Desidero solo che qualcuno mi salvi.

di La figlia di Ade
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** L'inizio. ***


Il silenzio del corridoio ci accompagna. Il viaggio del mio racconto mi freme sulle labbra, aspettando solo me per partire;
‘Prima di iniziare, vorrei spiegarti una cosa: la storia che ti sto per raccontare sarà una cosa che deve rimanere tra noi due. Appena finirò questa dovrà morire tra i tuoi pensieri e mai nessun essere che respira dovrà conoscerla. Ok?’ Raccomando.
‘Giuro che la dimenticherò subito dopo la fine.’
‘Questa non è la classica storia d’amore e voglio che sia ben chiaro.’
‘Va bene.’
‘Mi fido.’
‘Inizia...’
‘Questa non è la tipica fiaba che inizia con un “C’era una volta” e finisce con un “E vissero tutti felici e contenti”. Solo il tempo potrà constatare la vera fine, perché ancora non ce l’ha. Questa è la storia scritta nella mia mente, che parla della mia vita e, in particolar modo, di quando inizia a capire che potevo davvero viverla.
Sono nata in un piccolo paese, dove ho vissuto gli anni della mia prigionia. Voglio spiegare però che la mia prigionia non consisteva in sbarre, bensì nei miei genitori. Ho spesso subito violenze soprattutto da mia madre che si ubriacava molto frequentemente.
“Adelaide, come ti sei fatta quei lividi?”
“Sono caduta.” Rispondevo. Ho conosciuto poche volte la verità e questo mi ha segnata molto. Ma non desidero parlare di questo, ma di ben altro. Voglio parlare della prima volta in cui lui si manifestò davanti a me...’
‘Manifestò?’ Mi interrompe;
‘Non interrompere!’
‘Continua...’
‘Dicevo; voglio parlare della prima volta in cui lui si manifestò davanti a me. Avevo solo sette anni e avevo ancora l’ignoranza infantile che mi  permetteva di avere un’immaginazione molto vasta, ma mai mi sarei aspettata di vedere una cosa simile. Quella sera il tramonto era ancora vivo in cielo e gli uccelli già addormentati. Mia madre arrivò nella mia camera con un odore acre di alcol e tristezza e si mise a ringhiare.
“Hai per caso toccato i miei vestiti?”
“No, non sono entrata in camera tua. Magari per sbaglio gli hai toccati tu e non te lo ricordi...” E non sarebbe stata la prima volta, ma lei non ne volle sentire;
“Mi stai per caso dando della bugiarda?”
“Non mi permetterei mai...”
Lei fu così irritata da saltarmi addosso e picchiarmi così forte da lasciarmi dolorante a terra, con le mani sulla bocca per essere certa che l’anima non scappasse via. Ma non fu la visione di mia madre che perde il controllo la cosa che mi scandalizzò parecchio, ma ben altro. Quella stessa sera, dopo essermi alzata da terra e poi essermi seduta sul letto per piangere in silenzio, successe una cosa che mi fece trasalire. Sentivo le lacrime solleticarmi il viso, ma ogni volta che una nuova lacrima nasceva dai miei occhi si faceva sempre più tiepida e densa. Mi misi le mani sulle guance bianche per vedere che cosa stesse succedendo e solo allora notai che quelle che sembravano semplici lacrime, iniziarono a diventare rosse e pian piano arrivarono sempre più alla colorazione del sangue. Per un secondo pensai di essere ferita, ma i colpi subiti non erano stati abbastanza forti da poter farmi sanguinare. Allora capii che le stavo piangendo lacrime di sangue. Ma, non ebbi il tempo di urlare che gli arti si bloccarono e le dita iniziarono a contorcersi. Sentii una strana nausea e paura che mi trafiggeva lo stomaco. Alzai gli occhi e vidi crescere davanti a me un’ombra scura e con gli occhi sanguigni. Portava un sorriso beffardo sol volto scuro e un’aria abbastanza sicura. Piansi più forte mentre le urla mi si bloccavano in gola. Svariati lamenti e versi inondavano l’aria e l’unica cosa che riuscii a sentire fu: “Sei mia.’”
Poco dopo l’anima cacciò un urlo animale e scomparve in un fuoco ardente e io finalmente riuscii a muovermi.
Quella fu la prima volta in cui mi parlò, ma non l’ultima, perché sarebbe successo anche anni dopo, ma adesso non voglio subito parlare di quello, meglio vorrei parlare di altri eventi che ebbero tale impatto da far si che io abbia una storia da raccontare.
Avevo dodici anni e un ammasso di capelli biondi quando conobbi quella che sarebbe stata la mia migliore amica. In quegli anni giravo tra i corridoi delle medie con discreta bellezza e in modo molto solitario. Ero diversa dalle altre, mi piaceva spesso definirmi come una farfalla tra i rospi: tanto bella quanto fragile. Nonostante questo, mi sentivo una delle persone più insicure al mondo, fino a quando non conobbi Beatrice e quella insicurezza si attenuò in modo incisivo.
La incontrai nel giardino della scuola, mentre delle ragazze le stavano per mettere le mani addosso. Lei fingeva indifferenza, mentre i suoi occhi non riuscivano a mentire, fino a quando non si riempirono di lacrime il tanto che bastasse per rendere il suo viso di un colore pallido che, in seguito, venne invaso di lacrime. Di fianco a quella scena solo pochi ebbero il coraggio di avvicinarsi ma senza fare niente. Le mani iniziarono a tremarmi e la fragilità di quella ragazza mi colpì al cuore, per un secondo vidi il buio e in quello dopo mi ritrovai coi pugni stretti a sbraitare a quelle ochette. Quelle erano le classiche ragazze che giravano per i corridoi con vestiti succinti, trucco a palate e giravano per i le strade come se fossero in una continua sfilata. Una di loro si voltò verso di me, mi squadrò da capo a piedi e poi mi si avvicinò seguita da altre. Trasalii alla visione di quelle ringhianti bambole che mi alitavano sul viso con occhi di fuoco, non feci in tempo a muovermi che mi buttarono a terra con una sola spinta. Alla mia caduta una nuvola di polvere mi avvolse e sentii che in quel momento sarei potuta morire. Ma a mia sorpresa sentii una voce che mi venne in salvo proprio quando le mie speranze erano poche. Ci misi qualche istante per capire che quello era Riccardo Maggio.
