Autumn Leaves

di Water_wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte Prima • ***
Capitolo 2: *** Parte Seconda • ***
Capitolo 3: *** Parte Terza • ***



Capitolo 1
*** Parte Prima • ***


Autumn Leaves

Parte Prima


Percy camminava con falcate lunghe e vivaci verso la stalla, fischiettando un motivetto allegro e salutando con un cenno del capo chi si toglieva il capello e chi faceva una lieve riverenza al suo passaggio. La rugiada gli bagnava gli stivali di cuoio scuro e resistente, alti fino al ginocchio, e faceva rilucere gli speroni d’argento. Si allargò un po’ il colletto, uno di quei simboli dei nobiluomini che più gli andava stretto.
Il padre di Percy, Poseidone, aveva fondato in una pianura nascosta tra due colline la sua tenuta, che si era allargata fino a diventare un’intera cittadina e la sua famiglia ne dirigeva l’amministrazione e l’organizzazione. Jackson Hill era una piccola isola di pace in quel tempo di guerra, tant’è che nemmeno Percy era corso alla chiamata delle armi per rimanere lì a godersi il bel tempo e a controllare il lavoro nei campi di cotone.
In effetti, il ventiduenne era poco più che un ragazzo e la maturità non era sempre stata la sua caratteristica principale. Era abbastanza grande per gestire i bisogni di Jackson Hill dopo la morte dei genitori e potersi concedere qualunque donna della città – ma questo lui lo attribuiva alla sua spiccata bellezza e al suo innato charme-, eppure, non così tanto da non alzare mai il gomito nella taverna gestita da Chris Rodriguez e sua moglie Clarisse La Rue, per poi essere riportato alla sua villa dal suo protetto Nico Di Angelo.
Il suo vero nome era Perseus; tutti, però, lo chiamavano Percy da quanto era poco più di una pulce impertinente e il soprannome gli si era incollato addosso. Persino i neri che lavoravano nella piantagione lo chiamavano così, ma a Percy non dispiaceva.
Non era quel tipo d’uomo che si curava costantemente della sua immagine né un rigido capo che faceva schioccare la frusta sulle schiene dei suoi sottoposti. In fondo, a che sarebbe servito?
Percy scrollò le spalle, distese i muscoli e aprì il chiavistello che teneva chiuso il cancello della stalla. La luce del giorno illuminò quel luogo completamente all’oscurità, se non fosse per qualche buco sul tetto da cui filtravano i raggi del Sole, che scoprivano soffi di polvere a volteggiare in aria.
Percy fece abituare gli occhi al buio, poi si diresse a passo sicuro verso la terza cella a destra, come quasi ogni giorno. Si udì uno scalpiccio di zoccoli e un lungo muso nero fece capolino. Lo stallone emise uno sbuffo, nitrì piano e scrollò la criniera.
«Ehi, Blackjack, come andiamo?» salutò, accarezzando vigorosamente il faccione del cavallo.
Percy si frugò nelle tasche del pantaloni, in quelle della giacca e del panciotto, ritrovandosi in mano un paio di zollette di zucchero.
«Che ne dici di qualche dolcetto per colazione?» chiese, piazzando il palmo aperto sotto il muso di Blackjack.
Lo stallone lo annusò, tirò indietro il labbro e accettò gli zuccherini, facendogli il solletico mentre mangiava. Percy prese la cavezza, appesa a un gancio sulla porta della cella, e la passò sulla testa del cavallo. Con due dita, lo condusse fuori dalla stalla e il Sole gli ferì gli occhi chiari.
Li chiuse per qualche secondo, senza smettere di camminare; quando li riaprì, la luce era oscurata dall’ombra di una persona. Percy la riconobbe e sorrise.
«Ti sei svegliato presto, questa mattina. C’è qualche cosa che vuoi dirmi?» domandò, mentre passava di mano la cavezza al compagno e ritornava dentro.
Nico Di Angelo si agitò sulla sella del suo destriero.
«Potrei aver semplicemente avuto voglia di fare una passeggiata, non credi?» replicò, il tono più acido in netta contrapposizione con quello da conversazione di Percy.
Il più grande rise, riemergendo con i finimenti dalla stalla. Pose una coperta sul dorso di Blackjack, issò la sella americana e fece scorrere una cinghia sotto la sua pancia.
«Nico, quand’è stata l’ultima volta che hai avuto voglia di fare una passeggiata nel primo mattino?» fece Percy, riavviandosi i folti capelli neri mentre un raggio di Sole faceva sembrare i suoi occhi un placido oceano.
Controllò la lunghezza delle staffe, tirandosi su e prendendo le briglie in una sola mano.
«Non ricordo esattamente quando, appunto per questo vorrei costruire un nuovo ricordo e schiarirmi la memoria» rispose l’altro, arrampicandosi sugli specchi.
Percy lo squadrò, pensando che se anche avesse un altro aspetto sarebbe stato una frana nel mentire. Pelle chiara di chi sta poco al sole, una zazzera mora indomabile e occhi talmente scuri che ci si poteva confondere tra iride e cristallino.
Nico Di Angelo e sua sorella, Bianca, erano rimasti orfani molto giovani e lui li aveva accolti nella sua famiglia senza indugio, facendo del ragazzo quasi un fratello adottivo o uno scudiero, se fossero vissuti qualche secolo prima.
«Anche un’oca sa mentire meglio di te» dichiarò, dando un colpetto nei fianchi di Blackjack, spronandolo al trotto.
Nico rimase un minuto a riflettere in groppa del suo cavallo baio, prima di realizzare: «Le oche non sanno mentire!» e, immediatamente dopo: «Quindi nemmeno io… »
Corse dietro a Percy, scuotendo la testa.
Gli si affiancò, notando come il suo benefattore stesse trattenendo una risata. Bloccava la schiena, puntava gli occhi davanti a sé e assumeva un’espressione simile a chi stava soffocando.
Nico mandò all’aria ogni suo ulteriore sforzo, commentando: «Per l’amor di Dio, potresti scegliere metafore un po’ più argute?»
Percy decise di resistere ancora, giusto dieci secondi, o nove, otto, sette… Scoppiò a ridere, aggrappandosi al collo di Blackjack e facendo pressione con le cosce per non essere disarcionato.
Nico roteò gli occhi, adeguandosi all’andatura del cavallo. Percy si tirò su, si pulì l’angolo dell’occhio destro da una lacrima e recuperò un po’ di contegno. L’erba era un’immensa distesa color smeraldo davanti i suoi occhi, interrotta dalla terra lavorata dagli uomini, per la maggior parte di colore, alle sue dipendenze.
I campi di cotone, pensò, attraversato da una fitta di malinconia mente vi si avvicinava, il sudore che permette a noi bianchi ogni agio.
Nico, intanto, gli stava parlando, ma quando si rese conto di non essere ascoltato alzò la voce per richiamarlo.
«Mh? Che c’è?» farfugliò, guardandosi attorno.
«Non sei proprio tagliato per questo ruolo, Percy. Apri le orecchie, ogni tanto» lo riprese.
«Sembri una vecchia comare, Nico» si difese lui, raddrizzando le spalle. «Scommetto che mi stavi spiegando come mai hai così tanta voglia di passeggiare.»
Nico strinse la presa sulle briglie. «Di che altro dovrei parlarti, di grazia?»
«Ti va una camomilla?» cambiò repentinamente discorso l’altro. «Hai più fiele in corpo che uno di quei serpentacci del deserto messicano.»
Il giovane chiuse gli occhi, inspirò ed espirò con calma e replicò, ammorbidendo il tono più che poté: «È una tua naturale inclinazione irritarmi, Percy, non posso farci nulla.»
Il moro rise, spronò la cavalcatura al galoppo e incalzò: «Quale migliore rimedio che una sfida a chi è più veloce?»
La sua voce si perse nel vento. Cambiò direzione, scendendo bruscamente dalla via sulla collina che costeggiava i campi di cotone, entrandovi. Non ci fu bisogno di dare un altro colpo di sproni a Blackjack per fargli aumentare l’andatura a una velocità folle.
Sentì vagamente Nico protestare dietro di lui e il rombo degli zoccoli che lo inseguivano a rotta di collo. Sfrecciò davanti a un gruppo di uomini neri chinati a raccogliere il cotone, e quelli lo salutarono levando i cappelli di paglia in aria, stupidi ed eccitati insieme. Percy rispose loro con grido all’indiana, alzandosi per un momento sulle staffe.
Il vento gli tirò indietro i capelli e gli invase i vestiti, spingendolo indietro, ma lui si appiattì sulla sella e ritrovò stabilità. Il suo battito si confuse con quello furioso del destriero, che volava sulla terra e che con gli zoccoli sembrava preannunciare un temporale.
Una ragazzina, poco avanti a lui, si mise in mezzo alla strada e si sbracciò. Percy si voltò e sorrise nel vedere una furia raggiungerlo al galoppo serrato. Riportò gli occhi sulla strada davanti a lui, si sporse di lato dalla sella e afferrò la bambina per il colletto dei vestiti sporchi e la issò dietro di lui. Quella strillò di spavento, stringendo le piccole mani al petto di Percy.
«Voi siete un folle, signore!» urlò al di sopra del fischio del vento.
Aveva la “erre moscia” così pronunciata che la parola si arrotolava tutta e la ragazzina sembrava mangiarsela.
Percy rise forte. «Be’, ti dirò un segreto: solo i folli conoscono cos’è la vera gioia!» gridò di rimando. «E chiamami per nome, piccola, come fanno tutti!» aggiunse dopo.
Incitò Blackjack, che spiccò un salto e sorvolò un terrapieno. L’atterraggio scosse Percy nelle ossa, facendogli provare un brivido di adrenalina.
«A me pare che i folli conoscano i migliori modi per trovare la morte, signor Percy!» replicò la ragazzina, che si stringeva convulsamente all’uomo.
Percy stava per ribattere, ma uno strattone improvviso rischiò di farlo cadere a terra. Blackjack nitrì, si alzò sulle zampe posteriori e si riabbassò, sbuffando furiosamente.
«Credo…» ansò Nico; deglutì, si portò indietro i capelli neri, che gli erano finiti davanti agli occhi, e riprese: «… credo che serva a te una camomilla.»
Percy gli sorrise, uno strano bagliore negli occhi, gli porse la mano e ansimò: «Hai vinto… che ti basti questo…»
Nico gliela strinse senza troppa convinzione, lasciandola ricadere lungo il fianco. Percy tese una mano alla ragazzina, facendola scendere. Questa lo fissò, tremando un po’ sulle gambe, assunse un cipiglio deciso e si allontanò senza salutare, scomparendo dietro una cresta riccia color fango. Nico sbuffò, non approvando; il suo destriero schiumava.
Percy scese dalla sella, facendo sollevare la polvere dalla terra battuta. L’altro giovane lo imitò, e insieme imboccarono la strada sterrata che aggirava la collina - su cui era posizionata centralmente la villa Jackson- e da cui si sboccava nella cittadina. Rimasero in silenzio, ascoltando i fringuelli cantare e lasciando che il Sole scaldasse loro la schiena.
Solo quando arrivarono nei pressi delle case, Percy chiese: «Di cosa volevi parlarmi?»
Nico fece una smorfia, si sistemò i vestiti e buttò fuori tutto d’un colpo: «Degli Inglesi sono in zona.»
Percy si fermò di colpo, strattonando Blackjack, il quale nitrì la sua disapprovazione.
«Inglesi? Qui?» sibilò, ancora incapace di assimilare il fatto.
Suo malgrado, lo vide annuire più volte.
«Qualche settimana fa, ti era arrivata una lettera che li menzionava. Se tu leggessi la posta, sapresti come agire strategicamente invece che andare allo sbaraglio.»
Pronunciò l’ultima frase in tono di accusa e rimprovero, come se fosse colpa sua se degli Inglesi si stessero aggirando nella California del Sud, battendo le aree vicine a Jackson Hill, la sua isola felice.
Bastardi figli di cagna, inveì silenziosamente, serrando le labbra.
Uno strillo improvviso lo fece voltare. Riconobbe la ragazzina che aveva portato in groppa, i suoi capelli scuri arruffati e gli abiti laceri. Ma, subito dopo, vide il suo aggressore, che la teneva per la collottola come un cucciolo e la guardava con disgusto.
Sentì la bile in bocca e gli salì un insulto alle labbra. Avvertì Nico farsi di piombo al suo fianco. La piccola nera gridava e scalciava, provò persino a mordere, e allora l’uomo che la teneva le diede un ceffone talmente forte che lei finì a terra. Percy si riscosse. Trattenne l’odio, la rabbia e l’istinto che gli gridava di strozzarlo, provando quasi un dolore fisico.
«Ehi» esordì, e tutti coloro che erano in strada puntarono lo sguardo su di loro. O su di lui.
Percy chiuse gli occhi, imponendosi la calma. Alto e allenato, capelli biondi e occhi azzurri, una cicatrice che gli correva in diagonale su una guancia, giubba rossa.
Percy domò le belve che aveva nel cuore e riprese: «A cosa dobbiamo la visita di un inglese?» Lo disse con così tanta enfasi che sembrò un coltello che volava nella sua direzione. «Volete per caso suicidarvi?»
Sentì gli occhi di Nico e di tutti gli abitanti come spilli puntati su di lui, che, però, ne aveva solo per quell’estraneo. L’inglese gli sorrise, gelido.
«Avrei piacere di ricordarvi che siete ancora una nostra colonia. Immagino voi siate Perseus Jackson, giusto?»
«Avete un messaggio per me da parte della Corona?» quasi scherzò Percy.
«Non proprio direttamente dal nostro palazzo regale» precisò, si sfilò una lettera dalla cintura di cuoio e la mostrò.
Percy temette di soffocare, così deglutì e si avvicinò con passo marziale all’inglese. Fece per prendere la missiva, ma lo sconosciuto ritrasse la mano e indicò con un cenno del capo la ragazzina ai suoi piedi. Sembrava sull’orlo delle lacrime, eppure, nonostante ciò, non voleva piangere di fronte a tutti.
L’inglese mostrò a Percy un orologio da tasca in argento, le lancette che segnavano lo scorrere dei minuti e dei secondi in movimento. Il moro si rese conto che quell’oggetto apparteneva a suo padre, che lo aveva passato a lui in eredità e che la ragazza doveva averglielo sottratto durante la cavalcata.
«L’ho colta in flagrante mentre rubava» dichiarò. «Non so quale legge sia in vigore qui per i ladri, ma per applicarla serve il colpevole, perciò…»
Percy sfoggiò il più falso sorriso conciliante della sua intera esistenza.
«Oh, non l’ha affatto rubato» replicò, una voce così dolce che sembrava miele. «Me l’ha solo riportato indietro, non è vero, piccola?»
La ragazzina annuì con decisione.
Brava, si complimentò, guardandola negli occhi.
L’inglese sembrava stupito.
«Avevo perso questo caro orologio, una settimana fa, dopo una passeggiata. È un tesoro di famiglia molto prezioso, ho detto a chiunque di cercare e rivolgersi direttamente a me se l’avesse trovato. Non ha trasgredito alcuna legge, anzi, ha eseguito alla lettera le mie istruzioni.» Si frugò in tasca, trovò una moneta da niente e la lanciò alla ragazzina. «Va’ a comprarti un tozzo di pane.»
L’inglese sembrava restio a lasciarla andare, ma la bambina non aspettò che mettesse in dubbio le parole di Percy.
Quando gli passò accanto, mormorò: «Grazie, signor Percy.»
Il moro richiese con un altro falso sorriso la lettera. La srotolò, rompendo il sigillo in ceralacca rosso, e saltò le prime cinque righe di titoli. Si fermò a rileggere la parte centrale tre volte, prima di arrotolarla e ridarla indietro. Sentì un improvviso calore alle orecchie e temette che il petto gli scoppiasse.
«Volete dare voi l’annuncio?» chiese l’inglese, sogghignando.
Percy scosse la testa, socchiudendo gli occhi a fessura. Strinse i pugni.
«Il mio nome è Luke Castellan» esclamò, dopo essersi schiarito la gola. «e il Comando Inglese revoca i poteri conferiti a Perseus Jackson a tempo indeterminato, consegnandoli al sottoscritto. È in corso un’ispezione dei metodi utilizzati nelle piantagioni di cotone. Se valuterò l’organizzazione impeccabile, me ne andrò presto. Altrimenti, eserciterò la mia autorità in modo che questo avvenga.»
Gli rispose un borbottio confuso, poi allarmato e infine di protesta. Percy fissò gli occhi sulla cicatrice che sfregiava il volto di quel Castellan e l’istinto animale gli suggerì con voce melliflua di saltargli al collo e tagliargli la gola. Si crogiolò in quella fantasia, sentendo il sapore acre del sangue sul palato.
Nico gli pose una mano sulla spalla, riscuotendolo. Fecero spazio, lasciando passare davanti a loro un altro inglese vestito di rosso con due cavalli. Luke Castellan montò su quello grigio, mentre il suo compagno sull’altro color caramello. Lo ringraziò, chiamandolo Ethan.
Il biondo si avvicinò a Percy, in modo che solo lui potesse sentire quello che gli diceva.
«Sappiate che non mi sono bevuto una sola parola di ciò che avete detto. Se vi rivedrò simpatizzare con uno di quei musi neri, dovrete imparare a temere anche voi la frusta. Spero che il mio soggiorno a Jackson Hill possa essere duraturo: adoro il clima che c’è qui in autunno, molta meno pioggia che a Londra.» Si scostò da lui, tese l’orologio e lo lasciò ricadere sul palmo aperto di Percy.
«Arrivederci» si congedò, alzando una mano e facendo fare dietro-front al cavallo.
Nico strinse la spalla di Percy con forza, mentre lui giurava che avrebbe fatto qualunque cosa pur di ostacolare i piani dell’inglese.
 
