The Fandoms Games

di Finnick_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: la mietitura ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: the world falls down ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: il viaggio ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Capitol City ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: la mietitura ***


Nota:
Nessuno dei personaggi qui sotto, nei vari fandom (Sherlock, Hunger Games e Doctor Who) mi appartengono.
E' solo un grandissimo miscuglio ;)
Buona lettura!






Capitolo 1: la mietitura
 
Distretto 4
 
Il grido che proviene dalla mia bocca risuona nella stanza vuota.
Apro gli occhi di botto e artiglio le coperte con le dita delle mani, per cercare stabilità.
Ansimo alla ricerca dell’aria. Quella che mi mancava nel sogno.
Scuoto la testa, mi guardo intorno in modo compulsivo e mi rendo conto di essere nella mia stanza, seduto sul mio letto, la finestra aperta sul mare. Il sole penetra nella stanza attraverso le tende, che frusciano verso di me a ritmo della brezza.
Sono al sicuro. L’incubo è finito.
Il terribile incubo dei passati Hunger Games è di nuovo svanito nell’oscurità della notte.
O almeno questo è ciò di cui tento di convincermi.
“Mary?” chiamo ad alta voce. Nessuno risponde.
Provo ancora, ma la mia voce rimbalza tra le pareti e torna come un’eco, portando con sé la sola risposta del suo stesso suono.
Poi ricordo.
No, l’incubo non è svanito, è appena cominciato.
Scendo dal letto in tutta furia, indosso le calosce che mia moglie mi ha regalato due anni fa e corro alla finestra. Scosto la tenda con un movimento rapido e secco, come se si stesse tramutando davanti ai miei occhi nel muro che mi separa dall’ossigeno.
Mi attacco al davanzale e mi lascio inondare dalla luce del sole. E’ mattino, l’aria è calda. Il mare fa rumore.
E’ estate.
Ed è passato un anno esatto dagli ultimi Hunger Games. Nessuno è al sicuro con quei giochi. Si tengono ogni anno e mettono in ballo la vita di ogni singola persona del Distretto.
Nella piazza centrale del paese, d’estate, si allestisce il palco, si montano le sedie, si alza il telo per la proiezione del filmato che ci ricorda la “terribile guerra” che hanno passato i nostri antenati, e un’esuberante Tilla Nikyel, l’accompagnatrice del Distretto 4, si piazza proprio al centro del palco, sfoggiando i suoi abiti eleganti e perennemente azzurri, per estrarre, tra i tanti, i nomi dei due disgraziati che prenderanno parte agli Hunger Games.
Questi sono gli 85°.
Possono essere pescati sia due uomini che due donne. Oppure un uomo e una donna. L’ampolla da cui Tilla attinge è una e sola e all’interno reca migliaia di biglietti: i nomi di ogni abitante del Distretto.
Si narra che un tempo potessero essere pescati solo ragazzi dai dodici ai diciotto anni e dovevano essere necessariamente un maschio e una femmina. Adesso le cose sono cambiate.
L’unico limite è che non possono essere reclutati ragazzi di età inferiore ai dieci anni.
Per quanto riguarda la nuova legge potrei essere nominato io insieme al bisnonno del sindaco, che regge l’anima con i denti, oppure la figlioletta di dieci anni di Tilla, che abita qui, insieme al padre di famiglia che non sa come arrivare in fondo alla giornata.
L’anno scorso, agli 84° Hunger Games, è stata pescata Mary.
Mary Morstan, mia moglie.
E’ vero che ogni abitante del 4 può essere offerto come tributo, eppure noi non la ritenevamo una cosa possibile. Abbiamo una buona reputazione, qui.
Io sono un medico militare, adesso in servizio per i pazienti comuni e lei è… era. Lei era un’impiegata comunale. Avevamo costruito la nostra vita sulla convinzione che noi fossimo protetti dalla mano di Tilla e dalle armi dell’arena.
Invece l’anno scorso, contro ogni previsione, il nome di Mary Morstan è stato pronunciato dalla voce squillante della Nikyel, lasciando tutti a bocca aperta.
Il silenzio calò sulla piazza e sugli astanti.
Quello è il dettaglio più orribile che possa ricordare.
Il silenzio, il nero.
Il nome di mia moglie e successivamente quello di un vecchio pescatore. Entrambi tributi.
Non ricordo, in vita mia, di essere mai svenuto.
Tranne quel giorno, al momento della mietitura per gli 84° Hunger Games.
Mary è stata uccisa da un tributo del Distretto 11, un ragazzone grande e grosso che l’ha gettata con molta delicatezza giù da un burrone.
Continuo a puntare lo sguardo verso l’orizzonte.
Oggi è il giorno della mietitura.
Gli 85° Hunger Games, e io non sono al sicuro. E non lo è nemmeno il mio migliore amico.
La porta al piano inferiore si chiude con un colpo secco e dei passi risuonano sul parquet.
“E’ pronto il tè?”
Chiudo gli occhi e mi concentro sul suono della voce che ha appena parlato.
Scuoto la testa.
“No…” sussurro, per alzare poi il tono della voce e scostare la tenda per scendere di sotto.
“No, mi sono alzato ora.”
Quando scendo l’ultimo scalino trovo Sherlock in cucina, intento ad accendere un fornello su cui campeggia un pentolino pieno d’acqua. Rimango immobile per un attimo.
“Il tè? Mi stai preparando il tè?” chiedo stupito.
Sherlock è il mio migliore amico, indubbiamente. Ma è la persona più strana del Distretto.
Continua a viaggiare con un paio di pantaloni eleganti e una camicia in tinta unita anche in piena estate.
“Non ti ci abituare” risponde lui, senza voltarsi a guardarmi, arraffando due tazze dalla dispensa.
Ci tengo a sottolineare che il tè gliel’ho sempre preparato io. O Mary.
Ma lui si ostinava a dire che quello di Mary era migliore del mio.
Sherlock è estremamente intelligente. Troppo, a volte. I sentimenti sembrano non sfiorarlo nemmeno in lontananza, caratteristica che ho sempre disdegnato, ma che oggi invidio.
Forse lui è tranquillo.
Anche se dovessero pescare il biglietto con su scritto il suo nome, lui non batterebbe ciglio.
Io non lo so. Ormai andare avanti senza Mary diventa più inutile giorno dopo giorno.
Se non fosse per Sherlock, non so dove sarei.
Mi siedo e aspetto che lui versi tutto il tè nelle tazze. Poi me ne porge una.
La prendo con le dita tremanti. Lascio subito il manico e stringo forte le dita sul palmo della mano.
Sherlock mi squadra e si mette a sedere fissando un punto indefinito davanti a sé.
La mano non smette di tremare. La sbatto con violenza sul tavolo e esclamo:
“Al diavolo!”
Sherlock non apre bocca.
“Tilla è vestita di blu elettrico” borbotta dopo un po’, con le labbra nella tazza.
Io lo guardo per un istante prima di sorridere.
“Avrei scommesso sul verde acqua” rispondo.
“Quello ce l’aveva quattro anni fa.”
Annuisco ed entrambi ci mettiamo a ridere.
“Finisci il tè e vai a cambiarti, tra mezzora dobbiamo essere in piazza.”
Eccolo, Sherlock, che prima cerca di consolarmi con il suo scarso senso dell’umorismo e poi mi distrugge i nervi di nuovo, ricordandomi la mietitura. Non lo fa apposta, ma la mia mano ricomincia a tremare.
“Mi dispiace, non lo finisco” dico, spingendo via da me la tazza mezza vuota.
Salgo, mi cambio con i migliori abiti che riesco a trovare e scendo dopo una decina di minuti.
Sherlock è in piedi accanto alla porta, appoggiato al muro.
Si è rimesso la giacca che si era tolto entrando.
“Non…” balbetto. Stringo ancora la mano.
“Vorrei dirti che non ce la faccio nemmeno io, ma non è vero” mi anticipa lui.
Rimango in silenzio.
“Come fai?”
“Non ci penso.”
Sento gli occhi gonfi. I ricordi minacciano di assalirmi, ma faccio come Sherlock. Non ci penso.

