aiuterò, portando la luce nel mondo nuovo, come
mio padre Erebo porterà la tenebra, come mia sorella darà vita al Giorno e Nyx alla Notte, in un equilibrio perfetto!”
“E il fatto che questo nuovo mondo, che aspirate a creare, debba
nascere sulle macerie del vecchio non ti fa rabbrividire? Non inorridisci al
pensiero di condannare milioni, anzi miliardi, di esseri umani alla morte?
Assieme agli animali, le piante e a tutte le forme di vita del pianeta?!”
“Gli esseri umani si sono condannati da soli alla morte, ad essa
anelano ogni giorno, scatenando conflitti e guerre, ad ogni livello della loro
esistenza! Rivalità, invidie, segreti, insulti e macchinazioni sono solo il
prodromo degli scontri fisici, tra individui o società organizzate! Li ho
osservati a lungo, dall’intermundi, e ho compreso che la natura umana è incline
al conflitto, e quindi all’estinzione! Lord Caos ha sbagliato, creandoli, li ha
resi imperfetti, ma nel nuovo mondo non ci sarà spazio per creature di questo
tipo! Nel nuovo mondo vivranno solo entità perfette e immacolate!”
“Gli Dei…” –Comprese Atena, sgranando gli
occhi inorridita.
“Non tutti! Solo quelli che ne saranno degni!” –Concluse Etere. –“E tu,
fallace Dea, non sei tra questi!” –E le puntò contro l’indice destro, liberando
un raggio di luce, a cui Atena tentò di opporsi muovendo lesta l’Egida di
fronte a sé, ma venendo comunque spinta indietro, fino a sbattere contro una
colonna dell’ultimo tempio.
Nicole, al suo fianco, corse subito ad aiutarla, ma ad Etere bastò
porre lo sguardo su di lui per fermarne l’avanzata, paralizzandolo a mezz’aria,
come una statua di Fidia.
“Lascialo!” –Ordinò Atena, rimettendosi in piedi. –“È me che vuoi, lo
hai detto chiaramente! O forse ti impensierisce ciò che un Cavaliere potrebbe
fare?!”
A quelle parole il Nume supremo della Luce rise, con una voce
cristallina che quasi fece dimenticare ad Atena il loro breve scambio di
opinioni. Rise così tanto che gli lacrimarono gli occhi, cercando la sorella
con lo sguardo, per sincerarsi che anch’ella avesse udito le parole della
figlia di Zeus.
“Deliziosa fanciulla, troppo tempo hai trascorso tra gli uomini al
punto da obnubilare il tuo giudizio! Se ritieni possa esistere, in questo
santuario prossimo alla distruzione, una sola persona, un solo Cavaliere, come
li definisci, che possa impensierirmi, hai del tutto perso il senno! E se non
credi alle mie parole, osserva dunque l’impotenza dei tuoi paladini, osserva
quanto lentamente ma inesorabilmente si avvicinano alla fine di tutto, anche
delle loro sofferenze!” –Parlò Etere, liberando Nicole dalla sua presa mentale
e volgendo lo sguardo verso la parte bassa del Grande Tempio, dove lo scontro
con Atlante era in pieno svolgimento.
***
“Attenti!!!” –Gridò Nemes, balzando indietro
per evitare che un pezzo di roccia la investisse in pieno. Altri, alle sue
spalle, non furono così fortunati, finendo schiacciati da uno dei tanti massi
scagliati da Atlante. Reda ruzzolò di sotto dalla
scalinata di marmo, perdendo l’elmo della corazza, ma venendo subito aiutato
dal compagno a rimettersi in piedi.
Da quando Mur e Virgo
avevano innalzato la loro cupola protettiva, per impedirgli di avanzare lungo
la Collina della Divinità, il titano la stava bombardando con qualunque
materiale trovasse a disposizione, sradicando interi edifici dal suolo e
schiantandoli con forza erculea contro di essa. Più e più volte i soldati del
Grande Tempio lo avevano tempestato di frecce, non ottenendo altro risultato
che correre per evitare il rinculo delle stesse. Ma adesso la furia del figlio
di Giapeto sembrava aumentata, al punto che i
Cavalieri d’Oro compresero che continuare a frenarlo non sarebbe servito a
niente. No, dovevano abbatterlo, come Zeus aveva fatto nel Mondo Antico, per
proteggere il Santuario di Atena e coloro che vi dimoravano.
“Abbandono dell’Oriente!!!”
–Esclamò Virgo, spalancando gli occhi e rilasciando
l’energia accumulata in quei minuti di meditazione. –“Onda di luce stellare!!!” –Gli fece eco Mur
dal basso, dirigendo l’assalto, al pari del compagno, verso un fianco del
titano, dove entrambi avevano notato un’apertura nella rozza corazza. Ma, per
quanto congiunto e ben mirato, l’assalto non produsse alcun risultato, soltanto
un baluginio sul massiccio corpo di Atlante, che attirò la loro attenzione
prima che si spegnesse.
“Incredibile!!!” –Rifletté il protettore della Casa dell’Ariete.
–“Avevo finora creduto che gli attacchi dei soldati e dei Cavalieri di Bronzo
fossero per lui misera cosa, ma questo colpo congiunto avrebbe dovuto
quantomeno indispettirlo, se non ferirlo!”
“Grande Mur! Cosa possiamo fare?!”
–Esclamarono Castalia e Asher, ricomparendo accanto
all’uomo, malconci e storditi per essere stati travolti da Etere. –“Siamo
stretti tra due fuochi! Dovremmo riuscire a spegnerne almeno uno!”
“Non dovremmo! Dobbiamo!” –Precisò Virgo,
liberando un nuovo ventaglio di energia dorata, mirando quella volta al volto
del titano, agli occhi in particolare, che non erano protetti dall’elmo a
casco. Atlante finalmente reagì, ma fu solo per ripararsi dall’improvviso
lucore, alzando un braccio di fronte a sé, non per il dolore che l’esposizione
a tale intensa luce avrebbe dovuto accompagnare.
Non ebbe il tempo il Cavaliere della Vergine di riflettere
ulteriormente che la carica furiosa del titano lo investì. Qualcosa lo aveva
eccitato, portandolo a tempestare di pugni la cupola dorata, uno dopo l’altro,
finché alla fine essa non cedette. Con uno schianto improvviso, il Custode
della Porta Eterna venne spinto indietro, precipitando con poca grazia sul
tetto della Casa dell’Ariete, mentre anche il suolo tremava ovunque e molti
soldati e Cavalieri cadevano a terra.
“No!!!” –Gridò Asher, osservando
l’espressione di giubilo sorta sul volto del titano, consapevole adesso di non
avere più ostacoli sul suo cammino. –“Fate qualcosa! Fermatelo!!! Non so come
ma dobbiamo fermarlo!!!” –Strillò, scagliandogli contro un pugno energetico,
subito imitato da Mur, Castalia e dagli altri
Cavalieri di Atena. Ma, come in precedenza, Atlante non prestò loro caso,
lasciando che quelle irrilevanti onde si schiantassero sullo scoglio
rappresentato dal suo corpo, sollevando una gamba e muovendosi per avanzare,
schiacciando, abbattendo, quasi livellando, la parte bassa della Collina della
Divinità.
Furono tre parole e un’onda di energia a pararsi di fronte a lui,
accecandolo all’improvviso. –“Abbandono
dell’Oriente!!!” –Esclamò una voce, mentre una serie di flash luminosi lo
stordiva, impedendogli di completare il movimento della gamba, che rimase per un
momento a mezz’altezza.
“Adesso!!! Tiratelo giù, adesso!!!” –Ordinò Mur,
mentre i soldati lanciavano arpioni e corde uncinate contro la schiena del
gigante, subito imitati da Reda e Salzius,
che allungarono le loro catene, arrotolandole attorno al suo calcagno destro,
strattonando a più non posso. Anche Nemes li
affiancò, aiutando Salzius nel tirare, mentre Asher, Castalia e Mur colpivano
dal davanti con i loro attacchi energetici, per spingerlo indietro.
“Sciocchi illusi!” –Commentò allora una voce di donna, prima che
un’esplosione di luce gettasse tutti all’indietro, a gambe all’aria.
Un’esplosione prorotta proprio dal gigantesco corpo di Atlante, che riuscì a
recuperare la propria postura eretta, con gran sgomento dei fedeli di Atena.
Fu allora che Mur si accorse che l’uomo
sospeso in cielo, in posizione meditativa, non era Virgo,
che era ancora sul tetto della Casa di Ariete, intento a tenersi la testa
dolorante, bensì un guerriero dai lunghi capelli neri, rivestito da una corazza
violacea. Quasi avesse capito di essere osservato, l’uomo distese le gambe,
scivolando placido nell’aria, fino a portarsi davanti ai combattenti di Atena.
“Il mio nome è Tiresia
dell’Altare Sacro e sono uno dei dodici Heroes della
Legione dei Migliori! Se permettete, vorrei unirmi a voi, Cavalieri di Atena!”
–Esclamò con voce garbata. –“Sono stato addestrato da un Cavaliere d’Oro, del
segno della Vergine, e assieme, nelle nostre lunghe meditazioni, tentavamo di
comprendere quale fosse il senso della vita, tentavamo di dirimere una così semplice
risposta. Troppo tardi entrambi lo abbiamo compreso e poiché adesso mi è stata
data una seconda opportunità, posso anelare a ricominciare da dove ero rimasto!”
“La tua presenza è ben gradita e corroborante, nobile
guerriero di Eracle!” –Rispose allora Mur, prima che
anche Virgo li raggiungesse, scambiando un sorriso
con l’allievo di un suo predecessore. –“In particolare apprezzeremmo
suggerimenti su come frenarne l’avanzata!”
“Credo di aver notato una cosa! Quel lampo di luce
residua che permane sul suo corpo dopo aver subito un attacco! Lo avrete
certamente visto anche voi, non è così?!” –Parlò Tiresia,
cui Mur, Virgo e Castalia
annuirono, sebbene nessuno di loro avesse ancora capito cosa fosse. –“Temo sia
una barriera di cosmo che lo cinge, una barriera che al pari del Kaan o del Muro di Cristallo impedisce a qualsiasi attacco
o anche solo oggetto di raggiungerlo! Una seconda pelle di pura energia che lo
rende intoccabile, inavvicinabile e invincibile!”
“Una barriera di questo tipo deve essere dispendiosa
da elevare! E finora Atlante non ha dimostrato di possedere alcun tipo di
cosmo, eccezion fatta per quest’ultima esplosione di luce!” –Precisò Mur, per poi aggiungere pensoso. –“E per quella voce di
donna che ho udito! Che abbiamo tutti udito! Direttamente nella mente!”
“Donna?!” –Rifletté Tiresia,
volgendo lo sguardo oltre i compagni, oltre la parete rocciosa che chiudeva a
destra il Tempio dell’Ariete, alzandolo fino alla cima della Meridiana dello
Zodiaco, dove una figura di bianco vestita aspettava, osservando lo svolgersi
dei combattimenti. –“È lei! Lei che lo protegge e lo ha reso invincibile!”
“Una delle due Divinità che hanno attaccato Atena!”
–Commentò Mur.
“Per la verità… è stata lei
ad attaccare noi!” –Esclamò all’improvviso una voce di donna, sorprendendo
tutti i presenti, che di nuovo volsero lo sguardo verso l’orologio a fiaccole,
sulla cui cima ancora la bianca figura sedeva. La stessa figura che, al qual
tempo, apparve dinanzi a loro, permettendo ai presenti di osservarla in volto.
Era una donna di corporatura esile, un viso delicato e
sereno, contornato da una cornice di riccioli d’oro. Indossava soltanto
semplici abiti bianchi, stretti in vita, ornati da decorazioni dorate: un sole
e una scritta in greco che ne indicava il nome.
Ἡμερα
“Emera…” –Ripeté Mur,
arretrando istintivamente di un passo, al pari di Asher,
Castalia e Tiresia. Solo Virgo
rimase impassibile, scrutandola con magnetici occhi azzurri.
“Dunque siete voi la Dea del Giorno, colei che nel Mondo Antico si
alternava assieme a Nyx per strutturare la vita degli
uomini, donando loro ore di luce, per il lavoro, e di notte, per il riposo!”
“Questo è il mio ruolo!” –Confermò l’ancestrale Nume. –“E quella che
state ammirando, là in alto sulla meridiana, è solo la mia immagine residua! In
verità è da qualche minuto che vi osservo, ammirata dal vostro disperato ma
imperterrito agire, e mi chiedo: perché? A che giova tutta questa fatica contro
un avversario al di là delle vostre possibilità? Poiché lo sapete, ne sono
certa, che Atlante non è nemico che possa essere vinto da qualcuno di voi,
nemmeno da voi tutti assieme. Di certo sarete a conoscenza del fatto che
persino Zeus dovette faticare per piegarlo e vi riuscì solo al termine di un
sanguinoso conflitto! Volete dunque paragonarvi al Cronide?”
“Non è nostra intenzione una simile blasfemia, Signora del Giorno!” –Parlò Virgo con voce pacata. –“Tuttavia è nostro dovere di
Cavalieri, e prima ancora di uomini, combattere con tutte le forze di cui
disponiamo per la Dea a cui siamo devoti, la Dea di cui condividiamo gli
ideali, affinché ella possa guidarci ancora e aiutarci a salvare gli uomini
nostri fratelli!”
“Parole simili a quelle che Atena mi ha rivolto poc’anzi! Parole che
non comprendo! Forse voi Cavalieri non vi accorgete dei difetti della vostra
razza? Dei delitti, delle sopraffazioni dei popoli che ogni giorno hanno luogo?
È quella la razza che volete difendere, apocrifa, malvagia, irrispettosa verso
gli Dei e verso il prossimo suo? Combattete battaglie perse in partenza,
giovani uomini!” –Sospirò Emera, scostando lo
sguardo. –“Avete comunque visto bene, Atlante è cinto da una sottile barriera
energetica, da me innalzata, per permettergli di recuperare le forze! Ma poiché
ritengo che adesso possa essersi sufficientemente ristorato, la toglierò! Non
so dirvi se sia meglio o peggio per voi, perché adesso affronterete la furia
del leggendario titano, colui che avanzò verso la cima dell’Olimpo scagliando
massi e sradicando alberi e templi! Continuate pure a lottare, se è questo che
volete! Continuate pure a sprecare forze e vita, in fondo il destino di tutti
voi è già scritto! Atlante vi annienterà e io assisterò alla caduta vostra e
degli ideali che con poca forza vi sostengono!” –Concluse Emera,
scivolando di nuovo nell’imbrunire e tornando a sedersi in cima alla Meridiana
dello Zodiaco. Se ne avesse conosciuto la storia, magari avrebbe riacceso le
dodici fiaccole, per scandire il tempo che, a suo avviso, ancora mancava alla
scomparsa dell’umanità. Il tempo che separava tutti loro dall’avvento del caos.
I Cavalieri di Atena e Tiresia rimasero
interdetti da quella figura, nei cui occhi non pareva esservi traccia di
malvagità o odio, come invece avevano rimirato in nemici affrontati in
precedenza. Tutt’altro, Emera parlava con
spontaneità, come se la fine del mondo e del genere umano non suscitassero in
lei alcuna reazione, alcun sentimento, come se fossero ineluttabili. Non ebbero
tempo di riflettere ulteriormente, né di scambiare altre parole con l’ermetica
Dea, che già Atlante tornò a ruggire, rimasto silente e remissivo in quei brevi
minuti di dialogo con Emera.
Adesso tutti poterono vedere chiaramente la violacea aura cosmica che
lo rivestiva. Un’aura che concentrò ratto attorno al pugno destro, prima di
calarlo con violenza contro un picco sporgente, disintegrandolo e scagliando
ovunque frammenti di roccia. Molti soldati vennero travolti e altri che
affannavano nel fuggire furono raggiunti dall’onda di pressione energetica che
diresse loro contro, semplicemente aprendo il palmo della mano e schiacciandoli
a terra, proni e vinti.
“Dobbiamo intervenire, o li annienterà!” –Incalzò Asher,
volgendosi verso Mur e Virgo,
quasi invocando un loro divino intervento.
“Adesso che è privo della barriera che lo attorniava, dovremmo essere
in grado di colpirlo!” –Commentò il primo. –“Sebbene il suo ridestato cosmo ci
terrà a distanza!”
“Pensate a un modo per colpirlo, un colpo unico ed efficace! Io vi
offrirò quella possibilità!” –Spiegò allora Virgo,
prima di sollevarsi in aria con i suoi poteri, avvolgendosi nel suo cosmo
dorato.
“Cavaliere!!! Non gettare via la vita! Ricorda il Muro del Pianto!
Vincemmo perché eravamo uniti, non martiri solitari cui la vita ben poco
caleva!” –Lo richiamò Mur a gran voce, ottenendo in
risposta solo un placido sorriso.
“Tutto è per Atena!”
Asher, intanto, era corso ai piedi della scalinata che conduceva al Primo
Tempio, vociando a Reda, Salzius,
Nemes e Patrizio di radunare quanti più soldati
riuscissero, in modo da formare un’unica legione pronta a scoccare le sue
frecce infuocate. Fu in quel momento che Atlante si chinò su di loro,
spalancando il palmo della mano e pressandoli al suolo. Anche l’Unicorno venne
raggiunto da quell’onda di energia e non fosse stato per un’agile figura, balzata
svelta su di lui, sarebbe stato disintegrato al pari di altri soldati.
“Stai bene, Asher?” –Mormorò una donna dai
capelli rosa, depositandolo a distanza di sicurezza.
“Uh… sì, grazie!” –Rispose confuso lui, osservando la
maschera inespressiva che le copriva il volto e l’armatura che indossava, di
cui non riconosceva il simbolo. Poi ricordò quel che Castalia gli aveva
riferito poche ore prima e convenne che doveva trattarsi della Sacerdotessa
della Poppa. –“Kama, vero?!”
La donna annuì, rimettendosi in piedi, proprio mentre Patrizio ordinava
ai soldati attorno di incoccare nuove frecce incendiarie e Mur,
Tiresia e Castalia scagliavano i loro colpi segreti
dal piazzale della Prima Casa.
“Così non funziona!” –Analizzò il ragazzo, attirando l’attenzione del
Cavaliere della Poppa. –“Le nostre tecniche intendo! Non sono ben concentrati!
Sia Mur che Castalia scagliano attacchi ad ampio
raggio, uguale fa Tiresia, che pare avere colpi
simili a quelli di Virgo! Avremmo bisogno di un colpo
unico, come la freccia di Sagitter, in grado di
catalizzare tutte le nostre energie, anziché disperderle! Sarebbe più facile
ferirlo!”
“Una disamina attenta! Complimenti!” –Confermò lei. –“Regor ti ha ben addestrato!”
“Conoscevi il mio maestro?!”
“Molto bene. E aveva una grande stima di te!” –Gli disse con voce
vellutata, prima di incitarlo a raggiungere gli altri e a proporre loro il suo
piano d’attacco.
“È una follia!” –Esclamò Castalia, temendo per il ragazzo.
“Non più di quando Pegasus si lanciò contro la Colonna Portante!”
–Rispose Asher, cercando l’approvazione del Grande Mur, che esitò ancora un istante prima di annuire, dando
ragione all’Unicorno, riconoscendo quanto fosse maturato nell’ultimo anno.
Certo, era sempre stato un fedele sostenitore di Atena, anche prima di
scoprirne la natura divina, ma col tempo aveva acquisito una maggior
consapevolezza di sé.
“Potrebbe essere la nostra unica occasione! Sei pronto, ragazzo? Ne sei
davvero sicuro?”
“Come sicuri si può essere quando si affronta un Dio!”
Mur accennò un sorriso, avvisando telepaticamente Virgo
del loro progetto, prima di radunare tutti i Cavalieri superstiti, chiedendo
loro il massimo contributo possibile. –“Anche la più piccola stilla di energia
farà la differenza!”
Reda, Salzius, Nemes,
Kama, Asher, Castalia, Tiresia
annuirono, per poi bruciare i loro cosmi, portandoli a vette cui mai erano
giunti prima, in un arcobaleno di colori che rischiarò il pomeriggio di Atene,
stupendo persino la stessa Emera. Per primi
attaccarono i soldati, sotto gli ordini dell’alacre Patrizio, che investirono
Atlante da ogni direzione, cercando sempre di tenersi a distanza di sicurezza.
Subito dopo fu il turno del Cavaliere di Virgo che,
in aria di fronte al titano, liberò un ventaglio di energia dorata diretto
verso il volto nemico, per accecarlo e distrarlo. Quindi, non pago, il Custode
della Sesta Casa moltiplicò la propria immagine in numerose copie che apparvero
attorno alla testa di Atlante, luccicando e lampeggiando, stordendolo a
sufficienza da non rendersi conto di quel che stava accadendo sotto di lui.
“Ora, Cavalieri!!! Uniamo i nostri cosmi, fino all’ultimo afflato di
vita! Per Atena!!!” –Imperò il Grande Mur, la cui
aura cosmica prese la forma di uno splendente ariete dorato, a cui subito si
unirono l’Aquila, la Poppa, il Camaleonte, il Pastore, Cassiopea e l’Altare
sacro a Eracle. Davanti a tutti, trascinato da quella iridescente corrente di
energia, stava ritto Asher, con le braccia unite
sopra la testa, tese verso il fianco dell’avversario, avvolto in uno sfavillio
di luci che assunse la forma di un punteruolo argenteo. –“Fa’ attenzione,
ragazzo!” –Pregò il difensore della Prima Casa, mentre il Cavaliere di Bronzo,
sospinto dai cosmi amici, superava le difese del titano, piantandosi in un
fianco scoperto, dove le placche dell’armatura non lo proteggevano.
Atlante emise all’istante un urlo agghiacciante e gutturale simile a
strida infernali, agitandosi furioso, muovendo le braccia in ogni direzione,
alzando e abbassando le robuste gambe, distruggendo ogni cosa o persona attorno
a lui. Persino Virgo venne raggiunto da un’onda
energetica e spinto indietro, costringendosi a planare sul tetto della Prima
Casa per recuperare energie. Asher venne afferrato in
malo modo, stretto nel pugno, stritolato e poi scagliato a terra, contro la
calca di soldati che correvano ovunque, disperdendosi per evitare gli affondi
energetici della progenie di Giapeto.
“Riuniamoci!!!” –Gridò allora Mur,
richiamando tutti i Cavalieri e i guerrieri che riuscì a radunare in fretta,
mentre sforzava oltremodo il cosmo per generare un muro difensivo. Tiresia si unì subito a lui, unendo le dita delle mani e
creando una cupola di energia, a cui andò a sommarsi il potere di Virgo, che li raggiunse poco dopo. Castalia fece appena in
tempo ad afferrare Reda e Salzius
e a portarli dietro la barriera che l’onda di Atlante si abbatté sulla
scalinata del Grande Tempio, con una foga mai scatenata prima. L’antico marmo
andò in frantumi, le pareti di roccia crollarono, persino numerose colonne e
architravi della Prima Casa si spezzarono, ma i Cavalieri parvero resistere,
concentrati nell’infondere alla cupola protettiva ogni stilla del loro cosmo.
“Ora basta!” –Risuonò allora una voce maschile, soave ma ferma al tempo
stesso. Fu un attimo e la barriera andò in frantumi e gli ultimi difensori del
Grande Tempio vennero scagliati contro le rocce circostanti, schiantandosi e
mescolandosi assieme ai detriti di un mondo prossimo al tramonto.
Così Etere aveva deciso.
***
L’Altura delle Stelle sorgeva a pochi chilometri di distanza dalle
Dodici Case, isolata dal resto del Grande Tempio dalla sua particolare
conformazione fisica. Un unico erto pinnacolo che si innalzava verso il cielo,
in cima al quale gli antichi Grandi Sacerdoti avevano costruito un osservatorio
per la lettura degli astri. Matthew ne aveva sentito parlare spesso, quando era
un apprendista e si allenava sotto l’attento, e mai soddisfatto, sguardo del
Cavaliere di Gemini, sebbene mai vi si fosse recato, essendo un luogo riservato
all’Oracolo della Dea.
“Se ad Atene vi è un portale dimensionale, quello di certo è qua,
nell’abaton del Grande Tempio!” –Spiegò il Cavaliere dell’Arcobaleno,
raggiungendone la base assieme ad Elanor. –“Da quel che Avalon mi spiegò,
riguardo a questi varchi, furono creati dagli antichi saggi, proprio i sette
che forgiarono i nostri talismani, uno in ogni luogo di culto ove dimorarono,
per portare il loro messaggio di pace e di fratellanza!”
“Dunque ritieni che il primo oracolo di Atena fosse uno dei Sette?”
–Sgranò gli occhi la ragazza, mentre il compagno scrollava le spalle, non
sapendo darle una risposta.
“Questa era una delle tante teorie di Avalon a cui non ha mai saputo dare
risposta! Ma il mio maestro, il maestro di noi tutti Cavalieri delle Stelle,
amava porsi continue domande, mettendo sempre in gioco ogni certezza!” –Rispose
Matthew, tirando uno sguardo verso la cima dell’alto colle, cercando di non
prestare orecchio agli scontri che stavano avendo luogo presso il cuore del
Santuario, scontri a cui avrebbero dovuto partecipare. –“Vuoi ancora farlo?”
“Io… devo farlo! Non posso abbandonare mia
madre! Devo sapere che sta bene, che quest’ansia che mi ha invaso, prostrandomi
a terra, è solo suggestione per l’ultima guerra, niente di più! Io… glielo devo!”
Matthew annuì, comprendendo le sue motivazioni, così bruciò il cosmo,
lasciando che i sette cristalli della sua cintura scintillassero, generando un
tappeto di energia colorata su cui montò all’istante, prendendo Elanor per mano
e portandola con sé. In un attimo la scia energetica avvolse l’Altura delle
Stelle, turbinando attorno ad essa in una spirale di colori, fino a raggiungere
la sommità, ove scomparve, depositando i due Cavalieri delle Stelle di fronte
all’ingresso dell’antico tempio.
“Non ci vorrà molto per esplorarlo, come vedi è molto piccolo,
destinato solamente ad ospitare l’officiante di Atena quando doveva scrutare le
stelle!”
“Scrutare le stelle…” –Rifletté la ragazza,
seguendo Matthew all’interno del tempietto. –“Perché? Forse per controllare i
moti degli astri, il loro allineamento, il ricrearsi di una determinata
configurazione astrale?”
“È possibile! Le stelle hanno dominato la vita degli uomini per molto
tempo! Ad esse popoli di credi diversi si sono affidati, per cercare affanno
dai turbamenti della vita, per implorare gli Dei che inviassero un cenno
tangibile della loro esistenza o anche solo per guardare oltre, verso altri
mondi!” –Commentò il biondino, iniziando a controllare i muri, i pavimenti, i
pochi arredi dell’antico osservatorio, alla ricerca di un indizio sulla
presenza del portale. –“Secondo le Cronache redatte da Avalon, e che ho
sommariamente sfogliato, o forse dovrei dire fiaccamente, dopo la sconfitta di
Caos i Sette si divisero, decisi a diffondere in ogni angolo del mondo le loro conoscenze,
per aiutare l’umanità a progredire, diversificandosi ma al tempo stesso
rimanendo unita, nella prospettiva di un ritorno dell’oscurità. Vasteras divenne Consigliere di Zeus, Elmas lo fu di
Nettuno, ma entrambi incorsero in un tragico destino, morendo il primo durante
la Titanomachia, il secondo durante l’affondamento di Atlantide. Menara morì per le ferite riportate nello scontro con Caos,
Tegel si fermò nell’isola che poi divenne Avalon,
mentre Galen raggiunse l’Egitto, ove fondò, curò e
difese fino alla morte la Biblioteca di Alessandria! Antalya
diede vita alla Colonia di Mu, magnifica e prospera
isola nel Pacifico, ma di Kloten si persero le
tracce. Per molto tempo l’Antico credette che,
bisognoso di riposo, avesse cercato un posto dove morire, come il compagno Menara, ma Avalon non lo credeva. E sospetto avesse
ragione!” –Chiosò, muovendo il piede sul pavimento, per spazzar via strati di
polvere e mostrare ad Elanor quel che aveva intravisto.
Al centro del tempietto, scolpiti nel vetusto marmo, vi erano dei segni
che entrambi riconobbero all’istante. Un cerchio perfetto, dentro il quale
erano scolpiti due bracci incrociati tra loro, a formare una croce, il cui
centro era lo stesso del cerchio.
“Una croce celtica.” –La riconobbe Elanor. –“Lo stesso disegno inciso
sul mio scudo!!!”
“Un simbolo antico e molto potente! Avalon mi raccontò che i druidi lo
ritenevano un tramite tra il mondo terreno e quello celeste. Quale che sia la
verità sulla sua origine, di certo ha per noi un significato pratico, sempre
che riusciamo a farlo funzionare!”
“Non sarà difficile! Io… ce la farò!”
–Mormorò la ragazza, radunando il proprio cosmo. Socchiuse gli occhi,
inspirando ritmicamente, mentre un vento improvviso si sollevò, scuotendo
polvere ferma da millenni e facendola danzare davanti agli occhi stupefatti di
Matthew, che vide, dopo pochi attimi, una flebile luce accendersi nelle
scanalature del marmo. Una luce che presto percorse l’intera superficie del
portale.
“Elanor!!! Aspetta!!! Come farai a muoverti? Jonathan una volta mi
disse che varcare la soglia dello spaziotempo è come fare un salto nel buio!
Puoi rischiare di perderti, non vedendo la strada, e smarrirti nel nulla, e in
tal caso nessuno potrebbe riportarti indietro poiché nessuno saprebbe dove sei!”
“Il cosmo di mia madre mi guiderà! Lo sento!”
“In tal caso, io sarò il tuo faro per tornare!” –Esclamò lui,
raggiungendola al centro della croce e strappandole un sorriso. –“Non ti
lascerò da sola!” –Portarono i loro cosmi in sincronia, prendendosi per mano, e
poi scomparvero.
Ate era stupita, sinceramente stupita, dalla richiesta di Phoenix. Cosa
voleva ottenere, suicidandosi? Credeva forse che vedendo il corpo massacrato
del fratello, Andromeda sarebbe stato libero dal suo influsso? Impossibile,
poiché ormai l’ombra doveva avergli divorato l’anima, espandendosi maligna sul
corpo che da ore era a stretto contatto con l’armatura da lei infettata.
Sogghignò, ripensando alla perfezione di un piano geniale, concordato con Nyx e il Gran Maestro del Caos giorni addietro.
Proprio questi aveva suggerito alla Dea dell’Inganno di sostituirsi a
Demetra, un’operazione semplicissima, a detta sua, in virtù della somiglianza
delle due donne, che avrebbe permesso a Ate di usare
una minima dose di cosmo per modificare i propri lineamenti, e dell’ingenuità
della Signora delle Messi. Era stato facile infatti, per la figlia di
Discordia, attirarla fuori dai confini dell’Olimpo, dove l’ormai stanco occhio
di Zeus non giungeva più; era bastato, in fondo, massacrare i genitori di Nikolaos, cui la Dea era molto legata. Sopraffatta dal
dolore e dal senso di colpa dovuto alla propria impotenza, Demetra era stata
vinta rapidamente da Nyx e da Ate,
che aveva preso il suo posto agli occhi di tutti, persino di Zeus. Un inganno che
il Maestro del Caos non ebbe pudicizia di definire magistrale.
Forse, un tempo, quando il mondo era giovane ed egli del pari, il
Signore del Fulmine avrebbe subodorato la trappola ma adesso, provato dai lutti
e sopraffatto dal timore dell’ultima guerra, era soltanto un re troppo cieco da
non vedere più in là della propria corona, da non vedere il regno su cui
imperava scomparire nell’ombra.
“Uccidimi, fratello!” –Ripeté la voce di Phoenix, suonando alle
orecchie della Dea come un’accorata richiesta, quasi una supplica.
“A che gioco perverso stai giocando, Fenice?!” –Domandò, avvicinandosi
al ragazzo intrappolato.
“Sto solo restituendo un vecchio favore a mio fratello!” –Commentò
questi, senza togliere lo sguardo dagli occhi di Andromeda, deciso a penetrare
nel suo animo. Era, in fondo, quello che faceva con tutti i suoi nemici,
sfruttando le loro debolezze e distorcendole in paure, ma in cui adesso avrebbe
dovuto riuscire senza ricorrere al Fantasma
Diabolico. –“Andromeda, mi senti? So che ci sei ancora, dietro quella
maschera di odio che Ate ti ha versato addosso!
Ricordi quando venisti alla Roccia del Leone? Ricordi la prima battaglia contro
i Cavalieri Neri? Ti inginocchiasti e mi offristi la tua vita, per mettere fine
a quello scontro fratricida e salvare così i tuoi amici! Ricordi, Andromeda,
quant’era puro e generoso il tuo cuore?”
“Fiato sprecato, Cavaliere di Atena! La notte è calata sui ricordi di
tuo fratello, cancellandoli completamente, assieme ai suoi sogni, alle sue
speranze, ai suoi ideali. Egli adesso è una creatura delle tenebre e nel
glorioso esercito di Caos combatterà!” –Sibilò Ate,
mentre Andromeda aumentava la stretta mortale sulla catena, ormai interamente
rivestita di scariche di energia. –“Uccidilo, coraggio! Poni fine alla sua
misera vita! Che mia madre e i miei fratelli e sorelle siano vendicati!!!”
“Puoi spezzarmi, puoi ferirmi, puoi umiliarmi, Ate.
Ma mai, neanche per un istante, mi vincerai!” –Ringhiò Phoenix, il volto
lacerato dalle scintille sprigionate dall’arma che lo avvolgeva. Quindi,
lottando strenuamente, riuscì a mettersi di lato, levando la testa verso il
fratello e continuando a rivolgersi a lui. –“Ricorda i giorni dell’odio,
Andromeda, quando ero posseduto dalla rabbia, divorato dal rimorso per aver
causato la morte di Esmeralda, ignaro delle trame che Issione
aveva costruito per me, per mano del mio maestro! Ero un mostro, non poi così
diverso da come Ate vorrebbe che tu adesso divenissi,
pur tuttavia continuasti a credere in me, convinto che dietro quello strato di
tenebra che mi lordava il volto e l’anima esistesse ancora il fratello che
amavi, il generoso fratello che si era sacrificato al posto tuo, scegliendo
l’inferno della Regina Nera anziché quello dell’isola di Andromeda! Credesti in
me e ti immolasti per salvarmi, per purificare la mia anima! Io non ho paura di
fare altrettanto! Ti sono debitore, Andromeda, per il ragazzo che hai
risvegliato, per l’uomo che sono diventato! Perciò uccidimi fratello, se ciò
servirà a darti pace e a liberarti dal tormento che Ate
ti ha imposto!”
“Se così tanto invochi la morte Phoenix, Andromeda te la darà! Sì,
morirai ora!!!” –Avvampò Ate, il cui cosmo ormai si
era fuso con quello del Cavaliere di Atena, mescolandosi assieme, due ombre
dalla stessa fragranza.
“Resisti!!!” –Gridò allora una voce femminile, costringendo Phoenix a
gettare uno sguardo verso Themiskyra, fuori dalle cui
mura Pentesilea si ergeva, debole e ferita.
–“Combatti, come l’uomo di cui Ippolita si
innamorò!!!”
Il ragazzo avrebbe voluto ringraziarla per l’incitamento e la fiducia
che riponeva in lui, ma rimase in silenzio, a resistere alle folgori del
fratello. Non paga, l’ardimentosa condottiera afferrò una freccia dalla propria
faretra, incoccandola e puntandola verso Andromeda, caricandola di tutto il
cosmo che fu capace di generare. Ate, accanto al
Cavaliere di Atena, rise di quel patetico tentativo, senza neppure curarsi di
abbatterla. La lasciò fare, lasciò che tendesse l’arco, godendo del dolore che
Andromeda stava infliggendo al fratello, il cui volto ormai era rovinato da
profonde ustioni. Ghignando soddisfatta, pensò che alla fine di quel
trattamento neppure Atena l’avrebbe riconosciuto più. Pentesilea
scoccò il dardo, ma il cosmo di Ate lo deviò ed esso
finì per ferire Phoenix di striscio, facendo schizzar fuori qualche goccia di
sangue dalla guancia destra. Gocce che colpirono Andromeda in faccia,
infiammandolo.
“Fra…tello…”
–Mormorò Phoenix, ormai prossimo a perdere i sensi.
Fratello. Una parola che risuonò nell’ormai vuoto
animo del Cavaliere di Andromeda, echeggiando in spaziosi androni destinati ad
essere colmati dall’odio, dall’oscurità e dalla violenza cui presto si sarebbe
abbandonato in nome di Ate e di Nyx.
Fratello. Eppure, quel suono lontano,
quelle poche lettere scandite a fatica dovevano pur significare qualcosa, se
continuavano a rimbalzargli dentro, girando attorno al cuore, senza riuscire a
sfiorarlo mai.
“Com…batti…”
–Aggiunse il Cavaliere della Fenice, prima di crollare esanime al suolo, di
fronte al trionfante ghigno della Dea dell’Inganno, che ordinò ad Andromeda di
finirlo con un gladio che lei stessa le porse. La lama che aveva squartato
pochi giorni addietro i fragili corpi di Elena e Deucalione.
“Ora!!! Offrimi la sua testa, Andromeda! Offrila in dono al tuo nuovo signore
e padrone! Lord Caos!!!”
Il Cavaliere dai capelli verdi si chinò sul fratello, agonizzante ai
suoi piedi, impugnando l’arma con la mano destra, mentre con la sinistra gli
teneva fermo il viso, intingendo le dita nel suo sangue. Fu un attimo, più rapido
di qualsiasi pensiero che Phoenix potesse aver avuto, e la lama calò.
“A…aaahhh…”
–Mormorò quest’ultimo, osservando lo squarcio aperto nell’interno coscia,
laddove l’armatura non giungeva a proteggerlo. Uno spazio minimo che solo chi
indossava la corazza poteva conoscere per raggiungere quella specifica
posizione. –“An…dromeda…”
–Rantolò, mentre il fratello lasciava cadere la lama, la mano ancora tremante
per la violenza del gesto.
Non aveva dovuto pensarci troppo, anzi non c’aveva pensato affatto,
perché se lo avesse fatto il suo corpo non avrebbe obbedito. Aveva
semplicemente agito.
“Ma… cosa?!” –Balbettò Ate,
vedendo il corpo di Andromeda accendersi di un’aura rosata, un’aura che andò
espandendosi sempre più, decisa a contrastare l’influenza che la opprimeva.
–“Perché?!” –Si chiese, realizzando quel che era appena successo.
“Avevo bisogno… di sentire dolore… di sentirmi vivo!” –Affannò il ragazzo, toccando la
ferita che si era inflitto, di fronte allo sguardo stupito del fratello. –“Era
l’unico modo per poterti combattere, Ate!”
“Umpf, che sia ingenuità o sfrontatezza a
farti parlare, parlerai più per poco ancora!” –Commentò la Dea, avvolta nel
proprio cosmo oscuro, avanzando verso Andromeda, per spegnere l’ultimo barlume
della sua luce. Con rabbia, prostrò il ragazzo a terra, accanto al fratello,
torreggiando su entrambi, certa della propria vittoria.
“Combatti…” –Mormorò Andromeda, ricordando le
parole di Phoenix di poco prima, le parole che gli avevano permesso di
risvegliare il proprio spirito assopito. –“Sì, combatto!!!” –Avvampò, portando
il cosmo al parossismo, forte di quegli ideali di pace che gli avevano sempre
indicato la via.
“No, tu perdi!” –Disse Ate, stringendo la
presa attorno ai corpi dei Cavalieri di Atena, pur indispettita dal fatto che,
per quanta oscurità liberasse, la lucentezza dei loro cosmi pareva non esserne
del tutto intaccata. È mai possibile che
degli uomini possano tanto? Che siano in grado di opporsi a così antiche
tenebre?!
Il dubbio glielo tolse il ricordo della conversazione avuta con Nyx, quando la Notte aveva precisato la possibilità di
un’arma estrema, messa a loro disposizione da secoli di ostilità tra gli
Olimpi. Un astio rinverdito dalla Guerra Sacra conclusasi lo scorso anno, con
la sua nuova sconfitta.
Ghignando divertita, Ate levò una mano al
cielo, quasi ad afferrare un fumoso strato di nubi nere, osservandolo
contorcersi attorno al suo braccio, prima di allontanarsi e mutare forma,
assumendo sembianze che sia Andromeda che Phoenix riconobbero all’istante,
quelle del più potente e pericoloso nemico fronteggiato fino ad allora.
“Ma quello è…?!”
“Ade!!!” –Rabbrividì Andromeda, di fronte alla sagoma del Dio che aveva
preso possesso del suo corpo, e di fronte alla prospettiva che ciò accadesse di
nuovo.
“Dove sono? Chi mi ha risvegliato?!” –Parlò la fumosa figura oscura,
volteggiando attorno ai tre contendenti, prima che l’imperiosa voce di Ate la forzasse a fissarlo.
“Divino Ade, comprendo il vostro stupore! Di certo non vi aspettavate
di essere richiamato così presto dal limbo cui Atena vi precipitò! È questo uno
dei poteri di Caos, Creatore e Distruttore di Mondi e di tutti coloro che vi
dimorano!”
“Caos?! è dunque sua
quest’ombra che sento espandersi sulla Terra intera? Un’oscurità primordiale
che neppure ai tempi della Titanomachia percepii!”
“Precisamente! Un’oscurità che presto sarà totale, non come la debole
eclissi che tentaste di imporre con il vostro cosmo!” –Precisò Ate, concedendosi un ghigno ironico. –“Pur tuttavia Caos è
misericordioso e, avendo sempre apprezzato i vostri metodi, ha deciso di
offrirvi una nuova possibilità! Eccola, sta di fronte a voi, nel giovane dai
capelli verdi di cui già vi serviste!”
“Andromeda?!” –Mormorò Ade, fluttuando attorno al Cavaliere di Atena,
percependone stupito l’aura ombrosa di cui era intriso. –“Quale delizioso
aroma!”
“È vostro!” –Spiegò Ate. –“Grazie al mio ichor presente nell’armatura, il corpo di Andromeda è stato
distrutto, infettato fin nel profondo! Rimane soltanto lo spirito, vostro
compito sarà spezzarlo e allora avrete il ricettacolo che tanto bramaste! Cosa
ne dite, Sire Ade? Accettate l’offerta di servire gli Dei Ancestrali?!”
“Le tue parole sono tentatrici, Ate,
malaugurata consigliera!” –Ridacchiò la voce cavernosa del Signore degli Inferi.
–“Sai bene che il mio vero corpo è spezzato, per cui adesso e ad ogni mia
eventuale incarnazione dovrei servirmi di un ospite umano pena il vagare per
sempre sotto forma di spirito! Forma che, ammetto, non mi è congeniale!”
“Lo comprendo, Divino Ade, così come Caos lo ha compreso, offrendovi
quest’unica opportunità! Accettatela e il corpo di Andromeda sarà vostro per
l’eternità! Il vostro nuovo corpo!”
“Mmm! L’ho desiderato così tanto!” –Mormorò
il Nume, avvolgendosi al Cavaliere di Atena, solleticandogli la pelle,
carezzandogli il volto e soffermandosi infine sui suoi occhi, quegli stessi
occhi che, a detta di tutti, erano belli e profondi come i suoi.
“Lascialo stare, bastardo!!! Lascia stare mio fratello!!!” –Ringhiò
Phoenix, tentando di rialzarsi ma venendo sbattuto a terra dall’emanazione
cosmica di Ate.
I suoi occhi… Rifletté il fratello di Zeus e Nettuno. Sono così pieni di vita, così puri, quasi
immacolati, come fossero gli occhi di un angelo! Che cosa mi ricordano? Cosa mi
fa rammentare questa luce improvvisa? Ah sì, ora rammento! Le parole di Atena,
le parole che la mia eterna nemica mi rivolse nell’Elisio, china e piangente
sul corpo di Pegasus, sul corpo di quel dannato mortale.
“Tu sai cos’è l’amore, Ade?!” –Le aveva detto quel giorno la figlia di
Zeus. Ma lui non aveva risposto. Aveva ascoltato in silenzio quelli che aveva
ritenuto i deliri di una fin troppo umanizzata Divinità, che aveva abiurato al
suo status e a tutta la forza che da esso derivava, finendo per prostrarsi alle
stesse turbinose passioni degli esseri mortali. Ma la verità era un’altra,
sebbene non l’avrebbe mai ammessa, soprattutto a lei. Ed era più semplice e
sciocca, al punto da infastidirlo solo pensandoci.
La verità era che non conosceva l’amore perché mai nessuno l’aveva
amato.
Gli Spectre e gli Dei Gemelli lo servivano
perché dovevano, perché quello era il loro destino, il destino che lui aveva
scelto per loro quando aveva creato le costellazioni demoniache, con cui
sostituire quelle di Atena qualora fosse riuscito a sconfiggerla. Persefone, che nel Mondo Antico era stata la sua compagna,
aveva dovuto obbligarla, poiché solo così avrebbe potuto condividere con lei il
trono degli Inferi. Chi mai, del resto, avrebbe voluto soggiornarvi per sua
scelta? Nessuno, neppure gli Spectre che di continuo
anelavano a missioni nel mondo superiore, all’apparenza per compiacere il loro
Signore, in verità per uscire da quel fetido e tenebroso mondo. Su questo si
era retto il suo regno, sulla paura della morte che il suo sguardo poteva
comminare, e non su una fedeltà sentita e appassionata come quella che legava i
Cavalieri di Atena alla loro Dea, una fedeltà che poteva diventare rispetto,
cameratismo, affetto, amicizia e infine amore.
Un sentimento che non ho mai
conosciuto, perché non lo meritavo. Si disse il Nume, concedendosi un sospiro, prima di staccarsi da
Andromeda e sollevarsi nel cielo plumbeo, in quella forma evanescente che
Phoenix e Pegasus avevano affrontato nell’Elisio. Fino ad oggi.
Non disse alcunché l’Olimpico Nume, lanciandosi su Ate
e inglobandola nel suo cosmo divino, incurante delle grida e della sorpresa
della Dea.
“Proposta interessante ma offensiva, figlia di Eris!
Hai dimenticato a chi stai parlando? Io sono Ade, Signore dell’Oltretomba, uno
dei Cronidi, non un garzone di stalla a cui puoi dare
ordini, e non permetto a nessuno di manovrarmi come un burattino, non permetto
a nessun Dio antico o moderno di servirsi di me!” –Esclamò maestoso, mentre le
loro aure cosmiche si scontravano, aggrovigliandosi furiose, decise entrambe ad
annientare la rivale. –“Ora ti mostrerò, misera Dea dell’Inganno, quanto
profondo e oscuro è l’inferno di cui sono signore! Fammi sapere poi se tale
oscurità, che tanto il tuo padrone propugna, è di tuo gradimento!”
“Ma… maledetto, Ade!!!” –Avvampò Ate, circondata dal cosmo del Nume, avvolta in spire così
strette da impedirle persino di respirare. I suoi arti cedettero, le ossa si
schiantarono, le sue grida riempirono il cielo del Ponto,
facendo rabbrividire Phoenix e Andromeda, che osservavano interdetti la scena.
Fu Ade a richiamarli alla realtà, intimandoli di allontanarsi.
“Addio Cavalieri di Atena! Non pensiate che lo faccia per voi,
tutt’altro! Lo faccio per me! Dopo ripetute sconfitte, in tante luride
Guerre Sacre, oggi ho la mia vittoria! Oggi potrò dire ad Atena, ovunque ella
sia, di aver meritato un po’ d’amore!” –Esclamò il Dio, portando il cosmo al
parossismo e lasciandosi esplodere assieme all’Ingannatrice.
***
Shen Gado combatteva con una foga che Igaluk non gli aveva mai visto negli
anni in cui avevano dimorato nel Reame della Luna Splendente. Certo, aveva
sempre saputo che era un Cavaliere Celeste, e come tale abile in battaglia, ma
la pacifica esistenza del regno di Selene gli aveva
fatto dimenticare cosa significasse combattere davvero. Combattere per la
propria sopravvivenza. Eppure avrebbe dovuto saperlo, ricordando la realtà da
cui proveniva, le fredde terre dell’Artico canadese, che, al pari di quelle in
cui si trovava adesso a lottare, da pochi raggi di sole venivano lambite.
Piccolo e tozzo, con i lineamenti tipici delle popolazioni Inuit, il
Selenite di Mercurio aveva deciso di seguire l’Ippogrifo nella difesa della
piazzaforte all’ingresso alla Valle di Cristallo, deciso a dare il proprio
contributo alla causa. Durante l’assalto di Ares e delle Makhai era rimasto ai
margini della battaglia, timoroso di non essere all’altezza. Aveva sentito
spegnersi i cosmi di Chandra e Tecciztecatl e
mormorato preghiere in lingua inuktitut per le loro
anime, ma non aveva trovato la forza per farsi avanti, nascondendosi dietro la
necessità di presidiare il cerchio più interno. Una scusa, nient’altro che una scusa. Convenne, sollevando il
braccio e lasciando che il fascio di energia nemica si schiantasse su uno degli
scudi della sua corazza. La verità era che sentiva la propria inferiorità
rispetto agli avversari che si era ritrovato ad affrontare. Divinità
ancestrali, Signori della Guerra e delle Tenebre, persino mostruose creature
ridestate da un sonno durato eoni. Era tutto troppo grande per lui, semplice
depositario della sapienza delle popolazioni che vivevano nelle isole del
Canada Settentrionale. A volte credeva di dormire, vittima dell’incantesimo di
uno sciamano, che gli aveva strappato l’anima e l’aveva portata indietro nel
tempo, ai giorni del taimmani, il passato indefinito oveerano
avvenuti i miti e le leggende popolari note come unipkaaq.
E invece sono qua! Si ripeté, chinandosi per
evitare un affondo nemico e poi abbagliandolo con il riflesso di luce generato
dallo scudo. Per quanto le sue capacità offensive fossero limitate, le difese
offerte dalla propria corazza invece erano sufficienti per impedire all’Armata
delle Tenebre di avanzare troppo rapidamente, respingendoli il tempo necessario
a Shen Gado per trafiggerli con strali lucenti.
“Stai bene?” –Gli disse il
compagno, abbattendo un altro paio di guerrieri che stavano per piombare su di
lui, dilaniando anche le loro mostruose cavalcature.
Igaluk annuì, ansimando per la
stanchezza dello scontro incessante, una fatica a cui non era abituato. Ma,
ogni volta in cui la fiacchezza pareva invaderlo, si guardava attorno,
osservando uomini comuni, per giunta mortali, lottare fino allo stremo,
rialzandosi ogni volta in cui cadevano a terra, senza esitare a lanciarsi l’uno
in aiuto dell’altro. Proprio come il Cavaliere del Cigno aveva fatto per
aiutare il Principe Alexer. La guerra, come la morte, pareva essere il grande
unificatore, in grado di azzerare ogni diversità e rendere fratelli tutti
coloro che lottavano sotto il cielo, affinché quel cielo, terso e cristallino,
potessero continuare ad ammirarlo.
“Ungh…” –Mormorò all’improvviso Shen Gado, accasciandosi, una mano cinta sul ventre, il
volto pallido e sofferente.
“Comandante, state bene?!” –Si preoccupò subito Igaluk, chinandosi su
di lui e tenendo al tempo stesso a distanza alcuni guerrieri oscuri,
accecandoli con il bagliore del proprio cosmo, limpido come il ghiaccio.
“Non… sono più il tuo comandante!” –Chiosò
l’altro, rialzandosi a fatica. –“Sono solo un compagno d’armi! Shen Gado dell’Ippogrifo! E così devi considerarmi!”
Igaluk annuì, prima di percepire anch’egli quel che aveva prostrato il
Cavaliere a terra, un’oscurità così intensa da penetrargli nel cuore. Per un
momento credette di morire, incapace di muoversi, di
respirare, persino di pensare. Poi trovò la forza per torcere il collo, notando
la scia di una cometa di puro cosmo, dal colore dell’ebano, dilaniare il cielo
nero e piombare su di loro. Non riuscì ad avvisare nessuno, neppure a gridare,
poté solo chiudere gli occhi mentre quell’enorme sfera di energia sfondava le
mura della roccaforte, distruggendola dall’interno. E poi tutto finì, in
un’immensa onda bianca che parve sommergere ogni cosa.
Il Selenite di Mercurio volò in alto, il corpo bersagliato da oggetti
di ogni tipo e dimensione, scontrandosi con altri corpi, privi, al pari suo,
della volontà o capacità di reagire, infine cadde nel vuoto, sbattendo su
qualcosa di duro e freddo, ruzzolando, rotolando su se stesso e continuando a
cadere. Non seppe dirsi quanto tempo fu sballottato e dove, capì solo di essere
arrivato quando il suo corpo venne ricoperto da un ammasso indistinto di neve,
terriccio e detriti. E forse anche resti umani.
Inorridito da quella distruzione, che andava al di là di ogni più fosco
pensiero, Igaluk fu tentato di lasciarsi andare, così forse il suo spirito
avrebbe raggiunto quello degli altri membri del suo popolo, lassù tra le luci
del cielo. Ma poi, pensando al cielo, ricordò l’opprimente nube nera che stava
ammantando la Terra e realizzò che, se non l’avessero sconfitta, nessuna luce
avrebbe più danzato in cielo, nessun’aurora boreale avrebbe potuto essere
ammirata dalle splendide isole del Mare Artico. Così reagì, espandendo il
proprio cosmo e recuperando sensibilità al corpo, iniziando a muoversi, a
scavare, a farsi largo in quel mucchio di neve in cui era abituato a muoversi.
Tirò fuori la testa, alla ricerca d’aria, dopo un tempo che gli parve
interminabile, riuscendo infine a liberarsi del tutto. Approfittò di quel
momento per rifiatare e guardarsi addosso e attorno: la bianca corazza,
ricavata dal ghiaccio eterno di Qikiqtaaluk, era scheggiata in più punti, persino alcuni
scudi erano in frantumi, ma i danni erano nulla se paragonati al fianco della
montagna dove aveva combattuto fino a quel momento. Senza parole per esprimere
alcunché, Igaluk notò che l’altura stessa non esisteva più, sventrata in
profondità e crollata, sfaldandosi e sommergendo l’accesso alla vallata. Chi ne
fosse il responsabile, il Selenite lo scoprì presto, notando la cometa d’ebano
vorticare in cielo fino ad andare a posarsi sul fondo valle, dove il biondo
Cavaliere di Atena ancora stava in piedi.
Tariaksuq! Mormorò, facendo un gesto di scongiuro, di
fronte a quella creatura umanoide composta di pura oscurità, in grado di
fondersi con le ombre stesse.
Annaspando, avrebbe voluto correre da Cristal
per avvisarlo o anche per aiutarlo, ma solo allora si accorse di avere una
gamba rotta, rimasta schiacciata nel crollo, e di potersi muovere con gran
difficoltà. Pur tuttavia se l’era cavata meglio di altri BlueWarriors e soldati dell’Armata delle Tenebre, i cui
corpi smembrati costellavano i resti della montagna crollata, assieme ai
cadaveri delle loro mostruose cavalcature. Quel che un tempo era stato l’alto
Picco di Cristallo era adesso ridotto a un’immensa pattumiera umana di colore
bianco, rosso e marrone. Neve, sangue e terra, mescolati in un amalgama che
odorava di morte.
Stringendo i denti per il dolore, Igaluk si rialzò, zoppicando tra le rovine,
mentre anche altri guerrieri facevano altrettanto, guardandosi attorno alla
ricerca di superstiti o di armi per combattere ancora. Solo allora vide l’ala
smerigliata d’oro emergere dalla neve, incrinata e tinta di vermiglio,
arrabattandosi in quella direzione e gettandosi subito a terra, per liberare il
compagno da quella prigione di ghiaccio. Quando riuscì a tirarlo fuori, Shen Gado era gelido come marmo e a malapena respirava. Gli
tenne la mano, donandogli un po’ del suo cosmo, per quanto un’esigua quantità
gliene restasse, schiaffeggiandolo affinché si riavesse. Fu quel gesto a fargli
capire di essere diventato sordo, incapace di udire anche il più minimo rumore,
come se tutto fosse distante e ovattato. Probabile
effetto dell’esplosione, si disse, prima di voltarsi di scatto verso il
margine della foresta, il sesto senso stimolato da una fitta acuta che gli
permise di conservare la testa attaccata al collo, sollevando lesto il braccio
e parando con lo scudo l’artigliata che calò su di lui.
Cadendo indietro, sopra il ferito Cavaliere Celeste, Igaluk ebbe modo
di notare un gruppetto di guerrieri, ben più forti dei semplici scagnozzi
affrontati fino ad allora, farsi strada tra i cadaveri, aggiungendone altri
alla schiera. Uno, in particolare, gli incusse timore indefinibile, a causa
dell’armatura bianca che indossava che gli ricordava un mostro tanto temuto
nelle terre ove era cresciuto.
Grendel. Fremé, rabbrividendo, alla vista dell’uomo
alto e imponente, con radi capelli biondi e corti, che camminava sprezzante tra
i feriti, ponendo fine alla loro agonia con un rapido movimento dell’artigliato
braccio destro. Lo spettro bianco.
Terrore dei bambini, doloroso ricordo degli adulti, prova degli eroi. Lui, che
un eroe non si era mai sentito, avrebbe voluto nascondersi sotto la neve,
sfruttando le proprietà mimetiche della corazza, ma il pensiero che potessero
fare del male a Shen Gado o ad altri a causa della
sua viltà lo riscosse, portandolo a lanciarsi contro il guerriero in integrale
armatura bianca, tentando di abbatterlo con una spallata.
Non fece che tre passi prima che l’uomo ne fermasse la corsa, mulinando
il grosso guanto artigliato che gli rivestiva il pugno destro, piantandone le
propaggini nel bracciale di Igaluk, distruggendo lo scudo e affondando fin
dentro la carne. Quindi il guerriero estrasse gli artigli, spingendo indietro
il Selenite con un calcio allo sterno, facendolo ruzzolare a terra, poco
distante da Shen Gado.
“Non perdere tempo con lui, Grendel!” –Disse
allora una voce, appartenente ad un uomo basso e barbuto, dalla corazza color
verde marcio. –“È ormai un morto vivente! La furia del Tenebroso non perdona!
E, quand’anche dovesse pensare di resistere, le piaghe di cui l’ho infettato lo
vinceranno!”
“Corb ha ragione! Passiamo oltre! Reidar e Duppy sono già lontani,
in groppa a quei maledetti lupi!” –Lo affiancò un giovane smilzo dai folti
capelli viola.
L’uomo chiamato Grendel non rispose,
grugnendo parole oscene con cui si liberò da ogni vincolo riguardo ai due
compagni, lanciandosi all’assalto. Igaluk fece appena in tempo a sollevare il
braccio destro che già le cinque aguzze dita del guanto artigliato erano su di
lui, spingendolo indietro, travolto da un reticolo di precisi fasci di energia.
Non devo stargli troppo vicino! Mormorò, intuendo la pericolosità di quegli
artigli, in grado, come quelli del mitico Grendel, di
squartare un essere umano con un colpo solo. E niente faceva presagire, a
Igaluk, che quel guerriero non ne fosse capace. Pur tuttavia, così facendo,
giocando solo in difesa, come avrebbe potuto vincerlo? Come avrebbe potuto
difendere Shen Gado?
Un gemito alle sue spalle indicò il risvegliarsi dell’Ippogrifo,
strappando un sorriso al Selenite di Mercurio, il cui volto rivelò per la prima
volta uno sguardo sicuro. Chiamò alcuni BlueWarriors sopravvissuti, dando loro ordini di scortare ad
Asgard il ferito, ripiegando nella fortezza principale. Non abbiamo più niente da fare qui, rifletté, osservando lo sfacelo
attorno a sé e percependo il violento infuriare dello scontro a fondo valle tra
entità che andavano oltre le loro possibilità.
Shen Gado, udite le parole del compagno, fece per ribattere ma, troppo
debole persino per camminare, crollò dopo pochi passi, obbligando alcuni fedeli
di Alexer a sollevarlo di peso, per tenerlo in piedi. Grendel
caricò di nuovo, sfoderando una griglia di artigli di energia bianca che
dilaniarono il terreno attorno, falciando via alcuni BlueWarriors e costringendo Igaluk a intervenire di
nuovo, portandosi di fronte al gruppo con lo scudo ancora integro e caricandolo
di energia cosmica.
“Andate via! Ora!!!” –Imperò, affannando nel resistere ai feroci
assalti di Grendel.
“Non… ti lascerò qua a morire, solo per aver
salva la pelle! Non sarebbe onorevole per un Cavaliere Celeste!” –Rantolò Shen Gado.
“Malikitt!!!” –Gli ordinò il compagno,
ripetendo la richiesta in modo che l’Ippogrifo potesse comprenderla. –“Seguili!” –E si lanciò avanti, avvolto nel suo cosmo
celestino, caricando l’uomo dall’armatura simile al leggendario Grendel e strappandogli persino un moto di sorpresa per
quella repentina azione d’attacco.
Shen Gado annuì, consapevole che Igaluk non lo stava solo proteggendo, ma
stava proteggendo anche il futuro di Asgard, affidandogli il compito di seguire
le tracce di coloro che erano già passati, fermandoli prima di giungere a
palazzo. Stringendo i pugni, l’Ippogrifo voltò le spalle allo scontro in atto,
iniziando a correre verso la foresta assieme ai BlueWarriors.
“Ih ih ih! Dove credete di andare?” –Strepitò
l’uomo dai capelli viola, sollevandosi in aria con le ampie ali della sua
corazza e generando una tempesta di nubi e grandine.
“A proteggere Asgard!!!” –Tuonò allora Igaluk, interponendosi tra lui e
Shen Gado, espandendo il proprio cosmo e generando
un’immensa cupola di energia celeste, simile alle abitazioni che costellavano
le terre artiche, al cui interno racchiuse se stesso e i tre membri dell’Armata
delle Tenebre.
“Cosa pensi di fare con questo igloo di cosmo? Tenerci qui dentro vita natural durante? Ih ihih! Sei uno sciocco se credi che quest’effimera prigione
possa tenere a bada le tempeste che il demoniaco Alu
domina!”
“Senza contare che il tuo corpo è già debilitato. Le piaghe che le onde
del mio cosmo ti stanno instillando non possono che aumentare in questo spazio
chiuso!” –Intervenne il secondo guerriero, quello con l’armatura verde.
“Poco importa! Durassi un’ora o un giorno, sarà tutto tempo che i
difensori di Asgard avran guadagnato!” –Chiarì fiero
il Selenite di Mercurio. –“Adesso ho capito quel che ci promettemmo davvero
quel giorno, quando accettammo di vivere sulla Luna! Essere non guerrieri,
bensì protettori! Di tutte le genti!”
Grendel non lo fece finire di parlare, piombando su di lui e infilzando il
braccio destro con i suoi enormi gelidi artigli, che gli strapparono un grido
di dolore, mentre Alu lo tempestava di saette e
pioggia sferzante. Igaluk dovette poggiare un ginocchio a terra, ma non invocò
pietà, continuo a bruciare il proprio cosmo, fino all’ultima stilla, mentre le
pareti celesti dell’igloo tremolavano, tingendosi di nuovi colori, in una danza
che smosse l’intera struttura, facendole assumere la forma di un tendaggio.
“Qualunque mossa tu voglia fare, sei morto! Siamo in tre e tu sei uno
solo, e per di più malato!” –Lo sbeffeggiò il guerriero dall’armatura verde,
mentre Alu lo sorpassava, planando su di lui con la
mano colma di saette oscure.
“Siate tre o trecento, non fa differenza! Lo splendore delle luci del
nord vi abbaglierà, e sarà così intenso che tutti, in ogni angolo delle terre
artiche lo vedranno, ricordandosi che il cielo non è sempre oscuro! Tutt’altro!
Il cielo rifulge di mille bagliori! A voi, creature oscure, il massimo potere
di Igaluk! Risplendi Aurora Borealis! Risplendi Aksarnerk!!!”
Lo sfavillio di luci esplose come
un’onda, sollevandosi impetuosa verso il cielo, in un arcobaleno di colori che
per un momento rischiarò quella notte che stava calando su Asgard. I tre membri
dell’Armata delle Tenebre vennero travolti e spinti indietro, le corazze
danneggiate, i volti abbagliati da quell’improvviso lucore che tutti, a quelle
latitudini, poterono rimirare, venendone confortati. Con quell’ultimo pensiero
in mente, pago per aver rinfocolato la speranza nei cuori dei compagni, Igaluk
crollò nella neve.
Capitolo 22 *** Capitolo ventunesimo: L'ombra tra i ghiacci. ***
CAPITOLO VENTUNESIMO:
L’OMBRA TRA I GHIACCI.
“Dunque sei un compagno del Cavaliere di Pegasus, l’irriducibile
destriero che non voleva esser domato?!” –Esclamò Erebo, sospeso a mezz’aria,
avvolto nel suo nero cosmo, così oscuro che Cristal
aveva difficoltà ad osservarne la sagoma stagliarsi di fronte a lui. –“Una
giumenta in calore si è rivelata infine, niente più!”
“Misura le parole, Signore delle Tenebre! Non ti permetto di schernire
i miei amici fraterni, per altro validi combattenti!”
“Amici defunti, vorrai dire! Ahuahuahu! L’invincibile guerriero
di cui canti le lodi ha incontrato lo stesso gramo destino di Eracle e degli
altri Olimpi che han tentato di resistermi! Non te ne eri accorto, Cigno? Avevo
pensato di far saltare in aria il vulcano, di modo che chiunque, in qualunque
parte del mondo, lo sentisse e capisse che a niente giova combattere, perché
l’ombra vince sempre e comunque! Ma
ormai è tardi, non disquisiamo del passato, che tale è, bensì del presente!
Mostrami cosa sai fare, bel biondino! Avanti!” –Lo incitò il Dio ancestrale,
incrociando le braccia al petto e sogghignando perfidamente.
Se avesse ascoltato l’istinto, Cristal
avrebbe caricato a testa bassa, liberando una devastante tormenta di gelo, ma
gli insegnamenti dei suoi maestri gli avevano consigliato che non sempre la
prima reazione era la migliore, in termini di efficacia di risultato. Pertanto
strinse i pugni, bruciando il cosmo e iniziando a camminare attorno a Erebo,
che lo osservò divertito, con i suoi intensi occhi rossi.
“Beh? Se non prendi in mano la situazione, lo farò io!” –Esclamò
subito, sciogliendo le braccia e puntandogli contro l’indice destro, da cui
scaturì un lampo di energia nera che investì in pieno il Cavaliere di Atena,
per quanto questi avesse sollevato lesto lo scudo a sua difesa. Ruzzolando
indietro di qualche metro, tra le sghignazzate di Erebo, Cristal
fu lesto a rimettersi in piedi, solo per osservare, inorridito, una chiazza
nera marchiare vivida l’armatura, laddove il Nume lo aveva colpito. Per quanto
fosse stato solo un assaggio del suo potere, un semplice fascio di energia, era
riuscito a scalfire una corazza rinata con sangue divino.
Ermes! Strinse i pugni il Cigno, rialzandosi e
ricordando il loro primo incontro al Tempio dei Mercanti, quando aveva
raggiunto Pegasus e i suoi compagni dopo aver salvato i Cavalieri d’Oro dalla
prigionia di Hel. Quanta strada aveva fatto da
allora, girovagando e lottando per i mondi più disparati, ma, al tempo stesso,
riuscendo sempre a trovare la via di casa. La via che lo riportava lì, alla
terra dove il suo cuore apparteneva. Ad
Asgard.
Il pensiero che quella terra e la sua amata regina potessero adesso
essere inquinate da quell’ancestrale entità gli fece ribollire il sangue,
portandolo ad espandere il proprio cosmo e a scagliare pugni verso il cielo, di
fronte allo sguardo interessato di Erebo che vide una ragnatela di luci e
ghiaccio scivolare sopra di loro, mentre una gelida corrente iniziava a
soffiare.
“Vuoi combattere, Erebo? Combattiamo allora! Permettimi di aprire le
danze! Vortice fulminante dell’aurora!!!”
–L’assalto sfrecciò verso il Nume ancestrale, che neppure si mosse, desiderando
verificare di persona quanto potere possedessero quei famigerati Cavalieri
Divini, o Cavalieri dello Zodiaco, come il Gran Maestro del Caos li aveva
definiti, sebbene Erebo non capisse tali titoli. Ma in fondo, per il Signore
delle Tenebre nessun titolo aveva reale valore e tutti quegli Dei inferiori e i
loro schiavizzati uomini erano solo mere comparse in uno spettacolo che presto
si sarebbe concluso e avrebbe visto un solo protagonista trionfare. A qualunque
Divinità, simbolo o ammasso stellare dovessero i loro poteri, il Cigno, Pegasus
e i loro degni compari erano solo uomini, i primi che sarebbero caduti sotto il
nuovo cielo privo di stelle che stava sorgendo.
Con quel pensiero in testa, Erebo sollevò un braccio al cielo, mentre
la tempesta di ghiaccio ancora imperversava, generando un vortice di energia
oscura che sormontò la furia dell’aurora, risucchiandola al proprio interno e
facendola roteare attorno al suo arto. Prima ancora che Cristal
potesse rendersi conto di quel che stava accadendo, il Signore delle Tenebre
calò il braccio, rimandandogli contro il suo stesso attacco, sospinto e
potenziato da una mortifera corrente d’aria nera, la stessa che stava saturando
il cielo del continente euroasiatico.
“Non è possibile!!!” –Rantolò il Cavaliere di Atena, rimettendosi in
piedi, dopo essere stato scagliato contro un mucchio di alberi. –“Non solo non
ha minimamente risentito del mio assalto ma lo ha fatto proprio! Eppure era un
gelo pungente, allo Zero Assoluto!”
“Alle leggi che regolano il mondo degli uomini mortali, di qualunque
natura siano, noi Dei non siamo soggetti, tanto più noi Progenitori! Potrebbe
la tua sciocca scienza spiegare questo?” –Lo schernì Erebo, capovolgendosi a
mezz’aria ed eseguendo altre bizzarre piroette, lasciando ovunque si spostasse
una scia di tenebra. –“O questo!” –Aggiunse, balzando su di lui e colpendolo
sul pettorale con il tacco del piede corazzato, sbattendo il Cavaliere contro
un mucchio di rocce, distruggendole e facendogli perdere persino l’elmo della
corazza, che tintinnò fino a rotolare davanti al Nume. –“Cosa abbiamo qua? Un
lavoro di fattura pregiata, lo ammetto, che tuttavia è misera difesa contro le
mie armi!” –Sogghignò, lasciando levitare l’elmo in aria, avvolgendolo in una
torbida cortina di tenebra, che ne opacizzò subito i colori, divorandone
famelica ogni stilla di luce.
“Lascialo!!!” –Urlò Cristal, rialzandosi e
scattando avanti, il pugno pregno di energia cosmica, liberando una subitanea
tempesta di ghiaccio. –“Polvere di
diamanti!!!”
Erebo, senza neppure curarsi delle sue parole, si limitò a volgere il
palmo della mano sinistra su di lui, su cui l’assalto evaporò all’istante,
mentre con la destra continuava ad inquinare il copricapo del ragazzo,
distruggendone il cimiero a forma di cigno e godendo dello scricchiolare
macabro delle ali, che si sbriciolarono in pochi istanti, mentre i frammenti
gli cadevano tra le mani.
“Ecco cosa rimarrà di voi e della vostra civiltà!” –Sintetizzò il Nume,
chiudendo il pugno. –“Pulviscoli.” –Aggiunse, riportando lo sguardo su Cristal e scaraventandolo indietro, travolto da
un’improvvisa vampa di tenebra che abbatté l’intera foresta alle sue spalle.
Sfruttando la stessa onda offensiva, il Cavaliere di Atena spalancò le ali
dell’Armatura Divina, librandosi in alto e portandosi sopra il raggio d’azione
dell’attacco, tentando poi l’offensiva dal cielo.
“Sopra o sotto, fa poca differenza! Io regno ovunque!” –Chiosò Erebo,
spostandosi di lato, mentre il pugno di Cristal,
colmo di energia glaciale, gli passava accanto, senza raggiungerlo, e
allungando al qual tempo le dita della mano destra per generare daghe di pura
tenebra. –“Tu invece torna alla terra che t’ha partorito!” –E gliele piantò
nella schiena, dove le ali erano affisse alla corazza, prostrando il ragazzo al
suolo. Ma questi fu abile a sbattere le stesse ali, sbalzando indietro il Nume
assassino, prima di girarsi di scatto e portarsi a una certa distanza da lui,
conscio di dover riuscire a mantenerla. Non solo per la potenza dei suoi
attacchi, ma anche per l’aura mortifera che lo avvolgeva, un’aura in grado di
debilitarlo, di oscurargli i sensi, persino di danneggiargli la respirazione se
ne rimaneva troppo in contatto.
“Mi dispiace ammetterlo, ma Pegasus era ben più interessante
avversario! Tu sei troppo freddo, troppo razionale nel tuo combattere! Mi hai
già stancato!” –Sibilò la Tenebra Ancestrale, dando le spalle all’allibito
Cavaliere di Atena e portando lo sguardo verso i resti della fortezza
abbattuta, da cui un’improvvisa corona di luce si era levata, a rischiarare il
cielo.
“Ma quella…” –La riconobbe subito Cristal, che tante volte l’aveva ammirata, assieme al
Maestro dei Ghiacci e al compagno Abadir. –“È
l’Aurora Boreale! Sono le luci del nord!” –E allora capì quel che doveva esser
accaduto. –“Igaluk!”
“Pare che un altro dei tuoi compagni ci abbia lasciato!” –Chiosò Erebo,
mentre le luci colorate scemavano di intensità e il cielo tornava plumbeo.
–“Chissà che tra quelle rovine non vi siano altri da massacrare! Dovrei andare
a verificare, in effetti, tanto più che la tua compagnia non mi è gradita!”
–Aggiunse, sornione, espandendo la propria aura cosmica e concentrandola attorno
al braccio destro.
“Non ci provare, bastardo!!!” –Gridò Cristal,
scattando avanti, mentre già una tempesta di ghiaccio imperversava dietro di
sé.
“Sciocco!” –Sibilò l’avversario, le labbra torte in un gelido sorriso
compiaciuto. –“Danza di daghe!!!”
–Tuonò, voltandosi di scatto e travolgendo il Cavaliere con una pioggia di
strali neri, che fendettero la tormenta di neve,
senza esserne neppure rallentati. Uno dopo l’altro, gli oscuri dardi
raggiunsero Cristal, mitragliandone la corazza,
scheggiandola, graffiandola, trovando infine uno spiraglio in quella quasi
completa protezione e affondando nel braccio destro, poco sotto l’ascella.
Il biondo paladino di Atena strillò, prima che altre daghe energetiche
lo raggiungessero, costringendosi a rimanere calmo e concentrato e sollevando
un rozzo muro di ghiaccio a sua difesa. Non ci volle molto a Erebo a
disintegrarlo, gli bastò scagliare un’unica devastante daga, che lo mandò in
frantumi, scaraventando il Cigno nella neve sporca e avviandosi poi verso di
lui. Gli inquietanti occhi rossi si tinsero di un ghigno divertito, spingendo Cristal a chiedersi chi o cosa dimorasse davvero dietro
quella maschera orribile, quale forma potesse avere una così potente e perversa
entità. Immaginarla un corpo umano, come quello di Atena o di Zeus, o persino
di Loki, era impossibile. No, si disse il ragazzo,
scuotendo la testa, Erebo non poteva avere un corpo umano, doveva essere per
forza un mostro!
“E i mostri, in tutte le leggende, cadono vinti dagli eroi!!!”
–Esclamò, concentrando il cosmo sulla mano destra, sommersa sotto un mucchio di
neve, e infondendolo al suolo sotto di lui, portandolo a sollevarsi
all’improvviso. Muraglie di ghiaccio sorsero ovunque attorno a Erebo,
chiudendosi su di lui come fauci di creature composte di gelo, investendolo con
tutta la loro potenza, mentre, all’interno di quel blocco di ghiaccio, la
temperatura precipitò istantaneamente, paralizzando il Nume in una posizione
sorpresa.
Affannando per lo sforzo, Cristal si rialzò,
tenendosi il braccio dolorante, ma imponendosi di continuare a lottare. Sollevò
entrambi gli arti al cielo, deciso a debellare una volta per tutte quella
minaccia, come aveva fatto poc’anzi con Steno, quando notò un luccichio
vermiglio dall’interno della rozza scultura di ghiaccio. Per quanto fosse
impossibile ammetterlo, Erebo stava sogghignando!
“No!!!” –Gridò il ragazzo, sbattendo i pugni uniti di fronte a sé, più
e più volte, e liberando l’impetuoso scorrere delle acque dell’aurora, che
investirono l’ammasso di gelo proprio mentre questo andava disfacendosi.
Kaboom!!!
Una violenta esplosione, assordante come quella che aveva abbattuto la
roccaforte di Alexer, scaraventò Cristal indietro,
mentre una mortifera nube oscura si innalzava di fronte a lui, laddove avrebbe
dovuto trovarsi il Nume congelato. Rabbrividendo, il giovane vide Erebo di
nuovo di fronte a sé, senza neppure un graffio alla sua corazza o un cenno di
stanchezza o sofferenza. Semplicemente rideva, divertito, ringraziando il
Cavaliere per quell’improvvisa doccia fredda.
“Dopo eoni trascorsi nell’intermundi, ne sentivo proprio la necessità!
Permettimi di ricambiare la tua generosità!” –Ghignò, chiudendo le dita della
mano destra a metà, quasi stessero stringendo qualcosa di intangibile, che
rivelò essersi una fumosa cortina di tenebra che andò circondando in fretta il
paladino di Atena, prostrandolo a terra, fiacco e madido di sudore. –“Oh, non
apprezzi il mio dono? Forse le tenebre infernali di cui sono signore non sono
di tuo gradimento? Dovresti imparare ad apprezzarli, poiché questo sarà il
mondo in cui i tuoi simili vivranno dopo aver giurato fedeltà a Lord Caos!
Questo sarà l’unico cielo che rimireranno, l’unica aria che respireranno!”
“Sei… folle!!!” –Ringhiò Cristal,
rimettendosi in piedi, sia pur barcollante ma ancora avvolto nel suo
scintillante cosmo bianco.
“Mi hanno definito in molti modi, Cavaliere del Cigno! Signore
dell’Oscurità, Padre delle Tenebre, Primo Nato, Tenebra Ancestrale, e altri
epiteti che ti risparmio, sebbene uno credo mi calzi alla perfezione! Il
Tenebroso! Non trovi sia efficace? Semplice, concreto, reale!” –Sibilò,
chiudendo infine le dita del pugno mentre le ombre che danzavano attorno a Cristal si serrarono su di lui, avvolgendolo in un
indistinto ammasso dal colore dell’ebano, che subito esplose, scagliandolo
verso l’alto. –“Addio Cigno! Questo è il tuo ultimo volo! Danza di daghe!!!” –E mosse il braccio destro a spazzare, dirigendo
contro il ragazzo migliaia e migliaia di strali di nera energia.
Cristal, sballottato dalla tempesta d’ombra, intontito dall’aura demoniaca del
Nume, non riuscì ad evitare quell’ulteriore attacco, che lo investì con
violenza, scavalcando le sue difese. Sentì le lame di energia trafiggerlo agli
arti, al costato, persino sul volto, ma non poté far niente per difendersi.
Solo precipitare a terra, rivolgendo, in quel disperato momento, l’ultimo
pensiero a colei che amava.
***
Flare era inquieta.
Ritta sulle mura della fortezza di Asgard, osservava le nubi nere
scivolare verso nord, il cielo fosco incrinato di tanto in tanto da fulmini e
vampe di colore che indicavano gli scontri in atto nella Valle di Cristallo.
Non che avesse bisogno di vederli, per capire quel che stava accadendo, le era
piuttosto chiaro dall’incendiarsi continuo di aure cosmiche che ben conosceva.
Aure che adesso, stringendo tra le mani le pietre del massiccio torrione,
percepiva deboli e fiacche.
Per primo aveva sentito avvampare il cosmo di Cristal,
subito seguito da quello del Principe Alexer, poi si era stupita nel sentir
svanire quello di Shen Gado e di Igaluk, dopo che un
meraviglioso gioco di luci aveva abbagliato l’intera vallata, recando conforto
alla gente comune che era stata ospitata dentro le mura di Asgard. Infine,
poc’anzi, aveva di nuovo percepito accendersi l’aura del suo compagno, intento
a fronteggiare un cosmo pregno di un’infinita oscurità.
Mai, neppure nei grandi nemici che avevano flagellato i Nove Mondi,
aveva incontrato una tenebra così profonda. Neppure nel Niflheimr,
dove era stata imprigionata. E questo la fece rabbrividire.
“Tornerà! Abbiate fiducia in lui!” –La gioviale voce di Bard la rubò ai
suoi pensieri, portandola a voltarsi verso il Capitano della Guardia che, con
indosso l’uniforme di servizio, stava vigile accanto a lei sul camminamento di
ronda. –“So che siete angustiata, lo siamo tutti! Ma Cristal
è un abile guerriero, di indubbio valore! Ricordo ancora quando affrontammo il Leviatano assieme, nelle acque della baia, e poi le truppe
di Loki, giorni addietro!”
“Il ragazzo parla con saggezza, Signora di Asgard!” –Intervenne allora
un uomo che aveva conosciuto da poche ore, ma che pareva sapere molto su di lei
e sulla storia del casato di Polaris, avendone
seguito le gesta da lontano. –“Pur non avendo mai visto il Cavaliere del Cigno
in azione, ho combattuto con i suoi compagni, Pegasus, Andromeda e Fenice,
sulla Luna, percependo in loro una vitalità, una freschezza, una caparbietà che
può essere sostenuta solo da una fede profonda, e da un ancor più profondo
amore verso il futuro!”
“Ti ringrazio, nobile Mani!” –Gli sorrise la Celebrante, prima che una
raffica di vento freddo la portasse a chiudersi la sciarpa attorno al collo,
avvolgendosi nella pelliccia e incamminandosi giù dalle scale di pietra,
seguita dal Capitano della Guardia. Per quanto Cristal
e Alexer tenessero a bada l’Armata delle Tenebre a fondo valle, vi era la
possibilità concreta di un’ulteriore offensiva, motivo per cui Bard non si
fidava a lasciare Flare da sola, sorvegliandola a
vista. Per questo il Principe aveva lasciato i due uomini, dal fisico robusto e
dai ruvidi tratti maschili, a difesa della fortezza.
“Regina di Asgard, possiamo disturbarvi un momento?” –Chiese uno dei
due guerrieri, che, al pari del compagno, attendeva spazientito nel cortile
principale, rivestito della propria scura armatura, ornata di spuntoni
minacciosi.
Flare annuì, fermandosi a rispettosa distanza. Per quanto fossero due
alleati, inviati da Eracle in aiuto ai guerrieri del nord, la ragazza non
poteva fare a meno di provare un certo timore in loro presenza, forse per
l’aspetto rude o per i loro modi di fare, improntati ad uno stile prettamente
bellico, che non comprendeva del tutto.
“Quando potremo combattere anche noi? L’ombra dell’ultima guerra avanza
su Asgard, la percepiamo nitidamente!”
“Siete ansiosi di combattere, Heroes di
Eracle!” –Giudicò la Celebrante di Odino, abbandonandosi ad un sospiro. –“Non
avete già visto troppe guerre nella vostra lunga e valorosa esistenza? Così
tanto bramate di viverne un’altra?”
“Siamo guerrieri, Regina di Asgard, e il nostro compito è combattere,
come il vostro è invocare la benedizione e la clemenza degli antichi e saggi
Numi affinché ci assistano in battaglia!” –Continuò l’uomo che aveva appena
parlato, prima che la cavernosa voce del secondo si sovrapponesse alla sua.
“Vogliamo combattere! Sì! Non per voi, né per il popolo, ma per noi!
Perché questo è ciò che sappiamo fare, ciò a cui abbiamo consacrato la nostra
esistenza!”
“Avrete di sicuro la vostra occasione!” –Chiosò Flare,
accennando un inchino e allontanandosi a passo svelto, scuotendo la testa. Il
suo amato stava rischiando la vita, affrontando una qualche oscura Divinità
decisa a distruggere Asgard e a sterminare le sue genti, e quei due non
anelavano altro che a scendere in guerra? Non capiva, a volte, come gli uomini
ragionassero, e questo la turbò. Se ci
fosse stata Ilda, se lei fosse ancora viva, avrebbe saputo cosa dire loro, come
gestire tutto questo!
Ma Ilda non c’era più, naufragata, assieme a Loki
e a Surtr, in un oceano di memorie destinate a
rimanere sepolte per l’eternità, finché un nuovo vento non avesse spento la
fiamma del Distruttore, permettendo alla sorella e al Fabbro di Inganni di
trovare meritata pace. Fu la voce del suo fedele consigliere a richiamarla,
mentre varcava la soglia del Salone del Fuoco.
“Il vostro ospite desidera conferire con voi!” –La informò Enji, indicandole una porta che conduceva ai piani
superiori della fortezza. –“Vi attende nella Torre della Solitudine!”
La Torre della Solitudine, ripeté Flare. Il
luogo dove la sorella aveva trascorso gli ultimi giorni, le ultime settimane
della sua esistenza, leggendo e studiando antichi tomi della biblioteca di
famiglia, alla ricerca di un modo per impedire la conflagrazione universale
scatenata da Surtr. Un luogo in cui, da allora, Flare non aveva più messo piede, ma che Avalon aveva
gradito visitare. Fu lì che lo trovò, alla scrivania di legno a cui anche Ilda
amava trascorrere le serate, a sfogliare vecchi volumi alla tiepida luce di una
candela.
“Salute a voi, Flare di Polaris!”
–La salutò, non appena entrò nella piccola stanza in cima alla più alta torre
della cittadella.
“Sommo Avalon, come posso assistervi?!” –Si inchinò prodiga la
fanciulla, mentre il Principe Supremo degli Angeli le si avvicinava, aiutandola
a rialzarsi e pregandola di mettere da parte l’etichetta.
“Stavo ammirando il lavoro di vostra sorella, la meticolosità con cui
ha riunito preziosi documenti, conservandoli in maniera eccellente!”
“Ilda ha sempre avuto a cuore la storia e la cultura del suo regno,
conoscendola in maniera molto più approfondita di me!” –Confessò la fanciulla
dai capelli biondi.
“Non crucciatevi! Siamo tutti diversi al mondo ma ognuno offre il
proprio contributo, in base alle proprie capacità! Ilda era una valchiria,
l’erede vivente di Brunilde, una donna straordinaria
in grado di conciliare le funzioni di saggia celebrante con quelle di valorosa
condottiera! Voi, dal canto vostro, siete uno spirito colmo d’amore, che
riversate ogni giorno in coloro che vi circondano, siano questi il vostro
popolo, che vi guarda con ammirazione e occhi colmi di speranza, o il vostro
compagno.”
“Sommo Avalon, io…” –Flare
arrossì per un momento, non sapendo cosa rispondere, ma il Signore dell’Isola
Sacra le carezzò il volto niveo, sussurrandole di essere forte, di attingere al
ricordo della sorella e nutrirsi della sua risolutezza, prima di scostarsi e
strusciarsi il mento meditabondo, lanciando un’ultima occhiata fuori dalla
finestra. Le nubi tenebrose stavano ormai per lambire la fortezza di Asgard,
l’ultimo avamposto umano prima del Mare Artico, gravando l’animo di tutti
coloro che dimoravano al suo interno.
“Temo che i nostri pericoli non si esauriscano qua!” –Commentò infine.
“Cosa intendete dire?!” –Si rabbuiò all’istante la Celebrante di Odino.
“Che altri stanno arrivando!” –Parlò allora una terza voce, prendendo Flare alla sprovvista e facendola voltare di scatto. Seduto
su una poltrona, abbigliato di vesti comuni, probabilmente appartenute un tempo
al padre delle sorelle Polaris, un uomo dal volto
austero e dai lunghi capelli castani aveva ascoltato pensieroso i dubbi di
Avalon, dovendo infine dargli ragione.
“Qualcosa di terribile sta per accadere! È strano, troppo strano, che
il nemico si attardi così tanto, perdendo tempo nella Valle di Cristallo!”
“Sospettate qualcosa?” –Domandò allora Flare.
“Dell’ombra sospetto sempre.” –Chiosò Avalon.
Flare, a quelle parole, sospirò, prima che l’esplodere improvviso del cosmo
di Cristal attirasse nuovamente la sua attenzione. Torna! Fremé, chiudendo le mani a
preghiera. Me lo hai promesso, Cavaliere!
Hai promesso di regnare al mio fianco, proteggendo questo popolo che ti ama!
Come io amo te! Torna, Cristal!
***
Quella preghiera dovette raggiungere il Cavaliere di Atena, stretto, in
quel momento, in un’algida morsa dalle tenebre di Erebo, con cui il Nume lo
stava tenendo fermo contro un tronco d’albero, fissandolo con eccitati occhi
rossastri.
“Mostrami il tuo potere!” –Sibilò, muovendo appena le labbra.
–“Mostrami il potere di cui il Gran Maestro del Caos mi ha parlato! Concedimi
un assaggio di ciò che a tal punto l’ha impensierito!”
“Non… so cosa tu stia farneticando…”
–Rantolò il Cigno, bruciando il proprio cosmo. –“Ma se vuoi combattere, non mi
tirerò indietro!” –E sollevò una mano, chiudendola ad afferrare un bracciale
dell’armatura di Erebo. Ma bastò quel contatto, quel lieve tocco, per ustionare
il guanto protettivo di Cristal, costretto ad
allontanarlo all’istante, mentre una tossica nube nera si spandeva da esso.
“Ahuahuahu! Ancora insisti con i tuoi trucchi, Cavaliere? Dovresti
aver capito che la magia dei ghiacci non ha effetto su di me. Come mai
potrebbe? Credi forse che non abbia provato, negli eoni trascorsi
nell’intermundi, il gelo dentro? Un gelo profondo, che ha colmato l’anima di
tutti noi Progenitori di solitudine, smarrimento e disperazione. Un gelo di cui
quello che mi rivolgi contro è un pallido surrogato!!!” –Gridò Erebo, gettando
in aria il ragazzo, travolto da un turbine di tenebra. –“E ora muori, con la
consapevolezza di aver fallito! Muori, con il rimpianto di non aver difeso
questa città! Addio, Cigno! Danza di
daghe!!!”
Un semplice movimento del braccio del Nume generò una raffica di strali
neri, che saettarono verso l’alto, tempestando il corpo indebolito del Cavaliere
di Atena, stretto in una ferrea morsa dal vortice tenebroso di Erebo. Fece per
muoversi, ma il solo tentarvi gli strappò un gemito di dolore, eppure doveva
tentare. Doveva farlo per Flare, che attendeva
trepidante il suo ritorno a casa, per le genti del nord, che lo avevano eretto
a faro di speranza, per Alexer, che giaceva inerme sotto cumuli di rovine, per
i suoi compagni e per Atena, che combattevano contro la stessa ombra.
No!!! Si disse,
avvampando nel proprio cosmo bianco. Le
ali del Cigno non sono ancora spezzate! Io posso ancora volare!!! E bruciò
la propria energia interiore, liberandola come un uccello dal bianco piumaggio,
che spalancò le ali, dilaniando il turbine di tenebra e balzando in alto.
“Erebooo!!!” –Lo chiamò Cristal, splendido, attorniato da una lucente aura
glaciale. –“Vengo da teee!!!” –E si lanciò in
picchiata, con i pugni uniti sopra la testa, roteando su se stesso come una
cometa di pura energia.
Il Nume Ancestrale sogghignò, divertito da quella
nuova sfida, limitandosi a volgergli contro il palmo della mano, su cui
concentrò l’oscura materia di cui era padrone, alzandola come scudo su cui si
infranse l’assalto di Cristal. Ma questi, anziché
allontanarsi, anziché fuggire sconfitto, continuò a insistere, a roteare
vorticosamente su se stesso, infondendo nei pugni tutto il suo cosmo glaciale.
“Incredibile!!!” –Fu costretto ad ammettere il Signore
delle Tenebre, osservando l’equivalersi delle due forze in atto: l’ombra, così
forte e mortifera, in grado di far evaporare il ghiaccio all’istante,
disperdendolo in torbide nubi nere, e il ghiaccio stesso, che riusciva a
ricrearsi di continuo, inserendosi come barriera sottile ma continua in grado
di proteggere il Cavaliere dal venefico cosmo di Erebo. –“Pfui!!!”
–Tuonò infine il Nume, liberando un’onda di energia oscura che travolse il
Cigno, scaraventandolo molti metri addietro, tra fango, neve sporca e
pietrisco, imbrattando e graffiando ulteriormente l’Armatura Divina. –“I miei
complimenti, mi hai indotto a impegnarmi di più! Ma se tutto lo sforzo che vi
hai infuso è servito solo a farmi usare la mano, al posto di un dito, cosa
farai quando userò il mio cosmo per intero?” –Ghignò, espandendo la propria
aura mortifera, che si innalzò come una muraglia d’ombra, allargandosi ai lati
e infettando il suolo e la foresta vicina.
In un attimo la neve cambiò colore, dando addio al
candore incontaminato di secoli e tingendosi di un putrido nero fangoso; gli
alberi appassirono, la terra tremò e vomitò pece nera, e quel che un tempo era
stata la Valle di Cristallo adesso pareva una propaggine infernale del regno di
Hel.
No, rifletté
il Cavaliere. Neppure il mondo della
figlia di Loki era così tenebroso e nocivo! Ma
non ebbe il tempo di pensare altro che già Erebo aveva sollevato un braccio al
cielo, generando una spirale oscura da cui presto spuntarono aguzzi pungiglioni
di energia.
“Il tuo cosmo è notevole, come lo era quello del
Cavaliere di Pegasus, uomini sempre pronti a rialzarsi pur con il corpo a
pezzi!” –Ammise il Nume tenebroso, più parlando a se stesso che a Cristal, che faticava a stare in piedi. –“Pur tuttavia
siete soltanto uomini, di cosa mai dovrei aver paura? Non capisco perché il
Gran Maestro del Caos mi abbia messo in guardia da voi! Cosa può un uomo di
fronte a un Dio Ancestrale?” –Scosse la testa, turbato da quegli stupidi
pensieri che non riteneva degni di lui, e liberò la pioggia di strali cosmici,
solo per percepire lo schiantarsi furioso di un fulmine azzurro a pochi passi
da lui.
Fu un attimo, ma sufficiente per balzare indietro, evitando la
scintillante folgore, che rischiarò l’armatura azzurra di un uomo apparso
davanti a lui. Alto e bello, con un filo di barba macchiata dal sangue di una
ferita aperta sotto l’occhio, il Principe Alexer teneva lo sguardo inchiodato
su di lui, deciso a vendicare i BlueWarriors caduti per mano sua.
“Cristal, permettimi di combattere assieme a
te!”
Il ragazzo annuì ed un nuovo scontro stava per avere inizio.
