World will be watching

di Lady R Of Rage
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - prima ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - seconda ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - prima ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5 - seconda ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6 - prima ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


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World Will Be Watching
 

Capitolo 1

Come ogni anno, nello stato di Panem il popolo di Capitol City si prepara ad assistere a una nuova, emozionante, intrigante edizione degli Hunger Games.
Ma, per i cittadini che abitano i dodici distretti, questa non è affatto un’occasione di gioia.
Gli Hunger Games portano dolore e morte, pianti di madri e padri, grida di fratelli, sorelle e amici.
Gli Hunger Games sono il prezzo in sangue pagato dai distretti per quello da loro stessi sparso, in un tempo ormai lontano di cui nessuno ricorda più nulla.
E più di tutto, sono la negazione della libertà. Il ricordo indelebile di una sottomissione gravosa e spesso letale.
E come ogni anno, dodici ragazzi saranno scelti a sorte, per dire addio per sempre alle loro vite.
Che vincano o meno.
 
Distretto 1
 
Dakota si rigirava tra le soffici lenzuola della casa di suo padre il sindaco.
Non riusciva a chiudere occhio, già pregustava l’occasione che le si sarebbe presentata quello stesso pomeriggio.
L’avrebbe fatto. Si sarebbe offerta volontaria. E, come una degna figlia del distretto 1, avrebbe vinto.
Alla fine si decise ad alzarsi, lasciando che l’aria pura e fresca di quel terribile mattino le accarezzasse il viso a cuore, i lunghi capelli biondo platino e la pelle liscia di una delicata sfumatura di rosa.
Sapeva di essere bella. Aveva i suoi spasimanti, uno più bello dell’altro. E sapeva anche che la bellezza è un fattore determinante degli Hunger Games.
Dakota scese al piano inferiore della loro casa, salutata da un coro di “buongiorno, signorina” delle numerose cameriere che affollavano la stanza.
-Dov’è mio padre?- domandò la ragazza a una di esse.
-Vostro padre, il sindaco Milton, è uscito molto presto. Deve sbrigare delle pratiche urgenti prima della mietitura.-.
Dakota non se ne preoccupò. Ormai era abituata all’idea di avere un padre alquanto assente. Era normale, in quanto sindaco, avere molte cose da fare.
Decise di uscire a fare un giro per le strade del distretto, o più correttamente a mostrarsi in giro ai numerosi e affascinanti Favoriti innamorati di lei.
Quando uscì, aveva indosso una maglietta rosa ciclamino, e dei pantaloni di una sfumatura più tenue. Gli abiti evidenziavano gradevolmente i suoi fianchi sottili, le sua gambe aggraziate e il seno prosperoso.
Ecco, qualcuno si avvicinava. E da lui, avrebbe ricevuto i primi complimenti della giornata.
-Ciao, Dakota.-
La ragazza si voltò. Quello che aveva davanti era uno dei suoi ammiratori, certo, ma non aveva affatto l’aria del Favorito.
Si chiamava Sam. Era grasso, imbranato e pazzamente innamorato di lei.
-C-ciao Sam.- si decise a rispondere Dakota.
-Vai da qualche parte?-
-Vado dove vai tu.- rispose Sam. E detto questo si accodò accanto a Dakota, come se credesse che lei lo considerasse almeno in parte attraente.
Dakota arrossì. Di tutti i ragazzi che c’erano, proprio quello…
Sam si fece improvvisamente scuro in volto. –Mi hanno detto che vuoi offrirti volontaria.-
-Sì.- disse Dakota. –E vincerò. Sono la migliore dell’accademia.-
In realtà, Dakota maneggiava le armi con pigrizia, si allenava con un ritmo irrisorio, e una volta aveva piantato una granaa causa di un taglio fattasi con un coltello. Ma Sam non glielo rimproverò. Chi era, del resto, l’unico Favorito ad aver quasi mutilato un istruttore con un pugnale?
-E tu? Ti offrirai volontario?- Sam fece cenno di no.
-No. È da pazzi. Si muore sicuro. Non andarci, Dakota.-
La ragazza si fece dura in volto. Fissò profondamente negli occhi Sam, con un’espressione sdegnata e nervosa.
-Oh, sì che ci andrò.- protestò, come faceva sempre quando qualcuno la contraddiceva.
-E tornerò a casa, per dimostrarti che ti sbagliavi.-
 
Distretto 2
 
Tre ragazzi camminavano per le strade lastricate di sassi del distretto 2. 
Erano fratelli, lo si capiva già da lontano. Ed erano anche tre letali Favoriti, muscolosi, seducenti e prestanti.
-Ti offrirai volontario oggi, Alejandro?- domandò il più grande dei tre. Era il più alto del gruppo, aveva i capelli cortissimi, quasi rasati, e il suo sguardo era maturo e riflessivo.
-Ma certo. - rispose un secondo ragazzo, indubbiamente il più affascinante del trio. Tutto in lui era provocante: i capelli castani, lunghi fino alle spalle, i profondi occhi verde mare, la carnagione ambracea e il costato, ricoperto di splendidi addominali.
-Mi sono allenato per mesi solo per offrirmi volontario. Se quest’anno ci sarà un vincitore, sarò io.-
A questo punto il terzo ragazzo, dai piccoli occhi neri come capocchie di spillo, prese a ridere convulsamente.
-Josè, ti prego.- disse ancora il primo dei tre. –Non cominciare. Oggi sarà un grande giorno per tuo fratello.-.
-Certo, Carlos, certo. Un grande giorno. Sempre che non muoia infilzato al bagno di sangue come un animaletto qualsiasi. -
Puntò i suoi occhi nero pece in quelli verdastri del fratello, con aria beffarda.
-Ne saresti capace, Al.-
Alejandro sussultò all’udire l’odiato soprannome. L’aveva già sentito tante, troppe volte, ma non aveva mai smesso di tormentarlo. 
-Punto primo: il mio nome è Alejandro. Punto secondo: se sei riuscito tu a vincere, penso che per me sarà facile come bere un bicchiere d’acqua.-.
Josè era un ex vincitore. Si era offerto volontario all’età di sedici anni, due anni prima, ed aveva subito conquistato molti sponsor con il suo fascino mascolino, il suo pungente senso dell’umorismo e la sua innegabile abilità nel maneggiare le armi. Nel giro di una settimana si era liberato di ogni avversario, combattendo in modo anche sleale. Era stato l’idolo di Alejandro, allora. Tuttavia, dopo la vittoria, divenne improvvisamente strano. Era sempre più acido, sarcastico, beffardo. Fu allora che cominciò a chiamare il fratello “Al” e a perseguitarlo con scherzi anche ridicoli.
Comunque, era e rimaneva un potente guerriero. E Alejandro lo voleva come proprio mentore.
-Cerca di essere paziente. - gli aveva detto un giorno Carlos. –Non deve essere stato facile per lui vincere quei maledetti giochi.-.
Carlos non si era mai offerto volontario. Aveva ormai ventidue anni, ed aveva superato da un pezzo l’età per offrirsi. Quando uno dei suoi fratelli minori gli chiedeva perché, questa era la risposta: “Preferisco non immischiarmi in roba del genere.”.
-Però… - continuò Josè – Chi mi dice che sei pronto?-
Alejandro avvampò. Glie l’avrebbe fatta vedere, a quel montato.
Prese da terra un ramoscello, e lo impugnò come uno dei coltelli da lancio.
-Sta a guardare. - disse. Detto questo, lanciò il ramo con precisione dentro al buco di un vetro di una finestra.
Carlos e Josè rimasero attoniti: un lancio di straordinaria precisione.
Improvvisamente si udì il rumore di una porta che sbatteva. Una ragazza dai capelli neri, legati dietro la testa con un corto codino, si avvicinò a passo di carica al trio. Era molto graziosa: aveva gli occhi a mandorla, la carnagione del colore del latte e i fianchi magri e sottili. Una vera favorita: Heather era la più brava ragazza dell’Accademia.
-Te lo dico per l’ultima volta, Alejandro Burromuerto.- disse la ragazza.
-Falla finita di allenarti al lancio dei coltelli contro il muro di casa mia. Altrimenti…-
-Altrimenti che cosa, chica?- domandò Alejandro con voce seducente. Cinse col braccio le spalle della ragazza, che assunse un’espressione di disgusto e si agitò.
-Altrimenti…- Heather svicolò dalla presa tentacolare di Alejandro. –Altrimenti, dato che mi offrirò volontaria, ti farò pentire semplicemente di essere nato.-
-Impetuosa la chica.- sussurrò Carlos a Josè.
Alejandro lo ignorò. – Fai male a pensarlo, Heather. Mi alleno da quando sono nato per vincere. E non sarai certo tu a fermarmi. -
Heather non si scompose. Raccolse invece da terra un secondo ramoscello, e lo lanciò con una precisione addirittura superiore a quella del ragazzo argentino verso un albero. Un uccello cadde colpito.
Carlos e Josè ammutolirono. Alejandro sgranò gli occhi, incapace anche solo di proferire parola.
-Hai visto? Non hai speranze. Ora scusa, ma devo andare a prepararmi per la mietitura. A dopo, cascamuertos!-
E detto questo, Heather si dileguò. 
-Allora, ti offri lo stesso volontario, Al?- chiese Josè.
-Sta zitto, idiota.- rispose Alejandro. I grandi occhi verdi del ragazzo erano fissi sull’ombra di Heather che si allontanava. 
“ti faccio vedere io, bruja.”.
 
Distretto 3
 
A Leshawna non erano mai piaciute le mietiture.
Nonostante si nascondesse sotto una scorza da dura, Leshawna era una ragazza sensibile abbastanza da odiare letteralmente quello spettacolo inumano.
Ragazzi di tutte le età, che ogni anno venivano mandati alla morte. Il pianto degli amici, dei parenti, e di tutto il distretto tre.
A questo pensava Leshawna, mentre montava un forno a microonde per Capitol City.
Ah, già. Odiava anche Capitol City. Non poteva nemmeno immaginare che esistessero persone crudeli abbastanza da divertirsi nel vedere dei ragazzi come loro costretti a duellare a vicenda fino alla morte.
Ma più di tutti, odiava i Favoriti, quelle bestie omicide e montate che vedevano in quei giochi maledetti una fonte di prestigio.
Leshawna smise di smanettare con quel microonde, e lo lanciò lontano da sé con un calcio ben assestato. Non le era mai piaciuto montare apparati elettronici. Purtroppo, nel distretto 3 quella sembrava essere l’unica forma di sostentamento.
Lo avrebbe finito dopo, decise Leshawna. 
Così mise via (o più correttamente, scagliò via) il microonde, tirò fuori carta e penna e si mise a fare il conteggio delle tessere.
Le tessere… un sistema barbaro in cui scambiavi frammenti della tua vita con del cibo.
Leshawna aveva molte tessere. Si mise a conteggiare sul foglio la possibilità di venire estratta.
-Allora, cinque tessere a dodici anni, tre a tredici… no, erano quattro. Poi altre cinque a quattordici…-
-Salute, Leshawna.-
La ragazza si voltò. Alle sue spalle c’era una figura magra e ossuta, con addosso una sgargiante maglietta e dei pantaloni troppo larghi. Gli occhi erano dilatati oltre misura dalle lenti degli occhiali, i capelli rossi e ricci erano intrecciati con fili elettrici, e sulla bocca secca si delineava un sorriso di compiacimento.
-Ciao, Harold.- disse sbrigativamente Leshawna.
-Scusa, ma ora non ho tempo. Devo finire di contare le tessere per oggi pomeriggio.-.
Sospirò pensando alla mietitura. Temeva davvero di essere estratta.
-Solo un attimino… stavolta ho qualcosa che ti tirerà un po’ su di morale. -
Leshawna capì che non poteva assolutamente liberarsene.
-Va bene. - disse – ma sii veloce. -
Harold compì un gesto teatrale con la mano, roteò un paio di volte su sé stesso e l’istante successivo aveva in mano una scatola quadrata, impacchettata malamente.
-Che cos’è? Un altro dei tuoi regali assurdi?-
Harold annuì, con un sorriso pieno di aspettative.
Leshawna scartò rapidamente la carta che avvolgeva il pacco (carta da imballaggio, visti i tempi duri), e tirò fuori lo strano oggetto contenuto nella cassa.
Sembrava proprio un televisore a schermo piatto, ma dal lato dello schermo spuntavano fuori delle manopole che sembravano provenire da un forno, e alcuni pulsanti che ricordavano uno stereo; inoltre era montato su una larga base piatta, ricavata indubbiamente da un lettore DVD.
-Carino…- riuscì infine a dire Leshawna. –Ma che cos’è?-
-Oh, lo vedrai!- disse Harold tutto gongolante. Premette uno dei tasti, e per un attimo Leshawna credette che sarebbe esploso. Invece, preceduta da un ronzio e da un fischio acuto, un’immagine si dipanò sullo schermo. Un cuore fluorescente, nel quale spiccavano due lettere colorate: una H e una L.
-Harold!- esclamò la ragazza. –Ma è…-
Voleva dire “abominevole”, naturalmente, nonostante apprezzasse almeno in parte il pensiero. Harold, malaguratamente, la precedette.
-Ti piace, vero? Così quando la vedrai penserai a me!-
Leshawna avrebbe volentieri detto qualcosa, ma improvvisamente dalla macchina si produsse di nuovo quel fischio spaventoso. Leshawna, che aveva appreso dall’esperienza personale, preferì lasciare il marchingegno e nascondersi sotto al tavolo. Harold, invece, rimase immobile e attonito.
La macchina esplose con un botto assordante. Leshawna uscì cauta da sotto al tavolo, per trovarsi davanti un Harold dal viso annerito, i capelli scompigliati, gli occhi sgranati e una specie di residuo tecnologico in mano. La ragazza dimenticò per un istante tutto il pericolo precedente, e scoppiò a ridere senza controllo.
-Non preoccuparti, Harold. Almeno questa hai avuto il tempo di darmela. -
 
Distretto 4
 
Le onde del mare producevano un suono leggero, rilassante, e il sole di quell’orribile giornata le irradiava di un bagliore cristallino.
Adagiata sulla tavola di legno, Bridgette guardava senza scopo di fronte a sé.
Era sempre preoccupata, il giorno delle mietiture. Sapeva che il distretto 4, pur non essendo un vero e proprio distretto di Favoriti, aveva avuto dalla sua un discreto numero di vincitori; tuttavia era una ragazza pacifica e amante della vita, e avrebbe dato un braccio piuttosto che ritrovarsi sperduta in quel folle bagno di sangue.
Geoff uscì dall’acqua salata spruzzando acqua dalla bocca come una fontanella. Nuotò alcune volte su e giù, con la leggiadria di un pesce, poi lasciò che la corrente lo trascinasse fino alla tavola da surf sulla quale era adagiata la sua ragazza.
-Oggi le onde sono più chiare del solito! Ottima giornata per nuotare. -
Questo era quello che a Bridgette piaceva di lui. Il suo innato ottimismo, che anche in una giornata tragica come quella era capace di trovare una ragione per sorridere.
Geoff, tuttavia, non tardò ad accorgersi dell’espressione accigliata di Bridgette.
-Cosa c’è piccola? Non ti va di nuotare?-
-Sì, mi va.- rispose timidamente Bridgette. –Mi va, solo che… ho molta paura per oggi pomeriggio.-.
Anche Geoff, ovviamente, aveva paura. Come tutti. Ma in quel momento gli interessava solamente l’allegria di Bridgette.
-Su, sta tranquilla piccola. Vedrai che andrà tutto bene. Non toccherà mai a un angioletto come te.-
Bridgette ridacchiò suo malgrado. Ecco, Geoff era riuscito a farle passare il malumore.
-E poi…- continuò Geoff. –Poi, vedere ogni anno l’abbigliamento di quella vecchia strega di Blaineley non ha prezzo.-
Bridgette stavolta non si trattenne, e rise così tanto da rischiare di cadere dalla tavola. Blaineley, l’accompagnatrice capitolina assegnata al distretto della pesca, sfoggiava ogni anno un look diverso. L’anno precedente, per esempio, indossava un lungo abito blu, una parrucca argentea e scarpe con tacchi tali da rischiare di farla cadere dal palco. L’anno prima, invece, indossava un corto abitino dorato, che mosso dal vento l’aveva costretta a tenere le falde giù con le mani per evitare figure indegne.
-Hai ragione.- disse Bridgette. –Quella donna non conosce il buon gusto.-
Proprio in quel momento, si udì un boato, e un’onda enorme si abbatté verso di loro. Bridgette salì di scatto sulla tavola, e riuscì a prenderla alla perfezione; Geoff invece fu colto di sorpresa, e rovesciato all’indietro. Prima di finire sotto il pelo dell’acqua, ebbe il tempo di vedere Bridgette librarsi sull’acqua in equilibrio sulla tavola.
“Questa è la mia ciccina…” pensò prima di essere trascinato via dai flutti.
Bridgette terminò la corsa fino alla riva, e saltò giù dalla tavola con un balzo. Era solo una semplice tavola di legno da barche, ma Bridgette non ne poteva chiedere una migliore.
Bridgette prese la tavola sotto braccio, e proprio in quel momento Geoff riapparse in superficie, perfettamente a suo agio.
-Sei stata bravissima, piccola!- esclamò il ragazzo.
-Grazie mille!- cinguettò Bridgette. Si voltò di scatto per avvicinarglisi, e la tavola compì una parabola che rischiò di colpire il naso di Geoff.
-Ehi, attenta!- fece Geoff.
-Scusami!-
-Nessun problema, Bridgette. Sono cose che capitano.-
Bridgette sorrise verso l’orizzonte. 
Geoff era sicuramente la persona con la quale avrebbe trascorso più volentieri i suoi ultimi momenti nel distretto 4.
 