Distretto 11
 
“Non ci pensare.”
“E come faccio?”
“Lo fai e basta.”
“Amy, sai che non è possibile. E se pescano il nome di mio padre?”
“Che c’entra tuo padre adesso? Non stavamo parlando del Dottore?”
Rory fa una smorfia.
“Sarebbe un problema in entrambi i casi.”
Sbuffo, afferro il giacchetto di pelle migliore del guardaroba e lo getto sul letto, squadrandolo incerta.
“Ti sei svegliato positivo, stamani.”
Rory mi fa il verso e aggiunge:
“E tu indecisa su cosa indossare.”
Crolla a sedere sul letto, nei suoi jeans nuovi e il maglione che gli avevo comprato il giorno del nostro primo appuntamento. Sbuffa e si mette a guardare il soffitto.
Lascio andare le braccia lungo il corpo.
Devo sembrargli tanto spavalda e forte.
“Tutti si vestono bene, non vorrei essere da meno” sorrido.
Mi avvicino e gli mollo un cazzotto affettuoso sulla spalla.
Lui non fiata e cade all’indietro, steso sul letto.
Sospiro.
Ha ragione, io so che ha ragione. Io ho paura di sentir uscire dalla bocca di Cloe Montague il nome “Dottore” e Rory ha il terrore che venga pescato quello di suo padre. Non so perché, ma quest’anno nessuno dei due ha paura che venga estratto il nome dell’altro o il proprio.
Mi siedo accanto a lui, le mani sulle gambe.
“Affrontiamo questo giorno da anni. Va sempre tutto bene, arriviamo a sera, ci mettiamo sul divano e leggiamo insieme, ricordi?”
Dico, sorridendo al pensiero.
Lui mi prende per una spalla e mi tira giù con lui.
Sdraiati sul letto, ci mettiamo a fissare il soffitto. Rory mi prende la mano e sospira.
“Ho paura. Per mio padre, sai? E… per il Dottore, ovviamente” bisbiglia, un po’ impacciato.
Questo è il momento che odio di più del giorno della mietitura. Supera in odio anche la voce beffarda di Cloe che annuncia che tra breve infilerà la sua manina nell’ampolla per estrarre i due nomi.
Supera lo shock di rendersi conto che uno dei nomi lo conosci, magari era il tuo panettiere, magari il fruttivendolo. Magari un amico d’infanzia.
Questo va oltre tutto: Rory che trema, la sua mano che suda nella mia, troppo impaurito per gli altri, per pensare a se stesso.
“Anch’io” dico e mi giro su un lato per guardare mio marito negli occhi.
“Ehi.”
“Ehi.”
“Non dovrebbe essere più… non so, normale aver paura per noi due?” chiede.
“Già, ma noi non sappiamo nemmeno cosa sia la normalità, grazie al Dottore.”
“Stropicciato” aggiunge. 
Rido, appoggio la mia fronte alla sua e ripeto:
“Stropicciato.”
Un momento di silenzio. Un momento per capire cosa i nostri occhi stiano comunicando.
E a rompere tale momento è un sasso che entra dalla finestra aperta, rimbalzando per terra e facendoci sussultare. Piombiamo a sedere sul letto, seguiamo la traiettoria del sasso e decidiamo di affacciarci alla finestra.
Quando lo facciamo, scorgiamo un uomo in giacca e cravattino rosso che sbraccia in mezzo al campo.
“I miei Pond!” esclama ridendo.
“Cos’ha da ridere, anche oggi?” mi sussurra Rory.
Alzo le spalle e sorrido. Prendo mio marito per la mano e lo trascino al piano di sotto, usciamo nel campo dietro casa e io mi getto tra le braccia del Dottore.
Non veniva a farci visita da un mese e la mia paura più grande era quella di non vederlo prima del momento della mietitura. Rintracciarlo è impossibile, è sempre in viaggio, ma il suo nome appartiene al Distretto 11 ormai da qualche anno.
Rimaniamo abbracciati a sorridere per qualche secondo.
“Oh, che bello rivedervi. Siete pronti?” chiede, calando piano il tono della voce.
“Nessuno è pronto per i giochi” dico.
Gli do una pacca sulla spalla e lui sorride.
“Già. Nessuno.”
“Dove sei stato per tutto questo tempo?” chiede Rory, quando si rende conto che è il suo turno di abbracciare il Dottore.
Lui fa un giro su se stesso. Tipico. Mi sfugge un sorriso e lo ringrazio mentalmente di essere tornato da noi.
“Ah, sapessi Rory Pond, sapessi!”
“Williams, Rory Will-” cerca di correggerlo Rory.
Il Dottore continua come se non fosse mai stato interrotto:
“Ho visto l’orizzonte, la linea oltre la quale nessuno ha il coraggio di andare” gli occhi gli brillano “L’immenso. Ho visto l’immenso e lo vedrete anche voi, un giorno.”
Il sorriso è splendido, evidentemente i ricordi lo assalgono e lo rendono felice.
“Quando?” chiedo, “Il Distretto ci tiene qui per gli Hunger Games.”
Il Dottore abbassa lo sguardo e si liscia i capelli dietro la nuca.
Lo sguardo perso verso un punto indeterminato dell’erba. E’ una delle persone più sensibili e coraggiose che abbia mai conosciuto. Il uomo migliore dell’universo e il miglior amico che si possa avere.
“Sto cercando un modo per interrompere queste crudeltà. Sto raccogliendo cose interessanti, ce la faremo.”
“Sempre che oggi nessuno di noi venga mandato nell’arena” aggiunge Rory, avvicinandosi a me.
“Finite di prepararvi, dobbiamo andare” conclude il Dottore.
Io e Rory rimaniamo per qualche istante ad osservarlo mentre ci da le spalle e si lascia cadere sull’erba.
Incrocia le gambe, estrae il cacciavite sonico dalla giacca e comincia a lavorarci.
“Forza” dico a Rory, gli metto un braccio intorno al collo e insieme rientriamo a sistemare le ultime cose.
Dopo dieci minuti siamo nella piazza principale. Ci stanno smistando.
Anche quest’anno mi hanno divisa da Rory: i maschi da una parte, le femmine dall’altra.
Il Dottore ha fatto in modo di avere Rory accanto e ogni tanto lo vedo mentre gli bisbiglia qualcosa nell’orecchio.
E’ tutto pronto, il sindaco è seduto su una sedia alla destra dell’entrata del palco. Cloe si sistema l’acconciatura e comincia a salire i gradini di legno, sorridendo al meglio delle sue possibilità.
Questo è il giorno della mietitura.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: the world falls down ***