Iside era inginocchiata vicino al lago sacro ad Amon,
nel cuore del complesso di Karnak, poco distante dalle sale riservate al
Signore del Sole d’Egitto. Di fronte a lei svettava imponente una statua, di
recente ristrutturata dopo secoli di esposizione sconsiderata alle intemperie e
al languire nel tempo, dedicata a Kepri, lo scarabeo
sacro, rappresentante il sole sorgente. E lei proprio a quello si stava
aggrappando nelle sue preghiere, sperando che l’umanità potesse conoscere una
nuova alba. Eppure quel fosco tramonto che da ore imperava sull’intero Egitto
minava in lei ogni fiducia, al pari dei violenti scontri di cosmi in atto
attorno a lei, scontri che, lo percepiva chiaramente, avevano coinvolto anche
suo figlio Horus e la sua progenie.
Sospirando, la Dea della Maternità si rimise in piedi, rivolgendo un
ultimo pensiero all’amato scomparso, certa che non troppo a lungo sarebbero
stati separati. Aveva ceduto il tiet a Febo, usando il proprio sangue divino per curare le ferite
sue, di Marins e di Horus, riparando al qual tempo le
loro armature. Il suo compito lo considerava esaurito, perciò che venissero
pure ad ucciderla.
“Mia signora?!” –Mormorò una voce alle sue spalle. –“Dovremmo
rientrare! Non è prudente restare qua allo scoperto!”
Iside sorrise al giovane Faraone delle Sabbie che Amon
le aveva assegnato come scorta, assieme a una ventina dei suoi migliori Soldati
del Sole, per quanto la Dea avesse più volte insistito di non aver bisogno di
assistenza.
“Ti ringrazio, Ermanubi!” –Si limitò a commentare, incamminandosi verso
le stanze a lei dedicate, prima che un’esplosione distraesse entrambi,
costringendoli a voltarsi verso il Cortile del Nascondiglio, che si apriva sul
lato sinistro della Sala Ipostila. I piloni laterali vennero ridotti in
polvere, che un vento sanguigno sparse contro di loro, inquinando la pozza
sacra ad Amon, e prima ancora che i soldati potessero
reagire due snelle sagome erano già balzate su di loro, sventrandoli uno dopo
l’altro.
“Fermatevi!!!” –Gridò allora il Faraone delle Sabbie, avanzando verso gli
aggressori, avvolto in un cosmo verdastro.
Le due atletiche figure fissarono per un attimo l’impavido guerriero in
armatura rossiccia, scoppiando poi in una risata selvaggia, che alle orecchie
di Ermanubi suonò come un’irriverente sghignazzata, prima di ricominciare a
massacrare le guardie del corpo di Iside, senza degnarlo di ulteriore
attenzione.
“Vi ho detto di fermarvi!!!” –Ripeté allora il giovane infastidito,
espandendo il cosmo e scattando avanti, a testa bassa, in una posa che ai due
invasori ricordò quella di un cane del deserto. –“Ringhio furioso dello sciacallo!!!” –Tuonò, piombando su una delle
due figure, che fu svelta però a balzare indietro, posizionando di fronte a sé
il corpo del soldato che stava massacrando, lasciando che fosse il suo stesso
compagno a terminare il lavoro. –“Maledizione, siete delle spregevoli
carogne!!!” –Avvampò Ermanubi, concludendo l’attacco e cercando di non guardare
il cadavere del ragazzo che aveva appena dilaniato con le sue zanne.
“Carogne?! Noi?! Ah ah ah! Tutt’altro, mio
caro, noi non ci avventiamo sui resti di una battaglia! Noi la battaglia la
causiamo, aprendo le fila! Non restiamo pavide nelle retrovie ad attendere gli
eventi!” –Chiarì una delle due figure, che adesso il Faraone delle Sabbie poté
riconoscere come una donna, al pari di colei che l’accompagnava.
Alte e slanciate, con un fisico impeccabile, risultato di un costante
addestramento, entrambe le guerriere indossavano scure corazze dai riflessi
violacei, piuttosto semplici in verità. Solo una delle due presentava una
caratteristica singolare agli occhi di Ermanubi, che non poté staccarvi lo
sguardo. Sul pettorale della donna finora rimasta in silenzio era stato
disegnato un volto umano nell’atto di gridare di follia, gli occhi sgranati,
quasi allucinati, iniettati di un rosso ardente e male auspicante.
“Ammiri la mia opera, giovane egizio?” –Ridacchiò infine questa donna,
muovendosi avanti e spostandosi i lunghi capelli biondi dietro la schiena.
–“Vivendo qua, in queste aride terre, di certo non avrai mai avuto il piacere
di incontrarlo, ma quest’uomo che vedi qua ritratto è il figlio di Zeus
Olimpio, ritratto il giorno in cui gli feci perdere la ragione! È una storia
che immagino tu non conosca e con cui non voglio tediarti, mi limiterò solo a
raccontarti il finale!” –Aggiunse, portandosi a pochi passi dal Faraone delle
Sabbie, che non riusciva a muoversi, inchiodato a terra da un enorme potere
psichico. –“Egli impazzì!” –Sibilò la donna, prima di abbandonarsi a una sonora
sghignazzata, piegando il ragazzo a terra, che si portò le mani alla testa,
scuotendola disperato.
“Ermanubi!!!” –Intervenne allora Iside, muovendosi verso di lui, cinta
dall’ultimo plotone di Soldati del Sole che resisteva a sua difesa.
“Dunque questo è il tuo nome, Ermanubi dello Sciacallo?!” –Le disse la
donna dal biondo crine, chinandosi su di lui e sfiorandogli il mento, sì da
sollevargli la testa e permetterle di ammirarne compiaciuta lo sguardo. –“Quale
coincidenza! Perché proprio uno sciacallo sei adesso diventato e quelle alle
tue spalle sono carogne su cui devi avventarti! Divorale! Sbranale! Squartale
in pezzi così piccoli da renderli irriconoscibili! Ah ah ah!”
–Rise infervorata la guerriera, mentre il giovane si rimetteva in piedi,
voltandosi verso Iside e i suoi compagni e fissandoli con occhi vitrei, che
parvero loro spiritati. Non disse niente, limitandosi a scattare avanti, le
mani artigliate ricolme di energia cosmica, scagliandosi sulle guardie a
protezione di Iside, massacrandole una dopo l’altra.
“Ermanubi, fermati!!!” –Gridò la madre di Horus, affranta, prima che le
due nemiche balzassero su di lei, afferrandola per le braccia e
immobilizzandola in una spirale di cosmi oscuri, che presto piegò l’indebolita
Divinità a terra.
“Nutriti, Ermanubi, nutriti di questa bella carcassa!” –Ringhiò colei
che aveva preso possesso della mente del giovane, invitandolo ad avvicinarsi e
a sfoderare le zanne.
Iside lo fissò per un’ultima volta, notandone lo sguardo indemoniato, e
capì che la sua ora era giunta. Riuscì soltanto a pensare a Osiride, che presto
avrebbe abbracciato di nuovo, e a Horus e Febo,
augurandosi che potessero vivere a lungo, prima che il braccio teso di Ermanubi
dello Sciacallo le trapassasse lo sterno, facendole vomitare sangue.
***
“Madre!!!” –Mormorò Febo, tendendo d’istinto
i sensi e voltandosi verso le mura di Karnak, dal cui interno percepiva scontri
in atto.
“Attento, Febo!!!” –Gridò il compagno, balzando su di
lui e afferrandolo un attimo prima che il potente pugno del gigantesco nemico
lo schiacciasse nel suolo sabbioso. –“Che stai facendo? Non distrarti!” –Lo
redarguì Marins, rimettendosi al qual tempo in piedi
e bruciando il proprio cosmo lucente. –“Maremoto
dei mari azzurri!!!” –Urlò, liberando un gorgo di energia che si abbatté su
un gruppetto di Lestrigoni che li aveva presi di
mira, scagliandoli lontano, contro il resto del loro esercito.
“Ho percepito qualcosa… Un’ombra ha varcato
la soglia di Karnak! Più d’una, in verità! E mia madre…Iside… lei sta languendo!” –Mormorò il biondo
Cavaliere del Sole, gli occhi umettati di lacrime. –“Devo andare da lei! Devo
salvarla!”
Marins rimase per un istante ad osservare il compagno, riflettendo sul da
farsi. Andrei stava ancora fronteggiando il terribile Demone della Guerra, in
uno scontro destinato a procrastinarsi fino alla distruzione di uno dei
contendenti; Horus e la Dea Gatta, poco distanti, stavano tenendo impegnata
l’agile Chimera e Sin degli Accadi stava guidando i Soldati del Sole in uno
scontro frontale con l’Armata delle Tenebre. Loro avevano i Lestrigoni
di cui occuparsi, quei grossi guerrieri coperti di placche resistenti in grado
di deviare la maggior parte degli attacchi comuni. Come potevano abbandonare i
compagni? Pur tuttavia Marins comprese le esigenze
dell’amico, il bisogno di salvare una persona che per lui significava tutto,
per lui era la madre.
“Io non ho parenti in vita!” –Commentò il Cavaliere dei Mari Azzurri.
–“Soltanto una lontana zia, che ormai si sarà dimenticata di me! Cara zia Susy,
chissà come sta, se ha trovato uno spicchio di felicità che solo i libri
parevano offrirle! Non ho felici ricordi di famiglia cui aggrapparmi, ma ti
aiuterò per proteggere la tua, amico mio!”
Febo sorrise all’ennesima dimostrazione d’affetto che li legava, prima di
voltarsi entrambi verso una coppia di Lestrigoni che
torreggiava alle loro spalle, le braccia già sollevate per pestarli. Non
dovettero neppure liberare i loro colpi segreti che dorate scariche energetiche
avvolsero i due colossi, aprendo crepe nelle loro corazze e facendo schizzar
fuori sangue e materiale organico. Marins approfittò
del momento per trafiggerli entrambi al costato con il Talismano da lui
custodito, osservandone poi i robusti corpi crollare nella sabbia e rivelando
la figura ammantata di luce che era giunta in loro aiuto.
“Ho udito anch’io il lamento che si leva dalle mura di Karnak! Andate,
Cavalieri di Avalon, e proteggete chi avete caro! Ioria
del Leone vi guarderà le spalle!”
“Ti ringrazio, Cavaliere di Leo! La stessa nobiltà che intravidi quel
giorno nel cuore di tuo fratello regna in te!” –Commentò il figlio di Amon Ra, prima di scambiarsi un ultimo cenno d’assenso con Marins e sfrecciare via, lungo il Viale delle Sfingi di
Karnak, attorno al quale violenti scontri erano in corso.
***
Non appena ebbero varcato la soglia monumentale che si apriva sul
grande cortile porticato, Febo e Marins
impallidirono di fronte alla carneficina appena consumatasi. Un centinaio di
Soldati del Sole giacevano a terra, in posizioni scomposte, le vesti
stracciate, i corpi smembrati, il sangue che macchiava il suolo e le mura
esterne della Sala Ipostila. Là dove un tempo i fedeli e i visitatori che
giungevano a Karnak potevano ammirare magnifici bassorilievi che illustravano
scene di battaglia, i trionfi dello splendente Amon
sull’oscuro Apopi, adesso baluginavano macabri i
resti di coloro che per il Dio del Sole avevano dato la vita.
Marins deglutì a fatica, nauseato da quell’orrore, da tutta quella violenza
gratuita che non aveva ragione d’essere; fece per dire qualcosa, per consolare Febo al suo fianco, ma questi, chiudendo le mani a pugno,
stava già avanzando, nel mucchio di cadaveri, sincerandosi con un rapido
sguardo se vi fosse qualche superstite. Quindi, drizzando i sensi, percepì due
violenti scontri in atto, uno all’interno della Sala Ipostila e uno
all’esterno, vicino alla pozza sacra ad Amon, dove
sua madre era solita pregare.
Costretto ad una scelta, Febo decise di
fidarsi di suo padre, ben sapendo che pochi avversari sarebbero stati in grado
di impensierirlo; ma quando si mosse verso il Cortile del Nascondiglio, il
tocco apprensivo della mano di Marins lo sfiorò,
dando voce ai suoi pensieri.
“Ricordi le parole di Avalon
durante l’assemblea dell’alleanza? Nessuno può uccidere un Angelo. Sarà vero?”
Febo non rispose alcunché, avendo percepito anch’egli l’oscurità che si
annidava tra i colonnati della Sala Ipostila. Un cosmo terribilmente
oscuro, striato di sangue, che temettero entrambi di conoscere.
Un grido di donna mise fine alle
loro esitazioni, portandoli a scattare attraverso il Cortile del Nascondiglio,
raggiungendo infine il cuore di Karnak, il lago sacro ad Amon
Ra, benedetto dalle luci del sole sorgente. Là, sulle sponde ormai macchiate di
sangue, giaceva la Dea che aveva cresciuto Febo,
prendendosi cura di lui come una madre, massacrata dalla violenza di un uomo in
armatura rossa e da due donne rivestite di scure corazze. Inorridendo, il
Cavaliere del Sole riconobbe nel carnefice di Iside uno dei guerrieri di suo
padre, mentre Marins, rimasto pochi passi alle sue
spalle, scrutava guardingo le snelle sagome di coloro che stavano riempiendo di
calci il deturpato corpo di Iside, cercando di non notare i cadaveri massacrati
dei Soldati del Sole che costellavano il cortile.
“Come osate?!” –Tuonò Febo, espandendo all’istante il proprio cosmo.
“Oh bene, sorella! Sembra che
finalmente avremo modo di divertirci, con due giovani che non sono affatto
male! Cosa ne pensi?!” –Sghignazzò una delle due, con mossi capelli rossicci,
che parevano tinti col sangue delle sue vittime.
“Sai bene che ho un debole per i
biondi!” –Ridacchiò l’altra. –“Rimpiango che il Maestro del Caos non ci abbia
fatto partecipare al Ragnarök! Chissà quanti biondi
vichinghi avremmo potuto conoscere!”
“Tacete, demoni della peggior specie!!!” –Ruggì il Cavaliere del Sole,
sollevando un braccio al cielo, sul cui palmo aperto una sfera di ruggente
energia rossastra apparve all’istante, prima che il ragazzo la dirigesse verso
le due guerriere.
Svelte furono entrambe a scattare di lato, lasciando che il globo
incandescente esplodesse nella pozza alle loro spalle, ma Febo
non diede loro tempo di rifiatare, scattando avanti, già con una nuova sfera di
energia in mano. La donna dai capelli biondi, su cui il figlio di Amon si avventò, reagì con un’identica sfera energetica,
lasciando che le due detonassero violentemente, spingendo entrambi indietro.
Non riuscì, la compagna dalla chioma sanguigna, ad accorrere in suo aiuto,
bloccata sul posto dalla carica di Marins, che la
colpì con una spallata, schiantandola contro la statua dedicata allo Scarabeo
Sacro. Se non fosse stata lesta di riflessi, la donna vi sarebbe rimasta
conficcata, trapassata dal luminoso tridente che il Cavaliere dei Mari Azzurri
subito scagliò su di lei, costringendola a muoversi ancora.
“Pare che ben più combattive prede abbiamo infine trovato!” –Commentò
allora. –“Ero stufa di quegli insulsi soldati, ai miei occhi carne da macello,
niente più!”
“Non denigrare coloro che con devozione e coraggio hanno combattuto per
difendere il tempio sacro a mio padre, donna! Non hai rispetto per la vita?”
–Declamò Febo.
“Tuo padre?! Dunque sei tu il famoso Febo, il
bastardo che Amon ebbe da una donna greca, suscitando
le ire di Apollo?! Ti sei ben conservato per avere…
quanti? Mille anni?!”
“La tua ironia è fuori luogo! Prepara le difese, invece!” –Rispose il
Cavaliere del Sole, presto affiancato dal compagno, mentre anche le due donne
si radunavano tra loro e una delle due sbraitava qualche ordine al guerriero in
armatura rossa, rimasto immobile accanto al corpo massacrato di Iside. –“Ma quello… Ermanubi dello Sciacallo?! Cosa fai con loro?
Perché combatti dalla loro parte?!”
Il Faraone delle Sabbie non disse alcunché, limitandosi a scattare
avanti, le braccia artigliate pronte per ghermire il biondo figlio di Amon, che esitò un momento, non desiderando colpire colui
che, fino a quel momento, aveva sempre considerato un fedele servitore di suo
padre. Fu Marins a intervenire a sua difesa,
posizionandosi di fronte all’amico e investendo Ermanubi con un vorticante
globo di energia azzurra, che lo travolse in pieno, sradicandolo da terra e
schiantandolo poi dentro la pozza sacra ad Amon, con
l’armatura distrutta in più punti.
“Perdonami…” –Mormorò quindi, rilassando le
braccia e ottenendo al qual tempo un gesto di stanco assenso da parte del
compagno.
“Ben fatto, Cavaliere azzurro! Adesso siamo rimasti in quattro, numero
perfetto per uno scontro incrociato! Chissà potremmo anche divertirci a
scambiarci gli avversari, pratica a cui mia sorella ed io siamo solite
abbandonarci quando gli uomini ci stufano! Ah ah ah!”
–Rise sguaiata la guerriera dai capelli vermigli, che parvero agitarsi, mossi
da un vento oscuro, quasi fossero la chioma di una Gorgone. –“Da quale
preferisci iniziare sorella? Dal bastardo o dal marinaio?”
“Chi siete?!” –Tuonò infine Febo.
“Che sbadate, non ci siamo presentate! Permettetemi di rimediare a
quest’increscioso errore prima di scatenarci in una mortale quadriglia!”
–Sibilò allora la donna bionda, avanzando verso i due Cavalieri, che subito
alzarono le braccia in posizione di guardia. –“Il mio nome è Lissa, Dea della Rabbia e del
Furore cieco! E la mia deliziosa sorella è Keres,
meglio nota come morte violenta! Siamo le più potenti delle Astrazioni, figlie
di Nyx, Signora della Notte e Prima Dea! E ora che
conoscete il nostro nome, potete morire!” –Ringhiò, scattando avanti, i pugni
chiusi e sfrigolanti una potente energia cosmica, obbligando Febo e Marins a scartare di lato.
Subito il Cavaliere dei Mari Azzurri evocò un globo di energia celeste,
che turbinò di fronte a sé prima di scagliarlo contro la Dea della Rabbia, che
neppure si mosse, spalancando le braccia di lato e investendo l’attacco con un’onda
di energia, che lo disperse e scaraventò persino il ragazzo indietro.
No! Analizzò, rialzandosi all’istante. Non è stata un’onda di energia, è stata
un’onda sonica! Un urlo quasi, che non è uscito dalle sue labbra, bensì… dalla sua armatura?! Sgranò gli occhi,
osservando lo sguardo inebriato di follia dipinto sul pettorale della nemica,
uno sguardo che apparteneva ad un uomo che credeva di aver già visto, senza
ricordare quando e dove. Solo allora si accorse che Febo
era stato intrappolato, avvinto da lunghi filamenti rossastri e sbattuto a
terra, sotto il tacco divertito della Dea chiamata Keres.
“Smettila di dimenarti, bel biondino! Il tocco dei miei capelli non ti
aggrada, forse?! Non sono delicati come la chioma della regina Berenice ma di
certo sanno come catturare l’attenzione degli uomini! Eh eheh!” –Ridacchiò questa, continuando ad avvolgere il
corpo del Cavaliere del Sole nella sua folta capigliatura, che si era animata e
allungata, come sinuosi serpenti, fino a stritolarlo nella sua morsa, lasciando
libero soltanto il volto, e neppure tutto. Solo una sottile striscia che
attorniava gli occhi, permettendo a Febo di
continuare a vedere. E quello che vide fu l’abominevole dipinto di un uomo
dallo sguardo indemoniato che si avvicinava minaccioso, mentre Lissa sghignazzava, avvolta nel suo cosmo oscuro.
“Keres, sorella, forse il bastardo di Karnak
preferisce il tocco delle mie labbra! Lasciami verificare!” –Frusciò,
chinandosi sul giovane e posandogli un bacio in mezzo agli occhi, saturo di
tutta la sua tenebrosa potenza. Bastò quel contatto a far esplodere il cosmo di
Febo, che avvampò come astro nascente incendiando la
rossiccia chioma che lo imprigionava e forzando le Astrazioni a balzare
indietro, per non essere ustionate dall’impetuosa corona di fuoco che l’aveva
avvolto. Respirando a fatica, il Cavaliere di Avalon fece per rialzarsi, quando
percepì un improvviso peso sul cuore, che lo piegò di nuovo, costringendolo a
poggiare un ginocchio a terra.
“Febo!!!” –Lo chiamò allora Marins,
avanzando verso di lui, prima che l’agile salto di Keres
gli chiudesse ogni accesso al compagno. –“Stammi lontana, strega!!!” –Avvampò,
mulinando il Tridente dei Mari Azzurri e mirando al cuore della Dea, che,
bruciando il proprio cosmo oscuro, ne frenò l’impatto, afferrandone le punte
con le mani, incurante dello stridore di quell’arcaico metallo sulle dita e del
ruscellare del proprio sangue divino.
“Spiacente, ragazzo, ma dovresti aver capito che io non possiedo un
cuore!” –Sghignazzò, spingendo lontano il Talismano, di cui Marins
perse la presa, e gettandolo in acqua, prima di avventarsi sul ragazzo e
tempestarlo di artigli di energia incandescente. Un destro dietro l’altro
permise a Keres di scaraventarlo contro la statua di Kepri, abbattendola all’impatto, e là inchiodandocelo,
trafitto al costato da potenti unghioni energetici.
“Keres! No!!!” –Urlò allora Lissa, richiamando la sorella. –“Trattieni la tua furia!
Lascia che sia il bastardo a sbarazzarsi dell’amico del cuore! Lascia che sia
il responsabile della fine di Amon e di Karnak ad
affossare definitivamente il regno di suo padre!”
A quelle parole Keres ridacchiò, voltandosi
verso la Dea della Rabbia, in piedi accanto al corpo sofferente di Febo. Anche Marins levò lo
sguardo, senza capire cosa stesse davvero guardando, senza capire come poteva
quell’infingarda Divinità aver prostrato il compagno, spegnendo in lui ogni
fiamma vitale, ogni desiderio di lotta in difesa della propria famiglia, della
propria terra. Con orrore, il giovane americano vide Febo
alzarsi infine in piedi, lo sguardo privo di ogni raziocinio, gli occhi
sgranati e sofferenti, intrisi di una follia che non gli era propria. La stessa
follia che Marins aveva rimirato poco prima in
Ermanubi dello Sciacallo e nella testa pitturata sulla corazza di Lissa. E allora capì quel che era accaduto.
“Lissa… Dea del Furore Cieco! Ora mi ricordo
di te!” –Mormorò, sputando sangue sul braccio di Keres,
che ancora lo teneva bloccato contro il basamento della statua di Kepri. –“Sei la Divinità che conduce al delirio, alla
rabbia, alla perdita di sé, uomini e animali! Fosti tu ad aizzare i cani contro
Atteone, reo di aver visto l’adorata Artemide nuda? E
ugualmente tu instillasti la pazzia nel Sommo Eracle, portandolo ad uccidere i
suoi stessi figli! Adesso riconosco il volto che porti, con ignominioso onore,
dipinto sul petto! Il volto di Eracle impazzito e furioso!”
“Il volto del mio più grande successo!!!” –Sghignazzò la Dea,
carezzando i capelli del biondo Cavaliere di Avalon. –“Riuscire a piegare persino
la mente di un coriaceo semidio quale Eracle era a quel tempo! Al confronto,
piegare la psiche di questo ragazzo è stato un gioco, poiché essa era già
malata!”
“Cosa… vuoi dire?!” –Rantolò Marins, spostando lo sguardo sull’amico.
“Quel che ho detto! Ben poco ho dovuto fare in verità, poiché il
bastardo già si riteneva colpevole della caduta in miseria del padre! Ma di
certo, tu che gli sei amico, lo saprai! Saprai che, a causa della sua nascita
vi furono spaccature nel pantheon egizio e molti Dei, fino ad allora alleati di
Amon Ra, lo abbandonarono, andando per la loro strada
e contribuendo al degrado culturale e religioso di queste terre, degrado che
divenne abbandono quando il Nume del Sole prese la netta decisione di uscire
dal tempo! E sempre a causa sua sofferenza e morte sono tornate a regnare a
Karnak, portando Osiride e la sua sposa amata alla morte! Ah ah ah! In un animo tormentato come quello dell’amico cui così
tanto sei devoto, la scintilla della pazzia era già presente, attendeva solo di
essere accesa! Divampa, adesso, follia!!!” –Strillò Lissa,
espandendo il proprio cosmo oscuro, che avvolse il corpo del Cavaliere del
Sole, sopraffacendone la luce.
“Nnn…Nooo!!!”
–Gridò allora Marins, liberandosi dalla morsa di Keres con un vortice di energia acquatica, che sorse ratto
attorno a sé, sollevando la Dea e spingendola indietro, mentre il Tridente dei
Mari Azzurri sfrecciava di nuovo nelle sue mani.
“Non a me devi mirare, baldo giovane, bensì all’amico tuo!” –Sogghignò Lissa, mentre Febo, dallo sguardo
spiritato, avanzava a passo malfermo, fino a portarsi di fronte a Marins.
“Febo…” –Mormorò quest’ultimo, incapace di
affondare l’arma nel petto del compagno.
“Devi ucciderlo o lui ucciderà te!” –Sibilò compiaciuta la Dea del
Furore Cieco.
“Ti sbagli! Non accadrà!” –Rispose Marins,
lasciando cadere a terra il Talismano e stringendo forte una mano di Febo, infondendogli il suo cristallino cosmo azzurro. –“Né
ora né mai leverò la mano su un amico, tanto più contro il migliore che ho! Febo, risvegliati, so che puoi sentirmi! L’ombra di Lissa è una nube che il tuo cosmo luminoso può dissolvere
in un battito di ciglia! Sei il figlio del sole d’Egitto e soprattutto sei un
amico, da sempre dedito a combattere per nobili cause e difendere coloro che hai
cari! Non incolparti della morte di Osiride, né di Iside, ma pensa a quelli che
possiamo ancora salvare! Pensa a tuo padre, che affronta l’ombra nella Sala
Ipostila, a tuo fratello Horus che ancora affanna contro l’Esercito delle
Tenebre, e a me, che ti sono amico! Pensa alla tua famiglia e lotta per
questo!”
“Sprechi il fiato, ragazzo…” –Ringhiò allora Keres, balzando sul Cavaliere dei Mari Azzurri. –“In quanto
a me, sono stanca di aspettare, stanca dei tuoi trucchi, Lissa!
Io sono qui per uccidere e trucidare! E ora… muori!!!” –Avvampò, mentre Marins si dimenava sotto di lei, allungando il braccio
destro per recuperare il Tridente dei Mari, ma venendo inchiodato al suolo
dagli artigli incandescenti della Dea.
“Muori tu, invece!!!” –Esclamò una voce tirando su di peso Keres dal corpo del ragazzo e scagliandola in aria, prima
che una sfera di ardente energia la raggiungesse, distruggendo la sua corazza e
facendola precipitare al centro della pozza sacra. –“La lascio a te, Marins! Io ho un conto in sospeso con Lissa…”
–Aggiunse Febo, il cui cosmo riluceva adesso di una
vivida fiamma di speranza.
“Lieto di riaverti tra noi!” –Sorrise il compagno, rimettendosi in
piedi, con il Tridente dei Mari Azzurri saldo nella mano destra.
“Merito tuo!” –Rispose Febo, prima di
voltarsi verso Lissa e piantarle uno sguardo
fiammeggiante addosso. Uno sguardo di una potenza tale da schiantarla contro i
resti del colonnato abbattuto del Cortile del Nascondiglio, mentre alte fiamme
si levarono subito attorno a lei. –“La tua visione delle cose, il modo in cui
contorci la realtà, è solo un punto di vista, e come tale è opinabile! Qualcuno
ritiene che gli Dei, per la loro superiorità rispetto alle cose umane,
rappresentino l’immutabilità, la fissità rispetto al cambiamento; eppure io,
che di un Dio sono figlio, ho sempre ammirato il coraggio che mio padre ha
avuto di cambiare, di reinventare se stesso, gettandosi alle spalle un funesto
passato! Per quel coraggio, per quel mutamento intervenuto in lui, allo scopo
di dare un futuro a me e alle genti di Karnak, io combatto! Sono il figlio del
Sole d’Egitto, e tu, miserabile Astrazione che godi dei tormenti altrui, sarai
la prima ad ammirare la mia luce!!! Ammira lo splendore dell’Occhio di Ra!!!” –Declamò, sollevandosi
a mezz’aria, con entrambe le braccia alzate al cielo, quasi a reggere una
figura di puro cosmo simile ad un occhio spalancato, da cui sorsero vivide
lingue di fuoco, abbattendosi su Lissa, che ancora
claudicava nel rialzarsi, e incenerendola all’istante.
Con un grido atroce, nient’affatto dissimile da quello cui le sue
vittime si abbandonavano quando ritrovavano la lucidità, consapevoli del male
commesso mentre erano stati travolti dalla pazzia, la Dea del Furore Cieco
arse, consumandosi in un’unica fiammata, lasciando di sé soltanto resti
carbonizzati dell’armatura, su cui il volto di Eracle ormai non strillava più.
“Io non sono un bastardo!” –Commentò Febo,
planando a terra, fiero di aver avuto ragione anche di quell’epiteto che a
lungo aveva marchiato la sua esistenza. soprattutto in giovane età.
“Vermi infami, siate maledetti!!!” –Rantolò allora Keres,
con la corazza danneggiata, cercando di uscire dal lago di Amon.
“Resta lì! Lascia che siano le acque della pozza sacra, che hai
inquinato con la tua sola presenza, a occuparsi di te!” –Parlò Marins, ergendosi di fronte a lei, avvolto nel proprio
cosmo azzurro. Socchiuse gli occhi, mentre immense colonne di energia acquatica
si sollevavano attorno alla Dea, che si guardò attorno per la prima volta con
sguardo smarrito, incapace di trovare una via di fuga in quella muraglia
azzurra che la circondò all’istante, precipitando su di lei e schiacciandola in
imperiose spire. –“Maremoto dei mari
azzurri!!!” –Tuonò il Cavaliere di Avalon, gettandola di nuovo in alto,
travolta da potenti marosi che la stramazzarono contro le mura esterne del
tempio di Amon, facendole crollare su di lei.
“Madre…” –Udì allora Febo
mormorare, voltandosi e trovando l’amico chino sul corpo spezzato della Signora
della Maternità. –“Sono arrivato tardi, perdonatemi…”
–Singhiozzò il ragazzo, carezzando il volto spento della Dea. –“Voi mi avete
sempre sorretto, difeso, cullato quando ero bambino, e io vi ho ricambiato
conducendo voi e il vostro sposo alla morte!”
“Febo…” –Sussurrò la fioca voce di Iside, stupendo
il ragazzo che non credeva fosse ancora viva. –“Sbagli…
In verità, sei arrivato in tempo.” –Aggiunse, sorridendogli, prima di spegnersi
tra le sue braccia.
Il Cavaliere del Sole, in lacrime, la chiamò più e più volte, ma la Dea
ormai se ne era andata, abbandonando quelle spoglie mortali e scendendo in Amenti, ove avrebbe ritrovato il suo sposo e con lui
sarebbe rimasta, a proteggere Febo e Horus da
lontano. Convinto di quella certezza, Marins affiancò
l’amico, sfiorandogli la spalla con una mano e portandolo a voltarsi verso di
lui, accennandogli un sorriso stanco ma sentito.
Proprio allora un boato gigantesco anticipò l’esplodere del soffitto
della Sala Ipostila, ove, entrambi lo percepirono chiaramente, un devastante
scontro di cosmi era ancora in atto. Uno scontro tra l’ombra e la luce.
Capitolo 24 *** Capitolo ventitreesimo: Le risorse di Atena. ***
CAPITOLO
VENTITREESIMO: LE RISORSE DI ATENA.
Il modo in cui i Cavalieri di Atena avevano ferito Atlante aveva
stupito la Dea del Giorno, non ritenendo possibile un simile atto di
sacrificio, quasi di pazzia. Assisa sulla Meridiana dello Zodiaco, si era persino
alzata in piedi quando il corno d’argento aveva perforato il fianco del
gigante, facendolo latrare di disperazione, ed aveva strabuzzato gli occhi
quando i difensori del tempio avevano unito i cosmi in un’unica barriera
difensiva, uno sforzo titanico a cui suo fratello aveva posto fine con un
semplice schioccar di dita.
Ma anche adesso non si arrendevano, ancora affannavano nel rialzarsi,
decisi a fare l’impossibile pur di impedire ad Atlante di avanzare.
Incuriosita, Emera continuò ad osservarli, senza
capirli, senza capire cosa li facesse agire, quegli stupidi, patetici esseri
umani. Fu allora che vide un bambino dai ricci capelli castani farsi strada tra
le macerie, usando limitati poteri di telecinesi per fermare il crollo di rocce
e mura sui soldati, spostandoli poi al sicuro, aiutato da una ragazza con il
volto coperto da una maschera. Un’altra probabile Sacerdotessa, la cui corazza
era segnata dalle ferite riportate nello scontro con il titano, stava incitando
il resto dei soldati ad andarsene, usando quel poco che restava del suo misero
cosmo per lenire le loro ferite, strappando un sorriso o smorzando un gemito a
quelle deboli creature. Eppure, per quanto deboli e insignificanti, quegli
esseri si stavano rialzando, per lottare ancora.
I due Cavalieri d’Oro, dalle corazze ormai offuscate dalla polvere, dal
sangue e dalla lotta furiosa, stavano radunando le forze, assieme ad un uomo
smilzo dai lunghi capelli neri, mentre alle loro spalle una donna dai capelli
amaranto faticava nel tirar fuori dalla macerie dei ragazzi più giovani di lei.
Il tutto con l’ombra di Atlante incombente su di loro.
Emera avrebbe quasi voluto gridare loro di scappare, di fuggire via da
quell’inferno in cui loro stessi avevano voluto precipitare. Soprattutto alla
donna dai capelli fulvi, che tanto si affannava per liberare quei ragazzetti
feriti, mentre la mano del titano stava per calare su di lei. In un tripudio di
luce, i tre Cavalieri più potenti ne rallentarono la corsa, proteggendo la
sacerdotessa con una cupola di energia e poi sollevandosi in aria e dirigendo
nuovi attacchi luminosi verso il volto del titano.
La Dea sospirò, prima di udire, nel silenzio soffocato della sua anima,
delle voci parlarle.
“Volevi sapere cos’era l’amore? Il più potente sentimento umano? Volevi
capire perché gli uomini si affannassero tanto a vivere, si intestardissero per
godere di quei pochi attimi di felicità concessi loro di fronte all’eternità
del tempo cosmico? Allora osservali, madre, penetra a fondo la loro natura e ne
comprenderai il mistero!”
Emera si guardò intorno, cercando di capire chi avesse parlato, ma non
percepì alcuna presenza. Solo il rinnovarsi dello scontro tra Atena e Etere
alla Tredicesima Casa.
***
Nicole dell’Altare era senza fiato.
Era bastato che il Nume gli rivolgesse uno sguardo per inchiodarlo a
terra, e che socchiudesse appena le palpebre per aumentare la pressione
energetica su di lui, schiantando l’armatura d’argento in più punti e
prostrandolo in ginocchio. Sospirando sconsolato, l’attendente di Atena guardò
i frammenti della corazza sparsi attorno a lui, dispiacendosi per non essere un
guerriero energico e abile come Pegasus e i suoi compagni, ma alla lotta armata
aveva sempre preferito lo studio, convinto propugnatore della superiorità
dell’intelletto sulla forza bruta.
Quando Arles aveva affidato a Magellano la
missione in Africa, Nicole aveva preferito restare ad Atene, separandosi così
dai compagni Regor e Kama. Ma il precedente Cavaliere
dell’Altare, ormai troppo vecchio e impegnato a prendersi cura del Sacerdote,
non poteva assumersi l’onere di addestrare un allievo, limitandosi a iniziarlo
ai segreti della Biblioteca. Così Nicole era cresciuto da solo, negli archivi
del Grande Tempio, nutrendosi di quella conoscenza che a pochi interessava, persino
al Grande Sacerdote, che solo in seguito avrebbe appreso essere Gemini. E
adesso doveva usare quella conoscenza acquisita per sconfiggere Etere o,
quantomeno, per permettere ad Atena di andarsene. Sì, quella era la sua
missione, la missione del Cavaliere dell’Altare, proteggere il massimo
officiante della Dea o la Dea stessa, dando la vita per la causa.
“Contempla, figlia di Zeus, la fine del Santuario da te eretto secoli
or sono!” –Declamò allora Etere, librandosi alto nel cielo pomeridiano. –“I tuoi
Cavalieri stanno cadendo, uno ad uno, percepisco la loro energia affievolirsi
sempre più, e gli uomini su cui facevi affidamento certo non potranno aver
ragione della progenie di Giapeto! Troppo in alto
hanno mirato, stolti! Sarebbero potuti fuggire, non vi sarebbe stata viltà,
poiché non prendere la loro vita ci preme, bensì radere al suolo questo luogo
di culto decaduto! Perché combattere dunque?”
Fu Nicole a rispondere, ergendosi a fatica a fianco della Dea. –“Per un
ideale!” –Affermò, espandendo il cosmo argenteo. –“Fiat lux!!!” –Gridò, il
palmo della mano destra aperto verso il cielo.
In quel momento le costellazioni dello zodiaco presero a brillare
intensamente, così intensamente da scalfire la cappa cinerea che rivestiva la
Terra, tornando a proiettare la loro dorata sagoma nel cielo nero, donando
nuovo coraggio e vigore a tutti coloro che ancora lottavano sul pianeta. Dalla
stella principale di ogni costellazione scaturì un raggio di energia, che
piombò su Etere, trapassandolo e inchiodandolo sul posto, mentre anche dalle
Dodici Case, da ciascuna di esse, un nuovo fascio di luce si sollevava,
unendosi ai precedenti e bloccando il Nume in quell’inconsueta prigione.
“Cosa… accade?!” –Balbettò, per la prima
volta sorpreso, non riuscendo a muoversi.
“La difesa ultima del Santuario, istituita dai primi Grandi Sacerdoti
per proteggere il regno anche in assenza della Dea!” –Spiegò il Cavaliere
dell’Altare. –“Può attivarsi solo dopo la morte dei dodici Cavalieri d’Oro o al
comando dell’officiante supremo, colui che ne conosce il rito!”
“E saresti tu, miserabile essere umano? Come osi offendere il Portatore
di Luce?!”
“Già una volta, mesi addietro, lo attivai, quando Eos e i Quattro Venti
invasero il Grande Tempio per ordine del falso Zeus! Nascosto nella Biblioteca,
mi costò un grande sforzo e riuscii solo a ferire la Dea dell’Aurora, crollando
al termine della prova, consapevole di dover accrescere il mio cosmo, di dover
migliorare ancora per essere in grado di padroneggiare al meglio questa
ancestrale tecnica! Ma contro un Nume del vostro calibro, non posso esitare!
Darò tutto me stesso!”
“Nicole…” –Mormorò Atena, osservandone
preoccupata il volto madido di sudore e percependo la tensione nel suo cosmo.
–“Non rischiare…non…”
“Andate via, Atena! Andatevene ora! Raggiungete vostro padre e Pegasus,
loro vi proteggeranno!!!” –La incitò il Cavaliere dell’Altare, mentre in cielo
Etere ruggiva furioso per essere stato ingannato da quel semplice mortale,
costretto a bruciare per la prima volta il proprio cosmo divino.
“Io… non posso abbandonarti! Non posso
abbandonare i miei Cavalieri!!!”
“Fuggite, Atena! Non potrò trattenerlo ancora per molto!!! È uno dei
Progenitori! Persino questa tecnica è misera cosa per lui!”
“Dici il vero!” –Commentò allora una delicata voce di donna, mentre una
bianca figura si avvicinò al fratello, avendo cura di tenersi a debita distanza
da quei raggi incandescenti. –“Mira, officiante di Atena, la follia del tuo
gesto ultimo! Mira la fine del regno che eri preposto a presiedere!” –Così
dicendo, Emera generò un’enorme sfera di energia
biancastra, che scagliò contro la ripida scalinata che dalla Tredicesima Casa
scendeva verso la Dodicesima, fagocitandola all’istante.
Nicole e Atena poterono solo osservare l’immenso globo di energia
sradicare roccia e gradini di marmo, spezzandoli, frantumandoli e lasciando
soltanto un profondo cratere, prima di abbattersi sulla Casa dei Pesci e
disintegrarla totalmente. In quel momento il Cavaliere dell’Altare percepì una
stretta al cuore e sentì che il controllo della tecnica ancestrale si faceva
sempre più blando, e infatti Etere iniziò a muovere le braccia. Quando poi
l’ammasso di energia avvolse anche il tempio circolare, residenza di Acquarius, inglobandolo e riducendolo in schegge,
l’attendente di Atena capì di aver perso.
Crollò sul freddo marmo, il cuore che gli batteva all’impazzata,
proprio mentre i restanti raggi di energia vacillavano, disperdendosi poco
dopo.
“Senza solide fondamenta, anche il potere più grande è destinato a
svanire!” –Sentenziò Emera, lasciando esplodere il
globo di energia, che abbagliò l’intero Grande Tempio, obbligando tutti i
contendenti a pararsi gli occhi come potevano. Quando la luce si diradò, Atena
poté rimirare sconvolta la devastazione portata dalla Dea del Giorno.
Sporgendosi cauta dal piazzale di fronte alla Tredicesima Casa vide un
crepaccio immenso separare l’ultima struttura dagli altri Templi dello Zodiaco,
un vuoto paragonabile solo a quello che le riempì il cuore in quel momento,
umettandole gli occhi di calde lacrime.
“Non avete dunque rispetto?!” –Esclamò allora Nicole, rimettendosi in
piedi a fatica. –“Devastare questo luogo sacro, calpestando la memoria di
coloro che hanno dato la vita affinché rimanesse integro e inviolato, non
piegherà la nostra determinazione, né quella di Atena! Ci farete soffrire, ci
farete odiare, ma non ci farete mai cedere! Fiat…”
–Ma prima ancora che il Cavaliere potesse terminare di parlare, già Etere lo
aveva colpito, trapassandolo al costato con un sottile raggio di energia.
–“Lux!” –Aggiunse, cadendo sulle ginocchia, un rivolo di sangue che gli colava
dalla bocca, la forza vitale che pareva abbandonarlo.
“Nicole!!! Oh, no!!!” –Pianse la Dea, cingendolo in un tenero
abbraccio.
“Non… piangete, Atena! Ricordate le vostre
parole, quelle che avete pronunciato alla venuta di Etere? Come voi siete
sempre stata disposta ad offrire la vita per coloro che amate, ugualmente noi,
vostri Cavalieri, faremo altrettanto! Amicizia, giustizia e vittoria sono i
valori che condividiamo… valori che fanno capo a voi,
Atena! Valori che le Dee, le vostre amiche, vi hanno lasciato. Ricordate?!”
–Balbettò il Cavaliere d’Argento, sputando sangue, prima di accasciarsi tra le
braccia della Dea. –“Non siete… sola!”
Atena rimase qualche istante china sul corpo senza vita del giovane,
singhiozzando infelice e colpevole per non essere riuscita a proteggerlo, prima
che la voce degli Dei di Luce la richiamasse, forzandola ad alzare lo sguardo
su di loro, sguardo che, sembrò ai due fratelli, brillava adesso di una nuova
determinazione.
“Ammirevole ma vano il gesto del tuo officiante, progenie di Zeus,
poiché adesso lo raggiungerai e allora potrete abbracciarvi di nuovo! Per poco
però, poiché presto, molto presto, quando Caos creerà un nuovo mondo persino
l’eternità smetterà di esistere e esisterà un solo presente, il tempo degli Dei
immacolati!” –Parlò Etere con voce distante. –“Pur tuttavia, l’audacia e la
risolutezza di quell’uomo meritano di essere omaggiate! Così farò, Atena! Ti
onorerò del mio colpo segreto, facendoti dono della beatitudine eterna! Pranavasabda!!!”
Un’onda di luce investì Atena, per quanto ella tentasse riparo dietro
l’Egida, ma anziché essere spinta indietro o schiacciata a terra da quello che
temeva essere un devastante attacco fisico, la Dea venne immersa in un oceano
di candore, ove tutto riluceva puro e niveo. Si guardò attorno, ma non vide
niente, come se il Santuario, Atene e i Cavalieri in battaglia non esistessero
più. Li chiamò, li cercò con i sensi, ma non trovò altro che una calma
infinita. Lento, ma costante, un suono le raggiunse il cuore, un suono che
pareva racchiuderli tutti. Un suono di serenità, che la invitava a rinunciare a
ogni difesa, abbandonandosi a quell’eterna pace, da lei a lungo cercata.
“Rinuncia ad ogni velleità bellica, figlia di Zeus, dimostra di essere
davvero saggia e avveduta! Abbraccia la beatitudine infinita, accogli la quiete
eterna dentro te!” –Cantilenarono voci angeliche, parlando direttamente al suo
animo affranto. –“Lasciati cullare dal suono primordiale della creazione,
lascia che rimuova ogni affanno, ogni macchia, ogni timore dal tuo cuore,
ricreandoti nuova e perfetta, finalmente completa! Finalmente Dea!”
“Io…” –Atena esitò, cercando di resistere a
quell’armoniosa melodia che sapeva come cullarla, cercando di ricordare i
motivi che la spingevano a lottare, che l’avevano spinta a secoli di lotte
armate. Ma la potenza di quel suono, l’ancestrale solennità di quella
beatitudine, le apparvero davvero ciò che aveva a lungo cercato, la fine del
suo viaggio.
“Vi è una parola per indicare la condizione di serenità a cui sei
giunta, Atena! Atarassia!” –Sorrise Etere, osservando la Dea crollare
all’indietro, su una soffice nube di bianco cosmo, ninnata, cantilenata,
baciata dalla perfezione del momento. Emera, al suo
fianco, annuì compiaciuta, prima di afferrare la mano che il fratello le
porgeva, pronti per sistemare l’ultima faccenda rimasta in sospeso. Cancellare
il Grande Tempio della defunta Dea e coloro che ancora in nome suo lottavano.
“Atena! Destati, Atena!”
“Svegliati, amica mia! Non cedere adesso! Non ascoltare le lusinghe di
Etere!”
Voci.
Voci note, voci lontane, voci distorte dal suono della creazione. Voci
di donne che le sussurravano all’orecchio, voci che la incitavano a reagire, a
rialzarsi, a resistere.
“L’atarassia che ti offre è solo una rinuncia, niente più! E tu non sei
mai stata una rinunciataria!”
“Ti abbiamo osservato! Ti abbiamo protetto! Ti abbiamo consolato nelle
notti senza stelle, quando credevi che solo morte lasciasse il tuo cammino
dietro di te! E mai, nemmeno una volta, ti abbiamo visto desistere da
un’impresa, pur disperata che fosse!”
“Non farlo adesso! Non ora… che siamo con te!”
D’un tratto Atena riaprì gli occhi, sollevandosi di scatto, quasi fosse
appena uscita da un incubo. Volse lo sguardo attorno a sé, nella coltre di
bianca beatitudine che ancora la avvolgeva, e la vide per la prima volta
tingersi di grigio. Leggere, impalpabili ma reali sfumature di grigio che le
roteavano attorno, affusolandosi attorno al suo corpo, carezzandola, alleviando
le sue ferite, solleticandola a recuperare il controllo di sé e dei suoi
obiettivi. Dovette scuotere la testa più volte per capire che quelle nubi
fumose erano spiriti. Spiriti di Divinità.
“Ma voi…” –Mormorò Atena, iniziando a
comprendere. Si fece strada tra le candide nebbie, guardandosi attorno ed
espandendo il proprio cosmo, che diradò la fitta cortina in cui era immersa,
permettendole di rivedere il pavimento marmoreo che conosceva bene. A tastoni,
trovò il corpo di Nicole, disteso con la faccia a terra, e lo girò, scoprendo
le ferite sul pettorale. Il grande cerchio di oricalco era stato distrutto,
infranto dall’attacco di Etere, e proprio da lì fuoriuscivano quelle fumose
essenze che l’avevano risvegliata. –“L’armatura dell’Altare…
i sigilli degli Dei…”
“Adesso comprendi, amica mia?!” –Parlò una delle tre voci, attorniando
Atena, a cui parve quasi di vederne il volto, limpido e gentile, come era
sempre stata con lei. Come era, in fondo, nella sua natura.
“Ancora viva?!” –Fu Etere questa volta a parlare, distratto dal
riaccendersi del cosmo della figlia di Zeus. –“Ancora ti affanni, testarda e
bellicosa, anziché capitolare all’oblio? Ipocrita e anche irriconoscente,
avresti dovuto accettare il dono che ti ho offerto, sarebbe stata una morte
lenta ma indolore! Cosa dovrò fare di te adesso?!”
“Fai la tua scelta, Etere! Io so quello che farò! Combattere per amore
degli uomini!” –Esclamò la Vergine dai capelli viola, espandendo il cosmo e
dissipando del tutto il bianco candore in cui era immersa, rivelando le tre
sagome evanescenti che le fluttuavano attorno, sagome che né Etere né Emera parvero riconoscere all’inizio, sebbene ne
percepissero l’essenza divina.
“Amicizia, giustizia e vittoria! Le tre Dee amiche di Atena, al cui
fianco l’ombra han fronteggiato un tempo, sono infine libere dai sigilli che si
erano imposte, per non cadere nelle mani dell’oscurità e per rimanere a fianco
dell’unica Dea che ha sempre lottato per la libertà degli uomini!” –Declamò a
gran voce una grigia evanescenza, assumendo la forma di una donna alta e
snella, con angeliche ali affisse alla schiena e una lancia nella mano destra.
“Che… cosa?!” –Esclamarono stupefatti gli Dei
di Luce. –“Ma voi siete…?!”
“Nike, che è Vittoria!” –Affermò fiera colei che aveva appena parlato,
allungando l’arma immateriale verso Atena, la quale, non appena afferratala,
vide il proprio Scettro di Thule rialzarsi da terra,
allungarsi e mutare forma, divenendo una vera e propria lancia, con la punta
decorata da ali dorate.
“Philotes, Personificazione dell’Amicizia!”
–La affiancò subito il secondo spirito, dalle sembianze di una donna adulta,
dal viso rubicondo e gaio, che afferrò Atena per mano, strappandole un sorriso,
mentre il proprio cosmo la avvolgeva al braccio sinistro, curandone le ferite.
“E infine Dike, figlia di Zeus e Dea della
Giustizia!” –Concluse allora l’ultima figura fatua, un’alta donna dal
portamento severo, che pareva reggere in mano una bilancia, su uno dei cui
piatti comparve una palma d’alloro, che prontamente depose sul capo di Atena,
colorandone il volto di ritrovato vigore.
“Noi siamo le amiche di Atena, le Dee che da secoli combattono al suo
fianco, con lei e in lei!!!” –Chiosarono i tre spiriti, permettendo alla
fanciulla dai capelli viola di ricordare ogni cosa. La guerra, quella lontana
guerra in cui avevano combattuto assieme. La fine del mondo per come lo
conoscevano all’epoca, e la speranza di rivedersi in un futuro migliore. –“Fu
l’antico Cavaliere dell’Altare a sigillare i nostri cosmi, su nostra stessa
richiesta, all’interno della sua armatura, certo che nessuno mai avrebbe potuto
disturbarci, non essendo egli una figura da battaglia! Così, per tutti questi
secoli, siamo rimaste in silenzio a fianco di Atena, sostenendola in ogni
battaglia e donandole quell’amore e quella forza che le hanno permesso di
sopraffare ogni nemico della Terra e dell’uomo!”
“Adesso comprendo!” –Commentò Etere con sagacia. –“Sospettavano in
molti che Nike fosse complice di Atena, che si celasse nell’ombra, scagliando
la sua lancia sui nemici già fiaccati, per dare loro il colpo di grazia! E Nyx, soltanto ieri, espresse disappunto per l’assenza
dell’ultima Astrazione, la personificazione dell’Amicizia, interrogandosi sul
destino cui poteva essere incorsa. La realtà, a quel che vedo, era ben peggiore
di ogni aspettativa! Una quadruplice alleanza di ingannevoli Dee, che si
servono di un manipolo di adolescenti per realizzare i loro fatui ideali! È
così che avete agito, vero? Nascoste e protette dall’Armatura dell’Altare,
avete emanato la vostra influenza nel corso di questi secoli?”
Dike annuì con decisione, ergendosi fiera come una statua, con quel volto
freddo e impassibile con cui aveva esercitato la giustizia per secoli. Lei, la
conciliatrice; lei, la protettrice di saggi amministratori, aveva infine deciso
di cedere il proprio ruolo ad Atena, l’unica, tra gli Olimpi, che avesse a
cuore la sorte dell’umanità, l’unica ad aver sempre anteposto il loro futuro
alla sua stessa felicità.
“Per questo, per il tuo spirito generoso, per il coraggio che hai
sempre dimostrato nel lottare anche in cause perse a priori, ti ho sempre
sostenuto Atena, aiutandoti a discernere con giudizio, portandoti ad usare
intelletto e strategie, anziché a gettarti in sanguinarie guerre per puro
spirito di conquista o rivalsa!” –Disse all’amica, prima di scagliare la
bilancia di cosmo nel cielo sopra di sé, di fronte agli occhi esterrefatti di
Etere e Emera, che la videro ingrandirsi e piombare
su di loro, catapultando ciascuno di loro sopra uno dei due piatti. Quindi fu
il turno di Philotes ad avvicinarsi ad Atena,
sfiorandole le mani e guardandola con quei suoi occhi grandi e così colmi di
vita e speranza, sempre convinta, anche nei momenti più bui, che continuasse a
esserci il sole oltre le nuvole.
“E sarà così se ci crederai, Atena. Sarà così se, come hai fatto
finora, continuerai a cercare l’armonia, il dialogo, la concertazione di tutte
le forze divine per un unico obiettivo! Potrai farlo, assieme ai tuoi
Cavalieri, uniti dal sacro vincolo dell’amicizia, un legame che mai hanno
disatteso, ma che sempre hanno tenuto alto, come bandiera di vita e speranza in
questo mondo che sprofonda sempre più nel caos!” –Le disse sorridendo. –“Non
servile cameratismo, non freddi legami di obbedienza, fedeltà o timore uniscono
i cinque che lottano per il futuro, bensì la vera amicizia, che solo amici
fraterni che hanno condiviso la vita e l’amore per la stessa possono provare!”
Atena annuì, ritrovandosi nelle parole della figlia di Nyx, forse l’unica mosca bianca della sua genia, prima che
la stessa bruciasse il cosmo, imprigionando gli Dei di Luce sui piatti della
bilancia di Dike, con braccia di energia che parvero
chiudersi sui due fratelli, tenendoli stretti. Poi si fece di lato e lasciò
spazio alla Dea alata, colei che sempre aveva portato la gloria in battaglia a
coloro da lei benedetti.
“E io benedico te, amica mia! Da secoli sono al tuo fianco! Sul palmo
della tua mano, sulla punta del tuo scettro, sul pugno lucente del tuo massimo combattente!
Enumerare non riesco tutte le nostre vittorie, sui campi di Britannia, nelle
desolate lande dell’Oltretomba o sotto i cieli di Grecia! Non può esistere
sconfitta per la Dea che combatte con amicizia e spirito di giustizia!”
–Concordò, incoccando una lunga asta di cosmo e scagliandola in alto,
osservandola dividersi in due bastoni e mirare agli Dei Primordiali. –“È ora di
andare, adesso!” –Sospirò, voltandosi per cercare lo sguardo delle due amiche.
“Dove andate? No, vi prego, restate! Adesso che finalmente ci siamo
ritrovate!” –Esclamò Atena, mentre i tre spiriti la attorniavano e Nike
riprendeva a parlare.
“Atena, ascoltaci bene, poiché abbiamo poco tempo prima che gli Dei di
Luce ci attacchino! La nostra rinascita è incompleta, in quanto non abbiamo
corpo atto a contenerci in quest’epoca!”
“Né, come ben sai, vogliamo carpire quello di un mortale, violandone
l’intimità, pratica a cui siamo sempre state contrarie!” –Precisò Dike, l’incorrotta.
“Per cui vivremo dentro di te, amica mia, proteggendoti come abbiamo
fatto finora! Anzi, faremo molto di più, ti daremo la nostra completa essenza!
Il nostro cosmo!” –Le sorrise Philotes. –“Saremo per
te elmo, lancia e scudo in quest’ultima guerra!”
“Dike…Nike…Philotes…” –Mormorò commossa l’Olimpica Dea. –“Non so come
ringraziarvi, io non posso accettare un simile dono…”
“Puoi e lo farai, perché noi vogliamo vincere questa guerra, Atena!”
–Affermò decisa Nike. –“Questa guerra giusta e sacra, come sacra è la libertà!”
–Continuò Dike. –“E l’amicizia, soprattutto quella
che lega i tuoi Cavalieri!” –Concluse Philotes,
mentre le tre Dee attorniavano Atena, girandole attorno in una spirale di voci
ed energia, che si fecero sempre più tenui, fino a scomparire. In quel momento
la figlia di Zeus le sentì dentro di sé, donatrici felici di una nuova energia.
Persino la Veste Divina parve cambiare aspetto, fortificandosi ma
rimanendo sempre leggera al tatto, come se adesso fossero in quattro a
sopportare il peso di tutte quelle piastre di materiale. Le ali snellirono,
l’elmo ricomparve a protezione della sua testa, con una corona d’alloro come
cimiero.
“Ammiri quegli inutili orpelli di cui ti han fatto dono? A ben poco ti
serviranno, Atena! A ben poco ti servirà questo testardo insistere e
persistere! Il mondo come lo conoscevi domani sparirà!” –Chiosò allora Etere,
che nel frattempo aveva espanso il cosmo, disintegrando il trucchetto
con cui le tre Dee lo avevano bloccato; fece per travolgere la figlia di Zeus
con un’onda di immane potenza, ma all’ultimo istante la sorella lo fermò,
afferrandogli il braccio. –“Uh? Qualcosa ti turba, divina Emera?”
La Dea del Giorno parve esitare un momento, prima di scuotere il capo e
parlare con voce atona. –“Lascia ad Atlante la distruzione e tieni fede al tuo
nome, fratello! Sei la luce del cielo, non un barbaro bellico, e Atena è
comunque figlia del più potente figlio di Crono! Falle dono della beatitudine!
A modo suo, la merita!”
“Hai ragione, sorella! Mi sono lasciato prendere dalla foga,
comportandomi come uno sciocco ragazzino infuriato! Quale vergogna!” –Commentò
Etere, ritrovando compostezza nella posa e nel tono della voce.
O forse come un umano? Pensò Emera,
riflettendo su quanto aveva visto finora, sullo spirito di sacrificio e follia
che albergava nel cuore di quegli strani esseri umani. Non poté indugiare oltre
che già il fratello aveva espanso il proprio cosmo, avvolgendo l’intera cima
della Collina della Divinità con una nube di candore, rischiarando quella che
ormai sarebbe stata l’ultima sera del Santuario di Atena.
“Pranavasabda!”
–Risuonò la sua voce, mentre di nuovo la figlia di Zeus tentava di opporsi. Fu
più agguerrita quella volta, poiché già conosceva gli effetti di quel colpo, i
desiderabili appetiti di pace su cui voleva far leva, e perché nel cuore sentiva
il compito che le tre Dee le avevano affidato. Vegliare sul genere umano, con
equità, risolutezza e fratellanza.
“E in nome vostro lo farò!!!” –Avvampò Atena, alzando l’Egida e
muovendo rapida lo Scettro di Vittoria, a fendere l’aria con la sua punta
dorata, mentre tutto attorno a sé si innalzava il suo cosmo divino, sostenuto
da quello di Nike, Philotes e Dike.
“Osi resistere? Osi rifiutare la luce più pura?” –Mormorò Etere,
esterrefatto, mentre Atena continuava a bruciare il proprio cosmo, mulinando la
lancia in ogni direzione, aprendo continui squarci nella sua nube di
beatitudine. Nel farlo, nel farsi spazio tra le nebbie della pace eterna, la
Dea intravide il corpo di Nicole a terra, i morbidi capelli castani sparsi
sotto il viso spento.
“Tu lo sapevi, vero, buon servitore? Di tua sponte hai scelto di
fronteggiare Etere! Per questo sei voluto morire, per ricordarmi l’amicizia
delle tre Dee!” –Pianse Atena, assaporando ciascuna di quelle lacrime, tante
quanti coloro che per lei avevano scelto di lottare. –“Per te, per tutti voi,
miei Cavalieri, Atena combatte! Lancia
di Nike!!!” –Esclamò, scagliando l’arma in alto, oltre la cortina di
quiete, diretta verso un incredulo Etere, che non ebbe comunque difficoltà
nello spostarsi di lato, afferrandone l’asta con la mano. Fece per spezzarla,
ma si accorse che il bastone non accennava a incrinarsi, intriso del cosmo di
quattro entità divine.
“Che tu sia una o siate in quattro, Atena, ben poco cambia! Il tuo
tempo è scaduto!” –Precisò, aprendo il palmo della mano e scagliandole contro
una devastante sfera di luce, cui la Dea tentò di opporsi innalzando l’Egida
avanti a sé, su cui il globo impattò, spingendola indietro, con una forza tale
da scheggiare il pavimento di marmo. Ma Atena Atritonia
non crollò, resistette, impavida e instancabile, come l’epiteto che le diedero
nel Mondo Antico, con lo scudo levato a sua difesa, avvolta nell’iridescenza di
un cosmo che ormai non avrebbe più sopito. Sentiva, alla Prima Casa, tremolare
le auree dei suoi fedeli, sentiva la responsabilità di difendere anche loro.
“Atena…” –Mormorò in quel momento il Grande Mur, intento a sollevare il Muro di Cristallo, di fronte al Tempio dell’Ariete, affiancato da Kiki e Castalia. Quindi, preoccupato, cercò l’attenzione di
Virgo, in piedi sul tetto dell’edificio assieme a Tiresia, concentrati nel profondere ogni stilla di energia
nel prossimo attacco.
“Lo sento, Ariete! Sento fremere il suo cosmo!” –Precisò il Custode
della Porta Eterna. –“Pur tuttavia non possiamo muoverci, o quest’effimera
barriera che abbiamo eretto a difesa del Santuario crollerà e tutti coloro che
dimorano sotto il cielo di Atene sarebbero spazzati via, privi di difese con
cui fronteggiare la furia di Atlante!”
Mur non rispose, travolto da un dubbio atroce. Ripensò alle parole di Asher di poche ore prima e convenne che era vero. Erano
ancora stretti tra due fuochi, Atlante e i due potentissimi Dei, che
minacciavano di ardere il Santuario e Atena. Cosa avrebbero dovuto sacrificare?
Fu Virgo a confortarlo nuovamente, con una semplice
risposta.
“La missione di Atena reincarnata è difendere gli uomini, questo è
sempre stato il suo ideale, lo scopo per cui tante volte si è sacrificata!
Questo vorrebbe che facessimo, che dessimo anche la vita per proteggerli.
Coraggio, Cavalieri! Fino alla fine!”
Sì. Strinse i pugni Mur,
scagliando una nuova Onda di Luce
Stellare. Fino alla fine!
“Aaahhh!!!” –In quella, Atena perse la presa
sull’Egida, che rotolò rumorosamente sul piazzale, mentre lei crollava a terra,
sopraffatta dal potere del Portatore di Luce.
Con sguardo imperturbabile, Etere le volse contro il palmo della mano,
pronto per dirle addio, quando un’ombra improvvisa sbucò fuori dalla notte
stessa, abbattendosi sui due Dei e separandoli di scatto. –“Ma…
cosa? Cos’è, quella?!”
Una grande nave volante era apparsa nel cielo, piombando su di loro,
proprio mentre tre comete di luce ne sfrecciavano fuori, investendoli con fasci
di energia scintillante.
“Non posso lasciarti un attimo da sola, che già vai a metterti nei
guai!” –Esclamò la voce squillante del Primo Cavaliere di Atena, aiutando la
Dea a rialzarsi.
“Pegasus…” –Sorrise lei, felice di rivederlo.
“Credo che questo ti appartenga, Atena!” –Aggiunse una seconda figura,
dal fisico massiccio, porgendole l’Egida. –“Gran bello scudo!” –E le strizzò un
occhio, prima di voltarsi verso il cielo, su cui ancora si stagliavano le
bianche sagome di Etere e Emera.
“Non sarà una battaglia facile!” –Commentò allora il terzo giunto,
rivestito da una celeste armatura, mentre, poco distante, ai piedi del
Santuario, un fulmine color avorio squassava la notte, seguito da una voce
imperiosa.
“Folgore suprema!!!”
Atena riconobbe il suo cosmo e sorrise, rincuorata, ben sapendo quel
che sarebbe avvenuto. Il rinnovarsi di un antico scontro.
Aveva creduto che il cosmo di sua madre l’avrebbe aiutata, indicandole
il cammino, ma quando provò a cercarlo si accorse che era ridotto al lumicino,
l’ombra dell’aura divina che aveva generato un reame beato semplicemente
desiderandolo. Non fosse stato per Matthew, non fosse stato per la mano di lui
stretta alla sua, per le dita di entrambi, intrecciate e tremanti, il Cavaliere
della Luna avrebbe davvero smarrito la via, in quell’immenso vuoto cosmico che
l’accolse dopo aver attivato il portale.
Facendosi forza, sorretta dal cosmo del compagno, Elanor naufragò tra
stelle lontane e galassie perdute, travolta da una sensazione di smarrimento,
di perdita di sé e dei propri sensi, finché non sentì di nuovo qualcosa di
solido sotto i piedi. Aprendo lentamente gli occhi, quasi avesse timore di
essere ancora all’Altura delle Stelle, riconobbe il glifo intarsiato sulla
terrazza panoramica dietro al Palazzo della Luna, proprio dove Atena e Avalon
erano apparsi giorni addietro.
“Ce l’hai fatta!” –La riscosse Matthew. –“Ci sei riuscita!!!”
“Ci siamo riusciti!” –Precisò lei, riconoscendo il contributo del
compagno, prima che una nuova fitta al cuore la prostrasse a terra.
Lì, nel Reame della Luna Splendente, dove Selene
aveva a lungo dimorato, impregnando ogni granello di sabbia con il suo cosmo
divino, Elanor poté percepire a pieno la disperazione che aveva investito sua
madre, le grida di terrore del suo cuore martoriato. Un urlo, come mai l’aveva
sentito prima, la dilaniò, portandola a rimettersi in piedi di colpo e a
lanciarsi in una folle corsa giù per la scalinata e poi lungo il percorso che
conduceva alla residenza della Dea della Luna.
Matthew le fu subito accanto, entrambi rivestiti delle loro Armature
delle Stelle, ultimi barlumi di luce in quel reame che ormai pareva non aver
più niente di beato. Tirando un’occhiata in lontananza, oltre le mura del Primo
Cerchio, l’allievo di Gemini inorridì nel vedere che non c’era più niente.
Delle nove cinte murarie un tempo difese dai Seleniti, non era rimasto niente,
disfattesi una dopo l’altra e ritornate ad essere semplice sabbia lunare.
Deglutendo a fatica, il ragazzo capì che, qualunque cosa stesse accadendo all’interno
del palazzo, Selene stava morendo.
“Sangue!!!” –Esclamò Elanor, osservando macchie vermiglie punteggiare
la breve scalinata di ingresso. –“Oh per gli Dei! Endimione!!!”
–Aggiunse, gettandosi sul corpo massacrato dell’uomo, che giaceva scomposto e
abbandonato a se stesso. –“Padre, rispondimi! Padre!!!” –Lo scosse, lo
schiaffeggiò, gli toccò il bel volto giovanile, sfiorandogli la mezzaluna
tatuata sulla fronte, ma egli non si riebbe. Un buco all’altezza del cuore, gli
eleganti abiti imbrattati di sangue e materia organica, i preziosi monili con
cui era solito adornarsi sparsi attorno a sé, e quello sguardo di terrore negli
occhi le tolsero ogni speranza, facendola quasi rimettere.
Fu Matthew a scuoterla, incitandola a rialzarsi e indicandole le scale
che conducevano alla parte superiore del tempio. Reprimendo i singhiozzi,
Elanor lo seguì, incamminandosi lungo i gradini macchiati di ichor fino ad entrare nell’Occhio e là, al centro dello
stesso, dove poche ore prima aveva conversato con Avalon e Atena, pregandoli di
salvare il suo mondo perfetto, la Dea della Luna li aspettava.
Appesa al centro della sala circolare, su un nero tridente che le aveva
trapassato una spalla, Selene giaceva immobile, in
silente agonia, le candide vesti lacere e macchiate di sangue e violenza. I bei
capelli azzurri, che Endimione tanto amava pettinarle
nelle loro lunghe nottate trascorse a rimirare la volta stellata, strappati e
scarmigliati, a coprirle il volto livido e striato dai segni del martirio.
“Ma… Madre!!!” –Strillò Elanor, correndo
verso di lei, incurante delle urla di Matthew, che stava annusando l’aria
sospettoso.
“Non siamo soli!” –Ebbe solo il tempo di dirle, prima che una figura di
pura tenebra sgusciasse fuori dal retro dell’improvvisata forca, scivolando attorno
ad Elanor e cingendola in soffocanti spire nere.
Matthew si mosse per intervenire, ma fu subito atterrato
dall’indefinita ombra, che lo piantò al suolo, trapassandogli i bicipiti con
lame di tenebra e godendosi i suoi strilli di dolore. –“Tu…
demone mostruoso… riconosco il tuo cosmo…” –Trovò la forza per parlare il ragazzo, sputandole
in faccia il suo disprezzo, prima che la torbida ombra si ritraesse,
compattandosi e assumendo forma umana. Quella di una donna alta e snella, con
un fisico impeccabile e lunghi capelli violacei che le ricadevano sulla
schiena. Era vestita con un semplice abito nero, fermato in vita da un corpetto
ornato da gemme di ematite, che rilucevano sinistre alla debole luce che
giungeva dal sole. –“Tu sei…”
“Nyx è il mio nome, Sovrana della Notte e
Prima Dea nata dal Caos!”
“La Notte… che già affrontammo proprio qua!”
–Annaspò Matthew, rimettendosi in piedi a fatica, mentre Elanor, crollata a
terra di fronte a sua madre, non riusciva a toglierle gli occhi di dosso,
travolta da mille domande, ricordi e rimorsi.
“Madre… Che sia troppo tardi? Troppo tardi
per tutto? Per le scuse e le incomprensioni che hanno marcato il nostro
rapporto?!”
“Oh no!” –Intervenne subito Nyx, parlando con
voce gaia. –“Non è affatto tardi, mia bella bambina! Tua madre è ancora viva!
Non crederai che volessi ucciderla senza prima avervi fatto ritrovare? Sarebbe
stato un gesto davvero scortese da parte mia! Ah ah ah!
Chiamala, su dai, abbracciala, stringiti a lei! Così,
da brava!” –Le disse, mentre Elanor si risollevava, avvicinandosi a Selene e sfiorandole le mani, ben più fredde di quanto
ricordasse.
Bastò quel tocco, quel lieve sfioramento, a far sussultare la Dea della
Luna, che a malapena mosse il capo, faticando a mettere a fuoco l’immagine
davanti ai suoi occhi. Era davvero Elanor, la sua bambina, la primogenita
ribelle che così tanto amava disobbedire ai suoi ordini, mentre tutte le altre
figlie erano sempre così ligie e perfette? Era davvero lei, dietro quegli occhi
verdi, quell’elmo a diadema che le incorniciava il bel volto preso da suo
padre, rivestita di quell’armatura luminosa a cui così tanto aveva ambito?
“Sono io, madre… sono qui per salvarti!” –Le
disse, prima di voltarsi verso Matthew e chiedergli di aiutarla a tirarla giù.
“Ahrahr!” –Rise Nyx, sollevando una mano e muovendo un indice divertita da
destra a manca. –“Non così in fretta, dolce bambina! Non crederai che vi
permetta di vanificare il frutto del mio lavoro?!”
“Cosa vuoi dire, Nyx? Cosa vuoi da mia madre?
Lei non combatte!!!” –Tuonò Elanor.
“Oh lo so bene! Stanca dei problemi del mondo, ha ben pensato di
rinchiudersi in questo regnuccio con un paio di
servitori, delegando ad altri ben più dirimenti questioni, eppure non ha
esitato a coinvolgere i Cavalieri di Atena e Avalon quando le abbiamo mosso
guerra! Sai quanto mi è costata la sua bella trovata? Tante Divinità che adesso
potrei usare per fiaccare altri regni divini! Merito una vendetta, non trovi?
Anzi, merito un premio!” –Aggiunse, scivolando lesta accanto ad Elanor, attorno
ad Elanor, muovendosi come fosse un serpente di pura tenebra, avvoltolandosi al
suo corpo, spostandole i capelli all’indietro e carezzandole il collo,
facendola rabbrividire al solo contatto.
“Stammi lontana!!!” –Gridò la ragazza, bruciando il cosmo, ma non
ottenendo altro che una risata di Nyx, che spalancò
grandi ali da pipistrello, librandosi verso la cima dell’Occhio, evitando
l’affondo, salvo poi gettarsi di nuovo in picchiata su di lei.
“Tutt’altro! È ben vicina a te che voglio stare, a te e al segreto che
custodisci!” –Le disse, mentre il suo cosmo oscuro attorniava lo Scudo di Luna,
affisso al suo bracciale destro. –“E vedo che sei stata così gentile da
portarmi anche la Cintura dell’Arcobaleno! Due talismani al prezzo di uno!”
“È per questo che l’hai fatta venire, vero? Per questo hai tenuto in
vita Selene fino ad ora? Per attirare Elanor, brutta
strega!” –Avvampò allora Matthew, avvolto in un arcobaleno di colori. –“Ma non
ti permetterò di farle del male! Sta’ alla larga da lei!!! Arcobaleno incandescente!!!”
“Quanto giovanile ardore!!!” –Ridacchiò Nyx,
mentre l’attacco luminescente si perdeva nell’oscurità di cui era attorniata,
come un velo protettivo, senza bisogno che la Dea facesse altro. Solo
travolgere il giovane con un’onda di energia nera, scaraventandolo indietro.
–“Un vero peccato che sia così sprecato!”
“Matt!!!” –Gridò Elanor, osservando il compagno ruzzolare giù dalle
scale che conducevano all’Occhio, prima di voltarsi e fissare la Notte con
astio. –“Falce di Luna calante!!!” –Esclamò,
abbassando poi il braccio su di lei. Ma bastò che Nyx
si muovesse di lato per evitare l’attacco, afferrandole poi l’arto con gelidi
unghioni di tenebra e torcendoglielo con forza, godendo del rumore di ossa
scricchiolanti.
“L’armatura che indossi èben
valida protezione! Sapevano bene i Sette come forgiare manufatti resistenti,
all’usura della guerra e del tempo! Ne percepisco l’ancestrale potenza, la
forza della natura insita dentro tali vesti! Pur tuttavia cederà, come cedono
tutte le cose! In un certo qual modo, tutta questa resistenza va a tuo
discapito, servirà solo a farti soffrire di più! Ahrahrahr!” –E le torse
ulteriormente il braccio, spezzandole anche un paio di dita, strappandole un
nuovo grido di dolore.
Fu quello o l’avvampare del cosmo di sua figlia a così breve distanza,
nel cuore di quella che un tempo era stata la sua casa, la dimora di tutti i
suoi affetti, a ridestare Selene, a farle alzare il
capo quel tanto che le bastò per vedere l’espressione sofferente sul volto
della primogenita, segnata al qual tempo dalla determinazione di salvare
qualcuno che amava.
Elanor… Mormorò la Dea della Luna. Come
quel giorno, tanti anni fa, quando tentasti di salvarmi dai Giganti di Ebdera, ergendoti sola e impavida di fronte a quegli abomini.
Anche oggi vuoi proteggermi? Anche oggi vuoi salvare tua madre? Quel
pensiero la riscosse, toccando silenti equilibri rimasti a lungo celati nel suo
cuore. Una figlia non dovrebbe lottare
per difendere i propri genitori! Che madre sono, che donna sono, se non riesco
a difendere la mia progenie?! Si disse Selene,
facendo appello a tutte le sue forze. Elanor!
Resisti! Ti salverò!!! E, nel pensar questo, lasciò esplodere il proprio
cosmo divino, generando una bolla di energia che crebbe rapida attorno a sé,
stupendo sia la figlia che Nyx, per poi esplodere
poco dopo.
La Notte venne spinta indietro da quell’improvvisa vampata energetica,
schiantandosi contro quel che restava delle pareti dell’Occhio, salvo poi
spalancare le sue immonde ali di tenebra e librarsi in volo, proprio mentre Selene si accasciava esausta, ma infine libera. Da prigioni
in cui nemmeno lei era consapevole di essere precipitata.
“Madre!!!” –Elanor fu subito su di lei, aiutandola a rimettersi in
piedi. Ne osservò il corpo ferito, la trafitta spalla sanguinante, pregandola
di non preoccuparsi. –“Avalon ti curerà, ne sono certa! Lui conosce ogni
rimedio!”
La Dea della Luna sorrise di fronte al genuino affetto della figlia,
ripensò in fretta al Signore dell’Isola Sacra, all’ultima conversazione avuta
con lui e con Atena, a come aveva risposto male ad entrambi, rifiutando la
proposta di un’ultima alleanza. A quanto era stata sciocca, egoista e
disinteressata, convinta di poter vivere in pace fuori dal mondo. E pensò anche
che, nonostante tutto, sia Avalon che Atena l’avrebbero accolta a braccia
aperte, felici di averla di nuovo tra loro, perché è questo che gli amici
fanno.
Amici. Già. Peccato non averne
mai avuto uno. Peccato non
aver mai avuto altro che Endimione e la tranquilla
serenità della loro vita di coppia. Un
amore fuori dai confini del mondo, così una volta glielo aveva cantato il
suo sposo, pizzicando le corde dell’arpa di Asterios
e sedendo con lei sulla grande terrazza sul retro del palazzo, osservando il
pianeta poco distante, lieti entrambi di esserne fuggiti.
Ma dalla guerra non si fugge. Realizzò amara Selene,
rimettendosi in piedi, proprio mentre Nyx piombava di
nuovo su di loro, ridendo sguaiatamente.
“Corona di luce!!!” –Urlò
una voce all’improvviso, mentre una lesta figura si fiondava di fronte a loro,
sollevando entrambe le braccia e creando una cupola a difesa delle due donne,
una cupola su cui smerigliavano i sette colori dell’arcobaleno.
“Matt!!!” –Esclamò Elanor, felice di rivederlo, il volto sanguinante e
pieno di lividi, ma lo spirito ancora fermo nel lottare al suo fianco.
“Dobbiamo… raggiungere il portale…”
–Mormorò fiacco il ragazzo, infondendo tutto il suo cosmo a quell’effimera
barriera. Elanor annuì, cercando l’approvazione della madre, quando vide che il
suo sguardo ormai era perduto. Vagava lontano, tra memorie di una vita lunga e
felice, dissoltasi come castelli di sabbia.
Fece per dirle qualcosa ma in quel momento Nyx
intensificò il proprio assalto, allungando artigli di tenebra che penetrarono la
Corona di Luce, conficcandosi nelle
loro carni, superando persino le protezioni che avevano indosso, e prostrandoli
infine a terra.
“Cosa credevi di fare, bel giovane? Non hai visto la fine che ha fatto
il grazioso reuccio di questo regno? Devo ammettere che il suo ichor era delizioso! Di certo, il tuo nettare non sarà
all’altezza ma non sia mai che rifiuti una così attraente preda!” –Ridacchiò Nyx, atterrando di fronte al trio e recuperando forma
umana, mentre il tridente riluceva sinistro e famelico nella sua mano.
Matt, di fronte alle due donne, faticò nel rimettersi in piedi, il
sangue che scorreva copioso dalle ferite aperte, imbrattandogli la corazza. Non
fece in tempo ad abbozzare alcuna difesa, che già Nyx
lo aveva colpito alla gamba destra, conficcando il tridente tra due placche
della corazza, forzandolo di nuovo in ginocchio. Dopo che ebbe ritirato l’arma,
la torbida Dea ne scorse la punta con le dita, inumidendole con il sangue del
Cavaliere dell’Arcobaleno, mentre un perfido ghigno le tingeva il volto.
“Noi non siamo la preda di nessuno!” –Vociò allora Elanor, ostentando
una sicurezza che di fatto non possedeva, mentre il cosmo cresceva attorno a
lei. –“Tanto meno di una bestia come te!!! Croci
di luna!!!” –E le puntò contro l’indice destro, liberando quattro fasci di
energia, che Nyx neutralizzò semplicemente roteando
il tridente. Oltre che inquietante e potente, era anche abile e lesta nello
scontro fisico, dovette ammettere la Principessa della Luna.
“Questo non è un gioco per ragazzini inesperti!” –Sibilò l’ancestrale
Dea. –“Non che mi aspettassi molto, in fondo, dalla figlia di una rinunciataria
e dallo svogliato apprendista che troppi maestri non son stati in grado di
addestrare! Ma è stato un incontro piacevole, sì, seppur non troppo
soddisfacente! Incontro che adesso giunge a conclusione!” –Aggiunse, impugnando
il tridente e puntandolo contro l’affaticato trio. Ma prima che riuscisse a
fare alcunché fu sollevata da terra e spinta indietro da un’improvvisa corrente
che aveva iniziato a spazzare la superficie dell’Occhio, divenendo sempre più
vigorosa, al punto da mandare in frantumi le poche vetrate ancora integre,
vorticando all’impazzata attorno agli sbalorditi Cavalieri delle Stelle.
Fu Elanor ad accorgersi che tale intensa corrente proveniva da Selene, che lentamente si era rimessa in piedi, avvolta,
per la prima volta, da una possente aura divina. –“Madre!!!”
“Nyx ha ragione!” –Parlò allora la Sovrana
della Luna. –“Siete giovani, in fondo! Non è giusto che il peso di questa guerra
ricada su di voi! Non soltanto su di voi, se non altro! Non qua, nel regno che
ho fondato e che dovrei saper difendere! Non qua, di fronte a mia figlia, che
ho messo al mondo per darle un futuro e non per osservarne la morte, né di
fronte a un ragazzo disposto a dare tutto se stesso per proteggere chi ha caro!
Mi hai sentito, Nyx?!”
“Ti ho udito, divina Selene! Ti ho udito!”
–Ridacchiò l’ancestrale Dea, che, dopo la sorpresa iniziale, aveva spalancato
le ali oscure, lasciandosi trascinare dal turbinio di aria e cosmo, senza
opporre resistenza. Fu con un gesto improvviso, sbattendo con forza le ali di
tenebra, che ne interruppe il flusso, discendendo di nuovo verso il centro del
salone. –“Ma parlare non basta per vincere una guerra!”
“Lo so!” –Affermò allora Selene, bruciando
ancora il proprio cosmo, che le turbinò attorno, in uno scintillio di oro e
avorio, che, quando calò di intensità, permise ad Elanor, Matthew e Nyx di vedere che la Dea aveva indossato la propria Veste
Divina.
Molto più semplice delle attrezzate armature degli Olimpi, quella di Selene aveva carattere prevalentemente ornamentale, ma era
del pari ben curata, con raffinati intarsi che parevano riprodurre il ciclo
lunare. Riluceva di un bagliore celeste, lenendo in parte le proprie ferite,
quantomeno quelle fisiche su cui ancora poteva intervenire.
“Ahrahrahr! E cosa vorresti fare con quella?!” –La derise la
Signora della Notte, sghignazzando divertita.
“Combattere!!!” –Tuonò allora Selene,
espandendo il proprio cosmo, che avvolse rapido l’intera superficie lunare,
mentre alle sue spalle brillava una mezzaluna azzurra bagnata di rugiada. O
forse delle lacrime che non voleva mostrare a Nyx.
–“E avere giustizia!”
“Stai solo ritardando l’inevitabile! Non amavi così tanto Endimione? Credevo tu volessi rivederlo!”
“Non parlare di Endimione, tu che non sai
cos’è l’amore! Egli mi attende, su una luna lontana, e presto saremo di nuovo
insieme! Ma non prima di avergli tributato il giusto onore!”
“Spiacente di deluderti, ma a volte l’amore non basta!” –Chiosò Nyx, scattando avanti e puntando il tridente verso il cuore
di Selene. Matthew ed Elanor tentarono di deviarlo,
ma vennero spinti di lato dall’emanazione cosmica della Notte, che li sbatté al
suolo, inchiodandoli con grinfie di tenebra, mentre la punta sanguigna gridava
affamata, abbattendosi sulla Veste Divina della Dea…
e fermandosi a un soffio da essa. –“Che… cosa?!”
–Alzò lo sguardo Nyx, osservando il tenue ma duraturo
strato di cosmo che pareva avvolgere la sposa di Endimione,
uno strato che avvampò all’istante, incendiando il breve spazio che le separava
e scagliando la Notte indietro, facendole persino perdere la presa sul suo
tridente.
“Non è possibile! Dove nascondevi tutta questa potenza?!” –Esclamò
sorpresa, al pari di Elanor, che osservava la madre sotto una nuova luce.
“Hai dimenticato chi hai di fronte? Non uno dei giovani Olimpi, ma un
Dio della seconda generazione cosmica! Il mio nome è Selene
e sono la figlia dei Titani Iperione e Tia, in me scorre la fiamma di forza che fu di mio padre!”
–Declamò fiera la Dea, mentre una torrida tempesta investiva la Signora della
Notte. –“Al pari di mia sorella Eos, Regina dell’Aurora, e di mio fratello Helios, sua stessa progenie, ne possiedo i poteri! Subisci
adesso il soffio del vento solare! HeliosVortex!!!” –Gridò, travolgendo la Prima Dea con
un’ondata di calore improvviso, che la spinse indietro, bruciandone in parte le
vesti e i capelli.
“In…credibile…”
–Mormorò Elanor, che non aveva mai visto sua madre liberare tutto quel potere.
Anche Matthew era assorto in identici pensieri, sebbene il ricordo di
insegnamenti avuti ad Avalon lo stesse facendo riflettere sull’origine di
quell’energia. E le parole che Selene gli rivolse
poco dopo, parlando direttamente al suo cosmo, gliene diedero conferma.
“Prendi Elanor e vattene!”
“Co… Come?!” –Balbettò il ragazzo,
rimettendosi in piedi, incurante del dolore ad una gamba.
“Non dovreste essere qua, è troppo pericoloso! Per voi e per i
Talismani che custodite! Gli uomini della Terra ne hanno bisogno, lo sai meglio
di me, Matthew!” –Gli spiegò la Dea, continuando a riversare il vento solare
contro Nyx, che, superato l’iniziale sbigottimento,
aveva sollevato una cinta di tenebre a sua difesa, contro cui la tempesta di
calore pareva infrangersi. –“Sei un bravo ragazzo, per quel che ho potuto
vedere, e tieni molto ad Elanor! So che la proteggerai! Anche per me! Ora
ascolta la mia richiesta: ti ordino, anzi ti imploro, di portare mia figlia via
da qui! Dovete andare via e dovete farlo adesso che ancora potete!”
“Io…” –Il ragazzo esitò per un momento, non
sapendo cosa risponderle. Aveva già lasciato andare troppe persone importanti
nella vita, convinto di poterle rivedere e perdendole per sempre. Aveva già
abbandonato troppe volte il sentiero maestro, eppure sentiva che la Dea aveva
ragione. Non potevano morire tutti sulla Luna, non con le responsabilità che
gravavano su di loro. E Nyx era nemico al di sopra
della loro portata. Per cui dovevano andarsene, e dovevano farlo prima che
fosse troppo tardi.
Annuendo mestamente, il Cavaliere dell’Arcobaleno si rimise in piedi,
tirando un’occhiata oltre le crollate pareti della stanza e perdendosi nel
vasto vuoto cosmico che stava al di là. Pareva che il Reame della Luna
Splendente non fosse mai esistito.
Capì e corse da Elanor, scuotendola dallo stordimento e incitandola a
rialzarsi. –“Dobbiamo andare!” –Si limitò a dirle, mettendole un braccio dietro
la schiena e issandola a sé.
“Come?! Che stai dicendo?!” –Brontolò lei all’istante, torcendo lo
sguardo verso sua madre, ancora intenta a profondere ogni stilla di cosmo in
quel turbine di vento solare da cui ormai Nyx pareva
non essere più impensierita. Solo scocciata. –“Devo aiutare mia madre! Devo
combattere con lei!”
“Non c’è tempo, Elanor! Dobbiamo andare!” –Ripeté Matthew, a capo
chino, muovendosi verso l’uscita dell’Occhio. Quindi, vedendo che la ragazza
non accennava a muoversi, la afferrò per le spalle e la scosse, urlandole in
faccia la verità. –“Tra pochi istanti di questo regno non rimarrà niente e
resteremo bloccati qua, alla mercé della Notte!”
“Io… non posso abbandonare mia madre…”
“Va’, Elanor!” –Parlò allora Selene,
accennando un sorriso. Non poté aggiungere altro che un violento attacco la
travolse, prostrandola a terra, con la Veste Divina che andava in frantumi in
più punti, laddove la marea d’ombra, dalla Notte scatenata, l’aveva raggiunta.
–“Ti ho detto va’ via!!!” –Avvampò, rialzandosi ed aprendo le braccia di lato,
liberando tutta l’energia che covava dentro, quella che mai aveva riversato su
un campo di battaglia.
“Nessuno se ne andrà invece! Morirete tutti qua!!!” –Ringhiò Nyx, che aveva compreso quel che Selene
voleva fare, allungando un artiglio d’ombra verso i due Cavalieri di Avalon,
che furono svelti a balzare in alto, evitandolo, e a contrattaccare con la luce
dei loro Talismani.
La Cintura dell’Arcobaleno e lo Scudo di Luna brillarono intensi, quel
tempo sufficiente affinché Selene si portasse di
fronte a loro, venendo trafitta al loro posto, il corpo ormai avvolto in un bagliore
amaranto, il cosmo elevato al parossismo.
“Come ogni Titano, anch’io possiedo il controllo di un pianeta! La Luna
di Pace, nel mio caso! Il reame che mi sono illusa di creare e di cui adesso mi
servirò per difendere colei che amo! Vattene, Elanor! Il futuro ti attende!”
“Ma…madre…”
–Pianse la ragazza, comprendendo quel che sarebbe accaduto. –“Vieni via con
me!”
“Troppo tardi mi hai ricordato chi sono! Non una Divinità impaurita e
sonnacchiosa, ma la figlia del più potente dei Titani! Mio padre non
sarebbe mai fuggito, avrebbe lottato, fino all’ultima stilla di energia, per
difendere chi aveva caro! Che fosse un congiunto, un amico, il popolo che in
lui credeva! Mio padre era il re che questo mondo non ha mai avuto, e io sono
stata regina di un mondo mai esistito, se non nelle mie fantasie! E proprio in
quelle fantasie, nei voli pindarici cui a volte ci abbandoniamo, voglio che mi
ricordi, Elanor! Ricordami così, mentre affronto il fato avverso e spira il
vento solare!!! HeliosVortex!!!”
–Strillò Selene, scaricando un turbine di fiamme che
divampò ratto su quel che restava dell’Occhio.
“Marea d’ombra!!! Saziatene!!!” –Ringhiò Nyx,
mentre onde di tenebra nascevano dal suo corpo, travolgendo, ricoprendo,
fagocitando ogni fuoco, ogni colore, ogni luce.
“La affido a te!” –Commentò la Dea della Luna, facendo un cenno a
Matthew, che afferrò Elanor, strattonandola via dalla sala in rovina, diretto
all’ultimo luogo di quel regno che ancora resisteva. La piattaforma che celava
il portale.
“Creato dal cosmo di Selene, che con placida
calma aveva lavorato e levigato la sabbia lunare, assieme all’amato Endimione, plasmandola sì da creare il reame in cui avrebbe
voluto vivere per l’eternità, adesso che la Dea ha attinto a tutte le sue
riserve di energia, lo stesso regno sta svanendo, disfacendosi e ritornando
quel che era all’inizio. Sabbia, e niente più.” –Rifletté il biondo Cavaliere,
mentre raggiungeva la terrazza con il glifo intarsiato. Strinse la mano di
Elanor, forzandola a guardarlo, a riportare lo sguardo su di lui e non
sull’immensa bolla di tenebra che aveva ormai inglobato l’intero spazio ove
fino a poco prima svettava il Palazzo Lunare.
Fu in quel momento che la raggiunse l’ultimo saluto di sua madre,
portato da uno sbuffo di calore che le solleticò la guancia, scuotendole il caschetto
di capelli castani, prima di svanire.
“Addio Elanor! Vivi!”
La ragazza crollò a terra, mentre la piattaforma stessa iniziava a
tremare, sfaldandosi in più punti, e Matthew la esortava a concentrarsi, per
non rendere vano il sacrificio di Selene.
“Dobbiamo tornare ad Atene! Dobbiamo portare a compimento gli ordini
ricevuti da Avalon ed eseguire l’ultima richiesta di tua madre, la più
importante! Coraggio, Elanor, insieme ce la faremo!” –Le disse il Cavaliere
dell’Arcobaleno, avvolgendola con il tepore del suo cosmo.
La fanciulla non rispose alcunché, gridando il nome di sua madre,
mentre il cosmo esplodeva attorno a lei. Vi fu un ultimo lampo di luce ed
entrambi scomparvero.
***
Ombra.
Per un momento giudicato interminabile entrambi videro soltanto ombra.
Poi, inspirando a fatica, aprirono gli occhi, rischiarati da una leggera
luminescenza che le scanalature nel marmo emanavano ancora. Erano vivi, ed
erano tornati ad Atene, all’Altura delle Stelle. Ma quel che avevano lasciato
indietro, quel che avevano perduto, non sarebbe più ritornato.
“Mia madre…” –Mormorò Elanor, alzandosi
stanca e allontanandosi. –“Mio padre…Thot… gli altri Seleniti… il
regno dove mi sono sempre sentita incompleta e in cui adesso non potrò più tornare… casa mia…” –Aggiunse,
uscendo dal piccolo tempio e fermandosi fuori, a rimirare il cielo buio di
quella notte.
“Casa è dove vorrai che sia. Dove troverai amore.” –Si limitò a
commentare il ragazzo, avvicinandosi e stringendole una mano nella propria.
Elanor non seppe cosa rispondere, troppo stanca, triste e confusa. Poté
soltanto ricordare le ultime parole di sua madre.
“Vivi!”
Ricambiò la stretta di Matthew e tra le lacrime gli sorrise.
Sul ponte che collegava la Conchiglia Settentrionale
con quella ove risiedeva Hina un violento scontro era
in atto, iniziato quando Nesso del Pesce Soldato aveva avvistato un ragazzetto
in armatura azzurra avanzare celato tra le costruzioni dell’Avaiki.
All’apparenza sembrava avere la sua età, o quanto meno l’età che aveva quando
era morto, e, oltre ad avere lo stesso fisico atletico, era ben allenato nella
corsa, rapido nei movimenti e ugualmente silenzioso. Se fosse stato uno degli Heroes, sarebbe potuto essere un incursore suo pari.