Distretto 5
 
Tutto sembrava andare alla perfezione nella più grande centrale petrolchimica del distretto. Producevano benzina per le auto di Capitol City, lavorando a tempo pieno anche in quel terribile giorno.
Improvvisamente, si sentì una fragorosa esplosione che rimbombò per l’intero agglomerato della fabbrica. Poi un fumo denso e nero si propagò attraverso alcune finestre. Subito dopo, una fiumana di operai si riversò di corsa fuori dai portoni. Correvano coprendosi bocca e naso con le tute, così da non soffocare a causa delle esalazioni di fumo.
Per ultima uscì una ragazza. Aveva i capelli aranciati, ricci come cavatappi, gli occhi verdi e vivaci, nei quali brillava un’espressione birichina e curiosa, e saltellava su sé stessa come in trance, non consapevole del disastro. Sorrideva.
-Bum! Bum! Bum!- urlava di tanto in tanto. –Mi piace fare bum!-
Gli operai si riunirono davanti al cancello principale della fabbrica, per constatare i danni e contare i feriti e i dispersi. La ragazza dai capelli arancioni si presentò per ultima nel mucchio, sempre ridendo, saltellando e ripetendo a gran voce: - Bum! Bumbum! Bum!-
Uno degli operai, un uomo alto e serio, si accorse della chiassosa presenza. Sul viso arcigno apparve un cipiglio ancora maggiore.
-Operaia Isabella Crawl!- esclamò puntando il grosso dito contro la ragazza arancione.
-Ancora una volta un incidente! Come puoi non imparare mai! Ti avevo detto di non toccare nel modo più assoluto i generatori di energia.-.
Isabella, o meglio, in quel momento, Explosivo, parve non curarsi dell’uomo sbraitante.
-Beh? Che c’è di male?- domandò sempre sorridendo vivacemente.
-Questa è la mia settimana del contrario: per ogni cosa che mi dicono di fare faccio l’esatto opposto. Non è divertente?-
-No.- rispose l’uomo, evidentemente consapevole di chi avesse di fronte. –Non è divertente. È catastrofico.-
-Signore- si intromise un altro operaio. –Penso che per il bene della produzione è meglio affidare la signorina Crawl… cioè, volevo dire Explosivo, a uno dei nostri operai, così da lavorare tranquillamente.-
L’uomo parve rilassarsi. Evidentemente non vedeva l’ora di liberarsi di quella ragazza così folle (che, tra l’altro, in quel momento stava tirando sassi contro i vetri delle finestre della fabbrica, e a ogni centro prendeva a ridere rotolandosi per terra).
-Operaio McKinnow.- disse l’uomo indicando un ragazzo biondo, sovrappeso e dall’aria alquanto pacifica.
-Porta la signorina lontano il più possibile da qui. -
Il ragazzo, di nome Owen, obbedì. Prese per mano la ragazza e la condusse via, stranamente senza incontrare resistenze da parte sua.
-Insomma, Explosivo, è già la terza volta che fai esplodere un generatore. Non dovresti fare così, è… pericoloso!-
La ragazza, per tutta risposta, drizzò le orecchie come un leprotto e scrutò l’orizzonte.
-Explosivo? E chi è?- domandò. –Io sono il Sergente Caleido, sissignore. A rapporto, signore.-
Owen sospirò. Non cambiava mai…
-Sergente Caleido, signore…- disse Owen balbettando un po’.
-Mi chiedo se non le sembra più idoneo andare a casa a prepararsi per la mietitura.-
Caleidoscopio smise di scrutare l’orizzonte. La parola “mietitura” era capace di annullare ogni suo folle impulso. Del resto, quella parola poteva annichilire veramente chiunque.
-Owen!- Strillò Izzy (perché sì, ora era tornata la consueta Izzy).
-Non hai paura? Io un pochettino…-
-Anche io ho paura, Izzy.- disse il ragazzone cingendole le spalle col braccio paffuto.
-Speriamo solo che non tocchi a noi. Però, Noah ha detto che è meno difficile di quanto sembra. Basta evitare gli scontri diretti.-
Noah era il loro migliore amico. Era stato estratto l’anno precedente, il che aveva preoccupato molto sia Izzy che Owen; ma miracolosamente era riuscito a vincere. Noah aveva giurato a Owen e Izzy che, se uno di loro fosse malaguratamente estratto, lui avrebbe fatto tutto il possibile per aiutare almeno uno di loro a tornare a casa vivo.
-E se lo dice il nostro caro Gamberetto- tornò a strillare Izzy –ci sarà da fidarsi: è un così caro ragazzo…
Su, Pancy Owen, andiamo! Le mietiture ci aspettano. -
Era tornata improvvisamente folle come prima. Nemmeno le mietiture potevano abbattere il suo caratterino.
“È così pazza…” pensò Owen. “Completamente pazza.
E maledettamente carina…”.
 
Distretto 6
 
Una figura misteriosa si aggirava circospetta tra i treni del distretto 6.
La figura correva tra le rotaie, schivava i vagoni e si infilava sotto le transenne, ben attenta a non essere vista.
Poi, ad un tratto, la figura apparve alla luce. I raggi del sole illuminarono una ragazza dai capelli corti, castano chiaro, vestita con abiti semplici e quasi mascolini. Pure il suo nome aveva qualcosa di maschile: tutti la chiamavano Jo.
Jo, dunque, arrivò a una stazione ormai abbandonata da tempo, e lì si fermò.
-Buon giorno, Jo.- si disse tra sé e sé.
Poi si avvicinò a un palo metallico appoggiato a un muro. Lo afferrò da entrambi i lati, e appese alle estremità dei copertoni di camion. Infine si sdraiò sulla schiena, strinse forte il palo metallico e cominciò a sollevarlo su e giù, respirando ritmicamente.
I copertoni, va da sé, erano molto pesanti, ma Jo sembrava riuscire a padroneggiare il duro esercizio. Sollevava quei copertoni con una perizia degna del più forte tra i Favoriti.
Erano ormai due anni che Jo si allenava di nascosto in quella stazione abbandonata. Ogni mattina e ogni sera, quando ormai tutti se ne erano andati da un pezzo, si nascondeva là e faceva esercizi di ogni genere: sollevava oggetti pesanti, correva, faceva piegamenti, flessioni, esercizi addominali, incurante del fiatone, del sudore e del batticuore.
Si allenava per inseguire il suo sogno: offrirsi volontaria agli Hunger Games.
Perché lo desiderasse tanto? Innanzitutto, per una questione di emulazione. Eva, la ragazza del suo stesso distretto che aveva vinto alcuni anni prima, era diventata per lei un vero e proprio mito vivente, e lei era decisa a seguirne le gloriose orme. In secondo luogo, per una questione di orgoglio. Il distretto 6, infatti, era tristemente noto per le scarse vittorie conseguite dai suoi tributi. Jo era dunque decisa a dimostrare che il distretto 6 non era un distretto di pappamolle. 
Ma soprattutto c’entrava l’orgoglio personale di Jo. La ragazza voleva mettere in chiaro a tutti che lei non era come le altre femmine, piagnone e vanitose. Lei era una dura, forte e capace di cavarsela al pari di un maschio. E non c’era modo migliore per mostrare dell’eroismo che offrirsi volontari in un distretto che non fosse di favoriti.
Certo, allenarsi prima degli Hunger Games era vietatissimo. Se fosse stata sorpresa, Jo sarebbe sicuramente stata uccisa da qualche Pacificatore. Ma a lei non importava. Nessuno l’avrebbe mai trovata, là.
-Josephine? Cosa ci fai qui?-
Come non detto.
Si chiamava Brick. Era uno dei ragazzi più strani che Jo avesse mai conosciuto. Si atteggiava sempre con comportamenti militareschi, come se fosse anch’egli un Pacificatore; mentre Jo sapeva per certo che Brick ne era terrorizzato. E poi, bisognava ammetterlo, era davvero buffo con quei capelli così tesi verso l’alto.
-Buongiorno, Capitan Piscialletto.- disse Jo.
-Sei venuto ad allenarti con me? Bene: ne hai bisogno.-
Il soprannome era stato inventato da Jo stessa, in occasione di una volta che Brick, l’anno prima, era rimasto chiuso dentro un treno fermo e al buio. Quando fu possibile tirarlo fuori era così sconvolto da macchiare i suoi stessi pantaloni. Brick aveva un terrore viscerale del buio, anche se ci sarebbe voluto un esercito di Pacificatori per convincerlo ad ammetterlo.
Detto questo Jo lanciò al povero Brick un bilanciere che lo investì violentemente, rischiando di farlo cadere.
-No.- rispose Brick, liberandosi a stento dal peso. –Jo, allenarsi prima degli Hunger Games è rigorosamente vietato. Il Codice del nostro distretto dice che…-
-BAH!- Jo scagliò lontano da sé un secondo bilanciere. Brick lo scansò per un pelo.
-Solo le pastefrolle come te non si allenano. I veri uomini (e le vere donne) invece sì.-
-Non sto scherzando, Jo.- disse Brick, inseguendo la ragazza che si era messa a fare salto con gli ostacoli con dei vecchi copertoni ammucchiati.
-Se qualche Pacificatore ti trovasse qui…-
-Ma fammi il piacere!- fu la risposta di Jo. 
-Quelli sono tutti scemi. Non troverebbero nemmeno un elefante.-
Brick ormai aveva il fiatone a furia di inseguire la sua interlocutrice. Si sedette su una vecchia rotaia, ansimando, mentre Jo non sembrava nemmeno sudata e proseguiva a saltare gli ostacoli. 
Brick rimase a guardarla per un po’, intimorito e in parte affascinato da quella ragazza così impetuosa e orgogliosa. Qualità che, guarda caso, lui non aveva.
Improvvisamente una campana squarciò il silenzio fino ad allora sovrano. Jo sbuffò. Mise via in fretta i suoi pesi, e si avviò verso i centri abitati con Brick alle calcagna.
-Bah!- la udì sbuffare il ragazzo.
-Se penso che per prepararmi dovrò indossare uno di quei noiosi vestitini fru fru…-
 
Distretto 7
 
Dawn era uscita molto presto, quella mattina. Come tutti gli anni il giorno della mietitura.
Voleva trascorrere quelle ore lontana da tutto e da tutti, sola con la natura.
Dawn sentiva un grande amore verso il mondo che la circondava. Sentiva di amarlo quasi più della sua stessa famiglia. Le piaceva stare da sola in mezzo agli alberi, sentirli quasi parlare.
Dawn si sedette a gambe incrociate su un ceppo d’albero. Alzò le braccia, prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e si lasciò andare alla sinfonia della natura.
Un vento profumato e leggero le scorreva tra i capelli biondo platino e le accarezzava la pelle bianca come la luna. Non a caso, alcuni ragazzi la chiamavano “raggio di luna”.
Sentiva intorno a sé i fruscii di volpi, tassi e uccellini che si muovevano circospetti tra le fronde. Anche se non li vedeva, sapeva che c’erano. Ne sentiva le aure vicino a lei.
Ad un tratto apparve un’altra aura. Era diversa dalle altre: era scura, inquietante, intrisa di odio e astio verso il mondo. Poi il sibilo di un’ascia interruppe il paradisiaco silenzio, e Dawn sentì dentro di sé le lugubri grida dell’albero che era stato colpito.
Dawn amava la natura, e per nulla al mondo avrebbe fatto male a un altro essere vivente, che fosse pianta, umano o animale. Sembrava quasi fuori posto in un distretto dove, per vivere, bisogna tagliare alberi.
La ragazza era anche seccata per la presenza anomala nel suo angolo di paradiso. Decise di alzarsi e trovarsi un posto più tranquillo per meditare. Ma poi, vinta dalla curiosità, decise di andare a vedere di chi si trattasse, per il solo gusto di sapere chi fosse stato a usurpare la sua tranquillità idilliaca.
Eccolo: un ragazzo dai capelli rossicci, con addosso una lurida canottiera, che rideva sardonicamente di fronte alla profonda crepa lasciata nel legno dall’accetta.
Scott. Dawn provava una certa affettazione verso quel ragazzo così cinico e crudele. era terribile vederlo mentre, ridendo, lanciava accette verso gli scoiattoli, stringeva i lacci intorno ai corpi minuti delle volpi, e torturava senza pietà degli innocenti topi.
Tuttavia, Dawn non poteva non provare anche una certa pietà nei suoi confronti. Scott era orfano di madre, abbandonato dal padre all’età di cinque anni, schivo e solitario come pochi.
E per di più era anche sociopatico. Incapace nel modo più assoluto di relazionarsi col prossimo.
-Ehi, fiorellino, guarda che ti ho visto!- esclamò il ragazzo.
Dawn ne era in parte spaventata: aveva pur sempre in mano un’accetta. Poi, alla fine, si decise a uscire allo scoperto. C’era qualcosa, nella sua aura, che le faceva capire che, per il momento, non l’avrebbe uccisa.
-È molto bello vederti qui, Scott.- disse con il tono più tranquillo che riusciva a produrre.
-Cosa ci fai nei boschi a quest’ora?.
-E a te che te ne importa?- rispose quello. Afferrò nuovamente l’accetta e la scagliò contro un secondo albero. Il centro fu netto: due rami caddero verso terra.
Dawn rabbrividì, ma riuscì comunque a mantenersi calma.
-Quei poveri alberi… gli stai facendo male.- disse. Scott fece finta di non sentirla e si mise ad affilare l’arma contro una roccia.
-Leggo nella tua aura che vuoi offrirti volontario.- disse ancora Dawn. Stavolta Scott si voltò.
-Sì, vedo che sai leggere. Voglio offrirmi volontario. E allora? C’è sempre bisogno di volontari, in un distretto stantio come questo.-
-Scott, sai bene che hai poche possibilità contro i Favoriti. Lo dico per il tuo bene: non andare volontario. È rischioso.-
Dawn avrebbe voluto dire ancora qualcosa, ma il guizzo dell’accetta a pochi centimetri dal suo collo la fece ammutolire di colpo.
Era davvero bravo a tirare le accette, bisognava ammetterlo. Era riuscito a spaventarla, senza comunque ferirla o ucciderla. Ma se lo avesse voluto, avrebbe potuto farlo.
-Hai visto che lancio? Tiro accette ai topi dell’orfanotrofio praticamente da quando sono nato. E in quanto a quei noiosi Favoriti… troverò un modo. Sono anche uno stratega.
E ora scusami tanto, ma devo finire di allenarmi. Faresti meglio a sparire, se non vuoi che i Pacificatori ti trovino.-
Scott si rimise l’accetta in spalla e sparì nel folto dei rami. Pochi attimi dopo si udì il tonfo di un ramo reciso.
“Povero Scott” pensava Dawn mentre lo guardava allontanarsi. 
“Lo vedo sempre così solo… spero solo che nell’arena non faccia sciocchezze. E sopravviva.”.
 
Distretto 8
 
Gwen usciva sempre molto presto, ogni giorno, d’estate e d’inverno. Le piaceva rintanarsi tra i mucchi di stoffe del deposito, lontana da sguardi indiscreti, per disegnare in pace.
Anche quel giorno, quasi incurante della mietitura incombente, Gwen uscì di casa di nascosto, attenta a non farsi vedere. Arrivò ben presto al magazzino delle stoffe, si infilò attraverso uno spiraglio, e si sedette al solito posto.
L’angolo di paradiso di Gwen consisteva in un mucchio di drappi di seta, sui quali sedersi era come il più morbido dei cuscini. Là si sdraiò, avvolgendosi in alcuni degli scampoli per proteggersi dalle correnti d’aria.  Preso poi il blocco e una penna, cominciò a disegnare.
Gwen disegnava soprattutto vestiti. Le sue creazioni erano spesso strane, lugubri, dai colori cupi, ma pochi ne avrebbero viste di più belle.
Ecco un abito lungo, di stoffa violacea, con un lungo strascico e il corpetto senza maniche; un corto abito nero, lucido, attillato; e uno splendido vestito blu notte, le cui maniche erano tanto larghe da toccare quasi il suolo.
Gwen stava ultimando la sua più recente creazione; un altro abito blu dal profondo spacco, quando ad un tratto sentì degli strani rumori. Era entrato qualcuno.
Senza attendere un attimo Gwen si infilò sotto il mucchio di stoffe, trattenendo il respiro: se si fosse trattato di un Pacificatore, sarebbe stata sicuramente a rischio.
Invece, udì una voce affabile che chiamava: - C’è nessuno? Ho sentito un rumore.-
Gwen sospirò di sollievo. Non era un Pacificatore, no, era solo uno dei suoi compagni di distretto, un ragazzo buono e paziente di nome Trent. 
Nonostante continuasse a non gradire di essere vista, era almeno in parte contenta che non avesse intenzioni ostili.
-Ciao, Gwen.- disse il ragazzo salutando-.
Gwen sussultò. Strisciò fuori dal mucchio di drappi, stando attenta a nascondere bene il blocco, e rispose al saluto con un sorriso un po’ tirato.
-Ti sto per caso disturbando? Se vuoi vado via.- disse Trent.
-No!- Gwen lo fermò impetuosamente, fin troppo. –Puoi restare, basta che… niente. Resta pure.-
Un po’ accigliata, la ragazza si sedette su un telaio meccanico  producendo un basso sospiro. Trent se ne accorse.
Il ragazzo le pose la mano sulla spalla gentilmente. Gwen, suo malgrado, non trattenne un lieve sorriso.
-C’è qualcosa che non va?- domandò Trent.
-No… nulla.- fece sbrigativamente la ragazza, con un tono che però tradiva il contrario.
-Se c’è qualcosa che non va, puoi parlarne con me, se vuoi. Altrimenti…-
Qui Gwen non seppe cosa rispondere. Tacque, e rifletté.
“E se mi facesse bene parlare? Trent è un bravo ragazzo, e sicuramente saprebbe dire la cosa giusta. E poi oggi c’è la mietitura, quindi potrebbe essere l’ultima volta che ho occasione di parlargli.-.
Gwen prese il coraggio a due mani, e parlò.
-Sto bene, solo che… sono molto preoccupata per la mietitura di oggi pomeriggio. Ho preso alcune tessere, quindi… potrei benissimo essere estratta. Non ho voglia di andare a morire adesso. Non sono pronta per questo.-
Trent le accarezzò la spalla con gesto gentile. –Non aver paura.- le disse. –Vedrai che estrarranno qualcun altro. E se toccasse a te… allora sappi che farei tutto il possibile per aiutarti a tornare a casa.-
-No, Trent.- fece Gwen in tono secco. –Non offrirti volontario. È una vera e propria follia.-
-L’unica follia, per me, è l’idea che qualcuno possa farti del male.- rispose Trent.
Gwen non seppe cosa rispondere. Rimasero là, per un po’, senza dire nulla, nel silenzio lugubre della stanza.
Poi, improvvisamente, una sirena esplose attraverso i corridoi: iniziava una nuova giornata lavorativa.
-Adesso bisogna andare.- disse Trent. –Se ci vedono qui, ci cattureranno.-
Si alzò in piedi, e si diresse velocemente verso un’uscita. 
Gwen fece per seguirlo, ma prima, non vista, sfogliò all’indietro le pagine del suo blocco-
Là, tra i bozzetti di abiti, c’era un ritratto solitario, anch’esso fatto dalla stessa Gwen.
Era un viso di ragazzo: il ridente volto di Trent.
 