 
Percy si bloccò, smettendo di tagliare la carne e masticare la patata al forno che aveva in bocca. Si concentrò su Talia, all’altro capo del tavolo. I corti capelli neri erano ripresi con due mollette, la camicetta a fiorellini azzurri era di una tonalità più chiara rispetto agli occhi, di un intenso blu elettrico. La fissò e si scontrò con uno sguardo duro, deciso, che avrebbe raso al suolo ogni ostacolo davanti a sé.
Nico tossicchiò e mormorò piano: «Non potete dire così, Talia.»
«Posso eccome, invece» s’infervorò lei. «Le donne chiacchierano, danno pareri e opinioni a tutti, oltre a lavorare. Io sono una donna fino a prova contraria, perciò, posso commentare in tutta libertà e pensare che Percy dovrebbe fargliela pagare, a quell’inglese.»
Bianca si portò una forchettata di piselli alla bocca, toccando con un piede la gamba dell’amica che aveva invitato a cena. Nico, intanto, era arrossito violentemente e aveva trovato un improvviso interesse nel cibo.
Percy riprese a masticare, ancora incredulo. Talia, forse la donna più intransigente e mascolina di Jackson Hill, pronta a contestare ogni sua decisione, che dava l’approvazione proprio al suo istinto omicida. Decise che quella sera avrebbe ringraziato Dio per quella benedizione.
«Sarebbe imprudente agire così, su due piedi» riprese le fila del discorso Bianca, poggiando con delicatezza le posate sul tovagliolo. «Se fossi in Percy e volessi far valere la mia autorità, organizzerei un piano. Un’offensiva che ponga subito fine alla guerra.»
«Anche tu!» gemette Nico, battendo un pugno sul tavolo e facendo tintinnare i calici di vetro. «Ti prego, ti prego dimmi che è solo un consiglio.»
Bianca Di Angelo non rispose e riprese a mangiare con garbo.
Il fratello si lasciò sfuggire un lamento. Talia nascose un sorriso bevendo un sorso d’acqua. Percy mandò giù a fatica il boccone successivo.
«Davvero ha il potere di spadroneggiare in quel modo, questo come si chiama… Luke Castellan?» domandò Talia per la quarta volta quella sera.
Percy annuì di malavoglia, ormai riusciva a fare solo così.
Se avesse aperto bocca, probabilmente non sarebbero uscite parole moderate. Si chiese come avesse fatto a mantenere il controllo davanti all’inglese.
Talia fece una smorfia, infilzò una patata e, prima di infilarsela in bocca, commentò: «Bah, forse è solo un pregiudizio su quelle spalle d’aragosta, ma penso che abbia proprio l’atteggiamento di un carnefice. Freddo, calcolatore… un lupo solitario che ha tanta, tanta fame.»
Nico borbottò qualcosa di incomprensibile. Bianca lanciò un’occhiata significativa a Talia, che si trattenne dal risponderle con un’alzata di spalle. Percy spezzò un pezzo di pane e se lo portò alla bocca, pensando che aveva un buon fucile da usare contro i lupi, in soggiorno.
 
 
Percy decise che né Luke Castellan né nessun altro avrebbe modificato le sue abitudini. Si svegliò presto o forse non si svegliò affatto, visto che aveva passato l’intera notte a rigirarsi nel letto, quando inquietanti sogni su grossi lupi grigi e foreste di sangue lo avevano abbandonato.
Preparò Blackjack, non prima di avergli dato un paio di zollette di zucchero, e montò. Non andò direttamente  ai campi di cotone, ma scese a fare un giro per la cittadina. A intervalli regolari, sui lampioni, erano affissi dei manifesti che comunicavano le nuove disposizioni.
Ne prese uno tra le mani e lesse la parola “coprifuoco”. Coprifuoco?
Non c’era mai stato un coprifuoco a Jackson Hill. Accartocciò il foglio e lo lasciò cadere a terra, dove il suo cavallo lo calpestò. Sentì l’impellente bisogno di bere qualcosa di forte.
Oltrepassò la farmacia Lee Fletcher and Michael Yew, la vetrina che esponeva boccette di vetro di varie dimensioni, e imboccò la via che deviava verso destra, diretto alla taverna di Rodriguez. Non aveva molta voglia di vedere Clarisse, sua moglie, ma era lì che vendevano il miglior alcol.
Fu fermato da una voce ben conosciuta. Guardò in basso, trovandosi davanti una giovane donna dai capelli biondi, coperti da un fazzoletto a cui sfuggivano riccioli ribelli. Il suo sguardo era penetrante e inchiodò Percy al primo istante. Teneva una cesta intrecciata sotto il braccio destro, attenta a non sporcare la gonna dalle tinte pastello con la terra che era ancora attaccata alle verdure.
«Buongiorno, Annabeth» la salutò, abbassando lievemente il capo.
«Dubito che lo sia» replicò lei, cambiando la mano con cui teneva il cesto pieno di ortaggi.
Puntò i suoi occhi grigi su di lui e lo informò, in un tono misto di noncuranza e lieve preoccupazione: «Luke è già ai campi.»
Il moro strinse le mani sulle briglie.
«Perché lo chiamate per nome?» domandò, sistemandosi meglio sulla sella. «È un inglese.»
Annabeth sembrò sul punto di ridere di lui e di quella repentina risposta che non aveva nulla a che fare con l’intromissione nelle sue proprietà.
«Perché se lo chiamassi col nome di famiglia tutti si girerebbero a guardarmi e non potrei liberarmi dei pettegolezzi sul nostro conto.»
Lasciò a Percy il tempo di metabolizzare che la gente parlasse di loro, prima di continuare, la voce ridotta a un sussurro: «E poi, non credo che essere  un inglese sia un crimine. Non tutti sono uguali. Le etichette sono per ciò che conosciamo bene, e di lui non si sa niente.»
«A parte che mi ha sollevato dai miei incarichi e starà mandando a male il mio cotone» ringhiò piano Percy, voltando il viso nella direzione delle sue terre.
«Non andateci» esordì Annabeth. «Non fatelo.»
«Trovate un’argomentazione ragionevole e potrei darvi ascolto» concesse Percy, brontolando.
«In primis, dovrete spiegare il motivo di una passeggiata in quella zona, e Luke non crederà a quello che dite. In secundis, vi ritrovereste morto prima della prossima alba» replicò la donna, severa, con l’atteggiamento di una persona che è pronta a sfruttare tutto ciò che ha studiato per evitare un’azione stupida.
«Non sarete voi a seppellire né a vedere il mio cadavere» ribatté Percy, per nulla impressionato.
«Non è per questo che non vi voglio morto» lo sguardo di Annabeth vacillò. «È che non vorrei trovarmi a piangere la vostra perdita.»
Percy avvertì qualcosa di caldo riempirgli il petto.
«Piangereste la mia morte?» chiese, curioso.
La donna non rispose. «Non andate» ribadì, riprendendo le sue faccende.
Peccato, pensò Percy, che dovrò deludere le aspettative di una fanciulla come lei.
 