Ed invece era un Forcide, il
settimo nella gerarchia interna, come ebbe a presentarsi lui stesso.
“Kelpie è il mio nome, come
il demone acquatico dalla forma di cavalli neri che infesta i laghi della
Scozia e dell’Irlanda del Nord! E tu, giovane malcapitato, sarai presto
travolto dalla mia mandria! Bäckahästen!!!” –Gridò, portando avanti entrambe
le braccia e liberando il suo assalto sotto forma di centinaia di cavalli di
cosmo, dal manto nero e dagli occhi di brace, che sfrecciarono lesti di fronte
a lui, scivolando su un letto d’acqua spumeggiante.
“Non mi piace la carne di cavallo!” –Commentò Nesso,
divertito, espandendo il proprio cosmo e alzando di scatto il braccio destro,
sollevando un’impetuosa corrente d’aria. –“Sospiro
nel vento!!!” –Gridò, mentre la tempesta, levandosi dal basso, scagliava
verso l’alto la mandria di cavalli di Kelpie, che
storse le labbra infastidito. Ma prima che potesse abbozzare una nuova
strategia fu costretto a scattare di lato, per evitare gli affondi che il
fedele di Eracle gli stava rivolgendo contro. –“Frecce del mare, colpite!!!”
I dardi di luce azzurra martellarono la corazza di
oricalco, scheggiandola in più punti, per quanto Kelpie
cercasse di portarsi a distanza di sicurezza, avvolgendosi nella bruma
schiumosa del suo attacco. Ma proprio mentre saltava sul cornicione del ponte
di sabbia, venne afferrato per un calcagno e sbattuto a terra, perdendo l’elmo
nell’impatto. Dimenandosi, realizzò che era stato agguantato da una fune
arpionata che Nesso gli aveva scagliato contro, estraendola dal bracciale
destro della sua corazza, una delle più dotate di accessori da battaglia.
“Stai fermo un momento! Voglio parlare!” –Gli disse,
iniziando ad arrotolare la fune e trascinando il ragazzo a sé.
“Perché dovrei farlo? Il mio compito è avanzare verso
la Conchiglia Madre, non perdermi in chiacchiere!” –Gli sputò questi in faccia,
prima di portare avanti le braccia e liberare, da vicino, il proprio colpo segreto.
I cavalli di nero cosmo sorsero dal suolo attorno a Nesso, sollevandolo di peso
verso l’alto, spezzando la corda che imprigionava Kelpie.
Il giovane eroe del Pesce Soldato tentò di aggrapparsi
alle pareti interne dell’Avaiki, tirando fuori gli
arpioni dentati dal bracciale destro della corazza, ma essendo una cupola di
puro cosmo non riuscì ad aderirvi, precipitando verso terra. Ebbe l’arguta
idea, poco prima di schiantarsi contro il suolo, di sollevare la propria
corrente d’aria, provando su se stesso il colpo segreto, che gli permise di
attenuare l’impatto, fino a depositarlo a terra con solo qualche graffio sulla
corazza.
Kelpie strinse i
denti seccato per la prontezza di spirito di quel ragazzo, che rischiava di
fargli perdere tempo. Aveva già sentito il cosmo del Primo Forcide
varcare i confini dell’Avaiki, e di certo l’Isonade e l’Iku-Turso stavano già
dando prova del loro servilismo, mentre lui non era ancora riuscito ad entrare
nella Conchiglia Madre. Chiudendo il pugno con rabbia, lasciò che il cosmo schiumeggiasse attorno a sé, prima di lanciarsi di nuovo
all’attacco. Nesso fece altrettanto e i loro colpi si scontrarono a mezz’aria,
ma solo uno ebbe la meglio.
***
Ascanio non poteva credere ai suoi occhi, convinto di
essere vittima di un inganno, di un potente incantesimo in grado di distorcere
la realtà. Perché, se così non fosse stato, avrebbe dovuto ammettere che l’uomo
che aveva di fronte, il possente Tiamat dell’Abisso
Oscuro che era stato in grado di mettere in difficoltà gli Heroes
e persino il glorioso Comandante dei Cavalieri delle Stelle, era un uomo che
credeva morto.
Il suo vecchio compagno di addestramento ai Cinque
Picchi.
“Non… è possibile…Tebaldo…”
“Vedo che infine ricordi…
non hai dunque rimosso il ricordo della tua vergogna?!” –Ringhiò questi,
stringendo con maggior forza attorno al collo dell’uomo, gli occhi che
lampeggiavano d’ira.
“Ma tu… moristi, quel
giorno, ad Atene…” –Rantolò il fedele di Avalon.
–“Durante le Panatenee, durante l’attacco dei soldati del Sole Nero… il corpo spezzato, sommerso da cumuli di macerie…”
“Mi vedesti e non facesti niente!!! Mi lasciasti lì,
ad esalare l’ultimo respiro, sotto un sole straniero!!! Anziché prenderti cura
di me, come io avevo fatto con te, quando febbricitante e delirante giungesti
nelle terre di Cina per inseguire chissà quale stupido sogno infantile! Così mi
ripagasti? E ora guarda il frutto delle tue azioni sconsiderate, osserva il mio
volto! Eh no, non distogliere lo sguardo… ammira come
sono diventato!”
Con riluttanza, Ascanio fu costretto a guardarlo in
faccia, trattenendo un gemito di disgusto per il viso deturpato dell’antico
compagno. Dei suoi lunghi capelli castani non rimaneva niente, solo radi ciuffi
che costellavano un cranio deformato, addirittura schiacciato in alcuni punti.
Il viso, un tempo limpido e solare, era segnato da cicatrici, una delle quali
gli tagliava a metà l’occhio destro, facendolo apparire storto a chi lo
osservasse, e il colore grigio, quasi argenteo, che aveva apprezzato da ragazzo
nelle sue pupille era scomparso, sommerso da un giallo smunto, simile agli
occhi di un serpente.
“Ti piaccio, eh?! Sono proprio bello! Certo, non come
te, che sei perfetto in tutto, ma io mi accontento, perché al posto di questo
viso sfregiato potrei essere morto e allora meglio questo che la fine di
tutto!” –Sibilò colui che anni addietro era stato Tebaldo.
“Com’è possibile?! Come puoi essere vivo?! Eri morto!
Morto!!!”
“Oh sì, lo ero davvero, per quanto tu non ti
preoccupasti nemmeno di sincerartene! No, tu scegliesti la tua strada,
fregandotene degli altri, anche di chi ti aveva salvato la vita! Andasti
sull’Olimpo e diventasti un Cavaliere Celeste e poi un galoppino di Avalon e di
me ti dimenticasti! Che fossi morto o vivo, che cosa importava in fondo? Ero solo
uno stupido apprendista, uno dei tanti che quel vecchio prugna viola aveva
avuto nel corso di duecento sprecati anni di vita!!!”
“Non… parlare così del
nostro maestro!!!”
“Ah no?! Perché non dovrei? Anche lui, al tuo pari, mi
ha abbandonato! Avrebbe potuto alzare le sue rachitiche chiappe putride e
venirmi a salvare, anziché lasciarmi marcire sotto torridi detriti! Oooh, quanto ho goduto, quando Anhar
mi ha portato notizia della sua morte! Quando Anhar
mi ha portato le dita che gli aveva mozzato in combattimento!!!”
“Che… cosa?! Conosci Anhar? In che rapporto sei con lui?!”
“Intimi, tanto quelli che ti legano al Gran Tessitore
dell’Isola Sacra!” –Sussurrò il Primo Forcide. –“E
adesso te lo dimostrerò!” –Aggiunse, avvolgendo il corpo di Ascanio in una nube
nera e scaraventandolo in alto. –“Ora ti mostrerò il potere dell’Abisso Oscuro,
la furia di Tiamat!!! Muori, Ascanio!!! Apocalisse oscura!!!”
La devastante tempesta di energia nera travolse il
Comandante dei Cavalieri delle Stelle, intrappolato nel maglio di tenebra da
cui non riusciva a liberarsi, scaraventandolo molti metri addietro,
nell’interno della Conchiglia Occidentale, di fronte agli occhi terrorizzati di
Alcione e Pasifae. Ruzzolò, Ascanio, stringendo i
denti all’impatto, l’armatura scheggiata in più punti, i magnifici coprispalla a forma di drago danneggiati, ma più di questo
fu il dolore per le parole di Tebaldo, che
cancellavano qualunque gioia potesse provare per saperlo vivo.
“Io… non riesco a capire…” –Mormorò, rialzandosi. –“Cosa accadde davvero quel
giorno? Come sei riuscito a sopravvivere?”
“Fui scelto. Come lo fosti tu.”
“Da chi?!” –Esclamò Ascanio, cogliendo un guizzo
d’orgoglio nella voce dell’antico compagno. –“Da Anhar?!”
“Precisamente. Ricordo ancora, come fosse oggi, la prima
volta in cui lo vidi. Giaceva il mio corpo spezzato su un carro di legno, dove
gli alacri servitori della Vergine Dea mi avevano messo, assieme ai cadaveri di
tutti coloro, soldati o semplici fedeli, che erano caduti quel giorno d’estate.
Sentivo il sole sulla mia pelle, sentivo le grida e i pianti del popolo in
lutto e, su tutto, sentivo l’odore acre della morte, che stava venendo a
prendermi. Il mio corpo, probabilmente, già se lo era preso, non essendo in
grado di muovere alcun muscolo, ma l’anima ancora permaneva, esitando ad
abbandonare le spoglie che l’avevano ospitata fino ad allora, in quei tredici
miseri anni. Fu quando accesero il fuoco, alle pire su cui ci avevano
posizionato, per tributarci l’ultimo saluto, che lo sentii. Se avessi avuto ancora
gli occhi, li avrei aperti e lo avrei visto lì, immobile sopra di me, intento a
scrutarmi incuriosito, a leggermi nel cuore, a inebriarsi dei turbamenti che mi
agitavano l’animo. Era un immenso angelo nero, con ali di tenebra, che io credetti fosse la morte. Come fu strano, se ancora ci
ripenso, non esserne stato per niente spaventato, tutt’altro. Quel che provavo,
quel che davvero sentivo, era il dolore per essere stato abbandonato, per non
essere stato un amico, un affetto, un compagno così importante da non meritare
neppure di essere salvato da te! Ti odiavo, Ascanio! Stavo morendo, la morte mi
avrebbe condotto alla Bocca di Ade, eppure tutto quello che riuscivo a pensare
era soltanto che ti odiavo!!!”
“Tebaldo, mi dispiace…” –Mormorò il Cavaliere delle Stelle, ricevendo in
risposta solo un’onda di energia nera che lo spinse indietro, schiacciandolo
contro il muro di una costruzione e prostrandolo poi a terra.
“Lo credevo anch’io, all’inizio! E per tutto quel
tempo, mentre la pira ardeva e l’ultima stilla di vita si esauriva in me, credetti che ti avrei sentito arrivare, gridare con rabbia,
ruggire per salvarmi, ardimentoso come sempre avevi lottato, anche durante la
prova di pancrazio! Ma poi ricordai quel che Koroibos
mi aveva detto quel pomeriggio, sul tuo destino. Era altrove. Ed era vero, di
certo non era con me! Con quel pensiero nel cuore, con quell’odio mi apprestai
a morire, quando sentii un freddo improvviso attorno a me. Capii allora di
essere morto, di aver varcato i cancelli di Ade, ma sorprendentemente potei
aprire gli occhi. A fatica, non riuscendo a schiudere le palpebre del tutto, ma
a sufficienza per ammirare il volto tetro e dannato di colui che mi aveva
salvato. L’angelo oscuro chiamato Anhar,
impressionato da quanto odio fossi in grado di provare, una stilla rispetto a
quello che egli covava nel cuore, ma pur sempre un inizio, secondo lui. Mi
prese con sé e mi curò con una fiamma nera che mai avevo visto in vita mia, una
fiamma che attingeva ad un’oscura sorgente, al momento quietata, ma che presto,
mi disse, sarebbe tornata a ricoprire il mondo! Una fiamma in grado di creare,
plasmare e alterare la materia e con la quale Anhar
riattivò il mio corpo spezzato. Ma non il volto, quello no, non volli che lo
sistemasse. Quello sarebbe dovuto rimanere per sempre così, a memoria
imperitura di quel che mi avevi fatto quel giorno, abbandonandomi! E per
mostrarti, adesso che infine ci siamo ritrovati, cosa farò a te, come sarà il
tuo bel viso quando avrò finito!”
“Tebaldo, ascolta, Anhar ti ha imbrogliato, ti ha adescato con le sue parole,
come sempre ha fatto con tutti!” –Ma il Primo Forcide
non gli diede tempo di aggiungere altro, balzando rapido su di lui, un guizzo
d’ombra dalle mani artigliate, sollevandolo di peso e sbattendolo contro il
muro alle sue spalle.
“Anhar ha fatto molto di
più! Mi ha ridato uno scopo per cui vivere, incanalando il mio odio in un più
grandioso progetto! Io, Ascanio, sono l’allievo di Anhar,
l’allievo del Maestro di Ombre! Il figlio dell’Angelo Oscuro! Io sono Tiamat!!! Così devi chiamarmi, con questo nome dovrai
implorarmi!!!” –Aggiunse, rabbioso, colpendolo con un destro al petto e
scagliandolo in alto. Quindi, anziché rimanere inerte ad aspettare che
ricadesse al suolo, il Primo Forcide balzò in alto,
avvolto nel suo cosmo oscuro, tempestando il corpo del Cavaliere delle Stelle
di migliaia di pugni, affondi e lampi di energia, fino a schiantarlo al suolo,
in un ampio cratere che andò chiazzandosi di sangue e lucenti frammenti di
armatura.
“In…credibile…”
–Rantolò il Comandante Ascanio, che solo il giorno prima aveva fronteggiato Anhar nel corpo del Cavaliere della Vergine. –“Pare persino
essergli superiore… Il suo cosmo, di sfumature
divine, sia pur oscure, è ornato.”
“Non riesci ad accettare la realtà, Ascanio? Non
riesci a credere che possa esistere qualcuno in grado non solo di tenerti testa
ma anche di sconfiggerti? Ipotesi che nel corso della tua lunga e vittoriosa
vita non ti è mai balenata nel cervello, immagino!”
“No! Mai!!!” –Avvampò il discepolo di Avalon,
rialzandosi ed espandendo il proprio cosmo. –“E che mai troverà ragion
d’essere!” –Aggiunse, portando avanti il braccio destro e liberando il suo
colpo segreto. –“Attacco del drago di
sangue!!!”
“È inutile!!!” –Chiosò Tiamat,
sul cui palmo aperto era già comparso il buco nero difensivo, che inghiottì la
vermiglia sagoma del dragone di Britannia, facendola scomparire. –“Conosco i
tuoi attacchi! Ti ho osservato crescere, addestrarti a Glastonbury,
con i Cavalieri dell’Ultima Legione, ti ho visto diventare l’allievo di Avalon
e infine sfoderare il Talismano là custodito! E so come contrastare ciascuno
dei tuoi assalti, mentre tu, di me, non sai niente!”
“Se mi hai tenuto d’occhio per tutto questo tempo,
allora saprai anche che non ti ho mai dimenticato, Tebaldo!”
“Non…chiamarmi…
così!!!” –Ringhiò, liberando un’onda di energia, che quella volta Ascanio
evitò, saltando in alto, sopra la stessa e atterrando proprio davanti al Primo Forcide.
“Quello è il tuo nome! Il nome dell’amico con cui
trascorrevo le giornate ad allenarmi, ai piedi della Cascata del Drago, di
fronte all’occhio attento di un maestro che amava entrambi, come ha amato tutti
i suoi allievi! Puoi disquisire quanto vuoi, infangare il nostro nome, ma non
potrai mai alterare i ricordi, perché quelli tali sono! E se la verità ti fa
male, allora io te la mostrerò!” –Esclamò il giovane, allungando la mano verso
il volto di Tiamat e afferrandogli la fronte,
lasciando che i loro cosmi entrassero in contatto. –“Trasmigrazione dell’anima!!!”
Il Primo Forcide fece per
travolgerlo di nuovo, quando percepì un mancamento improvviso, come se l’anima
gli fosse stata strappata via dal corpo. Istupidito, si ritrovò a fluttuare nel
vento, fuori dall’Avaiki, fuori dal mare, trasportato
in un cielo di immagini note e meno note, che il cosmo di Ascanio stava
riordinando. Per prima, si rivide bambino, un orfano abbandonato da una
famiglia povera di un cantone cinese, solo e in lacrime ai piedi di un albero.
E vide per la prima volta quando Dohko lo trovò,
attratto dai vagiti e dal cosmo che percepiva latente dentro di lui. Vide come
lo riscaldò, donandogli il tepore di un abbraccio e di una famiglia, e come lo
crebbe, pur senza mai venir meno al suo compito primario, aiutandolo a prendere
coscienza dell’energia che possedeva. Un’energia pura, immacolata, speranzosa,
come quella di un giovane che amava la vita, la natura e la placida esistenza
ai Cinque Picchi.
Poi le immagini cambiarono e il sole cedette il posto
ad una notte di pioggia. Il Forcide tremò, ricordandola
in prima persona, poiché era la notte in cui aveva trovato Ascanio, ai margini
di un campo di bambù. Da allora era diventato il suo compagno di addestramenti,
il primo amico che avesse mai avuto in quella solitaria vallata nel cuore della
Cina, condividendo con lui sogni e ideali, pur provando la spiacevole
sensazione di essergli sempre inferiore. Nonostante fossero meno anni che si
allenava, Ascanio era più lesto ad apprendere, più forte nel combattimento, più
scaltro nell’atterrarlo, come Koroibos ebbe a
confermare osservandolo lottare nella gara di pancrazio. Infine, a quelle
immagini ne seguirono altre, che entrambi ben conoscevano, i ricordi delle
Panatenee, l’attacco dei Soldati del Sole Nero e il crollo di alcuni edifici
sopra di loro. Quello che Tebaldo non aveva mai
visto, ma che Anhar poi gli aveva raccontato, fu la
comparsa di Ermes, scintillante e etereo, quasi danzasse in quel caos che
imperversava in tutto il Santuario. Ne ascoltò le parole, osservando
l’espressione attonita sul volto di Ascanio e ugualmente affranta. Vide, in
lui, per la prima volta, una traccia di esitazione, che però subito scomparve
quando afferrò la mano del Messaggero Olimpico, dicendo addio alla sua vita
precedente.
“Facesti la tua scelta, quel giorno, Ascanio, ed io ho
fatto la mia!” –Tuonò il Primo Forcide, tentando di
sottrarsi a quel viaggio tra i ricordi. Ma il potere del Comandante di Avalon
lo teneva avvinto a sé, forzandolo a condividere frammenti di passato, due
anime in un solo corpo.
“Non hai ancora visto tutto.” –Si limitò a commentare
il Cavaliere della Natura, mentre le immagini mutavano ancora, rivelando adesso
una verde campagna, un prato fiorito, un colle terrazzato con un’alta torre
diroccata sulla sommità.
“Glastonbury…” –Riconobbe Tiamat, osservando il giovane Ascanio crescere e diventare
un adulto, indossare l’Armatura Celeste e venire iniziato ai misteri. Tutte
cose che già sapeva, che Anhar gli aveva raccontato
dopo averle scoperte, e che lo irritarono al punto da portarlo ad espandere il
proprio cosmo oscuro, obbligando l’antico compagno ad uno sforzo ulteriore per
mantenere salda la visione. Così il Primo Forcide fu
costretto ad osservare ancora, scoprendo un ricordo che non conosceva,
estrapolato da un giorno in cui Ascanio aveva disertato, abbandonando Avalon e
la Britannia stessa, per recarsi da solo e in incognito ad Atene.
Non lo aveva mai saputo, né ritenuto possibile, eppure
eccolo là, avvolto in mantelli di stracci per nascondere le sue erculee
fattezze, mentre si aggirava tra le abitazioni del Grande Tempio, diretto verso
il lato nascosto della Collina della Divinità, dove si trovava il cimitero
degli eroi morti in nome di Atena. Tra la miriade di tombe che ne costellavano
il campo, molte anonime e ricoperte di polvere e rampicanti, Ascanio si sedette
di fronte ad una, che commemorava tutti coloro che erano caduti il giorno delle
Panatenee. E lì pianse.
Rimasero così per lunghi istanti, l’Ascanio di allora,
in ginocchio nella polvere dei ricordi e dei rimorsi, e l’Ascanio di adesso,
con una mano ancora sulla fronte di Tebaldo, per
mostrargli quel che non sapeva. Durò poco, ma diede tempo a entrambi di
riflettere e di reagire.
“Idiozie!!!” –Ringhiò il Primo Forcide,
avvampando nel proprio cosmo oscuro e scaraventando il Cavaliere di Avalon
molti metri addietro, per quanto questi, aspettandosi un tale attacco, fosse
stato abbastanza abile da incrociare subito le braccia davanti a sé,
riparandosi in parte. –“Cosa volevi mostrarmi, Ascanio? Che almeno una volta mi
hai pensato? Ben poca, rispetto alle volte in cui ti ho pensato e maledetto io,
ricordandoti mentre mi allenavo, mentre irrobustivo il mio fisico, fortificando
i miei poteri e il mio cosmo grazie all’ombra di cui il mio maestro mi fece
dono, l’ombra di un antico potere che presto tornerà a ricoprire la Terra!”
“Volevo soltanto che tu sapessi che né io, né Dohko, ti abbiamo mai dimenticato! Sei rimasto nei nostri
cuori, come l’amico e l’allievo perduto di un tempo, e che, se avessimo potuto,
avremmo voluto che le cose fossero andate diversamente!”
“Ma voi avreste potuto!!! E invece avete compiuto una
scelta diversa, avete scelto di non scegliere, abbandonandomi e proseguendo per
la vostra strada!!!” –Gridò furioso Tiamat, cui
Ascanio rispose con un sospiro sconsolato.
“Così era il nostro destino!” –Chiosò, sollevando
infine le braccia in posizione d’attacco. –“Ma se le mie parole non bastano per
cacciar via il dolore dal tuo cuore, lo faranno le mie azioni, quelle con cui
combatterò l’uomo malvagio che sei diventato! Non posso avere remore, Tebaldo, neppure con te! Se davvero sei allievo di Anhar e con lui hai condiviso i progetti per la fine del
mondo, la nostra amicizia finisce qua, confinata in un ricordo che nessuno
potrà più sfiorare, per quanto sangue, dolore e morte possano scaturire
quest’oggi tra noi!”
“Combattimi, sì, Ascanio! Ma non credere di potermi
vincere! Non hai la forza per resistere all’ombra!!!” –Avvampò Tiamat, mentre il Cavaliere delle Stelle si lanciava verso
di lui, avvolto nel suo divampante cosmo bianco e rosso. Un buco nero si
interpose immediatamente tra i due contendenti, risucchiando l’assalto di
Ascanio, che subito scartò di lato, tentando l’affondo da una diversa
posizione, ma la macchia di tenebra si spostò con lui, sempre posizionandosi di
fronte al Primo Forcide, senza neppure che egli
muovesse le dita. Inorridendo, il Comandante dei Cavalieri di Avalon vide anche
il secondo ed il terzo attacco andare a vuoto, assorbiti da quella scura
chiazza che pareva fosse viva. E forse, temette il giovane, ricordando i
pericolosi esperimenti di Anhar e dei suoi accoliti,
lo era davvero.
“La maestria di ombre…”
“Un’antica ed efficace pratica di cui il mio maestro
mi ha reso partecipe e che mi ha impressionato al punto da farla mia, come
vedi, Ascanio! Questo è il potere di Tiamat
dell’Abisso Oscuro, questo il potere dell’angelo oscuro! Piegare le ombre al
proprio volere e servirsene! Ho imparato bene, che te ne pare?” –Ghignò,
muovendo il braccio destro e liberando una moltitudine di fatue evanescenze dal
colore dell’ebano che dal buco nero si allungarono verso Ascanio, per quanto
egli balzasse di lato in lato per evitarle. –“Rapsodia di ombre!!!”
In un attimo il glorioso Comandante venne afferrato e
gettato a terra, mentre sinuosi tentacoli oscuri si avvinghiavano al suo corpo,
stritolandolo, piegandogli gli arti in pose innaturali, torcendogli persino il
collo in modo da potergli sempre mostrare il volto deformato che stava
ordinando quella tortura. Il volto che ormai aveva smesso di conoscere, non
trovandovi più niente del vecchio amico. Solo un nuovo pericolo.
“Eppure…” –Rantolò Ascanio,
deluso dal fallimento della sua tecnica mentale.
Aveva sperato, usandola, di poter risvegliare in Tebaldo il ricordo dei giorni lieti trascorsi in Cina, i
sogni di servire Atena e la giustizia, proprio lui che a quegli ideali, anche
solo per onorare il maestro che era più di un padre per entrambi, amava
dedicarsi anima e corpo. Ma l’ombra di Anhar ormai
gli aveva nutrito il cuore e di quel ragazzo non era rimasto niente. Era vero,
allora, quel che Tebaldo o Tiamat
gli aveva detto all’inizio del loro scontro. Il legame tra lui e Anhar era lo stesso che univa Ascanio e Avalon.
“Avalon…” –Mormorò, mentre
tentava di resistere e liberarsi da quei tentacoli di tenebra. Lui sapeva. Doveva sapere, che Tebaldo era ancora vivo. Avrebbe dovuto vederlo nel
Pozzo Sacro, avrebbe dovuto dirglielo, ben sapendo quanto Ascanio gli fosse
affezionato. Eppure aveva taciuto e lo aveva persino spinto in guerra, spinto a
seguire Asterios in Oceania.
“Va’ con lui, Ascanio! Non c’è bisogno di te ad
Asgard!” –Gli aveva detto, congedandolo al termine del concilio di tutti i
regni divini. E Ascanio aveva obbedito, come sempre, credendo che fosse la cosa
migliore per l’equilibrio delle forze in campo. Eppure, adesso, di fronte alla
scioccante rivelazione, non poté fare a meno di pensare che Avalon avesse
deciso di inviarlo nell’Avaiki per scoprire la verità
e fronteggiarne le conseguenze. Sì, si
disse, stringendo i pugni. Avalon doveva
aver visto quel che avrei incontrato qua sotto! E forse ha fatto bene a non
dirmi niente, per mettermi di fronte alla cruda verità e alla necessità di una
scelta.
“La mia scelta è una soltanto!” –Affermò deciso,
chiudendo i pugni ed espandendo il proprio cosmo in un’alba di luce argentea
che sfaldò la coperta d’ombra in cui era avvolto, traforandola e infine
disintegrandola. –“Combattere! Questo è ciò che so fare, ciò per cui sono nato
e che era destino facessi! Combattere e guidare alla vittoria coloro che
credono in me, come i miei avi nei tempi antichi! Trema Tiamat,
di fronte alla furia dei draghi di Albion! Se per un
momento ho messo da parte me stesso, travolto dal ricordo della nostra
fanciullezza e dell’amicizia che ci legava, adesso ho ricordato chi sono, ed è
stata proprio la tua violenza a farmi rinvenire! Io sono l’erede di Avalon,
discendente di Uther e Arthur, della gloriosa stirpe
del Pendragon che rese grande, unita e forte la
Britannia! In me scorre il sangue del Vecchio Popolo, che risiedeva in
Britannia prima dei romani e dei celti! In me permane la forza e la sapienza
delle antiche Tribù e nel mio cosmo ruggiscono i draghi di Albion,
sovrani dell’equilibrio!!!” –Esclamò, rialzandosi e portando avanti entrambe le
braccia, mentre due enormi sagome di scaglie di luce bianca e rossa gli
sfrecciavano accanto, fauci aperte, dirette verso Tiamat.
Il Primo Forcide comunque
non fu troppo impressionato, né dalle parole di Ascanio né dal suo attacco,
limitandosi a volgergli di nuovo contro il palmo della mano destra e a lasciare
che i draghi rossi e bianchi venissero risucchiati all’interno del buco nero.
Ma il Cavaliere delle Stelle, che si aspettava quella mossa, era già balzato in
alto, anticipando persino la foga dei due draghi, liberando un nuovo assalto,
mirando al volto di Tiamat.
“Non illuderti!” –Si limitò a rispondere questi,
mentre un secondo buco nero sorgeva di fronte a sé, per inglobare anche il
rinnovato attacco del Comandante di Avalon.
“Dobbiamo… aiutarlo!!!”
–Incespicò Alcione, scattando ai lati di Tiamat
assieme a Pasifae e liberando i propri colpi segreti.
–“Alti flutti spumeggianti!!!”
“Sinfonia degli
abissi!!!” –Le andò dietro la compagna, mirando al fianco opposto, sperando
così di cogliere almeno una falla nella sua difesa. Ma anche quei due attacchi
incontrarono la stessa fine, venendo risucchiati da una macchia nera che
apparve all’improvviso davanti al Forcide.
“Se credevate che potessi generare una sola Bocca
dell’Abisso, vi sbagliavate in pieno! Tante bocche può avere l’abisso, tante quante
io decido che ne abbia! Ma prima di sprofondarvi in quel sempiterno oblio,
maciullerò per bene i vostri corpi di modo che neppure i vostri simili, che
nell’oscurità ritroverete, possano riconoscervi! Morite, deboli esseri umani! Apocalisse Oscura!!!” –Tuonò,
sollevando entrambe le braccia, avvolte in un turbine di tenebra che scagliò in
alto Ascanio e i due Heroes di Eracle, gettandoli a
terra con le corazze danneggiate e nuove ferite aperte sul corpo.
“Questo colpo… te lo ha
insegnato Anhar… è il suo stesso attacco…”
–Realizzò il Comandante dei Cavalieri delle Stelle.
Sogghignando, Tiamat si
incamminò verso di lui, trovandolo che boccheggiava fiacco, con lo sguardo
rivolto verso la Conchiglia Madre, ove avrebbe voluto essere, a proteggere la
Perla dei Mari. Sospirando, il Cavaliere della Natura per un momento dubitò che
vi sarebbe mai giunto, stremato da un così ostico avversario.
“Primo tra i fedeli di Avalon a cadere per mia mano!
Addio Ascanio Pendragon! Vattene dai tuoi padri!!!”
–Ghignò Tiamat, preparandosi per liberare di nuovo la
tempesta di oscura energia, quando dovette balzare indietro, per evitare un
piano di energia che saettò lesto di fronte a lui. –“Ma cosa?! Chi osa
disturbarmi? Chi osa sfidare Tiamat dell’Abisso
Oscuro?!”
“Io oso!” –Esclamò una decisa voce maschile, mentre un
uomo dai corti capelli neri, rivestito da una lucente armatura verde e avorio
camminava verso i due contendenti, il braccio destro ancora avvolto dal proprio
cosmo ardente. –“Non permetterti di levare di nuovo la mano su uno degli
allievi del mio maestro o la prossima volta te la mozzerò!”
“Si…Sirio…”
–Lo riconobbe Ascanio, concedendosi un sorriso, mentre affannava nel rimettersi
in piedi. Il Cavaliere del Dragone lo aiutò a tirarsi su, ma non vi fu tempo di
scambiarsi ulteriori commenti che le aspre parole di Tiamat
li raggiunsero.
“Un altro allievo di Dohko?
Molto bene, sarà uno scontro interessante per dirimere un’antica, quanto
retorica, questione. Chi è il più forte tra i suoi discepoli?!”
Capitolo 27 *** Capitolo ventiseiesimo: Alle porte di Asgard. ***
CAPITOLO
VENTISEIESIMO: ALLE PORTE DI ASGARD.
“Sbranateli tutti!!!”
L’urlo di Reidar echeggiò nella foresta di Asgard, incitando i lupi al
suo comando ad avventarsi contro i coraggiosi esploratori e gli arcieri che si
nascondevano sui rami più alti dei giganteschi alberi secolari. Molte bestie
caddero trafitte da dardi infuocati, scagliati con maestria dai cacciatori che
Bard aveva addestrato personalmente, alcuni dei quali suoi vecchi compagni
nelle scorribande nella foresta. Ma altre, più svelte e feroci, evitarono la
pioggia di frecce, arrampicandosi poi sui tronchi, avvantaggiate dai robusti
artigli, simili a rostri di ferro, che permettevano loro di salire anche le
cime più scoscese.
“E voi cosa state aspettando? Scattate avanti!!!” –Gridò, rivolto ai
soldati che lo accompagnavano, che subito ripresero a marciare, cercando di
tenersi alla giusta distanza dai grossi felini corazzati, non desiderando
cadere nelle loro grinfie.
La cittadella era vicina. Questo il Nefario
lo sapeva bene, ricordando il percorso tra gli alberi, che permetteva di
giungere ad Asgard evitando la, di sicuro presidiata, via principale. Reidar
ricordava anche le teche d’ametista disseminate nel sottobosco, tingendolo di
un colore vivace, stridente con il bianco e il grigio di quei paesaggi
immutabili. Per quanto non avesse mai avuto simpatia verso il casato di Megrez, dovette ammettere che quelle bizzarre sculture
emanavano un perverso fascino. Purtroppo, adesso, di quelle bare violacee non
era rimasto niente, neppure gli scheletri dentro contenuti, che Ilda aveva
fatto rimuovere al termine della Guerra dell’Anello, ma l’aria di quel luogo
era ancora satura di magia oscura, segno che i Megrez
per molto tempo vi si erano allenati.
“Come lo fu per i nemici di quel nobile casato, uguale cimitero sarà
per voi se osate sfidare Reidar dei Warg!”
“Facile prendersela con semplici arcieri!” –Commentò allora una voce,
risuonando tra gli alberi millenari. –“Forse con un guerriero dotato di cosmo
ti risulterebbe più difficile, non credi?”
“Perché non proviamo?!” –Aggiunse un’altra voce, rivelando un cosmo
caldo, quasi bollente, che invase la parte di foresta dove i lupi stavano
combattendo, giungendo persino a sciogliere la neve, mutandola in un pantano
fangoso che lesto si incendiò.
“Ma… cosa?!” –Brontolò Reidar, osservando le
proprie gambe sprofondare in un oceano di lava ardente. –“Chi sei? Vieni fuori,
codardo!!!”
“Un modo piuttosto sgarbato per rivolgerti al tuo carnefice!” –Ottenne
come risposta, prima che due figure, alte e robuste, apparissero da dietro un
albero, avanzando a passo deciso verso di lui. Subito i lupi, che si erano
allontanati impauriti di fronte a quel torrente di magma, iniziarono a
ringhiare e qualcuno tentò persino di lanciarsi su di loro, ma bastò il gesto
di un guerriero, che liberò un’onda di energia devastante, per dilaniarli,
gettandone le carcasse nella lava, che le divorò famelica.
“Urgh! Non credevo che Asgard disponesse di
guerrieri abili con il fuoco, adesso che Artax è
caduto!”
“Non so chi sia questo Artax di cui parli! Ma
è stato il mio compagno, Chirone del Centauro, a
generare quest’oceano di magma!” –Esclamò un uomo rivestito da una corazza
viola, con rigidi spuntoni sui bracciali, sui coprispalle
e persino sull’elmo. –“In quanto a me, se vuoi apprendere il mio nome,
avvicinati, così potrai udirlo meglio!”
Reidar non si mosse, le braccia sollevate e pronte all’attacco. Furono
i soldati al suo fianco a lanciarsi avanti, sfoderando spade e scagliando lance
verso i due guerrieri, prima ancora che il Nefario
dei Warg potesse urlare loro di stare indietro.
“Troppo tardi!” –Sorrise compiaciuto l’uomo dall’armatura viola. –“Tuono del Cacciatore!!! –E travolse
quella moltitudine di soldati con un unico devastante attacco, avendo cura di
scagliare i corpi proprio davanti a Reidar, disposti in una grossolana linea di
confine. –“Scegli! Te ne do la possibilità perché mi sembri sveglio! Vattene,
torna sui tuoi passi, o varca la linea! E, a quel punto, muori!”
“A chi devo questa gentile offerta?!” –Ghignò il Nefario.
“A Iro di Orione, il primo degli Heroes!” –Si
presentò infine l’uomo, incrociando lo sguardo con quello del nemico e
rimanendo così, ad osservarsi, per qualche secondo che parve a Reidar
interminabile.
Proprio quando il servitore di Polemos si decise
a farsi avanti, il vento mugghiò all’improvviso, scuotendo le fronde degli
enormi alberi che li attorniavano, attirando subito l’attenzione dei Warg, che levarono il capo, iniziando ad annusare l’aria.
Una dopo l’altra, sagome deformi sorsero dal terreno, sagome che avevano la
forma di scheletri umani. Rachitici, composti di sole ossa, presero ad avanzare
da ogni direzione, convergendo su Iro e Chirone, che in breve vennero accerchiati da quella
moltitudine di carcasse ambulanti.
“Umpf! E questo mucchio d’ossa dovrebbe
impensierirmi?” –Avvampò subito il robusto guerriero del Centauro. –“Morirò il
giorno in cui indietreggerò di fronte a uno scheletro! Magma ardente, spazzali via!!!” –Aggiunse, liberando un’onda di
pura lava, che si abbatté su un mucchio di creature, senza danneggiarle
minimamente.
“Tuono del Cacciatore!!!”
–Echeggiò Iro, accanto a lui, investendo altri
scheletri, che non vennero però neppure smossi da quell’assalto. –“Che
stregoneria è questa?!”
“Io non credo nella stregoneria, Orione! Dovresti ben sapere che sono
un tipo piuttosto… pratico!!!” –Esclamò Chirone, piantando un pugno nel terreno e infondendovi il
suo caldo cosmo, che scaturì poco dopo sotto forma di getti di lava, da sotto
ciascun scheletro che li attorniava. Ma anche quella tecnica non produsse
risultati, non riuscendo a fermare l’avanzata di quell’orrido esercito, che
ormai li aveva completamente circondati, al punto da togliere loro ogni visuale
che non fosse quel cumulo confuso di ossa e teschi grigiastri. –“Grrr!!!” –Si infuriò il guerriero del Centauro, lanciandosi
avanti, deciso ad abbatterli con una robusta spallata, e trovandosi infine a
passare in mezzo a loro, senza neppure sfiorarli. Anche Iro
tentò la stessa tattica, scoprendo infine l’inganno di cui erano stati vittima.
“Sono illusioni!” –Convennero, cercando oltre quella fumosa trappola in
cui erano caduti il vero mandante dell’assalto. Gli ci volle un po’, disturbati
dalle spettrali figure che, sia pur innocue, continuavano a cingerli d’assedio,
strusciando le dita rugose sui loro visi, ma infine ne individuarono l’aura,
scalciando frustrati. Chiunque li avesse raggirati era ormai alle porte di
Asgard.
***
“Cristal! Combatteremo insieme!” –Esordì
Alexer, espandendo il proprio cosmo azzurro. Aveva perso l’elmo, durante il
crollo della roccaforte, e la splendida corazza era rigata in più punti, ma il
volto dell’Angelo d’Aria trasudava la stessa sicurezza della prima volta in cui
il Cavaliere di Atena lo aveva incontrato, mesi addietro, in Siberia, quando era
intervenuto per aiutarlo contro Enio.
A dire la verità, rifletté Cristal,
sollevando le braccia in posizione di guardia, Alexer è sempre intervenuto in mio aiuto, nei momenti di massimo
bisogno.Prima contro la Dea della
Distruzione, poi contro il Capitano dell’Ombra al servizio di Flegias. E adesso contro Erebo. Sempre vegliando su di
lui come un nume tutelare o un vero angelo guardiano. Non seppe spiegarsi il
motivo ma d’un tratto giunse addirittura a pensare che, se non fosse
intervenuto Abadir, quel giorno in Siberia, Alexer si
sarebbe tuffato per salvarlo dalle correnti oceaniche.
Perché? Cosa
mi rende speciale e così meritevole delle sue attenzioni? Si chiese
all’improvviso. Lo fa solo per generosità
d’animo?Solo per obbedire agli
ordini di Avalon, che forse aveva già previsto l’importanza di noi Cavalieri
dello Zodiaco nella guerra contro Caos? No, scosse la testa, accennando un
sorriso, Alexer non agisce sotto ordine
di nessuno, quello che fa lo fa perché lo sente davvero! Percepisco
distintamente il suo affetto!
Le sue riflessioni furono interrotte da un sibilo nell’aria che
anticipò una raffica di nere daghe di energia che Erebo aveva appena scagliato
contro di loro, costringendoli a balzare indietro e a sollevare al qual tempo
un muro di ghiaccio, su cui i dardi oscuri si infransero, mandandolo in
frantumi all’istante. Cristal valutò anche di
ripetere il trucco con cui aveva vinto la Gorgone, ma comprese fin da subito
che con Erebo sarebbe stato vano; nessuno specchio di ghiaccio sarebbe stato così
resistente da riflettere il suo potentissimo cosmo. E qualcosa in fondo al
cuore (forse l’esperienza accumulata in anni di battaglie o la fredda saggezza
che i suoi maestri avevano tentato di instillare in lui) gli faceva persino
temere che Erebo non avesse ancora tirato fuori il suo vero potenziale,
limitandosi, fino ad allora, a giocare con lui, proprio come un gatto si
diverte con canarini e lucertole prima di sbranarli.
Quel momento non deve
presentarsi! Si disse,
stringendo i denti ed espandendo il proprio cosmo, che rilucette bianco tra la
neve smossa e infettata, sollevandola in un turbine d’aria fredda, che presto
si colorò di iridescenti sfumature.
“Puoi contrastare le sue daghe da solo?” –Chiese al Principe, che aveva
compreso quel che volesse fare, annuendo deciso e incrementando lo strato
difensivo del muro di ghiaccio. Con la coda dell’occhio, osservò Cristal alzare le braccia al cielo, a pugni uniti, e poi
calarle di colpo, mentre tutto attorno a sé esplodeva il proprio cosmo
glaciale, riversandosi in un turbine di gelo. –“Scorrete, acque dell’Aurora!!!”
Eccolo! Commentò Alexer, il colpo segreto dei
guerrieri del ghiaccio, la stessa tecnica che aveva insegnato ad Acquarius anni addietro, quando era ancora un ragazzo
dell’età di Cristal, sebbene mai l’allievo avesse
sfoderato una simile potenza d’attacco. Avalon
aveva ragione! Cristal e i suoi compagni hanno ormai
raggiunto il Nono Senso! Dobbiamo aiutarli a sfruttarlo al meglio, per la
nostra comune causa! Realizzò, abbassando il muro di ghiaccio e permettendo
all’assalto del ragazzo di sfrecciare verso Erebo, investendo la pioggia di
daghe nere e congelandole all’istante.
Se non avesse avuto la tetra maschera a coprirgli il volto, i due
combattenti avrebbero potuto notare l’ombra della sorpresa scivolare sul viso
del Nume Ancestrale, il cui attacco era appena stato vanificato dal vento
freddo scatenato dal Cigno.
“Non che questo basti a piegarmi!” –Ironizzò, mentre la tormenta lo
investiva e lui rimaneva immobile, con il braccio destro sollevato e la
venefica aura oscura che lo attorniava. –“Una boccata d’aria fresca è l’ideale
per stimolare l’appetito prima di un combattimento! Oh, quanto l’ho rimpianta
nei giorni solitari nell’intermundi, dove neppure un filo di vento scuoteva i
miei famelici pensieri!” –Lo schernì, osservando i pallidi tentativi
dell’attacco di Cristal di rivestire la sua oscura
corazza con cristalli di gelo che subito andavano squagliandosi, al solo
contatto con il suo tetro cosmo.
Quel che dovette temere fu in realtà il rapido movimento di Alexer, con
cui evocò una miriade di folgori azzurre, attingendo alla forza profonda
dell’universo. In un istante il cielo plumbeo fu striato da una danza di
fulmini che si schiantò sul Signore delle Tenebre, strappandogli un grido di
fastidio. Sì, puro fastidio per quelli che, per lui, erano solo violenti
pizzicotti, niente più.
“E le persone che mi infastidiscono tendo a sopprimerle!!!” –Ghignò,
spalancando le braccia e liberando un enorme globo di energia oscura, che
crebbe, fagocitando e distruggendo il paesaggio attorno, prima di sfrecciare
verso Cristal e Alexer.
Quest’ultimo fu lesto ad afferrare il Cavaliere di Atena e a gettarlo a
terra, innalzando al tempo stesso uno strato di ghiaccio su di loro, dalla
forma inclinata, in modo da permettere alla devastante bolla energetica di
scivolarci sopra, sollevandosi ed esplodendo poi nel cielo. Quando i due si
rimisero in piedi, Erebo già li stava aspettando.
“Ora inizio a divertirmi!” –Sogghignò, scattando avanti.
“Anelli di ghiaccio!!!”
–Gridò allora Cristal, puntandogli contro l’indice
destro, su cui lampeggiò un’aura biancastra.
“Ridicolo!” –Commentò il Nume, continuando ad avanzare, pur con il
corpo cinto da cerchi concentrici di energia glaciale che non riuscivano
comunque ad attecchire, che non riuscivano neppure a fermarlo sul posto per un
momento. Troppo veloce, troppo potente e soprattutto avvolto da un cosmo troppo
venefico.
“Ora basta!!!” –Tuonò Alexer, bombardandolo di fulmini azzurri, così
tanti come mai ne aveva generati fino ad allora, dando fondo ad un’energia
accumulata nel corso di millenni d’attesa. Proprio in vista di quel momento.
–“Se un fulmine non è sufficiente per rischiarare l’ombra in cui sei nato, eccotene una manciata! Eccoti una tempesta!” –Aggiunse,
mentre il suo cosmo limpido cresceva in maniera esponenziale, di fronte agli
occhi stupiti e ammirati di Cristal, a cui parve di
vedere il mondo intero tingersi d’azzurro. –“Hai detto che nell’intermundi non
soffiava un filo d’aria, orbene ti mostrerò io allora, che ne sono il custode,
l’essenza primordiale, cos’è una vera bufera! Assapora il massimo attacco
dell’Arconte di Aria! Tempesta siderale,
infuria!!!”
Il gelido turbine si abbatté su Erebo, sradicandolo da terra e
sollevandolo in alto, prima che nuove correnti si unissero alla stessa,
provenendo da direzioni diverse, tutte convergendo sulla nera sagoma del Nume,
bersagliandola con incessanti folgori azzurre. Per un breve istante Cristal si convinse che quell’attacco sarebbe davvero stato
risolutivo, ritenendo impossibile che qualcuno sarebbe potuto sopravvivergli.
Qualcuno tranne il Primo Nato.
Con un boato poderoso, il consorte di Nyx
fece esplodere il cosmo oscuro, dilaniando dall’interno la tempesta siderale e
disperdendola tutto intorno, ridendo sguaiatamente mentre la stessa sferzava la
già devastata vallata, contribuendo a deturparla ulteriormente. Rabbrividirono,
Alexer e Cristal, quando videro che la bufera di
fulmini stava per abbattersi su un mucchio di BlueWarriors feriti, che a stento si mantenevano in piedi,
arrancando tra le rovine del castello.
“Maledizione!!!” –Strinse i denti il Principe, spinto indietro, al pari
del Cavaliere di Atena, dal suo stesso assalto. Rimase sorpreso però nel vedere
che la tempesta non travolse i guerrieri da lui addestrati, passando oltre e
lasciandoli indenni, riparati da un velo sottile che alla piena luce del sole
forse non avrebbe neppure notato ma che, in quel fosco pomeriggio, indicava una
chiara impronta cosmica. –“Chi è giunto in nostro soccorso?!” –Mormorò,
atterrando a piedi uniti al suolo, poco distante da Cristal,
che si interrogava anch’egli su quanto accaduto. Poi percepì l’aura divina di
colei che era intervenuta, sorridendo e ringraziandola, prima di riportare lo
sguardo sul Progenitore.
“Pare che altri abbiano deciso di unirsi alla nostra festicciola
privata! Meglio così, più siamo più ci divertiamo!” –Ghignò questi. –“Sapete
una cosa?! Non solo l’aria mi è mancata a volte, nell’intermundi! Anche la
compagnia! Sebbene io ami le tinte unite e uniformi, come il nero, ne apprezzo
anche le sfumature, perché il nero non è sempre uguale! A volte può essere più
scuro, altre volte può macchiarsi di sangue! Come il bianco, come la neve!”
–Sibilò, puntando lo sguardo verso un’esile figura che si aggirava tra i BlueWarriors sopravvissuti.
Anche da quella distanza, anche se indossava solo grigi mantelli che ne
coprivano le fattezze, con cui forse sperava di passare inosservata, Erebo ne
percepì l’aura divina e ciò bastò per farlo scattare in quella direzione,
famelico ed eccitato.
“Fermati bastardo!!!” –Esclamò Cristal, correndogli
dietro, subito seguito da Alexer, che lo invitò ad affiancare il Nume da un
lato, anziché stargli in coda, per non incappare nella letale scia che il suo
cosmo lasciava ovunque egli passasse, anche solo sfiorando il suolo. Tutto,
alle sue spalle, pareva infatti sfiorire, precipitando in una tenebra
infernale, persino l’aria.
“Ah ah ah! Vieni a prendermi, Cignetto!
Spalanca le tue ali e corri da me!” –Rise il Nume, giungendo in fretta tra le
macerie dell’abbattuto castello, dirigendosi verso il gruppo dei superstiti. Ne
vide la paura sul volto, ne percepì l’ansia e la frustrazione per non potersi
difendere, e infine scorse la figura ammantata scattare tra loro, urlando di
avvicinarsi a lei quanto possibile, prima di chinarsi e sfiorare il suolo con
una mano.
“Hlif!!!”
–Gridò una voce di donna, generando una cupola di energia che la inglobò,
assieme ai BlueWarriors
che la circondavano, tenendo Erebo e la sua aura oscura a distanza.
“Per quanto, però?!” –Ghignò questi, sollevando il braccio destro,
avvolto nel suo cosmo corvino, e calandolo di colpo, liberando un fendente di
energia che si abbatté sulla cupola, facendola tremare con forza e obbligando
ad uno sforzo immane colei che l’aveva innalzata.
“Odino… Aiutami!!!” –Implorò, crollando a
terra, i palmi rivolti verso il cielo, infondendo a quella barriera tutta la
propria energia cosmica, pur consapevole che non sarebbe mai bastata. Non
contro il Tenebroso.
“Allontanati!!!” –Esclamò Cristal, piombando
su Erebo, il pugno carico di gelo, e costringendolo a balzare indietro,
gustandosi la scia di cristalli di ghiaccio liberati dall’assalto del ragazzo.
Scia che evaporò all’istante al contatto con l’aura metifica
del Nume Ancestrale, attorno al cui braccio già turbinava il cosmo oscuro.
“Danza di…” –Ma non riuscì a scatenare il
suo attacco che venne afferrato proprio per quel braccio da una sagoma
portatasi in silenziosa fretta alle sue spalle. –“Alexer!!!” –Ringhiò, mentre
l’Arconte azzurro liberava una miriade di fulmini che percorsero il corpo di
Erebo per intero, facendolo sussultare e tremare per qualche secondo, prima che
questi recuperasse il controllo di sé e lo sbalzasse indietro con un’onda di
energia oscura.
L’Angelo d’Aria venne scaraventato contro quel che restava degli
smussati rilievi ove un tempo sorgeva il suo castello, sommerso poco dopo da
una frana di rocce e neve, che lo coprì alla visuale di Cristal.
“Quella sarà la sua tomba! Il male nero che l’ha infettato, toccandomi
il braccio, lo divorerà in breve tempo tra atroci tormenti! Presto ne sentiremo
le grida! Oh, che siano già queste?!” –Sghignazzò Erebo, tendendo l’orecchio
destro, mentre già una daga di cosmo nero appariva nel palmo della mano sinistra.
Fu un attimo e la scagliò contro la cupola protettiva, mandandola in frantumi e
gettando tutti i suoi occupanti a terra. Un secondo strale era già pronto
nell’opposta mano, ma fu costretto a deviarne la traiettoria poiché il
Cavaliere di Atena si era appena lanciato verso di lui.
“Polvere di diamanti!!!”
–Tuonò Cristal, scatenando la furia delle nevi
siberiane, cui Erebo oppose il suo colpo segreto, lasciando che si
neutralizzassero a vicenda, spingendo il biondino indietro. Stava per ritentare
l’assalto quando vide che il Nume aveva già evocato una nuova lama di cosmo,
pronto per scagliarla contro colei che aveva protetto i BlueWarriors, una Dea che alla cura dei bisognosi aveva
consacrato la propria esistenza.
Sorrise, ripensando alle cure attente con cui aveva riscaldato i corpi
assiderati dei Cavalieri d’Oro dopo che lui li aveva liberati dalle prigioni di
Hel e con cui aveva guarito le infezioni di Pegasus,
intossicato dal veleno di Jormungandr. Chissà quanti altri Einherjar,
Asi, Vani o abitanti dei Nove Mondi sono passati per
le sue amorevoli mani! E quanti altri avranno bisogno dei suoi trattamenti
rinvigorenti quando questa guerra sarà finita! Si disse, bruciando il
proprio gelido cosmo. Perché finirà! Oh
sì, finirà!!! Ruggì, muovendo lesto il braccio e generando un piano di
energia verticale che sfrecciò a lato di Erebo e su cui la daga nera impattò,
esplodendo, ricordando al Nume chi fosse il suo avversario.
Sforzandosi di rimanere lucido, il Cavaliere di Atena tenne fisso lo
sguardo su Erebo, mettendo da parte tutte le sue preoccupazioni. Alexer, i BlueWarriors, la Asinna che li aveva salvati, l’armata delle tenebre che
marciava su Asgard, gli scontri che sentiva infuriare vicino al castello e una
nuova oscura presenza che si stava avvicinando alla fortezza. Flare. Tutto
doveva restare fuori dalla sottile linea di pochi passi che lo connetteva al
Progenitore. Lui e il Tenebroso, a nessun’altro doveva pensare.
Ce l’avrebbe fatta?
***
Con un grido rabbioso, Chirone del Centauro
fece strage di tutti gli scheletri che li circondavano, distruggendo l’incanto
di cui lui e Iro di Orione erano stati vittima.
Troppo concentrati su Reidar e sui Warg, troppo fieri
e paghi di poter essere di nuovo in guerra, non si erano accorti della nebbia
che qualcuno aveva fatto calare su di loro, permettendo alle prede di
allontanarsi, lasciando solo i cadaveri delle bestie e dei soldati caduti.
Stavano per voltarsi e rientrare alla cittadella, quando percepirono l’avanzare
affannoso di un gruppo di uomini che correvano nella boscaglia, incuranti delle
tracce lasciate dietro di sé. Non fecero in tempo a chiedersi chi fossero
quegli incauti combattenti che videro un uomo, rivestito da una corazza di
colore indaco e avorio, sbucare da dietro un albero, sorretto e scortato da una
decina di soldati in armatura azzurra, che sapevano essere i BlueWarriors del Principe
Alexer.
“Shen Gado dell’Ippogrifo! Sei tu?” –Parlò
allora Iro, mentre il Cavaliere Celeste si avvicinava
loro, tenendosi un fianco dolorante.
“Lieto di vedervi, valorosi Heroes di Eracle! Cosa fate fuori dal
castello? Già l’ombra è giunta a minacciare la sicurezza di chi vi dimora?”
“Non ancora, ma giungerà presto!” –Chiosò Chirone.
–“Eravamo stufi di rimanere chiusi dietro quelle mura, a sprecare il tempo
aspettando quando qua fuori c’era la vera battaglia, così ci siamo presi la
libertà di andarcene! E questo è il risultato!” –Aggiunse, aprendo un braccio
di lato e indicando la distesa di corpi e lupi che avevano sconfitto.
“Mi compiaccio della vostra forza, guerrieri di Eracle, pur tuttavia
non avevate ricevuto ordine dal vostro Signore di restare a disposizione di
Alexer? E questi non vi aveva ordinato di proteggere Asgard?”
“È quello che stiamo facendo!” –Rispose ambiguo Iro
di Orione, strusciandosi sotto il naso, prima di avanzare, dando una pacca su
una spalla dell’Ippogrifo. –“Torna al castello! La Regina di Asgard avrà
bisogno dei tuoi servigi! Ci sono almeno due guerrieri oscuri che stanno per
violarne i confini! Noi ci occuperemo del terzetto che ti sta alle calcagna!”
“Come?! Chi?!” –Fece per ribattere Shen Gado,
prima che tre figure comparissero all’estremità meridionale della foresta,
avanzando a passo deciso verso di loro. –“Resterò con voi!”
“Non se ne parla!” –Chiarì Chirone, portandosi
di fronte a lui e fissandolo con sguardo severo. –“Non sei nelle condizioni di
esserci d’aiuto, anzi ci saresti solo d’intralcio! E ora va’, non siamo qui per
badare ai feriti ma per combattere!” –Aggiunse, passandogli poi accanto e
andando incontro ai tre guerrieri assieme a Iro.
Shen Gado rimase ad osservarli per qualche istante, prima di convenire che
forse il rude colosso aveva ragione. Era ferito, debole e poco utile in
battaglia e avrebbe dovuto informare la Celebrante del pericolo che stava per
correre. Così, aiutato dai BlueWarriors,
se ne andò, lasciando agli Heroes la battaglia.
“Guardalo come corre! Deve aver paura di noi! Ih ihih!” –Ridacchiò uno dei Nefari
dello Zodiaco Nero, il più smilzo dei tre.
“Non certo di te, Alu, né di quel vestitino
sgargiante che indossi!” –Lo derise un altro, più basso e tarchiato, rivestito
da un’armatura verde.
“Cerchi rogne, Corb?” –Lo trafisse il primo
con uno sguardo feroce, prima che il grugnito del terzo membro del trio li
interrompesse, avanzando fiero tra i due e portandosi davanti a Iro e Chirone, che ne osservarono
le fattezze.
Alto, robusto, tanto quanto il guerriero del Centauro, indossava
un’armatura integrale totalmente bianca, che avrebbe potuto confondersi con la
neve circostante non fosse stato per il guanto artigliato che gli rivestiva la
mano destra, su cui spiccavano cinque grossi unghioni metallici, le cui cime
colavano ancora sangue fresco. Senza proferire parola, il Nefario
li caricò, fiondandosi tra i due e obbligandoli a scartare di lato, in
direzioni opposte, prima di voltarsi verso Iro e
sollevare di scatto il braccio destro, generando un reticolato di energia
grigiastra che falciò ogni cosa tra di loro.
“Di poche parole costoro, ma di tanti fatti!” –Giudicò il guerriero di
Orione, evitando i fasci di luce, mentre Chirone, a
poca distanza, evocava il magma di cui era padrone.
“Ti dispiace? A me no!!! Pioggia
di lava!!!” –Esclamò, sollevando un braccio al cielo da cui fiotti di magma
iniziarono a cadere dopo poco.
“Non così in fretta, bestione! Se le potenze del cielo vuoi evocare,
allora me dovrai affrontare!” –Intervenne il guerriero dall’armatura rossastra,
librandosi in aria con le ali della propria corazza. –“Alu
della Tempesta è il mio nome, Demone assiro portatore di morte e distruzione!”
“Ma fammi il piacere!” –Ghignò Chirone,
dirigendogli contro il proprio assalto infuocato, cui Alu
rispose con un turbine di nubi cariche di pioggia scrosciante, grandine e venti
sferzanti, che dispersero i lapilli di lava, annullandosi a vicenda.
“Pare che i nostri poteri siano opposti ed equivalenti, guerriero!”
–Analizzò il Nefario assiro, svolazzando sopra
l’avversario.
“Non dire idiozie! Chirone del Centauro non
ha equivalenti in battaglia!” –Ruggì il fedele di Eracle, spiccando un salto,
sorprendendo lo stesso Alu da quanto agile e svelto
quel massiccio guerriero potesse essere. Tentò di evitarlo, ma non fu del pari
lesto, venendo afferrato per un braccio da Chirone,
mentre già con l’altro gli tempestava la faccia di pugni, spaccandogli l’elmo e
un paio di denti.
“Lasciami andare stupido bestione o ci schianteremo!” –Ringhiò Alu, che aveva ormai perso il controllo del volo.
“No, tu ti schianterai! A terra, dov’è il tuo posto, rettile!” –Tuonò Chirone, usando il corpo del Nefario
per darsi la spinta e portarsi sopra di lui, per poi colpirlo con un pugno
secco sulla schiena, spingendolo bruscamente al suolo.
“Aaargh!!! Maledetto…”
–Rantolò il demone, faticando a rialzarsi, l’armatura danneggiata e alcune
scapole incrinate.
“Resta a terra, mi occuperò io di lui!” –Intervenne allora il terzo
guerriero, quello con l’armatura verde, superando il compagno sconfitto.
“Non intrometterti, Corb! So vincere i miei
avversari!”
“Ne dubito!” –Sogghignò questi, espandendo il proprio cosmo. –“E non ho
certo voglia o tempo di aspettare i tuoi comodi!” –Aggiunse, fissando il
guerriero di Eracle, che fece per corrergli incontro, divertito dal dover
affrontare un avversario di così bassa statura. Ma non appena fece qualche
passo, Chirone crollò a terra, la forza nelle gambe
che pareva essere venuta meno, un senso di nausea opprimente che lo portò a
tenersi lo stomaco, poi la bocca, senza però impedirsi di vomitare all’istante.
“Cos… cosa mi hai fatto?!” –Tossì, incredulo.
Persino Alu non proferì parola, stupito dal
potere di quell’uomo che molti scansavano come la peste. E ora ne capiva il
motivo. Corb dei Fomori era
davvero portatore di peste.
“Come osi presentarti alla mia corte, subdolo traditore?!” –Ringhiò il
possente Amon Ra, fermo, al centro della Grande Sala
Ipostila del complesso templare di Karnak, rivestito della sua splendida Veste
Divina arancione e dorata, con le dita della mano destra chiuse sulla lunga
asta ornata dall’Ankh.
“Non mi definirei un traditore, in fondo ho sempre perseguito i miei
interessi, restando fedele ai miei ideali!” –Ridacchiò il Gran Maestro del
Caos, che aveva appena reindossato l’elmo della sua
corazza, una veste nera e scarlatta che lui stesso aveva progettato e
costruito, grazie all’oscura sapienza degli alchimisti della Regina Nera, con
cui in passato aveva avuto rapporti. Una veste in grado di ospitare, e contenere,
il suo turbolento spirito inquieto, dandogli una parvenza di umanità.
“Umpf, e guarda dove ti hanno portato quegli
ideali di guerra? A perdere il tuo stesso corpo, condannato a vivere come
un’ombra! Non provi disgusto per le tue nefandezze?”
“Uhm, fammi pensare!” –Sibilò l’oscuro avversario, strusciandosi il
mento con la mano destra. –“No!!!” –Tuonò, scattando infine avanti, rapido come
un fulmine, e portandosi su un fianco del Nume, verso cui diresse un pugno di
energia nera.
Fu lesto Amon a muovere l’Ankh,
facendolo scontrare con l’affondo avversario e respingendolo, ma già
quest’ultimo era balzato alle sue spalle, sollevando il braccio destro e
allungando artigli di tenebra.
“Cadi, Sole d’Egitto! Questo è il tuo tramonto definitivo!!!” –Ringhiò,
mirando al cranio del Nume. Ma anche quella volta Amon
Ra riuscì ad evitare l’attacco, voltandosi e al tempo stesso gettandosi a terra
di schiena, rotolando verso destra proprio mentre gli artigli energetici si
piantavano nel pavimento della Sala Larga, distruggendolo.
“Mai il Sole d’Egitto tramonterà! Lunghe battaglie ho sostenuto in
passato, contro tutti coloro che temevano la mia luce e volevano spegnerla!
Dovresti ben saperlo, tu, viscido rettile, che ti servisti persino di Seth e
del mio nemico Apopi, l’oscuro serpe del mondo
tenebroso, per sbarazzarti di me, fallendo! Come hai sempre fallito nei tuoi
miserabili piani, Anhar! E il fatto che tu sia qui, che tu sia intervenuto in
prima persona, non fa che confermare la mia teoria!”
“Per la verità…” –Ghignò il Maestro del Caos.
–“Sono qui per un altro motivo! E presto lo scoprirai! Anzi, lo sentirai sulla
tua pelle! Ah ah ah! Nell’attesa, muori! Apocalisse divina!!!” –Imperò,
sollevando le braccia al cielo e lasciando partire una bufera di energia oscura,
che si scatenò tra le colonne della Grande Sala, frantumando molte di esse,
prima di abbattersi sul massimo Nume d’Egitto. –“Vana è ogni resistenza, cedi, Amon Ra, lascia che le tenebre ti cingano nel loro silente
abbraccio!”
“Mai!!!” –Tuonò il Sovrano di Karnak, espandendo il proprio cosmo
lucente, che dal disco dorato collocato al centro delle corna del suo elmo,
invase l’intera Sala Ipostila, irradiandosi tutt’attorno, raggiungendo persino
gli anfratti lontani dal corridoio centrale dove i due stavano combattendo.
–“Demone che di Apopi potresti essere il figlio,
lascia che ti mostri, io, la brillantezza del Sole d’Egitto! Lascia che ti
faccia dono della mia luce, grande, bella e splendente!!! Disco del Sole, rifulgi!!!”
Un ventaglio di vivida luce, dagli aurei riflessi, crebbe dal corpo di Amon Ra, espandendosi ai lati e frenando la furia
dell’oscura bufera, prima di insinuarsi, come un deciso cuneo di energia, nella
stessa corrente, dirigendosi verso Anhar, per la prima volta preso alla
sprovvista da un così diretto attacco. Non poté, l’Angelo Oscuro, evitare
l’impatto, che lo raggiunse al ventre, scagliandolo indietro, contro i portoni
che conducevano al tempio di Amon.
“Quale ironia…” –Ridacchiò il Maestro del
Caos, rimettendosi in piedi, senza alcun danno apparente, solo alcune macchie
di calore sul pettorale dell’armatura nera. –“Dietro queste stesse porte per
secoli ti sei celato, disinteressato agli eventi del mondo! E adesso, dopo che
quell’insulso ragazzino ti ha implorato di dargli considerazione, ti ergi
impavido e fiero a difensore del pianeta! Domandati dunque chi, tra noi, è il
traditore? Chi ha tradito gli ideali che incarnava? Tu, che hai negato la
protezione del sole alla tua gente, lasciandoli in balia degli invasori, delle
intemperie, delle carestie e dei piccoli tiranni come Seth, o io, che sono
sempre stato coerente nelle mie azioni, finalizzate al risveglio dell’Unico Dio
che possa dominarci tutti?!”
“Ho messo da parte i rimpianti tempo addietro!” –Commentò calmo Amon Ra, cercando di non farsi trascinare dai deliri
dell’infido avversario. –“E questa mia nuova vita, che ritengo aver iniziato
quindici anni fa, l’ho dedicata a servire una ben più nobile causa che non il
dominio!”
“Ooh, sono impressionato! E dimmi, Dio del
Sole, come sta andando la tua campagna bellica? Perché, in verità, non mi
sembra tu abbia riscosso grandi successi, al momento! Ah ah ah!
Non hai sentito esplodere i templi a sud, lungo il corso del Nilo, e le grida
del tuo popolo sommerso dai torbidi flussi? Oh, e correggimi se sbaglio, ma un
re non dovrebbe avere una guardia scelta? Un gruppo di guerrieri con qualche
nome altisonante, come i Cavalieri Celesti di Zeus? O gli Einherjar
di Odino? Tu cos’hai, i Beduini del Deserto?!”
“Faraoni delle Sabbie!” –Precisò Amon Ra, fissando
Anhar con astio. –“Guerrieri di indubbio valore che tu conosci bene, avendone
massacrati a decine pochi mesi or sono, quando inviasti quei mostri ad assalire
Karnak! Non ho dimenticato i cadaveri di Tolomeo delle Piramidi e di Mithra dell’Ibis Eremita massacrati e gettati ai
coccodrilli del Nilo!!!”
“Uh, ti riferisci al licantropo e al suo branco di ragazzacci?! Mi
ricordo di loro! Dei tipi irruenti e difficili da gestire! Ahrahrahr! Ma non hanno fatto
un buon lavoro, a quanto pare, poiché qualche Faraone ancora resiste! Non che
contro Polemos e Chimera abbiano possibilità di
sopravvivere, ma qualora ciò accadesse mi premunirò personalmente di porre fine
alla loro patetica e servile esistenza! Del resto, tra poco il Sole d’Egitto
non sorgerà più, per cui quella stessa casta cesserà di avere un senso!”
“Taci, spergiuro!!!” –Tuonò il Signore di Karnak, puntando lo Scettro
del Sole avanti e liberando un potente raggio di energia, che Anhar fu svelto
ad evitare, lasciando che distruggesse il portone alle sue spalle. Divertito,
il Maestro del Caos iniziò a sfrecciare in mezzo al centinaio di colonne della
Grande Sala, fluttuando a qualche metro da terra, come fosse una velenosa nube
oscura, mentre Amon era costretto a voltarsi in ogni
direzione, puntando e muovendo la lunga asta dorata nel tentativo di colpirlo,
senza riuscirvi.
“Mira scadente, Sommo Ra! È stato facile aver ragione di Apopi, del resto era un nemico ben evidente! Ma quando il
tuo avversario è un’ombra immensa, una nube di cosmo oscuro che satura il
cielo, fagocitando le stelle e la luce buona del sole, come puoi colpirlo? Come
puoi anche solo sperare di fronteggiarlo?! La tua… è
follia!!!” –Latrò Anhar, la cui voce pareva provenire da ogni angolo dell’ampio
stanzone, amplificata dall’eco e divenendo una lamentosa cacofonia che aumentò
la collera sul volto del Dio del Sole. –“Quando ero il tuo consigliere, e
potevo girare a mio piacimento in questo vetusto palazzo in rovina, ebbi modo
di sfogliare antichi papiri e un inno mi rimase in mente, un inno che i fedeli
rivolgevano al sole, come se questi volesse ascoltarli, perso e chiuso nei suoi
pensieri e nei suoi dispiaceri! Ah ah ah! Lo ricordi,
Amon? Ricordi quel che diceva la gente di te? Quando riposi la terra è nell'oscurità, come
se fosse morta. Tutti i leoni escono dalla loro tana, tutti i serpenti mordono!
Mi piacque, perché trovo che sia vero!!!” –Sibilò, mentre all’improvviso
l’intera cortina di energia oscura che attorniava il Nume si chiuse su di lui,
da ogni direzione, decisa a soffocarlo, a togliergli anche il più piccolo
spiraglio d’aria e di luce, chiudendolo in un mortale abbraccio oscuro. –“Ed io
sono il più velenoso di tutti i serpenti, persino più velenoso di Apopi, che nient’altro era se non una biscia da giardino! Io
sono l’Angelo Oscuro, araldo dell’Ombra e Gran Maestro del Caos! Come puoi tu,
un semplice Dio di un regno perso tra le sabbie del tempo, opporti a me,
opporti a Neter, il Dio?! Ah ah ah!!!”
–Sghignazzò, mentre la nube oscura aveva ormai sommerso l’alta figura del Nume
egizio, di cui solo la punta delle corna dorate era rimasta fuori, prima che
Anhar lo notasse e avvolgesse anch’esse nel suo tetro cosmo. –“Buon viaggio, Amon! La notte cala adesso sull’Egitto!!!”
“No!!!” –Tuonò allora una voce, scuotendo l’intero tempio di Karnak e
facendo crollare persino alcune colonne della Sala Ipostila, prima che un
bagliore dorato sorgesse dal cuore della cortina di tenebra, un lucore che andò
ingigantendosi a poco a poco, lacerando dall’interno l’oscura bruma. –“Ho ascoltato
fin troppo le tue eresie, Anhar! Blateri solo perché hai la bocca! Mi chiedo se
la tua attuale condizione di spirito presuppone che tu abbia una lingua, perché
se così fosse… te la taglierò con piacere!” –Ironizzò
il Nume, irradiando un’onda di pura energia che distrusse gran parte del cosmo
di tenebra che lo teneva prigioniero, permettendo all’alta sagoma di Amon di ricominciare a muoversi, di ergersi ancora,
maestoso e splendente, a difesa del suo regno.
“Maledetto!!!” –Sibilò Anhar, la cui voce pareva provenire dalla
cortina d’ombra che, seppur ridotta di consistenza, continuava ad avvolgere il
Dio, fluttuando attorno a lui ad una certa distanza di sicurezza. –“Tanta
sicumera da parte di un Nume che solitario s’erge a difesa di un regno che sta
cadendo, momento dopo momento, travolto dai demoni della guerra, non ha ragione
d’essere! Ed io ti strapperò quel senso di sicurezza! Io ti pugnalerò al
cuore!!!” –Ringhiò, mentre dalla nube oscura sorgevano strali di tenebra,
simili a lame di pura ombra, che ratte sfrecciarono verso Amon,
colpendolo da ogni lato.
Per la maggior parte, i dardi energetici non furono capaci di intaccare
la gloriosa protezione offerta dalla Veste Divina, ma qualcuno riuscì a farsi
strada tra le giunture che univano le varie parti della stessa, affondando nel
corpo del Nume e portandogli via un gemito di fastidio e dolore. Al qual tempo Amon Ra agitava furioso lo Scettro del Sole in ogni
direzione, parando e deviando gli strali oscuri e disintegrandone altri con
raggi di luce, salvo poi rendersi conto che quella situazione avrebbe potuto
durare per sempre. Doveva, in qualche modo, rompere l’assedio in cui la nube
nera l’aveva cinto e, per farlo, doveva individuarne il creatore.
“Disco solare, illumina la via! Che i tuoi raggi circondino la terra
fino al limite di tutto ciò che hai creato!” –Declamò, sollevando lo scettro in
alto, oltre la coltre di tenebra, e lasciando che la sua luce abbagliasse
l’intera Sala Larga. Una raggiera dorata si liberò dalla cima dello scettro, annientando
l’assalto nemico e dilaniando la stessa nube oscura, permettendo al Nume di
guardare al suo interno. Come aveva previsto, conoscendo le subdole tattiche
dell’Angelo decaduto, era il suo ennesimo trucco. –“Hai perso, Anhar!!!”
–Avvampò, notando, in quella torbida bruma, una sagoma persino più scura,
celata e protetta dal suo stesso cosmo.
In quella direzione Amon si mosse, puntando
lo scettro sul nemico, caricandolo di tutto il suo cosmo lucente…
e non ottenendo altro risultato che tagliare in due la coltre di tenebra, che
parve ritirarsi ai suoi lati.
“Ah ah ah! Stolto d’un re caduto!” –Sibilò la voce dell’Angelo Oscuro,
che sembrava provenire da un imprecisato punto alle spalle del Nume. –“Devi
ritenermi proprio uno stupido se credevi che non fossi in grado di celar…” –Ma non riuscì a terminare la frase che
all’improvviso sentì una mano chiudersi algida attorno al suo collo, sfondando
ogni protezione offerta dalla nebbia e della sua tetra corazza, che andò in
frantumi al solo contatto con il poderoso cosmo di Amon,
ormai al parossismo. –“Co… come hai fatto a
individuarmi?!”
“Ora sei tu che mi sottovaluti, Anhar!” –Commentò il Dio egizio,
sbattendo a terra l’Angelo Oscuro, avvolto in una vampa di luci amaranto. –“Il
primo affondo è stato solo una finta, per snidarti, serpe infame!!!” –E lo
sbatté di nuovo nel pavimento, schiantandocelo, godendosi lo scricchiolare
della sua tetra corazza al solo contatto con il suo ardente cosmo divino. Una
volta, due volte, tre, tante quanto il suo desiderio di vendetta, per essere
stato ingannato e mal servito, richiedeva.
“Stai attento, AmonRa…”
–Sibilò Anhar, gli occhi rossi che lampeggiavano braci. –“Una serpe così
perigliosa può sempre sfuggirti di mano!” –Aggiunse, sollevando di scatto il
braccio destro, le dita della mano distese e cariche del suo cosmo oscuro. Con
un rantolo soffocato, sfondò la Veste Divina del Nume all’altezza del fianco
sinistro, facendogli sputare sangue, prima di spingerlo verso l’alto con tutta
la forza di cui disponesse.
Ghignando, l’Angelo Oscuro osservò il corpo dorato di Amon schiantarsi contro il soffitto della Sala Ipostila e
compiere una rozza parabola verso terra, dove prontamente si fece trovare,
avvolto in una coltre oscura sormontata da lunghe lame d’ebano. –“Apocalisse divina!!!” –Tuonò,
scatenando la devastante tempesta di vampe oscure ed energia, che investì in
pieno il Dio egizio, sospingendolo di nuovo in alto, distruggendo la volta del
salone, fino a schiantarlo a terra, molti metri avanti, in un nugolo di polvere
e pietre frantumate, come la sua stessa esistenza.
“Hai combattuto bene, lo ammetto! Per essere un Dio che alla guerra non
ha mai guardato con interesse, delegando tale compito ai tuoi sottoposti! Una
Dea Leonessa e la sua tenera gattina, le cui vite ormai Polemos
avrà preso! Ah ah ah!” –Ridacchiò Anhar, avanzando
verso il corpo riverso al suolo di Amon, il cui
magnifico copricapo era stato scheggiato dalla bufera di energia. –“Ma anche tu
hai dei limiti, possente Ra, ed il più grande di questi è un limite cui tu
stesso ti sei condannato! La tua solitudine!” –Ringhiò, colpendogli il cranio
con forza e scaraventandolo contro un paio di colonne, abbattendole.
Nell’impatto, il Nume egizio perse addirittura l’elmo protettivo, che ruzzolò
per qualche metro, rimbalzando contro una colonna e rotolando fino ai piedi
dell’Angelo Oscuro, che lo osservò divertito, prima di farlo sollevare da
un’oscura evanescenza e stringerlo in mano. –“Sei come queste corna, Amon! Spezzato! E il sole che dovevi essere, la luce che
dovevi infondere ai tuoi fedeli, non lo sei mai stato!”
“È stata tutta colpa tua!” –Rantolò infine il Nume, affannando nel
rimettersi in piedi, ferito dalla tormenta energetica e dalle parole del
demoniaco consigliere.
“Oh no! Non scaricare le tue colpe su altri! Non hai bisogno di me per
rimanere solo! Il tuo animo era già predisposto all’isolamento, io non ho fatto
altro che accelerare i tempi! Ah ah ah! Guardati
adesso, in ginocchio di fronte all’ombra, con il sangue divino che ti cola sul
volto e ti ricorda quanto ti sei indebolito! Sei la vergogna dei tuoi avi,
l’ultimo dell’Enneade e il più indegno! Hai condannato Karnak e l’Egitto solo
per strappar via le vesti alla Sacerdotessa di Apollo! Per il figlio da lei
avuto, per quel bastardo greco, gli Dei a te fedeli ti hanno abbandonato, gli
amici a te cari sono morti! Il coraggioso Osiride, la cara dolce Iside, i figli
di Horus e… oh, non è forse il cosmo del Dio Falco
questo che geme, implorando pietà? È così debole che quasi non lo percepisco
più, e tu?!” –Sghignazzò l’Angelo Oscuro. –“Cosa ti resta? Certo non queste
mura ingiallite dal tempo, che presto l’Armata delle Tenebre raderà al suolo!
Oh, dimenticavo, quel figlio bastardo causa della tua rovina! Mi chiedo,
allora, ne è valsa la pena, poco possente Amon? Ne
è valsa la pena perdere tutto per tenersi quel biondino dal volto chiazzato di
efelidi?”
A quella domanda, il Signore di
Karnak si alzò in piedi, sollevandosi nel suo cosmo dorato, apparendo persino
più alto di quanto non fosse in realtà. Mosse a malapena le labbra, fissando
Anhar negli occhi e rispondendogli con decisione.
“Sì!” –Dichiarò a gran voce,
liberando una devastante esplosione di energia che investì in pieno il Maestro
del Caos, scagliandolo molti metri addietro, contro le porte danneggiate del
tempio di Amon, che crollarono su di lui, assieme a
parte delle mura attorno.
“Volevi una risposta, Anhar?! Adesso l’avrai!” –Esclamò fiero il
Sovrano d’Egitto, il cui corpo pareva avvolto da una seconda corazza, una veste
di pura vivida luce, così intensa da obbligare l’Angelo Oscuro a distogliere lo
sguardo, incapace di sopportare tale meraviglioso lucore. –“Tu non puoi
vederli, poiché tu vedi soltanto ombra e morte, ma io non sono solo! Attorno a
me ci sono le luci dei cosmi di coloro che in me hanno creduto! Osiride e la
sua sposa, per primi, finalmente ritrovatisi oltre il desolato grigiore di Amenti, i figli di Horus, i Faraoni delle Sabbie, i miei
guerrieri! Persino un Cavaliere della Dea Atena, tale Micene di Sagitter, mi fa visita e mi incita nei momenti di
sconforto, come mi incitò quel giorno, quando decisi di abbandonare i
rimpianti! E tu non potrai vincerci, non potrai vincere chi lotta perché
crede! Tu, Angelo decaduto, che in niente credi, soltanto nell’ombroso vuoto
che sta al di là dei mondi, in quello stesso vuoto ti perderai!!! Disco del Sole, rifulgi!!!” –E spalancò
le braccia, concentrando il cosmo sul simbolo dipinto sul pettorale della
propria corazza, un cerchio con un punto nel mezzo.
L’occhio di Ra, in grado di vedere
in ogni direzione, anche nella tenebra più fitta.
L’esplosione di energia investì
Anhar in pieno, distruggendo gran parte della sua corazza e strappandogli grida
di puro terrore. Per quanto fosse privo di un corpo, quel lucore intenso parve
penetrargli dentro, lacerando in profondità la coltre di tenebra che ormai
costituiva la sua vera essenza.
“Aaargh!!! Dannato Amon!!!
Dannata tu e la tua stirpe che così tanto dolore mi provocate!!!” –Ringhiò la
sagoma di vampe oscure, che si sollevò da quel che restava della tetra armatura
del Maestro del Caos.
“Quale mostruosità!” –Commentò il Signore di Karnak che, sebbene da
Avalon fosse stato informato sulle reali fattezze dell’Angelo Oscuro, non
riuscì a trattenere un moto di disgusto di fronte a quell’abominio. –“Persino
peggiore di Seth e Apopi! Un’ombra, e niente più.
Questo quel che rimane di te. Ti rigiro la domanda, Anhar: ne è valsa la pena?
Ne è davvero valsa la pena, donare tutto, anche te stesso, al Caos? Gettare via
la tua esistenza per concluderla in forma di spirito, sostenuto soltanto dal
volere dell’Unico Dio?!”
“Non puoi vincermi! Lo sai!” –Sibilò Anhar, mentre dalla parte
inferiore dell’oscura sagoma si allungavano lingue di fuoco nero, che in breve
riempirono l’intera sala del trono di Amon, incendiandone
il misero mobilio e ustionando le pareti.
“Lo so bene, ma posso comunque farti male! Tanto male!” –Rispose fiero
il Sole d’Egitto, sollevando lo scettro e liberando un unico potentissimo
raggio di energia che trapassò la fluttuante figura oscura laddove, fosse stato
un uomo, avrebbe dovuto esserci il cuore.
“Non quanto te ne farò io! Ho deciso, prenderò il tuo corpo! Lo reclamo
per me! Lord Caos, mio Signore, fammene dono, ti prego! Onora il tuo più fedele
servitore con il corpo del Sole d’Egitto! Oh, quale soddisfazione sarebbe
oscurarne lo splendore con la tua tenebra infinita!” –Ghignò l’Angelo Oscuro,
avventandosi su Amon Ra, che, impallidendo a quella
temibile prospettiva, mulinò l’asta dorata, liberando migliaia di strali
lucenti che fendettero, trapassarono, falciarono
l’oscura aria, senza fermarne però l’avanzata.
Fu un riflesso dorato a interporsi tra i due avversari, un riflesso che
presto assunse la forma dello stesso Maestro del Caos, costretto a frenare la
sua corsa e ad osservarsi in quello che infine riconobbe come uno specchio
finemente lavorato.
“Specchio del Sole!!!”
–Tuonò allora una voce giovanile, mentre un ventaglio di energia si apriva dal
vetro stesso, chiudendo l’Angelo Oscuro in un serrato abbraccio di luce, dentro
cui, poco dopo, mentre cercava di fuggire, una torva di folgori azzurre iniziò
a danzare. –“Tridente dei Mari Azzurri!!!”
–Intimò una seconda voce, apparendo a fianco di colui che aveva appena parlato.
“Febo! Marins!!!” –Li
riconobbe Amon Ra all’istante, osservando i Cavalieri
delle Stelle disporsi attorno al Maestro del Caos, in modo da creare, assieme
ad Amon stesso le punte di un triangolo di luce.
“Padre, state bene?!” –Si preoccupò subito il ragazzo dai capelli
biondi e dal volto stanco, cui il Nume rispose con un sorriso sincero, prima di
voltarsi verso il compagno che, dall’altro lato della Sala di Amon, roteava il Talismano da lui custodito sopra la testa.
“Vedo che ti trovi a tuo agio con quella mano artificiale, giovane Marins!”
“Non potrei chiederei di meglio, lucente Sovrano!” –Rispose il
Cavaliere dei Mari Azzurri, tenendo i sensi concentrati sulla figura di pura
ombra al centro del triangolo, attorniata dalle folgori scatenate dalla sua
arma. –“Il mio mentore, il Principe Supremo degli Angeli, la cui stirpe
quest’orrida creatura ha disonorato, mi disse, curandomela, che anche un antico
guerriero, cantato nelle leggende celtiche, aveva subito una sorte simile! Nuada, re dei Túatha
Dé Dánann, era il suo nome e anch’egli perse una mano in battaglia; ma DíanCécht, medico e
guaritore, gliene creò una d’argento, con le dita mobili, con cui poté tornare
a combattere, guadagnandosi il soprannome di Aircetlam,
Mano d’Argento! Ed io potrei esserne l’erede, MarinsAircetlam, non trovate che suoni bene?!”
“Marins lo storpio
ti chiameranno quando avrò finito con voi, irritanti ragazzini!” –Sibilò
l’Angelo Oscuro, avvampando nel proprio cosmo fiammeggiante e dirigendo tetre
lingue di fuoco verso i due Cavalieri delle Stelle. –“Avrei dovuto finirvi quel
giorno a Creta, me sciagurato e di buon cuore! Pazienza, sono ancora in tempo
per rimediare!”
“No, non lo sei!!!” –Imperò Febo, espandendo al massimo la propria aura cosmica, che
subito entrò in sintonia con quella del padre, con cui solo una volta, quindici
anni addietro, aveva combattuto. Marins, dall’altro
lato del salone, sorrise ammirato, percependone le sfumature divine, quella
solenne aura luminosa che fino a quel giorno Febo non
aveva mai ostentato, riconoscendo infine chi aveva di fronte. Il suo migliore
amico, ma anche il figlio di un Dio. –“Io sono il figlio del Sole e ti bandisco
da queste guerre, Angelo Oscuro!!! Che la luce di Amon
ti purifichi, immonda creatura!!! Specchio del Sole!!!” –Esclamò a gran
voce, stringendo il Talismano con entrambe le mani e immobilizzando Anhar
all’interno del cono di luce dallo stesso generato, un cono che divenne in
breve una prigione carica di una poderosa forza di attrazione, in grado di
attirare il fiammeggiante spirito oscuro verso di sé.
Onde evitare che potesse sfuggire al suo
destino, Marins roteò il Tridente dei Mari Azzurri,
caricandolo di tutto il suo cosmo, e lo piantò infine nel pavimento, liberando
una danza di lucenti saette azzurre, che chiuse ad Anhar ogni via di fuga. Una
selva di folgori che in breve si riunirono tra loro, in un unico poderoso globo
di energia azzurra, attorno al quale parvero schiumare le acque di tutti gli
oceani.
“Maremoto dei mari azzurri!!!”
–Esclamò il giovane americano, investendo l’Angelo Oscuro con il suo attacco e
spingendolo sempre più verso Febo, verso lo Specchio
del Sole che avrebbe incenerito anche quell’ultima orribile versione di sé.
“Aaargh!!!”
–Ringhiò furioso l’araldo dell’ombra, dimenandosi all’impazzata, alla ricerca
di una possibile via di fuga, stretto nella lucente morsa dei Talismani che
tanto aveva temuto. Non ebbe tempo di riflettere a lungo, solo di invocare
l’aiuto dell’Unico Dio cui era devoto, che già Amon
Ra aveva espanso il proprio cosmo e l’occhio del sole d’Egitto si era posato su
di lui, investendolo con un’ondata di calore abbacinante, che obbligò persino i
Cavalieri delle Stelle a ripararsi gli occhi.
Quando la luce scemò di intensità, e i tre
tornarono a vedere, notarono che niente più era rimasto di Anhar, soltanto
miseri frammenti della sua veste oscura. Nel silenzio che segue una battaglia,
si guardarono attorno, scambiandosi uno sguardo carico di mille domande.
“Dov’è andato?” –Trovò infine la forza per
parlare Marins.
“Dal suo padrone!” –Si limitò a rispondere Amon Ra,
certo che quell’ombra funesta avrebbe ancora tormentato le loro esistenze, fin
quando l’ultima fonte di luce non fosse stata estinta.
“Padre! Siete ferito!” –Esclamò allora Febo, avvicinandosi al Nume, che lo pregò di non
preoccuparsi, pensando piuttosto alle proprie lesioni, che deturpavano il volto
perfetto del ragazzo. –“Padre… La Dea Iside, mia
madre adottiva…io… sono
arrivato tardi! Lei è morta a causa mia! Come farò a dirlo a Horus?!”
“Credo che già lo sappia, figlio mio! Ma non
parlare così! Non tua è stata la mano che le ha reciso la vita e neppure di
Anhar, per quanto mi secchi ammetterlo!”
“Cosa intendete dire, possente Amon?!” –Domandò allora Marins,
avviandosi dietro al Nume e a Febo verso il cortile
interno di Karnak.
“C’è solo un responsabile per tutte queste
guerre, queste stragi che da anni macchiano la nostra terra, e tutti ne
conosciamo il nome!” –Spiegò allora Amon Ra,
fermandosi sulla soglia del tempio e osservando lo sfacelo che attorniava la
pozza a lui sacra, ove corpi massacrati di Soldati del Sole, Faraoni e Dei
giacevano scomposti. –“Il suo nome è Neter o Amut e, come Anhar mi ha ricordato, egli è il Dio
originario! Egli è il Caos, unico Dio creatore e dispensatore di vita e di
morte! Noi, in fondo, siamo tutti suoi derivati, figli suoi, figli dell’Unico,
la cui essenza permea ogni organismo! Può darsi che anche il nostro animo ne
sia corrotto, può darsi che sia per questo motivo che a volte compiamo il male,
che a volte lasciamo che le tenebre guidino i nostri passi! Mi dispiace, Febo, non so dare una risposta ai dubbi che attanagliano il
tuo cuore, perché sono gli stessi che dimorano nel mio! Solo una cosa so per
certa, che non avremo pace, nessuno di noi l’avrà, sia esso uomo o Dio, finché
Caos non sarà sconfitto! Fino ad allora, continueremo ad essere burattini nelle
sue mani, proprio come Anhar!” –Chiosò il Nume, abbandonandosi ad un sospiro.
–“È tempo di prendere una decisione!”
***
“Al tuo posto, ragazzino!!!” –Ringhiò Polemos, spingendo indietro Jonathan con un’onda di
energia, che lo schiantò addosso a Reis, facendoli
ruzzolare entrambi giù dalla duna di sabbia. Fece per inseguirli ma già un muro
di fuoco si era sollevato davanti a lui, impedendogli di proseguire; un muro a
fianco del quale l’imperiosa sagoma di Andrei avanzò poco dopo, avvolta in
un’aura rossastra.
Per quanto fossero già alcune ore che stavano
combattendo, Polemos pareva non avvertire ancora la
stanchezza, né la noia che solitamente lo invadeva durante lo scontro con un
qualsiasi essere che reputava inferiore. Ossia tutti i nemici affrontati, e
vinti, fino a quel giorno.
Doveva ammetterlo, Andrei era un vero Signore della
Guerra, molto più di quanto Ares si fosse proclamato. Nonostante la sua indole
focosa e bellicosa, sapeva aspettare, sapeva osservare, scrutando l’avversario
e il suo modo di combattere, e, di questo il Lord Comandante fu certo, avrebbe
persino saputo come controbattere qualsiasi tecnica, dopo averla osservata una
sola volta.
L’unico
problema, per lui s’intende, è che il Demone della Guerra, personificazione
dell’energia vitale del pianeta, che nello scontro raggiunge il culmine della
sua furia, non possiede tecnica alcuna, non ne ha bisogno! Perché, se volesse,
potrebbe averle tutte! Tutte quelle dei nemici che ha affrontato, studiato e
vinto, tutte quelle degli Dei che ha massacrato, estirpando il loro puerile
culto, come accaduto alle Divinità Etrusche, Umbre, Picene
e di altre popolazioni italiche che nessuno, neppure gli attuali abitanti di
quei luoghi, ricordano più! Sogghignò Polemos, mentre Andrei
generava una sfera di fuoco sul palmo della propria mano, scagliandogliela
contro un attimo dopo. Anzi, prima ancora di un attimo. La sua velocità è stupefacente! Commentò il Dio ancestrale,
evitandola e lasciando che esplodesse alle sue spalle, nel mucchio di guerrieri
a lui fedeli intenti a fronteggiare i seguaci del Dio Inti.
“Maestro!!! Siamo con voi!” –Esclamò allora una
gioviale voce maschile, mentre due sagome d’oro lucente balzavano a fianco di
Andrei. I due giovani che Polemos aveva spinto via un
minuto prima, rei di aver interrotto uno scontro ai massimi livelli che solo
Andrei avrebbe potuto dargli, tra tutti quegli scalcagnati che lo avevano
accompagnato a Karnak.
“State indietro! Polemos è
nemico ben superiore alle vostre possibilità!” –Parlò l’Arconte rosso con voce
decisa, intimando i due Cavalieri delle Stelle di allontanarsi. –“Portate aiuto
a Horus e Bastet! Sento i loro cosmi in difficoltà
contro la triplice furia della Chimera!”
“Come desideri, maestro mio!” –Annuì Jonathan, prima
di scattare via assieme a Reis, senza che Polemos tentasse di ostacolarli. Con gran sorpresa di
Andrei, il Nume bellico si limitò ad osservarli, sebbene fosse certo che i suoi
occhi fossero solo per Jonathan.
“Non ti somiglia affatto!” –Commentò infine,
sorprendendo l’Angelo di Fuoco. –“Fisicamente, intendo! Sebbene la calda aura
cosmica che lo avvolge sia simile alla tua, sorretta dalla stessa incandescente
passione!”
“Mi sorprende che tu non gli abbia detto niente! Non
mi avevi minacciato a tal riguardo, poco prima?!”
“Ah ah ah! Non sei uomo ilare, Andrei! Il mio era solo
un tentativo di distrarti, niente più! Cosa vuoi che mi importi dei tuoi drammi
familiari?!” –Ridacchiò Polemos, godendosi
l’espressione contrita apparsa sul volto dell’avversario. –“Solo una domanda,
prima di guerreggiare ancora! Perché non gliel’hai detto?”