Distretto 9
 
-Fermatelo! Fermatelo!-
Duncan non perse tempo a guardare il volto dei suoi inseguitori. Dopo ormai anni che faceva quel lavoro, se lavoro poteva definirsi, aveva imparato che nella fuga ogni secondo è prezioso.
Alle sue spalle, una folla inferocita lo inseguiva urlando di rabbia. Tra questi spiccava una donna corpulenta, che gli puntava il dito contro e strillava: - Al ladro! Fermatelo.-
Il ladro era lui, Duncan. Sotto la maglia nero pece nascondeva infatti alcune pagnotte. Le aveva prese di nascosto durante il mercato. Purtroppo una di esse gli era inavvertitamente sfuggita di mano, e aveva attirato l’attenzione della commessa del banco.
Duncan era ormai stanco di essere inseguito. Il sudore gli colava a goccioloni lungo la fronte, e il cuore batteva tanto forte che ogni colpo gli sembrava la fucilata di un Pacificatore.
Una delle pagnotte scivolò lungo la sua manica, e rotolò nella polvere. Sentì il grido della donna: -Le mie pagnotte! Fermate quel ladruncolo!-.
La folla alle sue spalle si era fatta molto più numerosa. Lui non sapeva cosa volessero quegli altri inseguitori: la pagnotta non era stata rubata a loro. Era disgustato da tutta quell’ipocrisia.
Alla fine si rese conto che doveva lasciar stare il bottino che perdeva nella corsa, e mettere in salvo sé stesso, se non altro per non essere preso e fare chissà quale orribile fine. 
Scartò a destra, si tuffò sotto un recinto, e corse via tornando indietro, non visto. La folla infuriata corse in avanti, ignorandolo completamente, in un coro infernale di “fermatelo”.
Quando capì di essere in salvo, Duncan smise di correre. Si asciugò il sudore con la manica della maglia, e si incamminò verso il suo piccolo rifugio, per poter mangiare in pace il suo bottino.
Il “rifugio” di Duncan consisteva essenzialmente nello spazio al di sotto di una lamiera appoggiata a un muro cadente, con come unico arredamento un sacco di iuta, di quelli adibiti al trasporto dei cereali, che gli faceva da giaciglio e spesso anche da coperta.
Duncan si sedette sul sacco, occultò l’ingresso con una seconda lamiera, e tirò un sospiro di sollievo.
Aveva avuto fortuna quel giorno, non era stato preso. 
Ma il mese precedente, oh, due Pacificatori lo avevano sorpreso, e lo avevano frustato pubblicamente, in piazza, sotto le ovazioni generali. 
Al ricordo dell’iniquo castigo il corpo di Duncan fu scosso da un brivido. Dopo la fustigazione non poteva in alcun modo essere curato e disinfettato, non conoscendo alcun guaritore, e aveva agonizzato per un lungo e terribile mese, mangiando ciò che trovava e spesso patendo la fame e il dolore.
Duncan smise di pensare al passato. Sapeva che sarebbe finito col mettersi a piangere, e non voleva in alcun modo apparire debole, anche se in quel momento nessuno avrebbe potuto vederlo.
Prese una delle due pagnotte e aprì la bocca per mangiarla.
-Cosa stai facendo?- 
Duncan si voltò di scatto all’udire quella voce così sgradita.
Una ragazza dai capelli color miele, la pelle ambrata e grandi occhi neri lo fissava scuotendo la testa con aria di rimprovero.
-Ciao, principessa.- disse Duncan beffardamente, con la bocca piena di pane. Trovava che il soprannome “principessa” calzasse a pennello su quella ragazza, dai modi così alteri e spocchiosi. E tanto più gradito a lui lo rendeva il fatto che quella ragazza non lo sopportasse affatto.
-Il mio nome è Courtney, e tu lo sai.- sbottò la ragazza.
-Sarò anche una principessa, ma tu sei sicuro un delinquente. Ti ho visto mentre rubavi quelle pagnotte, al mercato.-
-E allora?- Duncan ingoiò l’ultimo pezzo della prima pagnotta e si pulì i denti con uno stecchino.
-Non starai davvero piantando una grana per due sciocchi pezzi di pane?-
Courtney non apparve persuasa. –Quelle persone hanno lavorato per procurarsi quel pane. Se lo sono guadagnato, a differenza di te.-
Duncan prese la seconda pagnotta. –Lo sai, principessa? Sarai anche una piantagrane, ma ti fa onore il fatto che sei riuscita a seguirmi fino al mio rifugio. Sei più intelligente di quei vecchi contadini. Ed è un vero peccato che tu sia anche così bacchettona. Saresti una ladra perfetta.-
-Cosa?- Courtney parve scandalizzata. –Io non sarò mai una ladra come te. Io sono una persona rispettabile e onesta. Io, per le cose, pago il dovuto prezzo.-
Courtney non poteva soffrire quel ragazzo così selvaggio, abbandonato a sé stesso, e spudoratamente criminale. Ogni cosa in lui pareva primitiva e rozza, a cominciare dalla cresta verde brillante, che si era fatto da solo, con dei coloranti naturali sgraffignati chissà dove. 
Odiava soprattutto il fatto che rubasse. Non avendo infatti mai patito particolarmente la fame, pensava che fossero gli individui come lui a disonorare il suo distretto.
Duncan non rispose subito. Invece si voltò di spalle e si tolse la maglietta, mostrando le cicatrici della fustigazione.
-Questo ti sembra un buon prezzo?- domandò infine.
Courtney rabbrividì. Sbarrò gli occhi, incapace di proferire parola. Le cicatrici si mostravano in tutto il loro orrore: larghe strisce rossastre e sanguinolente che si spandevano per tutta la schiena del ragazzo.
Per un attimo, solo per un attimo, ebbe la tentazione di mostrare pietà verso di lui.
Ma poi, come presa da una folgorazione, si ricordò di chi fosse veramente quel ragazzo: un delinquente fuggiasco e spudoratamente pieno di sé.
-Te le sei ampiamente meritate.- disse in tono superficiale. –Sono il giusto castigo per ladri come te. Quelli come te non meritano di esistere. Andrò ad avvisare le autorità, invierò un plotone di Pacificatori a prenderti.-
Duncan non poteva credere che esistesse qualcuno capace di tanta insensibilità. Ogni secondo che passava, quella ragazza lo rendeva sempre più nervoso.
-Spero proprio che prendano anche te. Dovresti essere arrestata per quanto sei noiosa.-
Courtney strinse forte i pugni delle mani, e trattenne a stento la stizza.
-Vado a prepararmi per la mietitura.- disse infine, come per troncare la questione.
-Immagino che boicotterai anche quella.-
-Purtroppo mi tocca.- disse Duncan. –Ma non importa. Non mi estrarranno mai. Mentre te, principessa…- disse con una punta di malizia –faresti meglio a stare attenta a te stessa. Ragazze come te non durano un giorno, nell’arena.-
Courtney non lo sentiva nemmeno più. Ormai era talmente lontana che Duncan la vedeva appena.
-Giuro che lo farò. Manderò i Pacificatori ad arrestarti.- furono le ultime parole che Duncan intese.
Quando fu sicuro che se ne fosse andata via, Duncan si rannicchiò di nuovo nel suo piccolo rifugio, e finì il suo ridotto pranzo.
“Vorrei davvero vedere cosa faresti, se ti estraessero, principessa.” pensava.
 
Distretto 10
 
Una graziosa ragazza passeggiava con aria beata per i lussureggianti campi da pascolo del distretto 10. Dietro di lei avanzava un gregge di belanti agnellini, dal vello bianco come nuvole di bel tempo.
Gli agnelli si chiamavano tutti col nome di Cody: da Cody Secondo, sulla cui testa già spuntavano dei principi di corna, fino a Cody Sedicesimo, talmente giovane da non reggersi quasi in piedi sulle gambe magre e sottili.
La pastorella si chiamava Sierra. Aveva lunghi capelli violacei, acconciati in una splendida treccia che ondeggiava lievemente nel vento primaverile, occhi vivaci e luminosi, e un incarnato che ricordava lo zucchero di canna.
Sierra lasciò che gli agnellini si sparpagliassero per il pascolo, brucando allegramente, poi si sedette sotto l’ombra frondosa di una quercia e sospirò melanconicamente.
Un solo pensiero occupava in quel momento il suo cuore. E, che ci crediate o no, non era la mietitura.
Sierra pensava infatti a un ragazzo, un mandriano, del quale era innamorata in un modo vicino all’ossessione. Rivedeva nella mente il suo viso rotondo, le sue labbra curvate in un sorriso, il suo profilo magro e dalla testa così grande, e soprattutto il suo soave nome: Cody.
Era in onore a lui, infatti, che aveva dato tali nomi al suo piccolo gregge. Ogni agnello la faceva pensare a lui, e le ricordava che, un giorno, sarebbero stati marito e moglie
Ad un tratto, Sierra vide una mucca pezzata correre senza sosta verso di lei, muggendo di spavento. Dietro al bovino apparve una figura indistinta in corsa. 
Mano a mano che si avvicinava, quella figura si fece più chiara, fino a diventare una visione paradisiaca.
Era Cody! Il ragazzo aveva il fiatone ed era alquanto sudato, il che faceva intuire che corresse già da un po’ di tempo. Ma a Sierra lo stato fisico non importava: contava solo che si trattasse di lui, del suo Cody.
La ragazza si alzò di scatto, a braccia larghe, e corse a rotta di collo verso di lui, chiamando il suo nome. 
-Cody! Cody! Cody!-
Nell’arco di un secondo e mezzo Cody si trovò investito da una massa in movimento, con un enorme matassa violastra che gli copriva naso e bocca impedendogli di respirare. Rotolarono lungo il fianco della collina, tra i belati spaventati degli agnellini di Sierra, e si fermarono alla base, sdraiati l’una sull’altro.
-Oh, Cody!- esclamò Sierra con voce soave. –Sei davvero tu? Vieni a farmi una visitina prima delle mietiture?-
Così dicendo strinse il corpo mingherlino del ragazzo in una presa tentacolare, mentre il viso di lui, in mancanza d’aria, si tingeva quasi di rosso.
-Sierra… soffoco…- riuscì infine ad articolare Cody. Svicolò in qualche modo dall’abbraccio della ragazza, e rimessosi in piedi si spolverò. A volte l’invadenza di Sierra superava davvero il limite del consentito.
-Veramente non sono venuto a cercare te.- ansimò riaggiustandosi la maglietta. –Sono qui per cercare Buttercup. Chissà dove si è cacciata adesso.-
Sierra sospirò mestamente. Dunque Cody non era venuto a cercare lei. Si trovava là soltanto per recuperare la mucca in fuga. Le riusciva assolutamente impossibile capire come mai l’interesse del ragazzo verso di lei fosse meno di zero. Dopotutto, lei lo amava così tanto…
-Oh, mio dolce Cody.- continuò Sierra in tono sempre più melodrammatico. 
-Non hai paura per oggi pomeriggio? Io sì. Se mi estraessero sarei costretta a starti lontano per chissà quanto.-
-Sì, ho un po’ di paura.- rispose Cody, scrutando in giro in cerca della mucca scomparsa. –Non mi piacerebbe proprio finire lì dentro. Hai visto quanto sono grossi i Tributi Favoriti? Ce ne sono di talmente forti da staccarti un braccio senza bisogno della spada.-
Sul viso di Cody era apparsa un’espressione di puro terrore. Del resto come biasimarlo: per gli abitanti dei distretti più poveri la sola idea di trovarsi faccia a faccia con un Favorito in assetto di guerra era sinonimo di morte imminente.
Sierra, intanto, si era accorta della paura del proprio amato. Gli strinse forte la mano per rincuorarlo e gli dedicò il più largo dei suoi sorrisi.
-Non avere paura, Codychino.- disse. –Se ti estrarranno, io mi offrirò volontaria al tuo posto, e tornerò a casa per te.-
Cody sbuffò. –Sierra, non puoi offrirti volontaria per me. Sono un ragazzo.-
-E allora- rispose Sierra senza scomporsi –Mi offrirò volontaria tra le ragazze, e ti proteggerò dai quei Favoriti brutti e cattivi.-
Cody rabbrividì. –No, Sierra. Non voglio che tu muoia per me.-
-Sta tranquillo, amore mio.- fece la ragazza. –Sopravvivrò per te.
E del resto, qualunque cosa possa aver escogitato il Presidente McLean, sono certa che sapremo superarla insieme, come due veri innamorati.-
Il ragazzo emise un sospiro di disperazione. Sierra, quando stava con lui, era tanto immatura da dimenticare persino la tragicità degli Hunger Games.
Per sua fortuna, proprio in quel momento la mucca Buttercup riapparve in lontananza, brucando placidamente l’erba selvatica.
-Ora devo andare.- disse Cody. –Ci si vede oggi pomeriggio!-
Dopo aver parlato, scappò via, inseguendo la mucca che, alla sua vista, era scappata via a zampe levate.
Sierra lo guardò allontanarsi, con aria sognante.
“Sei così carino, mio dolce Cody” pensava. “Non permetterò mai a nessuno di farti del male in quell’arena”.
 
Distretto 11
 
Anche se quello era il giorno più temuto di tutto l’anno, i contadini del distretto si erano lo stesso alzati all’alba e raccoglievano di buona lena la frutta dagli alberi nei frutteti.
Con aria critica, Tyler guardava il fusto di un gigantesco ciliegio. Aveva sotto al braccio un cesto di vimini, che avrebbe dovuto riempire di ciliegie per quel pomeriggio.
Tyler esitava a salire su di esso. Controllava nervosamente nei paraggi, come se temesse di incontrare qualcuno. Alla fine, però, vedendosi solo, si fece coraggio, si sputò sui palmi delle mani e si arrampicò fino al primo ramo.
Appena riuscì a mettersi a sedere, perse subito l’equilibrio e cadde di schiena verso terra.
Tyler era ormai abituato alle cadute. Lo chiamavano “il coppa del nonno” proprio per quello: era assolutamente negato in qualunque cosa riguardasse il movimento, l’agilità e lo sforzo fisico.
Dunque si rialzò abbastanza tranquillamente, si massaggiò la schiena dolorante e ritentò l’ascesa.
Stavolta riuscì ad arrivare fino al secondo ramo, poi sentì il cinguettio di una ghiandaia imitatrice, che lo fece voltare di scatto. Nello slancio cadde di nuovo, stavolta di stomaco, e rimase disteso a terra per alcuni secondi col fiato corto.
Ma Tyler non era tipo da arrendersi. Si rialzò ancora, e afferrò nuovamente il ramo per risalire fino in cima.
Quello sembrava essere il tentativo vincente. Pur traballando un po’, Tyler riuscì ad arrivare ad un’altezza sufficiente da permettergli di prendere delle ciliegie.
Allungò la mano, tutto compiaciuto, e afferrò il primo frutto.
-Serve una mano, Thomas?- domandò in quel momento una voce in fondo all’albero.
Tyler, colto di sorpresa, fece quasi un salto all’indietro. In un attimo sentì il suo corpo che scivolava lungo la superficie del ramo, poi vide la chioma della pianta allontanarsi sempre di più da lui.
L’ultima cosa che sentì, prima di perdere i sensi, fu un indescrivibile dolore alla testa.
Quando Tyler rinvenne, era disteso su un tappeto d’erba, supino. Una voce un po’appannata chiamava il suo nome, o per lo meno pensava di farlo.
-Tarquin? Ti senti bene?-
Tyler sbatté le palpebre. Di fronte a lui c’era un crocchio di persone, raccoglitori di frutta per lo più, e tra di loro spiccava una graziosa ragazza.
Lindsay. Alla vista della giovane la bocca di Tyler si curvò in un sorriso. Era irrimediabilmente, indescrivibilmente innamorato di lei, dei suoi splendidi occhi azzurri come il cielo sereno, dei suoi capelli, di un biondo che ricordava i limoni del loro distretto, del suo corpo grazioso e magro col quale poche altre ragazze di sua conoscenza potevano competere.
Ma in un attimo, il suo sorriso si mutò in una smorfia di vergogna. Perché in quel momento Tyler si ricordò di essere caduto giù dall’albero come un idiota proprio di fronte a lei.
Era per quello, infatti, che si guardava le spalle prima di iniziare l’arrampicata. Non voleva in alcun modo scalare quell’albero con lei accanto: sapeva che si sarebbe imbarazzato, per poi cadere rovinosamente, il che avrebbe compromesso non poco l’opinione della ragazza su di lui.
Tyler fu sollevato per le spalle da due uomini, che lo aiutarono a mettersi in piedi. Poco lontano, alcuni ragazzi della sua età ridacchiavano tra di loro.
-Che imbranato.- sussurrava uno.
-Cade sempre.- rispondeva un altro.
Tyler non fece nulla per opporsi. Si limitò a cercare di evitare lo sguardo di Lindsay, ma lei non sembrava affatto beffarda. Al contrario, pareva preoccuparsi per lui.
-Forse per oggi è… meglio per te se eviti di prendere parte al raccolto.- disse uno dei raccoglitori più anziani.
-Lindsay, portalo a casa, per favore.-
Lindsay, obbediente, prese la mano di Tyler e lo accompagnò verso il limitare del frutteto.
La ragazza non sembrava importarsi minimamente dell’incidente, anzi, guardava da un’altra parte con aria indifferente. Tyler, invece, non seppe trattenere un sospiro.
-Tutto bene, Telson?- domandò Lindsay premurosamente.
-No.- rispose Tyler. –Mi chiamo Tyler, innanzitutto. Poi, ho fatto la figura dell’imbecille cadendo da quell’albero.-
-Io non penso che tu sia un imbecille, Trevor.- disse Lindsay.
-Anche se ogni tanto cadi da un albero, non importa. Mi stai simpatico così.-
Tyler si sentì immensamente meglio dopo quell’affermazione. Questo era il bello di Lindsay: non era proprio una cima, ma quando voleva poteva trasformare una giornataccia in una buona giornata.
-Mi aiuteresti a prepararmi per la mietitura, Taylor?-
Il sorriso di Tyler si fece ancora più largo.  Sì, sembrava proprio un’ottima giornata.
Era talmente felice per l’accaduto, che non si accorse del sasso sul suo cammino. Inciampò, e prima di rendersene conto era faccia a terra.
Lindsay gli si avvicinò. –Ti sei fatto male, Theodore?-
 
Distretto 12
 
Era già mattino, e i minatori erano usciti a passo mesto per dirigersi verso le miniere di carbone. Erano un corteo di gente nerovestita e cupa, simile a uno sciame di corvi che vola su un cimitero.
Zoey li guardava avanzare dalla porta della sua casa, passandosi nervosamente una mano nei magnifici capelli vermigli. Ogni anno che passava, si avvicinava il periodo in cui lei sarebbe dovuta essere parte di quel corteo, come minatrice. La sola idea le metteva i brividi nel corpo. Tremava al solo pensiero di trascorrere il resto della propria vita dentro caverne strette, buie e maleodoranti, nelle quali c’era un alto rischio di crolli e la polvere di carbone si posava dappertutto.
Tuttavia, sapeva che c’era un modo per evitare quell’inferno: diventare guaritrice.
Quello era il suo sogno. Curare la gente, riportare sorrisi su bocche singhiozzanti, aiutare chi ne avesse bisogno era il desiderio più grande che avesse.
Aveva tutte le carte in regola: aveva superato da poco la paura del sangue, conosceva bene le erbe mediche e l’anatomia, ed era bravissima a calmare chi fosse agitato, qualità non da poco per i casi più gravi.
Sapeva che avrebbe potuto farcela. Ciononostante, non poteva non dispiacersi per tutti i poveri uomini e donne prigionieri ogni giorno in quelle terribili gallerie.
Ad un tratto, una figura indistinta apparve in fondo alla piazza. Zoey fece fatica, sulle prime, a distinguerne la fisionomia, poi tutto si fece più chiaro: erano un ragazzo e una ragazza, che trasportavano sulle spalle una terza persona, gemente.
-Zoey!- chiamò uno di loro. –Abbiamo bisogno di te!-
Zoey corse nella loro direzione. I due ragazzi adagiarono il loro compagno su una sedia, con delicatezza. La ragazza riconobbe il giovane agonizzante: si chiamava Mike, ed era stato un suo compagno di scuola tempo prima. Aveva in viso un’espressione di dolore, e la caviglia era impregnata di sangue.
-Mike è stato morso da un cane rabbioso.- esclamò concitatamente la ragazza.
-Abbiamo provato a chiamare il guaritore, ma non è in casa. Solo tu puoi aiutarlo.-
Zoey ascoltò, attonita. Sembrava tutto un orribile sogno. Le grida dei due ragazzi, il sangue, l’espressione sul viso di Mike…
Alla fine prese un po’ di coraggio e parlò.
-Portatelo dentro. Cercherò di curarlo come posso.-
I due ragazzi, obbedienti, condussero Mike dentro la casa della ragazza, e lo fecero adagiare su una sedia; poi se ne andarono correndo, molto traumatizzati per l’accaduto.
Zoey prese da uno scaffale delle erbe medicinali, le versò dentro una ciotola e cominciò a triturarle con un pestello.
-Tu sei… Zoey, vero?- domandò Mike con voce tremante.
-Ti ho già vista da qualche parte. Eri la ragazzina timida del terzo banco, vero?-
-Beh…- Zoey cercava di concentrarsi sulle erbe nel mortaio, ma un rossore improvviso le colorò le guance.
-Penso di sì… ero davvero così timida?-
-Un pochino lo eri… ahi!-
Mike emise un sottile urlo, evidentemente a causa della gamba ferita. Sul taglio si stava sviluppando il principio di un’infezione.
Appena l’urlo cessò, il viso di Mike cambiò tutto. Strinse gli occhi, incurvò la schiena e irrigidì le braccia. Strane rughe si formarono sulla sua pelle, raggrinzendola con orribili contrazioni.
Zoey alzò per un attimo gli occhi dal mortaio. Voltatasi verso il ferito, rabbrividì. Mike sembrava un altro, con quel viso così contorto e quell’espressione di puro sdegno.
-Tutto a posto, Mike?- domandò preoccupata.
-Mike? Chi è Mike?- fu la risposta.
Zoey rabbrividì nuovamente: la voce del ragazzo era cambiata tutta, si era trasformata in un gracchiare astioso che ricordava di aver visto solo in alcuni degli abitanti più anziani del distretto.
-Io mi chiamo Chester, signorina.-
Chester… la cosa era sempre più strana. Zoey decise di non pensarci: in quel momento la priorità era medicare la gamba del ragazzo.
-Ho… ho preparato un impacco di erbe.- disse la ragazza dopo un attimo di pausa.
-Dovrebbe bastare a bloccare l’infezione.-
-Sbrigati, Zoey!- gracchiò nuovamente Mike, o meglio Chester.
-Pensi che la ferita guarisca da sola?-
Zoey corse come un lampo verso di lui, e applicò febbrilmente la mistura erbacea sulla ferita. Sin dall’inizio cominciarono ad apparire i primi risultati: la ferita parve meno rossa, e i segni dell’infezione incombente si fecero meno evidenti. Anche il viso di Chester si fece più rilassato.
-Beh, era ora.- disse stizzosamente.
-Devi applicarti ancora un po’, se vuoi diventare una guaritrice.-
Senza nemmeno fermarsi a ringraziare, Chester si alzò dalla sedia, e avanzò verso la porta d’ingresso, tenendo una mano premuta contro la propria schiena, come se gli dolesse.
Zoey lo guardò avanzare, in parte rattristata dalla scortese reazione avuta. Eppure, in altri momenti Mike era un ragazzo così cordiale… Proprio non sapeva spiegarsi il perché di quegli scambi di personalità.
Decise di non pensarci, e lasciò che i suoi pensieri corressero verso la mietitura incombente.
Zoey aveva paura. L’arena era sempre un posto pieno di pericoli, e per un tributo del distretto 12, poi, le speranze di sopravvivere erano davvero poche.
Come avrebbe desiderato avere Mike accanto, durante quel momento terribile.
 