 
Percy si vide correre incontro Tyson, un suo lontano cugino che lavorava come sovraintende lì ai campi di cotone, anche se passava la maggior parte del tempo nella fucina di Charles Beckendorf, l’unico luogo in cui riusciva ad essere davvero utile. Percy scese da cavallo, consegnandogli le briglie del suo destriero e chiedendogli spiegazioni con lo sguardo.
Tyson si grattò la testa cespugliosa, si avvicinò al parente come un gattino e sussurrò con una vocetta da bambino: «Lui è qui, signor Percy.»
«Lo so, Tyson, potevo immaginarlo» confermò, condiscendente.
Avanzò di qualche passo, ma il ragazzone lo fermò.
«Non capite, signor Percy, lui è qui per mangiarci tutti!» continuò a bassa voce, come se temesse che Luke Castellan potesse sentirlo.
Percy sapeva che Tyson non era intelligente né ragionava come gli altri, per questo gli dava del voi come un qualunque cittadino, ma quel terrore puro gli sembrava eccessivo. Bofonchiò un “andrò a controllare di persona” e si allontanò a passo svelto, determinato a fronteggiare l’inglese.
Tyson si affrettò a trovare un albero a cui legare Blackjack e a rincorrere Percy. Il moro sentiva già da lontano la voce dello straniero sbraitare contro i suoi lavoratori e si basò su quella per trovarlo. La giubba rossa sembrava un focolare acceso nel giorno, così come i neri erano il carbone che attizzavano il fuoco della furia dell’inglese.
Percy si raccomandò di controllarsi, di non oltrepassare il limite di non ritorno, di ripetersi di rimanere calmo, e ci riuscì molto bene mentre la distanza tra lui e Luke Castellan diminuiva sempre più, finché il suo compagno srotolò la frusta che teneva al fianco.
Tyson emise un singulto a quella vista, come l’“ich” di paura di un topolino. Ethan minacciò con l’arma un massiccio uomo dalla carnagione scura, ma quello non mostrava la sua paura – sempre che ne avesse avuta-, e lasciò che la frusta gli si arrotolasse sull’avambraccio.
Percy si schiarì la gola, interrompendo la punizione.
Luke Castellan era rigido nella sua uniforme e domandò: «A cosa dobbiamo l’onore della vostra visita, signor Jackson?»
«Sono solito augurare una buona giornata di lavoro a tutti, mi sarebbe dispiaciuto perdere questa abitudine» rispose, tranquillo.
«Spero voi non vi stiate prendendo gioco di me e, se anche fosse, oggi non sarà un lieto giorno lavorativo per questo qui» disse l’inglese, ammiccando all’uomo col braccio intrappolato nella frusta.
Percy finse sorpresa e stupore per mascherare l’astio nella sua voce.
«E per quale motivo, posso sapere?»
«Perché» iniziò Luke Castellan, duro, «è necessario mantenere la disciplina nei campi, e un negro che sputa ai piedi di un superiore mina il rispetto che tutti gli altri devono portarmi. Dalle nostre parti, un’insubordinazione del genere merita trenta frustate.»
«Trenta frustate?» Percy soffocò una risatina isterica. «Questo non è un campo militare. Con una punizione come questa, perderà due braccia forti per almeno una settimana. Non vi converrebbe.»
«Oh, delle spalle robuste come quelle ne reggerebbero anche cinquanta, non mi preoccupa un po’ meno forza lavoro» replicò l’inglese, asciutto. Scrutò Percy attentamente, prima di aggiungere: «Credo che voi abbiate qualcosa in contrario, o sbaglio?»
Il moro si ripeté la risposta negativa dentro di sé, ma quello che gli uscì fu: «No, non sbagliate affatto.»
«Signor Percy…» squittì Tyson, però Percy lo bloccò bruscamente con una mano, avvicinandosi invece all’inglese.
Era più basso di qualche centimetro e il fatto lo irritò.
«Non avete l’autorità per opporvi ai miei metodi. Mi serve un esempio per dimostrare a tutti questi schiavi chi comanda» sibilò Luke Castellan, e Percy seppe che quella frase era solo l’inizio di un’aspra discussione.
«Ne ho la volontà» ribatté, «e vi consiglio caldamente di non infliggere alcuna punizione ai miei lavoratori.»
Il biondo sogghignò. «Ne avete la volontà…» si umettò le labbra, soppesando le parole. «Ne avete abbastanza da offrire la vostra carne alla frusta, Perseus Jackson?»
Percy fissò gli occhi dentro quelli azzurri dell’inglese, che avevano assunto una strana sfumatura dorata. Sapeva che stava firmando la sua condanna, ne era pienamente consapevole. Il sangue gli pompava forte nelle arterie assieme all’adrenalina, e gli si ingrossò una vena sulla fronte. Pensò vagamente alla sfuriata che gli avrebbe fatto Nico o alla disapprovazione di Talia e Bianca.
Sfoggiò un sorrisetto strafottente.
«Certamente.»
Luke Castellan si illuminò, si voltò verso Ethan e i neri e gridò: «Spargete la voce che l’esecuzione è pubblica! Gli altri, che montino il palo!»

 

Angolino dell'autrice
Buonasera a tutti quelli che bazzicano su questo fandom!
Bando alle ciance, ho pensato a questa storia come a una one-shot, ma più andavo avanti più diventava lunga e ho pensato che qualcuno si sarebbe sparato per la lunghezza tutta in una voltà, così ho diviso in due o tre parti.
Zio Rick ha reso l'idea degli Dèi nuova, fresca e urban, io la riporto indietro di qualche secolo^^
Jackson Hill fantasia portami via non esiste. I personaggi sono quelli della prima serie, perché non ho ancora né iniziato né finito la seconda, quindi... non fucilatemi, a Natale recupererò xD
Credo che alcuni di loro, come Luke e Tyson, siano OOC e questo non mi piace per niente, ma c'est la vie. Per il primo, pensate al Luke controllato da Crono, così si spiega quanto sia stronzo. L'Ethan di cui si parla è Ethan Nakamura, il figlio di Eris a cui manca un occhio.
Non so cosa si possa vedere delle coppie da questa prima parte, ma nel prossimo capitolo si vedrà una pillola molto Percabeth.

Sono andata a cercarmi alcuni espressioni dell'epoca, come "spalle d'aragosta", che è un appellativo dispregiativo per gli iglese che, portando un'uniforme rossa, venivano associati a delle aragoste. Sempre gli inglesi, infliggevano punizioni con la frusta nell'esercito.
Ora, visto tutta questa questione intestina, perché ci si occupa dei neri? Lo scopriremo nelle prossime puntate *sigla*
Sia Percy che Annabeth hanno opinioni diverse sui pregiudizi, il primo perché è una zolleta di zucchero, la seconda perché è troppo intelligente per crederci senza prove - dopotutto, sa il latino, quindi ha studiato, al contrario di molte donne all'epoca.
Meglio se metto fine a questo "angolino", se qualcuno vuole chiedermi qualcosa, non esiti! Non sono né sexy né dolce come Percy, ma quasi :3
Un bacio

Water_wolf
 
 

 
 
 

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Capitolo 2
*** Parte Seconda • ***


Parte Seconda
 

Percy sentiva vagamente Nico disperarsi al suo fianco, la folla che vociava confusa, i nitriti dei cavalli che pascolavano vicino a lui. Guardava fisso davanti a sé, gli occhi incapaci di staccarsi dal lungo palo di legno che diversi uomini neri stavano piantando nel terreno.
Non si curava nemmeno di Luke Castellan e Ethan che dirigevano i lavori sbraitando per farsi ascoltare. Ma forse lo attraversava con lo sguardo, talmente era concentrato sul battito del suo cuore.
Tutta la sicurezza e spavalderia che aveva mostrato nei confronti dell’inglese sembrava essersi volatilizzata e dispersa come una manciata di polvere al vento. Eppure, ne era rimasta una punta, che continuava a impedirgli di sottrarsi al destino che si era scelto. Non era sicuro si trattasse d’orgoglio, non era mai riuscito a decifrare le sue emozioni molto bene.
All’improvviso, sentì la guancia sinistra bruciare. Si voltò di scatto, scontrandosi con lo sguardo furioso di Nico, il quale l’aveva appena schiaffeggiato.
«Non hai un briciolo di autoconservazione!» gridò, la voce che aveva assunto una sfumatura femminile per via dell’acuto.
Percy si massaggiò la mascella.
«Sarà già difficile ritornare a casa intero, mi farebbe piacere non dover arrivare all’esecuzione malmesso» disse, pacato.
Nico si trattenne dal tirargli un altro schiaffo, le narici dilatate nello sforzo di far entrare abbastanza aria nei polmoni.
«Potevi lasciare che lo frustasse, se sei tanto attaccato alla tua pelle» replicò, duro.
«No, io dovevo fare quello che ho fatto» lo contraddisse Percy. «Non avevo scelta.»
Il giovane si alzò dalla panca su cui si erano accomodati, incapace di rimanere seduto ulteriormente. Chiuse le mani in pugni e rilassò le dita, lasciando che ricadessero lungo il corpo.
«No, non dovevi affatto» disse, assumendo quel tono freddo e distaccato che aveva sempre fatto rabbrividire Percy, «E la tua scelta è stata quella di soffrire e far soffrire. Perciò, non prenderò parte a questo abominio per un secondo di più. Ci rivedremo alla villa, se sarai ancora vivo.»
Girò i tacchi e si allontanò. Percy sentì qualcosa di pesate depositarsi in un punto imprecisato nel mezzo del petto; sospirò, guardando per terra. Lo riscosse una mano sulla spalla. Alzò lo sguardo, incontrando quello di Annabeth Chase.
«Spogliatevi» ordinò, gli occhi grigi duri quanto la pietra. «Hanno finito di montare il palo.»
In un altro momento, Percy avrebbe collegato quella frase a tutt’altro, ma la situazione non lasciava ombra di dubbio. Scostò con delicatezza la mano della donna dalla sua spalla, guardò in alto, verso il Sole tiepido del primo pomeriggio e si liberò della giacca, si sbottonò la camicia bianca e abbandonò la parte superiore dell’abbigliamento nella polvere.
Calpestò la stoffa ricamata per avviarsi al luogo delle esecuzioni, lasciando l’impronta sporca dello stivale sul tessuto. L’aria di inizio autunno non era né pungente né fredda, ma a Percy si rizzarono comunque i peli delle braccia e lui scoprì di averne di piccolissimi dietro il collo.
Luke Castellan lo attendeva composto affianco al palo, stringeva la frusta tra le mani. Percy si inginocchiò lì davanti, mentre Ethan gli legava i polsi su un cilindro di legno che passava orizzontalmente a quello più grande, in modo da non permettere a Percy di sottrarsi alla punizione e di dargli, allo stesso tempo, qualcosa cui stringere per contrastare il dolore.
L’inglese si mise dietro di lui, rivolto alla folla che si era riunita ai campi di cotone dopo essere venuti a conoscenza del fatto, e declamò un discorso che Percy neanche si sforzò di ascoltare.
Poteva vedere solo il palo e le sua mani, in quella posizione, e aveva la gola secca. Non riuscì a mentire a sé stesso dicendo che non aveva paura. Si concentrò sul suo fiato, regolarizzò il respiro con inspirazioni ed espirazioni controllate. Sentì Luke Castellan srotolare la frusta con un sibilo, quasi fosse un serpente.
Senza che potesse impedirselo, il fiato accelerò.
Per una frazione di secondo prima che l’esecuzione iniziasse, gli sembrò che il tempo si fermasse. E ripartì con un’esplosione di dolore.
Percy spalancò gli occhi. Si aggrappò convulsamente al palo orizzontale fino a ferirsi i palmi con le schegge di legno, vi conficcò le unghie. La sorpresa stava quasi prevalendo sul dolore.
«UNO!» esclamò l’inglese alle sue spalle.
Quando calò di nuovo la frusta, Percy riuscì a distinguere ogni lembo di pelle che si lacerava. Luke Castellan rallentò il ritmo, dandogli il tempo di provare male in ogni fibra del suo essere in tutte le sfumature.
Percy strinse i denti fino a farli scricchiolare. Era deciso a tenere il conto, ma lo perse a “cinque” insieme a una visione chiara davanti ai suoi occhi. Gli parve di sprofondare in un gorgo profondo, di raggiungere la cavità più infima dell’Inferno, e il rosso che gli illuminava a sprazzi la visuale sembrava confermare la presenza delle fiamme.
Si riebbe un momento, giusto per sentire: «VENTI!»
Che cosa?,  pensò, incredulo. Gli sembrava di essere già morto, era impossibile che mancassero ancora dieci frustate.
Il solo contarle gli fece salire la bile in bocca. Avvertì nitidamente  i due seguenti colpi, che gli straziarono la schiena già martoriata. Si accorse di avere le mani viscide di sudore e sangue.
Non seppe definire esattamente quando la tortura finì, anzi, tutto ciò che glielo suggerì furono gli occhi color della Luna di Annabeth a pochi centimetri dl suo viso. Non c’era più il terreno o il palo sotto di sé. I pensieri e le domande si ridussero a piccoli lampi nella sua mente, urgenze che sarebbero state ignorate.
L’ultima cosa che sentì, fu un forte profumo di vaniglia e cannella.
 