“Dubito che tu comprenda, né mi interessa che tu lo
faccia in verità! Ma poiché il tuo silenzio è stato per me un garbo ti
risponderò! Per proteggerlo, solo per questo!”
“Capisco!” –Annuì il Lord Comandante, con una serietà
nello sguardo a cui Andrei parve quasi credere per un momento.
Per un momento.
“A te, Signore del Fuoco, il rotolo di Vanth! Affinché tu possa leggervi un destino che ben sai
che accadrà! Morirai senza avergli detto niente, con questo rimpianto nel
cuore!” –Declamò Polemos, travolgendo l’Arconte rosso
con un’onda di energia, in cima alla quale pareva ergersi il demone etrusco
custode degli inferi, gli avidi occhi fissi su di lui. Ma proprio mentre il
potente maroso si chiudeva su Andrei, una fiamma ancor più vivida lampeggiò in
quel turbinio, una fiamma che incenerì Vanth e il suo
lungo rotolo di colpe, verità e fati amari. Una fiamma che assunse presto la
forma di un maestoso uccello infuocato che si sollevò in volo diretto verso Polemos. –“Che trovata è mai questa?!” –Chiese
quest’ultimo, prima di percepire un secondo cosmo, giunto in aiuto di Andrei.
“Non una trovata, bensì la fenice immortale, in grado
di rinascere dalle proprie ceneri!” –Parlò una decisa voce maschile. –“Ho
ascoltato il tuo sermone sui rimpianti e posso dirti che io non ne ho nemmeno
uno! Cancellati sul nascere dalle mie azioni sono stati i pochi che ho
provato!”
“Chi sei, uomo?!”
“Ikki di Phoenix. Di Atena
Cavaliere!” –Si presentò il nuovo arrivato, il cui cosmo ardente prometteva
l’accendersi di un nuovo incendiario scontro.
Capitolo 29 *** Capitolo ventottesimo: L'urlo degli uomini. ***
CAPITOLO
VENTOTTESIMO: L’URLO DEGLI UOMINI.
Con un solo colpo Zeus aveva scheggiato la cotta protettiva di Atlante,
lacerandone la pelle al di sotto e strappandogli un grido di dolore, la prima
reale sensazione che era tornato a provare dopo secoli trascorsi nell’oblio
delle sabbie desertiche. Adesso il Nume Olimpico sostava a mezz’aria, le grandi
ali della Veste Divina spalancate, il cosmo color avorio che risplendeva vivido
attorno a sé, rischiarando il tardo pomeriggio ateniese e infondendo nuova speranza
nell’animo di coloro che a fatica stavano resistendo.
C’è ancora luce! Mormorarono Asher
e gli altri Cavalieri di Atena, riuniti alla Prima Casa, allo stremo delle
forze, osservando l’eleganza con cui il Nume Supremo degli Olimpi si muoveva. Reda, Salzius, Nemes, i soldati semplici del Grande Tempio rimasero
ammutoliti di fronte all’intenso lucore del suo cosmo, che mai avevano
percepito. Anche Mur, Virgo,Tiresia e Castalia, che pure lo avevano incontrato in
passato, ne furono comunque rinfrancati. Fu quest’ultima a notare un guizzo di
energia violacea scattare tra le gambe del titano, un lampo simile ad una lunga
e sottile lancia che andò conficcandosi nel polpaccio destro di Atlante, in un
punto non protetto dall’armatura.
A quel gesto seguì un urlo furioso del figlio di Giapeto,
che iniziò a scalciare con violenza, distruggendo tutto quel che si ergeva
attorno a sé, rocce, edifici o persone.
“Presto! Salite a bordo! Non c’è tempo da perdere!” –Esclamò allora una
voce maschile, mentre una sagoma scura planava sui devastati gradini che
conducevano alla Casa di Ariete.
“Ma tu sei…” –Mormorò Tiresia,
riconoscendo il compagno dal lungo crine azzurro. –“Neottolemo
del Vascello! Sei dunque tornato?”
Il Nocchiero di Tirinto annuì, prima di
rinnovare l’invito ai Cavalieri di Atena e ai vari soldati di montare a bordo,
in modo da allontanarli dall’incontrollata furia di Atlante.
“Fate salire prima i feriti e coloro che necessitano di assistenza!”
–Esclamò allora Mur, e anche Virgo,
al suo fianco, gli dette ragione, mentre Asher e Nemes si prodigavano per aiutare i vari soldati a issarsi a
bordo della Nave di Argo. Quindi anche i due Cavalieri raggiunsero Neottolemo, seguiti da Reda, Salzius e Kama, che scambiò qualche parola con il fedele di
Eracle, indicandogli un punto, non lontano, dove Kiki
e il Cavaliere del Sestante erano andati poco prima, per radunare le
sacerdotesse e gli apprendisti.
“Dobbiamo recuperarli in fretta!” –Spiegò, cercando lo sguardo dei
Cavalieri d’Oro, che annuirono concordi, prima di incitare il Nocchiero di Tirinto a gonfiare le vele e andarsene.
“Noi restiamo!” –Precisò Mur, di fronte agli
sguardi preoccupati e affranti degli altri Cavalieri di Atena. –“Presidiare le
Dodici Case e difenderle da qualunque nemico è il compito dei Custodi Dorati e
non verremo meno al nostro onore adesso! Ti preghiamo, nobile Timoniere di
Eracle, di condurre i nostri compagni in salvo! Li affidiamo a te!”
Neottolemo del Vascello rispose con un cenno del capo,
prima di espandere il suo cosmo e iniziare a far sollevare la nave,
allontanandola dallo scontro in atto, che era ripreso con violenza.
Un lampo di luce adamantina aveva appena squassato il tramonto di
Atene, anticipando il nuovo assalto del Sommo Zeus, che stava dirigendo le
proprie folgori contro il volto di Atlante, sia per ferirlo che per stordirlo
con continui e casuali lampi di luce. Al tempo stesso, dal basso, un’agile
figura, avvolta in un cosmo violetto, balzellava da una gamba all’altra,
piantando una lunga asta di energia nei punti non coperti dall’armatura. Di
certo, per il titano, erano punture d’insetto, ma generarono in lui un fastidio
crescente, soprattutto perché quello scattante combattente sembrava sapere dove
colpire, laddove passavano i tendini dei muscoli.
Fu proprio quel nuovo arrivato ad attirare l’attenzione di Castalia,
rimasta alla Prima Casa assieme a Tiresia e ai due
Cavalieri d’Oro. Facendo attenzione a non essere colpita dallo scalciare
furioso della progenie di Giapeto, la Sacerdotessa
dell’Aquila si avvicinò circospetta, osservando colui che lievi ma prolungate
sofferenze stava infliggendo al gigantesco avversario, stupendosi nello
scoprire che si trattava di un uomo. Un Cavaliere Celeste, a giudicare
dall’armatura che indossava.
Simile alle corazze di Nikolaos e degli altri
difensori dell’Olimpo, aveva decorazioni color indaco ed era meno coprente di
quelle dei suoi defunti compagni, dando un’idea di leggiadria, velocità e
freschezza. Il guerriero sconosciuto aveva un fisico snello, all’apparenza non
troppo allenato, e un folto ciuffo di capelli castani, tendenti al rossiccio,
ma il viso, quello Castalia non poté vederlo, riparato da una maschera che
contornava i suoi occhi. Stranita, la donna si chiese chi fosse
quell’ardimentoso personaggio, che mai aveva incontrato finora, non ritenendo
che vi fossero altri Cavalieri Celesti sopravvissuti, oltre all’Eridano e alla Coppa Celesti.
Quasi avesse sentito il suo sguardo su di lui, il giovane seguace di
Zeus si voltò, notandola subito dietro una roccia, ma non ebbe alcuna reazione,
se non quella di caricare di nuovo la lunga lancia energetica nel braccio
destro e lanciarsi di nuovo all’assalto. Quella donna dal volto ricoperto da
un’argentea maschera integrale per lui non significava niente.
***
“Nuovi rinforzi, fallace Atena? Soltanto ulteriori ritardi nel porre
fine alla tua infausta e rovinosa esistenza!” –Esclamò Etere, osservando i tre
appena giunti in aiuto della Dea di Grecia. Un uomo nerboruto, dalla
danneggiata corazza scura, un giovane snello ed elegante, rivestito da una
celeste armatura dalle aggraziate forme, ed un terzo ragazzo, dai mossi capelli
scuri e dall’acceso sguardo, che subito si era posto a difesa di Atena, il
pugno ricolmo di un’energia sfavillante che, il Nume Ancestrale dovette
ammettere, ribolliva come ben poche. Uno sfavillio di certo superiore a quello
dei cosmi che avevano fino a quel momento tentato di frenare l’avanzata di
Atlante. Chi era quel giovane dal così lucente cosmo? Lucente e intenso,
persino superiore a quello della Dea che ardiva a difendere. Possibile?
Fu la delicata mano della sorella a porre fine ai suoi dubbi,
sfiorandogli una guancia e sorridendogli, ricordandogli chi erano loro. La luce
più alta, il cielo più elevato, negati agli umani che di nient’altro erano
degni se non di sprofondare nella tenebra stessa che, con le loro azioni
sconsiderate, avevano creato. Incapaci di rifuggirla completamente, avevano
lasciato che divorasse i loro cuori, non meritando quindi alcuna pietà. Su
questo, Etere ed Emera erano concordi, sulla
necessità di un nuovo inizio, per il pianeta e per coloro che lo abitavano.
“La vostra razza impura e imperfetta cesserà di esistere quest’oggi!
Voi sarete i primi, ardimentosi giovani, se lo desiderate!”
“Ma chi si crede di essere questo?!” –Bofonchiò Pegasus, prima che
Atena gli intimasse di fare attenzione.
“Il suo nome è Etere ed è uno dei figli di Nyx,
Divinità la cui potenza ben ricorderai, Cavaliere, non è così?!” –Mormorò
allarmata, strappando un moto di sorpresa, e forse recondita paura, al suo
paladino, prima che questi riacquistasse la sua solita apparenza spavalda.
“Bene, pare che oggi sia destinato a incontrare tutti i parenti della
Dea della Notte! Prima il suo compagno, adesso i suoi figli! Ha anche dei
nipoti da presentarci?!” –Ironizzò, avanzando, il cosmo azzurro che sfolgorava
attorno a sé.
“Dubito che ti piacerebbe conoscerli, Cavaliere! Per cui, accontentati
della nostra presenza! Sarà transitoria, comunque!” –Rispose Etere, prima che
Pegasus, sorprendendo lo stesso Nume, balzasse in alto, aiutandosi con le ali
della sua ricostruita corazza, e si lanciasse su di lui.
“Fulmine di Pegasus!!! Iaiii!!!”
La miriade di meteore luminose riempì lesta l’aria, rubando al Dio
Ancestrale un’espressione di puro stupore, pur senza raggiungerlo, riparato da
un’invisibile barriera che frenò, parò e infine rimandò indietro tutti i colpi
del ragazzo.
“Attento, Pegasus!!!” –Si preoccupò subito Atena, dal basso, ricevendo
in cambio un sorriso dal suo Cavaliere, che, aspettandosi quella mossa, tipica
di tutti gli Dei affrontati fino ad allora, si era già spostato, con un
ulteriore colpo d’ali, portandosi al di sopra dell’onda di ritorno del suo
attacco. Quindi, senza indugiare ulteriormente, aveva radunato il cosmo sui
pugni, chiudendo le braccia sopra di sé e poi calandole in avanti, liberando un
unico devastante attacco.
“Cometa lucenteee!!!”
–Gridò, piombando su Etere. Ma anche quell’assalto fu vano, venendo fermato dal
cosmo del Nume che, portato un braccio avanti, lo aveva concentrato sul palmo
aperto della mano destra, lo stesso che adesso mosse verso il basso,
travolgendo il Cavaliere di Atena con un’onda luminosa e scagliandolo a terra,
contro il frontone della Tredicesima Casa.
“La sua aura cosmica è spaventosa, pari a quella del Tenebroso che ci
ha massacrato sull’Olimpo!” –Analizzò allora Eracle, mentre Nikolaos
dell’Eridano Celeste, al suo fianco, annuiva. –“E
quella della sorella è vasta altrettanto! Eppure… non
percepisco in loro traccia alcuna di oscurità! Privi sono i loro cosmi di
qualsivoglia sfumatura violenta o desiderio di morte, quasi come non provassero
niente!”
“E così è, figlio di Zeus!” –Intervenne il Signore della Luce del
Cielo, planando verso di lui. –“Noi siamo gli Dei perfetti, privi di macchia!
Come potremmo covare l’ombra dentro noi? Come Nyx e
Erebo rappresentano le tenebre primordiali, del mondo degli uomini e degli
Inferi, noi per contrapposizione siamo le prime luci, sorte durante l’alba
della Terra!”
“Se avete contribuito a diffondere la luce, perché adesso volete
toglierla agli uomini?! Perché combattete con Erebo?!”
“Gli uomini…Umpf!
Razza meschina ed errata! Grave dispiacere riempì l’animo dell’Unico quando fu
chiaro a tutti, lui per primo, quali nefandezze gli esseri umani erano in grado
di compiere! Incapaci di discernere tra bene e male, tra luce e ombra, hanno
claudicato per millenni, nutrendosi dell’uno e dell’altra, avvelenandosi il
cuore con entrambe le emozioni, senza riuscire a controllarle, privi di
equilibrio e raziocinio, quasi fossero bestie! Spettacolo infimo hanno offerto
a noi, che sedevamo dall’altra parte del varco, logorandoci senza poter
intervenire, senza poter scendere sulla Terra e gridare loro: Non la volete la
luce? Non ne siete degni allora! Per tanto ve la toglieremo! Ed è quello che
faremo oggi, estirpando una stirpe non degna di esistere e creandone poi una
nuova, totalmente bianca! Nel mondo che sorgerà domani non esisteranno più
razze imperfette, ma solo esseri puri, totalmente candidi o totalmente oscuri!
Le vie di mezzo, quegli strani ibridi che gli umani son divenuti, saranno
estirpate!”
“La tua concezione del mondo è una follia, Etere!” –Parlò allora
Pegasus, rimettendosi in piedi e avvicinandosi ad Atena e ad Eracle. –“Un mondo
come lo concepisci tu, perfetto e immacolato, può esistere solo nei sogni, anzi
nei deliri, di una Divinità che non ha mai vissuto!”
“Come osi, infame mortale?!” –Avvampò il Nume, espandendo il proprio
cosmo. Ma prima ancora che potesse muovere un braccio, il ragazzo era già
scattato avanti, avvolto nello sfavillio di un cosmo forte del Nono Senso, con
il braccio teso e il pugno carico di energia. Un pugno che, sebbene non riuscì
a crepare le difese del Nume, fu abbastanza forte da spingerlo indietro, oltre
i margini del piazzale, lasciandolo sospeso sul baratro generato dalla sorella
un’ora addietro.
“Proprio perché sono un mortale capisco com’è bello questo mondo! Un
mondo dove tu non hai mai vissuto, Etere! Un mondo che tu non hai mai
conosciuto!” –Continuò Pegasus. –“Perché se tu lo avessi fatto, anche solo per
un giorno, se tu avessi camminato tra gli uomini che tanto disprezzi per la
loro natura arbitraria, ne avresti percepito la forza, la profonda convinzione
che li sorregge, l’ansia di vivere ogni attimo dell’esistenza, fieri e consapevoli
di disporre di una vita soltanto e di voler, pertanto, goderne appieno,
sperimentando ogni piacere, ogni dolore, ogni momento in grado di farli sentire
vivi! Luce e ombra, bene e male, in una commistione che non è mancanza di
equilibrio bensì la ricerca di una conciliazione personale, interiore, cui
ognuno risponde a modo proprio!”
“La tua risposta, Cavaliere di Pegasus, è ben misera, allora!” –Chiosò il Nume,
sollevandosi di nuovo in cielo, una bianca e diafana figura contro un cielo
plumbeo.
“La mia risposta non l’hai ancora udita!” –Si limitò a commentare il
ragazzo, bruciando il proprio cosmo, prima di voltarsi verso Atena e gli
improvvisati compagni, quasi a chieder loro se fossero con lui. –“Eccola,
Etere! Eccoti il Fulmine di Pegasus,
il lampo del destriero alato!!!”
“E solo non sei, mio buon amico!” –Intervenne allora il Luogotenente
dell’Olimpo, aprendo le braccia e lasciando che un fiume di celeste energia
fluttuasse attorno a sé, prima di avvicinare le mani e radunare il cosmo in
un'unica fulgida sfera di luce. –“Gorgo
dell’Eridano!!!”
“Eracle è con voi! Un Dio degli uomini e per gli uomini! Fiere del mito, ruggite!!!” –Aggiunse
il figlio di Zeus, liberando la foga delle bestie da lui vinte del Mondo
Antico, cui presto andò a sommarsi la sfavillante energia generata da Atena,
che puntò la Lancia di Nike verso il cielo, passando attraverso i tre attacchi
distinti e mirando, al pari di loro, al cuore di Etere.
“Uomini stolti e ignoranti!” –Commentò questi, abbassando gli occhi,
quasi un velo di tristezza ne avesse opacizzato l’etereo splendore. Ma bastò
quel gesto a fermare il poderoso attacco, che si schiantò di fronte a lui,
contro un velo sottile ma resistente, un velo le cui propaggini esterne presto
si richiusero, come fossero petali di un fiore, racchiudendo dentro sé la
devastante potenza liberata dai quattro compagni. Quella stessa potenza che,
semplicemente riaprendo gli occhi, Etere diresse contro di loro.
Fu un boato terribile, che distrasse persino Zeus, intento a lottare
con Atlante, quasi permettendo al titano di colpirlo col braccio destro. Alla
Prima Casa, Mur e Virgo
levarono lo sguardo verso la cima della collina, avvolta in un’improvvisa alba,
che esplose poco dopo, scuotendo l’intero rilievo. Faglie si aprirono ovunque,
la bianca gradinata andò in frantumi in più punti, mentre lastre di marmo
sparivano nelle fenditure del terreno, che accolsero anche molte colonne e
architravi di templi costretti ad abiurare al loro antico splendore. La
Tredicesima Casa esplose in una miriade di schegge bianche e grigie, assieme al
mobilio, agli specchi, ai tendaggi color porpora e allo stesso trono su cui i
Grandi Sacerdoti, e Atena stessa, avevano a lungo seduto. La già provata
pavimentazione di fronte all’ultimo tempio si sollevò come un’onda di marmo,
sbalzando Pegasus, Nikolaos, Atena ed Eracle in
cielo, fino a schiantarli tra le macerie pochi interminabili istanti dopo.
Pochi istanti in cui il loro mondo, soprattutto quello della Dea della Guerra,
era del tutto cambiato.
Rialzandosi a fatica, aiutandosi con lo Scettro di Nike, la fanciulla
dai capelli viola si guardò intorno con scoramento, mentre la brezza della sera
smuoveva i resti del suo palazzo, ormai in rovine. Solo una statua rimaneva,
una soltanto rimase impassibile al proprio posto, triste e silente come a
Pegasus era sempre apparsa, stoica nel suo permanere a difesa degli uomini. Fu
a lei che diresse lo sguardo il Cavaliere Divino quando si rimise in piedi,
alla statua d’oro di Atena che ornava la terrazza sul retro della Tredicesima
Casa, ove l’onda di energia non era giunta. A testimoniare che, pur in quel
mondo destinato a perdersi nel caos primordiale, qualcuno ancora resisteva.
“Noi ancora resistiamo!” –Mormorò il ragazzo, stringendo i pugni, le
lacrime che gli rigavano il viso, e voltandosi con rabbia verso Etere. –“Ti
professi Dio di luce, ma vedo in te la stessa indole distruttrice di tuo padre,
il Tenebroso! In che altro modo giustificheresti quest’immotivata devastazione?
Con quali pallide scuse giustifichi il massacro e la morte da te scatenati
quest’oggi ad Atene?”
“Non con te devo giustificarmi, essere umano!” –Precisò il Nume, al che
Pegasus scosse la testa.
“No, infatti! Devi farlo con te stesso!” –Aggiunse, bruciando ancora il
proprio cosmo.
Atena, Eracle e Nikolaos lo avevano
attorniato, ma egli era l’unico la cui fiamma rilucesse così intensa da
rischiarare il cielo, al pari del cosmo di Zeus ai piedi della Collina della
Divinità. Forse era grazie all’ichor del Signore del
Fulmine, che pulsava in lui tramite la ricostruita corazza, forse era l’impeto
della gioventù, la completa padronanza del Nono Senso, la volontà, quasi la
smania, di difendere coloro che amava e dimostrare l’ inspiegabile capacità del
genere umano di risollevarsi sempre dalle proprie rovine. Quale che fosse il
motivo, il destriero alato galoppò di nuovo verso Etere, spalancando le bianche
ali, sorretto dai cosmi di Atena, Eracle e Nikolaos,
che gli diedero lo slancio per balzare sempre più in alto, di fronte a uno
stupefatto Signore della Luce.
“Non sarà primordiale come la tua, Etere, ma questa è la luce di
Pegasus! La luce della speranza! Fulmine
di Pegasus!!!”
Nuovamente l’attacco luminoso si schiantò contro la barriera posta a
difesa del Nume, la barriera che Etere non doveva neppure evocare,
semplicemente esisteva a proteggerlo da tutto ciò che era infimo e inferiore al
mondo, tutto ciò che, a differenza di lui e della sorella, era imperfetto. E
nuovamente Pegasus fu spinto indietro, schiantandosi tra le rovine, a pochi
metri dalla testa mozzata di un pesce di marmo che ancora zampillava acqua.
Il Luogotenente dell’Olimpo si avvicinò per aiutarlo a rialzarsi, ma
venne investito da un’onda di smisurata potenza, che lo sollevò e lo scaraventò
distante, ai piedi della statua di Atena, stordendolo.
“Giunge infine il tramonto per gli Dei di Grecia! La terza generazione
cosmica, e la progenie da essa generata, è destinata a cadere! Ora!” –Commentò
Etere, volgendo il palmo della mano su Eracle e Atena.
“Preparati, sorella!” –Esclamò il primo, rifulgendo nel proprio cosmo.
–“Sono con te, fratello mio! Per gli uomini e con gli uomini!” –Aggiunse la
Dea, citando le parole pronunciate poc’anzi dal Signore di Tirinto.
–“Grazie!” –Fu la risposta di Eracle, prima che liberasse una tempesta di
energia. –“Fede negli uomini!!!”.
Atena unì il proprio cosmo a quello del Vindice dell’Onestà, osservando
la grazia con cui Etere parò l’attacco, deviandolo con un solo movimento del
braccio, sebbene adesso la sua espressione fosse mutata. Non più il placido candore
di un’entità eterea, bensì tratti induriti dal fastidio crescente per uno
scontro ancora non conclusosi, per una resistenza che non avrebbe immaginato,
per un continuo rialzare il capo da parte di creature che reputava inferiori.
“Dobbiamo riprovare, unendo tutte le nostre forze!” –Esclamò allora
Pegasus, avvicinandosi alle due Divinità nate da Zeus. Aveva perso l’elmo della
corazza e una ferita gli trinciava a metà la guancia destra, ma di certo non
aveva perso la determinazione che gli era propria. Sorridendo, Atena pensò che
per lui, più che per ogni altro amico, Nike dovesse avere una simpatia
particolare. E non era l’unica, in fondo.
Si sorprese però nell’udire la proposta del ragazzo, non tanto per il
timore dell’infamia che aveva colpito chi, in passato, aveva utilizzato tale
tecnica, quanto perché il fatto che fosse un Cavaliere ad unire il proprio
cosmo a quello di due Dei rimarcava quanto fosse cresciuto, sia lui che
l’energia cosmica che portava dentro.
“Non abbiamo scelta!” –Continuò, trovando Eracle d’accordo con lui.
Sospirando, anche Atena accettò, consapevole che quell’attacco combinato
avrebbe avuto una sola sicura conseguenza. La fine del mondo di pace cui a
lungo aveva agognato. La fine di un ordine che lei stessa aveva imposto a chi
viveva nel suo regno. Se persino la Dea che l’aveva vietato, si costringeva ad
usare il colpo proibito, il tempo era davvero finito. –“E sia!” –Ammise infine,
inchinandosi tra i due uomini, che si disposero di lato a lei, entrambi con le
braccia rivolte in avanti, ricreando la Postura della Triade e la sincronia
necessaria per fondere i loro cosmi in uno soltanto.
Così sarebbe stato il loro assalto, forte e vigoroso come il campione
di Tirinto era stato nel Mondo Antico, vincendo
molteplici fatiche; lucente come una cometa, sostenuto dallo sfavillio delle
tredici stelle del destriero alato, destinato, fin dalla nascita, ad andare
oltre, a volare sempre più in alto; infine retto e giusto, dovuto alla
necessità di salvaguardare coloro che erano preposti a difendere, gli uomini,
di cui erano i tre massimi protettori.
“Per loro!!! Per gli uomini!!!” –Gridò Pegasus, espandendo il proprio
cosmo ancora di più, in uno scintillio che sormontò la Collina della Divinità,
quasi fosse un’aurora improvvisa. Ma prima che potesse gridare il nome della
tecnica proibita, Atena lo interruppe, precisando che ormai non era più il suo
colpo. Ormai quel colpo non era più niente, solo un retaggio del passato, e non
a quello dovevano guardare.
“Bensì al futuro di questo splendido pianeta che abbiamo imparato ad
amare! Insieme, compagni! Urlo degli
uomini!!!” –Esclamò la Dea, liberando l’energia cosmica raccolta in quei
brevi minuti.
“Urlo degli uomini!!!” –Le
fecero eco Pegasus ed Eracle, sommando il loro cosmo a quello di Atena e
dirigendolo, come un maestoso uccello dalle ali bianche, verso il Nume
Ancestrale.
“Quale potenza!” –Commentò quest’ultimo, sentendosi per un momento
paralizzato, persino incredulo di fronte a tale devastante potere. Certo, si
disse, per ritrovar coraggio, se anche lo avesse investito in pieno, senza
difesa alcuna, non sarebbe bastato a vincerlo, ma di certo lo avrebbe
strapazzato, facendogli rimpiangere l’immobilità cui era stato costretto
nell’intermundi. Eventualità che Etere non voleva neppure prospettare.
“Luce del cielo!!!” –Imperò,
spalancando le braccia di lato e contrastando l’assalto congiunto con un
accecante bagliore biancastro, di un bianco così nitido come doveva essere
all’alba dei tempi, prima che i colori venissero creati. Un chiarore che si
scontrò con l’Urlo degli Uomini, generando presto un’enorme massa di energia
che andò aumentando sempre più, in maniera esponenziale, di fronte agli occhi
terrorizzati di tutti coloro che ancora restavano nel Santuario.
Persino Neottolemo, Kama e gli altri
Cavalieri di Bronzo, che si erano allontanati fino a portarsi in cima ad un
promontorio, da cui avrebbero potuto facilmente prendere il mare, rimasero
atterriti di fronte a quel sole improvviso che pareva squarciare la sera
ateniese. Un sole i cui raggi parevano pronti a ghermire e distruggere tutto
ciò che stava loro attorno.
“Resistete!!!” –Gridò Pegasus, mentre la pressione generata spingeva i
tre compagni indietro, facendo scavar loro solchi nel devastato piazzale. –“Non
possiamo cedere ora!!!” –Li rincuorò Eracle. –“Tutta quest’energia o investirà
Etere o noi, e con noi sarà spazzato via l’intero Grande Tempio!”
Quella nefasta prospettiva diede a Pegasus l’impeto per bruciare tutto
quel che restava della sua vita, dei suoi ideali e dei suoi sogni per il
futuro, riuscendo a stabilizzare di nuovo la grande sfera energetica, stupendo
lo stesso Signore del Cielo per la tenacia con cui contrastavano il loro
volere. Deciso a spazzarli via, Etere portò allora entrambe le braccia avanti,
sfiorando l’enorme massa di energia, pronto per scaraventarla contro gli
avversari, quando percepì una variazione nell’armonia.
Qualcuno aveva spezzato l’equilibrio di forze in campo.
“Emera!” –Mormorò, riconoscendo il tocco
familiare della sorella, che gli aveva appena afferrato un braccio. Guardandola
in volto, Etere ne fu turbato perché per un momento le parve di non
riconoscerla, di non capire quel che la gemella provava.
Dal canto suo la taciturna Dea del Giorno si limitò a scuotere la
testa, prima di espandere la propria aura, avvolgere l’enorme massa energetica
e spingerla verso l’alto.
“Ma… cosa?!” –Balbettò Etere, non
comprendendo le sue intenzioni.
Con un ultimo gesto, Emera spinse via tutta
quell’energia, lasciando che detonasse nell’alto cielo sopra Atene,
un’esplosione così potente da spazzar via tutte le nuvole e rivelare, sia pure
per poco, un pezzo di cielo libero, immerso nella silenziosa ma naturale
oscurità della sera.
“Sorella, perché?!”
Emera non disse niente, come non aveva parlato per tutta la durata dello
scontro tra il fratello e i protettori degli uomini, limitandosi ad osservare,
allo stesso modo in cui aveva osservato i pallidi tentativi dei soldati di
Atena e dei suoi Cavalieri di opporsi alla progenie di Giapeto.
Aveva visto molte cose, alcune che ben si aspettava, un atteggiamento di
bellica resistenza innato nell’animo umano; ma aveva visto anche altro, gesti
che l’avevano stupita. Solidarietà, fratellanza, generosità d’animo, una luce
che non credeva gli umani possedessero. E una voce che aleggiava parlando al
suo animo, una voce che, a chiunque appartenesse, pareva avere ragione.
Solo poco prima, quando aveva espanso il cosmo per intervenire in aiuto
di Etere, quelle parole avevano lasciato il segno.
“Non farlo, madre! So che non vuoi farlo!”
Madre… Mormorò, prima di mettere da parte quei pensieri e rivolgersi al
fratello, che la osservava stranito.
“Sei sporco!” –Si limitò a dirgli, indicandogli la veste inzaccherata
dalla polvere. –“Non è da te. E cos’è questo volto tirato? Emerge ansia in te,
fratello mio. Sei tutto scarmigliato, il tuo volto è imperlato di sudore e la
tua chioma, oh, rideresti da quant’è buffa se tu potessi vederla!” –Gli
sorrise, carezzandogli i capelli color avorio, salvo poi tornare seria poco
dopo. –“Che ne è della nostra perfezione? Percepisco rabbia nel tuo cuore
mentre il dubbio alberga in me, incertezze che desidero condividere con te,
l’unico che possa comprenderli. Perciò ti prego, Etere, fratello mio,
andiamocene! Ci penserà Atlante a distruggere quel che resta di questo
devastato santuario. Non sporchiamoci ulteriormente le mani! Non diventiamo
come loro!”
Etere soppesò le parole della sorella per qualche istante, spostando lo
sguardo da lei ai tre che affannavano ai suoi piedi, crollati sulle ginocchia,
feriti e sudati per il prolungato sforzo. A guardarli, il Nume capì che non
voleva essere così, non voleva apparire come loro e il solo pensarlo lo
infastidì.
“Hai ragione!” –Esclamò infine, rilassando il volto e quietando il
proprio cosmo. Quindi afferrò la mano di Emera,
sorridendole dolcemente e incamminandosi verso l’alto cielo, quasi stessero
passeggiando su un sentiero di stelle. Non udirono altro, neppure la voce di
Pegasus che gli stava chiedendo dove stessero andando.
Capitolo 30 *** Capitolo ventinovesimo: Gli allievi di Dohko. ***
CAPITOLO
VENTINOVESIMO: GLI ALLIEVI DI DOHKO.
Sirio non si fece ingannare. Aveva già affrontato avversari del genere,
i cui modi sprezzanti e offensivi miravano a ferire i suoi sentimenti,
distogliendo l’attenzione dallo scontro in atto, quindi, per quanto fastidio
gli dessero gli insulti rivolte al suo Vecchio Maestro, si sforzò di restare
calmo e non farsi prendere dall’ira. Del resto, dovette ammettere, l’aura
cosmica di quel nemico era enorme quanto oscura, intrisa di un così profondo
senso di tenebra che solo una volta aveva già percepito in un avversario. Un
potente avversario che aveva impegnato duramente sia lui che i suoi quattro
compagni.
Flegias. Il
Maestro di Ombre. Strinse i
pugni il Cavaliere del Dragone, bruciando il proprio cosmo. Di cui questo Tiamat si proclama discepolo!
Di certo il fanatismo non gli manca! Né la potenza d’attacco! Aggiunse, con
preoccupazione, osservando i danni subiti dalla corazza di Ascanio. Per quel
che ne sapeva lui, mai nessuno era riuscito ad atterrare il glorioso Comandante
dei Cavalieri delle Stelle e questo lo spinse alla massima prudenza.
“Hai paura, Sirio Dragone? Paura che l’ombra possa divorarti? Dovresti
essere felice, in fondo! Potresti riabbracciare il tuo vecchio maestro a cui
così tanto eri legato!” –Rise il Primo Forcide,
ergendosi baldanzoso nel suo cosmo tetro. –“Quale ironia! Come il mio mentore
ha ucciso il Cavaliere di Libra, ugualmente io quest’oggi sterminerò voi,
rimanendo quindi l’ultimo allievo di Dohko! Nonché il
migliore, titolo che spetta al più forte di tutti! A colui che sopravvive! Ed
io, come Anhar mi ha insegnato, trovo sempre il modo di sopravvivere! Ascanio
può confermarlo!”
“Libra quest’oggi sarà vendicato! I crimini tuoi e del tuo spregevole
maestro saranno infine giudicati!” –Esclamò Sirio, con voce determinata.
“Oh davvero?! E da chi?! Da voi? O dal supremo giudice di tutte le
cose, il quale, si dà il caso, sostiene e incita il nostro operato?! Eh eheh! Siete sconfitti!!!”
–Avvampò Tiamat, scagliando una sfera di energia nera contro i due compagni,
obbligandoli a gettarsi di lato, in direzioni opposte, e a contrattaccare con
le loro tecniche.
“Colpo segreto del Drago
Nascente!!!” –Tuonò Sirio, mentre dall’altro lato Ascanio liberava le fauci
dei draghi di Albion. Ma entrambi gli assalti, per
quanto potenti, vennero risucchiati da due macchie nere apparse prontamente a
difesa del Primo Forcide, stupendo lo stesso
Cavaliere di Atena, sia per la prontezza che per la capacità della sua difesa
di neutralizzare un così poderoso attacco.
L’ultimo discepolo di Dohko aveva ascoltato
attentamente la lezione di Avalon sul Nono Senso ed era consapevole ormai di
averlo raggiunto, al pari di Pegasus e degli altri amici, complici le numerose
battaglie che negli ultimi mesi avevano sostenuto. Per ironia della sorte, si
disse, concedendosi un sorriso, era stato proprio Anhar, o Flegias,
a permettere loro di arrivare così in alto, scatenando una guerra dopo l’altra
e obbligandoli a migliorarsi continuamente, per non essere sopraffatti.
E adesso è il momento di
dimostrare quanto abbiamo davvero appreso, sconfiggendo un nemico che dispone
di altrettanto potere!
Eppure, rifletté Dragone, con i sensi all’erta, c’era qualcosa di strano
nell’impronta cosmica di Tiamat, qualcosa di oscuro e terribile, di divino
quasi, che per il momento il ragazzo non riuscì a definire.
“L’hai notato anche tu?” –Gli chiese Ascanio, affiancandolo.
“Quel cosmo tenebroso che lo sorregge… non
sembra il suo.”
“No, non lo è!” –Chiarì il Comandante dei Cavalieri delle Stelle.
–“Qualunque oscura entità guidi il suo operato gli ha fatto dono di un potere
che non gli appartiene! A differenza tua e dei Cavalieri dello Zodiaco, Tebaldo non ha risvegliato il Nono Senso, gli è stato
offerto in dono!”
“Perché?!” –Si chiese Sirio.
“Per ringraziarmi dei miei servigi!” –Chiarì il Primo Forcide, che aveva udito il breve scambio di battute. –“Ma
non crediate che senza il cosmo di tenebra che mi sostiene, io non possa
battervi! Tutt’altro, sono molto migliorato dai tempi in cui mi allenavo su
quel costone roccioso! Del resto, voi per primi conoscete bene quanto abile e
spietato in battaglia sia il mio mentore, avendovi spesso messo in difficoltà!”
“Mentore che, se ben ricordo, abbiamo sconfitto, spezzandone il corpo e
riducendolo a mero spirito!” –Puntualizzò Sirio, prima che Ascanio
intervenisse. –“E, non fosse stato per l’intervento di Caos, anche lo spirito
sarebbe scomparso da questa terra!”
“Lo credi davvero?!” –Sogghignò Tiamat. –“Il corpo è solo un guscio, un
contenitore vuoto che un’anima potente può riempire e fare propria in qualsiasi
momento! E l’anima di un’ombra è immortale!”
Sirio e Ascanio si scambiarono uno sguardo perplesso, prima che una
devastante esplosione cosmica li distraesse, costringendoli a volgere lo
sguardo verso la Conchiglia Madre, la cui luce parve tremolare per un momento.
“Cosa… sta succedendo?!” –Si chiesero,
pensando ai compagni che ancora lottavano al suo interno. –“Nettuno, che qui
con me è giunto, sta combattendo… ma a chi appartiene
questo cosmo così vasto? Questo cosmo… divino?!”
–Mormorò Sirio.
“A quanto pare Forco è sceso in campo!
Immaginavo che non avrebbe sopportato di starsene in disparte ancora a lungo! A
differenza dei giovani Dei a cui tanto siete legati, l’Imperatore originario
dei Mari è un vero guerriero, pronto a combattere in prima linea le proprie
battaglie e non ad affidarle ai suoi sottoposti!”
“Eppure voi siete qua!” –Lo schernì Ascanio, cui Tiamat rispose facendo
avvampare il proprio cosmo.
“Anche tu! Ma ancora per poco!” –Aggiunse, scagliando un violento globo
di energia nera verso il Comandante di Avalon, che venne subito superato da
Sirio, che si pose di fronte a lui, sollevando lo scudo, su cui l’assalto si
infranse.
“Efesto ha compiuto uno splendido lavoro!”
–Commentò il ragazzo, la cui corazza, che pure aveva vibrato all’impatto, aveva
ben resistito. –“Ma non possiamo restare passivi! Dobbiamo trovare una breccia
nella sua difesa! Deve esserci!”
Ascanio annuì, bruciando il proprio cosmo e preparandosi per attaccare
di nuovo, prima che Sirio gli si rivolgesse con tono preoccupato.
“Non rischiare più del dovuto! Sei stanco e ferito, lascia provare me!”
–Ma il Cavaliere della Natura, sorridendo, gli disse di non preoccuparsi.
“Il tuo occhio è ben più attento del mio! Anche Dohko
avrebbe scelto così!” –Esclamò, scattando avanti, mentre tutto attorno a sé
danzavano gigantesche sagome ricoperte da squame di luce vermiglia. –“Attacco del Drago di Sangue!!!”
“Stolto e cieco! Il tanto affanno a che ti giova? Morir comunque dovrai!
Addio, Ascanio Pendragon! Bocca dell’Abisso, spalancati!!!” –Rispose Tiamat, evocando un
nuovo buco nero, che risucchiò i dragoni di Britannia, iniziando ad attirare
anche il giovane a sé.
Il Comandante fu lesto a scattare di lato, tenendosi a distanza dalla
chiazza nera, ma la forza d’attrazione della stessa era tremenda, al punto che
anche solo rimanere in piedi gli costava un notevole sforzo. Fu Sirio a venire
di nuovo in suo aiuto, sfrecciando di fronte alla Bocca dell’Abisso, con il
braccio sollevato e intriso di cosmo.
“Excalibur!!!” –Gridò,
liberando un devastante fendente di energia, che impattò poco dopo con il buco
nero, deformandone l’aspetto ma senza comunque riuscire a distruggerlo.
–“Incredibile!!! Dispone di una potenza mai vista! Neppure Flegias
aveva difese così solide!” –Rifletté sconcertato, ricordando lo Scudo di Ares,
solida tecnica protettiva del Maestro di Ombre, che però gli sforzi congiunti
dei Cavalieri dello Zodiaco erano riusciti ad abbattere.
“A lui devo tutto! Al mio mentore! Ogni tecnica di cui dispongo è un
tributo alla sua memoria, alla nuova vita che mi ha donato quando ha riacceso
in me la fiamma di un’esistenza che, per colpa dell’abbandono di Ascanio,
credevo giunta a termine!” –Illustrò il Primo Forcide,
spalancando le braccia ed espandendo sempre più il suo cosmo oscuro. –“Da
allora l’ho seguito, in ogni sua impresa, addestrandomi e aumentando il mio
potere, per poter avere un giorno la mia vendetta! E non l’avrò come Tebaldo, l’ingenuo ragazzino speranzoso morto quel giorno
ad Atene, ma come Tiamat, l’Abisso Oscuro, il Tartaro profondo ove il sole mai
è giunto! Perché io odio il sole, lo aborro con tutto me stesso! Il solo
pensiero mi ricorda la tragica fine cui fui destinato e da cui Anhar mi ha
salvato!”
“Se sei stato sempre al fianco di Flegias,
perché non sei mai intervenuto prima? Perché nasconderti tutto questo tempo
nell’ombra? Non ti sentivi pronto per affrontarmi?!” –Lo provocò Ascanio, per
quanto persino muovere le labbra per parlare gli strappasse gemiti di dolore,
tanta forte era l’attrazione che il buco nero continuava ad esercitare su
entrambi.
“Alla fine di questa giornata la tua vanagloria sprofonderà nell’abisso
con te, maledetto!” –Ringhiò Tiamat, prima di aggiungere, sibillino. –“In
accordo con il mio maestro, abbiamo seguito strade diverse per favorire il
ritorno dell’Oscuro Signore cui siamo fedeli! Mentre egli cercava i Talismani e
portava i regni divini alla fame e alla guerra tra di loro, io aiutavo Forco a ricostituire il proprio potere, riunendo i Sette Forcidi e ritrovando le perdute armature di oricalco! È
stato un lavoro lento ma costante, di silente e segreto impegno, per non essere
individuati dagli occhi attenti degli Dei a voi cari! Ma, alla fine, ammetto di
aver ottenuto un discreto successo, essendo riuscito a ricostruire le legioni
di Forco senza che Amon Ra,
Odino, Zeus e neppure Avalon se ne accorgessero!”
“Viscido e spregiudicato come Anhar sei diventato!”
“Ed ancor più… potente!!!” –Ghignò il Primo Forcide, espandendo al massimo il proprio cosmo, mentre
Sirio e Ascanio venivano trascinati verso la Bocca dell’Abisso, scavando
profondi solchi nel terreno sabbioso, senza riuscire in alcun modo ad arrestare
la loro avanzata.
Fu una luce improvvisa a interporsi tra i due Cavalieri e il buco nero,
una luce che avvolse la figura di Tiamat, irradiandosi a cupola attorno a lui.
Prima ancora di capire quel che fosse successo, il Primo Forcide
venne scagliato in aria dall’onda d’urto generata dallo scontro tra la Bocca
dell’Abisso e quella campana protettiva, che andò in frantumi all’istante.
Anche Sirio e Ascanio furono spinti indietro, riuscendo però a
mantenersi in posizione eretta, e quando la luce diminuì videro una figura,
distesa a terra, a pochi passi da Tiamat, con il palmo della mano ancora
impregnato di energia. Il Comandante di Avalon riconobbe Pasifae
del Cancro, fedele servitrice di Eracle, e capì che la donna li aveva salvati
con un’ottima intuizione, generando una barriera non attorno a loro bensì per
imprigionare il Primo Forcide.
“Ancora tu!!!” –Ringhiò questi, rimettendosi in piedi, il volto orribilmente
deformato dall’ira. –“Se così tanto ti periti per attirare la mia attenzione,
la avrai!” –Aggiunse, scattando avanti. Ma anche Sirio e Ascanio corsero verso
di lui, attaccandolo ognuno da un fianco, con i draghi di Britannia e di Cina
che fagocitarono in fretta il terreno tra loro, abbattendosi su Tiamat. E
venendo fermati da due buchi neri subito apparsi alle spalle del Forcide, che nemmeno si curò di loro, gettando un’occhiata
carica di rancore alla donna riversa a terra, che ormai, dopo quei continui
salvataggi, aveva quasi esaurito le sue forze.
“Pa…sifae…”
–Mormorò Alcione, rimettendosi in piedi, poco lontano. Ma bastò che Tiamat la
guardasse per schiantarla a terra con un’onda di energia oscura, distruggendo
quel che restava delle sue vestigia.
“Hai combattuto con onore, Pasifae del Cancro
Celeste, ma è tempo di dirci addio! È tempo che tu cada nell’abisso!” –Sibilò
il Forcide, calando la mano sulla donna, da cui
subito una macchia nera si espanse, risucchiando il suo corpo all’interno, di
fronte agli occhi sgranati dal terrore di Alcione, Ascanio e Sirio. –“Forco non doveva neppure scomodarsi! Basto io a far fuori
le effimere forze di quest’alleanza che avete imbastito in fretta e furia! Chi
vuol essere il prossimo a cadere?”
“Tu!!!” –Ruggì allora Sirio, il cui cosmo riluceva di vivida luce verde
smeraldo. –“Sei la vergogna e il disonore degli allievi di Libra! Incapace di
apprezzare la bellezza degli insegnamenti ricevuti, hai scelto la via avversa,
più facile e scevra di sofferenze, ma non per questo migliore! Pagherai per
aver infangato il nome del mio maestro!!! Assaggia, vile traditore, le zanne
dei Cento Draghi di Cina!!!” –Aggiunse, aprendo i palmi delle mani avanti a sé
e liberando un fiume scintillante di dragoni di luce, che parevano composti
dalle acque adamatine di una cascata.
“Li spazzerò via!!! Apocalisse
oscura!!!” –Imperò Tiamat, sollevando un braccio e scatenando la tempesta
d’ombra e vampe nere che Anhar gli aveva passato.
Il contraccolpo tra i due poteri fu così violento da generare un’enorme
sfera di energia che pareva espandersi sempre più, impressionando persino
Alcione e Ascanio, che si affrettò a suggerire alla paladina di Eracle di cercare
un posto dove ripararsi al più presto, conscio che la situazione sarebbe
degenerata entro breve.
“Io… non posso ritirarmi…”
–Tentennò la donna. –“Lo devo al mio Signore, e all’uomo che vi ha addestrato!
Ho udito il suo nome! Si tratta di Dohko di Libra,
non è così?” –Ascanio annuì distrattamente, prima che Alcione riprendesse a
raccontare. –“Ci siamo incontrati tempo addietro. Un bel po’ di tempo addietro.
E mi sorprende udire che ha vissuto così tanto tempo!” –Sorrise lei, sfiorando
un braccio del ragazzo. –“Non mi sorprende invece che abbia addestrato due
valorosi e generosi guerrieri, ricreando quel che era stato anch’egli un tempo.
Un Cavaliere d’onore accanto al quale valeva la pena combattere e morire! Voi
valete altrettanto!”
La struttura della Conchiglia Occidentale tremò all’improvviso, ponendo
fine alla loro conversazione. La luce che la ricopriva sembrò spegnersi per un
istante e la landa subacquea fu illuminata solo dal risplendere dei cosmi
coinvolti, finché l’enorme massa energetica non esplose, scaraventando indietro
i tre allievi di Dohko. Sirio, Ascanio e Alcione
furono scagliati contro le pareti interne dell’Avaiki,
che resistettero all’impatto poiché sostenute da un vasto cosmo che era giunto
a fortificarle, cosmo che il Cavaliere della Natura riconobbe così simile a
quello di Avalon. Tiamat invece venne scaraventato lontano, schiantandosi su un
edificio di sabbia e rocce e venendo sommerso dai polverosi detriti.
Subito il Primo Forcide si dimenò per
liberarsi, memore di quel giorno di quindici anni prima, in cui sotto diverse
macerie aveva rischiato di perdere la vita. Una fobia che, per tutto quel
tempo, mai lo aveva abbandonato, portandolo a prediligere scontri in spazi
ampi, e non edifici chiusi. Si rialzò, toccando la corazza graffiata e in
alcuni punti scheggiata, ma convenne di non avere ferite ulteriori, se non
quelle che, osservandosi nel riflesso della parete interna della Conchiglia, la
vista del suo volto gli risvegliò. Rabbioso, lasciò esplodere il cosmo, che
vorticò attorno a sé come una tempesta di vampe nere, disintegrando ogni
oggetto, muro o roccia che gli sbarrasse la strada, prima di incamminarsi verso
i suoi avversari.
Dei tre, Ascanio fu il primo a rimettersi in piedi, tirando uno sguardo
preoccupato a Sirio, disteso vicino a lui, la fronte segnata da una ruga di
sangue che ruscellava da una ferita apertasi
all’impatto. Era stato grazie al suo tempismo e al suo spirito di sacrificio,
che lo aveva spinto a porsi davanti al compagno, con lo scudo del Dragone
innalzato di fronte a entrambi, che Ascanio era stato raggiunto solo di
striscio dall’immensa onda d’urto. Alcione era stata invece scaraventata più
distante e adesso giaceva in uno stato di semicoscienza.
Ascanio comprese che doveva agire e doveva farlo in fretta, prima che
Tiamat aprisse uno di quei maledetti buchi neri a cui non erano in grado di
opporre alcuna difesa. Per un istante il giovane soppesò anche la possibilità
di utilizzare il Talismano da lui custodito, ma subito la scartò, temendo non
soltanto che il Calderone dei Misteri potesse essere risucchiato nell’abisso ma
anche certo che non sortisse alcun effetto. A differenza di Virgo,
infatti, Tebaldo non era stato posseduto da Anhar né
da alcun’altra entità oscura, ma aveva deliberatamente scelto il proprio
cammino. Con mestizia, il Comandante dei Cavalieri delle Stelle chiuse le dita
a pugno, lasciando avvampare il proprio cosmo lucente, consapevole di quanta
responsabilità ricadesse sulle proprie spalle, da non potersi permettere
ulteriori esitazioni.
“A te, miserabile che hai scelto
consapevolmente la via dell’odio, i draghi di Albion
daranno solo morte!” –Tuonò, mentre i serpenti tatuati sulle sue braccia si
illuminavano, danzando attorno a sé, in un gioco di luci bianche e rosse. –“Double Dragon Attack!!!”
–Gridò, dirigendo contro Tiamat due potenti sagome energetiche.
“Cambia il nome, cambia la forma,
ma il risultato è sempre lo stesso! Bocca
dell’Abisso, spalancati!!!” –Rispose questi, risucchiando l’assalto di
Ascanio dentro una macchia di nero cosmo che subito si aprì davanti a lui,
attirando a sé anche il glorioso condottiero.
Stanco dal prolungato scontro,
privo di appigli a cui aggrapparsi, il ragazzo dai corti capelli scuri venne
tirato avanti, fin quasi a ritrovarsi di fronte al buco nero, la cui forza
d’attrazione aumentava avvicinandosi ad esso. Per un momento, ad Ascanio sembrò
che persino l’anima gli venisse strappata via, tanto intensa era quell’oscura
gravità. Tentò di resistere, bruciando il proprio cosmo, ma si ritrovò comunque
a un passo dall’abisso, di fronte a quella tetra bocca spalancata che dava sul
niente. Ruggendo di dolore e rabbia, il Cavaliere della Natura si aggrappò ai
bordi del buco nero, la cui materia ombrosa, al solo contatto, avvampò,
avvolgendosi attorno alle sue braccia, allo scopo di distruggerle assieme alla
corazza che già scricchiolava per l’enorme pressione, e così rimase per qualche
interminabile secondo.
Tiamat, sul retro della macchia
oscura, osservava Ascanio, pochi passi più avanti, lottare con tutta la sua
forza, con ogni stilla di energia, per non essere risucchiato dalla Bocca
dell’Abisso, per non porre fine alla sua vita. Che fosse perché davvero voleva
continuare a vivere e a lottare, o solo per non dargliela vinta neppure una
volta, il Primo Forcide rimase impressionato dalla
tenacia del giovane, sulla cui armatura si stavano aprendo crepe sempre più
profonde.
“Abbandona ogni resistenza,
Ascanio, e accetta l’oblio cui sei destinato!!!”
“Io… a
ben altro sono destinato!!!” –Ruggì il Cavaliere delle Stelle. –“E se hai
seguito le mie gesta, studiando la mia vita, lo saprai bene anche tu!!! I miei
avi lottarono per dare speranza al popolo di Britannia, all’epoca invaso dai
sassoni e dagli juti; i miei compagni combattono con
vigore in Egitto, in Grecia e ad Asgard, in quest’ultima guerra per cui a lungo
il mio maestro mi ha addestrato, con la benedizione di Zeus e dei druidi di
Avalon! Potrei rinunciare così facilmente?”
“E allora muori, maledetto
testardo!!!” –Chiosò Tiamat, portando al massimo la forza d’attrazione del buco
nero e strappando un gemito ad Ascanio, le cui braccia parvero torcersi
all’interno, piegate da un così devastante potere.
“Muori tu, invece!!!” –Intervenne
una terza voce, costringendo il Forcide a guardare
alle spalle dell’antico compagno, osservando Sirio, ripresosi, inginocchiato a
terra, il pugno carico di lucente energia. Con rabbia, il Cavaliere di Atena lo
sbatté nel suolo, infondendovi il suo caldo cosmo, che subito sbucò ai piedi di
Tiamat, sollevandolo in cielo, travolto dalla carica di un drago dalle squame
verdastre.
L’impatto fu devastante,
danneggiando in più punti la corazza azzurra e liberando al qual tempo Ascanio
da quel massacrante impegno, facendolo crollare sulle ginocchia, respirando a
fatica.
“Tutto bene?” –Si premurò subito
Sirio, correndo da lui e ricevendo un timido segno d’assenso, proprio mentre
Tiamat si schiantava a qualche metro di distanza.
“Ho capito come possiamo vincerlo…” –Mormorò Ascanio a bassa voce. –“Superandolo in
potenza. Su questo si basa tutto il suo addestramento, sul disperato tentativo
di essere il più forte di tutti, per riscattare l’onta del passato e vedermi ai
suoi piedi! Dobbiamo distruggere la Bocca dell’Abisso saturandola di energia!”
Sirio annuì alle parole del
compagno, pur consapevole di quanto pericolosa fosse quell’impresa, non solo
per l’oro ma anche per l’intero Avaiki, che avrebbe
potuto essere annientato dalla deflagrazione dei loro cosmi portati al
parossismo. Pur tuttavia, convenne, era l’unica strada percorribile, per non
lasciare Tiamat libero di portare ulteriore distruzione.
“Sono con te!” –Si limitò a
chiarire, mentre il Primo Forcide si rialzava,
sputando sangue e denti rotti, maledicendo i due allievi di Libra per la loro
caparbietà.
“Fin troppo a lungo sono stato
clemente con voi! Chissà, forse c’è rimasto un po’ d’affetto in questo mio
cuore colmo di livore! Eh eheh!
Ma ora è tempo di mettere da parte anche quest’ultima reminescenza di passato e
sfoderare il vero potere dell’Abisso Oscuro!” –Ringhiò, espandendo al massimo
la propria aura cosmica, che lo avvolse completamente, permettendo a Sirio e ad
Ascanio di vedere solo una sagoma indistinta, su cui lampeggiavano pallidi
occhi giallognoli. –“Apocalisse oscura,
spazzali via!!! In nome tuo, Anhar!!!”
La tempesta di energia distrusse
tutto quel che incontrò, dirigendosi verso i due Cavalieri, i cui cosmi
rischiaravano le profondità abissali da tanto erano lucenti.
“Dietro di me!!!” –Gridò Sirio,
sollevando il braccio destro e concentrando sullo scudo tutta la propria
energia. Ascanio fece altrettanto, riparandosi alle spalle del compagno e
osservando la bufera nera impattare contro la loro difesa, scivolandole addosso
e perdendosi ai lati, pur continuando a mugghiare furiosa.
Era uno scontro di cosmi di
potenza smisurata e persino Asterios, al centro del
Palazzo di Corallo, faticò nel mantenere solida la cupola protettiva sulla
Conchiglia Occidentale, sottoposta a una pressione mai sopportata prima. Se
fosse stata sola, Hina sarebbe di certo caduta.
“Abbandonate ogni speranza,
incauti eroi, e abbracciate l’oblio dell’abisso!!!” –Imperò Tiamat, continuando
a riversare il proprio cosmo di tenebra su Sirio e Ascanio, che ugualmente
avvampavano nei loro cosmi, in un tripudio di verde, bianco e rosso.
“Mai!!!” –Risposero insieme i due
allievi di Dohko. Per quanto fosse la prima volta che
combattevamo assieme, fianco a fianco, parve loro di essere uniti da una vita,
complici gli stessi insegnamenti, la stessa morale che avevano condiviso in
gioventù. Fu strano, per un momento, immaginare un tocco familiare sulle loro
spalle, la mano di Libra che, sorridendo fiero accanto a loro, li incitava a
lottare ancora.
“E non sei solo, Sirio!!!” –Parlò
una voce all’improvviso, risuonando nell’animo del Cavaliere di Atena, prima
che una luminescenza argentina apparisse vicino a lui, assumendo le forme di un
vecchio amico, circondato da altre sagome evanescenti che Dragone non
conosceva.
“Demetrios!!!” –Lo riconobbe il ragazzo, con gli
occhi umidi al suo ricordo.
“Proprio io, il ragazzo così colmo
di rabbia da riversarla, al pari di Tiamat, verso tutti coloro che lo
circondavano, anche e soprattutto verso coloro che lo amavano! Ma quando la
rabbia e l’odio sono passati, è rimasto il vuoto e un’assenza infinita!” –Sospirò
Demetrios, prima di sorridere all’antico compagno di
addestramento. –“Permettimi di combattere con te! è solo una stilla, lo so bene, il mio cosmo, in un oceano ben
più grande che è il tuo, ma a volte una
goccia può far traboccare un vaso. Vendica il nostro maestro, Sirio! Fallo per
tutti noi, gli allievi di Dohko!”
“Demetrios, io…
sarà un onore averti al nostro fianco!” –Pianse Sirio, mentre le forme
dell’amico si dissolvevano, scivolando in aria e posandosi su di lui, dando
nuovo vigore alle zanne dei Draghi di Cina, che parvero accompagnarsi al
ruggito di una tigre.
“L’onore di combattere tutti assieme! Noi, gli allievi di Dohko!!!” –Esclamarono le altre sagome, i cui nomi Sirio
aveva soltanto udito nei ricordi di Libra. Tenma, XiYan, ZongWu dell’Auriga ed altri Cavalieri vissuti e caduti in
nome di Atena.
Ascanio bruciò al massimo il proprio cosmo, mentre migliaia di draghi
bianchi e rossi danzavano attorno a loro, stupendo persino Tiamat dal maestoso
splendore delle energie da loro prodotte. –“Ruggite, draghi di Albion!!! In nome dei Pendragon e
dei miei avi che vi elessero a loro simbolo! Un simbolo in grado di riunire
tutte le genti di Britannia!”
“Affiancateli, draghi di Cina! Che
le vostre zanne possano dilaniare quella cortina di male che vuole scendere
sulla Terra!!!” –Si unì a lui Sirio.
“Non mi avrete!!!” –Comandò
Tiamat, mentre la moltitudine di draghi risaliva l’avversa corrente oscura,
piombando su di lui, costringendolo ad evocare il buco nero. –“Bocca dell’Abisso, inghiottili!!!”
Uno dopo l’altro, i draghi verdi,
bianchi e rossi vennero risucchiati dall’oscura macchia, ma erano così tanti,
così grandi e potenti che dovettero accalcarsi di fronte all’ingresso
nell’abisso, sbattendo l’uno sull’altro, contorcendosi, annodandosi, mentre
sempre nuovi ne arrivavano alle loro spalle, in una ridda che Tiamat presto
capì di non riuscire ad assorbire completamente. Fu allora che Ascanio e Sirio
si scambiarono un’ultima occhiata, prima che il primo annuisse, mettendo tutto
se stesso in quell’attacco, la gloria e la potenza dell’antico casato da cui
discendeva, mentre il secondo balzava in aria, sopra di lui, con il braccio
destro teso al cielo e saturo di energia cosmica.
“Maestro, questo colpo è per voi!
Con l’amore di tutti i vostri allievi!!!” –Esclamò Sirio, calando l’arma in
grado di recidere ogni male. –“Excalibur,
rifulgi!!!”
Il devastante fendente energetico
sfrecciò nella selva di draghi, falciandone alcuni e abbattendosi infine sul
buco nero, proprio al centro di esso. Ci volle un attimo, uno soltanto, prima
che Tiamat si rendesse conto che la Bocca dell’Abisso era stata divisa in due,
da una sottile linea di sfavillante energia che andò espandendosi sempre di
più, annientando la sua difesa ed esponendolo all’assalto della torma di
draghi.
“Aaarghhh!!!”
–Gridò il Primo Forcide, scaraventato indietro, con
una profonda ferita aperta sulla spalla destra, da cui sangue schizzò copioso,
e numerosi tagli e morsi laddove le fauci delle sacre bestie di Albion e di Cina lo avevano raggiunto.
Ricadde a terra in un lago di
sangue, l’armatura azzurra danneggiata e ormai tinta di rosso. Annaspò per
qualche istante, respirando a fatica, la cassa toracica contusa, un polmone
perforato dalla zanna di un drago, finché non riuscì a mettersi in piedi di
nuovo, barcollando e strillando contro i due avversari.
“Come avete fatto?! Come avete
potuto sconfiggermi?! Io sono il più forte! Io sono l’Abisso Oscuro, da cui
nessuno è mai fuggito!!!”
“C’è sempre una prima volta, a
quanto pare!” –Commentò Ascanio, accasciato a terra, fiacco ma soddisfatto.
“Abbiamo avuto un buon maestro!”
–Lo affiancò Sirio, dandogli una pacca su una spalla. –“Ma non tutti ne hanno
saputo trarre i migliori insegnamenti!”
“Per te è finita, Tiamat! Dato che
sei stato allievo di Anhar, forse potrai svelarci qualche segreto su di lui!”
–Esclamò il Comandante dei Cavalieri delle Stelle, rialzandosi a fatica e
iniziando ad avanzare verso di lui.
“L’unico segreto che posso dirti è
che morirete tutti! Da Anhar ho capito
molte cose, ho imparato a servirmi degli altri, chiunque essi fossero,
congiunti, amici o semplici servitori, poiché a nient’altro servono gli esseri
umani se non a prostrarsi di fronte ai loro padroni. È insito, nella razza
umana, essere servili. Eh eheh!”
–Rise, sputando sangue, mentre Ascanio incombeva su di lui. –“Che Forco vinca o cada, che Caos vinca o cada, io resisterò,
come Anhar prima di me. C’è sempre, in fondo, un altro Signore Oscuro a cui
offrire i miei servigi!” –Si liberò svelto della presa dell’antico compagno,
avvolgendosi nel suo cosmo tenebroso e correndo verso una pozza d’acqua interna
della Conchiglia. Ascanio non riuscì a raggiungerlo in tempo che già Tiamat vi
si era gettato dentro, scomparendo poco dopo negli abissi oceanici.
“Non andrà lontano, in quelle condizioni!” –Commentò Sirio, cercando di
rincuorare il compagno.
“Forse!” –Annuì Ascanio. Ma non ne era affatto convinto.
Una dopo l’altra, senza dargli tregua, cadevano sul figlio di Giapeto, scheggiandogli l’armatura, lacerandogli la
coriacea pelle e lasciando ruscellare il prezioso ichor
lungo il suo muscoloso fisico. Per quanto rivestito da uno strato di cosmo che
gli aveva permesso di resistere agli assalti dei Cavalieri di Atena, niente
poté contro la luminescenza dell’arma deicida di cui il Cronide
disponeva, la stessa che uno dei suoi antichi avversari, durante la
Titanomachia, aveva generato, prima di rimuoverla dalla propria memoria.
Il keraunos, la divina folgore sterminatrice,
in grado di piegare persino gli Dei della Seconda Generazione Cosmica.
E proprio una tempesta di fulmini stava martoriando il gigantesco corpo
di Atlante, spingendolo indietro, in una rozza e scoordinata fuga che Zeus si
preoccupò bene di guidare, nel tentativo di condurre il titano nell’unico luogo
del Grande Tempio ampio a sufficienza per accogliere la sua carcassa. Tiresia, Virgo e Mur, comprese le intenzioni del Nume, intervennero in suo
aiuto, materializzandosi, i primi due, in cielo, davanti agli occhi di Atlante,
abbagliandolo con continui lampi di luce, mentre il secondo, dal basso, gli
crivellava le gambe con una pioggia di stelle, affiancato da un Cavaliere
Celeste che non aveva mai visto.
“Lancia di Icaro!” –Tuonò
questi, scatenando, con un rapido movimento del braccio destro, una selva di
lunghe aste energetiche che andarono a conficcarsi in una gamba del titano,
scaricandovi un profluvio di scariche elettriche. Quindi, vedendo che Zeus era
infine riuscito a portarlo a pochi passi dall’ampio anfiteatro, l’uomo
concentrò tutto il proprio cosmo in un unico giavellotto di energia che
scagliò, balzando più in alto che poté, da una parte all’altra delle gambe di
Atlante, trapassandogli i tendini e strappandogli un atroce grido di dolore e
rabbia.
In quel momento il Signore dell’Olimpo bersagliò la sua schiena con una
sventagliata di folgori, riuscendo infine a prostrare l’antico rivale a terra,
osservandolo crollare con le ginocchia al centro dell’Arena dei Tornei, il
massiccio busto che barcollava stanco, puntellandosi con le braccia al suolo.
Osservandolo con una punta di dispiacere, Zeus fluttuò in aria, fino a portarsi
di fronte a lui, invitandolo ad alzare il capo e a guardarlo negli occhi, a
mostrargli tutto l’odio accumulato in secoli di solitudine e apatia. Niente di
diverso, ricordò, da quel che aveva sorretto l’avanzare furioso di Tifone verso
la vetta del Monte Sacro, intrisi entrambi di un viscerale rancore verso gli
Olimpi, la generazione che aveva soppiantato quella dei loro padri. Un rancore
che tali padri avevano fomentato.
“Non sei poi così differente, in fondo!” –Rifletté il Nume, alla cui mente
tornò la tristezza che l’aveva invaso al termine della Grande Guerra, quando
aveva ordinato a Ermes e a Efesto di bruciare il
corpo di Tifone, fine ben più degna di una nuova eterna prigionia. –“Che debba
succedere anche stavolta? Che solo la morte, la fine di tutto, possa darti
pace, Atlante? Perché la tua genia ha riversato così tanto odio nei nostri
confronti? Il mondo è vasto abbastanza per viverci tutti, in armonia, non
credi?”
Atlante non parlò, limitandosi a fissare Zeus con quelle enormi pupille
grigie, che al Dio parvero senza tempo, sollevando infine una mano,
trascinandola a stento verso di lui, le sanguinanti dita alzate al cielo, quasi
a implorare la sua pace, quasi a cercare un cenno d’affetto. Il Signore
dell’Olimpo vide un bagliore in fondo a quello sguardo spento e ritenne fosse
speranza, così si accostò all’enorme mano, sfiorandola con la propria e
lasciando che le loro energie venissero a contatto. Non riconobbe invece il
lampo di vendetta che guizzò negli occhi di Atlante, proprio mentre questi
stringeva Zeus all’interno del pugno, stritolandone il corpo e l’armatura.
Un grido rabbioso proruppe dalla gola del titano, prima di iniziare a
sbattere la mano contro le gradinate dell’arena dei tornei, distruggendole,
deciso a distruggere al qual tempo anche il figlio di Crono, causa principale
della sua millenaria sofferenza.
“Resistete mio Re! Siamo con voi!” –Esclamò allora una candida voce
mentre una figura scintillante piombava su Atlante, avvolta in una fresca
corrente d’aria. –“Spira, Vento di
Levante!!!” –Imperò Euro, dirigendo l’assalto verso il volto del colosso,
accecandolo. Al tempo stesso una raffica di globi di energia acquatica lo
investiva al collo, alla bocca, persino alle narici, liberati da Nikolaos che saltava da un gradone all’altro
dell’anfiteatro, seguito da Toma di Icaro che, sfruttando gli stessi venti di
Euro, balzò in alto, con la lancia energetica stretta in pugno, mirando ad un
occhio di Atlante.
Se ne avvide troppo tardi, il gigantesco guerriero, riuscendo soltanto
a chiudere l’enorme palpebra, che venne trafitta dall’asta di energia,
strappandogli un violento ringhio. Furioso, Atlante mulinò le braccia di fronte
a sé, alla cieca, colpendo Toma ancora in volo e schiantandolo a terra; anche
Euro venne travolto, sbattuto contro il Luogotenente dell’Olimpo e ruzzolando
assieme a lui lungo gli spalti dell’arena, fino a piombare di fronte al tozzo
corpo del titano, che, sia pur ferito, stava tentando di sollevarsi.
“No!!!” –Esclamò allora una cavernosa voce maschile, mentre una cometa
di energia si abbatteva sulla spalla del gigante, facendolo barcollare in
avanti e distruggendo quel che restava della sua cotta protettiva. Una cometa
che presto assunse la forma di un robusto uomo, dal fisico massiccio, che balzò
a terra, afferrando Nikolaos e Euro un attimo prima
che il movimento a spazzare delle braccia di Atlante li investisse, portandoli
in salvo.
“Grazie, divino Eracle!” –Commentò il figlio di Eos, ancora stordito.
Il Signore di Tirinto non disse alcunché, limitandosi
a tornare di nuovo alla carica, proprio mentre due nuove comete lucenti si
schiantavano sull’altra spalla, anticipando l’arrivo anche di Pegasus e di
Atena. Ora, di nuovo riuniti, sugli spalti devastati dell’anfiteatro, i figli
di Zeus e i di lui Cavalieri elaborarono un veloce piano d’attacco, su
suggerimento del paladino di Atena.
“Useremo la vostra lancia, Milady, catalizzandola con tutti i nostri
cosmi!”
Eracle annuì, iniziando ad avvolgere lo Scettro di Nike della propria aura
cosmica. Toma, Nikolaos e Pegasus fecero altrettanto,
mentre Atena scagliava la lancia verso l’alto, sospinta dagli impetuosi venti
di Euro.
“Dike, Philotes,
Nike! Mai come adesso invoco il vostro sostegno, amiche mie!!!” –Mormorò la
Dea.
La repentinità dell’assalto e l’unione di così potenti cosmi fu tale da
impedire ad Atlante di abbozzare qualsiasi difesa, reso anche cieco dal sangue
che gli colava dalla palpebra ferita. Troppo tardi notò la lunga asta dorata
conficcarsi nella sua ruvida pelle, proprio all’altezza della gola, causandogli
un gorgoglio sommesso.
Fu allora che, percependo l’allentare della stretta, Zeus fece
esplodere il suo cosmo, con una detonazione che strappò via frammenti del
guanto e pelle delle dita di Atlante, permettendo al Nume di issarsi nuovamente
in cielo, ferito e con danni vistosi alla corazza, ma più che mai deciso a
debellare per sempre tale minaccia.
“Non mi lasci scelta, discendente di Giapeto!”
–Mormorò il Signore della Folgore, aprendo le mani al cielo, su cui fulmini
argentei iniziarono a danzare, accumulandosi presto in un unico devastante
colpo. –“Cadi, colossale Atlante, sotto l’arma deicida che proprio uno dei
fratelli di tuo padre creò! Cadi sotto la Folgore
Suprema!!!”
Il fulmine schizzò lesto dalle mani di Zeus, raggiungendo lo Scettro di
Nike e usandolo per penetrare dentro il corpo del titano, facendolo avvampare,
gridare di dolore e lacerandogli infine gli organi interni e la coriacea pelle.
Fu con un ultimo schizzo di sangue, con cui la stessa Lancia di Vittoria venne
espulsa, che Atlante morì, crollando giù disteso su un fianco e abbattendo quel
che restava dell’Arena dei Combattimenti.
Toma di Icaro, che si era attardato ad osservare il crollo di quel
gigante, fratello di colui che aveva subito la sua stessa punizione per mano di
Zeus, fu distratto da quei pensieri e, non fosse stato per il rapido balzo di
una figura dai capelli rossicci, sarebbe stato travolto dal marmo delle
distrutte gradinate.
“Grazie!” –Mormorò il Cavaliere Celeste, osservando colei che, con
agilità, era scattata in suo soccorso, portandolo fuori pericolo, sull’altro
lato del piazzale. Era una donna dal fisico atletico, una Sacerdotessa di Atena
a giudicare dalla maschera inespressiva che le copriva il volto, sebbene non
sapesse indicarne l’età, non potendo vederla in faccia.
“Mai distrarsi in battaglia!” –Commentò Castalia, prima di
allontanarsi, diretta verso Atena e gli altri che si erano riuniti poco
distante, di fronte allo sguardo attento di Toma.
“Padre, come ti senti?” –Si premurò subito la Dea della Guerra.
“Stanco, come se il peso dei millenni vissuti fosse appena comparso
sulle mie spalle! Ma non fiacco né arrendevole!” –Precisò Zeus, mentre Eracle
gli si avvicinava, abbracciandolo, felice di vederlo sano e salvo.
“So cosa hai fatto per Pegasus! Ti ringrazio!” –Continuò Atena,
indicando la nuova armatura del suo Primo Cavaliere, ancora più lucente e
coprente della versione precedente.
“Non ringraziarmi, Atena! Vorrei aver fatto di più, quando ancora ce
n’era occasione! Ormai il tempo gioca contro di noi! Crono, nostro antico
rivale, sembra tornato a burlarsi di noi, uomini e Dei, saturando le nostre
orecchie con l’oscuro tintinnio di lancette che nessuno può fermare!”
“Questo è vero! Pur tuttavia possiamo combattere e distruggere
l’infausto orologio che marca la fine del mondo!” –Esclamò Eracle deciso,
sbattendo un pugno nel palmo aperto dell’altra mano, strappando grida di
assenso da parte di Nikolaos, Toma, Pegasus e persino
dal sempre pacato Euro.
Fu in quel momento che la Nave di Argo ricomparve, ammarrando a breve
distanza, prima che Neottolemo ne balzasse fuori,
presto raggiunto anche da Mur, Virgo
e Tiresia, lieti di sapere i compagni ancora vivi.
“Che ne è dei soldati e dei feriti, Neottolemo?”
–Domandò Eracle.
“Sono al sicuro! Al promontorio della Prigione di Urano. Vi sono molte
grotte naturali ove i fedeli di Atena hanno trovato rifugio, per curare le loro
lesioni!”
“E ora cosa facciamo? Sento aure cosmiche espandersi continuamente, in
luoghi lontani da qui! Cristal, Sirio, Phoenix e
Andromeda hanno bisogno di me!” –Interloquì Pegasus, trovando Virgo concorde.
“Percepisco scontri ancora in atto ad Asgard, in Egitto e… in un regno lontano, in abissi oceanici! Nel primo di
questi, in particolare, l’oscurità è forte! Molto forte!”
“Allora è là che mi recherò, a difendere la cittadella di Asgard!
Milady, volete venire con me?” –Dichiarò il Cavaliere dello Zodiaco, cui Atena
rispose con un sorriso sentito, prima di afferrargli la mano e lasciare che i
loro cosmi entrassero in sincronia.
“Verrò con voi!” –Si unì a loro Eracle, subito sostenuto dal Signore
dell’Olimpo.
“Noi invece porteremo aiuto ai combattenti egizi!” –Precisò Nikolaos, ricevendo uno sguardo di assenso da parte di
Euro. Quindi, mentre tutti si preparavano per le loro nuove destinazioni, si
avvicinò a Castalia, scambiando qualche parola con la donna che amava, la donna
che sentiva di amare da secoli, quasi avessero vissuto già un’altra vita in
passato. –“Come ti senti? Non affaticarti! Aspettami, quando l’ombra finirà,
quando questa giornata sarà passata, ci siederemo ai piedi dell’Olimpo, sotto
l’albero dove i miei genitori si dichiararono amore eterno, osservando sorgere
il sole, la prima alba del nuovo mondo!”
La Sacerdotessa di Atena annuì, sorridendo sotto la maschera, prima di
ricambiare l’abbraccio del Cavaliere Celeste. Nel farlo, nel sollevare le
braccia attorno alle sue spalle, qualcosa tintinnò, uno strano pendaglio che
portava legato al polso. Nessuno, tranne Toma di Icaro, lo notò.
***
Il diversivo ha funzionato alla
perfezione, si disse Reidar,
osservando gli arcieri di Asgard incoccare e tirare nuove frecce verso la
boscaglia che si apriva di fronte alle mura esterne della cittadella. Soldati
in armature oscure, armati di lance in grado di sprigionare raggi di energia,
in groppa a feroci lupi, grossi come bisonti, e per di più corazzati, avevano
subito attirato l’attenzione delle guardie, portandole a concentrare sulla via
principale il grosso delle loro difese. Il Nefario
dei Warg era stato chiaro con i sottoposti: dovevano
logorare il nemico, fargli credere di essere in procinto di assaltare in massa
il Cancello dei Grifoni, lasciandosi individuare di tanto in tanto e
approfittandone per sferrare limitate offensive alle mura. In questo modo lui
avrebbe avuto tutto il tempo per entrare dentro la cittadella e fare quel che
doveva.
“Non mi hai ancora detto perché vuoi così disperatamente raggiungere la
sala del trono!” –Commentò una voce atona, distraendo Reidar dai suoi pensieri.
“Sschh! Fai silenzio, stupido! Vuoi farci
scoprire? Non sappiamo se vi sono altri guerrieri dotati di cosmo all’interno
della fortezza!”
“Le mie nebbie potrebbero distrarre i loro sensi il tempo sufficiente
per farci entrare, in tal caso!” –Precisò l’altro, continuando a seguire il
parigrado sul limitare della foresta, giungendo in fretta al versante
occidentale della roccaforte, in parte rivolto sul mare ghiacciato. Là, come
notarono, la sorveglianza era più scarsa, ulteriormente ridotta dal diversivo
messo in atto, e poterono raggiungere non visti la sporgenza rocciosa sotto il
canale di scolo, di cui, Reidar ben lo sapeva, potevano servirsi per entrare
all’interno della cittadella.
Glielo aveva detto fin dall’inizio, a Duppy,
qual era il suo piano, che non prevedeva morire in massa di fronte alle porte
di una cittadella che, senza l’aiuto dei Progenitori, di certo non sarebbero
riusciti ad espugnare. E l’altro aveva annuito, intrigato dall’intraprendenza
del Nefario dei Warg, che
sapeva muoversi in quelle terre con la sicurezza di chi a lungo vi aveva
vissuto. Fino al giorno della vergogna!
Ringhiò, tenendo a freno l’ira, issandosi su fino alla grande grata che
chiudeva il canale di scolo, strattonandola poi con forza e spingendola dentro,
in modo da poter entrare nel passaggio segreto. Duppy
fu subito dietro di lui, seguendolo nel tortuoso labirinto sotterraneo della
fortezza, fino ad un ampio cortile interno, non distante, da quel che Reidar
ricordava, dagli ambienti destinati agli inservienti. Contrariamente a quanto
si aspettasse, però, le cucine e i locali di servizio erano affollate di gente,
sia servitori della famiglia reale che gente comune, che offriva la propria
arte in cambio di un pasto caldo. Stupido!
Si disse il Warg.
Avrei dovuto pensarci che tutto il popolo sarebbe stato riunito a palazzo! Vabeh, meglio così, saranno in molti ad assistere alla
decapitazione della loro regina e poi inzupperò la sua chioma bionda nella loro
sbobba, forzandoli a mangiare! Sì, anche quei bastardi che mi hanno dimenticato
in fretta, soppiantandomi con altri idoli, pagheranno!
Duppy gli batté sulla spalla, annunciandogli la propria idea, sorprendendo
di nuovo Reidar per l’astuzia che quel Nefario stava
dimostrando. Non solo aveva ingannato i due guerrieri nella foresta dei Megres, con quelle illusioni, ma era riuscito persino a
disorientare il Principe Alexer. Così, avvolti nelle sue nebbie, entrarono nei
locali di servizio, mascherandosi alle altre persone, che in loro videro
soltanto due vecchi stanchi, dalla pelle rugosa, infagottati in abiti logori.
Sogghignando, Reidar fece strada verso la parte alta del palazzo dove sapeva
trovarsi il Salone del Fuoco. È fatta! Flare di Polaris, vengo a
prendere la tua testa!
***
Castalia sedeva sulla gradinata distrutta dell’arena dei combattimenti,
nello stesso posto in cui, quella mattina, aveva ascoltato gli Angeli parlare
dell’ultima ombra. Quell’ombra che già aveva inghiottito il Santuario di Atena.
Sospirando sconsolata, fece per rialzarsi, per tornare ad aiutare Yulij e Kama con i feriti. Esitò un momento, lasciando che
la brezza della sera le rinfrescasse il volto stanco, chiudendo gli occhi e
pensando a Nikolaos, a Pegasus, ad Atena, ai compagni
che erano andati ad Asgard a combattere. Se ne erano andati quasi tutti, a parte
i malridotti Cavalieri di Bronzo, in quel frangente di ben poca utilità; anche Tisifone era lontana, a guerreggiare in un regno di cui
l’Aquila aveva sentito parlare solo in lontane leggende. Chiudendo la mano
destra a pugno, mormorò una preghiera per tutti i Cavalieri di Atena, e non
solo, sperando di rivederli quanto prima, quindi si mosse, recuperando la
maschera appoggiata sul gradone e incamminandosi verso l’infermeria, fermandosi
all’improvviso.
Un uomo era appena apparso davanti a lei. O forse la stava osservando
già da qualche minuto?
D’istinto, la Sacerdotessa di Atena fece un balzo indietro, spostando
la testa di lato, di modo che i capelli le nascondessero il volto. Per quanto
la Dea avesse abrogato quella vetusta regola di scelta tra amore e morte, in
lei il senso dell’onore albergava intenso e non intendeva venir meno al
giuramento pronunciato al momento dell’investitura.
“Che fai qua?!” –Esclamò subito, fissando di sbieco l’uomo in armatura
turchese, il Cavaliere Celeste che non aveva mai visto finora. –“Credevo tu
avessi seguito Zeus ad Asgard!”
“Stavo per andarmene… ma prima volevo parlare
con te!” –Commentò questi, avvicinandosi. –“C’è una cosa che credo di aver
visto, una cosa che appartiene a qualcuno che ho caro!”
“Stai lontano, ti prego! Non avvicinarti!” –Disse Castalia, ma ormai
l’uomo le era di fronte e le aveva già afferrato il braccio destro, con cui
stava tentando di rimettersi la maschera in fretta e furia. Glielo torse
delicatamente, lasciando cadere tale protezione e strappandole un tintinnio ben
noto.
Sorrise, il Cavaliere di Zeus, osservando il pendaglio legato al polso
della donna.
“Chi te lo ha dato? È tuo?”
Castalia sulle prime non capì, avendo ancora il viso rivolto in
tutt’altra direzione, quindi, vedendo che l’uomo non accennava ad allontanarsi,
spostò lentamente lo sguardo, fino ad incrociare il suo. Fu un attimo, ma bastò
alla Sacerdotessa per recuperare consapevolezza di sé, divincolandosi dalla sua
presa e saltando alle sue spalle, mettendogli un braccio attorno al collo.
“Perché vuoi saperlo? Chi sei tu? Come mai non ti ho mai visto
sull’Olimpo?!”
“Eh eh eh…” –Rise l’uomo, colpito dalla
prontezza del Cavaliere di Atena, che lo strattonò ancora per qualche istante,
finché non sollevò il braccio destro a sua volta, rivelando quel che portava in
un incavo dell’armatura.
Un ciondolo identico a quello di Castalia.
“Ma… come?!”
“Lo riconosci?!” –A quella domanda la Sacerdotessa lasciò la presa,
rimanendo con lo sguardo vacuo per qualche istante, mentre Toma si voltava e le
metteva le mani sulle spalle, costringendola a guardarlo in faccia. –“Se così
è, allora devi riconoscere anche me, sorella!”
Castalia non rispose, imbarazzata e tormentata da quell’uomo che fino a
poco prima non conosceva nemmeno e che adesso pretendeva di essere suo
fratello. Il fratello che aveva perduto anni addietro.
“Menti!!!” –Gridò, recuperando la maschera e allontanandosi di corsa.
–“Mio fratello è morto! Non osare giocare con i miei ricordi, non permetterti
di infangare il suo nome! Mio fratello è caduto in Egitto, in missione per il
Grande Sacerdote!”
“È questo che ti hanno raccontato? È questo che il Santuario ha
inventato per giustificare la mia assenza?!” –Mormorò il Cavaliere Celeste,
spostandosi alla velocità della luce e riapparendo di fronte a Castalia. –“Umpf, forse una scusa che Arles
trovò per nascondere la verità! Per impedire che altri seguissero la mia
strada, la strada dell’ambizione, desiderando sempre qualcosa di più alto, di
più grande, di migliore! Non sono morto, Castalia, semplicemente abbandonai
l’addestramento per diventare un Cavaliere di Zeus! Perché servire Atena quando
mi si prospettava la possibilità di servire il Re degli Olimpi?! Eh eheh!”
Quella risata cristallina scosse la Sacerdotessa, portandola ad
avvicinarsi all’uomo, a sfiorargli il volto e a guardarlo fissa negli occhi, in
quelle iridi turchesi in cui così a lungo aveva sperato di specchiarsi di
nuovo.
“Toma…” –Mormorò infine, sforzandosi di
trattenere le lacrime. –“Sei davvero tu?”
“Sì, sorella! Sono io e sono felice di rivederti!”
“Anch’io!” –Commentò Castalia. –“Anch’io!” –Aggiunse, prima di colpirlo
con un veloce schiaffo sulla guancia destra. –“Adesso ho importanti faccende di
cui occuparmi, ma prima di morire in questa guerra sono curiosa di ascoltare le
tue scuse!” –Gli disse, allontanandosi nella sera ateniese.
***
Flare era assisa sul trono che fu di sua sorella, e prima ancora di suo
padre, fissando le fiamme ardere nell’enorme braciere al centro del salone.
Narravano, le antiche cronache della famiglia, che qualche loro antenato fosse
stato in grado di vedere il futuro in quelle fiamme, di vedere lontano. Ma, per
quel che ne sapeva, né Ilda né tantomeno lei avevano mai dimostrato simile
potere, sebbene in quel momento avrebbe dato tutto, anche la sua stessa corona,
pur di conoscere la sorte in cui sarebbe incorsa. Dopo Orion,
Artax e Ilda, avrebbe dovuto perdere anche Cristal?
Quel pensiero le fu intollerabile, spingendola ad alzarsi
all’improvviso e a camminare fino alle grandi vetrate rivolte verso sud, da cui
poteva intravedere le mura esterne di Asgard, su cui regnava grande agitazione,
da quando, così Enji le aveva riferito, un gruppetto
di guerrieri oscuri aveva tentato una sortita contro il cancello principale.
Anche da quella distanza, Flare riuscì a scorgere
l’imponente sagoma di Mani, Ase della Luna, dare
ordine ai soldati e proteggerli con il cosmo dagli assalti che giungevano
sporadici dal basso. Fece per chiamare Enji, per
avere informazioni sull’assedio in corso, quando la porta laterale si aprì di
colpo, stupendola, essendo un passaggio diretto verso le sue stanze. Rimase
ancora più stupita quando vide sua sorella uscir fuori dall’oscurità, vestita
come l’ultima volta in cui l’aveva salutata, in tenuta da battaglia. Sporca,
ferita, con i capelli scarmigliati, ma con lo sguardo colmo di felicità nel
rivederla.
“Ilda!!! Ma come?!” –La ragazza quasi non riusciva a parlare, tanto
contenta e confusa al tempo stesso nel ritrovare colei che credeva perduta tra
i flutti dell’Artico. –“Com’è possibile? Io credevo che tu…Loki…”
“Sono salva, Flare! Sono ancora viva! È un
segno del cielo, non credi?!” –Le disse la sorella, asciugandole le lacrime con
un dito e poi stringendola a sé, in un deciso abbraccio.Ma fu quel contatto a farle percepire che
qualcosa non andava, quel gelo che d’improvviso le si insinuò nel corpo,
spingendola a irrigidirsi e a muovere un passo indietro, per quanto ancora Ilda
la tenesse a sé.
“Flare, sorella mia! Cosa ti succede? Non sei
felice di rivedermi?”
“Ilda…io…”
–Balbettò la fanciulla, non sapendo cosa dire o fare, sconcertata da quel
ritorno che aveva dell’incredibile. Certo, sapeva bene che più volte Cristal e i suoi compagni si erano trovati a un passo dalla
morte, giungendo persino a indugiare sulla Bocca di Ade, ma mai aveva visto una
persona tornare a nuova vita. Fu una giovane voce a toglierla da ogni indugio,
mentre un’agile figura scattava avanti, avventandosi su Ilda con la lama
sfoderata.
“Stai indietro, demone!!!” –Gridò Bard, comparendo davanti a Flare, che venne spinta via dalla sorella, cadendo a terra.
–“State bene, Regina?”
“Io… sì, grazie Bard! Ma cosa succede?!”
“Come cosa succede?! Non vedete il guerriero davanti a voi, Flare?! L’uomo dalle vesti grigie il cui sguardo spiritato
vi fissa come fosse posseduto da un demonio?!” –Esclamò il Capitano della
Guardia, la spada ancora rivolta verso colui che la Regina di Asgard vedeva
come Ilda.
“Bard, io…vedo…
mia sorella!!!”
“Co… come?!” –Balbettò il ragazzo, non
comprendendo le parole della Celebrante, interrotte da continui singhiozzi. Fu
quell’esitazione, che lo portò ad abbassare la lama per un istante, a costargli
cara, venendo travolto dalla carica dell’avversario che lo spinse di lato con
un manrovescio, facendogli perdere la presa sull’arma, prima di sbatterlo a
terra e bloccarlo sotto il suo tacco.
“Ilda, ma cosa stai facendo?!” –Gridò Flare,
correndo verso di lei e afferrandole un braccio. Ma questa subito si scosse,
gettando la Regina di Asgard a terra, a poca distanza dal braciere, le cui
scintille le bruciacchiarono persino il vestito.
“Flare!!!” –Ringhiò subito Bard, dimenandosi
sotto il peso del nemico e riuscendo ad afferrare un pugnale che portava alla cintura,
conficcandoglielo in una gamba. Lo spessore dell’armatura impedì alla lama di
scendere in profondità, limitandosi ad una scheggiatura, ma fu sufficiente per
permettere al giovane Capitano della Guardia di rotolare di lato, recuperare la
spada e rialzarsi. –“Rivelati, mostro! Che inganno è mai questo? Come potete
vedere vostra sorella in quest’uomo, mia Regina?”
“A questa domanda posso rispondere io!” –Esclamò allora una quarta
voce, attirando l’attenzione dei presenti verso la porta laterale da cui un
uomo, rivestito da una scura armatura, era appena apparso, reggendo per il
colletto della veste il consigliere reale. –“A cuccia con la tua padrona, Enji!” –Ringhiò, gettandolo vicino al braciere, la cui luce
permise a Flare di osservarne il volto tumefatto e
sanguinolento. –“E non ci riprovare!”
“Ma tu…sei…
Reidar?!” –Sgranò gli occhi la Regina di Asgard, rimettendosi infine in piedi,
mentre la figura che aveva creduto sua sorella si allontanava, prendendo
posizione a fianco dell’uomo, che Bard e Flare
scrutarono intensamente.
Alto e ben piazzato, possedeva i lineamenti tipici dei popoli del nord
Europa, con lunghi capelli biondi, sfilacciati, che incorniciavano un viso
maschile e due vividi occhi grigi. Ma fu l’armatura che indossava a catalizzare
la loro attenzione, così simile ad una delle sette corazze dell’Orsa Maggiore.
“Precisamente! Questa è la corazza che avrei dovuto vestire o, per
meglio dire, la sua copia oscura, ben più resistente dell’originaria, forgiata
su mia richiesta dal Gran Maestro del Caos!”
“Reidar, che stai facendo? Tu sei uno di noi, un abitante di Asgard! Come puoi sevire Caos?!” –Esclamò Flare,
sconcertata.
“Uno di voi?! Ah, adesso lo sono, dunque? Ma quando si è trattato di
investire i migliori Cavalieri del reame vi eravate forse scordati di me?!”
Bard parve non capire le parole dell’uomo, così Flare
gli spiegò brevemente che Reidar, al pari di Orion e Artax, era un membro della Guardia della Cittadella,
cresciuto e addestrato assieme a loro.
“Vicini ma non così troppo, alla fine!” –Sibilò il Nefario.
–“In fondo, quando vostra sorella nominò i Cavalieri di Asgard, scelse Orion e Artax, ma non me! E la
corazza che avrei dovuto vestire, quella per cui mi ero così duramente
allenato, dando tutto me stesso, andò a Luxor! A uno scombinato orfano che
aveva passato la vita nella foresta, bruciandosi il cervello abitando con i
lupi!!! Quale onta mi riservaste! Perché?! Perché?!” –Tuonò, avvampando nel
proprio cosmo violaceo. –“Non ero forse meritevole di un’armatura, non ero forse
degno di essere elevato allo stesso rango dei miei compagni? O forse Orion e Artax, favoriti dalle
dame di corte, avevano ben altri modi per compiacere la regina e sua sorella?!”
“Reidar, è stato solo un malinteso! Io… non
so cosa pensasse Ilda in quel momento, non era neppure in sé, prigioniera
dell’Anello del Nibelungo!!!”
“Idiozie! Avrebbe dovuto scegliere me, non quel barbaro sudicio! E tu,
che da bambina avevi giocato con me e Artax, non
muovesti un dito, neppure accennando una mia eventuale candidatura! Non ero
nelle grazie delle sorelle di Polaris? Pfui!!!” –Sputò Reidar rabbioso. –“Io le sgozzo le sorelle
di Polaris!!!”
“Provaci e ti ammazzo!!!” –Gli si parò subito davanti Bard, con la lama
puntata verso di lui.
“Togliti dai piedi ragazzino!” –In un attimo, Reidar gli fu accanto,
torcendogli il braccio e facendogli cadere l’arma, quindi, incurante delle sue
grida di dolore, lo colpì con un calcio al basso ventre, facendolo accasciare,
per poi scagliarlo contro il trono. –“E ora a noi due!”
“A noi tre!” –Precisò una voce, mentre un rumore metallico fece voltare
Reidar giusto in tempo per vedere Enji che, afferrata
la caduta spada del Capitano, la stava brandendo contro di lui, avendogliela
appena sbattuta contro l’elmo. –“Ti sei già dimenticato di me? Atteggiamento
strano per un bambino viziato che frigna per essere stato messo da parte! Vuoi
sapere la verità, Reidar? Pur sotto la prigionia dell’Anello del Nibelungo,
Ilda non ti scelse perché non eri degno! Non eri meritevole di un’Armatura del
Nord, e il fatto che tu ne fossi così ossessionato da riempirti il cuore di
odio e spingerti a ricreare un surrogato della corazza che non sei stato in
grado di conquistare la dice lunga sulle tue debolezze mentali! Non sei degno
di portare il titolo di Cavaliere del Nord!”