Angolo Autrice
Hello!
Questo è il mio nuovo (credo) capolavoro. Non ricordo come ho concepito questa idea, ma non importa: vado abbastanza fiera di quello che ho scritto, e mi auguro con tutto il cuore che vi sia piaciuto.
È un crossover e un AU, e sarà ambientato nello stato di Panem come una qualunque edizione degli HG. Come forse avete visto, Chris McLean interpreterà il Presidente Coriolanus Snow; ho preparato una parte adatta a tutti, e spero di aver creato dei buoni abbinamenti.
Ecco come ho associato i concorrenti ai vari distretti.
Distretto 1: oggetti di lusso. Un’ereditiera come Dakota ci stava a pennello. Magari Sam sembra un po’ fuori posto, ma non ho potuto farci nulla.
Distretto 2: opere murarie e Pacificatori. Questa era facile: dal 2 vengono sempre degli strafavoriti cattivissimi… direi che Alejandro e Heather svolgono magnificamente questo ruolo. E poi, Josè come ex vincitore mi piaceva abbastanza.
Distretto 3: tecnologia. Harold, che è un nerd, ci sta piuttosto bene, dunque anche Leshawna.
Distretto 4: pesca. Anche qui non c’era nemmeno partita: due amanti dell’acqua come Geoff e Bridgette sembravano costruiti a tavolino.
Distretto 5: energia. Izzy era perfetta, è essa stessa energia. Con lei ho messo Owen, quindi non cercate la Nizzy perché NON la troverete. Odio visceralmente quella coppia.
Distretto 6: trasporti. Jo e Brick mi sembrava ci stessero bene.
Distretto 7: legname e carta. Insomma, Dawn medita nel bosco e Scott intaglia il legno… che vuoi di più?
Distretto 8: tessuti. Gwen mi sembrava ci stesse bene, e anche Trent non si incastra maluccio.
Distretto 9: cereali. Courtney e Duncan non sembrano fatti apposta per quella parte, ma… diciamocelo, era l’unico che restava. 
Distretto 10: allevamento. L’idea del gregge di Sierra mi mandava letteralmente in solluchero. Povero Cody… da solo con quella pazza.
Distretto 11: agricoltura. Lindsay è un po’ un fiorellino. E Tyler ha a disposizione molte radici nelle quali inciampare.
Distretto 12: miniere di carbone. Quello è un po’ il distretto dei bravi ragazzi. Zoey e Mike ci stanno abbastanza bene. 
Per eventuali errori di grammatica, carenze nella forma, OOC e quant’altro, non avete che da dirmelo.
A presto e grazie mille.
MiticaBEP97
Ps: vi piacciono i Black Eyed Peas?

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


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Capitolo 2

 
Distretto 1
 
Dakota era ancora più graziosa del suo solito, con quell’abito così roseo e leggero che evidenziava gradevolmente il suo corpo flessuoso e la sua carnagione abbronzata.
E i capelli, poi…
Erano stati attorcigliati in ricci complicatissimi, poi lisciati ancora, dopodiché fermati in cima alla testa con nastri e forcine… il risultato era, almeno agli occhi di Sam, un vero e proprio monumento alla bellezza.
Non che lui avesse fatto grandi sforzi per prepararsi alla mietitura. Indossava semplicemente una camicia pulita, dei pantaloni stirati di umile cotone e delle scarpe di cuoio marrone, in più poco lucidate.
Ma non se ne curava particolarmente: gli avevano detto che l’abito non fa il monaco.
Si accontentava di guardarla da lontano, in mezzo a tutti gli altri ragazzi, così grandi e letali, che facevano la fila per essere registrati.
Dopo la puntura delle dita, i tributi vennero suddivisi tra ragazzi e ragazze, e sul palco cominciarono ad affluire i primi mentori. Il distretto 1, come distretto di Favoriti, ne aveva un discreto numero.
Dopo la proiezione, uguale ogni anno, del filmato sui Giorni Bui, iniziò finalmente la mietitura vera e propria.
L’accompagnatrice capitolina si presentò sul palco, indossando un abito rosso fuoco in lucido latex. Sembrava un’aragosta bollita, nonostante la parrucca bluastra riducesse molto quella somiglianza.
-Benvenuti.- prese a dire. –Benvenuti a tutti, cari ragazzi, benvenu…-
Ma in quella un boato attraversò il palco. Una voce maschile, vivace e sbruffona, declamò:
-Shabam! Dite ciao a Lightning, il vostro mentore!-
La platea scoppiò a ridere. Un uomo sui venticinque anni, muscoloso e corpulento, si era presentato sulla cima del palco con un balzo felino, e dopo aver spinto via con malagrazia la povera donna, si era messo ad ancheggiare avanti e indietro, muovendo le braccia toniche come per sollevare pesi immaginari.
-Spero che quest’anno ci sia almeno un vincitore, tra di voi.- disse rivolto al pubblico.
-Il nostro è un distretto di vincitori. Lightning vuole che sha-vinciate!-
-Qualcosa mi dice che, invece, tu hai sha-bevuto!- gridò una voce nel pubblico.
Un’ondata di risa si propagò per la platea. Lightning assunse un’espressione indispettita, pur consapevole del fatto che, come purtroppo capitava a molti mentori, aveva effettivamente mandato giù un bicchierino o due. Aveva vinto gli Hunger Games una decina di anni prima, a quindici anni, e da allora era diventato dipendente dall’alcool e da una sostanza semisolida, un potente stupefacente, che i chimici di Capitol City chiamavano semplicemente “proteine”.
Tuttavia, come mentore del distretto 1, era in qualche modo costretto ad atteggiarsi da duro, e non raccontava mai a nessuno quegli incubi e quelle dipendenze, nemmeno a suo padre, anche lui ex vincitore.
-Ehm… bene…- l’accompagnatrice ricomparve sul palco, con la parrucca di traverso e il trucco inumidito dal sudore.
-Passiamo alle mietiture, invece. Prima le signore!-
Così dicendo, la donna allungò la mano verso una delle due bocce di vetro, e dopo un attimo di esitazione prese un biglietto.
-Cassida…-
-Fermi!-
La vocetta acuta proveniente dalla platea fece sobbalzare la capitolina, il pubblico, e persino i mentori, incluso lo sbronzo Lightning che giocherellava con un ciondolo a forma di saetta.
Incespicando nel vestito lungo, Dakota riuscì a salire fino al palco, e sistemandosi alcune ciocche che cadevano dall’acconciatura proclamò in tono teatrale:
-Sono Dakota Milton, la figlia del sindaco Milton, e mi offro volontaria.-
Sam rabbrividì. Lo aveva fatto veramente.
-Beh…- disse, dopo una breve esitazione, la capitolina. –Possiamo passare ai ragazzi, allora.-
Mentre la donna si avvicinava alla boccia dei ragazzi, Sam sentiva un profondo vuoto nello stomaco. La visione della bella e biondissima Dakota, che saliva sul palco verso forse la morte, era troppo per lui.
Quanta bellezza violata in un attimo.
Dakota regalava sorrisini e mandava baci a tutti, come se non gliene importasse nulla.
Sam, invece, tratteneva le lacrime. Almeno fino a quando non fu pronunciato il nome maschile.
-Samuel Froud.-
Era il suo nome.
Come mosso da un impulso soprannaturale, il ragazzo si avviò a passi lenti sul palcoscenico.
-Bene, ragazzi.- disse l’accompagnatrice. –Ci sono volontari?-
Sam rivolse un febbrile sguardo al pubblico, aspettandosi di vedere, come gli altri anni, almeno una mano alzata. Ma, inaspettatamente, non ce ne furono. Niente volontari.
-Ecco a voi i nostri tributi: Dakota Milton e Samuel Froud!- esclamò la capitolina.
Dakota continuava a sorridere e a mandare bacini. Sam, invece, sudava freddo. Già sapeva che non ne sarebbe uscito vivo.
Strinse la mano alla compagna, reggendosi a malapena in piedi, e si avviò assieme a lei, a l’accompagnatrice e ai mentori verso il Palazzo di Giustizia.
L’ultima cosa che vide prima che la porta si chiudesse fu Lightning, che vomitava sul palcoscenico pollo e proteine.
Sarebbe diventata così anche Dakota, se avesse vinto?
E di lui, cosa sarebbe rimasto?
 
Distretto 2
 
Solo, in mezzo a tutti quei ragazzi, Alejandro attendeva.
Mentre la Pacificatrice di turno gli pungeva il dito con quell’ago per registrarne il DNA, lui attendeva il suo momento di gloria. Il momento in cui avrebbe dimostrato a Josè che si sbagliava sul suo conto.
Avrebbe eliminato uno a uno i suoi avversari, dai più deboli ai più spietati, e avrebbe lasciato per ultima quella Heather che tanto detestava. Le avrebbe riservato la parte peggiore, il momento clou dello spettacolo che avrebbe mostrato a tutta Panem.
I tributi affluivano negli spalti come mosche attratte dal miele. Molti di essi erano potenti Favoriti.
-Sei ben allenato, vedo.- disse uno di loro a un altro, che dimostrava sì e no quattordici anni.
-Lo so.- rispose il ragazzino. –L’anno prossimo andrò volontario, e vincerò come ha fatto mamma.-
Quest’anno, invece, sarebbe stato lui, Alejandro, a offrirsi volontario. E a vincere.
Aveva già raggiunto il centro della folla quando la vide.
Heather. Nel bel mezzo della massa delle ragazze.
Indossava un semplice abito di candido cotone, e aveva i capelli legati in una piccola coda.
Alejandro non lo avrebbe mai ammesso, ma era veramente molto carina.
Non che lui non lo fosse, ovviamente. La maglia bianca e attillata mostrava i muscoli e l’abbronzatura agli sguardi adoranti delle Favorite, e i capelli lunghi erano più splendidi che mai.
I mentori cominciavano ad affluire sul palco. Tra loro c’era anche Josè.
Il giovane rivolse uno sguardo alla folla, con aria di scherno, fino a che non trovò gli occhi del fratello minore. Appena fu certo di avere la sua attenzione, compì un gesto alquanto sfacciato: portò un dito alla gola e lo fece scorrere orizzontalmente su di essa. Poi disse qualcosa muovendo le labbra.
Alejandro lesse la frase pronunciata dal fratello sulla sua bocca: “Sei morto, Al”.
Un’ammonizione, un pronostico, o semplicemente una delle solite battute pesanti?
Lui non lo sapeva, ma era più che mai determinato a dimostrare a Josè che si sbagliava sul suo conto.
L’accompagnatrice apparve sul palco, in un tintinnio di gioielli. Salutò un paio di volte il pubblico, poi, terminata la proiezione di quell’orrendo filmato, infilò la mano nella prima vasca di vetro.
-E il tributo femminile di quest’anno è…-
Fu un attimo. Heather scattò in avanti, spingendo via le altre ragazze con le mani, e corse verso il palco gridando: -Mi offro volontaria!-.
La capitolina non batté ciglio. –Va bene…- disse dopo un attimo di esitazione – Dicci il tuo nome, cara.-
-Heather.- essarispose. –Heather Wilson.-.
La ragazza sorrise al pubblico, ammiccando ad alcune coetanee che avrebbero voluto offrirsi al suo posto, poi passò alla bancata maschile. I suoi occhi scuri trovarono quelli verdi di Alejandro.
-Non hai speranze.- pronunciò a bassa voce. La frecciatina era, ovviamente, rivolta a lui.
Heather guardò Josè e i due si scambiarono uno sguardo complice.
Una vampa di furia percorse il corpo di Alejandro. Ogni secondo che passava, quella ragazza lo rendeva sempre più nervoso.
Ragione in più per offrirsi volontario: glie l’avrebbe fatta vedere, oh, se l’avrebbe fatto.
L’accompagnatrice aveva appena sfiorato con la mano il secondo biglietto, che una voce esplose dalla bancata maschile.
-Anch’io mi offro volontario!-
Josè emise un risolino compiaciuto, e squadrò dall’alto in basso il fratello che correva sul palco. Carlos, in fondo alla piazza insieme ai genitori dei tributi, chinò la testa verso il suolo ed emise un sospiro. Non aveva il coraggio di vedere un altro suo fratello che saliva su quel maledetto palcoscenico.
-Mi chiamo Alejandro Burromuerto.- disse il ragazzo conclusa la salita.
La presentatrice parve impressionata: -Il fratello di Josè Burromuerto? Abbiamo sentito molto parlare di te. Vieni pure, caro. Benissimo, tributi. Potete stringervi la mano.-
Le mani dei due ragazzi si unirono in una granitica stretta. Heather e Alejandro avevano l’una gli occhi fissi in quelli dell’altro, le labbra curvate in dei sottili sogghigni, fieri e invincibili come aquile rapaci.
-Sei muerto, Burromuerto.- disse la ragazza a bassa voce.
-Prima le signore.- rispose lui senza scomporsi.
Mentre i due tributi si dirigevano verso il Palazzo di Giustizia, Alejandro rivolse un ultimo sguardo a Josè.
Forse si sbagliava: era una lacrima, quella che vedeva sulla sua guancia?
 
Distretto 3
 
Con un leggero tremore nel corpo, Harold porse il braccio all’ uomo di fronte a lui, affinché quello potesse prelevarne il sangue.
Mentre l’ago penetrava in profondità nella sua pelle, Harold cercava con gli occhi Leshawna.
Finalmente la vide: indossava un abito semplice e stinto, come se non potesse permettersi altro abbigliamento. Con lei c’era una seconda ragazza, simile a lei, ma più corpulenta, che indossava abiti vistosi e gioielli dai colori sgargianti. Sembrava anch’ella una capitolina.
-Buon pomeriggio, Leshawnina.- esclamò il tributo correndole incontro.
-Ciao, Harold.- disse l’afroamericana, senza tuttavia nascondere una venatura di panico nella voce.
Harold non poté fare a meno di notarla:- Qualcosa ti turba, mia cara?-
-Ma chi è?- domandò l’altra ragazza.
-Un amico…- rispose Leshawna distrattamente. Nessuno dei tre pensò alle presentazioni: il momento era troppo intenso per preoccuparsene.
-Scusami, Harold, ma al momento non vorrei parlarne. Ci vediamo quando hanno finito, va bene?-
Harold rispose con uno stentato “va bene”, e si diresse mestamente verso il gruppo dei ragazzi.
-C’è qualcosa che non va, cuginetta?- domandò intanto l’altra ragazza a Leshawna.
-No, no, sto bene.- rispose Leshawna. –Ho solo paura di essere estratta. Speriamo che anche quest’anno tocchi a qualcun altro.-
-Già…- disse l’altra mestamente. A quanto pare, anche lei aveva un discreto numero di biglietti dalla sua.
Quando tutti presero posto, una creatura che poco aveva di umano si presentò sul palco a passi traballanti.
Un tempo doveva essere stato un uomo sulla quarantina, ma in quel momento assomigliava molto di più a un gatto denutrito. La pelle era tinta di arancione acceso, e i capelli, che pure conservavano l’originale colore nero, erano sparati in ogni direzione, con un penoso effetto di parrucchiere che avrebbe dovuto imitare, forse, la criniera di un leone.
-Ogni anno sembrano più scemi.- sussurrò Leshawna alla compagna ridacchiando.
-Questo sembra sopravvissuto a un disastro pirotecnico.- sogghignò l’altra, battendo un basso “cinque” alla cugina.
La creatura semi umana pronunciò un breve e poco interessante discorso, poi fu proiettato il solito video sulla nascita di Panem e degli Hunger Games. Quando l’essere mosse i primi passi verso la boccetta delle ragazze, il brusio che prima percorreva la folla si dissipò. Tutte le ragazze incrociarono le dita e tremarono.
“Non estrarre la mia Leshawna, ti prego” implorava Harold nella testa.
-Leshaw…- pronunciò il capitolino. Harold ebbe una fitta al cuore.
-… niqua Edwards.-
Leshawniqua. Non Leshawna, ma qualcuno che le assomigliava in modo impressionante.
Mentre tirava un sospiro di sollievo, Harold vide la ragazza sconosciuta di prima salire a passi mesti sul palcoscenico. Aveva ragione, assomigliava molto a Leshawna. Forse era una sua parente.
Capì che per Leshawna sarebbe stato molto duro. E giurò a sé stesso che le sarebbe stato vicino, come un vero cavaliere.
-No! Fermi tutti!-
Harold rabbrividì. Leshawna correva sul palco, come una Favorita che si offre volontaria.
-Nessuno manda la mia cuginetta preferita al macello. È fuori questione.- imprecò verso il capitolino.
Harold capì che non si era sbagliato: erano parenti. E aveva un brutto presentimento sulle intenzioni della ragazza amata.
-Lei lì non ci va.- continuava a sbraitare Leshawna. –Mi offro volontaria. Sta tranquilla, Leshawniqua- disse poi rivolta alla cugina. –tornerò da te.-
Due Pacificatori afferrarono Leshawniqua per le spalle e la trascinarono giù dal palco, nonostante le sue grida. Leshawna, che si cominciava a rendere conto dell’azione compiuta, aveva perso la sua baldanza e non nascondeva un pallore di paura, ma cercava di apparire fiera e coraggiosa, per non far pensare agli spettatori di avere a che fare con una ragazza debole. E Harold, in mezzo ai ragazzi, era pietrificato dall’orrore.
Che si fece, se possibile, ancora più grande, quando fu estratto il nome maschile:
-Harold McGrady.-
Il suo nome
 