Fin dalla prima media è stato il ragazzo più richiesto, ammirato e desiderato. Riusciva a spezzarti il cuore con un solo sorriso. E adesso, mi stava allungando la mano per portarmi via, mentre dice: “Lasciatele stare”. Rimasi scossa, ma non potei fare a meno di stringere le sue morbide mani e poi farmi lasciare in piedi, sola con Beatrice a guardarlo andarsene con le ochette che gli ronzavano intorno. Qualche secondo dopo mi si avvicinò Beatrice e mi diede un abbraccio così forte da farmi piangere, perché quello fu il mio primo abbraccio.
Diventammo amiche dal nulla, niente dichiarazioni ma solo dimostrazioni. Capii di non essere l’unica incasinata su questo pianeta e per quanto fosse consolante non migliorò la cosa, anche se un poco la alleviò. Trascorsi molte giornate con lei, molte notti insonni a chiacchierare e tante altre cose, che mi resero meno triste e finalmente non mi sentii più sola.
Lei aveva la mia età, ma stava in un’altra classe. Era alta, portava i capelli castani raccolti in uno chignon e indossava spesso vestiti scuri. Forse per sembrare più magra. È sempre stata paffutella ma, nonostante questo, i suoi occhi verdi rispecchiavano la leggerezza pura. Un soffio di liberta si celava nel suo sorriso, questo mi attirava, mi faceva sperare in cose impossibili.
Dalla volta che la incontrai, delle cose cambiarono: svariati ragazzi iniziarono a cercarmi, a dirmi che sono bella e che sono stata coraggiosa ad affrontare quelle streghe. Iniziai a credere nelle stelle cadenti e negli abbracci, tutto sembrava andare per il verso giusto, come se finalmente fossi in un sogno eterno.
Era Marzo, l’aria era fresca e il sole tiepido. Camminavo guardandomi le scarpe e cercando di toccare il vento con le dita. Sfioravo cancelli, rami, piante, mentre mi dirigevo verso casa di Beatrice. Portavo una conchiglia appesa al collo, presa dall’ultimo viaggio di Bea. Mi raccontava spesso di quanto amasse i nuovi posti e mi promise che un giorno mi avrebbe portato in Brasile. Ti piacerà, diceva. Ricordo quella sera perfettamente. D’un tratto mi sbattei in qualcosa, ebbi un sussulto ed è come se mi fossi appena risvegliata da un sogno. “Scusami.” Disse una voce. Ci misi qualche secondo ad individuare la provenienza e appena vidi chi era cacciai un sospiro. Era Riccardo Maggio. “È colpa mia.” Riuscii solo a dire. Lui mi guardò dubbioso e poi fece un sorriso. “Tu sei quella che ho salvato da una morte lenta e dolorosa. Giusto?”
“Come?”
“Qualche mese fa. Delle ragazze ti avevano buttato a terra perché avevi difeso una tua amica.”
“Ah, ho capito. – Sorrisi- Comunque, sono Adelaide.”
“Lo so chi sei. Invece io sono...”
“Riccardo Maggio, lo so chi sei.” Lo interruppi;
“Che ci fai in questa zona?”
“Sto andando da quella mia amica che ho difeso qualche mese fa.”
“Sei di fretta?”
“No, in realtà sono anche in anticipo. Perché?”
“Sento che devo portarti in un posto.”
Il viaggio fu silenzioso, ma di quel silenzio che viene colmato con gli sguardi; così limpido da sentire i pensieri uscire ogni battito di ciglia.
Rimasi incantata dalla visione di quel luogo. Una casa si imponeva maestosa in un piccolo giardino. Le mura scolorite e le arrampicanti che salivano verso le finestre rotte non rovinavano la sua bellezza. Un bosco riempiva il retro della villa, soffocando vistosamente una collina. Una piccola fontana, sporca e ferma, ornava il giardino riempiendo il luogo di mistero. “Villa Atena.” Mi sussurrò Riccardo, mentre indicava un cartello appeso al cancello arrugginito.
“Cos’è questo posto?” Risposi sempre sussurrando e cercando di non rompere quel magico silenzio;
“È una Villa del periodo Elisabettiano. Ci abitava una vecchia famiglia ricca.”
“Perché non la usano come museo?”
“Troppo desolata. Il comune ha preso le cose di valore e poi si è dimenticato l’esistenza di questa meraviglia.”
“È una cosa triste.”
“Non tanto, adesso questo è un posto per i sognatori. I miei genitori mi hanno scoperto, questo non è più luogo per me... ma può esserlo per te.”
Mi mostrava fiducia come se fossi l’unica persona che conoscesse, ma così non era, perché lui non mi conosceva e mai avrebbe potuto conoscermi.
Potei solo sorridere dopo quel dono inaspettato e lui poté solo baciarmi dopo un sorriso così radioso. Fu un bacio puro, senza amore ma con abbastanza spontaneità da renderlo magico. Mi guardò con i suoi grandi occhi nocciola e tutto si fece più veloce, dovetti correre da Beatrice, ero in ritardo.
Appena arrivai, Nadia, la madre di Bea, mi accolse con vari dolcetti e stuzzichini e nonostante la fame dovetti rifiutare tutto per la fretta di raccontare l’accaduto alla mia amica.
“Scusami se sono in ritardo.” Dissi ancora un po’ imbambolata;
“In genere sei in anticipo. Che è successo?”
