La fuga dei Conti

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il corteo ***
Capitolo 2: *** Festa da sballo ***
Capitolo 3: *** Vergognosi compromessi ***
Capitolo 4: *** Un salto indietro nel tempo I - Il gioco degli scacchi ***
Capitolo 5: *** L'ultimo viaggio ***
Capitolo 6: *** Donne di potere ***
Capitolo 7: *** Il fuoco degli O'Brian ***
Capitolo 8: *** Nobiltà rinnegata ***
Capitolo 9: *** Un salto indietro nel tempo II - Il burattinaio e la torre ***
Capitolo 10: *** Regalo di Natale ***
Capitolo 11: *** Visite inaspettate ***
Capitolo 12: *** A proposito di capelli ***
Capitolo 13: *** Incastrato! ***
Capitolo 14: *** Un salto indietro nel tempo III - I Conti in Fuga ***
Capitolo 15: *** La sconfitta delle aquile ***
Capitolo 16: *** Patronus ***
Capitolo 17: *** Il Censimento dei Nati Inglesi ***
Capitolo 18: *** Un salto indietro nel tempo IV - All'ombra degli angeli ***
Capitolo 19: *** Miracoli sul campo da Quidditch ***
Capitolo 20: *** L'ultimo erede ***
Capitolo 21: *** Il segreto dei Conti ***
Capitolo 22: *** Insospettabili eroi ***
Capitolo 23: *** La D.I.M.I.S.S.I.O. ***
Capitolo 24: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il corteo ***


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CAPITOLO 1
Il corteo






Gli uccellini cantavano le loro dolci melodie, posati sugli alberi da frutto dell'ampio giardino. Un leggero venticello fresco spirava attraverso la finestra aperta, facendo increspare le tende di velluto del suo letto a baldacchino. Il sole, così raro in Irlanda, illuminava quella tiepida mattina di fine luglio, irradiando la sua luce sul parquet di legno scuro.
Faonteroy O'Brian avrebbe goduto di tutte queste graziose attenzioni che la natura pareva volergli riservare, se solo si fosse svegliato nel letto di camera sua, al castello degli O'Brian. Invece, era da una settimana esatta che veniva gentilmente ospitato a casa dei suoi zii, il maniero MacGaril. Suo zio Giustinianus MacGaril, fratello di sua madre, e sua zia Grainne O'Brian, sorella di suo padre, felicemente sposati tra di loro, gli avevano offerto un breve soggiorno estivo alla loro villa, per passare del tempo insieme al suo adorabile cugino Belisar.
Ma Faonteroy aveva da poco compiuto i quattordici anni e non era affatto uno stupido; tanto per cominciare, suo cugino Belisar era tutto tranne che adorabile: un ventunenne delle dimensioni di un grosso orso con la parrucca bionda; a causa dei vari incroci matrimoniali, non era proprio quello che si sarebbe definito un tipo sveglio. Era un miracolo che riuscisse ad infilare una serie di parole una dietro l'altra per articolare una frase; in realtà, non che Faonteroy l'avesse mai sentito fare grandi discorsi, ma si immaginava che fosse almeno in grado di parlare.
Inoltre, i suoi zii non si erano mai dimostrati particolarmente premurosi nei suoi confronti. L'interesse -forzato- verso di lui aveva una ragione d'essere ben precisa: la spilla con il giglio che portava appuntata alla sua giacca rossa di sartoria. Ad essere sinceri, non l'aveva indossata per tutta la settimana che aveva passato a villa MacGaril, perché era certo che i suoi ospiti non avrebbero apprezzato (e un O'Brian sa sempre comportarsi da gentiluomo); tuttavia era quanto mai esplicito che suo zio Giustinianus fosse preoccupato dalla direzione che avevano preso le sue amicizie: Nati Inglesi, traditori del proprio sangue, figli di Babbani. Tutta gente sovversiva.
Non era colpa sua. Almeno, non inizialmente: era stato quel tornado di sua cugina Mairead a coinvolgerlo nelle sue varie iniziative sediziose, insieme a quel gruppo di facinorosi che erano i ragazzi del FIE. Nobili che non si comportavano come tali, gente con genitori Babbani, perfino qualcuno che discendeva da Inglesi! E i loro progetti erano tutt'altro che innocenti!
Un mago che ambiva ad una buona reputazione e ad una carriera nel Parliamint, come lui, avrebbe fatto meglio a stare alla larga da quei disgraziati. Eppure si sentiva stranamente legato a loro.
Era lodevole il modo in cui si impegnavano nelle loro iniziative, mettendo anima e cuore per ciò in cui credevano, per quanto ostacolati dai più.
Studiare con Dominique era stimolante, chiacchierare con Moira piacevole. Si era perfino affezionato a sua cugina Mairead, alle sue folli idee, alla stupida impulsività che governava le sue azioni. I suoi anni al Trinity, era costretto ad ammetterlo, sarebbero stati molto più noiosi senza di loro.
Era quasi certo di poter dire di aver trovato degli amici. Solo qualche mese fa, ognuno di loro era stato disposto a correre parecchi rischi per andare in soccorso di Edmund.
Se fosse stato lui ad essere nei guai, immaginava che gli altri avrebbero fatto lo stesso. O, almeno, Mairead li avrebbe costretti a farlo. Questo significava essere amici, no?
Faonteroy rimirò la sua immagine riflessa nello specchio. Un giovanotto consapevole delle proprie qualità, con una casacca rossa finemente lavorata e una spilla con un giglio appuntata al petto. Soddisfacente.
Richiuse con cura la porta della stanza degli ospiti alle sue spalle, dopodiché si affrettò a raggiungere la famiglia MacGaril in sala da pranzo per la colazione. Entrò con le braccia incrociate dietro la schiena e il petto in fuori: suo zio inorridì, lui si sentì stranamente soddisfatto.
Giustinianus abbandonò la copia del Corriere che stava leggendo e lo scrutò fin quando non si fu seduto al suo posto, di fianco a Belisar. «Cos'hai lì?» gli domandò, per quanto dovesse sapere esattamente cosa fosse.
«Una spilla, zio» rispose educatamente Faonteroy.
«C'è un fiore, sopra» grugnì Belisar, probabilmente orgoglioso della sua acuta osservazione.
Giustinianus distolse un attimo lo sguardo arcigno dal nipote per puntarlo sul figlio. «Cosa ti ho detto riguardo al parlare?» gli domandò. Il ragazzone, per ricordare le parole giuste, ci impiegò parecchi secondi, durante i quali sfoderò una serie di espressioni concentrate che non avrebbero stonato su uno di quei grossi scimpanzé vestiti di frac e cilindro che si vedevano dar spettacolo al circo.
E questo sarebbe il mio amabile cugino? si chiese Faonteroy. Grazie, preferisco Mairead.
«Che se non ho niente di intelligente da dire, devo stare zitto!» riuscì a formulare infine Belisar, con evidente soddisfazione.
«Appunto.» Giustinianus, messo a tacere il figlio, tornò a concentrarsi sul suo vero problema. «Perché indossi quella spilla?»
Faonteroy smise di spalmare la marmellata sul pane e guardò lo zio dritto negli occhi. «Perché lo ritengo un mirabile simbolo di chi combatte per ciò in cui crede» rispose in tutta onestà.
«E tu in cosa credi?» lo sfidò Giustinianus, cercando di costringerlo a confessare le sue simpatie per sasanachfuil e traditori.
«Nei valori della nostra Costituzione.» Faonteroy fu certo che quella risposta avrebbe chiuso la discussione in modo definitivo: dopotutto, rispecchiava davvero ciò per cui lottava e nessuno avrebbe potuto essere accusato di qualcosa se proclamava la sua fede nella Carta Costituzionale.
Il resto della colazione trascorse in silenzio. Belisar pareva particolarmente accigliato per un insetto che aveva deciso di affogare nel suo caffellatte ma, memore del divieto paterno, non aprì bocca e si limitò a tentare in ogni modo di ripescarlo dalla tazza. Zia Grainne non era mai stata una donna di molte parole e, in quel preciso frangente, Faonteroy le fu piuttosto grato per il suo mutismo: come ripeteva spesso sua madre, i commenti acidi di zia Grainne non erano i migliori per sbloccare le situazioni difficili.
Quanto a zio Giustinianus, il suo silenzio era sintomatico dell'indignazione verso il nipote. Era ovvio che non gli piaceva la piega che stavano prendendo gli eventi, ma Faonteroy era stato bene attento a non offrire alcun pretesto per accusarlo di qualcosa. Anche in quel caso, attese che i suoi ospiti finissero la colazione, prima di alzarsi dal tavolo, perché un vero gentiluomo aspetta sempre che tutti abbiano deposto la forchetta. Dopodiché, il ragazzino si alzò con un gesto elegante e si congedò con le parole di rito.
L'ostinato silenzio di Giustinianus MacGaril si interruppe poco prima che il nipote uscisse dalla sala da pranzo. «Presto ti sarà chiesto di scegliere da che parte stare, Faonteroy O'Brian.» Il pronunciare il suo nome suonò come una minaccia.
Faonteroy pensò a Mairead, che lo stava aspettando a Dubh Cliathan, pensò ai ragazzi del FIE che combattevano per ciò in cui credevano; pensò perfino a suo padre, che gli aveva insegnato a seguire sempre ciò che è rispettabile. Lasciò che gli angoli della sua bocca si piegassero in un leggero sorriso, il primo spontaneo dopo tanto tempo. «Io ho già scelto, zio.»

Mairead osservava orgogliosa il procedere dei lavori. Non poteva certo dire che fosse tutto merito suo, perché i ragazzi del FIE le avevano dato una mano, ma l'organizzazione generale se l'era sobbarcata lei. E stava tutto andando a gonfie vele.
Aveva deciso che il corteo dovesse partire dal grande atrio che collegava Dublino con la sua parte magica, Dubh Cliathan. Era un luogo di passaggio, dove avrebbero avuto la maggiore visibilità. Inoltre, aveva accolto una delle pazze idee di Dedalus con lo stesso entusiasmo con cui lui l'aveva proposta: potevano scrivere le lettere della parola CONSTITUTION su dei teli e indossare ciascuno una lettera. Così avrebbero formato una catena umana.
A tal proposito, visto che loro erano solo in undici (i dieci ragazzi del FIE e Rosalie, che era stata costretta dalla gemella), a Mairead era venuto in mente di coinvolgere anche Rohiall, che ora se ne andava in giro tutto orgoglioso indossando la lettera T.
«Guarda, Mairead!» la chiamò proprio in quel momento. Alle sue spalle aveva una ressa di gente chiassosa e disorganizzata. «Ho chiamato la mia famiglia e un po' di Lucht Siuil!»
Mairead sorrise a quella marmaglia di persone. «Benissimo, Rohiall. Più siamo, maggiore è la visibilità.»
La ragazza si sentì come un generale che passa in rassegna le sue truppe. Congedatasi da Rohiall e dalla sua famiglia, riprese il giro per controllare che tutto procedesse per il verso giusto.
«Non voglio indossare la O» stava protestando Rosalie, quando Mairead le passò davanti. «Mi ingrassa.»
Lily, esasperata, le rifilò il lenzuolo con la lettera N. «Ficcati addosso questa, allora!»
Rosalie parve indignata. «Ma la N è l'ultima lettera. Non voglio essere l'ultima!» Si imbronciò, con il labbro inferiore spinto fuori e l'ombretto rosa che luccicava.
Mairead sorpassò le gemelle Sharpaty con un sorriso.
«Complimenti per il lavoro» la richiamò il signor Maleficium, avvicinandosi. Era accompagnato da sua moglie, Reammon e il professor Saiminius. Un gruppetto piuttosto bizzarro.
«Grazie, signor Maleficium.» Mairead cercò di mascherare un po' del suo imbarazzo. «Io e gli altri ci abbiamo messo un sacco di impegno.»
«Ci credo» intervenne Daire, con un sorriso. «È stata la prima volta in tredici anni che ho visto Laughlin e Bearach collaborare senza alcun litigio.»
«Siamo molto orgogliosi di voi ragazzi.» Reammon si offrì di parlare per tutti.
L'imbarazzo di Mairead aumentò (anche perché era raro sentir dire da suo padre cose serie), ma da qualche parte in fondo al cuore si sentì invasa dalla soddisfazione. Era bello che degli adulti apprezzassero il loro lavoro e capissero il motivo che li spingeva ad agire.
Stava per rispondere al complimento, quando Dominique le si fece incontro con la lettera C in mano. Lui indossava già la sua. «Mairead» la chiamò. «Faonteroy non è ancora arrivato.»
La ragazza si lasciò sfuggire un sospiro. «Scusatemi» fu il suo sbrigativo congedo, per affrettarsi a raggiungere i compagni.
«Quella piattola di tuo cugino è in ritardo» la accolse Laughlin, con una faccia da schiaffi tale da meritarsi come minimo uno Schiantesimo.
Mairead indossò di fretta la sua lettera O (da qualche parte dentro di lei si chiese davvero se sembrasse più grassa) e riservò a Laughlin la sua peggiore occhiataccia.
«Se vuoi posso chiedere a uno dei gemelli di mettere la C» propose Dominique, sempre pratico, accennando con il capo ai suoi due fratellini che avrebbero cominciato il Trinity quell'anno.
Mairead soppesò per un attimo la proposta, poi scosse la testa. «No, Faonteroy arriverà. Mi ha dato la sua parola.»
«E un O'Brian mantiene sempre la sua parola» intervenne proprio in quel momento la voce leggermente atona del ragazzino.
«Faonteroy!» Mairead sorrise e gli gettò le braccia al collo. «Visto?» provocò Laughlin, con una smorfia, liberando il cugino dalla stretta.
«Dovremmo stabilire una regola contro gli abbracci improvvisi» commentò piatto Faonteroy, lisciandosi le pieghe della giacca.
«Bando alle ciance, indossa questa.» Laughlin strappò il telo dalle mani di Dominique e lo gettò in braccio ad un allibito Faonteroy.
Il ragazzino aprì il tessuto e osservò la lettera che vi era disegnata. «È una C» commentò ovvio.
«Be', sai, c-o-n-s-t-i-t-u-t-i-o-n» sillabò Laughlin, indicando i ragazzi del FIE che indossavano i teli. Sorrise. Aveva proprio una faccia da schiaffi, quel giorno.
Faonteroy lo ignorò. «È la prima lettera.» E c'era da giurare che il suo tono fosse leggermente incrinato verso lo stupore.
Mairead gli riservò un sorriso sincero. «Certo, guiderai tu il corteo.»

Il corteo, passando per le strade di Dubh Cliathan attirò parecchia attenzione: molta gente, incuriosita dalla bizzarria della cosa, li seguì fino a Piazza del Controllo, la piazza centrale della parte magica di Dublino, dove sorgevano i due palazzi gemelli del Governo e del Parliamint.
Mairead sentiva la mano del cugino Faonteroy sempre più sudaticcia mano a mano che si avvicinava il momento in cui avrebbe dovuto parlare. Allora aveva una sfera emotiva anche lui! Sorrise, stringendogliela più forte. «Vedrai che andrai benissimo» gli sussurrò all'orecchio, con una strizzata d'occhio, quando erano ormai giunti davanti al palazzo del Parlamento.
Faonteroy liberò la mano dalla presa e tentò di non far notare che se la stava asciugando sul telo con scritta la lettera C. «Ovvio che andrò bene. Sono un O'Brian, no?»
Edmund nel frattempo aveva creato con la magia una specie di cubo, su cui fece salire Faonteroy affinché fosse visto da tutti mentre pronunciava il suo discorso.
Il ragazzino, teso e forse un po' spaesato, strinse e riaprì i pungi un paio di volte, poi cominciò: «Cittadini di Eriu.» La sua voce suonò terribilmente infantile e di scarsa potenza di fronte al chiacchiericcio distratto della folla ai piedi del palco improvvisato.
Mairead vide Edmund avvicinarsi e lanciare un incantesimo toccando il collo di Faonteory con la punta della bacchetta: il successivo appello del ragazzino risuonò magicamente in tutta la piazza.
«Cittadini di Eriu» ripeté Faonteroy per la terza volta. Ormai quasi tutti gli occhi erano puntati su di lui. Vedendo la sua esitazione, Mairead si chiese se avesse fatto bene ad affidare al cugino un compito così impegnativo: dopotutto aveva solo quattordici anni! Ma poi Faonteroy cominciò a parlare con voce sicura e dissipò ogni dubbio: «Cittadini, oggi siamo qui per ricordarci dei grandi valori che la nostra Costituzione ci insegna. Cosa dice il primo articolo?» La domanda studiata restò sospesa a mezz'aria, perché Faonteroy fece una pausa, come per permettere ad ognuno di ripensarci e rispondersi.
«Il primo articolo ci dice che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Uguali, senza distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali e soprattutto senza distinzione di origini. Dovunque siano nati, chiunque siano i loro genitori, nonni o antenati, tutti i cittadini irlandesi sono uguali.» Osservando le sue gote arrossate, si poteva capire come il discorso stesse cominciando ad animarlo.
«Ecco perché siamo qui oggi» continuò, con sempre maggiore convinzione. «Siamo qui perché la proposta di legge sul censimento dei Nati Inglesi è contro i valori della nostra Costituzione. Non solo: propone di trattare in gruppo di cittadini in modo diverso in base alla loro origine. Diremmo: è razzismo. Ma io dico qualcosa che nessuno può negare: è anticostituzionale!»
I ragazzi del FIE applaudirono entusiasti, ma Faonteroy non si fermò, ormai preso da un'estasi comunicativa senza pari. «I cittadini sono uguali davanti alla legge. Non può esistere alcuna proposta di legge che discrimini un gruppo di cittadini. Il Parliamint non può approvare nulla del genere!» Il ragazzino scaraventò un pugno in basso, come se lo stesse picchiando su un tavolo immaginario. «Irlandesi!» gridò e la sua voce rimbombò nella piazza. «La Costituzione ci ricorda che siamo tutti Irlandesi, tutti animati dallo stesso amore per la patria, indipendentemente dalle origini.» Lo sguardo di Faonteroy indugiò su Mairead e un'ombra di sorriso illuminò i suoi occhi di solito così austeri.
Finalmente si calmò: il suo tono divenne più tranquillo e smise di gesticolare. L'ultimo appello pareva quello di un genitore amorevole ai pargoli che imparano ad affrontare il mondo. «Non lasciate che la paura di un nemico straniero accechi le vostre menti e vi faccia dimenticare i grandi valori di cui siamo figli.»
Con un cenno d'inchino, Faonteroy scese dal piccolo palco. I ragazzi del FIE e i pochi simpatizzanti accompagnarono la sua uscita di scena con eccitazione, ma nel complesso l'applauso che seguì fu più educato che entusiasta.
C'era qualcosa che impediva alla gente di condividere davvero fino in fondo i valori messi in campo da Faonteory, ma Mairead non riusciva a capire di cosa si trattasse. Cosa poteva esserci di più importante dell'uguaglianza?
Quando anche l'applauso del FIE si spense, rimase una persona che continuava insistentemente a battere le mani. La folla si aprì a cerchio intorno all'uomo e comparve nel mezzo il presidente Adolphus McPride. Applaudiva e sorrideva, un sorriso da squalo.
«Grazie, io dico grazie a questo giovanotto!» esclamò e non ebbe bisogno di usare alcun incantesimo perché la sua voce raggiungesse tutti: pareva scaturire dal mare che rimbomba in una caverna nella scogliera. «Ha risvegliato le nostre coscienze intorpidite. Ci ha dato una scossa con la sua innocente freschezza.»
McPride fece qualche passo verso il cubo che Edmund aveva evocato, ma non vi salì, come per dare l'impressione di una chiacchierata col popolo più che non di un discorso istituzionale. «La Costituzione! Come potremmo dimenticarla?»
Si voltò sorridente verso Faonteroy. «Come dicevi?» gli chiese, fingendo di volerlo coinvolgere. Ma prima che il ragazzino potesse dire alcunché, il Presidente riprese: «La Costituzione ci insegna i grandi valori. Sono d'accordo: l'uguaglianza di ogni cittadino viene prima di tutto. Infatti il primo articolo dice che il Ministero deve impegnarsi ad eliminare le differenze con provvedimenti mirati.»
Fino a lì, il ragionamento filava: si trattava di ribadire concetti della Costituzione. Tuttavia Mairead aveva l'impressione che presto il discorso avrebbe preso tutt'altra piega. McPride doveva pur trovare il modo di giustificare l'operato del suo governo come qualcosa di legale.
Il Presidente si rivolse incoraggiante ai suoi cittadini. «Ed è quello che stiamo facendo. Tutte le leggi che proponiamo sono per il vostro interesse. Vogliamo proteggervi dalle minacce esterne. E soprattutto vogliamo proteggere coloro che sono più esposti al pericolo. Per eliminare le differenze. Registrare coloro che hanno origini inglesi è un tentativo di tutelarli, loro che sono esposti a un rischio maggiore, ora che Voi-sapete-chi è tornato. Per renderli uguali agli altri cittadini, proprio come ci insegna la Costituzione.»
Ecco come ribaltare il tutto. Ecco come far sembrare costituzionale una legge che non lo era per niente. Mairead strinse i pugni, indignata. Quell'uomo stava facendo leva sulla paura degli Irlandesi per convincerli che la sua politica xenofoba si fondava su principi validi. Ecco perché il discorso di Faonteroy non aveva avuto la stessa presa sulla gente: perché lui non aveva l'aria di uno che avrebbe potuto difendere la patria in caso di attacco da parte dei Mangiamorte.
Come per dar conferma ai pensieri di Mairead, McPride assunse un'espressione da padre protettivo e concluse: «Non dovete temere nulla: siamo qui per proteggervi. Io sono l'uomo di cui avete bisogno per la vostra sicurezza.»
Lo scroscio di applausi che seguì non aveva nulla a che vedere con quello educato e rispettoso che aveva accompagnato la discesa di Faonteroy dal palco improvvisato: ora il pubblico ruggiva la sua approvazione. Com'era possibile che ideali tanto sbagliati avessero una presa simile sulle coscienze dei cittadini?
Faonteroy aveva mostrato una capacità oratoria niente male per i suoi quattordici anni e era parso anche davvero appassionato, forse per la prima volta in vita sua. Inoltre aveva parlato di diritti fondamentali, di grandi valori. Eppure McPride aveva detto l'esatto contrario, facendola sembrare la cosa più giusta e naturale del mondo. Perfino Mairead si rendeva conto dell'incredibile ascendente che quell'uomo aveva sulla folla.
La ragazza, sconsolata, mise una mano sulla spalla del cugino con l'intenzione di confortarlo: il suo primo discorso pubblico era stato un disastro e non certo per colpa sua. Doveva averla presa molto male, lui che aveva tutta una sua scala di valori legati all'onore e alla rispettabilità.
«Sono particolarmente costernato» sibilò Faonteroy. E, per quanto quelle fossero esattamente le parole che ci si poteva aspettare da lui, il tono era in assoluto la cosa meno appropriata alla figurina del giovane nobile. E nemmeno lo sguardo: stava mandando scintille nella direzione del Presidente.
Stupidamente, Mairead si sentì orgogliosa del cugino. Ecco il vero O'Brian che c'era in lui. Ma proprio nel momento in cui lo realizzò, capì anche che era il caso di arginare la rabbia di Faonteroy, perché un O'Brian arrabbiato rischiava di provocare un uragano di disgrazie. «Ehi, cugino, lascia stare» gli consigliò, facendo un po' più di pressione sulla sua spalla.
«È giusto che un uomo onesto combatta le ingiustizie» replicò Faonteroy, recuperando il suo tono atono, ma senza perdere il furore nello sguardo. Poi, senza alcun preavviso, si liberò dalla presa di Mairead e avanzò a passo di marcia verso McPride. «Signor Presidente?» lo richiamò, con tutta l'educazione possibile.
L'uomo, che stava stringendo mani e sorridendo alla gente, si voltò verso Faonyeroy senza perdere il suo fascino lupesco.
«Signore, ciò che ha fatto è deplorevole.» Il tono di Faonteroy fu educato, le sue parole molto meno, ma non per questo scalfirono il sorriso di McPride. Il ragazzino, ancora più intestardito dalla mancata dimostrazione di rimorso del Presidente, continuò: «Lei ha manomesso il mio discorso, facendo apparire le sue parole una naturale conseguenza delle mie, quando non era per nulla mia intenzione approvare la proposta di legge sul Censimento dei Nati Inglesi. Tanto più che far passare quella legge come una protezione nei confronti di coloro che discrimina è la macchinazione più disonesta che abbia mai visto.»
Gli occhi blu di McPride si tinsero di una vena di scherno. «Questa è la politica, ragazzino» gli sussurrò, piegandosi in avanti, perché solo lui potesse udirlo. «Non metterti a giocare con i grandi, potresti farti male.»
McPride si raddrizzò: sembrava accattivante e fascinoso come sempre.
«Faonteroy.» Mairead raggiunse il cugino quando ormai il Presidente aveva deciso che non valesse più la pena sprecare il suo tempo per loro. «Mi dispiace.»
Faonteroy non smetteva di fissare la schiena di McPride. I suoi occhi verdi erano una tempesta di cime di abeti squassate dal vento. «Non sa che cos'ha scatenato» sibilò, la bocca ridotta ad una fessura.
Mairead guardò di sottecchi il cugino, indecisa se essere intimorita o ammirata. Lui non lo sa, ma io sì: ha scatenato un O'Brian.








Buongiorno a tutti!
Ben ritrovati ai vecchi e ben arrivati ai nuovi! Ebbene sì, comincia la sesta avventura dei ragazzi del Trinity, nonché il loro ultimo anno di scuola.
Che dire? Qui mi sono divertita un po' con l'adorabile cuginetto Faonteroy. Ricordo che Mairead aveva detto di lui "è un O'Brian, c'è una vena di follia in lui. Io devo solo aizzarla"; credo che ci stia riuscendo benissimo e prima o poi potrete gustare appieno la follia di Faonteroy (ho in mente una scena finale bellissima per lui!).
Quanto a McPride, non ci si poteva aspettare niente di meglio da lui! Che cattivo adorabile! Ha solo un unico difetto: sottovaluta troppo il nemico; per quanto piccolo come una formichina, il FIE rosicchierà alla base la stabilità del suo governo. Vedrete come!
Vi lascio qualche immagine, giusto per completezza (oltre alla copertina del racconto, disegnata da me!):
QUI Faonteroy a villa MacGaril, in tutto il suo splendore;
QUI villa MacGaril
QUI il caro Giustinianus (prima o poi troverò qualche prestavolto anche per Belisar, promesso!)
QUI l'albero genealogico dei MacGaril, se qualcuno non l'avesse ancora visto.

Con le vacanze natalizie di mezzo, sono un po' ingolfata. Il prossimo capitolo sarà fra un mese, domenica 5 gennaio; dopodiché prometto un aggiornamento in tempi più brevi. Vi auguro dunque un sereno Natale e un buon inizio d'anno.
Alla prossima,
Beatrix Bonnie

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Capitolo 2
*** Festa da sballo ***


CAPITOLO 2
Festa da sballo






Edmund si sistemò il mantello azzurro sulle spalle. Niente specchi in cui rimirare come gli stava il vestito che la signora Maleficium aveva confezionato per il suo diciassettesimo compleanno: non si trovava nella raffinata camera che McPride aveva preparato per lui. Il grigio stanzone dell'orfanotrofio aveva a malapena il mobilio sufficiente per ospitare i ragazzi.
Proprio in quel momento due bimbetti si gettarono dentro la camerata con una risata fragorosa, rimasuglio di qualche gioco serale. Si bloccarono all'improvviso quando notarono Edmund fermo davanti al suo letto, lasciando che il riso rimbombasse nella stanza, per poi svanire come un'eco lontana. Sussurrarono qualcosa e poi scapparono fuori.
Edmund si lasciò sfuggire un sorriso rassegnato. Erano finiti i tempi in cui veniva tiranneggiato da gente come Shannon e i suoi gregari per il fatto di essere quello strambo. Strambo lo era ancora, ma ormai era l'ospite più grande dell'orfanotrofio e, a dirla tutta, non erano in pochi ad aver paura di lui. Solitario e taciturno, era avvolto da un'aurea di mistero: tutti sapevano che frequentava un college prestigioso lontano da Dublino, ma nessuno ne aveva davvero la prova. E poi c'era la leggenda sul suo padre adottivo: i ragazzi che stavano lì da più tempo raccontavano ai nuovi arrivati che quel Burke s'era fatto adottare da un uomo ricco e poi l'aveva ucciso per poter ereditare tutto il suo patrimonio una volta diventato maggiorenne.
Una bella storia, niente da dire.
In fin dei conti, a Edmund non dispiaceva la fama che si era creata intorno a lui: era un modo come un altro per starsene in pace. Dopotutto, era abituato a trattamenti ben peggiori al Trinity. E quella leggenda che veniva sussurrata nei corridoi al suo passaggio, non era poi così lontana dalla verità: McPride, l'uomo che l'aveva adottato, non era certo un poveraccio e, stando al certificato di morte che ora si trovava nella cartella dei documenti importanti nell'ufficio della direttrice, era anche morto. In realtà, il documento non era altro che un paiper ban, un foglio bianco su cui i Babbani ci vedevano scritto quello che volevi far loro credere. Fingere che il padre adottivo fosse morto era l'unico modo per tornare in orfanotrofio, dal momento che per il mondo Babbano Edmund era ancora minorenne. O almeno lo sarebbe stato fino al prossimo gennaio, quando avrebbe compiuto diciotto anni. Per allora ci avrebbe pensato. Chissà, magari alla Kaiserlichen Akademie der Zauberei avevano delle borse di studio per studenti meritevoli.
In realtà, c'era ben poco da pensare al futuro, nella situazione in cui si trovavano. Voldemort e i suoi Mangiamorte che spargevano terrore, il Governo di McPride che ne approfittava per far approvare leggi razziste, gente che dava di matto per il panico. Il Corriere dell'altro giorno aveva riportato la storia di una vecchia strega che aveva dato fuoco allo spaventapasseri del vicino perché era convinta si trattasse di un Infero. Ma non tutte le notizie di cronaca erano così buffe: sparizioni, strani incidenti capitati a Nati Inglesi, baruffe nei pub tra sostenitori di una o dell'altra fazione. L'Irlanda intera stava cedendo al panico.
Basta, non voleva pensarci. Non quella sera.
Laughlin aveva organizzato la festa per il suo diciassettesimo. Una roba ganza, in un posto da sballo e niente genitori scocciatori, questa era stata la sua definizione. In realtà Edmund dubitava fortemente che il signor Maleficium permettesse al figlio di organizzare una qualsiasi cosa che prevedesse sballo e assenza di controllo genitoriale. Sorrise. Laughlin ingigantiva sempre le cose.
Controllando l'orologio d'oro che portava nel taschino (per quanto odiasse il suo padrino, quell'orologio era un gran bel esemplare e sarebbe stato stupido non usarlo per ripicca), si accorse di essere leggermente in ritardo, per cui si mise in tasca il regalo per il suo amico e si avviò verso l'uscita dell'orfanotrofio.
La direttrice, quando lo vide passare in cortile, nemmeno provò a fermarlo: a nessun ospite minorenne era concesso di allontanarsi da solo, tanto meno la sera, ma Edmund aveva da sempre goduto di privilegi speciali. Quando era un bimbetto e ancora non sapeva di essere un mago, le inservienti gli avevano fatto la tessera per la biblioteca comunale di Dublino e lui aveva il permesso di andarci quando voleva, anche da solo; era un modo come un altro per tenere alla larga quel ragazzetto inquietante. Ora, al suo passato non proprio brillante, s'era aggiunta la storia sul padre adottivo morto in circostanze misteriose. Chi mai avrebbe dovuto impedirgli di lasciare l'orfanotrofio come e quando voleva?
Io non sono il cattivo della storia, si disse Edmund, anche se la cosa gli faceva in un certo senso piacere. Con un sogghigno, si infilò le mani in tasca e si incamminò verso il metrombino di Dublino perché non amava materializzarsi quando poteva usare altri mezzi più comodi. Fece solo qualche passo immerso nel propri pensieri, quando notò una figura avvolta in un mantello e con un cappuccio calato sugli occhi che pareva puntarlo. La mano corse istintivamente alla bacchetta, ma non sembrava che l'osservatore avesse intenti minacciosi. Anzi, a giudicare dalla forma, doveva essere una donna.
Dopo qualche secondo passato a scrutarsi a vicenda, l'altra si portò le mani alla testa e abbassò il cappuccio. Morbide ciocche scure fluirono sul mantello, incorniciando un viso angelico e due occhi di zaffiro.
«Melita» sussurrò Edmund, incredulo.
Il sorriso della ragazza illuminò ancora di più i suoi tratti.
Edmund fu sul punto di stringerla in un abbraccio, ma pensò che non fosse il caso. Dopotutto, si erano salutati da amici, ma la prima accoglienza di Melita non era stata delle migliori «Come stai?» si limitò a chiedere.
«Ho riflettuto un po' in questi tempi.» La ragazza si strinse nelle spalle. «Non ho radici, non ho famiglia, non ho amici... mi sono detta che potevo anche venire a vivere in Irlanda.»
Edmund si illuminò. «Mi sembra un'ottima idea.» Non aveva mai immaginato di poter avere qualcuno accanto a sé che potesse definire la sua famiglia.
Melita distolse gli occhi da lui e li puntò verso la gente che passava per strada. «Sono tornata a Petra, per dare sepoltura a mio padre» annunciò in tono piatto.
«Ma, Melita, era pericoloso!» proruppe Edmund, scioccato.
L'altra non si fece smuovere. «Era mio padre, non potevo lasciarlo lì. E comunque non c'era nessuno di guardia.»
Edmund scosse la testa. «Ci saranno stati incantesimi...»
«...sensori segreti» completò Melita, per nulla scandalizzata. «Li ho disattivati. Una vita da fuggiasca, ho imparato qualche trucco» rivelò con noncuranza, nel tentativo di sdrammatizzare. «In realtà sono venuta per portarti questi» continuò dopo un attimo di pausa, mettendo in mano a Edmund un pacco di pergamene stropicciate e malconce.
«Cosa sono?» chiese il ragazzo, cercando di decifrare la grafia scomposta.
«Gli appunti di mio padre sulle sue ultime ricerche» rispose Melita. «Ha più senso che li abbia tu. In fin dei conti, sei riuscito a decifrare il codice degli Interventisti.»
«Grazie.» Edmund si concesse un mezzo sorriso nel ricordare come avesse faticato per decifrare il codice che regolava il meccanismo dell'orologio d'oro. Di colpo fu preso da un'illuminazione: si frugò in tasca e ne estrasse un cipollotto vecchio e graffiato. «Forse è meglio che questo lo tenga tu: è l'orologio dell'ultimo Gran Maestro» spiegò, lasciando scivolare il cimelio nelle mani di Melita.
La ragazza annuì commossa. «Grazie» sussurrò. Ma subito tornò seria e fissò l'altro negli occhi. «Edmund, i suoi Mangiamorte ti hanno visto. Non gli ci vorrà molto per capire che un...» si interruppe, rendendosi conto di non poter continuare.
«...un esperimento è sopravvissuto» concluse per lei Edmund, improvvisamente serio anche lui. «Lo so.»
«Lui verrà a cercarti» decretò Melita senza mezzi termini. «Hai mantenuto un profilo basso?»
Edmund pensò alla sua vita nel mondo dei maghi: a tredici anni aveva ricevuto un Encomio della Repubblica, a quindici era diventato il più giovane campione del Trinity e poi aveva vinto il Torneo Trecolonie. Infine era stato adottato dal Presidente McPride e ora era un attivista del FIE contro il Governo. Annuì. «Sì, un profilo basso.»
Melita sorrise. «Ottimo. Questo servirà a tenerti per un po' lontano dai guai. Quando avrai finito la scuola, penseremo al modo per nasconderci.»
Edmund si rigirò in mano gli appunti di McFarren, a disagio come un bimbetto scoperto a rubare la marmellata. «E tu intanto come farai?» domandò, nel tentativo di sviare l'attenzione da sé.
Melita si strinse nelle spalle, senza troppa preoccupazione. «Me la caverò. Ho una certa esperienza nell'essere sfuggente.» Si concesse un sorrisetto. «Le case di Babbani in vacanza sono le mie preferite: lasciano sempre una marea di cibo in dispensa.»
«Ci rivedremo?» si lasciò sfuggire Edmund, con una certa apprensione.
La ragazza fece passare due dita sulla guancia dell'altro, come una delicata carezza. «Non ti preoccupare, troveremo il modo di rimanere in contatto.»
Edmund posò lo sguardo sull'orologio di McFarren, che Melita teneva ancora in mano. Sorrise. «Quella potrebbe essere un'idea.»
Anche Melita abbassò gli occhi e annuì. «Una bella idea» ammise compiaciuta. «Per il momento, ti troverò io.»
«A presto.» Edmund si lasciò guidare dall'istinto e strinse la sorella in un abbraccio.
Melita, soffocata nel mantello di lui, non riuscì a impedire che una lacrima, insieme di commozione e di libertà, le inumidisse la guancia. Quando si sciolse dall'abbraccio, tuttavia, era sfacciata come al solito. «Ehi, non vado via mica per dei mesi!» scherzò. «Ci vediamo presto.»
Edmund annuì. «Certo.» Osservò Melita calarsi il cappuccio sugli occhi e infilarsi in un vicolo per smaterializzarsi. Infine, nascondo gli appunti nella tasca allargata con la magia, si incamminò verso il metrombino.

Il pub era affollato e caldo. Ovviamente Laughlin aveva scelto quello più rinomato per la sua festa dei diciassette anni, per cui il baccano che accolse Edmund all'ingresso fu come un'intera banda stonata. Difronte all'ingresso correva un lungo bancone di legno, dietro il quale erano esposte più bottiglie di liquore di quante Edmund potesse contarne.
«Fatti una Burroguinnes con noi, giovanotto!» lo accolse un mago panciuto, alandosi dal tavolino più vicino all'ingresso.
Edmund alzò le mani con i palmi rivolti verso di lui, come se quel gesto bastasse a frenare l'entusiasmo dell'uomo. «No, grazie, io sono qui...» Ma non riuscì a finire la frase.
«Ecco il solito ritardatario! Proprio come una star!» esclamò quello che era l'inconfondibile timbro di Bearach, da qualche parte sopra la sua testa.
Edmund alzò gli occhi e notò solo allora che sopra l'ingresso, dalla parte opposta del bancone, c'era un soppalco in legno, dalla cui ringhiera sbordava tutto il busto di Bearach. Edmund alzò il dito verso l'amico. «Ecco, io sono qui per loro.» E si affrettò a svignarsela.
In cima alle scale si ritrovò Laughlin, radioso in un completo rosso fiammante. Prima ancora che potesse salutare o dire alcunché, Laughlin gli si accostò all'orecchio e sussurrò: «La cameriera è già mia, prima che tu ci faccia un pensierino.» Poi gli fece l'occhiolino.
Edmund si voltò solo in quel momento per lanciare un'occhiata alla ragazza dietro il bancone: in effetti era graziosa, con quella massa di ricci rossi e le lentiggini sul viso. Ma subito il suo sguardo fu rapito da Mairead, seduta al tavolo al fianco di Moira, carina nel suo abito verde semplice ma originale. Si strinse nelle spalle. «La cameriera è tutta tua.» Con un mezzo sorriso, infilò una mano in tasca ed estrasse il suo regalo per Laughlin. «Buon compleanno, Laugh!»
L'altro osservò con occhio critico la semplice busta bianca, ma quando tirò fuori due biglietti per l'opera rimase a bocca aperta.
«Questi... questi sono due posti per la prima alla Scala!» esclamò sconcertato. «Sono impossibili da trovare... come hai fatto ad averli?»
Edmund sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi. «I “Maghi Amici dell'Opera” di New York hanno deciso di prenotare trenta palchi per la prima di quest'anno. Mi è bastato un gufo con la carta intestata di McPride, con scritto che il presidente d'Irlanda ci teneva tanto ad avere un palco...»
«Sei uno schifoso approfittatore!» Laughlin gli diede uno spintone amichevole.
«Se vuoi possiamo andarci io e paparino» replicò Edmund, per nulla intimorito.
Laughlin si affrettò a mettere i biglietti al sicuro in tasca. «No, no, io e papà apprezzeremmo sicuramente di più.» Sfoderò il suo migliore sorriso strafottente e permise all'amico di raggiungere gli altri.
Il soppalco era stato riservato tutto per loro: attorno a due tavolini tondi erano radunati i dieci ragazzi del FIE, insieme ad un'altra ragazzina bionda che Edmund riconobbe come Eileen MacLuan, la cuginetta di Laughlin e Bearach. «Buonasera a tutti» salutò, prendendo posto al fianco di Dominique. Gli rispose un coro più o meno aggraziato di saluti generici.
«Siete mosci!» si lagnò Laughlin, sedendosi a cavalcioni di una sedia girata al contrario. «C'era più vita durante il corteo a Dubh Cliathan!»
«Per forza» intervenne Mairead. «Il discorso di Faonteroy ha riscaldato i nostri animi!»
«Con tutte quelle esclamazioni sulla cittadinanza» aggiunse Lily, che per l'occasione sfoggiava un trucco con tanto di paillettes sull'ombretto.
Dominique ridacchiò. «Stiamo tanto qui a parlare di cittadinanza, ma io sono cittadino inglese.» La rivelazione lasciò tutti a bocca aperta, tranne Edmund, che già lo sospettava.
«Cosa?» Laughlin sembrava il più scioccato di tutti.
Dominique scosse le spalle. «Sono dell'Ulster e per quanto sia cattolico, frequenti il Trinity e mi senta Irlandese, ho la cittadinanza inglese.»
Bearach scostò appena la sedia da Dominique. «Sono seduto a fianco di un inglese? Bleah!» scherzò, fingendo un'espressione di disgusto.
Ma Lily lo prese sul serio e gli tirò un colpo ben assestato alla nuca. «Che cretino!»
«E quindi saresti dovuto andare a studiare a Hogwarts?» chiese Moira che, a discapito di tutte le antipatie verso gli inglesi, era molto interessata alla scuola di magia rivale.
«Be', la lettera di Hogwarts mi è arrivata, ma i miei genitori hanno scritto al preside che sarei andato al Trinity» spiegò Dominique. «Dopotutto, ci sono andati anche loro».
«E tu, Henry, come mai non sei andato a Hogwarts, se i tuoi genitori sono entrambi inglesi?» chiese Lily, visto che ormai erano sull'argomento.
Henry non si aspettava di essere chiamato in causa. «Mah, in realtà mia mamma ha frequentato il Trinity» borbottò, come se dovesse giustificarsi.
«Davvero?» chiese Mairead, incuriosita dalla faccenda.
«Sì, perché i suoi genitori sono Babbani e si trasferirono in Irlanda quando lei era piccola; per cui, a dodici anni, le arrivò la lettera dal Trinity» spiegò Henry, leggermente a disagio perché non era abituato ad avere gli occhi di tutti puntati su di sé. «Fu durante le vacanze estive che tornò in Inghilterra e conobbe mio padre, che invece aveva frequentato Hogwarts. Poi sono venuti qui ad abitare e io allora ho cominciato il Tinity.»
«Sì, come i miei» aggiunse Mairead. «Anche mia mamma è andata a Hogwarts, mentre mio padre ha studiato qui.»
«Ah, sì? Tua mamma ha frequentato Hogwarts?» intervenne nuovamente Moira. Si diceva che il castello che ospitava la scuola fosse pieno di meraviglie: le sarebbe piaciuto poterlo vedere.
Mairead annuì. «Sì, era una Grifondoro. Poi quando ha sposato il babbo è venuta ad abitare qui, ma...» si interruppe: per quanti anni fossero ormai passati, il ricordo di sua madre uccisa dall'EIF faceva ancora troppo male.
«Ehi, c'è la musica! Perché non andiamo a ballare?» Laughlin fu abile nel cambiare discorso e togliere quel velo di tristezza dal volto dell'amica. Lei lo ringraziò con un cenno del capo.
«Vengo io, cugino!» trillò Eileen, alzandosi con grazia dal tavolo. Solo allora Edmund si concesse di darle un'occhiata: era cresciuta parecchio dall'ultima volta che l'aveva incontrata a Dubh Cliathan, alla scorsa Vigilia di Natale. Indossava un abitino da ballo irlandese, dai colori ghiacciati, e aveva stampato in faccia quel sorriso furbo che di solito caratterizzava i suoi cugini: pareva proprio un folletto dei boschi.
Lei e Laughlin scesero dal soppalco per recarsi a ballare in pista, dove già altre coppie avevano cominciato i passi di una danza irlandese. «Tua cugina è una MacLuan, vero?» domandò Faonteroy a Bearach, con finto disinteresse.
«Sì» rispose il ragazzino, scrutando l'altro con occhio preoccupato.
«È graziosa» commentò Faonteroy, senza staccare gli occhi di dosso a Eileen che volteggiava in pista.
Mairead scoppiò a ridere. «Vai ad invitarla a ballare, allora!»
Ci vollero le tre canzoni successive per convincere Faonteroy a scendere dal soppalco e invitare Eileen ad un ballo insieme. Ma dopo il primo ne seguirono molti altri e i due non si staccarono per il resto della serata: lei sembrava molto lusingata dal suo corteggiamento da nobiluomo e si divertiva a fare la preziosa e a punzecchiarlo in ogni modo proprio per le sue maniere da piccolo lord. Lui, dal canto suo, non demordette: aveva sopportato Mairead per due anni, ormai era un esperto in fatto di pazienza.
La serata proseguì serena, tra chiacchiere, balli e pinte di Burroguinness. A mezzanotte precisa, Laughlin annunciò che la sua festa era finita, offrì un giro da bere a tutto il pub (manie di protagonismo, pensò Edmund) e convinse gli amici a raggiungere Boyle dove, a casa di Mairead, li stavano aspettando i signori Maleficium e Reammon per riaccompagnarli a casa.
Nel trambusto degli auguri di compleanno cantati a squarciagola da tutto il pub che seguì, i ragazzi salutarono e uscirono, per dirigersi verso il metrombino che il avrebbe portati a Boyle.
«Dov'è finito Faonteroy?» domandò ad un certo punto Mairead, voltandosi alla ricerca del cugino.
Edmund ebbe una brutta sensazione, ma evitò di far preoccupare inutilmente l'amica. «Torno indietro a cercarlo» propose. «Andate pure avanti.»
Mairead acconsentì con un cenno del capo e lui allora si infilò le mani in tasca e tornò sui suoi passi, fino alla facciata del pub. Effettivamente Faonteroy era fermo là e, proprio come Edmund aveva temuto, qualcuno aveva pensato bene di trattenerlo. Qualcuno molto poco amichevole.
«Tu sei di quei ragazzi là» stava dicendo un tizio, con la parlata incerta di chi ha scolato troppo whisky incendiario irlandese. «Di quelli contro il governo.»
«Abbiamo visto la tua foto sul giornale» si intromise il secondo, anche questo decisamente ubriaco.
«Non ci piacciono i diss... i dissitre... i dissi...» farfugliò il terzo.
«Dissidenti» suggerì Faonteroy, con un certo disprezzo.
Edmund non era sicuro di poter definire l'atteggiamento di Faonteroy coraggioso: più che altro, sembrava sottovalutare la situazione, troppo concentrato com'era a dispregiare i suoi tre aggressori. Stupida nobiltà, si ritrovò a pensare, alzando gli occhi al cielo. Si avvicinò al terzetto di ubriachi, tenendo sempre le mani in tasca. «A me non piacciono gli idioti, quindi dovremmo essere pari» li richiamò, con voce annoiata.
Per quanto decisamente alticci, i tre riuscirono a riconoscere un insulto e si voltarono verso di lui. «Ce l'hai con noi?» chiese quello più grosso.
Edmund si strinse nelle spalle, con atteggiamento disinteressato.
«Io so chi sei!» esclamò d'un tratto quello a destra, magrino e nervoso. «Il figlio rinnegato del Presidente!»
Edmund scoppiò a ridere nel sentire quella definizione. «Figlio rinnegato? Questa è proprio bella» concesse, mentre la mano destra afferrava la bacchetta dentro la tasca.
«Non ci fai paura, finocchietto» ringhiò il tizio grosso, agitando in modo goffo la bacchetta davanti al suo naso.
«Potrei battervi ad occhi chiusi anche se foste tutti e tre sobri e nel pieno delle vostre forze» replicò tranquillo. «Figuriamoci in queste condizioni.»
Anche Faonteroy, ancora alle spalle dei suoi aggressori, estrasse la bacchetta e si preparò a combattere.
«Allora fatti sotto!» gridò quello magro, lanciando uno Schiantesimo così maldestro che a Edmund bastò scansarsi un poco di lato. «Bel tiro» lo sbeffeggiò con un sorriso da schiaffi che faceva invidia a quelli di Laughlin. «Non è di me che dovete preoccuparvi, comunque.»
«E di chi?» chiese il terzo. Nel tempo in cui i tizi si voltarono indietro, immaginando di trovare nient'altro che il biondino che avevano preso di mira, alle spalle di Edmund comparve l'intero FIE a bacchette spiegate.
«Di loro.» Il sogghigno di Edmund aumentò di qualche molare al vedere le facce esterrefatte dei tre ubriachi, quando tornarono a voltarsi verso di lui e videro otto persone puntare le bacchette contro di loro.
«Scusate» trillò Eileen, l'unica senza arma, uscendo dallo schieramento. Con il suo sorriso da folletto, superò i tizi e raggiunse Faonteroy. «Vieni?» lo invitò, allungando una mano verso di lui. Faonteroy la afferrò, titubante e riconoscente insieme, e si lasciò guidare dalla ragazzina verso gli altri del FIE.
Edmund riconobbe un certo stupore nel suo sguardo, ma anche gratitudine: erano venuti a salvarlo. Perché erano i suoi amici.








Buongiorno a tutti!
Eccomi qui con il nuovo capitolo. Lo so, è un capitolo di passaggio, ma avevo bisogno di introdurre la scena in cui Melita consegna gli appunti del padre a Edmund. Così ne ho approfittato per dire due cose sui personaggi "Nati Inglesi" (soprattutto dovevo giustificare il fatto che Henry, con entrambi i genitori inglesi, frequentasse il Trinity) e ovviamente per inserire la festa di Laughlin. Non me lo avrebbe mai perdonato se non l'avessi messa! ;)
Comunque, godetevi un po' di immagini:
QUI una foto di un pub irlandese, giusto per respirare un po' l'aria giusta;
QUI il vestito verde di Mairead che fa sciogliere Edmund;
QUI un articolo sulla prima alla scala del 1996 (anno della maggiore età dei nostri personaggi), con relativa notazione ai trenta palchi vuoti. Ma noi sappiamo che non erano vuoti, bensì occupati da maghi, tra cui anche Lauglhin e suo padre. ;)
QUI la foto di Eileen McLuan, già comparsa nella festa dei 15 anni di Laughlin e nel capitolo "La scoperta dei giochi" della scorsa storia; quest'anno arriverà al Trinity anche lei! E indovinate chi si prenderà una bella cotta... ;)
QUI l'immagine del capitolo, ovvero Eileen e Faonteroy che ballano.

Bene, carissimi, ci vediamo con il prossimo capitolo domenica 26 gennaio (in linea di massima credo che aggiornerò ogni tre settimane).
Alla prossima,
B.B.

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Capitolo 3
*** Vergognosi compromessi ***


CAPITOLO 3
Vergognosi compromessi






Il mantello di seta frusciò leggero sulle sue spalle, quando una brezza di vento lo investì, non appena si fu materializzato. Non era il modo di viaggiare che preferiva: di solito prendeva la carrozza trainata dai suoi due cavalli alati, Blood e Purezza. Ma questa volta aveva bisogno di passare inosservato, per cui aveva scelto un metodo più discreto.
Io devo piegarmi a venire da lui. Inaudito.
Si fece forza: per quanto non gli piacesse essere a stretto contatto con quell'uomo, non poteva fare altrimenti.
Quanto è caduta in basso la nobiltà.
Bussò al portone, sentendosi come uno straccione che mendicava alla porta di un gran signore. Ma, forse, quello avrebbe avuto più dignità.
È necessario, è necessario. Sto solo facendo il mio dovere.
Un'elfa dall'aria nervosa venne ad aprire la porta e lo accolse con tutti gli onori. Gli prese il mantello, si sprofondò in una serie infinita di inchini e borbottò qualche scusa a mezza voce.
Ormai sono riverito soltanto dagli elfi domestici.
Seguì la creaturina verso lo studio del padrone di casa, cercando di ricordare a se stesso il motivo per cui si era abbassato a tanto. Pensò che, probabilmente, entrambi i suoi genitori l'avrebbero disprezzato: sua madre perché non condivideva il metodo con cui stava portando avanti i suoi ideali, il padre perché mai e poi mai avrebbe accettato che un nobile come lui si piegasse a tali bassezze. Suo padre era sempre stato un uomo tutto d'un pezzo, inflessibile anche quando era armato solo dei suoi ideali contro tutta la società. Ma lui aveva avuto la fortuna di nascere in un'epoca in cui la nobiltà valeva ancora qualcosa, in cui il nome aveva ancora un certo peso. Mentre ora nessuno aveva più rispetto per nulla, ognuno credeva di avere il diritto di pensarla come voleva, di avere la sua opinione su tutto, senza più obbediente deferenza verso la tradizione di cui era figlio. L'orgogliosa prigione dorata in cui si sarebbe rinchiuso suo padre, avrebbe di fatto spazzato via tutti quei principi che avrebbe invece dovuto difendere. Al contrario, quei vergognosi compromessi che lui era costretto a fare non dipendevano dalla sua volontà, ma dal fatto che doveva pur far sopravvivere ciò in cui credeva. E quella si era dimostrata l'unica via.
«Il padrone vi aspetta nel suo studio.» Le parole della piccola elfa domestica lo strapparono dalle sue considerazioni.
Meccorin Deamundi, undicesimo Conte di Con Cetchthach, si ritrovò a bussare alla porta dello studio di uno degli uomini che più disprezzava al mondo e solo allora realizzò di essere caduto davvero in basso.

«Avanti» replicò annoiato McPride. Riordinò un paio di documenti ufficiali del Governo e li ripose sotto chiave nel cassetto di desta della scrivania.
Deamundi entrò nello studio con la stessa faccia di uno che è appena scivolato a faccia in giù su una bella cacca di troll. Il mento sempre un po' sollevato, l'espressione disgustata e quell'eterna aria di superiorità.
Certe cose non cambiano mai, si disse McPride, con un mezzo sorriso. «Prego, accomodati» lo accolse, alzandosi in piedi e facendo segno di prendere posto di fronte a lui. A giudicare dal suo sguardo, l'altro avrebbe preferito sedersi sul groppone di un Dulladhan, ma dopo qualche secondo di ripugnanza fu costretto a cedere.
«Scusa se ti ho fatto venire fin qui, ma ho un sacco di lavoro arretrato» si giustificò, usando il suo tono più amabile e innocente. In realtà, quella frase sottintendeva molte cose ed era certo che anche Deamundi le avesse colte; prima di tutto, sottolineava la sottile differenza tra loro due: lui si era fatto da sé, con il proprio duro lavoro, l'altro aveva ricevuto titolo, fama e ricchezze su un piatto d'argento, come gentile eredità del padre. In secondo luogo, l'averlo costretto a venire da lui, indicava chi dei due reggesse davvero le fila del gioco.
Io.
Deamundi non rispose nulla, ostinato nel suo sdegnoso mutismo, così McPride continuò: «Allora, di cosa volevi parlare?» Gli dava del tu e lo trattava come fossero vecchi amici. Sapeva quando questo infastidisse l'altro e forse proprio per quel motivo si divertiva tanto. Dopotutto, avevano solo un anno di differenza e al Trinity avevano avuto più che qualche sporadico contatto. Anzi, McPride si ricordò di quella volta in cui, al penultimo anno, Deamundi aveva tentato di dissuaderlo dal rubare la relazione della loro compagna di casa Elan O'Connel; furto che lui aveva progettato in modo da assicurarsi che fosse il suo articolo ad ottenere la pubblicazione sulla rivista Incantesimi Inantati e non quello della O'Connel.
Il loro alterco, a suo parere, era restato memorabile. Ancora ci ripensava, ogni tanto, e sorrideva soddisfatto.

Trinity College, febbraio del 1958

«Ti stai cacciando in grossi guai, McPride» lo avvertì Deamundi, fissandolo dritto negli occhi.
Adolphus si lasciò sfuggire un sorrisetto. «I miei guai sono solo affari miei» gli rispose, facendo intendere che la conversazione poteva chiudersi lì. Ma non aveva fatto i conti con una circostanza molto semplice: stava parlando a Messer Pomposo Deamundi, prossimo conte di Con Cetchthach.
«I tuoi guai sono affari della casa, se rischiano di farci perdere punti» gli rispose infatti l'altro ragazzo e nel dirlo spinse in fuori il petto, come per far meglio vedere la sua coccarda da dictator, la carica studentesca più prestigiosa.
Adolphus gli lanciò uno sguardo di sufficienza. «Detto tra noi, mi interessano poco i punti della casa, quando c'è in ballo una pubblicazione su Incantesimi Incantati» replicò con un annoiato sbadiglio.
Gli occhi di Deamundi si ridussero a due fessure, come se volesse incenerirlo con un solo sguardo. «Non capisci, vero? L'onore della propria casa viene prima di tutto» recitò a denti stretti. «Prima di qualsiasi cosa e a qualsiasi costo.»
Adolphus sbuffò scocciato. «Tienili per te i tuoi pomposi ideali da nobilotto. Gloria e onore mi interessano solo quando posso averli io» gli rivelò.
«Non osare!» scandì Deamundi, improvvisamente più alto e minaccioso. «Non osare mai più darmi del nobilotto, razza di sudicio plebeo! Io sono Meccorin Con Cetchthach Deamundi di Sir Eriu Temair, prossimo undicesimo Conte di Con Cetchthach...»
«Sì, sì, sì» lo interruppe Adolphus, annoiato. «Lascia che ti riveli una cosa, Prossimo Undicesimo Conte: la tua merda puzza quanto la mia» gli confidò con un ghigno; poi approfittò dello scandalizzato mutismo dell'altro per continuare: «E quando tu sarai rinchiuso nel tuo palazzo dorato a difendere i tuoi titoli vuoti, io sarò sopra di te, perché sarò arrivato al vertice del potere con le mie forze, e ti cagherò in testa talmente tanto da fartici affogare dentro.»
E poi se ne andò, lasciandosi alle spalle un impietrito Deamundi, parecchio scandalizzato e di certo meno pomposo.


Il Deamundi di oggi, invece, era fin troppo pomposo e schizzinoso per i gusti di Adolphus McPride.
«Ho portato il nominativo per sostituire Donna O'Marsy.» Il suo tono di voce voleva suonare neutro, ma trasudava superiorità.
«Hai scelto saggiamente, spero» lo stuzzicò McPride, senza tuttavia togliere la maschera di affabilità e cortesia.
Deamundi lo fissò per qualche secondo, come se volesse sfidarlo a mettere in discussione la sua autorità. «Daireen Cumhacht» annunciò.
La Cumhacht? Quella testa calda? McPride sapeva poco di quella donna, ma gli erano bastate le rare occasioni in cui aveva avuto a che fare con l'EIF per inquadrare quella squilibrata. No, non sembrava per niente una buona idea. «Perché proprio lei?» si sentì in dovere di chiedere.
Deamundi sembrò soppesare l'idea di non dare spiegazioni del suo operato a insulsi plebei, ma alla fine si costrinse a rispondere: «Suo fratello insegna Trasfigurazione al Trinity: sarà un valido appoggio per lei, quando dovrà sostituire Captatio.»
Tutti uguali, questi nobili. Convinti che i legami familiari fossero più forti di qualsiasi cosa. Fosse stato per lui, avrebbe fatto una scelta più oculata, ma era certo di non poter far cambiare idea all'altezzoso Conte. Inoltre, nutriva il dubbio che la decisione avesse anche altre motivazioni oltre a quella che gli era stata fornita.
«Molto bene» concesse infine. «Le cose stanno andando per il meglio.»
«Per il meglio?» gli fece eco Deamundi, quasi inorridito.
McPride si concesse un sorriso falsamente bonario. «A volte sei così cieco, Meccorin.»
L'altro contrasse i pugni, ma in realtà si limitò a una di quelle sue occhiate che avrebbero fatto tremare il cuore del più impavido degli uomini.
Non il mio, però, si disse McPride ridendo tra sé e sé per quegli assurdi atteggiamenti da nobile consumato dalla tragicità del mondo. Unì la punta delle mani e fissò Deamundi dritto negli occhi. «Il ritorno di Colui-che-non-deve-essere-nominato è per noi una benedizione, perché nulla unisce un popolo più della minaccia di nemico straniero» gli spiegò paziente, con aria di uno che ha a che fare con un bimbetto. «E quando la paura di essere invasi diventa più forte della ragione stessa, si tende ad accogliere di buon grado anche leggi che a mente lucida verrebbero taccate di razzismo. Non ci avevi pensato, vero?»
«A te non è mai importata la difesa dell'Irlanda dagli inglesi!» lo accusò il Conte, che stranamente ritrovava la voce solo quando aveva da difendere i suoi stupidi ideali della razza pura celta.
«Non è la mia priorità» concesse McPride, solo per il gusto di far infuriare Deamundi, più che per reale presa di posizione. Al momento, appoggiava tale linea non solo perché effettivamente la riteneva la migliore, ma anche perché era quella che gli avrebbe permesso di restare sulla vetta.
«Non resterai per sempre in posizione di potere» lo ammonì Deamundi, con freddo scherno, come se volesse ricordare che lui, invece, sarebbe restato Conte di Con Cetchthach fino alla fine dei suoi giorni.
«Una volta ti dissi che gloria e onore mi interessano solo quando posso averli io e non ho cambiato opinione.» Il sorriso di McPride non poteva essere più ricco di fascino e inquietante insieme. «Vedi, mi sono parecchio affezionato al mio posto di Presidente dell'Irlanda Magica.»
Deamundi pareva incredibilmente soddisfatto per qualcosa. «Il tuo mandato scade fra un anno e mezzo» gli annunciò. «E dopo il secondo mandato non sei più rieleggibile.»
«Allora sei sordo, oltre che cieco» lo schernì McPride che, nonostante l'evidenza dei fatti pronunciati dall'altro, sembrava avere ancora un asso nella manica. «Nulla unisce più che un nemico straniero e la paura fa sì che la gente cerchi una figura carismatica in cui credere.» Si alzò dalla sedia e aprì le braccia, una grottesca e inquietante versione di un papa amorevole che parla alle folle di fedeli. Sorrise e il quadro fu perfetto. «Io sono l'uomo di cui hai bisogno per la tua sicurezza.»

***

Laughlin osservò costernato la roba che aveva preparato: con tutti quei bagagli, sembrava un venditore ambulante, o un one-man-band. Aveva il baule, la sua arpa celtica dentro la custodia rigida e il nuovo violino che aveva comprato a giugno, quando aveva cominciato a suonare; doveva mantenersi allenato, se voleva sperare di padroneggiare lo strumento entro un paio di anni.
In realtà, buona parte della sua costernazione derivava dal fatto che il giorno dopo sarebbe partito per il suo ultimo anno al Trinity, più che non dall'enorme quantità di bagagli che era costretto a portarsi dietro. Che poi, a voler ben guardare, non era neanche così enorme.
Qualcuno bussò alla sua porta e dal tocco delicato riconobbe che era sua madre.
«Avanti» borbottò con uno sbadiglio.
La testa di Daire fece capolino nella stanza. «Pronti i bagagli?» domandò con un sorriso.
Laughlin si strinse nelle spalle e rispose con una specie di grugnito: era inutile fingere, perché tanto sua madre aveva un radar eccezionale per captare le bugie. Doveva esserselo fatto impiantare in qualche zona del cervello quando era restata incinta.
«Che succede, Laughlin?» sondò infatti, entrando in camera sua.
Il ragazzo si lasciò cadere sul letto con fare sconsolato. «È l'ultimo anno» annunciò, senza che si capisse davvero il subbuglio di emozioni che tale affermazione doveva provocargli. Sua madre si sedette sul letto a fianco a lui e attese che decidesse di parlare. Faceva sempre così: non lo obbligava mai, né lo costringeva con le parole, ma attendeva che lui fosse pronto a svuotare il sacco. Quante volte, da bambino, aveva ceduto a quel silenzio insieme amorevole e deciso e aveva confessato le sue marachelle.
Sbuffò. Tanto non c'era niente da fare contro Daire. «Voglio dire...» cominciò, mettendosi a gesticolare per enfatizzare le sue parole. «Al Trinity mi trovo bene, è come una seconda casa e ci sono i miei amici. Poi quest'anno facciamo solo le materie avanzate che abbiamo scelto noi, quindi non ho neanche il problema di dover studiare cose che non mi piacciono.» E questa era la parte nostalgica, di chi non ha per niente voglia di finire la scuola.
Eppure c'era ancora qualcosa che lo turbava. Daire sorrise, per incoraggiarlo a continuare.
«È che, allo stesso tempo, sono stufo di starmene chiuso tra le mura del castello, ho voglia di vedere cosa ci aspetta dopo, là fuori. Di entrare nel mondo del lavoro, nel mondo degli adulti» confessò alla fine.
Sua madre annuì comprensiva, posandogli una mano sulla spalla. «Laughlin, goditi quest'ultimo anno, perché poi, per affrontare il mondo là fuori, hai tutta la vita» gli consigliò. Come ogni ragazzo, anche il suo piccolino aveva voglia di crescere e spiccare il volo, ma era giusto che imparasse a pazientare e a gustarsi la sua adolescenza, prima di venir scaraventato nella società adulta, con tutti i suoi problemi e le sue difficoltà.
«Ehi, Laugh, vieni fuori ad allenarti con me?» esclamò proprio in quel momento Bearach, spalancando la porta della camera del fratello con la scopa da corsa in mano. «Voglio provare ad entrare in squadra come Cercatore, quest'anno!»
Laughlin fece una smorfia. «Sto parlando con la mamma di cose serie.»
«Quanto sei noioso» borbottò il ragazzino, facendogli il verso con le espressioni della faccia. «La maturità non ti dona» gli confessò, appoggiando il piede sulla scopa e sollevandosi di un poco da terra.
«Bearach, non voglio che si voli in casa» puntualizzò Daire, in tono fermo.
Il ragazzino ridiscese a terra con un sonoro sbuffo.
«Dai ascolto a tua madre» intervenne il signor Maleficium, che stava passando per il corridoio proprio in quel momento. In realtà, il suo soccorso si rivelò superfluo, perché era piuttosto difficile tentare di disobbedire a Daire Maleficium.
«Finite le lezioni, caro?» domandò la donna con un sorriso.
«Sì, per oggi sì.» Tenere una scuola di musica si stava rivelando più impegnativo del previsto, dal momento che era praticamente l'unica di tutta l'Irlanda magica. Ma Eoin ne traeva delle immense soddisfazioni. Anche se, ad essere sinceri, il suo allievo preferito era Laughlin, perché vedeva riflesso negli occhi di suo figlio il suo stesso amore per la musica. «Ti porti dietro anche il violino, Laughlin?» gli chiese infatti, notando la custodia vicino al baule.
«Be', se voglio migliorare devo esercitarmi» rispose con semplicità, cercando di nascondere il fastidio causato da quella intrusione in massa nella sua camera.
Eoin sorrise. «Bravo, così avrò qualcuno a cui lasciare in eredità la mia scuola e tutti i miei strumenti» ci scherzò su.
«A me no di certo!» puntualizzò Bearach, sghignazzando. «Sono un disastro in musica!»
Eoin finse un'aria drammaticamente seria. «Infatti, a volte, mi chiedo come tu possa essere mio figlio.»
«Papà!» protestò il ragazzino, simulando una smorfia offesa. «E comunque neanche a Laughlin interessa la tua scuola: lui vuole fare carriera al Ministero» aggiunse, con un'occhiata di biasimo nei confronti del fratello maggiore.
Laughlin ricambiò con uno sguardo di superiorità. «Che male c'è in un po' di sana ambizione?» domandò, ma mentre lo stava dicendo, già non era più del tutto sicuro che quella potesse essere davvero la sua strada.
Fu assalito da una strana ansia. In fin dei conti, non aveva realmente fretta di entrare in un mondo in cui tutto era traballante e insicuro. Aveva voglia di crescere, certo, ma in che ambiente? Paura, razzismo, morte. Questo era ciò che il mondo degli adulti avrebbe potuto offrirgli, ora come ora.
Mi godrò quest'ultimo anno, si ripromise. Poi affronterò ciò che ci attende là fuori.