Distretto 4
 
“Non tocca a te… non tocca a te… non tocca a te…”
Questo era il mantra con il quale Geoff cercava di mantenersi calmo mentre si avviava verso la piazza.
“Estrarranno qualcun altro” si disse tormentandosi i polsini della camicia. “E dopo, io e Bridgette ce ne andremo a fare una bella nuotata soli soletti in mare aperto”
E a proposito di Bridgette: eccola lì, che procedeva a passi stentati come se non ricordasse in che direzione dovesse andare.
Era carina. Molto carina. Indossava un semplice abito azzurro, e i capelli erano raccolti in una semplice coda di cavallo. Al collo portava una graziosa collana di conchiglie, che le aveva fatto lo stesso Geoff come portafortuna per la mietitura di alcuni anni prima.
Nel vederla così spaesata, il cuore di Geoff ebbe un fremito. Per un attimo dimenticò la mietitura e gli Hunger Games, e si avvicinò a lei sorridendole.
-Ehi, Bridgette.-
Lei ricambiò con un piccolo sorriso, screziato di paura.
-Non voglio andare in quell’arena.- esclamò poi. –Io non so uccidere.-
Il che, detto da una ragazza che nel distretto della pesca mangiava prevalentemente alghe e verdura, era la pura verità.
Vedendola così, Geoff le cinse le spalle col braccio, e le rivolse un dolce sguardo.
-Non aver paura, piccola. Non toccherà mai a nessuno di noi due. Vedrai che andrà tutto bene.-
-Lo spero…- mormorò Bridgette. Tuttavia sembrava ancora poco tranquilla.
-Fidati di me.- disse Geoff. Avrebbe voluto consolarla ancora, ma era arrivato il momento di allinearsi.
Quell’anno, Blaineley aveva deciso di puntare sul provocante. Indossava un abito rosso scarlatto, di una stoffa liscia e leggera, dalla prominente scollatura e dal profondo spacco che lasciava trapelare due gambe non perfettamente depilate. Le scarpe erano di un rosso altrettanto acceso, con alti e sottili tacchi, e avevano l’aria stretta e scomoda. Era truccata vistosamente, e i gioielli che indossava erano così grandi che qualcuno giurò di averla vista traballare in avanti per il peso della collana. I capelli biondo oro della donna erano intrecciati in una specie di torre in cima alla testa, da cui scappava fuori qualche ciuffo poco disciplinato.
-Buon pomeriggio a tutti, e benvenuti alla mietitura.- esclamò in un tono di voce fin troppo allegro.
-Oggi abbiamo con noi, nientemeno che la vostra cara Blaineley!-
Un silenzio imbarazzato seguì all’affermazione della capitolina. Lei, senza scomporsi, si sistemò i capelli sulla testa (era forse una parrucca?) e ordinò che fosse proiettato il filmato sui Giorni Bui.
-Che video fantastico.- esalò alla fine della proiezione. –Non trovate magnifico lo sforzo del nostro amato presidente McLean per rendere ogni anno i giochi più interessanti?-
Nuovamente silenzio. Blaineley parve sempre più indispettita.
-Incompetenti.- sbottò. –Passiamo all’estrazione, che è meglio.-
Caracollando sui tacchi, la capitolina si avvicinò alla boccia delle ragazze e tirò fuori un biglietto.
Geoff guardò Bridgette. Era pallida in viso, e giocherellava con la collana di conchiglie.
-E il tributo femminile del distretto 4 è… BridgetteFairlie.-
Nell’attimo esatto in cui fu pronunciato il suo nome, Bridgette strattonò la collana con un impeto tale da rompere il filo. Le conchiglie caddero verso il suolo, e alcune si ruppero toccando terra.
-Dove sei?- chiamava intanto Blaineley. –Non ho mica tutto il giorno.-
Come ipnotizzata, Bridgette si diresse verso il palco, scortata da quattro Pacificatori.
-Bridgette!-. Geoff corse in direzione dell’amata, chiamando a gran voce il suo nome. Aveva gli occhi sbarrati per lo shock, e i capelli spettinati.
Altri due Pacificatori lo afferrarono per le braccia, e lo trascinarono fino alla bancata maschile.
Blaineley non parve preoccuparsi ne della sua reazione, né delle lacrime che Bridgette tratteneva a fatica.
-Molto bene! E adesso…- disse avvicinandosi alla seconda boccia. –Il giovane uomo.-
Geoff si reggeva a malapena in piedi, e stava appoggiato a un palo mordendosi le labbra per non piangere.
-Geoffrey Petronijevic.-
Era lui!
Geoff salì sul palco nello stesso modo di Bridgette, come sotto ipnosi.
Blaineley ordinò loro di stringersi la mano. Geoff prese quella, tremante, che Bridgette gli porgeva, e la strinse per confortarla. Uscirono di scena mano nella mano.
Blaineley era letteralmente estasiata. –Che emozione.- cinguettò.
-Per quest’anno abbiamo finito, ma ricordatevi che per la prossima mietitura ci sono sempre io: BlaineleyStaceyAndrewsO’Hallorann!-
Stavolta il silenzio fu accompagnato da un gesto insolito. Qualcuno, dal pubblico, lanciò un pesce ormai marcio verso il palco, centrando con precisione il volto della capitolina. La donna, nell’impatto, cadde all’indietro. La chioma bionda e lucente scivolò giù da sopra la sua testa, e atterrò silenziosamente sul pavimento del palcoscenico, lasciando il posto ad alcune stentate ciocche meno lisce, di un giallo molto più spento. Era veramente una parrucca!
Il pubblicò esplose in una risata incontrollabile. Persino i Pacificatori non intervennero per scoprire l’autore di quell’azione così sfacciata, occupati com’erano a ridere a crepapelle.
Blaineley ebbe per lo meno il buonsenso di non rispondere. Si limitò a rialzarsi da terra, a sistemarsi l’abito rosso, e rimettere la parrucca al suo posto in cima alla testa.
-Questa è maleducazione.- sbottò indispettita. Dopodiché si incamminò a grandi passi verso l’uscita, maledicendo chiunque le avesse assegnato proprio il distretto dei pescatori.
 
Distretto 5
 
Davanti allo specchio, Noah si sistemava la cravatta, pensieroso.
Era passato già un anno da quando era stato estratto alla mietitura precedente. Aveva vinto, sì, ma non era più stato lo stesso. Mai avrebbe potuto dimenticare tutto quel sangue, tutta quella morte, tutte quelle urla di ragazzi e ragazze innocenti.
E quell’anno avrebbe anche dovuto fare da mentore ai tributi estratti. Ma non se la sentiva. Avrebbe delegato il compito a qualcun altro. Mai avrebbe sopportato di rivivere tutti quegli orrori da vicino.
-Ehi, Noah!- chiamò una voce gioviale dalla finestra.
Sulle labbra di Noah apparve un piccolo, impercettibile sorriso. Se eri di cattivo umore, nulla era più efficace di Owen per tirartelo un po’ su.
Il ragazzo sovrappeso si avvicinò a lui con un’espressione felice sul viso paffuto. Noah rispose al saluto con un leggero cenno della mano.
-Come va? Disturbo?- domandò Owen. –Vuoi una mano con la cravatta?-
E prima che Noah potesse fare alcunché, Owen strinse l’indumento vigorosamente intorno al collo dell’altro, che prese ad ansimare in cerca di ossigeno.
-Ti ringrazio, ma sto bene così.- imprecò Noah, liberandosi dalle braccia di Owen e allargando il nodo della cravatta in modo da permettergli di respirare normalmente. Quel ragazzo, alle volte, era così invadente…
Invadente, sì, ma molto simpatico. Ed era sempre capace di metterti di buon umore.
-Come mai sei venuto qui?- chiese Noah. –Devo andare all’appuntamento dagli altri mentori.-
-Pensavo che sarebbe stato carino andarci insieme.- rispose Owen. –Ti va?-
Noah annuì. Owen, nel frattempo, aveva intravisto alcune mele in un angolo della cucina, e se le stava allegramente sbafando.
-Smettila di saccheggiarmi la dispensa, e andiamo.-  Noah afferrò vigorosamente il braccio di Owen, e lo trascinò via dalle vettovaglie. Poi, i due amici si incamminarono verso la piazza fianco a fianco.
Era un abbinamento quasi buffo: un ragazzo dalla pelle color nocciola, basso e mingherlino, affiancato all’enorme Owen dalla pelle rosata. Ma Noah non se ne curava: stava bene, in fondo, con l’amico accanto.
Improvvisamente, qualcosa di molto rumoroso atterrò in mezzo a loro. Noah sentì due braccia afferrarlo, e nell’arco di due secondi si trovò stritolato nuovamente, nell’abbraccio tentacolare che Izzy gli stava dedicando.
-Il mio piccolo amico Noah!- strillò la ragazza. –Come sono felice di vederti!-
-Anch’io sono felice di vederti, Izzy.- fece l’altro cercando di svicolare. –E sarei molto più felice se mi lasciassi un po’ di ossigeno.-
Izzy si staccò. –Posso venire alla mietitura con voi? Così chiacchieriamo.-
-Dai, Noah, facciamola venire.- disse Owen.
-Va bene.- fu la secca risposta. E così, lo strano trio si diresse verso la piazza dove sarebbero stati estratti i nomi.
Giunti là, Noah si congedò dagli altri due per unirsi ai mentori. Owen e Izzy lo salutarono con la mano.
-Che tipo, il nostro Noah.- trillò Izzy. –Vorrei tanto averlo come mentore, se mi estraessero.-
Era calma mentre parlava. Sin troppo calma per l’occasione.
-Non vorrai davvero essere estratta?- domandò un orripilato Owen.
-Certo che no.- rispose Izzy. –Là dentro ci si muore. Volevo solo dire che, nel caso in cui toccasse a me, sarebbe carino condividere i miei ultimi momenti con uno dei miei amici più cari. Non trovi anche tu che sarebbe pazzesco, Owen?-
Owen lasciò uscire uno stentato “sì”. Mentre guardava Izzy che si univa alla bancata delle ragazze, sospirò. Non voleva perderla.
Finalmente l’accompagnatrice salì sul palco, mostrando un volto completamente coperto da tatuaggi che riproducevano fiori e foglie. Noah la guardava disgustato.
Come potevano quei capitolini essere così insensibili alla morte di tutti quei ragazzi?
A volte pensava di non essere stato così fortunato, a vincere. Se era riuscito a prevalere su Favoriti grossi anche il doppio di lui, era stato solo grazie alla sua capacità di passare inosservato, di non farsi notare. Nessuno aveva fatto caso al nanerottolo insignificante del distretto 5. Peccato che quel nanerottolo, alla fine, avesse prevalso su tutti.
“Ti prego, fa che quest’anno non sia troppo crudo” pensò tra sé e sé. “Non ce la farei proprio.”.
Nel frattempo, l’accompagnatrice si era avvicinata alla boccia delle ragazze, e ne aveva estratto una nome. Quando lo pronunciò, Noah trattenne a stento un sussulto.
-Isabella Crown.-
Izzy. Noah la cercò con gli occhi sulla strada verso il palco, ma non la vide.
-Isabella Crown.- ripeté stizzita l’accompagnatrice.
-Io non sono Isabella.- rispose una voce nella platea. –Io sono il sergente Caleido.-
Noah non poté reprimere un sorrisetto di compiacimento: quella ragazza era persino più complicata di quegli odiosi capitolini.
-E va bene…- diceva intanto l’accompagnatrice con fare stizzito. –Sergente Caleido, vieni sul palco. Sei stata estratta.-
Owen si coprì gli occhi per non vedere la sua ragazza che andava al patibolo. Izzy, nel frattempo, non pareva minimamente preoccupata, e si avvicinava al palco saltellando.
-Caleidoscopio vince su tutti!- strillò appena conclusa l’ascesa. La capitolina indietreggiò intimidita, e nel vederla così intimorita alcuni tra il pubblico esplosero in ovazioni. Detestavano quella donna così colorata.
Noah stava sulla sua sedia, in silenzio. Izzy stava andando a morire, e lui non poteva far nulla per salvarla.
Beh, qualcosa poteva fare… ma ne avrebbe mai avuto il coraggio?
Noah poté darsi una risposta solo quando la capitolina estrasse anche il nome maschile.
-Owen McKinnow.-
Owen si incamminò verso il palco, ma in modo completamente diverso da Izzy: procedeva a piccoli passi, guardando tristemente verso terra. Appena fu vicino a Izzy, la ragazza gli saltò al collo eccitata.
-Almeno saremo insieme, no?-
Owen non ebbe la forza di rispondere. Strinse più forte la mano di Izzy, e rivolse a Noah un mesto sguardo. Uno sguardo di addio.
Mentre i due neo tributi si allontanavano, e anche su Izzy cominciavano ad apparire i primi segni della paura di morire, Noah fece un giuramento silenzioso a sé stesso.
Decise che avrebbe fatto il mentore. E giurò che avrebbe lottato, con tutte le sue forze, per permettere ad almeno uno di loro di tornare a casa vivo.
 
Distretto 6
 
-Avanti il prossimo.-
Brick si avvicinò tremante al Pacificatore corpulento che attendeva di fronte a lui con una siringa affilata in mano. Tese il braccio, e trattenne il respiro mentre il suo sangue veniva estratto con un risucchio dello stantuffo.
-Stai tremando tutto, ragazzo.- disse l’uomo con fare scontroso. –Paura del sangue?-
-Un pochetto… ma posso sopportarlo.- balbettò Brick in risposta.
Il giovane era pallidissimo, sudava freddo, e si mordeva l’interno del palato fin quasi a ferirsi per la tensione. Non aveva mai sopportato le mietiture.
Decise di darsi un contegno, e avanzò a passetti stentati verso la piazza.
Improvvisamente una voce strillante lo fece voltare di scatto. Un Pacificatore dall’aria infastidita stava discutendo animatamente con una seconda persona. E quella persona aveva l’aria piuttosto familiare.
Era Jo. Alla fine la ragazza non aveva più indossato un “noioso vestitino fru fru”, come aveva detto quella mattina. Si era presentata, invece, con addosso una sobria camicia e dei pantaloni marroncini. In quel momento aveva l’aria più nervosa che mai, e inveiva contro il Pacificatore di fronte a lei con il tono di voce usato dalle madri arrabbiate con le maestre dei figli.
-Lei non capisce niente!- urlò la ragazza contro l’interlocutore. -Io sono una donna.-
-Con me non attacca, ragazzino.- rispose l’uomo, sempre più infastidito. –Il trucco è vecchio. Va con gli altri maschi e non seccarmi.-
Nonostante la mietitura fosse prossima a incominciare, Brick non potè fare a meno di ridacchiare sotto i baffi. Jo era stata veramente scambiata per un ragazzo?
Effettivamente era vestita come un ragazzo, e i capelli corti, il fisico androgino e la voce profonda accentuavano molto questa somiglianza.
Jo era veramente buffa, tra l’altro, mentre si accalorava tutta nella discussione: aveva il viso rosso, e gli occhi tanto dilatati da sembrare finti.
A ogni modo, la discussione stava prendendo veramente una brutta piega: Jo era passata alle volgarità, e Brick sapeva che, se la discussione fosse andata per le lunghe, la ragazza sarebbe stata probabilmente arrestata e condotta via con l’accusa di tentare di sottrarsi alla mietitura.
In quel momento, Brick vide Jo mettere mano alla cerniera dei pantaloni.
-Guarda cosa mi tocca fare per mostrare a ‘sti qua che sono una ragazza.- protestò.
Brick sapeva che lo avrebbe fatto. Corse verso i due litiganti, e bloccò la mano di Jo che abbassava la cerniera.
-Ferma, non è necessario.- disse. –Garantisco io per lei. È veramente una femmina. Può fidarsi di me.-
Il Pacificatore parve, ovviamente, molto imbarazzato.
-Beh, se le cose stanno così… la signorina può andare. Mi scuso tantissimo per il disguido.-
-Mi sembra il minimo, razza di imbecille.- rispose Jo. –Non sai nemmeno riconoscere una donna, quando la vedi.-
-Vieni, Jo, meglio andarsene.- si intromise Brick, portando via la ragazza prima che dicesse cose di cui si sarebbe poi pentita.
Una volta lontani dal luogo della discussione, Jo si rivolse a Brick in tono più tranquillo.
-Devo ammetterlo, Sergente Piscione. Te la sei cavata piuttosto bene.- disse tutta compiaciuta, battendo una fragorosa pacca sulla spalla di Brick.
-Se non fosse stato per te, starei ancora discutendo con quell’incompetente di un Pacificatore.-
-Se posso rendermi utile… tra amici ci si aiuta sempre.- rispose placido Brick.
-Ora però meglio andare. Stanno entrando tutti.-
Jo annuì. Lasciatasi alle spalle Brick, corse nella bancata femminile e si mise in posizione tutta eccitata. Anche Brick raggiunse gli altri maschi, molto meno tranquillo della ragazza.  Ormai sudava così tanto che i piedi sembravano scivolare nelle scarpe.
Nel frattempo, i mentori cominciavano ad apparire sul palco. Ultima ad entrare fu una giovane donna corpulenta, dal viso arcigno e piuttosto sgradevole, con i capelli neri legati in una rozza coda, le sopracciglia unite tra loro in mezzo alla fronte, e il volto fisso in un cipiglio antipatico.
Era tutto fuorché bella, ma Jo rimase a guardarla tutta estasiata.
-Eva…- mormorò tra sé e sé. Il suo mito. La sua musa. La persona di cui avrebbe seguito le orme.
-Visto, pivella?- domandò alla vicina, accennando verso Eva. –Quella sì che è una vera donna.-
Poi indicò l’accompagnatrice che si era intanto presentata salutando allegramente. –Altro che quello sgorbio laggiù.-
La donna aveva i capelli tinti di rosa pastello, la pelle sbiancata chirurgicamente, con due fossette rosee sulle guance, e indossava un buffo tailleur fucsia acceso e scarpe col tacco ricoperte di specchietti argentati.
Si avvicinò alla prima boccia e prese un biglietto.
-Giù le mani! Mi offro volontaria.- tuonò una voce dal pubblico.
Brick vide Jo correre verso il palco, spingere via con malagrazia la capitolina e proclamare a gran voce nel microfono. –Sono Josephine Elliott, la vostra futura vincitrice!-
Brick rabbrividì. Non poteva credere  che avesse fatto sul serio. D’accordo, si era allenata tutto quel tempo, e non faceva altro che parlare del suo futuro di vincitrice, ma c’era sempre stata una parte di lui che sperava che, all’ultimo secondo, Jo cambiasse idea.
Uno scroscio di applausi si propagò, invece, dagli spalti femminili.
-Ehm… benissimo.- articolò intanto la capitolina, rialzandosi a fatica. –Se la… signorina… è d’accordo, allora possiamo passare ai ragazzi.-
Jo la squadrò rabbiosamente. Probabilmente anche lei l’aveva presa per un ragazzo.
L’accompagnatrice si portò al centro del palco con un biglietto in mano, e lo aprì.
“Non io… non io… non io…” pensava Brick.
-Brick McArthur.-
-Cosa?- quasi strillò Brick in risposta. Poi si accorse degli sguardi dei compagni su di lui, e sentì un brivido freddo percorrergli la colonna vertebrale.
Inutile farsi illusioni: era un tributo.
Salì con passo marziale, ma con le gambe tremanti, fino al palco. Jo lo accolse con un ghigno feroce. Difficile capire se fosse davvero così crudele, o se facesse per finta, per attirare più sponsor.
-Cos’è questa puzza?- domandò la capitolina tappandosi il naso con la mano guantata.
Brick si guardò i pantaloni. Una macchia più scura stava lentamente spandendosi lungo la stoffa.
-Ehm… chiedo scusa.- fu tutto quello che riuscì a dire. Jo tratteneva a stento le risa, e alcuni maschi tra il pubblico si erano messi a fare rumori osceni con la bocca.
-Bella prova, Capitan Piscina.- sogghignò Jo. Ma poi, in uno slancio di buon cuore, preferì prendere il tremante ragazzo per la mano e condurlo via.
-Guarda il lato positivo, Brick.- disse mentre attraversavano il portone d’uscita.
-Almeno così avrai attirato un po’ di attenzione.-
 