Le raccontai l’accaduto e lei rimase con gli occhi persi nel vuoto per qualche secondo.
“Tu e Riccardo Maggio... vi siete baciati!”
“Già!”
“Com’è stato?”
“Tipo una favola...”
“Wow. Quindi adesso state insieme?”
“Non ne ho idea. Domani glielo chiederò.”
In realtà, non capitò mai l’occasione in cui io potei davvero dirglielo, perché al mio rientro a casa trovai mio padre e mia madre ad aspettarmi. Lui stava in piedi, con le robuste braccia incrociate e gli occhi azzurri intenti a percepire ogni mia singola mossa. Invece mia madre stava seduta a mordicchiarsi le unghie con gli occhi rivolti verso il basso.
“Che succede?” Mi venne spontaneo dire;
“Abbiamo trovato questi..” Annunciò mio padre mentre mi mostro, scaraventando a terra, una serie di fogli.
“Le lettere dei miei ammiratori. – Dissi sconvolta- Dove le avete trovate?”
“In camera tua, nascoste.” Rispose mia madre, con ancora lo sguardo basso;
“Mi...” Non feci in tempo a parlare che già una manata di mio padre, Giulio, si stampo perfettamente sulla mia guancia, facendomi cadere a terra e sanguinare il naso. Alzai lo sguardo verso mia madre, in richiesta di aiuto, ma l’unica volta che mi guardò fu per darmi un forte calcio sullo stomaco e poi lasciarmi lì, a soffrire.
La mattina dopo Giulio mi avvertì: “Tu non dovrai sentirti con nessuno, non dovrai uscire con nessuno e tantomeno piacere a qualcuno. Sono stato chiaro?”
“Sì.” Non ebbi il coraggio di controbattere o di rifiutarmi, nonostante il bacio, i bei momenti ed il suo sorriso. Non potevo nemmeno avere una relazione nascosta, perché loro l’avrebbero saputo ed io sarei finita per essere uccisa con tale violenza che non mi avrebbero nemmeno riconosciuto. Non scherzo.
“Non possiamo più sentirci.” Dissi cercando di nascondere le mie lacrime tra degli occhiali da sole;
“Come?” Disse lui con lo sguardo di un cane infuriato a cui avevano sottratto un osso;
“Sai... i miei genitori non vogliono.”
“E fregatene! Stiamo insieme comunque, senza nessuno che lo sappia. Contro la corrente di chi ci vuole male. Io ti desidero con tutte le mie forze. Sarà il segreto mio e tuo... il nostro segreto.”
“Non posso... davvero.”
“Hai paura?”
“Davvero tanta.”
“Che bambina.”
“Ma tu non capisci... i miei genitori...” Non feci in tempo a finire la frase;
“Lo sapevo. Tu sei solo una bambina!” Scappò via, lasciandomi l’amaro in bocca e senza farmi spiegare la situazione che c’era tra me e i miei genitori. Ma tanto lo so, non sarei mai riuscita a dirglielo perché le parole mi si erano già bloccate in gola, soffocandomi.
Da quel giorno non ci parlammo più, non ebbi nemmeno più il coraggio di guardarlo negli occhi. Tutti iniziarono a prendermi in giro a suo comando, a sputarmi addosso e ad usare insulti pesanti e io non ho mai saputo perché e cosa avesse mai detto Riccardo alle persone per farmi fare tutto questo.
Passai un giorno così triste da non riuscire a piangere, i miei stessi singhiozzii mi facevano impazzire. Tutti iniziarono a prendermi a colpi, ad insultarmi e a trattarmi come se non valessi niente, come se fossi uno scarto della società; ma in tutta sincerità, mi sentivo come tale. Riccardo rideva appena mi vedeva e mi indicava. Non penso abbia mai raccontato del nostro bacio, delle risate e dei segreti. Creò una barriera dove nascondersi e ordinare alla gente la mia condanna.
Rientrai a casa, e dopo i soliti maltrattamenti, corsi in camera mia. Ero arrabbiata, tremolante e avevo una ferita tale al cuore che non ero sicura che si sarebbe rimarginata. Strinsi i denti e iniziai a ringhiare, cercando di far diminuire le mia rabbia ma ebbi l’effetto contrario. Riccardo, Beatrice, le persone, me stessa... nessuno aveva il coraggio di proteggermi, perché sentivo di non valere niente.
Con la schiena curva e passo veloce mi introdussi nel bagno, mi guardai allo specchio e fissai la mia figura per un lungo tempo. Chi era quella? Non ero io. Non mi sentivo nel mio corpo... non mi piacevo, anzi, mi odiavo. A quel punto iniziai a piangere davvero, a piangere tanto e senza sosta. E fu come se le mani fossero una cosa a se, come se fossero staccate dal corpo, e senza il mio volere, iniziarono a frugare tra i cassetti. Il tremolio iniziò a diventare insostenibile, alcuni oggetti caddero e cominciai a tastare le cose per terra, come se solo la mia mente sapesse cosa cercare. Alla fine mi bloccai, feci un lungo respiro e presi un vecchio rasoio di mio padre e sbattendolo a terra lo ruppi. Mi sedetti a terra, con una lametta in mano e gli occhi gonfi di tristezza e un peso tale che le mie giovani spalle non riuscivano a stare dritte. Non ci pensai, chiusi gli occhi e passai la lametta, con mano ferma, sul polso. Uno, due, tre... arrivai a sette, sette tagli. Rimasi appoggiata al muro, con il braccio grondante di sangue e gli occhi chiusi. Non beccai vene principali o cose simili e riuscii a nascondere tutto sotto delle lunghe maniche. Non ebbi il coraggio di raccontare nulla, però, ebbi comunque il coraggio di farlo ancora, spesso.