Capitolo 2: the world falls down
 
Distretto 4
 
Sarebbe una giornata stupenda, di quelle da godersi dal primo minuto fino all’ultimo, in riva al mare con il vento e il sole sulla faccia.
E lo farei, andrei in riva al mare, con i piedi nell’acqua e proverei a convincere Sherlock a fare come me, senza risultato.
E invece sono in piedi, immobile in mezzo ad una folla di persone che, terrorizzate, si stringono le mani.
Il silenzio è assurdo, inquietante e quasi rumoroso. Il respiro si fa affannoso, il ricordo dell’ultima mietitura è vivido e nitido nella mia mente.
Mary.
Perché non mi sono offerto volontario al posto suo?
Io sono stato in guerra, avrei avuto più possibilità di sopravvivere nell’arena, rispetto a lei.
Perché? Beh, John Watson, sei svenuto non appena hai sentito pronunciare il nome di tua moglie.
Sto per ricominciare a colpevolizzarmi della sua morte, ma sposto lo sguardo dal palco alle linee dietro di me. Sherlock è lì in piedi, con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, e annuisce.
Non hanno permesso che stessimo accanto.
Abbasso di nuovo lo sguardo e lo riporto alla scena davanti a me: Tilla è salita sul palco, ha cominciato a parlare con la sua voce squillante, ma io non ho capito niente di quello che ha detto.
D’un tratto il telo per la proiezione viene illuminato da alcune immagini che si succedono.
Ogni anno il solito video: la rivolta dei Distretti, Capitol City che con magnanimità ci ha salvati dall’estinzione e infine la gloria degli Hunger Games. Il video termina.
“Ed ora, è venuto il momento di estrarre i nomi delle due coraggiose persone che rappresenteranno il Distretto 4 agli 85° Hunger Games.”
La osservo mentre infila la mano nell’ampolla.
Sherlock aveva ragione, Tilla indossa un lungo abito blu elettrico, di seta.
Il respiro mi si blocca senza che io me ne accorga.
Non Sherlock, non Sherlock, non Sherlock.
Tilla estrae il primo foglietto ripiegato. Lo spiega con cura, lo legge e il sorriso le muore sulle labbra.
Deglutisco e tento di ricominciare a respirare.
Lei si aggrappa al tavolo su cui è poggiata l’ampolla e continua a fissare il foglietto, pallida.
Scuote la testa.
Chiude gli occhi, trae un grande respiro e annuncia il nome con voce tremante:
“Jena Nikyel.”
E’ sua figlia. Ha appena dodici anni.
Lascio andare un sospiro pesante. Non è un sospiro di sollievo.
Alla nostra sinistra, il gruppo delle donne si apre per far spazio alla piccola Jena che, sconvolta, si guarda attorno. Le si gonfiano gli occhi. Tira su con il naso per cercare di non piangere, ma quando muove il primo passo una lacrima le scorre lungo la guancia.
Mi volto di scatto verso Sherlock, che fissa la bambina con occhi preoccupati.
Improvvisamente penso all’anno scorso: non ho potuto fare niente per salvare mia moglie, ma posso fare qualcosa per salvare la vita di Jena. Non sono ancora svenuto, insomma, posso farcela.
Jena fa ancora qualche passo, esce dal gruppo e comincia a camminare nel corridoio che si è creato tra uomini e donne, verso il palco.
Sua madre sembra essersi congelata.
Sei stato in guerra, dr. Watson, non svenire.
Il battito accelera nel mio petto.
D’un tratto agisco, senza pensarci più: scosto con forza il ragazzo in piedi accanto a me, mi faccio largo tra la folla e mi piazzo in piedi in mezzo al corridoio.
“Prendete me” grido.
Jena si ferma davanti al palco, ma non si volta.
Tilla mi guarda, disperata.
Che sto facendo?
“Prendete me come tributo.”
Il silenzio che cala è allucinante. Ormai il danno è fatto. L’impulso è quello di voltarmi e guardare Sherlock negli occhi, ma non lo faccio. Se lo facessi mi convincerebbe a tornarmene al mio posto e non voglio farlo.
“Lei chi è?” chiede Tilla, muovendosi per la prima volta.
Deglutisco e prendo fiato:
“John Watson e mi sto offrendo volontario al posto di Jena.”
Tilla indietreggia di un passo, barcollando lievemente. A quel punto la ragazzina si volta e mi guarda: gli occhi rossi, un’espressione stupita.
“Io non ti conosco” balbetta da lontano.
Io le corro incontro, la prendo per le spalle e le sussurro:
“Non importa, va’ via di qui e mettiti al sicuro.”
Lei mi fissa sempre più speranzosa, ma non si muove.
Mi volto verso il Pacificatore più vicino, una delle guardie sotto al palco.
“Portatela via, forza! E’ permesso dal regolamento, no?”
Il Pacificatore esita per un istante. Poi Tilla, passandosi una mano sulla faccia, interviene:
“Sì, è permesso. Portate via Jena, per l’amor del Cielo.”
I Pacificatori prendono la ragazzina e la scortano fuori dal trambusto.
Io decido di muovermi, prima che Sherlock corra a prendermi di peso per portarmi a posto, e salgo gli scalini che mi portano sul palco. Mi fermo lì in mezzo ed osservo la folla che mi fissa esterrefatta.
Non ci penso.
Tilla riprende fiato, sfodera un sorriso falso e annuncia che sta per chiamare il nome del secondo tributo. Mentre affonda la mano nell’ampolla, scorgo Sherlock avanzare a passo deciso fuori dal gruppo, percorrere il corridoio e avvicinarsi al palco.
Due Pacificatori lo bloccano immediatamente, prendendolo per le braccia.
“Sherlock, no…” borbotto.
Sherlock si strattona e lancia un grido esasperato.
Tilla alza la testa e si blocca a metà con il secondo foglietto in mano. Sta succedendo tutto troppo in fretta, persino per lei.
“Portate quest’uomo al suo posto” sussurra. La voce ancora non le è tornata normale.
“Ah, neanche per idea!” esclama Sherlock, che, con un colpo secco, lascia andare una gomitata in faccia ad un Pacificatore e si libera dall’altro.
Si dirige a grandi passi verso il palco.
“Che stai facendo? Cosa diamine ti salta in mente?” gli chiedo, più arrabbiato che impaurito.
“Mi diverto.”
Il Pacificatore lo rincorre, lui sale sul palco correndo, mi supera e raggiunge Tilla.
Le strappa il foglietto di mano. Si passa una mano sulla bocca. Il sindaco fa segno al Pacificatore di lasciar perdere e di aspettare. In questo momento tutta Capitol City ci sta osservando.
Sherlock lo apre e legge il nome ad alta voce:
“Ryan Wilson.”
Alza il foglietto e lo mostra a tutti con un ampio giro del braccio.
“Chiunque tu sia, rimani esattamente dove sei. Ci vado io nell’arena al posto tuo.”
Si alza il brusio dalla folla, tutti si voltano a guardare un uomo anziano che nel frattempo è impallidito.
Il mondo mi crolla addosso. Reagisco come avrei reagito in guerra: lo afferro per il bavero della camicia e lo scuoto, preso dall’ira. Dal terrore. Dalla nausea.
“Sei diventato matto? Sherlock Holmes, io…”
Lui si libera con violenza dalla mia stretta e mi spinge lontano da sè. Siamo entrambi sconvolti.
“Io e te” grida, poi si avvicina a me, mi punta un dito in faccia, mentre io decido che la soluzione migliore è quella di trattenere il respiro, “solo noi, contro tutto il resto del mondo.”
 
 
 