Eccomi!
In extremis, ma ce l'ho fatta ad aggiornare.
In questo capitolo potete gustare appieno i miei due adorabili cattivoni, Deamundi e McPride, solo per voi, insieme nella stessa scena! ahahah! Io li adoro, perché sono tutti e due cattivi ma a modo loro e sono troppo affascinanti da descrivere. Visto che poi sono praticamente agli antipodi, metterli assieme è un vero spasso. Infatti, il ricordo del Trinity, appartiene ad una raccolta one-shot che avevo programmato di scrivere, dedicata a personaggi minori di ognuna delle tre case. Al momento il progetto è arenato causa troppi impegni, ma questo pezzo era troppo divertente per restare nella memoria del pc!
Così avete anche un po' pregustato i piani malefici di McPride. Credete che cederà la seggiolina di presidente tanto facilmente? ;)
Infine, ho voluto dare un po' di giustizia anche a Laughlin che, va bene che è un buffone, ma ha anche lui i suoi momenti seri. Le sue ansie da ultimo anno sono più che giustificate, in fondo: credo che le abbiamo avute tutti alla fine di un ciclo scolastico (liceo, università?), ma in più lui ha la scusa di Voi-sapete-chi. E non è una scusa da poco!
Comunque, vi lascio con un paio di immagini:
QUI l'immagine del capitolo, ovvero il caro conte Meccorin Deamundi.
QUI, invece, la copertina che avevo fatto per quel famoso racconto da cui è tratta la scena McPride-Deamundi. Guardateli, non hanno l'espressione perfetta per il loro ruolo? ^^

Ci rivediamo per il prossimo capitolo domenica 16 febbraio. E avrete una sorpresa bella grossa! ;)
A presto,
Beatrix

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Capitolo 4
*** Un salto indietro nel tempo I - Il gioco degli scacchi ***


CAPITOLO 4
Un salto indietro nel tempo I
Il gioco degli scacchi






L'uomo fissava accigliato i passanti, attraverso la finestra del locale, senza davvero prestare attenzione a quello che guardava. Non gli piaceva la piega che stavano prendendo gli eventi. Si stinse nel mantello, come per un brivido involontario di freddo, poi riprese a sorseggiare il suo calice di vino. I baffi che si era allungato con la magia per camuffarsi meglio gli solleticarono il labbro, ma lui cercò di ignorare il prurito. Si era anche scurito la carnagione e tinto di biondo i capelli, fatti crescere fin ben oltre le spalle, in modo da non essere riconoscibile, almeno a prima vista. Aveva scelto il pub più frequentato di Dubh Cliathan, il Dodach Capaillin*, di modo che la sua presenza potesse passare inosservata.
Un uomo sulla quarantina entrò nel locale: dalla porta aperta entrò un mulinello di neve che volteggiò nell'aria e poi si depositò a terra. Il nuovo arrivato si levò il cappuccio e si scosse via la neve dal mantello, poi si guardò intorno per cercare chi lo stava aspettando. Nonostante si fosse camuffato, riuscì a riconoscere il suo ospite nell'uomo seduto al fianco della finestra. «Una pinta di Burroguinness» ordinò alla cameriera di passaggio, mentre raggiungeva il tavolo.
«Ossequi» lo salutò l'altro, con un cenno del capo.
«Signor Conte» rispose, prendendo posto di fronte a lui. «Servo vostro.»
L'uomo camuffato con la magia fece un rapido gesto con la mano. «Non sono necessari i titoli, qui.» Attese che la cameriera che aveva portato la Buroguinness se ne andasse. «Allora, quali notizie mi porti?»
«Non del tutto buone, temo» rispose l'altro, ripulendosi i baffi dalla schiuma della birra. «Ho seguito la pista del mio informatore, che mi ha portato fino in Italia, ad un certo Oderisi da Gubbio.»
«E chi è costui?»
«Un tizio che dipinge, famoso. Fa quei disegnini sui libri e stemmi da nobili» spiegò, tra un sorso di birra e l'altro.
Un miniatore. L'uomo annuì comprensivo: Mekaster era un bravo informatore, ma non molto colto; anzi, forse non aveva nemmeno finito il Trinity. Sorseggiò il suo calice di vino con aria pensierosa. «E che interesse aveva la nostra... - tentennò - amica nei confronti di questo Italiano?»
Mekaster si frugò nella tasca del mantello e ne estrasse un foglietto di pergamena malconcio. Lo strisciò sul tavolo fino a metterlo sotto il naso dell'altro e poi sollevò la mano. L'uomo tentò di rimanere impassibile, ma non riuscì a evitare di trattenere il fiato quando vide lo sgualcito disegno a carboncino di uno stemma nobiliare: una torre su uno scudo e sotto il motto in latino.
«È quello che si è fatta disegnare» spiegò Mekaster, come se ce ne fosse bisogno.
L'uomo annuì, sempre più serio. Tirò fuori dalla tasca un sacchetto in cuoio contenente un po' di monete e lo depositò sul tavolo. «Paga tu il conto, io devo andare alla latrina» borbottò al compagno, lasciandogli intendere che il resto dei soldi era il suo pagamento. Poi si avviò verso il cortile interno.
«Ehi!» gli gridò dietro l'oste, quando lo vide passare. «Vedi di non vomitarci dentro, che l'ho già pulito abbastanza questa settimana, il cesso.»
L'uomo fece un cenno con la mano e si avviò verso la latrina, riflettendo su quanto Mekaster gli aveva riferito. E così le donna che aveva fatto seguire si stava facendo preparare uno stemma nobiliare. Evidentemente aveva in programma di convincere il Uasal Comhairle Uachtarach della purezza della sua schiatta per farla rientrare in quelle considerate nobili. E, a giudicare dal motto, era anche chiaro chi avesse intenzione di spodestare. Ma come avrebbe potuto riuscirci? Le famiglie della schiatta di Tir Eoghain erano due, per cui eliminarne una non avrebbe portato a nulla. Doveva andare fino in fondo a quella storia per capire cosa stesse succedendo.
Devo avvertire Hugh.
Quando raggiunse la latrina, c'era un tale puzzo che sembrava ci fosse morto dentro qualcuno. Dubitava fortemente che l'oste pulisse quel posto da almeno un anno. Cercando di trattenere i moti di disgusto, si svuotò la vescica. Dopodiché decise che il suo camuffamento non aveva più ragione d'essere, quindi estrasse la bacchetta e usò la Trasfigurazione umana per riappropriarsi dei suoi tratti fisici: i baffi tornarono di una lunghezza ragionevole, i capelli si accorciarono fino alle spalle e si tinsero di nero, la carnagione tornò chiara.
Eseguita l'operazione, l'uomo infilò nuovamente la bacchetta in tasca e approfittò della porticina di servizio che dal cortile interno dava su un vicolo laterale, in modo da non dover riattraversare la taverna.
Dubh Cliathan erano piuttosto affollato, per essere una fredda mattina di inizio marzo, tanto più che era in corso una nevicata fuori stagione. I fiocchi di neve danzavano nel cielo, leggeri e delicati, in contrasto con l'umore cupo dell'uomo che attraversava a passo svelto le strade di quello che i Babbani chiamavano il “getto dei maghi”. Ovviamente nessun Babbano aveva mai messo piede a Dubh Cliathan, ma nelle bettole del vecchio porto di Dublino si mormoravano strane cose a proposito di un quartiere nascosto dove adoratori del diavolo organizzavano orridi sabba al chiaro di luna. Qualche nobilotto Babbano aveva anche alzato la tesa, proponendo di chiamare la Santa Inquisizione, ma il papa Paolo V era intervenuto a bloccare sul nascere la cosa. Molto probabilmente c'era lo zampino del Patriarca Magico Benedictus III, irlandese di nascita, che doveva aver fatto pressione sul pontefice perché impedisse di chiamare l'Inquisizione.
Mi hanno parlato bene di Benedictus III, si ritrovò a pensare l'uomo. Forse potremmo ricorrere al suo aiuto, se le cose dovessero mettersi male per me e Hugh.
Ma prima doveva capire cosa stesse succedendo.
«Conte Rory O'Donnell.» Una voce femminile lo strappò dai suoi pensieri.
Una voce che conosceva benissimo.
«Serva vostra.» La donna accennò un breve inchino con il capo.
Il Conte O'Donnell rimpianse di non aver mantenuto il travestimento almeno fino alla casa di Hugh, ma ormai era troppo tardi. Chinò di poco la testa. «Servo vostro, signorina O'Brian.»
La giovane donna ridacchiò deliziata, ma sotto quell'apparente frivolezza si nascondeva un freddo animo calcolatore. «Non resterò signorina ancora per molto» gli confidò con un sorriso tanto affascinante quanto terribile.
Rory O'Donnell si costrinse a sorridere. Aveva sempre trovato particolarmente difficile mostrarsi gentile con le persone che lo disgustavano, ma il suo ruolo di Conte della schiatta di Tir Chonail glielo imponeva. La sua famiglia tramandava quel titolo di generazione in generazione da ben tre secoli, da quando cioè i Deamundi di Con Cetchthach avevano riportato in vita l'antico sistema tribale; lui non poteva certo disonorarlo solo per il gusto di insultare quella serpe di Elizabeth O'Brian.
«E chi è il fortunato?» domandò con un interesse tanto finto quanto caloroso.
La O'Brian si sistemò il cappuccio bordato di pelo del mantello, senza togliersi dalle labbra quel suo sorriso furbesco. «Oh, avanti, il signor Conte non sarà mica interessato ai pettegolezzi?» lo provocò divertita.
L'uomo decise di giocare al suo stesso gioco. «Girano già pettegolezzi sul vostro conto, signorina O'Brian» replicò, con la stessa finta affabilità.
Elizabeth sgranò gli occhi, simulando autentica sorpresa. «Di che genere, di grazia?»
Rory era un uomo tutto d'un pezzo e si stancava subito di quelle sciocche allusioni e dei giochetti di potere che invece sembravano tanto divertire l'altra. «Il conte Deamundi è fuori dalla vostra portata» decretò. Meccorin Demundi era rimasto vedovo da poco, ma era anche il conte della più importante schiatta della nobiltà irlandese: non si sarebbe certamente sporcato le mani con una plebea come la O'Brian; per quanto potesse essersi arricchita la sua famiglia, lei era e restava una donna del popolo.
Elizabeth non si fece minimamente impressionare. «La mia schiatta è pura tanto quanto la vostra, conte O'Donnell.» Abbandonò la maschera da raffinata ingannatrice, per mostrare con una risposta tanto schietta quanto sfrontata che non aveva alcuna paura ad affrontare il conte. «Il Comhairle dovrà prenderne atto.»
«Peccato che le schiatte nobili possano essere solo otto» la stroncò Rory, tentando di porre fine a quell'assurda conversazione.
La donna fece un passo avanti verso di lui e gli piantò i faccia i suoi perforanti occhi verdi. «Lasciate che vi riveli una cosa, Rory O'Donnell.» L'omissione del titolo non fu una svista casuale ma un chiaro avvertimento. «Il gioco degli scacchi è imprevedibile: a volte, può capitare che una torre faccia scacco matto al re.»
Rory sentì come se il terreno si aprisse in una voragine sotto i suoi piedi. Lo stemma della famiglia O'Donnell era una corona dorata in campo nero, mentre lo schizzo che Mekaster gli aveva mostrato poco fa rappresentava una torre. E poi c'era il motto...
Mioddio, voleva eliminarli entrambi. Stava macchinando qualcosa per fare fuori lui e Hugh.
Che sapesse qualcosa? No, era impossibile: il segreto era ben custodito. Ma non potevano rischiare di metterlo a repentaglio.
Rory indietreggiò di un passo, sbiancato.
Elizabeth sorrise nel vedere il disorientamento dell'altro: aveva colpito nel segno. Sfoderò di nuovo il suo sorriso furbo e affabile e accennò ad un inchino. «Salutatemi vostra moglie e fatele i migliori auguri. Ho saputo che è in stato interessante» si congedò civettuola. «Speriamo sia femmina.»
Anche quello che poteva essere un banale saluto, era in realtà una dimostrazione di potere. Come faceva a sapere che sua moglie aspettava un bambino, se la donna era da poco entrata nel terzo mese e nessuno aveva ancora sparso la notizia? Chi erano i suoi informatori e perché era sempre un passo avanti agli altri?
«Marcirete all'inferno» le sputò addosso Rory, disgustato e anche spaventato da quella strega.
Elizabeth sorrise, ma questa volta non c'era nulla di aggraziato nel suo viso deformato da una smorfia di malizia. «Sarò in buona compagnia.» E con quelle parole si voltò e se ne andò, lasciando il conte a rimuginare nel dubbio e nella preoccupazione.
Il conte O'Donnell rimase pietrificato per qualche minuto: la situazione era ben peggiore di quanto avesse immaginato. Doveva assolutamente svelare i piani della O'Brian per fermarla prima che potesse metterli in atto. Forse lei non se ne rendeva conto, ma c'era in gioco molto più che una manciata di titoli nobiliari: c'era in gioco la sopravvivenza stessa dei maghi.
Era arrivata l'ora di correre ad avvertire Hugh.
Rory si affrettò verso il grande atrio di ingresso di Dubh Cliathan, dove era stata riservata un'area apposta per la materializzazione. Con i Babbani che si ingegnavano per accusare di stregoneria chicchessia, il governo britannico aveva imposto delle leggi più severe riguardo al trasporto magico e, in generale, sull'uso della magia. Si parlava addirittura di una legge che regolamentasse gli incantesimi a livello internazionale.
A Rory non interessavano tutte quelle questioni, francamente. Il suo obiettivo principale, al momento, era quello di raggiungere Hugh al più presto. Roteò su se stesso e si materializzò davanti ad castellotto incorniciato dalle colline irlandesi imbiancate dalla neve. Quando bussò al portone, venne ad aprire un anziano elfo domestico, che si sprofondò in mille inchini per ricevere un ospite tanto illustre; lo fece accomodare nell'ampia sala circolare della torre centrale, cuore dell'abitazione, e ravvivò il fuoco per permettere all'uomo di riscaldarsi. «Jolly va subito a chiamare la Padrona, signor Conte.» Il vecchio elfo borbottò qualche scusa sul suo ritardo, mentre barcollava verso le stanze interne del castello. Rory, nel frattempo, si levò il mantello intriso di goccioline di neve e lo pose ad asciugare davanti al camino.
«Rory caro, che piacere vedervi.» La moglie di Hugh era una piacevole signora in carne, con i fianchi larghi e i capelli ormai ingrigiti. Aveva dato alla luce due belli e sani figlioli maschi, di cui andava tanto orgogliosa, ma non era mai riuscita a superare la morte in culla dell'ultimogenita: per quanto le sue guance fossero sempre rosee e i modi gentili, gli occhi restavano spesso spenti.
«Servo vostro, signora Rosmary.» Rory chinò leggermente il capo. «Hugh è in casa?»
«È a caccia con Matthew, ma dovrebbero rientrare presto» rispose la donna. «Intanto posso offrirvi qualcosa di caldo?»
«No, grazie» declinò gentilmente Rory, visto che aveva lo stomaco chiuso per l'apprensione. Per fortuna non dovette attendere più di qualche minuto, prima che il portone del castello si aprisse e un abbaiare di cani da caccia riempisse le sale.
«Madre, madre!» chiamò la voce di un giovane uomo. «Abbiamo catturato un Graphorn!» Un bel ragazzo si catapultò nella sala circolare. Aveva il fondo del mantello e il volto sporco di fango, i capelli arruffati e con fiocchi di neve incastrati tra i ricci, come piccole gemme luminose. «Ma poi l'abbiamo lasciato andare perché...» si interruppe, quando notò la presenza di Rory. «Conte O'Donnell, al suo servizio» recitò un po' impacciato, cercando di mascherare con un inchino il suo aspetto poco presentabile.
«I miei ossequi, Matthew.» Rory gli sorrise benevolo. «Complimenti per la preda.»
Proprio in quel momento il conte Hugh O'Neill fece la sua comparsa in salotto. Era un uomo di una certa età, ma pareva un giovanotto nello sguardo e nell'energia dei suoi gesti. La sua florida barba grigia era perfetta come sempre, nonostante la battuta di caccia. «Rory» lo salutò bonario.
«Devo parlarti di cose serie, Hugh.» Il tono dell'uomo fece capire quanto fosse urgente la questione.
«Siate gentili, lasciateci soli» ordinò Hugh ai suoi familiari.
Solo quando Matthew si fu chiuso la porta alle spalle, Rory osò mettere la mano in tasca ed estrarre lo sgualcito foglietto di pergamena. Lo mostrò all'amico. «Mekaster mi ha riferito che è lo stemma che la O'Brian si è fatta disegnare da un miniatore italiano» spiegò.
Hugh lo fissò allibito. «Perché la O'Brian dovrebbe farsi fare uno stemma nobiliare?»
«Vuole convincere il Comhairle che la sua schiatta può rientrare nella nobiltà.» Rory si passò una mano sulla faccia, cercando di calmarsi. Hugh scosse la testa, cercando di essere ragionevole. «Ma le schiatte sono già otto» protestò, anche se immaginava benissimo dove andasse a parare quel discorso.
«Leggi il motto» fu l'unica cosa che ebbe la forza di dire l'altro.
«Etiam pereunt ruinae.»
Anche le rovine crollano.
Il conte O'Neill rabbrividì. Il motto della sua famiglia - che in irlandese suonava così: amhain fothrach mairfidh siad - significava: resteranno soltanto rovine. Il messaggio era più che esplicito.
«Non... non può farlo...» balbettò, lasciandosi cadere su una poltrona.
Rory si sedette di fronte a lui, mortalmente serio. Scosse la testa e entrambi restarono in silenzio per una manciata di secondi. «Sta cercando di farsi posto, Hugh» commentò infine il conte O'Donnell. «Vuole eliminare una schiatta.»
«Non può. Non può farlo» si intestardì l'uomo, poggiando i gomiti sui braccioli della poltrona e incominciando ad accarezzarsi la barba, cosa che faceva sempre quand'era nervoso.
«In teoria no, ma è evidente che ha trovato il modo.» Rory accennò con la testa al foglietto di pergamena. «Il motto parla chiaro.»
«È assurdo!» sbottò Hugh. «Voglio dire, anche se dovesse far fuori la me, io ho due eredi maschi, Matthew e Conn. E se anche riuscisse a sbarazzarsi di tutta la famiglia O'Neill, il titolo di Conte di Tir Eoghain passerebbe agli Howt. Lo sai, è così che funziona.»
Nella schiatta di Tir Eoghain, di cui Hugh era il Conte, erano sopravvissute due famiglie: quella degli O'Neill e quella degli Howt. Nel caso in cui la prima si fosse estinta nella linea maschile, il titolo sarebbe passato alla seconda, il cui capostipite aveva attualmente tre eredi. Se la O'Brian avesse voluto che la sua schiatta sostituisse quella di Hugh, avrebbe dovuto eliminare almeno sette maghi. Assurdo.
«Infatti» concordò Rory, scuotendo la tesa. «Sarebbe più logico tentare di eliminare me. Mia moglie è incinta, ma al momento io non ho eredi. E la mia è l'unica famiglia della schiatta di Tir Chonail, quindi fuori me, fuori la schiatta» ragionò ad alta voce. Sospirò, poi aggiunse: «E temo che abbia in programma anche questo.»
«Come fai a dirlo?»
«Oggi l'ho incontrata a Dubh Cliathan e mi ha detto che anche una torre può fare scacco matto al re» spiegò Rory, fissando l'altro dritto negli occhi.
«Una torre?» gli fece eco Hugh, senza capire.
Rory accennò nuovamente alla pergamena. «Guarda il suo stemma.»
Il conte O'Neill osservò lo scudo che rappresentava una torre e immediatamente capì il riferimento. «Il tuo stemma è una corona d'oro in campo nero» ricordò ad alta voce, per quanto non ce ne fosse bisogno.
«Già.» Rory distolse lo sguardo e prese a fissare le fiamme nel caminetto, meditabondo.
Hugh rimase a sua volta in silenzio per qualche minuto, ma alla fine non poté astenersi dal chiedere: «Pensi... pensi che sospetti qualcosa?»
«Non lo so.» Rory scosse la testa. «Il segreto è ben custodito: non saprei come avrebbe potuto venirne a conoscenza. Ma è persino venuta a sapere che mia moglie è incinta, quindi non escludo più nulla.»
«Quella donna è una vipera!» esclamò di getto Hugh. Era sempre stato un uomo onesto con se stesso e sincero con gli altri: vedeva nella lealtà la più grande virtù che si potesse perseguire e per questo, al Trinity, era stato un Llapac; era orgoglioso di essere appartenuto alla casa più prestigiosa della scuola. Proprio non riusciva a sopportare i piccoli, sudici arrivisti che finivano nei Nagard, come quella serpe della O'Brian.
«Per quanto la O'Brian sia scaltra, non può fare tutto da sola.» Rory espresse la sua idea ad alta voce con tono fermo e sicuro.
O'Neill gli riservò uno sguardo preoccupato. «Chi dovrebbe appoggiarla?»
«Il conte Deamundi» rispose O'Donnell senza mezzi termini.
«Meccorin Demundi?» gli fece eco l'altro. «Perché dovrebbe volerci eliminare?»
Rory si alzò dalla poltrona e prese a passeggiare davanti al caminetto, pensieroso. «Le nostre schiatte sono antiche e prestigiose tanto quanto la sua e questo limita la sua influenza» spiegò infine. «Inoltre Mekaster mi ha riferito che la O'Brian sta puntando a sposare Deamundi, quindi è probabile che i due collaborino.»
Hugh si prese la testa tra le mani. «Se la O'Brian è appoggiata dal conte Deamundi, non abbiamo scampo. Qualsiasi piano abbiano ordito quei due, siamo finiti.»
Rory si portò di fronte all'amico più anziano e lo fissò dritto in quei suoi occhi grigi che gli avevano sempre ispirato tanto rispetto. «Hugh, dobbiamo proteggere il segreto prima di ogni altra cosa» mormorò, con una serietà disarmante. «Hai idea di cosa succederebbe se lo venissero a sapere?»
«Non voglio pensarci.» Hugh scosse la testa, come per scacciare quell'orribile ipotesi dalla mente. «Elizabeth O'Brian e il conte Deamundi che hanno tra le mani... no, dobbiamo assolutamente impedirlo» decretò con sicurezza.
«Lo so.» Rory annuì, voltandosi verso la finestra per osservare la neve che vorticava nel cielo. «Ora sguinzaglierò Mekaster per cercare di andare in fondo a questa storia, ma nel frattempo noi dobbiamo tenerci pronti ad ogni evenienza.»
Hugh si girò a sua volta, come se nei fiocchi di neve che imbiancavano le colline fosse scritto il loro destino. «Lo scenario peggiore che ci si può prospettare?» chiese infine.
Rory sospirò. «La fuga.»




* In omaggio a Tolkien, il nome irlandese del pub significa Puledro Impennato. =)





Buongiorno a tutti!
No, non avete sbagliato storia e io non ho pubblicato per errore il capitolo di un altro racconto...
Semplicemente, ho deciso che ci saranno alcuni capitoli in flashback dedicati ai conti Rory O'Donnell e Hugh O'Neill (come potete immaginare sono i conti in fuga del titolo!). In origine volevo inserire questi flashback tramite un diaro scoperto da Edmund o qualcosa di simile, ma mi sono resa conto che la storia che volevo raccontare era troppo dettagliata e lunga per essere proposta in questo modo, per cui ho deciso di dedicarle 3/4 capitoli che prenderanno il nome di "Un salto indietro nel tempo". Spero che l'idea possa piacervi!
Dopo questa nota indroduttiva, che dire...? Vi piacciono Rory e Hugh? Vi ha spiazzato venire a scoprire che la capostipite della tanto rispettabile famiglia O'Brian è in realtà una serpe, arrivista e approfittatrice? ahahahah! Dovreste vedere come la esalta Faonteroy! Che volete farci, la storia cambia in base alla fazione per la quale si tiene.
Comunque, chi indovina il secolo in cui è ambientata la vicenda? Dai, ho lasciato un sacco di indizi da cui si può ricavare una datazione precisa al ventennio. ;) Vi dirò anche che Rory e Hugh sono personaggi storici realmente esistiti, protagonisti, appunto dell'episodio denominato "La fuga dei Conti". Vi consiglio vivamente di NON cercare informazioni su di loro, altrimenti vi rovinate tutta la sorpresa del racconto! =)
Dai, basta ciarlare! Vi lascio con un paio di immagini:
QUI un ritratto di Hugh O'Neill, personaggio storico realmente esistito.
QUI, invece, l'immagine della storia, ovvero la mia personalissima visione di Rory O'Donnell (anch'egli personaggio storico) e Elizabeth O'Brian (inventata da me, come si può capire).

Carissimi, ci si rivede domenica 9 marzo!
A presto,
Beatrix

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Capitolo 5
*** L'ultimo viaggio ***


CAPITOLO 5
L'ultimo viaggio






Edmund ripose l'ultimo abito e chiuse il baule. Aveva finito. L'ultima volta in cui avrebbe preparato quel baule per andare al Trinity. Faceva uno strano effetto.
Alzò gli occhi sullo stanzone grigio e spoglio dell'orfanotrofio, quel posto che per tanti anni aveva rappresentato la sua unica casa. Poi c'era stato il Trinity, e villa McPride. Ma ogni cosa era cominciata da lì, quel giorno di fine agosto in cui il preside Captatio era venuto a dirgli che era un mago, che aveva un posto riservato nella sua scuola.
«Quando tornerai dal college sarai maggiorenne.» La voce della signorina Quin lo fece trasalire. La sua assistente sociale era quel tipo di donna acida che ti immagini lavorare in posta o in biblioteca, amante delle regole e dell'ordine. Eppure c'era una sfumatura strana nella sua voce. Sembrava quasi... dispiaciuta. Possibile?
Edmund si alzò da terra e si voltò verso di lei. «Già, maggiorenne.» Per il mondo magico lo era già, ma a gennaio del prossimo anno avrebbe compiuto i diciotto, per cui lo sarebbe diventato anche per i Babbani.
«Non potrai tornare qui, ovviamente.» La signorina Quin aveva sempre la sua stessa faccia da carlino, con il naso arricciato e le rughe intorno agli occhi, eppure c'era davvero qualcosa di diverso nella sua voce.
«Ovviamente» asserì Edmund. Strano, ma quasi gli dispiaceva. In fondo, s'era affezionato a quel luogo.
La signorina Quin estrasse dal suo faldone una serie di carte che gli mise sotto il naso. «Ho compilato tutti i documenti affinché tu possa venir accolto in una casa-famiglia, dove ti troveranno un lavoro e potrai restare finché non sarai indipendente dal punto di vista economico.»
Edmund prese in mano i fogli e fece finta di dargli un'occhiata, solo per compiacerla un po'. Tanto, non ci avrebbe mai messo piede in quelle case-famiglia. Non era ancora sicuro di cosa avrebbe fatto dopo la D.I.M.I.S.S.I.O., ma trovarsi uno stupido lavoro Babbano non rientrava nei suoi piani. «Non si preoccupi, me la caverò» le garantì, restituendole i documenti. Si avviò verso la porta trascinando il suo baule, quando la signorina Quin lo richiamò.
«Edmund.» Aveva una faccia mortalmente seria. «Ho fallito con te.»
Il mezzo sorriso che comparve sul labbro sottile del ragazzo fu spontaneo. «Non è colpa sua» tentò di rincuorarla. Non aveva mai provato sentimenti di affetto nei confronti della sua rigida assistente sociale, ma solo ora si rendeva conto di quanto l'avesse messa a dura prova, con le sue continue opposizioni a qualsiasi affidamento anche temporaneo. «Sono stato un ragazzino difficile.»
«Di tutti gli orfani che ho seguito, tu sei l'unico che non ha trovato una famiglia.» La signorina Quin aveva la mascella irrigidita: non era una donna abituata al fallimento. Non si poteva dire che facesse il suo lavoro con passione, ma era certo che avesse sempre fatto tutto ciò che era possibile per i suoi ragazzi.
Edmund guardò dritto negli occhi piccoli e acquosi della signorina Quin. Ripensò alle innumerevoli volte in cui era stato dato in affido a famiglie Babbane, che l'avevano riscaricato in orfanotrofio, manco fosse un pacchetto postale, dopo meno di una settimana, per via dei suoi trucchetti magici demoniaci. Ripensò anche a quella farsa che era stata l'adozione di McPride, che l'aveva preso in casa con sé solo per portarlo dalla sua parte. Il cognome del Presidente della Repubblica Magica d'Irlanda gli pesava ancora addosso, ma presto si sarebbe rivolto a qualche ufficio del Ministero per farselo cambiare. Era vero, non aveva trovato una vera famiglia, in quasi diciotto anni di orfanotrofio. Ma al Trinity aveva trovato una casa, degli amici e qualcosa per cui valesse la pena di combattere. E con Melita aveva scoperto di aver quasi una sorella.
«Non si preoccupi» la rincuorò infine, sfoderando il suo miglior sorriso affascinante. Dovette funzionare, perché la signorina Quin parve rilassarsi.
Edmund riprese a trascinare il baule in direzione della porta. Si voltò appena prima di scomparire oltre l'uscio. «Sto tornando a casa.»

Il viaggio verso la stazione di Dublino fu strano. Continuava a ripetersi che sarebbe stato l'ultimo, ma non sapeva dire se questo fatto gli mettesse più angoscia o eccitazione. Mentre attraversava la banchina per raggiungere il treno che li avrebbe portati al Trinity, guardava i ragazzini più piccoli e sorrideva a quelli del primo anno, riconoscibili dalla divisa ancora grigia. Si ricordò di quando c'era stato lui nei loro panni, serio ma agitato per la nuova avventura. Ora, invece, era il grande della situazione. Alcune ragazzine del secondo anno lo scrutarono con i loro occhietti a spillo, per poi arrossire e voltarsi a vociferare con le amiche quando lui passò loro davanti. Non ci avrebbe mai fatto l'abitudine ad essere il centro dell'attenzione.
Salì sul treno trascinandosi dietro il baule e poté constatare con una certa perplessità che gli altri studenti si appiattivano contro gli sportelli per farlo passare nel corridoio. Dopodiché si ricordò una svariata serie di svariati motivi cui si poteva imputare quello stano comportamento: era all'ultimo anno, era famoso come figlio rinnegato del Presidente, era un attivista sovversivo del FIE, era stato il più giovane campione del Trinity... aveva giurato a Melita di aver tenuto un profilo basso in quegli anni, ma se Voldemort avesse voluto cercarlo, gli sarebbe bastato chiedere ad un qualsiasi studente irlandese. Mugugnò. Bella mossa, campione!
Fu quasi con sollievo che riconobbe una ragazza seduta sola in uno degli scompartimenti. Indossava già la sua divisa verde smeraldo e guardava distrattamente gli adulti fermi sulla banchina a salutare i figli.
«Mairead! Sei già qui» esclamò Edmund, sollevato di ritrovare l'amica.
«Sì, stamattina ho buttato papà giù dal letto due ore prima.»
Mairead aveva lo sguardo perso, i capelli spettinati e le occhiaie per la levataccia mattutina, ma a Edmund non era mai parsa così bella. Era fresca come una primula selvatica spuntata nei prati di marzo. Era viva e vera.
Mairead sbadigliò. «Non volevo arrivare in ritardo al mio ultimo viaggio in treno per il Trinity» spiegò a giustificazione dell'anticipo.
Edmund caricò il baule e si lasciò cadere sul sedile. «Già.»
Proprio in quel momento, Laughlin spalancò la porta dello scompartimento e, con il suo solito fare, si preparò ad un'entrata spettacolare. Aprì la bocca, fece per dire qualcosa, ma poi si interruppe. «Non ce l'ho una battuta d'effetto, quest'anno» confessò affranto. «Sono depresso perché è il nostro ultimo anno.» Entrò e si lasciò cadere al fianco di Mairead.
«La vogliamo piantare con questa storia?» borbottò Edmund. «Mi mettete angoscia.»
«Hai ragione.» Mairead si alzò per mettersi a frugare nella borsa che aveva lasciato nella rete portabagagli. «Ho una notizia allegra, invece» esclamò appuntandosi al petto una spilla verde con una grossa “C” gialla. «Sono diventata Capitano della squadra di Quidditch!»
«Complimenti!» si congratulò Edmund. Immaginava che per l'amica fosse una bella soddisfazione, visto che era Punta fin dal primo anno, ma la squadra era sempre stata capitanata dai fratelli Connery.
Mairead si osservò la spilla per un attimo. «È una bella responsabilità» commentò poi, rivolta agli amici, anche se sapeva che di Quidditch capivano ben poco. «È da due anni che vinciamo la coppa e non voglio essere io a perderla... però devo trovare due validi sostituti per Gordon e Beatrix» spiegò loro le sue ansie.
«Bearach vuole proporsi come Cercatore quest'anno» commentò Laughlin, felice di poter dire la sua.
«Bearach è dei Nagard» puntualizzò Mairead, con aria scocciata.
Laughlin si strinse nelle spalle. «Volevo solo informarti delle mosse del nemico» borbottò con nonchalance.
«Moira invece mi ha scritto che è diventata dictator» intervenne Edmund. Era contento che la sua amica avesse raggiunto quella carica, perché di solito non aveva molte occasioni per primeggiare ma si meritava un riconoscimento per la sua buona volontà.
«Sì, l'ha detto anche a me» commentò Mairead. «Ma è disperata per tutti i nuovi incarichi e i turni di guardia che deve fare... poi con la D.I.M.I.S.S.I.O. e la Disputazio finale è un po' in panico.»
Ai ragazzi dell'ultimo anno, oltre agli esami scritti e pratici in tutte le materie avanzate di cui avrebbero seguito le lezioni, era richiesta anche una ricerca in un argomento a loro scelta, sotto la guida di un professore, di cui avrebbero poi dovuto esporre una relazione davanti alla commissione esaminatrice, chiamata appunto Disputazio.
«Voi avete già scelto con chi farla?» chiese Laughlin.
Mairead si strinse nelle spalle. «Boh... pensavo di chiedere al professor Codail e farla sulla lotta per l'indipendenza e la Costituzione.»
Laughlin sbuffò. «Che cosa noiosa e patriottica» fu il suo commento. «Potresti quasi spacciarti per una filo-EIF!»
«Perché, tu su cosa pensavi di farla?» lo rimbeccò Mairead.
Il ragazzo scrollò le spalle. «Credo che chiederò al professor Lynch, di Cura delle Creature Magiche, e gli proporrò qualche studio sulle leggi a proposito dei draghi.»
«Vuoi andare ad allevare draghi?» scherzò Mairead.
«No.» Laughlin mise le mani avanti. «Voglio un comodo lavoro alla scrivania nell'Ufficio Controllo e Regolazione delle Creature Magiche, con ottime possibilità di far carriera. Per la Disputazio ho scelto i draghi solo perché sono il simbolo dei Nagard.»
«Dopo sono io quella patriottica» commentò Mairead.
Laughlin la ignorò. «E tu, Ed, con chi la fai?»
Edmund si strinse nelle spalle. Osservò per un attimo la periferia di Dublino che sfrecciava via fuori dal finestrino, poi sospiro. «Non ho ancora deciso» confessò agli amici. «Ma sarà qualcosa di grandioso.»

Mairead era più che mai decisa a non perdersi nemmeno una virgola dello smistamento e non solo perché era l'ultima volta in cui avrebbe potuto ammirare il cerchio magico e le fiamme azzurre che da secoli coloravano le divise degli studenti, ma anche perché era intenzionata a scorgervi qualche promessa per la squadra di Quidditch. La spilla che portava appuntata sul petto le ricordava costantemente il suo ruolo: aveva intenzione di fare del suo meglio per vincere di nuovo la coppa del Quidditch.
«Sono mostriciattoli insignificanti!» borbottò rivolta a Era McKonnit, Battitrice di punta della squadra. Mairead aveva gli occhi puntati su un ragazzino mingherlino, con un paio di enormi occhiali tondi, che sembrava sul punto di svenire per l'emozione.
«Se diventa Raloi, con questo ci fai un ottimo giocatore» sussurrò di rimando Era, vedendo dove puntava lo sguardo della sua Capitana. Il suo sogghigno era terribile.
«Noi non eravamo così pulci al primo anno» concordò Mairead, rassegnata. Addio speranze di trovare un fuoriclasse tra quei marmocchi.
Proprio in quel momento Edmund richiamò la sua attenzione con una gomitata. «Guarda, tocca ad Eileen.»
Infatti, la professoressa O'Connel chiamò a voce alta: «MacLuan Eileen.»
La ragazzina si fece avanti saltellando come suo solito. La lunga treccia bionda che le ondeggiava sulla schiena la faceva assomigliare ad un folletto dei boschi. Se ne restò ferma in mezzo al cerchio magico per una manciata di secondi, finché...
«RALOI» gridò la Voce a tutta la sala, mentre le fiamme azzurrine le coloravano la divisa di verde.
Edmund lanciò un'occhiata sorpresa a Mairead. «Raloi?» fece eco, incredulo. «La cugina dei Maleficium una Raloi?»
Eileen saltellò allegra verso il tavolo sulla destra, sfoggiando la sua nuova divisa verde fiammante.
Mairead accennò con il capo all'amico seduto dall'altra parte della sala: aveva una faccia sconvolta. «Laughlin mi pare molto contento» commentò divertita, proprio mentre Eileen prendeva posto davanti a lei.
«Benvenuta nella casa migliore del Trinity» la accolse Edmund, con un sorriso. Poi, si piegò verso Mairead e aggiunse: «Anche tuo cugino mi pare molto contento.»
Faonteroy, seduto al fianco di Dominique, era sul punto di strapparsi per la disperazione il caschetto biondo dalla testa. Capello per capello.
«Mia mamma era certa che sarei finita nei Raloi» trillò invece Eileen, mentre lo smistamento procedeva.
«Perché?» si informò Mairead, senza togliere gli occhi dalla faccia straziata del cugino. Chissà se sarebbe mai riuscito ad accettare un matrimonio tra due case rivali.
Eileen, individuando l'oggetto dello sguardo dell'altra, si voltò a fare un salutino vezzoso verso Faonteroy. Ridacchiò deliziata quando lui si pietrificò. «Perché non ho nessun filtro tra quello che penso e quello che dico o faccio» rispose poi alla domanda di Mairead.
«Capisco.» Edmund annuì con saggezza. «Stupidamente impulsiva. Lo siamo tutti, qua.»
«Ehi, sono i fratellini di Dominique!» li richiamò invece Mairead, indicando due ragazzini mori incredibilmente bassi per la loro età.
«Gli assomigliano un sacco» commentò Edmund, mentre il primo dei due, Ismael MacPassel, veniva chiamato dalla professoressa O'Connel.
«NAGARD!» gridò la Voce e Ismael si affrettò a raggiungere il fratello Dominique con un gran sorriso sulle labbra.
«Te pareva?» ghignò Mairead. «Mi sa che i fratelli MacPassel sono fatti tutti con lo stampino.»
In realtà, quando il gemello di Ismael, Samuel, si ritrovò al centro del cerchio, dopo pochi secondi la Voce gridò: «RALOI!»
«Ehi, grande!» lo accolse Era, quando Samuel si unì al loro tavolo con la divisa verde. Forse la vendicativa Battitrice era contenta che il fratellino del suo ex fidanzato fosse finito nella casa rivale. Altrimenti Mairead non avrebbe saputo spiegare tanta calorosa accoglienza. Scosse la testa: Era McKonnit non era il tipo di ragazza che avrebbe voluto ritrovarsi contro.
Mentre lo smistamento procedeva, Mairead osservò il ragazzetto con gli occhialoni venir chiamato dalla O'Connel («Fletcher Moon!») e finire nella casa dei Raloi.
Era lo squadrò mentre si sedeva al loro tavolo e si spingeva gli occhiali sul naso con fare nervoso. «Ecco il tuo nuovo fuoriclasse!» sussurrò a Mairead, divertita.
La ragazza alzò gli occhi verso il soffitto a cassettoni della Sala Mor. Stiamo freschi, pensò. E poi: No, Era non vorrei mai ritrovarmela contro.









Carissimi, ben ritrovati.
No, non ero scomparsa, rapita dagli alieni, partita a caccia di Uruk-hai in giro per Mordor... purtroppo è stato un periodaccio, in cui me ne sono successe di ogni; oltretutto, sono stata parecchio occupata con l'università e quel fantasma mostruoso che si chiama TESI. So di non avere scuse per aver abbandonato la storia del Trinity per mesi, ma purtroppo la mia ispirazione si era spenta e ogni volta che avevo un po' di tempo libero, fuggivo dal computer e da qualsiasi cosa avesse a che fare con lo scrivere. Abbiate pazienza con me e rincuoratevi per il fatto che, nonostante le mie assenze ingiustificate qua e là, non ho intenzione di abbandonare Edmund e compagnia senza averli condotti al loro destino finale. =)
Tolta questa premessa, eccovi (finalmente) l'inizio dell'ultimo anno di Trinity per i nostri protagonisti! Il capitolo è un po' di passaggio, lo ammetto, ma avevo bisogno di inserire un po' di informazioni a proposito della DIMISSIO e delle nuove reclute. Eileen è finita tra i Raloi perché... be', insomma, dobbiamo complicare un po' la vita al caro cugino Faonteroy! ;)
Intanto, godetevi l'immagine per il capitolo: QUI Laugh, Ed e Mairead al loro ultimo anno!

Grazie a tutti per la vostra pazienza. Spero che possiate perdonarmi e che non vi siate scoraggiati troppo!
Ci vediamo al prossimo capitolo. Presto, questa volta (in linea di massima, entro il 18 agosto).
Un abbraccio,
Beatrix B.

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Capitolo 6
*** Donne di potere ***


CAPITOLO 6
Donne di potere






Edmund afferrò accigliato l'orario di Mairead e lo confrontò con il suo. «Perché cavolo io ho lezione a qualsiasi ora del giorno e della notte e tu nei hai così poche?» domandò con uno sbuffo.
Mairead gli lanciò un'occhiata di sbieco, mentre si versava un bicchiere di succo d'arancia. Il lunedì mattina era sempre traumatico, ma una buona colazione aiutava ad affrontare positivamente la giornata. O, almeno, ad affrontarla con lo stomaco pieno.
«Avrai un sacco di tempo in più per preparare la Disputatio!» continuò a brontolare Edmund.
Mairead gli strappò l'orario dalle mani e se lo rimise in borsa. «Non è colpa mia se tu hai scelto nove materie avanzate e io solo sei. E comunque avrò gli allenamenti di Quidditch come capitana, se vuoi fare cambio.»
«No, grazie.» Edmund non ci pensò su nemmeno un secondo: meglio studiare Filosofia della Magia senza interruzione per mesi piuttosto che passare un solo minuto a cavallo di una scopa a pigliarsi Bolidi in faccia.
«Ecco, bravo.» Mairead immaginò che se il suo amico fosse stato capitano, probabilmente li avrebbero battuti anche una squadra di lumache carnivore a cavallo di Scopalinde. «Ho già fissato per questo fine settimana le selezioni» gli rivelò, anche se era certa che non gliene fregasse proprio un tubo.
«Ecco un altro scansafatiche» borbottò infatti Edmund, quando vide Laughlin e Dominique avvicinarsi al loro tavolo. «E tu quante materie hai scelto? Tre?» domandò rivolto al loro amico.
«Sei» rispose Laughlin, sedendosi di fronte a lui.
«Credo che avremo ben altro di cui preoccuparci» intervenne Dominique, prima che Edmund ricominciasse con quella lamentela a proposito delle materie a scelta.
«Perché?» si informò Mairead, mentre la ragazzo prendeva posto di fronte a lei.
Dominique le mise sotto il naso un articolo del Corriere del Mago, cui si era abbonato. «Pare che Donna O'Marsy sia finalmente andata in pensione» spiegò ai suoi amici.
«La vice-capo del Dipartimento dell'Istruzione?» si informò Edmund, che ricordava la strega vecchietta che li aveva interrogati nella P.R.O.B.A.T.I.O. l'anno scorso.
«Proprio lei» asserì Dominique. «E indovinate chi l'ha sostituita?»
Mairead, che nel frattempo aveva dato un'occhiata veloce all'articolo di giornale, sollevò lo sguardo sugli amici, allucinata. «Daireen Cumhacht» annunciò.
«La Cumhacht?» le fece eco Edmund. «Ma non era entrata a far parte dell'EIF?»
Mairead si strinse nelle spalle. «Così girava voce... era sparita dalla circolazione dopo che mio padre l'aveva lasciata.»
«A che gioco sta giocando McPride?» sussurrò Laughlin, scuro in volto. Sembrava un'altra persona, senza quel suo sorrisetto sicuro di sé e l'aria spensierata.
Anche Edmund si incupì. «Non lo so, ma non è nulla di buono.»
Proprio in quel momento, il professor Cumhacht si alzò dal tavolo dei professori per dirigersi verso la sua aula. Al suo passaggio gli studenti, anche quelli del primo anno, abbassavano lo sguardo e si zittivano, forse per via della sua faccia arcigna, forse per il mantello viola che ondeggiava alle spalle, facendolo assomigliare ad un malefico vampiro.
Edmund lo seguì con lo sguardo finché non uscì dalla Sala Mor. «Devo andare da lui» mormorò alla fine, rivolto agli amici.
«Perché?» si allarmò Mairead, temendo che il ragazzo potesse fare qualcosa di stupido e impulsivo. Com'era nella sua natura, d'altronde.
Edmund si concesse un mezzo sorriso. «Perché ho messo Trasfigurazione Avanzata tra le materie a scelta» fu la sua spiegazione. «E il mio affollatissimo orario non mi lascia scampo.»
Afferrando al volo un frutto, si alzò dal tavolo per dirigersi verso l'aula di Trasfigurazione. Si immaginava che il corso non sarebbe stato particolarmente frequentato, ma certo non si aspettava di trovare solo due persone in aula: Iulius McEwan e Sergey Baloski, i dictatores rispettivamente dei Raloi e dei Nagard.
«Ciao, Edmund» lo salutò Iulius, suo compagno di stanza. «Sarà dura copiare durante le verifiche, eh?» fu il suo commento, accennando all'elevatissimo numero di alunni.
«Già...» Edmund si sedette al suo fianco, a finire gli ultimi morsi di mela.
«Non vi consiglio di copiare in nessun caso» tuonò una voce alle loro spalle, che li fece trasalire. Il professor Cumhacht entrò in classe con uno svolazzo del mantello. «Non si mangia nella mia aula.»
Edmund fece scivolare velocemente la mela sul sottobanco, senza farsi ripetere l'osservazione dal docente; non era proprio il caso di mettere alla prova la pazienza di Cumhacht. Sempre ammesso che ne avesse, di pazienza.
Il professore si posizionò dietro la cattedra e prese a squadrarli. «Molto bene.» Fissò lo sguardo su ognuno di loro, come se volesse soppesarli. «Come immagino sappiate, non accetto nessuno nella mia classe di Trasfigurazione Avanzata che non abbia preso almeno S nella P.R.O.B.A.T.I.O. Ma mi pare che abbiate tutti e tre i requisiti necessari.»
Edmund era quasi certo di essere stato l'unico, l'anno precedente, ad aver preso il voto più alto (ME, che stava per mirandum est) nell'esame di Trasfigurazione.
Il professor Cumhacht si alzò dalla cattedra. «Devo però avvertirvi. Se qualcuno di voi è qui perché l'anno scorso, durante la chiacchieratina attitudinale con il proprio direttore, ha scoperto che la mia materia è requisito indispensabile per la carriera che si è scelto, può anche andarsene.»
Nessuno si mosse. Se anche Iulius o Sergey avessero scelto Trasfigurazione per via della loro carriera, non lo diedero a vedere. Quanto a Edmund, l'aveva messa in piano di studi perché, nonostante il professor Cumhacht, restava la sua materia preferita.
«Molto bene» ripeté il professore e, quantomeno, sembrava soddisfatto. «Mettiamo subito in chiaro che in questo corso vi farò sputare sangue.»
Edmund immaginò che Cumhacht si divertisse particolarmente a terrorizzarli. Trasfigurazione era una materia complicata, ma non impossibile.
Il professore si avvicinò di qualche passo ai banchi dove erano seduti. «Ma vi darò un potere che è al di sopra di ogni altro.» Li guardò negli occhi uno per uno. «Quello di rendere voi stessi degli artisti e il mondo la vostra tela.»
Un po' teatrale, pensò Edmund. Però aveva ragione. Il ragazzo osservò la sua bacchetta di abete, appoggiata sul banco, e si immaginò di poter dipingere qualsiasi cosa volesse. Fu in quel momento che realizzò di voler fare la Disputatio in Trasfigurazione. Forse il professor Cumhacht era un po' pieno di sé e certamente molto esigente, ma quella era la sua materia preferita e Edmund sapeva di essere all'altezza del compito richiesto. Voglio fare qualcosa di grandioso, si ripromise e un sorriso spontaneo gli salì sulle labbra.
Lasciò passare tutta la lezione, ma non ascoltò molto, preso com'era dall'agitazione di dover chiedere al professor Cumhacht la sua disponibilità. Continuava a distrarsi, a rimuginare su che tema avrebbe potuto sviluppare e su come il professore avrebbe reagito alla sua richiesta. Arrivò persino a chiedersi se fosse il caso di domandarglielo proprio quel giorno, visto che sua sorella Daireen era appena ricomparsa e si era meritata una promozione improvvisa a Vicedirettrice del Dipartimento dell'Istruzione. Lui lo sapeva che Daireen era sospettata di far parte dell'EIF? E se sì, la appoggiava? Ed era contento che fosse ricomparsa e condivideva la sua nomina?
Ok, ora basta, si disse Edmund, cercando di concentrarsi nuovamente sulla lezione. Alla fine glielo chiedo.
Attese che finisse l'ora e che i suoi due compagni uscissero dall'aula, per accostarsi alla cattedra. «Professore?»
L'uomo alzò a malapena gli occhi dal foglio che stava leggendo. «Sì, McPride?»
«È Burke» replicò in automatico Edmund.
Cumhacht alzò lo sguardo su di lui con aria interrogativa.
«Preferisco Burke, se non le dispiace» spiegò il ragazzo, come se volesse sfidarlo a dire il contrario.
L'uomo fece un cenno del capo. «Come vuoi. Cosa volevi chiedermi?»
Edmund prese un grande respiro. «Volevo sapere se fosse possibile fare la Disputatio con lei, in Trasfigurazione.»
Il professor Cumhacht sorrise, ma non fu proprio un bello spettacolo. «Sono molto selettivo nella scelta degli studenti che possono fare la Disputatio con me» annunciò. «Ma credo che tu abbia le carte in regola per farcela, Edmund.»
Il ragazzo si concesse un respiro, senza essersi nemmeno accorto che aveva trattenuto il fiato. «Grazie, signore.»
«Non sarà una passeggiata, lo sai, vero?» lo avvertì il professore. «Ti spremerò fino all'ultima goccia.»
Edmund sorrise. Era tempo di mostrare a Cumhacht che reggeva bene la pressione. «Credo che ne ricaverà un buon succo, signore» ironizzò soddisfatto.

Mairead fece un giro in volo del campo, per riprendere un po' di confidenza con la sua Nimbus, visto che era qualche mese che non la usava. Le selezioni per la squadra dei Raloi avevano attirato un nugolo di curiosi, sparsi qua e là sulle tribune; ma solo quando Mairead individuò una ragazza dai capelli rossi, con la divisa blu dei Llapac, si decise a scendere in picchiata.
«Ehi, Moira!» esclamò allegra, saltando giù dalla scopa a un metro da terra. «Sei venuta a spiare la concorrenza?»
«Ciao, Mairead» borbottò la ragazza di rimando. «In realtà devo sostituire Iulius McEwan per la sorveglianza alle selezioni.»
«Altri impegni da dictator, eh?»
«Già.» Moira teneva sul le gambe il libro di Incantesimi: evidentemente era intenzionata a sfruttare le selezioni per portarsi avanti con lo studio. «Lo so che è una carica prestigiosa, ma a volte preferirei che la professoressa Blath avesse scelto di promuovere Trimble invece che me.»
Mairead le mise una mano sulla spalla. «Sono sicura che te la caverai benissimo» la rincuorò. «E poi, guarda il lato positivo: puoi togliere punti alle altre case.»
«Potrei cominciare già subito» fu lo strano commento di Moira.
Mairead capì a cosa si riferisse solo quando si voltò verso il punto che l'amica le aveva indicato: degli aspiranti giocatori si erano riversati in campo e avevano cominciato a spintonarsi per chissà quale motivo. «Stupidi e bellicosi Raloi» commentò Mairead, scuotendo la testa. «Vado ad assolvere il mio compito, prima che tu inizi ad assolvere il tuo!»
Rimontò in sella alla scopa e planò verso il gruppo di ragazzini, inchiodando a pochi centimetri dai due che stavano facendo a botte. «VA BENE!» gridò e i due si fermarono immediatamente. Uno era un tizio grande e grosso che doveva essere al terzo, l'altro era un certo Bowe, la nuova fiamma di Era McKonnit, che era stato convinto dalla sua ragazza a fare il provino come Cercatore. A detta di Era, non doveva essere malaccio, ma Mairead non aveva intenzione di mostrarsi molle con le nuove reclute. Li squadrò con tutta la gravità di cui era capace. «Non mi interessa sapere di chi è la colpa, ma tu – indicò il tizio grosso – e tu – indicò Bowe – siete fuori dalle selezioni.»
«Ma...!» provò a protestare Bowe.
«Niente ma!» Il tono di Mairead non ammetteva repliche. «Non mi servono teste calde rissose, ma dei giocatori capaci di fare lavoro di squadra. Per cui, siete fuori.»
I due tizi brontolarono per un po', ma alla fine si allontanarono tra il silenzio generale. Solo Era ebbe l'ardire di avvicinarsi a Mairead e contestare la sua decisione. «Non è stata una mossa saggia» le sussurrò in modo da non farsi sentire dagli altri aspiranti giocatori. «Hai perso i due migliori candidati.»
«È probabile» ammise Mairead. «Ma non posso permettere che accadano cose del genere.»
Era ebbe il buongusto di non continuare la sua recriminazione, ma per tutto il resto del tempo se ne restò muta e scontrosa.
Mentre i concorrenti facevano un giro del campo in volo, Lily si avvicinò a Mairead e le sussurrò all'orecchio: «L'anno prossimo, quanto tu non ci sarai più e Era sarà la capitana, farà vedere i sorci verdi a tutta la squadra.»
Mairead osservò la Battitrice imbronciata. «Buona fortuna!»
«Ti odio» rispose Lily, con uno sbuffo. Per l'occasione si era truccata con dell'ombretto verde smeraldo.
«Bel trucco» commentò Mairead ma prima che Lily potesse rispondere, lei era già schizzata via a cavallo della sua scopa.
Le selezioni per trovare il nuovo Cercatore furono difficili ed estenuanti. Ad un certo punto, perfino, Mairead rimpianse di aver cacciato via Bowe, perché avrebbe potuto fare qualcosa di meglio di quelli che erano rimasti. Anche perché di peggio sarebbe stata dura.
Alla fine il Boccino fu preso da una ragazzina del terzo anno, Lasair Secula che, come non evitò di farle notare Era, aveva vinto solo perché il Boccino le si era infilato in una manica della divisa.
La scelta per il nuovo Cacciatore di Ala sembrava invece promettere molto bene. Addirittura quattro aspiranti giocatori riuscirono a centrare sei anelli su dieci tiri, ma forse era accaduto perché il loro portiere, Mark Thein, non era proprio un fuoriclasse.
«Ma no, dai...» tentò di consolarla Lily, quando notò la disperazione della sua Capitana. «Mark mi sembra migliorato dall'anno scorso. Forse quest'estate si è allenato.»
«Non avremo mai speranza di vincere quest'anno» commentò invece Mairead.
Le sue terribili parole si rivelarono quasi una profezia, quando i primi due candidati tentarono la mischia: il primo non riuscì nemmeno a partire al fischio, il secondo si staccò dalla formazione troppo presto perché aveva paura di schiantarsi. E non appena Mairead vide il terzo avvicinarsi fu certa che lei sarebbe stata ricordata come la peggior Capitana di tutta la storia dei Raloi.
«Ciao.» Il tono con cui salutò l'aspirante giocatore fu funereo. Era il ragazzino magrino con gli occhialoni tondi che Era aveva preso in giro durante lo smistamento.
«C-c-ciao» balbettò quello.
«Come ti chiami?» intervenne Lily, cercando di risollevare il morale a tutti.
Il ragazzino si spinse gli occhiali sul naso con aria nervosa. «Fle-fle-fletcher Moon.»
«Ok, Fletcher» tagliò corto Mairead. «Sai come funziona una mischia?»
«Sì, io... – balbettò – ...sì.»
«Ottimo.» Mairead si mise a cavalcioni della sua Nimbus e si alzò da terra. «In sella alla scopa.»
Lily e Fletcher si affrettarono ad eseguire i suoi ordini. Al fischio d'inizio, i tre partirono perfettamente coordinati. Fletcher restò incollato alla sua Punta come se qualcuno gli avesse lanciato un Incantesimo di Adesione Permanente e, non appena le dita esperte di Mairead sfiorarono la Pluffa sospesa a mezz'aria, lui sciolse la formazione e si aprì di lato, per permettere agli altri giocatori di passare in mezzo a loro.
Mairead frenò la sua corsa e lanciò la palla a Fletcher, osservandolo con aria ammirata. Lui la afferrò al volo con una mano sola.
«Ehi, non sei niente male.»
«Gra-gra-grazie» balbettò. Tanto era bravo a cavallo di una scopa, tanto risultava impacciato nelle relazioni interpersonali.
«Chi ti ha insegnato a fare la Mischia così bene?» gli chiese Mairead.
«Mio zio Sean» mormorò con un filo di voce, come se stesse confessando un terribile delitto.
Lily lanciò un'occhiata perplessa a Mairead. «Sean... Troy?» indagò, scuotendo i suoi vaporosi capelli biondi.
Fletcher si limitò ad un cenno del capo.
Mairead ricambiò l'occhiata di Lily: il ragazzino con gli occhialoni tondi era nipote del campione di Quidditch della Nazionale Irlandese? «Buon sangue non mente» commentò con un mezzo sorriso. Poi si voltò verso Fletcher e gli fece segno di lanciarle la Pluffa. «Per correttezza devo far provare anche l'ultimo candidato, – gli rivelò – ma con ogni probabilità direi che il posto è tuo, Fletcher Moon.»