“Tu invece sei degno di morire per mia mano, Enji!”
–Ringhiò il Nefario, piombando sul fedele consigliere
e sventrandolo con gli artigli di cui erano dotati i bracciali dell’armatura.
Schizzi di sangue piovvero addosso a Flare, che strillò
impaurita, mentre la spada cadeva dalle mani di Enji
e il suo corpo squartato veniva gettato con una spallata dentro il braciere del
salone. –“Allora, chi vuol essere il prossimo? Tu, giovane soldatino, o
la bella Regina di Polaris? Ah ah ah!”
–Sghignazzò Reidar dei Warg.
Capitolo 32 *** Capitolo trentunesimo: Pericolo dal mare. ***
CAPITOLO
TRENTUNESIMO: PERICOLO DAL MARE.
Mani era in piedi sulle mura di Asgard, dando ordini ai soldati del
nord per controbattere l’offensiva nemica. Shen Gado era rientrato da poco,
aiutato da alcuni Blue Warriors sopravvissuti, e l’aveva informato che la
piazzaforte di Alexer era perduta e che l’Armata delle Tenebre sarebbe giunta a
breve. Non aveva ancora terminato il proprio resoconto che già la prima ondata
di frecce nere si era abbattuta sulle mura merlate, obbligando il Selenite di
Saturno a intervenire personalmente.
Pur tuttavia c’era qualcosa di strano nell’agire dei loro nemici.
Parevano esitare, per quanto Mani non capisse perché. Sentiva chiaramente
l’immensa energia oscura provenire da fondo valle, intenta a battagliare con il
Cigno e con l’Angelo di Aria, come sentiva gli altri scontri in corso nella
foresta di Asgard. Cosa stavano dunque aspettando questi guerrieri? Perché si
limitavano a sporadiche incursioni e non sferravano l’assalto definitivo? Di
certo non era paura a frenarli, non poteva essere con quell’ombra che saturava
il cielo, sostenendo il loro operato e gettando terrore nel cuore dei difensori
della cittadella.
E allora cosa? Si chiese l’Ase della Luna.
La risposta lo raggiunse a breve, sotto forma di una scossa violenta che
fece tremare l’intera fortezza, gettando molti soldati di sotto dalle mura. Una
seconda, ancora più volte, abbatté persino una torretta di guardia, che Mani
vide sgretolarsi in una nube di polvere, resti umani e caos, che subito
serpeggiò tra gli uomini.
“Non cedete!” –Gridò loro, rimettendosi in piedi e cercando di
rincuorare il morale delle guardie. –“Non date al nemico questa soddisfazione!
Vuole vederci sconfitti! Vuole vederci piegati! Vuole vederci impauriti! Ma noi
non lo saremo!”
In cuor suo non sapeva quanto crederci, ma doveva farlo se voleva
tenere alto il morale dei soldati. Quella fortezza a picco sul mare, che Asi e
Vani avevano a lungo chiamato Midgard, era tutto quel che restava di Asgard,
della vera Asgard, e lui era uno degli ultimi della sua stirpe, aveva il dovere
morale di difenderla, anche per coloro che non c’erano più. In quel momento,
mentre il suolo tremava una terza volta e l’Armata delle Tenebre ne
approfittava per lanciarsi in massa contro il Cancello dei Grifoni, per sfondarlo
e penetrare nella cittadella, Mani si ritrovò a pensare a Odino, a Balder, a
Heimdall. Avrebbe voluto avere la loro forza, la loro lucentezza, la loro
perseveranza. Avrebbe voluto impugnare Gjallarhorn e soffiare nel corno d’oro,
per chiamare tutti gli Asi e Vani a raccolta, e con loro i popoli dei nove
mondi, per vedere la lancia di Odino insinuarsi tra i nemici e falcidiarli, per
ammirare la grazia di Balder e Freyr, avvolti nella luce del sole, e per
combattere assieme a Tyr, che di certo sarebbe stato in prima linea contro
qualunque creatura demoniaca.
Ma erano tutti caduti, scomparsi durante il Ragnarök che, dovette
ammettere, non era ancora finito. Non per gli uomini e per i pochi Dei che
ancora resistevano.
Proprio uno di loro attrasse la sua attenzione, il silente figlio di
Odino di cui percepì il cosmo nel piazzale retrostante, mentre si allontanava
dalla cittadella e si dirigeva verso il versante che scendeva a strapiombo sul
mare. Che cosa vuole fare? Non poté
evitare di chiedersi Mani, evitando una freccia nemica. Perché muoversi in quella direzione? Non c’è niente là, solo il mare.
Che pericolo potrebbe mai venire dal…?
Solo allora lo sentì. Un cosmo potente, antico, oscuro. Un cosmo
rimasto celato fino a quel momento, da una maestria che pochi potevano
possedere, di certo un Dio. Digrignando i denti frustrato, il Selenite si
ritrovò a pensare che avrebbe davvero voluto essere Heimdall. Lui non si
sarebbe mai fatto passare un nemico sotto il naso.
***
Vidharr l’aveva sentito avvicinarsi, quel cosmo oscuro e silente. Era
strisciato nelle gelide acque del Mare Artico, confondendosi con le zolle di
ghiaccio che ne ricoprivano la superficie, sebbene di bianco non avesse niente.
Tutt’altro. Era un’ombra, come quelle che avevano marciato su Bifrost poco
tempo addietro, quanto non seppe dirlo neppure lui, incapace di misurare il
tempo da quando Yggdrasill era crollato e i mondi si erano ribaltati. Come
aveva potuto sopravvivere era un mistero anche per lui, che spesso aveva
accompagnato il padre alla fonte di Mimir o a conversare con le Norne, alla
ricerca di un più profondo senso che andasse al di là del fenomenico. Ma pur
con tutta la sua sapienza, pur con tutta la sua dottrina, non riusciva a darsi
una risposta, non sapeva spiegare come fosse stato in grado di sopravvivere al
crollo dei mondi, a differenza dei ben più coriacei Odino e Tyr o del più
meritevole Balder.
Li ricordava ancora con affetto, sebbene i ricordi tendessero a
svanire, facendosi fumose immagini di una vita passata che quasi non sembrava
più sua. Ricordava i sorrisi dello splendente figlio di Odino, in grado di dare
sollievo persino ai morti di Hel con la sua sola presenza. Ricordava l’abilità
guerriera di Tyr, che non aveva esitato a mettere una mano in bocca a Fenrir,
come pegno di fede. E ovviamente ricordava il Padre di Tutti. Allfǫðr, così lo chiamavano i popoli dei nove mondi,
ritenendo che tutti discendessero da lui.
Per lui era semplicemente il padre, con i suoi pregi e difetti. Ma alla fine era stato un buon padre, pronto
a combattere in prima linea per difendere la sua terra e la sua famiglia! Rifletté
Vidharr, camminando a piedi nudi sul freddo piazzale sul retro della cittadella
di Asgard. E lui? Lui era degno di essere suo figlio?
Se l’era chiesto spesso, nel tempo trascorso alla corte di Odino, se
fosse davvero meritevole di esserlo. Sugli altri non aveva mai avuto il minimo
dubbio. A dispetto del suo carattere burbero, Tyr era un abile guerriero, forse
il più forte in battaglia, secondo solo a Odino, ed era altrettanto coraggioso.
Su Balder poi non poteva spendere che buone parole. Balder era l’eroe di cui
Asgard aveva bisogno, il sole che sorgeva ogni volta che l’ombra pareva
minacciarne i confini. Balder era giusto, misericordioso, caritatevole,
dispensatore di sorrisi e gesti accorti. Balder era l’amore nella sua forma più
pura e concreta. E Vidharr? Cos’era Vidharr, che i popoli di Asgard chiamavano
il Silente? Non doveva poi essere granché, agli occhi dei fedeli, se gli
avevano dato quell’appellativo, di certo non in segno di encomio.
In confronto agli epiteti che decantavano la gloria di Odino, lo
splendore di Balder o di Freyr, il suo era davvero un nomignolo. Ma, del resto,
come avrebbero dovuto chiamarlo? Per quale impresa avrebbero dovuto ricordarlo?
Non aveva mai fatto alcunché, se non sedere ai piedi del trono, limitandosi ad
ascoltare il padre e ad annuire. Non aveva partecipato a guerre o a cerche, non
aveva passeggiato per i Nove Mondi dispensando gioia e sorrisi. Non aveva mai
neppure scoccato una freccia, addirittura vietando che nei boscosi terreni ove
risiedeva fossero cacciati animali, togliendo divertimento a Tyr, Ullr e a
molti altri Dei avventurosi. Insomma, motivi per amarlo e ispirare gli scaldi a
cantarne le lodi non ce n’erano. Tutto ciò per cui era noto erano le sue grosse
scarpe, delle belle scarpe in verità, che Frigg gli aveva preparato con l’aiuto
di Idunn dopo essersi lamentata che nessun calzolaio di Asgard avesse calzature
adeguate al piede del figlio. Per una macabra ironia, convenne Vidharr
osservandosi le dita imbrattate di neve e fanghiglia, adesso aveva deciso di
girare scalzo, sentendosi molto più a suo agio nel toccare il gelido suolo, nel
percepirne l’aspra durezza ma anche la resistenza, un freddo che non sapeva di
morte bensì di speranza, un freddo che contribuiva a mantenerlo vivo.
“Per quanto ancora?” –Parlò infine una voce, sorprendendo il figlio di
Odino, che si voltò giusto in tempo per ritrovarsi proprio suo padre di fronte.
“Allfǫðr?!” –Mormorò, sgranando gli occhi.
“È forse il massimo movimento che ho visto compiere al tuo volto,
figlio mio!” –Commentò schietto il Signore degli Asi. –“Imperturbabile maschera
hai offerto al mondo, per troppo lunghi anni, al punto da non destare emozione
alcuna ai popoli su cui abbiamo imperato. La stessa mancanza di emozioni che ti
ha colmato il cuore, spingendoti a chiuderti in te stesso.”
“È stata una forma di difesa, padre! Lo sapete bene!” –Si limitò a
spiegare Vidharr, avanzando verso il genitore ritenuto perduto, il quale, a
quelle parole, annuì.
“Certo, certo! Io lo so! Ma il mondo non ha mai capito! Il mondo ti ha
sempre considerato lontano, rifuggendoti, come tu hai lo hai rifuggito!”
“Io non…” –Tentò di replicare Vidharr, ma Odino lo interruppe alzando
una mano.
“Tu cosa? Non ti sei forse costruito una dimora nella parte più isolata
del regno, una buia casa di legno al centro di una foresta così fitta da
rendere difficoltoso persino ai raggi di sole penetrare al suo interno? Una foresta
in cui neppure Huginn e Muginn amavano svolazzare, percependone il disagio,
l’inquietudine. La solitudine. Una via triste hai scelto di percorrere, figlio
mio, proprio tu, con le tue possibilità! Perché? Perché questa chiusura? Non
c’era dunque amore nella solarità di Balder? Non c’era passione nelle azioni di
Tyr, o solennità nell’epica di Bragi? Gli Dei tuoi fratelli, tuoi compagni,
hanno sempre offerto molto ad Asgard, hanno reso grande la nostra civiltà. Tu,
Vidharr, cosa hai fatto?”
Per qualche secondo il Nume non rispose, limitandosi a fissare il padre
con sguardo inespressivo, dimentico di tutto. Della guerra in corso, delle
scosse che aveva percepito poc’anzi e che lo avevano spinto a scendere dalla
Torre della Solitudine per controllare, persino del cadavere di Odino che i
Cavalieri dello Zodiaco avevano riportato a Midgard, e che lui stesso aveva
cremato, in silenzio, di nascosto da tutti. Già, questa era la sua natura. Una
natura solitaria, introversa, riservata. Un animo che persino a suo padre aveva
faticato a mostrare.
“Perdonami se ti ho deluso! Forse avresti voluto che fossi morto ad
Asgard e che Tyr o Balder fossero qua, adesso!” –Disse infine, sospirando,
strappando un sorriso al vecchio dalla barba grigia che gli stava di fronte.
“Caro ragazzo…” –Gli parlò il Dio con voce soave, avvicinandosi. –“Non
avrei potuto desiderare di meglio. Ti ho osservato, da lontano, consapevole
delle tue capacità e dei tuoi limiti, e proprio questi mi hanno permesso di
essere qui!”
“Ma… come puoi essere qua, padre? Credevo che, con l’avvento di Caos,
tutti gli Dei caduti fossero destinati a… scomparire per sempre…”
“E così è, infatti! Così è, Vidharr!” –Chiosò Odino, fissando il figlio
con sguardo deciso.
Solo allora Vidharr si accorse che il padre aveva entrambi gli occhi.
***
L’inquietudine non gli si addiceva, eppure era un sentimento che Avalon
stava provando in quel momento, come in poche occasioni passate. La prima volta
che ne era stato invaso, quindici anni prima ormai, era la notte in cui Micene
era morto, la seconda, nonché l’ultima, quando Nyx era riapparsa e il varco tra
i mondi si era aperto. In quel momento aveva capito che tutto quello che aveva
fatto fino ad allora stava per essere messo alla prova e che, in nessun caso,
avrebbe potuto tornare indietro. Solo vittoria o sconfitta potevano esistere,
per sé e per la Terra.
Con quel pensiero in mente aveva abbandonato la Biblioteca dei Polaris,
uscendo sul retro della fortezza di Asgard, proprio dove Vidharr si era diretto
poco prima.
“Vado a controllare!” –Aveva esordito il figlio di Odino, rompendo il
silenzio che lo caratterizzava. Un silenzio che ad Avalon, comunque, non
dispiaceva. Da allora erano trascorsi dodici minuti e Vidharr non aveva fatto
ritorno.
Certo, anche le scosse che avevano gettato la roccaforte nel panico
erano terminate e forse il Silente ne aveva davvero rimosso la causa, pur
tuttavia Avalon sentiva ancora un’aura maligna infestare Asgard, un’aura di
provenienza ben più vicina che non la fosca nube che saturava il cielo.
Inoltre, per quanto provasse, non riusciva a mettersi in contatto con il figlio
di Odino, nonostante ne avvertisse ancora la presenza.
C’è qualcosa di strano nel suo
cosmo! Osservò, camminando
nell’ampio piazzale dove Ilda era solita radunare il popolo per rendere omaggio
a Odino. Voltando lo sguardo verso destra, Avalon vide i resti della statua
dell’Ase giacere poco lontano, circondati da una palizzata di legno dentro cui
gli uomini di Alexer avevano lavorato per risistemarla e poter tornare ad
innalzarla un giorno non lontano. Una prospettiva che aveva animato molti di
loro, anche i più pessimisti verso il futuro, e a cui dovevano continuare a
guardare se volevano sopravvivere.
Sopravvivere. Una parola che adesso gli suonava così
lontana. Adesso che l’ombra era arrivata.
“Cos’è che temi davvero?” –Gli disse una voce all’improvviso, rubandolo
ai suoi pensieri, come se i suoi stessi pensieri avessero trovato forma davanti
a sé, in un’anziana sagoma dagli occhi grigi che il tempo pareva non aver
ingobbito.
“Tegel…” –Mormorò Avalon, riconoscendo il Primo Saggio.
“Questo era il mio nome, sebbene non l’abbia usato per molto tempo.”
–Sospirò questi, carezzandosi la folta barba bianca. –“Chi avrebbe dovuto
chiamarmi così, in fondo? Gli amici con cui combattei un tempo contro la Prima
Ombra? Raminghi nel mondo, ci dividemmo e perdemmo, uno dopo l’altro, cadendo
in guerre che non ci appartenevano. Guerre che avevamo fatto di tutto per
scongiurare ma in cui gli Dei moderni, i figli della Prima Generazione Cosmica,
precipitarono il pianeta. Umpf, che ironia, vero? Sopravvivere al Caos per
morire a causa dei suoi figli!”
“Maestro, nessuna morte è stata vana, nessuna di quelle dei Sette
Saggi! Voi siete il nostro esempio, faro a cui guardare ogni volta in cui
crediamo di smarrire la via!”
“Davvero?!” –Soppesò l’Antico, rabbuiandosi per un momento. –“Allora
cosa fai qua? Perché non sei a compiere il tuo dovere? Il tuo vero dovere…”
Avalon non rispose, distogliendo per un momento lo sguardo. Ci aveva
pensato a lungo, a quel che avrebbe dovuto fare, in quella lunga giornata
trascorsa a meditare nella Torre della Solitudine, a espandere la sua aura
sull’intera Asgard in modo da impedire all’Armata delle Tenebre di avanzare.
Ma, alla fine, aveva davvero senso quel suo agire? Quel loro stare in difesa?
Quel loro attendere sempre che gli eventi si verificassero? Come garante
dell’equilibrio, aveva la risposta che necessitava. Pur tuttavia l’equilibrio
si era rotto nel momento in cui il varco tra i mondi si era aperto e Caos era
tornato. Adesso anche lui avrebbe dovuto scegliere dove stare.
Fu con quella consapevolezza che guardò di nuovo il Primo Saggio,
proprio mentre un urlo terribile squarciava le tenebre. Un urlo di donna
proveniente dall’interno del palazzo di Asgard.
Flare! Mormorò d’istinto il Principe Supremo degli
Angeli, riconoscendone il cosmo e muovendo subito un passo in direzione della
fortezza.
Tegel gli si parò davanti ma Avalon capì che non era lui, non poteva
essere lui. Poiché l’Antico non avrebbe mai questionato al riguardo.
“L’Antico avrebbe capito!” –Rifletté, espandendo il proprio cosmo e
spingendo l’anziana sagoma indietro, rischiarando l’intero piazzale con la
propria aura argentea.
“Cosa fai, Avalon, levi la mano sul tuo maestro?” –Parlò il vecchio,
con una voce che all’Angelo suonò ben diversa, strappandogli un sorriso
compiaciuto.
“Pare che il tuo incanto sia finito! Chiunque tu sia palesati!”
–Precisò, volgendogli contro il palmo della mano su cui un globo di energia era
appena apparso. –“Ora!”
Una risata sottile scaturì dalle avvizzite labbra del Primo Saggio, che
si allungarono divenendo una bocca sanguigna, sormontata da avidi occhi di
donna, mentre il suo corpo si rivelava infine per quello che era. Una donna sì,
ma non così aggraziata come Nyx o come Atena. Era grossa, e neppure tanto alta,
e non portava armatura alcuna, soltanto una strana copertura di scaglie
azzurrognole, di qualche animale marino che Avalon non seppe riconoscere. I
capelli, lunghi e mossi, erano di un blu scuro ed erano avvolti al suo corpo,
per nasconderne in parte le forme, per quanto non sembrasse turbata da quella
sua apparente nudità.
“Perché dovrei?!” –Disse infine, rispondendo alla silenziosa domanda
del Signore dell’Isola Sacra. –“I vestiti servono a nascondere le imperfezioni,
a celare qualcosa che non vogliamo mostrare, ma io, che sono in pace con me
stessa, che ho avuto tutto quel che potessi desiderare dalla vita, non ho
niente da nascondere. Io sono così. Sono la Grande Balena, sorella e sposa del
Sommo Forco, Imperatore dei Mari!”
“Ceto, la Possente!” –Mormorò Avalon, ben conoscendo la sua storia.
–“Cosa fai qua? Sento il cosmo del tuo consorte esplodere molto distante da
qui, in un regno ai più sconosciuto!”
“Sconosciuto agli abitanti del mondo di superficie, non a chi ha sempre
vissuto negli oceani! L’ignoranza su ciò che vive e prospera nei mari non è
ammessa alla corte del mio Signore, né sarebbe ammissibile dalla sua eterna
compagna!” –Sorrise Ceto. –“Comunque dici il vero, Signore dell’Isola Sacra! Il
mio posto è a fianco del mio consorte, ma non potevamo disobbedire entrambi!
Gli ordini del Lord Comandante dell’Armata delle Tenebre erano precisi e ad
essi a modo nostro ci siamo attenuti! Forco ed io conquisteremo due regni, ai
poli opposti del mondo, uno sotto l’acqua e uno sopra! Ritengo che basteranno
per far dimenticare la nostra assenza in Egitto, non credi?”
“Quello che credo è che non conquisterai alcun regno, possente Ceto!”
–Si limitò a risponderle Avalon, puntandole contro l’indice della mano destra e
liberando un raggio di energia che esplose ai piedi della donna, costringendola
a balzare indietro. A dispetto della sua stazza, era agile e scattante, e
l’aura che emanava era satura di oscurità, per quanto fosse un’oscurità diversa
da quella di Nyx. Un’oscurità abissale, che solo chi a lungo aveva vissuto in
luoghi dove a fatica la luce del sole era giunta poteva sprigionare. Inoltre,
ponderò l’Angelo concentrando i propri sensi, vi era qualcos’altro in lei,
qualcosa in grado di tingere quell’ombrosa aura cosmica con una sfumatura
originale. Ma cosa?!
L’attacco di Ceto arrivò repentino, forzando il Signore dell’Isola
Sacra a sollevare una barriera di energia a sua difesa, su cui l’assalto
avversario impattò, spingendolo di qualche passo indietro. Qualche passo che
gli permise di notare, nella neve ammassata ai margini del piazzale, due corpi
abbandonati, che prima non aveva visto. Uno era quello del figlio di Odino, i
capelli color nocciola scarmigliati e bagnati di neve, l’altro era quello di
una donna adulta, che Avalon aveva incrociato nei corridoi della fortezza. Una
delle tre Divinità nordiche sopravvissute al Ragnarök.
“Altre prede cadute nella tua trappola, immagino!”
Ceto annuì compiaciuta, spiegando che con loro era stato molto più
semplice, dotati di minori barriere mentali. –“Non c’è voluto molto per
piegarli e convincerli della veridicità di quanto stava accadendo!”
“Cosa stanno vedendo?!” –Chiese Avalon, avvicinandosi ai due e notando
come avessero ancora gli occhi aperti, intenti ad osservare qualcosa, persi nel
cielo cupo di quel tramonto. –“E perché non si svegliano, adesso che stai
combattendo con me?!”
“Non so quale immagine sia apparsa loro di fronte! I miei poteri si
limitano a risvegliare le paure recondite in ogni individuo, dando loro forma
concreta, imprigionando le vittime in un mondo fittizio da cui potranno uscire
solo se sapranno vincerle!”
“Ma certo! Ceto, la perigliosa, la personificazione delle intemperie,
dei pericoli nascosti nel mare e, per estensione, dentro ognuno di noi!”
La compagna di Forco sorrise, prima di espandere il proprio cosmo e
scattare all’attacco. Quell’Avalon non le piaceva. Nemmeno un po’. Non era
avversario da poco se era riuscito a vincere la sua tecnica con facilità, anzi
la Dea aveva persino avuto timore di non essere nemmeno riuscita a
raggiungerlo, di non essere riuscita a scalfire la corazza di integrità che lo
ricopriva, consapevole nel profondo del proprio ruolo. Possibile? Si chiese, abbattendosi con foga contro la barriera
del Signore dell’Isola Sacra. Possibile
che esista un uomo senza paure nascoste? Che uomo sarebbe? Anzi, che Dio
sarebbe, perché di un Dio dovrebbe trattarsi?
La risposta a quella domanda Ceto l’avrebbe avuta a breve, pagando cara
la sua curiosità.
***
Un pugno allo stomaco mise fine al patetico tentativo di Bard di
proteggere Flare, prostrando il ragazzo in ginocchio, con il sangue che gli
imbrattava la bella uniforme della Guardia Reale. Non contento, Reidar lo
afferrò per il collo, tirandolo su e strattonandolo, di fronte allo sguardo
terrorizzato e lacrimoso della Regina di Asgard, che stava implorando il
Nefario di lasciarlo stare.
“È solo un ragazzo! Smettila!!!” –Pianse la fanciulla, avvicinandosi,
ma bastò che Reidar la fissasse con sguardo truce per arrestare i suoi passi.
Bard tentò di approfittare di quel momento per pugnalarlo, ma l’uomo, che si
aspettava quella mossa, aumentò la presa sul suo collo, fino a mozzargli il
fiato, osservandone il volto colorarsi di rosso, l’espressione sconvolta, quasi
stravolta, prima di gettarlo a terra e calciarlo via. –“Bard!!!”
“Non preoccuparti della sua vita, Flare di Polaris, è la tua che
voglio!”
“Bene, dunque…” –Mormorò lei, cercando di calmarsi, per quanto la vista
del cadavere di Enji che bruciava nel braciere e del corpo massacrato di Bard
stesse per farla vomitare. –“Se è me che vuoi, vieni a prendermi, Reidar! Se
pensi che uccidendomi potrai cancellare il passato e le scelte di Ilda, fai
pure, ma non diverrai mai Cavaliere di Asgard! Enji ha detto il vero e le tue
azioni lo dimostrano! Tu non sei degno di niente! Neppure di vedermi piangere!”
“Piccola impertinente!!!” –Sibilò il Nefario, avventandosi su di lei ma
venendo spinto indietro da un’improvvisa esplosione di luce. Quando si rimise
in piedi e levò lo sguardo, Reidar vide Flare avvolta da un’iridescente aura
cosmica, che le ricopriva la pelle, solleticandole il viso e elettrizzandole i
capelli. Nella mano destra, notò, era spuntata la lancia a tre punte che Ilda
utilizzava in battaglia e che adesso aveva donato alla sorella.
“Grazie!” –Si limitò a commentare quest’ultima, capendo che Ilda
continuava a vegliare su di lei e sull’intera Asgard, e lo avrebbe fatto fino
alla fine dei tempi.
“Non ti servirà!!!” –Ringhiò Reidar, scattando avanti. Ma bastò che
Flare torcesse il tridente per liberare un raggio di energia che il Nefario
dovette scansare, gettandosi di lato, sull’altro lato del braciere. Un secondo
raggio distrusse il pavimento di pietra tra i suoi piedi, obbligandolo a
contrattaccare all’istante. –“Artigli
del…”
“Non ce n’è bisogno!!!” –Li interruppe una voce all’improvviso,
costringendo entrambi a voltarsi verso il trono, vicino al quale una limpida
figura era appena comparsa. Stanco e ferito, ma con la stessa luce di speranza
negli occhi che lei vi aveva visto la prima volta in cui si erano incontrati,
nelle segrete del palazzo, Cristal il Cigno indossava la sua Armatura Divina e
si stava avvicinando a Flare a braccia aperte. –“Mia adorata…”
“Cr… Cristal?!” –Balbettò lei, stordita. –“Come puoi essere qui?!” –La
stessa domanda lampò nella mente di Reidar, che fu però più lesto a reagire,
guardando oltre la bianca figura e non trovando più nessuno. –“No! Stai
indietro!!! Non puoi essere tu!!!” –Si riprese la Regina di Asgard, puntandogli
contro la lancia, per quanto solo quel gesto le costasse in termini di
subbuglio interiore.
“E in effetti non è lui!” –Ghignò allora Reidar, balzato alle spalle
della donna, torcendole il braccio e facendole cadere l’arma, prima di
sbatterla contro la parete a vetri, schiacciandole la faccia contro la
finestra. –“È il mio amico Duppy! Tu sai cos’è un Duppy, vero, Flare? Come, la
vostra fornitissima biblioteca, in cui tu e capelli d’oro-Artax vi
rinchiudevate nei momenti di intimità non te lo ha spiegato? Nel folklore della
lontana Giamaica è uno spirito malevolo. Per me è un buon alleato, in grado di
generare illusioni nelle menti nei nemici, mostrando loro persone o oggetti
fasulli! È così che mi ha fatto arrivare fin qua! A buon rendere, amico!” –Ghignò
il Nefario dei Warg, spostando i capelli di Flare all’indietro, carezzandole il
collo con gli artigli disposti sul bracciale della propria corazza e aprendole
un taglio. –“Che delusione! Credevo tu avessi sangue blu! Pazienza, mi
accontenterò di questo banalissimo rosso! Addio, Regina di Asgard dalla corta
vita!” –Aggiunse, muovendo il braccio per squartarle in ventre, ma bastò che
Flare urlasse per spingerlo indietro.
Fu un urlo terribile, carico di tutta l’angoscia provata fino ad
allora, del dolore per la perdita dei propri cari, del timore per chi ancora
avrebbe dovuto proteggere, della colpa per non sentirsi in grado, ma
soprattutto fu un urlo carico d’amore per il prossimo, un sentimento che Reidar
non conosceva e da cui venne sopraffatto, gettato a terra, travolto da
un’improvvisa onda di cosmo. Tutti nella fortezza di Asgard sentirono esplodere
il cosmo di Flare, e anche più in basso, tra le rovine del Palazzo di Alexer,
Cristal sollevò il capo, percependo una fitta al cuore.
I vetri del Salone del Fuoco andarono in frantumi, travolgendo Reidar e
ferendogli il volto, mentre le fiamme del braciere si innalzarono alte,
avvolgendosi a spirale attorno al falso Cavaliere del Cigno, obbligandolo ad
allontanarsi, recuperando al qual tempo il suo vero aspetto. Durò solo un
minuto e alla fine Flare si accasciò esausta contro la parete, respirando a
fatica, prima di guardarsi attorno inorridita da quel che aveva fatto, da un
potere che non aveva mai esercitato.
Fu Duppy il primo a rialzarsi, tenendosi la testa stordito, incapace di
avvertire bene i suoni. Forse fu per quello che, mentre si incamminava verso
Flare, non udì il lieve passo di Bard, portatosi alle sue spalle, né il sibilo
della lama che si piantava nel suo collo, fuoriuscendo dal gargarozzo. Un
ultimo gorgoglio di sangue e il demone si accasciò a terra, privo di vita.
“Flare!!! State bene?!” –Esclamò il ragazzo, precipitandosi su di lei,
ancora stordita e sconvolta da quanto appena successo. La aiutò a rialzarsi,
dicendole di non preoccuparsi, dicendole che sarebbe andato tutto bene, quindi
la guidò verso l’uscita del salone, da cui avrebbero potuto ricongiungersi a
Mani e al resto delle guardie. Ma non appena raggiunsero il portone,
afferrandone la robusta maniglia, un sibilo li fece voltare, giusto in tempo
per evitare che la lancia dei Polaris si piantasse nella testa di uno dei due,
conficcandosi invece nel legno della porta.
“Dove credete di andare?!” –Ruggì Reidar, rimessosi in piedi. Il volto
era deturpato dalle schegge di vetro, l’armatura un po’ affumicata dalle
fiamme, ma lo spirito di vendetta che l’aveva guidato ad Asgard non si era
ancora sopito. In un attimo fu su di loro, gettando a terra il ragazzo e
tempestandolo di pugni. Un ultimo, con gli artigli bene in vista, gli sfondò la
cassa toracica, facendogli vomitare sangue.
“Bard!!!” –Strillò Flare in lacrime, prima di ricordarsi del tridente
scagliato da Reidar. Lo svelse dal portone, impugnandolo, ma l’uomo fu svelto a
strapparglielo di mano, sbattendola a terra e piantandoglielo proprio tra le
gambe, affondando in un pezzo di pelliccia.
“Muoviti ancora e ti sgozzo come un maiale!” –Le ordinò, fissandola con
occhi ricolmi di odio. Ma quando fece per svellere l’arma, si accorse che una
mano la stava trattenendo, una mano macchiata di sangue. –“Ragazzo, ancora
vivo?” –Lo schernì, osservando il Capitano della Guardia, dall’ormai vitreo
sguardo, ancorarsi al tridente dei Polaris. E non lasciarlo andare. –“E
mollalo, idiota!!!”
Reidar si chinò su di lui, per staccargli il braccio, ma in quel
momento, raccolte tutte le forze che aveva in corpo, fino all’ultima stilla,
Bard si sollevò, colpendolo al mento con un destro diretto, che spinse l’uomo
indietro, facendogli sputare sangue, denti rotti e persino un pezzo di lingua.
Meravigliato, e ormai fuori di sé dall’ira, il Nefario concentrò il cosmo sul
braccio destro, per strappar via la vita da quel fastidioso moccioso, che già
aveva impugnato la lancia di Ilda, puntandola verso di lui.
“In nome del grande Orion!!!” –Tuonò, scattando avanti, il corpo
rivestito di uno strato di luce bianca, che sorprese la stessa Flare. Ma ancor
più la sorprese vedere il tridente sfondare l’armatura del nemico, trafiggerlo
al ventre e sbucare fuori dalla schiena.
Un rivolo di sangue scivolò dalla bocca aperta di Reidar, gli occhi
grigi sgranati per l’incredulità, prima che il suo corpo senza vita crollasse
di lato, con l’arma ancora conficcata nello stomaco. Anche Bard cadde poco
dopo, le lacrime che gli riempivano gli occhi. Lacrime di felicità per aver
tenuto alto il nome del suo maestro.
Piangendo e gridando, Flare fu subito su di lui, girandolo sulla
schiena e tenendogli in alto la testa, sforzandosi di non impazzire. Lo cullò,
gli tenne la mano, gli bagnò il viso di lacrime e alla fine lo lasciò morire,
certa che, qualunque mondo lo avesse accolto, gli avrebbe tributato i giusti
onori.
“Addio, allievo di Orion! Addio, amico mio!” –Pianse l’ormai sola Regina di
Asgard.
Capitolo 33 *** Capitolo trentaduesimo: Demoni di guerra. ***
CAPITOLO
TRENTADUEESIMO: DEMONI DI GUERRA.
“Ikki di Phoenix… Sei dunque arrivato!” –Mormorò Polemos, osservando
l’atletico ragazzo dai capelli blu, appena uscito dalle fiamme che attorniavano
lui e Andrei.
“Mi conosci? Quale onore!” –Rise il giovane, con voce sprezzante.
“Conosco tutti voi, Cavalieri dello Zodiaco, e le vostre tecniche e già
ti dico che non hai possibilità di vittoria! Dei cinque amici, che tanti Dei
han vinto in questi anni, sei il meno adatto ad affrontarmi! Tu e il cavallino
rampante dall’incandescente cosmo non avete speranza alcuna! Pessima scelta di
fronte la tua! Avresti fatto meglio a restare ad Atene, chissà che i tuoi
muscoli non potessero sostenere il poderoso tacco di Atlante! Ah ah ah!”
“Vedremo se sarai tu in grado di resistere all’uccello infuocato!”
–Esclamò Phoenix, scattando avanti, il pugno già avvolto di ardente energia.
“Oh, io gli uccelli li caccio e li mangio allo spiedo!” –Ironizzò
Polemos, spostandosi alla destra del Cavaliere, mentre questi piombava su di
lui, lasciando che affondasse nella sua immagine residua. –“Se Vaughn fosse
qua, e non fosse intento a massacrare i Cavalieri delle Stelle, potrebbe
confermartelo! Siamo andati a caccia talvolta! Nel Massiccio Centrale, sulle
alture del Giura e sulle Ardenne! Oh sì, abbiamo girato un po’, dopo aver
lasciato i Pirenei, braccando deliziosa selvaggina! Ma devo ammettere che le
prede migliori si trovano solo sul campo di battaglia!” –Aggiunse, con un
ghigno serafico, prima che Phoenix si voltasse, lanciandosi di nuovo alla
carica.
Ma anche quella volta Polemos fu più rapido, scivolandogli accanto e
venendo soltanto lambito dal suo cosmo infuocato. In un attimo, girandosi, il
Cavaliere notò la sagoma del Lord Comandante moltiplicarsi e circondarlo in
fretta, mentre anche Andrei, poco distante, osservava attento la nuova
strategia del loro avversario.
“Questo gioco di specchi non basterà per sfuggirmi!” –Avvampò Phoenix,
muovendo il braccio destro di lato e scagliando piume metalliche verso ciascuna
immagine, roteando completamente su se stesso.
“Chi ha mai parlato di sfuggirti?!” –Rise Polemos, mentre tutte le
sagome afferravano le piume con la mano destra, stringendole e lasciando che
detonassero, senza esserne minimamente toccate. –“Tutt’altro! Il mio desiderio
è di farmi molto vicino a te! Tanto quanto tu me lo permetterai!” –Continuò,
mentre le immagini del Lord Comandante si incamminavano verso di lui,
muovendosi all’unisono.
“Attento, Phoenix!!! Non farlo avvicinare!!!” –Ringhiò Andrei,
scattando avanti, diretto verso alcune di quelle sagome, ma non ottenendo altro
risultato se non smuovere l’aria e deformarle.
“Sta’ tranquillo!” –Commentò il Cavaliere di Atena, avvampando nel suo
cosmo infuocato, prima di darsi lo slancio e balzare in alto, sbattendo le ali
e scatenando un turbine furibondo di fiamme. –“Ali della Fenice!!!” –Tuonò, portando i pugni avanti, mentre il
vortice ardente devastava ogni cosa, coprendolo persino alla visuale
dell’Angelo.
Quando la furia dell’assalto si placò, Andrei poté vedere il ragazzo di
nuovo in piedi, a pochi passi da lui, il volto madido di sudore, il respiro
affannato, che si guardava attorno alla ricerca del loro avversario.
“Dove sei carogna?!” –Sibilò Phoenix, a denti stretti, prima che una
voce alle sue spalle lo riscuotesse.
“Davvero un bel colpo segreto! Molto scenografico! Spettacolare,
direi!” –Rise Polemos, di fronte al tentativo del Cavaliere di voltarsi, solo
per scoprire di non poter muovere neppure un muscolo, paralizzato da un potere
così forte da impedirgli persino di chiudere le palpebre.
“Phoenix!!!” –Gridò Andrei, lanciandosi verso di lui. Ma bastò che il
Lord Comandante lo fissasse per scaraventarlo addietro, di sotto da una duna di
sabbia, sbellicandosi nell’osservarlo ruzzolare come un masso.
“Così stupidi! Siete proprio… stupidi!” –Disse, scuotendo la testa,
prima di passare accanto al fedele di Atena e fermarsi davanti a lui, di modo
che potesse vederlo in volto. –“Credevo che Dragone ti avesse avvisato, che ti
avesse messo in guardia sullo strapotere con cui l’ho schiacciato, anzi
seppellito sotto una montagna intera! Aveva proprio la tua stessa espressione,
sai? Attonita e frustrata! L’espressione di chi si erge su un confine! Perché
vedi, Cavaliere di Phoenix, questi pochi passi che ci separano, questa torrida
aria che ti alito in faccia, rappresenta il confine tra la tua vita e la morte!
La distanza giusta per mantenerti in vita, se te ne andrai, o per morire, se
deciderai di accorciarla! A te la scelta, ma sii furbo, ragazzo! Sii furbo!”
–Concluse, dandogli un buffetto su una guancia, prima di volgergli le spalle e
allontanarsi ridacchiando.
Non riuscì a fare neppure dieci passi che già sentì una maestosa aria
infuocata sollevarsi dietro di lui, un cosmo che esplose all’istante,
annientando la prigionia mentale e schizzando ovunque nubi di sabbia. Senza
trattenere un ghigno nient’affatto sorpreso, Polemos si voltò di nuovo, mentre
Phoenix già scattava avanti.
“Pugno…”
“Infuocato! Lo so, lo so!” –Esclamò, sollevando le braccia, i palmi
aperti verso di lui, gli stessi palmi su cui il globo di energia rovente si
schiantò, senza sfiorarli, di fronte agli occhi sorpresi del Cavaliere di
Atena, che rimase ad osservare la propria sfera incandescente roteare su se
stessa per qualche secondo, prima che lo sguardo di Polemos le indicasse la
nuova traiettoria.
Fu svelto, Phoenix, a balzare in alto, evitandola, lasciando che
bruciacchiasse solo qualche piuma delle code dell’armatura, prima di compiere
un’agile capriola all’indietro e portarsi a una decina di metri di distanza da
quel nemico temibile e al tempo stesso calmo. Un nemico così diverso da tutti
quelli affrontati fino ad allora. Anche i più potenti, soprattutto loro, erano
violenti, iracondi, agguerriti. Erano dei distruttori, come Surtr, Ares,
Discordia, Thanatos. Polemos no, lui era diverso. O forse non lo era davvero,
considerando come era arrivato fin lì, annientando templi e città, senza
rispetto o pietà per nessuno. Forse voleva soltanto apparire diverso, forse
quella maschera serafica che portava sul volto serviva solo a mascherare
l’orrore del suo cosmo. Un orrore che a Phoenix non parve troppo dissimile da
quello che avevagià provato una volta,
mesi addietro, durante lo scontro alla Sesta Casa.
Nel quarto mondo di Ade. Il mondo dei violenti.
Ricordava ancora le parole di Virgo, le parole che avevano accompagnato
il suo veloce viaggio attraverso la perdizione.
“Il quarto mondo è popolato dalle anime dei
violenti. La loro pena è quella di combattere per l'eternità. Nessuno ne uscirà
mai vincitore, come nessuno è mai uscito vincitore da alcuna guerra.”
È vero! Rifletté il ragazzo, chiudendo le dita della mano a pugno. Nessuno
potrà mai vincere alcuna guerra, poiché sempre un’altra ve ne sarà dopo. E il
fatto che siamo qua, a combattere contro coloro che edificarono il mondo, ne è
la dimostrazione. Fine e inizio non esistono, non come valori assoluti. Sono
solo concetti che servono a rimarcare un periodo del tempo cosmico. Uno dei
tanti. Ma non l’ultimo.
Non l’ultimo! Ripeté, trovando la forza, in quelle poche parole,
per combattere ancora.
“Pugno infuocatooo!!!”
–Gridò, muovendo rapido il braccio e scagliando un assalto diretto al viso di
Polemos, che non ebbe problema a pararlo con il palmo della mano. Ad esso ne
seguì un secondo, poi un terzo e un quarto, una lunga serie di globi di energia
infuocata che Phoenix scagliò contro il suo avversario alternando le braccia,
pur senza mai avvicinarsi, quasi come stesse lottando contro un manichino
invisibile.
“Ti faccio così paura, Cavaliere? Così tanta da ridurre questo scontro
ad una pura e semplice scazzottata?!” –Ironizzò il Lord Comandante. –“Non che
mi dispiaccia, in fondo! Da molto tempo non mi diverto in quel modo! Dai giorni
nelle Ardenne direi!” –Parlò, quasi con se stesso, ricordando le stagioni di
caccia con Chimera nelle foreste europee. –“Sono mancati i nemici, del resto,
per questo tipo di addestramento! Non tutti sono come Vaughn!”
In quel momento, muovendo lesto il braccio destro, Polemos parò
l’ennesima sfera infuocata, preparandosi a fare altrettanto con il sinistro,
quando notò il movimento diverso nelle mani di Phoenix. Non… un pugno di fuoco… Rifletté, comprendendo quel che stava per
fare. Ma prima che potesse agire, due robuste braccia si chiusero attorno al
suo corpo, stringendogli gli arti e impedendogli di muoversi.
“Andrei!!!” –Ringhiò, riconoscendo il cosmo dell’Arconte di Fuoco avvampare
attorno a entrambi, sollevando lingue di energia così incandescenti da scaldare
persino l’Arma.
“Ora, Phoenix!!!” –Disse Andrei, che aveva compreso quel che il
Cavaliere voleva fare. Annuendo, quest’ultimo scagliò il proprio colpo segreto.
“Fantasma diabolico!”
La stilettata arrivò comunque, per quanto Polemos se la aspettasse, per
quanto conoscesse quella tecnica e sapesse come proteggersi, potente a
sufficienza da sollevare blocchi mentali per impedire a chiunque di carpire i
segreti del suo animo. Pur tuttavia fece male, solo per un secondo ma fece
male. Una fitta improvvisa, una scossa che fece vacillare certezze di secoli. E
lo fece imbestialire.
Il suo cosmo esplose repentino, scagliando Andrei indietro, scheggiando
la sua corazza in più punti, crepandola persino, tanto violenta fu quella
detonazione ravvicinata. Anche Phoenix ne venne investito, riuscendo comunque a
rimanere in piedi, incrociando le braccia davanti al viso e riparandosi quanto
poté.
Quando l’onda di energia scemò, il ragazzo sollevò lo sguardo e vide
che Polemos, ancora davanti a lui, fissava il suolo. A parte quella stranezza,
sembrava lo stesso di poco prima, l’Arma ancora intonsa, rivestita di
quell’accesa luce amaranto corroborata dal sangue di tutti gli Dei che aveva
massacrato. Avvicinandosi con circospezione, i pugni pronti a scattare a una
sua minima reazione, Phoenix credette di sentirlo parlare, quasi stesse
mormorando una litania che non riusciva a comprendere per quanto le parole
fossero sempre le stesse.
Quando fu abbastanza vicino, il braccio destro avvolto dal suo
incandescente cosmo, il Cavaliere notò infine cos’è che Polemos stava fissando
intensamente. Una goccia di sangue, un’unica solitaria goccia di sangue
imbrattava la sabbia davanti ai suoi piedi.
“Stolto!” –Gli disse il Lord Comandante, sollevando un braccio di
scatto e fermandolo a mezz’aria, mentre lo stava caricando. –“Non avresti
dovuto esitare!” –Giudicò, chiudendo le dita della mano e godendo dello
scricchiolare sinistro delle giunture metalliche dell’Armatura Divina e delle
ossa che proteggevano. –“Un errore che ti costerà la vita! L’ultima vita della
fenice! Ah ah ah!”
“Co… com’è possibile che il Fantasma Diabolico…” –Rantolò Phoenix,
faticando a metter insieme le parole.
“Non abbia avuto effetto? Beh, l’ha avuto, in parte!” –Spiegò Polemos,
avvicinandosi, sempre tenendo un braccio avanti, con cui manteneva l’avversario
immobilizzato. –“L’avrai visto anche tu! Mi hai ferito! Complimenti, ragazzo!
Sei il primo a riuscirci, da molto tempo! Certo, non fosse stato per
l’intervento di quel fastidioso Angelo di Fuoco avresti fallito, ma così è
andata! E ora dimmi, la tua ultima richiesta, immagino tu voglia sapere cos’è
che stavo mormorando, non è così? Credevi stessi farneticando in preda a chissà
quale delirio scatenato dal tuo colpo?! Ah ah ah! Dovresti aver chiaro ormai
che non esiste tecnica in grado di ferirmi, sia essa fisica o mentale! Che
Demone della Guerra sarei se lasciassi aperta anche solo una porta alla
sconfitta? Se permettessi che esistesse anche solo una chiave per far crollare
l’impenetrabile muraglia che mi circonda?! Tut tut, sei stato stolto a
pensarlo! Stolto come Sirio, Andrei e tutti gli avversari che ho affrontato,
perché vedi, Cavaliere di Phoenix, quella cantilena che ripetevo poc’anzi è
quella che ho ripetuto ogni volta prima di coricarmi in ogni giorno di
quest’interminabile esistenza di cui Caos mi ha fatto dono! È l’elenco di tutti
coloro che ho sconfitto! Un elenco lungo quanto la mia stessa vita, che ho
imparato a ricordare canticchiandolo ogni notte, nel timore di dimenticarmi
qualcuno. Sono così tanti, del resto, coloro che ho vinto, uomini e Dei,
creature di ogni tipo, persino animali la cui bruttezza farebbe inorridire la
Chimera! Senza offesa per Vaughn, s’intende! Ah ah ah!”
“Sei… pazzo…” –Sibilò Phoenix, mentre la morsa mentale di Polemos si
chiudeva sempre di più, per quanto stesse tentando in tutti i modi di opporsi,
bruciando il proprio cosmo, deciso a non lasciarsi andare.
“Non sarei un genio, sennò. Non credi?!” –Rise il Lord Comandante. –“E
sai perché ho ripetuto quella lista poco fa? Per aggiungere il tuo nome alla
fine di essa! Spiacente ma ti avevo avvertito, hai varcato il confine e adesso
non puoi più tornare indietro!”
“Io non voglio farlo! Non voglio tornare indietro!” –Esclamò il
Cavaliere, rilucendo nel proprio cosmo infuocato. –“E quel confine di cui
parli, umpf, se tu mi conoscessi bene sapresti quante volte l’ho varcato! Con
le ali della fenice a sorreggermi!”
“Già, ma cosa ne sarà di te quando ti avrò mozzato le ali? Cosa ne sarà
di te quando avrò spento la tua fiamma, spennato la bestia da cui trai forza e
ucciso tutti coloro che ti ostini a difendere? Perché è questo che farò,
Phoenix! È proprio questo!” –Sogghignò Polemos, sbattendolo con la faccia a
terra, più e più volte, fino a riempirgli la bocca di sabbia. Quindi, non pago,
posò un piede sulla sua schiena, là dove erano affisse le ali metalliche
dell’armatura. –“Dì addio alla tua capacità di volare, Cavaliere! Da oggi
striscerai, ultima fenice!!!” –Aggiunse, sollevando il tacco e calandolo di
colpo, schiantando Phoenix al suolo.
Il seguace di Atena cercò di reagire, di opporsi a quell’immenso potere
che premeva sulla sua schiena, ma non ci riuscì. D’un tratto si sentì piccolo e
insignificante, sovrastato da un cosmo che traeva forza in secoli, millenni
persino, di storia. Un cosmo che pareva attingere alle sorgenti dell’umanità.
Se quel che Sirio gli aveva detto era vero, se Polemos dalla guerra prendeva il
suo potere, Phoenix capì di non poterlo vincere. Non con la forza, non come
aveva sempre sconfitto tutti i suoi avversari, anche quelli più potenti e
insidiosi, perché la guerra era una condizione alla quale non poteva opporsi,
essendone anch’egli parte. Poteva essere giusta, poteva essere necessaria, una
scelta forzata a volte, come lo era stata per suo fratello, ma per loro, che di
Atena erano Cavalieri e che stavano combattendo per salvare l’umanità, era
l’unica strada in quel momento. L’unica via percorribile se non volevano
arrendersi alle tenebre. Che cosa quindi poteva fare? Quali alternative aveva?
Si chiese, mentre il Lord Comandante lo sbatteva di nuovo a terra,
scheggiandogli la splendida armatura e saturando i suoi orecchi con quella
fastidiosa cantilena di morte. Quella lista di Divinità ed eroi di tempi
lontani a cui il Demone della Guerra aveva strappato la vita. Una lista che a
Phoenix parve infinita.
Rabbrividì quando udì nomi egizi, forse quelli dei soldati e dei fedeli
di Amon che Polemos aveva massacrato poco prima. E lui cosa voleva fare? Farsi
aggiungere alla lista? Divenire l’ennesimo trofeo di caccia di un Dio che a
nient’altro anelava se non allo scontro?
No! Ringhiò, avvampando nel proprio cosmo
rossastro. Phoenix non permetterà che
nessun’altro si serva di lui! Ci hanno già provato in passato! Il suo
maestro, Issione, Gemini, l’odio che aveva provato per se stesso dopo la morte
di Esmeralda! Persino Ade aveva giocato con lui, godendo nel vederlo affrontare
suo fratello! Un abominio che la Dea Ate aveva poche ore addietro rinnovato!
Fu allora che gli venne un’intuizione. Ripensò ai suoi scontri recenti,
con Hrmyr ed Eris, al modo in cui il Fantasma Diabolico aveva agito, in grado
persino di superare le loro antiche difese divine. Che abbia fatto altrettanto anche stavolta?
Quei nomi, quella perversa litania mormorata da Polemos non era solo
una macabra lista di morte. Erano voci rivolte a lui, voci che lo stavano
supplicando. Voci che agognavano la salvezza.
Spalancando le ali dell’armatura, spinse Polemos indietro, sollevandosi
di scatto, avvolto in un turbine di fiamme cosmiche, proprio mentre Andrei lo
affiancava di nuovo. Scottati entrambi ma non ancora arsi dal fuoco della
sconfitta.
“Volete ritentare? Siete coraggiosi o stolti a non aver capito che
nessuna vostra tecnica può sconfiggermi!” –Li intimò il Demone della Guerra.
–“Pazienza, aggiungerò i vostri nomi agli antichi Dei sconfitti, con cui
passerete il resto della vostra breve e misera vita a discutere i vostri errori
di strategia! Addi…” –Ma prima che riuscisse a terminare la frase già Phoenix
aveva portato avanti il pugno, liberando di nuovo il proprio colpo segreto,
diretto non verso il volto del Nume bensì verso il ventre, in un punto
indefinito della sua corazza. –“Uh?” –Mormorò Polemos, senza percepire
alcunché. –“Un po’ misero quel raggio di energia per scalfire la prima Ars
Magna della storia, non trovi? Eh eh eh!”
“Per la verità, no! Non lo credo affatto!” –Si limitò a rispondere
Phoenix, avanzando di qualche passo, di fronte agli occhi incuriositi del Lord
Comandante e di Andrei. Quindi, senz’altro aggiungere, si lasciò cadere con le
ginocchia al suolo, chiudendo gli occhi e inspirando profondamente, mentre il
cosmo si espandeva attorno a sé.
“Che… fai, Phoenix?!” –Rantolò l’Angelo di Fuoco, non comprendendo. –“Non
vorrai… arrenderti?!”
“Lascialo fare, Andrei! Non vedi com’è intelligente!” –Rise Polemos.
–“Ha capito quel che Dragone non riusciva ad accettare! La mia indiscussa
superiorità e l’assoluta assenza di armi atte a ferirmi! Molto bene, Phoenix!
Accetto la tua resa!”
Il Cavaliere di Atena non parlò, continuando a rilassare le proprie
membra, lasciando il cosmo libero di fluire attorno a sé, come una silenziosa
marea di fuoco e luce che ormai aveva invaso l’intero campo di battaglia. La
sentirono tutti, amici e nemici, inebriandosi di quell’energia ardente e carica
di vita o temendone la collera, il sollevarsi impetuoso, terrorizzati all’idea
di esserne travolti. La sentirono Jonathan e Reis, che pure l’avevano già
assaporata in altre occasioni, la sentirono Bastet e Horus, consapevoli che
sarebbe potuta appartenere a un Dio del loro pantheon. Una moderna Enneade di
cui Phoenix avrebbe potuto far parte, assieme a Pegasus, Andromeda, Sirio e
Cristal. La sentì Ioria, mentre affrontava i Lestrigoni, e anche Sin,
strappandogli un sorriso compiaciuto. E infine la sentì Amon Ra, che aveva appena
sconfitto l’Angelo Oscuro aiutato da suo figlio e da Marins. La sentirono, e
capirono. Tutti quanti.
“È una follia…” –Mormorò Jonathan, commentando le intenzioni del
ragazzo. Ma Reis, al suo fianco, gli disse che potevano fidarsi. Dovevano
fidarsi. –“Phoenix non rischierebbe la vita di nessuno senza un motivo.”
Anche Ioria gli diede ragione e così fecero i seguaci di Inti, persino
Sin, planando a terra e placando il proprio cosmo offensivo. Uno dopo l’altro,
i membri dell’alleanza divina si lasciarono cadere al suolo, abbandonando i
combattimenti in corso, limitandosi ad espandere i loro cosmi alla ricerca di
una sensazione che da tempo non provavano, una sensazione ai più ignota in quel
mondo di guerre continue.
Pace. Mormorò Andrei, capendo quel che Phoenix
aveva in mente e inginocchiandosi a sua volta, come il resto dei suoi compagni.
“Sì, pace!” –Ripeté il ragazzo, cercando di svuotare sempre più la
mente, l’animo e la propria aura cosmica di qualsivoglia desiderio bellico, di
qualsivoglia istinto di agire, intervenire, combattere o modificare il destino.
“Che diavolo state facendo, idioti?!” –Esclamò Chimera, vedendo che i
suoi avversari parevano aver tutti deposto le armi. Spostò lo sguardo da Karnak
alla riva del Nilo e laddove prima erano in corso scontri cruenti adesso vi
erano solo Cavalieri e soldati inginocchiati, intenti a meditare, e nemici
attoniti che li guardavano esitando. –“Che aspettate voialtri? Hanno scelto di
morire e dategli la morte allora!!!” –Ringhiò, muovendo la lunga coda squamata
e colpendo sul viso la Dea Gatta.
Una volta, due volte, tre, tante quanti gli squarci che le aprì sulla
pelle, godendo del sangue che ne ruscellava fuori. I Lestrigoni, i Nefari,
tutti i guerrieri dell’Armata delle Tenebre fecero altrettanto, dirigendo i
loro attacchi contro il nemico vicino, l’inerme avversario che non reagiva più,
pur non capendo il perché di tale scelta. Fu una barriera dorata a proteggere i
membri dell’alleanza, impedendo alle forze di Caos di infierire su di loro, una
barriera pregna di una luminosa energia che aveva in Karnak il fulcro della sua
estensione.
“Amon Ra!!!” –Sibilò Chimera, stringendo i pugni. Quindi si voltò verso
Polemos, per chiedergli come dovessero comportarsi adesso, notando solo allora
lo sguardo incredulo comparso sul volto del Lord Comandante.
Da un paio minuti infatti, da quando quella sensazione di pace aveva
invaso le sabbiose terre a est del Nilo, il Demone della Guerra pareva essere
stato fiaccato. Forse era solo la stanchezza per il procrastinarsi dello
scontro, eppure per un momento Polemos aveva percepito qualcosa abbandonarlo.
Un attimo dopo la stessa sensazione si era presentata di nuovo, seguita da un
terzo spasimo, dandogli la certezza di non essere solo un’impressione. Bensì verità. Una verità crudele che gli
si rivelò quando la sua splendida armatura, mai sporcata in battaglia, lo
abbandonò.
Di fronte ai suoi occhi stupefatti, la prima Ars Magna, creata e
forgiata nelle fucine italiche all’epoca delle campagne condotte per lo
sterminio degli antichi Dei minori di quei luoghi, si sfaldò, cadendo nella
sabbia, un pezzo dopo l’altro, senza che il Nume potesse in alcun modo
impedirlo. Provò a recuperare gli schinieri, i bracciali, i coprispalla, a
rimetterseli addosso, ma capì che non esisteva modo per tenerli a sé. Avevano
smesso di essere parti di un’armatura, parti di un tutto più grande e maestoso,
divenendo infine solo dei volgari pezzi di metallo, niente più.
“Non… è possibile!!!” –Esclamò inorridito, muovendo per la prima volta
un passo indietro.
“E invece è possibile! Adesso sì!” –Parlò Phoenix, rialzandosi e
fissando Polemos negli occhi. –“Hai perso! E non perché io sono più forte o più
esperto, ma perché io non voglio combatterti!”
“Co… come?!”
“La tua forza, la tua potenza, le tue molteplici vittorie dipendono da
ciò che sei, la personificazione degli istinti primordiali dell’uomo, del suo
istinto allo scontro che lo ha animato fin dalla nascita! E non sarebbe potuto
essere diversamente, considerando che, appena creato, già la sua esistenza fu
macchiata dal sangue versato nella Prima Guerra, quella contro il suo stesso
creatore! Caos! Una razza bastarda la nostra, forse è vero, una razza
maledetta, improntata al conflitto, che di nient’altro è stata capace per
secoli, se non di scontrarsi con i propri simili, dando vita a guerre continue
che hanno insanguinato il pianeta, portandolo ad oggi e donandoti tutta questa
forza! L’armatura che indossavi era come te, forgiata nella guerra. è bastato colpirla, entrare in sintonia
con le anime degli Dei e degli eroi che la impregnavano, spingendoli alla
libertà, a rinunciare ai loro propositi di vendetta e di guerra, per eliminare
quel che la teneva unita!”
“Ma certo! Adesso capisco!” –Intervenne Andrei, affiancando Phoenix.
–“Non con la guerra poteva essere vinto il Demone che la rappresentava! Non con
colpi segreti, strategie o armi, poiché tutte le conosceva, a tutte avrebbe
potuto opporsi. Bensì con qualcosa che in guerra non è mai stato usato,
qualcosa che è l’esatto opposto della guerra! La pace!”
“Esatto! Per questo motivo Polemos, all’inizio del nostro scontro, hai
detto che io e Pegasus eravamo i meno adatti ad affrontarti! Forse è così!
Forse mio fratello avrebbe capito subito come vincerti, provando una repulsione
profonda verso il conflitto!”
“Umpf! Ora ti sopravvaluti, Phoenix! Avrei massacrato Andromeda nello
stesso modo in cui massacrerò te!” –Esclamò il Lord Comandante, volgendogli
contro il palmo della mano destra e liberando un’onda di energia, che si
infranse sulla barriera che Amon aveva eretto a difesa di Phoenix e Andrei.
–“Non sarà un ridicolo velo a impedirmi di colpirti!”
“E invece sì! Lo sarà! Perché non hai tecniche adatte! L’ho sospettato
fin dall’inizio, notando che attaccavi con semplici sfere e onde di energia, mai
con una tecnica! Ti ho chiesto perché ma hai svicolato la domanda, la cui
risposta adesso è chiara! Non hai posseduto un colpo segreto, perché hai sempre
temuto che qualcuno avrebbe potuto trovare il modo per evitarlo o vanificarlo!
Come Signore della Guerra non avresti potuto sopportare una simile
umiliazione!” –Spiegò Andrei, suscitando l’incollerita reazione di Polemos.
“Grrr!!! Hai l’occhio attento, Arconte di Fuoco! Te li strapperò
entrambi!”
“No! Tu non farai più niente ormai!” –Intervenne Phoenix, il cui cosmo
sfavillava imponente attorno a sé, concentrandosi in un turbine di fuoco. –“Sei
mio! Ali della Fenice!!! Sbattete in
nome di colei che, anni addietro, mi insegnò ad aver fede, a guardare la bontà
di un mondo in pace e non il perverso fascino della guerra violenta!”
“Aurora infuocata!!!” –Gli
andò dietro Andrei, unendo la propria energia a quella del ragazzo e generando
un vortice incandescente che risucchiò Polemos al suo interno, strattonandolo,
bruciando le sue vesti e la sua pelle, dilaniandolo con artigli di fiamma, tra
le grida disperate del Lord Comandante. Solo quando la furia del turbine scemò,
l’Armata delle Tenebre poté vedere la carcassa smembrata di colui che li aveva
condotti in Egitto, scaraventata a metri di distanza, sulle rive del Nilo, le
cui acque presto la travolsero, portandola verso la foce.
“C’è una macabra ironia in tutto questo.” –Commentò l’Angelo di Fuoco.
–“Quello stesso fiume, le cui terre Polemos aveva violentato, devastato e
distrutto, si nutre adesso dei suoi avanzi. Non c’è nessuna gloria in guerra,
ragazzo!”
Capitolo 34 *** Capitolo trentatreesimo: Gli ultimi re dei mari. ***
CAPITOLO
TRENTATREESIMO: GLI ULTIMI RE DEI MARI.
Toru non sapeva cosa fare, perché di fatto c’erano troppe cose di cui
avrebbe dovuto occuparsi. Combattere, in primis, contro gli invasori che ancora
tentavano di avanzare verso la Conchiglia Madre, ma anche infondere speranze e
certezze a un popolo che pareva averle smarrite. Lo guardavano tutti, mentre
correva, stanco, ferito e con la bianca corazza macchiata di sangue, per le vie
dell’Avaiki, cercando nei suoi occhi un cenno di
sicurezza, che li confortasse dell’angoscia che li aveva invasi da quando era
iniziato l’attacco. Ma il Comandante degli Areoi non
era mai stato un abile oratore, sempre sfuggendo la retorica e preferendo la
concretezza delle azioni, così non disse niente, mostrando loro il pugno chiuso
e sforzandosi di sorridere, mentre superava il centro abitato, dirigendosi
verso il ponte che conduceva alla Conchiglia Settentrionale, dove uno scontro
era in atto.
Non riuscì a raggiungerlo che venne sbattuto a terra da un improvviso
smottamento, cui seguirono grida e lamenti provenienti dall’intero Avaiki. La grande cupola azzurra resistette, e Toru comprese che un secondo cosmo si era unito a quello di
Hina, un cosmo vasto, potente e al tempo stesso così
legato a quello dell’Areoi del Lactoria.
Chiunque fosse colui che li stava aiutando di certo non era un estraneo, si
disse, rimettendosi in piedi, prima che un secondo smottamento, accompagnato ad
una deflagrazione energetica lo facesse barcollare di nuovo.
“Comandante! Laggiù, guardate!!! Lampi di luce!” –Esclamò il giovane
Istioforo, indicando un punto in lontananza, dove la via maestra portava alla
Conchiglia Occidentale.
“È dove il giovane Ascanio combatte!” –Rifletté Toru,
valutando l’ipotesi di unirsi a lui. –“Ma non è solo! Qualcun altro è
intervenuto in suo soccorso!” –Aggiunse, percependo un secondo, giovane e
fresco cosmo sorreggerlo e coadiuvarlo. –“Se la caveranno!” –Chiosò, mentre la
terra tremava di nuovo. –“Noi dobbiamo occuparci di questo…
Scoprire le cause di questi smottamenti e porvi fine!”
“Se è solo questo che vuoi sapere, Comandante Toru,
allora risposta avrai! Ah ah ah!” –Esclamò una voce
all’improvviso, risuonando per l’intero Avaiki,
costringendo Toru e Kohu a
guardarsi attorno per capire da chi provenisse. Non videro nessuno, ma ne
percepirono la potenza, ne percepirono il vasto cosmo che pareva provenire dal
mare stesso che attorniava la casa del popolo libero. Un cosmo profondo e
vasto, ben diverso da quelli dei Forcidi affrontati
fino a quel momento. Un cosmo di una tale
ampiezza, rifletté l’Areoi dello Squalo Bianco, può appartenere solo a un Dio!
Il suolo tremò di nuovo e ugualmente fecero le Conchiglie ancora in
piedi, forzando Hina e Asterios
a un impegno maggiore per mantenerle integre, mentre ovunque, tra gli Areoi, dilagava il panico, spingendoli a correre in ogni
direzione, affannandosi alla ricerca di un luogo sicuro.
“Fermi! Aspettate! Dobbiamo restare uniti!” –Urlò il giovane Istioforo,
correndo dietro ad alcuni compagni spaventati, non ottenendo altro che sguardi
colmi di terrore. –“Comandante, io…”
“Non è colpa tua, Kohu! Solo mia!” –Chiosò
questi, stringendo i pugni. –“Mia è della mia avventatezza o forse della mia
superbia, sentimento che mi ha spinto a credere che il nostro regno fosse al
sicuro, al di fuori dalle guerre del mondo, riducendo le difese e le nostre
armate! Una politica di cui adesso tutti pagano le conseguenze!”
“Non crucciatevi!” –Lo rincuorò il ragazzo, fissandolo con grandi occhi
neri. –“Siamo ancora qui, insieme, e insieme ne usciremo vivi!”
“Questo è tutto da dimostrare!” –Riprese allora la voce che poc’anzi
aveva parlato, invadendo con il suo cosmo tutte le Conchiglie, sia all’esterno
che all’interno, finché tutta quell’energia non andò concentrandosi in un unico
luogo, oltre il quale non riuscì ad andare.
“Il Palazzo di Corallo!!!” –Gridò Toru,
percependo l’ammassarsi di una potentissima energia a pochi passi dalla Perla
dei Mari. –“Devo tornare indietro! Tu raduna tutti gli Areoi
che trovi, cerca di calmarli e impedisci che si abbandonino a gesti estremi! Ho
fiducia in te, Kohu!” –Intimò il Comandante, prima di
scattare verso il cuore dell’Avaiki.
Proprio di fronte al Palazzo di Corallo una sagoma di puro cosmo era
appena apparsa, stupendo Avatea e Hubal
che stazionavano di fronte all’ingresso. Una sagoma che aveva presto assunto
chiare connotazioni umane, quelle di un uomo adulto, dal fisico corpulento,
rivestito di un’armatura di oricalco ornata da una corona e da uno scettro con
l’impugnatura a conchiglia. Il Selenite della Terra non ebbe bisogno di
chiedergli chi fosse perché ne riconobbe il volto, avendolo già incontrato
secoli addietro.
“Ci rivediamo, Forco!” –Parlò l’anziana Dea,
con voce quasi dispiaciuta.
“Avatea! Dunque sei scampata alle vampe di Ares? Me
ne rallegro, così potrò essere io a porre fine alla tua inutile esistenza,
vendicando l’oltraggio di cui ti macchiasti! Quante volte te lo chiesi, di
unirti a me? Quante volte implorai l’appoggio tuo e del regno che Antalya aveva fondato? Avresti avuto protezione e il tuo
popolo avrebbe conosciuto lo splendore di un’Età dell’Oro che l’oblio in questi
fondali non vi ha mai permesso di raggiungere!!!”
“Umpf, le tue parole non dicono il vero,
figlio di Ponto! Non oltraggio ti offrii, bensì un
rifiuto! Il rifiuto di unirmi a te in quella futile contesa per il dominio
degli oceani che scatenasti contro Nettuno! Il rifiuto di usare il mio popolo,
il popolo libero delle correnti, per scopi bellici, piegandolo alla volontà di
un tiranno che del mare non ha mai compreso la volontà!”
“Oh, e quale sarebbe questa volontà, Avatea?!”
–Ringhiò Forco, sollevando lo scettro e dirigendo un
raggio di energia contro la donna, sbattendola contro le mura esterne del
Palazzo di Corallo. –“Credevo fosse quella del più forte! Colui che trova sempre
il modo di sopravvivere, nonostante tutto, come gli affascinanti organismi che
popolano i fondali oceanici riescono a vivere pur in assenza della luce del
sole!”
“Il tuo fanatismo ti perderà, Forco!”
–Rantolò il Selenite, cercando di rialzarsi. Ma fu il suo compagno a porsi
davanti a lei, facendole cenno di stare indietro, prima di fissare il Dio
invasore con occhi decisi ed espandere il proprio cosmo.
Divertito, Forco fece altrettanto, degnandosi
infine di osservare il nuovo avversario. Un Dio della Luna di certo, proprio
come Avatea, per qualche dimenticato popolo
mesopotamico, dall’aspetto di un uomo in età avanzata, rivestito da una
semplice armatura rossastra, attrezzata con un arco, che già aveva impugnato,
caricandolo di una freccia di energia.
“Fatti avanti dunque! Chiunque tu sia!” –Lo derise, mentre questi
scagliava il dardo, che lampeggiò verso il Nume dei Mari, venendo deviato da
quest’ultimo con una semplice rotazione dello scettro.
“Il suo nome è Hubal!” –Intervenne allora Avatea. –“Antico Dio della Luna dei popoli della penisola
arabica! E, per quanto tu possa rivolgergli domande, egli non ti risponderà,
avendo fatto voto di silenzio!”
“Un muto? Sarà uno scontro assai noioso, allora!” –Sghignazzò Forco. –“Sarà meglio porvi fine all’istante!” –Aggiunse,
liberando un nuovo fascio di luce dallo scettro, che però Hubal
evitò scartando di lato e scagliando lesto una seconda freccia, seguito da una
terza e da altre, in una successione così rapida da obbligare il Dio greco ad
un impegno continuo per non essere raggiunto. –“Parli poco ma hai buona mira!
Peccato tu difetti in potenza! Questi ridicoli fasci di luce di certo non
bastano per piegare me, il Signore dei Mari!” –E lo atterrò con un’onda di
energia, che schiantò Hubal contro la gradinata
esterna del Palazzo di Corallo, poco distante da Avatea.
–“Ecco, rimanete così, di modo che possa travolgervi con un colpo solo!”
“Folle e blasfemo! Non sarai mai re dei mari, né sovrano di alcun regno
che non sia fondato sulla violenza! Osi spargere sangue qui, alle porte del
tempio ove riposano i nostri antenati? Un tale atto non può rimanere impunito!”
–Esclamò la Selenite della Terra, congiungendo i palmi delle mani e generando
un abbagliante maroso di fresca energia acquatica, che passò sopra di lei,
abbattendosi poi su Forco.
O questo, quantomeno, era quel che Avatea
pensava.
Al Nume bastò volgergli contro il palmo di una mano, su cui lampeggiava
intensa la sua aura battagliera, per fermarne l’avanzata, osservandola
divertito scemare ed esaurirsi nel piazzale antistante la reggia della Alii. Quindi, di fronte agli occhi spaventati di Avatea e di Hubal, che nel
frattanto l’aveva affiancata, la marea stessa si sollevò di nuovo, ad un gesto
di Forco, turbinando attorno al Dio e ribollendo
furiosa, prima che questi muovesse il braccio verso i due Seleniti,
scatenandone l’impeto.
“Katathalassa!!!”
–Tuonò, investendo le due anziane Divinità con un attacco così potente da
scagliarle contro il Palazzo di Corallo, abbattendo le pareti esterne e facendo
persino dilagare l’acqua al suo interno. Si concesse un sorriso, colui che si
proclamava Re di tutti gli Oceani, quando intravide una ben nota figura dalla
breccia apertasi nelle mura, una figura stanca e fiaccata dall’uso prolungato
del proprio cosmo, a pochi passi dal motivo per cui Forco
era giunto fin là.
“Hina del Lactoria…
Sto venendo da te!” –Momorò soddisfatto,
incamminandosi verso l’ingresso del cuore dell’Avaiki,
salvo doversi poi voltare di scatto, distratto da un ronzio improvviso, che
anticipò lo sfrecciare di una lunga asta rossastra che andò a piantarsi proprio
di fronte a lui, sprigionando un nugolo di scariche energetiche. –“Ma cosa?!”
–Brontolò il Nume, balzando indietro, proprio mentre due agili figure si
lanciavano su di lui.
“Cobra incantatore!!!”
–Esclamò una delle due, avvolta in un nugolo di scintille violacee. –“Incanto delle sirene!” –Le andò dietro
l’altra, unendo il proprio cosmo a quello della compagna. Ma entrambe furono
respinte, sbattute a terra dalla sola aura cosmica di Forco,
che poté infine guardare in faccia i suoi nuovi avversari.
Due li conosceva già, avendo difeso Nettuno il giorno prima, e due
dovevano essere Areoi, a giudicare dalle loro bianche
armature.
“Ancora vive, fanciulle? Dovete provare un vero disprezzo per la vita
se fate di tutto per gettarla via!” –Le derise il Nume.
“Combattere in difesa di un popolo invaso non è fonte di disprezzo,
bensì di rispetto!” –Parlò allora l’unico uomo del quartetto, i cui tratti
somatici rivelavano la sua provenienza da isole del Pacifico centrale. Quindi,
senz’attendere risposta alcuna, sollevò il braccio destro, richiamando a sé il
giavellotto di corallo che aveva scagliato poc’anzi contro Forco.
–“Quel punto che ho indicato nel terreno, a pochi passi dal primo gradino che conduce
dentro il Palazzo di Corallo, marca il limite che non ti è concesso
oltrepassare, la soglia che non ti permetteremo di varcare! Parola di Maru del Narvalo!”
“E di Tara di Diodon!” –Continuò la donna al
suo fianco, rivestita da una bizzarra armatura dotata di spuntoni simili a
quelli di un istrice.
“Devo prendervi in parola?!” –Ghignò Forco,
muovendo il braccio a spazzare e generando un’onda di energia che investì in
pieno i quattro guerrieri.
Tara tentò di sollevare una cupola protettiva, ma la fretta e la
maggior potenza dell’attacco nemico la mandarono in frantumi all’istante,
gettando tutti loro a terra, con le armature danneggiate.
“Posso andare adesso?!” –Ironizzò il Nume, per poi voltarsi verso il
Palazzo di Cristallo.
“L’unico posto in cui puoi andare è a far compagnia a Kahōʻāliʻi, nell’oltretomba!”
–Ruggì allora una voce maschile, mentre la gigantesca sagoma di uno squalo
bianco piombava su di lui, le fauci aperte e gli affilati denti pronti a
ghermire.
Forco dovette la salvezza ai suoi riflessi e al suo status divino che gli
permisero di innalzare una rapida barriera di cosmo, su cui l’assalto si
infranse, spingendolo comunque indietro, facendogli persino perdere la presa
sullo Scettro dei Mari. Stupito da una simile foga, sollevò lo sguardo per
incrociare quello di chi l’aveva appena assalito, riconoscendo il Comandante
degli Areoi, che poco prima aveva schernito per la
sua inesperienza bellica.
“Alla tattica sostituisci la potenza d’attacco, Toru
dello Squalo Bianco!”
“Come conosci il mio nome?” –Esclamò questi, mentre anche Tara e Maru si rimettevano in piedi, affiancando l’amico.
“Te lo leggo in faccia! Sei il discendente di Afa, primo Squalo Bianco,
il leggendario esploratore capo di questa colonia, che si rifiutò di vivere
sotto il mio dominio! Un personaggio che la vostra malridotta Avatea, qui presente, conosce bene, in quanto a lui si unì
per generare la prole che poi avrebbe guidato questo Avaiki!
Al pari di lei, sarà un piacere prendere la tua vita e punire quell’immeritato
oltraggio!”
“Oltraggio?! Quale oltraggio fece dunque Afa quando scelse la libertà per
il suo popolo, quando scelse di essere devoto solo al mare e alle sue limpide
correnti, ove gli Areoi potevano nuotare e crescere
liberi, privi di ogni costrizione a cui tu e i supposti Dei del Mare li avreste
invece piegati?!”
“Non vi sono altri Dei del Mare!!!” –Ringhiò Forco,
recuperando lo scettro e liberando un violento raggio di energia contro Toru, che questi parò incrociando le braccia davanti al
volto. –“Io solo sono il Signore di tutti gli Oceani! L’ultimo Re dei Mari! Gli
altri erano solo una pallida imitazione della mia potenza!”
“Parole interessanti le tue, Forco! Sia pur
non supportate da fatti concreti!” –Esclamò allora una nuova voce, risuonando
nell’ampio spazio di fronte al Palazzo dei Mari. Una voce che Titis e Tisifone riconobbero
all’istante, così come fece il figlio di Ponto e Gea.
“Ancora tu?!” –Avvampò, mentre una sagoma avvolta in un’aura celeste
appariva di fronte a lui, a pochi passi dagli stanchi Areoi,
che la osservarono interessati, percependone il potente cosmo. Una sagoma che
apparteneva ad un uomo adulto, con una folta barba grigia, rivestito da
un’armatura di scaglie dorate e arancioni e armato di un tridente d’oro.
–“Nettuno!!! Vuoi dunque procrastinare il nostro scontro?”
“Sarà così fintantoché non rinuncerai al tuo progetto di conquista, Forco! Non posso restare a guardare mentre invadi le terre
di amici lontani, la cui sopravvivenza molto mi sta a cuore! E non solo a me,
anche ad altri che in queste profondità oceaniche sono giunti, per ricordare
agli Areoi che non sono soli! Nessuno di noi lo è in
questa lotta contro l’ombra nascente!”
“Amici lontani?! Da quando hai rapporti con gli Avaiki
del Mar dei Coralli, Nettuno? Non mi risulta che alcun Generale degli Abissi vi
sia mai stato addestrato!” –Tuonò Forco, mentre il
rivale scuoteva la testa.
“Non capisci, ed è naturale, perché sullo scontro armato hai incentrato
tutta la tua esistenza, e anch’io l’ho fatto per lungo tempo, prima di capire
che la vita è qualcos’altro! È lo splendore di un mondo ricco e pieno di
felicità, come l’Atlantide su cui regnavo un tempo e che, accecato dalla
cupidigia e dal desiderio di possesso, ho permesso che sprofondasse!” –Parlò
Nettuno, cercando lo sguardo di Titis, che si limitò
a sorridere al suo Dio. –“Sapevo da tempo dell’esistenza di questo regno, con
cui fitti rapporti commerciali ho intessuto secoli addietro, finché scelte
diverse non ci hanno reso lontani. Scelte di guerra, le mie, scelte di pace e
isolamento le loro. Scelte che comunque mai mi hanno portato ad attaccare
questo popolo che di sua sponte aveva deciso di restare fuori dai conflitti del
mondo, cercando un approccio diverso alla serenità. Un approccio che ho loro
molto invidiato. Per questo sono qua, oggi! Per lottare al loro fianco,
rinverdendo un’antica alleanza di pacifica convivenza che nessuna bieca
tirannia potrà piegare!”
“Sentirti parlare di pace mi deprime, Nettuno, e al tempo stesso genera
in me ilarità! Proprio tu che hai mandato a morire tutti i tuoi Generali in
guerre continue e fallimentari contro Atena e gli altri Olimpi! Ah ah ah! Sei uno spasso!” –E lo travolse con un’onda di energia,
cui il Cronide tentò di opporsi con la propria aura
cosmica, sia pur fiaccata dal rito cui aveva partecipato poche ore addietro. Forco lo percepì, sogghignando e reiterando l’attacco. –“Scettro dei Mari! Impala l’avversario!”
–Tuonò, puntando l’arma verso Nettuno, che rispose con la propria lancia
dorata.
“Tridente del Re Pescatore!!!”
–Esclamò, lasciando che le due aste si scontrassero, emettendo scariche di
energia che spinsero indietro tutti coloro che li attorniavano.
“Sei debole, Nettuno! Lo sento chiaramente! Ti sono sempre stato
superiore, e pure ieri ti avrei sconfitto se non fosse stato per quell’attacco
portato a tradimento! E oggi dirimeremo per sempre una controversa questione,
chiarendo a chi spetti il dominio sui mari! Oggi non c’è più nessuno a
salvarti, a meno che il tuo adorato Kevines non sia
nascosto in qualche anfratto di quest’Avaiki
attendendo il momento buono per colpirmi alle spalle!”
“Non… ho bisogno di Julian…”
–Mormorò il Dio greco, affannando nel resistere al cosmo di Forco,
che pareva essersi ristabilito completamente dalle ferite subite.
“Ah no?! A me pare proprio di sì! Sei solo, Nettuno! Come il Re
Pescatore delle leggende che tanto ami! Ma tu non vivrai abbastanza per vedere
una nuova era!”
“Ti sbagli!!!” –Tuonò allora una voce maschile, affiancando il fratello
di Zeus nella lotta. –“Egli non è solo! Nessuno che lotta per il popolo libero
può esserlo, poiché tutti siamo fratelli nelle correnti dei mari!” –Esclamò Toru, avvolto nel proprio bianco cosmo. Anche Tara e Maru si avvicinarono, unendo le loro aure a quella del
Comandante e lasciando che si scontrassero con il cosmo di Forco.
“Siete solo degli illusi!” –Chiosò quest’ultimo, socchiudendo gli occhi
e poi riaprendoli di scatto, scaraventando tutti indietro con un’onda di
energia. –“E non c’è posto per gli illusi e gli sconfitti nel nuovo mondo! Solo
per chi mi giurerà fedeltà!”
“Ti giurerà fedeltà?! Cosa sei diventato, il nuovo governatore del
pianeta per conto di Caos?!” –Rantolò Nettuno, rimettendosi in piedi a fatica,
aiutandosi con il tridente.
“Umpf, che mi importa di Caos! Che faccia
quel che crede, se davvero crede di poter fare qualcosa!” –Rispose Forco, stupendo lo stesso Dio greco. –“Non fare quella
faccia, Nettuno! Davvero pensavi che avrei messo le armate dei mari al servizio
di appena ridestatisi Dei Ancestrali? La loro forza è indubbia, questo non lo
nego, ma cosa hanno di nuovo da offrire? Solo l’ennesima guerra che isterilirà
il mondo emerso, procrastinandosi finché l’ultimo seguace dell’ultimo regno
divino della Terra non sarà piegato. Un tempo piuttosto lungo, non trovi? Un
tempo in cui il mio impero marino potrà prosperare, restaurando antichi fasti
che Dei indegni del loro nome hanno dimenticato.”
“È questo che vuoi? Regnare in eterno su tutti gli oceani? E credi che
Caos te lo permetterà?!”
“Oh, credo di sì, perché gli offrirò un dono che sono certo accetterà! Sai
bene, come me, ciò di cui il Generatore di Mondi è ghiotto!”
“Energia…” –Realizzò Nettuno infine, prima di
spiegare anche agli altri combattenti. –“La Perla dei Mari!”
“Precisamente! Non è solo un centro di ritrovo per fantasmi, ma un
potentissimo contenitore di energia cosmica, di cui le anime di coloro che
hanno lottato e vissuto negli Avaiki sono ancora
intrise! Pensa agli Dei che si sono succeduti, venerati nelle remote isole del
Pacifico? Così tanti che non riusciremmo neppure ad enumerarli tutti! Le loro
aure, e quelle di coloro che li hanno serviti, riposano placide nella Perla dei
Mari ed io le offrirò a Caos, affinché possa nutrirsi della loro energia, come
ha fatto con quella di Dioniso, Ebe, Estia e di tutti gli altri Dei caduti finora!”
“Quale orrore!!!” –Mormorò il Cronide,
trovando gli Areoi concordi.
“Non ti permetteremo di violare in alcun modo il nostro santuario!”
–Ruggì Toru, stringendo i pugni ed espandendo il
proprio cosmo.
“Oh, ma io l’ho già fatto! Ah ah ah!” –Rise Forco, mentre nelle menti di tutti era vivido il ricordo
degli scontri sostenuti fino ad allora contro i Forcidi
e la consapevolezza di quelli ancora in atto. –“E ora, morite!!! KataThalassa!!!”
–Tuonò il Nume, sollevando un maroso di energia acquatica che avanzò imperioso
verso i sei combattenti.
Nettuno intimò alle due guerriere e agli Areoi
di riunirsi dietro di lui, il cui cosmo acceso tentò di frenare l’assalto
nemico, venendo però sconfitto dopo poco. Riuscì solo a crollare sulle
ginocchia, tenendo le braccia alzate, sui cui palmi un corno di conchiglia
dorata brillò all’improvviso. Riconoscendolo, Titis
sorride.
“Corno di Tritone,
difendici!!!” –Esclamò il Dio, mentre buona parte dell’onda di Forco veniva risucchiata all’interno del manufatto.
“Umpf, Tritone! Uno dei tuoi degni compari!”
–Commentò il compagno di Ceto, ricordando uno dei più celebri Generali degli
Abissi. –“Figlio bastardo che ti diede una ninfa marina, possedeva un corno di
conchiglia il cui suono placava le acque in tempesta! Fu musico, combattente ma
anche artigiano, poiché fu lui a forgiare le armature di oricalco, lui che più
di ogni altro ascoltava i consigli di Elmas, anziché ignorarli!”
Nettuno, quasi senza fiato, rimase in ginocchio senza proferir parola,
mentre gli ultimi spruzzi di energia acquatica si esaurivano attorno al mucchio
di combattenti, di fronte al compiaciuto sguardo di Forco,
che adesso sentiva di aver capito tutto.
“Ora so cosa ti ha spinto a tanto! Debole, infiacchito da un rito che
ti ha portato via metà del tuo sangue divino, e il cosmo in esso contenuto,
avresti potuto attendere sull’Olimpo o nascosto in qualche anfratto in cui sei
sempre stato solito rifugiarti, invece hai scelto di scendere in guerra,
proprio qua, negli abissi del Mar dei Coralli! Per espiare le tue colpe, non è
vero, Nettuno Ennosigaeum? Per questo sei qua! Non
per aiutare gli Areoi, non per vincermi, ma per
morire!”
Il fratello di Zeus non rispose, rimettendosi in piedi a fatica,
incurante degli sguardi di Toru e degli altri su di
sé. Che pensassero quel che volevano, sia loro che Forco,
ormai non gli importava più niente. Voleva solo rimediare ad antichi torti, da
lui stesso causati in tempi così antichi che nessuno ne aveva più memoria,
nessuno che non possedesse una memoria divina. Non era stato solo Elmas a
morire quella volta, durante il crollo di Atlantide. Non erano stati solo i
Sette Generali guidati da ArelKevines,
ma tutta la sua vita era stata spazzata via quel giorno, quando l’isola felice
si era inabissata, portando con sé la ninfa marina cui si era unito e il figlio
che gli aveva dato.
Perdonami, Tritone! Mormorò Nettuno, gli occhi pieni di lacrime. Un altro fallimento della mia austera
carriera di Divinità!
Fu un tocco lieve a distrarlo da tristi reminescenze, la mano di Titis della Sirena che si chiuse sulla propria,
infondendogli una stilla del suo misero cosmo e della sua solida
determinazione. Una stretta che lo riscosse, ricordandogli che tutti, in fondo,
avevano perso qualcosa o qualcuno, ma che non esisteva errore senza che non
esistesse anche la possibilità di correggerlo. O di impedire che accadesse di
nuovo.
Nettuno ricambiò il sorriso della sua fedele sostenitrice, voltandosi
poi verso Forco, che era scattato avanti, sollevando
lo Scettro dei Mari e calandolo lesto sul Dio greco, che lo afferrò con
entrambe le mani, riuscendo a fermarlo poco prima che impattasse sul suo volto.
Così, vicini l’uno all’altro, con i cosmi accesi attorno a loro, gli ultimi Re
dei Mari si guardarono con astio, percependo ognuno quel che s’agitava
nell’animo del rivale. Smania, brama di possesso e voglia di vittoria
saturavano il cuore di Forco, mentre quello di
Nettuno era invaso da molti pensieri, soprattutto tristi, per quanto su tutti
brillasse una decisa luce di speranza e di riscatto.
Riscatto, sì! Avvampò, spingendo indietro il Nume
ancestrale e risollevandosi fino a recuperare postura eretta. Il tridente d’oro
tornò nelle sue mani e Nettuno si affrettò a puntarlo verso Forco,
liberando una scarica di energia, ma questi non ebbe difficoltà a pararla
torcendo lo Scettro dei Mari e rimandandogliela indietro, abbattendolo. Quindi,
non pago, piantò l’arma nel terreno, scuotendolo in profondità, come aveva
fatto poco prima, generando una nuova ondata di paura in tutti coloro che
dimoravano nell’Avaiki.
“Maledetto!!! Dobbiamo togliergli lo scettro!!!” –Esclamò Toru, scattando avanti, subito affiancato da Maru e Tara. –“Ci penso io!” –Convenne quest’ultima. –“Voi
datemi solo l’occasione!”
Il Narvalo annuì, impugnando il giavellotto con algida presa e
puntandolo verso il Dio nemico, liberando guizzanti scariche di energia, che
vennero anch’esse parate da una rapida rotazione dello Scettro dei Mari. Alle
Fauci dello Squalo Bianco però Forco non poté opporre
la sua asta, dovendo contrastarle con l’emanazione del suo cosmo che generò una
barriera di energia acquatica contro cui centinaia di predatori possenti
andarono a schiantarsi, uno dopo l’altro, per quanta foga e impegno Toru riversasse nei propri attacchi. Maru,
dal canto suo, tentò di trovare una breccia nella sua difesa, liberando
continui affondi del giavellotto di corallo, che traforarono la barriera di Forco, pur senza riuscire ad abbatterla.
“Arma interessante la tua!” –Ghignò infine il figlio di Ponto, afferrandola e notando come fosse costituita da un
unico ramo di corallo, cresciuto in forma lineare, anziché storta, carico di
una particolare forma di elettricità.
“Una creazione di Tawhiri, antico Areoi della Torpedine, che diede vita ad una coltivazione
di coralli in un lago dove vivevano quei pesci! Ed ecco il risultato!” –Precisò
Maru, ritirando a sé la lunga asta rossa, caricandola
del suo cosmo ardente. –“Ma se vuoi conoscerla da vicino, te ne darò la
possibilità! Lancia del Narvalo!!!”
–Esclamò, scattando avanti, con l’asta rivolta verso la barriera di energia
acquatica, sfondandola e piombando all’interno, a pochi passi da Forco.
“Maru!!!” –Gridò Toru,
sconvolto dalla temerarietà del compagno. E anche Tara, che era rimasta in
silenzio alle sue spalle, osservando attenta le mosse di Forco
per trovarvi una falla, strinse i denti, comprendendo che l’Areoi
lo aveva fatto per lei, per non vederla lottare più.
“Questo è per il popolo libero delle correnti!!!” –Tuonò Maru, caricando con il giavellotto in pugno, cui Forco rispose puntando avanti lo Scettro dei Mari.
Le armi si strusciarono, sfrigolando, mentre la corsa dei due
proseguiva, finché le punte delle due aste non impattarono contro le corazze
avversarie, liberando la loro energia. Accadde tutto in un attimo, più veloce
della luce, e forse solo Nettuno fu in grado di ricostruire i movimenti di
entrambi, prima di essere spinto indietro dal contraccolpo scaturito dallo
scontro dei loro cosmi. La barriera di energia acquatica esplose, scaraventando
lontano Toru e tutti i suoi attacchi, così come Titis e Tisifone. Anche il
fratello di Zeus fu sbattuto a terra, ma riuscì a resistere, piantando il
tridente al suolo e ancorandosi ad esso, lasciando che l’onda luminosa
scemasse.
Quando tornò a vedere, Nettuno osservò Forco
premere una mano contro un foro aperto sulla sua Veste Divina, poco sotto il
cuore, da cui sangue zampillava fuori. Non molto, in verità, ma sufficiente per
generare un ghigno furibondo sul viso del Nume.
A terra, poco distante, giaceva invece il corpo di Maru
del Narvalo, trafitto dallo Scettro dei Mari che gli aveva sfondato la cassa
toracica, spuntando dalla schiena. Gli occhi, ormai spenti, erano rivolti nella
direzione in cui sapeva trovarsi la donna che aveva a lungo amato.
Sospirando, Nettuno cercò la sagoma di Tara di Diodon,
stupendosi di non trovarla laddove Maru stava ancora
guardando. Roteò il cranio più volte, spaziando nel piazzale antistante al
Palazzo di Corallo, senza individuarla, finché non notò una nebbiolina rosacea
attorniare il figlio di Ponto. Una nube satura di
cosmo che presto cinse Forco d’assedio, strappandogli
un colpo di tosse.
“Uh?!” –Mormorò il Nume, ritrovandosi completamente avvolto da quella
strana aura cosmica. –“Tattica bizzarra ma insufficiente! Non ho bisogno di
vedere il mio avversario per scovarlo! Sono un Dio, ragazza, l’hai
dimenticato?!” –Avvampò, scandagliando l’aria attorno per individuarla,
abbandonandosi ad un ghigno divertito quando la trovò. –“Sei mia!!!” –Le disse,
volgendole contro il palmo della mano e scatenando un’onda di energia, che si
limitò a fagocitare l’aria, esaurendosi poi in lontananza, senza raggiungere
nessuno. –“Come?!” –Ma non ebbe modo di chiedersi altro che Forco
sentì due braccia chiudersi attorno al suo corpo, cingendolo in un abbraccio
improvviso. Due braccia che appartenevano a Tara di Diodon.
“Tara!!!” –Esclamò Toru, osservando la scena
da una certa distanza e comprendendo quel che l’amica voleva fare. Anche Titis e Tisifone capirono,
sospirando rattristate, mentre il cosmo dell’Areoi di
Diodon bruciava fino al parossismo.
Le spine retrattili presenti sull’armatura di Tara si erano ormai tutte
sollevate, strusciando con forza contro la corazza divina, senza riuscire a
scalfirla. Ma quelle che si trovavano dove Maru aveva
colpito poco prima affondarono dentro il corpo di Forco,
catalizzando il cosmo dell’Areoi e liberandolo tutto
assieme, in un’unica nociva puntura che rilasciò il veleno accumulato nel corso
degli anni.
“Aaargh!!!” –Gridò il Signore dei Forcidi, lasciando esplodere il proprio cosmo e annientando
Tara di Diodon, scagliandone i resti vicino a quelli
del compagno.
Toru chinò il capo, commosso da tale sacrificio e conscio che le loro anime
già vagavano assieme a quelle degli altri aumakuasnella Perla dei Mari. Un
motivo in più per continuare a lottare e a proteggerla.