 
Distretto 11
 
Amy Pond.
E’ assurdo.
Amy Pond.
Continuo a non capire.
Amy Pond.
Eppure il pubblico mi sta fissando. Eppure sono in piedi, in mezzo al palco, Cloe è accanto a me.
Tira vento, fa freddo. Rory, mi passi una coperta? No, Amy, non sei a casa. Sei stata nominata come tributo degli Hunger Games.
Amy Pond.
Cloe ha ripreso a parlare esuberante, da quando io ho piantato i miei piedi qui sopra e mi sono fermata. Continuo a sentire il mio nome nell’aria.
Credo di essere diventata un pezzo di legno.
“Rory…” sussurro, senza rendermene conto.
Cloe si zittisce. Si volta a guardarmi, con un enorme sorriso sulle labbra.
Si sporge lievemente verso di me.
“Come cara?”
Dice a me? Forse sì, ma non riesco a rispondere.
“Dicevi qualcosa?” insiste.
Alzo lo sguardo. Rory è in ginocchio ai piedi del palco, tenuto immobile da due Pacificatori.
“Stupido Rory…” sussurro ancora, questa volta con un mezzo sorriso.
Mentre io avanzavo verso il palco, lui si è fatto strada e mi ha raggiunta. Mi ha presa per le spalle e ha cominciato a dirmi che io non avrei dovuto muovere un passo. Che lui si sarebbe offerto volontario al posto mio e che non avrei dovuto preoccuparmi. Io gli ho tirato uno schiaffo.
Sonoro, ben piazzato.
Solo un’altra volta, nella mia vita, l’ho fatto. Ma oggi ho avuto le mie buone ragioni.
Trattenetelo” ho detto, non so con quale forza. Due Pacificatori sono intervenuti e l’hanno afferrato per le braccia.
Io sono salita sul palco e mi sono fermata esattamente nel punto in cui mi trovo adesso.
Rory ha scalciato quanto ha voluto, si è beccato un pugno in faccia e adesso è lì in ginocchio.
Quella è mia moglie!” ha gridato per qualche secondo, prima di ricevere un secondo pungo nel naso.
Lo osservo dall’alto della mia orrenda posizione.
Gli sorrido.
L’impensabile è appena successo. D’altra parte, non c’è mai stato niente di normale nella nostra vita.
“Procediamo!” la voce di Cloe mi riporta alla realtà.
Non piango.
Ah, non lo farò, no! C’è il Dottore , no? Se io non dovessi più tornare a casa, cosa assai probabile, il Dottore si prenderà cura di Rory, ne sono sicura.
Ricordo ancora il giorno in cui il Dottore divenne un abitante del Distretto 11 a tutti gli effetti.
Fu trovato dal sindaco mentre atterrava col TARDIS davanti a casa nostra.
Lo stupore sul suo volto lasciò presto spazio al nervosismo caratteristico del nostro sindaco: lo prese per un braccio e si fece aiutare da un Pacificatore per scortarlo in comune.
Le accuse erano parecchie: sosta vietata, proprietà privata violata, eccetera.
Ma il culmine dello stupore toccò il sindaco quando si rese conto di non aver nessuno col nome “Dottore” registrato alla sua anagrafe. In mezzo minuto fece fare una ricerca incrociata per scoprire se l’uomo misterioso proveniva da un altro distretto, ma i risultati parlavano chiaro: non esisteva nessun Dottore con la D maiuscola.
Il sindaco non impiegò più di mezzora a fargli compilare tutti i moduli e ad inserirlo nell’anagrafe.
Questo è il motivo per cui anche lui fa parte di questi giochi. Di questa tortura che sta uccidendo me e Rory.
E sa che se fosse assente al momento della sua nomina, qualcun altro potrebbe rimetterci le penne, e lui non lo permetterebbe mai.
Mi volto lentamente verso Cloe, sopraffatta dai ricordi.
Ha in mano il secondo biglietto.
Lo alza e lo mostra a tutti.
Poi, sorridendo, lo spiega.
E’ quando pronuncia il nome, che mi sento mancare.
“River Song.”
Mia figlia. E di Rory.
Io e mia figlia negli 85° Hunger Games, gettate in un’arena a combattere fino alla morte.
Avevo preso in considerazione l’idea che potesse essere pescato il nome di Rory Williams, o quello del Dottore. Addirittura avevo pensato al signor Pond. Ma non a River.
Lei si era fatta una vita, si era comprata una casa, nel distretto. Aveva tirato su tutto, lavorando e spaccandosi la schiena nei campi.
In un lampo mi passano davanti i momenti passati insieme: le cene, i pic nic, le giornate passate a lavorare nei campi insieme, le notti trascorse aspettando il ritorno del Dottore.
River, con un moto di angoscia soppresso, avanza a passi lenti verso il palco.
Guardo Rory: è a bocca aperta, scuote la testa e comincia a piangere sommessamente.
Cerco il Dottore con gli occhi e lo vedo, mentre si tira indietro i capelli con una mano.
“La mia famiglia…” Rory parla da sotto il palco e tutti lo sentiamo.
Dalle scale monta anche River, che mi guarda e poi si volta verso la folla.
“State distruggendo la mia famiglia!” Rory grida.
Con un gesto d’ira improvviso si libera dalla presa dei Pacificatori, si alza in piedi e corre sul palco.
Mi prende tra le braccia e mi stringe forte.
“Questo fa male” bisbiglio.
Mi cade una lacrima.
“Ti amo” dice concitato, mentre un Pacificatore sta salendo le scale.
Io tremo e non trovo la forza di rispondere.
Mi bacia prima che il Pacificatore lo costringa a voltarsi e gli lasci andare un terzo pungo, questa volta più forte. Rory cade a terra, stordito.
“No!” esclamo e mi getto su di lui.
“No, Rory, svegliati! Andiamo, stupido ragazzo, ti amo anch’io, lo sai? Ti amo!” grido tutto d’un fiato.
Perché non gliel’ho detto prima che svenisse? Lo bacio, ma non si sveglia.
River mi prende per un braccio, ma io mi scosto.
Mi gira la testa.
Sento le pelle della faccia terribilmente bagnata.
Sto piangendo. E sono perfettamente consapevole che tutta Capitol City ci sta osservando in diretta.
Mi metto una mano sulla bocca e improvvisamente mi rendo conto della situazione.
Il senso di vuoto e di gelo di poco prima è svanito e i miei sentimenti esplodono tutti insieme.
Grido e grido ancora. Prima il nome di Rory, poi quello di River.
Qualcuno mi prende per le spalle.
La realtà si fa confusa.
Mi sento afferrare per la vita. Le gambe cedono e mi ritrovo in braccio a qualcuno.
Quando mi giro scorgo il volto del Dottore.
Ansimo. Nessuno dei due parla.
Lui comincia a camminare e riesco solo a sentire la voce di Cloe che avverte i Pacificatori di lasciare che lui mi accompagni. Sono braccia amiche queste.
“Io…” provo a pronunciare qualche sillaba, ma mi manca il fiato.
Lui continua a camminare.
Sussurra un placido “shh” e mi da un bacio sulla fronte.
Poi il buio.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: il viaggio ***


Capitolo 3: il viaggio.
 