Benritrovati a tutti!
Ecco qui il nuovo capitolo. Anche sta volta non succede un gran che, lo ammetto, ma cominciano a delinearsi le trame della storia. Che piani avrà in mente McPride per Daireen Cumhacht?
Su cosa farà la disputatio Edmund?
Come se la caverà Fletcher Moon nella nuova squadra?
E Laughlin tornerà a sorridere spensierato? ...sì, ovvio. Cioè, Laughlin non può stare serio troppo a lungo! ;)

Comunque, ho un sacco di immagini da lasciarvi sbirciare!
Innanzitutto, QUI, QUI e QUI le carte di Magic del trio fatte da Good Old Charlie Brown.
Poi, alcuni disegni dell'evoluzione dei personaggi dal primo all'ultimo anno: QUI Edmund e QUI Laughlin.
È ora invece il turno dei fratelli Cumhacht: QUI la foto di Daireen, mentre QUI un vecchio disegno del professore, al quale ho dato una sistematina.
Infine, QUI l'immagine del capitolo: Melita McFarren (che non c'entra un tubo col capitolo, ma avevo voglia di disegnarla), Mairead in versione capitana e Moira dictator. Donne di potere! =)

Dopo queste note chilometriche, vi do appuntamento al 12 di settembre, con nuovi misteri per Edmund, un Faonteroy sempre più partigiano e un nuovo-vecchio personaggio a cui verrà dedicato un po' di spazio.
A presto!
Beatrix

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Capitolo 7
*** Il fuoco degli O'Brian ***


CAPITOLO 7
Il fuoco degli O'Brian






Edmund sparse tutti i fogli di pergamena sul tavolo della sala studio e cominciò ad analizzarli. Cercare una nuova prospettiva, quello era il suo obiettivo. Dopotutto, aveva letto e riletto quegli appunti talmente tante volte che ormai si ricordava dove si trovasse ogni maledetto scarabocchio che McFarren aveva disseminato sulla pergamena.
Sono solo farneticazioni di un vecchio pazzo, si ripeté per l'ennesima volta, osservando i fogli sparsi sul tavolo. La grafia di McFarren rendeva già abbastanza difficoltoso capire cosa ci fosse scritto, in più si aggiungevano sigle senza senso, interi brani in lingue e perfino in alfabeti sconosciuti, frasi senza capo né coda. L'unica cosa che Edmund era riuscito a capire era che questo fantomatico manufatto, chiamato da McFarren “Mela d'Oro” riappariva in diverse epoche e saghe mitologiche: partendo dall'epopea di Gilgamesh, un poema dell'area Mesopotamica, ricompariva nel racconto della Genesi nella Bibbia, nella mitologia greca con Ercole, come dono della dea Idunn ai Normanni, e infine in Irlanda, nella saga dei figli di Tuirenn. Edmund aveva preso in considerazione tutte quelle narrazioni e aveva constatato che erano incentrate su un oggetto molto simile, capace di donare l'immortalità e la vita. Ma che questo oggetto fosse davvero lo stesso che riaffiorava nelle varie epoche, era tutto da dimostrare. Inoltre, gli appunti finali riguardo alla sorte che il manufatto magico aveva subito in Irlanda erano completamente indecifrabili.
«Santa Morgana, Edmund!» Laughlin si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla sua con la solita delicatezza di un rinoceronte. «Non starai già preparando la Disputatio
«No...» Edmund borbottò qualcosa. «Cioè, sì, ho già buttato giù qualche idea e l'ho mostrata a Cumhacht, ma 'sta roba non c'entra.»
«Non capirò mai come tu possa aver scelto Cumhacht» sospirò Laughlin incrociando le braccia sul tavolo e appoggiandoci sopra il mento. «Voglio dire, è una carogna.»
Edmund si grattò il mento con la punta della penna. «Lo so» ammise con un sospiro. «Però io adoro Trasfigurazione. Preferisco un professore orribile e una materia che mi piace, piuttosto che il contrario.»
«Legittimo» concesse Laughlin. «Però ti sei sporcato il mento con l'inchiostro.»
Edmund si sfregò nel tentativo di pulirsi, ma non ottenne altro che ritrovarsi tutto il mento blu. «Non ce la farò mai!» si lagnò, sbattendo la testa sul tavolo.
«Mi piace la tua positività.» Laughlin cominciò a tirare fuori dalla borsa il libro di Incantesimi Avanzati perché, dato che ormai la scuola era cominciata da un mese, i professori si sentivano autorizzati a caricarli di lavoro. «Tu hai già pensato al regalo per il diciassette di Mairead?» domandò poi, rivolto a Edmund, perché di studiare non ne aveva proprio voglia.
L'amico mugugnò qualcosa in risposta, mentre si tuffava nella borsa alla ricerca di un fazzoletto.
«Che le prendi?» insistette Laughlin. Al compleanno di Mairead mancava poco meno di una settimana e lui non aveva ancora trovato uno straccio di idea decente sul regalo da farle.
Edmund tentò di ripulirsi dall'inchiostro. «Le ho preso un ciondolo a forma di aquila con uno smeraldo al centro» rispose alla fine.
«Un ciondolo, eh?» gli fece eco Laughlin, improvvisamente malizioso. «Perché non un anello?»
«Perché un anello?» indagò Edmund, perplesso.
Laughlin scosse la testa. «Lascia stare, Ed.» Il suo amico non coglieva le allusioni nemmeno quando erano sottili come un baobab.
«Ehi...» Mairead li salutò con aria stanca, lasciandosi cadere sulla sedia al fianco di Edmund. Indossava ancora la sua divisa da Quidditch, poiché era appena terminato un altro estenuante allenamento con la squadra.
«Ossequi a voi» fu invece il saluto di Faonteroy, che accompagnava la cugina. Aveva in mano un rotolo di pergamena e nel taschino della giacca teneva un giglio bianco. Aveva l'aria mortalmente seria. Cioè... più seria del solito. «State bene?» chiese, sedendosi di fronte a Edmund.
Laughlin si strinse nelle spalle, mentre Edmund si mise le mani nei capelli. «No, va da schifo» rispose drammatico.
«Perché?» indagò Mairead.
«Gli appunti di McFarren» spiegò Edmund. «Non ci capisco un tubo!» Fece passare un paio delle ultime pagine, alla ricerca di qualcosa di comprensibile. «Qui, boh, forse c'è un nome – indicò uno scarabocchio, – ma non riesco a leggerlo. Hos.. Hout... Hoster...»
«Hoser Howt» esclamò con sicurezza Faonteroy.
Edmund alzò gli occhi dal foglio e lo guardò allibito; poi tornò a fissare il nome: sì, poteva proprio esserci scritto Hoser Howt. «Come cavolo hai fatto?» gli domandò scioccato.
Faonteroy si strinse nelle spalle come per difendersi. «È un personaggio storico famoso» si giustificò.
I ragazzi si scambiarono delle occhiate perplesse: nessuno l'aveva mai sentito nominare.
«E chi sarebbe?» si informò Laughlin, dando voce ai pensieri di tutti e tre.
Faonteroy si rassegnò ad una breve lezione di storia. «Hoser Howt è un mago nobile dell'inizio del XVII secolo che disonorò la sua famiglia, complottando con gli invasori inglesi. Per questo motivo il Consiglio Supremo cancellò la sua famiglia dall'elenco di quelle nobili» spiegò in tono di disapprovazione. «Non è molto ben ricordato, sapete. La famiglia Howt cadde in disgrazia e nessuno dei suoi discendenti parla molto volentieri dell'episodio.»
Edmund rielaborò le informazioni che Faonteroy gli aveva fornito: cosa diavolo c'entrava quella storia con la Mela d'Oro e tutto il resto? Perché McFarren si era annotato il nome di Hoser Howt? Doveva assolutamente indagare più a fondo.
«Comunque non ero venuto qui per chiacchierare della triste fine degli Howt» commentò Faonteroy. «Ho bisogno del tuo aiuto, Edmund.»
Il ragazzo fu costretto a interrompere i suoi ragionamenti sulla Mela e sul nesso con la famiglia Howt. «Dimmi.»
Faonteroy gli mostrò il rotolo di pergamena che aveva in mano. «Ho bisogno che lanci su questa lettera un Incantesimo duplicatore» spiegò. «Io non sono ancora capace di farlo.»
«Ehm... non puoi ricopiartela?» si intromise Laughlin.
Faonteroy prese la cosa molto sul serio. «Ci avevo pensato, ma me ne servono ottantacinque copie.»
«Ottantacinque?» gli fece eco Laughlin. «Che diavolo ci devi fare?»
Faonteroy non si accorse del tono allucinato dell'altro, oppure preferì semplicemente soprassedere. «Devo inviarne una a ogni membro del Parliamint» spiegò tranquillo.
«Perché vuoi scrivere ai parlamentari?» si informò Mairead, prendendo la lettera per darci una sbirciata.
Faonteroy la lasciò fare. «Perché il Parliamint è l'unico organo in grado di destituire il Presidente della Repubblica Magica, votando la sfiducia con una maggioranza dei due terzi. Io scrivo ad ogni parlamentare affinché apra gli occhi sul regime di terrore che sta instaurando McPride, con la scusa di proteggere l'Irlanda dai Mangiamorte, e voti la sfiducia contro il Presidente.» Il ragazzo aveva usato lo stesso tono del discorso al termine del corteo, la stessa serietà e compostezza.
«Wow» fu il commento ammirato di Mairead.
Laughlin lanciò uno sguardo allucinato a Edmund, poi si voltò nuovamente verso il piccolo O'Brian. «E questo c'entra qualcosa con il giglio nel taschino?» indagò.
Faonteroy si concesse un mezzo sorriso. Il che era una cosa talmente rara da far quasi paura. «Questa è una mia idea e ne vado molto fiero» spiegò soddisfatto. «Ci hanno impedito di riformare il FIE, ci hanno impedito di portare le spille, ci potranno anche chiudere la bocca con il Magiscotch, ma non potranno impedirci di portare un fiore nel taschino. Un fiore contro la dittatura.»
«Parli come un vero uomo politico» si complimentò Mairead, quasi commossa dall'energia del cugino.
«Parli come un vero dissidente» corresse Laughlin, in tono risaputo.
Faonteroy lo ignorò. «Non appena riuscirò a farmi insegnare dalla professoressa Blath come mantenere il giglio fresco a lungo, ne fornirò uno ad ogni membro del FIE» aggiunse. «Altrimenti rischiamo di disboscare le colture di fiori olandesi.» E quella era quasi una battuta, anche se Faonteroy aveva usato il suo tono serio di sempre.
Il ragazzino controllò il suo orologio da taschino. «Fra cinque minuti ho l'appuntamento con la professoressa Blath. Edmund, posso lasciarti la lettera da incantare?»
«Sì, certo.» Edmund era stato colto alla sprovvista dall'attivismo del giovane O'Brian.
«Ottimo, grazie.» Faonteroy si alzò dal tavolo, ma prima di andare li scrutò con serietà. «Non li lasceremo vincere. Non li lasceremo rovinare l'Irlanda.»
«No, certo che no!» lo incitò Mairead, mettendogli una mano sulla spalla in segno d'approvazione. «Sono fiera di te, cugino.»
Faonteroy annuì. «Grazie.»
Solo quando il ragazzino si fu allontanato, Edmund si lasciò sfuggire un sorrisetto. «Quasi, quasi lo preferivo quando indossava il pizzo e si lagnava di ogni cosa.»
Laughlin piantò i suoi occhi sgranati su Mairead e scosse la testa. «Hai creato un mostro.»
«Ehi, è un O'Brian» replicò Mairead, divertita. «È bastato solo alimentare un po' il fuoco naturale che c'è in lui e il resto è venuto da sé.»

Si era messa al collo la fila di perle che era appartenuta a sua nonna e vi aveva inserito il ciondolo con lo smeraldo che lei le aveva regalato per i suoi diciassette anni. È verde come sono verdi i tuoi occhi, le ripeteva sempre la nonna. Sorrise a quel ricordo, ma la dolce nostalgia fu sopraffatta da ben altri sentimenti. Si lisciò le pieghe dell'abito e fece qualche respiro per calmarsi. Quello che stava per fare non era una cosa semplice, ma suo padre non le aveva lasciato altra scelta. Strinse il ciondolo con lo smeraldo e ritrovò la determinazione: sua nonna aveva ragione nel dire che lei era l'unica ad aver ereditato le caratteristiche della sua famiglia, e non solo per via degli occhi verdi e dei capelli rossi. Lei aveva il temperamento degli O'Brian.
Attraversò con passo deciso i cupi corridoi del castello, mantenendo il mento leggermente sollevato mentre sfilava davanti ai quadri dei suoi antenati, dal momento che non aveva alcun motivo per nascondersi al loro sguardo.
«Andalysia!» la chiamò suo fratello, sbucando dalla sua stanza, ma lei non si fermò perché sapeva che avrebbe tentato di dissuaderla.
«Andalysia!» ripeté quello, afferrandola per il braccio per costringerla a girarsi verso di lui. «So cosa stai per fare.»
«Bene» fu la sua secca risposta. Eibhean aveva due anni meno di lei, ma si credeva in diritto di comandarla solo perché era un maschio; e, come tale, sebbene fosse l'ultimo di sette fratelli, era il quarto in linea di successione per il titolo di Conte di Con Cetchthach. «Non farlo» le intimò Eibhean, scrutandola con serietà.
Andalysia si liberò dalla presa con uno strattone. «Non dirmi quello che devo o non devo fare.»
Il fratello sbuffò. «Nostro padre...»
«...nostro padre mi ha costretta a questa scelta» completò la frase per lui. «Tu hai avuto la tua Ailionora, o sbaglio?» lo accusò. «Vi fidanzerete ufficialmente quando lei avrà finito il Trinity. Perché io non ho la possibilità di decidere con chi passare il resto della mia vita?»
«E chi sceglieresti?» la provocò Eibhean, che diventava sempre piuttosto suscettibile, quando veniva nominata Ailionora. «Diarmaid O'Duibne?»
Andalysia si sentì messa a nudo sulla pubblica piazza. Lei e il bel Diarmaid si erano scambiati poco più che qualche sguardo quando lui veniva a casa loro per le riunioni dell'EIF; poi erano incominciate le lettere, come gli amanti segreti di un qualche romanzetto rosa. E il tutto era stato coronato da nulla più che un bacio rubato all'ombra di una quercia durante l'estate appena finita. Avrebbe scelto Diarmaid, ovviamente, ma, ad essere sinceri, le sarebbe andato bene chiunque, pur di evitare il pretendente che suo padre aveva deciso per lei. Fece per andarsene, ma suo fratello non sembrava intenzionato a porre fine alla conversazione. «E se anche dovessi scegliere lui?» replicò con una smorfia.
Eibhean sapeva di aver colpito nel segno. «O'Duibne non è nobile e tu non sei una sguattera qualunque: sei una Deamundi.»
«Neanche Ailionora è nobile, se non ricordo male» lo provocò a sua volta Andalysia. «Eppure tu hai potuto sceglierla perché sei un maschio. Mentre io sono una femmina e non ho alcuna utilità se non quella di permettere alla famiglia di stringere alleanze vantaggiose tramite il matrimonio combinato.»
Eibhean ammutolì. Non poteva ribattere nulla di fronte a quella disarmante verità.
Andalysia sentì la furia montarle in corpo. Era il suo animo O'Brian che veniva fuori, ne era certa. «Stai a vedere» gli intimò. E riprese con passo deciso la sua direzione.
Quando si ritrovò a bussare alla porta dello studio, sapeva che suo padre non avrebbe accolto bene l'interruzione.
«Andalysia» la accolse entrando. Era seduto alla scrivania a leggere il giornale, con il suo immancabile calice di vino rosso. «Sai che non gradisco essere disturbato quando sono in studio.» Se Meccorin Deamundi era alterato, non lo dava certo a vedere. Quell'uomo era l'imperturbabilità in persona.
«Lo so, padre» rispose la ragazza, chinando di poco il capo. Era ancora in preda alla rabbia, ma sapeva che quella non era una buona carta da giocare in una discussione con il padre.
«Siediti» la invitò, facendo un cenno con il capo.
Andalysia eseguì l'ordine ma, quando si ritrovò seduta di fronte a lui, per poco non le mancò il coraggio. Con un gesto automatico, strinse il ciondolo di smeraldo che le aveva regalato la nonna e si sentì un po' rincuorata. Doveva dirglielo, altrimenti l'avrebbe rimpianto per tutto il resto della sua vita. «Io non sposerò Belisar MacGaril» riuscì finalmente a tirar fuori.
Meccorin alzò gli occhi su di lei: la ragazza si sentì perforata ma non abbassò lo sguardo, restando ferma nella sua decisione.
«Andalysia.» Il padre usò un tono quasi gentile e fu strano sentirglielo sulle labbra. «Ho dato la mia parola a Giustinianus che avrei concesso la tua mano al figlio.»
«Infrangete la vostra parola.» Andalysia non era disposta a cedere. «Siete il Conte Deamundi, chi ve lo impedirà?»
Meccorin sopportò con un sorriso l'impertinenza della figlia: era giovane e impetuosa e la sua audacia, almeno, meritava un po' di ammirazione. «L'alleanza con i MacGaril è fondamentale per noi» le spiegò paziente.
Lei non si arrese. «Trovate un altro modo per tenerli vicini.»
Il padre accettò l'ennesima critica con un debole cenno del capo. «Andalysia, ognuno di noi ha i propri doveri» le ricordò, con un tono quasi comprensivo. «Ognuno deve affrontare dei sacrifici.»
«Sacrifici?» Andalysia sbottò. «Lo chiamate un sacrificio quello di passare la propria vita al fianco di un troglodita ritardato? Uno scimmione con la parrucca bionda sarebbe preferibile!»
Rimpianse subito quello sfogo. Si era ripromessa di tenere a freno la lingua, di usare la diplomazia per convincere suo padre ad annullare le nozze, invece era esplosa come una pozione andata a male. Stupida, stupida, stupida! si ripeté, costernata. Ma ormai il danno era fatto.
Gli occhi di Meccorin persero qualsiasi luce paterna e divennero di un blu talmente cupo da far quasi paura. La mascella si irrigidì, le spalle divennero dritte. Era il Conte di Con Cetchthach e si apprestava a dare i suoi ordini. «Tu sposerai Belisar MacGaril.» Non era ammessa alcuna defezione. «Così ho deciso.»
Andalysia si alzò dalla sedia con uno scatto di rabbia. Non sapeva dire se ce l'aveva più con il padre che la voleva maritare a quel ritardato di MacGaril o con se stessa, per non essere stata capace di affrontare la discussione senza esplodere.
Meccorin attendeva in silenzio che lei uscisse dallo studio, ma Andalysia non aveva intenzione di lasciare che la questione si chiudesse a quel modo. Fissò il padre dritto negli occhi e usò tutta la determinazione di cui era capace per mettere in chiaro le cose una volta per tutte. «Se mi costringerete a sposare Belisar MacGaril, io giuro... – esitò solo un attimo, per dare ancora maggiore enfasi alla sua promessa; – giuro che lo sgozzerò nel suo letto la prima notte di nozze.»









Eccoci qui!
Vi piace Faonteroy in versione dissidente? Non temete, nel prossimo capitolo tornerà ad indossare pizzi e merletti e a lagnarsi di ogni cosa... ;)
Che volete farci, sono tornata dai Deamundi! Non posso stare troppo a lungo senza i miei cattivoni preferiti! Eibhean lo conoscete già: faceva il Trinity insieme al trio, di due anni più grande. Andò al ballo di capodanno con Ailionora Diablaiocht; Andalysia aveva fatto una brevissima comparsa nel primo capitolo del quarto racconto (QUI per chi volesse rivederlo). È un personaggio che mi piace molto, al quale vorrei dedicare una mini-sottotrama; è una O'Brian fatta e finita: ha preso tutto da nonna Evangeline. ;)

Visto che siamo in tema O'Brian, QUI una bella immagine dei cugini O'Brian... i veri cugini! Ovvero Childerich, il nonno di Faonteroy, Evangeline (la nonna di tutti i sette fratelli Deamundi) con in braccio il neonato Meccorin e Josephine, la nonna di Mairead.
QUI, invece, una visione d'insieme della Deamundi Family: al centro, ovviamente, Meccorin, poi a partire da sinistra Evangeline, Cassian (primogenito ed erede del titolo di Conte), Liutpridus (secondogenito, ha ereditato gli occhi verdi della nonna!), Tricolon (quintogenito), Andalysia (sestogenita) e infine Eibhean (ultimo!). Mancano le altre due sorelle Rosmerta e Luisdel che sono già sposate e non hanno ruolo rilevante nella storia.
QUI il motivo per cui Andalysia non vuole sposare Belisar MacGaril: poverino, causa incroci familiari non del tutto chiari, è un po' ritardato. Ma l'adorabile padre Giustinianus sa di essere indispensabile ai Deamundi e spera di trovare un buon partito per lui. Giustinianus e Belisar sono comparsi nel primo capitolo di questa storia, in quanto zio e cugino diretti di Faonteroy. A destra, invece, il bel Diarmaid (anche lui comparso nel primo capitolo del quarto racconto) di cui Andalysia è innamorata. Come darle torto?
Infine, QUI la vera immagine del capitolo: Faonteroy e Andalysia. Mai stuzzicare un O'Brian! ;)

Bene, ho finito di raccontare la vita di tutti!
Ci vediamo venerdì 3 ottobre con il prossimo capitolo!
A presto!
B.B.

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Capitolo 8
*** Nobiltà rinnegata ***


CAPITOLO 8
Nobiltà rinnegata






Faonteroy accelerò il passo. Aveva la netta sensazione che qualcuno lo stesse seguendo e la cosa non gli piaceva affatto. Mentre saliva la scala a chiocciola per raggiungere la gufiera, cercò di tranquillizzarsi, ripetendosi che le persone di cui sentiva i passi alle sue spalle potevano benissimo essere studenti che scrivevano alle famiglie. Perché qualcuno avrebbe dovuto tendergli un agguato per aggredirlo? Arrivato alla gufiera, scelse un barbagianni dall'aria robusta e cominciò a legare il primo pacco di lettere da spedire ai parlamentari.
«Oh, ma guarda chi c'è!» esclamò una voce alle sue spalle. E aveva un tono per niente sorpreso.
Faonteroy si voltò lentamente, la mascella contratta e il mento leggermente sollevato. Si ritrovò davanti Ailionora Diablaiocht, spalleggiata come sempre dalla sua amica O'Hara e da quel piccoletto con l'aria da topo di Best. «Buongiorno a voi» salutò Faonteroy, la voce incolore.
«O'Brian...» La Diablaiocht gli si avvicinò, piegando la testa di lato come una maestrina che sgrida il suo allievo più indisciplinato. «Non ci piace che tu porti quel fiore nel taschino. Non ci piace quello che rappresenta.»
«Ne sono rammaricato.» Faonteroy non tentò nemmeno di recuperare la bacchetta dalla tasca: non avrebbe potuto fare nulla contro tre studenti dell'ultimo anno e l'unico modo per cavarsela senza punizione era evitare di rispondere all'attacco.
«Rammaricato?» gli fece eco Best, con uno sghignazzo. «Ma in che secolo credi di vivere?»
«Nel secolo in cui esiste la libertà di espressione.» Faonteroy sapeva di non aver scampo, ma non aveva intenzione di farsi mettere in piedi in testa da quei tre trogloditi ignoranti. Nessuno aveva il diritto di prenderlo in giro per il suo vocabolario ricco e appropriato.
«Al Trinity non c'è libertà di espressione» lo rimbeccò la Diablaiocht. «Togliti quel fiore.»
«Non credo che tu abbia alcun diritto di darmi degli ordini.» Faonteroy voleva mettere ben in chiaro la cosa, prima di soccombere. «Non sei più console, perché è stato scelto Balosky come dictator dei Nagard e chi non diventa dictator, perde la carica di console quando subentrano i due nuovi del quinto anno. E se anche tu ricoprissi una qualsivoglia carica studentesca, non c'è alcun articolo del regolamento di istituto che vieti di portare fiori nel taschino.»
«Piccolo idiota saputello!» gli sputò addosso la Diablaiocht. «Te lo strappo io quel fiore!» Alzò la bacchetta e fece per lanciare l'incantesimo, quando una voce la fermò.
«Cosa sta succedendo, qui?»
Moira entrò nella gufiera con l'aria interrogativa. Al collo troneggiava imponente la coccarda da dictator. «Devo togliere una valanga di punti ai Nagard o abbassi la bacchetta?» domandò rivolta alla Diablaiocht. Non si poteva dire che Moira fosse mai stata una persona particolarmente autoritaria e sicuramente sarebbero riusciti a sopraffarli in tre contro due, ma la Diablaoicht soppesò le possibilità e decise di abbassare l'arma. Dopotutto, un conto era spedire O'Brian in infermeria con una bella fattura, un altro era coinvolgere un dictator in una baruffa da corridoio. L'ultimo e definitivo elemento dell'equazione, che fece desistere completamente la Diablaiocht, fu l'entrata in scena di Edmund Burke.
«Oh, eccolo!» esclamò quando vide Faonteroy. «L'abbiamo trovato.»
«Veramente l'ho trovato io per te.» Moira gli lanciò un'occhiataccia. «E meno male, direi.»
La Diablaiocht si voltò indignata e, facendo un cenno ai suoi di seguirla, sparì lungo la scala a chiocciola.
Faonteroy tirò un sospiro di sollievo. Non pensava davvero che se la sarebbe cavata. «Grazie dell'intervento vitale» mormorò rivolto a Moira.
«Di nulla.» La ragazza gli mise una mano sulla spalla come segno di incoraggiamento. «Quando ti serve, sai su chi contare» gli rivelò con un sorriso. «Ora devo continuare il mio giro di pattuglia. Doveri da dictator.» Con un cenno di saluto, si affrettò a scendere dalla torre.
Faonteroy si girò a guardare Edmund. «Mi cercavi?» domandò titubante. Non era proprio il caso di farsi coinvolgere in qualche follia da un altro Raloi svitato. Ne aveva già abbastanza di sua cugina Mairead.
«Sì, be'... mi devi un favore, no?» Edmund sfoderò uno dei suoi migliori sorrisi.
«Sì» rispose Faonteroy, cauto. In fin dei conti, Edmund gli aveva lanciato l'Incantesimo duplicatore sulle lettere, quindi aveva tutto il diritto di chiedere un favore in cambio. Dipendeva però, da che genere di favore.
«Ho bisogno che mi accompagni a far visita all'ultimo discendente di Hoser Howt. Devo trovare delle informazioni su di lui» rivelò Edmund, improvvisamente serio.
«Ma...» balbettò il ragazzino. «Ma... non puoi fare una ricerca in biblioteca?»
Edmund scosse la testa. «È una settimana che frugo ovunque, ma pare che Howt abbia subito una damnatio memoriae coi fiocchi.»
«Nessuno vorrebbe ricordare quell'episodio increscioso della storia Irlandese, tanto meno la famiglia Howt.» Faonteroy sembrava poco propenso a seguire l'idea di Edmund.
«Lo so, per questo ho bisogno di te!» rincarò la dose l'altro. «Questi Howt sono nobili decaduti e tu sai come si sta in mezzo alla nobiltà.»
Faonteroy si stropicciò le mani. Un amico, con cui era in debito, aveva bisogno del suo aiuto, ma tale richiesta prevedeva un'infrazione di un numero infinito di regole della scuola. «Vorresti che uscissimo dal castello? Non ho già la fedina penale abbastanza sporca?» fu il suo ultimo tentativo di dissuadere Edmund dall'impresa.
Il ragazzo si strinse nelle spalle a mo di' scusa. «”Uscire” non è proprio il termine che avevo in mente. Direi più che altro “sgattaiolare”.»
Faonteroy mugugnò rassegnato. «La mia carriera è finita ancora prima di cominciare.»

«Ehi, che posto allegro.» Edmund si lasciò sfuggire una smorfia. Si sentì improvvisamente inadeguato nel suo completo da mago celeste, quello che la signora Maleficium aveva confezionato per il suo diciassettesimo compleanno. Era stato Faonteroy ad insistere perché si cambiassero, sostenendo che presentarsi a casa di un nobile con la divisa scolastica poteva essere considerato offensivo e certo non un buon punto di partenza per tentare di carpire informazioni su un antenato sgradito. Faonteroy si era scelto un completo verde bottiglia con più pizzi di quanti un uomo sano di mente potesse permettersi di indossare. Lui invece aveva indossato l'unico che possedeva, ma l'azzurro si era rivelato un colore quanto meno inappropriato di fronte alla dimora degli Howt. La villa era ridotta in condizioni pietose: il cancello era divelto, il giardino (se giardino si poteva chiamare quella foresta) incolto e abbandonato a se stesso; una qualche pianta rampicante di dubbia origine si inerpicava contorta sulla facciata della villa, facendola somigliare ad un mostro emerso dalla palude.
«Sei sicuro di voler entrare?» pigolò Faonteroy, improvvisamente meno gagliardo. Già la Materializzazione congiunta gli aveva fatto rivoltare le budella, ora ritrovarsi davanti una specie di casa degli orrori non doveva essere il modo migliore per infondergli un po' di coraggio.
«Ma sì, che vuoi che sia...» lo incoraggiò Edmund con una pacca sulla spalla.
Si avviarono insieme lungo il vialetto, o almeno quello che ne era sopravvissuto. Quando bussarono all'immenso portone di legno scuro, venne loro ad aprire una minuscola elfa domestica, raggrinzita e ripiegata su se stessa per la vecchiaia, con gli occhi opachi e spenti. «Chi è?» domandò con un filo di voce, ma non alzò lo sguardo su di loro. Doveva essere cieca.
«Faonteroy O'Brian di Mael Duib e Edmund Burke» rispose il ragazzino, riprendendo un po' di coraggio nel presentarsi come nobile. «Vorremmo scambiare due parole con il tuo padrone Lancel Howt.»
L'elfa piegò la testa di lato come se volesse tendere l'orecchio verso di loro. «Padron Lancel non riceve molte visite, no» commento flebile. «Potty non ricorda l'ultima volta che padron Lancel ha ricevuto una visita.»
«Vogliamo solo fare due chiacchiere» intervenne Edmund, tentando di essere gioviale, ma Faonteroy lo zittì con lo sguardo. Un'occhiataccia molto simile a quelle che gli lanciava Mairead, ad essere precisi.
«Noi siamo persone molto importanti.» Faonteroy lo disse con un tono talmente aristocratico che nessuno avrebbe mai potuto mettere in dubbio le sue parole. «Ti conviene farci entrare.»
L'elfa aprì un pochino di più il portone e si mise di lato per farli passare. «Potty è una brava elfa, Potty si prende cura di padron Lancel» mormorava nel frattempo, come una macabra cantilena.
Non appena i due ragazzi misero piede nell'atrio, capirono immediatamente perché l'elfa mostrasse chiari segni di squilibrio mentale: la casa era tetra, con pesanti tendoni di velluto nero appesi alle finestre; sembrava che un mago malvagio avesse rapito tutti i colori. Chiunque avrebbe dato di matto a restar rinchiuso in un posto come quello.
«Chi era, Potty?» domandò una voce rauca dal piano di sopra.
«Potty è una brava elfa, Potty si prende cura di padron Lancel» cantilenò l'elfa.
Faonteroy lanciò uno sguardo atterrito a Edmund, che si strinse nelle spalle e fece qualche passo avanti in ingresso. Di fronte a loro s'innalzava una scalinata imponente, grigia come il resto della casa. «Signor Howt?» domandò Edmund e la sua voce rimbombò nell'atrio. «Signor Howt, vorremmo solo parlarle.»
Passarono una manciata di minuti in cui l'unico suono udibile fu il borbottare continuo dell'elfa domestica. Poi, finalmente, qualcuno comparve in cima alla scalinata. Poteva essere un giovanotto poco più grande di Edmund, ma appariva consumato come un vecchio albero malato. Aveva i capelli di un biondo quasi bianco e il suo pallore era esaltato dal pesante abito da mago di velluto viola e nero. Le spalle curve e lo sguardo vacuo davano l'impressione di aver di fronte una persona sconfitta dalla vita.
«Sicuro che non sia un vampiro?» bisbigliò Faonteroy, senza scollare gli occhi di dosso all'ultimo discendente degli Howt.
Edmund si limitò ad un sorrisetto tirato. «Grazie di averci ricevuti, signor Howt.»
Il ragazzo fece un cenno del capo.
Edmund lanciò uno sguardo disperato a Faonteroy, ma quello sembrava incapace anche solo di muoversi, figuriamoci di dargli supporto in una conversazione con quella sottospecie di cadavere. «Signor Howt noi... siamo scrittori.» Buttò lì la prima panzana che gli venne in mente. «Stiamo scrivendo la storia dell'Irlanda del XVII secolo e vorremmo il suo contributo, in particolare per quanto riguarda il suo antenato Hoser...»
«Chi siete?» lo interruppe Howt, con voce rauca e insieme aspra.
«Gliel'ho detto, siamo scrittori...» tentò Edmund, ma quello lo fermò di nuovo.
«I nomi.» I suoi occhi acquosi erano puntati su Faonteroy.
Edmund tentennò. «Ehm, io sono Edmund Burke e lui...»
«Faonteroy O'Brian» completò il ragazzino, facendo un passo avanti. Sostenne lo sguardo di Howt, come se volesse sfidarlo a contraddirlo in qualche modo.
«O'Brian» sputò Howt. La rabbia e il disgusto deformavano i lineamenti del suo volto, rendendolo brutto e grottesco. «Che cosa volete sapere di Hoser Howt?»
«Ehm, la sua storia, i suoi... la sua vita» tentò Edmund, cercando di usare ancora un tono gioviale.
«Non vi basta averci ridotto a questo?» tuonò Howt, con una voce insospettatamente potente. Aveva gli occhi pallidi dilatati come un folle, il volto contratto in smorfie di rancore.
Emdund spostò gli occhi in giro per il cupo ingresso, alla ricerca di vie di fuga, poi mosse la mano verso la bacchetta, piano. Meglio essere prudenti. «Noi non non abbiamo fatto nulla» sussurrò guardingo.
«Gli O'Brian!» Howt puntò il suo dito ossuto contro Faonteroy. «La schiatta di Mael Duib sostituì quella degli Howt, quando il mio antenato Hoser fu accusato di complottare con gli Inglesi. Ci tolsero dalla nobiltà, ci lasciarono in questa decadenza. Nessuno voleva più avere a che fare con un Howt! Guardate come siamo ridotti!»
«Non c'entrarono nulla gli O'Brian con il vostro tradimento» replicò Faonteroy, in uno scatto di orgoglio. Nessuno poteva permettersi di insultare la sua famiglia.
«Ah no?» insinuò Howt, spalancando gli occhi come un pazzo. «Chiedetelo a quella vipera di Elizabeth O'Brian! Lei macchinò e macchinò, affinché la sua schiatta fosse ritenuta nobile, così da potersi sposare Deamundi e cercare un partito altrettanto buono per il fratello.»
«State solo vaneggiando!» Le gote di Faonteroy si tinsero di rosso, la voce resa acuta dalla rabbia repressa a stento.
«Chi è Elizabeth O'Brian?» intervenne Edmund; una pessima scelta tattica.
«Andatevene!» gridò Howt. In un turbinio di stoffa nera, estrasse di tasca la sua bacchetta. «Andatevene fuori di qui! Non siete i benvenuti!»
Edmund valutò velocemente le alternative: avrebbe potuto mettere fuori gioco Howt in un paio di mosse, ma non era il caso di farsi accusare di aggressione, per quanto potesse giustificarla come legittima difesa. Inoltre non aveva intenzione di mettere in pericolo Faonteroy. Per cui decise di alzare le mani in segno di resa e di fare un paio di passi indietro. «Ce ne andiamo.» Lentamente, senza scatti improvvisi, lui e Faonteroy si voltarono verso la porta e imboccarono l'uscita.
Solo quando furono fuori dal perimetro della villa, Faonteroy osò guardare il compagno in volto. «Mi spiace, Edmund» pigolò piano. «Ero venuto per esserti d'aiuto, invece...»
«Ma tu mi sei stato d'aiuto.» Edmund gli mise una mano sulla spalla in segno di incoraggiamento. «Ora ho un nuovo nome su cui indagare.»

Avevano indossato nuovamente le divise scolastiche, in modo da non dare nell'occhio. Erano stati via dal castello per poco meno di un'ora, per cui Edmund era abbastanza certo che nessuno avesse notato la loro assenza. Stava per rassicurare un preoccupatissimo Faonteroy, quando una voce proveniente dalla segreteria lo fece trasalire.
«Edmund, potresti venire nel mio ufficio?» Il preside Captatio, il volto mortalmente serio, era comparso in ingresso.
Edmund vide Faonteroy al suo fianco perdere colore fino a diventare più bianco di un lenzuolo. Ebbe come l'impressione che la prospettiva di una punizione lo terrorizzasse più dell'idea di trovarsi di nuovo faccia a faccia con Lancel-vampiro-pazzo-Howt. Gli mise una mano sulla spalla nel tentativo di rassicurarlo, poi si affrettò a seguire a capo chino Captatio in presidenza.
Non appena ebbe varcato la soglia del disordinato e caotico ufficio del preside, si affrettò a scagionare l'amico, che in fin dei conti l'aveva seguito solo perché lui aveva fatto leva sul suo senso dell'onore. «Signore, Faonteroy non c'entra...» cominciò a dire.
«Siediti, Edmund, per favore» lo interruppe Captatio.
Edmund non poté far altro che obbedire.
Il professore sembrava serio, ma almeno non arrabbiato. «Dove sei stato questa volta?» chiese, sedendosi alla scrivania di fronte a lui. «C'è qualcosa che vuoi raccontarmi?»
Edmund fissò gli occhi azzurri di Captatio, che esprimevano una viva e sincera preoccupazione nei suoi confronti, e capì che era il momento di rivelargli tutta la storia. Cominciò dall'inizio: gli raccontò di quanto era successo a casa di McPride, di come l'uomo avesse conquistato la sua fiducia e del tradimento che in seguito Edmund aveva scoperto; gli raccontò del FIE, del legame che si era creato tra i ragazzi. E poi narrò dell'orologio d'oro, della ricerca del codice degli Interventisti e dei ricordi di McFarren ritrovati al laboratorio di Lerwick. Gli disse che lui era nato per capriccio di un mago oscuro, era nato in provetta, incrociando il DNA di Tom Riddle e quello di Melita. Gli si formò un nodo alla gola quando fu costretto ad ammettere di non essere altro che un esperimento, ma andò avanti a raccontare. Parlò di come avesse trovato McFarren nascosto con la figlia a Petra, della Maledizione che l'uomo gli aveva imposto, dell'arrivo dei Mangiamorte e dei ragazzi del FIE, grazie ai quali erano riusciti a fuggire. E infine gli rivelò quanto aveva scoperto dagli appunti di McFarren su quel manufatto misterioso che il vecchio mago aveva denominato Mela d'Oro.
Alla fine del racconto aveva la gola secca, ma si sentiva incredibilmente più leggero. Ora Captatio sapeva tutto e avrebbe potuto aiutarlo. Il professore fece apparire un bicchiere pieno d'acqua e glielo pose. «Grazie di esserti confidato con me, Edmund» disse infine, con un sorriso bonario. «Farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarti.»
Il ragazzo annuì, ma poi fu colpito da un'illuminazione. «Il professor Silente...» cominciò a dire.
Captatio sorrise, compiaciuto dalla sua astuzia. «Il professor Silente aveva dei sospetti su di te, da quando ti ha visto qui nel mio ufficio, un paio di anni fa» ammise. «Ma ovviamente non poteva immaginare tutta la storia.»
«Lui aveva conosciuto Tom Riddle, Voldemort da giovane» commentò Edmund, immaginando che la somiglianza fisica tra lui e Riddle doveva essere impressionante. «Ma dice che io non sono come lui.»
«Non lo credo minimamente» confermò Captatio, con un sorriso. «Tu sei Edmund e questo fa una gran differenza.»
Il ragazzo rimuginò su quelle parole: era la stessa cosa che gli aveva detto il professor Silente. Lui era Edmund, e sapeva cosa voleva dire amare. Aveva degli amici e qualcosa per cui lottare. E soprattutto, aveva la speranza di trovare il manufatto in grado di spezzare la sua Maledizione. A quel proposito, aveva ancora una cosa da chiedere al preside. «Professore?» domandò titubante, osservando la reazione di Captatio di sottecchi. «Avrò bisogno di uscire ancora dal castello, per andare alla ricerca di questa Mela d'Oro.»
«Lo capisco.» Il mago annuì. «Ma ti pregherei di non coinvolgere ancora i tuoi amici. Non tutti hanno la tua prontezza di spirito nell'affrontare i pericoli.»
Edmund fu costretto ad ammettere con se stesso che trascinare Faonteroy a casa degli Howt non era stata una buona idea, perché il ragazzino non sarebbe stato in grado di affrontare un'emergenza. «Certo, signore.»
Captatio gli sorrise comprensivo. «Dal canto mio, parlerò con il professor Silente.» Il preside cominciò a frugare sulla scrivania alla ricerca di chissà cosa. «Vorrei anche potermi mettere in contatto con tua sorella Melita, per esserle d'aiuto nella sua latitanza» aggiunse poi.
«Sissignore.» Edmund non era certo che Melita avrebbe accettato l'aiuto, ma tanto valeva provare.
«Ah, e dirò alla professoressa O'Elan di darti delle lezioni private di Occlumanzia» continuò Captatio, segnando qualcosa su un pezzo di pergamena vagante. «Sai, saper chiudere la mente potrebbe tornarti utile per contrastare la Maledizione.»
«Grazie, signore.» Edmund si sentì improvvisamente rincuorato, sapendo di poter contare sul professor Captatio: il suo sorriso bonario, i suoi buffi cappelli a punta e il suo studio caotico gli davano una sensazione di pace e speranza.
«Edmund.» Captatio lo guardò negli occhi con profondità. «Vedrai che ce la faremo.»
Il ragazzo ricambiò il sorriso. «Lo credo anche io, professore.»









Ecco il nuovo capitolo!
Che dire? Vi avevo promesso di nuovo un Faonteroy tutto merletti e piagnistei... contenti? Quanto a Moira, ammetto che è comparsa solo di sfuggita per adesso, ma le ho preparato un ruolo da eroina in questo racconto! Tenetevi pronti!
Comunque, finalmente Eddy ha vuotato il sacco con Captatio! Era ora! Anche perché non poteva continuare a fare il furbo e pensare di passarla liscia ancora a lungo! ;)

Intanto, vi lascio la solita carrellata di immagini:
giusto perché mi sono accorta di non avervi mai fatto vedere il trio Diablaiocht-Best-O'Hara, ecco QUI alcuni ragazzi del sesto anno dei Nagard.
QUI un'inutilissima immagine di Edmund e Tom Riddle. Giusto perché sono entrambi due fighi.
Quanto al capitolo, QUI la villa cui mi sono ispirata per descrivere casa Howt e QUI l'immagine del capitolo, ovvero Lancel Howt in tutta la sua voglia di vivere!

Con il prossimo capitolo, torniamo nel passato! Preparatevi per conoscere i cattivi di tutta la storia... ma saranno davvero cattivi?
Ci vediamo venerdì 17 ottobre!
Grazie a tutti quelli che seguono. Se volete lasciare una recensione, sarò felice di leggere il vostro parere!
A presto,
Beatrix B.

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Capitolo 9
*** Un salto indietro nel tempo II - Il burattinaio e la torre ***


CAPITOLO 9
Un salto indietro nel tempo II
Il burattinaio e la torre






Il castello era cupo e silenzioso. Era stato costruito dal primo Conte all'epoca della risistemazione delle nobili schiatte, per cui la sua principale funzione era quella di rappresentare la grandezza della famiglia. Una funzione che assolveva a dovere: il castello imponente, di pietra grigia e scura, posto sulla sommità di una collina, era un chiaro segno del potere di cui godevano i Conti. Anche gli interni rispondevano alla medesima logica: stanze e corridoi, austeri e cupi, mettevano in soggezione qualsiasi ospite, gradito o meno che fosse. Perfino gli occupanti dei pochi ritratti e arazzi appesi alle pareti partecipavano del medesimo clima, mantenendo un composto silenzio per buona parte del tempo.
Meccorin Deamundi, terzo Conte di Con Cetchthach, se ne stava seduto a capotavola ad osservare un enorme foglio di pergamena su cui era rappresentato l'albero genealogico della sua famiglia. Meditava in silenzio, contemplando i nomi che vi erano scritti. Anche lui si era assuefatto al clima della sua dimora, assumendo un comportamento serio e taciturno. In un certo senso, aveva modificato la sua indole in base al luogo in cui era stato costretto a vivere. Aveva fatto tutto ciò che era necessario per assolvere al suo compito di guida della comunità magica irlandese: aveva assunto un comportamento austero, aveva recato lustro alla sua famiglia raggiungendo brillanti risultati nello studio, aveva sposato la sua promessa e aveva avuto con lei una figlia. Aveva portato a termine il suo dovere, secondo il desiderio di suo padre.
Ma ora era arrivato il momento di agire secondo i suoi piani.
«Padre?» Una vocina sottile lo strappò dai suoi pensieri. La piccola Abaigeal entrò in punta di piedi nello studio.
Meccorin cercò di fare uno sguardo duro, anche se gli riusciva sempre difficile con la sua piccolina. «Abaigeal, che cosa ti ho insegnato?»
La bambina abbassò gli occhi a terra. «Che devo bussare prima di entrare» rispose con un filo di voce.
«Esatto.» Meccorin le sollevò il mento con un dito. «Per questo ora esci e bussi per chiedere permesso.»
La piccola trotterellò indietro, per eseguire l'ordine del padre. Bussò alla porta ed attese che l'uomo la invitasse ad entrare.
«Molto bene, bambina mia» si complimentò Meccorin. Sua figlia era un piccolo fiore: grandi occhioni blu e teneri boccoli castani che le incorniciavano il visino paffuto. Ma la bellezza non era la sua unica virtù, perché era anche una damina a modo, con una mente vispa e un grande cuore. Sarebbe stata perfetta per portare lustro alla casa Deamundi, ma era una femmina e non avrebbe mai potuto ereditare il titolo di Contessa. Meccorin aveva bisogno di un erede maschio.
Sua moglie era morta di vaiolo di drago due anni prima. Gli serviva una nuova moglie, una madre per Abaigeal e una donna fertile capace di dargli degli eredi sani e forti. Se suo padre Cassian fosse stato ancora vivo, certamente gli avrebbe consigliato una nobildonna di buona famiglia, grazie alla quale rinvigorire vecchie alleanze.
Ma, quella volta, Meccorin aveva in mente un altro piano.
«Padre?» pigolò piano Abaigeal, per paura di indispettirlo nuovamente.
«Dimmi, figliola.» Meccorin sapeva di essere troppo tenero con la bambina, ma non gli riusciva di essere freddo perché la amava come solo un genitore può amare.
Abaigeal gli mostrò un foglio di pergamena su cui aveva disegnato quella che sembrava una famiglia: un mago e una strega con una bimba per mano. «È per voi.»
Meccorin non riuscì a evitare di sorridere. «Questa sei tu?» le chiese, indicando la bambina.
Abaigeal annuì. «E questo siete voi, padre» spiegò, posando il dito paffuto sulla figura del mago.
Meccorin spostò la sua attenzione sulla strega dai capelli rossi che la figlia aveva disegnato. I capelli della sua defunta moglie erano biondi. «E questa chi è, Abaigeal?»
«È la signorina Elizabeth» rispose Abaigeal, deliziata. «È stata tanto carina con me, l'ultima volta che è venuta qui: mi ha regalato un pupazzo a forma di drago.»
Meccorin sentì un lieve tepore invadergli il petto. La sua bambina era un piccolo angelo. «Abaigeal» la chiamò piano, quasi commosso. «Ti piacerebbe se la signorina Elizabeth diventasse la tua matrigna?»
La bambina sorrise estasiata. «La volete sposare, padre?» Probabilmente si immaginava un matrimonio come quello delle favole.
Meccorin deglutì. «Sì.»
«Ne sarei molto contenta» rispose Abaigeal, sognante.
Meccorin trattenne a stento un singhiozzo di commozione. «Bene, bambina mia.» Sospirò. «Ora torna dalla tua governante.»
Abaigeal fece un buffo inchino come commiato, poi si affrettò a raggiungere la sua tata.
Meccorin si concesse il lusso di chiudere gli occhi per qualche minuto, il capo appoggiato allo schienale della sedia e le braccia abbandonate sui braccioli. Non avrebbe mai immaginato che i suoi piani si potessero attuare in un modo così limpido, senza intoppi di sorta. Persino la piccola Abaigeal approvava la sua scelta.
Finalmente avrebbe potuto sposare la donna che amava. L'aveva amata da sempre, da quando l'aveva ammirata entrare nel cerchio magico del Trinity per farsi destinare alla sua stessa casa, quella dei Nagard. I suoi capelli rosso fuoco, quell'energia travolgente, i sorrisi ammiccanti e la sua risata cristallina. Non c'era niente di convenzionale in Elizabeth O'Brian, niente che un uomo rispettabile del suo calibro avrebbe dovuto apprezzare. Eppure lui l'amava. E sapeva anche che non sarebbe mai potuta essere sua, almeno non fin tanto che ci fosse stata un'ampia differenza sociale tra i due. Lui era nobile e per di più patriarca di una delle più antiche famiglie irlandesi; lei era figlia di un mercante arricchito. Per quanto suo padre fosse ormai morto e lui fosse rimasto vedovo abbastanza a lungo, non poteva permettersi di farsi parlare alle spalle dall'intera comunità magica d'Irlanda perché voleva sposare una donna del popolo. Per questo motivo aveva ideato un piano. Un piano che gli consentisse allo stesso tempo di sbarazzarsi dei suoi due principali nemici e di liberare un posto tra le nobili schiatte per quella di Elizabeth.
Sarebbe filato tutto liscio. Nessuno avrebbe mai osato sussurrare il nome dei Deamundi nel caos diplomatico che stava per scatenare. Lui era come un invisibile burattinaio che muoveva i fili dei suoi pupazzi. Ognuno avrebbe giocato il suo ruolo, consapevole o meno di essere parte di un piano più grande. Mentre a lui non restava altro che osservare.
Un pigolio lo riscosse dai suoi pensieri. «È arrivato il signor Howt, signore» pigolò il suo minuscolo elfo domestico.
«Fallo entrare» ordinò Meccorin, alzandosi in piedi per ricevere il suo ospite.
L'elfo domestico sparì in una profusione di inchini, per tornare poco dopo seguito da un uomo biondo di mezza età. Hoser Howt indossava un completo da mago blu notte, che nel complesso gli dava un'aria dignitosa, ma la sua faccia banale e acquosa e i capelli che ricadevano flosci sulle spanne non ne facevano un uomo carismatico. Tanto più se si ritrovava a stringere la mano a Meccorin Deamundi, terzo Conte di Con Cethchtach, le cui spalle larghe erano ricoperte da una sontuosa veste con le maniche ampie e il cui volto esprimeva sicurezza di sé e autocontrollo.
«Signor Conte.» Howt si esibì in un inchino impacciato.
«Hoser Howt di Tir Eoghain.» rispose al saluto Meccorin, con un cenno del capo. «Sediamoci» lo invitò, indicando il tavolo, su cui fece apparire due bicchieri e una bottiglia di Whisky Incendiario Irlandese.
Howt sembrava a disagio. Si sedette sulla punta della sedia e cominciò a guardarsi in giro con circospezione.
«Avete valutato la mia proposta?» gli domandò Meccorin, versando da bere per entrambi.
Howt si stropicciò le mani. «Signor Conte...» cominciò, con evidente imbarazzo. «Siete sicuro che sia una buona idea?»
Meccorin sorrise. «Capisco le vostre perplessità, messer Howt. Ma sarebbe un atto ben più grave non cercare di fermare con ogni mezzo i nostri avversari.»
L'altro lo guardò finalmente negli occhi, in un moto di coraggio. «Non sono miei avversari» ebbe l'ardire di rispondere.
Meccorin bevve un sorso di Whisky. «Non personalmente, forse» ammise serio. «Ma sono nemici dell'Irlanda.» Si sporse verso l'altro, come per confidare un temibile segreto. «Secondo i miei informatori, O'Donnel e O'Neill possiedono una fonte di potere potentissima e hanno intenzione di scatenarla contro chiunque si opponga loro.» Meccorin non aveva mentito; non del tutto, almeno. Si vociferava che i due Conti nascondessero qualcosa, un potere magico straordinario, e Meccorin temeva che questo ulteriore punto di forza aumentasse la loro ascendenza sulla comunità magica. Non poteva permetterlo. I Deamundi dovevano essere la più influente famiglia d'Irlanda, senza rivali. Eliminare gli O'Donnel e gli O'Neill faceva parte del suo grande piano per diventare l'esponente di spicco della nobiltà e per poter sposare la sua Elizabeth. Con un solo colpo avrebbe raggiunto due obiettivi. E senza nemmeno sporcarsi le mani.
«Conte Deamundi...» borbottò Howt, ancora incerto. «Non esiste un altro modo...?»
«Dovete fidarvi di me, messer Howt.» Meccorin lo scrutò con i suoi profondi occhi blu. «È l'unico modo. L'unico modo per salvare l'Irlanda.»
Howt abbassò lo sguardo e diede un debole segno d'assenso con il capo. «Farò come dite» concesse alla fine.
Meccorin si rilassò. Il sorriso che gli increspò gli angoli della bocca fu il primo sincero che rivolse al suo interlocutore. «Non temete, messer Howt» aggiunse, allungando verso di lui il bicchiere di Whisky che non aveva nemmeno toccato. «Avrete la vostra ricompensa, per aver scelto la strada giusta. Dopotutto, con gli O'Neill fuori gioco, siete voi gli ultimi rimasti della schiatta di Tir Eoghain.» Meccorin fece una pausa strategica, poi concluse: «Conte Howt.»
La naturale ambizione dell'uomo gli fece sollevare gli occhi da terra quando si sentì chiamare con un titolo che non gli spettava. Non ancora, almeno. Fin tanto che ci fossero stati di mezzo gli O'Neill, il titolo di Conte era ereditato dai figli maschi primogeniti di quella famiglia; ma nel momento in cui la stirpe degli O'Neill fosse stata messa fuori gioco, il diritto di essere chiamati Conti passava naturalmente agli Howt.
Questo Hoser Howt lo sapeva bene. E lo sapeva bene anche Meccorin che aveva deciso di far leva su quel fattore, per convincere ulteriormente l'uomo a compiere fino in fondo il destino che aveva scelto per lui.
Howt chinò leggermente il capo in segno di commiato. «Non dovete temere, signor Conte» lo rassicurò prima di uscire dalla stanza. «La mia lealtà va all'Irlanda... e a voi.»
Meccorin sorrise. «Non avevo dubbi, messer Howt.» Ritornare all'uso del titolo che gli si confaceva era un modo sottile per ricordargli che quello di Conte avrebbe dovuto guadagnarselo. E Meccorin era abbastanza convinto che fosse più che altro quello il vero muovente che aveva spinto Howt ad aderire al piano per eliminare O'Donnel e O'Neill. Comunque fosse, era bene che compisse il suo dovere.
Prima di essere a sua volta eliminato.
La ritrovata solitudine di Meccorin non durò a lungo. Dopo pochi minuti che Howt se n'era andato, il suo elfo domestico condusse nella stanza, attraverso un'entrata secondaria, una donna altera dai bellissimi capelli rossi.
«Conte Meccorin.» Elizabeth si inchinò in una reverenza educata, ma le sue gote arrossate e il tono trepidante nascondevano una maggiore complicità di quanta non ne volesse ammettere quel gesto formale.
L'uomo le si avvicinò, le prese entrambe le mani e se le portò alle labbra, per un baciamano leggero e insieme appassionato. «Mia dolce Elizabeth» la salutò con voce calda. «Tutto sta procedendo secondo i piani.»
Gli occhi verdi di Elizabeth brillarono. «Anche con Howt?» domandò accorata.
«È stato qui poco prima di voi» confessò Meccorin. «E ha accettato di seguire il mio suggerimento.»
Elizabeth si lasciò sfuggire un sospiro, mentre gli occhi le si inumidirono. Il sorriso timido e speranzoso che le si disegnò sulle labbra era così stonato sul suo viso solitamente sprezzante, eppure la faceva apparire bella come una dea della mitologia norrena. «Signor Conte, siete un uomo meraviglioso» sospirò.
Meccorin le baciò nuovamente le mani, senza distogliere i suoi occhi blu da quelli verdi di lei. «Sono solo un uomo che sa come ottenere quello che vuole.»
Elizabeth si beò di quello sguardo. Ce l'aveva fatta, ormai era suo. Sapeva che erano destinati uno all'altra, l'aveva saputo fin dal primo momento in cui l'aveva ammirato, il primo giorno di scuola al Trinity, nella sua divisa rossa dei Nagard, con la coccarda da dictator e quello sguardo cupo riservato alle nuove reclute della casa. Le sue compagne l'avevano presa in giro: le dicevano che non era altro che una sciocca infatuazione di una ragazzina per il bel nobilotto tenebroso di turno. Ma quelle non potevano capire. Elizabeth si era innamorata del conte Deamundi, non come una dodicenne alla sua prima cotta, ma come un'anima che riconosce la sua simile e capisce di voler passare tutta l'eternità insieme. Solo tra le sue braccia forti sarebbe stata felice e al sicuro, solo guardando attraverso i suoi occhi blu avrebbe potuto scorgervi il loro futuro, solo con la mano stretta nella sua sarebbe andata avanti nel cammino. Erano destinati a stare insieme.
Così però non la pensava il resto della società magica. Rory O'Donnel, per esempio, suo coetaneo al Trinity, che aveva sempre schernito i suoi vani tentativi di essere all'altezza del Conte Deamundi. Per O'Donnel lei non era altro che una vipera, una languida arrivista che, in virtù del suo aspetto grazioso e degli abiti costosi, pensava di poter attrarre nella sua rete chiunque potesse esserle utile nella sua scalata sociale. Anche suo padre Alvar le aveva pazientemente spiegato che in nessun caso avrebbe potuto concedere la sua mano al figlio di un Conte, mentre Cassian Deamundi aveva costretto Meccorin a sposare una donna nobile. Ma Elizabeth non aveva intenzione di cedere, soprattutto non ora che lui era rimasto vedovo; l'amore che li legava era assoluto, totale e non ammetteva ripensamenti. Elizabeth aveva capito che se lui non poteva abbassarsi al rango della plebe, si sarebbe innalzata lei a quello della nobiltà. Dopotutto, suo padre Alvar era diventato ricco più di molte famiglie della nobiltà stessa e la loro schiatta era pura almeno quanto le otto aristocratiche. Era tempo che il Nobile Consiglio ammettesse la purezza della schiatta di Mael Duib. Se le schiatte dovevano essere necessariamente otto, bene, significava che era tempo di eliminare qualcuno per permettere alla sua di essere elevata al rango dell'aristocrazia.
Lei era come il simbolo che si era fatta disegnare sullo stemma degli O'Brian. Lei era una torre, forte, determinata e resistente a qualsiasi colpo. Lei era la torre del gioco degli scacchi, non uno dei pezzi fondamentali, non quello che si cerca di salvare fino alla fine, ma il pezzo con la forza maggiore e il cui potenziale è spesso sottovalutato. Anche i suoi avversari avevano fatto l'errore di sottovalutarla.
Girava voce che le famiglie O'Donnel e O'Neill fossero in accordo da secoli perché condividevano un segreto terribile, come se fossero i custodi di un qualche potere ancestrale. A Elizabeth non importava il motivo per cui le due stirpi fossero sempre state vicine e associate tra loro: se anche fosse stato vero che custodivano un potere nascosto, pure lei aveva qualche dote di cui gli altri non si erano mai accorti. Era scaltra e soprattutto determinata a vincere. Avrebbe buttato fuori dalla nobiltà Rory O'Donnel, con quel suo faccino perbene da purosangue, così forse avrebbe smesso di guardarla dall'alto in basso. E visto che la sua famiglia era legata da qualche patto segreto a quella degli O'Neill, la stessa sorte sarebbe toccata anche a quel vecchio rompiballe di Hugh O'Neill. Meccorin aveva insistito per metterli fuori gioco entrambi. Elizabeth sospettava che quella scelta andasse oltre la possibilità di liberare una schiatta nobile per permettere l'ascesa sociale agli O'Brian: probabilmente aveva colto al volo l'opportunità di sbarazzarsi di due avversari con colpo solo. Dopotutto, era innegabile che l'antichità e il prestigio delle famiglie O'Donnel e O'Neill frenasse parecchio l'egemonia cui i Deamundi aspiravano da tempo.
A Elizabeth non importava. Per lei era sufficiente dimostrare il suo valore, elevare la sua famiglia al rango della nobiltà e soprattutto avere la possibilità di sposare Meccorin.
Quella sera, quando tornò a casa, trovò sua madre affaccendata in cucina. Non un elfo domestico si era presentato alla porta di casa O'Brian, per quanto la famiglia fosse diventata mediamente più ricca di qualsiasi altra stirpe nobile. Loro erano solo dei plebei.
Per poco ancora.
«Madre» salutò Elizabeth, entrando in cucina. «Come sta mio padre?»
La donna le lanciò uno sguardo compassionevole. «Quest'oggi non è riuscito ad alzarsi dal letto» confessò a malincuore.
La frase non era ancora finita, che già Elizabeth si era catapultata fuori dalla cucina. Salì le scale che portavano al piano di sopra due gradini alla volta, l'ampia gonna sollevata più di quanto una nobildonna per bene potesse permettersi. La stanza da letto di suo padre era buia e maleodorante di pozioni curative. Elizabeth si avvicinò al capezzale per accarezzargli una guancia, ma bastò quel semplice gesto a svegliare il vecchio mago.
I suoi occhi erano offuscati, il viso pallido e stravolto, eppure riuscì ad accennare un sorriso quando riconobbe la figlia. «Bambina mia» sussurrò, tendendo la mano verso di lei.
Elizabeth afferrò la mano del padre tra le sue. «Non sono più una bambina, ormai.» Sospirò, nel vedere come la malattia avesse consumato quell'uomo un tempo energico e pieno di vita.
Suo padre chiuse gli occhi, con un sorriso. «Sei una donna, lo so.»
«Una donna che sta per sposarsi» rivelò Elizabeth. Il medico aveva detto che Alvar O'Brian non sarebbe vissuto ancora a lungo, per cui era giunto il momento di rivelargli qualche dettaglio del piano. Almeno se ne sarebbe andato con la consapevolezza che ai suoi figli era riservato un futuro grandioso.
«Con chi ti sposi?» si informò il padre, come se fosse consapevole di non aver concesso la sua mano a nessun pretendente.
Elizabeth si sedette sul bordo del letto. «Con l'uomo che amo da sempre» rispose. «Il Conte Deamundi.»
Alvar si mosse tra le coperte, in difficoltà, come se cercasse di mettersi a sedere ma fosse troppo debole per quell'operazione. «Elizabeth...» mormorò alla fine, in un soffio di fiato.
«Non dovete temere, padre. So cosa stavate per dirmi: che non è alla mia altezza.» Il volto di Elizabeth si contrasse in una smorfia. «Non per molto ancora.» Una vena di preoccupazione attraversò gli occhi del vecchio malato.
La figlia strinse ancora più forte la mano di lui tra le sue. «Non dovete temere» ripeté. «Nessuno più ci guarderà dall'alto in basso, nessuno più ci dirà che qualcosa non è alla nostra altezza, che siamo solo gente di popolo arricchita. Presto la nostra schiatta rientrerà fra quelle nobili e gli O'Brian saranno chiamati Conti di Mael Duib.» La voce di Elizabeth si fece più forte, determinata e frenetica per l'emozione. «Vostra moglie diventerà una nobildonna riverita e onorata da tutti, io sarò una dama d'alto rango e potrò sposare il Conte Deamundi e dargli un erede in cui scorrerà il sangue degli O'Brian, il vostro sangue.»
Alvar cominciò a piangere, grosse lacrime silenziose che gli attraversavano il volto ormai pallido e incavato. Da qualche parte, era certo che la vita lo stesse abbandonando. Con la poca forza che gli restava in corpo, strinse la mano della figlia.
«Padre.» Anche il viso di Elizabeth venne attraversato da calde lacrime. «Padre, gli O'Brian avranno un nome rispettabile, saranno guardati con rispetto nella comunità magica.»
Alvar fu colpito da un fremito, una fitta di dolore che lo costrinse a contrarre il viso in una smorfia e che gli scosse tutto il corpo.
«Padre...» Ormai Elizabeth piangeva come una bambina. «Vostro figlio Stephen si sposerà non appena avrà finito il Trinity e darà avvio ad una stirpe fiera e orgogliosa. I vostri discendenti erediteranno da voi la determinazione, la forza e la fierezza. E avranno tutti i vostri occhi.»
Alvar O'Brian allungò la mano sinistra verso il volto della figlia per accarezzarlo un'ultima volta, ma un ultimo spasimo lo colse e il braccio ricadde inerte sul letto. La vita lo aveva abbandonato.
Elizabeth si portò alle labbra la mano che ancora stringeva tra le sue, per un bacio umido di lacrime. «Tutti gli O'Brian avranno i tuoi occhi» promise al padre ormai sordo nella morte. «Tutti gli O'Brian avranno tuoi occhi verdi.»









Buongiorno a voi!
Come promesso, questo capitolo è stato un po' dedicato ai "cattivi" della storia... ma scommetto che ora vi sembrano un po' meno cattivi. Il personaggio di Meccorin è stato il più sofferto: era nato come perfido calcolatore, un po' golpe un po' lione alla maniera Machiavelli, ma mi sono detta che questa caratterizzazione mi ricordava già qualcuno... tipo McPride? Già. Così ho pensat di farne un nobile ancorato ai suoi ideali di purezza... ma così veniva una copia sbiadita dell'attuale conte Deamundi. L'idea per inserire un elemento umanizzante come il suo amore per Elizabeth mi è venuta all'improvviso. Così sarebbe diventato un cattivo più originale: tutto preso dalle sue macchinazioni per eliminare gli avversari, ma mosso non solo dall'ambizione bensì anche dall'amore. Spero vi sia piaciuto!
Quanto a Elizabeth, è un po' una vipera, come crede Rory O'Donnel, ma anche lei ha i suoi perché: borghesia arricchita che aspira alla nobiltà, certo, ma anche l'amore che la lega a Meccorin. La morte del padre mi è servita come tocco finale per rompere qualsiasi indugio nell'attuazione del piano: in un certo senso, ora Elizabeth vuole anche rendere onore alla memoria del padre. n.b. ovviamente sarà Stephen O'Brian, fratello di Elizabeth, il capostipite di una stirpe di maghi dagli occhi verdi! I cui discendenti, immagino, rendano piuttosto fieri gli antenati! ;)
Per questa volta, solo un paio di immagini:
QUI il castello dei Deamundi.
QUI l'immagine del capitolo, ovvero Meccorin Deamundi, sua figlia Abaigeal e ovviamente Elizabeth, in tutto il loro splendore Seicentesco!

Del prossimo capitolo ho scritto circa mezza pagina, quindi in linea di massima aggiornerò fra 3 settimane, venerdì 7 novembre.
Alla prossima,
Beatrix B.