Distretto 7
 
Nell’orfanotrofio, tutto era pronto. Gli istitutori avevano preparato per ogni ragazzo e ragazza un abbigliamento su misura, nonostante, trattandosi di abiti smessi, alcuni erano un po’ larghi, stretti o consunti.
L’unico che non si fosse vestito di tutto punto era Scott. Indossava la stessa canottiera lercia di quella mattina, e i capelli rossicci erano spettinati, nello stesso modo con cui erano stati quella mattina nei boschi.
Scott aveva di meglio da fare che preoccuparsi dell’abbigliamento. Doveva pianificare la propria strategia di vittoria, quando si sarebbe offerto volontario.
Avrebbe dimostrato a quella ragazza, quella Dawn, che non era incapace come lei credeva. Anzi, era un più che degno vincitore.
-Scott?- chiamò in quel momento la voce di una delle istitutrici.
-Scordatelo, signorina.- rispose Scott. –Non me la metto la cravatta.-
La donna sospirò. Aveva avuto un diverbio con quel ragazzo proprio riguardo all’abbigliamento, e non se la sentiva proprio di ricominciare.
-Non è per quello.- disse con tono accondiscendente. –Hai una visita.-
Scott sobbalzò. Una visita? Non ne aveva mai ricevute prima.
E del resto come biasimarli: chi avrebbe mai adottato un sociopatico pel di carota che come passatempo lancia accette contro i topi?
-Entra, signorina.- disse l’istitutrice. Dawn varcò la porta a passi piccoli, ma sicuri, come un condottiero che ha già saggiato il territorio dove sarebbe dovuto passare.
-Guarda guarda chi c’è, Raggio di Luna!- esclamò Scott ridacchiando.
-Sei venuta a ripetermi che non devo offrirmi volontario? Tanto sai che perdi tempo.-
Dawn fece segno di no con la testa. –Non sono qui per questo.- disse in tono tranquillo.
-Volevo solo venire a farti una visita prima della mietitura. Nulla di più.-
-Immagino che avrai grandi comunicazioni che riguardano la mia aura, o qualcosa del genere.- fece Scott con aria poco interessata.
-Mi piace il colore della tua aura.- rispose Dawn. –Tra il rosso e il marrone. Molto bella da vedere.-
Scott fu costretto ad ammettere che, in parte, Dawn aveva ragione. Il marrone era il colore degli alberi, con cui si era a lungo allenato; il rosso era il colore dei suoi capelli, ma anche del sangue, della rabbia  e della vittoria. Nulla sarebbe stato più proficuo.
-Penso voglia dire che vincerò, o qualcosa del genere.- rispose il ragazzo, infilando l’uscita della stanza.
Dawn lo seguì, noncurante del fatto che il ragazzo non avesse nemmeno salutato gli altri.
-Toglimi una curiosità, Dawn.- chiese Scott, mentre assieme alla ragazza si avvicinava alla piazza.
-Se per caso estraessero te, cosa faresti?-
Dawn parve pensarci su un attimo. –Beh…- disse  infine. –Penso che cercherei innanzitutto un modo per sopravvivere senza uccidere nessun povero innocente. Poi…-
-Ma non farmi ridere!- la interruppe Scott. –Vincere senza uccidere nessuno? Non hai capito proprio niente riguardo alla vita. Non faresti molta strada in quell’arena, mia cara.-
-Sarà.- fu tutto quello che Dawn disse.
Mentre si dirigevano verso la piazza, nessuno dei due disse nulla. Poi, mentre facevano la fila per il prelievo sanguigno, Scott tirò a sé la manica di Dawn, e indicò una presenza nelle file dei mentori.
-Chi è quella specie di muro ambulante?- domandò.
Seduto su una delle sedie stava un giovane uomo dalla pelle marrone, piuttosto corpulento e dallo sguardo riflessivo. Indossava un largo cappotto, e la falda del cappello gli copriva metà del viso.
-Quello è B.- rispose Dawn. –È uno dei nostri mentori. Si dice che non abbia più detto una parola da quando ha vinto.-
Ed era vero. Mentre gli altri mentori salutavano il pubblico, o straparlavano a causa dell’alcool e degli stupefacenti, B stava semplicemente seduto al suo posto, guardandosi intorno senza dire una parola.
-Grandioso.- imprecò Scott. –Pure il mentore muto, adesso. Non importa, vincerò lo stesso. Non ho imparato a lanciare le accette senza motivo.-
E detto questo si infilò nelle file maschili fino a che Dawn non lo perse di vista.
Pochi minuti dopo, conclusosi il filmato, l’accompagnatrice si avvicinò alla boccia femminile e prese un  biglietto.
Dawn fissava sgomenta la pelle verde acido della donna, i suoi capelli giallo paglia, gli attillati indumenti in pelle, e rabbrividiva. Intorno a lei, soltanto numerose aure trasudanti terrore.
-E il tributo femminile dell’anno è… Dawn Medrek.-
-Sei tu…- sussurrò a Dawn la vicina di posto.
Dawn aveva sentito. Per un attimo gli occhi si dilatarono dallo sgomento. Tuttavia si mantenne perfettamente calma mentre saliva sul palco.
Appena fu vicina alla capitolina, Dawn percepì immediatamente che le tinture per la pelle e per capelli di cui si serviva quella donna provenivano entrambe dagli animali. Per un attimo fu tentata di rimproverarla, ma poi desistette. Se quelle donne potevano facilmente mandare a morire due ragazzi all’anno, cosa sarebbe potuto importargli di un animale?
Intanto era stato sorteggiato il tributo maschile: un dodicenne.
Dawn non potè non intristirsi per la sorte del ragazzino, ma tutto sommato era sollevata che Scott avesse desistito dal suo proposito.
Ma aveva parlato troppo presto.
-Levati di mezzo, marmocchio.- imprecò il ragazzo piombando sul palco e spingendo via il giovane tributo.
-Mi offro volontario.-
Il ragazzino corse via, in preda a lacrime di gioia.
-Mi chiamo Scott Wallis.- disse il ragazzo alla capitolina.
-Ora potete stringervi la mano.- declamò quella.
Scott si avvicinò a Dawn, e le strinse vigorosamente la mano.
-Te l’avevo detto.- sogghignò.
Dawn non batté ciglio. Non aveva paura, non ancora.
 
Distretto 8
 
“Caro diario,
anche quest’anno dovremo andare alla mietitura, e stavolta ho veramente paura di essere estratta.
Ho dovuto prendere delle tessere, perché avevamo un po’ di guai con il bilancio mensile.
Cosa farei se mi estraessero? Non lo so, proprio non lo so. Non sono capace di uccidere sul serio.
A volte mi chiedo cosa abbiamo fatto di male noi cittadini di Panem per meritare un destino come questo. Ormai sono passati anni dalla ribellione, eppure nessuno sembra essersene dimenticato.
È tutto così complicato. Ma per lo meno, c’è Trent.
Lui è speciale. Non è come gli altri. Lui ti capisce e ti ascolta.
Se dovessi scegliere l’ultima persona da vedere prima di andare a Capitol City, sceglierei sicuramente…”

-Gwen? Sei qui?-
Con mossa fulminea Gwen ripose il proprio diario in un anfratto, e rispose concitatamente alla voce che la chiamava.
-Sì, Trent. Arrivo subito.-
Aveva promesso a Trent che sarebbero andati insieme alla mietitura. Nemmeno lei sapeva di preciso perché avesse scelto di andarci con lui. Forse era perché aveva bisogno di sicurezza, e la presenza di Trent accanto a lei gliene infondeva molta. Forse perché Trent, con quel modo di fare così pacato e rassicurante, scacciava via la paura dovuta alla possibile estrazione.
Quando uscì di casa, Gwen trovò davanti a sé un Trent sorridente.
Ma non era il classico sorriso che tranquillizza. Era addirittura un ghigno, che apriva le labbra da un’estremità all’altra come un sipario strappato.
-Cosa ti succede?- domandò Gwen, in parte preoccupata.
Si aspettava, probabilmente, di sentirsi dire che era nervoso per l’estrazione. Cose normali, insomma.
Invece si sentì dire questo: -Ho fatto il conteggio delle tessere. Con quelle di quest’anno, sono arrivato a ben nove esatte. Non è fantastico?-
Forse anche Trent si aspettava da Gwen una qualche risposta. Ottenne soltanto un silenzio imbarazzato.,
-Veramente fantastico.- riuscì infine a dire Gwen, con un tono di voce tra il preoccupato e il nervoso.
-Adesso però dimentica il numero nove, e andiamo in piazza. L’ultima cosa che voglio in questo momento è di incrociare un Pacificatore arrabbiato.-
Trent preferì non controbattere. Probabilmente era conscio della figura fatta.
Per tutto il percorso verso la piazza, Gwen si era sentita, almeno in parte, rilassata.
Fu solo quando dovette dirigersi verso la bancata femminile, separandosi da Trent, che un brivido annunciatore di morte cominciò a precorrerle la schiena.
La ragazza si voltò di scatto verso Trent, che si avvicinava al resto dei ragazzi.
-Trent!- chiamò. Subito il ragazzo si voltò.
-Cosa c’è?-
-Niente… vai pure. Ci vediamo dopo.-
Gwen rimase a guardarlo fino a che non svanì, nella massa dei giovani del distretto che attendevano impazienti di essere salvati o condannati.
Poi, la rabbia di Gwen si fece ancora più opprimente quando si presentò l’accompagnatore. Era vestito di giallo dorato, con una specie di smoking di pelle  tinta, spruzzato di glitter e lustrini. I capelli, di un biondo granino che ben poco aveva di naturale, erano talmente ricoperti di gel da sembrare quasi un unico lucido blocco.
In poche parole, l’accompagnatore brillava di luce propria. E per Gwen, che amava il buio, la presenza dell’uomo sul palco era fonte di enorme fastidio.
Il suo sorriso luminoso, con quei denti placcati di brillanti, era sicuramente la parte di lui che la ragazza aborriva maggiormente. Come si poteva avere il coraggio di indossare la luce in un giorno come quello?
Fu proiettato il video, e furono presentati i mentori, molti dei quali non si reggevano quasi in piedi per le sostanze ingerite. Quando l’accompagnatore mosse il primo passo verso la boccai delle ragazze, il chiacchiericcio in sottofondo si spense.
L’accompagnatore prese un biglietto. Gwen prese a pizzicarsi il braccio e a sudare freddo, e cercò con gli occhi Trent. Immaginò di sentire la sua mano intorno alla sua, il suo corpo accanto al suo, la sua voce così calma e pacata che la tranquillizzava, e per un breve istante si sentì anche sicura.
Poi: -GwendolynFahlenbock.- disse l’accompagnatore.
E di colpo, Gwen ritornò ad avere paura.
Mentre le ragazze intorno a lei tiravano dei sospiri di sollievo, lei rimase in silenzio, troppo sbalordita anche per commentare.
Gwen uscì dalle file femminili, sudando nell’abito troppo stretto, con i corti capelli neri incollati alla testa come un copricapo capitolino. Sapeva che sarebbe morta, e non avrebbe potuto evitarlo. Lei non era capace di uccidere, né sapeva maneggiare le armi. In un certo senso, era come se l’avessero uccisa sul momento.
L’accompagnatore, intanto, si era portato di fronte alla boccia maschile.
-E ora il giovane uomo.- disse compiaciuto, col tono di chi non si interessa di nulla.
Mentre calava la mano verso il vaso, però, una voce lo fece sobbalzare.
-Mi offro volontario. Mi chiamo Trent McCord.-
Un’altra, più brutale fitta attraversò il corpo di Gwen. Chiuse gli occhi, sperando febbrilmente che si trattasse soltanto di un brutto sogno, di risvegliarsi nella sua tiepida casa, accanto alla madre e al fratello.
Ma fu tutto inutile. Quando li riaprì, lo scenario era lo stesso: la piazza gremita di gente, l’accompagnatore luminescente al suo fianco, e Trent accanto a lui, ancora ansimante per la corsa verso il palco.
-Abbiamo un volontario, vedo.- esclamò il capitolino.
Gwen si avvicinò a Trent a larghi passi. Era livida.
-Perché l’hai fatto?- domandò, con una voce che assomigliava fin troppo a un ringhio.
-Non posso nemmeno immaginare di vederti morire. Voglio aiutarti a vincere.- rispose il ragazzo.
Se Trent si aspettasse un ringraziamento, non ci è dato saperlo. Sappiamo invece che, appena finì di parlare, Gwen alzò di scatto il braccio e vibrò un violento schiaffo sulla sua guancia.
-Tanto sono già morta.- gridò verso Trent, che si massaggiava lo zigomo arrossato.
E si allontanò senza nemmeno voltarsi.
 
Distretto 9
 
Courtney aveva impiegato circa due ore a prepararsi. Di norma, le ragazze che vanno alla mietitura non si curano più di tanto del loro aspetto, ma non lei.
Per dirla con le sue parole, anche in un’occasione “così drammatica era necessario un minimo di eleganza”.
Duncan, invece, non si sarebbe preparato. Del resto, come avrebbe potuto, visto che possedeva solamente una maglietta e un paio di pantaloni?
In quel momento, il ragazzo si trovava nel Palazzo di Giustizia, seduto su una sedia di legno grezzo. Di fronte a lui c’era un bancone, e dietro al bancone sedeva un uomo sulla quarantina, arcigno e ostile come pochi.
Un Pacificatore dall’aria irrequieta andava avanti e indietro, per assicurarsi che il ragazzo non scappasse all’ultimo.
-Te lo chiederò per l’ultima volta, ragazzino.- disse l’uomo dietro al bancone.
-Cosa ci facevi al mercato del pane stamattina? Tutti i tuoi coetanei erano in casa a prepararsi per la mietitura.-
Duncan non rispose. Si limitò a sbuffare, guardando con aria annoiata verso una finestra secondaria.
-È uno scavezzacollo, signore. Non è la prima volta che lo prendiamo.- disse il Pacificatore.
Altro sbuffo da parte di Duncan. Quell’uomo doveva elencare proprio ogni suo piccolo difetto?
-Alcuni testimoni hanno detto che sei stato sorpreso a rubare delle pagnotte. È vero?- chiese ancora l’uomo dietro alla scrivania.
Duncan non potè trattenere un piccolo brivido. Quell’uomo assomigliava in modo impressionante a un avvoltoio.
-Le stavo solo guardando.- disse alla fine in tono superficiale. –Guardare è reato?-
-No, ragazzo. Guardare non è reato. Ma rubare lo è. Hai preso quelle pagnotte o no?-
Come noi sappiamo, Duncan aveva effettivamente preso delle pagnotte, che aveva poi mangiato nel suo rifugio dopo averne discusso con Courtney; tuttavia il ragazzo si trattenne dal rivelare quei particolari al suo esaminatore. Sapeva fin troppo bene quale fosse il castigo per i ladri.
Così si limitò a sbadigliare, passandosi una mano nella cresta.
-Posso andare adesso?- chiese.
-Abbi rispetto per chi è più grande di te.- disse il Pacificatore.
-Leva i piedi dalla scrivania, innanzitutto. E tieni bene a mente una cosa: sappiamo come trattare con i criminali come te. Sai già cosa succede a chi ruba, nel nostro distretto. E sono sicuro che non ti piacerebbe  ripetere l’esperienza.-
Duncan, obbediente, tolse i piedi dalla scrivania dell’uomo. Era molto spaventato, anche se mai l’avrebbe ammesso. Lo sguardo di quel Pacificatore non lasciava spazio ai dubbi: se fosse stato necessario, non si sarebbe fatto tanti problemi a frustarlo un’altra volta. E sarebbe ricominciato l’incubo dall’inizio: sgomento rivide sé stesso a torso nudo in mezzo alla piazza, con i polsi legati a un palo, percosso dalla frusta di un Pacificatore, mentre con la schiena attraversata da rivoli di sangue piangeva e implorava il suo carnefice.
-Per stavolta ti lasciamo andare, ragazzino.- disse l’avvoltoio.
-Ma sappi che, se ti becchiamo un’altra volta a rubare, passerai grossi guai.-
Duncan sudava freddo, ma decise che non sarebbe stato quell’uomo orrendo a farlo cedere.
-Dovrete prendermi, prima.- rispose in tono strafottente. E detto questo uscì di corsa, deciso a mettere più chilometri possibile tra lui e loro.
Ma appena fu fuori si fermò. Qualcosa, o meglio qualcuno, aveva attirato la sua attenzione.
Courtney, con un sobrio vestito di stoffa marrone, e un’espressione in viso di divertito compiacimento.
Duncan aveva passato molto del suo tempo di fronte a quella scrivania a domandarsi come mai lo avessero preso. Ora aveva una mezza idea del perché.
Si scagliò contro la ragazza, la spinse contro il muro e la abbrancò per il colletto.
-Sei stata tu a dire a quelli dov’ero, non è così?- ringhiò nella sua direzione.
La ragazza si liberò con uno strattone, e si incamminò lontano da lui rispondendo nel frattempo.
-Io te l’avevo detto che avrei mandato i Pacificatori a prenderti. E io mantengo sempre la mia parola.-
Duncan non poté non correrle dietro.
-E immagino che, se mi frusteranno un’altra volta, sarai in prima fila.-
La frecciatina era acuta, poiché metteva a nudo non solo il sadismo che avrebbe contraddistinto Courtney, ma anche la stortezza del sistema punitivo che vigeva nel distretto. Courtney, come previsto, sobbalzò, ma si ricompose subito e rispose a tono.
-Se si tratta di vedere la legge applicata, io ci sono sempre.- disse mentre si dirigeva verso la piazza con Duncan alle calcagna. –La giustizia deve trionfare.-
A questo punto, Duncan preferì non ribattere. Semplicemente, non capiva come una ragazza intelligente come Courtney (perché sì, poteva essere pedante e invadente, ma certo non era stupida) potesse considerare giustizia quella stessa pena che lo aveva condannato al mese peggiore della sua vita. Non capiva come mai il sangue che aveva versato sotto i colpi impietosi della frusta potesse essere associato con le parole “legge” e “giustizia”. E così non le rispose. Si unì alle file maschili, a viso basso per nascondere l’espressione di paura che gli torceva il viso.
L’accompagnatrice si presentò sul palco con addosso un largo abito con crinolina, nei colori del verde menta e del rosso corallo, che formavano sull’ampia gonna motivi floreali. La parrucca, calcata sulla testa in modo da donarle quei dieci centimetri in più che non guastavano mai, era ampia e vaporosa, di un bianco grigiastro, e assomigliava a una nuvola di panna montata.
Duncan preferì non guardarla. Era uno spettacolo penoso, mentre salutata sindaco e mentori con dei grandi baci sulla guancia e con delle risatine vivaci. Lui era un ladro, certo, ma non era cattivo.
“Come fai a ridere così quando due di noi stanno per morire?”.
Simili pensieri passavano anche per la testa di Courtney. Mentre la capitolina apriva il biglietto femminile dell’anno, la ragazza ansimava nervosamente, con lo sguardo al cielo, pronunciando tra sé e sé “non dire il mio nome, ti prego, non dire il mio nome.”.
-Courtney Barlow.-
Un fragoroso “cosa?!” esplose dalla gradinata delle ragazze. Courtney corse sul palco con aria più infuriata che spaventata.
-Non posso essere io! Non ho preso nemmeno una tessera! E non so combattere! Io sono una cittadina modello del distretto 9! Sorteggiate qualcun altro!-
La capitolina parve alquanto imbarazzata dalle parole della ragazza; al contrario di Duncan, che ne era quasi divertito.
-Ci… ci sono volontari?- domandò, un po’ esitante, l’accompagnatrice.
Nessuna mano si alzò, e Courtney perse il controllo. Prese a gesticolare nervosamente, in direzione del sindaco e della donna.
-Che significa? Non potete mandarmi nell’arena! Non ve lo permetto!- gridava sperando in un aiuto improvviso.
Nonostante gli dispiacesse, almeno in parte, per la sorte indegna che le era destinata, Duncan trattenne a stento delle risatine alla vista della ragazza gesticolante.
Fu meno divertito, comunque, quando venne estratto il nome maschile.
-Duncan Nelson.-
Duncan sbiancò. Gli occhi azzurri del ragazzo si dilatarono per l’inaspettata valanga di emozioni che lo avvolgeva. Come ipnotizzato salì sul palco, tra i sospiri di sollievo dei ragazzi attorno a lui.
Courtney, riconosciutolo, esplose nuovamente.
-Cosa? Io e quel criminale? Non se ne parla! Questo ragazzo ruba pagnotte! Non potete mandarmi via con un ladro come lui!- strillò, nell’indifferenza generale.
-Taci, Courtney.- disse piatto Duncan. –Non peggiorare la situazione.-.
E senza nemmeno stringerle la mano, si allontanò verso l’uscita, mentre la prima lacrima guadagnava la sua guancia.
 