 
Sherlock è seduto immobile accanto a me.
Non ha aperto bocca dalla mietitura, questa mattina.
Lui non mi ha voluto nemmeno guardare negli occhi e io non pretendo che lo faccia.
Fisso fuori dal finestrino l’alternarsi dei colori in un’innaturale successione di strisce verdi, grigie, e ancora verdi. Siamo sul treno che ci sta portando a Capitol City.
Credo di avere ancora gli occhi gonfi, per cui sono grato a Sherlock di non avermi ancora rivolto uno sguardo.
Ho passato quattro ore a chiedermi come fosse stato possibile. Perché Sherlock si fosse gettato così a capofitto al mio fianco, pur sapendo che così uno dei due morirà sicuramente. E poi… Che cosa mi ha spinto ad offrirmi volontario al posto di Jena senza pensarci un secondo?
“Sei un soldato” la voce di Sherlock rompe la terribile monotonia del mio corso mentale.
Per la prima volta da quando siamo saliti sul treno, stacco lo sguardo da finestrino e lo rivolgo fuggevolmente a lui.
“Come?” chiedo, borbottando.
“Se ti stavi chiedendo come tu possa essere riuscito ad offrirti volontario al posto della bambina, la risposta è semplice: sei un soldato” dice, continuando a fissare davanti a sé.
Scuoto la testa. Vorrei chiedergli come ha fatto, ma mi limito a rispondere:
“Io ero un soldato.”
“Certe cose non si dimenticano.”
“Ci si prova, però” sospiro.
Ha ragione Sherlock, eppure, se ho dimostrato di avere tutto questo coraggio, perché adesso sto tremando?
Sposto lo sguardo sulla mano, la stringo e la riapro. La struscio sui pantaloni, per calmarmi, ma non si ferma. Questo clima gelido e impregnato di paura non è più nelle mie vene da anni. E stavo bene senza, sinceramente.  
Tilla fa il suo ingresso dalla porta automatica dello scompartimento. Indossa il solito vestito blu elettrico. Ha in mano un bicchiere vuoto. Si avvicina al tavolo sotto il finestrino, traballando lievemente e passandoci davanti senza degnarci di uno sguardo.
Io e Sherlock la seguiamo con gli occhi.
Apre una bottiglia di rum, o quel che è, e se ne versa un goccio. Un goccio molto lungo.
Beve in un sorso metà del liquido e appoggia il bicchiere sul tavolo con la mano instabile.
Poi crolla a sedere sulla poltroncina di fronte alla mia.
“Oh, ragazzi” esordisce, la voce stranamente roca.
Chissà quante volte gli sarà passata davanti l’immagine del nome di sua figlia, in queste ore.
“Deve…” comincia, poi socchiude gli occhi, li riapre e prova a ripartire:
“Deve arrivare il vostro mentore. Per cui fatevi trovare sorridenti e pronti.”
Pronuncia la frase in modo meccanico.
Noi rimaniamo in silenzio, lei ci squadra entrambi e scoppia a ridere.
Prima silenziosamente, poi rumorosamente.
Cerca di allungare la mano verso il bicchiere ancora pieno, ma io glielo allontano.
“Non mi sembra il caso” dico.
Lei smette di ridere di botto e mi fissa arrabbiata. Si alza in piedi, si accosta e mi mette una mano sul petto.
Si fa incredibilmente vicina e adesso riesco a sentire bene l’odore dell’alcool.
Cerco di voltarmi altrove, ma i suoi occhi sono fissi nei miei.
“Ascolta” mi sussurra, premendo sul mio petto, “se non fosse stato per te, io a quest’ora sarei a fare qualcosa di molto peggio che bere liquori. Quindi dovresti essere contento di vedermi sbronza, siamo d’accordo?”
La sua voce è profonda. Non riesco a rispondere: non capisco se è un ringraziamento per aver salvato la vita di sua figlia, o la dimostrazione del fastidio che le ho dato quando le ho tolto il rum da sotto il naso.
In quel momento qualcuno la prende dolcemente per le spalle e la trascina via da me, bisbigliandole qualcosa nell’orecchio.
Lei continua a guardarmi, ma lascia che il ragazzo la accompagni fuori dallo scompartimento.
Io sospiro pesantemente, mi tiro su e sistemo la camicia.
Sherlock mi guarda di sbieco e sorride.
Improvvisamente ci ritroviamo a ridacchiare entrambi.
Non so perché, la situazione non è stata comica, eppure ci viene spontaneo.
Il ragazzo che ha portato via Tilla rientra nello scompartimento, sospira e si mette a sedere.
Ci analizza entrambi e sorride:
“Ecco i due nuovi disgraziati.”
Sherlock fa sparire il sorriso dalla faccia e comincia a guardare in cagnesco il nostro mentore.
“Comunque piacere” dice lui, “Sono Finnick Odair e d’ora in poi mi odierete perché vi preparerò in ogni particolare per morire con quanta più dignità possibile.”
A queste parole noto che Sherlock cambia improvvisamente espressione, ma non so definirla.
“Tu sei John Watson, complimenti per il gesto” mi dice ed io annuisco. Credo che sia sincero.
“E tu devi essere…”
“Sherlock Holmes, l’unico consulente investigativo del Distretto 4 e con grande probabilità anche dell’intera Panem. So chi sei, hai vinto gli Hunger Games qualche anno fa, la signora Hudson ti adora. Dice che sei così umano.
Sherlock pronuncia quella parola con particolare disprezzo.
“Non ora…” sussurro, preparandomi al peggio.
Finnick rimane immobile ad osservarlo, con un mezzo sorriso sulle labbra.
“Beh, spero di potervelo dimostrare…”
Viene interrotto di nuovo da Sherlock:
“Ah, andiamo, chi è umano al giorno d’oggi? Io non sono umano, John non è umano, e se in questo momento esiste qualcuno di ancor meno umano di noi, quello sei tu.”
“Sherlock…” cerco di fermarlo.
Lui ride: “Oh no, no. Che stupido. Dimenticavo il motto dei mentori: devi piacere alla gente. E tu hai imparato a recitare la parte della vittima talmente bene che ti risulta quasi naturale. E dico quasi, perché in questo momento la tua sudorazione è aumentata, stai intrecciando le dita tra loro per trovare un espediente su cui attrarre la tua attenzione e toglierai lo sguardo dal mio viso tra tre, due, uno…”
Finnick distoglie lo sguardo e lo porta sulle dita.
Io guardo Sherlock incredulo, mentre lui si alza di scatto, si dirige verso la porta e se ne va.
“Sherlock!” lo chiamo, mi alzo per raggiungerlo.
Sono in piedi accanto a Finnick. Stringo le mani, poi mi rivolgo a lui:
“Mi dispiace, scusalo.”
Lui alza la mano in segno di diniego e sorride:
“Vallo a riprendere. Che gli piaccia o no, io sono anche il suo mentore e dobbiamo parlare.”
Annuisco e mi fiondo nello scompartimento accanto.
Cerco Sherlock per qualche vagone, fino a che non lo trovo disteso su un divano, le maniche della camicia tirate su fino ai gomiti, le mani congiunte sotto il mento e gli occhi chiusi.
Per un attimo penso al discorso da fargli. Mi viene in mente che potrei arrabbiarmi per il comportamento, oppure mostrarmi d’accordo con lui per non farlo innervosire ulteriormente.
Alla fine dico le prime parole sensate che mi vengono in mente:
“Se tu non sei umano, perché ti sei offerto volontario al posto del secondo tributo?”
Sherlock sembra immobilizzarsi ancora di più, se possibile.
“Quello è un altro discorso, di mezzo c’eri tu.”
“E non ti sembra un comportamento… umano?”
Sherlock non risponde e per un attimo penso che non lo farà mai.
 