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Capitolo 10
*** Regalo di Natale ***


CAPITOLO 10
Regalo di Natale






Reammon sorseggiava accigliato il suo caffellatte mattutino. La sua casa non era mai stata così in ordine: per forza di cose, era da un mese che non poteva più lavorare! Il Governo aveva imposto delle leggi severissime sull'importazione di qualsiasi cosa, perfino dei reperti archeologici. Per non parlare del fatto che uscire ed entrare dal paese era diventato praticamente impossibile, visto che l'autorizzazione andava chiesta un mese prima e comunque non era detto che la concedessero. Era stata la morte dell'archeologia, la morte del suo lavoro. Non c'erano più pezzi di vasi abbandonati per casa, antichi arazzi distesi sul divano o spade arrugginite sul tavolo da pranzo. La villetta a schiera era stranamente ordinata, anonima. E Reammon particolarmente accigliato.
In quel momento, qualcosa picchiò alla finestra della cucina. Reammon si affrettò ad aprirla, per permettere al gufo postino di entrare a scaldarsi. Fuori ancora non nevicava, ma il tempaccio di inizio dicembre si faceva sentire. Reammon slegò dalla zampa dell'animale la copia del Corriere del Mago che aveva preso l'abitudine di farsi mandare a casa e gli permise di acquattarsi davanti alla stufa per scaldarsi un po'.
«Vediamo che ha combinato il Governo, oggi» commentò ad alta voce, srotolando la copia del giornale. Quando lesse il titolo in prima pagina, per poco non sputò il caffellatte che aveva bevuto: il Parlamento aveva approvato la proposta del Governo sul Censimento dei Nati Inglesi. Ora era legge. Ora ogni Nato Inglese, compresa sua figlia, avrebbe dovuto registrarsi presso gli uffici del Governo, come un fuorilegge qualunque.
Era follia. Pura follia.
Reammon afferrò al volo la sua bacchetta – con la casa così in ordine aveva smesso di perderla in giro... o almeno la perdeva meno spesso di prima – e uscì furioso di casa, dimenticandosi del povero gufo postino davanti alla stufa (e infatti avrebbe trovato al suo ritorno una bella ordinanza d'accusa per Sequestro di Gufo Postale, sanabile con la restituzione dell'animale e il pagamento di una multa parecchio salata).
Sulla porta di casa, per poco non si schiantò contro un signore che gli si era appena materializzato davanti. Lo riconobbe ancora prima che questi smettesse di girare. «Non provare a fermarmi, papà.» Il suo tono di voce non era mai stato così tagliente.
«Reammon...» provò il vecchio Aaron, la voce spezzata dal dolore. «Ti prego, non fare idiozie.» Conosceva bene suo figlio e temeva che la notizia dell'approvazione della legge sul Censimento potesse indurlo a compiere qualche scemenza.
Reammon si allontanò di qualche passo. Il suo volto era una maschera di pietra. «Non sono idiozie. Questa è giustizia.» E poi piroettò su se stesso e si smaterializzò.
Piazza del Controllo a Dubh Cliathan era affollata e caotica. Il Palazzo del Governo era preso d'assalto. Reammon, rabbrividendo per il freddo (aveva infatti lasciato il mantello di lana a casa), si infilò tra la folla, sgomitando per arrivare davanti e capire cosa stesse succedendo, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu quella di infiltrarsi su un lato per avere una scarsa visuale dell'ingresso. C'erano alcune persone con l'aria smarrita che venivano invitate ad entrare nel Palazzo dai Tiratori Scelti; dovevano essere i primi Nati Inglesi che si presentavano per il Censimento. Altri Tiratori Scelti tenevano a bada la folla che gridava e lanciava imprecazioni contro i Nati Inglesi. Ad un certo punto, partirono addirittura delle uova marce: alcune si infransero sui gradini di marmo dell'ingresso, ma uno centrò in pieno una ragazza che scoppiò a piangere. Reammon sentì la rabbia montargli in corpo, assetato di una giustizia fatta col sangue. Spintonò la folla per raggiungere la prima fila, la bacchetta levata davanti a sé.
«Ehi, amico, vuoi fare un tiro?»
Reammon fu costretto a fermarsi, perché il tizio che gli aveva parlato se ne stava accucciato in terra con le gambe incrociate proprio davanti a lui. Aveva le palpebre semichiuse e l'aria beata, ma la prima cosa che attirava l'attenzione erano i capelli biondo sporco arricciati in una miriade di rasta che arrivavano fino in terra. Reammon balbettò. «Scusa?»
«Dico, vuoi un tiro?» ripeté il tizio, allungando una pipa verso di lui. «È roba buona, eh...»
«No, g-grazie...» mugugnò Reammon, troppo scioccato per dire qualcosa dotato di senso.
«Noi protestiamo contro il Governo, eh» continuò il rastone. «Perché le leggi sono sbagliate e ognuno dovrebbe essere libero di esprimesi come vuole, eh.»
Reammon sgranò gli occhi. Lui era un tipo strano e ne aveva viste di cose strane nella sua vita, ma il gruppo di maghi anarchici gli mancava. «Ok, ehm... ottimo» rispose con un sorriso di circostanza. Al di là dell'assurdità della situazione, il tizio con la pipa aveva avuto un effetto benefico: aveva fatto sgonfiare la sua rabbia come un palloncino buco e gli aveva impedito di fare qualcosa di veramente stupido.
Per fortuna.
Ma il tutto durò veramente poco, perché sulla scena comparve una delle persone che Reammon odiava di più al mondo: Scipio Diablaiocht. Appena uscito dal Palazzo del Governo, scortato da due Tiratori Scelti, se ne stava ritto in piedi a controllare con i suoi occhietti perforanti che tutto filasse liscio. La rabbia repressa di Reammon riesplose in superficie come un vulcano. Erano passati i tempi in cui Reammon si divertiva a prendere in giro l'altezzoso Diablaiocht fingendo che fossero amici di vecchia data, ogni volta che andava nel suo ufficio per fare il catalogo dei reperti archeologici che introduceva in Irlanda. Ora, per colpa di quell'uomo, un lavoro non ce l'aveva più e il Governo aveva preso una svolta dichiaratamente razzista, sotto le pressioni dell'EIF, di cui Diablaiocht faceva segretamente parte. Ora tutto il suo odio era riversato contro Diablaiocht e il sistema che rappresentava.
«TU!» Reammon scavalcò il rastone a terra, la bacchetta puntata in avanti. «Tu! Levati quella smorfia soddisfatta dalla faccia!»
Diablaiocht si voltò verso di lui e gli riservò uno sguardo di pura commiserazione. «Ti stai mettendo nei guai, Boenisolius» commentò piatto.
«Non mi importa!» Reammon era fuori di sé. «Prima mi hai portato via il lavoro, ora vuoi portarti via anche mia figlia! Tutto questo è follia, pura follia! Queste leggi sono folli!»
I Tiratori Scelti si accorsero di quel pazzo furioso e sfoderarono immediatamente le loro armi, circondandolo. Reammon non se ne curò. Non gli importava più di nulla, voleva solo far sentire la sua voce, gridare a tutti quanto fosse assurdo quel Censimento, quanto l'Irlanda stesse cadendo in un baratro d'odio e di razzismo. La gente doveva rendersene conto.
«Abbassa la bacchetta o ti faccio arrestare» gli ordinò Diablaiocht, teso. Non voleva che scoppiasse una qualche baruffa tra Tiratori e manifestanti: sarebbe stata una pessima pubblicità per il Governo.
«NO!» gridò Reammon. «Dovete starmi a sentire, tutti quanti!» Si rivolse verso la folla di sostenitori del Governo. «Questa legge è una pura follia! State legittimando un Governo razzista solo perché avete paura di chissà quale attacco. Questi maghi e streghe che state costringendo ad un censimento barbaro e disumano sono cittadini irlandesi come voi! E la nostra Costituzione vieta che qualcuno sia discriminato per le sue origini!»
«Stai zitto!» urlò qualcuno dalla folla.
«Fai schifo!»
«Lurido sasanachfuil!»
«Sei un sostenitore dei Mangiamorte!»
Altre grida si levarono verso il cielo, qualcuno tirò fuori la bacchetta, il rastone e i suoi compagni si prepararono a tirare pietre contro i manifestanti, mentre i Tiratori Scelti tentarono insieme di proteggere Diablaiocht e di impedire che si scatenasse il peggio.
«Boenisolius, abbassa quella bacchetta!» latrò Diablaiocht, da qualche parte alle sue spalle.
Reammon strinse la presa sulla sua arma. Non aveva intenzione di cedere, dimostrando così che non era disposto a combattere per difendere le proprie idee. Proprio in quel momento, qualcuno si materializzò in mezzo al gruppo. Reammon ci impiegò parecchi secondi a realizzare chi fosse: ampia stempiatura e mantello da mago di un improponibile color malva scuro. Suo padre Aaron.
«Questa stupida baruffa è finita.» Il suo tono non era mai stato così deciso. Di solito era la moglie Josephine che faceva rispettare le regole in casa, mentre Aaron se ne stava tranquillo a fumare la pipa davanti al caminetto, quasi messo da parte dall'ingombrante carattere di Joey. Quella volta, invece, ebbe l'incredibile effetto di congelare la situazione. Forse perché nessuno si aspettava l'energica comparsa di un vecchietto con gli occhiali di corno che mettesse tutti a tacere.
«Reammon, andiamo via.» Nessuno si oppose a quell'ordine, né i sostenitori del Governo che volevano gambizzarlo, né i Tiratori Scelti che l'avrebbero voluto arrestare. Aaron si voltò verso il figlio tra il silenzio generale, lo afferrò per un braccio e si smaterializzò.

Edmund si catapultò fuori dalla sala comune dei Raloi per andare incontro a Mairead. Aveva appena terminato la sua prima lezione di Occlumanzia con la professoressa Sidera O'Elan, quando aveva scoperto, tornando in sala comune, che il Parliamint aveva approvato la legge sul censimento dei Nati Inglesi. Doveva assolutamente parlare con Mairead.
Se la ritrovò di fronte quando raggiunse l'ingresso. Aveva le guance arrossate per il freddo, la sua Nimbus sulla spalla e il volto mesto. «Mairead» la chiamò Edmund, facendosi incontro. «Ho saputo.»
La ragazza alzò le spalle. «Già.»
«Come ti senti?» indagò Edmund, per quanto sapesse che la domanda era piuttosto stupida.
Mairead fece una smorfia. «Sono andata a volare per scaricarmi un po'.»
Edmund capì immediatamente che le parole non sarebbero servite, tanto più che lui era pessimo quando si trattava di consolare la gente, per cui agì d'impulso. Gettò le braccia intorno al collo di Mairead e la strinse in un abbraccio. «Troverò il modo di proteggerti, te lo prometto.»
La ragazza rimase spiazzata per una frazione di secondo, poi ricambiò l'abbraccio. In fin dei conti, quella stretta le infondeva un piacevole tepore; per non parlare del fatto che Edmund profumava di buono. Non se n'era mai accorta.
Quando si separarono, Edmund aveva le gote arrossate per l'imbarazzo. «Scusa» farfugliò.
Mairead gli sorrise. «Non devi affatto scusarti» lo rassicurò. «Mi ha fatto bene un po' di calore.»
Edmund accennò ad un sorriso imbarazzato, quando si accorse di un aeroplanino di carta che planò verso di loro e prese a volteggiare sulla testa della sua amica. Lo indicò perplesso, ancora troppo imbarazzato per proferire parola.
Mairead alzò gli occhi, seguendo il dito di Edmund, finché non individuò l'aeroplano che ronzava sulla sua testa. Lo afferrò con un piccolo salto e lo aprì sotto lo sguardo attento del suo amico. Una grafia minuta e un po' sgraziata aveva steso poche righe, che la invitavano a recarsi presso l'ufficio del preside. Mairead guardò incerta il suo amico. «È un richiamo in presidenza» spiegò.
Edmund spiò il foglietto. «Quella è la scrittura di Captatio» commentò, riconoscendo la grafia. Dopodiché tornò a guardare l'amica e si strinse nelle spalle.
Mairead gli mise la sua Nimbus tra le mani. «Portamela in sala comune, per favore.» Qualsiasi cosa volesse il preside da lei, non era il caso di farlo aspettare. Salutò l'amico e tornò sui suoi passi, verso l'ufficio di Captatio, quando vide uscire dalla Sala Mor Henry, con l'aria sconvolta e preoccupata insieme.
«Ehi...» la salutò funereo. «Il preside mi ha appena convocato.»
«Anche a te?» domandò stupita Mairead.
Henry fu colto di sorpresa. Stava per chiedere qualcosa, quando sopraggiunse Dominique con il fratellino Ismael: entrambi tenevano in mano un aeroplanino di carta.
«Vi ha convocati Captatio?» li anticipò Mairead, mentre venivano raggiunti anche da Samuel, il gemello di Ismael che era finito nei Raloi.
«Come lo sai?» chiese Ismael, sospettoso.
Mairead sventolò il suo aeroplanino. «Abbiamo ricevuto lo stesso invito.»
«Sarà per la legge su Censimento dei Nati Inglesi» arguì Dominique.
E, come al solito, dimostrò di avere ragione. Infatti, nel giro di qualche minuto, circa una quindicina di studenti si era radunata in segreteria, ai piedi della scala a chiocciola che conduceva all'ufficio di Captatio. Mairead riconobbe di vista alcuni che, proprio come lei, avevano un genitore inglese e avevano subito varie angherie da gruppi sanguinisti, durante tutti quegli anni. Altri, però, avevano l'aria di non sapere perché il preside li avesse convocati.
«Ben arrivati.» Il professor Captatio comparve proprio in quel momento sulla cima della scala a chiocciola. «Salite tutti, vi prego.»
Mairead era stata poche volte nell'ufficio del preside, ma era certa che il mago vi avesse applicato un qualche incantesimo per renderlo più grande, altrimenti non ci sarebbero mai stati tutti. Anche perché lo studio era affollato e caotico esattamente come Mairead se lo ricordava. I ragazzi presero posto sulle sedie che Captatio aveva predisposto per loro e osservarono il preside con aria perplessa.
«Immagino che sappiate tutti il motivo per cui vi ho convocati.» Il tono del preside era mortalmente serio: era raro che l'allegro Captatio usasse quel tono. Il mago lo squadrò con attenzione uno a uno. «Oggi il Parlamento ha approvato la legge sul Censimento dei Nati Inglesi. Hanno intenzione di registrare le vostre bacchette magiche, in modo da venire a sapere ogni volta che compirete una magia.»
Un ragazzo dei Raloi, che doveva essere al terzo o quarto anno, alzò la mano, ma non attese che il professore gli desse la parola. «Signore, io cosa c'entro con tutto questo?» domandò perplesso.
«Un ottavo di sangue inglese» rispose prontamente Captatio. «Questo è stato scelto come metro di giudizio per la classificazione dei cosiddetti “Nati Inglesi”.» Mimò le virgolette intorno alle parole “Nati Inglesi”, per dimostrare quanto ritenesse assurda quella pretesa.
Il ragazzo storse il naso. «Vuole dire che io sono considerato un sasanachfuil per il fatto che mio nonno Sam era Inglese?» chiese incredulo.
Captatio annuì. «Temo di sì, Alan.»
«Ma mio nonno è morto prima che io nascessi!» protestò Alan, con veemenza. «Non l'ho mai conosciuto! Io sono nato e cresciuto qui, sono Irlandese!»
«Per me lo siete tutti, ragazzi miei. Ma non è così che la pensa il Governo.» Il preside sembrava davvero dispiaciuto, come se fosse in qualche modo lui il colpevole della situazione in cui si trovavano.
Mairead si rese conto che non c'erano molte soluzioni, ma forse Captatio non li aveva convocati solo per dire loro quello che era successo. Forse aveva un asso nella manica. «Che cosa possiamo fare?» domandò speranzosa.
Captatio le rivolse un sorriso. «Fin tanto che sarò preside di questa scuola, non un agente del Governo metterà piede al Trinity. Finché resterete qui, sarete al sicuro perché vi proteggerò da questa assurda legge razzista» disse loro con decisione. «Per questo motivo, vi consiglio di organizzarvi in modo da passare a scuola le prossime vacanze di Natale.»
Un brusio si alzò dagli studenti, in particolare da parte dei più giovani, che aspettavano in grazia le vacanze per riabbracciare genitori e parenti, dai quali erano stati lontani per mesi.
«E quando sarà finita la scuola, signore? Che faremo?» domandò tremante una ragazzina dei Llapac.
Per un attimo gli occhi azzurri di Captatio furono attraversati da un barlume di tristezza, ma subito tornò a sorridere. «Per allora avrò trovato una soluzione, ve lo prometto.»
«Per noi non dovete preoccuparvi, signore» intervenne Dominique con sicurezza. «Io e i miei fratelli, in quanto abitanti dell'Ulster, siamo cittadini Inglesi e il Governo irlandese non può obbligarci a fare alcun censimento.»
Captatio annuì. «Molto bene, Dominique. Ma non contate troppo sulla vostra cittadinanza inglese per ritenervi al sicuro.» Il preside li guardò nuovamente uno ad uno. «Se non avete altre domande, siete congedati.»
Mairead sospirò. «Finirà mai, signore?» si sentì chiedere, come se quella voce sconsolata non appartenesse a lei.
Captatio le rivolse un sorriso triste. «Me lo auguro.»
I ragazzi lasciarono la presidenza con il morale a terra. Certo, Captatio aveva promesso loro che, fintanto che fossero rimasti a scuola, sarebbero stati al sicuro dal Censimento, ma non avrebbero potuto evitare il problema per sempre. E quello sembrava solo la punta dell'iceberg di future leggi anche più razziste.
In ingresso si erano radunati alcuni ragazzi del FIE: Edmund, Laughlin, Bearach, Moira, Dedalus e Faonteroy. L'unico allegro era Bearach, ancora eccitato per la partita di sabato scorso in cui aveva afferrato il Boccino con una presa spettacolare e aveva portato i Nagard alla vittoria contro i Llapac.
Moira si fece incontro a Henry e lo strinse in un abbraccio.
«Ehi...» Laughlin mise una mano sulla spalla di Mairead. «Ci saremo sempre noi al vostro fianco.»
La ragazza si concesse un sorriso. «Lo so, Laugh. Non potrei sopravvivere senza le tue battutine idiote.»
Laughlin sfoderò la sua migliore faccia strafottente. «Lo so! Sono incredibilmente indispensabile!»
«E modesto!» replicarono in coro i ragazzi del FIE.
Ogni altra battuta distensiva fu bloccata dall'arrivo in ingresso del terzetto Diablaiocht, Best e O'Hara. L'atmosfera si raggelò all'istante. La Diablaiocht aveva stampato in faccia il sorriso più fastidioso dell'universo. «Mio papà mi ha raccontato quello che è successo stamattina in Piazza del Controllo» buttò lì, piantando i suoi derisori occhi scuri su Mairead.
«Non mi interessa» replicò la ragazza, consapevole che non sarebbe stato nulla di simpatico.
«Dovrebbe.» La Diablaiocht le rifilò un sorrisetto odioso. «Ha a che fare con tuo padre.»
«Lasciala perdere» intervenne Edmund, prendendo Mairead per le spalle e cercando di condurla via.
«La folla l'ha quasi gambizzato!» gridò loro dietro la Diablaiocht, che non voleva per nessuna ragione lasciarsi sfuggire l'occasione di stuzzicare un po' la sua avversaria.
Mairead si bloccò in mezzo all'ingresso. «Cosa hai detto?» sibilò voltandosi.
L'altra sfoderò un sorrisetto malizioso. «Sai, pare che si sia messo a protestare contro la legge sul Censimento e per poco non è stato travolto dalla folla inferocita...» Sembrava quasi che l'idea la divertisse. «A proposito – continuò, – che bel regalino di Natale che ha fatto il Governo a voi sasanachfuil!» In meno di un secondo, una decina di bacchette vennero sfoderate e puntate contro la Diablaiocht.
«Ripeti quello che hai detto» la sfidò Edmund, proteggendo Mairead dietro di sé, come un cavaliere senza macchia e senza paura avrebbe fatto con la sua damigella.

«Che sta succedendo qui?» intervenne la voce imperiosa della professoressa O'Connel. La Diablaiocht le rivolse un sorriso innocente. «Nulla, professoressa.»
I ragazzi del FIE furono costretti ad abbassare le bacchette, mentre osservavano impotenti la Diablaiocht con la O'Hara e Best che li superavano, per recarsi verso i dormitori. Nel passare al fianco di Mairead, la Diablaiocht fece un cenno col capo. «Comunque, buon Natale!»









Buongiorno a tutti!
Scusatemi per questo giorno di ritardo, ma ieri sono stata un po' impegnata e non sono riuscita a preparare il capitolo!
Comunque, la legge sul Censimento è passata all'approvazione. Il clima di razzismo è ormai alle stelle. Da notare che "un ottavo di sangue" (ovvero, almeno un nonno) è lo stesso metro di gidizio utilizzato da Hitler per definire chi fosse ebreo: almeno un nonno ebreo... ogni riferimento è PIÙ che puramente casuale!
Quanto a Reammon, lo so che le scene con lui come protagonista finiscono per essere sempre un po' tragicomiche, ma a parte qualche cosa buffa iniziale (tipo il gufo chiuso in casa o il rastone che fuma), ho cercato di rendere il momento abbastanza tragico. La stupida impulsività di Reammon è il suo marchio Raloi. Mentre la comparsa di papà Aaron era meditata da tempo: insomma, l'adorabile vecchietto ha sempre avuto poco spazio, vista l'ingombranza della moglie, per cui era giusto che fosse dedicata qualche riga anche a lui! *-*
Infine, Captatio terrà i ragazzi al sicuro... almeno fin tanto che sarà preside... oh-oh...!

Ora qualche immagine:
QUI Piazza del Controllo, con il Palazzo del Governo;
QUI un'immaginetta veloce che rappresenta Ailionora, Scipio, Aaron e Reammon;
QUI invece l'immagine del capitolo: l'abbraccio tra Mairead e Edmund! Che cari!

Il prossimo capitolo sarà venerdì 28 novembre!
Alla prossima,
Beatrix B.

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Capitolo 11
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CAPITOLO 11
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Si respirava un'aria forzatamente natalizia a Dubh Cliathan. Sembrava che la gente volesse affogare nel Natale tutte le preoccupazioni e i pensieri cupi per ciò che stava succedendo. Erano state appese decorazioni in ogni negozio, festoni enormi attraversavano da parte a parte le strade, lucciole e fatine illuminavano vetrine e finestre. Maghi e streghe di ogni età, imbacuccati in sciarpe e mantelli, affollavano le botteghe alla ricerca del regalo perfetto per amici e parenti. In Piazza del Controllo, un gruppo di ragazzini aveva fatto un pupazzo di neve a fianco della statua di Zaocoonte O'Saoirse, il liberatore dell'Irlanda magica, e qualche adulto l'aveva incantato perché cantasse canzoni natalizie.
Adolphus McPride non odiava il Natale, ma non riusciva a sopportare tutto quel buonismo che ci ruotava attorno. L'essere più buoni, il regalarsi cioccolatini, fare l'albero in famiglia. Tutte grosse e terribili idiozie. Il Natale sarebbe dovuto restare una festa religiosa, in modo da eliminare tutte quelle banalità commerciali, quell'obbligo di essere più buoni, gli auguri finti e i regali per i dipendenti. Quante scemenze.
«Signor Presidente?» lo chiamò una voce titubante.
McPride smise di guardare fuori dalla finestra e si voltò verso il mago che aveva appena parlato.
«Sono quasi le sette di sera.» Il suo assistente sembrava a disagio. «Io andrei, se per lei non è un problema. Sa, è la Vigilia di Natale...»
«Vai pure, Angus» concesse McPride, con un cenno della mano. «Anzi, chiamami i Tiratori Scelti che adesso torno a casa pure io.»
Essere scortato fino a casa era una seccatura per un uomo come lui, abituato ad essere indipendente e a muoversi senza rendere conto a nessuno dei propri spostamenti, ma la situazione ormai lo richiedeva. Non che temesse di venir attaccato dai Mangiamorte o, ancora più ridicolo, da qualche sostenitore del FIE, ma la scorta era necessaria per mostrare che erano tempi difficili. Per fortuna, aveva convinto il Capo del Dipartimento della Difesa a poter lasciare i Tiratori Scelti fuori dal metrombino di casa sua. Aveva fatto l'Auror da giovane, sapeva come difendersi: non aveva bisogno delle balie che gli ronzassero intorno anche in camera da letto. Tanto meno alla Vigilia di Natale.
Quella sera tornò a casa con già nel naso il profumo della cenetta preparata dalla sua elfa Nelly. Avrebbe passato la Vigilia da solo e non se ne sarebbe rattristato, perché certamente Nelly aveva dato fondo a tutta la sua abilità culinaria per lenire la solitudine del suo padrone.
Ma non appena si ritrovò davanti alla porta di casa, un campanello d'allarme gli risuonò in testa. Era il suo sesto senso per i pericoli, che aveva fatto di lui un ottimo Auror, ai suoi tempi. Dalla cucina non proveniva nessuna luce, né si sentiva lo spadellare tipico di chi è alle prese con la preparazione della cena. La casa era avvolta nel silenzio.
McPride estrasse la bacchetta dalla tasca del mantello e, tenendola puntata davanti a sé, si avvicinò al portone d'ingresso che, quasi a conferma dei suoi timori, era socchiuso. Entrò cauto, senza accendere alcuna luce. «Homenum revelio» sussurrò piano, ma non successe niente. O gli intrusi erano dannatamente scaltri, oppure non c'era davvero nessuno. Solo allora si accorse di un pigolio soffocato proveniente dalla cucina, come se qualcuno stesse piangendo piano, nel tentativo di non farsi sentire. «Lumus» si azzardò McPride, dirigendosi verso la porta a destra. Il lamento proveniva dall'armadietto sotto il lavandino. McPride si accucciò e lo socchiuse, certo di cosa vi avrebbe trovato dentro. «Nelly, vieni fuori.»
Due enormi occhioni lacrimosi si puntarono su di lui. «P-p-padrone» balbettò l'elfa. «Se ne sono andati?»
«Non c'è nessuno in casa oltre a noi» la rassicurò placido McPride, per quanto fosse avido di scoprire cosa diavolo fosse successo. «Ora vieni fuori.»
Nelly ci mise qualche secondo ad annuire, ma alla fine strisciò fuori dal suo nascondiglio.
«Perché non ti siedi e bevi un bel tè caldo?» la invitò McPride, agitando la bacchetta una prima volta per far accendere le luci della cucina e poi per far apparire una teiera e un paio di tazze. «Così mi spieghi cosa è successo.»
L'elfa esitò. «Nelly è tanto spaventata, padrone, ma Nelly non si può sedere a bere un tè col padrone da pari a pari.»
McPride fu tentato per un attimo di mettere da parte i modi gentili che facevano così presa sugli umani per passare alle maniere forti, ma alla fine decise di mantenere la rotta. «Non ti preoccupare, ti do io il permesso» la rassicurò con un sorriso.
Nelly si stropicciò le mani per un attimo, ma alla fine annuì e si mise a sedere al tavolo, con le gambine che dondolavano dalla sedia. Non si azzardò, però, a toccare la tazza di tè.
«Allora, Nelly, che cosa è successo?» McPride si inginocchiò davanti a lei e la guardò dritta negli occhi.
«Loro sono arrivati, padrone, e hanno spalancato la porta...» cominciò l'elfa, con il labbro tremante e il naso che gocciolava.
«Loro chi?»
L'elfa pigolò e scosse la testa. «Nelly non lo sa, Nelly non ha mai visto nessuno così spaventoso.»
McPride si morse il labbro, meditabondo. «Com'erano vestiti?» indagò, sperando di ricavarne qualche indizio.
Nelly si stropicciò le mani. «Tutti neri, con una maschera bianca sul volto» rispose alla fine, soffocando un singhiozzo.
Mangiamorte.
McPride si alzò da terra, rapito dalla notizia, e cominciò a viaggiare con il pensiero. Perché i Mangiamorte erano venuti a casa sua? Cosa potevano volere da lui? Se lui fosse stato il Signore Oscuro, prima di tentare qualsiasi azione in Irlanda, avrebbe fatto in modo di avere sotto controllo l'Inghilterra. Non aveva senso prendere di mira lui, con Rufus Scrimgeour ancora in piedi a contrastare il suo potere. A meno che...
«Nelly, che cosa cercavano quegli uomini? Hai per caso sentito qualcosa?» domandò, tornando a voltarsi verso la sua elfa.
Quella alzò gli occhi su di lui, come se fosse terrorizzata dall'idea di rispondere.
«Hai sentito qualcosa?» le chiese ancora, certo che il suo silenzio valesse come risposta affermativa.
L'elfa annuì piano con il capo. «Cercavano un ragazzo» sussurrò alla fine. «Nelly crede che volessero il padroncino Edmund.»
McPride prese a fissare fuori dalla finestra un punto imprecisato dell'orizzonte. Per quale motivo i Mangiamorte cercavano Edmund? Certo, le doti del ragazzo erano straordinarie, ma tentare di eliminarlo era quanto meno prematuro e provare a portarlo dalla loro parte assolutamente ridicolo. Non ci era riuscito nemmeno lui, che non era un mago oscuro dedito a stragi e torture! Edmund si sarebbe fatto ammazzare piuttosto di entrare nelle fila dei Mangiamorte.
Ma, qualunque fosse il motivo per cui il Signore Oscuro volesse Edmund, era certo che sarebbero tornati a cercarlo. E lui avrebbe potuto sfruttare la cosa in svariati modi. Innanzitutto, nessuno doveva sapere cosa fossero venuti a cercare i Mangiamorte a casa sua: presentarsi alla nazione come vittima perseguitata dagli sgherri di Colui-che-non-deve-essere-nominato gli avrebbe fatto guadagnare compassione e apprezzamento; avrebbe unito i malumori contro il nemico straniero, che aveva osato attaccare il simbolo dell'unità irlandese, nonché l'unico uomo che sapesse opporsi con forza all'invasione. Sarebbe diventato un martire.
In secondo luogo, se i Mangiamorte fossero tornati, lui non si sarebbe fatto trovare impreparato. Forse avrebbe anche potuto catturarne qualcuno: sarebbe stata una magnifica pubblicità per il Governo.
McPride si voltò verso Nelly, ancora seduta con le gambe a penzoloni. «Non dire a nessuno quello che è successo, va bene?» le ordinò con fermezza.
«No, signor padrone» pigolò l'elfa.
McPride tornò a guardare fuori dalla finestra. Aveva cominciato a nevicare. «Molto bene» mormorò tra sé. Anche quella visita inaspettata dei Mangiamorte si era rivelata un utile contorno al suo grandioso piano.

Villa O'Brian era un luogo confortevole dove passare le vacanze di Natale. Childerich O'Brian, capofamiglia onorato e rispettabile, richiamava al castello i suoi due figli con le rispettive famiglie per trascorrere insieme il periodo natalizio. Teudilascius, sua moglie Areté e il figlio Faonteroy restavano per tutto il tempo delle vacanze scolastiche del ragazzo, mentre Grainne, il marito Giustinianus e il figlio Belisar venivano solo per il cenone della Vigilia. Non che la cosa spiacesse davvero, a Childerich: per quanto volesse bene alla figlia Grainne, il marito di lei era borioso e pieno di sé, convinto che solo lui sapesse fare le cose al meglio. Quanto a Belisar, uno scimpanzé con un parrucchino biondo sarebbe stato di maggiore compagnia. Non per niente, Childerich preferiva il periodo dopo le feste.
«Santo Stefano è il mio giorno preferito» sentenziò Childerich, seduto sulla poltrona davanti al caminetto a sorseggiare un bicchierino di Whisky Incendiario.
«Perché non c'è zio Giustinianus?» arguì Faonteroy. Se ne stava a gambe incrociate sul tappeto ad accarezzare il cane da caccia del nonno.
«Frequentare la nipote di Josephine ti ha affilato la lingua?» intervenne nonna Cornelia, che non aveva mai sopportato l'esuberante cugina del marito.
Childerich minimizzò, accarezzandosi i baffoni grigi. «Suvvia, tesoro. La ragazza Boenisolius è pur sempre di famiglia.»
«I miei amici sono tutte delle ottime persone» si sentì in dovere di precisare Faonteroy. «E non mi hanno traviato in alcun modo.» Forse la seconda affermazione non era del tutto vera, ma Faonteroy preferiva essere diventato un difensore della giustizia e della Costituzione Irlandese piuttosto che ritrovarsi a fare il leccapiedi come zio Giustinianus.
Proprio in quel momento, qualcuno suonò al campanello d'ingresso. I membri della famiglia O'Brian si scambiarono occhiate perplesse, come se ognuno volesse chiedere all'altro se stesse aspettando qualcuno.
«Vuoi che vada a vedere chi è, padre?» domandò Teudilascius, alzandosi dalla poltrona. Di solito se ne occupava il loro elfo domestico, ma visto che non aspettavano visite, sarebbe stato meglio andare a controllare.
Childerich annuì pensieroso.
Teudilascius allora si avviò verso l'ingresso, dove l'elfo aveva fatto entrare un giovanotto di bell'aspetto, con indosso un completo da mago dello stesso color turchese dei suoi occhi. Quando si accorse di lui, accennò un inchino rispettoso. «Buongiorno, signor O'Brian.»
«A lei» rispose Teudilascius, aggiustandosi sul naso gli occhialetti tondi.
«Sono Edmund Burke, signore, un amico di Faonteroy» si presentò il ragazzo. «È in casa?»
«Edmund?» domandò proprio in quel momento Faonteroy, appena apparso in ingresso. «Che ci fai qui?»
Il ragazzo fece saettare gli occhi in giro per l'ingresso, come a far capire che aveva bisogno di parlare in privato. «Devo chiederti un favore» si limitò a dire.
Faonteroy colse al volo il problema e condusse l'amico verso la sua stanza, dove avrebbero potuto discutere senza orecchie indiscrete in ascolto. «Ho cercato un po' di informazioni su Elizabeth O'Brian» spiegò Edmund, quando furono finalmente soli. «Ma non ho trovato nulla che potesse interessarmi. Però so che è tipo considerata la capostipite della tua famiglia, quindi ho immaginato che ci fosse almeno un suo ritratto nel castello... se potessi scambiarci due parole...»
Faonteroy gli lanciò un'occhiata di sbieco. «Edmund, è solo un ritratto» lo anticipò, perché non restasse deluso. «Non so cosa potrai ricavarne.»
Il ragazzo alzò le spalle, sconsolato. «È solo un tentativo.»
Faonteroy annuì, comprensivo. Dopodiché gli fece segno di seguirlo verso il salone delle udienze del castello, un'ampia stanza con il pavimento in legno e il soffitto a cassettoni e un'enorme camino in pietra lavorata. Appeso alla parete di fronte all'entrata, troneggiava lo stemma della famiglia O'Brian, una torre rossa in campo bianco, con il motto in latino scritto sotto, che recitava: etiam pereunt ruinae, anche le rovine crolleranno. La stanza era occupata da un grande tavolo rettangolare di legno scuro, corredato di scranni finemente intagliati. A destra e a sinistra dell'imponente camino, si trovavano gli unici due ritratti della stanza: uno raffigurava una donna dai lunghi capelli rossi, l'altro un giovinetto seicentesco, anche lui con capelli color del fuoco.
«Elizabeth e Stephen O'Brian» li presentò Faonteroy. «I due capostipiti della dinastia.»
Edmund annuì e si avvicinò cauto al quadro della donna. Aveva scoperto di non essere molto bravo a trattare con i nobili, per cui doveva stare attento se voleva sperare di ottenere una qualche informazione che gli fosse utile per la storia della Mela d'Oro. «Signora Elizabeth?» domandò con un mezzo sorriso. «Avrei bisogno del suo aiuto.»
La dama lo osservò con sguardo critico dall'alto della sua cornice. «Non sei un O'Brian, ragazzo» decretò senza che un'ombra di dubbio incrinasse le sue parole.
Edmund si trovò spiazzato. Per fortuna, Faonteroy lo affiancò per dargli il suo sostegno. «No, ma entrerà presto a far parte della famiglia» rispose con sicurezza. Poi sussurrò all'amico, in modo che la donna ritratta non lo sentisse: «Devi darle del voi.»
Edmund annuì brevemente per far capire che aveva afferrato.
Dopodiché Faonteroy si voltò nuovamente verso il quadro, con l'intento di rendere più credibile la sua bugia. «È il promesso sposo di mia cugina Mairead, una vera O'Brian.»
Edmund si voltò di scatto verso di lui, gli occhi sbarrati come se lo avesse appena sentito declamare in persiano antico. Fece per protestare di quell'assurdità – Mairead era sua amica, insomma! – quando pensò che per il bene di quella messinscena non era il caso di contraddire Faonteroy. «Io... sì, io volevo conoscere meglio la famiglia della mia futura moglie» buttò lì, anche se la sola idea di Mairead come sua promessa sposa gli suonava strana. Poi gli venne un'illuminazione. «E vorrei difendere gli O'Brian dalle accuse infamanti mosse dagli Howt» aggiunse, certo che far leva sull'orgoglio dei nobili fosse la mossa migliore per ottenere informazioni.
«Gli Howt?» replicò scandalizzata Elizabeth. «Cosa vuole quel leccapiedi di Hoser Howt?»
Vista la reazione della nobildonna, Edmund fu certo di aver schiacciato il tasto giusto. «Un suo discendente vi accusa di aver macchinato per strappargli il titolo.»
«Io?» Elizabeth sembrava offesa dalla semplice insinuazione di colpevolezza. «Affatto! Lui si rovinò con le sue stesse mani, complottando con gli Inglesi per eliminare Rory O'Donnell e Hugh O'Neill. Mio marito, semplicemente, lo denunciò al Nobile Consiglio, che decise di togliere il rango di nobiltà alla sua famiglia. Di conseguenza, scomparso O'Neill e rinnegato Howt, si liberò il posto di una schiatta, che fu preso da quella di Mael Duib» raccontò, senza nemmeno rendersi conto di essere stata manovrata. «E gli O'Brian divennero nobili.»
L'interesse di Edmund si fece più vivido, ma cercò di non mostrarsi troppo smanioso. «Perché Howt denunciò agli Inglesi O'Donnell e O'Neill? Chi erano?» chiese cauto.
«Erano due conti nobili molto influenti» rispose il quadro di Elizabeth, alzando le spalle. «Non so perché li denunciò. Io sono solo un ritratto.» Ma poi sembrò pensarci un po' su. «Comunque, credo che avesse a che fare con quella storia dei loro poteri nascosti.»
Edmund sentì di essere arrivato ad una svolta nella sua ricerca. «Poteri nascosti? Che genere di poteri?» indagò, l'ansia che cominciava a manifestarsi. «Non so» ammise la nobildonna. «Ho sentito solo che giravano voci a proposito di un potente manufatto magico custodito da secoli dalle famiglie O'Donnell e O'Neill. Credo che Howt mirasse ad indebolirli, indebolire la loro influenza sulla società magica d'Irlanda e, magari, anche di appropriarsi dell'oggetto misterioso.»
Edmund cominciò a riflettere velocemente: da quel poco che sapeva di Hoser Howt, era certo che non fosse davvero lui l'artefice del piano. Forse era stato usato e incastrato. Dopotutto, il marito di Elizabeth, che a suo dire si era solo limitato a denunciare Howt, era un Deamundi; e con un Deamundi di mezzo, si poteva stare certi che ci fosse lui dietro tutto il complesso disegno d'intrighi. Probabilmente era il conte Deamundi a voler indebolire le due famiglie nobili rivali, era lui a volersi impossessare del prezioso manufatto magico, e si era servito di Howt per i suoi sporchi scopi, salvo poi fare il doppio gioco, eliminare anche Howt e liberare il posto alla schiatta della promessa sposa Elizabeth O'Brian.
Ma la cosa più importante era il sospetto che Rory O'Donnell e Hugh O'Neill nascondessero un antico oggetto magico molto potente. Poteva benissimo trattarsi della Mela d'Oro che, stando alle informazioni di McFarren, era stata avvistata, l'ultima volta, proprio in Irlanda. Poteva essere davvero vicino alla risoluzione del mistero: forse il vecchio McFarren non era così folle come era sembrato, forse esisteva davvero un manufatto capace di spezzare la sua Maledizione.
Dopo aver ringraziato Faonteroy per l'aiuto, Edmund si fece riaccompagnare alla porta per tornare al Trinity. Era stato tutto preso dai suoi piani sulla Mela d'Oro che per poco si era dimenticato di una cosa fondamentale. «Ah, Faonteroy» lo chiamò prima di smaterializzarsi. «Quella storia che sono il promesso sposo di Mairead... era una battuta, vero?»
Faonteroy lo squadrò con i suoi occhi verdi così simili a quelli della cugina. «Credevo che mi conoscessi abbastanza, Edmund, da sapere che non sono il tipo da far battute.»









Eccomi qua!
Scusatemi, ci ho messo un'eternità a completare il capitolo, anche se avevo già in mente tutto quello che andava scritto... va be', a volte capita!
Comunque! Che dire? I Mangiamorte sono sulle tracce di Edmund... e sono andati a cercarlo nel posto più logico: ovvero a casa del padre adottivo. Come avranno fatto a trovarlo? Eh... diciamo che il caro Eddy non ha proprio proprio mantenuto "un basso profilo", come ha garantito a Melita. Basta aprire un giornale! ;)
McPride, ovviamente, ha intenzione di sfruttare la situazione a suo vantaggio... e come dargli torto! Dopotutto, i martiri sono sempre osannati dal popolo!Inoltre, spero che abbiate apprezzato il modo in cui tratta Nelly; alla fine, McPride non è cattivo! Diciamo che ha una sua scala di valori un po'... come dire?, particolare! Ma vi ricordo quanto detto da Sirius, a proposito di Crouch: la grandezza di un mago si misura su come tratta gli inferiori, non i suoi simili. Ergo, McPride è un grande! ahahahah!
Quanto al resto, mi sono basata su quanto dice la Rowling a proposito dei ritratti, che sono solo come copie sbiadite delle persone e che non sanno tutto, a meno che non le si istruisca a dovere. Edmund comunque si sta avvicinando alla risoluzione del mistero... ma ho in serbo ancora tanti guai per tutti, non temete!
Ah, e Faonteroy non è proprio il tipo da far battute. Proprio no. Però è un po' bastardello, ogni tanto! =D

In realtà, non ho delle vere e proprie immagini per questo capitolo, ma vi metto il volto di qualche personaggio:
QUI, per esempio, Teudilascius O'Brian, il padre di Faonteroy; (zio Giustinianus, ormai, credo che ce l'abbiate presente!)
QUI il castello degli O'Brian;
QUI un'immagine di McPride con una delle sue citazioni più fighe, tratte dal quarto racconto;
QUI nonno Childerich con Faonteroy da bambino;
QUI, infine, lo stemma della famiglia O'Brian.

Grazie a tutti per la pazienza. Prossimo aggiornamento, in linea di massima, lunedì 22 dicembre.
A presto,
Beatrix

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Capitolo 12
*** A proposito di capelli ***


CAPITOLO 12
A proposito di capelli






Riprendere le lezioni, dopo le vacanze di Natale, fu assai strano per i ragazzi del sesto anno, perché cominciava il loro ultimo semestre di scuola.
Edmund aveva mille cose per la testa: innanzitutto, il giorno di Natale, il Corriere aveva messo in prima pagina la notizia che dei Mangiamorte si erano introdotti a casa del suo patrigno McPride. Edmund era rimasto piuttosto sorpreso dalla cosa, poiché riteneva uno sciocco spreco di energie tentare di mettere fuori gioco il Presidente d'Irlanda, quando il Primo Ministro Scrimgeour deteneva ancora un forte potere in Inghilterra. E poi gli era venuta in mente un'altra terribile prospettiva: e se i Mangiamorte fossero andati a casa di McPride a cercare lui? Se Voldemort avesse capito che uno dei suoi preziosi cloni era sopravvissuto e avesse messo degli sgherri sulle sue tracce? Certamente, gli sarebbe bastato rovistare un po' tra i giornali scandalistici per trovare una sua foto come Campione del Torneo Trecolonie o figlio adottivo del Presidente. Dopodiché, l'incredibile somiglianza fisica che doveva intercorrere tra lui e il giovane Tom Riddle sarebbe stata come un segnale luminoso sulla sua testa: eccoti servito su un piatto d'argento il tuo clone, Lord Voldemort! Edmund, di fronte all'agghiacciante prospettiva che Voldemort l'avesse trovato, mise ogni sua energia nelle ricerche su Rory O'Donnell e Hugh O'Neill; purtroppo, sembrava che i due conti fossero scomparsi nel nulla dopo che Howt li aveva denunciati agli Inglesi e costretti alla fuga. Qualsiasi fosse l'oggetto magico che essi tenevano nascosto, dovevano esserselo portato dietro. Quello per la Mela d'Oro, tuttavia, non era il suo unico campo di studio: il professor Cumhacht l'aveva messo sotto a lavorare per la Disputazio, consigliandogli una serie di libri da leggere, dopo aver approvato con interesse l'argomento che Edmund aveva proposto. Infine, anche gli altri professori li riempivano di lavoro, ripetendo in continuazione che gli esami finali si stavano avvicinando e che dovevano tenersi pronti e presentarsi preparati, se non volevano beccarsi una bella Q di quadrupes.
Edmund trovava rilassanti solo le ore di Filosofia della Magia, prima di tutto perché padre Rafael aveva un modo sempre accattivante di tenere la lezione e secondariamente perché era l'unico insegnante a non assegnare loro dei compiti. Quel giorno, quando Edmund entrò nell'aula sotterranea dove si teneva Filosofia, trovò i compagni in subbuglio.
«Che succede?» domandò, prendendo posto al fianco di Dedalus.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, facendo capire che era appena arrivato anche lui e non sapeva cosa fosse accaduto.
«Balosky, che succede?» insistette Edmund, rivolgendosi al dictator dei Nagard.
«Pare che la lezione di oggi sia sulla Magia Oscura» rispose il ragazzo.
«Ma sarà una cosa lecita?» intervenne Cael Trimble, dei Llapac. «Perché secondo me non lo è...»
«Chissene frega!» esclamò di botto Edmund. «Sarà una lezione fantastica!» Moriva dalla voglia di scoprire cose nuove sulle Arti Oscure: avevano un loro fascino ancestrale che lo attirava, che lo invogliava a saperne sempre di più, a sperimentare e conoscere... era assurdo questo negazionismo di un'intera branca della magia solo perché di solito la utilizzavano maghi malvagi per scopi altrettanto malvagi. Studiarla non voleva dire per forza applicarla o servirsene per conquistare il mondo. Inoltre padre Rafael era un prete: Edmund era certo che avrebbe affrontato l'argomento nel modo più accademico possibile.
«Buongiorno, ragazzi» salutò padre Rafael, entrato in aula proprio in quel momento. Il chiacchiericcio si spense all'istante, ma la faccia di Trimble doveva essere rimasta tanto perplessa da costringere il professore a rivolgergli un sorriso benevolo. «Immagino che sia trapelata la notizia super-segreta sull'argomento della lezione odierna» ridacchiò, osservando le loro espressioni sconcertate. «Sono sei anni che tengo questa cattedra e il preside non mi ha ancora sbattuto fuori. Credete davvero che vi scaglierò addosso qualche Maledizione senza perdono o che vi insegnerò ad usarle?»
Edmund si concesse una risatina. A volte le persone si rivelavano proprio ottuse.
«Ragazzi miei, non viviamo in una delle favole di Beda il Bardo: non esiste la magia buona e quella cattiva.» Il professore prese a passeggiare per l'aula, come faceva sempre quando spiegava.
«Ma allora... la Magia Oscura?» insistette Trimble, non del tutto convinto.
«La Magia Oscura si chiama così perché sfrutta le Forze Oscure» rispose paziente padre Rafael. «Non sto dicendo che sia un tipo di magia tutto rose e fiori, ma chiudere gli occhi davanti ad essa ed evitare di studiarla per un qualche contorto sentimento di buonismo è un ottimo modo per dimostrare la propria ottusità. E vi assicuro che si possono fare cose terribili anche con una semplice Pozione Polisucco.» Il professore li osservò con aria seria. «Spesso non è la magia in sé ad essere buona o cattiva, ma l'uso che se ne fa.»
Edmund si ritrovò a sorridere: era felice che anche padre Rafael la pensasse come lui perché, con l'appoggio del professore, si sentiva meno in colpa per il fascino che le Arti Oscure esercitavano su di lui.
«Abbiamo appena finito di studiare la Trasfigurazione» riprese padre Rafael. «Vi ricorderete che essa sfrutta la Forza di Evoluzione, quella che i filosofi Babbani chiamano “divenire”. Ecco, le Arti Oscure sono indeterminate, mutevoli e cangianti perché non si basano su un'unica Forza della Natura, ma sfruttano un'insieme di Forze che sono state etichettate sotto il medesimo nome di “Oscure”. Qualcuno ha cercato di definirle come Forze contro Natura, ma non è corretto, perché comunque sono Forze della Natura.»
Edmund rapito dalla lezione, fu assalito da un dubbio. Fece saettare in alto la mano e attese che il professore gli desse la parola, per esporre alla classe il suo quesito: «Ma una magia come... la creazione di un Infero, per esempio; non è una cosa contro natura rianimare un cadavere?»
«Acuta osservazione, Edmund, ma non è così; non del tutto, almeno» rispose padre Rafael. «Tale magia sfrutta la Forza di Rigenerazione, per ridare vita a ciò che l'aveva persa. Ma, ovviamente, si rianima il cadavere, non la persona vera e propria. E, per quanto la cosa ci faccia ribrezzo, si sfrutta una semplice Forza della Natura.» Il professore si fermò davanti alla cattedra, osservando i suoi alunni. «Certo è che, se anche l'uomo, e tanto più il mago, ha la facoltà di fare delle cose, non è detto che sia giusto farle.»
Edmund ripensò a McFarren e alle tre leggi degli Interventisti. Lui aveva manipolato la scienza e la magia per dargli la vita e aveva dimostrato di essere in grado di raggiungere un potere quasi divino. Ma, anche se aveva avuto la facoltà di crearlo, forse non sarebbe stato giusto farlo. Stava nella saggezza del singolo sapersi porre dei limiti. O, quantomeno, essere pronto ad affrontare le conseguenze più estreme e pericolose per aver alterato i più profondi misteri, come suggeriva la Prima Legge Fondamentale della Magia di Adalbert Incant.
La mano di Dedalus sventolò in aria, ma non attese che il professore gli desse la parola. «È come la Prima Legge Fondamentale della Magia di Adalbert Incant!» esclamò soddisfatto.
Edmund lanciò uno sguardo di approvazione all'amico. «Pensavo la stessa cosa, sai?» gli rivelò con un sorriso.
«Pensavate giusto» approvò padre Rafael, compiaciuto. «Le Forze Oscure, infatti, sono Forze della Natura, ma si sono meritate dai filosofi questo appellativo ingrato perché sfruttarle per compiere magie significa alterare i misteri più profondi, come la vita, la morte, il dolore.» Il professore fece una pausa, perché i ragazzi potessero finire di prendere appunti, dopodiché concluse: «E quindi, come dice Adalbert Incant, bisogna essere pronti ad affrontare le conseguenze, quali che siano.»
Per un attimo, Edmund ripensò alla sezione dedicata alla Magia Oscura nella libreria di McPride. Vi aveva trovato delle maledizioni terribili, come quegli Horcrux. Sicuramente spezzarsi l'anima in due doveva avere delle conseguenze inimmaginabili; figuriamoci spezzarla in sette parti, come aveva vagheggiato nell'apprendere quella magia.
«Facciamo un esempio, così forse risulta più chiaro» continuò il professore nella spiegazione. «Il temutissimo Avada Kedavra sfrutta la cosiddetta Forza di Cessazione, quella che porta ogni essere vivente alla sua morte naturale. L'anatema piega questa forza al suo volere e causa nel soggetto morte istantanea.»
«È per questo che è così potente?» domandò Balosky. «Perché porta ad una morte naturale che non può essere contrastata?»
Padre Rafael sorrise. «Voi cosa ne dite?» chiese alla classe. «L'Avada può essere contrastato?»
Edmund adorava le lezioni di Filosofia, soprattutto quando il professore permetteva loro di fare un dibattito su qualche argomento interessante. A volte, invece, li provocava lui con delle domande, o chiedeva loro di provare a risolvere quesiti filosofici che angustiavano gli studiosi. Alla fine, di solito, il professore dava la risposta alla questione, ma a volte una soluzione non esisteva e padre Rafael spiegava dove era arrivata la ricerca fino a quel momento, oppure illustrava le teorie più accreditate. Per Edmund, quella cultura del dubbio, della discussione e del dibattito era la cosa migliore che gli avessero insegnato al Trinity. Peccato che Filosofia fosse una materia a scelta.
«Secondo me l'Avada è invincibile» rispose Iulius McEwan, con sicurezza. «Se si potesse contrastare, gli Auror avrebbero già scoperto il modo di farlo.»
«E Harry Potter, allora?» intervenne una ragazza dei Llapac che Edmund non ricordava come si chiamasse.
Cael Trimble sbuffò. «Lo sanno tutti che Harry Potter è sopravvissuto all'Anatema che uccide perché è un Mago Oscuro. Altrimenti perché Tu-sai-chi avrebbe voluto ucciderlo quando era solo un neonato?»
«Che idiozia!» sbottò Edmund. Storielle come quella andavano bene per i poppanti, non certo per studenti di Filosofia.
«Secondo me si può contrastare» replicò Dedalus con convinzione. Per quanto ogni tanto dicesse cose strane, Dedalus aveva un intuito spiccato per Filosofia della Magia. «Voglio dire, se è una magia che sfrutta le Forze della Natura come tutte le altre, basta opporvi una forza maggiore e contraria.» Dedalus annuì, convinto da solo della propria deduzione. «Come l'incantesimo di Levitazione che oppone una forza maggiore e contraria a quella di gravità.»
«Un'osservazione molto saggia, Dedalus» approvò padre Rafael. «E sostanzialmente corretta.»
Iulius non sembrava per nulla convinto. «E allora perché non è ancora stata inventata una contromaledizione?» domandò con sospetto.
Padre Rafael sorrise, contento di come i ragazzi si fossero interessati alla questione. «Perché ci vuole una forza molto, molto potente per opporsi ad un Anatema che uccide» rispose tranquillo.
Edmund sollevò gli occhi dal professore e là, appeso sopra la lavagna, vide un crocifisso di legno: quella di Filosofia era l'unica aula della scuola dove fosse stato esposto quel simbolo. E Edmund ebbe un'illuminazione. «È la forza dell'amore fino al sacrificio» mormorò. «È questa l'unica forza in grado di opporsi alla morte.»
Padre Rafael lo guardò compiaciuto. «Davvero un'ottima risposta, Edmund» si complimentò con lui. «Direi che ti guadagni venti punti per la tua casa.»
Iulius rivolse al compagno un sorriso d'approvazione, mentre il professore estraeva dal cassetto della cattedra un librone con una miriade di segnalibri che spuntavano fuori. «Dovete sapere che fin dall'alba dei secoli, gli uomini si sono accorti che Eros e Thanatos, amore e morte, sono due forze contrapposte» cominciò a spiegare, aprendo il libro più o meno a metà. «Abbiamo numerosissime attestazioni di tale concezione, sia presso Babbani, sia presso maghi, filosofi, poeti e letterati. Per esempio, in un libro della Bibbia che si chiama Cantico dei Cantici, capitolo 8, versetto 6, troviamo scritto: “forte come la morte è l'amore”.»
Dedalus fece scattare la sua mano in alto. «Ma se l'amore è una Forza della Natura, perché non esiste nessun incantesimo che la sfrutti?» domandò, ancora prima che il professore gli concedesse di parlare.
«Perché l'amore è una forza talmente misteriosa e sfuggente che l'uomo non è ancora nemmeno riuscito a capirla, figuriamoci a sfruttarla» rispose paziente padre Rafael.
«Ma allora come fa a contrastare l'Anatema che uccide?» insistette Iulius, ancora non del tutto convinto che la maledizione potesse essere bloccata.
«Un Avada Kedavra è un incantesimo molto potente quindi, ripeto, la forza che gli si oppone deve essere anche più potente» spiegò il professore. «E come disse anche un uomo che si chiamava Gesù di Nazareth, non c'è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.»
«Quindi l'unico modo per sconfiggere un Avada è contrapporgli un amore tanto grande da arrivare fino al sacrificio?» concluse Dedalus, che pareva entusiasta di quella nuova scoperta.
«Esattamente» approvò padre Rafael. «L'amore fino al sacrificio è l'unico che può vincere la morte e portare alla vita.»
«E Harry Potter cosa c'entra?» indagò Cael Trimble, senza nemmeno alzare la mano. Ormai erano tutti talmente presi dalla discussione, che nessuno più faceva caso alle regole scolastiche.
«Questa è solo una mia teoria, ovviamente.» Padre Rafael prese a passeggiare avanti e indietro per la stanza. «Sono abbastanza sicuro che quella fatidica notte uno dei genitori, probabilmente la madre, abbia cercato di fermare Voi-sapete-chi, offrendo se stessa in sacrificio al posto del figlio. Questo amore così grande ha creato una protezione che ha salvato il piccolo Potter dall'Anatema che uccide, rispendendolo contro Voi-sapete-chi.»
Edmund sentì i brividi lungo la schiena. Quella era probabilmente la lezione più bella che avesse mai seguito da quando aveva messo piede al Trinity. Passò il resto dell'ora imbambolato, a bere qualsiasi parola uscisse dalla bocca del professore a proposito della Magia Oscura. Alla fine della lezione, buttò tutta la sua roba alla rinfusa dentro la borsa e inseguì padre Rafael verso la sacrestia della cappella. «Professore, mi è piaciuto un sacco oggi!» esclamò, entrando nella stanzetta.
Padre Rafael gli rivolse un sorriso compiaciuto. «Bene, sono contento.»
«Se fosse stato possibile, avrei fatto la Disputatio con lei» continuò Edmund, sempre entusiasta.
«Purtroppo la mia non è una materia curricolare» replicò il professore. «Però ho saputo che la fai in Trasfigurazione: se vuoi inserire un approfondimento di Filosofia della Trasfigurazione, ti posso consigliare qualche libro.»
Edmund annuì. «Sarebbe fantastico.» Stava per andarsene, quando gli venne in mente un'ultima cosa da chiedere: «Professore, lei ha mai sentito parlare dei conti Rory O'Donnell e Hugh O'Neill?» L'anno scorso era stato proprio padre Rafael a svelargli il segreto degli Interventisti, magari poteva risolvergli le indagini anche questa volta.
Ma il professore scosse la testa. «Mi spiace, ma non li ho mai sentiti» rispose. «Mi rendo conto che cercare due nomi nell'immensità dei volumi della biblioteca del Trinity sia una specie di incubo. Sono anni che dico al preside di adottare il sistema di catalogazione della biblioteca del seminario, ma lui ritiene che questo potrebbe da un lato aiutare chi fa ricerca seriamente, dall'altro indurre qualche studente troppo pigro a vivere nella bambagia.»
«Perché, com'è il sistema di catalogazione del seminario?» si informò Edmund.
«Comodissimo» ammise padre Rafael. «All'ingresso c'è un foglio di pergamena incantato su cui basta scrivere quello che stai cercando per farvi apparire sopra il numero dello scaffale dove si trovano i libri che potrebbero interessarti.»
Edmund si illuminò. Con un sistema come quello, avrebbe impiegato meno di un secondo a trovare qualsiasi informazione gli servisse per le sue ricerche. Sarebbe stato miracoloso. «E la biblioteca del seminario è aperta al pubblico?» domandò speranzoso, senza riuscire a nascondere del tutto la sua avidità.
«Temo di no.» Il professore sembrava sinceramente dispiaciuto. «Ma se c'è qualche volume in particolare che ti serve, posso prenotartelo io.»
«Grazie, professore.» Edmund annuì piano, spento ogni suo entusiasmo.
«Figurati.» Padre Rafael gli indicò l'appendiabiti che si trovava dietro di lui. «Mi passeresti le vesti per la messa, per favore? Devo celebrare fra pochi minuti.»
Edmund si voltò, annuendo sovrappensiero. Nel prendere dall'appendiabiti uno lungo camice bianco, notò quello che doveva essere un capello di padre Rafael e fu colpito da un'idea improvvisa quanto malsana. Tentennò solo un attimo, poi afferrò il capello tra due dita e si voltò per passare la tunica al prete con un sorriso innocente. «Grazie ancora, professore, e buona messa» salutò prima di uscire, stretto ancora tra le dita il prezioso capello. Si sentì vagamente in colpa – soprattutto ripensando alle parole di padre Rafael a proposito delle cose terribili che si potevano fare anche con una semplice Pozione Polisucco – ma decise di scacciare quel neonato sentimento pensando al grande vantaggio che ne avrebbe ottenuto.

«Si sta un po' stretti qui dentro.»
«Sei tu che sei ingombrante.»
«Qualcuno accenda le torce, no?»
«Faccio, io! Levatevi!»
«Ahia, era il mio piede quello!»
Quando finalmente Edmund riuscì a far luce, i ragazzi del FIE si ritrovarono in una stanzetta circolare, con una grossa bifora davanti alla quale erano state appese due amache. Sulla parete di sinistra troneggiava la bandiera della Repubblica Magica d'Irlanda, sotto la quale si trovava un tavolino con due sedie.
«Che posto è questo?» domandò Bearach, sorpreso e curioso insieme.
Mairead si fece avanti. «È una stanza segreta scoperta da mio padre e dal professor Saiminiu quando erano a scuola. Era il loro covo» spiegò. «È un po' piccolina, lo so, ma il FIE non può più riunirsi alla luce del giorno.»
«Credevo che il FIE fosse sciolto, ormai...» mormorò Henry, affranto.
«Ufficialmente sì» confermò Mairead. «Ma non ci impediranno di lottare.»
«Mi piace!» confermò Eileen, con un trillo. Lei non aveva mai partecipato alle riunioni del FIE l'anno prima, ma era entrata a far parte del gruppo insieme ai gemelli Samuel e Ismael MacPassel.
«Bene» borbottò Faonteroy, arrossendo leggermente. Era strano vederlo a disagio e impacciato, lui che di solito mostrava al mondo solo la maschera dell'imperturbabile serietà. «In effetti, l'idea per la quale vi ho convocati è proprio questa.» Infilò la mano in una borsa di stoffa che aveva con sé e ne estrasse un giglio. «Non possiamo indossare le spille del FIE, ma non c'è alcun regolamento scolastico che impedisca di portare un fiore nel taschino. Un fiore contro la dittatura» spiegò, consegnando a ciascuno di loro un giglio.
«Sono veri» esclamò ammirata Lily, sistemandosi il fiore tra i capelli.
«Sì» rispose Faonteroy, continuando la distribuzione. «Sono finalmente riuscito a fare in modo che non appassiscano.»
«Credo che sia un'idea geniale!» approvò Dedalus, quando ricevette il suo.
«Ehm, bene» mormorò Faonteroy, non del tutto convinto che il consenso di quel suonato di Dedalus significasse che la sua fosse davvero una buona idea. «Ottimo!» esclamò invece Mairead, appuntandosi il fiore alla spilla da Capitana. «Visto che siamo un po' alle strette, direi che la riunione è sciolta!»
I ragazzi si salutarono e presero a uscire lentamente dalla stanza, quando Moira bloccò Faonteory prima che se ne andasse. Continuava a ammiccare verso Mairead e sembrava che le due fossero d'accordo per qualche malefatta pericolosa che dovesse coinvolgere anche lui. «Che succede?» domandò preoccupato, non appena rimasero solo loro tre.
Mairead e Moira si scambiarono un'occhiata complice. «Così non va» esclamò la prima.
«Così non andrai da nessuna parte» rincarò la dose la seconda.
«Così come?» si sentì in dovere di chiedere Faonteroy.
«Con quella ciotola di capelli in testa!» rispose Mairead, scandalizzata.
Faonteroy si ritrasse, paventando gli incubi più orribili. «Cosa avete contro il mio taglio di capelli?» domandò spaventato. «È ciò che si conviene ad un nobile del mio lignaggio.»
«Forse sì» concesse Mairead. «Ma non hai speranza di far colpo su Eileen se sembri un paggetto ottocentesco.»
«Far colpo?» borbottò Faonteroy, a disagio. «Io non voglio...»
«Siediti» gli ordinò Moira, mettendogli dietro una sedia e sfoderando delle forbici. «Mia sorella fa la parrucchiera» spiegò con un sorriso furbo. «Conosco qualche trucco del mestiere.»
«Non osereste...» supplicò Fonteroy, gli occhi sgranati per il terrore.
Mairead gli mise una mano sulla spalla con fare rassicurante. «Quando avremo finito con te, avrai le ragazze ai tuoi piedi.»
Per Faonteroy quelli che seguirono furono i venti minuti più terribili di tutta la sua vita: chiuse gli occhi e attese che il supplizio finisse, figurandosi nella mente le più terribili acconciature.
«Finito!» annunciò alla fine Moira. «Sei stupendo!»
Faonteroy raccolse dalle sue cosce una ciocca di capelli, una ciocca dei suoi meravigliosissimi capelli biondi, e se la portò davanti al naso. «Sono restato pelato!»
«Ma va', sei bellissimo!» lo rassicurò Mairead mettendogli davanti uno specchio.
Ciò che lo specchio gli restituì fu l'immagine di un bel giovanotto biondo, con un taglio di capelli corto ma quantomeno accettabile. Faonteroy si studiò con occhio critico per qualche minuto, poi si rivolse alle sue carnefici. «Siete sicure che funzionerà?»
Mairead gli sorrise. «Eileen ti troverà fantastico, fidati.»
E, chissà perché, Faonteroy decise di fidarsi.









Carissimi,
questo capitolo è dedicato Good Old Charlie Brown, fedelissimo lettore delle mie storie, nonché caro amico.

Che dire? ...insomma, volevo dare una giustificazione più teorica, filosofica (e, perché no, teologica) alla teoria di Silente "l'ammmmore di mammà protegge il piccolo Potty". Dopotutto, padre Rafael è uno che ha studiato! ;) E comunque volevo spiegare la mia teoria sulle Arti Oscure e introdurre il tema della maledizione e contromaledizione.
Quanto a Faonteroy, era ora che cambiasse il taglio di capelli! ;) Non può sperare di far colpo su Eileen con una ciotola da paggetto in testa!

Come al solito, un paio di immagini:
QUI una cosa che non c'entra nulla: ovvero i miei personaggi femminili in versione principesse Disney! Eileen è Rapunzel, Moira Biancaneve, Mairead Merida, Melita Meg e Lily Elsa.
QUI, invece, l'immagine del capitolo: Faonteroy e il suo nuovo taglio!

Non mi resta che augurarvi un felice Santo Natale e un buon inizio d'anno! Ci si rivede lunedì 12 gennaio!
A presto e auguri ancora,
Beatrix

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Capitolo 13
*** Incastrato! ***


CAPITOLO 13
Incastrato!






Rohiall si strinse nel suo mantello di lana. Aveva uno sguardo cupo, così distante dal sorriso spensierato e allegro che l'aveva sempre caratterizzato. «Ed, sei sicuro di questa cosa?»
Edmund lasciò cadere il capello di padre Rafael nella pozione Polisucco preparata da Gearoid, il padre di Rohiall. No, non era affatto sicuro di quella cosa, ma ormai era tardi per tirarsi indietro. La Polisucco richiedeva un mese di tempo per essere preparata, oltre ad una serie di ingredienti che non si trovavano in una normale dispensa scolastica, per cui Edmund si era rivolto a Gearoid, che per sopravvivere vendeva pozioni a maghi e streghe che non avevano tempo o modo di confezionarsele da soli. Era stata una mossa azzardata coinvolgere altre persone nel suo piano, ma non aveva avuto scelta.
«E se ti scoprissero?» insistette Rohiall.
«Per Merlino, non lo so!» sbottò Edmund. «Al massimo mi beccherò una punizione o qualcosa di simile... non sto rapinando la Gringott, voglio solo accedere alla biblioteca del seminario.»
Una folata di vento gelido li investì, agitando i rami più alti degli alberi. Si trovavano poco fuori dal territorio del Trinity, perché Edmund aveva sfruttato il passaggio segreto che sbucava nei boschi che circondavano il villaggio di Doolin.
Rohiall si strinse nelle spalle, forse dispiaciuto per aver insistito. «È che ho un brutto presentimento» si giustificò. «Con questi tempi cupi, sai...»
«Ti senti più ispirato per la divinazione?» completò Edmund, cercando di sdrammatizzare.
Rohiall apprezzò lo sforzo e fece balenare un sorriso sulle labbra. «Il mio bisnonno era un Veggente, sai?»
«E tu credi di aver ereditato qualche dote?»
Rohiall rise. «Credo di aver più possibilità di divinare con un paio di bottiglie di whisky nello stomaco!»
Edmund si sentì improvvisamente più leggero. Ma sì, sarebbe andato tutto benissimo! Sollevò il bicchiere con la Polisucco al cielo, per un brindisi. «Alla divinazione col whisky!» esclamò, e poi svuotò il contenuto con un sorso solo.