Distretto 10
 
Sierra stava dormendo sul prato del pascolo, accanto alle fedeli pecorelle che brucavano placide attorno a lei.
Dopo l’incontro di quella mattina con Cody, aveva lasciato che il suo gregge pascolasse liberamente là intorno, poi si era sdraiata a prendere il sole, per cercare di dimenticare la mietitura incombente; col passare dei minuti, però, si era addormentata.
Ad un tratto, cominciò a muoversi nel sonno, e a pronunciare parole indiscernibili, tra cui era però possibile riconoscere il nome di Cody.
Poi urlò, e si destò, con gli occhi sbarrati e copiose gocce di sudore che le rigavano le guance color nocciola.
-No, Cody! No!- esclamò.
Una delle pecorelle, riconosciuto il grido della padrona, corse verso di lei e le cominciò a leccare affettuosamente il braccio.
-Oh, Cody Secondo.- mormorò Sierra all’indirizzo dell’ovino.
Prese tra le braccia il lanoso animale, e sospirò.
-Ho sognato che Cody veniva estratto alla mietitura, e moriva nell’arena. È stato orribile! Il mio caro Cody là dentro… non posso assolutamente permetterlo!-
Cody Secondo emise un sottile belato. Sierra ridacchiò, come se capisse il linguaggio dell’animale.
-Hai proprio ragione, piccolo. Con me accanto, al mio Cody non succederà assolutamente nulla.-
Poi, un altro pensiero si fece avanti nella testa della ragazza: e se anziché Cody, nell’arena ci fosse finita lei?
Come se avesse percepito i pensieri della padrona, Cody Secondo emise un altro piccolo belato.
-Come sei gentile, Cody Secondo!- esclamò Sierra, abbracciando vigorosamente l’animale.
Un altro agnello, più giovane, emise un belato infastidito verso i due.
-Sì, Cody Ottavo, amo anche te. Amo tutti voi. Non quanto il mio Codychino, però.-
Sierra si alzò. Ormai si faceva tardi, e bisognava prepararsi per la mietitura.
-Venite, Cody. Bisogna rientrare.-
A quelle parole, tutti gli agnelli smisero di brucare e si incamminarono di comune accordo dietro alla padrona. Sierra guidò il gregge dentro un ampio recinto, lo chiuse dall’esterno e disse:
-Adesso la mammina deve andare. Vi prometto… che torno, va bene?-
Gli agnello risposero belando. Sapevano a cosa andava incontro la loro padroncina, ma non poterono fare altro che salutarla con belati d’addio.
Sierra ricomparve pochi minuti dopo, con addosso un vistoso abito violaceo, e i capelli purpurei intrecciati con nastri dello stesso colore. Mentre si dirigeva verso la piazza, sentì una voce angelica che la fece voltare di scatto.
-Avanti, Buttercup, fai la brava mucca ed entra nella stalla.-
Sierra puntò gli occhi verso la fonte del grido. Estasiata, scorse un affannato Cody, vestito di tutto punto, che cercava inutilmente di sospingere una grossa mucca pezzata verso unastalla piena di bovini vari.
-Ciao, Cody. Ti serve una mano, per caso?- domandò Sierra avvicinatasi.
Alla vista della ragazza, Cody parve indeciso se darsela a gambe o meno. Ma come sempre, il buon senso ebbe la meglio.
-Ciao, Sierra. Cosa ti porta da queste parti?- rispose dunque, dando un secondo e più vigoroso spintone al deretano della mucca.
Sierra vide la scena, e capì subito quale fosse il problema che affliggeva il suo amato Cody.
-Mucca cattiva.- esclamò. –Va’ subito nella stalla, e non sognarti mai più di disobbedire a Codychino.-
La mucca, obbediente, si incamminò nel recinto assieme alle altre, e nel farlo lasciò Cody senza un appoggio.
Il ragazzo perse l’equilibrio, e franò in avanti; la ragazza lo afferrò prontamente per il braccio.
-Ti salvo io, amore.- disse.
Cody produsse un secco “grazie”, e si diresse verso la piazza.
-Stavo per andare alla mietitura, quando ho visto Buttercup che girava per le strade, allora ho perso tempo per rimandarla nella stalla.- disse a Sierra che, ovviamente, lo seguiva.
-Cosa faresti, se io non ci fossi?- fece Sierra con voce estasiata.
Per la ragazza fu quasi traumatico separarsi dal suo amato, per unirsi alla bancata femminile. Bancata che, pochi istanti dopo, emise un vigoroso urlo: l’accompagnatore era arrivato.
Aveva i capelli tinti di nero inchiostro, e la pelle resa più abbronzata attraverso un processo chirurgico. Indossava abiti che, per fortuna, rientravano nel limite del normale: una maglietta attillata e dei pantaloni piuttosto semplici. Questo non vuol dire, comunque, che si servisse meno degli altri accompagnatori della chirurgia plastica: i suoi denti erano sbiancati artificialmente, gli zigomi rifatti, e le unghie delle mani, laccate di smalto marroncino, erano trattate con una soluzione lisciante.
-Ciao, ragazzi e ragazze.- esclamò il giovane, mostrando un sorriso da fotomodello.
-Ciao, Justin!- gridarono le ragazze in risposta.
Molte di loro, dimentiche della tragedia incombente, esalavano sospiri innamorati verso l’accompagnatore, e una persino gridò: -Estrai il mio nome, Justin!-
Solo Sierra non prendeva parte alle grida di gruppo. Justin era certamente molto bello, ma non le interessava: nel suo cuore non c’era posto che per Cody.
Justin estrasse il nome femminile. Sierra emise un sospiro di sollievo quando vide che non era il suo. La ragazza sorteggiata si incamminò sul palco un po’ confusa, ma quando fu vicina a Justin non potè trattenere un lieve fremito, e un minuscolo sorriso si dipanò sulle labbra di lei.
Poi, Justin estrasse il nome del ragazzo. Il suo nome.
-Cody Anderson.-
Sierra quasi urlò. Cercò il volto di Cody tra la folla e lo vide, con gli occhi sbarrati, tremante, consapevole che non ne sarebbe uscito vivo. Mentre il giovane si incamminava sul palco, con l’aria di chi sta per crollare a terra, Sierra rivide nella mente il suo sogno.
Non riuscì più a trattenersi. Nessuno, men che meno quel Justin, avrebbe mandato a morire il suo amato Cody.
-Mi offro volontaria!- strillò correndo verso Cody. –Mi offro volontaria come tributo!-
Sierra piombò letteralmente sul palco, si gettò su Cody, e lo cinse con le braccia in una poderosa stretta.
-Te l’avevo detto, che non ti avrei abbandonato.-
-Wow…- Justin si avvicinò cauto ai due giovani, ravviandosi i capelli, mentre la ragazza sorteggiata si incamminava verso le scale del palco.
-Qual è il tuo nome, signorina?-
-Sierra Obonsawin.- rispose quella. –Futura signora Anderson.-
Un coro di “oooh” si propagò per le bancate. Sierra strinse vigorosamente la mano di Cody e uscì di scena abbracciata a lui. Justin, invece, rimase sul palco senza muovere un muscolo.
Dopo pochi secondi, però, ebbe un sobbalzo: Sierra era riapparsa sul palco, e veniva verso di lui a passo di carica.
-Il suo nome.- disse esasperatamente –è Cody Emmett Jameson Anderson, e non ti è concesso sbagliarlo.-
Così dicendo, colpì violentemente l’accompagnatore con un pugno in faccia.
-No, Justin!- gridarono le ragazze presenti. Mentre Sierra si allontanava, Justin prese a massaggiarsi nervosamente il viso, biascicando senza controllo “la mia faccia… la mia povera faccia…”
Due Pacificatrici lo condussero via, afferrandolo amorevolmente. Mentre passavano davanti ai centri abitati, videro una cosa sconcertante.
Un gregge di giovani agnelli era dentro a un ampio recinto. Gli agnelli, nessuno escluso, stavano piangendo.
 
Distretto 11
 
Tutte le ragazze del distretto erano ormai riunite in piazza. Solo Lindsay non era ancora pronta.
In quel momento, la ragazza cercava freneticamente tra i suoi cassetti. Cercava un oggetto che le sarebbe ovviamente stato utile: il vestito per la mietitura.
-Ma dove l’avrò messo? Era qui!- gridava la ragazza in preda al panico.
Mucchi e mucchi di stoffa volavano per la stanza, mentre Lindsay continuava inutilmente a cercare l’abito incriminato.
Finalmente, dopo una lunga e affannosa ricerca, la ragazza bionda emerse dal cumulo di abiti con in mano un grazioso vestito rosso chiaro.
-Eccolo, finalmente.- esclamò con aria stizzita. –Che vestito cattivo.-
In quattro e quattr’otto se lo infilò, per poi realizzare con sgomento di averlo messo a rovescia.
-Molto cattivo.- ripeté. Infilò nuovamente l’abito, stavolta nel modo corretto, poi mise ai piedi le scarpe più eleganti che avesse.
-Anche le scarpe sono cattive.- brontolò mentre le chiudeva. –Fanno male.-
-Forse è perché le hai scambiate.- disse in quel momento una voce maschile.
Lindsay si voltò preoccupatissima, aspettandosi di trovarsi di fronte un Pacificatore col fucile spianato. Invece trovò la testa di Tyler che sbucava dalla finestra, con un’espressione sorridente ma sorpresa sul viso.
La ragazza provò a scambiare le scarpe di posto, e incredibilmente il dolore cessò.
-Avevi ragione, Taylor.- trillò al colmo della felicità. –Sei un genio!-
Tyler arrossì. Anche per la mietitura, c’erano momenti di piacere.
Lindsay uscì di casa proprio in quel momento. Era bella, così bella che Tyler credette per un attimo di essere in paradiso, anziché in un inferno chiamato Panem.
Il viso di Lindsay, invece, si contrasse in un’espressione di sorpresa:
-Trevor, ma… sei caduto in una pozza?-
Tyler ripiombò di colpo sulla terra. Era vero: la sua maglietta e i suoi pantaloni erano completamente ricoperti di fanghiglia grigia. Un rossore di vergogna si dipanò sul suo viso, anch’esso infangato: la vergogna di essere, tanto per cambiare, un imbranato cronico.
-Stavo andando in piazza, ma… sono inciampato in una radice, e sono finito in una pozzanghera.- rispose mestamente il ragazzo.
-Mia madre non era affatto contenta.-
Lindsay non rise, come Tyler si sarebbe aspettato. Al contrario, lo prese per mano e la strinse gentilmente.
-Era solo un piccolo incidente.- disse in tono serafico. –Adesso l’importante è che non ci sorteggino.-
Tyler avrebbe voluto risponderle, ma la lingua si era ingarbugliata. Rimase semplicemente a guardarla, muto ed estasiato. Ad un tratto, una voce virile li apostrofò.
-Ehi, voi due! Dove credete di andare? Filate subito in piazza, c’è la mietitura.-
I due ragazzi si voltarono di scatto, per trovarsi davanti un Pacificatore corpulento che li fissava con aria feroce.
La paura mise loro le ali ai piedi. Filarono via tra gli alberi gridando stridulamente, senza nemmeno voltarsi a controllare le loro spalle, tranne ovviamente le due volte in cui Tyler inciampò in una radice e Lindsay si fermò per soccorrerlo. Quando infine arrivarono in piazza, la corsa si arrestò.
-Beh… - disse un’imbarazzatissima Lindsay dopo un attimo di pausa.
-Temo che ora bisogna salutarsi. In bocca al lupo, Telson.-
-Anche a te, Lindsay.- rispose Tyler, con aria imbambolata.
L’accompagnatrice del distretto 11 era molto meno ritoccata delle altre. Non l’avresti nemmeno detta capitolina, se non fosse stato per l’accento affettato e per l’abito verde ricoperto di lustrini. Il viso aveva l’aria piuttosto naturale, e anche bruttina. I capelli erano marroni, un colore normalissimo, legati in una semplice coda di cavallo. Si chiamava Beth.
-Benvenuti a tutti!- esclamò, mostrando di portare sui denti un apparecchio ortodontico poco capitolino.
Mentre parlava, lasciò inavvertitamente trapelare dalla bocca alcune gocce di saliva.
Decisamente, era diversa dalle altre.
Al termine del filmato, Beth prese un biglietto dalla boccia delle ragazze e lo aprì. Tutte le ragazze trattennero il respiro, compresa Lindsay. Tyler incrociò le dita, sperando che la ragazza bionda scampasse il pericolo.
-Lindsay Mills.- disse Beth.
Tyler produsse un basso “no” mentre una spiritata Lindsay saliva sul palco in silenzio.
-Io n-non voglio andarci…- sussurrò appena fu accanto a Beth. Nei suoi occhi già cominciavano a formarsi delle lacrime.
L’accompagnatrice le prese con gentilezza la mano. Alcuni dei presenti restarono sbigottiti: poche erano, infatti, le accompagnatrici che si mostravano così benevole verso i tributi estratti.
-Coraggio.- disse Beth. –Forse riuscirai a vincere.-
Lindsay tirò su col naso, e annuì. Nel frattempo, Beth aveva preso un secondo bigliettino.
-Tyler Oldring.- pronunciò.
Tyler fu scosso da un brivido. Salì sul palco quasi di corsa, come se un’improvvisa carica di energia lo avesse colto. Mentre era sui gradini, però, inciampò e cadde lungo disteso accanto a Lindsay e Beth.
L’accompagnatrice lo aiutò ad alzarsi tendendogli una mano, mentre Lindsay osservava la scena con la bocca spalancata.
-Così tu… sei veramente Tyler?- domandò con aria ebete.
-Certo che sono io. Non si vede?- rispose secco il ragazzo.
Lindsay gli si fece vicina, e lo abbracciò. –Sono contenta che verrai con me.- disse.
-Almeno non starò da sola contro quei Favoriti cattivissimi.-
Tyler non trattenne un brivido all’idea dei Favoriti. Tuttavia non disse nulla, e si abbandonò nelle braccia consolanti di Lindsay.
Nel frattempo, Beth si era avvicinata a uno dei mentori: un ragazzo alto e muscoloso, dal viso cesellato.
-Lavora bene con loro due, Brady. Hanno bisogno di un buon mentore, e di te mi fido. Almeno uno di loro deve vivere.-
-Fidati di me.- ripeté il giovane. E dopo aver parlato, schioccò sulla guancia paffuta dell’accompagnatrice un tenero bacio.
 
Distretto 12
 
Quindici minuti di ritardo.
L’accompagnatrice era in ritardo di quindici minuti.
Zoey era basita. Aveva perso tempo lungo la strada, avendo trovato un cane affamato che aveva condotto a casa sua per offrirgli delle vecchie ossa. Quando era arrivata in piazza credeva che ormai la mietitura fosse già iniziata, ma stranamente non era così.
Il sindaco e il mentore si erano già presentati, ma l’accompagnatrice ancora non c’era.
Zoey sbuffò, e si passò una mano nei capelli nervosamente. Nel distretto 12, “tributo” era un degno sinonimo di “cadavere”. E per lei, poi, che non avrebbe fatto del male nemmeno a una farfalla…
Anche Mike, nella bancata maschile, era terrorizzato. Tremava tutto, e il suo corpo magrissimo era squassato da brividi impressionanti.
Questo riportò nella mente di Zoey un particolare: quella mattina, quando era passata di fronte alla casa del ragazzo vestita di tutto punto, aveva sentito degli strani rumori. Era andata a controllare, e attraverso la finestra aveva intravisto una scena sorprendente.
Mike era in piedi accanto al letto, a torso nudo, con indosso i pantaloni eleganti della Mietitura.
Saltellava di fronte a uno specchio, muovendosi avanti e indietro come per mostrare al mondo intero quanto fosse affascinante. E ripeteva a sé stesso queste strane parole.
-Avanti, ragazzi, un po’ d’impegno. Vito il Favorito vi farà rimpiangere di essere nati.-
Quella visione aveva sorpreso non poco la dolce Zoey. L’idea che un  tributo del suo distretto (e il mansueto Mike, per di più) si immedesimasse in un Favorito in assetto di battaglia le sembrava, in poche parole, contro natura.
E chi era quel Vito di cui parlava? Zoey non avrebbe mai creduto che lo stesso Mike che aveva conosciuto nella scuola potesse essere così gradasso e violento.
Decise di non pensarci. La priorità, almeno in quel momento, era un’altra.
Nel frattempo, sullo sfondo della scena, il sindaco discuteva animatamente con qualcuno.
-Siamo già in ritardo. Venga fuori e facciamola finita.- stava dicendo il sindaco agitatissimo.
-Non se ne parla. Non sono pronta. Guarda i miei capelli in che stato sono!- rispose una vocetta acuta e capricciosa.
Zoey capì che si trattava, molto probabilmente, dell’accompagnatrice, Anne Maria, una strana ragazza con un’ossessione quasi viscerale per i propri capelli. Dunque era quello il motivo del ritardo? Il suo look?
-Venga sul palco ed estragga un nome. Siamo in ritardo.- continuava ad implorare il sindaco.
Il pubblico udì Anne Maria sbuffare:-Uff, va bene.- disse la ragazza stizzita. –Ma non lamentatevi se poi mi si rovina l’acconciatura.-
Finalmente Anne Maria apparve sul palco, permettendo così a Zoey, Mike e tutti gli altri di capire il perché della lunga attesa. La ragazza aveva montato i lunghi capelli neri in una specie di muro solido dietro la testa, con chissà quale fissativo capitolino; dall’acconciatura pendevano fermagli, mollette e lustrini di ogni genere. Qualcuno giurò di averci visto degli adesivi.
Il trucco di Anne Maria, poi, doveva essere stato un vero calvario per lo stilista che l’aveva preparata. Quantità incommensurabili di ombretto e mascara le coprivano le palpebre, chili di fard erano stati spalmati sulle guance, e il rossetto color ciclamino era talmente abbondante da essere esondato persino sui denti.
Per lo meno, l’abbigliamento della capitolina rientrava nei limiti del consentito, nonostante la gonna di cuoio bluastro fosse talmente corta e rigida da infastidirne la camminata, e il top rosa shocking fosse così corto da lasciar trapelare le spalle toniche, i fianchi ampi e l’ombelico.
-Benvenuti a tutti.- quasi urlò, caracollando sui sandali rosa con la zeppa.
-Prima di cominciare, una domanda: non credete che io sia un vero schianto?-
Il pubblico dei futuri tributi, come previsto, tacque. Molti dei Pacificatori, invece, esplosero in sonore ovazioni.
Quando la ragazza si avvicinò alla boccia femminile, invece, il silenzio era tale che si sarebbe sentito cadere uno spillo.
-E il tributo femminile di quest’anno è… Zoey Mamabolo.-
Zoey impallidì, troppo sorpresa anche solo per piangere. Quindi si avviò sul palco, a passi strascicati e pesantissimi, fino a raggiungere Anne Maria.
-Un po’ squallidina, oggi.- commentò la capitolina squadrando la figura magra di Zoey. -Però devo ammetterlo: quel fiore nei capelli fa la sua figura.-
-Ehm… sì.- con aria spaesata Zoey si accarezzò i capelli, sfiorando il fiore rosato che vi aveva messo come ornamento. Nel distretto 12 pochi potevano permettersi un nastro per capelli o un fermaglio, per cui la maggior parte si arrangiava come poteva. I fiori, per esempio, erano una decorazione gratuita, colorata e e semplice. Adatta a Zoey.
-E adesso il giovane uomo.- disse Anne Maria afferrato un biglietto. Lo aprì frettolosamente e lesse.
-Michael Doran.-
Tra i sospiri di sollievo degli altri ragazzi, si vide una figura magrissima e alta procedere a passi meccanici verso il palco. Quando Zoey distinse il viso di Mike, un brivido la scosse.
E non era un brivido di dolore. Dopotutto, la presenza del ragazzo la faceva sentire meno sola.
Anche Anne Maria fissava Mike stralunata. Pochi attimi dopo, inspiegabilmente, si avvinghiò al suo braccio come una piovra.
-Che bel tributo che abbiamo, quest’anno.- cinguettò.
-Saresti un vincitore perfetto.-
Come Anne Maria pronunciò quelle parole, Zoey sentì un secondo brivido, più freddo e inquietante del primo. Nella mente le apparve di nuovo l’immagine di “Vito il Favorito” e delle sue assurde evoluzioni.
In quel momento, però, Mike sembrava essere quello di sempre: buono, innocuo e anche un po’ spaventato per la piega presa dagli eventi.
I due tributi si strinsero la mano, in silenzio. Poi abbandonarono la scena a testa bassa, seguiti da Anne Maria che ancheggiava e mandava baci alle telecamere.
-Secondo te possiamo farcela?- domandò Zoey al ragazzo.
Lui era molto pallido, ma trovò la forza di risponderle.
-Forse. Insieme, chissà…-
 