 
**
 
 
Seeder sta girando il cucchiaino nella tazza di tè.
Probabilmente lo sta facendo da quindici minuti e io me ne accorgo solo ora.  
Non ho ancora alzato lo sguardo dal mio piatto colmo di fragole e cioccolato. Dovrebbero essere buone, è un mix di gusti che non ho mai assaggiato, nel Distretto 11.
Tristemente mi rendo conto che nella mia vita non ho fatto tante cose.
Andare in bicicletta sulle colline, portare di Dottore a fare un giro completo della zona… Mangiare fragole con cioccolato.
E non lo farò mai. Primo, perché adesso la fame proprio non ce l’ho; secondo, perché mi va bene se riesco a sopravvivere una quindicina di secondi, nell’arena.
“Vi siete un po’ riprese?”
Domanda Seeder, interrompendo la fluidità incontrastata del mio pessimismo.
Io alzo allora lo sguardo e mi ritrovo indecisa su dove posarlo. Sento gli occhi pesanti.
River sta guardando Seeder con aria assente.
“Tu che dici?” domanda mia figlia.
“Non lo so, dovete dirmelo voi.”
Nessuna delle due apre bocca, quindi lei prosegue:
“C’è stata della confusione, durante la mietitura. Adesso però dovete riprendere fiato.”
Mi scappa una risata di scherno. Che sia diretta a lei, che in questo momento sta parlando, o all’intero sistema di Capitol City, poco mi importa.
“Cosa c’è da ridere?” chiede, rivolgendomi uno sguardo irritato.
Io continuo a sorridere:
“C’è che se non rido, piango, e attualmente mi pare di aver già fatto la mia parte. Non ho bisogno di qualcuno che mi chieda come sto.”
Le parole escono dalla mia bocca come un fiume in piena e mi accorgo di averle pronunciate solo quando River mi chiama per nome e mette la sua mano sopra la mia.
Sospiro, la guardo e non dice niente. I suoi occhi mi sorridono.
Sono gli occhi di Rory.
Improvvisamente il volto di mio marito si sovrappone al suo e mi prende un attacco di panico.
Sottraggo la mano di scatto, comincio ad ansimare e allontano la sedia dal tavolo.
“Mamma…”
River che mi chiama così mi fa ancora più male.
Guardo fissa a terra e ansimo, con la bocca spalancata. Intanto Seeder afferra il mio bicchiere vuoto, lo riempie di gin e lo fa scivolare lungo il tavolo fino a farlo arrivare a me.
Dovrei pensarci? Al diavolo, lo afferro immediatamente e butto giù.
Per un secondo credo di soffocare e mi metto a tossire come se fosse la prima volta che mi faccio un goccio.
Seeder batte una mano sul tavolo, mentre River mi prende il bicchiere dalla mano e lo appoggia sul tavolo.
“Adesso vedi di tirare fuori i tuoi attributi, Pond, perché ne avrai bisogno. E mi dispiace dirtelo, ma sì, hai bisogno di qualcuno che ti chieda come stai.”
Respiro lentamente e conto fino a dieci prima di rispondere. Così le parole della nostra mentore mi scivolano lentamente nella mente e acquistano un senso.
Ha ragione, io ho bisogno di qualcuno che mi chieda cosa mi sta succedendo e che mi aiuti. Ma non voglio ammetterlo e non lo farò adesso, di fronte a mia figlia.
“Cosa dovremmo fare?”
Seeder sorride. Beve un sorso di tè dalla sua tazza e si sistema meglio sulla sedia.
Intanto io allungo una mano verso River, che la prende subito.
Da questo momento in poi la nostra mentore ci spiega nei dettagli cosa succederà una volta che il treno sarà arrivato a Capitol City: la preparazione per l’intervista, le sessioni degli allenamenti, la locazione dei nostri alloggi, e conclude con la lista dei partecipanti degli altri Distretti.
Accende un ologramma dall’altra parte del vagone in cui ci troviamo e cominciano a scorrere le immagini delle varie mietiture.
“Distretto 1: Wenna e Tyrion, entrambi giovani. Si sono addestrati per anni per questo momento. Sono temibili” comincia Seeder, passando in rassegna i nomi e le caratteristiche dei tributi.
Quando arriva al Distretto 4, l’ologramma della mietitura dura di più.
Sia io che River ci sporgiamo in avanti sulle sedie, quando vediamo il volto dell’annunciatrice del Distretto sbiancare. Una bambina si fa spazio tra la folla e poco dopo un uomo corre per offrirsi volontario al suo posto. La scena si svolge velocemente ed io riesco solo a notare il volto deciso e allo stesso tempo sconvolto dell’uomo che ha agito.
“Lei è Jena, la figlia di Tilla, ovvero l’annunciatrice del Distretto 4” spiega Seeder, “lui è John Watson. L’anno scorso è rimasto vedovo. La moglie fu estratta come partecipante agli 84° Hunger Games e fu uccisa da un nostro tributo.”
Sospiro pesantemente. Lui ha dato la vita per la bambina. E’ rimasto vedovo, come presto sarà Rory.
“E lui chi è?” chiede River, indicando un uomo alto dai capelli corvini, che si mette a correre verso il palco, sale e strappa dalle mani di Tilla il foglietto con il nome.
La scena è plateale. Anche quest’uomo si sta offrendo volontario, ancor prima di sapere chi è il secondo candidato. Lo sta facendo per… l’altro?
“Sherlock Holmes. Ama definirsi l’unico consulente investigativo di Panem. E probabilmente John Watson è l’unico amico che ha.”
Mi lascio andare sulla sedia.
“Non solo nel Distretto 11 c’è stata confusione” accenna Seeder, bloccando momentaneamente l’ologramma, “Capitol City è entusiasta, il presidente Snow un po’ meno. Troppa speranza, troppo cuore in queste due mietiture. Non sarà facile arrivare in fondo all’arena né per voi due, né per quelli del 4. Quindi statemi bene a sentire e fate come vi dico” fa ripartire l’ologramma e continua la lista.
Al termine dell’esposizione sento lo stomaco farsi minuscolo.
Se voglio sopravvivere devo uccidere quelle persone?
Io e River ci proteggeremo a vicenda, ma a che prezzo? Faremo fuori la ragazzina di undici anni del Distretto 6? Riusciremo ad avere la meglio sul giovane cacciatore del Distretto 12?
Tenendomi lo stomaco con una mano, mi alzo e cambio vagone.
Probabilmente Seeder mi sta richiamando indietro, ma io non mi volto. Quando sono nello scompartimento accanto, mi appoggio alla finestra e prendo a giocare con il mio anello di matrimonio.
Lo passo tra le mani, ricordando con un mezzo sorriso il giorno in cui io e Rory ci siamo sposati.
C’erano proprio tutti: parenti, amici, conoscenti. E il Dottore stropicciato era terribilmente in ritardo.
Ma quando arrivò si scatenò l’intera festa, ballammo fino a stare male.
Mi scappa una risata al ricordo dei movimenti strambi e improvvisati del Dottore mentre cercava di mettere in piedi un ballo sensato. In quel momento una lacrima cade proprio sull’anello. Non mi ero resa conto di stare piangendo.
Una mano si poggia sulla mia spalla.
Mi volto e incontro lo sguardo di River.
Sorrido quasi impacciata, infilo l’anello e cerco le parole giuste:
“Sai, avresti dovuto essere al nostro matrimonio. Il Dottore era così esuberante. Sareste stati una coppia perfetta…”
La mia voce finisce in un sussurro.
River mi abbraccia. Ci stringiamo forte per qualche secondo.
Quando ci stacchiamo, mi asciugo le lacrime e do un calcio lieve alla parete dello scompartimento.
“Perché quell’imbranato non si è offerto volontario al posto tuo?”
“Perché è il Dottore.”
“Già, e mio marito è Rory Pond, ha tentato di offrirsi volontario, ma io l’ho fermato. Perché il Dottore non ci ha nemmeno provato?”
“Sa che io avrei fatto lo stesso. Gli avrei impedito di entrare con te nell’arena.”
Annuisco, sbuffo e mi appoggio alla parete incrociando le braccia.
“Amy Pond, sul serio ancora non hai capito che tipo è?”
Io la guardo inarcando un sopracciglio.
“Lui non si è offerto al posto mio perché sa di essere molto più utile dall’esterno.”
“Che intendi?” La mia attenzione si fa acuta.
“Dove credi che sia stato per tutti questi mesi? Ha indagato, Amy, e l’ha fatto bene.”
Faccio per aprire bocca e chiedere di più, quando il treno entra in un tunnel, tutto si fa buio.
Siamo arrivati a destinazione.  

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Capitolo 4
*** Capitolo 4: Capitol City ***


Nota:
Ok, ok, è vero, sono in ritardo.
Chiedo umilmente venia, ma non ho potuto scrivere e pubblicare il tutto prima perchè sono stata fuori per tutta la settimana (vacanzina invernale ^^).

Spero di farmi perdonare con questo capitolo nuovo di zecca.
Comunque credo che questi saranno più o meno sempre i miei tempi di pubblicazione.
E, tanto per darvi qualche anticipazione, mi è venuta un'idea per l'arena.
Ma, come direbbe la nostra amica River, questo è SPOILER.
Ultima nota: nessun personaggio di questo capitolo mi appartiene, eccetto Tilla e Cloe.
Detto questo, buona lettura, "tributi wholockians"!