 
Luce fioca da una finestra.
Il lieve scoppiettio di un fuoco che languiva.
Qualcosa di piccolo che colava, solleticandogli la pelle.
Un torpore diffuso per la schiena.
Percy si mosse, rigirandosi su un fianco, ma una fitta di dolore lo bloccò. Gli salirono le lacrime agli occhi e gemette. Tra le sue narici si insinuò il profumo troppo dolce della vaniglia. Si preparò a ricevere qualcosa di delicato, oppure mielato, invece…
«Siete uno stupido incosciente.»
Percy grugnì.
La persona che aveva parlato e che profumava sbuffò: «Sì, esatto, non fate altro che grugnire e sbavare nel sonno. Siete insostenibile.»
Percy mugugnò qualche sillaba sconnessa, senza riuscire a formulare una frase di senso compiuto. Aveva il palato impastato e una guancia gli doleva leggermente. Riuscì a capire che la voce che lo stava insultando apparteneva a una donna, la quale stava armeggiando con qualcosa che produceva un rumore stridulo  a contatto col pavimento. Uno sgabello, realizzò.
«Se aveste seguito i miei avvertimenti, probabilmente ora non vi ritrovereste in queste condizioni» continuò, imperterrita, come se stesse apostrofando una piccola peste.
Il suo sospiro spostò i neri ciuffi di Percy.
«Dovevate proprio farvi frustare?» mormorò la voce femminile, riportandogli i capelli indietro.
Percy schiuse lentamente le palpebre, ancora stordito. Temette di trovarsi in un sogno – un bel sogno-, quando vide le linee perfette di due labbra rosee, interrotte da un filo biondo, un ciuffo ribelle. Strabuzzò gli occhi, togliendosi il sonno di dosso.
Ma, anche così, distante appena qualche centimetro dal suo volto, c’era il viso delicato di un angelo biondo. Impiegò un altro istante per realizzare che quell’angelo era una donna in carne e ossa, che aveva fallito il suo tentativo di rimproverarlo e che portava il nome di Annabeth Chase.
Gli sfuggì un gemito a quella consapevolezza. Annabeth lo interpretò come un lamento, perché si allontanò subito e si alzò, uscendo dal campo visivo di Percy.
Non te ne andare, pensò, già architettando una strategia per farla ritornare lì, ma non ce ne fu bisogno.
La donna lo aiutò a sollevarsi sui gomiti, gli appoggiò una tazza di ceramica alla bocca e fece scivolare acqua tra le sua labbra. Percy accettò, grato, scoprendosi disidratato. Sovrappose la sua mano a quella di Annabeth e beve avidamente, alcuni rivoli che gli bagnavano la gola e il torace.
Inarcò troppo il collo e una fitta gli attraversò la schiena, facendolo scivolare sulla tavola di legno su cui era adagiato con un tonfo sordo. Consapevole degli occhi di Annabeth su di lui, si morse le labbra pur di non emettere un suono.
La donna fece un gesto vago con la mano, si sedette nuovamente sullo sgabello, la tazza vuota in grembo, e disse: «Non mostrare dolore non è un segno di debolezza. Non per me, almeno.»
«Non posso farlo vedere se non lo provo» replicò Percy, la voce più flebile di quello che avrebbe voluto.
Annabeth alzò lo sguardo da lui e fece una risatina di scherno.
«Mi sto occupando io stessa della vostra schiena e posso affermare con certezza che state soffrendo come un cane.»
Percy tacque. Non avendo obiezioni da muovere, riprese le fila del discorso: «Davvero mi state curando voi?»
Le guance le si colorarono lievemente di rosso. «Tutti sanno che passo parte del mio tempo nel negozio di Lee e Yew, sono la persona più adatta, visto che i medici hanno altri malati a cui pensare, non siete poi così speciale» si schermì.
«Lo sono abbastanza per voi» la stuzzicò Percy.
Annabeth gli sorrise. «Ogni bambino lo è.»
Il moro si obbligò ad allargare gli angoli della bocca, accettando quella risposta agrodolce. Avrebbe dovuto sapere che Annabeth non era un tipo da confessioni spassionati, che non gli avrebbe mai reso le cose facili.
«Dove siamo?» chiese, dopo un po’.
«Nella cucina dei Beckendorf, la casa più vicina in cui potevamo trasportarvi, viste le vostre condizioni precarie» spiegò.
Percy strabuzzò gli occhi. «E loro hanno accettato… voglio dire… Silena…» farfugliò.
«Erano entrambi presenti alla fustigazione, hanno visto in che condizioni eravate. Se vi portavamo nella vostra villa, c’era il pericolo che non ce l’avreste fatta, con tutto il sangue che perdevate.»
«Delle donne non dovrebbero assistere a certi spettacoli» borbottò.
Annabeth lo sentì e una risata amara le uscì dalle labbra, con un timbro isterico. Rischiò di cadere dallo sgabello.
«Che assurdità» disse, le lacrime agli occhi, «anche se voi non avete imbracciato le armi, là fuori c’è la guerra. Le donne vedono certi spettacoli, le donne non ne hanno sempre paura, le donne sanno proteggersi da sole. Perché voi uomini siete così convinti del contrario? Dovremmo insegnare alle nostre figlie a sopportare tali viste, non a temerle, le renderebbero più forti.»
Percy decise che era meglio non contraddirla. Rimasero in silenzio, a riflettere ognuno sui propri pensieri.
«Domani voglio togliere il disturbo» sentenziò.
«Avete sempre avuto questa naturale inclinazione al suicidio?» domandò Annabeth.
Percy la fissò con intensità.
«Ne discuterò con Bianca, ma non credo che sarà dalla vostra parte. Si sente già abbastanza responsabile per quello che vi è accaduto» consentì la bionda.
«Lei dov’è?» chiese, mentre una punta di ansia si faceva strada in lui.
«È andata a informare suo fratello dopo avermi aiutato con voi, adesso, però, si sta riposando nella stanza degli ospiti. Mi ha rivelato ciò che vi aveva detto, comprese le parole di Talia. Nico si rifiuta di vedervi e di sapere qualunque informazione sul vostro conto, e lo posso comprendere. In generale, tutta Jackson Hill è nel panico: Luke vi ha fatto chinare il capo e nessuno si sente più al sicuro. »
Percy pensò a tutti coloro che abitavano la sua cittadina, gli anziani che avevano conosciuto suo padre, chi, come il vecchio Chirone sulla sedie a rotelle, lo aveva rassicurato da giovane. Temevano che lui non fosse in grado, che le sue spalle non fossero abbastanza robuste per reggere la presenza dell’inglese per tutti.
Sentì montare prepotentemente la rabbia.
«Bastardo, che vada all’Inferno» inveì sottovoce.
Annabeth non commentò.
«Dovreste dormire, siete ancora debole» consigliò, «le emozioni delle giornata devono avervi già spossato molto.»
Percy fece per protestare, ma si rese conto che era vero. Cercò di sistemarsi alla bell’e meglio sul tavolo, con scarsi risultati. La frescura sulla schiena si era fatta più lieve. Abbassò le palpebre, avvertendo un lieve sentore di stordimento.
Le ultime parole che udì, prima di scivolare nel sonno, furono:  “non temete, veglierò su di voi. Dopotutto, non vi voglio morto, ricordate?”
 
 
Percy ansimò forte, la bocca aperta a far entrare più aria possibile. Le tempie gli pulsavano così forte che gli impedivano di pensare, se non avesse avuto la testa tanto pesante e la mente annebbiata dal cocente dolore che gli mordeva la schiena. I suoni attorno a lui rimbombavano come colpi di pistola. Confusamente, sentì diverse voci discutere e passargli qualcosa di freddo sulla fronte.
 
 
Bianca Di Angelo incrociò le braccia sui fianchi, fissò il pavimento e rifletté. Si umettò le labbra, riportando alla memoria tutti i medicinali che aveva messo da parte nella credenza di mogano nel secondo salotto della villa. Sì, c’era una boccetta in vetro simile a quella descrittale da Annabeth. Alzò gli occhi sulla donna che le stava di fronte.
«Ne abbiamo» dichiarò.
Annabeth annuì, lanciò di sfuggita uno sguardo alla porta chiusa alle sua destra, dove si trovava la cucina.
«Ascoltami, Bianca: può sembrare una follia, ma dobbiamo portarlo alla villa.»
La mora aspettò che chiarisse le motivazioni di quella scelta. Sapeva che l’amica non faceva nulla per caso.
«La morfina è là ed è di vitale importanza. In più… ci serve qualcuno che prenda le redini della città. Se tuo fratello si ostina a non prendere il posto di Percy, o gli inglesi si nomineranno i padroni di Jackson Hill o scoppierà il caos tra di noi, e ciò porterebbe alla prima conseguenza.»
«Vuoi che lo veda in queste condizioni per sensibilizzarlo e spronarlo a fare il capo?» chiese Bianca, per confermare le sue teorie.
«Esattamente» confermò Annabeth. «Mi dispiace, ma ne abbiamo bisogno.»
Bianca si morse le labbra e pensò a Nico, barricato nella sua stanza.
«Spero funzioni…» sospirò. «Perché se questa vista potrebbe fornirgli la forza di fare la cosa giusta, potrebbe dargli abbastanza rabbia da portarlo a compiere una sciocchezza.» 
La bionda le sorrise timidamente, comprensiva. Si congedò, dirigendosi verso la cucina per preparare il ferito al viaggio. Bianca uscì dalla casa, ne percorse il profilo e arrivò davanti al portone della fucina del fabbro.
Chiamò Tyson, che arrivò spedito, e gli ordinò di sellare due cavalli e legarli al carro che usavano per trasportare la legna per il fuoco, durante l’inverno. Il ragazzone corse a eseguire le consegne. Bianca ringraziò mentalmente Silena Beauregard per aver fatto costruire un piccolo ricovero per i cavalli da suo marito, in modo che potesse continuare a coltivare la sua passione anche da sposata.
Dei passi la fecero voltare. Charles Beckendorf era un uomo alto e dalle spalle larghe, le mani callose per via del lavoro e i capelli neri come i carboni che scaldava per modellare il metallo. I suoi occhi nocciola seguirono Tyson finché poterono.
«Lo state spostando» disse.
«Già.»
Bianca si mantenne sul vago.
Beckendorf si strofinò le mani, torcendo le dita, prima di domandare, mantenendo un tono da conversazione forzato: «Non dovrebbe essere meglio lasciarlo qui?»
«Forse, per via della febbre e dell’inizio dell’infezione» rispose la mora. «Però abbiamo medicine specifiche alla villa che voi non avete e che potrebbero fare la differenza.»
«Potrei andare a cavallo fin lì e portarle qui al galoppo» si offrì subito, ma la donna scosse la testa, facendolo sentire lievemente a disagio.
Pensò stesse nascondendo qualcosa, così la incalzò con lo sguardo.
Bianca si morse le labbra. «Fidatevi, vi prego, e non fatemi altre domande. Alla fine, questa sarà la soluzione vincente.»
Beckendorf ponderò quelle parole in silenzio. «Va bene, vi credo. Immagino vi servano braccia forti per trasportare Percy sul carro, giusto?»
«Sì, grazie, né io né Annabeth ce l’avremmo fatta da sole» disse Bianca, riconoscente. «E vi sono infinitamente grata per l’ospitalità.»
«Dovere» replicò l’uomo, riavviandosi i capelli.
La giovane donna lo superò, ritornando sui suoi passi e pregò che non si vedesse come le sue guance si fossero accese.
 