Adolphus McPride era convinto che l'onestà fosse un buon modo per raggiungere i propri obiettivi. Ma quando l'onestà falliva, si poteva far ricorso a qualche scappatoia. Quella che stava per mettere in atto, in particolare, non era una semplice scappatoia: era un piano ben articolato e perfettamente funzionante, che stava per essere implementato.
«Cosa state facendo?» domandò uno dei figli di Deamundi. McPride non sapeva dire quale fosse: erano già troppo simili normalmente, figuriamoci con i tratti del volto modificati in modo da essere irriconoscibili. Deamundi era stato molto coraggioso o molto stupido ad offrire tre dei suoi figli per quel piano. Aveva risparmiato il primogenito e erede al titolo, ma certo mettere in pericolo tre giovanotti di così belle speranze era un peccato. O forse il Conte non si fidava più di nessuno dei suoi uomini e aveva scelto i figli per una missione tanto delicata.
McPride sorrise. «Sto rendendo ancora più efficace il nostro piano» spiegò tranquillo, continuando a scrivere il biglietto, sempre nascosto al riparo dietro lo sperone di roccia. I tre fratelli Deamundi, vestiti di nero con delle maschere bianche sul volto, si sarebbero introdotti al Trinity tramite quel passaggio segreto che McPride aveva scoperto quando ancora frequentava la scuola: partiva da un albero nel bosco nei dintorni di Doolin e giungeva fino a sotto il ponte che portava al castello. Da lì, sarebbero entrati in atrio e poi in portineria. Ed era proprio in quel momento che il piano sarebbe stato perfetto grazie a quel biglietto. McPride lo incantò con la bacchetta e lo passò ad uno dei fratelli Deamundi. «Non appena arrivate in portineria, fate volare questo biglietto.»
«Cosa significa?» domandò uno dei tre, strappando il foglietto dalle mani del fratello e leggendo quello che vi era scritto.
McPride accennò con il capo a due figure che si intravedevano nel bosco. «Quello più alto è mio figlio Edmund» spiegò. «Non so cosa ci faccia fuori dal castello, ma possiamo sfruttare la cosa a nostro vantaggio.»
Il ragazzo con in mano il biglietto annuì, facendo segno di aver capito. «Così non potrà sostenere di non averlo scritto lui, a meno di non ammettere che è uscito dal castello.»
McPride gli rivolse un sorriso compiaciuto. Questo doveva essere il secondogenito, il fratello sveglio. «Grazie a questo biglietto, verrà in atrio una ragazza» continuò a spiegare. «Fate in modo di essere scoperti da lei e soprattutto ditele in un modo o nell'altro il motivo per cui vi siete introdotti nel castello.»
«Ovvio.»
McPride preferì insistere su quel punto basilare. «È essenziale che sappia il motivo della vostra presenza. Altrimenti il piano non funziona.»
Il secondogenito scoppiò a ridere, con una risata talmente forte e allegra che i fratelli gli fecero segno di far silenzio, se non volevano essere scoperti. Quello si ricompose, ma non perse il sorriso. «Lo sappiamo, non siamo degli idioti» commentò, come se quel trattamento da bambini lo divertisse più che infastidirlo.
«Bene.» McPride annuì soddisfatto, poi si sporse oltre lo sperone di roccia per controllare che Edmund e l'altro ragazzino se ne fossero andati. «Via libera» annunciò.
I tre fratelli Deamundi si misero le maschere e si avviarono verso il passaggio segreto mostrato da McPride.
«Vedete di non far del male a nessuno» li avvertì prima che sparissero dentro il tronco dell'albero. «E soprattutto di non farvi catturare.»

Edmund aveva scelto di muoversi dopo cena, approfittando del buio, visto che tanto aveva scoperto che la biblioteca del seminario chiudeva alle otto di sera. Raggiunse Doolin senza essere visto, ma ricordò a se stesso che, se anche qualcuno l'avesse visto, con l'aspetto di padre Rafael poteva andare dove voleva. Aveva trasfigurato dei vecchi vestiti dell'orfanotrofio perché sembrassero quelli del prete e si era imbacuccato in un mantello nero. Si era perfino procurato, tramite Rohiall, un paio di occhiali finti. Certo, non ci vedeva molto così, ma almeno assomigliava in tutto e per tutto a padre Rafaell. Nessuno avrebbe prestato attenzione a lui.
In tutta tranquillità, si buttò nel metrombino di Doolin per raggiungere Dubh Cliathan. Le strade della parte magica di Dublino erano quasi deserte, a quell'ora, complice il freddo e la strana tensione che aleggiava nell'aria.
Edmund raggiunse indisturbato il seminario: un portone anonimo si affacciava su una delle strade secondarie di Dubh Cliathan con affianco la targa di marmo che fungeva da insegna. Edmund trattenne il respiro e bussò. Venne ad aprirgli un maghetto anziano, ingobbito e mezzo cieco, con una voce resa stridula dall'età. «Padre Majestis?» domandò, aggiustandosi gli occhialetti sul naso.
«Ehm... sì, sono io» rispose Edmund, impacciato.
Il vecchio mago si spostò dall'ingresso per permettergli di entrare.
Edmund gli rivolse un sorriso tirato e cercò disperatamente qualche indizio che potesse condurlo verso la biblioteca. Per fortuna, incrociò due giovani seminaristi che lo salutarono con rispetto e calore. «Mi accompagnereste in biblioteca?» buttò lì allora Edmund, sperando che i ragazzi potessero indicargli la strada, lungo i corridoi e le ampie scalinate del vecchio palazzo.
«Certamente, padre» rispose quello più alto, che aveva i capelli rossi come il fuoco e due incredibili orecchie a sventola. «Stavamo parlando del possibile successore del patriarca Iohannes VII. Sembra che le sue condizioni di salute siano ulteriormente peggiorate.»
«Ehm... già» fu l'arguto commento di Edmund. Ad essere sinceri, non sapeva nemmeno che il Patriarca Magico fosse malato.
«Io dico che sceglieranno il cardinal Saiminiu» commentò l'altro seminarista, convinto.
Edmund corrugò la fronte, per un attimo perplesso, poi gli ritornò alla mente che lo zio del professor Saiminiu era cardinale. Era stato lui a proporre di mandare Priscilla, la sorella storpia di Septimius, a studiare a Hogwarts.
Il ragazzo alto sospirò. «Lo temo anche io, anche se a me piacerebbe che eleggessero il cardinal Ravase.»
«Perché temi?» intervenne Edmund, troppo curioso per scegliere la tattica più ovvia del silenzio stampa e non rischiare così di tradirsi.
Il seminarista alzò le spalle. «Mah, ci sono dei frangenti nella curia di Roma che spingono perché anche la Chiesa Magica accolga definitivamente tutte le istanze del Concilio Vaticano II, non solo quelle che sottoscrisse all'epoca il patriarca Gregorius XIII» spiegò tranquillo. «Solo che il cardinal Saiminiu è un tradizionalista, quindi dubito che appoggerebbe l'idea.»
«Lei cosa dice, padre?» lo interpellò l'altro, fiducioso in qualche risposta illuminante da parte del professore.
«Be'...» balbettò Edmund, chiedendosi che cosa avrebbe potuto dire padre Rafael in quel settore. Ripensò alla lezione sulle Arti Oscure e immaginò che il professore fosse tutto tranne che un tradizionalista. Sorrise. «Io dico che un bel vento di novità non farebbe male alla nostra Chiesa.»
Nel frattempo erano arrivati davanti alla porta della biblioteca. Non appena Edmund entrò, rimase incantato ad osservare lo splendore del salone dal soffitto affrescato, ricolmo di libri ordinatamente collocati su scaffali immensi, posti tutti lungo le pareti. Al centro, una serie di tavoli, ognuno con la propria lampada e leggio, mentre due magnifici lampadari illuminavano il salone. «Certo che è davvero bella questa biblioteca» si lasciò sfuggire Edmund, ammirato.
«Decisamente sì» concordò il seminarista spilungone.
Edmund notò la pergamena incantata di cui gli aveva parlato padre Rafael, tramite la quale avrebbe potuto trovare immediatamente i libri che parlavano dei conti O'Donnell e O'Neill, e si lasciò sfuggire un sorriso soddisfatto. «Credo proprio che sarà una serata fruttuosa.»

Mairead abbandonò la testa sul librone che stava leggendo. Il professor Codail era stato felicissimo di accoglierla per la Disputatio, anche perché – e questo la diceva lunga sull'età dell'insegnante – anche suo padre Reammon l'aveva fatta con lui. Tuttavia, la sua felicità non gli aveva impedito di rifilarle dei mattoni impressionanti da studiare per elaborare la ricerca.
«Questo coso sbrodola per pagine e pagine tutte le leggi precedenti che vengono riprese e riformulate dalla Costituzione Irlandese!» si lamentò con Moira, sbuffando.
La sua amica alzò gli occhi dal tema di Incantesimi che stava ultimando. «Hai scelto tu una materia pallosa per la Disputatio, non è colpa mia» le rispose. «Chi cerca il suo Molliccio...»
«...pianga se stesso» completò Mairead, alzando gli occhi al soffitto di legno dell'aula studio. «Lo so, lo so.»
«Senti» bisbigliò invece Moira, mettendo da parte la penna d'oca. «Alla fine cosa voleva Sergey?»
Mairead alzò la testa dal libro di storia e si guardò in giro. «Mi ha chiesto di uscire» rivelò alla fine.
«Tu e lui?» replicò stupita Moira. Non se lo sarebbe mai aspettato, perché Balosky – che aveva conosciuto un po' meglio quell'anno in quanto suo compagno dictator – non aveva mai dimostrato grande interesse nei loro confronti. «E tu cosa gli hai risposto?» chiese ancora. La sua domanda era stata solo un'occasione per distrarre l'amica dall'insofferenza nei confronti della Disputatio, non si immaginava certo di ritrovarsi a parlare di argomenti scottanti. Mairead si strinse nelle spalle. «Eh... gli ho detto sì.»
«Gli hai detto sì?»
«No... cioè...» balbettò la ragazza. «Ero confusa, mi ha colta alla sprovvista.»
Moira la guardò dritta negli occhi. «E con Edmund, allora?»
Mairead distolse lo sguardo e sospirò. «Edmund è mio amico» sussurrò, più che altro a se stessa.
«Credevo volessi qualcosa di più di un'amicizia» le rispose Moira, senza smettere di guardarla con intensità. La sua amica le aveva parlato qualche tempo fa del subbuglio di strani sentimenti che sentiva nascere per Edmund e lei era convinta che sarebbero stati una bellissima coppia. Ma a volte erano talmente idioti tutti e due che bisognava smuovere un po' le acque perché succedesse qualcosa.
«Sì, lo volevo...» borbottò Mairead. «Cioè, lo voglio ancora, ma non mi sembra che per Edmund valga la stessa cosa e non voglio rovinare il nostro rapporto per una stupida fantasia che mi sono messa in testa.» Aveva cominciato a provare qualcosa per Edmund da quando erano scappati da Petra, da quando si era accorta che i suoi occhi erano incredibilmente vivi, meravigliosi ed espressivi, colpiti dai raggi del sole appena sorto, che faceva brillare le sue lacrime come diamanti. All'inizio non aveva capito che cosa le passasse per la testa, il motivo per cui si sentiva così legata a lui, il suo pensarlo in continuazione, la voglia di passare più tempo possibile con lui. Poi aveva capito di provare qualcosa nei suoi confronti, qualcosa di più forte di una semplice amicizia. Aveva pensato che sarebbe stato bello poter passare la sua vita insieme a lui. Ma Edmund non sembrava pensarla allo stesso modo: lui non pareva interessato a null'altro che non fossero le sue ricerche. E forse era meglio così.
La questione si poteva chiudere lì, senonché Mairead notò che Moira stava per replicare qualcosa, quindi si affrettò per aggiungere: «Non posso vivere aspettando un sogno irrealizzabile. Sergey è reale, mi ha chiesto di uscire, è carino e non è un idiota bellimbusto che gioca a Quidditch. Perché non provarci?»
Moira le riservò un'occhiata che non lasciava spazio ad equivoci. «Perché non è Edmund.»
Mairead sbuffò e si rimise a leggere il libro di storia per dimostrare tutto il suo disappunto.
«Hai un foglietto che ti svolazza sulla testa» la informò Moira, senza smettere di usare quel tono di chi è convinto di aver ragione.
Mairead afferrò al volo l'aeroplanino che le ronzava sulla testa e lo aprì, sempre con una certa stizza. Una grafia che non riconosceva aveva vergato poche parole: Vieni subito in atrio, è urgente. Il biglietto recava la firma di Edmund. «A parlar del diavolo...» borbottò scontrosa.
«È di Edmund?» si informò Moira, e sembrava stranamente compiaciuta.
«Sì, ma questa non mi sembra la sua scrittura» rispose Mairead, mostrando il biglietto all'amica.
Moira prese il biglietto e lo osservò per un attimo. «Nemmeno a me. Però forse si è cacciato nei guai e ha chiesto a qualcuno di scriverti.»
«Edmund ha un sesto senso per i guai» sbuffò Mairead, cominciando a buttare le sue cose nella borsa.
Anche Moira cominciò a mettere a posto. «Ti accompagno.»
Non c'era più in giro nessuno per il castello, nonostante fossero appena le otto di sera. Il motivo principale era l'inverno, che insinuava il suo freddo nei corridoi bui e silenziosi, senza che i pochi bracieri riuscissero a battere gli spifferi delle finestre e le crepe dei muri. Mairead era ancora imbronciata per la storia di Edmund e Sergey, per cui la camminata fu abbastanza silenziosa. Le due ragazze erano quasi giunte in atrio, quando Mairead si accorse che le mancava un libro. «Ho lasciato il volume del professor Codail in aula studio» borbottò immusonita. «Vai avanti, che ti raggiungo.»
«Va bene.» Moira represse un brivido di freddo, poi si incamminò sola verso l'ingresso. Quando scese gli ultimi gradini della scalinata che portava in atrio, si accorse subito che non c'era nessuno ad aspettarla, né Edmund né qualcuno che potesse aver mandato quel biglietto. Era una cosa sciocca, ma la sua mano corse istintivamente alla bacchetta che teneva in borsa. Poteva benissimo essere uno stupido scherzo, magari architettato dalla Diablaiocht e dai suoi compari, eppure aveva la sensazione che stesse per accadere qualcosa di irrimediabile.
«C'è nessuno?» domandò, la sua voce che si perdeva nell'eco. Fece qualche passo verso la Sala Mor, quando dei suoni sordi verso la portineria richiamarono la sua attenzione. Forse è solo Armandus, il custode, cercò di convincersi, ma la sua mano stringeva ancora forte la bacchetta. Passò una manciata di secondi in cui non successe nulla, tanto che Moira fu sicura di essersi sbagliata.
E poi la porta della portineria si spalancò di botto e ne uscirono tre maghi incappucciati, con un lungo mantello nero e una maschera bianca sul viso.
Moira sentì le gambe cederle. Una morsa di gelo le attanagliò il cuore, che prese a martellare all'impazzata nel petto. Aprì la bocca, fece per urlare, ma non le uscì alcun suono. La sua mano si serrò involontariamente intorno alla bacchetta, per quanto la sua mente non avesse nemmeno provato a formulare il pensiero di attaccarli. Che cosa avrebbe mai potuto fare lei contro tre Mangiamorte?
«Stai zitta e non ti faremo nulla di male.» La voce era giovanile, sembrava quella di un ragazzo. Era dura e tagliente, ma non così spaventosa come Moira si sarebbe aspettata.
Le tornò un po' di animo. «Cosa...? Cosa avete fatto al professor Captatio?» riuscì a mormorare, temendo che i Mangiamorte avessero aggredito il preside nel suo studio.
Il Mangiamorte in mezzo scoppiò a ridere, una risata vitale e grassa, che non aveva nulla a che fare con quelle temibili e sarcastiche tipiche dei cattivi della storia. «A Captatio? Proprio nulla. Era lui che dovevamo incontrare» rivelò stupidamente.
Moira era troppo spaventata e sconvolta per domandarsi il motivo per cui i Mangiamorte avessero rivelato il loro piano. «Dovevate vedere il preside?» fece loro eco.
«Nessuno deve sapere di questo incontro!» Il primo Mangiarmorte riprese il controllo della situazione. «Schiantiamola e cancelliamole la memoria!»
Moira non pensò a quanto maldestri dovevano essere quei tre per gridare ad alta voce il loro piano d'azione, ma approfittò di quella idiozia per buttarsi al riparo contro il portone della Sala Mor, che si aprì sotto il suo peso. Dei raggi di luce rossa le passarono sopra la testa, mancandola di parecchio e andando a frantumare una panca dei Llapac. Moira urlò, urlò con quanto fiato aveva in gola, inginocchiandosi a terra e riparandosi al testa con le braccia. Una voce dentro di lei, che assomigliava tanto a quella di Edmund, le ordinò di alzarsi e combattere, di fronteggiare il nemico e affrontare la morte in modo eroico, ma Moira si limitò a strisciare a terra per ripararsi contro la parete.
Entro cinque secondi entreranno in Sala e ti troveranno rannicchiata a terra, alla loro completa mercé! urlò la voce nella sua testa. Alzati e combatti!
Ma in quella confusione di lampi e incantesimi maldestri, un altro grido si impose sugli altri: «Moira!»
Mairead entrò in scena come un tornado, la bacchetta puntata avanti a sé, urlando qualsiasi maledizione le passasse per la testa.
«Filiamocela!» ordinò uno dei Mangiamorte.
Non appena gli incantesimi smisero di volare nella sua direzione, Moira si alzò lentamente da terra e spiò in ingresso. I Mangiamorte se l'erano filata, Mairead era sul punto di inseguirli come solo una stupida Raloi poteva pensare di fare, quando comparve un po' di gente richiamata dal baccano. Quello che seguì fu per Moira confuso come un sogno dell'alba. Arrivarono un sacco di studenti, tra cui anche Henry che la abbracciò e la consolò con tutto l'affetto di cui era capace. Poi arrivarono i professori e il preside, vennero chiamati degli Auror e tutti cominciarono a vociferare e a dire la propria su quello che era successo. Ad un certo punto comparve anche Edmund, con l'aria perplessa e colpevole, come se temesse di essere stato scoperto a compiere qualcuno dei suoi guai.
Il capo degli Auror insistette anche per interrogare Moira immediatamente. «Cosa ci facevi in ingresso?» la aggredì, senza nemmeno avere il buon gusto di trattarla con un certo tatto, visto il brutto quarto d'ora che aveva appena passato.
«Io stavo accompagnando Mairead, perché Edmund le aveva scritto di raggiungerla in atrio al più presto» spiegò Moira, con la spiacevole sensazione di sentirsi sotto processo.
«Dov'è il biglietto?» L'Auror sembrava voler soppesare ogni sua affermazione.
Mairead allora si fece avanti e glielo mostrò. «Eccolo.»
Per un attimo, gli occhi di Moira incrociarono quelli perplessi di Edmund e capì che davvero quel biglietto non l'aveva scritto lui. Ma Edmund non la smentì, forse perché, per dimostrare di non aver scritto a Mairead, doveva confessare qualcosa di più grave.
«Bene.» Dopo aver dato un'occhiata al biglietto, l'Auror le piantò gli occhi addosso. «Ora dimmi: hai sentito i Mangiamorte dire qualcosa? Hanno detto il motivo per cui sono penetrati nel castello?»
Moira deglutì. Rivelare quello che aveva sentito avrebbe significato mettere nei guai il preside, per quanto fosse certa che i Mangiamorte avessero mentito riguardo al loro incontro.
«Ragazzina, sarai interrogata di nuovo in centrale» la avvertì l'Auror. «Qualsiasi cosa tu sappia, è meglio che la dica adesso.»
Gli occhi ansiosi di Moira saettarono verso il professor Captatio. Lui ricambiò il suo sguardo, sembrò quasi capire e accennò un sorriso d'incoraggiamento.
«Hanno detto – le mancò la voce, – hanno detto che avevano incontrato il professor Captatio.»
Gli sguardi di tutti si puntarono sul preside. Lui chiuse gli occhi, come se si preparasse ad affrontare tutto ciò che sarebbe conseguito da quella affermazione.
Moira si sentì terribilmente in colpa perché quando l'uomo riaprì gli occhi, lei vide che erano quelli di un vecchio stanco. E ne fu certa: il professor Captatio era stato incastrato.









Ecco a voi, cari amici, un capitolo bello farcito!
Insomma, succedono un sacco di cose! Soprattutto, ecco realizzato il malvagio piano di McPride per mettere fuori gioco Captatio... quanto questo piano sarà efficace, lo potrete vedere molto presto! ;)
Insomma, invece di blaterare, vi lascio una bella carrellata di immagini:
Tanto per cominciare, QUI una bella foto di Rohiall, il nostro adorato Irish Traveller che ogni tanto compare, quando serve!
QUI i quattro fratelli maschi Deamundi: Cassian, erede del titolo, poi Liutpridus (il secondogenito sveglio, a detta di McPride, nonché l'unico ad aver ereditato gli occhi verdi degli O'Brian... vorrà pur dire qualcosa!), Tricolon e infine Eibhean, che ha frequentato il Trinity per qualche anno con Ed e gli altri. Ovviamente sono gli ultimi tre a partecipare al piano di McPride.
QUI la biblioteca del seminario (ovvero la biblioteca Queriniana di Brescia), mentre qui quella del Trinity e qui una che vi dà l'idea di come sia quella di McPride (che è solo circolare, però!).
QUI l'immagine di gruppo dei Nagard del sesto anno, per chi non l'avesse ancora vista, cosicché possiate ammirare il bel Sergey Balosky. È quello alto, cosa che non mancherà di far notare un Edmund piuttosto geloso! ;)
QUI una bella immagine di un chiostro che assomiglia molto a come mi immagino quello del Trinity (lo so, non c'entra nulla, perdonate... ma era troppo bella!)
QUI, finalmente, l'immmagine del capitolo: ovvero i fratelli Deamundi mascherati da Mangiamorte. Bel costume per carnevale! ;)

Be', vi annuncio che sono a buon punto con il prossimo capitolo, quindi aggiornerò fra sole 2 settimane, lunedì 26 gennaio!
A presto!
Beatrix

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Capitolo 14
*** Un salto indietro nel tempo III - I Conti in Fuga ***


CAPITOLO 14
Un salto indietro nel tempo III
I Conti in fuga






Il conte Rory O'Donnell passeggiava avanti e indietro lungo il sontuoso salotto del suo castello. Gli occupanti dei ritratti, suoi avi di antiche e passate generazioni, lo scrutavano dall'alto delle loro cornici. Non si poteva dire che il giovane conte O'Donnell fosse mai stato un uomo pacato e tranquillo, visto il suo temperamento irascibile e focoso, ma in quell'occasione stava dando il meglio di sé. Aveva già quasi strangolato il suo povero elfo domestico, che era venuto ad offrirgli una tazza di infuso caldo per calmarlo. Il prossimo che avesse varcato la soglia senza un valido motivo, probabilmente si sarebbe ritrovato con le braccia al posto delle gambe.
Il vero problema era che Rory O'Donnell stava passando un periodo terribile. Il suo uomo di fiducia, Mekaster, non era riuscito a scoprire nulla dei piani della O'Brian e del conte Deamundi: erano passati circa sei mesi da quando aveva scoperto che quella vipera si era fatta disegnare uno stemma nobiliare da un miniaturista italiano, ma ancora non era accaduto nulla. Rory stava aspettando il colpo, in guardia, il colpo che doveva eliminarlo e che non arrivava mai.
Inoltre, la gravidanza di sua moglie era stata complicata e sofferta. I guaritori continuavano a ripetere che forse avrebbe perso il bambino, che doveva restare a letto e non affaticarsi. Rory aveva preso in casa una levatrice, in quegli ultimi due mesi, perché potesse assistere la moglie con tutte le cure necessarie. In quel preciso momento, sebbene mancasse più di una settimana al termine previsto per il parto, la levatrice e altri due guaritori si stavano occupando della donna, convinti dai dolori di lei che il momento della nascita fosse ormai vicino.
Rory non ne poteva più di aspettare. Lui era un uomo d'azione, uno a cui piaceva scendere in campo in prima linea: odiava l'indolenza dell'attesa, e in quell'ultimo periodo non aveva fatto altro. Aspettava il colpo di grazia della O'Brian, aspettava la nascita del suo primogenito, aspettava i risultati delle ricerche di Mekaster.
Nulla. Aveva aspettato invano per mesi.
«Signore?» pigolò il suo elfo domestico, strappandolo dai suoi pensieri.
Rory si voltò con uno scatto d'ira, tanto che il piccolo elfo si ripiegò su se stesso, temendo una punizione, ma il giovane Conte non ebbe modo di reagire ulteriormente, perché il suo sguardo fu rapito dalla figura comparsa sull'uscio. Hugh O'Neill, suo mentore prima e poi compagno e caro amico, gli si presentò con il volto simile a quello di una maschera funerea, gli occhi inespressivi e la carnagione cadaverica.
«Hugh!» Rory gli corse incontro, allarmato. «Cos'è successo?»
«Ci ha denunciati.» Il suo tono era incolore come la sua espressione.
«Chi ci ha denunciati?»
Il vecchio mago deglutì. «Hoser Howt.»
«Howt?» gli fece eco Rory, senza capire. «Che motivo avrebbe Howt di...» si interruppe, come colto da un'ispirazione. «È stato manovrato! È stato manovrato da quella vipera della O'Brian e dal conte Deamundi!»
Hugh annuì piano. «Forse si è lasciato convincere che, eliminando noi, potrà avere il titolo di Conte di Tir Eoghain.»
«Sciocco illuso!» sputò Rory. «Deamundi lo eliminerà alla prima occasione.» Rory si passò una mano tra i capelli e cercò di concentrarsi. «Sediamoci un attimo» propose, accennando alle due poltrone posizionate davanti al caminetto spento.
«Non abbiamo molto tempo, Rory.» Hugh prese posto di fronte a lui, ansioso.
Rory lo guardò con intensità. «Devi dirmi tutto quello che hai scoperto.»
Hugh annuì. «Non molto, purtroppo. So solo che Howt ci ha denunciati al governo inglese, avvertendo lord Chichester che stiamo preparando una nuova ribellione.»
Rory chiuse gli occhi, capendo che era accaduto l'inevitabile. Il conte Deamundi e la O'Brian avevano fatto bene i loro conti, lasciando il lavoro sporco agli altri: a Howt, che si era preso la briga di denunciarli e agli Inglesi, che si sarebbero occupati di eliminarli.
«Ovviamente non hanno avuto nessuna esitazione a credere a Howt, visto l'esito della Cogadh na Naoi mBliana.» Hugh prese ad accarezzarsi la lunga barba bianca, come faceva sempre quando aveva troppi pensieri per la testa.
Rory si alzò dalla sedia e riprese a marciare per la stanza. «Gli Inglesi, e Lord Chichester in particolare, stavano solo aspettando una scusa per metterci le mani addosso, soprattutto da quando mio fratello...» si interruppe, perché il ricordo era ancora doloroso. «Da quando mio fratello è morto.»
Una quindicina di anni addietro, suo fratello Hugh O'Donnell, detto Red Hugh per via dei suoi capelli rossi e focosi come il suo temperamento, aveva messo in piedi, poco più che ventenne, una ribellione contro la corona inglese, appoggiato dalla famiglia alleata degli O'Neill e potendo contare soprattutto sull'aiuto del suo omonimo, Hugh O'Neill. Il conte Red Hugh e il suo omonimo O'Neill si erano opposti all'avanzata degli sceriffi inglesi nei territori delle loro contee, provocando uno scontro che si era protratto con vicende alterne per ben nove anni. A porre fine alla ribellione era stato Arthur Chichester, attuale Lord Deputato d'Irlanda, allora nulla più che un comandante militare più scaltro degli altri. Era un mago e, come tale, aveva saputo contrattaccare i due Conti con le stesse loro armi. La ribellione si era spenta sotto i colpi ben assestati di Chichester e Red Hugh, per proteggere il segreto delle famiglie O'Donnell e O'Neill era stato costretto alla fuga. Era morto in esilio, in Spagna, lasciando al fratello Rory il titolo di Conte di Tir Chonail, insieme con il compito di proteggere la promessa sposa, abbandonata alla vigilia delle nozze. Rory non era mai riuscito a superare del tutto la perdita del fratello maggiore, che per lui era stato come un modello: energico, pieno di vita, determinato e coraggioso, aveva saputo opporsi al predominio inglese e aveva pagato il suo ardimento con la vita.
«Lord Chichester non aspettava altro che un pretesto per eliminarci» confermò Hugh, con un sospiro. «Non ha mai accettato che le nostre famiglie avessero ricevuto il perdono dalla corona.»
«Cani inglesi!» scoppiò Rory, battendo il pugno sul tavolo del salone. «Deamundi ha fatto bene i suoi conti, sfruttando prima Howt e poi Chichester per eliminarci!»
«Lord Chichester è un mago» gli ricordò Hugh, come se ce ne fosse bisogno. «Se dovesse arrivare e perquisite il mio castello, potrebbe scoprire il nostro segreto.»
«Lo so.» Rory annuì. «Ci resta solo una cosa da fare: dobbiamo seguire le orme di mio fratello.»
Hugh si alzò dalla poltrona. «Prendi le tue cose e andiamocene prima che sia troppo tardi.»
Gli occhi di Rory si riempirono di angoscia: per quanto sapesse qual era il suo compito come Conte di Tir Chonail, aveva pena all'idea di lasciare l'Irlanda ed essere costretto alla fuga, magari per morire in esilio proprio come suo fratello. «Tu vai» mormorò a Hugh. «Io devo prima fare una cosa.»
Lasciato il vecchio amico, Rory si affrettò a salire lo scalone di legno verso il primo piano, dove si trovavano le camere da letto. La levatrice si stupì nel ritrovarselo di fronte, ma ebbe abbastanza ardore da fermarlo. «Vostra moglie dovrebbe riposare, signor Conte» lo ammonì, posizionandosi davanti all'ingresso della stanza.
«Levati, donna» le intimò Rory. «Ti pago per badare a mia moglie, non per darmi ordini.»
La levatrice tentennò solo un attimo, perché lo sguardo del giovane Conte le suggerì di ubbidire prontamente, se non voleva ritrovarsi qualche spiacevole maledizione addosso.
Rory entrò di getto nella stanza, cosicché i suoi occhi ebbero difficoltà ad adattarsi alla penombra. Dopo una manciata di secondi, riuscì a distinguere la sagoma di un letto a baldacchino dove, tra lenzuola di lino bianco, giaceva adagiata sua moglie. «Rory» sussurrò quando si accorse del marito.
L'uomo le si avvicinò e le baciò delicato prima la fronte, poi i capelli biondi, sciupati, spenti e umidi di sudore per la lunga degenza. «Come ti senti?» le domando infine, prendendo posto su una sedia dimenticata al fianco del letto dalla levatrice.
Lei accennò un breve sorriso. «Meglio, ora che sei qui.»
Rory sentì come un macigno depositarsi sul suo petto, un macigno che lo soffocava e lo schiacciava sul pavimento. Era un verme, nient'altro che un verme. Fosse dipeso solo da lui, avrebbe affrontato Lord Chichester a viso aperto, puntandogli la bacchetta dritta in faccia e sfidandolo a difendere le sue ragioni a suon di incantesimi. Ma come Conte di Tir Chonail aveva delle responsabilità, aveva giurato di proteggere il segreto a costo della vita: affrontare in duello Chichester non era il modo migliore per adempiere il suo compito.
«Ti ricordi quello che ti dissi quando mio fratello Red Hugh partì?» domandò alla moglie, con un sorriso amaro dipinto sulle labbra.
Lei chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì lucidi di lacrime. «Dicesti che mi amava più della sua stessa vita.»
Rory intrecciò la mano con quella della moglie, delicatamente adagiata sopra il pancione. «Esatto» sussurrò con un nodo alla gola. Quando suo fratello era scappato in Spagna per proteggere il segreto, gli aveva lasciato il compito di prendersi cura della sua bellissima promessa sposa Eorann. Rory le era stato affianco, aveva cercato di lenire il suo dolore e l'aveva amata in silenzio, giurando a se stesso che lui non l'avrebbe mai fatta soffrire come stava facendo suo fratello. L'aveva protetta per lui, ma Red Hugh dalla Spagna non era mai tornato, morendo in esilio dopo poco più di un anno dalla fuga. E allora Eorann, sola e disperata, si era rivolta all'unica persona che le era stata amorevolmente affianco da quando Hugh se n'era andato: il fratello minore di lui, Rory. Lui si era ripromesso che non l'avrebbe mai lasciata, ora che era finalmente sua, e che se fosse stato costretto alla fuga, l'avrebbe portata con sé. Ma il destino sembrava farsi beffe di lui e delle sue promesse.
«Mio fratello ti amava, Eorann.» Rory sentì che non ce l'avrebbe fatta ad andare avanti, ma si costrinse a chiudere gli occhi e portare a termine il suo compito. «Eppure fu costretto a partire per adempiere i suoi doveri di Conte. Io sono sicuro che non sarebbe mai voluto partire e avrebbe fatto di tutto per non lasciarti.»
«Rory, perché mi dici queste cose adesso?» domandò Eorann con un filo di voce. Una strana apprensione si leggeva nei suoi occhi imperlati di lacrime.
«Eorann, io ti amo più della mia stessa vita.» Rory mise una mano tra i capelli dell'amata moglie e appoggiò la fronte al viso di lei. «Ma c'è un segreto che ho giurato di proteggere con un Voto Infrangibile.»
«No, Rory, no, ti prego...» lo supplicò Eorann, la voce soffocata dai singhiozzi sommessi. «Non anche tu...»
«Lo stesso segreto che anche Hugh giurò di proteggere» continuò l'uomo, con la morte nel cuore. Ma non aveva altra scelta.
«Rory, non mi lasciare» sussurrò Eorann, ormai in lacrime.
«Quando il bambino sarà sufficientemente grande da poter affrontare il viaggio, tornerò a prendervi» mormorò lui, senza avere il coraggio di guardare in faccia la moglie. «Te lo giuro.» Le strinse la mano con forza, incapace di dire altro, poi si alzò dalla sedia e si allontanò dal letto.
«Rory...» lo chiamò un'ultima volta Eorann, allungando una mano verso di lui.
Il Conte si fermò sull'uscio, ma non ebbe il cuore di voltarsi. «Se è un maschio, chiamalo Hugh» fu l'ultima cosa che le disse, prima di lasciare definitivamente la stanza.

Il conte Deamundi si drappeggiò sulla spalla il mantello di velluto nero, con dei ricami simili ad arabeschi di fili di seta arancione. Nero e arancione, i colori dello stemma dei Deamundi. Osservando la sua immagine riflessa nello specchio, Meccorin pensò di avere un aspetto davvero regale. Quello era il giorno del suo trionfo, il giorno in cui metteva finalmente fuori gioco i suoi avversari.
Da quando, due secoli prima, i Deamundi avevano riportato in vita l'antico sistema tribale dei clan, denominandoli schiatte e richiamando a farne parte solo quelle famiglie di maghi che si fossero conservare pure da qualsiasi contaminazione, avevano sempre cercato di avere un potere egemone su tutta la società magica irlandese. La famiglia più importante, influente ed economicamente potente di ogni schiatta era stata scelta per portare il titolo di Conte e i Deamundi erano diventati Conti. Ma quello non era mai bastato loro, perché i conti erano otto come le schiatte. E il comando non si può dividere tra due, figuriamoci tra otto.
Dalla sistemazione del sistema tribale, alcune famiglie si erano estinte in linea maschile e, se avevano portato il titolo, questo passava alla seconda famiglia più importante della schiatta, che però, spesso, era debole e poco potente. Questo aveva indebolito molte schiatte, come quella di Laith Monra, la cui famiglia più importante si era estinta e gli eredi, i Mowe, erano poco più che contadini. La nobiltà era un titolo che era stato offerto, due secoli prima, a quelle famiglie non contaminate da sangue Babbano o, peggio ancora, Inglese, ma questo non significava che fossero realmente influenti nella società. Un'intera schiatta, addirittura, era scomparsa una cinquantina di anni prima, perché le famiglie che la componevano si erano estinte tutte e l'unico erede sopravvissuto era partito all'avventura alla volta delle Americhe. Poiché le schiatte dovevano necessariamente essere otto, il Nobile Consiglio decise di ammettere tra le nobili quella di Siliab Muicle, tra le candidate, la meno peggio: le famiglie che la componevano erano pure e sufficientemente benestanti, ma non certo potenti. Il titolo di Conti di Siliab Muicle, assegnato ai MacRitius, era stata poco più che una formalità. Quell'indebolimento generale aveva portato le poche famiglie davvero influenti a risplendere ancora di più: i Deamundi, Conti di Con Cetchthach, gli O'Donnell, Conti di Tir Chonail e gli O'Neill, Conti di Tir Eoghain.
Quando era scoppiata la rivolta contro il governo inglese, suo padre Cassian prima e Meccorin poi avevano sperato che gli O'Donnell e gli O'Neill si fossero rovinati con le loro stesse mani. Se gli Inglesi fossero riusciti a metterli fuori gioco, i Deamundi avrebbero ottenuto l'egemonia cui auspicavano da tanti anni. Per non parlare del fatto che una schiatta sarebbe scomparsa e Meccorin avrebbe potuto tenerla libera per quella della sua amata Elizabeth. Se lei fosse diventata nobile, nessuno avrebbe più potuto contestare il loro matrimonio, una volta che la prima moglie fosse morta.
Ma quel piano perfetto era stato rovinato dalla fine della rivolta: le famiglie O'Donnell e O'Neill avevano ottenuto il perdono dalla corona inglese e, per quanto quella testa calda di Red Hugh fosse effettivamente morto, il titolo di Conte era passato al fratello minore di lui, Rory. Così Meccorin era stato costretto ad ideare un altro piano, soprattutto visto che sua moglie era morta di vaiolo di drago e lui era rimasto vedovo e finalmente libero di sposare Elizabeth.
Ora, quel piano, stava per essere portato a termine.
Meccorin lasciò la stanza silenzioso come sempre, dirigendosi verso il grande portone del castello. Il primo Conte di Con Cechthach aveva protetto la sua dimora impedendo che ci si potesse materializzare o smaterializzare all'interno del castello, cosicché Meccorin fu costretto ad uscire dai confini della proprietà per poter roteare su se stesso e smaterializzarsi.
Una volta raggiunto Dubh Cliathan, si avviò con passo sicuro verso il palazzo del XV secolo che era stato scelto come sede dell'Uasal Comhairle Uachtarach, il Nobile Consiglio Supremo, di cui facevano parte tutti i patriarchi delle famiglie nobili. Era stata indetta un'assemblea urgente: non era trapelata la notizia ufficiale, ma si vociferava fosse successo qualcosa di terribile ai conti O'Donnell e O'Neill. Meccorin si concesse il lusso di sorridere. Tutto secondo i piani.
L'uomo entrò nell'aula dove si riuniva il consiglio: non appena gli altri nobili si accorsero del suo ingresso, si alzarono in piedi in segno di rispetto. Meccorin assaporò il momento, pensando che d'ora in avanti quel gesto sarebbe stato riservato solo a lui e ai suoi discendenti, poi andò a sedersi al suo posto, invitando gli altri capifamiglia a fare lo stesso.
«Conte Deamundi» lo interpellò l'anziano e barbuto Marcus Secula, conte di Ui Cuanach. «Un informatore ci ha comunicato che i conti Rory O'Donnell e Hugh O'Neill sono salpati questa mattina in tutta fretta dal villaggio di Rath Maolain.»
Un brusio agitato si diffuse tra i maghi del consiglio: tutti avevano ancora ben impresso nella memoria quanto era accaduto anni prima con il tentativo di ribellione fallita. Forse O'Donnell e O'Neill ci avevano riprovato.
«Sappiamo il motivo della loro fuga?» intervenne il giovane conte Maleficium, da poco subentrato in carica a causa della morte del padre.
«Pare che Lord Chichester abbia finalmente trovato un pretesto per ignorare il perdono della corona e metter loro le mani addosso» rispose il conte Secula, con un tremito nella voce.
«Esilio volontario!» sentenziò l'irruento messer MacGaril, alzandosi dal suo scanno. «Io dico che non ha importanza il motivo per cui abbiano deciso di lasciare l'Irlanda. Chiunque scelga l'esilio volontario non è più degno di sedere in questo consiglio e di essere considerato nobile, perché rigetta le nostre tradizioni, la nostra cultura e la nostra patria.» MacGaril alzò il dito al cielo, come per conferire una volontà divina alle sue parole. «Io dico: che gli O'Donnell e gli O'Neill vengano esclusi dalla nobiltà.»
Il conte Maleficium scosse la testa per bloccare qualsiasi provvedimento avventato. «Io credo che stiamo esagerando: si parla di due famiglie molto importanti e prima di prendere decisioni così drastiche dovremmo riflettere seriamente e cercare di capire le motivazioni che li hanno spinti verso l'esilio» propose con serietà.
«Siete sempre pronto a difendere anche gli indifendibili, non è vero conte Maleficium?» lo apostrofò MacGaril, voltandosi verso di lui. In teoria, appartenevano entrambi alla stessa schiatta di Iuchar Tuiren, di cui Maleficium era conte, ma non avevano mai provato sentimenti di reciproca simpatia. MacGaril, dopo una breve lotta di sguardi, tornò a rivolgersi al consiglio. «Rory O'Donnell e Hugh O'Neill hanno disprezzato e insultato le nostre tradizioni e non si meritano la nostra stima.»
Scoppiò il finimondo. Alcuni si alzarono, altri presero a gridare, sostenendo l'una o l'altra parte. Quella testa calda del conte MacRitius, addirittura, mise mano alla bacchetta.
Meccorin lasciò che si sfogassero per qualche minuto, infine si alzò dal suo scanno. «Signori, signori, vi prego» li richiamò con voce pacata, ma sufficientemente autoritaria da zittire anche gli animi più turbolenti. La sua sola presenza fisica bastò a far risedere i nobili ai loro posti, mentre lui restava in piedi, per mostrarsi in una posizione di potere. «Avrete notato che non sono rimasto turbato da queste notizie» enunciò rivolto a tutti i consiglieri. «Vi prego, conti e messeri, di credermi quando vi dico che non è per indifferenza, quanto perché i miei informatori, purtroppo, mi avevano già recato questa dolorosa notizia. Ho il cuore infranto, davvero, perché non c'era famiglia più antica e rispettabile in Irlanda di quelle degli O'Donnell e degli O'Neill» recitò con composta afflizione. «Ma purtroppo mi trovo costretto a condividere le parole di messer MacGaril: chiunque scelga volontariamente di abbandonare il nostro paese, quali che siano le sue motivazioni, non è più degno di essere considerato nobile.»
Il giovane conte Maleficium gli lanciò un'occhiata di disapprovazione, ma non contestò la decisione presa. Non avrebbe potuto, d'altronde, perché la parola di un Deamundi era legge. Tanto più ora che nessuna famiglia nobile avrebbe potuto contrastare il suo primato.
«Mi duole anche informarvi che il responsabile di tutto questo è seduto qui fra noi, una serpe che ci siamo allevati in seno» continuò Meccorin, mortalmente serio. Avvertì un fremito da un uomo seduto in seconda fila, un uomo biondiccio dall'aria insipida. «Hoser Howt ha denunciato O'Neill e O'Donnell agli Inglesi per spodestare il Conte della sua schiatta e ottenerne il titolo» annunciò freddamente al consiglio. Alzò il dito su Howt, pallido e tremante, e con una potenza quasi sovrumana tuonò: «Infamia su di lui, sui suoi figli, sui figli dei suoi figli e su tutta la sua discendenza, fino alla fine dei tempi!»









Signore e signori,
ANGST e bastardaggine a palate!

Mi spiace proprio, ragazzi miei, ma per ragioni di storia vi siete dovuti beccare un capitolo parecchio angosciante, in cui è descritto il trionfo del bastardissimo conte Deamundi. In realtà, il fatto che Rory parta lasciando in Irlanda la moglie incinta non è farina del mio sacco ma evento storico che appartiene alla vicenda del vero conte O'Donnell! Così come è storica tutta la questione della ribellione di Red Hugh e di Hugh O'Neill, e dell'intervento di lord Chichtester (QUI il link alla pagina di wikipedia al riguardo). Farina del mio sacco, invece, è la storia della povera Eorann, prima promessa sposa di Red Hugh e poi moglie di Rory, abbandonata da entrambi... il tutto è nato da QUESTA immagine di un vecchissimo (anni '40) film della disney su Red Hugh, dal titolo "The fighting prince of donegal".
Comunque, per farmi perdonare tutta questa drammaticità, vi lascio un bel po' di immagini con i volti di tutti i protagonisti del capitolo:
QUI un vecchio disegno di Rory e Elizabeth;
QUI il ritratto storico del conte Hugh O'Neill;
QUI un disegno trovato in giro di Red Hugh O'Donnell;
QUI il ritratto storico di lord Arthur Chichtester;
QUI quel dannato figo del conte Deamundi;
QUI il giovane conte Maleficium, antenato dei nostri attuali biondi Maleficium;
QUI, infine, quell'insipido (e idiota) di un Hoser Howt.

Bene, carissimi, ormai i capitoli saranno tutti ben farciti. Ci rivediamo lunedì 16 febbraio!
A presto,
Beatrix B.

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Capitolo 15
*** La sconfitta delle aquile ***


CAPITOLO 15
La sconfitta delle aquile






Moira si rigirò la forchetta tra le mani, a disagio. «Mi sento così in colpa» mormorò con un filo di voce. Quella mattina a colazione, quasi tutti i ragazzi del FIE si erano radunati al tavolo del Llapac, ma nessun insegnante aveva protestato, dal momento tutti avevano in testa ben altro. Il professor Captatio era stato messo sotto processo e numerose voci furibonde si erano sollevate affinché si dimettesse dalla carica di Preside. Lui aveva dichiarato pubblicamente la sua innocenza, ma non aveva potuto ignorare le continue pressioni che gli venivano mosse dall'intera comunità magica. Dopo che Captatio era stato costretto a dimettersi, la vicepreside O'Connel aveva ricoperto il ruolo di Preside ad interim, ma a quanto pareva il Governo si stava muovendo per nominare un sostituto più consono. O, almeno, più disponibile nei suoi confronti.
«È tutta colpa mia.» Moira scosse la testa, sconsolata.
«Non dire sciocchezze, tesoro» la confortò Henry. «Sarebbe potuto capitare a chiunque altro.»
Moira prese ad osservare fuori dalla finestra: era ormai febbraio inoltrato e la neve sui prati intorno al castello aveva cominciato a sciogliersi. Quello sarebbe dovuto essere un anno grandioso: sarebbero stati Dimissi, sarebbero entrati nel mondo degli adulti, avrebbero cominciato ad affrontare la vita fuori dalle mura del Trinity. Per non parlare del fatto che in quell'anno si festeggiava il centenario dell'indipendenza della Magica Repubblica d'Irlanda dal governo britannico. Insomma, sarebbe dovuto essere straordinario! Invece era cominciato nel peggiore dei modi: per una sua accusa, il preside era stato messo sotto processo e costretto a dimettersi.
«Captatio è stato incastrato» sentenziò Moira, per quanto fosse certa di averlo già ripetuto più di una volta ai suoi amici.
«Quello che non capisco» intervenne Dominique, sottovoce. «È che cosa sperano di ottenere con questa ridicola farsa. È ovvio che il professor Captatio è innocente: lo scagioneranno di certo.»
«Io non ne sarei così sicuro.» Edmund aveva il volto tetro. Non che di solito fosse una persona ottimista, ma in quel caso il suo sguardo negativo sulla faccenda pareva esagerato.
«Credi che la Corte sia corrotta?» sussurrò Bearach, incredulo.
«No.» Edmund scosse la testa. «Chiunque abbia elaborato questo piano è una persona molto scaltra, che ha fatto bene i suoi conti» rivelò, ripensando alla questione del biglietto che lui avrebbe mandato a Mairead. Faceva senz'altro parte del piano il fatto che lui non potesse rivelare di non averlo scritto, se non ammettendo di essere uscito dal Trinity; significava che qualcuno l'aveva beccato e aveva usato quella sua bravata a suo favore. Notando le facce perplesse dei suoi amici, Edmund fu costretto a raccontare: «Tempo fa Captatio mi raccontò che durante la guerra contro Grindelwald lui era il Presidente della Repubblica e venne accusato di alto tradimento per aver complottato con il mago oscuro.»
«Che inudibile sciocchezza!» esclamò Faonteroy, come se qualcuno avesse osato accusare lui di alto tradimento.
«Sarà stato incastrato anche quella volta» completò Eileen, seduta vicino a Faonteroy. Da quando si era tagliato i capelli, facendo sparire quell'orribile taglio da paggetto, Eileen non aveva smesso un secondo di stargli addosso e tormentarlo. Forse era il suo modo per fargli capire che gli piaceva.
«Purtroppo no» confessò Edmund ai suoi amici. «Captatio aveva davvero incontrato Grindelwald, per convincerlo ad affrontare in duello Silente. Gli aveva offerto in cambio la sua alleanza, convinto che tanto Silente l'avrebbe battuto.»
«Ma era a fin di bene...» provò Henry, cercando di convincere prima di tutto se stesso che la cosa non era così grave.
«Sì, infatti Captatio venne prosciolto da ogni accusa» spiegò ancora Edmund. «Ma state certi che questa storia tornerà nuovamente a galla. E si creerà un precedente.»
«Be', che si crei!» sbottò Laughlin. «Se era stato giudicato innocente allora, verrà giudicato innocente anche questa volta.»
«Sarà difficile» mormorò Dominique, che aveva inteso alla perfezione cosa volesse dire Edmund con quella storia. «All'epoca Captatio venne messo sotto processo dopo che Grindelwad era stato sconfitto, immagino. Insomma, il peggio era passato.»
«Già» convenne Edmund. «Ora invece siamo in piena crisi. Si sta solo cercando un capro espiatorio.»
«Ma è assurdo prendersela con Captatio!» protestò Mairead. «Voglio dire, è stato il Preside praticamente di tutti! La gente non crederà che sia davvero colpevole, anche con questa storia di Grindelwald di mezzo.»
Edmund sbuffò. «La gente è pronta a credere qualsiasi cosa McPride dirà.»
Proprio in quel momento, quasi a suggello delle nefaste parole di Edmund, la porta della Sala Mor si spalancò e apparve, trionfante, una donna con una lunga veste nera. Non appena gli studenti si accorsero della nuova arrivata, il chiacchiericcio si spense all'istante.
«Chi è?» sussurrò Bearach a mezza voce, mentre la donna avanzava lungo la sala col passo di un conquistatore.
Mairead osservò i suoi voluminosi capelli neri, quel naso un po' importante, quell'espressione vincente che le illuminava il viso. Non l'aveva mai vista, ma sapeva benissimo chi fosse. «Daireen Cumhacht.»
«Quella Daireen Cumhacht?» sussurrò incredulo Laughlin, alzandosi dalla panca come se quel semplice gesto potesse impedirle di passare.
La donna, infatti, stava avanzando in mezzo alla sala, seguita dagli sguardi di tutti, in direzione del tavolo dei professori. Quando arrivò davanti al loro gruppetto, si fermò, si voltò e li scrutò con calma, soffermandosi soprattutto su Mairead. «Questo non è forse il tavolo dei Llapac?» domandò infine. I ragazzi si scambiarono occhiate perplesse.
«Non mi pare che siate tutti Llapac» commentò con evidenza. «Non tollero questo genere di disordini nella mia scuola.»
«La sua scuola?» le fece eco Laughlin, in piedi di fronte a lei.
La Cumhacht si voltò per guardarlo dritto negli occhi. «Dovrebbe imparare il rispetto, signor...?»
«Maleficium» completò Laughlin, a denti stretti.
«Dovrebbe imparare il rispetto, signor Maleficium» ripeté la donna, con un sorriso falsamente affabile. «Ora tornate tutti ai vostri posti o devo togliervi dei punti?»
I ragazzi si alzarono lentamente e di malavoglia: sembrava di essere piombati in un incubo in cui la persona più sgradevole sulla faccia della terra aveva perso il posto di Babbo Natale.
«Ah, signorina O'Callaghan» continuò la Cumhacht, facendo trasalire la povera Moira. «È merito suo se quel farabutto di Captatio è stato scoperto. Io direi cinquanta punti ai Llapac!»
Nessuno applaudì, nemmeno al tavolo blu dei Llapac, per quanto fosse raro che la loro casa ricevesse così tanti punti, perché il clima in sala era glaciale come se fosse piombato dentro l'inverno.
La Cumhacht sorrise, poi riprese ad avanzare verso il tavolo degli insegnanti, quando un'altra persona le bloccò la strada: il professor Saiminiu, avvolto nelle sue vesti nere, sembrava più torvo e corvino del solito.
«Septimius, quanto tempo» commentò gioviale la donna.
«Troppo poco» rispose gelido Saiminiu.
Il sorriso finto scomparì dalle labbra della Cumahcht. «Levati» sibilò.
Saiminiu rimase immobile per una frazione di secondo, poi si scostò lentamente per permetterle di passare. Ormai erano impotenti di fronte a quello sfacelo. La Cumhacht raggiunse finalmente lo scanno del Preside e vi si posizionò davanti. «Grazie della vostra calorosa accoglienza» esclamò alla sala, avvolta dal gelo. «Mi chiamo Daireen Cumahcht e, in qualità di vice-capo del Dipartimento dell'Istruzione, sono stata incaricata di svolgere le funzioni di Preside del Trinity College» annunciò. Un brusio angosciato si produsse a poco a poco in sala, finché la Cumhacht non lo spense con un colpo di pugno sul tavolo. «Questa scuola ha bisogno di disciplina, di rigore, di regole. Non tollero i disordini e qualsiasi defezione sarà punita di conseguenza.»
I ragazzi del FIE si scambiarono occhiate cariche di angoscia, proprio mentre lo sguardo della Cumhacht saettava nella loro direzione.
«Bene!» esclamò la donna, con aria soddisfatta, continuando a ignorare il clima che regnava in Sala Mor. «Vedrete che sotto la mia direzione questa scuola tornerà al suo antico splendore, dopo gli oscuri fatti in cui è restata coinvolta.»
«Oscuri fatti?» sibilò Laughlin con astio. Sembrava sul punto di ringhiarle contro.
Edmund contemplò per un attimo la figura di Daireen Cumhacht, ritta in piedi al posto che aveva sempre occupato il preside Captatio. Ebbe come l'impressione che qualcosa si fosse rotto, che il Trinity non fosse più quel luogo accogliente e protetto che era sempre stato. Si sentì incredibilmente scoraggiato. «I tempi spensierati sono finiti, amici miei.»

Mairead cercò di scacciare la sensazione opprimente di essere finita nella fossa dei leoni, con la Cumhacht che occupava il posto del Preside, concentrandosi su ciò che la aspettava quel sabato mattina: la sua prima partita di Quidditch come Capitana della squadra.
Ritrovarsi davanti, in spogliatoio, le facce preoccupate dei suoi giocatori che la guardavano speranzosi fu una sensazione strana. Fletcher, a giudicare dal suo colorito verdastro, sembrava sul punto di vomitare. Mairead realizzò che doveva cercare di incitarli e tirar su loro il morale. «Ok, ragazzi, è la prima partita per noi» ricordò loro. «Ci siamo allenati duramente, siamo carichi, abbiamo studiato gli schemi e siamo pronti ad affrontare i nostri avversari.»
In realtà, Mairead non era affatto sicura che fossero pronti ad affrontare gli avversari: certo, stavano per scender in campo contro i Llapac, che notoriamente non erano dei campioni, ma la Capitana Sophia Allen aveva messo in piedi una buona squadra. Era la sorella della tanto osannata Portiera dei Llapac Cecelia Allen e sapeva il fatto suo, oltre ad essere un'ottima Cercatrice: già l'anno scorso aveva messo in crisi Beatrix, che era riuscita a strapparle il Boccino sotto il naso per un soffio, e alla partita contro i Nagard di quell'anno per pochissimo non era riuscita a vincere contro Bearach. Tenendo conto che la sua Cercatrice, Lasair Secula, aveva ottenuto il posto per un puro colpo di fortuna, Mairead non era affatto sicura che avrebbero vinto. Sperava solo di non perdere in modo troppo disastroso. Ma questo evitò di farlo notare ai compagni.
«Dai, mettiamoci in fila per uscire» ordinò alla squadra, prendendo sulle spalle la sua Nimbus e preparandosi ad affrontare lo stadio.
«Non abbiamo molte speranze di vincere, vero?» le sussurrò Lily all'orecchio, mentre si stava raccogliendo i vaporosi capelli biondi in una nodo sulla testa.
Mairead si sistemò gli occhialini da Quidditch sugli occhi. «Noi siamo i Cacciatori: faremo del nostro meglio per arginare il disastro.»
Le urla dei tifosi accolsero le due squadre che fecero il loro ingresso nello stadio. Sette frecce blu e sette verdi si incrociarono nel cielo, mentre il professor Ballerinus, addetto alla telecronaca, presentava i vari giocatori: «Ecco a voi i Raloi! I Cacciatori Sharpaty e Moon, con la Punta e Capitana Boenisolius, il Portiere Thein, la Cercatrice Secula e i due Battitori Wook e McKonnit!»
Mairead e i suoi giocatori fecero un giro a volo del campo, tanto per adattarsi un po' al clima. Per fortuna non pioveva, quel giorno, sebbene il cielo fosse grigio e cupo.
«Per i Llapac abbiamo i Cacciatori Stern, O'Daniel e la Punta Yates, i fratelli MacBonn come Battitori, la Portiera Staller e la magnifica Capitana e Cercatrice Sophia Allen!»
I Llapac osannarono la loro Capitana, che fece un giro veloce sulla sua scopa nuova di zecca.
Mairead mugugnò quando riconobbe l'elegante modello dell'avversaria. «Ha una Firebolt» non poté fare a meno di sussurrare a Lily.
La ragazzina le rivolse un'occhiata più che eloquente: Lasair era già mediocre di suo, e oltretutto cavalcava una Nimbus 1700, come quella di Mairead. Non era una scopa malvagia, di per sé, ma la Allen aveva una Firebolt, maledizione! «Siamo spacciati.»
Il fischio del professor Trimble segnò l'inizio della partita. La superiorità dei Cacciatori Raloi si fece subito sentire: Mairead recuperò la Pluffa senza difficoltà e dopo pochi precisi passaggi, Fletcher segnò il primo punto della partita.
«Grande, Fletch!» si complimentò Lily, alzando il braccio per farsi dare il cinque. Ma il ragazzino saettò via a cavallo della sua scopa, rosso come un pomodoro maturo.
«Lily, smettila di metterlo in imbarazzo!» le urlò dietro Mairead, ben sapendo che l'esuberante biondina lo faceva apposta. Per fortuna, tanto Fletcher era imbranato nelle relazioni interpersonali, tanto era una furia sul campo: dopo meno di mezz'ora, il punteggio era cento a venti per i Raloi. I fratelli MacBonn, Battitori dei Llapac, sapevano il fatto loro e riuscirono a far perdere la Pluffa ai Cacciatori avversari per ben due volte, ma Era era una vera fuoriclasse: spediva i Bolidi con precisione e potenza contro chiunque si frapponesse tra i Cacciatori e gli anelli e riuscì perfino a distrarre la Allen dal prendere il Boccino.
Passata circa mezz'ora, il professor Trimble fischiò un passaggio in avanti da parte dei Llapac. Mairead e i suoi due compagni si prepararono in posizione: al segnale di partenza, scattarono in avanti in perfetta sincronia, acquistando sempre maggiore velocità, tanto che Mairead non ebbe alcuna difficoltà ad afferrare la Pluffa per prima. Nel momento in cui le sue dita sfiorarono la palla rossa di cuoio, le sue Ali si aprirono a ventaglio per permettere alla formazione avversaria di passare tra loro, mentre lei puntava la scopa verso il basso per superarli da sotto. Passò la Pluffa a Lily e...
«Sharpaty segna!» esclamò il professor Ballerinus. «Siamo centoventi a venti per i Raloi.»
Mairead fece un cenno ai suoi Cacciatori. «Bel gioco, ragazzi. Continuiamo così.»
Proprio in quel momento, dai tifosi blu si levò un'ovazione. Mairead individuò immediatamente il motivo di tale giubilo: la Allen si era lanciata verso i pali dei Llapac, perché doveva aver avvistato il Boccino. «Laisar!» gridò Mairead, ma la ragazza era dalla parte opposta del campo e non aveva alcuna speranza di competere con la Firebolt della Allen. Anche Era si trovava troppo distante per poter compiere il miracolo con uno dei suoi tiri, così Mairead prese una decisione avventata: puntò la scopa verso il basso e si lanciò in picchiata contro la giocatrice avversaria. Non aveva certo intenzione di arrivarle addosso ma, forse, se fosse riuscita a tagliarle la strada, il Boccino sarebbe scomparso. Sentì il vento fischiarle nelle orecchie, man mano che acquistava velocità, le urla dei tifosi che parevano lontane come in un sogno. E il piano funzionò. La Allen, vedendosi piombare addosso un turbine verde, deviò di scatto la sua corsa e in quei concitati secondi, il Boccino si dileguò.
«Boenisolius?» esclamò stupita la Cercatrice, non appena riconobbe l'avversaria, che aveva arrestato bruscamente la sua picchiata.
«Scusami, non ti avevo vista.» Mairead le rivolse un sorriso innocente.
Dalla curva blu si alzarono fischi e urla, ma il professor Trimble non fischiò: dopotutto, non era stato commesso nessun fallo.
La partita riprese, più frenetica di prima. I Llapac riuscirono a segnare un altro punto, ma i Raloi li distanziarono ulteriormente: il punteggio, dopo poco meno di un'ora di gioco, era di centosessanta a trenta.
Ma la Allen non poteva essere tenuta lontana dal Boccino ancora a lungo: poco dopo l'ennesimo goal di Fletcher, la Cercatrice dei Llapac individuò lo scintillio d'oro a qualche metro da terra. Quella volta Laisar, per chissà quale miracolo, si trovava in posizione di vantaggio. Tutto lo stadio trattenne il fiato come un sol uomo, mentre la Allen prima raggiungeva, poi si affiancava e infine superava la sua avversaria.
«Maledizione, Laisar!» le urlò dietro Mairead, ma orma il danno era fatto. Era spedì un Bolide contro le due Cercatrici, inutilmente. Un attimo prima che la palla di ferro la colpisse, Sophia Allen aveva afferrato il Boccino e sterzato violentemente verso l'alto.
«La Allen conquista il Boccino d'oro!» esclamò il professor Ballerinus, mentre Trimble fischiava la fine della partita. «I Llapac vincono per centottanta a centosettanta.»
«Abbiamo perso!» proruppe incredula Lily. «Abbiamo perso!» ripeté.
Laisar era a disagio, Fletcher mortificato come se fosse colpa sua, Era su tutte le furie. Mark, per quanto dispiaciuto di aver perso, era contento di essere migliorato nelle parate.
«Ci rifaremo contro i Nagard.» Mairead tentò di tirar su il morale alla squadra, mentre i Llapac festeggiavano increduli la loro vittoria invadendo lo stadio. «Abbiamo giocato bene, comunque.»
Lily le riservò un'occhiata di sbieco. «Abbiamo perso.»









Eccomi, finalmente!
Perdonate, perdonate il ritardo, ma ho avuto delle settimane impegnatissime e questo capitolo non ne voleva proprio sapere di scriversi!
Insomma, ecco che l'adorabile Daireen Cumhacht, sorella dell'altrettanto adorabile professor Cumhacht, si ritrova a ricoprire il ruolo di Preside sostitutiva. Cominciano i guai, ragazzi! E anche per Captatio le cose si mettono male: chi meglio di un capro espiatorio può ridare sollievo alla nazione? (Ricordo che gli Inglesi, più o meno nello stesso periodo, arrestano STAN PICCHETTO con l'accusa di essere un mangiamorte...!).
Quanto alla partita di Quidditch, erano secoli che non ne descrivevo una. Spero di non aver perso la mano! E finalmente i Llapac vincono una partita! Povera Mairead!

Per farmi perdonare del ritardo, vi lascio alcune immagini:
QUI una bella immagine di Grindelwald, quando Captatio si recò da lui per proporgli il patto; e sì, basta anche solo nominarlo, per farmi venir voglia di disegnarlo!
QUI l'immagine del capitolo, ovvero Daireen Cumhacht che appare in Sala Mor.
QUI una cosa che non c'entra nulla: ovvero, Mairead nel giorno delle sue nozze. Non chiedetemi perché mi sia venuto in mente di disegnarla.