Capitolo 4:Capitol City
 
Gli alloggi dei tributi si trovano proprio di fronte alla pista della sfilata.
Adesso è vuota, ma gli spalti si stanno riempiendo lentamente.
Il nostro primo campo d’azione, qui a Capitol City, sarà esattamente quello: ci faranno salire a coppie sui carri, sfilare di fronte alla maggior parte della popolazione cittadina, sicuramente vestita con i più sgargianti colori che esistono, e fermare in pompa magna sotto il balcone del Presidente che, con grande onore e gloria, tesserà le lodi di ognuno di noi.
Ma non quest’anno.
Non so esattamente perché, ma sento che l’edizione di quest’anno sarà diversa.
Non credo che il mio presentimento si riferisca tanto al fatto che a partecipare siamo sia io che Sherlock, quanto all’idea di aver scombussolato notevolmente gli animi dei Capitolini.
In fondo, ed è un pensiero che ho sviluppato durante tutto il viaggio in compagnia di un silenziosissimo Sherlock, noi siamo il pretesto che spinge ancora più gente a stare incollata davanti agli schermi delle tv.
E più gente c’è, più il popolo e il Presidente stesso si aspettano da noi.
E più si aspettano, più le possibilità di deludere tutti aumentano.
Non che m’interessi far battere le mani alla gente di qui, ma m’interessa la sorte delle persone dei Distretti.
So che Panem ha sfiorato la rivolta una decina di anni fa.
Ricordo bene quei giorni.
Il Presidente Snow ricorse a qualsiasi sotterfugio per reprimere la scintilla e ci riuscì.
Adesso, la confusione che si è venuta a creare nel nostro Distretto e nel Distretto 11 ci mette in cattiva luce di fronte ai suoi occhi. E questo non mi piace.
“Ogni piano corrisponde al numero di Distretto dei tributi che vi vengono ospitati.”
Finnick ha ricominciato a parlare. Siamo in ascensore ed ancora una volta mi stacco a mala pena dal mio flusso di pensieri.
Preme il pulsante con su scritto “4” in azzurro e le porte di acciaio lucido si chiudono di scatto.
“Noi ovviamente andiamo al 4” conclude appena in tempo per vedere le porte che si spalancano su una sala enorme, completamente ammobiliata da ricchi divani, tavoli e sedie.
Notando la mia faccia costernata – sicuramente non quella di Sherlock, che è rimasto impassibile di fronte a tutto – Finnick sorride. Attraversiamo l’appartamento, mentre il nostro mentore ci spiega la disposizione delle stanze.
La sala da pranzo è rialzata di qualche gradino e situata in un gradevole soppalco che si affaccia proprio sulla pista della sfilata.
Potrei prendermi il tempo di apprezzare tutto questo, ma sono troppo impegnato a pensare a quanto trasudi ipocrisia da ogni angolo.
“Immagino che anche il Distretto 11 sia al piano corrispondente” dico, senza pensarci troppo.
Finnick si volta e alza un sopracciglio.
“Beh, sì. Certo.”
Probabilmente ha la tentazione di chiedermi perché mi interessa, ma non cede e ricomincia a camminare.
Mentre Sherlock mi guarda di sottecchi, Finnick si volta di nuovo, mi punta un dito contro e sorride.
“Un consiglio. E prima che tu lo dica, Sherlock, non è inutile.”
Sherlock chiude la bocca che aveva aperto nel tentativo di contraddirlo.
“Pensate a voi stessi. Almeno finchè non sarete al Centro di Allenamento. Lì potrete guardarvi intorno e pensare alle alleanze, adesso no.”
Faccio per replicare, ma Finnick agita il dito e si volta per continuare a mostrarci l’appartamento.
Sherlock mi rivolge uno sguardo contrariato, sembra quasi che i suoi occhi abbiano assunto la forma di due punti interrogativi.
Mentre siamo nel salotto intenti a far parlare Sherlock, le cui ultime parole sono state quelle pronunciate sul treno, Tilla fa il suo raggiante ingresso dall’ascensore.
Quando mi volto a guardarla, mi aspetto di leggere in lei la medesima costernazione e la soffocata disperazione che mi aveva quasi vomitato addosso sul treno. Ma non ne trovo traccia.
Tutt’altro: il suo volto è sorridente, si è cambiata d’abito e adesso indossa un vestito corto dalla forma di una bomboniera, color verde acqua.
I capelli colorati di azzurro sono lasciati cadere sulla schiena e sono tanto lunghi da sfiorarle i polpacci.
E’ una donna estremamente affascinante e me ne rendo conto solo adesso.
Quando entra, sventola la sua mano tatuata di bianco e chiede:
“Bene bene, il nostro Finnick vi ha mostrato l’appartamento?”
Finnick annuisce, mentre Sherlock si volta altrove, disgustato.
“Ottimo lavoro. Adesso tocca a me. Sedetevi tutti qui.”
Da due colpetti al divano di pelle e costringe tutti a mettersi a sedere.
Ora che la guardo meglio mi rendo conto che il sorriso è forzato. Certo, più naturale di quello sul treno, ma… quanto alcool c’è dietro?
Tilla comincia a parlare con voce squillante, sparando a raffica tutti gli impegni che abbiamo nei prossimi giorni: la visita dallo stilista, la preparazione alla sfilata, la sfilata stessa, gli allenamenti… E qui prende la parola di nuovo Finnick che ci illustra come cercare le alleanze, cosa dobbiamo fare per impressionare la commissione di strateghi ecc ecc.
La metà delle informazioni mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro, per cui sono estremamente sollevato di avere almeno un’ora a disposizione prima di essere catapultato con Sherlock dallo stilista.
Tilla e Finnick rimangono a parlare, mentre io mi rivolgo a Sherlock:
“Hai bisogno di qualcosa?”
Con una smorfia mi rendo conto che il mio tono è titubante.
Sherlock non risponde. Rimane immobile, a fissare, dalle grandi vetrate della sala, la città che scorre sotto i nostri piedi.
Mi avvicino, lievemente innervosito.
“Sto parlando con te, Sherlock. Hai bisogno di…”
Lui non muove un muscolo.
“… Qualcosa?”
Niente. Per tutta risposta, infila le mani nelle tasche del cappotto e se ne rimane immobile.
“Va bene… Va bene, lascia perdere.”
Giro sui tacchi e mi vado a chiudere nella mia stanza, determinato a passare l’ora di aria che ho lì dentro.
I miei pensieri sono stati interrotti troppe volte e, sebbene ancora non abbia realizzato di essere realmente entrato nel bel mezzo della preparazione ai giochi, ho bisogno di tempo per me stesso.
Mi siedo sul letto.
Sento il respiro che si fa affannoso.
Mi tolgo il maglione e apro il primo bottone della camicia. Mi manca l’aria. No, non adesso.
Non un attacco di panico. Comincio a voler tossire, ma non ci riesco e sento caldo.
E’ la sensazione peggiore. Credere di aver tutto sotto controllo, per poi rendermi conto di essere piombato nel panico senza accorgermene. Mi succedeva spesso in guerra e l’ultima volta che ho provato una sensazione simili è stato quando…
Mi ritrovo agonizzante per terra. Non riesco a respirare.
“Sherl…” provo a chiamare Sherlock, ma non ci riesco.
Ok, niente male, John Watson. Stasera la notizia sarà ovunque: muore tributo del Distretto 4 per attacco di panico. Si ripete la mietitura nel Distretto.
Cerco di aggrapparmi al pavimento, ma le mie unghie scivolano.
Tutto si fa sfuocato e non ne sono sicuro, ma credo di aver visto entrare Tilla di corsa. Adesso è vicina a me e sta chiamando qualcuno a gran voce. Io cerco di chiamare Sherlock, ma dalla mia bocca non esce alcun suono.
Chiudo gli occhi e quando li riapro non vedo nient’altro che nero. E buio.
Una voce conosciuta mi sussurra qualcosa all’orecchio:
“Insieme. Mai da soli, insieme. Andremo in quell’arena insieme.”
Sherlock…? Non capisco niente.
“Mantieni il contatto uditivo con me, John.”
Ma io crollo e per un momento penso che sia per sempre.
 