Una nuova oscurità si impossesso del mio stomaco, dei miei arti e del mio cuore. Tutto sembrava insensato, triste e non ebbi mai il coraggio di mostrarlo in pubblico. Mi tagliavo una volta al giorno, ogni sera, per stare bene per qualche secondo... anche se poi, in realtà, stavo peggio. Non vedevo più un cuore per amare, una mente per ricordare e uno stomaco per sentire le farfalle, adesso vedevo solo un ammasso di budella scure, ed erano l’unica ragione per cui vivevo ancora.
Non so come, né perché, ma il mondo mi cadde addosso; non tanto per Riccardo, ma più per  la sofferenza subita tutta assieme. Ma l’unica che riusciva a notarlo era Beatrice:
“Cos’hai?” Mi chiedeva;
“Vorrei solo smettere di soffrire. E’ come se il destino volesse che io soffra. Dentro provo una sensazione di morte atroce che mi mangia viva, ma non succede mai... ancora non sono morta, anche se lo vorrei tanto.” Desideravo risponde, ma l’unica cosa che usciva dalle mie labbra era un freddo e insipido: “Nulla”.
Ma era come se mi leggesse nella mente, come se io e lei fossimo la stessa persona:
“È come se tu fossi sempre stata destinata ad essere la farfalla tra i rospi: tanto bella quanto fragile.” Mi ripeteva.
Passai svariato tempo in questo modo, ma arrivò un giorno, uno di quelli diversi, uno di quelli felici... Perché quel giorno venne mia zia, Noemi. È la sorella di mia madre, la sorella più bella.
Suonò alla porta e appena mia madre aprì cacciò un urlo.
“Che ci fai qui?” Le gridò;
“Sono venuta a farvi visita, per una sorpresa. Ci sto solo un paio di giorni.”
“E chi ti ha invitato?”
“Tu... tanti anni fa. Prima di quel giorno.” In effetti era vero.
In realtà erano anni che le due non si vedevano o parlavano. In precedenza avevano litigato per gelosie e cose simili, ma mia zia ha sempre cercato di essere buona e gentile con mia madre. Una volta, però, capitò che persero entrambe e ebbero una discussione paragonabile alla prossima terza guerra mondiale. Non si parlarono fino a questo momento, e deve essere che mia zia abbia avuto un attacco di sensi di colpa.
Quando sorpassò la soglia della porta, invase la stanza con il suo profumo e il suo sorriso.
“Ciao Giulio” Salutò mio padre, che rispose con un cenno del capo. Poi si voltò verso di me, sorrise e disse:
“Ciao Adelaide, come sei cresciuta. Ormai sei diventata una signorina stupenda.” Era sincera.
Notai solo a cena la gelosia di mia madre nei confronti di Noemi, quando lei uscì dalla sua stanza, vestita bene e con del leggero trucco che gli evidenziava il grigio degli occhi.
C’era un tale silenzio da fare impressione, ma alla fine venne spezzato da Noemi, che volle fare un annuncio:
“Allora, mi voglio scusare per non essere stata molto presente, soprattutto con Adelaide. Mi dispiace davvero. Ma per farmi perdonare ho deciso di farle un regalo...”
“Non abbiamo bisogno di queste corruzioni.” La interrupe mio padre, bruscamente;
“No, no, no. Non voglio che sia inteso in questo modo. Io questo dono lo definirei come il regalo per tutti i compleanni saltati.” Dalla sua borsa tolse un pacco incartocciato con un foglio di giornale. Lo presi in mano e ringraziai. Poi, iniziai a passere l’indice su ogni angolo di quel rettangolo, cercando di sentire il so contenuto; e, ad un certo punto, sentii qualcosa di strano, di forte e coinvolgente che veniva emanato da sotto il giornale. Iniziai a respirare quella sensazione e aspettai un attimo prima di scartarlo e alla fine, rimasi felicemente sorpresa dal contenuto: era un libro. E, a quel punto, capii che le sensazione che riuscivo a sentire erano semplicemente l’anima dello scrittore.
“È il mio libro preferito.- mi spiegò lei- ci tengo particolarmente, ma voglio che lo abbia tu.” Ma, ovviamente, ad interrompere quel bel momento ci voleva mio padre:
“Le hai preso un libro?” Disse sconvolto;
“Sì, mi è sembrata una buona idea.” Rispose in tutta tranquillità;
“Io lo apprezzo.” Volli aggiungere;
“Perché non vi piace il mio regalo?” Chiese Noemi;
“Perché Adelaide è tonta.” Finì la discussione mio padre.
Io rimasi zitta, a testa bassa, vergognandomi soprattutto di me stessa. Mia zia mi guardò e vedendomi stanca e spossata, come se quella volta non fosse la prima, urlò senza respirare, cercando spiegazioni, ma non trovandole. Poi, mi prese per il polso e mi portò in camera mia, la guardai negli occhi: piangeva, piangeva tantissimo.
“Adelaide, - Le tremava la voce- non è la prima volta che te lo dicono, vero?” Non risposi, non riuscivo a parlare e nemmeno a piangere.
“Adelaide, ti prego... rispondimi!” Continuavo il mio silenzio senza riuscire a guardare le sue lacrime. Alla fine, dopo svariati tentativi, se ne andò, lasciandomi solo un segno di rossetto sulla pelle bianca, ma poi anche quello si cancellò con le lacrime, che finalmente uscirono. Rimasi sola.
Sì, quella notte mi tagliai.
Ma sai cosa successe poi?
Qualcosa cambiò, perché quella volta fu l’ultima. Iniziai a leggere, ogni sera, tantissimo. Questo mi cambiò, mi fece più forte e smisi, riuscii a smettere con la buona volontà.
La buona volontà è la dote dei deboli. Perché, devi sapere, che se sei fragile e, come me, lotti ogni giorno per sentirti te stesso quel minimo indispensabile, per riuscire a non spararti una pallottola in fronte; capisci che la buona volontà è l’unica che ti permette di avere una luce in fondo al tunnel.
Con i libri riuscivo ad avere un mondo diverso da vivere.