A Nico faceva male il polso e gli formicolava il gomito. Era rimasto per l’intera notte seduto su una sedia a scrutare la Luna, percorrendo con lo sguardo il profilo della città e le luci delle case spegnersi una dietro l’altra, una guancia appoggiata sul pugno chiuso e il braccio sul piccolo rientro della finestra.
Gli bruciavano gli occhi, ma non riusciva a dormire. Dei colpi al piano di sotto lo fecero sobbalzare. Preso alla sprovvista, si sbilanciò e cadde all’indietro, seguendo la sedia.
Imprecò tra i denti e si alzò, massaggiandosi il capo. Indossava gli stessi abiti del giorno precedente, la camicia bianca stropicciata e il colletto allargato. Non si curò del suo aspetto trasandato, scese le scale di malavoglia e si preparò il discorso con cui scacciare sua sorella.
Che gli importava di come stava Percy? Era lui che aveva deciso di farsi ammazzare, ne avrebbe pagato le conseguenze. La sicurezza del rancore gli fece aprire il portone della villa di slancio, senza nemmeno scomodarsi ad alzare le palpebre.
Disse: «Se sei qui per parlarmi ancora di lui, allora puoi anche andartene.»
«Non essere scorbutico, Nico» ammonì Bianca, dura. «Non sono sola.»
Il moro aprì gli occhi, sbatté le palpebre un paio di volte e vide che dietro sua sorella c’erano altre due figure: una più robusta e ben piazzata, quella di Charles Beckendorf, e quella femminile di Annabeth Chase. Dietro il fabbro, scorse anche Tyson.
Fece una smorfia.
«Che ci fanno qui?» ringhiò piano, in modo che solo Bianca potesse sentirlo.
La giovane si girò, rivolse un sorriso rassicurante agli accompagnatori e si infilò in casa, chiudendosi la porta alle spalle.
Nico la guardò, gli occhi che mandavano scintille. Si aspettava delle spiegazioni per quel capannello di persone, oh sì se le aspettava.
«Allora?» incalzò, impaziente.
«Dovresti cambiarti e lavarti, puzzi come se ti fossi scolato un’intera bottiglia di Vodka.»
«Non tergiversare» la bloccò Nico con rabbia.
«Va bene» sbottò Bianca. «Dobbiamo entrare per prelevare delle medicine per Percy. Avevamo preso delle precauzioni, ma un’infezione si è comunque presentata. Possiamo fermarla in tempo e salvarlo.»
Nico di allontanò da Bianca, fece un ampio gesto con il braccio a indicare il corridoio che portava in soggiorno.
«È tutto là, serviti pure. Saresti potuta venire da sola.»
La sorella esitò, mordendosi l’interno della guancia. «Non capisci» mormorò. «Dobbiamo entrare perché c’è anche lui.»
Il giovane dai capelli scuri si pietrificò, il braccio ancora teso a indicare la via. Il suo cuore riprese lentamente a battere, sciogliendo il ghiaccio che gli bloccava i movimenti. Sentì la faccia andare a fuoco per la rabbia che montava prepotentemente dentro di lui.
Con due falcate furiose, raggiunse la porta, la spalancò e cacciò fuori la testa.
«Lui non entrerà in questa casa finché vivrò!» gridò, prima che Bianca lo riacciuffasse per il colletto e lo sbattesse dentro, incollandolo con la schiena al legno del portone.
Stupita della propria forza, lasciò andare immediatamente la presa sui suoi vestiti e si strinse le mani in grembo, osservandole come se fossero estranee. Nico ansimò per la sorpresa, incapace di elaborare quello che era appena successo.
Sua sorella, colei che si era sempre presa cura di lui e non gli avrebbe mai fatto del male, né avrebbe permesso che gliene accadesse, l’aveva trattato come se non lo conoscesse, come se non fosse un uomo adulto, un uomo che non poteva essere toccato in quel modo da una qualsiasi donna.
Non riuscì a provare rabbia, solo un immenso vuoto. Che cosa stava accadendo in quella città?
«Io… io…» balbettò Bianca. «… mi dispiace.»
Nico ebbe unicamente la forza di spostarsi dalla porta e muovere qualche passo nella hall. Fissò l’attenzione sui suoi piedi, mentre la sorella faceva entrare Annabeth, seguita Beckendorf, il quale trasportava una rudimentale barella.
Non alzò lo sguardo quando gli sfilarono accanto né quando Percy si lamentò. Bianca gli mise una mano sulla spalla, la fece scivolare lungo l’addome, prima di seguire il ferito, che veniva trasportato su per le scale, dove si trovavano le stanze. Nico rimase immobile finché non sentì le ginocchia dolergli per l’inattività, così salì al piano superiore e andò diretto alla sua camera.
Era una persona ordinata, gli piaceva che sulla scrivania regnasse una rigorosa disposizione di carta, inchiostro e penne d’oca. Il letto era intatto, le coperte bianche intonse e una piccola lampada a olio sul comodino accanto ad esse. Si fermò nel centro dell’ambiente, gli stivali alti che affondavano lievemente nei soffici ricami del tappeto persiano.
All’improvviso, gli sembrò impossibile che un corpo esile di un ragazzo poco più che maturo potesse contenere tanta rabbia e non rischiare di andare in pezzi. Se si soffermava a pensarci, però, aveva anche creduto che non potesse provare dei sentimenti così potenti.
Quelle frasi da romanzo che recitavano “per amore si può fare di tutto, soprattutto pazzie” gli erano sempre sembrate estreme, qualcosa che non potesse minimamente sfiorarlo. Ma si sbagliava, in tutto.
Le sue dita si chiusero sulla lampada a olio, la sollevarono e la strinsero, serrandovisi attorno come una morsa. Rivide, nella trasparenza della finestra, il sorriso di Percy, udì la sua voce perdere il solito tono irritante di scherno e assumerne uno rassicurante che diceva “andrà tutto bene”.
E poi il suo lamento lo stordì, quasi fosse acuto come il fischio d un treno. Scagliò la lampada contro il vetro con un grido, infrangendo il sorriso di Percy. I cocci rotti produssero un rumore stridulo, mentre il lume era un tonfo di sottofondo.
Sì, pensò, era impossibile che riuscisse a contenere tutta quella rabbia senza soffocare.
Afferrò lo schienale della sedia e ne ruppe due zampe contro il muro, la scaraventò a terra, dove rimase. Scagliò le due boccette d’inchiostro nel varco creato dalla lampada, rovesciò la scrivania, evitando per un soffio di farla cadere sui suoi  piedi. Una pergamena volò in alto, prima di ricadere e graffiargli il polso. Si girò, furioso, verso il letto e tirò un calcio alla testata in legno.
Si fece più male lui che il mobile, ma non ci badò, strappando con la smania assassina di una bestia le lenzuola. Rovesciò il comodino, si aggrovigliò le gambe nelle coperte, ma non smise di mettere a soqquadro la stanza finché non ci fu più niente da distruggere.
Allora, si lasciò ricadere sul tappeto, esausto come mai prima d’ora. Si presa la testa tra le mani, conficcando le unghie nelle tempie.
Se c’era un’unica consapevolezza ancora integra, era quella che non avrebbe pianto. Mai. Se l’avesse fatto, sarebbe stato come ammettere di essere debole e distrutto da ciò che stava accadendo a Jackson Hill, perciò era meglio far finta di niente e mentire a sé stesso.
Allentò la presa sulla sua testa, una mano gli ricadde in grembo aperta. Il foglio di carta gli aveva procurato un taglietto di sbieco a qualche centimetro dal polso, dove una cicatrice più vecchia era in netto contrasto con la sua carnagione.
Era appena accennata, una lieve ruga biancastra, posta orizzontalmente rispetto alle vene. Nico sentì che si stava aprendo un varco oscuro davanti a lui.
Si ricordava come si era procurato quella cicatrice. Era piccolo, uno dei primi anni che passava alla villa, e non aveva voglia di uscire a giocare in giardino come Percy. Aveva deciso di perfezionare la sua scrittura, così aveva preso la carta e l’inchiostro scuro e si era posizionato in cucina.
Aveva fatto un po’ di fatica a trovare una posizione che gli permettesse di scrivere comodamente, visto che la sedia era troppo bassa e il bordo del tavolo troppo alto. Si era messo di buona lena a trovare uno stile che lo compiacesse del tutto, uno in cui le “a” non fossero troppo arzigogolate e le “g” non si confondessero con le “effe”.
Gli era bastato spostarsi di qualche millimetro per urtare col gomito la boccetta d’inchiostro e, nella foga di non sporcare, fare un pasticcio ancora più grande. Aveva fatto cadere il vetro e, per afferrarlo in tempo, si era sporto troppo a destra ed era caduto. Un coccio gli aveva procurato quel taglio sul polso, che aveva subito iniziato a sanguinare.
Non sapendo cosa fa, era rimasto in quella posizione impalato. Farsi rimproverare non era nei suoi piani. E aveva creduto che questi fossero andati in fumo, quando Percy era comparso sulla soglia della cucina e aveva strabuzzato gli occhi verde oceano.
Era stato sul punto di dirgli di andarsene via, di lasciarlo in pace – magari con l’aggiunta di qualche insulto, giusto per essere convincente –, quando il ragazzino si era impossessato di una pezza e l’aveva porta lui.
Nico l’aveva guardato come si guarda un folle, così Percy gli si era inginocchiato accanto e aveva premuto il panno sul taglio, per fermare il sangue. Non aveva detto una parola ma, il giorno dopo, Nico era andato a giocare in giardino con lui.
Ora, vide il baratro avanzare verso di lui inesorabile. Chiuse gli occhi, strinse le palpebre e urlò. Un unico, lungo, ululato di dolore che scosse l’intera villa.
 
 
Bianca strinse le dita sulla gonna per impedire alle mani di tremare. Immaginava che suo fratello si sarebbe comportato in quel modo, ma sentire tutto quel trambusto, le sue grida, la stava lacerando dall’interno, perché sapeva che lei aveva contribuito a causargli quel dolore.
Avvertì un tocco lieve e, allo stesso tempo, sicuro alla base della schiena. Pensò si trattasse di Annabeth, così si portò una mano indietro e strinse l’altra. Si tese come una corda di violino, quando sentì sotto i suoi polpastrelli la pelle ruvida e i calli sulle nocche di Beckendorf.
Lasciò andare la mano, fece un passò avanti e si voltò, cercando di non arrossire. Il fabbro le sorrise timidamente.
«Mi era sembrato che vi servisse un po’ di conforto» esordì.
«Non ce n’è bisogno» mentì. «Mi sto solo preoccupando per la finestra… non sarà facile… sapete… ripararla.»
Beckendorf si avvicinò, mantenendo sempre quell’aria gentile e mite.
«Mia moglie dice che, per raccontare una bugia credibile, si devono fornire molti dettagli  e, molto importante, non interrompersi mentre la si sta pronunciando.»
La donna si mordicchiò il labbro inferiore, indecisa se continuare quella farsa oppure abbandonarsi alla dolcezza rassicurante del fabbro. Stava per negare che stesse mentendo, quando l’urlo di Nico attraversò la villa. Si sarebbe portata le mani alle orecchie, se lo stupore misto a un velo di terrore non le avesse bloccato i movimenti.
Che cosa sta facendo là sopra?, si domandò.
Sentì le braccia calde e forti di Beckendorf accoglierla in un rifugio sicuro che sapeva di sale e sudore. Si aggrappò al suo petto come un gattino bisognoso d’affetto, incassò la testa nella curva tra spalla e collo, e lasciò che il primo singhiozzo la scuotesse da capo a piedi come un albero sotto i colpi di un’accetta.
 
 
Annabeth udì il tintinnare del campanello della porta principale che annunciava l’entrata di qualcuno.
«Avanti» accolse, alzando la voce per farsi sentire.
Era sul retro del negozio di Lee e Yew, i quali, dopo aver passato una nottata in bianco a visitare donne anziane che avevano rischiato un attacco di cuore per la notizia che Percy sarebbe stato frustato  e altrettante persone che erano svenute quando questo era accaduto, erano ritornati a casa dalle loro famiglie.
Anche lei si sentiva stanca e spossata, ma aveva deciso ugualmente di sistemare gli articoli della farmacia, visto che già doveva recarvisi per recuperare lo scialle che aveva dimenticato. Ripose con cura una scatola contenente delle garze, prima di andare incontro al cliente.
«Avete bisogno di qual-»
Le parole le morirono in bocca quando riconobbe chi si trovava davanti.
Capelli biondi, occhi chiari e una cicatrice diagonale sulla guancia, oltre all’uniforme rossa impossibile da distinguere. Sulla mascella sinistra c’era l’inizio di un livido violaceo, che si irradiava da un taglio poco profondo vicino al labbro.
Annabeth recuperò il sangue freddo e ripeté la frase: «Avete bisogno di qualcosa?»
Luke Castellan mosse qualche passo nella farmacia, avvicinandosi al bancone dove anche lei si stava dirigendo.
«È sempre così difficile trovare un negozio aperto a quest’ora del mattino?» domandò, appoggiando i gomiti sul legno.
Annabeth non rispose. Prima di fare qualunque mossa, avrebbe analizzato il terreno di gioco e l’avrebbe sfruttato a suo vantaggio.
L’inglese sbuffò. «Mi serve solo dell’alcol per sciacquare la ferita, procurata da una pietra che è stata lanciata involontariamente nella mia direzione e che, sempre involontariamente, mi ha colpito.»
«Certamente» disse la donna, sorridendogli.
Scomparve nel retro, facendo finta di cercare ciò che le aveva chiesto il soldato. Appoggiò la schiena a uno scaffale e respirò profondamente.
Era davvero sicura di voler fare quello che aveva in mente? Scoprire i segreti di Luke Castellan con la maschera di una donna premurosa?
Assunse un cipiglio deciso, prese una bottiglietta di vetro bombata e una benda pulita, dopodiché ritornò da lui. Appoggiò prima la boccetta e poi la garza sul bancone, lasciando che l’inglese le osservasse per bene.
Luke alzò un sopracciglio, confuso.
«A tutti i cristiani gli stessi trattamenti. Un oceano non dovrebbe dividere così uomini e donne di Dio» spiegò Annabeth, assumendo un’aria piuttosto convincente.
L’inglese sembrò colpito, ma accettò di sistemare due sgabelli di fronte al bancone e di sedersi per farsi medicare.
La bionda svitò il tappo della boccetta, lo ripose sul tavolo e bagnò la benda, ripiegata più volte su se stessa, con l’alcol. Si accomodò sullo sgabello alto, si sporse verso Luke Castellan e poggiò con tutta la delicatezza di cui fu capace la pezza imbevuta sul suo taglio.
L’inglese sussultò lievemente, mistificando il dolore grazie al suo rigido contegno.
«Scusate» disse piano, ritirando indietro la mano. «Dovrei ricordarmi che non siete invulnerabile.» Liquidò le domande dell’uomo con un gesto vago che equivaleva a “bizzarri racconti popolari su voi inglesi”.
Annabeth riprese a pulire dal sangue la ferita con ancora più dolcezza, apparentemente senza badare alle occhiate che le lanciava il soldato. La sua mente, intanto, lavorava per trovare una strategia che le permettesse di scoprire qualcosa sul suo conto.
«Siete la prima persona che non mi tratta come un usurpatore» esordì Luke Castellan, assumendo un tono che Annabeth non gli aveva mai sentito.
Era più morbido rispetto all’asprezza del suo accento e alla ruvidezza dei suoi ordini.
Le tremò impercettibilmente la mano, che fece troppa pressione sul taglio. L’inglese storse la bocca in una smorfia, corrugò involontariamente la fronte, formando un solco tra le due sopracciglia bionde. Annabeth lo trovò tenero, ma subito dopo si obbligò a non pensare a simili sciocchezze.
«Forse perché non lo siete» replicò, imbevendo nuovamente la pezza nell’alcol. «Nonostante non creda a ciò che avete declamato al vostro arrivo» continuò, senza dare il tempo al soldato di intervenire. «Non si pensa ai negri quando si è in guerra, o sbaglio?»
L’uomo la guardò negli occhi.
«Quanta perspicacia» commentò, e non c’era traccia di scherno nella sua voce, solo sincera ammirazione.
«Mio padre è un bravo giocatore di scacchi, mi ha insegnato immedesimarmi nell’avversario per riuscire a prevedere le sue mosse» si schermì.
«Allora» considerò Luke Castellan, «dobbiamo la vostra istruzione e intelligenza a vostro padre, mentre la vostra grazia a vostra madre.»
Il suo cuore stava accelerando i battiti. Non credeva possibile che l’inglese fosse capace di tali parole. Ma non poteva tirarsi indietro proprio ora che era vicina a una confessione.
Finì di disinfettare la ferita dell’inglese, mentre chiedeva: «La Corona vi ha spedito qui per spiare noi americani dall’interno o per innamorarsi delle donne?»
Sentì che la sua domanda suonava molto come una sfida.
Fece per ritirare la mano, abbandonando il panno sul bancone, ma l’inglese la fermò.
«Entrambe» mormorò Luke Castellan, mentre accompagnava il mento e le labbra di Annabeth sulle proprie.
 