Capitolo 35 *** Capitolo trentaquattresimo: La grande balena. ***
CAPITOLO
TRENTAQUATTRESIMO: LA GRANDE BALENA.
La strategia di Ceto non stava funzionando. Aveva vinto, in un breve
lasso di tempo, il figlio di Odino e l’altra Asinna
sopravvissuta al crollo dei mondi, rinchiudendoli in una prigione mentale. Sebbene, dovette ammettere, i due Dei si siano vinti da soli,
sopraffatti da paure recondite che non sono stati in grado di affrontare.
Poi era arrivato Avalon, e il gioco era finito.
Aveva provato lo stesso trucco rivelatosi vittorioso con Vidharr, ma il
Signore dell’Isola Sacra l’aveva scoperto subito, dimostrando di non aver
timore di niente. Era questa la cosa che la infastidiva e al tempo stesso
impensieriva di più, il fatto che per tutta la durata del breve incanto con cui
l’aveva travolto non avesse mai percepito la benché minima paura in lui.
Com’era possibile? Persino gli Dei, in quell’ora più buia, così prossima alla
fine, tremavano terrorizzati di fronte alla perdita della loro immortalità,
della loro eterna giovinezza! Persino i verdi campi dell’Olimpo, che da secoli
vivevano in un’infinita primavera, si stavano isterilendo, al pari delle
Divinità che vi avevano a lungo dimorato tra i fasti e i lussi sfrenati! Come
poteva quell’uomo non avere paura della fine?
E poi, in tutta franchezza, si chiese, venendo spinta indietro
dall’ennesima onda di energia, chi
diavolo è costui? Si definiva il Signore dell’Isola Sacra, sebbene l’isola
su cui regnasse fosse solo una zolla di terra in una regione paludosa della
Britannia occidentale, ove un tempo il mare giungeva ad invadere i campi, lo
stesso mare che le aveva portato informazioni al riguardo, le poche che era
riuscita a carpire. Perché c’era poco da dire, poco da scoprire su un uomo le
cui origini parevano cinte da aloni di nebbia così fitti come quelli che celavano
Avalon al mondo. Era un Angelo, al pari dell’oscura entità che aveva servito
Caos negli ultimi secoli, anticipandone la venuta, ma chi e quando li avesse
generati nessuno sapeva dirlo. Neppure Anhar lo sapeva, limitandosi a sostenere
di essersi risvegliato un giorno, in quel corpo, con quella stessa coscienza.
Ma cosa ci fosse stato prima era un mistero che nessuno aveva ancora svelato.
Nessuno tranne due persone.
“Cometa di Avalon!!!”
–Esclamò l’Angelo di Luce, generando un globo di energia che schizzò verso
Ceto, obbligandola a portare avanti le braccia, i palmi rivolti verso il
nemico, per contenerne l’impatto. Ci riuscì a stento, barcollando all’indietro,
impacciata dalla mole del suo stesso corpo che non la favoriva in uno scontro
diretto.
Non sulla terraferma,
quantomeno. Rifletté,
iniziando a pensare ad un modo per raggiungere il mare, dove avrebbe potuto
recuperare il suo vero aspetto, quello della Grande Balena, con cui aveva
tempestato le coste di Asgard con forti colpi di coda, per farla cadere e per
spaventarne i difensori. Ma non doveva distrarsi troppo, non doveva cercare,
neppure con gli occhi, una via per tornare al mare, perché Avalon l’avrebbe
compreso, troppo intelligente per non sospettare un nuovo trucco. A volte,
pensava Ceto, era convinta che quegli occhi argentei fossero in grado di
guardarle dentro e di scoprire ciò che stava pensando.
“Così è, infatti!” –Commentò il Signore dell’Isola Sacra, strappando un
gemito di sorpresa alla Dea oceanica. –“Non che ci voglia molto, in verità!
L’hai detto tu stessa, di non aver niente da nascondere! Ed infatti lo
percepisco chiaramente! Il tuo cuore è aperto, limpido, pieno di vita, intriso
di un amore che ne ha segnato il passare del tempo, un amore per un’unica sola
persona, il Dio che combatte negli abissi del Pacifico per restaurare il suo
antico nome!”
“Parli bene, Avalon! Tutta la mia esistenza l’ho vissuta in nome di Forco e del nostro amore! Ma dubito che un tipo solitario
come te, annebbiato dalla foschia di quell’isola paludosa, possa comprendere
cosa significhi vivere per qualcuno!”
“Non per qualcuno ho vissuto, ma per qualcosa! Per uno scopo! E la tua
sconfitta lo testimonierà!” –Disse Avalon, sibillino, prima di espandere il
proprio cosmo e generare un’onda di energia che sbatté Ceto a terra,
schiantandola nel pavimento ghiacciato, a vari metri di profondità. –“Ti offro
una possibilità, Dea dal cuore pieno d’amore! Vattene! Torna nei mari in cui a
lungo hai dimorato, aspettando il ritorno di colui cui sei devota, e là resta,
là vivi, assieme a Forco! Nessuno vi verrà a stanare,
nessuno verrà in cerca di una sanguinosa vendetta!”
“Stai… scherzando?!” –Rantolò Ceto, rialzandosi.
“Non è mia abitudine!” –Chiosò Avalon, fermandosi sul margine del
cratere che il corpo della Grande Balena aveva creato. –“Pensaci! È un’offerta
molto più generosa di quella che Caos vi porrebbe davanti dopo aver
contravvenuto ai suoi ordini!”
“Non dire eresie! Il mio Signore combatte dall’altra parte del globo
per portare avanti un piano ordito nel corso di lunghi anni! Come potrei io,
sua devota sposa, abbandonarlo? No, Avalon, non voglio la tua pietà né la tua
grazia! Voglio solo la vittoria che darà lustro al nome di Forco,
che renderà giustizia ai disprezzati popoli dei mari e porrà le basi del nostro
nuovo regno!”
“Così tanto desideri regnare? Allora non è forse l’amore il sentimento
che guida i tuoi passi…”
“Sbagli! È per amore che combatto, per amore di Forco!”
–Sibilò Ceto, espandendo il proprio cosmo, che scaturì dal terreno sotto i
piedi di Avalon, scaraventandolo in aria. Ma il Signore dell’Isola Sacra fu
lesto a roteare su se stesso, con un’agile capriola, atterrando qualche metro
indietro, perdendo il lungo mantello argentato che lo rivestiva e rivelando
infine la propria lucente corazza. –“Assieme abbiamo immaginato il nuovo mondo!
Assieme abbiamo aspettato l’avvento di Caos, per ridare lustro ai mari
dimenticati! Non cederò adesso, neppure davanti a te, Avalon! Cosa sei, in
fondo? Che tu sia uomo o Dio, sarai piegato! Neppure tu puoi resistere alla
furia degli oceani!” –Avvampò la Dea, mentre il cosmo turbinava attorno a sé,
prendendo la forma di un gigantesco capodoglio. –“Grande Balena Bianca!!!” –Tuonò, portando avanti le braccia e
scatenando l’impeto del suo assalto.
Avalon dovette bruciare la propria aura cosmica, concentrandola su una
barriera che eresse in fretta davanti a sé, venendo comunque spinto indietro.
Inoltre, per quanto tentasse di respingerne la foga, l’immenso cetaceo di
energia pareva non placarsi, continuando a sbattere furiosamente contro il muro
difensivo, fino a incrinarlo.
“Solo non sei, Signore dell’Isola Sacra!” –Esclamò allora una voce,
mentre un cosmo divino si aggiungeva al proprio, solidificando la barriera e
impedendo al capodoglio di distruggerla.
“Ci siamo anche noi!” –Intervenne una seconda voce, appartenente a una
donna, mentre una figura gli passava accanto, balzando poi in aria e liberando
piccole sfere di energia dorata. –“Gli Dei di Asgard vivono ancora! Non sono
tutti caduti nel Ragnarök!” –Chiarì, bombardando
Ceto con un attacco a raffica, obbligando la sposa di Forco
a sollevare le proprie difese, rinunciando quindi all’assalto.
“Vidharr! Lieto di vedere che sei
salvo!” –Commentò Avalon, riconoscendo il figlio di Odino, il quale, sia pur in
notevole affanno, non pareva avere ferite aperte sul corpo. Stessa cosa poté
dire dell’Asinna che atterrò poco dopo al suo fianco,
con cui aveva scambiato due parole nel palazzo di Asgard, pur senza conoscerla
bene.
“Idunn è
il mio nome!” –Disse la Dea. –“Sposa di Bragi, Dio
della Poesia, e custode delle mele della giovinezza!”
“Ti ringraziamo per averci difeso,
Signore dell’Isola Sacra, ma concedici adesso di combattere al tuo fianco! Non
che guerreggiare sia il nostro desiderio, ma difendere quel che rimane della
nostra terra, la roccaforte eretta in onore a mio Padre, millenni addietro,
quando ancora si aggirava vagabondo per il Recinto di Mezzo!”
“Midgard è l’ultimo avamposto
della nostra civiltà! Se cade, anche noi cadremo con essa!” –Chiarì Idunn.
“E allora preparatevi a cadere,
stolte Divinità! Avresti fatto bene a fingere di dormire ancora, così avreste
avuto salva la vita!” –Ringhiò Ceto, rialzatasi, le squame protettive
affumicate dall’assalto della compagna di Bragi.
“Ci prendi per vigliacchi? Aggettivo
che ben denota la tua personalità, Signora dei Mari! Subdolo è stato il modo in
cui ci hai attaccato, risvegliando le nostre paure recondite! Su tutte, il mio
timore di non essere all’altezza dei miei fratelli!”
“E il dolore per la perdita del
mio compagno!” –Commentò Idunn, abbassando per un
momento gli occhi, prima di tornare a fissare Ceto con rabbia. –“Proprio tu,
che decanti lo splendore dell’amore, come osi infangare il mio? Pagherai
quest’affronto!” –Avvampò, avanzando verso di lei.
Fu Avalon a fermarla, afferrandole
un esile braccio e costringendola a voltarsi verso di lui, che stava scuotendo
la testa.
“Come?!”
“Non sottovalutatela! La sua forza
non ha niente a che invidiare a quella di Forco! Sono
alti rappresentanti della Prima Generazione Cosmica, quella cui appartenevano
anche i vostri antenati! Ymir, lo ricordate? Il
gigante nato dal ghiaccio e dal fuoco agli albori dei tempi. La sua forza
potrebbe essere simile!”
“Avalon dice il vero! Prudenza, Idunn!” –Intervenne Vidharr, ottenendo un cenno di
scocciato assenso da parte della Dea, che tornò ad affiancare i due, senza
perdersi il ghigno divertito comparso sulle labbra di Ceto.
“Bene, pare che dovrò essere io a
prendere l’iniziativa! Di nuovo!” –Sibilò, bruciando il cosmo, che si palesò
sotto forma di un guizzante colpo di coda con cui travolse i tre avversari,
gettandoli a terra, stupiti da quel rapido movimento.
“Co…
cos’è successo?!” –Balbettò Vidharr, rimettendosi a fatica in piedi. –“Come ci
ha colpiti? Con una verga?!”
Avalon non rispose, atterrato
anch’egli da quell’attacco repentino, che gli era parso simile ad una grande
frusta, sebbene la Dea non impugnasse arma alcuna. Stufa di giocare in difesa, Idunn si rialzò di scatto, infiammando il proprio cosmo e
lanciandosi avanti.
“Brutta strega! Pagherai per aver
infangato il ricordo di Bragi!” –Gridò, saltando in
aria e aprendo il braccio di lato, scagliando contro Ceto una pioggia di
piccole sfere di energia. –“Mele d’oro!
Esplodete!!!”
La Dea dei Mari fu svelta a
sollevare una rozza difesa circolare, che la attorniò senza lasciare
possibilità all’attacco di Idunn di travolgerla. Una
difesa che ad Avalon sembrò composta dai musi di tanti animali marini,
accatastati l’uno accanto all’altro, in un tributo agli oceani su cui Ceto e Forco volevano imperare.
“Sentinelle del Mare!!!” –Esclamò la figlia di Ponto
e Gea, mentre tutte le teste di animale si
illuminavano di una luce bluastra, quasi si risvegliassero da un profondo
sonno.
“Idunn, attenta!!!” –Gridò Avalon. Ma la Asinna non fu lesta abbastanza.
I musi delle bestie oceaniche
sfrecciarono avanti, aprendosi a raggiera attorno a Ceto e investendo,
fagocitando, schiacciando tutto quel che incontrarono sul loro cammino. La
Custode delle Mele venne travolta e schiantata a terra, a molti metri di
distanza, con la Veste Divina danneggiata. Vidharr si portò rapido accanto ad
Avalon, unendo le forze per sollevare una barriera su cui l’impeto delle
Sentinelle del Mare si schiantò, limitandosi a spingerli indietro, fin quasi a
sbatterli contro quel che restava dell’abbattuta montagna che si ergeva alle
spalle di Midgard.
“Che attacco…
devastante!!!” –Commentò il figlio di Odino, con il fiatone. –“Se tu non ne
avessi compreso il funzionamento, saremmo stati sbaragliati!”
Avalon gli diede ragione,
ritenendo che quel colpo racchiudesse tutta la foga, e al tempo stesso la
frustata disperazione, di creature obliate e perse negli abissi oceanici,
creature su cui Ceto dominava. Lei, la Perigliosa, la possente Balena Bianca,
colei che scatenava i pericoli del mare.
“Volete riprovare?” –Sogghignò la Dea, richiamando a sé i musi
animaleschi, che tornarono a chiudersi attorno al suo tozzo corpo, una cintura
che solo un attacco potente e mirato avrebbe potuto sfondare. –“O forse no?” –E
mentre Avalon e Vidharr riflettevano sul da farsi, un nuovo rapido e violento
colpo di coda li travolse, gettandoli di nuovo a terra. Ma quella volta, mentre
si rimetteva in piedi, il Signore dell’Isola Sacra vide una sinuosa prominenza
scivolare all’interno della cintura difensiva di Ceto, capendo infine quel che
era accaduto.
“Le sue forme…” –Rifletté, aiutando Vidharr a
rialzarsi. –“Le scaglie che credevo indossasse come rustica corazza…
sono davvero la sua pelle… la protezione che la sua
pelle assume in questa forma umana.”
“Forma… umana?! Intendi dire che… è davvero un pesce?”
“Un pesce, una balena, un qualche mostro marino! Non ha importanza in
realtà. Quel che è importante è evitare quel lesto colpo di coda, la sua coda!”
“Hai capito, allora! L’acume non ti manca, Signore dell’Isola Sacra!”
–Rise Ceto, avvolta nel suo cosmo blu mare. –“Dici il vero, tra tutti gli Dei
antichi io sono colei che maggiormente si è adattata alla vita nei mari,
persino più del mio compagno! Io sono la prima Dea ad aver mutato la propria
forma, rifuggendo da quella sempre ricercata bellezza che da Nyx in poi tutti hanno bramato! Pensate a Zeus, quel
biondino dal fisico atletico, o alle Divinità Olimpiche di cui si è circondato,
tutte giovani, belle ed eleganti! Sempre desiderose di far sfoggio di una
bellezza esteriore, di cui a me poco è importato! Quel che volevo era sentirmi
a mio agio, nei mari dove sono nata e in cui sono cresciuta, e solo in quella
forma potevo sentirmi realizzata! Io sono il primo metamorfo, una consuetudine
che a stento si è diffusa in altre culture ma che invece ha prosperato nei
mari, ambiente ideale e più ricettivo!”
“Vidharr!” –Gli parlò Avalon, tramite il cosmo. –“Ho bisogno di te!
Posso sfondare la sua barriera, ma riuscirai a contrastare la furia delle Sentinelle del Mare da solo?”
Il figlio di Odino annuì, iniziando a radunare tutte le proprie forze,
prima che un cosmo amico si unisse a lui.
“Non solo è!” –Commentò Idunn, avvicinandosi
all’Ase.
Avalon annuì, espandendo la propria energia e concentrandola
sull’indice destro da cui scaturì una selva di raggi lucenti.
“Ah ah ah! Vorresti penetrare la mia barriera con quegli strali
sottili? Le troppe nebbie ti hanno affumicato il cervello, Avalon!” –Rise Ceto,
osservando i fasci di luce schiantarsi sui musi animaleschi, che parvero quasi
sogghignare con lei. Quindi, con estrema velocità, la Dea ricreò la propria
coda squamata, muovendola ratta verso i tre compagni, per atterrarli di nuovo.
“Ora!!!” –Gridò Avalon, saltando ed evitando il colpo di coda. Vidharr
e Idunn fecero altrettanto, strappando un moto di
fastidio alla sposa di Forco, ma, indeboliti dalle
ferite precedenti, dovettero planare subito dopo a terra.
“Sentinelle del Mare!!!”
–Imperò allora Ceto, scatenando la furia delle bestie oceaniche, che di nuovo
si abbatterono sui compagni, obbligandoli ad un estremo sforzo per
contrastarle. Vidharr fu piegato dalla foga, costretto a poggiare un ginocchio
a terra mentre teneva le braccia avanti a sé, unite e con i palmi volti
all’avversaria, cingendo lui e Idunn di un velo
difensivo, sostenuto anche dal cosmo dell’Asinna. Per
un breve istante Ceto non vide alcunché, la visuale limitata dallo scontro di
energie in atto, dal turbinare furioso dei cetacei e delle altre creature
mostruose che aveva liberato e dallo splendore dorato della difesa degli Asgardiani.
Fu quando la luce parve scemare d’intensità, e il suo attacco
disperdersi, che si accorse che dietro il velo di Vidharr c’erano solo due
figure. Di Avalon nessuna traccia.
Terrorizzata, si guardò attorno, notando solo allora la cortina di
nebbia che era sorta attorno a lei, quella stessa foschia che tanto aveva
deriso in precedenza.
Su tutto una voce sorse.
“Cometa di Avalon!”
Una scintillante sfera di energia argentata squarciò il cielo, piombando
ad incredibile velocità su Ceto, così rapida che persino la Dea faticò ad
individuarla fino a che non sfondò la sua cintura protettiva, abbattendosi sul
suo fianco destro e facendola urlare di dolore. Mai, in tutta la sua lunga
vita, la sposa di Forco aveva provato un calore così
rovente. Lei, da sempre nascosta negli anfratti oceanici, da sempre schiva e
disinteressata ai raggi del sole, che a stento giungevano in così profonde
immensità, aveva per la prima volta provato cosa fosse l’abbagliante luce di un
cosmo ardente.
Stringendo i denti per il dolore, gli occhi arrossati di lacrime e
rabbia, la Grande Balena crollò sulle ginocchia, tastandosi il fianco ferito,
osservando con orrore le squame annerite, carbonizzate, morte ormai. Se la
cometa di energia non fosse stata rallentata dalla barriera che la attorniava,
di certo sarebbe morta.
“Maledetto!!!” –Ghignò, rimettendosi in piedi e fissando Avalon con
astio. Avalon il nemico, Avalon che gli impediva di portare a termine il
progetto cui lei e Forco avevano lavorato a lungo.
Avalon senza il quale Asgard sarebbe già caduta, assediata dall’esterno e
attaccata dall’interno. Come avrebbero potuto resistere i pochi sparuti
difensori alla furia della Signora dei Cetacei? –“Sì, sono la Grande Balena, non
una Deuccia qualsiasi! E non tollero simili
affronti!!!” –Avvampò, il volto deformato da una collera improvvisa.
“Ecco dunque la tua vera natura! Non Dea d’amore, ma Dea di guerra!”
–Chiosò Avalon, non ottenendo altro che farla infuriare ancora di più. Avvolta
nel suo cosmo bluastro, Ceto si lanciò avanti, piombando in mezzo ai tre
alleati e obbligandoli a scattare ognuno in una direzione diversa, proprio come
voleva. Solo quando videro i volti delle creature bestiali lampeggiare attorno
alla Dea, Vidharr comprese l’errore che avevano commesso, esponendosi ad un
attacco diretto.
“Sentinelle del Mare!!!”
–Tuonò infatti Ceto, liberando il suo colpo a raggiera e investendo i tre
avversari, scagliandoli a terra. Quindi, fiaccata da quel prolungato sforzo sulla
terraferma, si accasciò, tenendosi il fianco ferito. Claudicando, raggiunse un
cumulo di neve, poco distante dal corpo svenuto di Avalon, e lo scavò con le
mani, riempiendosele e portandole poi alla bocca, succhiando avidamente
quell’acqua di cui così tanto aveva bisogno.
Non posso restare ancora qui! Realizzò, ammettendo che quello scontro era
durato molto più di quanto avesse pensato all’inizio, incamminandosi infine
verso il sentiero che conduceva alla costa estrema di Asgard, quella che si
affacciava sul Mare Artico, da cui ore prima era giunta. Doveva tornare in
acqua, recuperare la sua vera forma e permettere così alla ferita di
rimarginarsi. Non ci sarebbe voluto molto, solo qualche minuto a mollo nella
fonte della vita, qualche minuto di beatitudine.
Avanzando verso la scogliera, non poté fare a meno di pensare a Forco, il cui cosmo sentiva espandersi in abissali
profondità. Lo sentiva chiaramente, come se fosse lì, a combattere vicino a
lei, perché il mare gliene parlava, il mare le raccontava ogni cosa, a lei che
sapeva ascoltarlo. Il suo amato stava lottando, per prendere la Perla dei Mari
e sedere sul trono di corallo dell’Avaiki, la loro
nuova casa. Dopo tanto peregrinare di anfratto in anfratto, sfuggendo gli occhi
stanchi degli Dei moderni, che ormai ben di rado poggiavano lo sguardo sugli
abissi oceanici, avevano convenuto entrambi di doversi sistemare, di volersi
sistemare, signori di un regno che avevano conquistato assieme. Con quel
pensiero nel cuore, Ceto arrivò sul bordo della scogliera e si lanciò di sotto,
a braccia aperte, pregustando già il contatto con la gelida acqua dell’Artico,
la bellissima sensazione di tornare a casa e abbracciare i figli rimasti in
trepidante attesa. Non quelli che aveva realmente partorito, che strade diverse
avevano scelto, strade che avevano condannato molti di loro all’oblio, bensì il
mare e le sue creature, di cui si sentiva la madre.
E adesso la madre sta tornando! Sorrise, continuando a precipitare. A
precipitare. A precipitare.
Senza raggiungere l’acqua.
Com’era possibile?! Spalancò gli occhi all’improvviso. Il mare era lì,
calmo e gelido, sotto di lei, con le azzurre acque tinte di bianco e lei ci
stava piombando dentro, eppure… non riusciva a
raggiungerlo. Più cadeva, più sembrava sprofondarvi dentro, e più il mare
stesso si allontanava, più la superficie marmorea dell’Artico pareva
sprofondare con lei, in una discesa infinita, senza che lei vi si potesse
abbeverare.
Cosa sta succedendo?! Si disse incredula, travolta da un terrore
inatteso. Provò persino ad allungare le braccia, annaspando, quasi nuotando nel
vuoto che seguiva il balzo, ma non trovò niente davanti a sé. Soltanto un
ulteriore vuoto. Il mare non l’avrebbe raggiunto più.
“No!!! No!!! Non è possibile!!!” –Gridò, sconvolta da tale infausta
prospettiva.
Proprio in quel momento il suo tozzo corpo si schiantò su una dura
superficie, sprofondando per qualche metro tra lastre di pietra distrutte,
terriccio smosso e neve. A fatica, cercando di ignorare il dolore delle ossa
spezzate dentro di sé, Ceto affannò nel rialzarsi, nel ritornare alla
superficie, stordita da quella concatenazione di eventi che non aveva senso. Le
bastò tirarsi su e osservare il retro del palazzo di Asgard per capire che era
ancora lì, nel piazzale dove aveva combattuto e dove era stata abbattuta una
seconda volta.
Avalon apparve in quel momento nel suo campo visivo, fissandola in
silenzio, con quello sguardo inespressivo che pareva nascondere un’infinita
inspiegabile malinconia. E allora la Dea dei Mari capì cos’era accaduto.
“Mi hai imbrogliato!”
“Credevi che non fossi in grado di ricreare un trucchetto
come il tuo? Non è stato poi difficile entrare nella tua mente e scoprire cosa
volevi davvero, cosa disperatamente bramavi, per usarlo contro di te, come non
ti sei peritata di fare con le paure inconsce di Vidharr e Idunn!”
–Precisò il Signore dell’Isola Sacra. –“Hai ammesso tu stessa di essere un
libro aperto; io ho solo sfogliato le tue pagine e dietro l’amore per Forco e la speranza di un futuro assieme ho trovato anche
una recondita paura all’idea di vivere in un mondo senza acqua, all’idea di
vivere fuori dagli oceani! Ecco perché volevi tornare al mare, per recuperare
forza e scagliarti di nuovo contro Asgard! Ma ti dirò una cosa, che forse hai
dimenticato! Mesi addietro già un’altra bestia ha provato ad abbattere le mura
della cittadella, un Leviatano al servizio di Anhar,
terminando la sua sofferente esistenza in una baia poco distante! Esattamente,
cosa ti ha fatto credere di poter raggiungere un risultato migliore?!”
Ceto non rispose, avvampando nel proprio cosmo bluastro, ma prima che
potesse lanciarsi avanti si ritrovò prigioniera di una morsa psichica, che
Vidharr aveva appena stretto su di lei. Lo sguardo dispiaciuto, come sempre di
fronte a una battaglia e alla morte, il figlio di Odino pareva comunque
risoluto a non permetterle di agire più, a non permetterle ulteriori
devastazioni.
“Ma fammi il piacere! Vorresti imbrigliare la furia della Grande Balena
con questi ridicoli cerchi di energia?!” –Ringhiò la Dea, espandendo il proprio
cosmo e alzando le braccia di scatto, liberandosi e spingendo i tre alleati
indietro di qualche passo, mentre dalle ferite aperte tra le sue scaglie
grondava sangue divino. Ferite che ormai non era più in grado di nascondere né
di curare, fintantoché non avesse raggiunto il mare.
“E tu non lo raggiungerai!” –Chiosò Avalon, puntandole contro l’indice
destro e crivellandola con migliaia di fasci di luce.
“Raughrrr!!!” –Ceto ringhiò, la bocca
deformata in fauci animalesche, mentre l’ichor che
scorreva nascondeva il cambiamento in atto nel suo corpo, un cambiamento che
non riusciva più a controllare. Volente o nolente, avrebbe presto recuperato la
sua forma animalesca, quella con cui si era adattata a vivere negli oceani. –“Lasciatemi… passare! Voglio tornare…
al mare!!!”
“No!” –Esclamò Avalon. –“Ti ho offerto un’opportunità di salvezza e
l’hai rifiutata! Ora affronta la fine di tutto, la stessa fine cui tu e il tuo
sposo avete destinato il popolo libero dell’Avaiki!”
–Aggiunse, espandendo il proprio cosmo e sollevando un’impetuosa corrente di
energia simile ad un fiume di stelle.
“E sia! Che queste parole valgano anche per te, Gran Tessitore! Che
questo sia il tuo ultimo scontro!!! Cadi! Grande
Balena Bianca!!!” –Tuonò Ceto, portando entrambe le braccia avanti e
generando un enorme capodoglio di energia, che si scosse davanti a sé,
impennandosi e gettandosi di muso all’interno della torrenziale corrente
liberata da Avalon.
“Nebulosa delle stelle!!!”
–Imperò questi, aumentandone la furia e riuscendo infine a frenare l’avanzata
dell’enorme cetaceo, spingendolo via, disperdendolo, mentre il fiume di energia
stellare si abbatteva su Ceto, scaraventandola in alto.
“Ora!!!” –Intervenne Vidharr, scagliando un’onda di energia contro la
Dea, esposta anche al contemporaneo assalto di Idunn,
che la stava bombardando con migliaia di mele dorate, distruggendone le ultime
scaglie, tra grida di atroce tormento.
Ricadde a terra, la non più perigliosa Ceto, e lì rimase, per minuti
che le parvero interminabili, in un cratere nel devastato piazzale, traboccante
del sangue e dei tessuti umani che aveva perduto, colpita, squarciata, quasi
sventrata, in una forma che non era in grado di controllare a pieno. Se solo
fosse riuscita ad arrivare al mare, se solo avesse potuto guarire…
Rantolò, nell’estremo tentativo di muovere gli arti. Faticò ad arrivare alla
cima dell’avallamento, la vista appannata dal sangue che le colava da una
ferita sulla fronte. Ma anche priva di occhi, poté sentire gli sguardi dei tre
alleati su di lei, sguardi che si soffermavano sul suo tozzo corpo deforme, che
stava tentando di recuperare l’altra forma, la sua vera forma, quella nascosta
sotto squame che ormai erano state scheggiate e divelte. E poté sentire anche
il cosmo di Avalon espandersi di nuovo, davanti a lei, a sbarrarle il passo.
“Qui tutto finisce!” –Commentò questi.
E Ceto dovette dargli ragione.
Con tutte le ultime forze, mulinò la propria grossa coda, scagliando
indietro sia l’Angelo che gli Dei di Asgard, giusto di qualche metro, una
distanza sufficiente per permetterle di scattare avanti, di correre via,
raggiungere la scogliera e gettarsi di sotto, finalmente nel mare. Avalon e
Vidharr la inseguirono all’istante, osservandone la tozza sagoma sanguinante
sprofondare in abissi da cui, erano certi, non sarebbe emersa mai più.
***
Tra le rovine del castello di Alexer, all’imbocco della Valle di
Cristallo, il Cavaliere del Cigno stava tentando di opporsi all’avvento delle
tenebre di cui si attorniava il Progenitore che gli stava davanti. Un Dio la
cui immensità pareva essere più vasta di qualunque spazio la mente potesse
concepire. Un’oscurità primordiale,
la definì Cristal, muovendosi a passo rapido nella
pioggia di strali neri che Erebo gli stava dirigendo contro.
Aveva sentito, poco prima, esplodere il cosmo di Flare
e quello di Avalon, chiedendosi con ansia cosa stesse accadendo ad Asgard,
quale nemico avesse potuto giungervi senza che lui ed Alexer lo notassero. Pur
tuttavia dovette scacciare quei pensieri, sforzandosi di aver fiducia nel
Principe degli Angeli, che di certo avrebbe fatto il possibile per difendere
l’ultima Sacerdotessa di Odino. Non fu facile accantonare quei timori, che
continuavano imperterriti a ronzargli il testa, a distrarre la sua mente, ma
doveva farlo. Doveva resistere, dando tutto se stesso, per proteggere coloro
che credevano in lui e che a lui si affidavano. Alexer, ancora sepolto sotto
cumuli di roccia e neve, i BlueWarriors
feriti, uomini che comunque non erano arretrati di fronte al pericolo, Flare e gli abitanti di Asgard, per cui rappresentava
l’ultima barriera. E infine per Eir, la Asinna della Medicina intervenuta in suo aiuto, usando il
cosmo per tenere Erebo a distanza, in modo da impedire alla sua tossica aura di
lambirgli il corpo e piegarlo.
“Ah ah ah! Danzi bene, Cigno bianco! Mi allieta vedere che le mie daghe
riescono a farti tenere il ritmo!” –Sghignazzò il Dio primordiale. –“Ma cosa
accadrebbe se aumentassi l’andatura? Se la musica…
salisse di intensità!!!” –Rise, incrementando il profluvio di strali oscuri e
obbligando Cristal ad uno sforzo maggiore per
schivarli tutti.
Non ci riuscì e fu trafitto ad una gamba, perdendo velocità ed
esponendosi alla carica delle migliaia e migliaia di altre daghe nere che non
aspettavano altro che trafiggerlo. Con un ultimo titanico sforzo, sollevò un
muro di ghiaccio, ben sapendo quanto poco sarebbe durato, solo il tempo di un
respiro.
“No!!!” –Fu un’acuta voce giovanile a riscuoterlo, costringendolo a
rialzare la testa e ad ammirare un lucore azzurro ergersi a sua difesa, mentre
sciami di comete energetiche saturavano lo spazio che lo separava da Erebo,
contrastando i tenebrosi fasci del Nume. –“Non farai del male al mio amico!!!”
“Che cosa?!” –Esclamò questi, per la prima volta sorpresa nel
riconoscere il nuovo arrivato. Un vecchio avversario.
“Pegasus…” –Mormorò Cristal,
accasciandosi dietro al compagno, felice di vederlo.
“Stai bene, amico mio? Riposati, quel tanto di cui avrai bisogno per
recuperare le forze! Mi occuperò io di questo spiritello fastidioso!”
“Moccioso impertinente! Sei ancora vivo?!” –Tuonò Erebo, sollevandosi
in aria davanti a lui, avvolto nella propria aura oscura.
“Ci rivediamo, occhietti rossi! E ho pure una nuova armatura, adesso!”
–Disse Pegasus, prima di scattare avanti, liberando il proprio colpo segreto,
che sfrecciò verso il Nume primordiale, strappandogli un sorriso divertito.
“Tanto giovanile ardore… Peccato sia
destinato a perdersi…” –Chiosò, parando ogni singola
sfera di energia azzurra, prima di avvolgerle in una spirale d’ombra e
radunarle tutte sopra di sé, con un semplice movimento del braccio destro.
Ma proprio in quel momento tre attacchi lo raggiunsero simultaneamente,
tempestandogli la schiena e facendo fumare persino la sua tetra corazza tanto
acceso era il cosmo di coloro che lo avevano investito. Voltandosi rabbioso,
Erebo notò che Alexer si era liberato dalla frana ed aveva appena liberato le
sue folgori. Al suo fianco, una fanciulla dai capelli viola, rivestita da
un’armatura dorata e d’avorio simile ad una campana stilizzata, e un giovane
dai capelli biondi, la cui Veste Divina rischiarava la sera di Asgard ad ogni
minimo movimento.
Non ebbe bisogno di chiedere loro chi fossero, che già Zeus e Atena lo
attaccarono.
A differenza di Virgo, che aveva seguito Euro
e Nikolaos in Egitto, il Cavaliere di Ariete aveva
scelto di restare. Non solo per la stanchezza che lo dominava, fisica e
mentale; non solo perché la sua presenza era necessaria per prendersi cura dei
feriti e riparare le loro armature, come Kiki già
stava facendo, da solo, alla Prima Casa. Ma anche per sincerarsi di un dubbio
che lo aveva invaso nelle ultime fasi del combattimento contro Atlante.
“Dove vai, Mur?” –Gli aveva chiesto Virgo, prima di partire.
“Ci rivedremo presto, amico mio!” –Aveva chiosato il Custode del Primo
Tempio, allontanandosi a passo deciso verso la parte orientale del Santuario,
una zona poco frequentata, tagliata da una mulattiera accidentata che portava
al cimitero dei Cavalieri e, andando oltre, alla Collina delle Stelle. Proprio
là, al Cancello Orientale, avrebbero dovuto stazionare i Cavalieri delle Stelle
che Avalon aveva affidato ad Atene, eppure, per tutta la durata dello scontro,
non erano intervenuti.
Perché? Cos’era successo di così grave da impedire
loro di prestare aiuto? Temeva Mur che qualche nemico
avesse tentato un’incursione da est, sfruttando il terreno impervio per
nascondersi alle vedette, e il cosmo oscuro che aveva percepito poc’anzi
sembrava provenire proprio da quell’area. Un cosmo che credeva di aver già
affrontato in precedenza.
E se ho ragione, sono l’unico
che può fermarlo! A qualunque costo! Si disse, raggiungendo infine le mura orientali, che chiudevano il
Grande Tempio di Atena, confluendo in un rozzo portone, molto meno decorato di
quello principale. Un ingresso di solito riservato alle truppe o al Sacerdote
diretto all’altura sacra, che non ai fedeli o ai visitatori, che tendevano a
passare dalle porte occidentali e centrali.
Proprio là, in quella ristretta piazza, Mur
vide i corpi delle guardie gettati a terra, dilaniati da affondi decisi che
avevano raggiunto subito i loro cuori, con precisione estrema. Chinandosi su un
soldato, ne tastò la ferita, notando che il sangue era ancora fresco. Poteva
dunque salvarlo? C’era ancora speranza?
No! Fu costretto ad ammettere quando percepì
l’incombere di un’ombra alle sue spalle. Fece appena in tempo a voltarsi che
una lama di energia violacea si abbatté su di lui, che la evitò con il
teletrasporto, trinciando in due macabre metà il corpo della guardia ferita.
“Ancora vivo?!” –Esclamò il Cavaliere d’Oro, che ormai poteva vedere il
viso butterato dell’avversario, il massiccio corpo illuminato dalla misera luce
proiettata dalle torce affisse alle mura e disseminate lungo il sentiero.
“Potrei dire lo stesso di te, Ariete! Non che mi dispiaccia! In fondo
sono venuto solo per te!” –Ghignò l’altro.
“Cosa vuoi dire?!”
“Sei la cagione della mia caduta e del disprezzo che la Dea Notte mi ha
mostrato, incolpando me e tutti i figli di Eris del
fallimento della missione sul Dhaulagiri!” –Spiegò il
guerriero, avanzando verso Mur. –“A causa del tempo
perso ad affrontare te e il Drago, le Amphilogie sono
state sconfitte e Polemos e Chimera hanno potuto completare la missione che mi
era stata affidata, venendo glorificati al posto mio! È un’ironia bastarda
quella che mi ha condannato, Ariete! Un’ironia per cui Nyx
mi ha accusato di essere venuto meno al giuramento che le avevo fatto, quando
le avevo promesso la distruzione della colonia di Mu
e un prezioso ostaggio! Capisci?! Io, Horkos, punitore di coloro che violano un
giuramento, condannato proprio per tale infamante accusa!!! Non so dove sia
quel damerino del Dragone, ma dato che tu sei qua, inizierò con te!”
“Non aspettavo altro! Non è mia abitudine lasciare questioni in
sospeso, tanto più con i miei nemici!” –Rispose il Cavaliere d’Oro, espandendo
la propria aura cosmica, ben inferiore rispetto a quella che aveva ostentato
dentro le profondità del Dhaulagiri.
Anche Horkos parve accorgersene, allungando le labbra in un perfido
sogghigno, prima di scattare avanti, il braccio destro intriso di energia violacea,
che diresse lesto verso il cuore di Mur sotto forma
di una rozza mannaia.
“Sturmjan!!!”
–Tuonò il figlio di Eris.
Il Cavaliere di nuovo evitò l’affondo spostandosi a destra del
guerriero, la mano già levata in alto, carica di energia cosmica pronta a
detonare. –“Rivoluzione di stelle!!!”
–Esclamò, liberando il colpo segreto appreso da Shin.
“Ridicolo!!! Una pioggerellina di luce dovrebbe intimorirmi, forse?!”
–Ringhiò Horkos, lanciandosi in mezzo a quella miriade di stelle cadenti,
incurante dei danni che producevano alla sua già danneggiata Veste Divina o al
suo corpo, ustionandolo in vari punti, compresa la testa. –“Ferite ben più
consistenti ho sopportato! E tu, che hai ammirato il mio viso da vicino, puoi
testimoniarlo, Ariete! Ora fammi un favore, muori!!!” –Di nuovo caricò con il
braccio destro teso avanti a sé, l’enorme mannaia di energia violacea che
rilucette tetra nella sera di Atene. Di nuovo Mur
evitò tale affondo teletrasportandosi alle sue spalle, osservando con orrore, e
con il respiro affannato, il Dio schiantarsi contro il muro di confine e
danneggiarlo, prima di voltarsi e fissarlo con rabbia.
“Non puoi scappare per sempre, bel montone! Prima o poi ti mozzerò le
corna!”
Dice il vero! Rifletté il Cavaliere di Ariete, già provato
per gli scontri precedenti e per aver riparato le armature di Ioria e degli altri. Tentò di elaborare una strategia, nei
pochi attimi che Horkos gli concedeva tra una carica e l’altra, ammettendo di
non avere strumenti con cui contrastarlo. Aveva già provato con la psicocinesi,
fallendo miseramente, e anche i suoi colpi segreti sembravano inefficaci. Forse
l’Onda di Luce Stellare avrebbe
potuto spazzarlo via, ma da quella distanza il figlio di Eris
l’avrebbe evitata prima che lo raggiungesse. Era un Dio, in fondo, questo Mur non doveva dimenticarlo se voleva vincere.
Vincere? Prospettiva che mai come in quel momento gli
apparve lontana anni luce, ben più dell’intermundi in cui Caos aveva dimorato
in famelica attesa.
“Sturmjan!!!”
–Gridò Horkos di nuovo, piombando su di lui, costringendo Mur
a un gesto disperato.
“Muro di Cristallo!!!”
“È inutile, Ariete!” –Ringhiò il Dio, distruggendo l’effimera
protezione con un paio di decisi affondi. –“L’efficacia e la resistenza della
tua tecnica di difesa dipendono dal tuo cosmo, e con un cosmo ridotto al lumicino
cosa pretendi di fare? Di certo non puoi trattenere la tempesta insita nel mio
attacco!!!”
Ha…ragione…
Mormorò il Cavaliere di Atena, venendo spinto indietro, tra i frammenti di luce
del suo stesso muro, fino a schiantarsi contro un mucchio di rocce alle sue
spalle, con l’armatura scheggiata in più punti. L’unica armatura, tra tutte
quelle cui aveva lavorato, che non era riuscito a riparare, per essersi prima
dedicato agli altri.
“Muori, caprone!!!” –Avvampò Horkos, calando il braccio rivestito di energia
cosmica su Mur, che tentò di rallentarne la corsa con
i suoi poteri mentali. Per un momento il Dio parve risentirne e il suo arto
rimase bloccato a mezz’aria, un infimo lasso di tempo di cui Horkos ebbe
bisogno per spezzare la concentrazione del Cavaliere e tornare a muoverlo,
distruggendo il muro di roccia, davanti al quale Mur
non c’era già più.
Lesto, si era gettato di lato, ruzzolando per qualche metro sul
selciato, per poi tirarsi su, lasciando una mano a sfiorare il suolo,
infondendovi ogni stilla del suo cosmo.
“Resta lì, da bravo, non muoverti!” –Ghignò il figlio di Eris, voltandosi verso di lui. Ma non riuscì a fare due
passi che sentì qualcosa strattonargli il braccio, una vischiosa sostanza che
notò provenire dalla parete di roccia appena abbattuta, scivolando su di lui
sotto forma di bianchi filamenti che andavano a congiungersi proprio ai piedi
di Mur, dove ancora il suo cosmo brillava. –“Una
ragnatela di energia?! Mi hai forse scambiato per una mosca?! Ben più
combattiva sono, un’ape al massimo! Un’ape dal sanguigno pungiglione! Ih ihih!” –Ringhiò, bruciando il
proprio cosmo in un’unica vampata di energia che incenerì l’intelaiatura con
cui il Cavaliere aveva tentato di fermarlo, allungandosi famelica verso di lui.
–“Sturm und Drang!!!” –Esclamò, mulinando il
braccio come fosse una lama e creando un poderoso fendente di energia che si
sommò alle vampe violacee, sfrecciando verso Mur.
“Cuneo di cristallo!!!”
–Commentò questi, che aveva approfittato di quel momento per radunare le ultime
forze, concentrandole in un’abbozzata tecnica in grado di combinare difesa con
attacco. Un cuneo di energia che si aprì di fronte a sé, come due muri di
cristallo uniti in un angolo acuto, tenendo le vampe energetiche a distanza e
deviando persino l’assalto di Horkos, abbattendosi infine su di lui e
scagliandolo indietro, con una vistosa crepa sul pettorale della Veste Divina.
“Maledetto, montone! Tagliarti le corna non sarà sufficiente!!!”
–Ringhiò furioso il Dio punitore. –“Te le pianterò nel cuore, usandole per
sventrarti e infilzare ogni singolo organo interno, portandoli poi in dono a
tua madre e facendoglieli mangiare!”
“Le tue parole sono blasfeme! Sei un demone immondo!”
“Tutt’altro! Le mie parole sono una promessa, Ariete! La giusta pena in
cui colei che ti ha messo al mondo incorrerà presto! Giusto il tempo di
ricordarti il tuo posto nell’ordine delle cose!” –Ghignò Horkos, muovendo
rapido il braccio e liberando un fendente di energia che scavò nel suolo tra i
due contendenti, sollevando un’onda di terriccio e polvere che si abbatté su Mur, distraendolo e coprendogli la visuale.
Il figlio di Eris approfittò di quel momento
per scattare avanti, al pari del suo stesso assalto, piombando sul Cavaliere
d’Oro e ferendolo al bracciale sinistro con un secco affondo, che gli schiantò
l’armatura. Un secondo colpo di mannaia e anche dal ventre schizzò fuori del
sangue. Mur tentò allora di spingere il nemico
indietro con i suoi poteri psichici ma, a parte un breve solletico, non strappò
altro al Dio. Nemmeno riuscì a frenarne il movimento del braccio, quando lo
sollevò davanti a lui, tanto debole e privo di forze si sentiva ormai. Poté
soltanto afferrargli il polso con entrambe le mani, venendo prostrato a terra
dall’impatto, ma riuscendo comunque a tenerlo a distanza dal suo viso.
“Ritardare l’inevitabile mi renderà solo più affamato, Ariete! E quando
avrò finito con te andrò a sgozzare tutti i sopravvissuti alla furia di
Atlante! Nessuno, in questo Santuario in rovina, vedrà una nuova alba!”
A quelle parole Mur avvampò, bruciando ogni
goccia del proprio cosmo, più di quanto avesse mai fatto prima. Ricordò le
battaglie sostenute nei quindici anni trascorsi dalla sua investitura, lo
scontro con il terribile Giapeto e l’Ecatonchiro al suo servizio, gli intrighi di Arles e i timori di Libra. Ricordò l’attacco degli Spectre al Grande Tempio, la morte che Radamante
credeva di aver loro inflitto, quindi la rinascita dal gelido inferno e le
battaglie sull’Olimpo, contro Eros, Tifone e Ampelo
del Vendemmiatore. Tutte combattute in nome di Atena, per tenere fede al suo
ruolo.
Ma adesso Atena se ne era andata, il Santuario era stato distrutto,
persino le Dodici Case erano crollate, devastate da poteri superiori a
qualunque Divinità avesse fino ad allora tentato di occuparle. C’erano rimasti
solo i soldati, i Cavalieri di Bronzo e coloro che nelle Dea credevano, e tra
questi c’era suo fratello. Per lui avrebbe combattuto, per dargli un futuro.
Per impedire a quell’orco demoniaco di levare la mano su di lui, preservandone
l’innocenza.
“Kiki…” –Mormorò Mur,
avvolto nella sua dorata aura cosmica, prima di spingere il Dio indietro,
schiantandolo a terra, trafitto da una pioggia di stelle.
Per un paio di interminabili minuti il Cavaliere credette
davvero di aver vinto, i sensi ormai offuscati dalla stanchezza e dalla
debolezza di un corpo che aveva violentato oltre ogni possibilità. Barcollò,
sforzandosi di rimanere cosciente, fino ad avvicinarsi alla parete di roccia e
appoggiarsi ad essa, respirando a fatica. Un bagliore attirò la sua attenzione,
un luccichio che parve provenire da un’altura distante, che in quel momento non
riuscì a identificare, ben sapendo cosa rappresentasse. Il luogo dove il suo
maestro era stato ucciso.
Furono quei pensieri a impedirgli di udire il rantolo rabbioso del
figlio di Eris, che si era appena rimesso in piedi,
l’inveire furibondo contro un avversario tempestato di epiteti dispregiativi e
infine la carica verso di lui, il braccio avvolto in una vampa di energia
violacea a ricreare una rozza lama. Non udì niente di tutto questo, il
discepolo di Shin, soltanto lo schiantarsi
dell’armatura d’oro e l’affondare di Horkos nella sua gabbia toracica. Quasi
come il corpo non gli appartenesse più, incapace persino di provare dolore, Mur abbassò lo sguardo per un momento, ad osservare l’arto
del Dio inzuppato del suo sangue, prima di concedersi un ampio sorriso, così
raggiante che persino Horkos lo notò, non comprendendolo.
“Cos’hai da sorridere, stupido? La perdita della vita ti ha reso
pazzo?”
“Mai stato più lucido!” –Si limitò a commentare il Custode della Prima
Casa. –“Da tempo cercavo un modo per avvicinarmi a te e questo tuo attacco me
ne ha offerto l’occasione! Dovrei ringraziarti…”
“Che… stai dicendo?!” –Ringhiò il Dio
punitore, tentando di estrarre il braccio e accorgendosi, con stupore, di non
riuscire a muoverlo. Neanche esercitando una forza maggiore. –“Ma che pensi di
ottenere? Mollalo, idiota!!!”
“Non sono un idiota, figlio di Eris, ma un
Cavaliere d’Oro! Sono Mur dell’Ariete, allievo del
grande Shin, discendente del popolo di Mu, e questa è la mia luce!!!” –Gridò l’uomo, espandendo al
massimo il proprio cosmo, concentrandolo sul palmo della mano destra che
premette contro il cuore del nemico. –“Onda
di luce stellare!!!”
La straordinaria esplosione di energia scagliò entrambi in aria, in un
arcobaleno di bagliori, sangue e cocci di armature, fino a lasciarli ricadere
al suolo, nel devastato spiazzo antistante al Cancello Orientale, proprio
mentre una piccola sagoma si avvicinava, correndo a perdifiato lungo la
mulattiera.
“Mur!!!” –Gridò, raggiungendo il Cavaliere di
Atena e chinandosi su di lui, osservando con orrore l’ampia ferita al costato.
–“Lascia che ti aiuti! Ti prego!” –Ansimò, poggiandovi la mani sopra e
sprigionando un caldo tepore. –“Posso curarti…io… posso curarti, fratello!”
“Non importa, Kiki…” –Mormorò Mur a fatica. –“Va bene così…”
–Quindi, voltato lo sguardo verso il cadavere di Horkos, si concesse un ultimo
sorriso di fronte al suo corpo crivellato, certo che la sua arma non avrebbe
potuto commettere ulteriori stragi per quella notte. –“Ho avuto quel che volevo… Vorrei solo… aver fatto
di più… essere riuscito a salvare nostra madre…”
“La salveremo insieme, Mur! Andremo insieme a
liberarla!!!” –Pianse il fratellino. –“Coraggio, Mur!!!
Devi resistere! Tu devi…” –Ma il Cavaliere d’Oro
mosse a malapena un braccio, afferrandogli la mano e guardandolo negli occhi.
“Sii forte! La guerra non è finita e Atena avrà bisogno anche di te! Un
giorno, quando questo tempo cosmico sarà giunto alla fine, tu sarai il
Cavaliere d’Ariete e allora difenderai il Palazzo del Montone Bianco meglio di
me. Addio, fratello mio! Addio, piccolo Kiki!”
–Mormorò l’allievo di Shin, prima di spirare.
“Mur!!!” –Gridò il bambino, scuotendo il
corpo senza vita del fratello, picchiandolo, prendendolo a schiaffi e infine
accasciandosi in lacrime su di lui, incurante del sangue che gli imbrattava il
volto. Rimase così, chino su quel che restava della sua famiglia, per qualche
minuto, finché un rumore di passi non lo distrasse, portandolo a sollevare lo
sguardo verso il sentiero da cui era poc’anzi giunto, dove le figure di Asher, Kama e Castalia erano appena apparse.
In silenzio, osservarono la scena, rispettando il dolore di Kiki, e condividendolo con lui, soprattutto Asher, che fu il primo a farsi avanti. L’armatura
danneggiata, il volto tumefatto, un labbro sfregiato, e adesso anche gli occhi
lucidi. Si inginocchiò accanto al bambino, senza dirgli niente, limitandosi ad
abbracciarlo e a lasciare che continuasse a piangere, che si sfogasse con lui,
su di lui, fino ad accasciarsi esausto tra le sue braccia. L’Unicorno gli
carezzò i capelli fulvi, prima di sollevarlo e dire qualcosa a Castalia
riguardo alle esequie di Mur, ma non ebbe modo di
aggiungere altro che un grido di Kama lo raggiunse, mentre la Sacerdotessa lo
gettava a terra, schiacciandosi su di lui.
“Ma… cosa?!” –Rantolò Asher,
aiutato dalla stessa Kama a rimettersi in piedi, assieme a un frastornato Kiki, spostando poi lo sguardo verso il Cancello Orientale,
che era appena stato abbattuto da una trentina di guerrieri armati.
Per quanto le luci delle torce emanassero una lieve luce, questa bastò
per permettere ai Cavalieri di Atena di riconoscere forme femminili sotto
quelle truci corazze. E le voci che risposero loro poco dopo chiarirono ogni
dubbio.
“Fermatevi!” –Le intimò Castalia, facendosi avanti. –“Questo è il
Santuario della Dea Atena! Non vi è consentito l’ingresso!”
“Le Amphilogie non abbisognano permessi di
alcun genere! Siamo le Dee della Disputa e del Contenzioso e ne abbiamo uno
aperto con voi seguaci di Atena!”
“Amphilogie?!” –Rifletté Asher.
–“Non sono quelle che hanno attaccato la colonia di Mu?
Credevo fossero morte sotto il crollo della Montagna Bianca!”
“Evidentemente qualcuna è sopravvissuta e ha ben pensato di seguire
Horkos in questa scorribanda, sperando di approfittare del disordine che il
figlio di Eris avrebbe creato! Infide e scorrette,
come i loro fratelli e sorelle!”
“Al pari di Horkos, anche noi abbiamo ricevuto il disprezzo della Dea
Notte e del Lord Comandante, che non ci ha neppure consentito di partecipare
alle operazioni belliche in Egitto! Per questo siamo qua, per recuperare
prestigio, e lo faremo conquistando il Santuario e uccidendo voi che ancora resistete!
All’attacco sorelle, non fate prigionieri!” –Gridò una di loro, sfoderando la
spada che portava con sé e lanciandosi avanti.
“Non credere che la strada verso il Santuario sia sgombra! I Cavalieri
di Atena la presiedono!” –Esclamò allora Castalia, bruciando il cosmo e
scatenando la Meteora Pungente. Ma
le donne guerriere non ebbero problemi ad evitare quei pugni portati alla
velocità del suono, avventandosi poi sulla Sacerdotessa con le lame spiegate.
“Corno d’argento!!!” –Tuonò
allora Asher, sfrecciando tra loro e spingendone un
paio indietro, senza comunque scalfire le loro protezioni. –“Maledizioni! Sono
tante e noi siamo stanchi!”
“Asher, attento!!!” –Intervenne Kama,
scattando a difesa del ragazzo, mentre una delle Amphilogie
mulinava la spada, mirando al suo collo, e finendo per scheggiare l’armatura
della Poppa. –“Indietro, indietro! Dobbiamo ripiegare!!!”
“No!!!” –Esclamò allora una voce, stupendo i tre Cavalieri di Atena
che, mentre affannavano per tenere lontane le figlie di Eris,
scoprirono provenire da Kiki.
Si era infatti rimesso in piedi, il fratello di Mur,
e adesso stringeva i pugni, avvolto in una bianca aura di cosmo, fissando con
occhi rossi, iniettati di sangue, rabbia e dolore, i nuovi nemici che avevano
invaso il Santuario. Il Santuario che suo fratello era morto per proteggere. In
nessun caso avrebbero dovuto permettere loro di avanzare, o la morte di Mur sarebbe stata vana.
“No!!!” –Gridò a squarciagola, rompendo le tenebre con un urlo che si
accompagnò ad un’improvvisa onda di energia psichica, così potente da spingere
indietro la prima linea delle Amphilogie, gettandone
alcune a terra, con le corazze scheggiate e le lame spezzate a metà.
Asher e Castalia approfittarono lesti di quel momento, piombando tra le file
nemiche e colpendo molte figlie di Eris con i loro
colpi segreti. Kama, alle loro spalle, aveva intanto soccorso Kiki che, dopo quell’unico grido, era crollato a terra, in
preda a violente convulsioni. Per un istante, per un solo istante, ai Cavalieri
di Atena era parso di vedere un maestoso Ariete d’Oro ergersi di fronte a quel
ragazzino, lo stesso animale che si era fatto largo tra le Amphilogie,
abbattendone una dozzina. Che fosse il suo passato o il suo futuro a
difenderlo, aveva permesso loro di rifiatare e di radunarsi, spalla contro
spalla.
“Sono comunque troppe!!!” –Esclamò Asher,
evitando l’affondo di una spada, a cui Castalia dovette dar ragione, balzando
di lato in lato per non essere trafitta allo sterno e venendo comunque colpita
lo stesso. –“Atena, proteggici!!!”
Fu un arcobaleno di energia a porsi a difesa dei due Cavalieri, un
tappeto di luce colorata che scintillò in mezzo al mucchio di Amphilogie, sollevandone alcune e spingendone altre
indietro, prima che sottili fori si aprissero sulle loro corazze, tra grida
improvvise di dolore.
“Altri Cavalieri di Atena?!” –Esclamò una delle figlie di Eris, osservando i due nuovi arrivati. Un ragazzo snello
dai capelli biondi e dal carnato chiaro e una giovane donna dagli occhi verdi,
entrambi rivestiti da luminescenti corazze dalle forme slanciate.
“Non ad Atena siamo devoti, ma al fianco dei suoi paladini
combattiamo!” –Parlò la ragazza, espandendo il suo cosmo. –“Elanor, figlia di Selene, Dea della Luna, è il mio nome! E proprio da quel
solitario reame discendo per punirvi, ombre maledette!!! Falce di luna calante!!!” –Gridò, liberando un fendente di energia
che sfrecciò tra le Amphilogie, abbattendone alcune e
gettandone altre a terra, con le corazze danneggiate e sanguinolenti.
“E io sono Matthew, Cavaliere dell’Arcobaleno! Ma che ve lo dico a
fare? Proverete adesso il potere dell’iride! La danza dei sette colori! Arcobaleno incandescente!!!” –La seguì
l’altro, portando entrambe le braccia avanti e generando un tappeto di energia
colorata che travolse in pieno le guerriere a lui di fronte,
“Matthew! Elanor! Lieti di rivedervi! Ma dov’eravate
finiti?!” –Disse Asher, liberandosi di alcune Amphilogie, distratte dal rapido attacco dei seguaci di
Avalon.
“È una lunga e sfortunata storia, Cavalieri di Atena! Nyx, la torbida e crudele, ha attaccato il Reame della Luna
Splendente e siamo corsi ad aiutare Selene e Endimione!” –Rispose Matthew, senz’aggiungere altro. Ma il
suo rammaricato sguardo fece capire all’Unicorno che tale missione non dovesse
essersi conclusa con successo.
“Abbiamo fallito una volta. Non accadrà di nuovo.”
–Chiosò Elanor, il cui sguardo deciso nascondeva ferite aperte ancora troppo
fresche.
“Uccideteli tutti!!!” –Gridarono le Amphilogie, radunandosi e disponendosi a riccio, le lame
rivolte verso l’esterno, come gli aculei dell’animale, in modo da coprire ogni
possibile fronte d’attacco. Sia quello interno, verso il Santuario, dove
Castalia e Asher si erano ricongiunti con Kiki e Kama, sia quello esterno, di fronte alle mura, dove Matthew
ed Elanor erano da poco comparsi.
“Andate!” –Mormorò il Cavaliere dell’Arcobaleno. –“Ci
occuperemo noi di loro! Così facendo, ci hanno facilitato il lavoro, in
realtà!” –Aggiunse, sorridendo, prima che il suo corpo venisse rivestito di un
alone di luce abbagliante, che, quando scemò, permise alle figlie di Eris di vedere che il ragazzo si era replicato in ben sette
copie, che andarono circondando il mucchio di nemiche. –“Moltiplicazione!!!”
Prima ancora che le donne potessero comprendere la
natura illusoria di quella tecnica, Elanor era già scattata avanti, l’indice
destro carico di energia cosmica. –“Croci
di luna!!!” –Gridò, liberando sottili raggi che trapassarono la gola di
molte Amphilogie, balzando poi sui loro cadaveri e
dandosi la spinta per saltare in alto, sopra il mucchio di avversarie.
“Ora!!!” –Esclamò ognuna delle sette copie di Matthew,
portando avanti le braccia e liberando un arcobaleno di pura energia, che
travolse le figlie di Eris, disorientandole ed
esponendole all’assalto aereo di Elanor, che ne trafisse altre con i suoi raggi
di energia. Atterrando nel mucchio, la primogenita di Selene
sollevò lo Scudo di Luna, per difendersi dai colpi di lama mulinati dalle Amphilogie, prima di abbagliarle con un’onda di vivida luce
scaturita dal Talismano. Accecate, non s’avvidero di una danza di colori di
fronte a loro, una danza che era appena scaturita dalla cintura che ornava
l’armatura di Matthew.
“Di sette minuti abbiam
avuto bisogno per aver di voi ragione, cagne! Sette come i colori del mio
arcobaleno!” –Disse il ragazzo, avvampando nel proprio cosmo. –“E qualora ve li
foste dimenticati, eccovi un promemoria! Rosso, come il fuoco!” –Aggiunse,
mentre il cristallo del rispettivo colore si accendeva sulla cinta della sua
corazza e dal suo pugno divampava una fiamma ardente, in cui bruciarono un paio
di Amphilogie, prima che una seconda pietra
scintillasse. –“Blu, come il cielo profondo e sconfinato!” –Commentò,
sollevando il braccio destro e portando con sé altre figlie di Eris, spinte all’improvviso verso l’alto, esposte al
preciso taglio dei raggi di energia di Elanor. –“Giallo come…”
“Non credo ce ne sia bisogno!” –Parlò allora la
ragazza, avvicinandosi e chetando il proprio cosmo, permettendo a Matt di
accorgersi che ormai tutte le Dee della Disputa erano state sconfitte. Ne era
rimasta solo una, esposta all’incrociato attacco di Asher
e Castalia, che la colpirono il primo al ventre, con il suo corno d’argento, e
la seconda al volto, spingendola indietro, tra i cadaveri delle compagne. E
allora tornò il silenzio, rotto solo dal respirare affannoso dei Cavalieri di
Atena e di Avalon.
“Kiki…” –Mormorò Elanor,
avvicinandosi a passo lento.
Trovò il bambino crollato tra le braccia di Kama, che
lottava per non perdere i sensi, sopraffatto da così tante emozioni da non
riuscire a distinguerle. La figlia di Selene si
inginocchiò accanto alla donna, mettendo una mano tra gli scombinati capelli
del fratello di Mur, sforzandosi di trattenere le
lacrime, poiché troppe ne aveva versate quel giorno. Tutti lo avevano fatto, e
forse, si disse, era stato anche per colpa sua.
Se avesse obbedito agli ordini di Ascanio e di Avalon,
se fosse rimasta al suo posto, al Cancello Orientale, anziché fuggire sulla
Luna, nel disperato tentativo di salvare una madre che aveva scelto di voltare
le spalle all’alleanza, forse Mur non sarebbe morto.
Forse lei e Matthew, che aveva trascinato in quella sconsiderata impresa,
avrebbero sconfitto Horkos, senza bisogno che altri morissero, senza bisogno
che Kiki rimanesse senza un fratello. Sapeva, da ciò
che Matt le aveva brevemente raccontato dei Cavalieri di Atena, che aveva
appena perso la madre, rapita e di certo già uccisa dai servitori di Caos, per
cui ben capiva come si sentisse.
“Mi dispiace…” –Singhiozzò.
–“Se fossi rimasta…”
“Se fossimo rimasti…”
–Mormorò Matthew, concordando con i dubbi dell’amica.
“Potrai mai perdonarmi?!” –Disse Elanor, stringendo
forte la mano del piccolo Kiki e donandogli un po’
del suo cosmo, un po’ del suo tepore, quello stesso calore umano di cui
anch’ella aveva bisogno in quel momento.
Capitolo 37 *** Capitolo trentaseiesimo: Il tramonto degli eroi. ***
CAPITOLO
TRENTASEIESIMO: IL TRAMONTO DEGLI EROI.
Chirone del Centauro aveva appena vomitato per la terza volta.
Piegato in due, appoggiato al tronco di un albero nella vecchia foresta
di Asgard, non riusciva a controllare gli spasimi che lo avevano travolto,
mozzandogli il respiro, tanto violenti e continui erano stati quei colpi di
tosse, e portandolo infine a rimettere. La vista offuscata, l’udito ovattato,
la bocca impastata dai liquidi interni che premevano per uscire fuori,
forzandolo a chinarsi di nuovo, maledicendo le proprie viscere in subbuglio.
Una maledizione che invece avrebbe voluto dirigere contro il responsabile dei
suoi patimenti improvvisi, il Nefario dello Zodiaco Nero che lo aveva appena
infettato con una delle sue piaghe.
“Giornata splendida, non è vero, guerriero di Eracle? Per morire,
intendo!” –Commentò sprezzante, avvicinandosi al corpulento combattente.
Chirone neppure gli rispose, faticando persino ad individuarne la
sagoma davanti a lui. Basso, un po’ tarchiato, era rivestito di un’armatura
color verde scuro, ben adatta per mimetizzarsi nei prati e nelle rigogliose
terre da cui proveniva, ma che nelle lande asgardiane risaltava anche agli
occhi stanchi del Centauro. Alle sue spalle, il demone che Chirone aveva
atterrato poco prima, osservava incuriosito la scena, e anche un po’ intimorito
dai poteri di cui Corb si stava servendo.
Corb dei Fomori. Corb il
maledetto! Rifletté Alu,
notando l’allungarsi di un ghigno sul volto del Nefario irlandese. Un volto
puntellato di lentiggini e incorniciato da una folta chioma di capelli
rossicci, dello stesso colore della barba incolta che spesso si divertiva ad
arricciarsi. Al demone assiro non era mai piaciuto, fin da quando erano stati
convocati dal Gran Maestro del Caos, e non solo per il suo odore nauseabondo,
come se fosse stato immerso in una fetida palude, ma per il suo atteggiamento
subdolo e nascosto, rivelato solo da quegli occhi avidi con cui scrutava i
compari. Più che un uomo, ad Alu ricordava un folletto, uno di quei dispettosi ladruncoli
di tante leggende celtiche a cui avrebbe volentieri tirato il collo. Ma le
ferite che Chirone gli aveva inflitto erano ancora aperte e la sua corazza
danneggiata, rendendogli difficile sollevarsi di nuovo in volo, così poté solo
appoggiarsi con la schiena a un tronco millenario e godersi lo scontro in atto,
certo che si sarebbe concluso presto.
“Sei un lurido vigliacco!” –Ringhiò Chirone, sputandogli in faccia
tutto il suo disprezzo. –“È così che combatti? Colpendo a tradimento e
sporcandoti poi le mani solo per il colpo di grazia? Miserabile guerriero da
poco sei in verità!”
“In verità…” –Rise Corb, ormai piantato di fronte all’indebolito
nemico. –“Non sono un guerriero! Non lo sono mai stato, né mi interessa
esserlo! Ho avuto un ben diverso addestramento, non militare, non come il tuo,
di certo! Ma come vedi ho saputo trarre vantaggio anche dalla mia diversità, da
quella che qualcuno potrebbe etichettare come debolezza!” –Aggiunse, tirando un
rapido sguardo verso Alu, che, di fronte a quei metifici occhi giallognoli, si
ritrasse ancora di più dietro la corteccia dell’albero.
“Il tuo modo di lottare è da pavidi!” –Esclamò il fedele di Eracle,
muovendo lesto un braccio e tentando di colpire il Nefario con un pugno in
faccia. Ma questi si spostò alla sua destra, lasciando che Chirone fendesse
l’aria, prima di colpirlo con un calcio alla schiena e gettarlo a terra,
schiacciandolo poco dopo. Godette, Corb, di quei brevi attimi in cui vide
l’avversario sguazzare tra il fango e il suo stesso vomito che chiazzavano la
neve della millenaria foresta, incapace di rialzarsi e al tempo stesso scosso
da nuovi conati che non riusciva a soddisfare.
“Bravo, resta a terra! Mi faciliti il compito di mandarti nei síde, ove terminano la loro esistenza tutti gli
sconfitti come te! Ah ah ah!”
A quelle parole Chirone reagì. Poteva sopportare tutto, da soldato
addestrato qual’era: il caldo, il freddo, la fatica, il dolore, persino l’idea
di sguazzare tra i propri liquidi corporei. Ma non avrebbe mai accettato che
qualcuno lo considerasse un vinto. La sola idea gli faceva accapponare la
pelle, portandogli all’orecchio le risate di scherno di suo fratello e di suo
padre, assieme ai quali aveva prestato servizio in numerose compagnie di
ventura. Che cosa avrebbero pensato di lui, che si era fatto vincere da un
folletto foruncoloso? Il Cavaliere del Conato Furioso, così lo avrebbero
deriso, da qualunque mondo riposassero. E lui non voleva dare loro quella
soddisfazione.
“No…” –Ringhiò, avvampando nel proprio cosmo infuocato. –“Non gliela
darò mai! Soprattutto a mio padre, che non riteneva possibile che un giorno
avrei guidato una compagnia tutta mia, una legione di cui sarei stato insignito
comandante! E invece così è accaduto! Ribolli, mio cosmo! Ribolli, magma
ardente!” –Esclamò, penetrando il suolo con la sua incandescente aura, che
sciolse tutta la neve attorno, incendiando il terreno stesso e gli alberi che
vi dimoravano, obbligando persino Alu ad allontanarsi.
“Ti consiglio di fare altrettanto, Corb!!!” –Guaì il demone assiro, senza
pensarci due volte, ricevendo solo uno sguardo ostile di rimando.
“Stolto! Il tuo cosmo è ormai ridotto al lumicino, infettato dalle
piaghe che comando! Le Piaghe degli Invasori!” –Sibilò il Nefario, ancora con
il piede destro intento a schiacciare la schiena del guerriero di Eracle, da
cui una violenta fiammata di energia proruppe all’istante, scagliandolo
indietro. Fu agile, Corb dei Fomori, ad atterrare a piedi uniti al suolo, ma il
suolo stesso si aprì poco dopo, sciogliendosi e sprofondando le sue gambe in un
ammasso fuso di neve e magma, da cui tentò di divincolarsi, senza riuscirci, e
anzi dovendo lottare per non sbilanciarsi e cadere a braccia tese nel
ribollente stagno di cosmo.
“Forse è così… Forse il mio cosmo è davvero l’ombra della magnificenza
di un tempo, quando comandavo la Sesta Legione degli Heroes, che in virtù del
suo ardore in battaglia fu chiamata la Legione Furiosa! Ma non credere che
basti un mal di stomaco per placare la mia furia, folletto! Parola mia, non
basta affatto!!!” –Ruggì Chirone del Centauro, rialzandosi e portando avanti le
braccia. –“Magma ardente, esplodi!!!”
Una devastante onda di pura lava si sollevò dietro di lui,
sorpassandolo e avanzando impetuosa verso Corb, il volto deformato da
un’improvvisa paura. Incapace di muoversi, le gambe ormai bloccate dal magma
solidificatosi attorno ad esse, poté soltanto strillare disperato prima di
essere sommerso e spazzato via.
Fiaccato ma soddisfatto di se stesso, Chirone crollò infine sulle
ginocchia, respirando a fatica, prima di spostare lo sguardo sull’altro scontro
in atto, a poca distanza da lui.
***
Nel cuore della foresta di Asgard, dove il casato dei Megres si era a
lungo esercitato, Iro di Orione stava fronteggiando la carica cieca e selvaggia
del Nefario che gli si era lanciato addosso non appena avevano incrociato il
suo cammino. Non sapeva niente di lui, neppure il nome, non avendogli questi
rivolto parola alcuna fin da quando avevano iniziato a battagliare.
Era alto, biondo, di chiara provenienza nordica, forse di quelle stesse
terre in cui Eracle li aveva inviati per difenderle, ma soprattutto era rapido
e preciso nel colpire. Letale, come un assassino provetto. Evidenziò,
schivando l’assalto del nemico balzando di lato e contrattaccando all’istante,
con tre raggi di energia che scaturirono dal suo indice. Tre raggi diretti al
volto dell’avversario, che questi fu lesto a deviare muovendo il braccio
destro, il cui pugno era ricoperto da un grosso guantone di una qualche lega
metallica da cui spuntavano cinque lunghi e affilati artigli. L’unico tocco
di colore, ironizzò Iro, in quel deserto di mutismo rappresentato dalla
sua bianca armatura e dal silenzioso ma letale guerriero che la veste.
“A Chirone non è andata meglio, però!” –Osservò il Primo Comandante
degli Heroes, avendo sentito l’indebolirsi del suo cosmo, prostrato da una
strana infezione che di certo era stata scaturita da uno dei due Nefari che
stava fronteggiando.
Il pensiero per le sorti del compagno lo spinse a reagire, cercando una
strategia con cui aver ragione del suo nemico. Questo era, del resto, quel che
ci si aspettava da lui, il campione di Tirinto. Il primo tra tutti gli Heroes,
e non soltanto cronologicamente.
Così espanse il proprio cosmo, mentre il Nefario bianco si lanciava di
nuovo alla carica, con gli aguzzi rostri rivolti al suo cuore, circondandosi da
un intenso luccicare di stelle, così vivido da rischiarare la fioca visibilità
del bosco. Un luccicare su cui si schiantò, stridendo, il guanto corazzato del
servitore del Caos.
“Sorpreso, eh?” –Commentò Iro, incrociando lo sguardo dell’avversario.
Occhi azzurri, gelidi come l’inverno, che non lasciavano trasparire emozione
alcuna, tranne quella furia che gli faceva muovere i passi. –“La barriera che
vedi a mia difesa nessuna mano umana potrà scalfirla! È una cinta che mi
protegge da ogni pericolo, una cinta sorretta da tre stelle principali!
Alnitak, la cintura! Alnilam, la fila di perle, e Mintak… aaa!!!” –Iro non
riuscì a terminare la frase che venne spinto indietro, ferito da un rapido
movimento del braccio del Nefario, il cui guanto aveva trapassato la barriera,
lasciando spuntare i pericolosi artigli al suo interno. –“Co… come è
possibile?! Mai nessuno, neppure gli antichi nemici del Vindice dell’Onestà,
sono riusciti ad aver ragione della mia difesa! La cintura di Orione! Come puoi
tu, silente ombra, essere riuscito a tanto?!”
Il nemico non rispose, osservando soddisfatto il proprio giocattolo e
ripulendone le punte aguzze dalle schegge dell’armatura di Orione che aveva
poc’anzi scalfito. Quindi, sogghignando divertito, scattò di nuovo all’attacco,
mulinando il braccio in modo da generare continui reticolati di fasci di
energia che si abbatterono su Iro da ogni direzione, falciando tutto quel che
incontravano sul loro cammino.
Fu svelto, il Primo degli Heroes, a correre tra gli alberi, evitando di
essere raggiunto da quegli aguzzi raggi, che distrussero rami e tronchi, pietre
e mucchi di neve. Corsero per qualche minuto, girando intorno, tornando
indietro e poi cambiando di nuovo direzione, decisi entrambi a stancare
l’avversario, senza che nessuno dei due ne parve affatto turbato. Fu Iro,
infine, ad interrompere lo stallo, sfruttando il gigantesco tronco di un albero
caduto, usandolo per darsi la spinta e balzare in alto, fin quasi in cima alle
fronde secolari, lasciando esplodere il proprio cosmo.
“Ascolta, sgherro di Caos, il rimbombo che scuote ogni cuore, anche il
più malvagio! Odi il Tuono del
Cacciatore!!!” –Esclamò fiero, scagliando l’assalto dall’alto verso il
basso, ove il Nefario era rimasto.
Il violento attacco distrusse un po’ di rami sporgenti, prima di
abbattersi su di lui, che mosse lesto il braccio destro, generando incessanti
reticolati di energia, per smorzarne la furia. Quindi, proprio mentre Iro
piombava su di lui, il pugno teso e carico di energia cosmica, il silenzioso
membro dello Zodiaco Nero rimase immobile, limitandosi a drizzare l’arto al
cielo, con gli artigli rivolti verso il guerriero di Eracle.
L’impatto fu devastante, ben peggiore di quanto Iro si fosse
immaginato. Non solo la sua massima tecnica non aveva piegato il Nefario, ma il
rostro metallico gli aveva persino squarciato la corazza di Orione su un
fianco, raggiungendo la carne e ferendolo, mentre lui era riuscito solo a crepare
la sua armatura, distruggendogli l’elmo. Così, vicini l’uno all’altro, i due
avversarsi poterono scrutarsi meglio, ma niente di ciò che vide nel volto
austero del nemico rassicurò il Primo tra gli Heroes, spingendolo ad
allontanarsi all’istante.
Non fu però svelto a sufficienza, venendo intercettato, nel balzo
all’indietro, dal rapido movimento dell’arto del Nefario, che calò ratto sul
piede di Iro, inchiodandolo a terra, trafitto da un paio di artigli del suo
guanto micidiale, strappandogli un grido di dolore. Ghignando eccitato, il
guerriero del Caos levò lo sguardo su di lui, sfoderando un sorriso perfetto e
limpido, come il bianco immutabile della sua corazza, un biancore che
contrastava con la sua furia sanguinaria.
Una bestia, nient’altro che una
bestia pericolosa! Convenne
il fedele di Eracle, poggiandogli la mano sul petto e sprigionando un’onda di
energia che lo spinse indietro, un’onda che il Nefario sfruttò per darsi lo
slancio e compiere un’agile capriola a mezz’aria per atterrare di nuovo a piedi
uniti. Incredibile! Non ho mai visto un
uomo così preparato atleticamente! Una vera e propria macchina da guerra!
“Non considerarlo un uomo! Ormai non lo è più!” –Una voce ruppe il
silenzio della foresta, portando Iro a guardarsi attorno con attenzione,
temendo un secondo attacco. Fu accanto ad un albero poco distante che individuò
una sagoma in armatura rossastra, che avanzava caracollando, ferita e
sanguinante, riconoscendola all’istante. Era uno dei demoni che aveva lasciato
a combattere con Chirone.
“Che ne è del mio compagno?” –Subito gli chiese.
“Non della sua già segnata sorte dovresti preoccuparti! Ma della tua!
Le piaghe dei Fomori non lasciano speranza, motivo per cui mi sono allontanato,
per non esserne infettato del pari! Ma contro Grendel anche tu poco puoi fare,
solo sperare che ti finisca in fretta, senza torturarti, senza giocare con i
tuoi organi interni, come è solito fare dopo aver vinto qualcuno!”
“Grendel? È questo il suo nome?!” –Chiese Iro, riportando l’attenzione
sul biondo guerriero dalla corazza bianca, intento ad osservare compiaciuto il
centellinare del sangue nemico sulle lame del suo guanto. –“Non era una bestia
mitologica?!”
“Non lo siamo forse tutti?! Ih ih ih! Spiriti maligni, anime colme
d’odio, demoni e creature infernali! Il Gran Maestro del Caos ci ha richiamato
per servirlo, facendoci dono di queste corazze! Ma per Grendel ha mostrato una
simpatia particolare, ornando la sua armatura di un particolare ornamento, come
avrai notato! Unico, tra i dodici, a disporre di un guanto di mithril!”
“Che… cosa?!” –Esclamò Iro, rabbuiandosi. –“E dove l’ha trovato? È
materiale rarissimo quanto pregiato! Persino il Sommo Efesto di ben poco ne
disponeva e il Fabbro di Tirinto, il coraggioso Leandro, non ha mai avuto
l’onore di lavorarlo!”
“Non so cosa dirti, guerriero di Eracle! So solo che il Maestro del
Caos disponeva di un frammento di mithril, trovato o rubato chissà dove e
chissà quando! A Grendel ne ha fatto dono, a Grendel che ha cullato, allevato e
cresciuto personalmente nel corso di questi ultimi anni, da quando lo trovò,
quasi morto per ipotermia, in uno dei suoi viaggi nel nord del mondo! In uno
dei suoi pellegrinaggi alla ricerca di fantomatici talismani! Lo trovò e ne fu
attratto, ammirando la tenacia con cui quel ragazzetto biondo, tutto ossa,
fosse riuscito a rimanere in vita nonostante il freddo, nonostante i pochi
stracci che aveva addosso! Convinto che avrebbe potuto farne un guerriero
letale, lo portò con sé, addestrandolo e facendolo divenire quel che adesso è!
Un sicario perfetto, freddo come il ghiaccio e silenzioso come la neve!
Desisti, Iro di Orione, ti risparmierai una fine dolorosa!” –Concluse Alu,
lasciandosi cadere con la schiena contro un albero, stanco e ferito.
“Mai! Che guerriero sarei, se rinunciassi alla lotta! Come potrei
essere il Primo tra gli Heroes? Il primo tra i fuggitivi sarei, in tal caso!”
“Come credi…” –Mormorò il demone assiro, mentre Grendel, che si era
trastullato abbastanza, rimirando il gingillo di cui il suo maestro gli aveva
fatto dono, riportò lo sguardo su Iro, espandendo il proprio cosmo. Senz’altro
attendere, il Nefario bianco scattò avanti, generando nuovi affilati fendenti
energetici, che il fedele di Eracle fu svelto a contrastare con la sua
barriera, sollevata qualche metro avanti a sé, per non ripetere il precedente
errore.
Uno dopo l’altro, i reticolati di energia del Grendel vi si
schiantarono, senza riuscire a superarla, obbligando il guerriero a lanciarvisi
contro, il guanto teso avanti a sé e pronto per dilaniarla. Fu allora che il
cosmo di Iro esplose, concentrandosi in tre stelle che brillarono vivide nella
cintura difensiva.
“Alnitak! Alnilam! Mintaka! Esplodete!!!” –I tre astri rilucettero come
grani d’oro, abbagliando Grendel, che, accecato, non riuscì a scalfire la
barriera di Iro, prima di spingerlo indietro, danneggiando la sua corazza alle
gambe e al ventre. Costretto ad arretrare, il biondo guerriero fissò il rivale
con astio, imprecando sconosciute parole contro la Cintura di Orione, prima che
un’idea guizzasse nella sua mente. Ghignando, piantò il rostro di mithril nel
suolo, scavando in profondità, prima di fare forza e sollevare l’intera zolla
di terra davanti a sé, su cui anche Iro si ergeva, scagliandola in aria. Preso
alla sprovvista da quell’inusuale strategia, il fedele di Eracle barcollò,
mentre Grendel si lanciava in alto, mirando al suo cuore con i gelidi artigli.
I riflessi del Primo Comandante gli permisero di evitare l’affondo,
proprio mentre la gravità li faceva cadere verso terra, assieme a mucchi di
terriccio e neve. Ma anche in quel momento Grendel tentò di trafiggere
l’avversario, spostando il braccio verso di lui, che però si aspettava quella
mossa e aveva già unito gli arti per bloccare il pericoloso guanto, afferrando
il Nefario per il polso e fermandolo.
Caddero a terra così, Iro intento a tenere a distanza quel rostro
maledetto e Grendel che ululava, ringhiava, emetteva versi osceni nel tentativo
di riprendere possesso del suo arto. Con il braccio sinistro, colpì il
guerriero di Tirinto al volto, al mento, sul naso, massacrandolo di pugni,
mentre già le gambe studiavano la postura più adeguata per bilanciare il peso e
strappar via il manufatto che Iro stava trattenendo.
Fu però ancora una volta il Primo tra gli Heroes a sorprenderlo,
torcendogli il polso all’improvviso e gettando il Nefario schiena a terra,
assieme alla consapevolezza di non poter più muovere la mano, priva ormai di
sensibilità. Con un calcio violento, Iro allontanò il nemico da sé,
schiantandolo contro un albero e sommergendolo sotto un cumulo di neve che
crollò su di lui, strappando una risata ad Alu che, seduto poco lontano,
osservava divertito lo scontro. Non passò che un attimo che già il cosmo
biancastro del Grendel annientava neve e albero, mentre il guerriero si
rimetteva in piedi a fatica, tenendosi il polso rotto con la mano opposta.
“Tempo di scrivere la parola fine sulla tua nefasta esistenza! Sento
cosmi inquieti esplodere all’interno delle mura di Asgard e dubito che quel
damerino di Shen Gado e l’Ase della Luna riescano ad occuparsi di tutti loro!
La mia presenza è necessaria altrove, Grendel! Cedi il passo!”
Il Nefario mosse impercettibilmente la bocca e Iro capì che non
l’avrebbe fatto. Anche senza più l’artiglio su cui tanto faceva affidamento,
avrebbe continuato a combattere. Per cosa
poi? Si chiese il fedele di Eracle, bruciando il cosmo fino al parossismo,
abbagliando persino Alu da quanto intensa era la sua aura.
“Tuono del Cacciatore!!!”
–Imperò Iro, liberando il devastante assalto appreso da Eracle secoli addietro.
Grendel tentò di opporvisi, muovendo il braccio destro con l’ausilio del
sinistro, ma i fendenti che riuscì a scatenare, ben più deboli dei precedenti,
non poterono frenare l’urlo di Orione, che lo investì in pieno, distruggendo la
sua armatura e la pelle al di sotto, fino a schiantarlo a terra, in una pozza
di sangue. Rossa, come un colore che non aveva mai segnato la sua vita,
dominata soltanto dal bianco.
Stanco per il violento scontro e con ferite aperte a un fianco e a un
piede, Iro si appoggiò ad un albero, per regolarizzare il respiro. Sapeva che
non era ancora finita. Alu lo attendeva pochi passi più in là ma il demone,
stranamente, non sembrava avere fretta alcuna, intento ad osservare l’aria
attorno, ad annusarla quasi, prima di riportare lo sguardo su di lui. Uno
sguardo che, Iro lo notò, era di terrore puro.
***
La sconfitta di Polemos prese Chimera alla sprovvista, strappandogli un
vagito di sorpresa, fastidio e dolore. Un crogiuolo di sentimenti diversi,
sospinti dal vento dei ricordi, che sfociò in un urlo gravido di collera, un
urlo che anticipò l’esplodere del proprio cosmo. In un attimo si sbarazzò di
Reis e Jonathan, scaraventandoli lontano, scheggiando le loro armature dorate,
prima di lanciarsi verso la riva del Nilo.
Furono Bastet e Horus a sbarrargli il passo, indeboliti ma mai proni.
La prima scattò al suo fianco, cercando di colpirlo con una miriade di fasci di
energia, il secondo planò dall’alto, sostenuto dalle ali argentee della Veste
Divina, deciso a sbatterlo a terra con un calcio volante. Ma entrambi
fallirono, forzando il biondo guerriero a fermarsi e ad occuparsi di loro, non
più per gioco o divertimento bensì per ucciderli.
Con un solo colpo di coda afferrò un piede del Dio Falco, prima che lo
raggiungesse alla nuca, strattonandolo e lanciandolo contro l’allieva di
Sekhmet, facendoli ruzzolare a terra. Non pago, caricò la gamba destra di
energia cosmica, calandola al suolo e godendo di fronte all’improvvisa vampa
che scaturì dal terreno sotto i suoi nemici, che li scagliò molti metri in
alto, travolti e dilaniati da zanne energetiche simili a quelle di una fiera
sanguigna.
“E ora… l’ultimo colpo!” –Sibilò, balzando in alto, il pugno carico di
cosmo violaceo. –“Morite, Dei d’Egitto! Fauci
delle tre bestie!!!”
Il poderoso assalto investì Horus e Bastet, ferendoli in più punti, non
solo dove le corazze non coprivano i loro corpi ma anche dove fino ad allora
non avevano subito danni, esposti ad una furia che pareva essere persino
aumentata, nonostante la lunghezza dello scontro. Fece il possibile, il figlio
di Osiride, per proteggere se stesso e la Dea Gatta, afferrandola e tirandola a
sé, prima di aprire le ali e offrire la schiena all’attacco avverso, sperando
così di limitare i danni. Fu mentre precipitavano a terra, prima di schiantarsi
e perdere i sensi, che Horus realizzò che il potere del guerriero oscuro era
triplice, come la bestia del mito. E
forse, si disse, ricordando il mito di Chimaira, non solo la sua forza è tale. Ma anche la sua natura.
Sbarazzatosi degli ultimi Dei egizi, Chimera poté raggiungere infine le
devastate rive del Nilo, vagando con lo sguardo alla ricerca del corpo del suo
mentore, senza riuscire a individuarlo. Frustrato, scagliò un violento pugno di
energia contro l’acqua, sollevandola e finendo persino per schizzarsi.
“Non lo troverai più!” –Disse allora una voce, costringendo il biondo
soldato a voltarsi verso colui che aveva appena parlato. Un uomo alto dai
capelli verdi, rivestito da una corazza arancione, di certo un membro della
guardia scelta da Amon Ra per difendere Karnak. –“La corrente deve averlo già
portato oltre! Chissà magari è già oltre i templi di Abydos o magari si è
arenato presso Qeda!”
“Osorkon dice il vero! Il Nilo non perdona! Il Nilo sa cosa avete fatto
quest’oggi, come avete rovinato le sue terre, e non ti permetterà di riunirti
al demone che ha scatenato quest’inferno!” –Aggiunse un altro guerriero, dai
lunghi capelli violetti, affiancando il compagno, rivestito di un’armatura di
simile fattura.
“Quel demone…” –Strinse i pugni Chimera, parlando a denti stretti.
–“Era il mio mentore, il mio maestro! Colui che mi ha addestrato e mi ha
permesso di scoprire la mia vera natura! E voi, che ardite starmi di fronte,
presto conoscerete la furia delle tre bestie!”
“Le bestie come te sono destinate solo al macello! Carne per carogne
sarai!” –Gridò l’uomo chiamato Osorkon, spalancando le ali della corazza e
spiccando un balzo. –“Sei con me, Tutmosis?”
“Come sempre!” –Si limitò a rispondere l’altro, espandendo il proprio
cosmo. Ma prima ancora di liberare un qualunque colpo segreto, Chimera era già
sfrecciato verso di lui, evitando i miseri affondi del Faraone del Falco Sacro
e afferrando il compagno per il collo.
“Tutmosis!!!” –Gridò Osorkon, muovendosi per tornare indietro, in suo
aiuto, prima che la serpentiforme coda di Chimera lo afferrasse per le gambe,
chiudendogliele e sbattendolo a terra, con la faccia sulla sabbia ai guerrieri
egizi tanto sacra.
“Taci! Non voglio più udire la vostra ridicola voce! Non voglio più
sentirvi respirare! È inammissibile che vermi come voi, i primi che dovrebbero
cadere in una battuta di caccia, siano ancora in piedi e il mio mentore, Nume
Supremo della Guerra, sia stato vinto! Io… non lo accetto!!!” –Ringhiò il biondo
seguace di Caos, liberando il suo cosmo ardente, che percosse l’intero corpo di
Tutmosis, facendolo ballare, folgorato da migliaia di scariche energetiche
potenti al punto da distruggere la corazza del Faraone delle Sabbie e impedirgli
qualsiasi contromossa. Non riuscì neppure a parlare, il fedele di Amon, neppure
per rivolgere un’ultima preghiera al Dio per cui sarebbe morto. Poté solo
rimirare gli occhi rossastri di Chimera, saturi di un odio che non aveva mai
visto in nessun essere umano. E quella fu l’ultima immagine che vide, prima che
il suo corpo si schiantasse e la sua anima scivolasse verso Amenti.
“Ma… maledetto!!!” –Avvampò Osorkon del Falco Sacro, che intanto
smaniava, nel disperato tentativo di liberarsi dalla coda di Chimera.
“Non t’agitare troppo, ragazzetto! Non crederai che voglia ucciderti
così, mentre ti dibatti come la selvaggina afferrata da una tagliola? Oh no, ti
lascerò correre, scappare, piangere tutte le lacrime che vuoi, e intanto ti
darò la caccia, ti stanerò e infine ti sgozzerò, gettando il tuo cuore ai
coccodrilli del Nilo!” –Rise il guerriero dai capelli biondi, la cui aura
cosmica stava schiacciando Osorkon a terra.
Proprio in quel momento una gigantesca fiammata spazzò via gli ultimi
golem creati da Jared, gettando il Nefario a terra, con la corazza danneggiata
e la pelle ustionata in più punti. Sin degli Accadi, a poca distanza, lo
intimava a rialzarsi, per dargli il colpo di grazia, non amando infierire su
inermi avversari. Dall’altro lato del campo di battaglia, quello rivolto verso
Karnak, Andrei e Phoenix avevano appena sollevato un muro di fuoco, uno
sbarramento atto a chiudere all’Armata delle Tenebre qualsiasi via verso il
tempio di Amon. Ringhiando furioso, il discepolo di Polemos vide che il muro di
fiamme si stava espandendo anche ai lati, assumendo in fretta la struttura di
un rettangolo aperto solo su un lato, quello rivolto verso di lui. Verso il
Nilo.
“Fuoco o acqua.” –Rifletté, sondando con il cosmo l’intera area, alla
ricerca dei potenti compagni giunti con lui in Egitto. –“Due modi diversi per
morire, entrambi non gratificanti per l’armata che avrebbe dovuto radere al
suolo questo vetusto tempio, facendone la prima base per la successiva avanzata
verso nord.”
Dei cosmi di Keres e Lissa non trovò traccia, neppure all’interno di
Karnak. Apate e Disnomia erano cadute, e probabilmente anche Oizys, per quanto
di quelle infide Astrazioni non gliene fregasse niente. I Lestrigoni erano
stati quasi tutti abbattuti, eccezion fatta per un’ultima decina, riuniti al
centro del perimetro fiammeggiante con i Nefari sopravvissuti. Ben pochi per riuscire ad abbattere l’Angelo
di Fuoco, il Cavaliere Divino e Amon Ra! Senza contare i quattro seguaci di
Avalon ancora vivi, e il Cavaliere d’Oro che ha vinto Beira! Dovette ammettere
Chimera, volgendo lo sguardo verso est, oltre Karnak. Oltre l’Egitto.
Là, presso il porto di Ghalib, dove Forco e i suoi sottoposti sarebbero
dovuti arrivare, marciando poi sul tempio dal lato opposto, cingendolo in un
massiccio assedio. Dove diavolo è finito
quell’idiota? E che ne è dei guerrieri dei mari che si vantava di aver
restaurato? Maledetto lui e tutta la sua genie mostruosa! Spero abbia una
spiegazione soddisfacente per la sua defezione! Quindi, comprendendo di non
poter fare altro, vociò ai Nefari e al resto dell’Armata delle Tenebre di
ritirarsi.
“Mio Signore, non ce lo permetteranno! Non ci lasceranno andare via!”
–Lamentò Jared, il volto per metà ustionato dalle fiamme del Selenite di Marte.
“Ci penseranno i Lestrigoni ad offrirci una possibilità di fuga! Mi
avete sentito? Voi, grossi giganti deformi, dimostrate che il Lord Comandante
non aveva sbagliato a volervi in squadra! Avanzate, coraggio! Marciate compatti
verso i nostri nemici! Marciate verso la fine di tutto!!!” –Imperò, spingendo i
robusti soldati avanti con la propria aura cosmica, permettendo al resto
dell’esercito e ai tre Nefari sopravvissuti di ricongiungersi a lui.
“Do… dove credete di andare?!” –Rantolò il Faraone delle Sabbie,
disteso sotto di lui.
“Torniamo a casa, idiota! E tu verrai con noi! Misera preda, ma meglio
di niente!” –Chiosò Chimera, stordendolo con un pugno in testa. Quindi diede
ordine al Wendigo di metterselo in spalla, prima di avvolgere il resto delle
truppe nel suo cosmo e invocare l’aiuto dell’ancestrale Divinità cui erano
fedeli. Lui li avrebbe protetti. Lui li avrebbe ricondotti al Santuario delle
Origini, dando loro una seconda possibilità.