Nel prossimo capitolo, ci daremo alla Difesa contro le Arti Oscure. Ci vediamo lunedì 16 marzo (la vigilia di san Patrizio!).
A presto,
Beatrix

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Capitolo 16
*** Patronus ***


CAPITOLO 16
Patronus






Laughlin era sempre stato un ragazzo positivo: gli piaceva cogliere ciò che di buono gli offriva la vita, in modo da affrontare le giornate con un sorriso. Di solito questo giovava anche all'umore delle persone che gli stavano attorno.
Ma quella mattina di febbraio poteva dire tutto tranne di essere positivo. Era da una settimana che la Cumhacht si era insediata sullo scanno del Preside e ancora Laughlin non riusciva a sopportare l'idea di vederla seduta al tavolo del professori, al posto che aveva sempre occupato Captatio. Lei li osservava dall'alto, come un ragno che si gusta le prede intrappolate nella sua ragnatela. Vedendola seduta gongolante sulla poltrona del Preside, Laughlin perdeva perfino l'appetito; il che era tutto dire.
«Prima o poi prenderà fuoco» gli sussurrò Dominique, seduto a far colazione e leggere il giornale proprio di fronte a lui.
Laughlin distolse lo sguardo dalla Cumhacht con un ringhio. «Non riesco a sopportare di vederla lì seduta» replicò, servendosi di malavoglia dell'uovo sbattuto. «Non capisco a che gioco stia giocando McPride. La Cumhacht fa parte dell'EIF, lo sanno tutti. Metterla a capo della scuola? Trasformerà questo posto in un lager, alimentando l'odio e il razzismo contro ciò tutto ciò che è ritenuto diverso.»
«Già...» asserì Dominique, pensieroso. «Ma tu sei nobile, sei al di sopra di queste cose.»
«Io? Forse...» rispose Laughlin, aggredendo l'uovo nel suo piatto come se fosse lui il responsabile di quelle circostanze. «Ma sono preoccupato per Mairead, maledizione! È così giù in questo periodo...» ammise sconsolato: tra la sconfitta a Quidditch, gli esami che si avvicinavano sempre di più e l'ombra angosciante della Cumhacht sempre su di loro, la sua amica aveva il morale a terra e lui non si dava pace perché non sapeva come fare a risollevarglielo. «E comunque sono preoccupato anche per Henry, e per te!»
Dominique abbassò il giornale e lo guardò negli occhi. «Sei l'amico migliore che si possa mai desiderare» lo ringraziò.
Laughlin si concesse un mezzo sorriso. «Per così poco» replicò con un'alzata di spalle. Poi alzò lo sguardo verso il tavolo dei Raloi, dall'altra parte della sala, per vedere come stava Mairead quella mattina. Notò che anche lei stava guardando nella loro direzione, così fece un cenno di saluto, ma si interruppe subito quando capì che gli occhi dell'amica non stavano puntando loro ma... – Laughlin si voltò di poco verso destra – Sergey Balosky?
Lo osservò di sottecchi e notò che lui rispondeva allo sguardo di lei con un sorriso.
Oh, Mairead deve proprio spiegarmi questa cosa, oggi! pensò Laughlin con un sorrisetto. E, stranamente, gli tornò il buonumore.
Al termine della colazione raggiunse i suoi due migliori amici mentre si recavano verso la prima lezione della giornata, Difesa contro le Arti Oscure. «Buongiorno!» li salutò allegro.
Mairead gli scoccò un'occhiataccia, del genere come-fai-ad-essere-di-buon-umore, mentre Edmund si limitò a mugugnare qualcosa, perché aveva il naso incollato ad un libro. Tanto per cambiare.
«Che cosa stai leggendo di nuovo?» gli chiese Laughlin.
«Mmpf...» fu la sua loquace risposta.
«Sai che esistono dei libri stregati dai quali non puoi staccarti nemmeno un secondo?» insistette Laughlin. «Devi continuare a fare tutto con una mano sola, il naso incollato alle pagine.»
Mairead rise, ma Edmund non lo stava più nemmeno ascoltando. Fu allora che Laughlin decise di sondare quanto l'amico fosse effettivamente preso dalla lettura. «Mairead, che genere di relazione intercorre tra te e il mio dictator?» indagò innocente.
La ragazza si strinse nelle spalle, fingendo indifferenza. «Io e Sergey abbiamo preso a frequentarci da qualche settimana.»
«Sergey?» Edmund riemerse da dietro la copertina in pelle del suo libro. «Sergey Balosky?» si informò incredulo.
Mairead scoccò un'occhiataccia anche a lui. «Quanti altri Sergey conosci?» gli chiese.
«Quello spilungone biondo?» insistette Edmund, come se fosse un'offesa personale al suo decoro il fatto che Sergey fosse alto e carino.
«Ehi, cos'hai contro di lui?» lo aggredì Mairead, abbandonando la linea difensiva.
Edmund si scurì in volto. «È troppo alto per te» le rispose, senza un minimo di logica.
«Che idiozia!» proruppe infatti Mairead.
Laughlin sogghignò: era divertente stuzzicare quei due e restare a guardare i loro stupidi battibecchi. A volte gli veniva voglia di afferrarli per la nuca e costringerli a baciarsi: forse allora si sarebbero accorti della loro idiozia.
Giunsero davanti all'aula di Difesa contro le Arti Oscure in anticipo, quindi furono costretti ad aspettare l'arrivo degli altri compagni e del professor Ballerinus. Mairead e Edmund non si parlarono per tutto il tempo, per cui Laughlin si divertì a rivolgere le stesse domande prima a uno e poi all'altra, per stuzzicarli ulteriormente.
«La pianti, Laugh?» sbottò Mairead, esasperata. «Sei noioso come un pixie della Cornovaglia!»
Per fortuna Laughlin non fu costretto a rispondere, perché in quel momento furono raggiunti da Henry, Dedaus e Moira.
«Ehilà!» salutò Dedalus. «Pronti per la lezione di oggi?»
«No» borbottò Mairead, risentita. La settimana precedente il professor Ballerinus aveva presentato l'incantesimo Patronus, dandone la spiegazione teorica e parlando dei Dissennatori; quella volta avrebbe chiesto loro di provare ad evocare il loro Patronus. Laughlin era abbastanza sicuro di riuscirci, ma poteva capire che la sua amica, che ultimamente aveva il morale a terra, non si sentisse pronta.
«Buongiorno, ragazzi» il salutò il professore, sopraggiunto in quel momento. «Forza, entrate.»
Gli studenti si ammassarono in aula, eccitati all'idea della lezione che li attendeva; il professore aspettò che avessero preso posto, per richiamare brevemente i principi che avevano visto la volta scorsa. «Mi raccomando, ricordatevi il movimento della bacchetta e le parole dell'incantesimo» disse loro l'insegnante. «E soprattutto, concentratevi su ciò che c'è di positivo, di fondamentale nella vostra vita, per il quale vale la pena di combattere e di vivere: solo allora la felicità sarà tanto potente da non poter essere rubata nemmeno da un Dissennatore.» Il professor Ballerinus estrasse la sua bacchetta e compì un gesto elegante con la mano. «Expecto patronum!» esclamò e, sotto lo sguardo eccitato dei suoi studenti, si formò un maestoso leone d'argento. «Ora, forza, provateci voi!» li incitò il professore.
Laulghin vide Edmund sfoderare il migliore dei suoi sorrisi: certo, lui aveva già evocato un Patronus all'età di quattordici anni, sicuramente non aveva problemi a farlo di nuovo. Con un gesto aggraziato della bacchetta, esclamò: «Expecto Patronum!» Un magnifico ghepardo argentato illuminò l'aula.
«Molto bene, Edmund!» esclamò l'insegnante. «Trenta punti ai Raloi.»
«Strano» borbottò Laughlin, tra i denti. I docenti avrebbero dovuto smetterla di dare punti ai Raloi tutte le volte che Edmund riusciva in qualcosa: era ovvio che lui era sempre il primo.
Incitati dal successo del compagno, anche gli altri presero a provare e in pochi secondi l'aula si riempì di incantesimi gridati o sussurrati a mezza voce e filetti di fumo argentato. Laughlin si concentrò, pensando alla sua famiglia e ai suoi amici, ma non riuscì a produrre più che qualche sbuffo di fumo.
«La vostra determinazione deve essere più forte» li incitò il professor Ballerinus. «Anche perché di fronte ad un Dissennatore è molto più difficile.»
«Questo sì che ci tira su il morale» borbottò Henry, che non era ancora riuscito a far uscire nulla dalla sua bacchetta.
«Dai, pensate a qualcosa che vi riempie di gioia» consigliò loro Edmund, che se ne stava lì in piedi ad osservarli, con il suo ghepardo che gli passeggiava intorno come se stesse facendo la guardia.
Dedalus sorrise. «È la vita stessa ad essere piena di gioia!» commentò allegro. E poi lanciò l'incantesimo: una volpe d'argento prese a correre per la stanza, gioconda come il suo padrone.
«Bravissimo, Dedalus!» si complimentò il professore. «Venti punti ai Llapac!»
Anche gli amici si complimentarono con lui, soprattutto visto che di solito non era tra i migliori della classe.
Solo Laughlin sbuffò. «Ce la fa quel suonato di Dedalus e non ci arrivo io?» commentò tra sé e sé. «Avanti, io sono un tipo positivo!» Si concentrò al massimo, ripensando a tutto ciò che c'era di bello nella sua vita: rivide suo padre che suonava l'arpa celtica davanti al caminetto, sua madre che lo abbracciava, le giornate passate sulla riva del lago insieme a Edmund e Mairead, perfino il sorriso di quella peste di Bearach, o il bacio di fine estate con Ivine, la cameriera rossa del pub di Boyle. «Expecto patronum!» esclamò con foga e dalla sua bacchetta fuoriuscì un Auguery ad ali spiegate.
«Bene, Laughlin! Una fenice irlandese, ottima scelta» esclamò Ballerinus con un sorriso. «Dieci punti anche ai Nagard.»
Laughlin ammirò l'uccello che planava tranquillo sulle teste dei compagni, ammirando la sua maestosità. «È Ophelia» commentò con un sorriso. «Il vecchio Auguery di mio nonno.»

Mairead osservò il Patronus di Laughlin che riempiva di luce la stanza con un pizzico di invidia. Certo, era contenta che i suoi amici fossero riusciti nell'impresa, ma ormai quasi tutti avevano fatto uscire qualche filo argentato dalla bacchetta, mentre la sua era restata muta e inerte come un bastoncino di legno qualunque.
«Ehi, Mairead» la richiamò Edmund, avvicinandosi al banco da cui non si era nemmeno alzata, sebbene la classe fosse in subbuglio, tutti gli alunni in piedi a provare l'incantesimo e quattro o cinque Patronus che gironzolavano per l'aula. «Che c'è?» le chiese con un sorriso.
Mairead cercò di trattenere le lacrime: non le era mai successo di fallire in modo così miserando. «Non mi viene» rispose in un sussurro.
Edmund si accucciò a fianco della sua sedia. «Lo so che non è il momento migliore e sei spaventata» le disse tranquillo. «Ma noi ci saremo sempre per te.»
Mairead si voltò a guardarlo in viso, accennando un debole sorriso a mo' di ringraziamento.
E poi Edmund agì d'istinto: allungò una mano e strinse quella di lei per infonderle conforto. «Io ci sarò sempre per te.»
Mairead si perse nei suoi immensi occhi azzurri: con la mano nella sua e la certezza di averlo sempre al suo fianco, avrebbe potuto attraversare i deserti e gli oceani. Sentì di avere il volto in fiamme e distolse lo sguardo da lui, per puntarlo sul suo Patronus, che se ne stava acquattato a fianco del padrone e li osservava placido.
«Avanti, prova l'incantesimo» la incoraggiò Edmund, stringendo la presa sulla sua mano.
Mairead prese un profondo respiro. «Expecto patronum!» esclamò con maggiore convinzione. E quella volta dalla sua bacchetta non uscì solo un semplice filo di fumo, bensì un animale formato. Un ghepardo d'argento. Mairead avvampò fino alla punta dei capelli quando realizzò tutte le implicazioni di quel Patronus e in quello stesso momento lo splendido animale si dissolse nell'aria.
Edmund levò la mano dalla sua come se d'improvviso fosse diventata bollente. «Ehm, bene» borbottò a disagio. «Visto che ci sei riuscita?»
«Già...» sussurrò lei di rimando. Passò tutto il resto della lezione a fissarsi la punta delle scarpe, con la testa in subbuglio per mille pensieri e lo stomaco attorcigliato. L'unica cosa che voleva era mettersi a cavallo della sua Nimbus e volare libera da ogni pensiero. Quando finalmente finì l'ora, mise le sue cose di fretta dentro la borsa e uscì dall'aula per prima.
«Mairead!» la richiamò una voce a metà delle scale.
La ragazza fu costretta a fermarsi per aspettare che Sergey la raggiungesse. Era davvero carino, ma... Moira aveva ragione: non era Edmund.
«Dimmi» sussurrò Mairead, sicura che ne sarebbe conseguito nulla di buono da quella conversazione.
«Io non credo che sia il caso che continuiamo ad uscire assieme» disse infatti Sergey, tranquillo ma deciso.
Mairead sapeva che avrebbe dovuto sentirsi male, invece la notizia non la scosse più di tanto. «Ehm... perché?» si sentì comunque in dovere di chiedere.
Lui si mise le mani in tasca. «Ho visto il tuo Patronus.»
«Cos'ha che non va?» si informò Mairead, ben sapendo dove volesse andare a parare quel discorso.
«È un ghepardo.» Sergey le lanciò un'occhiata più che eloquente. «Come quello di Burke.»
Mairead scosse le spalle, a disagio. «È un caso» replicò, in un blando tentativo di nascondere la questione.
«Puoi continuare a mentire a te stessa, se vuoi, ma non mettermi in mezzo» le rispose Sergey. Quella volta il suo tono uscì meno indifferente, più amaro e velato da una punta di tristezza. Poi le depositò un ultimo bacio sulla guancia e sparì lungo le scale.
Mairead avrebbe voluto restare lì impalata a rimuginare su quanto era successo, ma si accorse dal vociferare crescente che anche gli altri studenti usciti dall'aula di Difesa contro le Arti Oscure la stavano raggiungendo, per cui si affrettò a scendere. Aveva raggiunto il primo piano, quando il professor Saiminiu aprì la porta della sua classe e la richiamò. «Puoi venire un attimo?» le chiese, guardandosi attorno con circospezione.
Mairead annuì, infilandosi dentro l'aula prima che i suoi compagni raggiungessero il loro piano.
Il professor Saiminiu la fece accomodare su una sedia davanti alla cattedra. «Credo che tu sappia che Daireen Cumhacht era la ragazza di tuo padre» esordì serio, prendendo posto di fronte a lei.
Mairead annuì nuovamente, senza capire dove volesse andare a parare quel discorso.
Saiminiu si stropicciò le mani, mentre i suoi occhi girovagavano per la stanza, assorti. «Girava voce che fosse entrata a far parte dell'EIF» continuò. «Io credo che volesse vendicarsi di tua madre che le aveva rubato l'uomo della sua vita. E il fatto che fosse inglese faceva rientrare il suo progetto di vendetta negli obiettivi xenofobi dell'EIF.»
Mairead osservò il professore perso nei suoi ricordi. «Che cosa mi vuole dire, signore?» domandò confusa.
L'uomo tornò a guardarla negli occhi e sembrava quasi dispiaciuto. «Io sto per chiederti una cosa molto pericolosa, Mairead» le rivelò serio. «Io sto per chiederti di fare da esca.»
«Esca?» gli fece eco la ragazza, senza capire.
Saiminiu prese un profondo respiro. «La Cumhacht ti odia e... io credo che sarebbe disposta ad ucciderti con le sue mani» le disse piano. «Ma è stata mandata dall'EIF come infiltrata qui a scuola e dovrà tenere un profilo basso. Quindi, se noi riuscissimo a farle perdere le staffe, a costringerla a smascherarsi, rivelando a tutti che fa parte dell'EIF...»
«Il Governo sarebbe costretto ad arrestarla» concluse Mairead, finalmente afferrando il senso di quella richiesta. «Certo, se anche McPride è d'accordo con l'EIF per infiltrare la Cumhacht, qualora la cosa dovesse saltar fuori, non può far finta di niente!»
«Esatto.» Saiminiu annuì grave. «È l'unico modo per toglierla di mezzo. Ma mi rendo conto che sarà pericoloso. Dovrai starle continuamente sotto il naso, in modo da irritarla e costringerla a smascherarsi.»
«Non è un problema» rispose di getto Mairead.
«Sì, invece, che è un problema.» Il professore si stropicciò le mani. «Perché sarai in pericolo e io non vorrei mai... ma è l'unico modo» sussurrò preoccupato. Poi Saiminiu si sporse in avanti e le afferrò le mani, che Mairead aveva appoggiato distrattamente sulla cattedra. «Io ti proteggerò» le promise, guardandola negli occhi. «Non permetterò che ti accada nulla di male finché sarò professore qui.»
La ragazza annuì, ripensando a quanto le aveva detto Edmund e al suo Patronus a forma di ghepardo, come quello di Burke. «Non si preoccupi» rispose con un filo di voce e un mezzo sorriso. «Non sono mai stata così protetta.»









Eccoci!
Insomma, amici, non c'è nulla da fare: Mairead e Edmund sono due idioti. Avremo ancora un bel po' di questi momenti imbarazzanti prima che si diano una mossa, temo.
Nel frattempo, godetevi la positività di Laughlin! ;)
Non ho molto da dire quindi vi lascio, come sempre, l'immagine del capitolo (questa volta ho solo quella):
QUI Mairead che evoca il suo patronus moooolto simile a quello di Ed! ;)

Ci rivediamo con altri casini lunedì 6 aprile. Ne approfitto per augurare a tutti buona Pasqua!
Beatrix

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Capitolo 17
*** Il Censimento dei Nati Inglesi ***


CAPITOLO 17
Il Censimento dei Nati Inglesi






Mairead si rigirò quell'inutile pezzetto di legno tra le mani. Edmund aveva insistito nel rassicurarla, dicendole che la copia era praticamente perfetta, perché aveva implementato l'Incantesimo Gemino, rendendo indistinguibile il doppione dall'originale, ma lei non riusciva ad essere tranquilla.
Il professor Captatio aveva mantenuto la sua promessa: li aveva tenuti al sicuro, fin tanto che era stato preside. Ma ora non era più preside: sul suo seggio sedeva quella vipera di Daireen Cumhacht, il cui sostegno alle azioni del Governo McPride era più che palese, per non parlare della sua presunta, nascosta, affiliazione con l'EIF. Ufficialmente nessuno lo sapeva, in pratica era sulla bocca di tutti gli studenti ad ogni ora del giorno.
Mairead aveva fatto quello che il professor Saiminiu le aveva chiesto: le era sempre stata sotto il naso, per irritarla e convincerla a fare qualche passo falso. Non era servito, almeno per il momento. Anzi, aveva ottenuto un effetto drammatico: la Cumhacht aveva varato una serie di regolamentazioni ispirare al rigore del Governo, che dovevano essere applicate all'interno della scuola. Era stata vietata qualsiasi associazione studentesca; era stato imposto l'ordine e il rigore, attraverso la perquisizione e la censura di tutta la corrispondenza di alunni e professori, il controllo serrato dei libri presi in prestito dalla biblioteca, le ispezioni improvvise nelle aule studio, nei dormitori, nei bagni, negli spogliatoi dello stadio e in qualsiasi luogo i ragazzi si potessero scambiare più di quattro parole. Le lezioni erano state sottoposte ad una frequente supervisione da parte della stessa preside, con sommo fastidio degli altri insegnanti. Si parlava addirittura di sostituire i libri di testo con volumi che avessero ricevuto l'imprimatur dal Governo.
Ma il peggio, per quello sparuto numero di studenti con almeno un ottavo di sangue inglese, era stata l'imposizione della legge sul Censimento. Ora non c'era più motivo per cui gli studenti Nati Inglesi non registrassero la loro bacchetta, come previsto dalla normativa. La Cumhacht aveva predisposto tutto perché i funzionari del Governo venissero a scuola ad effettuare la registrazione.
Era stata la fine.
Henry addirittura aveva detto di voler lasciare la scuola, quando Edmund aveva trovato una soluzione: attraverso l'Incantesimo Gemino aveva creato una copia esatta delle loro bacchette, affinché venisse registrata la copia e non l'originale. Avrebbe funzionato, sosteneva lui, perché il suo incantesimo era stato eseguito in modo perfetto, ma come potevano essere sicuri che la procedura del Governo non fosse stata testata contro quel tipo di imbrogli? E se li avessero beccati, cosa gli avrebbero fatto?
Henry era stato il primo ad entrare in Sala Mor, dove era stato allestito tutto il necessario per svolgere il Censimento. I minuti in cui Henry rimase chiuso dentro con gli ispettori del Governo furono i peggiori che Mairead avesse mai vissuto: aveva funzionato l'incantesimo di Edmund oppure Henry era stato scoperto? Solo quando l'amico uscì dalla Sala Mor con un sorriso sollevato Mairead capì che Edmund era davvero un maledetto genio.
«Mairead Boenisolius» chiamò una voce da dentro la stanza.
La ragazza represse un brivido: il momento della verità. Con Henry era filato tutto liscio, ma non poteva essere certa che anche la sua bacchetta finta passasse l'ispezione.
«Avanti» la incitarono.
Mairead si fece coraggio ed entrò. Gli impiegati del Governo erano seduti al tavolo dei Llapac e avevano l'aria piuttosto scocciata. «Boenisolius?» chiese un tizio magrolino con una macchina fotografica in mano.
La ragazza si limitò ad annuire.
Il fotografo allora le mise tra le mani un cartello con scritto il suo nome e un numero di serie. «Mettiti contro il telo» le ordinò.
Mairead si voltò a destra e vide un grosso telo bianco, che se ne stava ritto in piedi per una qualche strana magia.
«Tieni il cartello bene in vista.»
La ragazza sollevò il cartello con il suo nome appena in tempo per il flash. Chiuse istintivamente gli occhi per la luce, ma poi si rese conto di non volerli riaprire. Si sentiva spaesata e trattata come una criminale. Voleva solo fuggire da quell'incubo.
«Per favore, appoggia la tua bacchetta sul piatto.»
Mairead fu costretta ad aprire gli occhi e ad eseguire l'ordine: depositò con cautela la sua bacchetta falsa su una specie di bilancia d'ottone con un solo piatto. Lo strumento di misurazione prese a vibrare, pigolò piano e infine buttò fuori da una fessura alla base una strisciolina di pergamena.
«Undici pollici e mezzo, tasso, corda di cuore di drago» lesse l'impiegato con voce atona. Scartabellò tra i suoi fogli con poco entusiasmo, finché nono trovò un elenco piuttosto pasticciato. «Qui ci risulta che la bacchetta che comprasti da O'Tunnel era undici pollici, ebano, piuma d'ippogrifo.»
Mairead deglutì. Avevano un elenco con registrate tutte le bacchette comprate da chiunque avesse almeno un nonno inglese? Era follia, pura follia.
L'impiegato la guardò da sopra i suoi occhialetti quadrati.
«Quella si ruppe mentre ero al terzo anno. Da allora uso quella che era appartenuta a mio zio Reg» spiegò Mairead, con la gola secca. «È stata fabbricata da Olivander.»
«Robaccia inglese, eh?» si intromise il Tiratore Scelto di guardia. Evidentemente doveva controllare la regolarità delle procedure.
L'impiegato lo ignorò. «Quindi la bacchetta che usi adesso ha queste caratteristiche?» domandò, mentre compilava una scheda con scritto il suo nome; in alto c'era un riquadro bianco per la foto.
Mairead fissò la scheda allibita. «Sì» mormorò infine.
Il mago prese nota. Dopodiché, prese la bacchetta dal piatto d'ottone e la depositò in una specie di baule lungo e stretto. Chiuse il coperchio e attese un paio di secondi, poi riaprì e restituì l'arma alla sua proprietaria.
«D'ora in poi, qualsiasi magia compiuta da questa bacchetta, verrà registrata in luogo e ora presso gli Uffici del Dipartimento della Difesa» snocciolò l'impiegato con la voce atona di chi ha dovuto ripetere quella manfrina troppe volte. «Qualsiasi attività sospetta, verrà immediatamente controllata da una squadra di Auror incaricati.»
A Mairead venne voglia di piangere: era schedata come una delinquente qualunque e solo per via del fatto che il suo sangue era per metà inglese. Il suo unico crimine era quello di essere nata. A quale follia conduceva il razzismo?

Iulius McEwan, dictator dei Raloi, alzò gli occhi sul professore con aria angosciata. «Questa cosa degli effetti della Magia Oscura sull'anima mi inquieta non poco, prof» fu costretto ad ammettere, rigirandosi la penna d'oca tra le mani.
«Non sei l'unico» lo rassicurò padre Rafael. «Questo tema interessava e, di per sé, angosciava molto anche il domenicano Etienne Thomas Chenu, un importantissimo filosofo della magia di inizio Novecento.»
La mano di Dedalus sventolò in aria. «Lo affronteremo, professore?» chiese, ancora prima che gli venisse dato il permesso di parlare. «Sì, certo» rispose paziente padre Rafael. Lanciò un'occhiata all'orologio appeso alla parete. «Ora, nella mezz'ora che ci resta, cominceremo ad avvicinarsi alla sua figura.»
Anche Edmund guardò l'orologio ma, al contrario del professore, non vedeva l'ora che la lezione finisse. Non perché non fosse interessante, anzi. Il problema era un altro: quella mattina c'era in corso il Censimento dei Nati Inglesi e lui avrebbe voluto essere al fianco di Mairead e Henry, ma prima aveva dovuto seguire la lezione privata di Occlumanzia con la professoressa Sidera O'Elan (ufficialmente si incontrava con la professoressa per delle spiegazioni aggiuntive di Artimanzia, perché con la nuova preside mai e poi mai gli sarebbe stato dato il permesso di fare lezioni di Occlumanzia), ora aveva Filosofia della Magia e poi doveva ancora vedersi con il professor Cumhacht per la Disputatio. Non sarebbe mai riuscito ad arrivare dai suoi amici in tempo.
«Padre Chenu nasce in Provenza alla fine del secolo scorso...» cominciò a spiegare il professore, ma fu subito interrotto dalla comparsa in aula di una figura quantomai sgradita: Daireen Cumhacht.
«Mi scusi, mi scusi, padre Majestis.» Un sorriso assurdamente falso comparve sulle labbra della donna. Era evidente che non fosse per nulla dispiaciuta.
Padre Rafael, al contrario, non si sforzò minimamente di apparire cordiale. «Dica.»
«Forse è meglio parlare da soli?» suggerì la Cumhacht, accennando agli studenti.
Il prete non si scompose. «Non ho problemi ad ascoltarla di fronte ai ragazzi» fu la sua tranquilla risposta.
«Come vuole.» La donna fece balenare un sorriso, che subito scomparve per lasciar posto ad un'espressione seria e autoritaria. «Vista la scarsa frequenza alle lezioni, il Governo ha deciso di sopprimere l'insegnamento facoltativo di Filosofia della Magia» annunciò senza mezzi termini.
«Che cosa?» proruppe Dedalus.
«È assurdo!» esclamò Iulius.
Anche gli altri studenti presenti in classe cominciarono a lamentarsi; perfino quella faccetta da snob di Finan Best pareva contrariato dalla decisione. Padre Rafael alzò una mano per zittire i ragazzi. «Trovo che quantomeno potevate inventare una scusa più plausibile della scarsa frequenza» si limitò a dire, gli occhi freddi come non lo erano mai stati sul viso sempre caloroso del prete.
«È scandaloso» insistette Dedalus, che non era mai stato capace di tenere a freno la lingua. «Questa materia è utilissima... dovreste renderla obbligatoria, invece di eliminarla! Ti aiuta a pensare!»
La Cumhacht gli rivolse un sorrisetto. «Signor...?»
«Dedalus Consolatus» rispose il ragazzo, imbronciato.
«Signor Consolatus» riprese la donna, fingendo un'aria comprensiva. «Il Governo ritiene che di questi tempi sia meglio imparare a difendersi, agire e padroneggiare incantesimi.»
«Oh, ottimo!» Edmund simulò una risatina divertita. «Dunque state allevando cittadini perfettamente addestrati a combattere ma non a pensare? Macchine da guerra che credano ciecamente a quello che dice loro il Governo?» Sorrise con una finta amabilità tanto palese da risultare quasi ridicola. «Come il fatto che il professor Captatio complotti con i Mangiamorte?»
Daireen Cumhacht gli puntò i suoi grandi occhi scuri addosso. «Stia attento, signor McPride, perché arriverà presto il giorno in cui non basterà più nemmeno il suo cognome a tenerla al sicuro.»
Edmund rispose allo sguardo con la medesima intensità. «Non vedo l'ora.»
La Cumhacht lanciò un'occhiata sprezzante a tutta l'aula. «La lezione è finita» annunciò tagliente, prima di uscire con uno svolazzo della sua veste nera.
I ragazzi lasciarono la stanza controvoglia, dispiaciuti per l'impossibilità di seguire altre lezioni e affranti per il professor Majestis. «Non vi preoccupate per me» li rassicurò padre Rafael. «Se vorrete, vi potrò comunque consigliare dei libri.»
«Grazie, prof» rispose Iulius. «Anche se... non è proprio la stessa cosa.»
Edmund era indignato per la soppressione di Filosofia ma, egoisticamente, pensò che la cosa poteva risolversi a suo favore: se il professor Cumhacht l'avesse ricevuto subito, forse sarebbe riuscito a correre da Mairead per farle da sostegno. Stava per defilarsela dall'aula, quando padre Rafael gli chiese di restare perché doveva parlargli. Edmund attese con impazienza che tutti se ne fossero andati, prima di avvicinarsi alla cattedra per sapere cosa fosse successo.
«Ho scoperto con piacere di sostenere l'elezione del cardinal Ravase al soglio patriarcale» gli disse con un sorriso.
Edmund corrugò la fronte, senza capire.
«E di aver preso in prestito dei libri dalla biblioteca che non ho mai letto» continuò il padre.
E Edmund realizzò tutto: il professore aveva scoperto che lui aveva assunto le sue sembianze per infiltrarsi nella biblioteca del seminario di Dubh Cliathan. Si sentì improvvisamente un idiota e si accorse di aver tradito la fiducia di qualcuno che credeva in lui. «Mi dispiace» borbottò, mentre abbassava gli occhi a terra, avvilito, ben sapendo di doversi aspettare una bella ramanzina decisamente meritata.
«Ti avevo detto che di qualsiasi libro avessi avuto bisogno, avrei potuto prenotartelo io.» Il tono del professore era serio ma non così duro come Edmund si sarebbe aspettato.
«Lo so.» Il ragazzo si azzardò ad alzare di poco gli occhi sul prete, cercando la sua clemenza. «È che sono...»
«...uno sciocco impulsivo?» completò padre Rafael, con un mezzo sorriso di comprensione. Dopotutto, era stato anche lui un Raloi, ai tempi del Trinity, e certo non uno di quelli più tranquilli. Edmund aveva fatto una stupidata, ma sicuramente in buona fede.
Il ragazzo si rilassò. «Già...» fu il suo commento a mezza voce. «Comunque non ho trovato quello che cercavo» si sentì in dovere di aggiungere.
Padre Rafael lo guardò con intensità. «Cosa cercavi?»
«Ecco, io...» balbettò Edmund a disagio. «Sto inseguendo la fuga dei conti O'Donnell e O'Neill, sulle orme di una... be', forse chiamarla leggenda è un po' troppo.» Il ragazzo fece saettare gli occhi in giro per l'aula, come se volesse dire qualcosa ma non trovasse il coraggio.
«Perché non ti siedi?» lo invitò padre Rafael.
Edmund seguì il consiglio, combattuto solo per un attimo se rivelare tutta la storia o tacere. Ma poi pensò che il professore si era sempre prodigato per aiutarlo, era sempre stato gentile nei suoi confronti e non l'aveva sgridato nemmeno per avergli rubato l'identità; forse avrebbe dovuto dimostrarsi più grato e fiducioso nei suoi confronti. Così decise di narrargli della maledizione che Sigmund McFarren, ultimo Gran Maestro degli Interventisti, gli aveva imposto, sotto minaccia di Voldemort quando era solo un feto; gli rivelò le parole latine con cui la sua volontà sarebbe stata annientata e la flebile speranza riposta nel manufatto chiamato da McFarren Mela d'Oro. Tenne per sé, però, il fatto di essere stato creato in provetta a partire dal DNA di Voldemort: quella era una cosa che faticava ad accettare lui stesso, per cui non si sentiva ancora pronto a rivelarla apertamente. In fin dei conti padre Rafael era un prete e avrebbe potuto a buon diritto restare disgustato da quell'insulto nei confronti di Dio.
Padre Rafael ascoltò con attenzione, lasciandogli il tempo di sfogarsi; al termine del racconto gli riservò un'occhiata intensa. «Edmund, ti aiuterò in ogni modo possibile perché tu possa trovare ciò che cerchi» lo rassicurò con un tono talmente serio e insieme tranquillo da non lasciare dubbi sulla sincerità della sua promessa. Poi sorrise, si alzò dalla cattedra e estrasse un vecchio volume dalla borsa che aveva appeso alla sedia. «Comunque, forse non hai scovato quello che cercavi alla biblioteca del seminario perché il libro dove trovare le informazioni l'avevo preso in prestito io» rivelò, mettendogli il volume sotto il naso. Si intitolava: “La fuga dei Conti. Ricostruzione storica del viaggio dei conti O'Donnell e O'Neill attraverso l'Europa”.
Edmund dovette sforzarsi per non correre ad abbracciare il professore per la contentezza. Quel volume dava risposta ad ogni sua domanda! Finalmente avrebbe scoperto dove O'Donnell e O'Neill avessero nascosto la Mela d'Oro!
«Visto che mi avevi parlato della questione, mi avevi incuriosito: avevo intenzione di leggerlo e poi passartelo» spiegò padre Rafael. «Ma forse è meglio che lo abbia tu.»
«Grazie, professore» rispose Edmund, quasi commosso. Avrebbe voluto leggerlo tutto d'un fiato, lì, seduto di fronte alla cattedra di padre Rafael, ma il suo dovere lo richiamava all'ordine. «Devo... devo andare dal professor Cumhacht» mormorò dispiaciuto.
«Non ti preoccupare, Edmund, vai» lo rassicurò padre Rafael. «Quando vorrai, la mia porta è sempre aperta.»
Il ragazzo annuì rincuorato, poi prese le sue cose, si mise il prezioso libro sulla fuga dei Conti sottobraccio, e uscì dall'aula. Salì i gradini a due alla volta, lasciandosi alle spalle i sotterranei e inoltrandosi nei corridoi dove avevano gli uffici i professori.
«Sei in ritardo» lo accolse Cumhacht, quando lui bussò alla sua porta.
«Lo so, mi scusi» borbottò Edmund, entrando e nel frattempo frugando nella borsa alla ricerca del rotolo di pergamena che doveva consegnare al professore.
«Ecco, volevo mostrarle questo, signore.»
Cumhacht prese il rotolo senza troppo entusiasmo e nemmeno lo aprì. «Ne discuteremo un'altra volta» gli disse, in modo del tutto inaspettato. E ancora più inaspettato fu quanto seguì: «Ora vai, Boenisolius ha bisogno di te.»
«Come, scusi?» balbettò Edmund, colto alla sprovvista.
«Boenisolius, in Sala Mor» ripeté il professore senza scomporsi. «Stanno facendo il Censimento dei Nati Inglesi. Credo che vorrebbe trovare lì fuori un amico quando esce da quell'aula.»
Edmund rimase immobile in piedi di fronte alla scrivania, incapace di elaborare nella sua mente quel gesto di gentilezza che veniva dal professor Cumhacht. Nei confronti di Mairead, poi!
Cumhacht gli lanciò un'occhiataccia. «Credi che solo perché mia sorella sostenga una follia del genere dovrei approvarla anche io?» gli domandò retorico. «Essere fieri della propria patria non significa essere necessariamente sanguinisti.»
Edmund rimase spiazzato: aveva sempre immaginato il professor Cumhacht come un sostenitore dell'EIF, nazionalista avverso a tutto ciò che era inglese, che univa alle sue idee motivi di vendetta strettamente personali, come la sorella Daireen. Invece improvvisamente realizzò il vero motivo per cui l'uomo ce l'avesse così tanto con Mairead e suo padre: non tanto perché Reammon avesse sposato un'Inglese, quanto più perché, avendo scelto Mary Weasley, egli aveva spinto Daireen alla follia, tra le braccia dell'EIF. Cumhacht lo doveva ritener in parte responsabile della perdizione della sorella.
«Fieri Irlandesi ma non sanguinisti.» Edmund annuì, con un sorriso a mo' di ringraziamento. «Me ne ricorderò, signore.»
L'uomo fece un breve cenno del capo. Di più non si poteva pretendere. Aveva già fatto anche troppo, per essere il burbero professor Cumhacht.
Edmund lasciò lo studio dell'insegnante e corse a perdifiato verso l'ingresso. Intercettò Mairead che stava uscendo dalla Sala Mor, al termine della registrazione della sua bacchetta. Pareva sull'orlo delle lacrime.
«Come... cosa è successo?» domandò Edmund, con il fiato mozzato dalla corsa.
«No, è andato bene» lo rassicurò subito Mairead. «Cioè, ha funzionato.»
Edmund tirò un sospiro di sollievo e le sorrise. Anche Mairead rispose al sorriso, ma i suoi occhi restarono tristi e lucidi.
«Vieni con me.» Edmund allungò la mano verso di lei e la invitò a seguirla. La condusse fuori dal castello, fin sulle rive del lago, in un posto riparato da occhi indiscreti. «Dammi la bacchetta finta.»
Mairead gliela mise tra le mani.
Edmund allora la spezzò a metà e la gettò nelle acque scure del lago. «Ecco quello che possono farci con le loro stupide leggi!» esclamò con vigore.
Mairead si strinse nelle spalle. «Vorrei che fosse tutto così semplice.» Sospirò, poi appoggiò la testa sulla spalla di Edmund, che la strinse tra le braccia. E rimasero così, a fissare la superficie increspata del lago, oppressi dall'oscurità dei tempi in cui erano costretti a vivere.









Come si suol dire, meglio tardi che mai! Ecco qui il nuovo capitolo!
Insomma, sono cominciati i guai anche a scuola. Dopotutto, cosa ci si poteva aspettare da una come la Cumhacht in versione preside? Non poteva essere proprio tutto rose e fiori.
Padre Rafael ha anche scoperto i tramini di Edmund: non so proprio come facesse a pensare di farla franca! È proprio un po' idiota, a volte! ;) Per fortuna che padre Raf è un tipo comprensivo (visto quelle che aveva combinato lui da giovane!).
E anche Cumhacht svela un po' le sue carte: è un rompiballe, stronzo, esigente e burbero, ma vi pare che Captatio potesse tenersi nel corpo insegnanti un filo-EIF? Se Daireen e l'EIF pensavano di potersi appoggiare a lui, hanno sbagliato i conti!
A proposito di conti, quelli nobili, col prossimo capitolo facciamo l'ultimo salto nel passato! Ci vediamo lunedì 27 aprile!
Beatrix B.

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Capitolo 18
*** Un salto indietro nel tempo IV - All'ombra degli angeli ***


CAPITOLO 18
Un salto indietro nel tempo IV


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Rory Tir Chonail O'Donnell di Sir Eriu Gulbain sapeva benissimo di non essere più conte di un bel niente da quando aveva lasciato l'Irlanda. Non aveva nemmeno avuto bisogno del gufo di conferma che Con O'Neill, il giovane figlio di Hugh, aveva loro mandato qualche settimana dopo la loro partenza: sapeva già benissimo che quel cane di Deamundi avrebbe fatto di tutto per buttarli fuori dalla nobiltà. Eppure sperava di contare ancora qualcosa per la società magica. Purtroppo, non era stato così.
Avevano bussato a tante porte, ma molte di esse erano restate chiuse: a quanto pareva, nessuno voleva mettersi contro la potente Inghilterra. La loro prima destinazione era stata la Spagna, che a lungo aveva accolto e protetto suo fratello Hugh, ma la Provvidenza aveva intercesso per loro affinché una tempesta gli impedisse di raggiungere le coste iberiche. Si erano allora recati in Francia, per chiedere aiuto all'importante stregone Guillaume Fouquet, ministro del re. L'uomo si era dimostrato disponibile nei loro confronti, nonostante tutto, e aveva anche cercato di intercedere per loro presso re Enrico. Ma Rory sapeva di non poter far leva sulla comune appartenenza religiosa, dato che il tiepido cattolicesimo di Enrico era solo una forma di convenienza per poter tenere il regno: infatti, si diceva di lui che, di fronte alla possibilità di ottenere il trono di Francia in cambio della sua conversione al cattolicesimo, avesse esclamato: “Parigi val bene una messa”. Se non era la fede a legarli, non poteva nemmeno essere la magia, dato che il re non solo era Babbano, ma non era nemmeno a conoscenza del fatto che il suo ministro Fouquet fosse un mago. Quanto meno, il re si era comunque dimostrato disponibile, rifiutando a quel voltagabbana di re Filippo di Spagna l'estradizione. A quanto pareva, dopo che aveva protetto suo fratello Red Hugh e aveva appoggiato la sua rivolta, Filippo aveva timore della reazione della corona inglese e voleva arrestare i fuggiaschi. Rory ringraziò Iddio che la tempesta avesse impedito loro di approdare sulle coste spagnole, altrimenti re Filippo li avrebbe immediatamente consegnati a lord Chichester e di certo sarebbero stati sbattuti in qualche prigione a prova di mago. Marcire nelle segrete di Londra, bella fine per due degli stregoni più importanti d'Irlanda!
Era stato allora che Rory aveva capito di dover cambiare tattica: se non erano i re ad accoglierli, che fosse almeno la Santa Chiesa a onorare il suo nome di madre e la sua vocazione all'ospitalità. Così, dall'austera Parigi, Rory e Hugh si erano messi in marcia verso Roma. Sul loro lungo cammino, avevano incontrato a Lione un mago mercante arabo di nome Abdul-Qaadir Ebn Assad, che era diretto a Venezia. Con lui avevano percorso molta strada, lungo la zona meridionale della Francia, attraversando le Alpi e infine viaggiando nei domini spagnoli in Italia. Si era dimostrato un uomo leale e addirittura un valido amico, quando li aveva fatti nascondere nella sua carovana, camuffandoli tra i suoi servitori arabi, per attraversare indenni i territori spagnoli.
«Mai si può dire che un cristiano abbia trovato in un musulmano un così grande amico come io ho trovato in te, Abdul-Qaadir» si congedò da lui Rory, quando le loro strade giunsero a dividersi.
«Ho visto la dignità nei tuoi occhi, Rory della terra di Eriu» rispose l'arabo. Prima di separarsi, Abdul-Qaadir consegnò loro molti doni, tra i quali anche erbe e preziosi manufatti della sua terra, che Rory e Hugh poterono ricambiare solo in minima parte. «Salam aleikum» li salutò infine.
«Aleikum salam.» Rory si inchinò a quel grande uomo e si rimise in cammino verso il suo destino.

Rory O'Donnell e Hugh O'Neill giunsero a Roma nell'aprile del 1608, ben otto mesi dopo essere salpati in fretta dalle spiagge irlandesi. Roma era una città in fermento. Dove un tempo sorgeva l'antica basilica di san Pietro, sul luogo della sepoltura del martire, ora c'era un gran cantiere: gigantesche impalcature di legno, carpentieri ovunque, blocchi di marmo grossi come montagne. Si parlava di costruire un colonnato superbo, che abbracciava l'enorme piazza, e cupole più alte del cielo. Una basilica che facesse risplendere la magnificenza stessa della città papale, grandiosa come le vestigia di un tempo e espressione della potenza del portavoce di Dio in terra.
Rory e Hugh approfittarono del tumulto che regnava per le strade per far passare inosservato il loro arrivo in città; con tutto quell'andirivieni di artigiani, mercanti e carpentieri, nessuno si preoccupò di una piccola carovana di stranieri dai capelli rossi e dalla lingua strana. Si poterono così incontrare indisturbati con Mekaster, l'uomo di fiducia di Rory, che li fece alloggiare in una villa di campagna abbandonata, situata su uno dei colli di Roma. Ma per quanto Mekaster fosse bravo nel suo mestiere, non aveva contatti sufficientemente altolocati per introdurre i suoi signori alla curia del Patriarca.
Rory e Hugh cominciarono con l'ispezionare l'Ager Gaianum Magorum, la parte magica di Roma, cui si accedeva tramite un passaggio segreto in una vecchia cisterna sotterranea dell'età romana, poco distante dalla basilica di san Pietro. Il nome derivava dalla zona transtiberina dove spontaneamente i maghi della Roma antica si erano riuniti a vivere – l'ager Gaianum, appunto – ma ormai da tutti era chiamato solamente il Gaianum. Aveva un aspetto particolare, quasi bizzarro: i maghi romani avevano conservato per lunghissimo tempo, fino al X secolo e oltre, i costumi, le tradizioni e perfino la lingua dell'antico Impero Romano, in contrapposizione ai Barbari Babbani, che penetravano e si infiltravano nella società, e alle novità dell'Oriente che minacciavano di far crollare il glorioso mos maiorum.
Ma poi, quando il Medioevo aveva ormai imposto la sua impronta su Roma, trasformandola da capitale di un impero pagano a rinnovata potenza religiosa d'Occidente, pian piano anche il Gaianum cambiò il suo volto. La roccaforte dell'antica romanità fece penetrare al suo interno i nuovi costumi e la nuova mentalità: il cristianesimo si impose sui templi pagani, le toghe porpora si mescolarono con le tuniche e le brache germaniche, il latino si imbarbarì con termini stranieri e volgari.
Alle soglie del XIII secolo, si poteva veder passeggiare per il Gaianum un patrizio colla toga insieme ad un chierico nella sua tonaca scura. Il quartiere aveva acquisito un carattere eccentrico, nel quale tuttavia aveva trovato il suo equilibrio. I maghi erano ormai tutti cristiani cattolici, sudditi del Patriarca Magico, per quanto restassero particolarmente attaccati alle antiche tradizioni romane. La chiesa cattedrale del Patriarca era un antico tempio circolare, con un colonnato marmoreo sul frontone, mentre la sede della curia era un nuovissimo palazzo barocco completamente affrescato, con una delle biblioteche più fornite del mondo magico. Ormai molti elementi si fondevano insieme, per creare un unicum davvero straordinario: antichi costumi romani, cattolicesimo del Patriarcato e novità del neonato diciassettesimo secolo davano vita alla più straordinaria comunità magica d'Europa.
Erano passati pochi giorni dall'arrivo a Roma dei due fuggiaschi con la loro comitiva, quando Mekaster si presentò alla porta accompagnato da una figurina ammantata, che teneva le redini di un cavallo schiumante.
«Mekaster, cosa diavolo...» cominciò a gridare Rory, pronto a metter mano alla bacchetta, ma dovette interrompersi quando la figura si levò il cappuccio. Riccioli castani incorniciavano un volto da ragazzino, stanco e spaventato.
«Conn!» esclamò di getto il vecchio Hugh, stringendo il figlio in un abbraccio. «Cosa ci fai qui?» gli domandò poi, dopo aver sciolto la stretta.
«Hugh, fallo sedere» intervenne bonariamente Rory, che aveva notato la spossatezza del ragazzino.
Hugh si fece da parte, permettendo la figlio di accomodarsi in casa. Lui si lasciò cadere su una sedia, passandosi una mano sul volto stanco e provato. «Inseguo le vostre tracce da mesi» si giustificò con un accenno di sorriso.
«E il Trinity?» si informò Hugh: dal momento che il figlio aveva solo quindici anni e non aveva ancora finito gli studi, sarebbe dovuto essere a scuola, non in giro da solo per le lande europee a inseguire le tracce della loro fuga.
Conn scosse la testa. «Ho abbandonato il Trinity, padre. Non siamo più i benvenuti nella società magica d'Irlanda.» Il ragazzino si levò il mantello e accettò grato il boccale di acqua fresca che Mekaster gli aveva portato. «È per questo che ho cercato di raggiungervi. Le vostre mogli aspettano mie notizie dalle coste della Normandia, desiderose di raggiungervi.»
Al solo sentir nominare sua moglie Eorann, Rory fu investito da un'ondata di nostalgia. Pensò alla sua pelle candida che non accarezzava da tempo, al suo sguardo dolce, ai suoi capelli dorati, alla voce mite e leggera. E poi pensò al figlio che non aveva potuto veder nascere, di cui non aveva mai avuto nemmeno una notizia. Non sapeva nemmeno come si chiamasse. Alzò gli occhi sofferenti su Conn, pieni di angoscia e malinconia, e non ci fu bisogno di parole.
Conn sorrise. «Sta bene, è un maschio» annunciò. «Ha i capelli rossi e sua madre l'ha chiamato Hugh.»
Rory sentì le forze venirgli meno, per quell'improvviso conforto che gli avevano portato le notizie del giovane Conn, e fu costretto a sedersi. Avrebbe voluto piangere per il sollievo, ma pensò che le difficoltà non erano ancora terminate e avrebbe fatto bene a risparmiare le lacrime per la fine delle loro tribolazioni.
«Figliolo, mettiti in contatto con le donne» asserì il vecchio Hugh, col volto grave. «Credo che Roma sarà la nostra casa per un bel po'.»

Rory e Hugh ci impiegarono quasi tre settimane, dal loro arrivo a Roma, prima di riuscire a farsi introdurre in casa di Ottaviano Crescenzi, uno dei più importanti patrizi del Gaianum. Da quel che Rory era riuscito a capire, il nipote di Ottaviano, il cardinal Giuliano Crescenzi, era il segretario del Patriarca. Gente importante, insomma, a cui avrebbero potuto chiedere protezione e un luogo sicuro dove nascondere il loro segreto.
Oltretutto, Conn si era messo in contatto con Rosemary, Eorann e il loro seguito: li avrebbero raggiunti a Roma al più presto. Forse Hugh aveva davvero ragione: tutte le cose si stavano mettendo a posto e quella terra sempre soleggiata sarebbe potuta essere la loro nuova casa.
«Noi siamo pronti, Rory» annunciò proprio in quel momento Hugh, presentandosi in ingresso con i suoi due figli al seguito. Tutti indossavano gli abiti migliori tra quelli sopravvissuti al lungo viaggio.
Anche Rory aveva scelto il completo verde scuro di seta e broccato che indossava solo nelle grandi occasioni. «Allora andiamo» asserì, facendo cenno a Mekaster di mostrar loro la strada.
Scesero a piedi dal colle sul quale si trovava la loro casa provvisoria, per inoltrarsi nel dedalo di viuzze di Roma, fino a giungere all'entrata dei Gaianum. La casa di Ottaviano Crescenzi, almeno quella di rappresentanza, aveva sede in un'antica domus romana, situata nella zona nord del Gaianum. Mekaster li portò fin davanti all'abitazione, ma poi disse che quello non era luogo per lui e si dileguò per le strade affollate dai maghi romani. Fu lo stesso padrone di casa a venire ad aprire loro la porta, facendoli accomodare in una stanza affrescata che dava sul portico interno, arricchito di piante esotiche e freschi giochi d'acqua. Alcuni altri uomini erano semi sdraiati su dei divanetti particolari, con il bracciolo solo da una parte – quella dove poggiava la testa; chiacchieravano tranquillamente tra loro, sotto un grande crocifisso ligneo appeso alla parete opposta al portico. Tutti erano vestiti alla maniera romana: i maghi del Gaianum, infatti, indossavano spesso la toga sopra il farsetto, come segno distintivo; il che creava un bizzarro accostamento di antico e moderno.
Il padrone di casa disse qualcosa nella sua lingua madre agli ospiti presenti in salotto e questi si alzarono in silenzio e lasciarono la stanza. «Possiamo parlare in latino?» domandò allora Crescenzi, indicando dei divanetti su cui sedersi. Era un uomo di mezz'età, con i capelli corti, alla moda romana, spruzzati qua e là di grigio; aveva gli zigomi pronunciati e il mento con una fossetta nel mezzo, ma in generale il suo volto aveva un aspetto gradevole e insieme autoritario.
«Dovrete allora perdonare il nostro latino, an tUasal Crescenzi» mormorò un po' a fatica Rory, che non aveva mai avuto una gran dimestichezza con quella lingua, per quanto l'avesse studiata al Trinity e fosse stato costretto ad utilizzarla in più di un'occasione. Scelse anche di riferirsi al suo ospite con il titolo di 'messere' usando il suo idioma, il gaelico. Non era infatti sicuro che Crescenzi avesse una qualche carica onorifica o nobiliare, né era certo di sapere come funzionasse il patriziato romano.
L'uomo accettò le scuse con un sorriso di comprensione. «Quali occorrenze vi portano a Roma, così lontano da casa?» domandò loro, mentre veniva servito del vino allungato con acqua e miele.
Rory, abituato al sapore intenso della birra, lo trovò disgustoso, ma cercò di non darlo a vedere. «La ricerca della pace» rispose infine. «E di un luogo sicuro dove poter stare, lontani dalle grinfie protestanti.»
I bei lineamenti di Crescenzi si contrassero in una smorfia. «Non si è mai abbastanza al sicuro da quelli» commentò. «Le loro pretese sono ridicole, non sanno a cosa stanno andando incontro.»
Hugh annuì mesto. «In patria la situazione è drammatica» intervenne, in un latino più fluido di quello di Rory. «La corona inglese espropria le terre a noi Irlandesi per darle ai suoi maledetti coloni protestanti.»
Crescenzi si voltò verso l'interlocutore dalla lunga barba grigia. «Non c'è modo di ricorrere alla magia per fermare tutto questo?» si informò. «A volte i Babbani sono facilmente influenzabili.» E in quella semplice affermazione gli ospiti colsero tutta la pericolosità del Patrizio Ottaviano Crescenzi, che tanto si era dimostrato benevolo nei loro confronti, tanto avrebbe potuto rivelarsi terrificante se avesse deciso che fossero nemici.
Rory prese un profondo respiro: la conversazione si stava procedendo bene, ma non voleva rischiare di compromettere tutto. «Ci abbiamo provato, finché non è arrivato Lord Chichester» rispose infine. «È un mago anche lui, e maledettamente abile.»
Il Patrizio sollevò un solo sopracciglio in un'espressione sorpresa. «Ma tutta la nobiltà magica irlandese... contro un solo uomo?»
«Non siamo uniti» spiegò Hugh. «C'è troppa rivalità: il conte Deamundi ha continuato ad ostacolarci, cosicché la sua famiglia diventasse la più potente dell'Irlanda magica.»
«E ci è riuscito» aggiunse Rory con amarezza.
«Dove porta la sete di potere» commentò saggiamente Crescenzi, sorseggiando il suo vino con aria meditabonda. «Io non posso fare molto per le sorti dell'Hibernia, purtroppo. Ma avrete il mio sostegno, fintanto che resterete a Roma» annunciò infine. «E quello di mio nipote, sua eminenza il cardinal Giuliano Crescenzi. Credo che non ci saranno problemi anche a farvi incontrare direttamente col Patriarca; dopotutto, anche lui è Irlandese e sicuramente condividerà le vostre preoccupazioni.»
Finalmente, dopo tanti mesi, Rory si aprì in un sorriso. «Non sappiamo come ringraziarvi per quello che state facendo per noi.»
«Non è nulla» minimizzò Crescenzi. «In fondo, noi cattolici dobbiamo restar uniti in tempi difficili come questi.»

Quando lasciarono la domus di Ottaviano Crescenzi, mancava ormai poco al tramonto. Rory era fiducioso che le cose si stessero finalmente sistemando per il meglio: Crescenzi era un uomo d'onore e con il suo aiuto, se anche non fossero riusciti a tornare in Irlanda, quanto meno avrebbero potuto trovare un luogo sicuro dove rifugiarsi. E nascondere il loro segreto.
I quattro maghi irlandesi giunsero alla vecchia cisterna sotterranea e attraversarono il passaggio segreto per tornare nella Roma Babbana. Rory, l'ultimo che chiudeva la fila, non riuscì a capire che cosa avesse agitato tanto i suoi compagni finché non risalì anche lui dall'antica botola, per ritornare alla luce del sole morente. Là, illuminata dal rosso del tramonto, brillava una dama dai lunghi capelli dorati, con in braccio un bambino paffuto. Rory per poco non si inciampò nella botola, per la fretta di uscire e correre ad abbracciare sua moglie.
«Eorann!» Il grido gli uscì soffocato dai singhiozzi, mentre stringeva tra le braccia la sua amata.
«Rory, questo è tuo figlio Hugh» mormorò dolce la donna, mettendogli tra le braccia un bel bimbo di circa sette mesi, con gli occhi vispi e i ciuffi di capelli rossicci. «Hugh, saluta tuo padre.»
Il bambino gorgogliò e si aprì in un sorriso gioioso.
«Ciao, piccolino» sussurrò Rory, lasciando che il figlio stringesse la manina paffuta intorno al suo dito. Per qualche tempo l'uomo si perse nella contemplazione di quella creaturina tanto straordinaria, che era sangue del suo sangue ed erede della stirpe degli O'Donnell. Ma poi tornò a concentrarsi su sua moglie e, noncurante delle regole del buon costume, le mise una mano dietro la nuca, la attirò a sé e la baciò a lungo.
«Rory, rientriamo» lo incitò Hugh, più ragionevole. Non era il caso di attardarsi troppo, visto che il sole era ormai tramontato.
Rory si separò dalla moglie e accennò un segno col capo. Salutò anche Rosmary, la moglie di Hugh, e fece un cenno a Mekaster, senza dubbio l'autore di quella sorpresa. Fece per incamminarsi quando...
«Cosa hai visto?» domandò preoccupata Eorann, mentre riprendeva in braccio il piccolo Hugh.
Rory scosse la testa. Gli era parso di vedere un'ombra solitaria che si aggirava nel cantiere della basilica di San Pietro, ma forse si era sbagliato. «Nulla, nulla. È meglio se andiamo.»
Si incamminarono tutti verso i colli, troppo emozionati per via di quel ritrovo inaspettato per poter parlare. Dopo ci sarebbe stato il tempo per le parole. Quello era il momento della contemplazione silenziosa e del dolce meditare nel cuore.
Rory non riusciva a togliere gli occhi di dosso dalla moglie. Quanto gli era mancata, quanto aveva temuto di non poterla rivedere, di non poterla più riabbracciare, accarezzare, baciare.
Ma poi un rumore soffocato alla sua sinistra lo fece voltare d'improvviso e fu allora che la vide: la figura che aveva intravisto tra le travi di legno delle impalcature si era delineata nei contorni di un uomo in armatura, ma le lunghe ombre del tramonto impedivano a Rory di distinguerne il volto.
Eppure... quella cappa azzurra bordata d'oro non l'avrebbe scordata facilmente. La mano gli corse istintivamente alla bacchetta, proprio mentre altre figure apparivano tra le ombre.
«Scappate!» ordinò frettoloso alle donne, preparandosi a combattere.
«Rory, che succede?» Eorann lo guardò allarmata, stingendo tra le braccia il suo piccolo.
Ma anche Hugh aveva riconosciuto la figura e fece cenno alla moglie Rosemary di eseguire velocemente l'ordine di scappare. La donna capì al volo la gravità della situazione per cui convinse Eorann e il giovane Conn a seguirla in fretta.
Rimasero a fronteggiare i nemici solo Rory, Hugh, suo figlio Matthew e il fedele Mekaster.
L'uomo in armatura e cappa azzurra fece qualche passo avanti, finché i suo avversari non poterono gustare tutto il sarcasmo dell'orribile ghigno che gli incurvava la bocca. «Finalmente ci rivediamo.»
«Chichester» rispose tagliente Rory. «Come hai fatto a trovarci?»
«È Lord Chichester, per te, O'Donnell.» L'uomo si sistemò la cappa azzurra. «Comunque è stato semplice: era da un po' che tenevo sott'occhio le vostre mogli, certo che presto o tardi mi avrebbero condotto da voi.»
Rory strinse più forte la presa sulla sua bacchetta, improvvisamente investito da un'ondata di rabbia: immaginare quel verme che spiava la sua dolcissima moglie e il bambino, quando lui non aveva nemmeno potuto assistere alla sua nascita, né accarezzare i capelli di Eorann per tutto quel tempo...
«Siamo giunti alla fine!» latrò in preda al furore, puntando la sua arma contro quella serpe.
Chichester si lasciò sfuggire un ghigno. «Sì, ma è la tua fine.» Veloce come un lampo nel cielo, l'uomo si fece scivolare la bacchetta tra le dita e scagliò una maledizione silente, che Rory evitò per un soffio.
Fu il segnale: le guardie di Lord Chichester attaccarono simultaneamente, addestrate a null'altro che duellare e vincere. Hugh e Matthew incominciarono a retrocedere, parando a stento i colpi dei nemici. Lampi di luce illuminarono il crepuscolo, con il sole ormai tramontato oltre le colonne in costruzione della piazza.
Rory si lanciò come una furia contro Chichester, scagliando ogni maledizione che gli venisse in mente, ma il suo avversario era un ottimo duellante e parò con facilità. Si inseguirono e si rincorsero tra le impalcature di legno, i blocchi di marmo semi scolpiti e gli attrezzi da lavoro abbandonati. Gli incantesimi riempivano l'aria come il rombo assordante di una cascata, rendendo il cantiere abbandonato simile ad lugubre campo di battaglia. Chichester era rapido, scattante e con i sensi allenati da numerosi scontri: le sue maledizioni, precise come il lavoro di un orefice, raramente mancavano il bersaglio, tanto che Rory era quasi sempre costretto a difendersi e aveva poche occasioni di attaccare.
«Qui nemmeno i tuoi angeli potranno proteggerti, O'Donnell» lo schernì Chichester, proprio mentre gli faceva crollare addosso le macerie del cantiere. Rory si tuffò di lato appena in tempo. Ma le parole canzonatorie del nemico gli avevano fatto balenare in mente un'idea. «Piertotum locomotor!» gridò, lanciando l'incantesimo contro le statue degli angeli che gli scultori stavano ultimando. Funzionò. Tre di esse, ormai finite, si innalzarono in volo maestose e poi si lanciarono in picchiata contro Chichester.
L'uomo colpì la prima che era ancora in aria, stagliata contro il cielo del vespro: la statua si frantumò in mille pezzi. Poi Chichester, rapidissimo, estrasse la spada dal fodero e si preparò all'assalto. Parò i colpi di spada dell'angelo, scagliò una maledizione contro l'altro, staccandogli un braccio, poi piroettò su se stesso e parò l'incantesimo di Rory. Infine, fece un balzo all'indietro e si aggrappò alle impalcature, sparendo tra le travi.
Rory si affrettò ad inseguirlo, ma la statua dell'angelo fu più rapida: si tuffò sul pontile, la spada puntata davanti a sé, e tallonò il fuggiasco che saliva sempre più in alto. Mentre Rory si arrampicava, il sordo rumore del metallo contro il metallo risuonava nella piazza. E poi un «Reducto!» squarciò il cielo e Rory dovette coprirsi il volto con il braccio per evitare di essere accecato dalle schegge di marmo che erano esplose in ogni direzione.
Lì, ricoperto di polvere bianca marmorea, in piedi come un conquistatore, con la spada sguainata e la bacchetta pronta, stava Lord Arthur Chichester. «Non credo bastino i tuoi giochetti, O'Donnell» ghignò, ripulendosi il volto con la manica del farsetto.
Il duello ricominciò; ma questa volta, ad aggravare la situazione, c'era la pericolosità del terreno di gioco: le impalcature parevano reggersi in piedi per un qualche miracolo divino. Fu dopo qualche colpo di incantesimi che Rory mise un piede in fallo e la trave su cui si era poggiato crollò sotto il suo peso. Si ritrovò carponi qualche piano più sotto, il corpo dolorante e ricoperto di schegge di legno. La bacchetta era persa chissà dove.
Chichester gli fu subito addosso: con un incantesimo lo scagliò contro una trave dell'impalcatura e si preparò al colpo fatale. Rory, semi intontito, sguainò a sua volta la spada, mettendosi in posizione di difesa. La sua mano sinistra scivolò tra le pieghe dei pantaloni, alla ricerca dell'unica cosa che avrebbe potuto porre fine per sempre a quell'inseguimento durato ormai troppi anni.
Chichester sorrise sarcastico di fronte al suo pallido tentativo di difesa. Attaccò come un fulmine, assestando colpi di spada precisi e rapidissimi. Rory si difese e contrattaccò, ma sapeva di non aver alcuna possibilità in quel duello. Dopo qualche tiro di spada, infatti, Chichester sembrò stancarsi di giocare con la preda. «Expelliarmus» sibilò, senza nemmeno preoccuparsi di dover usare un incantesimo silente. In fondo, il suo avversario come avrebbe potuto parare?
La striscia di Rory volò lontano. Lui cercò di ripararsi dietro una trave, ma sapeva sarebbe stato inutile. Nella sua mano sinistra stringeva una piccola capsula di sottilissima terracotta: con un ultimo respiro, se la ficcò in bocca e si preparò a fronteggiare il suo nemico.
Lord Chichester era lì in piedi, con la bacchetta puntata al suo petto. «È finita» disse. «Non ci saranno per te le prigioni e il perdono reale. Questa storia la concludo a modo mio.»
«Marcirai all'inferno!» gli sputò addosso Rory.
Chichester sorrise. «Tielle per te le tue lezioncine di catechismo da cattolico» replicò sarcastico. «Io regnerò in terra.» Alzò la bacchetta su di lui, pronto a colpire. «E regnerò nell'Ade! Avada Kedavra!»
Accadde tutto in un lampo. Rory spezzò tra i denti la capsula e un liquido amaro gli anestetizzò la bocca. Ma non ebbe nemmeno tempo di rendersene conto che il lampo verde l'aveva già investito in pieno.
E Rory O'Donnell stramazzò a terra.









Carissimi,
no, non sono scomparsa, rapita dagli ufo o impegnata in un'avventura con Gandalf... purtroppo in questo periodo la mia ispirazione va e viene e ho avuto ripetutamente bisogno di pause. Ma, non mi stancherò mai di ripeterlo, non potrei abbandonare Ed e gli altri al loro destino!