Angolino dell'autrice
Ok, ammetto di essermi gasata parecchio per quest'ultima scena. Il che è strano, dato che in genere non sono per le Lukabeth. Amen ^u^
Luke frusta Percy ma va'? e Jackson Hill va nel panico. E' Annabeth a trovare una possibile soluzione a questo casino, perché, se lei non fosse di proprietà di zio Rick, per me sarebbe una stratega militare di grande successo.
E se Nico non fosse di zio Rick, sarebbe un panda da stritolare e portarsi a letto uwu
Se Bianca non fosse morta, così come Beckendorf e Silena, lui tradirebbe la fidanzata per andarsene con Bianca. Perché l'anon spacca la monotomia del canon.
Comunque, la morfina è stata ufficialmente inventata nel 1804, ma era già presente al tempo di Costantinopoli, dopodiché era diffusa anche tra la Compagnia delle Indie. Anche senza quel nome, c'era, e a me serviva. Sì, Water ha fatto i compiti xD
Anyway, ringrazio la mia compare nico_green che ha recensito, insieme a Sapientona e EmmaStarr.
Buon Natale!

Water_wolf

 

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Capitolo 3
*** Parte Terza • ***


Parte Terza
 
Annabeth si sentì invadere la bocca da un elemento estraneo, accompagnato dal sapore rugginoso del sangue. La lingua di Luke Castellan si mosse leggermente, accarezzando la sua, e la donna si lasciò trascinare dall’istinto, seguendo quello che le suggeriva il corpo. A tentoni, trovò il petto dell’inglese e si staccò con la forza dal bacio.
Cercò di inspirare quanta più aria possibile, il fiato che le usciva in sibili dalla bocca aperta, la presenza dell’uomo dentro di sé ancora forte. La schiena la inviava dei brividi, che le facevano tremare le mani; le ricordavano dei ragni che si arrampicavano sulla sua spina dorsale. Odiava i ragni.
Deglutì a vuoto, alzò gli occhi su Luke Castellan e raccolse tutta la forza che possedeva per mormorare: «Ho finito. C-credo che dobbiate andarvene.»
Era troppo scossa per riuscire a interpretare le emozioni che si susseguirono sul volto dell’uomo. Quando sentì il campanello del negozio tintinnare, segno che l’inglese se n’era andato, riuscì a regolarizzare il respiro.
La sua mente non era capace di elaborare il fatto. Continuava a sentire le sensazioni che il bacio le aveva dato, le analizzava in tutte le sfumature, arrivando all’unica conclusione che le era piaciuto. Le era piaciuto molto.
 
 
Trascorse un intero giorno, prima che Nico uscisse dalla sua stanza e decidesse di vedere Percy. Erano passate poche ore dall’alba e non si udiva un suono nella casa. Il giovane faceva scricchiolare le assi del pavimento, ma così piano che sembrava un fantasma. Esitò sulla porta, la mano che non sapeva se appoggiarsi sul pomello oppure meno.
Si morse l’interno della guancia, poi, senza ulteriori indugi, aprì ed entrò di slancio. Era sicuro che se avesse preso più tempo, non avrebbe più avuto il coraggio per farlo. Percy era steso sul suo letto, il viso che affondava in un cuscino, un fievole raggio di luce aveva trovato la strada tra le tende e illuminava il suo dorso. Le bende che gli cingevano la schiena erano striate di rosso, gli ultimi residui del pus sulla base dalla spina dorsale le sporcavano di un colore giallastro.
Nico represse un conato di vomito, si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò. C’era una sedia, accanto al letto, ma la ignorò. La testa gli diceva di non guardare ulteriormente quella scena, ma lo sguardo aveva altre idee, e fuggiva di continuo dal volto di Percy alla sua schiena.
Se avesse potuto, si sarebbe fatto carico del dolore che il moro provava e gli avrebbe alleviato la sofferenza. Incrociò le braccia, fece avanti indietro per la camera, incapace di stare fermo.
Nel tempo che rimase lì, divenne maniaco delle sue ciglia. Erano lunghe e scure, così sottili, esili, diverse dalla forza e dal coraggio che dimostrava l’uomo che le portava. Osservando quel corpo, una sensazione scivolò nel suo petto, si impossessò del suo cuore e della sua mente. Vendetta. Voleva vendetta per ciò che avevano fatto alla persona che amava di più al mondo.
Uscì dalla stanza, rientrò nella sua e si cambiò, rigido nelle sue riflessioni. Scese le scale, attento a non fare il minimo rumore, silenzioso come un’ombra, e si diresse in soggiorno.
Percy teneva un bel fucile Pennsylvania in una teca sopra la credenza, regalo di maggiore età di suo padre. Con un po’ di fatica, si arrampicò sul mobile e si impossessò del fucile. Aprì le ante più basse e trovò polvere da sparo, contenuta in un corno d’argento, e una sacca di pallottole. Si legò tutto alla cintura, richiuse con cura la teca, senza lasciare traccia del suo passaggio, e abbandonò la villa.
Luke Castellan, il bastardo inglese, viveva fuori dalla città con il suo compagno. A cavallo non era una grande distanza, l’avrebbe raggiunto entro mezzogiorno. Nessuno sarebbe intervenuto a distruggere la sua fantasia di vendetta, nessuno gli avrebbe impedito di far pagare col sangue quel debito.
 