**
 
E’ tutto dannatamente perfetto.
Non c’è una macchia sul letto, non un graffio sul pavimento o sulle pareti.
Lo specchio è talmente lindo che mi viene il dubbio che lo rinnovino ogni anno.
E’ tutto troppo perfetto.
Tocco le coperte sotto di me, ci giocherello con le dita e lascio che lo sguardo si perda nel soffitto verde chiaro, che al momento mi sembra uno spazio senza fine.
Non riesco a smettere di pensare alle parole che River mi ha borbottato in pochi istanti sul treno.
Per poco non ho avuto la possibilità di chiederle di più e da quel momento siamo perennemente state divise, oppure insieme a noi c’è sempre stato qualcun altro.
Mi chiedo se, in ogni caso, sul treno avrebbe continuato il discorso, dato che entrambe siamo consapevoli dell’assillante presenza di telecamere in ogni singolo punto dei nostri alloggi, dei mezzi di trasporto e persino dei bagni.
In questo momento, per esempio, sono assolutamente certa che mi stiano osservando per verificare che non prenda un coltello e mi faccia fuori. O cose simili.
C’ho pensato, devo essere sincera, ma non l’ho considerata un’opzione tangibile.
Non è da Amelia Pond arrendersi senza aver lottato.
E’ come se la voce del Dottore mi risuonasse in testa e al momento mi fa solo piacere.
Rory è là, nel Distretto 11, con accanto il Dottore che probabilmente lo tiene per le spalle, mentre davanti a loro, in tv, passano e ripassano la scena delle mietiture.
Sono talmente Rory-dipendente, che quando qualcuno bussa alla porta della mia stanza, salto su come una molla e mi aspetto di veder sbucare il suo stupido muso da dietro lo stipite.
E invece entra Cloe, la nostra accompagnatrice, che, con un ampio sorriso fin troppo sincero, mi fa cenno di uscire.
“Dobbiamo andare, gli stilisti vi aspettano” dice, spalancando del tutto la porta.
La delusione di non vedere Rory è stata improvvisamente sostituita dalla bramosa voglia di sapere del Dottore quello che River sa, ma che non ha modo di dirmi.
Scendo dal letto tanto in fretta che si direbbe abbia voglia di prepararmi per la sfilata.
“Bene, adoro le persone scattanti!”
Cloe fa eco ai miei pensieri.
Una volta fuori dalla stanza, raggiungiamo River e Seeder che ci aspettano per accompagnarci ai piani inferiori. Io e mia figlia lasciamo che le altre ci mostrino la strada e intanto mi sporgo verso un suo orecchio:
“Devo saperne di più sul Dottore.”
River si guarda intorno e rimane immobile quando Seeder si volta a guardarci.
“Non adesso.”
Cloe ci spinge entrambe nell’ascensore e, quando siamo dentro, bisbiglio di nuovo:
“Dobbiamo trovare il modo. Che cosa sai tu che io non so?”
Cala il silenzio e io mi zittisco.
“Come siete taciturne, ragazze” osserva Cloe, con il piglio di chi si aspetterebbe gioia ed entusiasmo da dei condannati a morte.
River si schiarisce la voce e, giusto in tempo, Seeder e Cloe ricominciano a parlare animatamente.
“Troveremo il luogo, ma adesso non posso dirti niente.”
“Il luogo sarà l’arena?” replico seccata.
“No. Ma tutto il resto adesso è SPOILER.”
Faccio una smorfia.
“Non vi sopporto. Tu e tuo marito. E’ tutto uno SPOILER per voi.”
River non ha nemmeno il tempo di aprire bocca, che l’ascensore si ferma di botto facendo perdere a tutti l’equilibrio. Io mi attacco alla maniglia per non cadere e, fortunatamente, nessuno si fa male.
“Che diavolo è successo?” mi esce spontaneo.
Cloe fa un gesto acrobatico per rimettersi al posto giusto il vestito e si sporge dalla parete di vetro alla sua destra.
“Non capisco, siamo ferme al quarto piano.”
Seeder allunga un dito verso i bottoni e spinge il tasto “0”, ma non ci muoviamo di un millimetro.
Prova ripetutamente, ma non succede niente.
In quel momento si sentono due forti colpi dall’altra parte delle porte chiuse.
Silenzio.
Poi altri due colpi violenti.
“C’è qualcuno che cerca di entrare” dice River.
Seeder si sporge verso la porta, l’afferra all’estremità e si sforza per aprirla.
Dopo pochissimi secondi, le porte si spalancano e una voce femminile irrompe con tutta la sua forza dal quarto piano.
“Giuro che se tiri di nuovo dei colpi all’ascensore chiamo la sicurezza!”
In un attimo veniamo inondati dalla luce dell’appartamento del Distretto 4.
Due uomini stanno tenendo tra le mani una barella probabilmente rimediata sul momento da uno stanzino dell’appartamento e sopra di essa è disteso un uomo che si rivolta come un calzino in preda a spasmi che non riesco a definire.
La donna rimane impalata con i capelli che le arrivano ai polpacci e di colpo li riconosco quasi tutti: i tributi del 4 e i loro accompagnatori. L’uomo sulla barella è quello che si è offerto volontario al posto di Jena, la figlia di Tilla.
Non ho il tempo di formulare un pensiero coerente: l’uomo alto col cappotto entra con forza all’interno dell’ascensore, seguito dal giovane coi capelli rossi, e noi ci ritroviamo a spiaccicarci contro la parete di vetro per far spazio agli infermieri improvvisati.
Cloe tenta di farsi sentire:
“No, no! Che state facendo?”
“Stiamo salvando un uomo, se non le dispiace” interviene il ragazzo con i capelli rossi.
“Ma non-”
“Ah, al diavolo!” grida l’uomo col cappotto. L’espressione di chi non ascolta prediche, “Non me ne importa niente di quel che è legale e di quel che non lo è! Se avessi tempo avrei qualche parola a riguardo della legalità in questo posto, ma siccome non ce l’ho, non ho intenzione di sprecare questi pochi secondi per dire cose che già tutti sanno, ma che nessuno dice!”
La sua velocissima e decisa invettiva mi lascia un attimo a bocca aperta.
E’ esattamente il tipo di uomo che mi ero aspettata dal video della mietitura, eppure da vivo fa un altro effetto. Per un terribile attimo mi rendo conto che è temibile.
Con uno scatto secco si volta e preme il pulsante “0”. L’ascensore riparte a tutta velocità con un sussulto poco piacevole.
“Cosa gli è successo?” chiede Seeder, approfittando dell’attimo di silenzio.
L’uomo dai capelli neri rotea gli occhi: “Non è ovvio? Ha avuto un attacco di panico e questa non è la sede per parlarne.”
In quel momento l’ascensore arriva al piano terra e tutti loro scendono per primi correndo come dei folli alla ricerca di qualcuno che li ascolti.
Io e River usciamo dall’ascensore per ultime, completamente costernate da quello che è appena successo.
Non appena vedo persone col camice bianco avvicinarsi alla barella e trasferire l’uomo su un letto con le rotelle, mi viene l’impulso di seguirlo per vedere coma va a finire.
Come mi avvicino, il tizio coi capelli neri si volta verso di me e mi spinge via con una mano.
“Come sta? Voglio…”
“No!” grida, “Che te ne importa? Tanto ci uccideremo tutti a vicenda nell’arena, ti importa davvero di sapere come sta?”
Rimango a fissarlo, mentre i suoi occhi spalancati mi esaminano per poi voltarsi verso l’uomo sul lettino e corrergli dietro.
Improvvisamente ricordo i loro nomi.
Sherlock Holmes, il tizio col cappotto.
John Watson, l’uomo con l’attacco di panico.
“Mi importa…” dico, quasi sussurrando. Ma Sherlock Holmes sicuramente non mi ha sentita.
River mi si avvicina, mentre rimango ad osservare il gruppo sparire al di là di una porta.

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