Comunuque, per farmi perdonare i mesi d'assenza, questo è un capitolo ben fornito! Spero che la parte storica non risulti troppo noiosa, ma dovevo in qualche modo raccontare le peregrinazioni dei poveri Conti in fuga.
Quanto alle mie speculazioni sulla parte magica di Roma, ho dato libero corso alla fantasia: ho immaginato infatti che - dal momento che i maghi per come li descrive la Rowling sono tendenzialmente conservatori e avversi alle novità (vogliamo parlare dell'uso delle candele??) - anche i maghi di Roma (e Italiani in generale) avessero conservato con orgoglio alcuni elementi della romanità classica, soprattutto in spregio ai barbari. Comunque avremo modo di tornare nel Gaianum anche nel prossimi capitoli. Ah, per il nome mi sono ispirata al Vaticanum, la cui origine è simile a quella descritta per il Gaianum.
Se vi interessa, ecco le pagine di wikipedia dei vari personaggi storici che compaiono nel capitolo: QUI re Enrico IV, sovrano di Francia al termine della guerra tra cattolici e ugonotti, mentre QUI il suo consigliere Guillaume; QUI re Filippo III di Spagna, e infine QUI l'adorabile lord Chichester. [che sì, è un figo di cattivo!].
Vi lascio anche con le immagini dei personaggi:
QUI Rory O'Donnell e Hugh O'Neill;
QUI Arthur Chichester;
QUI Ottaviano Crescenzi.

Questa volta puntuale, ci rivediamo lunedì 7 settembre. E presto o tardi scoprirete anche cosa è successo al povero Rory.
A presto,
Beatrix

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Capitolo 19
*** Miracoli sul campo da Quidditch ***


CAPITOLO 19
Miracoli sul campo di Quidditch






Septimius Saiminiu era sempre stato un uomo paziente. Aveva avuto un'ottima scuola, dopotutto, avendo sopportato per anni i brontolii di sua sorella Priscilla e le follie del suo amico Reammon. Ma se c'era un'unica persona al mondo che non aveva mai potuto soffrire, quella era Daireen Cumhacht. Quando erano solo studenti, aveva tartassato per anni il suo migliore amico con le sue assurde gelosie, con le sue petulanti richieste, con la sua collosità morbosa. E ora che erano diventati adulti, le cose stavano ancora peggio. Lei era assolutamente e totalmente psicopatica; per cui, l'idea di averla come suo diretto superiore, con la facoltà di mettere il suo nasaccio aquilino nei suo affari, non lo garbava affatto.
«Le comunità di monaci maghi svilupparono in quasi cinque secoli un'arte molto raffinata» stava spiegando quel giorno ai ragazzi del sesto anno. Adorava affrontare quell'argomento, che teneva sempre come ultimo del corso, perché il livello di magia raggiunto dai monaci irlandesi alto medievali era straordinario e lo affascinava incredibilmente. «Pensate ad un monaco mago come Dungal, vissuto all'epoca di Carlo Magno...»
«Mi scusi, professore» lo interruppe una voce odiosa. E non aveva proprio l'aria di essere dispiaciuta.
«Dica» sibilò Septimius, senza nemmeno provare a mascherare il suo disappunto.
La Cumhacht serpeggiò tra i banchi, per raggiungere la cattedra dal fondo dell'aula, dove si era posizionata per assistere alla lezione. «È sicuro che questo argomento sia pertinente al programma del corso?»
«Ho steso io stesso il programma del corso» rivelò Septimius. «E sono assolutamente sicuro che l'argomento sia pertinente.»
«Sì, ma sa...» la Cumhacht finse una qualche esitazione. «Questi monaci che peregrinavano in giro per l'Europa... non sarebbe meglio che un corso di Magicologia Irlandese si concentrasse sulle personalità che hanno reso grande l'Irlanda?»
Saptimius la perforò con lo sguardo. «Dungal e i monaci maghi hanno reso grande l'Irlanda» decretò in tono deciso.
La donna fece una smorfia come se non fosse del tutto soddisfatta per la risposta. «Come spiegarle, professor Saiminiu?» si interrogò. «Io credo – e il Governo con me – che dovrebbe prendere in esame maghi, come dire?, più ancorati alle proprie radici e più fedeli alla patria.»
Septimius si piazzò dietro la cattedra, con le mani appoggiate sul tavolo e gli occhi scuri puntati contro la sua interlocutrice. «Preside Cumhacht, le concederò di mettere il becco nei miei programmi quando avrà raggiunto anche solo un decimo della mia preparazione negli argomenti da trattare. Fino a quel momento, la prego di tenere la sua considerevole appendice nasale – e quella del Governo – fuori dai miei affari.»
Nella classe calò il gelo. Tutti gli studenti trattennero il fiato, senza capacitarsi di come il professor Saiminiu, di solito così taciturno, avesse avuto l'ardire di insultare con tanta veemenza la Preside.
Septimius sorrise sarcastico. «E ora vada pure a piagnucolare da McPride. Magari le darà l'autorità di rendere questa scuola un istituto per imbecilli ben indottrinati» concluse soddisfatto.
La Cumhacht era fremente di rabbia. Scrutò il suo avversario per parecchi secondi, prima di dirigersi verso la porta a grandi passi. «Stia attento alle sue parole, professore. Potrebbe rimaner spaventato dall'autorità che posso raggiungere» sibilò prima di uscire dall'aula.

Le minacce della Cumhacht si rivelarono tristemente fondate: pochi giorni dopo il suo diverbio con il professor Saiminiu, il Dipartimento decretò che la Preside ad interim, coadiuvata da un collegio di esperti, avesse il potere di revisionare i programmi di tutte le materie. Per renderli più attuali.
«Per una volta Saiminiu non poteva tenere la bocca chiusa?» borbottò a colazione Laughlin, che si era intrufolato al tavolo dei Raloi.
«La sta esasperando» bofonchiò Edmund da dietro il giornale. «È una tattica per spingerla a smascherarsi.»
Mairead gli lanciò un'occhiata di sbieco. Come aveva fatto a cogliere al volo il piano di Saiminiu? Da quel che sapeva, il professore ne aveva parlato solo con lei.
«Speriamo che questa tattica funzioni alla svelta, allora» replicò Laughlin, lanciando di sfuggita uno sguardo al tavolo dei professori. «Perché sta diventando un gioco pericoloso.»
Mairead allontanò disgustata il succo di zucca, perché il solo odore le faceva venire la nausea. «Anche il nostro, oggi, sarà un gioco pericoloso» commentò. Quella mattina si sarebbe tenuta l'ultima partita del campionato di Quidditch: Raloi contro Nagard. In base al punteggio delle precedenti partite, i Raloi avrebbero vinto la coppa solo se avessero battuto gli avversari con un margine di almeno quaranta punti. Il che non sarebbe stato un grosso problema, se non avessero dovuto giocare con la miglior squadra che i Nagard avessero avuto da parecchio tempo. Cosimo Brandebelli, Punta e Capitano, aveva tirato insieme davvero un ottimo gruppo di giocatori. Per non parlare del fatto che Bearach aveva dimostrato un vero talento per acciuffare il Boccino, al contrario di Laisar Secula, la Cercatrice dei Raloi. Ci sarebbe voluto un miracolo.
«È accaduto un miracolo!» annunciò Lily, prendendo posto di fronte a Mairead.
La ragazza sgranò gli occhi, sentendo improvvisamente rifiorire la speranza.
«Finn, il portiere dei Nagard, è in infermeria con la febbre da centauro» spiegò Lily, anche lei visibilmente eccitata. «E May, la sostituta, non mi sembra proprio ben messa.» Accennò col capo ad una ragazzetta con la divisa da Quidditch che era entrata in Sala Mor in quel momento: col volto violaceo e gli occhi sgranati, sembrava un condannato che va al patibolo.
«Fletcher!» chiamò Mairead, senza staccare gli occhi di dosso alla May.
Quando Fletcher trotterellò fino a loro, la ragazza scacciò via Laughlin. «Dobbiamo discutere di tattiche di gioco» si giustificò.
Laughlin sbuffò e si sentì in dovere di far razzia delle tortine alle mele prima di alzarsi e raggiungere Dominique al tavolo dei Nagard.
«Allora, ragazzi» cominciò Mairead. «Abbiamo una possibilità di vincere la partita: Laisar non ce la farà mai a prendere il Boccino prima di Bearach, ma il Boccino non è l'unico che dà punti...»
«Credi che riusciremmo a far così tanti goal da vincere anche senza Boccino d'Oro?» sussurrò Lily, eccitata dall'idea e insieme un po' scettica.
«Come alla finale della Coppa del Mondo?» aggiunse Fletcher, dubbioso.
Mairead alzò una spalla, sfoderando un sorriso furbo. «Con Finn in campo non ce l'avremmo mai fatta, ma la sostituta sembra sul punto di vomitare la colazione dello scorso Natale per la troppa ansia.»
Fletcher si tastò lo stomaco. «Anche io, se è per quello...» borbottò.
Mairead fece una smorfia. «Ma tu sei un fuoriclasse. Mentre con la May, se riuscissimo a mandarla in panico...»
«...potremmo vincere» sussurrò Lily, completando la frase con lo stesso tono di chi ha appena fatto una scoperta sensazionale.
Mairead annuì seria. Anche l'altra ragazza annuì e poi allungò la mano per incitare i compagni. Mairead posò la sua su quella di Lily senza esitazione, mentre Fletcher parve più titubante, ma alla fine si unì al gesto scaramantico.
«Ai Cacciatori Raloi» sussurrò Lily. «Alla vittoria.»
«Alla vittoria!» ripeterono in coro Mairead e Fletcher.
Al termine della colazione, tutti i giocatori si ritrovarono negli spogliatoi. Mairead, in qualità di Capitana della squadra, rinfrescò gli schemi tattici e si lanciò nel solito discorso di incoraggiamento, ma evitò di precisare i piani suoi e delle sue due Ali. Certo non sarebbe stato carino nei confronti di Laisar, che era già sufficientemente sotto pressione, farle notare che avevano intenzione di giocare come se lei non ci fosse. «Forza, ragazzi!» li incitò Mairead, facendo segno di prendere le scope e uscire. «Facciamogli vedere chi siamo!»
I Raloi si misero a cavallo dei loro manici e fecero ingresso in campo. Una leggera pioggerella primaverile li investì, mentre lo stadio acclamava i suoi giocatori.
«Ecco a voi i Raloi» li presentò una voce che... non era quella del professor Ballerinus, ma...
Mairead si voltò di scatto verso la tribuna degli insegnanti e i suoi timori trovarono conferma: la Cumhacht si era arrogata il diritto di far la telecronaca della partita. Ottimo, era proprio quello di cui aveva bisogno la sua squadra!
«Ignoratela!» gridò ai suoi, per sovrastare il rumore dello stadio. «Ignorate la telecronaca!»
Cosa più facile a dirsi che a farsi, purtroppo. La Cumhacht, infatti, aveva già cominciato con i suoi commenti decisamente poco gentili. «Chissà come la Capitana Boenisolius pensa di vincere questa partita, con dei giocatori mediocri e una Cercatrice del tutto incapace.»
Mairead si fece forza e cercò di ignorare la voce della preside. Concentrati solo sul gioco, si disse, sforzandosi di puntare gli occhi sulla Pluffa, che mister Timberlen teneva stretta sotto braccio.
«I capitani si stringano la mano» ordinò l'uomo proprio in quel momento.
Brandebelli sfrecciò con la sua Nimbus 2001 di fronte a Mairead, con un sorriso affascinante. Nonostante tutto, non aveva ancora smesso di farle la corte. «Che vinca il migliore» augurò, stringendole la mano.
Era un bel ragazzo, in fondo, con gli occhi scuri e il fascino mediterraneo. Mairead sorrise di rimando, mentre il suo pensiero correva a Edmund. «Allora vinceremo noi» rispose, dando un colpo alla scopa per tornare dai suoi Cacciatori e lasciare Brandebelli lì a bocca asciutta.
Al fischio di mister Timberlen, i tre Raloi si lanciarono in perfetta formazione verso la Pluffa, che l'arbitro aveva lanciato in aria, cosicché Mairead riuscì ad afferrarla per per prima. La passò velocemente a Lily, che a sua volta la tirò a Fletcher e poi di nuovo a Maired. Si erano allenati al massimo per essere veloci nei passaggi, in modo da disorientare la difesa dei Nagard. Ma, com'era ovvio, Brandebelli aveva insistito con tutta la squadra perché i Cacciatori avversari non avessero l'occasione di andare in vantaggio.
«Il primo Bolide della partita colpisce Boenisolius, che lascia cadere la Pluffa» commentò la Cumhacht. «Speriamo sia il primo di una lunga serie.»
Mairead si massaggiò il braccio colpito, furente di rabbia più per la telecronaca della Preside che non per la Pluffa perduta.
Per fortuna la Boldwin sbagliò un passaggio e Fletcher intercettò immediatamente la palla. Dopo qualche rapido scambio con Lily, il ragazzino segnò il primo punto.
«Dieci a zero. Ne hanno di strada da fare i Raloi.»
I Nagard erano in possesso di palla, ma per fortuna Mark riuscì a parare il tiro di Best. Quando la Pluffa tornò nuovamente nelle mani di Mairead, un secondo Bolide la colpì alla schiena e le fece perdere la palla.
La Cumhacht sghignazzò. «Ecco un altro bel colpo!»
«Maledizione! Era, Gabriel, difendete i vostri Cacciatori!» sbraitò Mairead, già indiavolata e senza alcuna speranza di vittoria. «Dobbiamo puntare tutto sull'attacco!»
«Ci stiamo provando, sai!» replicò Era, velenosa. «Ma guarda caso i Nagard puntano tutto sulla difesa!»
Per fortuna Fletcher riuscì a segnare altri due goal, portando il punteggio a trenta a zero. Per il momento, la sostituta Portiera non aveva ancora parato nulla e, a giudicare da suo aspetto paonazzo, stava per andare in panico. Almeno una cosa positiva.
Poco dopo Brandebelli riuscì a eludere la scarsa difesa dei Raloi per segnare il primo punto per la sua squadra. Venti punti di distanza e nessuna traccia del Boccino.
Il fischio penetrante di mister Timberlen interruppe la partita.
«Boldwin ha fatto un passaggio in avanti» spiegò la Cumhacht. «Ora vedremo di cosa son capaci le Punte e soprattutto se la Boenisolius si è meritata il ruolo di Capitana.»
Eccome se me lo sono meritata, brutta stronza!, pensò Mairead, furibonda, mentre si preparava in formazione a bordo campo con le sue Ali.
«Facciamo quello che abbiamo provato?» domandò Fletcher, titubante.
Mairead osservò la Punta avversaria, dall'altra parte del campo. «Sì, Brandebelli è un ottimo giocatore e sa che la nostra mischia è migliore» spiegò. «Farà quello che ho previsto.»
«E noi lo fregeremo a nostra volta» concluse Lily, con un sorrisetto.
Mister Timberlen fischiò e i Cacciatori Raloi si lanciarono in avanti come un sol uomo. Acquistarono velocità in perfetta sincronia, avvicinandosi sempre di più alla Pluffa posizionata a centrocampo. Brandebelli, dal canto suo, diede l'ordine di desistere, in modo da potersi sganciare dalle sue Ali e sfruttare la rapidità della sua Nimbus 2001 per insinuarsi tra i Cacciatori avversari ed intercettare il passaggio di Mairead. Ma la ragazza aveva previsto questa mossa dell'avversario e aveva ordinato alle sue Ali di scendere in picchiata non appena lei avesse preso la Pluffa. Così, quando le sue dita sfiorarono il rosso cuoio, Lily e Fletcher si staccarono dalla formazione e sterzarono verso il basso: con la Manovra di Porskoff perfettamente sincronizzata, Mairead scagliò la palla verso il basso a Lily, che l'afferrò e andò a segnare nell'anello più basso.
«I Nagard in possesso di palla» commentò stizzita la Cumhacht. «Brandebelli passa a Best, Boldwin, tira... no, Moon intercetta il passaggio.»
Fletcher risalì verso i pali avversari, mentre la Cumhacht domandava in tono di scherno come potesse un ragazzino così minuto e insignificante essere un buon giocatore.
Adesso te lo fa vedere lui come può essere un ottimo giocatore!, pensò Mairead, mentre il piccolo Fletcher sfrecciava verso l'anello in basso.
Ma poi Bearach avvistò il Boccino e si lanciò nell'inseguimento verso i pali difesi da Mark. Laisar era persa chissà dove.
«Maleficium prenderà il Boccino e i Raloi non possono far nulla!» esclamò sarcastica la Cumhacht.
Era si lanciò verso un Bolide, per poterlo spedire contro Bearach, ma era troppo lontana.
Fu allora che Fletcher, si buttò in picchiata verso il basso, invece di proseguire dritto la sua strada verso gli anelli. Con quella manovra azzardata si lasciò sfuggire di mano la Pluffa, ma riuscì a tagliare la strada a Bearach. In quell'istante fatale, il Boccino d'Oro sparì.
La curva verde esplose in un boato. Mairead urlò con quanto fiato aveva in gola e corse a stritolare Fletcher in un abbraccio.
Nel frattempo Brandebelli aveva segnato un altro goal, ma non aveva importanza fin tanto che erano riusciti a far sparire di nuovo Boccino. Poi fu il turno di Mairead di segnare, portando il punteggio cinquanta a venti.
Proprio in quel momento le giunse alle orecchie un coro, prima più biascicato, poi sempre più chiaro e forte. Ripeteva il nome della sostituta Portiera dei Nagard.

Shona May, Shona May
fai a tutti veder chi sei!

Mairead tese le orecchie, ma sembrava proprio che il coro venisse dalla curva verde. Perché i tifosi della sua squadra avrebbero dovuto incitare la Portiera avversaria? Ma poi la canzone cambiò tono.

Ti piacerebbe riuscire a parare
almeno un tiro, ma non strafare!
I Cacciatori dei Raloi
sono i più forti, son tutti noi!

Shona May, Shona May
fai a tutti veder chi sei!
La peggiore Portiera
che si vede da un era!

E poi ricominciava da capo. Mairead per poco non scoppiò a ridere. Si erano sempre sentiti un po' di cori e grida varie dalle tribune, ma una cosa così ben organizzata non le era mai capitato di udirla.
In quel momento Lily le passò accanto e le diede una pacca sulla spalla. «Ho chiesto a mia sorella Rosalie e a Eileen di darci una mano con la missione segreta» rivelò con un sorriso brillante.
«Sei stata fantastica.» Mairead si sentì rincuorata. Non era una cosa molto sportiva, doveva ammetterlo, ma fu la spinta che le serviva per tornare a credere nella squadra.
«Oh, l'arbitro dovrebbe farli smettere!» protestò la Cumhacht, inviperita, ma mister Timberlen non sembrava eccessivamente preoccupato dal coro dei Raloi, che in fondo non era poi così offensivo.
Mairead, Fletcher e Lily ripresero vigore. In poco più di un quarto d'ora di partita, segnarono altri cinque goal, per un punteggio di cento a venti. Ormai la povera Shona May era sull'orlo di una crisi isterica. Va bene, probabilmente il campionato non sarebbero riusciti a vincerlo, ma forse la partita sì. Sarebbe stata una gran bella soddisfazione.
Purtroppo i Battitori dei Nagard avevano recepito le istruzioni del loro Capitano e avevano cominciato a difendere strenuamente gli anelli ormai abbandonati: quando Lily si ritrovò davanti ai pali, O'Murton e Boldwion spedirono tutti i Bolidi contro di lei. Il primo lo evitò, il secondo anche, il terzo le mozzò di netto la punta della scopa. Lily cominciò a vorticare su se stessa, precipitando verso il basso.
Mairead chiese all'arbitro un time-out, ma anche con l'incantesimo ben piazzato di mister Timberlen, la scopa di Lily aveva un aspetto precario. «Per adesso regge, ma a fine partita dovrai sostituirla» le confessò il professore.
Lily era una furia. «Mi ha spaccato la Nimbus. Mi ha spaccato la Nimbus» ripeteva ossessiva. Ora nemmeno più le mollettine floreali nei capelli biondi riuscivano ad addolcire la sua ira furibonda.
La partita riprese più concitata di prima. Lily era un mastino, Fletcher un fuoriclasse nato. Shona May era scoppiata a piangere, mentre il ritornello “I Cacciatori dei Raloi sono i più forti, son tutti noi!” continuava ad echeggiare nel campo. L'intera squadra dei Nagard sembrava essere andata in panico di fronte alla furia dei Cacciatori Raloi. Mairead non aveva mai giocato con così tanta velocità, precisione ed energia. Nel giro di altri dieci minuti, avevano fatto altri sei goal. Poi Brandebelli, l'unico che sembrava in grado di reggere la tensione, riuscì a recuperare centrando un anello, ma il punteggio era ormai di centosessanta a trenta. Perfino la Cumhacht aveva finito la scorta di battutine sarcastiche.
Era, a sua volta gasata dal successo della sua squadra, lanciava Bolidi come una furia. Riuscì a distogliere Bearach dall'afferrare il Boccino una seconda volta, guadagnandosi l'ammirazione dei tifosi. Ma nessuno fu osannato quanto Fletcher. Al quarto goal di fila, tutto lo stadio, ad esclusione dei Nagard, ripeteva incessante un solo nome: Fletcher Moon, Fletcher Moon.
Il ragazzino era rosso come un pomodoro per l'imbarazzo, ma quelle acclamazioni sembrarono anche dargli la carica. Con un Reverse Pass davvero spettacolare, permise a Mairead di recuperare la Pluffa e segnare l'ennesimo goal. Duecentodieci a trenta.
«I Cercatori hanno avvistato il Boccino!» annunciò la Cumhacht proprio in quel momento.
Mairead, e con lei tutto lo stadio, si voltò verso i due giocatori. Incredibile ma vero, Laisar era in testa. Se davvero fosse riuscita a prendere il Boccino, avrebbero vinto la partita e il campionato. Ma se invece Bearach l'avesse raggiunta e superata, i Raloi avrebbero sì vinto l'incontro ma con un margine troppo basso per aggiudicarsi anche la coppa. Fu in quel momento che Mairead capì su chi avrebbe dovuto scommettere.
«Era!» gridò, facendo segno verso la Boldwin, che aveva la Pluffa. La sua Battitrice capì al volo e spedì con precisione il Bolide contro l'avversaria, che fu costretta a lasciar cadere la palla. Mairead, che era in posizione strategica, la recuperò al volo e saettò verso i pali, seguita da Fletcher.
«Maleficium ha raggiunto la Secula! Che gran giocatore!» commentò proprio in quel momento la Cuhamcht.
Mairead sorrise, capendo di aver fatto la scelta giusta. Se avesse ordinato a Era di scagliare il Bolide contro Bearach, non era sicura che Laisar sarebbe riuscita a prendere il Boccino. Mentre con la Pluffa libera per un ultimo tiro...
Il Battitore dei Nagard, convinto che volesse tentare un ultimo disperato goal, le spedì contro un Bolide, ma Mairead non stava puntando agli anelli. Si voltò appena in tempo per lanciare la Pluffa a Fletcher, il quale saettò con tale naturalezza e velocità che sembrava ci fosse nato su quella scopa. Con un ultimo tiro preciso centrò l'anello più in alto.
Eccolo il suo fuoriclasse, il giocatore su cui valeva la pena scommettere.
Proprio in quel momento, lo stadio proruppe in un boato, con Bearach che rimontava trionfante dalla sua picchiata stringendo in mano il Boccino d'Oro.
«Maleficium conquista il Boccino» annunciò secca la Cumhacht. «Ma i Raloi vincono la partita per 220 a 180.»
Nella confusione di festa che seguì, accaddero numerose cose. Il professor Ballerinus si riappropriò della telecronaca, mettendo a tacere la Preside e annunciando trionfante che i Raloi avevano anche vinto la Coppa del Quidditch. Cosimo Brandebelli fece una lavata di capo coi fiocchi a Bearach, che aveva sì conquistato il Boccino ma aveva fatto perdere alla squadra sia la partita sia il campionato. Mairead colse frammenti di frasi come “ma non ti hanno insegnato a contare a villa Maleficium?” o “pensavi di farti bello con la Sharpaty grazie al Boccino?” e “il successo della squadra viene prima del tuo successo personale!”.
Mentre veniva portata in campo la Coppa, Era scagliò un Bolide con una precisione micidiale dritto in pancia alla Cumhacht. Nessuno dei professori disse di aver visto chi l'aveva lanciato, per quanto Mairead ne notò successivamente almeno due o tre, tra i quali Ballerinus e Saiminiu, che stringevano la mano a Era e si complimentavano per il suo tiro.
Ma tra tutte quelle cose, tra l'alzare la Coppa, festeggiare con la squadra, abbracciare e baciare Fletcher fino a fargli desiderare di scomparire, l'unica cosa davvero importante per Mairead, fu lo scambio di sguardi con Edmund che, lontano e in disparte da tutto quel caos, con un immancabile libro sottobraccio, accennò un sorriso e un inchino.

Edmund spalancò la porta dello spogliatoio senza un minimo di esitazione. Dopotutto, era uno stupido e impulsivo Raloi.
Lily lanciò uno strillo acuto e si affrettò a coprirsi con la gonna della divisa.
Era McKonnit, in mutande, reggiseno e stivali, lanciò l'asciugamano dritto in faccia all'intruso. «Ed! Razza di stupido bifolco!»
Edmund realizzò quello che aveva fatto non appena notò la mise delle giocatrici. «Scusate, scusate!» bofonchiò imbarazzato, coprendosi la visuale con la mano e la salvietta che gli era stata lanciata. Sentì una vampata di calore su tutto il volto e immaginò di essere diventato tutt'uno con l'asciugamano rosso di Era. «Cercavo...» cominciò a dire, ma le parole gli si bloccarono in gola quando la sua amica uscì dalle docce e se la ritrovò davanti, stupita. Realizzò che indossava solo una salvietta stretta sopra il seno e lo sguardo gli cadde sulle gocce di acqua che le colavano dai capelli sul collo e sulle spalle. Deglutì.
«Cercavo Mairead» riuscì a sussurrare. «Ti devo parlare.»
Lei sorrise bonaria, forse perché la sua faccia, al momento, doveva essere di un piacevole color pomodoro. Poi allungò una mano e gli tolse con delicatezza l'asciugamano di Era dalla tesa.
Da qualche parte dentro la testa di Edmund si formò l'immagine di lui che sbatteva Mairead contro il muro per baciarla.
«Forse è meglio se parliamo dopo» suggerì Mairead.
L'immagine sparì con un “pop” da cartone animato.
Edmund annuì. «Si parliamo dopo. Ehm... ti aspetto fuori.» E in uno stato di semi-tranche uscì dallo spogliatoio.
Non dovette attendere a lungo, per fortuna; anche perché Laughlin l'aveva raggiunto e aveva cominciato a ridere come uno scemo per la sua trovata geniale di catapultarsi nello spogliatoio femminile. «Grazie, non sei d'aiuto» commentò gelido Edmund, nel vano tentativo di riprendersi dallo shock.
«Eccomi» si annunciò Mairead, con la divisa indosso e i capelli ancora bagnati raccolti in una treccia. «Che succede di così urgente?» domandò, lanciando un'occhiata perplessa a Laughlin, piegato in due dal troppo ridere.
«Ho scoperto dove sono andati» esclamò Edmund, concentrandosi nuovamente sulla notizia tanto impellente.
«Chi?» si informò Laughlin, mentre si asciugava con un gesto della mano le lacrime causate dalla risata di prima.
Edmund tirò fuori dalla borsa il libro del seminario che padre Rafael aveva preso in prestito per lui. «Rory O'Donnell e Hugh O'Neill» rispose.
Laughlin lo guardò stranito. «Chi?» ripeté.
«I Conti in fuga» spiegò paziente Edmund. «Coloro che secondo i miei calcoli – e secondo quelli di McFarren – sono stati gli ultimi possessori della Mela d'Oro.»
Mairead prese a giochicchiare con il fermaglio della sua treccia. «Edmund, sei sicuro che questa cosa esista davvero?» sussurrò impacciata.
Edmund parve esser colto di sorpresa. «Io... be'...»
«È solo che non voglio che tu resti deluso.» Mairead lo guardò intensamente con l'aria dispiaciuta.
Edmund sospirò. «Lo so, capisco» ammise. «Ma se c'è anche solo la più vaga possibilità che questa leggenda della Mela d'Oro sia vera, io devo trovarla.»
Mairead lanciò uno sguardo a Laughlin, poi annuì ma sembrava ancora vivamente preoccupata.
Edmund fissò i suoi amici dritto negli occhi, prima uno, poi l'altro. «Per questo ho bisogno che mi copriate» annunciò serio. «Io ci devo andare.»
«Dove?» intervenne Laughlin, con un'espressione grave in volto che non era la sua.
Edmund abbassò la voce. «Roma.»
Laughlin fece saettare veloce gli occhi verso Mairead, ma non ebbe bisogno della sua conferma. «Veniamo con te.»
«No, Laugh, non questa volta.» Edmund scosse la tesa: gli avrebbe certamente fatto piacere avere al suo fianco Mairead e Laughlin, ma aveva promesso a Captatio che non avrebbe più coinvolto i suoi amici nelle sue avventure fuori da scuola. Era davvero pericoloso e non avrebbe mai messo a rischio la vita delle due persone più importanti per lui.
Laughlin scoppiò a ridere, tornando alla vivace espressione di buonumore che sempre lo caratterizzava. «Come se davvero potessi impedircelo, Ed.»










Eccoci, cari amici!
Ci stiamo avvicinando alla fine della storia e alla risoluzione del mistero. Ma ho ancora in serbo qualche cosa per voi... ;)
Comunque, questa era l'ultima partita del campionato, nonché l'ultima partita di Mairead. Insomma, volevo far qualcosa di spettacolare e spero di esserci riuscita.
QUI la solita immagine del capitolo: i Cacciatori dei Raloi.

Ci rivediamo venerdì 2 ottobre con una gitarella in Italia. A Roma!
A presto,
Beatrix

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Capitolo 20
*** L'ultimo erede ***


CAPITOLO 20
L'ultimo erede






Non ne sapeva bene il motivo, ma Edmund era stranamente agitato. Cercò di calmarsi, ripetendosi come un mantra che, in fin dei conti, non era certo la prima volta che uscivano di nascosto dal Trinity. Forse era agitato per il fatto che stava disobbedendo ad un ordine diretto di Captatio, permettendo a Mairead e Laughlin di seguirlo, oppure perché stava per scoprire se l'oggetto in cui aveva riposto tutta la sua speranza esisteva davvero o erano solo frottole di McFarren.
Mairead probabilmente percepì la sua preoccupazione, perché gli rivolse un sorriso incoraggiante. «Andrà tutto bene, vedrai» lo rincuorò.
«Non vi serviranno i mantelli al Gaianum» commentò una voce alle loro spalle.
Edmund si voltò di scatto, lanciando un'occhiataccia a Laughlin. «Perché hai chiamato anche Dominique?» sibilò nella sua direzione, furente.
Laughlin non si fece intimorire. «Avanti, Dom conosce Roma come le sue tasche» spiegò. «Abbiamo bisogno di una guida.»
«Non ti preoccupare, Edmund, so essere discreto» lo incoraggiò Dominique, che aveva afferrato di essere al centro della disputa tra i due amici.
Edmund scosse la testa. «Non è per quello» lo rassicurò. «È che potrebbe essere pericoloso e poi ho promesso a Captatio che non vi avrei coinvolti di nuovo.»
Laughlin sfoderò il suo miglior sorriso. «Ma Dom l'ho coinvolto io, quindi non c'è problema!» esclamò, prendendo l'amico Nagard per le spalle.
Edmund scosse la testa. «Sei sempre il solito, Laugh» borbottò, ma alla fine si ritrovò a pensare che la presenza di Dominique poteva rivelarsi molto preziosa. Dopotutto, era un tranquillo sabato pomeriggio di primavera, che cosa poteva accadere loro di terribile?
Con un sospiro e un cenno del capo, Edmund acconsentì che partissero tutti. Si recarono così al passaggio segreto sotto il ponte, per uscire dal territorio del Trinity e raggiungere i boschi vicino a Doolin. Dal momento che Dominique insisteva nel dire che a Roma avrebbero trovato piuttosto caldo, essendo ormai maggio, Mairead, Edmund e Laughlin lasciarono i loro mantelli al sicuro dentro il tunnel segreto che conduceva fuori dalla scuola. Una volta sbucati di nuovo all'aria aperta, si prepararono per la materializzazione: dal momento che anche Laughlin e Mairead avevano superato l'esame di idoneità, solo Dominique aveva bisogno di una materializzazione congiunta.
«Non vi preoccupate per dove arrivare» disse loro Dominique. «Tanto su tutta Roma è attivo un complesso sistema magico che canalizza tutte le materializzazioni in punti strategici della città. È per convogliare l'afflusso di gente.»
«Cioè mi stai dicendo che a Roma non ti puoi materializzare dove ti pare?» domandò Laughlin, alzando un solo sopracciglio.
Dominique si strinse nelle spalle. «Non hai idea di quanti maghi ci vanno ogni giorno. Sarebbe un caos.»
Laughlin scosse la testa. «Come dici tu» fu costretto ad ammettere.
«Dunque ci si vede là?» domandò Mairead.
Dominique annuì, avvicinandosi a Edmund per la materializzazione. Ad un cenno del ragazzo, prima Laughlin, poi Mairead rotearono su se stessi e scomparvero. Edmund allora strinse il braccio di Dominique e si smaterializzò a sua volta.
Giunsero in un grande stanzone affrescato, dal sapore squisitamente italiano; era stato suddiviso, attraverso dei paravento, in dieci aree, ognuna delle quali riportava un cartello con l'indicazione della nazione di provenienza. Nell'area irlandese si trovavano solo loro quattro.
«Ottimo, muoviamoci» asserì Dominique, sfregandosi le mani.
C'era davvero una piacevole temperatura a Roma; anzi, faceva quasi caldo per le loro abitudini. Si lasciarono guidare da Dominique attraverso le strade della città affollata e rumorosa, osservando con gusto le strane abitudini dei Babbani italiani.
Un tizio in motorino per poco non investì Laughlin. «A te levi dalla strada, a li mortacci tui?» La sua imprecazione si perse nel vento, il romanaccio spericolato già lontano e il rumore dei clacson a coprire le parole.
«Benedetto San Patrizio!» borbottò Laughlin, indeciso se rischiare la morte per strada o affrontare la folla di pedoni, turisti, venditori ambulanti e gente a caso sul marciapiede. «Quanto manca ancora?»
«Ci siamo quasi» l'incoraggiò Dominique con un sorriso. Fu di parola, per fortuna: dopo pochi minuti, raggiunsero la porticina di un edificio piuttosto squallido. «È per scoraggiare i Babbani» spiegò Dominique. In effetti, l'interno era un bel salone abbastanza nuovo, simile ad una stazione ferroviaria ma senza binari: c'erano negozietti di souvenir (alcuni dei quali davvero raccapriccianti, come la statuetta del legionario romano che cantava a squarcia gola un motivetto composto da sole tre parole: “I love Italy”), un piccolo bar e un bancone informazioni. Il tizio dietro il bancone aveva l'aria davvero scocciata.
«Turisti di là» borbottò in un inglese dalla pronuncia inudibile, quando li vide avvicinarsi.
Dominique si fece avanti con un sorriso a trentadue denti e domandò qualcosa all'uomo in un italiano impeccabile. Lui brontolò un poco, ma alla fine annuì e fece cenno col capo di andare dall'altra parte. Dominique parve molto soddisfatto. «Venite» sussurrò ai suoi amici. «Facciamo la strada vecchia.»
«La strada vecchia?» gli fece eco Laughlin.
Dominique sfoderò un'espressione complice. «È l'antica via di accesso al Gaianum. Da qualche tempo è stata chiusa ai turisti, per i quali c'è una nuovissima entrata iper-veloce. Ma l'altra... be', l'altra ha molto più fascino.»
Edmund lanciò un'occhiata dubbiosa al tipo all'ingresso. «Come hai fatto a convincerlo?» domandò, mentre si avviavano tutti e quattro verso un corridoio buio.
Dominique si strinse nelle spalle. «Gli Italiani, quando sentono parlar la loro lingua da uno straniero, sono talmente estasiati che son disposti a concedergli tutto» rispose senza scomporsi troppo. Nel frattempo, li condusse attraverso un corridoio a botte simile a quello di una antica segreta; man mano avanzavano, le torce sui muri si accendevano magicamente. Infine, giunsero davanti ad una porta dall'aria consunta, attraverso la quale trapelava uno spiacevole odore di umido, come in una vecchia cantina ammuffita.
«Sei sicuro sia la strada più affascinante?» domandò Laughlin, storcendo il naso.
«Adesso vedrete» sussurrò Dominique, toccando la porta con la bacchetta magica, in modo da poterla aprire delicatamente verso di loro. Non appena riuscirono a spiare dentro, capirono cosa avesse voluto dire Dominique. Davanti ai loro occhi si profilò lo spettacolo più meraviglioso che avessero mai visto: un immenso salone attraversato da quattro ordini di alte colonne, avvolto nell'oscurità se non per delle fiammelle dall'intenso color arancione che si innalzavano verso il soffitto a partire dal basamento di ciascun pilastro. Ma la cosa più straordinaria era il mezzo metro di acqua che invadeva tutto il salone, creando un meraviglioso gioco di specchi, come se il soffitto si trovasse anche sul fondo e le luci venissero risucchiate verso il basso. A destra e a sinistra dei quattro ordini di colonne si trovavano dei camminamenti con delle balaustre, sentieri sospesi sull'acqua che conducevano ad un portone dall'altra parte della sala.
«Questa è l'antica via d'accesso al Gaianum» sussurrò Dominique, come se non volesse rompere l'incanto di quel luogo. «È una cisterna di epoca romana, che venne scelta dai Patrizi come miglior protezione per il loro quartiere magico: tramite un sistema di chiuse, il salone può venir completamente allagato.»
«È stupendo» mormorò Mairead, incantata.
«È geniale» aggiunse Edmund, ammirato.
Dominique sorrise. «Andiamo» li incitò e si incamminò verso la passerella sul lato destro. Percorsero il loro cammino come immersi in un sogno, attraverso le navate di quella spettacolare sala ambrata. Quando giunsero al portone sul fondo, Dominique lo toccò con la bacchetta e anche quello di aprì silenzioso su una scalinata che saliva verso l'alto. Arrivati in cima, sbucarono finalmente su una via laterale del quartiere magico di Roma. Il viavai di gente era impressionante: maghi e streghe dai vestiti bizzarri, alti prelati della curia, folletti, ogni sorta di creatura magica e tanti, tantissimi turisti.
Edmund notò due uomini con uno strano telo bianco drappeggiato tutto intorno al corpo; sotto si intravedevano abiti da mago. «Cosa indossano quelli lì?»
domandò a Dominique.
«Sono toghe romane» spiegò il ragazzo. «I maghi del Gaianum le indossano in tutte le cerimonie ufficiali o liturgiche, sopra i vestiti; e spesso anche in giorni normali.»
«Deve essere scomodissima» commentò Laughlin.
Dominique si strinse nelle spalle. «Immagino di sì. Ma è un segno di distinzione e qui al Gaianum ci tengono tutti a ricordarsi le proprie origini.»
Edmund non aveva mai visto molti altri posti oltre all'Irlanda, ma riteneva che il Gaianum fosse un luogo davvero unico: quelle che sembravano ville e porticati romani si mescolavano a torri dall'aspetto medievale, palazzi barocchi o ottocenteschi. La piazza più straordinaria era quella dove sorgeva la cattedrale, un antico tempio pagano dalla pianta circolare con un colonnato di marmo sul fronte; a sinistra si erigeva un palazzo medievale con una torre merlata, da cui pendeva lo stendardo del Patriarca: quelli erano i suo alloggi personali. Proprio di fonte, invece, un edificio barocco dallo sgargiante color arancione faceva da sede alla curia patriarcale. L'insieme era qualcosa di eccentrico eppur eccezionale.
«E ora?» domandò Laughlin, osservando perplesso la natura bizzarra della piazza.
Edmund si guardò in giro: non aveva mai un piano ben congegnato in mente. «Dovremmo trovare il modo di entrare nella biblioteca della curia» buttò lì, come se fosse una cosa semplice.
Laughlin lo guardò con un misto di commiserazione e pazienza. «Perché non proviamo anche a portar via le uova da sotto il naso ad un drago?»
«Che c'entra il drago, adesso?» sbuffò Edmund.
L'amico alzò gli occhi al cielo. «È un modo di dire, Ed. Solo un modo di dire.»
Dominique invece si fece avanti con aria seria. «Forse potremmo provare a chiedere al cardinal Saiminiu» propose a mezza voce.
Edmund si illuminò. «Ma certo! Lui potrebbe aiutarci!» In fondo, il cardinal Saiminiu era Irlandese di nascita e se assomigliava anche vagamente al suo nipote professore, certo avrebbe trovato apprezzabile l'idea di aiutare giovani studenti assetati di conoscenza.
Dominique, con un sorriso smagliante, tirò la manica della giacca di Edmund e gli indicò la porta della curia. «La fortuna ci assiste» commentò, indicando un cardinale corpulento che usciva dal palazzo proprio in quell'istante. Era accompagnato da qualche pretino zelante e da un paio di maghi dall'aria importante.
Edmund, che come suo solito agiva prima di pensare, gli si fece incontro con aria baldanzosa. «Cardinal Saiminiu, permette?» domandò non appena fu a portata di voce.
L'uomo si fermò con aria distratta, facendo segno al suo seguito di imitarlo. «Sono un po' di fretta, giovanotto.» Aveva una voce profonda e roca, educata ma insieme molto ferma.
Stranamente Edmund ne fu un po' intimorito. «Solo una parola» riuscì a mormorare, con un mezzo sorriso.
«Il tempo è prezioso e le parole vanno misurate con calma» rispose il cardinale, tormentando la catena della croce d'oro che aveva appesa al collo. «Scrivi un gufo al mio ufficio e sarò lieto di riceverti in appuntamento. Altrimenti, tutti i sabato mattina sono disponibile per le confessioni nella cattedrale di Dubh Cliathan.» E con un sorriso e un cenno di saluto si allontanò insieme al suo entourage.
Laughlin lanciò un'occhiata di sottecchi all'amico, che era rimasto lì imbambolato in mezzo alla piazza. «Che fine ha fatto l'Edmund-fascino?» gli domandò allibito. Di solito Ed sapeva sempre come ottenere ciò che voleva dalle persone.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Non lo so» fu costretto a rispondere. «Non sembra un tipo che si lascia incantare facilmente.»
«A volte, preso com'è dai suoi mille impegni, si dimentica qual è il compito principale di noi pastori: pascolare il gregge di Dio» aggiunse un'altra voce calda alle loro spalle. I ragazzi si voltarono: apparteneva ad un cardinale dal viso tondo e l'aria gentile.
«Cardinal Ravase» esclamò Dominique con deferenza e ammirazione.
L'uomo sorrise bonario. «In persona. Di che cosa avevate bisogno, ragazzi?» Il suo inglese non aveva alcuna inflessione particolare, come se lo parlasse da sempre.
Edmund ritrovò un po' di animo. «Mi chiamo Edmund Burke, signore, e sono... sono alla ricerca di informazioni» spiegò.
«Che genere di informazioni?» chiese gentilmente Ravase.
«A proposito della fuga dei conti Rory O'Donnell e Hugh O'Neill, un episodio avvenuto nel...»
«1608» completò il cardinale con sicurezza. Una strana ombra era comparsa sul suo viso al sentir nominare i due Conti, ma subito era scomparsa per lasciar posto al solito sorriso bonario. Tirò fuori di tasca un'agendina su cui erano segnati più impegni di quanti umanamente potesse sostenere una sola persona in una settimana ed esclamò: «Ho giusto un'oretta libera. Perché non venite con me in studio?»
Edmund lanciò un'occhiata agli amici, lievemente preoccupato, ma alla fine ignorò lo sguardo allarmato di Laughlin e decise di seguire il suo istinto, che lo spingeva a fidarsi del cardinale. I ragazzi lo seguirono in silenzio lungo le vie del Gaianum, fino al portone di un palazzo grigio cupo.
«Questa storia puzza» sussurrò Laughlin all'orecchio di Edmund. Aveva uno sguardo eloquente e gli occhi guardinghi.
Anche Edmund provava una strana sensazione di disagio, ma decise di ignorarla: la curiosità e la speranza che il cardinale potesse avere delle risposte ebbero la meglio persino sul buon senso. Il ragazzo rifilò all'amico un sorriso di circostanza e seguì l'uomo dentro casa. Salirono per una rampa di gradini abbastanza consunti, fino ad un pianerottolo buio e un po' squallido. Ma quando il cardinal Ravase aprì la porta, si ritrovarono in un salottino di gusto barocco, con poltroncine di tappezzeria verde e un'arpa in un angolo. C'era qualcosa di inspiegabilmente irlandese in quella stanza.
«Prego, accomodatevi» il invitò il cardinale, con un sorriso. Poi agitò la bacchetta e comparvero delle tazze e una teiera di porcellana raffinata. «È giusto l'ora del tè, quindi se gradite...»
Nessuno se ne servì. I ragazzi presero posto sulle poltroncine, leggermente a disagio; Laughlin si posizionò nell'angolo, vicino all'arpa, e squadrò tutto con occhio critico, come se si aspettasse chissà quale trappola.
Il cardinal Ravase non si accorse, o più probabilmente decise gentilmente di ignorare la diffidenza nei suoi confronti: si sedette di fronte a Edmund, si servì del tè e chiese al ragazzo di raccontargli quello che sapeva sui due Conti irlandesi.
Edmund non sapeva indicare il motivo, ma era certo di potersi fidare del cardinale. Gli spiegò le ipotesi a proposito di un fantomatico oggetto magico che rispuntava nelle varie epoche, un oggetto molto potente, forse in grado di donare l'immortalità. Gli narrò le tappe che McFarren aveva individuato e la simbologia della mela. Disse che le ultime tracce portavano in Irlanda, forse proprio nelle mani dei Conti O'Donnell e O'Neill, che erano fuggiti verso Roma in seguito a degli intrighi di corte tra le fila della nobiltà.
Il cardinale era restato in silenzio per tutto il racconto, senza mai distogliere lo sguardo serio e concentrato da Edmund. Al termine, pose la sua tazza di tè ormai vuota sul vassoio e guardò il ragazzo intensamente negli occhi. «Ho bisogno di parlarti da solo, Edmund.»
Calò il gelo nella stanza. Laughlin si mosse di poco sulla sedia, allungando la mano verso la tasca dove teneva la bacchetta. Mairead lasciò sguardi ansiosi prima al cardinale e poi a Edmund. Il ragazzo, invece, annuì e si alzò dalla poltroncina. «Va bene» disse semplicemente.
Nessuno lo fermò mentre il cardinal Ravase lo conduceva verso una porta che si trovava sul lato opposto rispetto a dove erano entrati. Ma prima che questa si fosse chiusa alle loro spalle, Laughlin esclamò: «Se hai bisogno di qualsiasi cosa, grida. Saremo lì in un baleno.»
Edmund e Ravase attraversarono un altro salottino, più piccolo, su cui si affacciavano tre porte; il cardinale imboccò l'ultima e si ritrovarono in una libreria adibita a studio personale, ricca di numerosissimi volumi adagiati su scaffali scuri dall'aria antica. Edmund si sentì immediatamente a casa.
«Prego, accomodati» lo invitò Ravase, indicandogli una sedia di fronte alla scrivania. «Grazie di esserti fidato» aggiunse con un sorriso, prendendo posto a sua volta. «Lo so che può sembrare sospetto, ma volevo solo parlarti a quattrocchi.»
Dal salottino proveniva la musica soffusa di un'arpa: Laughlin doveva essersi messo a suonare. Edmund accennò ad un sorriso.
«Perché sei sulle tracce di questo oggetto magico?» chiese senza mezzi termini il cardinale.
Edmund lo fissò per qualche secondo, cercando di cogliere nel suo volto qualche traccia di inganno o doppio fine. Non ne trovò; era solo serio e sinceramente interessato alla faccenda. O il cardinal Ravase era un gran bravo bugiardo, oppure era semplicemente onesto. Così Edmund decise di essere onesto a sua volta: «Mi è stata imposta una maledizione – confessò, – una maledizione molto potente. Speravo che questo oggetto potesse aiutarmi a spezzarla» si interruppe, rendendosi improvvisamente conto di quanto fosse così sciocco riporre le proprie speranze in quelle che non erano altre che mere ipotesi basate su leggende. Scosse la testa. «Forse è solo una follia.»
«Io non credo» concesse invece il cardinal Ravase, con un sorriso incoraggiante. «Le tue ipotesi mi sembrano molto valide; oltre ad essere un lavoro notevole per un ragazzo così giovane.»
Edmund era contento che il cardinale non lo prendesse per uno sciocco sognatore. «Non è tutta farina del mio sacco» confessò con più spirito, confortato dall'approvazione dell'interlocutore. «Ho usato le ricerche del professor Sigmund McFarren.»
«L'ultimo Gran Maestro degli Interventisti, vero?» domandò Ravase, ma con un tono che non sembrava necessitare di una conferma.
Edmund non si era aspettato che l'altro sapesse degli Interventisti e che addirittura fosse a conoscenza dell'identità del lor Gran Maestro. Ma, in fondo, era stato proprio padre Rafael il primo a parlargliene; improvvisamente capì il motivo per cui si era istintivamente fidato del cardinale: sembrava la versione più anziana (e in carne) del professor Majestis, colto, schietto, ma insieme gentile e premuroso. Sorrise. «Sì, lo conosceva?»
Ravase annuì. «Sospettavo di lui» ammise, incrociando le mani sulla scrivania. «Da tempo tenevo sott'occhio le sue ricerche, ma poi sparì nel nulla quasi venti anni fa. Immagino fosse invischiato in qualcosa di pericoloso.»
«Lo era, ma contro la sua volontà» confermò Edmund. «È morto l'anno scorso» aggiunse infine, con un sospiro.
«Peccato. Era una grande mente.» Il cardinale si perse ad osservare fuori dalla finestra alle spalle di Edmund, poi tornò a guardare il ragazzo con un sorriso incoraggiante. «Comunque sia, le tue – e le sue supposizioni – sono molto valide» gli confermò.
«Ma sono arrivato ad un punto morto» fu costretto ad ammettere Edmund. «Secondo il libro che mi ha prestato padre Rafael, uno dei due conti morì poco dopo essere giunto a Roma e dell'altro si sono perse le tracce. Se anche avevano con sé l'oggetto magico, in quattro secoli potrebbe essere finito ovunque.»
Il cardinal Ravase si alzò dalla scrivania e prese a passeggiare per il studio. «Rory O'Donnell non morì nell'aprile del 1608, ucciso da una maledizione di Lord Arthur Chichester» rivelò infine.
Edmund scosse la testa, incredulo. «Ma nel libro...» provò a dire.
Ravase alzò una mano e lo interruppe. «Così voleva far credere, ma era una morte apparente» spiegò, prendendo a gesticolare con una grazia che solo un Italiano poteva avere. «Infatti, aveva ingerito una capsula contenente un preziosissimo liquido ambrato di origine siriana, chiamato ioqad. Gli era stato donato da un mercante arabo di nome Abdul-Qaadir Ebn Assad, incontrato durante il viaggio verso Roma. Lo ioqad dona una morte apparente per quasi due giorni. Il tuo cuore si ferma, i tuoi organi si ghiacciano e tu risulti in tutto e per tutto morto. Dopo circa quarantotto ore ti risvegli nello stesso stato del momento in cui ti sei addormentato, per così dire. Gli incantesimi subiti in quel lasso di tempo risultano nulli. Era una tecnica usata dalla Setta degli Assassini Nizariti, quando rischiavano di venir catturati.»
«In questo modo O'Donnell riuscì ad ingannare Chichester, vero?» intervenne Edmund, estasiato dalla scoperta. Era straordinario che il cardinale conoscesse tutti i retroscena di quella vicenda: aveva proprio avuto un colpo di fortuna, quella volta.
«Esattamente» confermò Ravase, sempre in piedi a passeggiare per la stanza. «Chichester tornò in patria convinto di aver sconfitto il suo eterno rivale. In realtà, grazie all'appoggio del Patrizio Ottaviano Crescenzi e dello stesso Patriarca Benedictus III, O'Donnell e O'Neill rimasero nascosti nel Gaianum fino alla loro morte, avvenuta in modo naturale. Essi infatti avevano bisogno di un posto sicuro dove restare, perché recavano con loro un grande segreto.»
Edmund soppesò le parole del cardinale per qualche momento. Infine si azzardò a chiedere: «Come sa tutte queste cose?»
Ravase smise di passeggiare e si fermò a guardarlo dritto negli occhi. «Mia madre si chiamava Brid O'Donnell» rivelò. «Io sono l'ultimo discendente del conte Rory O'Donnell.»










Ebbene, eccoci giunti a Roma! E nel Gaianum!
Spero che vi sia piaciuto il giretto panoramico. Giusto per dare un 'idea... QUI e anche QUI due immagini di come appare l'ingresso al Gaianum (è la cisterna sotterranea di Istambul). QUI, invece l'aspetto della cattedrale e del palazzo del Patriarca (chiesa di santa Maria sopra Minerva, Assisi); QUI, infine, il palazzo della curia (palazzo Martinengo Palatini, Brescia).
E visto che siamo sempre in vena di immagini, QUI il volto del cardinal Ravase e QUI il suo salottino stile irlandese... che è in stile irlandese perché è stato arredato al tempo di Rory O'Donnell! ;)

Ci vediamo al prossimo capitolo, finalmente con le rivelazioni misteriose! A giovedì 22 ottobre!
A presto,
Beatrix

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Capitolo 21
*** Il segreto dei Conti ***


CAPITOLO 21
Il segreto dei Conti






Edmund rimase in silenzio, ad osservare il cardinal Ravase come se lo vedesse per la prima volta. Ora capiva il motivo per cui l'uomo conosceva tutta la storia in modo addirittura più dettagliato degli stessi libri sull'argomento. Ma ancora una domanda restava senza risposta. Forse la più importante di tutte. «Qual era il segreto dei Conti?» si azzardò a sussurrare Edmund.
Il cardinal Ravase rimase ad osservare pensieroso fuori dalla finestra, ma alla fine tornò a voltarsi verso il ragazzo. «Quella che tu chiami Mela d'Oro, in realtà è la Fons artis magicae» gli annunciò serio. «Ma, più che tante parole... seguimi.» Accennò ad un sorriso e si portò nuovamente dietro la scrivania. Estrasse la bacchetta da una piega della lunga veste nera, trafficò in qualche modo coi libri alle sue spalle, sussurrò delle parole in latino e infine si allontanò d'un passo dagli scaffali. Per una frazione di secondo non successe nulla, poi la parete di fronte a loro cominciò a muoversi e la libreria si aprì, rivelando una scalinata che scendeva nel buio. «Vieni, seguimi» disse il cardinale, inoltrandosi giù dalle scale alla luce della sua bacchetta.
Edmund esitò solo per una manciata di secondi, poi si affrettò a seguire l'uomo: se si era fidato fino a quel punto, tanto valeva andare fino in fondo. La discesa terminò abbastanza alla svelta (dovevano essere al massimo un paio di piani), rivelando un cunicolo stretto e umido. Ravase lo percorse fino in fondo, dove aprì una porta dall'aria consunta con una grossa chiave arrugginita. In realtà questa si aprì senza un solo cigolio su una stanzetta circolare, nella quale si accesero due grossi bracieri non appena vi misero piede. Al centro si trovava un basamento di pietra, sul quale era appoggiato uno scrigno che pareva completamente di metallo. Il cardinal Ravase armeggiò per qualche altro istante con una chiave che doveva avere qualcosa di magico, finché il piccolo cofanetto non si aprì.
Sul momento Edmund non vide nulla, poi individuò una specie di roccia scura, lucida, che sembrava pulsare come un cuore umano, ribollire come nero petrolio; si librava nell'aria a qualche centimetro dal fondo dello scrigno e... aveva un qualcosa di incredibilmente attrattivo. Edmund allungò la mano, voleva toccarla.
Il cofanetto si chiuse di scatto. Edmund si bloccò, di novo lucido, la mano ancora tesa verso la pietra.
Il cardinal Ravase gli sorrideva tranquillo, ma il gesto con cui aveva chiuso lo scrigno era stato netto e severo. «È meglio non toccarla» lo informò.
«Che cos'era?» sussurrò Edmund, come se non volesse rovinare la sacralità del luogo.
«È la fonte della magia» spiegò Ravase. «Ciò per cui esistono i maghi nel mondo.» Gli sorrise sereno, come se non stesse rivelando un segreto incredibilmente potente. «Meglio se torniamo nello studio.»
Ripercorsero il tragitto al contrario, fino a trovarsi nuovamente nella biblioteca. Edmund aveva la testa che vorticava per mille domande, idee e sensazioni che la vista di quella piccola pietra aveva suscitato.
«Prego, siediti» lo invitò il cardinale. «Vai a chiamare Graziano.»
«Come?» farfugliò Edmund, quando si accorse che Ravase stava parlando al ritratto di un uomo vestito alla maniera seicentesca. Il mago annuì e scomparve dalla sua cornice. Tornò il silenzio nella piccola biblioteca, finché Edmund non si decise a romperlo: «Come può quella... pietra essere la fonte della magia?»
Il cardinal Ravase si sedette alla scrivania di fronte a lui. «Ipotizziamo sia un meteorite» gli spiegò. «E pare che sia stato trovato in Africa, dai primi ominidi, che rimasero a contatto con la Fons tanto a lungo da subire una sorta di mutazione genetica. È quasi come se la Fons emanasse radiazioni: questi uomini primitivi divennero capaci di far entrare in reazione la propria Forza interiore con le Forze della Natura, attraverso dei catalizzatori. In sostanza, sapevano fare magie.»
Edmund ascoltava affascinato. Quella scoperta rivoluzionava l'idea stessa di magia.
«L'umanità, come forse sai, si sviluppò a partire da questi primi ominidi africani» continuò Ravase. «Le capacità magiche si sparsero per il mondo mano a mano che coloro che erano stati a contatto con la Fons si riproducevano. Ed essa rimase per molto tempo in Africa, dimenticata. Ma intorno al III millennio, alcune comunità magiche della zona della Mesopotamia cominciarono ad interessarsi all'origine della magia. Giravano voci, strane leggende antiche a proposito di un potente manufatto magico in grado di dare poteri straordinari a chi lo trovasse.»
«Gilgamesh» commentò Edmund, con un'illuminazione improvvisa.
Ravase annuì e sorrise. «Esattamente. È ovvio che si tratta di leggenda, ma evidentemente qualcuno, o forse un'intera comunità, riuscì a trovare la Fons in Africa e alimentò le diceria a proposito di un manufatto in grado di donare l'immortalità. Si decise allora di nascondere la Fons, per evitare che anche la gente non magica, i cosiddetti Babbani, potessero acquisire capacità magiche, di cui gli stregoni erano tanto gelosi. Ma le voci di un oggetto miracoloso, un frutto, che sapeva donare di volta in volta saggezza, vita o immortalità affascinò a tal punto i popoli vicini che esso ricompare in diverse saghe. Non ultimo, nel racconto della Genesi.» Il cardinale fece una pausa, osservò per un attimo alcuni libri sui suoi scaffali, poi tornò a guardare Edmund. «Ovviamente le nostre sono solo supposizioni, ma possiamo stabilire con ragionevole certezza, che la Fons traghettò dalla Mesopotamia alla Grecia intorno al XIII secolo a.C., forse proprio con la guerra di Troia. Essa infatti compare nella saga di Eracle, che deve rubare il frutto proibito dal giardino delle Esperidi. Non è molto chiaro come sia poi giunta presso i Normanni, ma sicuramente è sempre la Fons che sta alla base dei frutti miracolosi che donano immortalità, in possesso della dea Idunn. Con il secolo XI e la prima invasione normanna dell'Irlanda, la Fons approdò sull'isola smeralda; essa infatti appare nella sistemazione delle saghe mitologiche dei figli di Tuirenn, avvenuta proprio nel secolo XI: alle prove imposte dal dio Lug, si aggiunge la ricerca delle mele magiche. In qualche modo, poi, forse con le battaglie del secolo successivo, la Fons cadde nelle mani delle famiglie irlandesi degli O'Donnell e O'Neill.» Ravase si interruppe e gli fece l'occhiolino. «E da qui la storia la conosci.»
Edmund rimase a fissarsi le dita delle mani per parecchi minuti, rimuginando sul racconto che aveva appena ascoltato. Era qualcosa di straordinario, una scoperta che dava senso a tantissimi aspetti della magia... improvvisamente fu colpito da un'idea: i Nati Babbani non esistevano! In realtà, chiunque fosse in grado di fare magie doveva avere alle spalle, vicino o lontanissimo, un antenato mago. E una domanda fondamentale gli sorse spontanea. «Perché tenere segreta la Fons?» chiese accorato. «Potrebbe dare il via ad una serie di studi e ricerche importantissimi per il mondo magico. E poi dimostrerebbe l'assurdità delle pretese dei Purosangue, perché tutti discendiamo da quegli ominidi africani che restarono a contatto con la Fons!»
Il cardinal Ravase sorrise bonario. «I tuoi intenti sono nobili, Edmund, ma non pensi che, una volta rivelato al mondo il segreto della Fons, qualcuno potrebbe volerla utilizzare per scopi malvagi?»
Edmund pensò immediatamente a McPride, con quel suo sorriso da squalo, o allo stesso Voldemort.
«Purtroppo è per noi un campo ancora pieno di misteri» confessò il cardinale. «Non sappiamo quali effetti potrebbe avere se usata nel modo sbagliato. Già solo un'eccessiva esposizione potrebbe provocare seri danni alla capacità di far magie.»
Edmund annuì, rendendosi conto di essersi lasciato prendere dall'entusiasmo, senza considerare le conseguenze. Passò un'altra manciata di secondi, poi Edmund espresse ad alta voce un altro dubbio che lo assillava. «La Fons... non potrà spezzare la mia maledizione, vero?»
Questa volta il volto sempre bonario del cardinale fu attraversato da un velo di tristezza. «Temo di no, Edmund.»
Il ragazzo chiuse gli occhi un istante. Lo sapeva, lo sapeva fin dal principio che la speranza di trovare la Mela d'Oro sarebbe stata flebile, ma la cruda certezza che nulla potesse spezzare la sua maledizione gli riversò addosso un peso insopportabile. Se Voldemort l'avesse trovato, sarebbe stata la fine. Di ogni cosa.
«Perché mi ha rivelato il segreto della Fons?» chiese d'un tratto, colpito da un altro pensiero. Se non serviva a spezzare la sua maledizione, per quale motivo il cardinale gliela aveva mostrata?
Ravase accennò ad un sorriso divertito. «Come potrai immaginare, io non ho eredi» spiegò. «E nemmeno l'ultimo discendente di Hugh O'Neill, Graziano Bellarmini, ha figli. È un vecchio scapolo brontolone, ma un buon amico.» Il cardinale ridacchiò tra sé, poi guardò Edmund con intensità, nuovamente serio. «Prima che sia troppo tardi, io e Graziano dobbiamo scegliere un erede, o meglio, due, che custodiscano il segreto della Fons.»
Edmund finalmente realizzò: il cardinale voleva affidargli la protezione di quell'incredibile pietra magica. Gli stava offrendo di divenire il nuovo custode, un'opportunità incredibile e insieme di altissima responsabilità. «E perché proprio io?» sussurrò incredulo. Dopotutto, si conoscevano sì e no da un'ora.
«Non lo so.» Il cardinale si strinse nelle spalle. «Mi ha guidato fino a te una sensazione. Era da tempo che cercavo il candidato migliore a cui rivelare il segreto della Fons e sei comparso tu con le tue ricerche, irlandese come i miei antenati...» l'uomo lasciò la frase in sospeso, pensieroso. «Vedi, Edmund, io non credo che esista il caso» annunciò dopo un attimo. «C'è un preciso disegno che ha fatto incontrare me e te, oggi, tu con le tue domande e io con le risposte alle tue domande. Bisogna affidarsi alle mani della Provvidenza.» Poi il cardinale sfoderò un sorriso furbo ed eloquente. «Inoltre, credo che tu abbia qualche buon amico davvero fedele con cui condividere questa missione.»
Anche Edmund ridacchiò, pensando a Laughlin che faceva mamma chioccia nei suoi riguardi. Dai, tutta quella preoccupazione era davvero eccessiva: in fondo aveva dimostrato di sapersela cavare da solo in più di una situazione. Il suo amico stava sfiorando il ridicolo. Però, in fondo, quel suo atteggiamento protettivo gli faceva piacere: significava che era davvero preoccupato per lui e che avrebbe affrontato tutti i demoni dell'inferno per venirlo a salvare. Come, dopotutto, aveva dimostrato in più di una situazione.
«Allora, Edmund» lo incitò il cardinale. «Te la senti di accogliere questo compito?»
Il ragazzo prese un profondo respiro. «E se non me la sentissi?» chiese titubante, cercando di capire quale strada fosse meglio prendere.
Ravase alzò una spalla a mo' di scusa. «Dovrei cancellarti dalla memoria questo nostro incontro» rivelò. «Ma, visto che sei arrivato fin qui, è possibile che tu scopra da solo il segreto Fons, quindi dovrei eliminare dalla tua testa qualsiasi informazione al riguardo.»
Edmund annuì. «L'avevo immaginato» confessò, ben consapevole che informazioni del genere non sarebbero potute andare in giro come se nulla fosse. Ma ciò che lo preoccupava davvero non era tanto l'onere di tenere al sicuro la Fons una volta che fosse rimasto solo lui come custode, quanto la possibilità che Voldermort ne venisse a conoscenza attraverso di lui. Se non c'era modo di spezzare la sua maledizione, qualora il mago oscuro avesse messo le mani su di lui, avrebbe avuto accesso diretto a tutte le informazioni di cui aveva bisogno. E non voleva nemmeno sapere cosa sarebbe successo se Voldemort fosse venuto a conoscenza della Fons. La sua più grande protezione era data dal fatto che nessuno sapeva che esistesse: il segreto doveva rimanere tale.
«Un Voto infrangibile» esclamò d'un tratto. «Un Voto infrangibile che mi impedisca di rivelare in qualsiasi modo il segreto, volontariamente o involontariamente, pena la mia morte.»
Il cardinal Ravase si lasciò sfuggire un sorriso. «Sono contento che tu prenda seriamente il tuo compito» commentò divertito. «Graziano sta venendo qui: volevo proprio proporti di stringere un Voto infrangibile, che ti impedirà di rivelare il segreto della Fons fin tanto che non sarà giunto il momento di nominare un secondo custode.»
Edmund annuì serio. «È più che necessario. Per la sicurezza dell'intero mondo magico.»