I tagli divennero cicatrici. Quelle rimangono, ma solo per ricordarti che quel dolore fa parte del passato. Ovviamente, i miei genitori non cambiarono, nemmeno la mia situazione sociale e cose simili, ma riuscii a digerire il tutto in modo più efficace.
Anche se il cambiamento  più importante capitò un paio di giorni prima del mio sedicesimo compleanno e quell’avvenimento è la base della mia storia.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Accadde una sera d’inverno. Fuori la neve scendeva lenta e informe, ricoprendo il mio umile paese sotto uno strato protettivo. Leggevo tranquilla, rannicchiata sotto delle soffici lenzuola, come se il mondo intorno a me non esistesse, riuscivo a vedere solo le parole nere, scritte su fogli bianchi.
Dovrei, però, dire un paio di cose prima di continuare.’
‘Certo, dimmi.’
‘Quei giorni non erano come tutti gli altri. Perché più si avvicinava il mio compleanno e più mi sentivo strana, come... perseguitata. Capisci? Mi sono ritrovata anche a scappare da chissà che cosa, nel cuore della notte.
Comunque, d’un tratto, iniziai a sentire tipo dei battiti, provenire dal soffitto. Si facevano sempre più forti fino a cessare di botto. Appena alzai lo sguardo, per vedere cosa stava succedendo, sentii gli arti bloccarti. Un brivido mi percorse la schiena, fino ad arrivare alla dita, mi cadde il libro. Non riuscivo a muovermi. Un dolore lancinante allo stomaco, non riuscivo a capire cosa stava succedendo.
Tremavo senza controllo, piangevo, piangevo a dirotto, fino a quando le mie lacrime divennero più calde, fino a trasformarsi in sangue. Allora nella mia mente riaffiorarono i ricordi, ma prima che potessi dire qualcosa, la neve di fuori si era bloccata e la stanza divenne afosa. Alzai gli occhi verso la parete e, proprio in quel momento, vidi due ombre materializzarsi dinanzi a me. Ansimavo e le urla mi si bloccavano in gola, strozzandomi. Le due figure iniziarono a contorcersi, riempiendo la stanza di tensione. Quattro luci rosse erano sospese in aria, come quattro occhi che mi guardavano soffrire. Strinsi i denti e cercai di non perdere i sensi. Iniziarono a parlare, fra loro:
“Mio frutto, -disse la figura più alta e grossa- cosa ne pensi della vittima che ti ho scelto?”
“Davvero bella -rispose la seconda- e giovane.”
“Come te. Così potrai diventare finalmente il padrone.”
A quel punto non ce la feci e vomitai una schifezza nera, che sembrava avere oggetti appuntiti all’interno. Poi, buio. Mi risvegliai la mattina dopo, sudata, nel mio letto e con il libro ancora a terra.
“Era solo un sogno.” Sospirai, fino a quando non posai lo sguardo fuori dalla finestra e vidi che la neve era ancora bloccata. Iniziai a tremare e piangere. Corsi in cucina, dove mia madre era ferma, con un bicchiere pieno di vino rosso in mano. Sembrava una statua senza vita. Il mondo era in stand bay. Le lacrime aumentarono. Riuscii a dire un solo e insipido “mamma” e a sfiorarle leggermente il braccio per far tornare tutto normale. Lei si riprese come se l’avessi appena riavviata. Come mi vide, cacciò un piccolo urlo, facendo cadere e frantumare il bicchiere a terra. I miei piedi iniziarono a sanguinare e il vetro si conficco nella mia carne, riuscivo a sentirlo entrare, lesionandomi. Non urlai né mi lamentai, ma rimasi immobile a fissare il sangue che si mischiava al vino. “Rosso.” Sussurrai. I quattro occhi mi ritornarono in mente e io continuai a stare ferma, a fissarmi i piedi. Mia madre urlava, incolpandosi dell’accaduto. “Rosso.” Ero come in trance. “Rosso.” L’immagine mi si presentò davanti agli occhi. “Rosso.” Sempre più nitida. “Rosso.” Fino a soffocarmi. Ripresi vita solo quando mia madre mi spinse a terra con uno schiaffo.
Posai le dita sul viso e poi le guardai, per un momento sembrò che fossero coperte del mio vomito nero, ma poi ritornarono normali. Mia madre mi guardò sconvolta.
“Tu sei matta.”
“Probabile.” Risposi.
Il pensiero di quella notte mi accompagnò tutto il giorno, con l’aggiunta del fatto che i miei genitori divennero sempre più strani. Occhiate strane, continui commenti sul mio abbigliamento, mi picchiarono perfino di più... senza però lasciare segni, a questo ci pensavano.
Iniziai ad insospettirmi, qualcosa stava cambiando e io ne facevo parte.
Per fortuna che in quei giorni c’erano le vacanza, non sarei mai riuscita a sopportare il ticchettio dell’orologio scolastico, che indicava la durata della tua pena, sempre puntuale.
Arrivai ad un punto che non riuscivo più a reggere alcuno stress, che mi sentivo morire ogni sera e rinascere più triste tutte le mattine. Decisi di investigare sui miei genitori, un po’ per alcuni sospetti, un po’ per speranza... speranza nel pensiero che stessero per morire e volevano dedicare i loro giorni al loro odio verso di me, per poi morire in completa beatitudine. Ovviamente non era così, sarebbe stato ridicolo... ma mai quanto quello che scoprii.
Quel rigido giorno, quando i miei genitori uscirono di casa(per chissà quale strano motivo) decisi di curiosare nella loro camera. Il lampadario penzolava nel soffitto, con aria di superiorità, ma allo stesso tempo fragilità. Spesso avevo paura di quello strano mostro, ma presi coraggio. Aprii qualche cassetto, frugai tra gli indumenti di mia madre e trovai una cosa, una cosa che non potei più scordare.
Pensa che la visione di quel pezzo di carta è ancora perfettamente nitida e chiara nella mia mente. Era un contratto, un contratto per la mia anima.