 
Percy girò la testa e aprì gli occhi. Lasciò vagare lo sguardo per la camera, riconoscendo la disposizione dell’arredamento e i mobili. Si accorse della morbida consistenza delle lenzuola sotto il suo petto. Si sentiva la testa svuotata da ogni pensiero, incredibilmente leggera.
«Ben svegliato.»
Percy alzò gli occhi, incrociando la figura di Annabeth, seduta su una sedia vicino alla finestra. Doveva avere un’espressione davvero stralunata, perché la bionda gli spiegò cos’era accaduto senza il bisogno che glielo chiedesse.
«Avete voglia di mangiare qualcosa?» domandò. «È da giorni che non mettete nulla sotto i denti.»
Percy annuì, ancora per metà nel mondo dei sogni. Il profumo stuzzicante del pane appena sfornato gli invase le narici, accompagnato da quello più forte e intenso del caffè, mitigato dal latte. Il suo stomaco brontolò. Si fece aiutare da Annabeh per sistemarsi su un fianco, in modo da potersi servire più comodamente.
«Fate piano» si raccomandò Annabeth.
Percy quasi non la sentì. Erano quasi quarantottore che non mangiava, l’idea di potersi finalmente riempire lo stomaco sembrava ancora un miraggio. Il caffè gli ridiede subito un po’ di energia, risvegliandolo completamente.
Fece del suo meglio per non avventarsi sul cibo come una leonessa su un’antilope, per non dare una brutta impressione, ma Annabeth sembrava essere da un’altra parte con la testa. Si chiese se qualcosa l’avesse turbata, però, pensò che fosse tutto legato alla stanchezza. Si ripromise ringraziarla adeguatamente.
La porta si spalancò all’improvviso. Bianca aveva l’aria stravolta di chi ha passato la notte in bianco, i capelli raccolti in una treccia appena abbozzata e la mano ancora sul pomello; aveva occhi solo per la bionda.
«Annabeth!» gemette.
«C’è qualche problema?» domandò Percy.
Non l’aveva mai vista così, gli occhi verdi sembravano completamente terrorizzati, il vetro di una cattedrale che sta per infrangersi. La donna sembrò accorgersi solo in quel momento di lui.
«Nulla» mentì. «Potresti venire fuori?» si rivolse ad Annabeth, che annuì e si alzò, affrettandosi.
Percy attese. Anche un imbecille – e lui non era un imbecille– si sarebbe accorto che qualcosa non andava, ma da fuori provenivano solo grida attutite e suoni indistinti. Cercò di riflettere sulla questione, gli occhi fissi sul fondo della tazza dove prima c’era il caffè.
Ripercorse col pensiero il racconto di Annabeth e si accorse di un dettaglio che prima gli era sfuggito. Dov’era Nico in tutta questa storia? Perché non l’aveva ancora visto?
Quando Annabeth tornò in camera, più tesa e con un falso sorriso rassicurante stampato in volto, non aspettò un secondo a porle la domanda.
«Nico?»
La bionda tentennò, mancando il piatto del pane al primo colpo. Lo afferrò in fretta, così come la tazza.
«È ancora chiuso nella sua stanza» rispose.
Percy assottigliò lo sguardo.
«Come mai Bianca era così scossa?»
Annabeth scrollò le spalle, avvicinandosi alla porta.
«Si era confidata con Beckendorf, prima che se ne andasse, e aveva paura che lui avesse potuto fraintendere.» Mise mano al pomello. «Cose da donne, non vi preoccupate.» Uscì.
Percy provò a credere alla spiegazione della donna, ma non ci riuscì. Per quanta fiducia riponesse in entrambe, dubitava che Bianca si preoccupasse così solo per una questione di poco conto. Si guardò intorno e decise che, se proprio doveva restare in quelle quattro mura, sarebbe venuto a capo del mistero.
Si immedesimò in Nico, pensò con la sua stessa testa. Era arrabbiato, decisamente frustrato e probabilmente sarebbe scoppiato di lì a poco. Fin lì, non c’era da discutere. Nico non aveva un brutto carattere, alle volte, però, era piuttosto irascibile e rancoroso.
Se fosse stato in lui, avrebbe incolpato se stesso e chi gli aveva procurato tanto odio, cioè lui e Luke Castellan. Ma se non l’aveva voluto vedere, allora avrebbe rivolto la sua rabbia verso l’inglese. L’ultimo passo del percorso di Nico lo lasciò spiazzato. Era da pazzi, assolutamente folli, andare direttamente e volontariamente dal soldato.
«Non puoi farti ammazzare…» mormorò.
No, l’avrebbe fermato. Già, era più facile a dirsi che a farsi. Cosa sperava di fare lui, ferito e senza appoggio? Nessuna persona sana di mente l’avrebbe lasciato andare. Lo farò da solo, decise.
«Lo farò da solo» ripeté, e quelle parole gli sembrarono più una condanna che una scelta.
Quando si raddrizzò, mettendo i piedi a terra, gli salì un conato di vomito. Si prese la testa tra le mani, aspettò che la nausea cessasse, mentre la sua saliva filava dalle sue labbra al pavimento. Decise che si sarebbe alzato tutto d’un colpo, in modo da non potersi fermare a riflettere sul dolore.
Con uno slancio ammirevole, scattò in piedi, prima che la vista gli diventasse rossa per un momento e lui andasse a sbattere con la faccia contro il muro. Imprecò tra i denti, massaggiandosi il naso e reggendosi alla parete per non cadere. Masticò insulti su insulti, maledicendo chi per primo gli passava per la mente, cercando così di distogliere l’attenzione dal dolore.
Poteva percepire perfettamente i lembi della pelle tirare, le piccole croste appena formate staccarsi e il sangue appiccicargli le bende. Ma non demorse. Arrivò fino in fondo al corridoio, prese fiato prima di scendere le scale e pregò che qualcuno lassù lo aiutasse.
Quando scese l’ultimo gradino, il petto gli si gonfiò d’orgoglio. Poi, pensò a tutto quello che ancora doveva fare e si sentì mancare. Ricordò per chi lo stava facendo, e allora cancellò definitivamente il pensiero di ritirarsi. Per Nico, avrebbe fatto questo e altro.
Aprì la porta e fu investito dalla frizzante aria mattutina. Si voltò indietro, prima di varcare la soglia, e salutò Annabeth con un cenno della mano. La donna rispose sorridendo, avviandosi verso il soggiorno.
Percy sgusciò fuori giusto prima che la sentisse gridare: «PERSEUS JACKSON, CHE COSA DIAMINE STATE FACENDO ALZATO?»
Scappa, pensò Percy, e cercò di affrettare il passo.
Udì il portone spalancarsi e non richiudersi, oltre che le urla e i richiami di Annabeth alle sue spalle. Non poteva farsi fermare così, sarebbe stata la fine di tutto, e non aveva nemmeno raggiunto la stalle. Sarebbe stato un fallimento epico.
Animo, si disse; e gambe in spalla!, aggiunse con stizza.
Quando il profilo dell’edificio in legno gli comparve davanti, si sentì invadere da una forza nuova. E Annabeth lo acciuffò per i pantaloni. Percy rischiò di cadere, oltre che procurarsi un dolore atroce alla schiena.
«Voi siete uno sconsiderato, privo di senno e una testa…» ingoiò il “ di cazzo” e completò: « d’alghe!»
Percy dimenticò per un attimo il dolore e corrugò le sopracciglia. «Alghe?»
«Sì» sbottò Annabeth, esasperata. «È la prima cosa a cui ho pensato!»
«Come possono esservi venute in mente le alghe in questo momento?» domandò Percy, sempre più perplesso.
«Non lo so!» esplose, diventando rossa come un peperone, «Forse perché le mie dita sono incastrate nei vostri pantaloni e vi sto toccando il sedere!»
Il moro fece una faccia stupita, si guardò il didietro e notò che la donna diceva la verità. Soffocò una risata, con scarsi risultati.
«Non ridete!» ordinò Annabeth, assumendo un tono ancora più scuro, diventando color melanzana.
«Perché, quando ci siete voi di mezzo, ci si ritrova sempre in queste situazioni?» sospirò, rivolgendosi a nessuno in particolare.
Percy le liberò le dita, sorridendo al cambiamento di colore del viso della donna, e mosse un passo verso la stalla. Sperava che la bionda si dimenticasse perché era lì, ma era solo un vano desiderio. Infatti, sorse subito la questione sul motivo per cui si era alzato.
La risposta “devo salvare Nico”, non le sembrò sufficiente. Elencò, con la maestria di un professore o di un avvocato, più ragioni di quelle che Percy sarebbe riuscito a pensare in dieci anni di riflessione, con una velocità e una foga che gli fecero dubitare dell’immagine che aveva sempre avuto di lei. Era arrivata al duecentesimo consiglio – se aveva contato correttamente–, quando la troncò.
«Mi rincresce molto, ma non riuscirete a farmi cambiare idea. Potrei farmi ammazzare così, ma mi ucciderei con le mie stesse mani, se Nico non tornasse a casa.»
Annabeth lo fissò intensamente, le mani incrociate sui fianchi, e lui impresse in quello scambio di sguardi tutti i sentimenti che lo animavano. La donna sospirò, si voltò indietro e camminò verso la villa.
Lo stomaco di Percy si contorse in una morsa dolorosa. Non pensava l’avrebbe lasciato andare così, come se non fosse nessuno di importante, dopo tutto quello che era successo in quei giorni.
Sbrigati, prima che cambi idea, si disse, ordinandosi di andare avanti. La schiena gli inviava fitte di dolore acuto per ogni passo, rendendogli difficile camminare. In che condizioni avrebbe affrontato Luke Castellan?
Aprì il chiavistello che teneva chiuso il cancello della stalla, si orientò al buio e trovò il ricovero di Blackjack. Lo prese per la cavezza e lo condusse fuori, sfruttando la forza del cavallo per sorreggersi. Percy rientrò, consapevole che il prossimo passo sarebbe stato difficile e doloroso.
Sollevare la sella e i finimenti, in circostanze normali, non gli avrebbe richiesto che poca energia, ma con la schiena in quello stato, sospettava che lo sforzo avrebbe potuto ucciderlo. Non si tirò indietro, né contemplò la dolce idea di sottrarsi a quelle torture autoinflitte.
Prese un grosso respiro, si sistemò la sella sugli avambracci e la sollevò dal sostegno. Il suo peso lo schiacciò e, per un pericoloso momento, temette di cadere e di non riuscire più a rialzarsi. Recuperò l’equilibrio e mosse i primi due barcollanti passi verso l’esterno. I muscoli della braccia sembravano volergli bucare la pelle, le vene erano così sporgenti da assomigliare a cicatrici mal richiuse.
Quando posò la sella sul dorso di Blackjack, si abbandonò contro il suo fianco, inalando a fatica l’ossigeno. Il sangue che colava gli faceva formicolare la pelle. Poi, sentì qualcosa di fresco e sottile sistemarsi sulle sue spalle. Alzò lo sguardo e vide che Annabeth era lì, che era tornata per lui, o forse non se n’era mai andata veramente. Gli stava infilando una camicia pulita.
«Perché siete qui?» domandò.
Annabeth gli fece scorrere una manica sul braccio. «Perché siete mio amico» rispose. «E perché non voglio che mandiate all’aria tutto il mio lavoro.» Infilò l’altro braccio. «Altre domande stupide?»
Percy era troppo occupato a sorridere per far ancora caso al dolore. Annabeth condusse fuori dalla stalla una giumenta pezzata e la sellò, facendo scorrere con la maestria dell’abitudine le cinghie sotto la sua pancia. Percy la osservò rapito, imbambolato in fianco al suo cavallo.
La donna alzò un sopracciglio.
«Avete bisogno di aiuto?» chiese.
«Uh?» Il moro si riscosse all’improvviso. «No, faccio da solo.»
Per dimostrare che non gli serviva una mano, infilò il piede sinistro in una staffa e montò, sbuffando per lo sforzo. Annabeth era impacciata dalla gonna, ma riuscì a salire al secondo tentativo.
Si avvicinò a Percy e domandò: «Dove siamo diretti?»
«Seguitemi» replicò lui, dando un colpo di speroni a Blackjack.
Partì al galoppo, perché gli scossoni del trotto e il dover assecondare quell’andatura del cavallo erano più dolorosi. Passò per la via principale di Jackson Hill, strappò un volantino, dove erano indicate le nuove disposizioni, e lo tenne alzato sopra la testa.Al suo passaggio, la gente usciva di casa e applaudiva, fischiava e lo guardava stupita.
Sentì Talia, dietro di sé, gridare: «Il signore di questa città è tornato! A morte l’inglese, a morte la paura!»
Percy attraversò il campi di cotone, facendo levare il capo ai neri. Il seguace di Luke Castellan, Ethan, tentò di farsi ascoltare a suon di frusta, ma dovette scansarsi per non farsi investire dai cavalli ed essere calpestato dagli zoccoli. Finì nel fango.
Oltrepassata l’area coltivata, si stagliò una pianura vasta e verdeggiante. Percy avrebbe spronato Blackjack, se questo non gli avrebbe causato delle fitte. Quando una era più forte delle altre, o se il dolore costante si faceva insopportabile, si sforzava di pensare a Nico.
Ma, per quanto si focalizzasse su di lui, i suoi pensieri fuggivano a Luke Castellan.
Aveva instaurato con l’inglese una guerra personale, un conflitto che non riguardava solo la sua città. Era il nemico delle ballate medioevali, quello che l’eroe doveva sconfiggere, ma senza il quale avrebbe perso una parte importante di sé. Possedeva la bellezza folgorante del ghiaccio e la sua letalità. Nel suo sorriso schietto, vedeva un sfida. Gli piacevano le sfide.
Sentiva di comprenderlo, di potersi sovrapporre a lui, seppur con qualche differenza. E quando capiva così profondamente il suo nemico, sentiva di amarlo.
Fu Annabeth a distoglierlo dalle sue riflessioni, indicando un grosso capannone di legno, un lato coperto da un drappo rosso; poco distante da essa, notò lo stallone baio di Nico. Fecero rallentare le cavalcature, avvicinandosi lentamente.
«Come vi sentite?» si informò Annabeth, sottovoce. Percy percepì una certa dose di ansia, che la donna nascondeva abilmente.
«Bene» mentì, raddrizzando la schiena.
Annabeth avrebbe voluto ribattere, se non fosse che il suono di vetri che vanno in frantumi la interruppe. Si scambiarono uno sguardo d’intesa, prima di affrettarsi a raggiungere il capannone. Lasciarono i cavalli slegati, così da non perdere tempo a liberarli, nel caso avessero dovuto fuggire repentinamente – fatto, peraltro, molto probabile.
Annabeth si accostò a destra della porta, contò fino a tre e aprì, facendo entrare Percy. Luke Castellan era accanto alla finestra, Nico che gli puntava contro il fucile, dalla cui canna era appena uscito il proiettile che aveva frantumato il vetro. Entrambi si voltarono verso di lui.
L’inglese assunse un’espressione tra la rabbia e la sorpresa. Il più giovane gli scoccò un’occhiataccia.
«Tu» sibilò il soldato, abbandonando la cortesia. «Non hai nemmeno il coraggio di affrontarmi, preferisci sguinzagliarmi contro il tuo cagnolino.»
«Nessuno mi dice cosa fare» ringhiò piano Nico.
«Allora, devo questa tentata esecuzione solo alla tua stupidità» sputò Luke Castellan.
Partì un colpo che avrebbe centrato la sua testa, se non si fosse scansato in tempo. Si chinò, rotolò a terra e recuperò la pistola che, prima, Nico l’aveva costretto a buttare. Gliela puntò al collo, portò indietro il cane.
«I cani che non ascoltano il padrone devono essere eliminati.»
«Non provateci» ruggì Percy, avanzando nell’unica grande stanza.
«Oppure?» rise Luke Castellan. «Il mio compito, qui, è di portare ordine. Chi si oppone e chi ne è la causa avrà la strada spianata per l’Inferno.»
«Bastardo» sibilò il moro tra i denti.
«Fermatevi!» gridò Annabeth, entrando.
L’inglese ebbe uno spasmo, la sua mano tremò e si abbassò di qualche centimetro.
«Voi…»
«Statene fuori, Annabeth, non voglio che vi facciate del male» replicò Percy, mettendole un braccio davanti al grembo, in un gesto di protezione.
Lei lo scostò, ponendosi al suo fianco.
«Fate come vi dice» rincarò Luke Castellan.
Annabeth lo ignorò, guardandolo fiera negli occhi. Percy si domandò se tra i due non ci fosse qualcosa.
In quella frazione di secondo, Nico riportò indietro il fucile e colpì con il suo calcio la faccia dell’inglese, che  fu scaraventato a terra. Lo tenne sotto tiro, ma si accorse che era svenuto.
Lo zigomo era percorso da un taglio da cui colava sangue, e Percy si chiese se si fosse procurato così anche l’altra cicatrice. Avvicinandosi al suo corpo, poté vedere che non era l’unica ferita fresca: il labbro spaccato suggeriva una rissa, o un altro tipo di offesa.
In una certa dose, provò ribrezzo per i suoi cittadini che l’avevano trattato così, un uomo che cercava di svolgere il suo arduo compito. Poi, si ricordò che era un subdolo stronzo e malvagio, e la pietà scomparve.
Si rivolse a Nico, l’adrenalina che gli dava la forza di reggersi sulle proprie gambe.
«Che cos’avevi intenzione di fare?» lo riprese. «La vendetta non è mai la soluzione.»
«Non lo è neanche l’avventatezza» insinuò l’altro.
Percy sentì che aveva toccato un tasto dolente. «Non mi sembra che tu ne sia immune.»
«Volevo dargli una lezione» si difese Nico, aprendo le braccia, scocciato da quella predica che non si aspettava.
«Non è vero, tu volevi ucciderlo e l’avresti fatto, se non fossimo arrivati noi» lo contraddisse Percy.
Nico guardò a terra, fremendo per la rabbia.
«Me ne vado» sbottò, passando accanto alla spalla del moro.
Annabeth si scostò dalla porta, permettendogli di uscire.
«Quand’è che finirai di scappare dai problemi?» lo accusò Percy. «Quand’è che incomincerai ad affrontarli uno per uno?»
Nico si fermò, restando di sasso a quelle parole. «Io non sto fuggendo.»
«Già, te ne stai solo andando dalla casa dove hai quasi ucciso un uomo» lo schernì il più grande.
Il giovane si voltò, furente.
«Oh, giusto, perché è molto meglio fare come te e oltrepassare gli ostacoli mostrando la schiena!» urlò. «È decisamente più intelligente agire così, senza curarsi che si fa soffrire anche chi ti sta intorno!» Ripercorse i propri passi, puntò un dito sul suo petto e sputò: «Sei egoista, Percy.»
Il moro tremò, ma non per quelle parole. Qualcosa di gelido e pesante gli aveva toccato il collo.
«Voi americani… sempre presi dalle passioni, mai una volta che ragioniate. Lo capirete, prima o poi, che così non funziona?» intervenne Luke Castellan.
Nessuno gli aveva tolto la pistola dalle mani, quando era svenuto; nessuno aveva pensato che si sarebbe svegliato così in fretta.
Percy guardò Nico e Annabeth.
Se per qualcuno doveva finire male, quel qualcuno era lui. Nico era troppo giovane, aveva una sorella che avrebbe pianto per lui. Annabeth era amata e stimata, aveva amiche e un padre, era l’unica a non essere colpevole, in quella storia.
Contemplò l’idea di consegnarsi a Luke Castellan e, nel caso non l’avesse ucciso sul posto, di vivere ai suoi comandi, di passare la sua intera esistenza con lui. Si sarebbe opposto a tutto ciò che gli avrebbe comandato, per il mero gusto di sfidarlo e per scoprire fino a che punto avrebbe resisto; avrebbe visto quanto un uomo può far male a un altro. Inaspettatamente, quel destino non gli parve troppo gravoso.
«Prendete me, lasciate loro» disse.
Luke Castellan rise.
«Non è così che funziona. La signorina ha il permesso di andarsene, in ogni caso, non farei male a una donna. Ma voi due meritereste di venire uccisi qui, come cani. Invece, vi propongo di sottoporvi alla Corte di Londra e a un processo.»
Percy fece una risatina isterica. «Un modo gentile per dirci che moriremo comunque.»
Sentì l’inglese scrollare le spalle dietro di lui. «Un po’ di gentilezza non guasta mai.»
«Non accadrà nulla di ciò» si inserì Annabeth, affiancandosi a Nico.
Gli strappò il fucile di mano e rivolse la canna contro il suo stomaco.
«Se non fate come vi dico, io mi ammazzo.»
«Annabeth» disse Percy, secco. «No.»
«Vi prego» tentò di addolcirla Luke Castellan, «se fate così, se non seguite il mio consiglio, sarò costretto a trattarvi come loro.»
«Allora, fatelo, perché io non mi tirerò indietro» ribatté Annabeth, fiera, premendosi contro l’arma.
«Milady, per favore» mormorò l’inglese, in tono calmo ma irremovibile. «In nome di quello che c’è stato tra noi, o di Dio, se non v’importa di me, uscite da questa casa.»
Annabeth si morse le labbra così forte che un sottile rivolo di sangue le colò sul mento. «Perché vi costringete a fare questo? Potete ancora salvarvi, so che c’è del buono in voi.»
Percy sentì la pistola tremare in mano al soldato. Osservò Annabeth come se fosse l’ultima volta, imprimendosi nella mente ogni dettaglio della sua figura.
Nico sussurrò: «Mi dispiace, Annabeth.»
La donna fece una faccia stranita, ma il ragazzino la spinse a terra, recuperò il fucile e sparò un colpo di avvertimento. Aveva negli occhi una scintilla che Percy non gli aveva mai visto.
«Avete bisogno di un capro espiatorio, non è così? Bene, sono qui. Gli altri se ne vanno, noi regoliamo i conti. Affare fatto?» sentenziò.
«Come volete» accettò Luke Castellan, ritirando la pistola dal collo di Percy, che si allontanò subito. Avrebbe aiutato Annabeth, se questa non si fosse già rialzata.
«Forza» incalzò Nico, e rivolse a Percy uno sguardo complice.
Il più grande annuì, camminando all’indietro verso la porta. Quando era circa al centro della stanza, Nico alzò il fucile e, con fare casuale, sparò contro l’inglese.
La casacca di Luke Castellan si tinse velocemente di rosso, mentre il suo proprietario barcollava indietro, cercando qualcosa cui appoggiarsi. Si lanciò uno sguardo alla spalla, dove il proiettile si era conficcato e sfrigolava ancora.
«Avevamo…» si interruppe, perché la sua voce tremava. «Avevamo fatto un patto» ansimò.
«Certo» consentì Nico, «ma lo sanno tutti che perché un accordo sia valido, entrambi debbano giurare sulla Bibbia.»
Luke Castellan soppesò quelle parole, si umettò le labbra e rialzò il capo.
«Bel tiro» si complimentò.
Si lasciò andare a una risata folle, che fece rabbrividire Percy e Annabeth al suo fianco.
«Peccato che mi abbiate colpito la sinistra, perché io sparo con la destra.»
Percy realizzò il vero senso di quella frase una frazione di secondo dopo che il proiettile partì. Nico crollò a terra, gli sfuggì il fucile dalle mani. Il moro gli fu accanto subito dopo. Annabeth corse a porsi come scudo umano davanti ai due.
Percy guardò dove l’aveva colpito, toccandogli il corpo, e per caso ci mise due dita dentro. Imprecò, stracciando la camicia e vedendo il buco all’altezza dell’ombelico. Diede uno schiaffo a Nico, con le palpebre, ma non ottenne nessun risultato. Supplicò Annabeth con lo sguardo perché facesse qualcosa. La donna aveva gli occhi lucidi.
«Se vi importa qualcosa di me, per favore, lasciateci andare» disse, la voce che le tremava.
«Restate voi qui» replicò Luke Castellan, scivolando con la schiena contro la parete.
«Non posso» si scusò.
In quel momento, l’inglese le sembrò l’uomo più triste del mondo. Percy si alzò con un grugnito, che avrebbe potuto essere anche un grido, sollevando Nico di peso. Uscì dal capannone in legno con lui in braccio, Annabeth che lo seguiva. Lo aiutò a sistemarlo sulla sella e a salirci, prima che partisse al galoppo.
Il vento era talmente forte che gli era difficile tenere gli occhi aperti. Lanciava continui sguardo a Nico, svenuto.
«Non azzardarti a morire» intimò. «Non provarci nemmeno.»
Nico gorgogliò qualcosa, sputando un grumo di sangue. Il cuore di Percy fece una capriola. Si chinò su di lui, cercando di afferrare le parole del giovane.
«Se sto… per morire…»
«Non stai morendo. Non permetterò che accada.»
«… voglio dirti che… che…»
«Non mi hai sentito? Tu non lascerai questo mondo per nulla al mondo, non mi importa quanto sia bello l’Aldilà.»
«io…io ti amo, Percy…»
Percy si alzò di scatto, ma quasi non provò dolore. Sentì quelle parole rimbombargli nella mente, assordarlo, impedirgli di ragionare. Tutto ciò che fu in grado di fare, fu spronare Blackjack verso Jackson Hill.
 