«È più di un'ora che son lì dentro» protestò Laughlin, accennando col capo alla porta. Quella storia puzzava più della cacca di troll.
«Laugh, te l'ho già detto, il cardinale è un tipo a posto» lo tranquillizzò Dominique.
Laughlin si alzò in piedi. «Aver letto i suoi libri non significa conoscerlo davvero» lo ammonì, ben sapendo che Dominique era il tipo di persona che si nutriva di noiosi scritti teologici. «E poi potrebbe non essere lui... magari è un impostore che ha bevuto della Polisucco!»
Mairead scosse la testa con un mezzo sorriso. «Nessuno si aspettava il nostro arrivo a Roma, Laugh» intervenne. «Chi mai avrebbe potuto tenderci una trappola?» Anche lei era preoccupata per Edmund, ma Laughlin rasentava davvero il paranoico.
Il ragazzo alzò un dito in segno di ammonimento. «Questa cosa puzza, date retta a me.»
E come a sottolineare le sue parole, la porta d'ingresso si spalancò sul salotto. Comparve sull'uscio un uomo anziano, col volto scavato e i capelli bianchi, eppur molto alto per la sua età; indossava una toga bianca sopra le vesti da mago e teneva in mano un bastone da passeggio. Li scrutò uno ad uno con aria corrucciata e sorpresa, infine domandò loro qualcosa in italiano.
Dominique rispose nella stessa lingua, cercando di apparire tranquillo, ma la comparsa dell'uomo l'aveva turbato. Chi poteva essere per avere le chiavi di casa del cardinal Ravase?
Il mago brontolò qualcosa e si avviò a grandi passi verso la porta dietro la quale erano spariti Edmund e il cardinale.
Laughlin, che non aveva capito nulla di quello che si erano detti in italiano, pensò di parlare una lingua universale: si piazzò davanti alla porta ed estrasse la bacchetta. «Traducigli che di qui non si passa, se non l'avesse capito» disse a Dominique, ma senza smettere di fissare lo straniero.
Il mago sgranò gli occhi sorpreso ed esclamò qualcosa con veemenza.
«Dice che questa è casa sua» tradusse piano Dominique, incerto sul da farsi.
«Casa sua?» gli fece eco Laughlin, perplesso. «Ma qui non ci vive Ravase?»
«È anche casa mia, se non le dispiace» borbottò l'uomo anziano, in un inglese un po' incerto. «Ora vorrei parlare con Francesco.» E indicò col capo la porta alle spalle di Laughlin.
Il ragazzo si voltò perplesso, come se si aspettasse di veder comparire il Francesco in questione. E qualcuno effettivamente apparve, ma era Edmund, seguito da Ravase. Entrambi guardarono straniti prima lui poi il mago anziano.
«Graziano?» lo interpellò stupito il cardinal Ravase.
Quello scrollò le spalle e brontolò qualcosa in italiano che, anche senza saper la lingua, suonava molto come un “chi diavolo hai invitato a casa?”.
Laughlin abbassò la bacchetta, ma il suo volto accigliato mostrava ancora diffidenza.
«Non ti preoccupare, è tutto a posto» lo rassicurò Edmund, mettendogli una mano sulla spalla.
Laughlin lo osservò con occhio critico. «Non ti ha stregato?»
«No, non mi ha stregato.» Edmund sorrise incoraggiante. «Devo fare un'ultima cosa poi sarò da voi.»
Laughlin strinse la presa sulla bacchetta, ma rimase in silenzio. Edmund fece una maggior pressione sulla sua spalla, a mo' di ringraziamento. «Quando verrà il momento ti racconterò tutto» gli disse.
Laughlin lo guardò con intensità, per controllare che stesse bene. «Lo giuri?»
L'amico annuì. «Lo giuro.» E scomparve nuovamente oltre la porta insieme ai due maghi italiani.
Laughlin prese a passeggiare avanti e indietro lungo la stanza per far passare il tempo, la bacchetta sempre in mano e l'orecchio attento ai rumori che provenivano dall'altra sala.
«Laugh, mi snervi» protestò Mairead.
Il ragazzo si lasciò cadere su una poltrona, sconsolato. «Odio non sapere cosa stia succedendo» borbottò risentito. E avrebbe aggiunto altro, senonché in quel preciso momento una campana cominciò i suoi potenti rintocchi. Erano martellanti, sordi, e parevano voler far crollare tutte le case del Gaianum con la sola forza del suono. Trasmettevano un angoscioso sentimento della fine.
Laughlin scattò nuovamente in piedi. «Che diavolo è?»
Dominique scosse la testa, mentre Mairead si alzò per guardare fuori dalla finestra e capire cosa stesse accadendo.
«Sono campane a morto» annunciò il cardinal Ravase, comparendo sull'uscio. Era seguito da Edmund e dall'altro mago in toga.
«Chi è morto?» indagò Laughlin, sospettoso.
Il cardinale prese un profondo respiro. «Il Patriarca Iohannes VII.»
Scese il silenzio sulla stanza, come se tutti si rendessero conto di essere partecipi di una svolta epocale della storia: il vecchio Patriarca era morto e presto tutti i cardinali si sarebbero riuniti per eleggere il successore.
«È stato un piacere avervi conosciuti» disse Ravase, con un sorriso sincero. «Ma ora il mio dovere mi chiama.»
I ragazzi annuirono e capirono che presto il Gaianum sarebbe stato in fermento: era giunto il momento di tornare in Irlanda.










Carissimi,
scusate il ritardo, ho avuto dei contrattempi al lavoro.
Comunque, ecco svelato il segreto che i Conti hanno tenuto segreto per tanto tempo! Lo sapete che mi affascinano queste cose di studio della magia e visto che la Rowling non ha mai detto nulla al riguardo, mi sono sbizzarrita.
Ah, QUESTA è l'immagine di un meteorite che assomiglia a come mi immagino la Fons artis magicae.
Quanto al cardinal Ravase, sceglie di rivelare il segreto a Edmund perché ha una fede cieca nella provvidenza: è da anni che cerca il candidato migliore per succedegli ed ecco che ad un certo punto gli compare un giovanotto irlandese (come i suoi antenati!) che conosce un sacco di cose sulla Fons... ci deve essere per forza sotto un disegno divino! Oltretutto, credo che in anni di confessioni, sia un prete in grado di leggere nell'animo delle persone e ha visto che in Edmund non c'è malizia.

Detto questo, vi prometto un po' di azione nel prossimo capitolo... se non stiamo qui a farci menate filosofiche e basta! ;)
Ci vediamo domenica 29 novembre. A presto!
Beatrix B.

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Capitolo 22
*** Insospettabili eroi ***


CAPITOLO 22
Insospettabili eroi






Moira odiava il turno dopo cena, prima di tutto perché verso le undici tutti gli studenti si rintanavano nelle rispettive sale comuni e il castello restava vuoto, silenzioso e buio; in secondo luogo perché, da quando aveva scoperto i Mangiamorte in atrio, aveva sempre la brutta impressione che qualcosa d'altro di terribile sarebbe capitato mentre lei era in servizio. È il karma, il karma che mi perseguita da quel giorno in cui ho accusato un innocente. Aspettava sempre con ansia la mezzanotte, ora in cui sarebbe finito il suo turno e avrebbe potuto tornare tranquilla al suo dormitorio e buttarsi sul letto.
Quella sera di inizio maggio tutto procedeva serenamente: il forte acquazzone aveva scoraggiato anche gli studenti più temerari dall'avventurarsi nel parco dopo cena, mentre, con l'avvicinarsi degli esami, quelli degli ultimi due anni si rintanavano in biblioteca o nelle aule studio. Ormai, a pochi minuti dalla mezzanotte, non c'era già più nessuno in giro. Moira scese dai piani più alti del corpo centrale del castello e si avviò stancamente verso l'atrio per l'ultimo controllo. Poi, ad aspettarla ci sarebbe stato solo il suo letto. Dal momento che non c'era più nessuno che si aggirava per i corridoi, fece per tornare sui propri passi e raggiungere così la tanto desiderata sala comune dei Llapac. Ma qualcosa la interruppe.
Delle voci, delle voci sommesse provenienti dalla Sala Mor. No, non è possibile, si disse. Per una terribile manciata di secondi, durante i quali tese l'orecchio ma non udì nulla, fu tentata di lasciar perdere e ignorare il problema. Ma poi si disse che quello era l'ultimo turno di guardia e che dopo di lei nessun altro sarebbe venuto a controllare, quindi se c'era qualche studente idiota fuori dal dormitorio, avrebbe potuto combinare qualche guaio. Sbuffò e si avvicinò alla Sala con aria rassegnata.
Il portone era socchiuso. Un campanello d'allarme consigliò a Moira di muoversi con prudenza: si accostò silenziosa allo spiraglio e osservò la scena che si stava svolgendo all'interno. C'erano quattro figure in Sala Mor, una delle quali sembrava proprio la Preside Cumhacht; due invece indossavano la veste bianca e nera dell'EIF. La Cumhacht stava litigando con il quarto uomo, quello di spalle vestito di nero. «Perché sei venuto?» lo aggredì con un tono che voleva essere un sussurro ma conteneva a stento un grido. «Per farmi la morale?»
«Per impedirti di fare un'idiozia, sorella Daireen» rispose l'uomo, calcando con insistenza sull'appellativo sorella. Aveva una voce giovanile, squillante e limpida che Moira ricordava di aver già sentito, come se appartenesse ad un sogno passato.
La Cumhacht scrollò le spalle. «Non mi interessano i tuoi consigli, fratello Liutpridus.»
Il giovane uomo fece qualche passo verso di lei. «Non sono gli ordini di mio padre.»
La Preside sembrò quasi ringhiare. «Me ne infischio degli ordini di tuo padre» sibilò piena di rabbia. «Si è rammollito se pensa davvero di potermi impedire di uccidere quella lurida sasanachfuil.»
A quelle parole, il giovane scoppiò a ridere, una risata grassa e divertita, quasi allegra.
E Moira ricordò immediatamente dove aveva già sentito quella voce: dei tre Mangiamorte che si erano infiltrati nel castello, uno aveva quella stessa identica risata.
«Non sai contro chi ti stai mettendo, Daireen» la minacciò severo, senza tuttavia perdere quella sua strana nota di ilarità nel tono di voce.
Moira si avvicinò ancora di più per cercare di scorgere meglio chi fosse il giovane uomo di spalle. Si appoggiò al portone cauta, per tentare di aprire uno spiraglio più ampio, ma inavvertitamente toccò il chiavistello di metallo che era rimasto sollevato: bastò averlo sfiorato perché la forza di gravità facesse il resto. Il rintocco sordo del ferro sul legno, che durante il giorno sarebbe stato poco più che udibile, nel silenzio della notte divenne un rombo assordante.
Moria trattenne il fiato e indietreggiò di un passo, cercando di essere il più silenziosa possibile, ma il cuore cominciò a batterle talmente forte che era certa sarebbe bastato quello per farla scoprire. All'interno della Sala Mor, i due fuochi che gettavano la loro luce sulla scena si spensero d'improvviso e tutto divenne buio.
Moira fu investita da un'ondata di puro panico. Frugò in tasca alla ricerca della bacchetta, ma aveva le mani sudate e le scivolava via. Sembrava di essere piombata dentro un incubo; le gambe, paralizzate come fossero di marmo, le impedivano di fuggire. Riuscì a fare qualche passo indietro e poi... un raggio di luce uscito da una bacchetta la investì.
«Ancora tu?» fu il commento stupefatto. Era stato il giovane uomo a parlare, quello dalla risata ilare.
Moira recuperò un briciolo di coraggio. Esclamò: «Lumos» e a sua volta illuminò il volto dell'avversario, che ebbe la strana sensazione di aver già visto: era un giovanotto che poteva avere poco meno di trent'anni, con i capelli scuri che arrivavano fin sotto le orecchie e un paio di luminosi occhi verdi. Così simili a... improvvisamente Moira capì: tutti i tasselli andarono al loro posto e l'identità del giovane che aveva incastrato Captatio gli fu subito chiara. «Deamundi» sussurrò.
Quello rimase dapprima un po' spiazzato, perché evidentemente non si aspettava di essere riconosciuto; ma poi sfoderò un sorriso denso di fascino. «Adieu, madamoiselle» disse, la voce sottile come un sussurro di foglie al vento. Poi spense la luce sulla bacchetta e scomparve nel buio.
Moira rimase immobile in mezzo all'ingresso, spiazzata. La sua mente lavorava febbrile, forse anche a causa dell'adrenalina che la scuoteva: il giovanotto doveva per forza essere uno dei figli del conte Deamundi, un membro dell'EIF, che aveva incastrato Captatio insieme ai compagni per permettere alla Cumhacht di prendere il suo posto. Ma ora che piani aveva la Preside che il Conte non approvava? Perché il giovane Deamundi era intervenuto per fermarla?
Uccidere... voleva uccidere... Mairead!
Nel momento esatto in cui Moira lo realizzò, la luce di tre bacchette la investì in pieno. «O'Callaghan!» sbraitò la Preside, stupita e furente.
«Prendetela!»
Moira non seppe nemmeno da dove le venne la prontezza di riflessi. «Nox!» sussurrò, con voce tremante, scomparendo nel buio. E poi prese a correre.

Dedalus mise da parte il libro che stava leggendo e diede un occhio alla sveglia che teneva sul comodino: le lancette segnavano mezzanotte e un quarto. I suoi compagni di stanza stavano già tutti dormendo, ma il letto alla sua sinistra era vuoto. Dove poteva essersi cacciato Henry? Cercando di far meno rumore possibile, uscì dal dormitorio e attraversò il corridoio fino a raggiungere la sala comune. Lì, accoccolato su una delle poltroncine blu, russava beatamente Henry. Dedalus lo svegliò delicatamente, poggiandogli una mano sulla spalla e scuotendolo piano.
«Chi... cosa?» biascicò Henry, sbattendo le palpebre con aria assonnata.
«Non vieni a letto?» sussurro Dedalus, con uno sbadiglio.
Henry si strofinò gli occhi, realizzando di essersi appisolato sulla poltrona della sala comune. «Stavo aspettando Moira» spiegò. «Che ore sono?»
«È passata da un po' la mezzanotte» rispose Dedalus, con un'alzata di spalle.
Henry scattò improvvisamente in piedi, come se qualcosa l'avesse punto. Ora era sveglio e vigile. «Il suo turno è già finito da un pezzo» esclamò agitato. «Dove sarà finita?»
Dedalus sapeva di aver tanti difetti, ma era certo di avere un sesto senso per cogliere i guai: se Moira non era ancora rientrata, doveva essere successo qualcosa. «Arrivo!» esclamò, correndo veloce verso il dormitorio. Afferrò la bacchetta al volo, si infilò le pantofole a forma di coniglietto e tornò in sala comune. «Andiamo a cercarla.»
Henry aveva già tirato fuori la sua bacchetta; il suo volto era una maschera di preoccupazione. Annuì piano, lanciò solo un'occhiata di sfuggita al pigiama dell'amico, ma poi si avviò con decisione verso la porta della sala comune. Se Moira era davvero in pericolo, non c'era tempo di far mettere su a Dedalus qualcosa di decoroso.
I corridoi del castello erano bui e tranquilli. Le nuvole temporalesche se n'erano andate, lasciando spazio ad un cielo stellato che gettava la sua luce biancastra e tiepida su ogni cosa avvolta dall'oscurità. I due ragazzi si mossero rapidi e silenziosi, dirigendosi verso l'atrio: Henry infatti sapeva che quello sarebbe stato l'ultimo posto che Moira avrebbe controllato.
«O'Callaghan!» gridò la voce di una donna. Sembrava la Preside. Per un attimo Henry e Dedalus si fermarono, chiedendosi se la presenza della Cumhacht fosse un bene o un male, ma l'ordine che seguì fu il chiarimento di ogni dubbio. «Prendetela!» sbraitò la donna e Henry si buttò a capofitto giù dalle scale. Si schiantò in pieno contro qualcuno che stava correndo nella sua direzioe.
«Moira?» esclamò sorpreso, ritrovandosi fra le braccia la ragazza.
Degli incantesimi volarono sopra le loro teste, facendo rizzare loro i capelli.
«Protego!» gridò Dedalus alle loro spalle. Qualche maledizione si infranse contro il suo scudo.
«Giù!» ordinò allora Moira, prendendo Henry per mano e conducendo gli amici lungo la scalinata che portava ai sotterranei. I tre ragazzi corsero giù dalle scale, due gradini alla volta, con gli incantesimi che li inseguivano e li mancavano di poco. Si avventurarono nel dedalo di corridoi dei sotterranei, cercando di raggiungere l'altra scalinata che portava al cortile interno, nel cuore del castello. Ma ad un certo punto Dedalus esclamò: «Fermi!»
Henry abbracciò Moira per impedirle di fuggire ancora; sentiva il cuore batterle nel petto e il fiato corto per la corsa.
«Non possiamo continuare a scappare» disse loro Dedalus, piegato in due con le mani sulle ginocchia. «Ci raggiungeranno presto. Io dico: affrontiamoli.»
Lentamente, i tre amici si voltarono in mezzo al corridoio. «Lumos» sussurrò Dedalus, subito imitato dagli altri due.
Attesero, le mani sudate e i nervi a fior di pelle. E infine comparvero, due uomini ammantati di nero simili a corvi spaventosi e al centro la Cumhacht. Ghignava. «Cosa pensate di fare?» li apostrofò divertita.
Dedalus strinse la presa sulla bacchetta. «Non vi lasceremo distruggere la nostra scuola» replicò serio. Da qualche parte nella sua mente sapeva che tre ragazzini, per quanto all'ultimo anno, non sarebbero stati in grado di tener testa a tre adulti ben addestrati, ma non poteva permettere che dei folli mandassero in rovina il suo amato Trinity e l'Irlanda intera. Ora basta, era arrivato il momento di reagire. Costasse quel che costasse.
«Non vi lasceremo uccidere Mairead» aggiunse Moira, la voce tremante ma lo sguardo deciso. Anche la mano che reggeva la bacchetta tremava, ma la ragazza la puntò ugualmente contro gli avversari. Avrebbe voluto essere coraggiosa e forte come Edmund, Mairead e gli altri, invece sentiva le gambe come gelatina e ogni singola cellula del suo corpo le gridava con terrore di scappare. Eppure era certa che Dedalus avesse ragione: non potevano più fuggire, dovevano ribellarsi e fermare tutta quella malvagità. E, soprattutto, proteggere i loro amici.
La Cumhacht riservò loro uno sguardo sprezzante. «Vedremo» fu il suo unico mormorio. Poi sferrò l'attacco.
Moira reagì d'istinto e non seppe nemmeno lei come fosse riuscita ad avere i senti tanto pronti da parare l'incantesimo con un sortilegio scudo. Certo la Cumhacht non si aspettava che la maledizione si infrangesse sulla protezione lanciata dalla ragazza, ma non si lasciò affatto scoraggiare: era una donna abituata al duello. Attaccò e attaccò, ancora e ancora, rapida, precisa e letale. Moira cominciò ad indietreggiare, riuscendo a mala pena a parare o schivare. La testa era vuota, anzi invasa da puro terrore; probabilmente non sarebbe riuscita a contrattaccare nemmeno se ne avesse avuto l'occasione, perché non riusciva a farsi venire in mente neanche un incantesimo.
In fianco a lei, nemmeno i ragazzi stavano avendo grande fortuna. Dedalus era riuscito a scagliare qualche Schiantesimo contro l'avversario, ma anche lui si trovava in difficoltà: indietreggiava sotto i colpi micidiali dell'uomo incappucciato.
D'improvviso Henry fu colpito da un lampo rosso scagliato dal suo avversario e ruzzolò all'indietro privo di sensi.
«HENRY!» strillò Moira.
La Cumhacht rise.
«Pietrificus totalus!» le scagliò contro Moira, presa da una smania furibonda. La maledizione colpì la donna in pieno petto, che ebbe solo il tempo di sgranare gli occhi per la sorpresa, prima di ricadere sul pavimento rigida come un pezzo di legno.
Ma l'altro uomo reagì veloce. «Impedimenta!» gridò e Moira venne scaraventata all'indietro. Atterrò di schiena sul pavimento freddo e duro. Avrebbe voluto restare lì a terra con gli occhi serrati e la schiena dolente, nella speranza che quell'incubo svanisse, ma i sortilegi scudo gridati da Dedalus la costrinsero ad alzarsi.
L'uomo che l'aveva aggredita aveva liberato la Cumhacht dalla maledizione e ora tre bacchette erano puntate contro Dedalus. Lui era in posizione di attacco, pronto, ma non sarebbe riuscito a reggere più di qualche secondo. Moira racimolò le sue ultime forze e si alzò in piedi, tremante. Pronta all'ultimo scontro. Ma proprio in quel momento due figure vestite di nero, le bacchette levate, apparvero in fondo al corridoio. «Che diavolo state combinando qui?» esclamò la voce del professor Saiminiu. Era stupito e preoccupato, ma non sembrava aver colto la gravità della situazione.
La Cumhacht ne approfittò per coglierlo di sorpresa: rapidissima e silenziosa gli scagliò contro uno Schiantesimo, che lo buttò a terra privo di sensi. «Via!» gridò ai suoi compagni e tutti e tre corsero verso l'imboccatura del corridoio per darsi alla fuga.
«Cosa...?» borbottò padre Rafael, incredulo e spaesato. I suoi occhi guizzarono dalle tre figure che fuggivano a Saiminiu riverso a terra e in una frazione di secondo scelse il da farsi: si accucciò al fianco dell'amico e sussurrò: «Innerva
Saiminiu riprese i sensi, restando per un attimo frastornato. «Che cavolo...» provò a chiedere.
«La Cumhacht e due uomini dell'EIF» si limitò a dire Dedalus, serio.
Saiminiu fu subito vigile. Afferrò la bacchetta che nella caduta gli era scivolata di mano e balzò in piedi per l'inseguimento. Dedalus, arma in pugno e sguardo deciso, si unì a lui.
Anche padre Rafael stava per andare con loro, quando Moira lo fermò. «La prego, Henry...» fu l'unica cosa che riuscì a mormorare. Il suo ragazzo era ancora privo di sensi e aveva una brutta ferita sulla nuca, dove aveva battuto contro il pavimento nel cadere. Moira sentiva il suo sangue viscido inondarle le mani e sporcarle la veste su cui aveva poggiato delicatamente il capo di Henry. «La prego...» singhiozzò.
Padre Rafael si accucciò al suo fianco e sussurrò qualche incantesimo. Il sangue si fermò, apparvero delle bende con cui venne fasciata la ferita e infine Henry riprese i senti. Sbatté le palpebre un paio di volte e si guardò intorno. «Dove sono finiti?» domandò infine.
«Chi?» sussurrò Moira, mentre lacrime di sollievo le bagnavano le guance.
«La Cumhacht e gli altri» rispose Henry, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Padre Rafael gli controllò il polso, per assicurarsi che fosse tutto a posto. «Si sono dati alla fuga.»
Henry guardò prima il prete poi la sua ragazza: aveva un volto serio e determinato. «Inseguiamo quei bastardi» decretò.
Moira scoppiò a ridere per la felicità. Era l'ultima cosa che avrebbe voluto sentirsi dire, l'ultima cosa che avrebbe voluto fare, ma se Henry lo proponeva con tale decisione, voleva dire che stava bene. O forse che era ammattito del tutto. Gli prese il viso tra le mani e lo baciò. «Inseguiamo quei bastardi!» Si alzarono tutti e tre da terra, come in preda all'euforia, e corsero verso le scale dove erano scomparsi gli altri. Li raggiunsero in atrio, dove si stava svolgendo una vera e propria battaglia. Saiminiu, ai limiti dell'indemoniato, duellava con la Cumhacht e con uno dei due membri dell'EIF, rapido e micidiale come mai ci si sarebbe aspettati dal pacato professore di Latino e Irlandese. Anche Dedalus sembrava aver trovato dentro di sé chissà quale forza e riusciva a tener testa al suo avversario. Moira e Henry accorsero in aiuto dell'amico, mentre padre Rafael prese a duellare con l'altro uomo dell'EIF. Incantesimi che volavano da ogni parte, che si infrangevano contro gli scudi o colpivano i grossi blocchi di pietra con cui era costruito il castello, ma nulla poteva fermarli. In poco tempo gli avversari furono sopraffatti. Henry e Moira scagliarono nel medesimo momento uno Schiantesimo contro il mago dell'EIF che, impegnato a parare l'incantesimo d'ostacolo di Dedalus, non riuscì a scansarsi in tempo: fu colpito in pieno da due raggi rossi e venne sbalzato indietro fin contro il grande portone d'ingresso.
«Bel colpo!» esclamò Dedalus, esaltato.
Moira sorrise ma non perse tempo. «Pietrificus totalus!» gridò verso l'avversario di padre Rafael. La maledizione lo mancò per un soffio, ma riuscì a distrarlo giusto quella manciata di secondi che padre Rafael poté sfruttare a suo vantaggio. E il secondo uomo già giaceva a terra privo di sensi.
La Cumhacht venne accerchiata.
Moira, Dedalus e Henry si scambiarono un'occhiata veloce. «Expelliarmus!» gridarono in contemporanea, con tale foga che non solo la bacchetta della Cumhacht volò in aria, ma lei stessa fece un volo all'indietro di qualche metro. Atterrò carponi ai piedi del professor Saiminiu.
Lui le puntava contro la bacchetta, con uno sguardo di disprezzo tanto profondo da incutere terrore. «Mai vendetta è stata più dolce» mormorò compiaciuto.
«Il tuo regno di terrore è finito» aggiunse Dedalus, infinitamente soddisfatto.
La Cumhacht alzò lentamente il capo e riservò loro uno sguardo di puro odio. «Ciò che vi aspetta là fuori sarà mille volte peggio» sputò loro addosso, con crudeltà.
«Per intanto abbiamo salvato il Trinity» replicò Dedalus, sorridendo ai suoi amici.
Padre Rafael accennò un inchino col capo. «Per questa sera, siete voi i nostri eroi.»
Henry prese per le spalle la sua ragazza e si lasciò sfuggire un'espressione dubbiosa. «Insospettabili eroi.»
Dedalus sorrise allegro, come se avessero appena vinto una partita di scacchi. «Sì, ma eroi.»










Cari lettori,
era un secolo che volevo arrivare a questo punto della storia. Il punto in cui finalmente anche i LLAPAC hanno il loro momento di gloria! Il nostro silver trio, se mi permettete l'espressione, si è trasformato in un trio di eroi! =D

Qualche precisazione sulla prima parte: Liutpridus Deamundi (QUI un'immagine dei quattro fratelli maschi Deamundi, dove Liutpridus è rappresentato per secondo) ha scoperto i piani della Cumhacht ed è intervenuto per tentare di fermarla e impedirle di fare una stupidata; ma ovviamente non vuole essere coinvolto nella cosa, quindi se la dà a gambe appena viene riconosciuto. Moira lo riconosce perché i quattro fratelli sono molto simili e lei ha avuto sott'occhio il più piccolo, Eibhean, per 4 anni; poi è stato facile fare i conti, visto che erano stati nominati "gli ordini di mio padre", ovvero quelli del caro Conte Deamundi (l'unico che può dare ordini nell'EIF!).
Quanto a Saiminiu e padre Rafael, qui due stavano facendo le ore piccole nello studio di quest'ultimo (ricordo che cripta, aula e studio di p. Rafael sono nei sotteranei), tra chiacchiere e un buon bicchierino di whisky, quando hanno sentito un po' di casino e hanno pensato a degli studenti indisciplinati... invece!

Comunque, QUI l'immagine del capitolo, ovvero i fantastici Henry, Dedalus e Moira nei panni degli eroi! E, a proposito di panni, ammirate il pigiama e le pantofole di Dedalus! ;)

Ci vediamo domenica 27 dicembre, con il prossimo e, ahimè!, ultimo capitolo. Per cui, anche se è appena cominciato l'Avvento, vi faccio già gli auguri di Buon Natale! ^-^
Alla prossima!
Beatrix B.

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Capitolo 23
*** La D.I.M.I.S.S.I.O. ***


CAPITOLO 23
La D.I.M.I.S.S.I.O.






Septimius tamburellò le dita sul bracciolo della sedia. Non gli era mai piaciuto dover aspettare, figuriamoci essere convocati dal Governo della Magia al completo per poi essere piantato fuori per una mezz'ora buona. Che cosa avevano di così fondamentale da dirgli, poi, da costringerlo a raggiungerli a Dubh Cliathan? A lui, oltretutto?
Certo, la notte scorsa aveva contribuito all'arresto di tre membri dell'EIF, ma aveva già passato l'intera giornata di ieri a rispondere alle domande degli Auror e ripetere fino alla nausea l'accaduto. Probabilmente anche il Governo voleva sentire la sua versione del racconto. Però, farlo addirittura scomodare dal Trinity per raggiungerli al palazzo di Dubh Cliathan gli sembrava un tantino eccessivo. Oltretutto, la O'Connel aveva assunto la carica di Preside ad interim, per cui avrebbero dovuto far riferimento a lei per qualsiasi pratica burocratica.
Invece gli toccava stare lì ad aspettare in quel corridoio afoso. Stava per andarsene scocciato, quando la porta alla sua destra si aprì e una voce lo invitò ad accomodarsi. Septimius fece una smorfia, ma eseguì l'ordine. Si ritrovò in una stanza non molto ampia né particolarmente luminosa, con una gradinata in legno su tre pareti, sulla quale erano accomodati i Capi del Dipartimento. Al centro, un tavolino dall'aria piuttosto triste, con due sedie. Il Presidente della Repubblica in persona scese dal suo scanno sulla gradinata e si accomodò al tavolo, facendo segno a Septimius di prendere posto di fronte a lui.
Septimius eseguì riluttante, avendo la bruttissima sensazione di essere sotto processo. Che cosa volevano da lui?
McPride posizionò sul tavolo una scatola di cartone, sollevò il coperchio e mostrò il suo contenuto a Septimius. «Le vede queste? Centinaia e centinaia di lettere.»
Septimius lo guardò in attesa, come per chiedere che cosa avesse a che fare con lui quella storia.
«Vuole sapere cosa dicono?» continuò McPride. Ne prese una a caso dal mucchio e lesse: «Un professore così straordinario e dedito alla difesa dei suoi studenti dovrebbe essere premiato.» La lasciò cadere e ne afferrò un'altra. «Chiedo con insistenza che venga assegnata al professor Saiminiu la carica di Preside, l'unico a quanto pare in grado di difendere la scuola» lesse ancora. «Oh, anche questa è interessante» aggiunse poi, fingendosi divertito. «Il Governo è sterco di troll: non sa riconoscere gli assassini nemmeno quando se li trova davanti! Voglio Saiminiu come Preside per mio figlio, perché pare l'unico con un po' di senno!»
Septimius era stordito. Si immaginava di essere nuovamente interrogato su quello che era successo l'altra notte, non certo di essere acclamato dalla popolazione magica come nuovo Preside. Non era abituato a tutto quell'apprezzamento. Tanto meno si sarebbe aspettato di far la parte dell'eroe.
McPride sorrideva, ma Septimius si accorse che il suo sorriso era terribilmente falso, eppure insieme terribilmente affascinante. «Inneggiano il suo nome come se fosse il loro campione di Quidditch preferito» commentò con un velo di sarcasmo. «Addirittura abbiamo ricevuto quindici strillettere.»
Ancora Septimius non disse nulla. In fondo, non sapeva bene se fosse richiesto il suo parere. Di certo il Governo non si sarebbe lasciato condizionare da quelle pressanti sollecitazioni, o sì?
McPride lo squadrò per qualche secondo, come se sperasse di poter carpire la sua più profonda essenza solo con quell'occhiata. E probabilmente ci riuscì, perché Septimius aveva una figura magra e un po' incurvata, ma non abbassò lo sguardo e i suoi occhi scuri lasciavano intravedere una scintilla di fierezza impossibile da spegnere.
«Sarebbe certo interessante nominarla Preside, non trova?» mormorò infine McPride, probabilmente costretto a cedere a tutte quelle pressioni per non rischiare di inimicarsi l'intera popolazione magica d'Irlanda. Certo, dimostrare di appoggiare la candidatura di quello che si era rivelato essere l'eroe della scuola avrebbe permesso al Governo di godere di un po' di luce riflessa. E magari avrebbe anche aiutato i più a dimenticare che la Cumhacht ce la avevano messa lì proprio loro.
Però una cosa andava fatta, prima di ratificare la nomina.
«Vede, professor Saiminiu, non l'ho convocata qui solo per leggerle queste lettere» confessò McPride e ora il suo sorriso accattivante era scomparso, per lasciar posto ad un'espressione seria. E pur assumendo un atteggiamento di velata minaccia, quell'uomo riusciva ad essere ugualmente affascinante, come una luce che intrappola una falena. La piccola bestiolina sa che quella luce è pericolosa, eppure non può fare a meno di avvicinarsi a lei. «Volevo anche assicurarmi di sapere a chi va la sua fedeltà, professore» dichiarò tremendamente serio.
«La mia fedeltà?» gli fece eco Septimius fingendosi sorpreso. Quella risposta andava ponderata, si rese conto, perché potevano dipendere molte cose da quello che avrebbe detto. Ma non poteva mentire e gli venne spontaneo replicare: «Al Trinity College e ai suoi studenti.»
Da qualche parte, tra i Capi dei Dipartimenti alle spalle di McPride, partì un applauso, solitario ma accorato; poi si aggiunse un altro, poi un altro ancora e infine quasi tutti battevano le mani.
McPride non smise un secondo di scrutare Septimius e di soppesare le sue parole. Dopo qualche attimo, alzò il braccio per frenare l'entusiasmo dei suoi collaboratori e in poco tempo l'applauso si spense. Le labbra del Presidente si arricciarono in un breve sorriso, ma i suoi occhi rimasero freddi e indagatori. «Professor Saiminiu» mormorò lentamente. «Il Governo della Magia all'unanimità la nomina Preside del Trinity college. Ne faccia buon uso.»
Ciò che seguì fu per Septimius come un sogno.
Arrivato a scuola, la professoressa O'Connel lo invitò in presidenza per chiedergli cosa gli avesse detto McPride. Septimius si sentì un po' a disagio nel raccontare quanto era successo, soprattutto considerato che si trovavano in quello che, teoricamente, sarebbe dovuto diventare il suo ufficio. Invece la O'Connel lo affogò di complimenti, si alzò immediatamente dalla poltrona e gli intimò di prendere possesso della scrivania. «Finalmente un degno successore del professor Captatio» esclamò soddisfatta.
«Be', io... occuperò il suo posto finché non sarà prosciolto da ogni accusa e potrà tornare a fare il Preside» borbottò Septimius a disagio.
«Ovvio.» La O'Connel annuì convinta. «Ma nel frattempo è un bene che il Governo abbia scelto te. Nessuno potrebbe svolgere meglio questo compito.»
Septimius si fissò le mani. Non sapeva dire se fosse davvero la persona più adatta a ricoprire quell'incarico, ma almeno poteva salvare gli studenti e la stessa scuola dalle disastrose interferenze del Governo. Se McPride sperava davvero di averlo dalla sua parte, bene, quello sarebbe stato uno dei suoi sbagli più grossi.
Quella sera, a cena, fu costretto a fare il suo ingresso. Gli studenti lo guardarono perplessi: mano a mano che incedeva verso il tavolo dei professori, calava il silenzio in Sala Mor, gli sguardi attoniti e i sussurri a mezza voce. Prese posto sullo scanno del Preside e deglutì nel vedere tutti quegli occhi che lo fissavano. «Buonaser...» cominciò a dire, ma non riuscì nemmeno a terminare il saluto che dal tavolo dei Raloi qualcuno scoppiò in un applauso. Era Mairead, che si era alzata in piedi e batteva le mani fragorosamente. Poi altri la imitarono e in poco tempo tutta la Sala Mor fu invasa dagli applausi. Septimius si sentì il volto in fiamme. Certo era facile venir accolti con tanto calore dopo il periodo di terrore della Cumhacht, ma non avrebbe mai immaginato che i suoi studenti potessero mostrargli tanto affetto. Non era sicuramente uno dei professori più amati della scuola.
«Grazie» mormorò quando finalmente l'applauso si fu spento. «Sono commosso dalla vostra accoglienza.» Accennò un sorriso e prese a stropicciarsi le mani. «Il Governo mi ha nominato Preside del Trinity, almeno finché il professor Captatio non sarà prosciolto da ogni accusa. Vi assicuro che fintanto che sarò Preside la mia prima e unica premura sarà quella di proteggere il Trinity e soprattutto voi, che del Trinity siete l'anima, affinché questa scuola diventi un tempio del sapere, dove possiate crescere non soltanto in sapienza ma anche in virtù.» Fece una pausa, soppesando con lo sguardo i ragazzi in sala. «Per questo motivo il mio primo provvedimento è quello di ricompensare quegli insospettabili eroi che l'altra sera hanno salvato la scuola: duecento punti a testa alla signorina O'Callaghan e ai signori Consolatus e Alabacor.»
Al tavolo blu dei Llapac scoppiò il tumulto: i ragazzi si alzarono in piedi, batterono le mani, osannarono i loro eroi. Mai nella storia era successo che la loro casa guadagnasse così tanti punti; per di più quando ormai mancava circa un mese alla fine della scuola: avrebbero sicuramente vinto l'Arpa Celtica quell'anno!
Septimius sorrise del visibile imbarazzo di Moira e Henry, mentre Dedalus riceveva pacche sulle spalle e si inchinava divertito ai suoi ammiratori. Batté le mani anche lui e quando Moira puntò i suoi occhi sgranati verso di lui, Septimius accennò un inchino col capo.
Quando finalmente il festoso trambusto cessò, Septimius sollevò il calice per indire un brindisi. «Al Trinity!» esclamò.
«Al Trinity!» fecero eco tutti gli studenti e i professori.
Septimius bevve un sorso di vino, poi sorrise. «Buona cena a tutti.»

«Fatemi vedere!»
«Spostati un po' più in là!»
«Chi ha già visto si levi, non dovete piangere su quel maledetto elenco!»
«Tu hai di che piangere, Maleficium!»
Laughlin sgomitò fino a raggiungere il posto davanti al tabellone sul quale era esposto l'ordine secondo cui sarebbero stati interrogati all'esame orale. «Merda!» esclamò costernato. «Hanno estratto la lettera N.»
«Che sfiga!» si lasciò sfuggire Iulius, notando di essere il penultimo.
«Oh, no!» piagnucolò invece Moira, portandosi le mani alla bocca. «Sarò la prima!»
Laughlin scosse la testa. «Non sai quanto vorrei essere al tuo posto» commentò sconsolato.
«E io al tuo» pigolò invece Moira.
Edmund si avvicinò al tabellone ormai sgombro e indicò il suo nome, McPride Edmund, ultimo della lista. «Ci sarà un finale col botto, promesso.»
Edmund aveva messo anima e corpo nella preparazione della sua Disputatio; certo, anche gli esami scritti erano importanti, ma lo sapevano tutti che il voto sarebbe stato deciso al termine della discussione orale ed era quella ad avere il peso maggiore. Gli scritti si erano svolti nelle ultime due settimane di giugno: ogni studente aveva dovuto affrontare gli scritti di tutte le materie avanzate che aveva seguito in quell'ultimo anno. Il che significava che Edmund aveva dovuto sostenere otto esami: i più complicati erano stati Artimanzia e Epigrafia di Antiche Rune, che avevano richiesto calcoli e traduzioni di notevole complessità. Anche Saiminiu era stato particolarmente sadico nella scelta della versione di latino, con tanto di esercizi di applicazione delle regole latine alla fraseologia degli incantesimi, ma Edmund non aveva mai avuto grossi problemi in quella materia e se la cavò facilmente.
Laughlin aveva passato due giorni a lamentarsi della difficoltà del compito di Incantesimi, lanciando improperi irripetibili contro la O'Connel. Mairead, invece, aveva assunto la modalità pessimismo cosmico, sostenendo che tutti gli scritti erano andati malissimo. Anche se nessuno batteva l'umore nero di Henry, che continuava a ripetere che sarebbe stato bocciato.
Arrivò il famigerato giorno in cui sarebbero cominciate le interrogazioni orali: la commissione esaminatrice, presieduta dal Preside, era composta dai dodici professori del Trinity e da tre eminenti personalità dell'Irlanda magica, una delle quali scelta dal Dipartimento dell'Istruzione. Quell'anno erano stati selezionati il dottor Rodoplhus Cox, noto pozionista che era stato rapito dall'EIF quattro anni prima e liberato proprio da Edmund, Mairead e Laughlin; Anthony Straiser, decrepito ex Presidente della Repubblica, ancora incredibilmente vispo per la sua età; e infine Molly O'Tunder, giovane promettente ricercatrice al M.I.M., il Massachusetts Institute of Magic.
Moira era un fascio di nervi quando entrò per prima in pasto alla commissione. Ne uscì circa un'oretta dopo, sentendosi leggera e perfino più entusiasta di quando i Llapac avevano vinto l'Arpa Celtica grazie ai punti guadagnati da lei, Henry e Dedalus. Tutti le furono subito addosso per chiederle com'era andata, che domande le erano state fatte e se i commissari erano stati cattivi. Moira rispose pazientemente a tutti, almeno finché non fu richiamata dentro perché le venisse annunciato il voto. Con lei entrarono i ragazzi del FIE, i suoi genitori e sua sorella, che erano venuti apposta per festeggiare con lei, visto che gli esami erano pubblici. Moira fu dimissa con il voto Probatus e ne fu molto contenta. «Sopra ogni mia aspettativa!» esclamò felice, mentre veniva abbracciata da tutti i suoi amici.
Poi fu la volta di Henry, che riuscì a strappare la sufficienza con il suo Mediocris. «Ero terrorizzato all'idea che mi bocciassero» confessò ai suoi amici. «Mi sono impappinato e ho sbagliato tutte le risposte. Ma credo che il professor Saiminiu abbia interceduto per me per farmi promuovere.»
«L'importante è che sei fuori!» lo incoraggiò Dedalus con un gran sorriso.
«Tranquillo, nessuno è fuori come te» commentò Laughlin, con una spallata amichevole a Dedalus.
Quando fu il turno di Mairead, lei supplicò il padre di non entrare alla Disputatio, convinta che avrebbe combinato qualche guaio, ma Reammon non ne volle sapere. Allora Faonteroy, che era tornato a scuola apposta per assistere all'esame della cugina – infatti gli orali si svolgevano a luglio, quando gli altri studenti erano già tornati a casa – promise che avrebbe tenuto sotto controllo lui Reammon. Per fortuna Faonteroy fu di parola e l'esame andò liscio come l'olio, a parte qualche incantesimo che Mairead non riuscì a produrre correttamente. Comunque ottenne il voto Singularis e ne fu molto soddisfatta.
Dedalus, invece, riuscì a strappare un Probatus nonostante il pasticcio con gli Incantesimi rallegranti, perché i professori parvero apprezzare molto la sua ricerca su qualche misteriosa creatura magica del Sud America.
Quando toccò a Laughlin, invece, si raggiunse il record di parenti venuti ad assistere all'esame: oltre ai suoi genitori e a Bearach, vennero anche i nonni Abharrach e Helvia, e Eileen con i suoi genitori Wollace e Sarah. Laughlin rese tutti molto orgogliosi guadagnandosi la sua bella S di Singualris, sebbene avesse avuto qualche difficoltà nel compito scritto di Incantesimi. Ma, a quanto si vociferò in seguito, il dottor Cox insistette per dargli un voto alto, memore di quando lui e gli altri lo avevano salvato dalla prigionia, benché fossero solo al secondo anno.
Infine giunse il turno di Edmund, l'ultimo dell'ultimo giorno. Edmund era abbastanza sicuro che nessuno sarebbe venuto ad assistere ai suoi esami, però gli avrebbe fatto piacere se i genitori di Laughlin, che erano venuti nel pomeriggio per il figlio, avessero deciso di entrare. Tuttavia fu costretto a ricredersi quando vide comparire in ingresso l'ultima persona al mondo che avrebbe voluto vedere: Adolphus McPride. Avanzata tra gli studenti e qualche genitore con l'aria di un vincitore al suo trionfo, suscitando mormorii, esclamazioni sommesse e strane occhiate.
«Cosa ci fai qui?» lo accolse Edmund, gelido.
McPride gli riservò il suo miglior sorriso da squalo. «Sono venuto ad assistere all'esame del mio figliolo.»
«È una scusa per ficcare il naso a scuola?» domandò senza mezzi termini Edmund. L'ultima cosa che voleva in quel momento era avere tra i piedi McPride.
L'uomo fece una smorfia. «La tua mancanza di fede nei miei confronti è dolorosa.»
«La fede si deve solo a Dio, signor Presidente» mormorò una voce cupa alle loro spalle. Il professor Saiminiu li scrutava con aria torva; si soffermò un secondo di più su McPride, poi aggiunse: «Sono costretto a chiederle di non assistere alla Disputatio di Edmund, Presidente.»
Lui non riuscì a mascherare una certa sorpresa: in pochi osavano opporgli un rifiuto così netto. «E per quale motivo, di grazia? Gli esami sono pubblici.»
Saiminiu gli rivolse un sorriso tirato. «Il Preside, o chi ne fa le veci, è autorizzato a impedire l'accesso alla discussione della Disputatio qualora ritenesse che questo possa disturbare lo svolgimento della stessa» recitò senza battere ciglio.
Anche McPride sorrise, per quanto forse avrebbe voluto staccargli la testa a morsi. «E ritiene che io potrei essere motivo di disturbo?» indagò con un velo di sarcasmo.
Saiminiu non si fece intimorire. «Ritengo che potrebbe influenzare il giudizio, sì. Non vorrà certo che Edmund sia favorito dalla sua presenza?»
McPride si morse il labbro. «Certo che no.» E probabilmente aveva lo stesso sorriso di un leone che sta per sbranare la sua preda.
Saiminiu, fingendo di non essersi accorto di nulla, mise una braccio intorno alle spalle di Edmund e lo condusse via. «Vieni, inizia il tuo esame.»
«Grazie» sussurrò il ragazzo, quando furono sufficientemente lontani dalle orecchie di McPride.
Il professore tolse il braccio dalle sue spalle e accennò un sorriso complice. «Me ne devi una» commentò. «E presto anche due.»
Edmund non ebbe tempo di rimuginare sul significato di quelle parole, perché ormai era giunto il suo turno: prese un profondo respiro ed entrò in Sala Mor. Al lungo tavolo dei professori erano seduti i membri della commissione; davanti era stato posizionato un banchetto con una sedia per il candidato e, alle sue spalle, delle seggiole per chi voleva assistere. Edmund vide di sfuggita che erano sgattaiolati dentro la sala i suoi amici, i signori Maleficium, padre Rafael e un mago baffuto che non sapeva chi fosse. Ma non ebbe tempo di preoccuparsi, perché il preside Saiminiu si alzò in piedi e gli ordinò di accomodarsi.
«Il candidato si presenta di fronte a questa commissione con una ricerca dal titolo “Studio sulla trasfigurazione di esseri viventi”» lesse dal suo elaborato. «Prego, presentaci il tuo lavoro.»
Edmund prese un profondo respiro, cercando di ricordarsi il discorso che aveva preparato. «Ho scelto di inserire un capitolo introduttivo sull'origine della magia e sulle varie ipotesi in proposito, propendendo nettamente per quella che prevede una provenienza comune della magia, presso un gruppo di uomini primitivi che poi avrebbero sparso il loro sangue magico nel mondo» cominciò a spiegare. Aveva aggiunto solo di recente quel capitolo, dopo il viaggio nel Gaianum. Ovviamente non aveva potuto rivelare il segreto della Fons, ma era rimasto stupito di quante fossero le ipotesi sull'origine della magia e di come alcune fossero davvero vicine alla verità.
«Il secondo capitolo affronta la Trasfigurazione dal punto di vista della Filosofia della Magia» continuò a spiegare. «Essa sfrutta la Forza di Mutamento, una delle più potenti, perché ogni realtà è soggetta al divenire, ma insieme tra le più inafferrabili. Se consideriamo inoltre che ogni sostanza è un sinolo, un'unione, di materia e forma, vediamo come la Trasfigurazione a volte modifica solo la materia, a volte entrambe.»
«Perché non ci fai qualche dimostrazione?» intervenne la dottoressa O'Tunder, la ricercatrice del M.I.M.
Edmund annuì. Si alzò e andò a prendere un topolino bianco dalle gabbiette che erano state predisposte per permettere agli studenti di esercitare gli incantesimi richiesti. «Se prendiamo un essere vivente e lo trasformiamo in un oggetto, cambiano sia materia sia forma» spiegò Edmund, trasfigurando il topolino in un calice di vetro. «E il processo contrario lo fa tornare alla sostanza di prima.» Il calice si trasformò nuovamente in un topino bianco, che Edmund ripose al suo posto. Poi tirò fuori di tasca una graffetta. «Anche quando un oggetto diviene un essere vivente, cambiano entrambe. Possiamo dunque creare con la magia degli esseri viventi, dalle forme più semplici...» e dicendo questo trasfigurò la graffetta in un altro topolino. «A quelle più complesse.» Lasciò sgusciare via l'animaletto e guardò verso la finestra aperta per il caldo di luglio. In quel momento un canto melodioso riempì la Sala Mor: maestosa come non mai, fece il suo ingresso Carmen, la fenice che Edmund aveva trasfigurato durante il Torneo Trecolonie. I tre commissari esterni rimasero estasiati, con la bocca aperta. Carmen andò a posarsi sulla spalla di Edmund, che le accarezzò la testa con delicatezza.
«Fino a che punto, io mi chiedo, possiamo spingerci?» mormorò, senza distogliere gli occhi dalla fenice. «Qual è il nostro limite, se da banalissimi oggetti possiamo creare tali meraviglie?» Edmund tornò a guardare la commissione. «Non esiste alcun limite. Ipoteticamente parlando, saremmo in grado perfino di creare esseri umani» commentò con un filo di amarezza nella voce. Chi meglio di lui poteva saperlo?
«Tuttavia – aggiunse, – se anche l'uomo, e tanto più il mago, ha la facoltà di fare delle cose, non è detto che sia giusto farle, come ci ricorda Adalbert Incant nella Prima Legge della Magia.» Sorrise, immaginando che padre Rafael, alle sue spalle, avesse apprezzato la citazione.
«Il discorso diventa più complesso se prendiamo in considerazione gli esseri umani» continuò Edmund. «Se un uomo viene trasfigurato in un oggetto, cambiano sia la materia sia la forma, ma il processo è irreversibile. Mi perdonerete se non offro dimostrazioni.» Si concesse una battuta che strappò un sorriso a qualche membro della commissione. «Se invece un uomo viene trasfigurato in un altro essere vivente, nuovamente cambiano materia e forma, ma il processo è reversibile, ovviamente ad opera di un altro mago. Infine, nella trasformazione di un Animagus, cambia solo la materia, tant'è che il mago stesso può riacquistare il suo aspetto umano, perché anche da animale persiste la sua forma di essere umano.»
Edmund si risedette al suo posto e attese il verdetto.
«Trovo che sia un lavoro molto interessante» commentò la dottoressa O'Tunder.
«Se mi posso permettere» intervenne Cumhacht. «Ho seguito Burke per la stesura della ricerca e credo che sia davvero ben fatta. Con un buon senso critico, approfondite letture e con la giusta dose di passione.»
Edmund tirò un sospiro di sollievo: il professore non si era mai sprecato in lodi durante l'anno e, per quanto sapesse di aver lavorato bene, non era certo che anche Cumhacht la pensasse allo stesso modo.
Anche tutti gli altri professori si mostrarono soddisfatti; gli dissero inoltre che le prove scritte erano andate molto bene e gli chiesero di eseguire qualche incantesimo, anche complesso, che tuttavia Edmund portò a termine senza alcuna difficoltà. Alla fine, non gli chiesero nemmeno di accomodarsi fuori: semplicemente si scambiarono qualche sguardo d'intesa e poi Saiminiu si alzò in piedi e lo invitò a fare lo stesso.
«Edmund Burke... – sospirò – McPride, in qualità di Preside del Trinity College per Giovani Maghi e Streghe, ti dichiaro dimissus con il voto Mirandum Est
Alle sue spalle scoppiarono gli applausi dei suoi amici. Edmund, con un sorriso enorme, stinse le mani a tutti i membri della commissione e li ringraziò. Addirittura, la dottoressa O'Tunder gli consigliò di prendere in considerazione l'iscrizione al M.I.M. Mairead gli gettò le braccia al collo, Laughlin lo riempì di pacche sulle spalle, Dedalus lo stritolò in un abbraccio.
«Ben fatto, Edmund» gli sussurrò all'orecchio padre Rafael, mentre Eoin Maleficium gli stringeva la mano.
L'euforia era alle stelle, quando uscirono dalla Sala Mor, perché con lui gli esami erano finalmente finiti e tutti gli studenti del Sesto anno potevano tornare a casa per godersi l'estate.
«Herr Burke» lo richiamò in quel momento il mago con i baffi che aveva assistito al suo esame. «Zono il prfovessor Wünderbarde, della Kaiserliche Akademie der Zauberei. Mi ha infitato il prfovessor Saiminiu» si presentò stringendogli la mano. «Sarei molto lieto di aferla alla nostra presticiosa scuola, herr Burke.»
«Ehm, grazie» mormorò Edmund, senza sapere bene cosa dire.
«Al K.A.Z. hanno borse di studio per studenti meritevoli» gli sussurrò Saiminiu alle spalle, con una strizzata d'occhio. «Mi sono permesso di invitare il professor Wünderbarde nella speranza che una di quelle borse di studio sia tua.»
Edmund gli rivolse un sorriso di gratitudine. «Grazie davvero» mormorò quasi commosso.
Saiminiu fece un cenno col capo e si allontanò.
«Professor Saiminiu» lo richiamò Edmund. «Possiamo festeggiare, vero?»
Il Preside soppesò un secondo la risposta. «Nulla di troppo rumoroso, Edmund» ammise infine.
Il ragazzo gli fece l'occhiolino, cosa che era francamente più spaventosa di qualsiasi ammissione di colpevolezza. «Non si preoccupi. Sarò delicato come un petalo di fiore.» Sventolò la bacchetta in aria, senza una parola, e delle cose bianche cominciarono a piovere dal soffitto. Vorticavano leggere come piume, profumate e graziose come...
«Gigli!» esclamò Ailionora, quando un fiore le cadde sulla spalla. «È una pioggia di gigli!»
Scoppiò un applauso, Mairead e Moira si abbracciarono, mentre i fiori ricoprivano ogni cosa come un manto di neve. Edmund raccolse un giglio che gli era caduto ai piedi e, senza una parola, lo mise tra le mani a McPride. Si scrutarono in silenzio per qualche secondo, poi Edmund gli voltò le spalle e andò a festeggiare con i suoi amici.
Qualsiasi cosa sarebbe successa là fuori, loro non avrebbero ceduto.










Ebbene, eccoci giunti all'ultimo capitolo!
I nostri ragazzi sono cresciuti, ormai! Hanno finito il Trinity... mi fa un po' strano pensare che questa parte della loro vita sia finita. Spero che leggere dei loro esami vi abbia fatto tornare in mente la vostra maturità, o la laurea! =)
Spero anche che non sia risultata noiosa la parte in cui Ed espone il suo lavoro. Purtroppo non potevo dare risalto a tutti i ragazzi e ho scelto di descrivere l'esame di Edmund perché penso sia il più interessante.
Ah, i voti sono questi: Mirandum est = 10 (molto raro), Singularis = 8-9, Probatus = 7, Mediocris = 6, Egens = 5, Quadrupes = 4.

Ah, era anche ora che arrivasse un vero Preside! McPride sperava che Saiminiu fosse più malleabile, ma ha fatto male i suoi conti. Septimius è un vero zuccone quando si mette in testa una cosa! E lui non lo sa ancora, ma ha davvero tutte le carte per diventare un ottimo preside!
Giusto per conferma, QUI l'immagine del capitolo, ovvero Sep in tutto il suo splendore di preside.

Ci si rivede mercoledì 20 gennaio con l'epilogo!
A presto!
Beatrix B.

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Capitolo 24
*** Epilogo ***


EPILOGO






Edmund buttò le borse sul divano con malagrazia. «Niente uova, non ce n'erano» annunciò, appendendo il mantello in ingresso.
«È arrivata una lettera da Laughlin» gli disse Melita. «Pare ci sia una super riunione a casa sua fra tre giorni.»
Edmund mugugnò.
«Che cosa c'è?» indagò Melita; conviveva col suo fratellino da neanche tre settimane, ma aveva già capito che quando aveva quella faccia qualcosa di serio non funzionava. Almeno, qualcosa che lui riteneva serio.
Edmund non amava particolarmente far la spesa, ma pur di uscire di casa andava bene tutto. Per fortuna aveva convinto Melita a lasciare andare lui a far rifornimento, visto che era in grado di rendersi completamente invisibile con l'incantesimo di Disillusione – il che risultava comodo se “far la spesa” coincideva più che altro con il derubare negozi Babbani. Se non avesse avuto quella mezz'ora d'aria, avrebbe dovuto passare l'estate chiuso in casa con le persiane abbassate. Va bene che doveva studiare e prepararsi per il test d'ammissione del K.A.Z., sperando anche di vincere una delle tre borse di studio, ma morire lentamente in quella casa Babbana per vacanze era un modo davvero spiacevole di andarsene.
«Avanti, che è successo?» insistette Melita. Dubitava che il malumore di Edmund fosse dato dalla mancanza delle uova.
Il ragazzo tirò fuori un paio di libri dalla borsa. «Padre Rafael mi aveva promesso un volume preso in prestito dalla biblioteca del seminario ma ha detto che era già prenotato da qualcun altro» spiegò infine. «Chi cavolo è che come piacevole lettura estiva sotto l'ombrellone si piglia “Breve storia dell'epistemologia europea della Trasfigurazione”?» Sbuffò, anche se in fondo un po' se l'era aspettato: al seminario erano tutti in fibrillazione da quando il cardinal Saiminiu era stato eletto Patriarca con il nome di Patricius I. La popolazione magica d'Irlanda si era riscoperta improvvisamente fervente cattolica.
Melita ignorò completamente il motivo del disappunto di Edmund e passò invece alla questione più seria: «Ha incontrato di nuovo quel prete?» indagò. Edmund sbuffò. «Non mi ha visto nessuno!»
«Quante volte devo dirti che è pericoloso? Hai i Mangiamorte alle calcagna!»
Edmund mise le mani in tasca e si lasciò cadere sul divano. «Credo che i Mangiamorte abbiano cose più importanti che perseguitare me.»
«Non sottovalutare...» cominciò a dire, ma si interruppe per raccogliere da terra una piccola capsula grigia che era caduta dalla tasca di Edmund. «E questo cos'è?»
Edmund si voltò verso la ragazza e sgranò gli occhi spaventato. «Non la toccare!» esclamò, alzandosi dal divano di scatto e strappandogliela di mano con un gesto repentino.
Melita lo fissò stranita. «Che cosa diavolo...» cominciò a dire, ma Edmund la interruppe sbrigativo.
«Precauzioni, niente di più.» E si rimise in tasca la piccola capsula, chiudendo il discorso.
La ragazza lo fissò con uno sguardo doloroso, intuendo più di quanto l'altro avesse detto. «Comunque stai attento» gli raccomandò preoccupata.
Edmund le rivolse un sorriso rassicurante, che la acquietò almeno un poco. «Non temere, sarò cauto.»
Per i due giorni successivi Edmund evitò di uscire di casa, così da tranquillizzare Melita, che comunque preferì essere più prudente della prudenza stessa e cercò una nuova villetta disabitata per trasferirsi. «Ne ho trovata una nella contea di Mayo, carina. I proprietari dovrebbero stare alle Barbados per due settimane» annunciò la mattina del terzo giorno. Spesso si recava la mattina presto in aeroporto per carpire informazioni e individuare Babbani in vacanza le cui case restavano vuote.
Edmund bevve l'ultimo sorso di latte della sua colazione. «Vado a preparare la mia roba.»
Melita annuì. «Ok, io faccio una breve ricognizione poi torno a prenderti.»
Edmund si preparò con tutta calma: di solito sua sorella ci impiegava almeno un'ora ad ispezionare la nuova casa. Cosa si aspettava, che i Babbani ci lasciassero un Mangiamorte di guardia?
Per quanto gli facesse piacere vivere con Melita, poterla chiamare sorella e, in un certo modo, avere finalmente una famiglia, a volte non sopportava l'eccessiva premura di lei. Anche se i Mangiamorte li stavano effettivamente cercando, Melita era comunque troppo esagerata. Dopo neanche tre settimane, quella vita di eterna fuga e reclusione gli stava già stretta. Lui era più impulsivo, aveva bisogno di libertà di movimento... e probabilmente si sarebbe fatto catturare prima, ammise.
«Edmund!» gridò proprio in quel momento Melita dal piano di sotto. «Edmund!»
Il ragazzo si allarmò: prese al volo la bacchetta e uscì di stanza trafelato. Sua sorella gli corse incontro spaventata. «Oddio, grazie al cielo!» esclamò.
«Mi sono spaventata, ho visto la porta aperta e...»
«La porta aperta?» le fece eco Edmund, mortalmente serio. Era impulsivo e sprovveduto ma non sciocco: la porta si ricordava sempre di chiuderla con la magia. Poteva significare solo una cosa.
«Petrificus totalus!» esclamò contro Melita. Lei ebbe tempo solo di sgranare gli occhi e poi cadde riversa a terra. «Desilludo» mormorò poi, nascondendo completamente il corpo pietrificato della sorella. La spostò in camera e chiuse la porta: ora lei era al sicuro e Edmund era libero di affrontare chiunque avesse osato intromettersi in casa loro. Se, come temeva, si fosse trattato di Mangiamorte, certo quelli non avrebbero avuto remore ad uccidere Melita, visto che non era il loro obiettivo. Se li avevano trovati per la sua leggerezza, doveva almeno assicurarsi di proteggere la sorella.
«Avanti, lo so che ci siete!» esclamò Edmund, la bacchetta levata davanti a sé. «Homenum revelio» sussurrò, individuando due figure in salotto, al piano di sotto. Scese lentamente le scale. «Due? Solo due scagnozzi? Mi sottovaluta così tanto il vostro capo?» gridò ancora, sperando di attirarli a sé, ma quelli non si mossero, per cui Edmund fu costretto ad entrare lui in salotto, pronto a combattere.
Si ghiacciò sull'ingresso.
«Non gli scagnozzi» sibilò la voce fredda di Lord Voldemort. «Il capo in persona.»
Edmund si sentì morire. Stretta tra le esili braccia di Lord Voldemort stava Melita, i begli occhi azzurri ricolmi di lacrime che imploravano di perdonarla.
«Lasciala andare» intimò Edmund, con la voce tremante. «Lei non c'entra.»
L'orribile volto del Signore Oscuro si contrasse in un sorriso. «Non credo che tu sia nella posizione di dettare condizioni» commentò sarcastico. «Getta la bacchetta.»
Edmund fu sul punto di farlo, tale fu l'autorità con cui decretò l'ordine. Ma riuscì a trattenersi e cercò di elaborare velocemente un piano. «Lasciala andare» ripeté con maggiore convinzione. Poi si puntò l'arma al collo. «O non avrai nemmeno me.»
Un lampo di rabbia attraversò gli occhi rossi di Voldemort. «Non lo faresti.»
L'espressione di Edmund era tagliente come il ghiaccio. Non c'era indecisione nel suo sguardo. Passarono una manciata di secondi che sembrarono durare un'eternità, durante i quali i due avversari si scrutarono negli occhi per capire le intenzioni dell'altro. Infine Edmund decise di agire. Accadde tutto veloce come un lampo.
«Recid...» cominciò a dire Edmund, e già il sangue cominciava a sgorgare dalla ferita sulla gola.
«Ed...!» gridò Melita, cercando di liberarsi dalla presa di Lord Voldemort, ma lui fu più rapido: la scaraventò a terra e poi scagliò uno schiantesimo contro il ragazzo con una tale forza da spezzargli parecchie ossa. Con uno scatto di un rettile saettò avanti, afferrò il corpo del giovane, appellò la sua bacchetta e scomparì oltre la porta d'ingresso, smaterializzandosi sull'uscio.
«...mund! Nooooo!»
Le urla di Melita si persero nella fresca aria mattutina. Lei era ancora lì, accasciata sul pavimento, un braccio teso verso il punto in cui suo fratello era scomparso, le lacrime che rigavano abbondanti il bel volto.
Lord Voldemort l'aveva preso.
Lord Voldemort aveva preso Edmund.










Ebbene sì, lo so, sono davvero sadica.
Ma, carissimi lettori, questo è quello che si chiama un finale ad effetto!

Grazie a tutti per esser giunti fin qui, per aver seguito ancora una volta le avventure di Edmund, Mairead e Laughlin. In particolare, un grazie speciale a Good Old Charlie Brown, che ha sempre letto e commentato con puntualità e pazienza.

E ora, vi do appuntamento a LUNEDÌ 29 FEBBRAIO (perché è una data fighissima) con il prologo del settimo e ultimo racconto:

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QUI il link dell'immagine più grande, se qualcuno volesse vederla meglio.
A presto!
Beatrix Bonnie

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