“I qui presenti Giulio Alighieri(mio padre) e Laura Verga(mia madre), cedono la giovane anima della loro primogenita senza domande e/o lamenti. In cambio avranno ricchezza, fama e una vita piena di devozioni verso Lucifero.
Niente dovrà essere raccontato ad anima viva e non. Però, il contratto avrà valore solo se la primogenita rispetterà i canoni richiesti, cioè: tratti nordici, intelligenza e, ovviamente, dovrà essere vergine, per poter permettere il completo cedimento della propria anima a un giovane demone, per permettergli di diventare adulto. Tutto accadrà quando la giovane compirà sedici anni.”
Tutto ciò viene garantito dai due genitori e, se il patto non seguirà i canoni o non sarà rispettato, le anime dei mentonieri soffriranno per l’eternità nel luogo più buio e indecente degli inferi.”
Subito sotto erano riportate tre firme: una di mia madre, una di mio padre... e una incomprensibile.
Le mani iniziarono a tremarmi, non riuscivo a piangere, reagire... tutto si fece nero e c’eravamo solo io e il contratto. La vita mi passò davanti agli occhi veloce e finalmente riuscii a capire svariate cose. Arrivai ad un punto in cui no riuscivo a crederci, perché pensavo fosse impossibile. Ma, la lettera era sempre lì, tra le dita che si contorcono, e io ero lì, a guardarla, leggerla. Un pezzo di carta con scritto il mio destino... quasi astratto nella mia incomprensione. I sensi mi si affievolirono e riuscii a reagire in un solo modo: corsi via, con quel pezzo di carta, stropicciato in tasca, correndo da qualcuno che potesse capire.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Niente. Mi guardavo intorno e vedevo il niente, nella sua forma più perfetta. Il primo posto che mi venne in mente e, forse, l’unico, era la chiesa. Mi ritrovai davanti alla parrocchia, tutta sudata, con gli occhi persi e l’aria da vagabonda. Entrai di soprassalto, urlando: “Dov’è padre Gioele?”
Le suore mi assisterono, quando, con molta noncuranza, caddi a terra sulle ginocchia e scoppia in lacrime e brividi. Mi presero in braccio e mi portarono dal prete, che era intento a leggere il suo sacro libro. “Cos’è successo?” Mi chiese poggiandomi una vecchia veste da chierichetto sulle spalle. Alzai lo sguardo, le labbra mi tremavano: “Sono prossima ad una possessione.”
Il silenzio mi rimbombava nelle orecchie e nel cuore, lasciandomi assordare dalla quiete.
“Cosa intende?” Chiese sconvolto;
“I miei genitori... Vogliono dare via la mia anima.”
Il suo sguardo si accese in rabbia, si alzò di scatto e mi prese il braccio in malo modo, per spingermi via dalla chiesa. “Eretica!” Mi gridò, prima di chiudermi la porta di legno in faccia.
Mai ho capito il perché di quel gesto, se per paura della verità o di poter perdere il buon nome della sua umile chiesa. Forse non era suo dovere, ma in ogni caso una cosa è certa: mi lasciò nel bel mezzo di una bufera. Mi misi la mano in tasca, tremante, ma a mia sorpresa non c’era più alcun foglio.
Ritornai a casa febbricitante e con conati, ma feci in tempo a rientrare prima dei miei genitori. Mi buttai sotto le coperte, in preda agli spasmi e brividi. Mi addormentai nel dolore di quel giorno soffocante. Ma, ovviamente, non finì lì.
Mi risvegliai nella mia stanza, c’era una strana umidità e puzza di carogna. Con una leggera sensazione di vertigini, cercai di posare i piedi a terra, ma amia sorpresa il pavimento era scomparso e sotto i miei piedi c’era il vuoto. Riuscii a posare i piedi in uno strato invisibile.
Il sangue mi si gelò e il nero nel mio soffitto si fece più intenso. Lo fissai fino a perdere le forze per poi cadere a terra. Delle grida mi rimbombarono nel cranio, per poi cessare di colpo. Mi raddrizzai a sedere, con una sensazione assurda di cadere nel vuoto, ma ero ferma. Feci un grosso respiro prima di essere mangiata viva dal nulla. Il pavimento trasparente si alzò in aria emettendo uno strano scricchiolio, per poi schiacciarmi.
Mi svegliai di soprassalto, col fiatone e la fronte grondante di sudore. Era mattina e sentivo gravemente la mancanza di Beatrice, ormai in viaggio da qualche giorno.
Bea stava crescendo e cambiando e io non potevo ribellarmi, sarebbe stato ridicolo e inutile.
I suoi capelli si tinsero di rosso elettrico, il suo trucco si fece pesante e la sua vena artistica aumentò incredibilmente.
“Amo viaggiare, capisci?” Mi ripeteva continuamente. Io in realtà non capivo.
Ma non sono qui per raccontarti le mille avventure di Beatrice, ma una storia totalmente diversa.
Un giorno finii pure per svenire fuori dall’ingresso della biblioteca. Quel giorno stavo così male da cercare consolazione nei libri centenari nella biblioteca di paese. Ma, mentre tentavo di leggere, nella mia testa rimbombava il suono dell’orologio.
Tick, tack, tick, tack tick, tack.
L’immagine delle ombre, del contratto scomparso, dei miei genitori... tutto mi invase la testa. Sei una farfalla, mi ripetevo, ma una farfalla non soffre così, muore dopo due giorni e questo mi avrebbe fatto comodo. Ma ero lì, mentre gli occhietti rossi delle ombre mi mangiavano viva.
Tremavo, piangevo contorta dal dolore dell’anima, alla fine mi si avvicino la bibliotecaria, la signora Cristina, mi guardò tubata per poi chiedermi: “Che succede?” Mi voltai, mi guardai intorno e poi sussurrai, ancora in preda alle lacrime: “Mi sento osservata...”