Non riuscì a trattenere un gemito di dolore, che mutò presto in uno
strillo disperato, quando l’ombra di Caos si allungò su di loro, sovrastandoli
e inglobandoli in una nube oscura, dentro la quale, uno dopo l’altro, vennero
massacrati.
“Pietà! Pietà, mio Signore!!!” –Gridò Chimera, mentre artigli di
tenebra dilaniavano i soldati che fino a poco prima avevano lottato in suo
nome. –“Non è stata colpa nostra! Forco ci ha abbandonato! Lui è il colpevole…
luiii!!!” –Strepitò, al pari dei Nefari, sentendo il sangue ribollire nelle
vene, le corazze schiantarsi, le ossa scricchiolare, sul punto di esplodere. Quindi,
quando temette che sarebbe davvero stata la fine, la nube nera svanì,
evaporando all’istante, come non fosse mai esistita.
Guardandosi attorno, l’allievo di Polemos vide che erano di nuovo nel
deserto del Taklamakan, di fronte alla Porta della Notte. Allora, e solo
allora, si concesse di cadere in ginocchio sull’arido suolo, vomitando sangue e
chissà quale liquido interno, prima di voltarsi verso coloro che erano rimasti,
i pochi fortunati a sopravvivere ad una collera così oscura. Jared, Eogan, il
Wendigo, e la carcassa di Osorkon del Falco, ultimo Faraone delle Sabbie a
morire per Amon Ra. Del resto dell’Armata delle Tenebre non erano rimaste
neppure le ceneri.
“Forco, tu sia dannato per l’eternità!!!” –Ringhiò Chimera.
Capitolo 38 *** Capitolo trentasettesimo: La fine di un sogno. ***
CAPITOLO
TRENTASETTESIMO: LA FINE DI UN SOGNO.
Toru osservava sconvolto i cadaveri di Maru e
Tara, gli amici al cui fianco era cresciuto e diventato uomo. Lui, con il
costato sventrato dallo scettro di Forco, lei, con
quel che restava del corpo segnato da violacee ustioni, dovute al veleno
contenuto nella sua corazza che aveva infine liberato. Quello stesso veleno che
aveva prostrato Forco a terra, costringendolo ad un
dispendio di forze che mai si sarebbe aspettato di sostenere.
È stata brava, rifletté il figlio di Ponto
e Gea, l’Areoi di Diodon ad affondare gli
aculei laddove il Narvalo aveva poc’anzi colpito, trovando terreno facile alla
diffusione del suo potere. Pur tuttavia l’ingenua ragazza non aveva considerato
chi aveva di fronte. Un Dio, anzi il Dio. L’unico Signore dei Mari, l’unico che
adesso possa fregiarsi di tale titolo! Si disse, fiero di sé, rialzandosi e
osservando il devastato piazzale di fronte al Palazzo di Corallo, dove pochi
ancora resistevano al suo progetto di dominio.
Fiaccato dalle perdite recenti, il Comandante degli Areoi
lo fissava con rabbia e presto avrebbe scatenato di nuovo le sue fauci. Al
contrario, Nettuno era ancora a terra, il cosmo ormai l’ombra di quel che era
stato un tempo. Delle due guerriere ben poco se ne caleva, così come dei
Seleniti già feriti, ma di Toru avrebbe dovuto occuparsi, e avrebbe dovuto
farlo subito, prima di varcare la soglia del Palazzo di Corallo e prendere quel
che voleva. Così, senza dire alcunché, concentrò il cosmo sul palmo della mano,
volgendola poi verso il discendente di Afa, schiacciandolo a terra e
schiantando la sua bianca corazza in più punti. Rise, Forco,
vedendo con quanta foga, con quanta ostinata foga, il giovane tentava di
resistere, di rialzarsi, di contrastare quella pressione che di certo doveva
ricordargli quella che chiunque provava nuotando a tali perigliose profondità.
Per quanto vi fosse abituato, quel peso era troppo per essere sostenuto da
solo, anche per Toru.
Fu una voce amica a venirgli in aiuto, mentre un fendente di energia
cosmica squarciava il suolo di fronte al tempio, spezzando la concentrazione di
Forco.
“Taglio delle Onde!!!”
–Esclamò una giovane figura, portandosi davanti al suo Comandante, il braccio
destro carico di cosmo, il sinistro invece piegato davanti a sé.
“Kohu…” –Balbettò Toru, affannando nel
rialzarsi. –“Che fai qui? Vattene via, è pericoloso!”
“Non più di rimanere inerme ad aspettare gli eventi, ad aspettare che
questi mostri ci portino via la nostra casa, Comandante! La nostra terra!”
–Spiegò l’Areoi dell’Istioforo. –“Inoltre, non sono
venuto da solo!” –Aggiunse, prima che una figura avvolta nel suo cosmo bluastro
scattasse dietro di lui, liberando il suo colpo segreto.
“Frecce del Mare!!!” –Gridò
Nesso del Pesce Soldato, scagliando un nugolo di dardi di energia acquatica
verso Forco, che non ebbe problema a spostarsi ad una
velocità maggiore, evitandoli tutti. Quindi, quando l’attacco scemò
d’intensità, mosse il braccio, generando un’onda di energia cosmica che ruggì
furiosa verso il ragazzo, strappando un grido a Kohu
e Toru, dietro di lui. Ma Nesso non si fece prendere dal panico, sparando un
arpione contro una guglia del Palazzo di Cristallo e lasciandosi tirar su dal
cavo proprio mentre il maroso scrosciava sotto di lui.
Sorprendendo Forco, con quell’agile mossa, il
fedele di Eracle si lasciò cadere sul nemico, attaccando dall’alto con una
selva di frecce di energia.
“Quel ragazzo non ha paura di niente, nemmeno della morte! Mi ricorda
Pegasus!” –Giudicò Tisifone, osservando sbalordita la
scena. –“Ma vi incorrerà presto se non lo aiutiamo!” –Le fece eco Titis, correndo avanti e sfiorando il suolo. –“Sottile trama corallina!!!” –Disse,
evocando un colorato strato di coralli che andò sorgendo attorno ai piedi di Forco, intrappolandolo quel breve attimo che fu sufficiente
a distrarlo dall’attacco di Nesso.
Tisifone, Kohu e Toru approfittarono proprio di
quell’attimo per scagliare i loro colpi segreti, ognuno da una direzione
diversa. Il Cobra Incantatore, il Taglio delle Onde e le Fauci dello Squalo Bianco coprirono in
un lampo la distanza dal Nume, abbattendosi su di lui in un turbine di scariche
e fendenti energetici.
“Graurrr!!!” –L’urlo di Forco
non tardò ad arrivare, anticipando il sollevarsi di un’onda di colore blu
notte, che si espanse attorno a lui, investendo tutti i combattenti e
trascinandoli molti metri addietro, con le corazze danneggiate. –“Come osate?
Pagherete cara la vostra avventatezza!!!” –Gridò, osservando le scheggiature
che costellavano la sua Veste Divina, solo una minima parte del fastidio che
essere sfiorato da luride mani umane generava in lui. Mani di Heroes e di Areoi, mani di Cavalieri di Atena, mani che, a modo loro,
credevano di appartenere a chissà quale eroe leggendario. Ma lui, che negli
eroi non credeva, poiché tutti quelli considerati tali avevano sempre sconfitto
e piegato le potenze e gli abitanti dei mari, un simile vilipendio non poteva
accettarlo e adesso lo avrebbe estirpato.
“Si fermi, mio Signore! Non si sporchi le mani! Lasci a me costoro,
provvederò a spazzarli via con un colpo solo! Anzi, con un corno solo!”
–Esclamò allora una voce maschile, mentre un guerriero in armatura azzurra
avanzava verso il Palazzo di Corallo, camminando a passo tranquillo lungo la
via che proveniva dalla Conchiglia Occidentale.
“Meritursas, sei tu?!” –Lo riconobbe Forco. –“Meglio tardi che mai! Che ne è degli altri?”
Il Quinto Forcide scrollò le spalle, prima di
appuntare la sua attenzione sugli avversari che nel frattempo si stavano
rialzando. Con un agile balzo fu su Kohu, colpendolo
con un calcio al mento e sbattendolo a terra, facendogli sputare sangue e
qualche dente rotto, poi calò il pugno destro su di lui, ma trovò un’improvvisa
singolare protezione a sua difesa.
“Vela bianca!!!” –Esclamò il
ragazzo, che aveva mosso il braccio sinistro in fretta, espandendo la materia
cartilaginosa di cui era dotato, creando un’ampia vela triangolare che usava
come scudo.
“Ridicolo!” –Lo schernì l’Iku-Turso,
tempestandola di pugni.
“Ehi, pesciolino!” –Lo chiamò allora una gioviale voce, fischiando il
suo nome. –“Fatti mettere in gabbia!” –Aggiunse Nesso, tenendosi il braccio
destro col sinistro, ritto davanti a sé, e sparando dalla protezione
dell’armatura un arpione che andò a piantarsi in una coscia del Forcide, strappandogli un grido di dolore. –“Oplà!!!”
–Esclamò il guerriero di Eracle, strattonando il cavo e gettando l’Iku-Turso a terra.
“Quando hai finito di giocare, sai dove trovarmi, Quinto Forcide! Mi aspetto che tu venga presto a rendermi
omaggio!” –Parlò Forco, scuotendo la testa e
iniziando a salire i gradini che conducevano all’interno del Palazzo di
Corallo, da cui una strana nebbia pareva fuoriuscire, una bruma oceanica che
prima non aveva notato.
“Forco!!! Torna indietro!!!” –Ringhiò Toru,
scattando avanti. Ma l’Iku-Turso, che nel frattempo
si era tolto l’arpione di Nesso dalla gamba, aveva appena afferrato il cavo,
strattonandolo e tirando il ragazzo avanti, scaraventandolo proprio contro l’Areoi dello Squalo Bianco.
“Avete sentito il mio Signore? Mi aspetta nel suo nuovo palazzo, ai
piedi del trono dei mari! Non fatemi perdere tempo, bambocci!” –Esclamò il
Quinto Forcide, espandendo il cosmo e portando avanti
entrambe le braccia, mentre una mandria di buoi di schiumosa energia cosmica
caricava i tre guerrieri. –“Tuonenhärkä!!!”
“Dietro di me!!!” –Gridò allora Kohu,
ponendosi di fronte a Nesso e a Toru, con la bianca vela sollevata per
proteggerli. Non resse molto, quella misera protezione, dilaniata dagli
affilati corni dei Buoi della Morte, ma permise loro di subire l’assalto
soltanto di striscio, sfruttando quel tempo per rifiatare.
“Tuhatsarvi!!!”
–Imperò allora l’Iku-Turso, poggiando una mano al
suolo e infondendovi il proprio cosmo, che si palesò sotto forma di mille corna
di oscura energia che spuntarono dal suolo sotto i piedi dei tre combattenti,
aggirando la Vela Bianca di Kohu. –“Epiteto
veritiero, questo che fu dato alla bestia che rappresento! Possiede davvero
mille corna velenose! Oh, non l’avevate notato? Sentirete presto gli effetti di
quelle ferite, si propagheranno nei vostri corpi malati fino a consumarvi!”
“Che una viscida carogna tuo pari possa sconfiggere il predatore dei
mari è un’eresia!” –Esclamò Toru, rialzandosi a fatica, trattenendo i conati
allo stomaco e scuotendo la testa di continuo, per mettere a fuoco l’immagine
del suo avversario che appariva sempre più sfuocata. –“Che sia cieco o sordo,
poco importa! Non tapperai le Fauci
dello Squalo Bianco!!!” –Avvampò, portando avanti il braccio e scagliando
il suo colpo segreto, cui il Forcide rispose con la
carica dei Buoi della Morte, lasciando scontrare i due attacchi e balzando poi
indietro, evitando l’onda di ritorno, a differenza dell’indebolito Toru, che
venne travolto e sbattuto a terra.
“Ormai lo squalo è diventato un pesce rosso, a giudicare dal sangue che
fuoriesce dalle ferite aperte! Poche in verità! Quante sono? Neppure un
centinaio! Lascia che le aumenti! Lascia che diventino mille, come le corna del
Padre delle Nove Malattie! Tuhat...” –Ma l’Iku-Turso
non riuscì a terminare la frase che il suo braccio venne strattonato con forza,
da un robusto tentacolo metallico che glielo torse all’indietro, costringendolo
a guardare in faccia la sua nuova avversaria.
“Alcione!!!” –Esclamò Nesso, felice di rivederla. –“Sei viva!!!”
Dietro di lei arrivarono Sirio e Ascanio, avvolti nelle loro aure
cosmiche, i corpi segnati dalle fatiche sostenute; in particolare il Cavaliere
di Avalon appariva ben più malridotto di quando Toru, Tisifone
e Titis lo avevano visto l’ultima volta.
“Ancora per poco!!!” –Ringhiò il Forcide, che già
aveva affrontato la donna qualche ora addietro. Strinse il tentacolo con
l’altra mano, mandandolo in frantumi, prima di evocare la mandria di Buoi della
Morte, che lo attorniò da ogni lato, le lunghe corna aguzze pronte a immergersi
nei corpi dei suoi nemici. –“I buoi di Tuoni, Signore dell’Oltretomba presso i
popoli finnici! Che vi portino tutti a Tuonela! Che
vi portino all’inferno!!! Tuonenhärkä!!!”
L’attacco devastate si irradiò verso ogni direzione, piombando alla
stessa velocità sia su Toru, Nesso e Kohu, ancora
intenti a difendersi dietro quel che restava della Vela Bianca, sia su Sirio,
Ascanio e Alcione che su Titis e Tisifone,
cercando ognuno di proteggersi alla meno peggio. I discepoli di Dohko scatenarono la furia dei draghi di Albion e Cina, che dispersero gran parte degli armenti
energetici, permettendo anche alla fedele di Eracle di ripararsi dietro di
loro. La sirenetta sollevò una barriera di coralli, ma venne subito distrutta
dall’impeto dei Buoi della Morte, che si abbatté sulle due guerriere, ferendole
in più punti. Fu però un cosmo ben noto, assopitosi negli ultimi minuti, a
salvarle da morte certa, ergendosi di fronte a loro, le mani alzate sopra la
testa, a reggere un dorato manufatto.
Un corno di conchiglia.
“Mio…Signore…”
–Mormorò Titis, prima di perdere i sensi tra le
braccia di Tisifone, riconoscendo colui che le aveva
protette.
“Corno di Tritone!!!”
–Esclamò Nettuno a gran voce, risucchiando dentro la conchiglia la mandria di
armenti di Tuoni.
“Come osi, spregevole Dio minore, opporti a un emissario del grande Forco?!” –Ringhiò l’Iku-Turso,
espandendo il proprio cosmo e avanzando verso il Cronide.
“Come osi tu, uomo, pensare di rivaleggiare con me?!” –Ironizzò
quest’ultimo, prima di rivolgersi a Sirio e ad Ascanio. –“Forco
è all’interno! Dovete fermarlo prima che prenda la Perla dei Mari!” –I due
compagni annuirono, prima di scattare verso l’ingresso del Palazzo di Corallo,
seguiti da uno zoppicante Toru.
“Dove credete di andare? La morte è qui per voi ed ha il volto di
Tuoni!” –Vociò il Quinto Forcide, evocando un nuovo
gregge di Buoi Neri.
“No, Iku-Turso! Solo per te!” –Sentenziò
Nettuno, puntandogli contro il Tridente del Re Pescatore e liberando una
violenta scarica di energia, così potente da schiantarlo contro un edificio,
tra i frammenti insanguinati della propria corazza. Respirando a fatica, il Dio
crollò infine sulle ginocchia, sorreggendosi alla sua arma, voltando poi lo
sguardo verso il cuore dell’Avaiki, dentro il quale
un violento scontro era in atto.
***
“Va’ a controllare!” –Gli aveva detto Hina,
quando aveva sentito scontrarsi le energie di Forco e
di Nettuno, proprio fuori dal palazzo ove a lungo aveva dimorato, ultima di una
stirpe di guardiane che risaliva ai tempi di Antalya.
Asterios aveva esitato un momento, combattuto tra la ragione e il
cuore, una sensazione che non aveva mai provato fino a quel giorno. Del resto,
perché mai avrebbe dovuto provarla prima? In quale occasione? Forse nei secoli
trascorsi sulla Luna, a strimpellare una cetra per allietare cinquanta belle
fanciulle che non poteva nemmeno sfiorare? O ad osservare Endimione
e Selene amarsi, baciarsi e vivere quella vita felice
che solo due innamorati potevano sognare? Eppure anche lui, un tempo, si era
unito a una donna, a una mortale, e da quell’unione era nata Hina. Certo, come gli aveva detto suo fratello, era stata
una necessità di servizio, dettata dal dover mantenere una Alii
alla guida dell’Avaiki.
“E quale migliore Alii della figlia di uno
degli Angeli?” –Gli aveva sorriso Avalon, complimentandosi per il buon lavoro
svolto.
Un lavoro sì, in fondo non era stato altro, e così doveva essere.
Avalon aveva ragione, loro non dovevano immischiarsi nelle faccende umane, non
dovevano legarsi, non aveva alcun senso farlo. Erano immortali, destinati a
vivere migliaia di anni, fino all’avvento dell’ultima ombra, e destinati a
veder morire tutti coloro che avrebbero amato. Perché, quindi, rovinarsi così?
Andrei aveva fatto un errore simile e l’aveva pagato caro. E Alexer? Anche lui
forse non era stato sul punto di…?
“Va’! Sono in grado di reggere la barriera da sola!” –Continuò Hina. –“Adesso che tutti i nostri nemici sono dentro l’Avaiki, non ho più niente da temere dagli abissi oceanici!”
Sua figlia aveva ragione. Aveva sentito anche lui l’esplodere dei cosmi
di Sirio e Ascanio, nella Conchiglia Occidentale, e dallo squarcio nel muro
poteva vedere persino la tozza figura di Forco
battagliare con Nettuno con un’agilità che quel fisico non sembrava dover
permettere. Ma Forco era un Dio, un Nume ancestrale,
e avrebbe sfoderato la stessa forza anche se avesse avuto l’aspetto di un
vecchio decrepito. Non era forse anche il suo caso? Non erano anche loro
Quattro (o Cinque, in verità) degli Dei? Creature partorite all’alba dei tempi
e destinate a durare fino alla fine del ciclo cosmico. Quanti altri esseri
senzienti avevano goduto dello stesso destino? Asterios sorrise, ritenendo di
poterli enumerare sulle dita delle mani, prima che una nuova detonazione lo
portasse ad accelerare il passo verso l’uscita dal Palazzo di Corallo.
Fu allora che notò la nebbia, che lo circondava già da qualche istante.
Una grigia cortina così fitta come mai l’aveva vista fino ad allora. Non
dovette pensarci due volte per capire che non era naturale, bensì sorretta da
un cosmo nemico che di certo era vicino a loro. A chi può appartenere? Si chiese. Di certo non a Forco, che sta ancora lottando
con Nettuno! E poi non è il suo stile! Sarà opera di uno dei suoi scagnozzi,
qualcuno così codardo e debole da dover ricorrere a questi mezzucci per mettere
in difficoltà il proprio avversario.
Non che io lo sia, in fondo! Ironizzò, concentrando i sensi e
individuando tre macchie scure nella nebbia. Tre veloci macchie che guizzarono
verso di lui, costringendolo a bruciare il cosmo e a frenarne l’avanzata con un
solo gesto della mano. Rimase però stupito nel constatare che non vi era niente
davanti a lui, solo un’ombra. La stessa che un attimo dopo apparve alla sua
destra, replicandosi in due nuove copie che di nuovo parvero convergere
sull’Angelo, pur senza raggiungerlo mai.
“Hai un modo piuttosto subdolo di combattere!” –Parlò infine Asterios.
–“Ma forse sei troppo debole per uno scontro aperto, non è così? Beh, ti dirò
una cosa, hai sbagliato avversario! La nebbia, forse non lo sai, ma è formata
da gocce d’acqua sospese in aria ed io, tra i Quattro, sono colui che domina
l’elemento acqua!” –Chiosò, espandendo il proprio cosmo che si irradiò attorno
a lui sotto forma di lunghe lance che fendettero la
fitta nebbia, brillandovi per un breve istante prima di ritirarsi, e portare
con sé tutte le gocce d’acqua, liberando la sala da quella foschia.
“Aaahhh!!!” –Gridò in quel momento Hina, ruzzolando ai piedi della colonna ove era poggiata la
Perla dei Mari.
Asterios si voltò giusto in tempo per vedere un uomo rivestito da una
corazza azzurra ergersi dietro il basamento, lo stesso uomo che le aveva appena
sventrato un fianco con un singolo colpo di mano. –“Maledetto! Come osi?!”
–Avvampò l’Angelo di Acqua, inorridendo nel vedere l’anziana figlia distesa a
terra, in una pozza di sangue.
“Oserò molto di più se ti avvicini!” –Sibilò l’avversario, chinandosi
sulla donna e intingendo il braccio nello squarcio aperto, facendola sussultare
dal dolore. –“Perciò sta’ fermo lì! Voglio solo prendere una cosa e poi me ne
andrò!”
“Una cosa?! La Perla dei Mari?!”
L’uomo non rispose, limitandosi ad alzarsi, tirando Hina
con sé, e ad avvicinarsi alla sfera di luce, dentro cui vorticavano fatue
evanescenze. Nonostante l’avesse vista svariate volte, in occasione delle
visite che tutti gli Areoi compivano alla grande Alii, era la prima volta che poteva rimirarla da vicino. La
prima volta che poteva toccarla.
“Non ti permettere, bestia!!! Tieni lontane le luride zampe!!!”
–Esclamò Asterios, puntando una mano verso di lui, sul cui indice lampeggiava
già una smeraldina energia. Ma l’uomo fu svelto a porre Hina
davanti a sé, offrendola come scudo a chiunque avesse osato colpirlo.
“Beh? Non volevi attaccarmi?!” –Ghignò, fissando l’Angelo di Acqua
negli occhi e godendo della collera mista alla frustrazione che nuotavano nelle
sue iridi. –“Avanti, fallo! Che aspetti? Se vuoi impedirmi di prendere la Perla
dei Mari dovrai uccidermi e lei morirà con me! Non è la tua missione questa?”
Fu la voce di Hina a rompere il silenzio che
seguì a quelle parole, la debole voce di una donna che aveva vissuto abbastanza
da saper riconoscere la fine.
“Fallo!” –Si limitò a dirgli. Ma Asterios ancora non riusciva a
decidersi, forzando il nemico ad affondare ancora di più nel fianco della
vecchia, strappandole un sussulto di dolore, senza che fosse però accompagnato
da alcun lamento. –“Credi davvero che non sia pronta alla morte? Solo chi ha
vissuto male la teme davvero! Solo chi sa di aver sprecato l’unica esistenza
che gli è stata concessa! Puoi anche aver cambiato nome, Moeava,
ma non pensare che non abbia riconosciuto il tuo cosmo oscuro, non pensare di
essere cambiato! Sei ancora il solito discolo malvagio, consapevole di non valere
alcunché, di non essere degno di diventare un Areoi!”
“Zitta, strega!!!” –Le gridò in faccia l’uomo chiamato Moeava. –“È tutta colpa tua, tua e di quel bastardo di Toru
se non ho mai avuto l’investitura che mi spettava! Ma ora avrò la gloria,
quella eterna! Un vero peccato che tu non possa vedermi adesso, mentre ti
strappo quel che hai di più caro!” –Ringhiò, trapassandole del tutto il ventre
con il braccio e gettandola poi a terra, scagliandola lontano con un calcio.
Asterios corse subito da lei, sollevandole la testa e afferrandole un
braccio, sentendo la forza vitale abbandonarla. Avrebbe voluto dirle qualcosa,
forse che era colpa sua, che l’aveva messa al mondo confinandola a una vita di
privazioni e stenti, e a una morte atroce, ma lei gli parlò con il cosmo,
lenendo i suoi affanni e ringraziandolo.
“Non avrei potuto desiderare vita migliore!” –Gli disse, sorridendo.
–“Servire come Grande Madre di questo Avaiki è stato
un onore. E adesso, finalmente, dopo tutti questi anni, ritroverò coloro che ho
amato, coloro che il tempo mi ha portato via. Non vorresti, un giorno, godere
anche tu di questo dono, padre mio?” –Non aggiunse altro e spirò, mentre la sua
anima già riluceva diafana nella Perla dei Mari.
“È mia!” –Parlò allora Moeava, fissando il
globo azzurro con sguardo estasiato, quasi spiritato. Rimase un attimo ad
osservarla, rapito dai giochi di luce che provenivano dal suo interno,
affascinato dalle sottili figure che parevano nuotare in un mare immenso, prima
di afferrarla con entrambe le mani, sollevandola.
“Nooo!!!” –Gridò Asterios, scattando avanti.
Ma era troppo tardi. Troppo tardi per tutto.
Una fitta intensa scosse il Quarto Forcide,
facendo vibrare tutto il suo corpo, rimasto lì, in piedi di fronte al pilastro
sacro, lo sguardo fisso sulla Perla dei Mari che riluceva tra le sue mani. La
bocca aperta, quasi nell’atto di urlare al mondo il suo dolore, le palpebre
sollevate, le iridi che andarono schiarendosi sempre più, fino a divenire
bianche, al pari dei capelli. Quando ciò accadde, quando la vita lo abbandonò,
crollò di lato, a terra, rigido come una statua, mentre la sfera azzurra
rotolava via dalle sue mani, fermandosi al centro del Palazzo di Corallo,
proprio di fronte ad Asterios. Brillò per l’ultima volta, poi si spense,
apparendo infine come una sfera di roccia e niente più.
“Incredibile!!!” –Mormorò una voce alle spalle dell’Angelo di Acqua,
che, voltatosi, trovò Forco in piedi davanti a lui,
ad osservare la scena con un misto di incredulità e orrore negli occhi. –“Il
potere di quel manufatto è tale da poter dare vita o morte a chiunque lo
sfiori! L’Isonade è stato uno stupido a non valutare
il rischio!”
“La brama di potere acceca la mente anche dei più scaltri, dovresti
saperlo, Dio che tanto hai atteso nell’ombra il giorno del riscatto solo per
macchiarti delle stesse colpe dei tuoi predecessori!” –Giudicò Asterios,
fissando Forco con sguardo deciso.
“La morale rivolgila a qualcun altro! Sono qui per un motivo e porterò
a termine il mio piano, offrendo a Caos la Perla dei Mari! Lui non correrà
pericolo alcuno, lui saprà tenere a bada le anime che vi dimorano, cibandosi
della loro forza!”
“E come credi di prenderla? Come credi di superare l’Arconte di Acqua
che ti si pone davanti?!” –Ironizzò Asterios, espandendo il proprio cosmo, che
iniziò a brillare di mille luci verdastre attorno a sé.
“Vincendolo, come ho vinto tutti coloro che mi si sono parati davanti,
uomini e Dei!” –Avvampò l’altro, scattando avanti, di fronte allo sguardo
divertito dell’avversario, che indicò un nugolo di lucciole celesti che
danzavano attorno a lui. –“Che sono questi insetti luminescenti?!”
“Falene d’acqua! Lasciati guidare dalla loro luce, lascia che ti
portino via!” –Cantò l’Angelo, nelle cui mani era apparsa una cetra d’avorio,
sfiorando le corde dello strumento e generando un motivetto che parve animare
le falene, dirigendone il volo verso Forco, che si
ritrovò circondato e ricoperto da migliaia di insetti di luce.
“Ridicolo!!! Hai idea di chi hai di fronte? Sono il figlio di Ponto e di Gea, ultimo Signore
dei Mari, colui che guiderà il più grande regno del pianeta dopo che i
Progenitori avranno annientato la razza umana! Non sono uno che puoi
sconfiggere con questi trucchetti?!” –Esclamò
rabbioso il Nume, lasciando esplodere il proprio cosmo, con cui annientò tutte
le falene che lo avevano attorniato.
Ad Asterios bastò pizzicare la cetra per sollevare una bolla di energia
dentro cui si riparò, per difendersi dall’attacco, senza mostrare il benché
minimo cenno di stupore. Continuò a solleticare le corde dello strumento finché
la furia di Forco non parve placarsi e il Nume crollò
sulle ginocchia, respirando a fatica, chiedendosi il perché di quella
stanchezza improvvisa. Solo allora, osservando la propria Veste Divina, notò
che era costellata di piccole chiazze nere, proprio dove le falene si erano
posate.
“Mi hai...”
“Succhiato via l’energia vitale?!” –Annuì Asterios, smettendo di
suonare la cetra e avanzando verso l’indebolito Dio. –“La natura vuole
equilibrio, Forco, e tu l’hai violentato, assalendo
un regno che non aveva mai preso parte ad alcuna operazione bellica sul
pianeta, un regno che aveva scelto di vivere in pace! Non hai dimostrato
rispetto per coloro che dimorano nel mare, perché dovrei averne io per te,
colui che ordinato questa strage? Colui per colpa del quale mia figlia è
morta?!”
Forco non disse niente, limitandosi a spostare lo sguardo sul cadavere della
Alii, che stava rinsecchendo in fretta, mentre
un’espressione di dubbio gli comparve sul volto.
“Com’è possibile? Come può quella vecchia essere tua figlia? Avrà
almeno cento anni!!!”
“Duecentosedici, per l’esattezza!” –Precisò Asterios. –“Duecentosedici
anni trascorsi al servizio di una comunità che tu hai distrutto!” –E in quel
momento l’ombra di un dubbio lo invase, portandolo a voltarsi di scatto verso
la cima del palazzo e guardando oltre, fino alla cupola che proteggeva l’Avaiki.
Forco approfittò di quel suo momento di distrazione per lanciarsi su di lui,
gettandolo a terra con una spallata e colpendolo al volto con un pugno.
Rotolarono per qualche metro al centro dell’ampio salone, prima che una scossa
improvvisa riscuotesse entrambi, portando Asterios a reagire d’istinto. I suoi
occhi lampeggiarono, sbalzando il Dio nemico indietro e distruggendo parte
della sua corazza; quindi, vedendo che questi non accennava ad arrendersi,
sollevando le braccia per evocare la grande onda al suo comando, lo anticipò,
aprendo le dita della mano davanti a sé.
“Lance di acqua!” –Tuonò,
trapassando Forco allo sterno con cinque lunghe aste
di energia, fino a inchiodarlo alla parete alle sue spalle, mentre una nuova
scossa faceva tremare il Palazzo di Corallo e l’intero Avaiki.
“Cosa succede?! Che sta succedendo, Asterios?!” –Sirio e Ascanio
entrarono in quel momento nel salone, osservando la morte regnarvi sovrana e
rivolgendosi all’unico che, sia pur ferito, ancora si ergeva.
“Quello che temevo! Senza il cosmo della Alii
a sostenerla, la barriera che sorregge l’Avaiki sta
cedendo! Tra poco tutte le Conchiglie saranno invase dall’acqua che, senza
difesa, piomberà su questo regno, annegando chiunque vi si trovi!”
“Maledizione!!!” –Strinse i pugni il Cavaliere della Natura. –“Come
possiamo impedirlo?!”
“Non possiamo! Solo la Alii può sobbarcarsene
il peso, motivo questo della sua esistenza!” –Chiosò l’Angelo di Acqua,
frustrato.
“Posso offrirmi io per sostenere la barriera!” –Si fece allora avanti
Sirio, ma Asterios lo frenò subito.
“No! Il tuo destino è lottare contro Caos assieme ai tuoi compagni, non
trascorrere il resto della vita isolato nelle profondità oceaniche!”
“Eh eh eh…” –Un gorgoglio sommesso li
raggiunse in quel momento, portandoli a voltarsi verso Forco,
dalla cui bocca stava uscendo un rivolo di sangue. –“Pare che alla fine avrò la
mia vittoria! Il popolo che mi fece il gran rifiuto sarà condannato ad essere
rifiutato dal mare stesso!”
“Questo non accadrà!” –Esclamò deciso Asterios, prima di rivolgersi a
Sirio e Ascanio. –“Evacuate immediatamente l’Avaiki!
Fatevi aiutare da Nettuno e dagli Heroes! Portate in salvo quanti più Areoi potete! Io ve ne darò il tempo!”
“Mio Signore…” –Mormorò Ascanio, comprendendo
quel che l’Angelo voleva fare. –“Non vorrete rimanere qua sotto?”
“Se mia figlia ci ha vissuto in solitudine per duecento anni, posso
trattenermi anch’io quel tempo che ancora resta alla Terra prima di sprofondare
nell’ombra, non credi, Ascanio Pendragon?” –Gli
sorrise Asterios, prima di incitarli ad agire. Subito.
“Nooo!!! Maledetti!!! Ve lo impedirò!!!”
–Ringhiò allora Forco, facendo esplodere il proprio
cosmo e liberandosi dalle lance di energia acquatica. Fece per avventarsi sui
discepoli di Dohko, ma un muro di falene azzurre gli
si parò davanti, una barriera così fitta su cui andò a schiantarsi, mentre
quelle migliaia di insetti di luce gli ricoprivano il corpo, il volto,
entrandogli persino in bocca, nel naso, nelle cavità auricolari, per
succhiargli via fino all’ultima stilla di energia.
“Che fine orribile!” –Mormorò Sirio, distogliendo lo sguardo. –“Se la
merita!” –Chiosò Ascanio, mettendogli una mano su una spalla e correndo fuori,
mentre il suolo tremava ovunque attorno a loro e le volte delle Conchiglie
parevano schiantarsi da un momento all’altro.
Erebo era sorpreso di vedere Pegasus davanti a lui, in discreta forma
fisica e vestito di una nuova armatura, ancora più lucente della precedente.
Un’armatura intrisa di ichor al punto che poteva
essere considerata una vera e propria Veste Divina. Non ebbe bisogno di
domandare come l’avesse ottenuta, gli bastò spostare gli occhi su Zeus,
percepire la fiacchezza della sua aura cosmica e comprendere. Accanto al Nume
c’era Atena, la Vergine dallo sguardo scintillante, bardata di tutto punto,
persino di Egida e Lancia di Nike. E poco distante l’Arconte di Aria si era
liberato del nevoso terriccio precipitato su di lui, aiutato anche da Eir, che gli stava curando il braccio infettato dall’ombra.
Muovendo lo sguardo su tutti loro, il Tenebroso capì di essere
circondato. Capì che i nuovi arrivati non si erano disposti a caso, bensì in
modo da formare un triangolo con Alexer ed Eir nella
punta settentrionale, Pegasus e Cristal nell’angolo
rivolto a ovest e Atena e Zeus in quello orientale. Un triangolo di cui Erebo
rappresentava il centro.
“Dunque è finita? Mi avete cinto d’assedio?!” –Mormorò. –“Dovrei
implorare pietà? Pregarvi di non colpirmi tutti assieme? Dovrei tremare
atterrito come un coniglio in mezzo a un branco di lupi? È questo che vorreste,
vero Pegasus?!”
“Di sicuro sarebbe un inizio, canaglia!” –Rispose questi, il cui pugno
sollevato lampeggiava ancora di azzurra energia, strappando una risata alla
genie di Nyx.
“Ebbene, te lo concedo! Un premio per la tua ricomparsa dagli inferi!
Un brivido di terrore corruga la fronte dell’impaurito Erebo! Uuh, sto tremando!” –Sghignazzò il Nume, contorcendosi su
se stesso. –“Ed in effetti è vero! Ma dal ridere! Eh eheh!” –Aggiunse, lasciando esplodere il proprio cosmo,
che si espanse come un gigantesco globo di energia oscura tutto attorno a sé,
inghiottendo il devastato ingresso alla Valle di Cristallo e abbattendosi poi
sui membri dell’alleanza.
Cristal tirò Pegasus a terra, sollevando un piano di ghiaccio su cui l’attacco
scivolò, come già fatto in precedenza, passando sopra di loro e limitandosi a
scuoterli con piccole scariche di energia. Eir e
Alexer si appiattirono contro quel che restava della montagna, unendo i cosmi
per generare un muro a ripararli dalla detonazione imminente, come pure Atena e
Zeus, curvi dietro lo scudo della Dea, che scricchiolò nelle sue mani, come
fosse sul punto di schiantarsi da un momento all’altro.
“Boom!” –Rise divertito il Tenebroso, sollevando le braccia al cielo e
lasciando che tutta l’energia accumulata esplodesse, travolgendo i vari
combattenti e scagliandoli in alto, facendosi beffa delle loro difese. –“E ora
che siete alla mia mercé, teneri e succosi coniglietti, ecco le zanne del lupo
cattivo! Ecco le mie daghe d’ebano!” –Ringhiò, roteando su stesso, con il
braccio destro teso avanti a sé, e bombardando tutti loro con una pioggia di
oscuri strali.
“Bastardo!!!” –Strinse i denti Pegasus, cercando di recuperare una
postura corretta, aiutandosi con le ali dell’armatura, e di contrastare quel
diluvio nero con il suo cosmo scintillante. –“Cristal,
aiutami!” –Ma il ragazzo, indebolito dal prolungato scontro, era stato
raggiunto in più punti del corpo dalle daghe di Erebo e adesso stava
precipitando a terra, gemendo di dolore. –“Maledizione! Resisti, amico mio!”
Fu uno scintillare argenteo ad afferrare il Cavaliere del Cigno,
tirandolo fuori dal raggio d’azione dell’assalto di Erebo e facendolo finire
proprio tra le braccia di un vecchio compagno.
“Andromeda!!!” –Esclamò Pegasus, felice di rivederlo.
“Giusto in tempo, a quanto pare!” –Sorrise il ragazzo dai capelli
verdi, depositando Cristal a terra.
“Perché ci hai messo tanto ad arrivare? E dov’è Phoenix?”
“Mio fratello è in Egitto! Siamo reduci da una lunga storia, che vi
racconterò non appena avremo un momento per noi. Se mai lo avremo.” –Chiarì
l’allievo di Albione.
“Dubito che ciò accadrà, Andromeda! Il tempo sta esaurendosi, per tutti
voi! Ma non crucciarti per il tuo ritardo, sei giunto in tempo per danzare con
me!” –Ghignò allora una voce cavernosa, sfrecciando fuori dalla nube nera e
avventandosi su di lui. –“Non abbiamo ancora avuto il piacere di conoscerci! Io
sono Erebo, Signore dell’Oscurità Infernale, e massacratore di uomini e Dei,
senza distinzione alcuna! Non vorrei certo apparire scortese!” –Ridacchiò,
mentre le dita della mano destra si caricavano di nera energia che subito
diresse sul Cavaliere di Atena. –“Danza
di daghe!!!”
Fu svelto, Andromeda, a sollevare la catena di difesa, generando una
muraglia così fitta che persino Erebo ebbe difficoltà a identificare il ragazzo
al suo interno.
“Che carino questo gioco! Davvero divertente! Ma dimmi, Andromeda,
credi davvero che quel vorticare isterico di catene possa impedire ai miei
strali di raggiungerti? Ai miei strali così…
sottili?!” –Rise il Nume, riducendo lo spessore dei singoli dardi di energia
oscura, che adesso sembravano degli spilli. Spilli dalla punta velenosa in
grado di insinuarsi tra gli anelli della catena e colpire chi si ergeva dietro
di essi.
“Aaargh!!!” –Gridò Andromeda, raggiunto da un paio di
strali. Tentò di resistere, ma ormai ad Erebo, che aveva compreso il trucco per
superare le sue difese, bastò aumentare la quantità e l’intensità del suo
assalto per spingere il ragazzo indietro, la corazza annerita in più punti,
laddove i dardi neri l’avevano raggiunta.
“Andromedaaa!!!” –Urlò Pegasus, espandendo il
cosmo e preparandosi a caricare il nemico, mentre anche Cristal,
in posizione opposta alla sua, faceva altrettanto. In un lampo la pioggia di
stelle azzurre e una bufera di gelo riempirono l’aria, piombando su Erebo da
ambo i lati, mentre il Nume sgusciava via, lasciando che i due attacchi si
colpissero tra loro e i due Cavalieri finissero entrambi a gambe all’aria.
Sghignazzando soddisfatto, il Tenebroso ricomparve a mezz’aria,
osservando lo sfacelo che, in così poco tempo, aveva generato. Sfacelo che era
andato aumentando da quando il numero dei partecipanti a quello scontro era
raddoppiato.
“Sembra che Cristal se la cavasse meglio
senza di voi! Pur tuttavia ero stanco di giocare solo con lui! In gruppo è
molto più divertente! Inoltre, sono incuriosito da alcuni di voi!” –Commentò
Erebo, girando attorno ai vari combattenti, sempre sospeso a mezz’aria, e
strusciandosi il mento con fare assorto. –“Oh no, non tu, Zeus! Ormai hai ben
poco da offrire a questo ciclo del tempo cosmico! La tua folgore si è spenta,
l’Olimpo è un colle d’erta brulla, la nidiata di figli bastardi che hai messo
al mondo è già caduta nell’oblio! Ben pochi te ne restano, sebbene una, la qui
presente Atena, sia molto affascinante in questa fanciullesca incarnazione!”
–Le disse, avvicinandosi e allungando una mano, per sfiorarle una guancia. Ma
Pegasus balzò subito davanti alla Dea, il cosmo sfrigolante attorno al pugno
destro.
“Stalle lontano, carogna!!!” –Gridò, bersagliando il Nume Ancestrale con una
raffica di sfere di luce, che Erebo si divertì ad afferrare, una dopo l’altra,
roteando su se stesso, come fosse in una giostra.
“Al tuo posto, bamboccio!” –Intimò infine, rilanciandogli contro il suo
stesso attacco, che spinse Pegasus indietro, salvato da Atena che si pose
davanti a lui, con l’Egida rivolta al nemico. –“Ti è andata bene una volta, ma
non sarà così una seconda!!!”
“No, non lo sarà!” –Tuonò allora Zeus, espandendo il proprio cosmo e
scambiando una rapida occhiata con tutti i presenti, soprattutto con il
Principe Alexer. –“A nessuno sarà data una seconda occasione! Questa… è la nostra unica possibilità per salvare il
pianeta dall’ultima ombra! Perciò combattiamo, compagni! Combattiamo, uomini e
Dei!” –Avvampò, mentre stuoli di folgori celesti danzavano attorno a lui, prima
che questi puntasse l’indice su Erebo. –“Folgore
Suprema!!!”
“Fulmini siderali, vi
invoco!” –Gli andò subito dietro l’Angelo di Aria, sommando il proprio assalto
a quello del Cronide.
“Ahuahuahu!” –Rise il Tenebroso, mitragliato da raffiche
insistenti di saette. –“Dovrete invocare ben più di queste scintille cosmiche
per aver di Erebo ragione! Anche se dubito vi siano Dei, più in alto di me, che
possano rispondervi! Ma non preoccupatevi, presto tutti gli Dei saranno un
unico Dio! Anzi, saranno in un unico
Dio!” –Aggiunse, mentre la sua oscura aura cresceva attorno a sé, divenendo un
globo che iniziò ad attrarre tutti i fulmini di Zeus e Alexer, accalappiandoli
quasi fosse un magnete. Quindi, con un fluido movimento di braccia, sfiorò il
bordo dell’immensa sfera con i palmi delle mani, dividendola e indirizzando
ciascuna metà verso un avversario.
Il Cronide inorridì nel vedere il poderoso
attacco, caricato delle sue stesse folgori, precipitargli addosso, divorando lo
spazio rapido e famelico. Quasi non s’avvide che Atena, portatasi a lui di
fronte, aveva appena sollevato l’Egida, gridando al divino genitore di unire i
loro cosmi. A nulla valsero tali sforzi, poiché il Progenitore li sbaragliò in
un istante, scaraventandoli molti metri a valle, i volti macchiati di sangue e
sconfitta, le corazze scheggiate in più punti.
Peggiore sorte incontrarono Alexer, Eir e i BlueWarriors che in loro
confidarono. Furono proprio questi ultimi i primi ad essere spazzati via
dall’enorme sfera di energia, scagliati in alto e smembrati in tanti pezzi che
piovvero sull’Angelo d’Aria, il cui cosmo, unito a quello dell’Asinna, fu appena in grado di contenere la furia del Nume,
che li scagliò dentro la livellata montagna.
Quando tutto fu finito, ed Erebo poté sfregarsi le mani soddisfatto,
c’erano rimasti solo Pegasus, Cristal e Andromeda in
piedi davanti a lui, e di certo, convennero i tre, non era avvenuto per caso.
“Finalmente possiamo parlare! Senza che nessuno ci disturbi! Odio
essere interrotto!” –Spiegò, fluttuando di fronte ai Cavalieri dello Zodiaco,
su un tappeto di vapori neri da cui i tre amici tentarono di stare a distanza.
“Perché?! Volevi parlare con noi?!” –Sgranò gli occhi Pegasus,
sospettoso.
“Solo uno scambio di battute, prima di cancellarvi dalla storia!”
–Ghignò il Nume, sorridendo sotto la maschera terrificante che gli copriva la
faccia. –“Sono incuriosito, lo ammetto, da voi! Da tutti voi, anche dai due che
non sono qui adesso e che tentano, vanamente, di opporsi all’avvento
dell’ultima ombra! Il Gran Maestro del Caos mi ha detto di guardarmi dai
Cavalieri dello Zodiaco, mi ha detto che lo avete ostacolato più volte nel suo
grandioso progetto di preparazione all’avvento e mi sarei fatto una grossa
risata a queste parole se non fosse per un solo motivo!” –Esclamò, fermandosi e
scendendo a terra, liquefacendo la neve su cui poggiò i piedi e annerendo il
suolo attorno al solo contatto. Passò lo sguardo sui tre compagni, osservandone
i tratti impensieriti, le fronti madide di sudore, gli occhi attenti e pronti a
scattare al minimo segno di attacco, e annuì, quasi stesse cercando una
conferma interiore. –“Ho visto come l’avete ridotto! Quel poveraccio ormai è
un’ombra, destinata a vagare come tale fino alla fine dei tempi o finché Caos
non lo riterrà meritevole di un dono, magari di un nuovo corpo! Non che gli ci
voglia molto, a lui, a creare corpi, è il suo mestiere del resto! Ahuahuahu!”
–Sghignazzò, tornando poi subito serio. –“Ma il corpo preposto ad ospitare un
Angelo, sia pur oscuro, non può essere uno qualsiasi, non può appartenere a un
comune essere umano, deve essere un ricettacolo sufficiente ad accogliere la
sua coscienza e tutta la sua energia interiore! Per questo Anhar si era servito
del Cavaliere di Virgo, il più potente tra i Custodi
Dorati ancora in vita! E credere che a questo mondo possano esistere dei
mortali in grado di ridurre un Angelo a quello stato…
ebbene mi incuriosisce! Ma, intendiamoci, prima che vi facciate un’idea
sbagliata, prima che la vostra umana mente cominci ad arrampicarsi su veroni di
false speranze, c’è un abisso tra un Angelo, qualunque creatura sia, e un
Progenitore! Potreste ucciderli tutti, per quel che mi riguarda, ed essermi
comunque inferiori!”
“Questo lo vedremo subito!” –Avvampò Pegasus, scattando avanti,
nonostante le grida di avvertimento di Cristal e
Andromeda. –“Cometa lucente!!!”
L’abbagliante sfera di energia venne facilmente parata da Erebo, che si
limitò ad aprire il palmo della mano destra, prendendone il controllo poco
dopo, avvolgendola in una spirale nera, ma quando mosse il braccio per
rimandargliela contro si accorse che il ragazzo non era più al suo posto. Con
un colpo d’ali, era schizzato alla sua destra, il pugno già carico di energia
lucente.
“Fulmine di Pegasus!!!”
–Tuonò, piombando sul Progenitore e forzandolo ad alzare anche il braccio
sinistro, per parare quel secondo attacco. Di quel momento approfittò
Andromeda, slegando la sua arma e lanciandola all’attacco, moltiplicandola in
infinite copie, tutte dirette alle braccia del Nume, mentre Cristal,
poco distante, aveva già iniziato a imprigionargli le gambe nel ghiaccio, il
cosmo espanso fino al culmine.
“Una tecnica incrociata…” –Analizzò Erebo,
guardandosi attorno. –“Interessante! Non dovrei stupirmi, considerando tutte le
battaglie che avete combattuto assieme! Di certo vi conoscerete come fratelli,
e come fratelli saprete cosa passa sempre per la mente dell’altro! Ma vedete… c’è una cosa che ho imparato sui fratelli… Hanno sempre il brutto vizio di preoccuparsi
troppo l’uno dell’altro!” –Ridacchiò, bruciando la propria aura venefica, che
respinse in un sol colpo le catene di Andromeda e la pioggia di stelle lucenti,
dissolvendo lo strato di ghiaccio attorno alle gambe. –“Vediamo se è così anche
per voi! Generosi o egoisti?” –Aggiunse, scattando avanti, mentre ancora
Andromeda riordinava le catene, troppo veloce perché le stesse potessero
scattare di nuovo a sua difesa. –“Altruisti o individualisti?” –Disse,
poggiandogli una mano sul ventre e lasciando detonare il proprio cosmo, che
scagliò il ragazzo molti metri addietro. –“Stolti o furbi?” –Terminò,
voltandosi verso Cristal, che stava sollevando le
braccia sopra la testa e falciandogli i polsi con una raffica di daghe nere,
che gli strapparono un grido di dolore prima di lanciarlo a terra. –“Soli o
insieme? Come volete morire?”
A quel punto c’era solo Pegasus ancora in piedi, la nuova corazza che
fumava in più punti, il celeste splendore dell’opera di Efesto
già affumicata da quell’aura venefica. Dovette ringraziare il Signore
dell’Olimpo per essere ancora in vita, poiché la vecchia corazza, danneggiata
ad Asgard e sulla Luna, di certo non avrebbe retto a tutta quella tenebra.
Chiudendo le dita a pugno, e cercando di non pensare a quel maledetto
formicolio che gli stava pervadendo il braccio infettato da Erebo sull’Etna, il
ragazzo espanse il proprio cosmo, preparandosi per colpire di nuovo.
Era l’unica cosa che poteva fare, l’unica cosa che sapeva fare.
Rialzarsi e rialzarsi ancora, finché la vita non l’avesse lasciato. Solo allora
avrebbe avuto pace.
“Iaiii!!!” –Gridò, sfrecciando verso il Nume,
avvolto in uno sfavillio di luce che ben poco aveva da invidiare all’Aurora
Boreale liberata ore prima da Igaluk. –“Cadi, tenebra malefica!!!”
“Ah ah ah! Perdonami ragazzo, ma non ne ho proprio l’intenzione!”
–Sghignazzò Erebo, schivando l’affondo e portandosi alle sue spalle. Ma subito
Pegasus roteò su se stesso, ripartendo alla carica, per quanto il Dio riuscisse
ad evitare anche quell’assalto. –“Ti sei divertito anche troppo! Ora riposati!
Per sempre! Dies…”
“Tempesta di folgori!!!”
–Intervenne allora una voce possente, mentre una raffica di fulmini celesti si
abbatté su Erebo, piegandogli una spalla e strappandogli un moto di fastidio.
Ciò permise a Pegasus di balzare indietro, mentre anche Andromeda e Cristal si rimettevano in piedi e due figure nelle loro
Vesti Divine li affiancavano.
“Ragazzi, state tutti bene?” –Esclamò Atena, con il fiato corto.
“Ancora per poco!” –Li anticipò Erebo, sbucando fuori dal nugolo di
folgori e fissandoli con quei suoi accesi occhi di brace.
“Incredibile! La divina arma sterminatrice, in grado di piegare persino
il re dei Titani, pare solo fargli il solletico!” –Rifletté Zeus, alle spalle
dei Cavalieri dello Zodiaco.
“Per la verità, figlio di Crono, la tua arma mi ha recato offesa!”
–Sibilò il Progenitore, indicando la maschera che gli copriva il volto, la cui
estremità era adesso scheggiata. Ne sfiorò l’orlo, ancora fumante per la
scarica energetica che l’aveva raggiunto, e poi ruggì, sollevando la mano e
caricando ciascun dito di oscura energia.
“Un misero risultato, padre! Dobbiamo impegnarci di più!” –Esclamò
allora Atena, mulinando la lancia dorata e allungandola per infilzare il palmo
di Erebo.
“Prudenza, figlia mia! Prudenza!” –Commentò Zeus, osservando il Nume
evitare l’affondo e portarsi a destra dell’arma stessa, impugnandola con la
mano e avvolgendola nelle sue tenebre.
“Ascolta il paparino, Atena!” –Parlò, a denti stretti, mentre lo
splendore della lunga asta pareva svanire, risucchiato in un’oscurità senza
fine. Vi fu un secco clangore e l’arma si spezzò, disintegrandosi in più punti,
spingendo persino Atena indietro, la protezione per le dita danneggiata
dall’onda oscura.
“Non… è possibile! La Lancia di Vittoria!
Dono di Nike! Nemmeno Etere era riuscito a piegarla!”
“Umpf, non paragonarmi a quei due damerini
che credono di essere perfetti!” –Sibilò Erebo, mentre Cristal
e Andromeda aiutavano la loro Dea a rimettersi in piedi. –“Io sono a loro
superiore! Io sono superiore a tutti!”
“Anche a Nyx?!” –Domandò allora Pegasus,
attirando lo sguardo del Nume su di sé.
“Uh? Perché lo chiedi? Certo, anche a lei! Io sono l’Oscurità degli
Abissi Infernali, che cosa può esservi di più tenebroso?!”
“Eppure Nyx ti ha generato da sola, senza
bisogno di unirsi con nessun altro Dio! Lei è la Prima Dea! Lei è la Prima Nata
dal Caos! Tu, Erebo, per quanto ti vanti tanto, sei solo il numero due!”
–Esclamò il Cavaliere di Atena, avanzando verso il Nume. –“Eh sì, occhietti
rossi, sei al secondo posto!”
“Come... osi?!” –Ruggì Erebo, per la prima volta travolto da
un’irrefrenabile collera. Balzò su Pegasus, con il braccio destro già pronto
per trafiggergli il cuore, ma all’ultimo istante questi spalancò le ali
dell’armatura, sollevandosi in aria, lasciando il Nume a perforare il nulla.
“Ora!!!” –Intervenne Andromeda, scatenando la fedele catena nella più
versatile configurazione. –“Melodia
scintillante di Andromeda!!!” –E con essa gli afferrò i polsi e i calcagni,
strattonando con forza, mentre già Cristal al suo
fianco lo investiva con le glaciali correnti dell’aurora. –“Folgore Tonante!!!” –Concluse Zeus,
colpendo il Nume in pieno petto.
“Voi… Osate sfidare a tal punto la collera
del Tenebroso?!” –Ringhiò Erebo, gonfiando i muscoli e aprendo le braccia di
lato, lasciando che il suo cosmo esplodesse in tutta la sua sterminata
ampiezza. Così vasto e terribile come mai lo aveva esibito fino ad allora,
impressionando persino gli Dei.
Le catene di Andromeda andarono in frantumi, gli anelli d’avorio
scintillarono di fronte agli occhi attoniti del Cavaliere, prima che venisse
spinto indietro da un’onda di pura tenebra. Stessa sorte incontrò Cristal, il ghiaccio annerito, liquefatto, evaporato in una
tossica nube che lo investì, prostrandolo a terra tra tosse e conati di vomito.
Pegasus, che si mosse in aiuto dell’amico, venne afferrato per un piede, mentre
ancora era in volo, e sbattuto a terra, così forte da aprire una fossa che
presto si tinse di sangue.
“Pegasus!!!” –Gridò Atena, lanciandosi avanti assieme a Zeus, l’Egida
sollevata e carica del suo caldo cosmo. Ma non fecero che tre passi prima che
un maroso di energia nera li investisse, scheggiando le loro corazze,
schiantando le ali della Veste Divina di Zeus e aprendo persino crepe lungo lo
scudo di Atena, che sarebbe andato in frantumi se Erebo non fosse stato
distratto da un insistente martellare di fulmini azzurri sulla sua schiena.
Voltandosi, dopo aver gettato gli Olimpi a terra, fulminò Alexer con
uno sguardo ebbro di follia e rabbia, arrestando la sua corsa in soccorso degli
Dei di Grecia e scaraventandolo indietro, fino a schiantarlo all’interno del
massacrato rilievo ove fino a poche ore prima si ergeva il suo castello. Eir, che tentò di aiutarlo, andò incontro allo stesso
destino, crollando nella torbida neve, con numerose ferite aperte sul corpo e
un cosmo ormai troppo debole persino per rigenerarle.
Quando tutto fu finito, il Tenebroso placò il suo cosmo, rilassando le
braccia lungo i fianchi e tirando un ultimo sguardo al cielo, ormai dello
stesso colore della sua armatura e dell’aura che lo attorniava. Ebano.
Stanco per quell’esplosione imprevista, si lasciò cadere al suolo,
stringendo cumuli di terriccio e neve tra le mani, osservandoli tingersi di una
macabra tonalità di nero. Ripensando a quanto accaduto, sfiorò la maschera sul
volto, toccando la parte scheggiata e guaendo, in un tono sommesso che, se
qualcuno fosse stato sveglio per udirlo, avrebbe scambiato per un lamento.
Forse un pianto.
Stringendo i pugni, ricordò a se stesso, e a tutti coloro che ardivano
sfidarlo, che egli non era secondo a nessuno. Soltanto a Caos, a cui non era
possibile non essere secondi. Quindi si rialzò, tirando un’occhiata verso nord:
in lontananza, dove doveva ergersi il Palazzo di Midgard, fiamme rossicce
rischiaravano il cielo e capì che l’assedio della cittadella era ancora in
corso. L’Armata delle Tenebre e lo Zodiaco Nero scelti da Anhar e da Polemos
parevano non essere in grado di vincere neppure un’infima battaglia. Aveva
aperto loro la strada, eliminando tutti i principali ostacoli, e ancora non
erano riusciti a prendere la fortezza? Inutili
esseri inferiori! Li etichettò con disprezzo, sollevandosi nella sua aura
tenebrosa e giurando a se stesso di farli fuori tutti prima che la notte
giungesse a termine. Nessuno di loro, assediato o assediante, avrebbe visto
l’ultima alba del mondo.
Con quel pensiero in mente si mosse verso la cittadella, quando una sagoma
lucente gli sbarrò il cammino. Una sagoma ferita e sanguinante, dall’armatura
celeste graffiata, annerita e scheggiata, ma decisa a non farlo andare oltre.
“Non abbiamo finito!” –Esclamò Pegasus.
“Così pare.” –Si limitò a rispondere Erebo, senza dare a vedere il
proprio stupore per la perseveranza e la resistenza di quell’uomo.
“Finirà solo quando uno di noi sarà morto!” –Chiosò il ragazzo,
espandendo il proprio cosmo. Il Nume fece altrettanto, ma prima ancora di
muovere il braccio in avanti si accorse che altri due bagliori si erano appena
accesi ai suoi lati. Una luce bianca e una luce rosa.
“Questa è la mia terra, adesso!” –Intervenne Cristal,
affiancando l’amico a passo lento. –“Se morire devo, che sia per amore di
coloro che voglio proteggere!”
“Come potrei lasciarvi da soli, a fronteggiare il destino avverso che,
pur ferendoci e mettendo continuamente alla prova il nostro spirito, ci ha
anche graziato dell’amicizia dei nostri fratelli? I compagni con cui abbiamo
diviso la vita?” –Parlò Andromeda, avvicinandosi ai due. –“Se morire dobbiamo,
sarà insieme, amici miei!”
“E sia, dunque!” –Disse Erebo. –“Fino alla fine!”
“Fino alla fine!” –Ripeterono i Cavalieri dello Zodiaco, bruciando i
cosmi al massimo, unendo le loro fiamme vitali in una sola aura. Il Cigno,
Pegasus e la Regina Andromeda apparvero nel cielo sopra di loro, in un tripudio
di luci e stelle, mentre i tre compagni si posizionavano nella Postura della
Triade, esclamando a gran voce. –“Urlo
di Atena!!!”
“Diesirae!!!”
–Tuonò il Progenitore, liberando un’immensa massa energetica intrisa di tutta
la sua rabbia, tutta la solitudine provata in millenni trascorsi
nell’intermundi, da quando Caos aveva posto fine alla sua esistenza. Quel
giorno, che gli Angeli avevano tanto paventato e che i Protogonoi
avevano invece atteso, lui l’aveva atteso più degli altri, perché finalmente
avrebbe potuto dare sfogo a tutta l’ira accumulata. All’ira che aveva
accompagnato il suo cammino fin dalla creazione.
Lo scontro tra i due poteri fu devastante, una collisione di energie
che saturò la fredda aria del nord, sfociando in una detonazione che squassò
l’intera vallata, aprendo ovunque faglie e voragini. Persino le mura di Asgard,
a miglia di distanza, tremarono, al pari degli strenui difensori che ancora vi
combattevano. Persino Mani ed Eracle, che su quelle mura lottavano per cacciar
indietro i nemici, rabbrividirono al pensiero che qualcuno potesse esserne
entrato in contatto. La stessa Nave di Tirinto,
sospesa in cielo sopra la cittadella, ove da poco era giunta, venne investita
dall’onda d’urto, obbligando Neottolemo ad un’agile
manovra d’atterraggio nel cortile interno, mentre travi e vele si schiantavano.
La poderosa esplosione scaraventò Pegasus, Andromeda e Cristal indietro, i corpi percossi da violente scariche di
energia oscura, le corazze che si crepavano in più punti, le ali che venivano
spezzate, le decorazioni oscurate dall’ombra della fine.
“Abbiamo…fallito…”
–Mormorò il Primo Cavaliere della Dea Atena, la faccia a terra, in un mucchio
di sangue e fanghiglia, osservando l’atletica figura, d’ombra rivestita, che
stava camminando nella loro direzione.
Erebo, Signore delle Tenebre, pareva non aver subito danni e,
quand’anche fosse rimasto impressionato da tale potenziale energetico, non ne
fece cenno, limitandosi a fissare Pegasus con i suoi occhi rossastri,
sollevando poi un braccio al cielo.
“Non… c’è rimasto nulla…”
–Rifletté il ragazzo, cercando il cosmo dei compagni, sparsi attorno a sé in
quel valico tinto di sangue.
“Pegasus…Perdonami…”
–Rantolò angosciata Atena, mezza sepolta da qualche parte, troppo debole per
rimettersi in piedi.
“Isabel…” –Disse il Cavaliere. –“Avessimo
almeno un’arma con cui colpirlo…”
“Hai già dimenticato il dono che ti feci, ragazzo?” –Parlò allora una
voce al cuore di Pegasus, o forse fu solo il vento della sera a risvegliare
sopiti ricordi. –“Di corta memoria sei, allora! Eh eheh!”
“Questa voce… questo cosmo…
gelido come il diamante ma antico e sapiente…”
“Se hai ricordato, ricorderai anche il nostro battagliare imperterrito,
fuori da Fensalir, e l’arma che ti donai! Un’arma da
impugnare in nome di tutti gli Asi! E quale occasione
migliore di questa, se non difendere quel che resta della nostra civiltà? A te,
Cavaliere di Pegasus, l’onore e l’onere di combattere per Asgard! Alzati,
dunque, e impugna la spada Balmung!” –Declamò la
voce, prima di scomparire.
“Odino…” –Mormorò Pegasus, rimettendosi in
piedi, avvolto nella propria aura azzurra, stupendo Erebo che quasi non credeva
a quel che stava vedendo. –“Odinooo!!!” –Gridò, il
cosmo che ruscellava attorno a sé come fosse una
cascata di vivida luce, al centro della quale una luminosa spada apparve poco
dopo, limpida come fosse composta di ghiaccio. –“Balmung
impugno, in nome tuo e di tutti gli Asi e gli Einherjar che mi hanno onorato della loro amicizia!” –E la
strinse, inebriandosi della sua forza, prima di torcerla e volgere la lama
verso il Progenitore.
“Frigg ed Eir, le
cui amorevoli cure mi salvarono dal veleno di Jormungandr!”
–Esclamò, scattando avanti e mulinando un fendente che Erebo fu lesto ad
evitare. –“Balder, che mi donò lo splendore della sua
luce, il cuore più colmo d’amore di tutta Asgard!” –Continuò, voltandosi di
scatto e caricando di nuovo il Nume. –“Orion e i
Cavalieri caduti nella Guerra dell’Anello, ingannati da un demone figlio del
Caos!” –E ancora mosse la spada abbagliante. –“Odino e Loki,
due facce della stessa medaglia, ciascuno nemesi dell’altro, ciascuno
incompleto, a modo suo! Come tu, Erebo, sei incompleto senza la luce a bilanciarti!
Assaggia, adesso, la luce del mio cosmo!!!” –Nient’altro
aggiunse, alzando la lama verso il cielo e obbligando il Nume ad un balzo
all’indietro, per non essere investito dall’incandescente fendente che da essa
scaturì.
“O tu l’ombra del mio!” –Ghignò il Dio, abbattendo Pegasus con un’onda
di energia oscura, che lo costrinse sulle ginocchia, per quanto ancora si
reggesse a Balmung. –“E adesso…”
–Ma proprio mentre si incamminava verso di lui, deciso a dargli il colpo di
grazia, percepì un calore improvviso, un fuoco provenire dal fianco sinistro
della sua corazza. Sfiorandola, la trovò bollente, così tanto al punto da
sbriciolarsi tra le sue mani, in una nube di polvere nera. E, al di sotto di
essa, al di sotto della tunica nera che indossava, pulsava una ferita aperta.
Un taglio appena, che sui corpi stanchi e devastati dei Cavalieri dello Zodiaco
in quel momento nessuno avrebbe notato. Ma sul suo…
–“Co… Come hai fatto?!” –Sussurrò, osservando le dita
tingersi di rosso.
“Pegasus!!!” –Lo chiamò Andromeda. –“Ci sei riuscito!!!”
“Hai ferito Erebo!!!” –Sorrise Cristal,
aiutando il compagno a rimettersi in piedi.
“Cavaliere!!!” –Commentò fiera Atena, prima che le forti braccia di
Zeus la sollevassero da terra.
“Brucia, non è vero, Erebo?” –Esclamò allora Pegasus, tentando una
risata ma non ottenendo altro che un secco colpo di tosse. –“Brucia non essere
invincibili?”
“Tu... Ucciderti non sarà sufficiente per punirti! No, ti terrò in vita… ti lascerò vivere, sì. Menomato, ferito, ridotto ad
una larva, ma ti permetterò di assistere alla fine del mondo che con passione
ti periti di difendere e delle persone… che ami!”
–Sibilò, scattando avanti, il braccio carico di energia oscura, diretto verso
Atena, che a fatica riuscì a sollevare la danneggiata Egida di fronte a sé.
“Folgore tonante!!!”
–Intervenne Zeus, presto affiancato da Alexer. –“Fulmini siderali!!!” –Ma i due assalti furono dispersi da un maroso
di tenebra che scaraventò indietro le due potenti entità, abbattendosi poi
sullo scudo della Dea, costringendola a riporvi tutto il proprio cosmo divino,
tutta la sua essenza e quella delle amiche che la sostenevano.
Ma neppure ciò bastò.
Con un rumore sordo, l’Egida si spaccò in due, gettando Atena a terra,
mentre la marea d’ombra la investiva, schiacciandola, premendo su di lei,
soffocandola, di fronte allo sguardo non più divertito di Erebo, bensì
arrabbiato oltre ogni dire. Prima che potesse calare però sulla Dea, una voce
lo raggiunse, parlando al suo cosmo.
“Basta così! Rientra subito al Santuario!”
“Cosa?!” –Ripeté il Nume, fermandosi e guardandosi attorno, senza che i
Cavalieri e gli altri Dei potessero capire cosa stesse facendo.
“Hai sentito quel che ti ho detto! La tua presenza è richiesta
immediatamente al Santuario delle Origini!”
Nyx non aggiunse altro e svanì, lasciando Erebo a riflettere sulle sue
parole. Di certo doveva esserci un motivo valido se la Notte gli intimava di
mettere da parte i suoi propositi di distruzione, un motivo che aveva forse a
che fare con l’andamento delle altre campagne belliche? Non ci aveva pensato
fino a quel momento, troppo preso da scontri che, anche se non l’avrebbe mai
ammesso, lo avevano coinvolto, ma adesso a mente fredda era evidente che
qualcosa non era andato come avevano concordato. Che ne era di Polemos? E di
Etere e Emera? Perché non l’avevano raggiunto a nord,
con Atlante e il resto dell’Armata delle Tenebre?
Forse, analizzò il Progenitore, osservando i
Cavalieri dello Zodiaco sorreggersi l’un l’altro, ancora avvolti nello
splendore fiacco del loro cosmo, questo
mondo è destinato a durare un altro giorno! Sghignazzò, sollevandosi nel
cielo, in una spirale dal colore dell’ebano, e tirando un ultimo sguardo a
coloro che l’avevano impegnato più di quanto avesse previsto. A coloro che lo
avevano fatto pensare a quelle maledette parole che Anhar gli aveva rivolto ore
addietro.
“Chi mai verrà dopo il Signore della Folgore?!”
Era davvero possibile? Che fossero davvero loro?
Non volle rispondersi, non in quel momento. Concentrò un’enorme sfera
di energia sul palmo della mano e poi la scagliò contro Pegasus e i suoi
compagni, prima di schizzar via nella plumbea sera nordica, lasciando dietro di
sé una scia di sadiche risate e tanta distruzione.
“Attenti!!!” –Gridò allora Zeus, alla vista dell’oscuro globo che stava
per abbattersi su di loro. Fece per colpirlo ma venne anticipato da una cupola
dagli argentei bagliori che si sollevò a loro difesa, estendendosi fino a
riparare anche Eir e Alexer. Una cupola su cui
l’assalto di Erebo si schiantò, esplodendo, scuotendo ancora un po’ il
paesaggio e poi esaurendosi, rivelando colui che li aveva protetti.
“Mio Signore…” –Mormorò Pegasus, riconoscendo
Avalon davanti a sé.
Alexer lo raggiunse poco dopo, arrancando nella neve, sostenendo una
stanca e logora Eir.
“Fratello… stai bene?”
L’Arconte Supremo annuì, voltandosi poi ad osservare le condizioni in
cui versavano tutti coloro che avevano affrontato Erebo.
“Ammetto che i Progenitori possano essere un problema!” –Chiosò.
Capitolo 40 *** Capitolo trentanovesimo: Tirando le fila. ***
CAPITOLO
TRENTANOVESIMO: TIRANDO LE FILA.
Toru non voleva abbandonare il proprio regno, dove era nato e
cresciuto, dove il suo popolo aveva a lungo vissuto, e anche il piccolo Kohu,
alle parole di Ascanio, iniziò a piangere, impreparato a quella sconfitta.
Anche se erano ancora vivi, anche se fossero riusciti a ricostruire l’Avaiki,
avrebbero comunque perso la terra dei loro avi.
“Non abbiamo alternative, Comandante! Le Conchiglie stanno per
schiantarsi e dobbiamo portare tutti gli Areoi in salvo!”
“Il Pendragon ha ragione, Toru dello Squalo Bianco! Non vi è viltà
nell’abbandonare il campo di battaglia quando ciò permette la salvezza del
proprio popolo!” –Intervenne allora Nettuno. –“Vorrei averlo capito prima,
anziché insistere nel guerreggiare fino alla fine! Forse, così facendo, avrei
potuto salvare qualcuno che avevo caro… la Ninfa mia compagna, mio figlio
Tritone, Arel Kevines e i miei Generali… A volte non riusciamo a capire quando
è il momento di dire basta!”
“Io… è tutta colpa mia!” –Confessò infine lo Squalo Bianco,
distogliendo lo sguardo dai compagni. –“Sapevo che negli ultimi anni c’erano
state guerre nel Mediterraneo! Notizie erano giunte fin qua, attraverso i
nostri esploratori. Ma, d’accordo con Hina, avevo optato per una politica di
non interventismo, credendo che, se anche i regni terrestri, umani o divini, si
fossero scontrati tra loro, noi saremmo stati in pace, noi avremmo continuato a
prosperare, nei mari incontaminati dove nessuna ombra è mai scesa! Credevo di
agire per il bene del mio popolo e invece ho sbagliato e adesso gli Areoi tutti
pagano il mio sbaglio!”
“Non è mai tardi per rimediare!” –Gli disse allora Titis, avvicinandosi
a Nettuno, che le sorrise, prima che Ascanio li incitasse ad agire all’istante.
Non avevano molto tempo, solo quello che Asterios sarebbe riuscito a dare loro,
prima che le quattro strutture rimaste collassassero, permettendo alla marea di
sommergere l’Avaiki. Già ne vedevano i bordi oscillare, sorrette ormai solo da
quel che rimaneva del cosmo della Alii, prossimo a scomparire.
Toru ordinò a Kohu, Titis e Tisifone di radunare tutti gli Areoi della
Conchiglia Settentrionale, mentre gli Heroes si sarebbero occupati di quella
Occidentale. Sirio e Ascanio avrebbero messo in salvo gli abitanti della
Conchiglia Orientale e lui sarebbe rimasto lì, assieme a Nettuno, a proteggere
coloro che dimoravano nella terra madre.
Proprio mentre i membri dell’alleanza scattavano in direzioni diverse,
il Palazzo di Corallo esplose, crollando su se stesso, divelto da un poderoso
scontro tra energie cosmiche che infuriava al suo interno. Forco aveva infatti
liberato tutto il suo cosmo divino, annientando le Falene d’Acqua che lo
avevano attorniato e rimettendosi in piedi, pur con il corpo chiazzato di
sangue e la corazza in frantumi. Ma, sopra ogni cosa, la consapevolezza della
morte di Ceto lo aveva invaso.
L’aveva sentita poc’anzi, spegnersi in acque lontane, molto più a nord
dell’Avaiki. Ne aveva udito le ultime parole, il lamento d’amore che gli aveva
rivolto mentre precipitava nel Mare Artico, per non rialzarsi più. Per non
nuotare più.
Incredulo e inorridito, Forco aveva fissato Asterios, bruciando il
proprio cosmo divino. A quel punto niente aveva più senso, nemmeno la conquista
del tanto bramato Trono dei Mari. Cos’era, in fondo? Solo uno sgabello su cui
avrebbe dovuto sedere da solo, senza poterlo condividere con colei che aveva
dato un senso alla sua intera esistenza, colei alla quale si era unito millenni
addietro, in un amore unico e intrecciato, come i loro destini gli erano sempre
apparsi. Ma se quell’amore gli era stato portato via, da quei bastardi
dell’alleanza che combattevano contro l’ombra, egli sarebbe almeno morto
uccidendo uno di loro, il damerino dagli occhi verdi che aveva mandato a monte
il suo piano. Lo avrebbe portato con sé, nel vuoto cosmico che stava oltre la
vita da quando Caos era ricomparso, a qualunque costo.
“Kata thalassa!!!” –Tuonò il
Nume, sollevando una devastante onda di energia acquatica, che abbatté le mura
del Palazzo di Corallo, rovesciandosi all’esterno, correndo verso Asterios, il
quale, impressionato dalla forza che Forco riusciva ancora a dimostrare, poté
soltanto aprire il palmo della mano destra, concentrandovi tutto il suo cosmo.
L’enorme marea gli passò ai lati, infrangendosi contro quello scoglio che non
fu in grado di piegare, soltanto di spingerlo indietro, impegnando l’Angelo ad
uno sforzo massimo, reso ancora più difficoltoso dalla necessità di dover
mantenere la barriera sopra le quattro Conchiglie dell’Avaiki.
“Non c’è più tempo…” –Rifletté Asterios, sondando con il cosmo il regno
sommerso, al fine di individuare tutti coloro che dovevano essere portati in
salvo. Troppi.
“Occupati di Forco, Arconte di Acqua, e lascia a me la salvezza del
popolo libero delle correnti!” –Parlò allora una voce al suo cosmo. Una voce
gentile e cristallina, che Asterios mai aveva udito e che sembrava appartenere
ad una ninfa dei mari.
Non seppe dirsi perché, ma l’Angelo le credette, percependo nel suo
tono una dolcezza in grado di lenire qualsiasi affanno, radunando tutte le sue
forze e lasciando che fosse questa nuova alleata ad occuparsi di evacuare gli
Areoi, potendo quindi dedicarsi solo allo scontro con Forco.
“No, no, no!!!” –Gridò inviperito il Nume, avendo compreso che anche il
suo piano di distruzione, dopo quello di conquista, sembrava fallire. –“Non mi
porterete via almeno la soddisfazione di vedervi morire!!! Kata…”
“Misera motivazione per restare in vita, Forco! Davvero misera di
fronte a chi, come me, ha trascorso millenni solo per uno scopo di pace ed
equilibrio! Lance di acqua!!!”
–L’attacco di Asterios trafisse il Dio di sbieco, raggiungendolo a una gamba,
al petto e al collo, straziando ogni ulteriore tentativo di lotta e gettandolo
a terra, proprio mentre la cupola della Conchiglia Madre andava in frantumi.
Onde immerse scrosciarono all’interno dell’Avaiki, fagocitando e
distruggendo tutto quel che incontrarono lungo il cammino, di fronte allo
sguardo atterrito del fratello di Avalon. Fu una mano di donna a sfiorargli una
spalla, costringendolo a voltarsi verso Avatea, che gli sorrise, invitandolo a
prenderle la mano. Hubal, al suo fianco, aveva già fatto altrettanto e i tre
furono avvolti da una bolla di energia acquatica, poco prima che lo scrosciare
della marea li raggiungesse, limitandosi a sballottarli. Guardandosi attorno,
Asterios vide centinaia, forse migliaia, di quelle bolle azzurre, sollevarsi
placide dal fondale, mentre quel che restava dell’Avaiki veniva restituito alle
acque. Era stato troppo pretendere di violare
la sacralità di un luogo così antico con un insediamento umano? A quella
domanda l’Angelo non seppe rispondere, limitandosi a sospirare, prima di
cercare con lo sguardo i compagni sopravvissuti.
C’erano tutti, sia pure malconci. Ascanio, Sirio, Nettuno, Nesso e
Alcione, Titis, Tisifone e tutti gli Areoi superstiti, oltre ad Avatea e a
Hubal. Guardò Toru, in una bolla poco distante, che stava fissando il regno che
avrebbe dovuto difendere scomparire per sempre tra le sabbie smosse, assieme ai
corpi di chi aveva dovuto lasciare indietro, corpi che sarebbero stati
restituiti al mare che li aveva generati.
“Addio Maru! Addio Tara! Addio amici miei!” –Recitò il Comandante degli
Areoi, mentre anche il piccolo Istioforo, in ginocchio di fronte a lui, pregava
gli aumakuas di accogliere le anime
dei compagni caduti.
“Dove andremo, adesso?” –Chiese infine Kohu. –“Cosa ne sarà di noi?”
Toru non rispose, incapace di ammettere di non sapere cosa sarebbe
accaduto, incapace di ammettere che non avevano più una casa, una terra dove
vivere. Fu in quel momento che una voce li raggiunse tutti, una voce di donna,
la stessa che aveva parlato poco prima ad Asterios e che adesso pareva riempire
il mare con il suo cosmo, di chiara sfumatura divina.
“Popolo degli Areoi, che così tanto avete amato il mare, al punto da rinunciare
ad una vita nel mondo emerso per costruire una colonia che potesse prosperare
in pace e felicità, senza guerre né malattie, permettete di venirvi in aiuto!
Il mio nome è Euribia e sarò lieta di ospitarvi nel mio palazzo marino, in
attesa che troviate una nuova landa dove vivere o che prendiate comunque una
decisione!”
“Euribia…” –Mormorò Asterios, ricordando chi fosse, proprio mentre le
bolle mutavano direzione, allontanandosi dal Mar dei Coralli e dirigendosi
verso oriente. Passarono per i fondali dell’Oceano Indiano e dei mari arabici,
fino a raggiungere un’insenatura sotterranea, dentro cui era incastrato un
magnifico palazzo rischiarato da mille luci, attorno al quale danzavano tante
piccole figure luminose, che Nettuno e Asterios subito riconobbero.
Erano fanciulle, quasi tutte nude, le lunghe chiome intrecciate con
perle e coralli, e cavalcavano delfini, cavallucci e altri animali marini,
salutando gli ospiti con grandi sorrisi. Toru e gli Areoi rimasero meravigliati
da quel mondo che, nelle loro numerose perlustrazioni, non avevano mai
scoperto, mentre le bolle planavano all’interno di un’ampia corte di fronte al
palazzo sottomarino, dove esplosero poco dopo, liberando tutti i fuggiaschi e permettendo
loro di atterrare su soffice sabbia.
“È incredibile!” –Mormorò Nesso, guardandosi attorno, abbagliato dalla
magnificenza di quell’edificio e dallo splendore delle ragazze che li
circondavano, lanciando stelle marine su di loro.
“È come nell’Avaiki e nel Regno di Nettuno! Possiamo respirare senza
problemi!” –Commentò Sirio, trovando Ascanio subito concorde. –“Ciò è dovuto al
cosmo che permea questo luogo sacro, un cosmo chiaramente divino e di origini
antiche.” –Aggiunse il seguace di Avalon, volgendo lo sguardo verso la
scalinata di accesso al palazzo, da cui un’esile figura di donna era appena
apparsa.
Sorridente, rivestita di una candida veste decorata di coralli e stelle
marine, Euribia si fece loro incontro, aprendo le braccia in segno di pace.
“Siate i benvenuti, popolo delle correnti!” –Esclamò, fermandosi infine
davanti a Toru. –“So che molto avete sofferto! Tutti abbiamo sofferto in questi
ultimi anni! Non so per quanto ancora ci sarà concesso di vivere, e provare
così dolori e gioie, ma fintantoché potremo farlo, allora sarò lieta di
ospitarvi!”
“La vostra generosità sarà ripagata, un giorno! Ve lo assicuro, Dama
dei Mari!” –Disse fiero lo Squalo Bianco, inginocchiandosi di fronte alla
donna, e così fecero Kohu e tutti gli Areoi, ringraziando la loro salvatrice,
che subito dispensò ordini alle ninfe degli oceani affinché provvedessero a
curare i feriti e dare loro tutto ciò di cui avevano bisogno.
Fu allora che Nettuno, Asterios, Sirio e Ascanio le si avvicinarono,
desiderando porle molte domande, soprattutto il Cronide, che ben sapeva chi
fosse.
“Figlia di Ponto e sorella di Forco e Ceto, perché siete giunta in
nostro soccorso, tradendo la vostra stessa genia?”
“La mia progenie mi è stata strappata tempo addietro, divino Nettuno!
Tutto quel che volevo, tutto quel che avrebbe potuto rendermi felice, era
vivere assieme a colui che amavo, caduto in una Titanomachia riaccesasi per
pochi sprazzi una decina di anni fa! Da allora ho rifiutato ogni contatto con
mio padre e tutti gli altri autoproclamatosi Signori dei Mari, non fidandomi di
nessuno di loro, soprattutto di Ponto, che con i suoi progetti imperiali a
nient’altro mi aveva condannato se non ad un’eterna infelicità! Potete capirmi,
non è vero, voi che perdeste come me qualcuno che avevate caro? Ho visto come
il vostro guardo spaziava tra le Nereidi al mio servizio. Forse speravate di
trovare traccia di colei con cui generaste Tritone?!” –Esclamò Euribia,
chinando lo sguardo. –“Mi dispiace, ella non è qui. Ella è caduta.”
Nettuno, a quelle parole, sospirò. La speranza che l’aveva invaso per
un momento, quando le bolle di energia acquatica avevano varcato i confini del
palazzo di Euribia, era già svanita. Quel che gli restava adesso era solo la
guerra, l’ultima guerra, che presto sarebbe giunta al suo apice.
***
“Per quale motivo mi hai ordinato di tornare?” –La cavernosa voce di
Erebo risuonò negli oscuri androni del Primo Santuario, abbattendosi su Nyx,
seduta su un rozzo trono di pietra a sorseggiare sangue da una coppa d’oro.
“Parli come se ti dispiacesse.” –Ironizzò lei, senza scomporsi troppo.
“È così, infatti! Li avevo in pugno! Tutti quanti! Zeus, Atena, i
Cavalieri dello Zodiaco, persino Avalon era ad Asgard! Avrei potuto
schiacciarli tutti quanti!”
“Perché non l’hai fatto, quindi?”
“Non… permetterti… questo tono con me…” –Sibilò il Tenebroso,
espandendo il proprio cosmo e scaraventando Nyx contro il muro retrostante,
gettando a terra coppa e trono e scalfendo la parete, cui la Notte si trovò
inchiodata da daghe di tenebra.
Imperturbabile, la Prima Dea riportò lo sguardo sul compagno,
osservandone il corpo rivestito dalla corazza nera, la scritta rossastra
vergata col sangue e… una crepa? Sì, era una crepa quella che riluceva poco più
in basso della scritta stessa. Una crepa da cui un leggero alone di cosmo
lucente filtrava ancora.
Sogghignando, Nyx bruciò la propria aura, annientando le daghe d’ebano
e liberandosi da quell’effimera prigione, avanzando verso Erebo e fissandolo
dritto negli occhi rossi, prima di afferrargli il collo con una mano.
“Tu… non permetterti questo tono con chi ti ha generato!” –Esclamò,
mentre i loro potenti cosmi oscuri si fronteggiavano, uno di fronte all’altro,
saturando l’intero salone del Primo Santuario, che quasi parve urlare di fronte
a una tale possibile apocalisse.
Fu Erebo infine a rompere lo stallo, abbandonandosi ad una risatina
isterica.
“Eh eh eh… Anche la Prima Dea ha degli artigli, dunque!”
“E, come Selene potrebbe testimoniare, possono far male!” –Ironizzò
lei, rilassandosi infine e lasciando Erebo libero dalla sua stretta.
“Oh sì, ho sentito della tua impresa! La più riuscita tra le offensive
scatenate quest’oggi! Appartiene forse alla Dea della Luna il prelibato ichor
di cui ti stavi nutrendo?”
“Certo che no! Selene era la figlia dei Titani Iperione e Tia, il suo
sangue divino era di rara e preziosa qualità! L’ho offerto direttamente a Lord
Caos!”
“Dunque ti accontenti dei resti degli Asura che Polemos ha massacrato
ieri notte, assieme a quei nefasti dell’Armata della Tenebre? Sei una donna di
poche pretese, Nyx, mi stupisci!”
“Nefari!” –Precisò lei, raddrizzando il trono con i suoi poteri
psichici e mettendosi di nuovo a sedere.
“Nefari, nefasti, nefandi! Che differenza vuoi che faccia? Sono uomini,
sono scarti di cui ci serviamo per dare loro l’impressione che ci importi
qualcosa degli abitanti di questo pianeta! Un palliativo di cui persino noi Dei
abbiamo bisogno per vincere una solitudine di millenni!” –Chiosò Erebo.
–“Inoltre, sai bene che odio i nomi, servono per distinguere le cose! Ma chi è
unico come me, e te, non ne ha bisogno!”
“Di cosa hai bisogno allora, Nume ancestrale?”
“Di risposte! Perché, Nyx, mi hai chiesto di rientrare?”
“Non sono stato io a chiedertelo, in verità!” –Sogghignò lei,
umettandosi le labbra. –“Pare che si sia stancato di stare a guardare! Se ne
occuperà direttamente lui!”
Erebo ascoltò con sorpresa, non credendo che sarebbe sceso in guerra
fin da subito, anche se in fondo lo capiva, ne capiva la frenesia di agire,
dopo millenni trascorsi nell’intermundi. Sogghignò, allungando le braccia e
incrociandole poi dietro al collo, affermando che ormai il loro operato era
finito.
“Come il tempo che questo mondo ha a disposizione. Mi rimangio quel che
ho detto a Pegasus, pare che la Terra non vedrà un’altra alba!”
Nyx gli diede ragione, prima di congedarsi dal Signore delle Tenebre,
dovendo andare a parlare con Chimera, che aveva chiesto immediata udienza ai
Progenitori.
“So già cosa vorrà dirmi! L’ho sentito strillare fin da quando è
rientrato dall’Egitto, con quella sua vocina isterica! Odia Forco e lo vuole
morto per non essere intervenuto a coprire le spalle all’Armata delle Tenebre!
Non posso dargli torto comunque; sai cosa ha combinato il supposto Sovrano dei
Mari? Ha guidato una sua personale crociata per conquistare un regno
sottomarino dimenticato da chiunque?! La sua bravata c’è costata cara, oltre
che la testa di Polemos!”
“Non era poi migliore di Ares, che tanto aveva criticato. Entrambi
hanno fallito!” –Chiarì Erebo. –“Come Signori della Guerra non valgono niente!”
“Colpa nostra che ci siamo illusi che questi insulsi Dei minori
soddisfacessero le nostre aspettative! In quanto a Forco, mi sono premunita di
mandargli un messaggio speciale, con i miei migliori omaggi!” –Ghignò la Notte,
allontanandosi.
Rimasto solo, Erebo rilassò le braccia, senza per questo quietare
l’ansia che l’aveva invaso da quando aveva lasciato Asgard, ansia che le parole
della Notte non avevano affatto attenuato. Si tolse la maschera terrificante,
gettandola a terra, e infine sedette sullo scranno, ricordando lo splendore
emanato da Balmung, quando Pegasus l’aveva impugnata e puntata verso di lui.
Cos’era quella luce? Di certo
non la luce di un uomo o di un mondo prossimo alla distruzione. Il cosmo di
Pegasus e dei suoi amici non ha niente di decadente, anzi non ha eguali nella
storia! Neppure Eracle, campione di Uomini e Dei, era mai riuscito ad elevarsi
a vette di tale sovrastante lucore! Cosa nascondono ancora i Cavalieri dello
Zodiaco? Oltre ad aver raggiunto il Nono Senso, trascendendo i limiti stessi
dell’esistenza e divenendo pari agli Dei, possono crescere ancora? Possono
andare oltre, se non vi è niente oltre? Oltre l’essere un Dio, cosa c’è?
Ripensò alle parole che Anhar gli aveva rivolto ore addietro, dopo la
sua rinascita, mentre riposava nelle stanze a lui dedicate. Strofe di un’antica
litania diffusa fin dai tempi successivi alla Titanomachia.
“Urano fu soppiantato da Crono, Crono lo fu da Zeus. E chi mai verrà
dopo il Signore della Folgore?”
Per Erebo la risposta era nessuno. Non potevano esserci ancora Dei dopo
la morte di tutti quegli attuali; del resto la condizione stessa di Divinità
era cessata di esistere nel momento in cui il varco si era aperto e Caos aveva
fatto ritorno, unico Dio da cui tutti gli Dei, di tutti i culti e le culture,
discendevano.
Eppure… Quelle parole gli rimbalzavano in testa,
marchiate nella luce del cosmo di Pegasus, la luce che aveva quasi temuto lo
incenerisse quando aveva puntato Balmung verso di lui.
E se venissero loro? Pegasus e
i suoi amici? Gli umani? In un mondo senza più Dei, forse gli uomini stessi
potrebbero innalzarsi e divenire tali?
Avrebbe potuto condividere con Nyx le sue preoccupazioni, e forse
avrebbe dovuto, per trovare una spiegazione razionale, conforto e anche quelle
certezze che lo scontro con i Cavalieri dello Zodiaco avevano scalfito. Ma non
poteva mostrarsi debole e insicuro, non lui, il Tenebroso, il cui solo nome
bastava a turbare gli animi dei suoi stessi guerrieri. Come poteva giustificare
l’essere impensierito da un gruppo di adolescenti? Non lo avrebbe fatto, perché
quegli adolescenti, quegli stupidi ragazzi che giocavano con poteri più grandi
di loro, non sarebbero stati un problema. Né per lui né per i Progenitori.
Adesso che Caos ha deciso di
agire, tutto il resto non conta più niente! Tutto il resto diventa niente! Sghignazzò a gran voce, prima che un rumore
di passi lo distraesse, portandolo a voltarsi verso l’ingresso della sala dove
un guerriero dal volto per metà ustionato era appena apparso.
“Mi… Mio Signore… siete davvero voi?!” –Balbettò imbarazzato il
Nefario, incrociando lo sguardo di Erebo e accorgendosi che non indossava la
maschera. Arretrò di un passo quando vide il suo volto, spalancando gli occhi
dallo stupore.
“Cosa vuoi?” –Ghignò il Nume, avventandosi su di lui e sbattendolo
contro il muro, trafitto alle scapole da daghe di tenebra. –“Avevo dato ordine
di non essere disturbato, come hai osato mancarmi di rispetto?”
“Per… donatemi mio Signore… non era mia intenzione… io… Sua Eccellenza
ha richiesto la presenza di tutti i Progenitori…” –Tentò di scusarsi il
guerriero, incapace di distogliere lo sguardo da quel viso che non aveva mai
creduto gli appartenesse.
Il volto di Erebo era davvero quello?
A quella domanda Jared del Golem di Sangue non ebbe mai risposta, il
cranio schiacciato dalla mano destra del Tenebroso, mentre strali di energia
gli maciullavano il corpo, smembrandolo e macchiando la parete con i suoi
amabili resti.
“Messaggio ricevuto!” –Sogghignò Erebo, recuperando la maschera e
tornando ad indossarla, tornando a ricreare se stesso.
***
Forco riemerse al largo delle coste australiane, annaspando e
respirando a fatica in quella stessa acqua di cui a lungo aveva voluto essere
signore. Le ferite subite nell’Avaiki lo avevano fiaccato, ma ancor più la
consapevolezza di aver perso.
Tutto quanto.
I suoi guerrieri erano caduti in un’impresa che, in origine, era
sembrata una bazzecola, un banco di prova per il ricreato esercito dei Forcidi.
Del regno su cui avrebbe voluto imperare, dimostrando di saper arrivare
ovunque, non era rimasto niente, travolto da maree così furibonde e letali da
aver di certo annientato ogni forma di vita. Dubitava che persino gli Areoi e i
loro alleati fossero sopravvissuti. Ma in verità non gli importava niente.
Tutto quel che avrebbe voluto era tornare da Ceto, l’unica che avrebbe potuto
consolarlo, cullarlo in un morbido e amorevole abbraccio. Con lei avrebbe
deciso cosa fare, come comportarsi adesso, soprattutto nei confronti dei
Progenitori, le cui direttive non avevano rispettato. Certo, avrebbe potuto
inventare qualcosa, una bugia qualsiasi per giustificare il suo mancato
intervento in aiuto dell’Armata delle Tenebre, ma non dubitava che Nyx non
l’avrebbe presa bene.
No, non poteva andare nel Gobi. Non adesso, in quello stato
confusionario e ferito. Doveva riposarsi prima e cercare Ceto. Aveva bisogno di
lei, di sentirla lì, tra le sue braccia, di sentirle il cuore non battere più,
di piangere sul suo cadavere. L’avrebbe trovata, anche a costo di trascorrere
quel che gli rimaneva da vivere nuotando per gli oceani di tutto il pianeta, e
l’avrebbe riportata a casa, nella grotta in fondo al mare dove a lungo avevano
dimorato, amandosi in abissali silenzi. Gli stessi silenzi che li separavano
adesso, impossibilitati a ritrovarsi mai più.