 
 
Bianca si torturava le mani, camminando per la stanza. Avanti, indietro. Avanti, indietro. Percy era seduto su una sedia, tra diversi cuscini, e cercava di mantenersi vigile. Fissava le lenzuola candide in silenzio, incapace di proferire parola.
I raggi del Sole illuminavano la camera, che sembrava immune al loro splendore e alla loro radiosità, tanto era impregnata della paura e della tensione di chi c’era dentro.
Percy sospettava che Bianca avrebbe avuto un attacco nervoso, che avrebbe dovuto somministrarle qualche medicina per farla dormire.Ma gli sembrava incredibilmente crudele costringere qualcuno a vivere i propri incubi, senza che la persona si rendesse conto che fossero solo sogni.
Sia Fletcher Lee che Michael Yew si erano occupati di Nico, ed entrambi avevano concordato sul fatto che aveva perso molto sangue, ma che si sarebbe rimesso. Il giovane, però, non si era svegliato. Percy temeva che non avrebbe aperto gli occhi mai più. Il giorno prima, si era ripromesso di vegliarlo, ma la stanchezza era stata troppa ed era crollato. Senza adrenalina, si sentiva troppo spossato per fare qualsiasi cosa non fosse aspettare, combattendo una guerra contro se stesso per non addormentarsi.
Non sapeva quanto tempo era passato, però gli sembrava molto. Era il primo pomeriggio, quando Bianca lanciò un grido e lo riscosse da quello stato immobile. La donna bruna copriva con tutti i suoi capelli il fratello, piangeva e lo accarezzava, lo coccolava e le lacrime le solcavano il volto.
Alla fine, cadde addormentata accanto a lui. Tormentata dall’ansia e senza aver chiuso occhio per molte ore, dopo quell’ondata di sollievo, non ce l’aveva fatta a resistere ancora.
Percy si alzò, strascicò i piedi fino al capezzale del letto e guardò Nico. Il giovane era, se possibile, più pallido del solito, e aveva l’aria di chi non ci stava capendo un accidenti di quello che stava accadendo. Percy si udì raccontare la storia, ma non era realmente in sé.
Nico annuì più volte e accarezzò i capelli di Bianca, durante il corso del racconto. Alla fine, il silenzio si impose nella camera. Il giovane esitò, ma non riuscì a non porre la domanda che gli era salita alle labbra.
«Ho detto qualcosa, quando mi stavi riportando in città?»
Percy sentì una fitta al costato.
«No» rispose. «No» ripeté, con più decisione.
In quel momento, con i raggi del Sole che gli scaldavano la pelle, Nico che si era finalmente svegliato e Bianca stava dormendo in pace, Percy pregò che col tempo, quel “no” sarebbe diventata anche la sua verità.
 
 
«E così, alla fine, tutto si è sistemato» sospirò Annabeth, sollevata.
Percy stava passeggiando a braccetto con lei ai margini dei campi di cotone, ancora rigido per le frustate, ma decisamente più in forma. Spirava un venticello tranquillo di Settembre, che riusciva a infilarsi tra i vestiti e a scompigliare i capelli.
Le verdi colline si stavano coprendo di foglie brune, gli alberi stavano diventando rossi, gialli e arancioni, assumendo le tinte dell’autunno. Stormi di rondini volavano in formazione per mete più calde. Quelli che non migravano, si affrettavano a raccattare ramicelli per costruire un nido più solido.
Luke Castellan era partito tre giorni dopo che Nico si era svegliato, così come Ethan, il suo seguace, e nessuno aveva più sentito parlare di loro. Il suo nemico l’aveva lasciato solo, in un misto di amarezza e felicità. Si sentiva più grande, più maturo, con delle spalle che avrebbero potuto sorreggere il peso del mondo.
Non si sarebbe dimenticato di lui, avrebbe rievocato il suo volto e quei giorni ogni volta che si sarebbe fatto il bagno e, lavandosi, avrebbe toccato le trenta cicatrici che gli sfregiavano il dorso. Aveva sentito dire che, più importante è una persona che se n’è andata, più è inciso a fondo il suo marchio nel proprio corpo.
Il segno di Luke Castellan sarebbe stato il più profondo di tutti.
«Già» sospirò a sua volta.
Annabeth lo osservò, cercando di capire cosa gli passasse per la testa.
«Non vi vedo esultare» constatò. «Eppure, dovreste essere felice.»
«E lo sono» replicò Percy. «Ma non posso più esserlo allo stesso modo di prima, perché non sono più lo stesso uomo.»
«Adesso non venite a dirmi che avete perso il vostro entusiasmo, Percy. Non voglio che diventiate uno studioso dalle metafore complicate» provò a farlo sorridere la donna.
«Potrei stupirvi» fece Percy, malizioso.
Annabeth gli scoccò un’occhiata di sfida. Il moro alzò il mento, raddrizzò le spalle e si guardò attorno in cerca d’ispirazione. Non poteva fare paragoni scontati, ora che aveva lanciato lui stesso quella provocazione.
Una foglia d’acero si staccò da un ramo, volteggiò, compiendo diversi cerchi in aria prima di depositarsi a terra.
«Io credo» iniziò, «che, alla fine, siamo tutti come foglie d’autunno. Cerchiamo di resistere alle difficoltà e agli ostacoli che ci pone la vita, attaccandoci al ramo per non staccarci, aggrappandoci a esso con le unghie e con i denti. Siamo coraggiosi, siamo forti, e solo chi dimostra in pieno il proprio valore riesce a rimanere su. Ma siamo davvero sicuri che siano questi i più intrepidi? C’è chi si lascia prendere dal vento, ne cavalca le correnti o ne è succube, e giunge a terra. Non è forse più pauroso e pericoloso il nuovo, l’inesplorato, la morte? Allora, in fondo, non importa se resistiamo o se cadiamo, perché in tutti c’è coraggio e forza: basta solo trovare il modo per mostrarli.»
Annabeth rimase in silenzio, e Percy ebbe l’impressione di aver appena fatto un discorso senza senso.
Poi, la bionda sorrise ed esclamò: «Di grazia, se trenta frustate vi hanno reso così arguto, dovrebbero prescriverle ai bambini fin da piccoli!»
Percy rise per l’assurdità. Anche Annabeth, conscia di aver straparlato, scoppiò a ridere.
Percy godette di quella vista rara, del sorriso genuino di Annabeth e dei raggi ramati che le illuminavano i ricci biondi. Si ripromise che avrebbe fatto di tutto per poterla vedere ancora.

Angolino dell'autrice
C'est la fin! Non credo che questa ultima parte sia quella che mi è venuta meglio e, rileggendo la questione delle foglie, mi sembra sempre più stupida.
Ho litigato molto con tutti i personaggi, soprattutto con Nico, che mi sfuggiva come un pesce tra le mani. Forse sapeva del suo destino e voleva ostacolarmi xD
Per chi se ne fosse accorto, ho inserito una citazione che mi ha permesso di inserire quella sfumatura chiarissima di Percy/Luke. Da Ender's Game, libro diScott Orson o, per me che ho visto solo il film: "nel momento in cui io capisco davvero il mio avversario, abbastanza profondamente da poterlo battere, in quel preciso momento io comincio ad amarlo. Penso che sia impossibile conoscere una persona, ciò che è e ciò in cui crede, senza amarla come lei ama se stessa." Solo che io non ho scritto frasi così fighe hahah
Il rapporto Lukabeth è un po quello dei libri, solo riprodotto in modo diverso e meno "fraterno". Ma, ehi, questa non è la mia OTP, non aveva possibilità a prescidere.
Non ha vinto neanche la Pernico, perché Percy ne è spaventato. In quegli anni, l'omosessualità era un caso molto raro e per nulla ben visto, basti pensare che, durante la Seconda Guerra Mondiale, c'era una stella di un colore apoosta per loro da indossare nei campi di concentramento.
Percabeth è Percabeth, è la casa di tutti, dove si può sempre ritornare u.u
Il fucile Pennsylvania era il più comune durante la guerra, percui ce l'ha pure Percy, e credo che sia uno dei pochi che sia a colpo singolo e non faccia la "rosa". tanto non gliene frega a nessuno
Nico che ricorda di "giurare sulla Bibbia" è un po' come Ade con "giuralo sullo Stige" e boh, mi piaceva l'idea di fare una bastardata del genere, poi amo Ade *-*
La scena del salvataggio di Nico e della sparatoria è stata la più rompiscatole, perché quello che avevo in mente di scrivere non andava mai bene e, uff, è stata una faticaccia sistemare insieme i vari pezzi. Se ci fosse stato Rick Riordan, o Nico o Luke, sarebbero morti, but who cares? ^^
In conclusione, ringrazio EmmaStarr, lord Ruggente, PiccolaEbe e Directioner31 che hanno recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno inserito questa storia tra le preferite/ricordate/seguite.
Un bacio a tutti!

Water_wolf

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