“Chi ti osserva?”
“Ovunque io guardi vedo i suoi occhi...”
“Gli occhi di chi?”
“Occhi maligni...” Lo dissi talmente piano che lei non mi sentì;
“Cosa dici?”
“Occhi maligni.” Ripetei;
“Di chi?”
“Di Lucifero.”
Lei scosse la testa, fece una strana smorfia e poi si voltò e scomparve tra gli scaffali. Pensava che scherzassi? Impossibile; pensava che ero pazza? Sicuro.
Corsi in bagno per sciacquarmi il viso. Dopo aver tentato di annegare tra le mie mani, alzai il viso. Dietro di me: occhi rossi. Le lacrime che mi scendevano in viso: rosse. Non feci in tempo a voltarmi, ad urlare, a respirare, che l’ombra si avvicinò alla luce. Scusa, umanoide e con lunghi artigli. Ansimavo e piangevo lacrime di sangue. L’ombra cacciò un urlo disumano, quasi animalesco, facendo scoppiare il muro in fuoco e polvere. Chiusi gli occhi, accecata. E quando la luce si attenuò, davanti a me di nuovo il muro, ma con una scritta: “Tu sei mia.”
Romantico...
Corsi via, in preda all’agitazione e l’ansia. Svenni fuori dalla porta.
Mi risvegliai con un panno bagnato in fronte e mia madre che mi accarezzava il viso. La scostai nervosamente, pensando fosse la mano della morte.
Davanti a me un’immagine raccapricciante: mia madre che parlava con una presunta infermiera, in modo dolce... di me!
Rimasi in silenzio a guardare quell’immagine impossibile, per poi capire tutto nel momento in cui l’infermiera se ne andò.
“Che cavolo ti salta in mente? – Ecco mia madre- Adesso pensano che sei malnutrita e che ti maltratto. Vedi, vedi come ti faccio svenire io a casa. Pensi che io ti maltratto, Adelaide?”
Feci cenno di no. Non si può discutere con mia madre, questo è certo.
“Hanno trovato qualcosa in bagno?” Chiesi;
“Ma cos’è? Ti droghi pure, ora?”
“No... è che... non fa niente.”
Ritornai a casa pallida e tremolante. Sentivo di non avere nessuno e la parte più triste è che quel presentimento era pura e rauca verità.
Il giorno seguente evitai il più possibile di stare a casa. Ma fuori da quella prigione mi aspettava il mondo, che di certo non era meglio. Caso strano incontrai un gruppo di ragazzi al parco, tanto per essere fortunata, tra cui c’era anche Riccardo Maggio. Appena ci passai davanti, con le gambe bloccate, i ragazzi cessarono i loro discorsi di colpo. Dal silenzio si squarciò una voce: “Hey!” Era Riccardo. Mi voltai. “Dici a me?”
“Avvicinati.” Lo feci;
“Tu sei Adelaide, giusto?” Come se non lo sapesse...
“Sì...”
“Posso chiederti una cosa?”
“Dimmi..”
“Ma tu... per caso vedi ombre, demoni o cose simili?”
“...”
“So benissimo che è dura. Ma, di noi puoi fidarti...”
“Io...”
“È vero, quindi?”
“Sì...”
“Ti senti continuamente perseguitata, impotente...”
“Impotente..” Ripetei, avevo lo sguardo fisso nel nulla;
“Posso chiederti una cosa?”
“Dimmi.” Stavolta lo guardai in faccia;
“Puoi dirmi per favore chi è il tuo pusher? Quella che hai preso, sembra roba buona.”
Lo guardai negli occhi, sorrisi e le parole mi uscirono da sole: “Può darsi che ora tu ti senta più potente e migliore di me, ma ricorda che davanti alla morte siamo tutti uguali.”
“Che significa?”
“Che se fossi in te non spererei di vivere ancora a lungo dopo tutte quelle sigarette.” Alzai i tacchi e scomparvi con un sorriso fiero sul volto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Arrivò velocemente, senza preavviso e lasciando amaro nel suo cammino. Una notte troppo corta per decidere il mio destino, troppo lunga da non riuscire a farla passare: la notte prima del mio compleanno. Passò un’ora prima di far caso alle mie scarse possibilità di riuscire a vivere ancora un giorno.
Quella sera, mia madre venne per darmi la buonanotte. L’ha sempre fatto, anche se con freddezza. Appena entrò, illuminò la stanza con la sua bellezza. Notai ora e più che mai, come somigliasse a questa cosa mi faceva male. I suoi lunghi capelli castani evidenziavano i suoi occhi color cielo, sembrava quasi che non avesse mai lavorato in vita sua, che si fosse appena svegliata da un lungo riposo. Era stupenda, ma appena il mio sguardo si soffermò sul suo sguardo, non feci a meno di notare come fosse vuoto, senza vita. Mi si raggelò il sangue nelle vene.
“Buonanotte.”
Buio.
I pensieri mi correvano veloci nella testa, mi alzai di scatto, decisi di prendere una borsa e infilarci il più possibile, volevo fuggire.. volevo salvarmi.
Con la vista annebbiata dalle lacrime e la borsa in spalla, spalancai la finestra, presi un respiro e mi guardai avanti. “Devi essere forte.” Sussurrai a me stessa. Salii sul bordo, con una corda in mano, la legai alla finestra e presi un grosso respiro. Il vento mi scompigliava i capelli e la speravo di avere una speranza. Iniziai a calarmi lentamente. Ogni centimetro acquistato dalla finestra era un piccolo passo di libertà, ma, arrivata quasi alla fine: “ADELAIDE!” Mia madre. Spalancai gli occhi e caddi a terra dallo stupore. Lei mi guarda dalla mia finestra, furiosa. Urla, chiama mio padre e io sono ancora intorpidita per capire ed alzarmi. Finalmente riesco a correre, con loro dietro di me. “È l’ultima cosa che faccio.” Pensavo, mentre le mie gambe andavano da sole e sentivo l’alito bollente di mio padre sul collo. “Lasciatemi! Vi odio!” Continuavo a ripetere.