Con quel pensiero angosciante nel cuore, Forco si affidò alle correnti,
lasciandosi trasportare a riva, poco lontano da quella che gli uomini del posto
chiamavano Grande Barriera Corallina. Era ancora notte, ma presto i primi raggi
del sole sarebbero apparsi ad oriente, riflettendosi sullo spettacolare
paesaggio che lo attorniava, un ecosistema che, in altri momenti, avrebbe di
certo apprezzato. Ma adesso voleva solo riposare, curare in fretta le proprie
ferite, quel tanto che gli avrebbe consentito di rimettersi in cammino alla
ricerca di colei che amava.
Non seppe quanto tempo rimase disteso sulla riva, né vide l’alta figura
avvicinarsi. Ne percepì il respiro solo quando giunse a pochi passi dal suo
imbolsito corpo fiacco, gettandogli accanto quel che reggeva tra le mani. Quel
che a prima vista sembrava la carcassa di un grosso animale marino, un cetaceo
forse, a giudicare dalla pelle corazzata.
“Ce… Ceto…” –Mormorò Forco, voltandosi e specchiandosi negli occhi
spenti della compagna. –“Sei dunque tu?!” –Senz’altro aggiungere, l’antico Re
dei Mari la abbracciò, assaporando il dolore di quel momento fino all’ultima
stilla, sentendosi in parte colpevole per la sua dipartita.
Era stata lei, quella mattina, dopo che avevano ricevuto il dispaccio
da Steno, a dire allo sposo che sarebbe andata ad Asgard, come Polemos
richiedeva. La soluzione migliore, a suo dire, per evitare di compromettersi
troppo e inimicarsi potenti alleati.
“Tu mi raggiungerai presto, lo so!” –Gli aveva detto, baciandolo, prima
di tuffarsi nella pozza d’acqua al centro dell’anfratto oceanico e iniziare a
nuotare verso nord, in quella forma terribile che a molti ricordava il
Leviatano.
“Sì, ti raggiungerò, mia adorata!” –Le aveva urlato dietro, prima di
ordinare a Ozena di radunare i Forcidi e prepararsi ad attaccare l’Avaiki.
Adesso quella promessa gli parve quasi una condanna a morte.
“Perdonami!” –Le disse, carezzandole la pelle ruvida. –“Non l’ho
mantenuta! Non sono stato in grado di tener fede alla mia parola!”
“A questo possiamo porre rimedio, mio Signore!” –Parlò allora l’aspra
voce di colui che gli aveva portato il corpo di Ceto, risvegliando il Nume e
forzandolo ad alzare lo sguardo su di lui, quasi si fosse dimenticato della sua
presenza.
Sulle prime non lo riconobbe, avendolo visto di rado in volto, ben
sapendo quanto odiasse che gli altri lo fissassero, soffermandosi a commentare
le sue deformità. Fu la corazza di oricalco ad indicargli chi fosse, per quanto
numerosi danni avesse subito, ancora chiazzata del sangue che il taglio di
Excalibur aveva gettato fuori.
“Cosa vuoi dire, Primo Forcide? E dove hai trovato la mia sposa?”
“Non vi ponete le domande giuste, mio Signore! Quel che è stato è stato
e ormai non potrà più essere! Dove l’ho trovata, gli oceani che ha solcato con
le sue ultime forze, invocando disperatamente il nome di colui che, con questa
stupida crociata personale, l’ha condannata a morte, non ha importanza! Presto
per voi niente avrà più importanza, poiché presto sarete di nuovo insieme, in
un silenzioso nido abissale dove potrete restare per l’eternità!” –Sibilò,
portandosi lesto alle spalle del Dio.
“Che stai dicendo e toglimi le tue viscide mani dal collo?!” –Rantolò
Forco, mentre la presa del Primo Forcide si faceva sempre più possente, sempre
più serrata, accompagnandosi ad una risata divertita. L’ultima cosa che vide,
l’ultima cosa che Forco notò, prima di spirare, furono gli occhi giallognoli di
colui a cui aveva affidato il comando delle sue armate, l’allievo che Anhar
aveva saputo addestrare al meglio.
“Addio, Re dei Mari!” –Sussurrò Tiamat, stringendo fino a schiantare i
muscoli del collo del Nume, dilaniando la pellee frantumando persino le ossa della colonna vertebrale. Quando risollevò
le mani, il Primo Forcide godette alla vista del sangue e della materia
organica che da esse colava, i resti di un Dio indegno di essere tale.
Con un ultimo colpo di mano, gli sventrò la cassa toracica, estraendone
il cuore e mettendolo in una sacca che portava legata ad un fianco. A far
compagnia a quello di Ceto e ad altri che aveva prelevato dagli Dei massacrati
nelle isole del Pacifico. Apakura, Ika Tere, Ira Waru, la maggioranza degli
Aitu, Divinità che nessuno avrebbe onorato né ricordato più. Una dopo l’altra,
nelle esplorazioni condotte per conto di Forco, Tiamat le aveva sterminate
tutte, meritandosi l’appellativo con cui l’anziano Dio Pesce polinesiano
l’aveva chiamato morendo.
“Auraka…”
Il divoratore di tutto.
“Proprio io!” –Aveva sorriso, strappandogli il cuore, per farne dono
all’oscuro signore di cui era al servizio.
“Oh Anhar, mi hai insegnato proprio bene! Sei stato davvero un ottimo
maestro!” –Rise, nell’alba che gli solleticava il viso sfregiato. –“Ed io, che
sono stato attento e diligente allievo, metterò in pratica i tuoi insegnamenti!
Meglio di quanto tu non sia riuscito a fare!”
Capitolo 41 *** Capitolo quarantesimo: I progenitori. ***
CAPITOLO
QUARANTESIMO: I PROGENITORI.
Avalon attendeva in cima all’isola sacra, a pochi passi dal pozzo alle
cui fresche acque si era rivolto quando aveva necessità di sapere. Quella sera
vi avrebbe attinto per un altro motivo.
Sospirò, mentre la brezza notturna gli solleticava le vesti argentee,
fischiando tra gli antichi megaliti che ornavano la superficie del più alto
colle di Avalon, inebriandolo di un’energia che solo in quel luogo poteva
trovare. Un’energia che adesso avrebbe condiviso con coloro che potevano
salvare la Terra. Aveva lasciato Asgard e gli altri membri dell’alleanza
neppure un’ora prima, si era tolto l’armatura ed era tornato a vestire i suoi
soliti abiti, quelli che avevano accompagnato il suo cammino e la continua
ricerca di sempre maggiore conoscenza, prima come novizio poi come druido,
sotto l’attento sguardo dell’Antico. Era stata una vita lunga, durata migliaia
di anni, in vista dell’obiettivo finale; una vita in cui la fiducia nel genere
umano era stata progressivamente erosa, al punto da far dubitare, a qualcuno
dei suoi fratelli, sulle loro reali possibilità di successo. Pur tuttavia, di
una cosa Avalon era stato sicuro, una certezza non l’aveva mai lasciato. La speranza di un futuro. Quella che il
Primo Saggio un giorno aveva definito come fede.
Ricordava ancora una conversazione avuta con il suo mentore poco prima
che il varco tra i mondi si aprisse e Anhar lo ferisse a morte. Erano seduti
proprio lì, al centro del nemeton, i volti
rischiarati dalla luce della luna, che quella notte aveva brillato vivida come
mai. Forse l’ultimo bagliore prima di
spegnersi? Sospirò Avalon, che aveva percepito, poche ore prima, la
scomparsa del cosmo di Selene.
“Cos’è la fede?” –Gli aveva chiesto l’Antico quella notte. –“Cos’è,
davvero, se non il desiderio di credere? Il desiderio di sperare che esista
qualcosa che vada oltre! Oltre le nostre vite, oltre le nostre realtà
quotidiane, oltre la materialistica e presuntuosa concezione di un qui e ora!
Qualcosa destinato a durare per sempre e che ha animato lo spirito di milioni
di persone, forse miliardi, nel corso di millenni, le ha portate ad innalzarsi
a livelli gloriosi o a inabissarsi in comportamenti meschini, le ha spinte ad
agire, a lottare, a farsi la guerra tra di loro per una striscia di terra, la
reliquia di un santo o per accaparrarsi una miniera d’oro e infine le ha
portate a ricercare dentro sé una spiegazione per tutti quei turbamenti che
avevano divorato il loro animo. Quel qualcosa è la fede, la stessa che anima i
cuori puri di chi combatte, come noi, la stessa che ha spinto cinque orfani a
ribellarsi al destino di solitudine e sofferenza che avrebbe dovuto dominare le
loro vite e a lottare per un mondo migliore, uniti da un vincolo che mai hanno
disonorato. L’amicizia. Un vincolo che mai come adesso sarà messo a dura prova!
Lo so bene, poiché anch’io, un tempo lontano, avevo degli amici e con loro ho
vissuto, lottato e poi li ho visti morire, uno ad uno. Non rimpiangerò affatto
il momento in cui li ritroverò.”
Il suono leggero di passi che frusciavano sull’erba rubò Avalon ai
ricordi, facendolo voltare giusto in tempo per vedere coloro che attendeva
entrare all’interno del cerchio di pietre, mentre la fioca luce delle torce che
aveva acceso rischiarava i loro visi stanchi dalle battaglie sostenute in
quell’interminabile giornata.
“Siate i benvenuti, Cavalieri di Atena! Possa questo nemeton essere per voi fonte di serenità e le mie parole un
lenitivo ai vostri affanni!” –Esclamò, rivolto ai cinque compagni che si erano
infine riuniti, su sua specifica richiesta.
“Nemeton?!” –Domandò Pegasus, cui subito
rispose la voce di Andromeda, che aveva riconosciuto l’origine di quel termine.
“Deriva dal gaelico, Nemed, e significa
sacro!”
A quelle parole Avalon annuì compiaciuto, invitando i Cavalieri dello
Zodiaco a mettersi comodi, sedendo sull’erba e togliendosi le armature, di modo
che potesse curare le loro ferite. Osservò i loro volti, cresciuti e ben
diversi dai ragazzetti che, solo un paio d’anni prima, si erano presi a pugni
su un ring, contendendosi uno scrigno d’oro. Vide le loro ferite, le rughe di
ansia e stanchezza, ma anche la luce di fermezza che brillava al centro dei
loro occhi, nel profondo del cuore.
Pegasus, in ansia per Atena e per sua sorella, era stato infettato al
braccio destro dal cosmo oscuro di Erebo, per cui avrebbe necessitato di
attenzioni maggiori, per quanto il Signore dell’Isola Sacra fosse certo che,
quand’anche ne avesse perso l’uso, avrebbe continuato a combattere, con l’altro
braccio, con le gambe, anche solo con un dito. Sorrise, infondendogli la luce
degli Angeli, prima di passare ai suoi compagni.
Sirio, appena rientrato dall’Avaiki del Mar
dei Coralli, aveva affrontato Tiamat, un servitore di Forco
il cui cosmo, da quel che stava raccontando, pareva potenziato da una qualche
oscura entità cui aveva giurato fedeltà. Riflettendo preoccupato, Avalon si
chiese perché Caos lo avesse irrorato di una simile potenza, di certo non
soltanto per vendicarsi di Ascanio. O sperava, così facendo, di arrivare a lui?
Non seppe rispondersi, dedicandosi poi alle ferite di Cristal.
Il Cigno aveva lottato strenuamente, all’ingresso della Valle di
Cristallo, per impedire a Erebo di raggiungere la fortezza di Asgard e raderla
al suolo, possibilità di fatto concreta, dato che neppure Alexer era riuscito a
tenerne a bada la furia. E, da quel che il fratello gli aveva spiegato, era
persino plausibile che il Tenebroso non si fosse sforzato troppo, non ritenendo
necessario mettere in campo tutte le proprie energie per aver ragione di Dei
minori e dei loro Cavalieri.
Per ultimi Avalon curò Andromeda e Phoenix, che raccontarono agli amici
quel che era avvenuto a Themyskira, l’inganno di Ate e l’imprevisto aiuto ricevuto dal Signore
dell’Oltretomba, che fece strabuzzare gli occhi a Pegasus, essendo ancora
nitido il tocco gelido della sua spada nera. D’istinto il ragazzo si toccò il
petto, proprio sotto il cuore, dove Ade lo aveva infilzato nell’Elisio,
sentendosi nudo e inerme al solo peso di quel ricordo. Ricordo che gli era
tornato alla mente sulla Luna, quando aveva per la prima volta percepito
l’oscurità della Notte.
“Non hai niente da temere dalle ombre, Cavaliere di Pegasus!” –Lo
rincuorò allora Avalon. –“Per quel che so, per quel che ho visto di te, le hai
sempre affrontate a testa alta, cacciandole indietro, nel vuoto in cui meritano
di perdersi! Quante volte in fondo hai varcato il confine tra la vita e la
morte? Quante volte hai respirato l’aria fetida della Bocca di Ade, che avrebbe
voluto accoglierti nelle sue profondità? Oh, avresti dovuto vederti, come
scalciavi quel giorno, dopo che la spada del Signore degli Inferi ti aveva
colpito, scalciavi e invocavi il nome di Atena e dei tuoi amici, ancore di
salvezza a cui ti aggrappasti per non precipitare in un oceano di disperazione!”
“Voi… sapete?!” –Mormorò Pegasus, che di quel
momento non aveva più ricordi. In base a ciò che Atena gli aveva raccontato,
quando erano rientrati dall’Elisio la Dea lo aveva alloggiato nelle sue stanze,
curando la ferita con il proprio cosmo e rimanendo per giorni al suo capezzale,
senza mai allontanarsi, senza bere o mangiare, consumando la sua energia divina
per salvare colui che aveva dato tutto per proteggere gli uomini. Poi, una
mattina, il ragazzo si era svegliato, con la ferita rimarginata e lo sguardo
pieno di vita che aveva sempre ritrovato nei suoi occhi, lamentando un gran mal
di testa e una fame da lupi. Tutti avevano riso, persino Phoenix, aiutando
l’amico a rimettersi in piedi e portandolo fuori, per fargli respirare un po’
d’aria fresca. Era stato allora, vedendoli felici e finalmente liberi da ogni
obbligo di lottare, che Atena aveva deciso di non farli più combattere,
offrendo loro la Pozione della Dimenticanza e la possibilità di avere una vita.
“Siete… stato voi?!” –Comprese infine
Pegasus, prima ancora dei compagni. –“Voi mi avete salvato? Io…
ricordo questo posto…” –Esclamò, alzandosi in piedi
di scatto e guardandosi attorno, la mente travolta da indistinti lampi di
ricordi. –“L’erba sotto i piedi, il vento mugghiare…
e questi enormi pezzi di roccia…io…
ci sono già stato?!”
Avalon annuì, accennando un sorriso, prima di confessare la verità.
“Il cosmo di Atena, per quanto puro e pieno d’amore, era fiaccato dalla
prigionia nel Vaso di Hypnos e dallo scontro con Ade
e una ferita di quel genere, ad opera di un manufatto divino, era troppo anche
per lei! Saresti morto o sarebbe morta lei per salvarti. Così abbandonai
l’Isola Sacra, apparendo alla Tredicesima Casa, avvolgendola in nebbie così
fitte da celare la mia presenza e da precipitare tutti i presenti in un sonno
profondo. Ti sollevai e ti portai qua, ai piedi del Pozzo Sacro, con le cui
acque ti curai, cacciando via la maledizione della Spada di Ade. Ti curai, come
non ebbi modo di fare con il mio allievo, come scelsi di non fare con il mio
allievo, rispettando la sua decisione di morire al termine di una vita
intensamente vissuta. Ma non potevo ripetere lo stesso errore, non potevo
sacrificare la vita di chi avrebbe potuto guidare gli uomini verso la loro
salvezza, non con l’apertura del varco tra i mondi così prossima. Perché a
questo sei destinato, tu che sei l’erede del mio discepolo, a questo siete
destinati tutti voi, Cavalieri dello Zodiaco!”
“Avalon…io… Non ho
parole per ringraziarvi…” –Esclamò il paladino di
Atena, commosso e imbarazzato, ma l’Arconte Supremo lo pregò di mettere da
parte la gratitudine e tornare a sedersi, che ancora doveva terminare di
curarli. Con placida calma passò in mezzo a loro, le lunghe vesti che parevano
non sfiorare neppure l’erba tanto leggeri e aggraziati erano i suoi movimenti, applicando
impacchi di foglie sulle ferite aperte, accarezzando le fronti ancora calde e
donando loro momentaneo ristoro. Quindi, quando giudicò terminate le cure
esteriori, offrì loro un mestolo colmo d’acqua, che aveva appena riempito nel
Pozzo Sacro, il cuore di Avalon.
“Ci onori di un grande dono, Signore dell’Isola Sacra!” –Commentò
Andromeda, sorseggiando quel liquido dal retrogusto ferruginoso.
“Un onore che avete meritato, Cavalieri della Speranza!” –Sorrise Avalon.
–“Bevete, vi prego! Nutritevi delle acque del Pozzo Sacro! In nessun’altro
luogo della Terra troverete una sorgente dotata di tali mirabolanti poteri! Ciò
è dovuto alla posizione dell’Isola Sacra, situata lungo una delle principali LeyLines che solcano il pianeta,
una linea di potenza in grado di catalizzare le energie naturali che la
percorrono, permettendo ai fedeli di trovarvi eterno ristoro. Le acque di
questo pozzo, costruito all’epoca dei primi insediamenti druidici, provengono
da un complesso sistema idrotermale che scorre dentro la collina, estendendosi
per molte miglia sotto il Tor e la vicina Glastonbury, sgorgando in una pozza che i cristiani
chiamarono ChaliceWell! Là
i membri della Legione Nascosta di Zeus erano soliti recarsi, per rinvigorire
le forze e conservarsi così per la guerra in cui il Signore dell’Olimpo li
avrebbe chiamati a combattere! Anche Ascanio vi si immergeva spesso, restandovi
per ore, assaporando quell’energia così potente, così antica, in grado di
stimolare la mente più fervida e aiutarla a raggiungere il Formhothú!”
“Formhothú?!” –Ripeté Cristal.
“È quel che ricerca un iniziato ad Avalon! Una sensazione ulteriore che
va oltre l’esistenza, una percezione oltre i limiti del corpo e della mente.
Qualcosa che anche voi avete ricercato, scoprendolo per gradi nel corso della
vostra vita, delle battaglie e delle esperienze maturate in questi anni! Prima
è venuta la scoperta del cosmo, l’ampliamento dei sensi naturali, il Settimo
Senso, elementi che distinguono un Cavaliere in battaglia! Poi siete andati
oltre, scendendo vivi all’Inferno e adesso elevandovi al rango di Divinità! È
questo che maggiormente temono i Progenitori! L’ho sentita, la vibrazione di
dubbio nel cosmo di Erebo, ad Asgard! Egli sa quel che potrebbe accadere;
certo, non lo ammetterà mai ma la possibilità che ciò avvenga è reale!”
“Avvenga che cosa?!”
“La loro sconfitta.”
“È possibile? È davvero possibile vincere Erebo, Nyxe…?!”
“I gemelli lucenti. Etere e Emera!” –Completò
Pegasus, l’unico, tra i cinque amici, ad averli incontrati tutti.
“Proprio loro.” –Chiarì Avalon, raccontandone la storia. –“Essi sono i
Primi Nati, i prōtógonoi, da cui tutti gli Dei discendono!
Rappresentano la Prima Generazione cosmica, nata dal Caos agli albori del Mondo
Antico, un’epoca così lontana che nessuno riesce a immaginarla! Si
narra, in cronache antiche, che Caos generò la Notte, sotto forma di uccello
nero, ed ella, da sola, per partenogenesi, generò Erebo, a cui si unì per dare
vita a Etere e EmeraLéohtbora, i Portatori di Luce. Dei quattro, Erebo è quello che
maggiormente dovete temere, il più spietato, violento e furioso, e anche il più
frustrato! A differenza di Nyx, la Notte del mondo,
egli racchiude in sé l’oscurità degli inferi, la tetra desolazione che sta dopo
la fine di tutto, e che adesso vuole riversare sulla Terra, donando agli uomini
un assaggio dello sconfinato abisso di tenebra che li accoglierà dopo aver
detto addio alla vita! Etere, al contrario, è ben più controllato ma non per
questo meno temibile, è la parte più alta del cielo, la luce più pura, per gli
uomini un miraggio lontano, un sogno fatuo, mentre la sorella Emera rappresenta la luce del giorno. Loro furono i primi dominatori del mondo,
coloro che al mondo regalarono la luce e l’ombra, il giorno e la notte. Loro
fondarono l’equilibrio su cui millenni di storia si sono retti, in una perfetta
alternanza tra l’uno e l’altra. E furono i primi a cadere quando i Sette Saggi
si ribellarono al loro creatore, che ne assorbì le energie, venendo confinati
anch’essi nell’intermundi.”
“Se Caos li ha sacrificati, perché sono tornati per aiutarlo? Perché
non schierarsi contro di lui?” –Domandò allora Cristal,
cui l’Angelo rispose con un sorriso stanco.
“Perché tu non conosci i poteri di Caos, la sua infinita potenza! Lui
ha generato il mondo, creando gli Dei ed essi, in quanto figli suoi, sono
tenuti a rispondergli, è nella loro natura! Se anche volessero rivoltarsi
contro di lui, e sarebbe un’idea inconcepibile, non riuscirebbero mai a farlo.
Dopo millenni trascorsi assieme, avvolti nella stessa oscurità primordiale, i
Progenitori sono intrisi dell’ancestrale potere di Caos, sono gocce dello
stesso Caos! Così come in ogni essere vivente vi è una parte dei genitori,
qualcosa che lo contraddistingue e lo rende loro figlio, a maggior ragione quel
legame esiste tra coloro che edificarono il mondo!”
“Eppure è strano…” –Commentò Pegasus. –“Ho
percepito i cosmi di Emera e Etere, ad Atene. Erano
infiniti, certamente, un bagliore universale che nessun tramonto avrebbe mai
potuto avvilire, eppure non erano… non so come spiegarlo… cattivi. Di certo non ostili quanto quelli di Nyx e di Erebo!”
“Non hai prestato ascolto alle mie parole durante l’assemblea
nell’arena, Cavaliere?” –Spiegò Avalon. –“La luce e l’ombra sono due lati della
stessa medaglia, due parti dello stesso tutto, completandosi a vicenda di modo
che nessuna delle due possa esistere senza l’altra! Anzi, nessuna delle due può
essere definita in assenza dell’altra! Questo regge l’equilibrio del mondo, il
cui funzionamento è garantito dalla loro alternanza. Pensate alle Guerre Sacre:
in una misura molto più ridotta, sono dominate dallo stesso principio ciclico.
L’ombra non può essere sconfitta per sempre, ma a tempi alterni ritorna per
cercare di dominare la luce. Così è sempre avvenuto, in tutte le culture, così
avviene adesso, con una sostanziale ma radicale differenza. Che questa guerra
che stiamo combattendo non è condotta per dominare, bensì per ricreare. Questo
è lo scopo dei prōtógonoi: ricreare il
mondo, sulle ceneri di questo che
reputano vecchio e logoro!”
“Dobbiamo impedirglielo! Non possono decidere il destino di miliardi di
persone!” –Si agitò Pegasus, trovando anche gli amici concordi.
“Possono, e lo faranno, perché a loro non interessa l’umanità. Sono
Dei, anzi forse neppure tali si reputano, loro sono entità. Avrete di certo
notato l’enorme differenza tra uno di loro quattro e gli Dei che siete abituati
a conoscere!”
Pegasus annuì, ricordando la strage operata da Erebo sull’Etna, il modo
in cui si era sbarazzato di Eracle, Efesto, Ermes, e
quanto avevano dovuto sudare persino Alexer e Zeus per tenerlo a sufficiente
distanza dalla città di Asgard. Solo lui, alla fine, era riuscito a mandare un
colpo a segno, grazie all’aiuto di Balmung e di tutti
gli Asi. Cristal parve
intuire i suoi pensieri, ponendogli una mano su una spalla, con un sorriso
greve, mentre anche Andromeda e Phoenix sospiravano, ben consapevoli della
disparità di forze in campo.
“Una domanda, Sommo Avalon!” –Parlò allora Sirio, rimasto meditabondo
per tutto il tempo. –“Avete detto che Caos ha generato i Progenitori, non è
così? E che quindi in loro giace una stilla di Caos?”
“Proprio così!”
“Ma se dai Progenitori hanno avuto origine le stirpi divine, passando
per i Titani, gli Ecatonchiri, i Giganti, giungendo
fino a Zeus e agli Olimpi, questo significa che…”
A quelle parole Avalon assentì, lodando l’acuta mente del Cavaliere del
Dragone.
“Tutti gli Dei sono figli di Caos, del resto cos’altro sono gli Dei se
non ciò che gli uomini vedono in loro, si aspettano da loro, temono da loro?
Sono solo parte di un tutto infinito, ove non vi è più distinzione tra umano e
divino. Non dimenticate, in fondo, che anche gli uomini sono figli del Caos!
Tutti noi lo siamo e ciò spiega la nostra natura ambigua! In ogni essere
vivente vi è un frammento di oscurità, un lato oscuro, che serve per apprezzare
la luce, per capirne appieno l’importanza!”
“E come la vinciamo,
quest’oscurità? Come possiamo spegnerla in modo definitivo?”
“Non so se dovremmo usare quella
parola!” –Commentò Avalon, con un sospiro. –“Pur tuttavia io ci credo, ho
sempre creduto che sia possibile, e per quel che mi è dato sapere esiste un
manufatto in grado di aiutarci, un manufatto forgiato dai Sette Saggi durante
la Prima Guerra.”
“La Coppa di Luce…”
–Mormorò Andromeda, quasi senza volerlo, ricordando di aver intravisto quel
pensiero nella mente del Principe Supremo degli Angeli, durante la visione di
quella mattina.
“Precisamente.” –Rispose questi.
“Cos’è la Coppa di Luce?” –Chiese Cristal.
“L’arma per sconfiggere Caos ed impedire un terzo avvento!” –Affermò
Avalon con sguardo serio. –“Saprete di certo che nell’universo tutto è in
continua trasformazione e non mi riferisco soltanto alla materia, bensì agli
Dei. Pensate alla vostra Dea o ai vostri antichi rivali, Ade, Ares o Nettuno, a
quello che avveniva ai loro spiriti dopo la sconfitta sul campo di battaglia!
Morivano, questo almeno era quel che sembrava ai più, però dopo qualche secolo
ritornavano e le guerre ricominciavano! Questo perché nessuno degli Dei è mai
morto per davvero, lo stesso concetto di morte è stato sempre sconosciuto a
tutte le Divinità moderne, quelle appartenenti alla Terza Generazione Cosmica,
istallatasi sul trono di Grecia dopo la caduta di Crono! Sconfitto in
battaglia, perso il proprio corpo o il simulacro usato in quell’epoca, lo
spirito di un Dio vagava in un limbo ultraterreno ove era confinato a rimanere
per un certo periodo di tempo, la cui lunghezza variava in base al sigillo che
lo bloccava! Ricorderete certamente i sigilli di Atena imposti al Tridente di
Nettuno o allo stesso vaso che ospitò l’anima del Signore dei Mari?! Orbene,
immaginate che questo limbo non esista più, immaginate che non sussista più la
possibilità di ritornare, per gli Dei, come non è mai esistita per gli umani!
Ciò li renderebbe de facto mortali! A questo abbiamo consacrato la nostra
esistenza, a questo abbiamo lavorato per secoli i miei fratelli ed io! A
vincere Caos una volta per tutte, a cancellarlo dall’esistenza, senza
possibilità di ritorno! La Coppa di Luce ce lo permetterà!”
“È davvero possibile?!” –Incalzò Pegasus, con gli occhi lucidi.
Avalon annuì, spostando lo sguardo su tutti loro, indugiando su
Andromeda per un istante di troppo, un istante che permise al ragazzo di
ricordarsi una conversazione avuta con lui ore addietro.
Quale che sia il costo!
Proprio quelle parole gli tornarono in mente mentre un vento improvviso
iniziò a mugghiare, increspando le cime degli alberi di mele, solleticando il
manto erboso ed agitando le acque del Pozzo Sacro. Avalon si voltò verso
oriente, osservando il cielo caricarsi di nuvole nere, strati di nubi più nere
della notte in grado di oscurare anche il lontano baluginio delle stelle. Per
un interminabile istante vi fu silenzio sull’alto colle dell’isola sacra, prima
che una danza di fulmini neri iniziasse a lacerare il cielo, schiantandosi
ovunque attorno a loro, accompagnata da un vorticare furioso di tenebre.
I megaliti di pietra andarono in frantumi, le capanne e gli alloggi
delle sacerdotesse e dei novizi vennero travolti da trombe d’aria tetra, il
molo e gli approdi dell’isola furono risucchiati in un sempre più vasto vortice
che parve inglobare l’intera Avalon, quasi volesse sradicarla dalle fondamenta.
“Non… è possibile!!!” –Esclamò l’Arconte
Supremo, fissando il cielo in burrasca con sguardo allucinato. –“Non può essere…”
“Co… cosa succede?!” –Gridò Pegasus,
accucciandosi sul terreno, assieme ai compagni, indossando prontamente le
armature e cercando di non essere risucchiati da quell’uragano devastante.
“Non può essere venuto fin qua!!!” –Ripeté il Principe degli Angeli,
gli occhi sbarrati di fronte a quell’immensa nube nera che pareva fagocitare
ogni cosa, facendosi sempre più vicina al gruppetto sulla sommità dell’isola.
–“Non ora!!!”
“Avalon!!! Che sta succedendo?” –Continuò Pegasus, prima che l’uomo si
voltasse e lo afferrasse per le spalle, obbligandolo a fissarlo.
“Va’ via!!!!” –Disse semplicemente. –“E porta i tuoi amici con te!”
“Ma… Avalon?!”
“Fa’ come ti ho detto, Pegasus! Almeno stavolta obbedisci!” –Gli urlò
l’altro, mentre l’immensa nube nera calava sulla cima del colle, vomitando loro
contro migliaia di deformi sagome nere, agitate da un vento in tempesta
disseminato di folgori d’ebano.
“Nemeton, dammi il tuo potere!!!Forbærne!!!” –Gridò il Signore dell’Isola Sacra,
sollevando un braccio al cielo, sul cui palmo aperto un lampo di luce esplose,
rischiarando per un momento l’immensità di quella tenebra e obbligando i
Cavalieri dello Zodiaco a chiudere gli occhi, accecati da tale improvviso
lucore.
Quando li riaprirono, videro che l’intera sommità dell’isola era stata
protetta da una cupola luminosa, il cui baricentro era qualche piede al di
sopra delle loro teste, proprio dove Avalon si era retto fino a qualche istante
addietro. Prima che l’ombra immensa piombasse sulla barriera stessa,
scuotendola in profondità e prostrando a terra il suo creatore.
“Avalon!!!” –Lo chiamò Pegasus, correndo verso l’Angelo di Luce,
inginocchiato a terra, con un braccio ancora rivolto verso il cielo, lungo cui
sangue stava ruscellando copioso. Lo stesso sangue
che gli imbrattava il viso, calando da tagli aperti sulla fronte e sotto gli
occhi. –“Mio Signore!!!” –Esclamò angosciato il paladino di Atena, non avendo
mai visto l’Arconte Supremo così ferito.
“Non mi avete sentito, Cavalieri? Non avete sentito quel che vi ho
detto finora? Andate via!!!” –Tuonò, rimettendosi in piedi, mentre già la nube
nera tentava un nuovo assalto alla barriera di luce, avvolgendola per intero,
stritolandola, percuotendola, assorbendola lentamente fino a prosciugarla, e
infine mandandola in frantumi, come fosse nient’altro che un misero vetro.
L’onda d’urto spinse Avalon e i cinque Cavalieri dello Zodiaco a terra
e quando quest’ultimi si rialzarono videro che l’Arconte di Luce si era già
rimesso in piedi, ergendosi di fronte a loro, a braccia aperte, con il cosmo
portato al parossismo.
“Non passerai!” –Si limitò a dire, recitando una preghiera in gaelico
antico, che soltanto Andromeda sul momento riuscì a comprendere. E, nel farlo,
pianse.
Perché era un canto d’addio.
L’immensa nube nera piombò sul Principe Supremo degli Angeli,
investendolo con la sua smisurata tenebra ma egli non cedette, non arretrò di
un passo, rivestito da una luce così vivida in grado di contrastare per un
momento quell’abisso primordiale.
“Mio Signore! Siamo con voi!!!” –Avvampò allora Pegasus, caricando il
pugno destro di energia cosmica, ma bastò che muovesse un passo avanti che
un’onda d’energia mentale lo spinse indietro. –“Ma…
Mio Signore… perché?!”
Fu allora che Avalon si voltò, mentre l’ombra ormai era su di lui,
attorno a lui, avvinghiando il suo corpo da ogni direzione, pur incapace di
proseguire oltre quella barriera rappresentata dal suo corpo, come se quel
misero corpo mortale potesse a lungo opporsi al Generatore di Mondi.
“Andate via, Cavalieri di Atena! Vi prego! Se moriste voi, morirebbe la
speranza! Voi siete il futuro per le genti libere di tutto il mondo! Voi siete
coloro che tutti attendono, quando pregano qualunque Dio possa salvarli e dare
un senso alle loro esistenze! Voi siete il domani! Addio, giovani Cavalieri, e
grazie per avermi regalato un sogno per cui vivere!” –Sorrise loro il Signore
dell’Isola Sacra, prima di lasciar esplodere tutto il suo cosmo in una nebulosa
di luce.
La detonazione improvvisa non fermò l’avanzata del Caos, che di quella
luce si nutrì, fagocitandola e svuotando poi l’involucro terrestre che l’aveva
contenuta per così lungo tempo. Inorridendo, Pegasus vide le tenebre strisciare
attorno al corpo di Avalon, prima di entrargli dentro, dalla bocca, dalle
narici, dagli orecchi, sfaldandolo, disgregandolo, riducendolo a mera polvere.
“Nooo!!!” –Gridò il Cavaliere di Atena, tra
le lacrime, lanciandosi avanti e liberando una devastante cometa di energia,
cui subito andarono a sommarsi un dragone d’acqua, una fenice di fuoco, un
cigno di ghiaccio e una tempesta di energia. Ma a niente servì quel loro
assalto, venendo inglobato al pari del corpo di Avalon, disintegrandosi come
pulviscolo nel vento. Un’esplosione subitanea li spinse indietro, oltre il
bordo della radura, facendoli ruzzolare di sotto, lungo il terreno distrutto
ove un tempo sorgevano meleti e capanne di legno. Caddero fino alla spiaggia
paludosa, rialzando subito lo sguardo verso la sommità, ove l’immensa nube di
Caos li sovrastava, risucchiando un intero mondo nelle sue viscere oscure.
“Dobbiamo… ritentare!” –Mormorò Pegasus,
chiudendo le dita a pugno e cercando l’assenso dei compagni. Ma Andromeda lo
bloccò, afferrandogli un braccio e scuotendo la testa, di fronte agli sguardi
attoniti degli amici. Non ebbe tempo di aggiungere altro che una tempesta di
fulmini azzurri rischiarò il cielo, abbattendosi attorno a loro, in modo da
generare un cerchio protettivo che le tenebre non poterono oltrepassare.
In mezzo a quella pioggia di folgori apparve una sagoma che Cristal ben conosceva, un uomo in armatura azzurra che in
silenzio si limitò ad agguantarli tutti, tenendoli vicino a sé mentre il suo
cosmo li circondava e li teletrasportava via, lontano da Avalon e dalla morte.
In un lampo di luce Pegasus, Andromeda, Cristal,
Sirio e Phoenix apparvero nel piazzale sul retro della fortezza di Asgard. Lo
riconobbero subito, per quanto fosse notte inoltrata, come identificarono le
tre sagome in impaziente attesa, rischiarate dalla luce di una torcia che Atena
stringeva in mano.
“Flare…” –Mormorò Cristal.
Proprio la Celebrante di Odino era stata fino ad allora intenta a
parlare con Mani e con Alexer, quando quest’ultimo aveva percepito l’immensa
tenebra lambire i confini dell’isola sacra e iniziare ad assorbire l’energia
del fratello. Così era intervenuto, facendo quello che andava fatto, quello che
Avalon avrebbe voluto facesse.
“Dobbiamo… tornare indietro!!!” –Esclamò subito
Pegasus, ancora scosso. –“Avalon ha bisogno di noi!”
“Pegasus…” –La voce calma di Andromeda era
incrinata dalle lacrime.
“Dobbiamo andare! Possiamo ancora salvarlo! Possiamo combattere!!!”
–Ripeté il Primo Cavaliere di Atena, supplicando i compagni con sguardo
stravolto. Quindi, vedendo che nessuno accennava a rispondergli, che nessuno
sembrava pronto a seguirlo in quell’impresa, si voltò verso l’uomo
dall’armatura azzurra che li aveva teletrasportati tutti ad Asgard. –“Principe
Alexer, perché ci avete trascinato via?”
“Per salvarvi!” –Commentò questi, rialzandosi e inspirando a fatica.
–“E per onorare la memoria di mio fratello che così tanto ha creduto in voi,
che a lungo ha atteso il vostro arrivo! E dall’impeto che riversi in guerra,
Cavaliere di Pegasus, credo che egli avesse visto giusto! Voi siete la
speranza!” –Gli disse, con voce più calma, prima di poggiargli una mano sulla
spalla destra e guardarlo in faccia. Solo allora, mentre il suo cuore accennava
finalmente a calmarsi, Pegasus notò le lacrime rigare il volto dell’Angelo di
Aria. –“Lui è morto e gettarsi allo sbaraglio non lo riporterà indietro!
Tornare ad Avalon adesso significa farsi uccidere da Caos!”
“Lui è morto…” –Ripeté il paladino di Atena,
quasi come quelle parole per la prima volta gli mostrassero la realtà. –“Aaargh!!!” –Gridò, scagliando un pugno verso il lastricato,
mandandolo in frantumi, e accasciandosi poi per la sopraggiunta stanchezza.
–“Non può essere vero! È solo un incubo! Atena, non può essere! È un’illusione
creata dai nostri nemici, nient’altro, vero?!”
La Dea gli si avvicinò, aiutandolo a rialzarsi e prendendogli le mani
tra le proprie, fissandolo con tenerezza, senza riuscire a nascondere le
lacrime.
“Ha inseguito un sogno di pace per tutta la vita e quel sogno,
quell’ideale di salvezza per l’umanità, l’ha visto in noi!” –Parlò allora
Andromeda, lentamente, trattenendo i singhiozzi per una fine che pure avrebbe
dovuto aspettarsi, avendola già vista. –“Sapeva che sarebbe morto, ma si è
eretto comunque davanti a noi! Per difenderci! Per darci un’opportunità!”
“Non lo deluderemo!” –Intervenne Cristal,
affiancando l’amico. –“Potete esserne certo, Principe Alexer! Noi non tradiremo
mai gli ideali di Avalon, ideali che vostro fratello ci ha affidato,
sacrificando la propria vita per la nostra!”
“Noi combatteremo!” –Chiosò Sirio. –“Contro Caos, contro i Progenitori!
Contro chiunque ancora verrà a minacciare questa nostra bella Terra così colma
d’amore!”
“Per Avalon! Per Atena! Per gli uomini!” –Concluse Phoenix, prima che
la stessa esclamazione fosse ripetuta dai suoi compagni. Dai suoi amici.
Capitolo 42 *** Epilogo (e Schede tecniche dei personaggi) ***
EPILOGO
La scomparsa del cosmo di Avalon fu avvertita in tutto il mondo,
gettando i membri dell’alleanza divina in uno stato di profondo sconforto.
Andrei, ancora in Egitto a discutere con Amon Ra sui riti funebri con
cui avrebbero onorato i caduti nel deserto africano, eruppe in un grido di
rabbia, crollando con le ginocchia nella sabbia, mentre attorno a sé esplodeva
un immenso rogo di fiamme.
Sei dunque stato tu il primo a
cadere tra noi, amico mio? Pianse
il Sole d’Egitto, affiancato dai feriti Horus e Bastet. Se persino tu, che così tanto avevi studiato l’ombra, attendendo la
sua venuta e radunando le speranze di popoli diversi, ne sei rimasto
sopraffatto, che speranze avremo noi, semplici Dei?
Reis, Jonathan, Febo e Marins, da lui poco distanti, rimasero
sconcertati di fronte ad un’eventualità che mai avevano preso in
considerazione. In quel turbinio cosmico che era il mondo, Avalon era sempre
stato un punto fermo per loro, la Stella Polare in grado di orientare il loro
cammino.
Reis lasciò cadere la Spada di Luce, gli occhi increduli e colmi di
lacrime, ricordando il giorno in cui era arrivata sull’isola sacra. Per la
verità, all’epoca era soltanto una bambina scampata ad un’alluvione, ma quel
ricordo Avalon lo aveva risvegliato nella sua coscienza tramite anni di lunghe
meditazioni. Era stato lui ad insegnarle a navigare nella memoria, mostrandole
quel che era accaduto quel giorno, mostrandole quanto amore i suoi genitori le
avevano dato, in quel poco tempo che avevano potuto trascorrere insieme. Quello
stesso amore che anch’egli, a modo suo, gli aveva donato, ospitandola nella sua
casa e dando un fine alla sua esistenza, prima dei Sette Cavalieri delle Stelle
ad essere insignita del titolo.
Jonathan, al suo fianco, piantò con rabbia lo Scettro d’Oro al suolo,
frustrato e impotente, come il giorno in cui Anhar aveva assaltato il santuario
di Isla del Sol, portandogli via sua madre. In ambo i casi aveva potuto
soltanto restare a guardare. Il tocco di una mano amica lo fece voltare,
trovando il suo maestro accanto a sé, gli occhi lucidi, la stessa tristezza di
quel giorno nel cuore.
Analogo sentimento stava divorando il cuore di Marins e di Febo,
soprattutto del primo, che più tempo aveva trascorso con il Signore dell’Isola
Sacra. Sorrise, tra le lacrime, mentre il vento agitava la sabbia davanti ai
suoi occhi, mentre il dolore gli permise di vedere in quella stessa polvere
agitare ricordi lontani, ricordi di una partita giocata al William Shea Stadium, in una vita passata. Si
chinò, raccolse un po’ di sabbia e la modellò, facendone una rozza palla da
baseball che tirò lontano, osservandola dissolversi nel vento, certo che Avalon
non l’avrebbe afferrata.
Nel palazzo di Euribia, nei fondali oceanici, dove gli Areoi stavano
riposando e curando le loro ferite, Asterios tremò, e non per il freddo che
avrebbe dovuto provare a così tanti metri di profondità. Ma per la certezza di
non aver potuto dire addio a un fratello con cui poco tempo aveva trascorso.
Anch’egli, del resto, aveva commesso lo stesso errore di Zeus e di molti altri
Dei, convinto di essere immortale, di cavalcare l’onda perfetta, convinto di
poter rimandare a domani quel che invece poteva essere fatto soltanto oggi.
L’anziana mano di Avatea gli afferrò la propria, facendolo voltare
verso di lei, che gli indicò la grande sfera di madreperla posizionata su un
basamento poco distante. La Selenite della Terra l’aveva recuperata prima di
lasciare il distrutto Avaiki, decisa a portare avanti una tradizione per cui
molti Areoi erano morti. Adesso che Hina era morta, qualcuno avrebbe dovuto
custodire la Perla dei Mari, custodendo le anime degli aumakuas. Asterios comprese quel che la Dea della Luna volesse
intendere e le diede ragione: Avalon di certo non sarebbe stato solo. Non a lungo, almeno.
Il pugno di Ascanio distrusse uno scoglio a mani nude, abbattendosi poi
su altri affioramenti rocciosi che lo circondavano. Uno dopo l’altro, in una
manciata di secondi, li sbriciolò rabbioso, travolto da una furia che non aveva
mai provato in vita. Una furia che rispondeva al nome di colpevolezza.
Aveva ripensato spesso, in quella trasferta oceanica, alle parole che
Anhar, nel corpo di Virgo, gli aveva rivolto nel Giardino dei Salici Gemelli e
aveva dovuto ammettere che, sia pur lontana, una punta di verità poteva
esserci. Era davvero possibile, si
era chiesto più volte, che Avalon non
volesse la morte dell’Angelo Oscuro? Se così fosse, perché? Avrebbe voluto
parlarne con lui, ma il poco tempo a disposizione glielo aveva impedito. O
forse era stato il timore, qualora gli avesse confessato i propri dubbi, di una
sua reazione? Una possibile delusione da parte di colui che vedeva nel
Comandante dei Cavalieri delle Stelle il suo erede, destinato a succedergli
alla guida dell’Isola Sacra?
Bella guida sono stato! Avvampò, gli occhi neri invasi da
un’acredine imprevista. Ho lasciato
morire il mio mentore, anziché essere con lui, a battermi al suo fianco! Egli
ha dato un senso alla mia esistenza, richiamando alla mia memoria i ricordi
delle mie vite passate, dalle origini della mia dinastia, ed io non sono stato
in grado di dissipare il velo di inganni che il Maestro di Ombre aveva tessuto
nella mia mente?! Avalon voleva sconfiggere Caos, a qualunque costo. A questo
ha dedicato la vita e non sarebbe mai sceso ad alcun compromesso! Sono stato un
idiota solo ad aver messo in dubbio il suo credo! Si disse, affondando il
pugno nella parete di roccia e osservando la mano livida e sanguinante. Ma
quando fece per caricare di nuovo, venne fermato da un’altra mano, che gliela bloccò,
tenendola stretta nella propria e infondendogli il tepore di un cosmo amico.
Una parte di quel calore che Ascanio e le forze dell’alleanza avevano portato
quel giorno negli abissi oceanici, combattendo e morendo per proteggere uomini
e guerrieri che neppure conoscevano. Di quello, Toru dello Squalo Bianco
sarebbe sempre stato loro riconoscente.
Fuori da Asgard, lungo la strada principale che correva fino al
Cancello dei Grifoni, due figure passeggiavano, osservando lo sfacelo di quel
giorno di guerra. Uno sfacelo che avrebbe potuto essere maggiore. Sollevando lo
sguardo verso le mura della cittadella, danneggiate dagli attacchi dell’Armata
delle Tenebre, Eracle vide le numerose torce accese, una per ciascun guerriero
del nord caduto, una per ognuno dei Blue Warriors. Era stato Mani, poc’anzi, a
proporre quel rito silenzioso, che di certo non sarebbe bastato ad onorare la
loro forza d’animo, la determinazione e il cuore impavido che li aveva resi
fermi in battaglia, pronti a morire pur di difendere coloro che amavano. La
loro terra, la loro regina, le loro famiglie.
Sospirando, Zeus e Eracle si scambiarono uno sguardo triste, sebbene a
nessuno dei due quelle stragi fossero inusuali. Quante morti avevano infatti
causato con le guerre che avevano scatenato o a cui avevano comunque preso
parte? Così tante che neppure i numeri bastavano più ad enumerarle. Eppure
erano ancora lì, mentre gli uomini mortali morivano e adesso persino gli Dei.
Morfeo, Eros, Ebe, Dioniso, Eos, Asclepio, Artemide, Odino, Balder,
Freyr, Osiride, Iside, gli Asura indiani, Era. E infine anche Avalon.
È tempo di suonare una diversa
musica! Si disse il Nume
Supremo dell’Olimpo, varcando la soglia della cittadella ed entrando ad Asgard.
***
“Avremmo dovuto essere con lui!” –Esordì così l’Arconte di Fuoco, non
appena apparve nel salone della reggia di Asgard ove gli Angeli e i Cavalieri
dello Zodiaco si erano rifugiati e da cui avevano inviato messaggi a tutti i
loro alleati, affinché li raggiungessero per decidere un nuovo piano d’azione.
Al momento erano presenti, oltre a loro, sei Cavalieri delle Stelle, Flare, gli
Asi e gli Olimpi maggiori.
“Quietati, Andrei!” –Cercò di calmarlo il Principe della devastata
Valle di Cristallo, non ottenendo altro che uno sguardo irato.
“Sai che ho ragione! Avremmo dovuto essere con lui! Cosa diavolo gli è venuto
in mente di andarsene a giro per il mondo da solo?!”
“Avalon aveva le sue necessità, che a volte potevamo non comprendere,
ma di certo sapeva quel che stava facendo!” –Intervenne allora una terza voce,
facendo voltare Andrei verso una parete del Salone del Fuoco, laddove Asterios
era appoggiato, le dita intente a pizzicare la cetra che teneva sotto braccio,
lo sguardo assente.
“Sapeva anche che si sarebbe fatto uccidere?!”
“Sì! Lo sapeva!” –A parlare non fu uno degli Angeli bensì Andromeda,
che stupì tutti i presenti, non solo i suoi amici e Atena. –“Lui… sapeva che
l’ombra sarebbe giunta, in quel momento! La Vista lo aveva avvisato e anch’io
ne ero consapevole! Ma lui… ha scelto comunque di affrontare il suo destino,
ergendosi solo di fronte all’ombra! Ha voluto mandare un messaggio, a Caos e ai
Progenitori, chiaro ed inequivocabile! Il mondo non è vostro, non ancora, non
finché ci saranno uomini e Dei pronti a lottare e a morire per difenderlo!”
“Un gesto suicida!” –Ringhiò allora Andrei, agitando la mano davanti al
viso. –“E quanto ancora potremo difenderlo, adesso che lui è caduto? Adesso che
le nostre forze sono state piegate da questa prima giornata di combattimenti? E
sottolineo prima! Guardate come ci ha ridotto una sola giornata?! Siate
realisti, siate sinceri! Quanto ancora potremo resistere? Quanto potranno
combattere ancora i vostri uomini, i vostri fedeli, i vostri Cavalieri?!”
Per qualche istante nessuno rispose, tutti consapevoli delle difficoltà
incontrate in quella giornata parsa infinita. Erano stati vittoriosi su molti
fronti, questo era vero, avevano impedito che Asgard e Karnak venissero
distrutte, ma tutti i regni divini avevano subito danni ingenti, soprattutto il
Santuario di Atena, la cui delicata architettura ormai era irriconoscibile.
L’Avaiki oceanico era stato spazzato via, al pari del Reame della Luna
Splendente e di molti complessi templari egizi, ed eguale sorte avevano
incontrato i regni dell’Asia centrale. Da quel che Phoenix aveva riferito,
Themyskira era in rovina, come pure i templi indiani e del Sud-Est asiatico.
Quanto ci sarebbe voluto prima che anche Asgard o l’Olimpo subissero tale
sorte?
“Resisteremo finché le gambe non ci reggeranno più!” –Disse allora
Pegasus, attirando su di sé gli sguardi di tutti i presenti. Pieno d’amore
quello di Atena, di ammirazione quelli di Zeus e di Eracle, di stupore quello
degli Angeli. –“Finché il nostro cosmo brillerà, fino all’ultima stilla di
vita, noi combatteremo per difendere ciò che abbiamo di più caro! Lo abbiamo
promesso ad Avalon e prima ancora a noi stessi!”
“La tua determinazione ti fa onore, giovane Cavaliere di Pegasus, ed io
combatterò con te, questo è certo!” –Annuì Andrei in tono greve. –“Purtroppo non
è sentimento che ci permetta di rigenerare in fretta le nostre ferite,
soprattutto le vostre e quelle degli uomini mortali che vi seguono! Avete visto
tutti la nube nera che sta sommergendo il mondo? Ovunque passa, ovunque essa
proietti la sua ombra, oscura il futuro degli uomini, privandoli di ogni forma
di luce. Presto, prima anche solo di riuscire a ipotizzare quando, la Terra
sarà sommersa da una sì fitta foschia che in confronto l’unione dei nostri
cosmi sarà un baluginare stanco! Caos sa che le nostre forze sono in crisi, che
le nostre speranze si assottigliano ogni giorno di più! È furbo, più di quanto
credessi, e lo ha dimostrato non scendendo apertamente in guerra, affidandosi
ai suoi accoliti, che ancora dobbiamo sconfiggere! Ma adesso, avendo fatto
fuori il suo principale avversario, sta mettendo da parte la prudenza,
preparandosi a sferrare il più poderoso attacco che questa Terra abbia mai
conosciuto! La civiltà degli uomini volge al tramonto, amici miei!”
“La sua fretta e la sua convinzione di una facile vittoria saranno la
causa della sua sconfitta!” –Interloquì allora Pegasus, battendo un pugno
dentro il palmo dell’altra mano. –“Lui non sa che abbiamo un’arma per batterlo,
giusto? Cioè avete un’arma! Avalon ce ne ha parlato! La Coppa di Luce! Ed era
certo che servisse allo scopo, eliminare la minaccia di Caos una volta per
tutte!”
“Oh, la Coppa di Luce! Già!” –Mormorò Andrei, scambiando uno sguardo
inquieto con Alexer, prima di abbandonarsi ad una risata irrequieta.
“Trovarla e usarla contro Caos è stato lo scopo della nostra esistenza.
è un manufatto antico che può
essere evocato unendo i Talismani delle Stelle!” –Spiegò l’Arconte di Aria.
–“Nella sua forma più comune è, o meglio riteniamo che sia, in quanto nessuno
di noi l’ha mai vista, un contenitore, diciamo un vaso atto a contenere l’arma
definitiva nella guerra contro l’ombra! Essa infatti cela al suo interno la
gloriosa armatura della Leggenda, la prima corazza forgiata dagli alchimisti
che in seguito si sarebbero sparsi per il mondo, dando vita alle civiltà di Mu,
Atlantide ed altre ancora. Una corazza interamente di mithril, resistente come
nessun’altra corazza al mondo, poiché mai usata prima, rimasta per secoli e
secoli allo stato iniziale di creazione, ed intrisa del cosmo dei Sette Saggi
antichi.”
“Un’armatura del genere… supera qualsiasi difesa possiamo creare!”
–Mormorò Zeus, affascinato, mentre anche Nettuno ed Eracle, al suo fianco,
sgranavano gli occhi esterrefatti da simili rivelazioni.
“Per questo è stata creata, per vestire il Cavaliere della Leggenda,
l’uomo che si innalzerà dal mucchio di umane genti e il cui cosmo supererà il
Nono Senso, entrando in contatto con l’essenza stessa della creazione. Un
potere ultimo che nessuno di noi è in grado neppure di immaginare.”
“Superare il Nono Senso?! Ma… è possibile?! Persino Avalon ci disse che
era il livello massimo raggiungibile per un uomo, l’ultimo livello della
conoscenza!” –Affermò Phoenix, subito seguito dal fratello. –“Cosa può esserci
oltre? Cosa può essere più in alto di un Dio?!”
“Essere il Dio!” –Precisò Alexer. –“Essere energia pura, fonte di
creazione e distruzione al tempo stesso.”
“Non ho mai sentito parlare di un’arma simile, ma se esiste, e le
vostre parole mi infondono certezza, allora forse abbiamo una qualche speranza
di vincere questa guerra!” –Parlò allora Vidharr, il quieto figlio di Odino,
suscitando reazioni simili anche negli Dei di Grecia e nei Cavalieri dello
Zodiaco. Reazioni che Alexer non tardò a smorzare.
“Temo purtroppo che non sarà possibile usare la Coppa di Luce!”
“Cosa?! E perché mai?!” –Chiese subito Pegasus.
“Perché Avalon era l’unico che sapesse come evocarla, l’unico che
conoscesse il rito per aprire le porte tra i mondi e farla apparire!”
“No!!! Non è possibile!” –Esclamarono i Cavalieri dello Zodiaco,
sconvolti da quell’infausta rivelazione.
“Ci dispiace!” –Commentò Alexer, mentre Andrei, vicino a lui, scuoteva
la testa, il volto visibilmente colmo di rabbia.
“Adesso capite cosa intendevo poc’anzi! Avalon si è soltanto fatto ammazzare,
privandoci della possibilità di evocare la Coppa di Luce!”
“Avalon non sapeva che Caos sarebbe giunto fin là! Neppure io
immaginavo che si sarebbe mosso fino a quando i suoi emissari non avessero
annientato ogni possibile minaccia alla sua esistenza!” –Cercò di giustificarsi
l’Angelo di Aria.
“Non è possibile reperire questo rito? Avalon avrà lasciato
indicazioni? Qualche appunto? Magari era per questo che era tornato sull’isola
stanotte!” –Avanzò l’ipotesi Pegasus, mentre Alexer scuoteva la testa,
spiegando che il fratello non avrebbe certo messo su carta una simile preziosa
informazione, preferendo conservarla nella memoria. –“Potremmo comunque tornare
ad Avalon a controllare? Possiamo andare anche noi, se volete!”
“Non trovereste niente, soltanto rovine e morte!” –Parlò allora una
nuova voce, mentre le porte del Salone del Fuoco si aprivano ed un uomo
rivestito da una danneggiata armatura verde e marrone ne entrava a passo
deciso. Alto e robusto, il viso bruno segnato dalle battaglie sostenute, teneva
l’elmo rotondo sottobraccio mentre nell’altra mano stringeva un pezzo di pietra
grigia, che gettò in mezzo ai presenti. –“Ecco quel che rimane dell’Isola
Sacra! Quel che resta degli imponenti megaliti che ne ornavano la sommità! Il
nemeton degli antichi druidi di Albion è adesso una devastata palude ove alto
permane l’odore di morte e di caducità!”
“Comandante…” –Mormorarono Jonathan e Reis, avvicinandosi al giovane
dal fisico atletico scelto da Avalon per guidare l’ordine dei Cavalieri delle
Stelle.
“Le tue parole sono vere, Ascanio Pendragon!” –Annuì Alexer, chinando
il capo, uniti dalla stessa sofferenza, dallo stesso senso di perdita.
“Coppa o non coppa, la guerra continua e dobbiamo organizzare le nostre
difese!” –Riprese Asterios a parlare. –“Forco è caduto e credo che soltanto lui
desiderasse occupare gli Avaiki degli Areoi. Ciò non toglie che, anche senza
dover difendere le Conchiglie del Popolo Libero, le nostre forze siano poche!
Addirittura inferiori rispetto al precedente consiglio!”
“Molti Heroes di Eracle sono caduti, al pari di numerosi Guerrieri di
Inti, Soldati del Sole e Blue Warriors. Persino le Amazzoni sono state
decimate, così pure i santoni indiani. E dall’Africa non verrà nessuno, non
esistendo più alcun membro dei Savanas in attività! Dovremo cavarcela con
quello che abbiamo!” –Convenne Alexer, prima che Andrei illustrasse come si
sarebbero distribuiti.
“Uno di noi per ciascuno dei tre grandi regni rimasti! Asgard, Atene e
l’Egitto! Tutto il resto ormai è impossibile da proteggere!”
“E questi regni, quanto credi che riusciremo a difenderli dall’avanzata
della marea d’ombra?!” –Azzardò allora Zeus, abbandonandosi ad un sospiro.
“Cos’altro dovremmo fare? Asserragliarci tutti sull’Olimpo?!” –Chiese
Alexer, prima che una nuova fiammeggiante voce rispondesse a tutti loro.
“Combattere! Combattere e combattere ancora! Finché l’ombra non sarà
tramontata o la nostra luce si sia spenta nel tentativo!”
Un bagliore improvviso invase il Salone del Fuoco, obbligando i
presenti a tapparsi gli occhi con le braccia. Quando la calda luce calò
d’intensità, tutti poterono ammirare un uomo alto e possente, rivestito da
un’armatura dorata, striata di arancione, caratterizzata da un immenso occhio
aperto, con un punto nel mezzo, dipinto sul pettorale della stessa. Un uomo che
uomo non era, come a tutti fu subito chiaro, anche a chi non l’aveva mai
incontrato di persona.
“Padre…” –Esclamò Febo, felice di rivederlo.
“Possente Amon!” –Si inchinò Andrei, mentre il Sole d’Egitto lo pregava
di lasciar da parte quei ridicoli formalismi di cui in quel momento dovevano
fare a meno.
“Perdonatemi tutti, amici di vecchia e nuova data, per questa mia
improvvisa apparizione! Soprattutto voi, Celebrante di Odino, perdonate la mia
rudezza! Ma i tempi sono maturi, tardi oserei definirli, e perderli
confabulando in un’erta fortezza lontana dai campi di battaglia non è
opportuno!”
“Cosa intendete dire, Sommo Amon? Anche Asgard è stata assediata
quest’oggi, al pari della vostra Karnak!” –Precisò subito l’Angelo di Aria,
ricevendo un cenno d’immediato assenso da parte del Nume egiziano.
“Lo so bene, Principe Alexer, come so che domani ciò accadrà di nuovo,
e il giorno dopo ancora, finché le mura di questa roccaforte, al pari di quelle
della piramide di Karnak e delle Dodici Case dello Zodiaco non saranno macerie!
Se sottostiamo ancora alle loro condizioni, se continuiamo a giocare secondo le
regole dei Progenitori, finiremo per perdere questa guerra, nel peggiore dei
modi!”
“Cos’altro potremmo fare, mio Signore? Non vorrete certo rinunciare?!”
“Solo puntualizzare una verità che molti non vedono! Finora abbiamo
giocato in difesa e abbiamo sempre perso, non solo oggi, ma negli ultimi anni,
negli ultimi secoli, da quando l’ombra ha inviato il suo araldo per intaccare
l’equilibrio cosmico! I nostri regni divini sono stati attaccati, invasi,
distrutti, ciò che avevamo costruito e preservato per secoli è svanito, la
pace, l’armonia, la nostra sicurezza. L’unica vittoria che siamo stati in grado
di riportare, l’unica occasione in cui abbiamo avuto ragione di celebrare
alcunché, è stato quando il mio fido Osiride ha assalito a sorpresa il
Santuario delle Origini per liberare mio figlio e il suo compagno. Allo stesso
modo dobbiamo agire anche noi! Dobbiamo colpire al cuore!”
“Proponete dunque di attaccare il Santuario delle Origini? Ove Caos e i
Progenitori dimorano? È una follia!” –Sgranò gli occhi Alexer, al pari di Atena
e di Vidharr.
“Ma necessaria!” –Concluse Amon Ra, lasciando che una cappa di silenzio
scendesse per qualche minuto sulla ristretta assemblea.
“Il Pastore dell’Universo ha ragione!” –Intervenne infine Zeus,
concentrando gli sguardi su di sé. –“Basta con i timori e le paure, se la fine
di tutto è giunta, non la accetteremo apatici ma la contrasteremo fino
all’ultimo! Pensateci, amici e alleati, se aspettiamo ancora, daremo tempo a
Caos di generare o risvegliare chissà quale oscura creatura, avendo egli un
potere pressoché illimitato, mentre noi non abbiamo modo di integrare le nostre
armate. Dobbiamo attaccare e dobbiamo farlo adesso!”
“Mio padre dice il vero! Continuare a difendere i nostri regni non
risolverà il problema, non debellerà la minaccia, ma finirà solo per sterminare
tutte le nostre forze, fisiche e morali!” –Gli diede ragione Eracle, prima di
trovare anche l’appoggio di Nettuno, dei Cavalieri delle Stelle, che non
vedevano l’ora di vendicare il loro maestro, e dei Cavalieri dello Zodiaco.
“Senza la Coppa di Luce, sarà un massacro!” –Commentò Alexer, cercando
lo sguardo dei fratelli. Già una nuova vivida luce si era accesa negli occhi di
Andrei, al pensiero di sferrare per primi il prossimo attacco, una luce che lo
aveva ringiovanito di qualche anno. E anche Asterios, seppure con minor foga,
riconobbe che era l’unica alternativa possibile.
Ultimi furono Vidharr il silente, Flare e Atena ad annuire, tra sospiri
e dispiaceri, non per loro ma per gli uomini che avrebbero mandato a morire in
quel deserto d’ombra. Ma non sarebbero stati soli, nessuno lo sarebbe stato
più. Tutti i regni divini, a qualunque culto fossero devoti, avrebbero unito i
loro eserciti, le loro forze, la loro strenua volontà di combattere per il
futuro, in un’unica grande armata che avrebbe marciato contro il Santuario
delle Origini per raderlo al suolo.
Il Primo Cavaliere della
Dea Atena, cui è unito da un legame che trascende il tempo, dall’epoca del
primo Cavaliere di Pegasus. Combatte contro Erebo sull’Etna e ad Asgard,
affrontando anche gli Dei di Luce ad Atene. La sua armatura viene riforgiata da
Efesto utilizzando l’Ichor di Zeus, che la rende così molto resistente. Ma sarà
sufficiente per affrontare l’ultima ombra? A volte, Pegasus teme di no.
(Colpi segreti: Fulmine di Pegasus, Cometa lucente)
ANDROMEDA:
Grazie ad Avalon, scopre
finalmente cosa Biliku gli ha lasciato, la Vista, la capacità di vedere il
passato, il presente e a volte anche il futuro. La sua corazza viene irrorata
col sangue di Ate, che la maledice e se ne serve per portare Andromeda al lato
oscuro, spingendolo a compiere atti nefandi, tra cui affrontare Phoenix. Sarà
l’amore fraterno e l’intervento di un vecchio nemico a risvegliare il suo cosmo
lucente e il suo animo nobile.
(Colpi segreti: Catena di Andromeda, Onde del Tuono, Melodia
scintillante di Andromeda, Nebulosa di Andromeda)
SIRIO IL DRAGONE:
Dopo che la sua armatura
viene bagnata dal sangue di Nettuno, Sirio segue il Dio dei Mari nel Pacifico
Meridionale, in un regno di cui non conosceva l’esistenza. Là, nell’Avaiki
degli Areoi, affronta un temibile nemico, discepolo del suo stesso maestro. In
quel duro scontro, affiancato da Ascanio, è sostenuto dal ricordo degli allievi
di Dohko.
(Colpi segreti: Colpo segreto del drago nascente, Excalibur,
Colpo dei cento draghi)
CRISTAL IL CIGNO:
Compagno di Flare,
paladino di Asgard, il Cigno combatte all’ingresso della Valle di Cristallo per
impedire all’Armata delle Tenebre di raggiungere la cittadella sul Mare Artico.
Sconfigge l’ultima Gorgone, ma viene impegnato duramente da Erebo, in uno scontro
massacrante e sanguinario. Può contare sull’aiuto di Alexer, suo angelo
guardiano, sempre pronto a guardargli le spalle. Come un amico o come un padre.
(Colpi segreti: Polvere di diamanti, Vortice scintillante
dell’aurora, Anelli di ghiaccio, Per il sacro Acquarius)
PHOENIX:
Dopo che Efesto ha
riparato la sua armatura, il Cavaliere dell’Araba Fenice raggiunge le sponde
del Mar Nero, per portare aiuto alle Amazzoni, intente ad affrontare le legioni
oscure del Caos. Costretto ad affrontare Andromeda, fa appello al buon cuore
del fratello, certo che possa risvegliare la sua vera natura sepolta dietro la
maschera d’odio che Ate gli ha calato addosso, prima di dirigersi verso
l’Egitto e affrontare il più temibile nemico mai fronteggiato fino ad allora.
(Colpi segreti: Fantasma diabolico, Pugno infuocato, Ali
della Fenice)
CAVALIERI DI BRONZO:
ASHER DELL’UNICORNO:
Battagliero, determinato,
testardo, Asher guida la resistenza delle ultime forze di Atena a difesa del
Grande Tempio, contro Atlante, in uno scontro perso in partenza. Non per questo
ha mai dubbi né medita la fuga. Anela soltanto a combattere per Atena.
YULIJ DEL SESTANTE:
Sacerdotessa di recente
investita, dopo essere stata addestrata da Tisifone e Castalia. Combatte
assieme ai compagni di Bronzo e Argento per difendere il Santuario della Dea
Guerriera.
Uno dei Cavalieri di
Atena più anziani. Allieva di Magellano della Mensa, assieme a Regor e Nicol,
scese in Africa con il maestro e il compagno, per portare aiuto alle
popolazioni del continente nero. Si unì a Regor, rimanendo al suo fianco fino
alla morte ed ereditando il suo compito: vegliare sull’Atlante e sul titano
dimenticato.
REDA e SALZIUS:
I discepoli di Albione
combattono a fianco di Asher e Castalia contro Atlante, per riscattarsi agli
occhi della Dea che avevano disonorato in passato con i loro atteggiamenti.
NEMES DEL CAMALEONTE:
La Sacerdotessa amata da
Andromeda ha lasciato l’isola etiope per portare il proprio aiuto ai Cavalieri
di Atena, nella difesa del Grande Tempio.
CAVALIERI D’ARGENTO:
CASTALIA DELL’AQUILA:
La maestra di Pegasus
combatte strenuamente a difesa del Santuario, sia contro Atlante che contro le
Amphilogie. Ha anche modo di scambiare alcune parole con un Cavaliere Celeste
mai incontrato prima, che scopre essere una persona che riteneva perduta.
(Colpi segreti: Meteora pungente)
TISIFONE DEL SERPENTARIO:
Energica e combattiva, la
Sacerdotessa dell’Ofiuco segue Asterios e Ascanio nel lontano Avaiki,
affrontando Afanc assieme a Titis.
(Colpi segreti: Cobra incantatore)
NICOLE DELL’ALTARE:
Attendente personale di
Atena, Nicole è l’ultimo custode di una sapienza antica, di cui lui stesso si è
nutrito negli anni in cui è stato bibliotecario. Non avendo mai amato
combattere, ha preferito mettere le proprie conoscenze e capacità al servizio
di Atena in un altro modo, conservando un segreto che ha permesso alla Dea di
ritrovare tre amiche perdute.
(Colpi segreti: Nicole
può evocare il Fiat Lux, la suprema tecnica difensiva del Santuario, riservata
ai massimi officianti della Dea).
CAVALIERI D’ORO:
MUR DELL’ARIETE:
Stanco e fiacco, per le
guerre continue e la perdita di sua madre, Mur ripara comunque le armature dei
compagni, ben sapendo quanto ne abbiano bisogno nella guerra in corso.
Indebolito, si erge comunque a difesa delle Dodici Case, affrontando Atlante
assieme a Virgo e Tiresia, e recandosi poi al Cancello Orientale per regolare i
conti con Horkos una volta per tutte.
(Colpi segreti: Onda di luce stellare, Muro di cristallo,
Cuneo di cristallo, Rivoluzione di stelle).
IORIA DEL LEONE:
Il Cavaliere di Leo, dopo
che Mur ha riparato la sua armatura, con il proprio sangue, scende in Egitto
con le forze dell’alleanza, ingaggiando battaglia contro Beira della Cailleach,
nelle stesse terre dove, anni addietro, aveva conosciuto Reis.
(Colpi segreti: Per il sacro Leo, Zanne del Leone/Lightning
Fang, Keraunos)
VIRGO:
Il Custode della Porta
Eterna tenta di frenare l’avanzata di Atlante assieme a Mur e agli altri
Cavalieri d’Atena, deciso a dare tutto se stesso nell’impresa.
(Colpi segreti: Kaan, Abbandono dell’Oriente)
ALTRI PERSONAGGI:
KIKI:
Il fratellino di Mur ha
imparato a riparare le armature, dopo aver affiancato tante volte il fratello.
Aiuta Kama a evacuare il Grande Tempio durante l’assalto di Atlante.
CLIFF O’KENTS:
Marinaio di origini
scozzesi, è uno dei collaboratori della Fondazione Thule, cui Isabel affida
spesso imprese segrete e delicate.
PATRIZIO:
Capo dei soldati semplici
del Grande Tempio, ha servito Atena dai tempi di Shin, deciso a combattere in
suo nome contro l’ombra nascente.
AVALON
CAVALIERI DELLE STELLE:
JONATHAN, Cavaliere dei Sogni:
Segue il maestro nella
campagna d’Egitto, ignaro sulle sue origini.
REIS di Lighthouse, Cavaliere di Luce:
Affianca Jonathan in
Egitto, proprio dove, quindici anni addietro, aveva incontrato Ioria per la
prima volta.
FEBO, Cavaliere del Sole:
Non ha dubbi sul fronte
in cui lottare, né sullo scopo: proteggere coloro che ama, la famiglia che lo
ha cresciuto, donandogli amore.
MARINS, Cavaliere dei Mari Azzurri:
Fedele amico di Febo,
dedica tutto se stesso ad aiutarlo.
(Colpi segreti: Maremoto dei mari azzurri)
MATTHEW, Cavaliere dell’Arcobaleno:
Messi da parte i
tentennamenti di un’adolescenza inquieta, Matt ha adesso preso coscienza del
suo ruolo, e come tale cerca di agire.
ELANOR, figlia primogenita di Selene e
Endimione, Cavaliere della Luna:
IGALUK, Selenite di Mercurio:
Non
ama combattere ma è pronto a dare tutto se stesso per i popoli della Terra,
credendo che mai debbano smettere di credere nei loro sogni.
(Colpi
segreti: Aksarnerk = aurora boreale)
HUBAL, Selenite di Venere:
Ha
fatto voto di silenzio. È un abile arciere.
AVATEA, Selenite della Terra:
Un
tempo dimorava nell’Avaiki nel Mar dei Coralli.
SIN, Selenite di Marte:
Giovane
e potente guerriero dal cosmo fiammeggiante.
(Colpi
segreti: é-kish-nu-gal =casa della
gran luce)
MANI, Selenite di Saturno:
Possiede
un ramo di Yggdrasill, deciso a sopravvivere all’ultima guerra in modo da
piantarlo a Midgard e permettere che il frassino rinasca.
AVAIKI
AREOI DEL MAR DEI CORALLI: (su gentile concessione di Pavone)
TORU, lo Squalo Bianco:
Comandante
degli Areoi, si colpevolizza per non aver preparato il popolo libero all’ultima
guerra. Il sangue è la sua debolezza.
(Colpi
segreti: Fauci dello Squalo Bianco)
MARU, del Narvalo:
Eroico
guerriero e ardente innamorato, è disposto a tutto pur di stare con colei che
ama. Impugna una lancia di corallo carica di elettricità.
(Colpi
segreti: Lancia del Narvalo)
TARA di Diodon:
Compagna
di Maru, trova nell’amore la forza con cui lottare.
HINA del Lactoria, Alii dell’Avaiki:
Figlia
di Asterios, madre spirituale dell’Avaiki, custodisce la Perla dei Mari,
affrontando serena il proprio destino, non avendo rimpianti.
KOHU dell’Istioforo:
Il
più giovane degli Areoi, non per questo meno determinato di altri a lottare per
la salvezza del proprio popolo. Adora il grande Toru.
(Colpi
segreti: Taglio delle onde, Vela Bianca)
ARMATA DELLE
TENEBRE
PROGENITORI:
LORD CAOS:
L’essenza della creazione.
Il nemico di cui Avalon e i suoi fratelli hanno atteso l’avvento per secoli.
Definito anche l’Oscuro Signore, l’Unico Dio o semplicemente l’Unico, creatore
del cosmo e della Terra, è l’entità da cui tutti gli Dei e gli uomini
discendono.
La Prima Dea nata dal Caos,
può assumere qualunque forma, prediligendo quella di un enorme uccello nero,
dagli artigli di pura tenebra. All’apparenza calma, è crudele e vendicativa,
non ama assegnare compiti ai suoi sottoposti, preferendo agire in prima
persona. Dei Quattro Progenitori, è la prima a rinascere, in una caverna della
Grecia, venendo cullata dall’odio dei giganti mostruosi che popolavano quella
regione e che l’avevano chiamata Ebdera.
Si reca sulla Luna per
uccidere Selene e Endimione, sperando di attirarvi Elanor, la più fresca e
inesperta tra i Cavalieri delle Stelle, per carpirle il Talismano.
(Colpi segreti: Marea d’ombra)
EREBO, Signore delle Tenebre Infernali:
Di aspetto sconosciuto,
nascosto da un’armatura integrale di colore nero, Erebo è il Primo Dio nato
dalla Notte per partenogenesi. Definito con molti nomi che mettono l’accento
sulla sua oscurità, è agguerrito, voglioso di scendere in guerra e coprire il
pianeta con la sua ombra infernale. Al tempo stesso sfodera un lato riflessivo,
turbato dalle parole del Gran Maestro del Caos riguardo ai cinque Cavalieri
dello Zodiaco. È questo il motivo per cui decide di affrontare Pegasus, Cristal
e poi Andromeda, per tastare le loro abilità e convincersi che i timori di
Anhar siano infondati.
(Colpi segreti: Danza di daghe, Dies Irae)
EMERA, Dea del Giorno:
Elegante e leggera, è una
dei due gemelli di Luce partoriti dalle tenebre per contrapposizione. Rappresenta la
personificazione del Giorno.
Silenziosa, non amante del
chiasso e del frastuono, Emera accompagna Etere al Grande Tempio, dopo aver
risvegliato Atlante, sedendo sulla Meridiana dello Zodiaco e osservando la fine
di un mondo che, a sentir lei e il fratello, merita di scomparire, reo di non
essere perfetto come l’Unico l’aveva creato. Pur tuttavia, a differenza di
Etere, percepisce qualcosa, un richiamo, forse una voce, che le si rivolge
spesso chiamandola “madre” e stranendola.
L’imperturbabile fratello
di Emera, è il giudice supremo che condanna Atena per la fallacia delle sue
azioni e l’umanità per la sua claudicante imperfezione, vedendo con disprezzo
l’alternarsi di luce e ombra nell’animo del genere umano.
Attacca il Grande Tempio
per annientarlo, deciso a rifondare un nuovo mondo privo di esseri imperfetti,
un mondo dove le macchie non esistano e i contorni siano netti. Per quanto
accorate siano le difese di Atena e di Pegasus, Etere non sembra prestare
ascolto alle loro parole, cieco e sordo nelle proprie convinzioni.
(Colpi segreti: Luce del Cielo; Pranava Sabda: suono primordiale (sanscrito), il suono della
creazione, che racchiude tutti gli altri suoni. Una beatitudine dotata di forza
dirompente.)
Lord Comandante dell’Armata
delle Tenebre, maestro di Chimera, guida l’esercito di Caos nell’attacco contro
Karnak. È la personificazione della guerra, l’istinto naturale dell’uomo allo
scontro, ed esiste fin dagli albori dell’umanità. La sua potenza è immensa, per
quanto non utilizzi colpi segreti o tecniche specifiche, egli le conosce tutte,
sapendo anche come difendersi. Dopo aver sconfitto Sirio in Asia, fronteggia
Andrei e Phoenix fuori da Karnak, sfoderando la sua armatura: l’Arma, a forma di
carro da guerra.
Il suo vero nome è Vaughn
ed è l’allievo di Polemos. Hanno girovagato assieme per l’Europa, spostandosi
dai Pirenei verso oriente, trascorrendo periodi di caccia nelle regioni
montuose o nella Foresta Nera, crescendo assieme e conoscendosi meglio. La sua
furia in battaglia è indubbia, così come la sua devozione alla causa di
Polemos, per cui darebbe la vita. Segue il Lord Comandante in Egitto, incitando
l’Armata delle Tenebre a dare il meglio di sé, o a morire nel tentativo,
ingaggiando rapidi e cruenti scontri con Bastet, Horus, Reis, Jonathan e alcuni
Faraoni delle Sabbie.
(Colpi segreti: Zoccolo della capra infernale, Fauci delle
tre Bestie).
ATLANTE:
Figlio del Titano Giapeto,
fu abbattuto dalle folgori di Zeus, sprofondando nel suolo lungo la costa
africana nordoccidentale, generando la catena montuosa che da lui ha avuto
nome. Viene risvegliato da Etere e Emera, che risvegliano al qual tempo la sua
sete di vendetta verso gli Olimpi. Invade il Santuario di Atena, radendolo al
suolo e impegnando Mur, Virgo e tutti i Cavalieri della Dea Guerriera ad un
duro sforzo, che sarebbe stato vanificato se Zeus non fosse intervenuto.
LESTRIGONI:
Grossi guerrieri, alti e
robusti, rivestiti di biancastre armature integrali. Combattono in gruppo,
spesso riuniti a schiera, in modo da presentarsi come muro compatto contro cui
impattano gli assalti avversari. Impegnano duramente Marins e gli altri Cavalieri
delle Stelle, in Egitto.
WARG:
Selvaggi lupi da guerra,
cresciuti nelle tenebre della Foresta di Ferro, in Nord Europa. Molti vennero
cacciati e uccisi dai Blue Warriors di Alexer, ma alcuni riuscirono a salvarsi,
allevati e nutriti da Reidar e da Anhar per scopi bellici. Adesso cavalcano
verso Asgard, bardati di corazze appuntite che li rendono ancora più demoniaci.
Reidar ne cavalca uno.
I NEFARI DELLO ZODIACO OSCURO:
JARED del Golem
di sangue:
Giovane arabo di vent’anni, crea con il
cosmo delle statue di sabbia che si nutrono del sangue dei nemici, divenendo
sempre più potenti e grosse. Le sue abilità gli consentono di mimetizzarsi con
il terreno, ingannando l’avversario. È particolarmente a suo agio nel
combattere nei terreni aridi, desertici. Vulnerabile al fuoco e al vento che lo
erode, non è troppo forte fisicamente, contando più sulle sue statue di sabbia
e sull’astuzia.
BEIRA della
Cailleach:
Nacque da un druido anni addietro
durante le Nozze Sacre, ai fuochi di Beltane. Sentiva di avere grande potere ma
Avalon non la ammise all’ordine delle sacerdotesse perché presagiva qualcosa di
oscuro in lei. Ha appreso le arti magiche da Anhar, studiando antichi testi di
Beira, la più grande Cailleach, il cui nome ha scelto per onorarla e per combattere
in suo nome.
(Colpi segreti: Strega delle tempeste, Cenn
na Cailleach)
REIDAR dei Warg:
Di aspetto nordico, è originario
infatti di Midgard, si è addestrato con Artax e Orion per divenire Cavaliere di
Asgard, ma Ilda ha nominato Luxor al suo posto e lui non l’ha presa bene.
Neppure Orion e Artax hanno interceduto per lui e per anni lui ha rimuginato
sulle parole rivoltegli da Orion, il giorno dell’investitura: “Forse Ilda ha
percepito violenza nel tuo animo!”
La sua armatura è identica a quella di
Luxor ma è nera con riflessi violacei ed è dotata di artigli che gli coprono le
mani. L’ha fatta creare apposta dal Gran Maestro del Caos a forma di lupo, così
adesso può indossare la corazza che gli spettava.
È sanguigno, gli piace nutrirsi di
sangue. Veloce, scattante, ha udito e odorato fine, sente gli odori e i suoni
anche più lontani. Possiede braccia molto forti, in grado di strangolare un
orso.
(Colpi segreti: Artigli del Lupo di Sangue)
GRENDEL, lo
Spettro Bianco:
Di Grendel poco è noto, neppure il
nome. Di lui si sa solo che parla poco e combatte molto, senza conoscere pietà.
Il bracciale destro dell’armatura è un enorme guanto artigliato, in puro
mithril, dotato di cinque dita appuntite in grado di squartare un essere umano
con un solo colpo. Anhar gliene ha fatto dono affinché porti ovunque il segno
della loro efferata potenza.
DUPPY:
Fantasma dell’isola di Giamaica,
possiede la capacità di assumere qualsiasi forma agli occhi di chi lo guarda.
Fisicamente non è molto forte, ma grazie ai suoi poteri mentali riesce a
prevalere anche su avversari ben più potenti di lui. Grazie al suo aiuto,
Reidar rientra a penetrare all’interno della cittadella di Asgard, raggiungendo
il Salone del Fuoco.
ALU della
Tempesta:
Demone assiro, malvagio e vendicativo.
Il suo nome deriva dal sumero “gallu”, tempesta. Dal fisico snello e smilzo, ha
occhi grandi e neri, capelli viola spettinati e
Un’armatura
rossa vermiglia, dotata di ampie ali, simili a quelle di un pipistrello, con
cui vola sul campo, rilasciando vento e tempesta.
CORB dei Fomori:
Uomo basso e barbuto,dai folti capelli rossicci e aspetto simile
ad un folletto. Originario di Cork (Irlanda). In gioventù è stato un
apprendista druido presso Avalon, ma poi se ne era andato, non interessato
all’uso del potere che veniva fatto nell’Isola Sacra. Il mondo moriva e i
druidi cosa facevano? Rimanevano chiusi in cima al cerchio di pietre a pregare.
Corb ha sempre criticato Avalon per non essere un interventista, bensì un
garante dell’equilibrio, finendo poi per mettere i suoi poteri al servizio di
chi ha preferito agire, per porre fine all’agonia del mondo.
Il suo nome riprende il nome di Yama,
Deva della Morte, presso la religione induista. La sua armatura è rossastra, la
pelle olivastra, gli occhi di fuoco e cavalca un bufalo nero. Attacca
Themiskyra, uccidendo alcune Amazzoni, prima di essere fermato da Pentesilea e
Phoenix.
Vritra significa “l’avviluppante”.
Prende il nome da un asura: nella mitologia indiana, un enorme dragone o
serpente, il cui simbolo sono le nuvole, che il Nefario controlla per far
piovere. Sequestra le acque e porta i popoli alla fame tramite la siccità.
Sorella di Menas della Rosa, che cerca
di vendicare uccidendo i Cavalieri di Atena, responsabili (in base a ciò che
Anhar le ha detto) della morte del fratello. Possiede il potere di controllare
il regno vegetale, creando piante, soprattutto carnivore, con cui stritola e
soffoca i nemici.
ALTRE DIVINITA’:
OIZYS, Dio della
Miseria e della Sventura:
Astrazione, figlio di Nyx, ha una voce
stridula e stordente. Non ama, non vuole e non sa combattere, solo profetizzare
sciagura e rovina per chiunque. Viene portato in Egitto da Chimera, che si
diverte a frustarlo e a torturarlo, nutrendosi dei suoi spasimi di dolore.
APATE, Dea
dell’Inganno:
Astrazione, figlia di Nyx. Al pari di
Oizys, questa divinità minore viene portata in Egitto e forzata da Chimera ad
avanzare verso Karnak, dove è costretta ad affrontare le forze dell’alleanza,
in particolare le incandescenti fiamme di Sin degli Accadi, trovandovi la
morte.
KERES, la morte
violenta:
Alta e snella con lunghi capelli
rossicci, è una donna spietata e sanguinaria. Si diverte in compagnia di Lissa,
a cui spesso si accompagna nelle scorribande belliche. Al suo fianco invade
Karnak, contribuendo alla morte di Iside e fronteggiando poi Febo e Marins.
LISSA, Dea della
rabbia e del furore cieco:
Una donna alta e bella, con lunghi
capelli biondi e sguardo magnetico. Indossa un’armatura con un viso dipinto sul
pettorale, il viso del suo più grande successo. Come Dea della Rabbia, possiede
il potere di condurre uomini (e Dei) alla pazzia, proprio come accadde a
Eracle, secoli addietro. A Karnak, tenta di piegare Febo al suo volere, facendo
forza sulla sofferenza celata nell’animo del bastardo, ma finendo lei stessa
piegata dalla tempra fiammeggiante del sole d’Egitto.
HORKOS, figlio
di Eris:
Rappresenta la maledizione inflitta a
coloro che tradiscano un giuramento. Sopravvissuto al crollo di Dhaulagiri,
subisce la collera di Nyx, accusato di non aver portato a termine la missione.
Horkos cerca quindi vendetta al Grande Tempio, uccidendo Mur ma venendo
disintegrato a sua volta dall’Onda di Luce Stellare.
(Colpi segreti: Sturmjan, Sturm und drang)
AMPHILOGIE,
figlie di Eris:
Al pari di Horkos, alcune di loro sono
sopravvissute al crollo della Montagna Bianca, decidendo di seguire il fratello
nell’attacco a sorpresa al Grande Tempio. La loro avanzata viene però
interrotta da Kiki, Asher, Castalia e Kama e soprattutto da Matthew ed Elanor,
che sconfiggono l’esercito nemico.
Su consiglio di Anhar, la figlia di
Eris si sostituisce a Demetra, attirandola fuori dall’Olimpo, presso
l’abitazione dei genitori di Nikolaos. In questo modo Ate, nelle vesti di
Demetra, può attingere ai segreti di Zeus e, soprattutto, può bagnare con il
proprio sangue l’armatura di Andromeda, infettandola e servendosene per
oscurare il suo cosmo. Non soddisfatta del risultato, e notando che la coscienza
del Cavaliere continua a perdurare, la Dea invoca persino Ade, invitandolo a
prendere definitivo possesso del simulacro da lui scelto un tempo, non avendo
però fatto i conti con l’orgoglio del Signore dell’Oltretomba e con quel
sentimento che Atena lo aveva accusato di non aver mai provato. L’amore.
DISNOMIA, figlia
di Eris:
Assieme a Oizys e Apate, segue Polemos
in Egitto, per quanto refrattaria allo scontro armato. Viene frustata spesso da
Chimera e, quando le forze dell’alleanza attaccano, inizia a correre per
fuggire, venendo però disintegrata dalle fiamme di Sin degli Accadi.
FORCIDI
FORCO, Antica Divinità dei Mari:
Primo Imperatore dei Mari,
non ha mai rinunciato al dominio sugli oceani, confrontandosi contro tutte le
supposte Divinità che hanno ardito definirsi tali. Su due certezze si è basata
la sua intera esistenza: Ceto, la compagna che mai lo ha abbandonato, e la
smania di possedere il trono dei mari, certo di essere l’unico degno di
sedervisi. Per questo scatena i Forcidi contro l’Avaiki, per dominare l’ultimo
regno sottomarino esistente e consolidare il proprio dominio.
(Colpi segreti: Kata thalassa)
CETO, Sposa di Forco:
Nota come “la perigliosa”,
Ceto è la sposa di Forco, al cui fianco è sempre rimasta durante le millenarie
contese per il dominio sugli oceani. Non ha mai avuto un dubbio su quale fosse
la sua posizione, alla destra di colui che aveva scelto come compagno per la
vita, unendosi in un amore che era perdurato per secoli.
Le sue capacità le
permettono di carpire le paure celate nell’animo di ogni avversario,
ritorcendole contro di lui.
(Colpi segreti: Grande balena bianca, Sentinelle del mare)
TIAMAT, l’Abisso Oscuro, Primo Forcide:
Il Comandante dei Forcidi,
la cui potenza supera quella dei suoi sottoposti uniti assieme, rivaleggiando
persino con quella di Forco o di Ceto. Quale ne sia il motivo, al momento a
tutti ignoti, tranne che a Tiamat stesso, il cui cosmo è intriso di oscurità,
che ha saturato ogni lucentezza o bontà avesse mai vissuto nell’animo. Un tempo
era stato un uomo di nome Tebaldo, compagno di addestramento di Ascanio ai
Cinque Picchi.
Dopo la sua morte apparente
ad Atene, durante l’attacco dei soldati egizi, il ragazzo era stato salvato da
Anhar, impressionato dalla sua tenacia, dalla sua determinazione a non morire,
nonostante avesse il corpo a pezzi. Per quel motivo, e per una punta di
oscurità che aveva suscitato il suo interesse, Anhar lo aveva preso con sé,
facendone il suo allievo e affidandogli scomode missioni nell’ombra, tra cui
radunare i Forcidi e fornire un esercito sottomarino ai Progenitori. E Tebaldo
era presto divenuto Tiamat, una persona completamente nuova, come Ascanio ha
modo di verificare.
Nello scontro che scuote la
Conchiglia Occidentale, Tiamat esce sconfitto, ma l’energia oscura che lo
corregge gli permette di curare le proprie ferite in fretta, al punto da
portarlo ad uccidere Forco poco dopo, mozzandogli la testa e riunendola assieme
a quella di altre Divinità oceaniche da lui stesso massacrate, per offrirle in
dono al suo signore. Ma a chi?
(Colpi segreti: Abisso oscuro, Apocalisse oscura, Rapsodia
di ombre)
OZENA, la Piovra Puzzolente:
Secondo Forcide, nonché
unica donna tra i sette servitori di Forco. Proviene da una famiglia dove la
discendenza, sempre in linea femminile, è stata finalizzata a creare una fedele
combattente e sostenitrice di Forco, in attesa che il vero Imperatore dei Mari
la chiamasse a sé. Viene ferita da Ascanio nell’Avaiki ma trova inaspettata
morte per mano di colui a cui aveva giurato fedeltà.
ISONADE: Quarto Forcide.
In origine era Moeava, uno
degli Aeroi, addestrato da Ono dello Squalo Tigre, assieme a Toru e Maru, ma
non molto incline a rispettare le leggi. A differenza dei compagni, Moeava
amava cacciare per il gusto di farlo, uccidendo animali anche quando non
necessario alla sopravvivenza. Per questo Ono lo cacciò, per aver violato il
kapu, e adesso è tornato per avere la sua vendetta su Hina e gli altri Areoi.
IKU-TURSO:Quinto Forcide.
Il suo nome è Meritursas ed
è originario della Lapponia, dove è cresciuto, abbeverandosi di mitologia
finnica. Proprio per la sua provenienza, Forco gli ha donato la corazza
dell’Iku-Turso. Violento e sanguigno, non rifiuta mai una bella scazzottata, da
cui conta di uscire vittorioso grazie al potere che gli è proprio, quello di
infettare, debilitando, l’avversario.
(Colpi segreti: Tuonen
härkä: Buoi della morte. Sono grossi buoi neri, che caricano con corna
sprigionanti fiamme e lampi. Una loro ferita è mortale, in quanto Iku-Turso è
considerato padre delle Nove Malattie.Tuhatsarvi)
AFANC, Sesto Forcide.
Tanto silenzioso, quanto
letale. Il nome del Sesto Forcide è ignoto, persino ai suoi stessi compagni. È
semplicemente comparso un giorno, nella caverna subacquea, rispondendo al
richiamo del suo Signore, inchinandosi e giurando fedeltà. Tiamat lo definiva
“il sicario perfetto”, perché mai avrebbe discusso gli ordini del suo
superiore. E così si è comportato, fino allo scontro con Titis e Tisifone
nell’Avaiki, in cui stava per avere la meglio, non fosse stato travolto dalle
fauci dello squalo bianco scatenate da Toru.
Non sono noti colpi
segreti, preferendo il Sesto Forcide lo scontro diretto, corpo a corpo. Di
certo la sua forza fisica era impressionante, in grado di stritolare un uomo,
spezzandone le ossa in pochi secondi. Il suo simbolo è l’afanc, un mostro
lacustre della mitologia gallese, responsabile delle inondazioni. Voci non
confermate, su cui Avalon avrebbe voluto indagare, lo indicano come
responsabile della grande inondazione avvenuta in Galles trent’anni addietro,
quella in cui morirono i genitori di Reis. Che lo spirito del Sesto Forcide si
fosse risvegliato in quel momento?
KELPIE, Settimo Forcide:
Nato a Aberdeen, da una
famiglia con forti radici in quella zona, il ragazzo risveglia la coscienza del
Settimo Forcide all’età di quindici anni. Fisicamente è il meno forte dei sette
fedeli di Forco, per la corporatura non troppo atletica, ma è molto agile e
compensa con scaltrezza e velocità.
Affronta Nesso del Pesce
Soldato nell’Avaiki nel Mar dei Coralli. Il suo simbolo è un demone in grado di
assumere la forma di un cavallo nero, tipico del folklore celtico, e diffuso
nei laghi e nei corsi d’acqua di Scozia e Irlanda.
(Colpi segreti: Bäckahästen, un
cavallo di fiume tipico del folklore scandivano)