Cielo senza stelle, poco fiato, pioggia, paura.
Tutto si annebbia, le lacrime si mischiano al vento che mi vomita in faccia la pioggia. Le gambe cedono, ma io no. Li semino, mi blocco, respiro e riparto. La testa non sa dove sto andando, ma il cuore sì. I piedi si muovono da soli, stanchi, ma si muovono. Maestosi alberi mi avvolgono, mi seguono, mi giudicano. Mi volto di scatto, sono vicini abbastanza da percepire il vuoto che hanno negli occhi. Continuo a correre, ma inizio a rallentare, a sentirmi esausta. Non riesco più a correre, vado piano, cammino, poi smetto di muovermi, mi blocco, sono senza forze e, infine, cado sulle ginocchia. Mi sento afferrare, strattonare. Sento voci vicine, che mi parlano, ma non capisco. Alzo la testa: Villa Atena. Ero così vicina alla salvezza, ma lei così lontana da me.
Non potei fare a meno di piangere, piangere molto forte, mentre venivo trascinata per i capelli al mio destino.
Buio.
Capii che era tutto reale solo quando mi tolsero la benda dagli occhi. La luce si fece intensa, risvegliando i miei sensi. Ci misi qualche minuto per capire quello che stava succedendo.
L’asfalto gelido mi accarezzava la pelle nuda, mentre delle corde mi legavano i polsi ed i piedi talmente forte da farmi sanguinare a terra. Tutto intorno a me si estendeva una stella, anzi, non una stella, ma un pentacolo. Cercai di urlare ma mi avevano tappato la bocca con uno straccio. Vidi i miei genitori davanti a me. Sorriso vivo ed occhi morti. Non mi scordai mai quell’immagine.
Ero ricoperta di lividure violacee, che sporcavano la mia pelle immacolata in modo aggressivo, ma allo stesso tempo di una bellezza dalle sfumature macabre.
Tutte intorno a me si pavoneggiavano delle candele, mentre mia madre mi accarezzava la pelle incrostata di sangue e sudore con le dita. Mi accarezzava la pancia e mi guardava con occhi spiritati. “Sei sempre stata bellissima.” Sussurrava.
Arrivò mio padre, non mi guardò, prese un coltello e lo passò a mia madre, ne prese un altro e mi trafisse la carne. Mi passo la lame sulle cosce, mentre mia madre mi graffiò il viso. Provai un dolore atroce, insopportabile. Ma, successe una cosa strana: mentre mio padre ripeteva una strana filastrocca, iniziai a piangere, a piangere sangue. Mia madre si bloccò, prese un vecchio libro che era posato su di uno scrittoio e iniziò a leggere agitata.
“Giulio, qui non c’è scritto niente su lacrime di sangue.”
“Tu continua e zitta.” E così fece. Ma, prima che potesse ritoccarmi con la punta del coltello, un’ombra comparve sul muro. Occhi spaventosamente profondi e voce altrettanto inquietante.
I miei genitori lasciarono i coltelli e caddero sulle ginocchia. L’ombre si allungò, con un leggero tremolio e prese mio padre con la sua possente mano, come fosse un giocattolo. Lui urlava, piangeva e chiedeva pietà, ma con un sol soffio, l’ombra, rese mio padre un mucchio di polvere nera. Mia madre scoppiò in lacrime. Davanti a quella scena sembrava quasi umana.
“Laura Verga, -Tuonò l’ombra- ho un compito per te.”
“Dica, padrone.”
“Prendi il coltello e trafiggitelo nel cuore.”
“Ma... ma, il sacrificio?”
“STAI PER CASO DUBITANDO DEL TUO SIGNORE E PADRONE?!”
“No... mai.”
“Allora obbedisci!”
E, a mia sorpresa, lei prese il coltello e non esitò un solo istante prima di conficcarselo nel cuore. Ebbe qualche spasmo e poi cessò del tutto di muoversi e vivere.
Rimasi sconvolta, tremante ed ebbi una perfetta, magnifica sensazione di libertà. Sembra cattivo e egoistico da parte mia dire queste cose, ma i miei genitori non lo sono mai stati davvero. Smetto di pensare alla loro morte solo quando l’ombra inizia a fissarmi.
Ero lì, immobile, legata e nuda; ma non ci pensavo.
L’ombra iniziò a dimenarsi, come se fosse stata appena colpita e, sotto i miei occhi, iniziò a tramutarsi. La rugosità nera si fece sempre più chiara, e si allungò, fino a diventare pelle di un color carne molto chiaro. Gli artigli si tramutano in grandi mani e le zanne divennero un dolce sorriso, con lunghi canini, quasi da vampiro. L’ombra malefica si trasformò in un ragazzo, poco più grande di me, da una bellezza inquietante.
Il ragazzo mi si avvicinò, mi prese tra le mani il viso e mi slegò la bocca, mi passò un dito sulle labbra, togliendomi alcuni grumi di sangue e se li passo nella lingua. Poi mi slegò le braccia e le gambe, mi guardò negli occhi: erano di un nero più scuro dell’aldilà, con alcune sfumature rosso sangue. Mi prese la mano e mi alzò in piedi dolcemente; con un colpo di mano fece comparire la camicia di mio padre e me la mise sulle spalle. Poi, tenendomi ancora la mano stretta, mi portò fuori da casa e si mise a correre. Corremmo veloci con il vento che ci accarezzava la pelle e il cielo nero che tremava sotto la nostra bellezza. Ed eccoci lì, mano per mano senza nemmeno guardarci. Ancora correndo ed io con i piedi nudi sull'asfalto che poi divenne erba e il bosco si materializzò davanti a me. Poi, un'ultima immagine: Villa Atena.

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