Angolo Autrice
Ciao, miei fan.
Ecco ordunque le mietiture. I tributi sono stati estratti, e gli HG stanno per cominciare.
Brr, che tensione!
Per quanto riguarda i cognomi dei ragazzi, ecco il criterio che ho seguito.
Per molti di loro ho usato, come è tipico degli autori di storie su TD, i cognomi dei doppiatori originali (es. Drew Nelson per Duncan, Megan Fahlenbock per Gwen, e così via).
Ci sono però delle eccezioni.
1: Cinque dei tributi (Dakota Milton, Alejandro Burromuerto, Harold McGrady, Brick McArthur e Cody Anderson) hanno reso noto il loro cognome durante lo svolgimento di ATR. Io ho usato quei cognomi.
2: Il doppiatore di Owen (Scott McCord) è lo stesso di Trent. Per non dare ai due tributi lo stesso cognome ho dovuto inserirne uno fittizio. In un’altra FF ho visto che Owen si chiamava McKinnow, e credendolo il suo cognome ufficiale ho usato quello. D’ora in poi, Owen si chiamerà sempre McKinnow.
3: La doppiatrice di Izzy si chiama Katie Crown, e nel capitolo è infatti chiamata Isabella Crown. Come forse avrete notato, nel capitolo precedente il suo cognome è Crawl. Questo perché credevo (sempre a causa di una FF che avevo visto di qualcun altro) che il cognome ufficiale di Izzy fosse Crawl e non Crown. Io sono troppo pigra per correggere, dunque sappiatelo: Izzy di cognome fa Crown, e non Crawl. Nei prossimi capitoli si chiamerà Crown.
Abbandonata la filosofia, vi saluto.
Per i fan di “Show is on”, mi spiace tanto ma starò per un po’ senza PC, e non potrò scrivere granché. Tra una settimana circa riprenderò a scrivere regolarmente.
A presto e ciao a tutti.
MiticaBEP97

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - prima ***


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Capitolo 3 - prima

 

Distretto 1
 
Sam e Dakota sapevano bene che, in quanto tributi del distretto 1, avevano dalla loro un discreto numero di ammiratori a Capitol City. Quello che non si aspettavano, invece, era quella folla smisurata che attendeva all’esterno del loro vagone del treno. Uomini e donne multicolori che, simili a grossi e grotteschi uccelli, si affollavano contro i vetri salutando e giubilando.
Sam non si voltò a guardarli. Non avrebbe mai stretto la mano ai suoi futuri assassini.
Dakota, invece, si sedette vicino alla finestra del treno, espose il suo miglior sorriso, e agitando i lunghi capelli biondo oro si mise a salutare, mandare baci e sbattere le ciglia con aria civettuola
-Perché gli sorridi così?- domandò Sam perplesso. –Quelli applaudono la tua morte.-
Dakota si voltò appena verso il compagno per rispondergli. –È tutta una tattica.- spiegò con l’aria di chi la sa lunga. –Piacere al pubblico è fondamentale.-
Sam sospirò. Pensava alla sua casa, al suo distretto, ai familiari che aveva congedato in maniera sbrigativa, con un addio mascherato malamente da arrivederci.
-Sono certo che ti adoreranno, Dakota.- disse; un po’ per troncare la questione, un po’ perché vi credeva veramente. Ogni minuto che trascorreva con lei, Dakota gli sembrava sempre più attraente. E non solo per il suo aspetto, o per la sua capacità nel combattimento.
Quell’inaspettato complimento addolcì Dakota.
-Questo è quello che so fare meglio.- rispose, quasi con aria di scusa. –Piacere alla gente.-
Poi, il suo sguardo si fece più duro. –Sarà la mia arma vincente.- dichiarò con voce ferma. –Spunterò tutti i coltelli con il mio fascino.-
Sam non poté fare a meno di pensare che, forse, ci sarebbe riuscita.
Intanto, nella sua stanza del treno, Lightning si stava ingozzando avidamente di proteine. Le mangiava a cucchiaiate bramose, con gesti che facevano pensare a un maiale che grufolava nel fango. E mentre mangiava, parlava tra sé e sé.
-Ho giurato a me stesso che sarei stato un mentore esemplare per quei due ragazzi, papà, come lo sei stato tu con me.- pronunciò con la bocca piena di droga. –E lo sarò. Il distretto 1 avrà un vincitore.-
E mentre prometteva, strinse il cucchiaino tra le dita così forte da spezzarlo in due.
 
Distretto 2
 
Dopo tutti i trattamenti del Centro Benessere, Heather si sentiva al settimo cielo.
Si sentiva incredibilmente rilassata, libera, e straordinariamente potente. Una vera vincitrice.
“Tutto sta nel procurarsi un coltello” pensava mentre scendeva le scale. “Una volta che ne avrò uno… beh, il caro Alejandro potrà solo implorare pietà”.
Era così assorta in quei pensieri sanguinari, che quasi non si accorse che lo stesso Alejandro stava procedendo nella direzione opposta, rischiando così di scontrarsi con lui.
-Sei talmente occupata a preparare il tuo necrologio da non guardare dove vai?- domandò il ragazzo con voce beffarda.
-Veramente stavo lavorando al tuo.- rispose la ragazza. –Piuttosto… quel tuo simpatico fratello, che doveva farci da mentore, che fine ha fatto?-
-Non gliel’hanno permesso.- quasi sbottò Alejandro. –Dicono che visto che è mio fratello potrebbe favorirmi.-
Detto questo, tacque. Il suo addio da Carlos e Josè era stato molto duro per tutti e tre i fratelli, anche se Alejandro, ovviamente, non lo avrebbe mai ammesso. Entrambi lo avevano subissato di consigli su come sopravvivere, combattere, e ovviamente anche su come accattivarsi il pubblico.
“Noi Burromuerto abbiamo la seduzione nel sangue” avevano detto prima di andarsene.
E ovviamente, mai Alejandro avrebbe ammesso di essersi lasciato andare, e di aver concesso anche al ripugnante Josè un abbraccio di saluto. Specialmente di fronte a Heather.
-Ti vedo preoccupato, Al.- sogghignò placida Heather. –Paura di morire?-
-Lasciami in pace, Heather.- rispose Alejandro, troncando di netto la conversazione. E detto questo scese verso la stanza del suo stilista.
“Non lasciare che quella ti confonda” pensava. “Sei un vincente. La corona è già nelle tue mani.-
Aprì la porta. Un ragazzo basso e dallo sguardo disorientato sedeva su un panchetto, talmente intento ad esplorare la propria cavità nasale con la punta del dito per accorgersi che Alejandro era entrato.
-Eccoti qui.- disse quando si rese conto di non essere solo. –Hai perso tempo a chiacchierare con Heather?-
-Chiudi il becco, Ezekiel.- imprecò il favorito in risposta. Si sedette su un secondo sgabello, e squadrò con circospezione lo strano ragazzo. Josè gli aveva detto che era uno dei migliori stilisti in circolazione, ma probabilmente scherzava.
-Mio padre dice che le ragazze non servono a nulla.- disse Ezekiel con fare comprensivo. –Non lasciarti incantare da Heather: l’unica cosa che conta è la gloria del distretto 2.-
Alejandro annuì. Ezekiel era sicuramente sconnesso, ma aveva detto qualcosa di vagamente giusto.
Anche se, nella mente di Alejandro, Heather cominciava a essere ben più che una scomoda avversaria.
 
Distretto 3
 
L’arrivo a Capitol City era stato, per Harold, un vero e proprio trauma.
Appena aveva visto che aspetto grottesco avessero gli abitanti della città, era stato colto da un vero e proprio attacco di fifa, finendo per nascondersi dietro a Leshawna pur di evitare quella torma multicolore.
Ora si trovava in una stanza vuota, in attesa che il suo stilista gli venisse incontro e cominciasse a prepararlo per la parata dei tributi.
Ecco, la porta si aprì. Uno spiraglio di luce filtrò attraverso la fessura.
Ma non era lo stilista. Era Leshawna.
-Salute, Leshawnina.- proclamò subito Harold, appena vide la ragazza varcare la soglia della stanza.
La sola visione della ragazza, che tanto amava, rappresentava un barlume di conforto.
Ma Leshawna non sembrava più tanto spumeggiante e vivace. Era abbacchiata, con le spalle curve, e gli occhi neri e luminosi davano chiari segni di lacrime versate.
-Per quale ragione la mia dolce ragazza sta piangendo?- fu la cosa più sensata che riuscì a uscire dalla bocca di Harold, che non aveva MAI, e ripeto mai, visto Leshawna piangere.
-Prova a indovinare. È facile.- rispose la ragazza, secca.
Harold le mise un braccio intorno al collo gentilmente. –Sta tranquilla.- disse. –Ti proteggerò io.-
Leshawna, che pure sapeva che non sarebbe stato possibile, rispose comunque con una discreta quantità di tatto:-Speriamo di sì.- E alzò le spalle.
-Non ti abbandonerò mai, Leshawna.- esclamò d’impulso Harold. Poi le si avvicinò, e le stampò un grande bacio sulle labbra. Leshawna, improvvisamente aveva dimenticato gli Hunger Games, e si strinse forte al petto del compagno, in cerca di tenerezza e diritto alla vita.
-Come siete dolci!- esalò in quel momento una terza, sconosciuta voce.
Harold e Leshawna si voltarono di scatto. Di fronte a loro stava la ragazza più buffa che avessero mai visto. Era bassa, grassottella, con un corto caschetto marrone e un cerchietto rosa con un fiocco in testa. Indossava un abito rosa antico, che sui suoi fianchi larghi e sul suo diametro imponente aveva lo stesso effetto della marmellata sul maiale.
-E tu chi sei?- domandò Leshawna.
-Lei è la nostra stilista, signorina?- domandò Harold con certamente più gentilezza.
-Mi chiamo Staci.- rispose la donnetta. –E ja, sono la vostra stilista.-
Si sedette su un panchetto, esibendo cosce non proprio sottili, e declamò:
-Ja, il mio pro-pro-prozio era un acclamato stilista di Capitol City. È stato lui a ispirarmi, ja. Mentre la mia bis-bis-bis nonna…-
Prima di sapere cosa avesse fatto la sua ava, Leshawna scattò. Afferrò la stilista per il colletto, la spinse contro una parete e urlò:
-Non mi interessa un bel niente della tua famiglia. Ora vedi di farci apparire gradevoli, oppure ti farò sperimentare gli Hunger Games in prima persona.-
Harold trasecolò. Normalmente Leshawna non era certo così scorbutica. Se aveva avuto quell’attacco di rabbia, la colpa era solo degli Hunger Games.
 
Distretto 4

Blaineley entrò nel vagone, traballando sulle decolleté troppo strette. Se le sarebbe tolte più che volentieri, ma la posta in gioco, il rischio cioè che qualcuno vedesse i suoi piedi poco curati, era troppo alta.
Si sedette su una sedia, e squadrò con aria di superiorità i due tributi.
Geoff sedeva su uno sgabello, giocherellando con una forchetta; Bridgette, persa ogni volontà di muoversi, fissava senza parlare la finestra.
Blaineley prese un rossetto dalla borsa:-Fossi in voi, sarei più che felice.-
Bridgette voltò la testa verso l’accompagnatrice. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, come se li avesse lungamente strofinati.
-Non sei tu quella che deve morire, se non sbaglio.-
La Capitolana si ripassò il rossetto vermiglio, disinteressata.
-Avete l’occasione di fare qualcosa che verrà ricordato per sempre.- disse con aria distaccata. –Non è una piccola cosa.-
Cominciò a fissarsi le unghie, con la tipica espressione della bimba gelosa. Geoff si alzò in piedi, improvvisamente ripreso. Si avvicinò a Bridgette, e le prese le mani.
-La vecchia strega ha ragione.- articolò sempre più concitato. –Dobbiamo fare qualcosa che quelli non dimenticheranno tanto facilmente.-
Bridgette lasciò andare uno sguardo timido al compagno, e gli sorrise.
 
Distretto 5

Nel treno, Owen sembrava molto più felice. Questo per via del succulento cibo che aveva trovato all’interno del vagone pranzo: pomodori rubicondi, arrosti grondanti di salse dolciastre, e gigantesche torte salate.
Izzy entrò nel vagone pranzo, a passi tranquilli. Sul viso, non l’ombra di una lacrima.
-Dov’è Noah?- chiese sorridente.
Owen alzò gli occhi dal pollo che stava mangiando. –Noah si è chiuso in camera.- rispose mestamente. –Ha detto che non vuole essere disturbato.
Ed era vero: Noah, dopo la mietitura, era sparito nella propria cabina e non aveva più lasciato notizie.
Izzy strisciò fino a Owen, e gli afferrò gli angoli della bocca torcendola in una specie di sorriso.
-Andiamo, Panciowen! Un sorriso!-
Il ragazzone posò la coscia del pollo, e spinse via le braccia di Izzy.
-Non hai paura, Izzy?- domandò.
La ragazza non accennò di averne.
-Paura?- chiese – Sono eccitata! Sarà favoloso! Vedremo un nuovo mondo, con nuove cose da provare e nuove persone da conoscere! Potremo vedere da vicino le bacche più velenose di Panem, e saremo intervistati da Josh in persona! E potremo…-
Owen non l’ascoltava più. Aveva capito quale fosse il vero piano di Izzy.
Lei non pianificava di sopravvivere, o di impressionare il pubblico con il suo talento nell’uso delle armi.
No, lei pianificava di godersi ogni singolo secondo della sua vita rimanente, e andarsene con un po’ di soddisfazione.
E improvvisamente si sentì molto fortunato di essere con lei.
 
Distretto 6

Per Jo, ogni momento dell’estrazione era stato ricco di emozione. Ma il momento migliore rimaneva l’incontro con la sua musa, Eva.
L’aveva vista entrare nel vagone sbattendo la porta, senza guardare in faccia nessuno, e aveva sentito un’esplosione nello stomaco, quella che sentono tutte le adolescenti alla vista dei loro idoli.
-Ehi, come butta?- chiese.
-Cerca di stare al largo.- rispose Eva.
Jo non si era fatta intimidire: -Cavolo, tu sì che hai stile. Ce ne vorrebbero di più come te: dure e sode.-
Quello strano complimento addolcì Eva.
-Vedo che anche tu hai stile, pivella.- disse con tono più tranquillo sedendosi. –Sarà un piacere aiutarti a vincere questi stupidi giochi.-
Le due ragazza si guardarono fisse negli occhi, ammirandosi tra di loro. Eva era per Jo un mito vivente, una donna da ammirare; Jo era per Eva una discepola, qualcuno che l’ammirava e non la vedeva come il mostro omicida del distretto 6.
-Mi sono perso qualcosa?-
Brick entrò nel vagone, con addosso dei nuovi pantaloni puliti di almeno una taglia più larghi.
-No, Bricco di Latte.- disse Jo facendogli posto. –Eva è qui per spiegarci come si sopravvive nell’Arena.-
Lanciò uno sguardo invasato all’altra. –Spara, sorella.-
Eva puntellò i gomiti sul tavolo, noncurante delle strida dell’accompagnatrice in favore del bon ton.
-C’è una sola cosa da sapere riguardo al pubblico.- disse con voce monocorde.
-Quelli di Capitol City sono come dei bambini piccoli che chiedono la pappa. Il vostro compito è quello di ingozzarli fino a che non scoppiano.-
A quella descrizione, Brick rabbrividì. Jo, invece, pareva invasata.
-E… cosa succede quando ci riusciamo?- balbettò Brick.
Eva parve sorridere:-A questo punto avete vinto.-

 
Angolo Autrice
Ciao!
Scusate il ritardo… avevo perso l’ispirazione. Mi perdonate, vero?
Visto che alcuni tra voi avevano fatto notare che i capitoli erano troppo lunghi, io ho deciso di ridurne la lunghezza; inoltre ho deciso che d’ora in poi metterò i distretti sei a sei per accorciare.
Spero vi sia piaciuto…
Ecco con che criterio ho associato accompagnatori, stilisti e mentori ai vari distretti.
Distretto 1: Lightning mi piaceva nei panni del favorito strafatto. Poverino… non fa tenerezza?
Distretto 2: ricordate la puntata di TDWT “Aerei, treni e macchine volanti”?: Ecco, è da quella che mi sono ispirata per la scelta di Zeke come stilista del 2. Mi affascinava il rapporto tra lui, Heathy e Cretinandro.
Distretto 3: Stacy non c’entra nulla con Harold e Leshawna, lo so, ma mi divertiva l’idea di vedere Leshawna che le urlava contro (e tra parentesi, io sono una grande fa di Stacy).
Distretto 4: andiamo, chi non ama le litigate tra Blaineley e la coppia Bridgette/Geoff?
Distretto 5: qui non c’era partita. Owen, Izzy e Noah formano un terzetto esplosivo (o meglio… explosivo).
Distretto 6: Jo è un po’ come la nuova Eva. Ci sono autori che scrivono FF in cui Eva e Jo si odiano, e io dico: MA PERCHÉ? Sono così carine come migliori amichette!
Ora:
Ho scritto tre OS sui Black Eyed Peas. Ora ve le presenterò, e chi vuole le legge e le recensisce, OK?
“Momenti Nascosti”: ho fatto una flash introspettiva per ogni membro della band. Un classico.
“Senza Parole”: il primo incontro tra un Will.i.am annoiato e infastidito e un Apl.de.ap sradicato brutalmente dalla sua terra d’origine. Pieno di lacrime!
“I Just Don’t Wanna Be Forgotten”: la mia preferita. Will.i.am ha paura che i fan lo dimentichino, di svanire per sempre. Allora, un giorno, compie un’azione disperata per non farsi dimenticare.
Poi: qualcuno potrebbe CORTESEMENTE farmi un banner?

A presto!
MiticaBEP97

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - seconda ***


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Capitolo 3- seconda

Distretto 7

Il coltello si piantò con precisione nello stipite della porta. Scott rise tra sé e sé, poi estrasse compiaciuto la lama dal legno. Le schegge spezzate ricadevano inerti come rami rotti.
-Non è ancora nato chi riuscirà a liberarsi di me.- sghignazzò il ragazzo.
Prese una coscia di pollo da un piatto, e la morse avidamente. Non aveva mai mangiato così bene.
Dall’altra parte della stanza, giungeva al suo orecchio la voce sommessa e pacata di Dawn.
Stava conversando, con il mentore B, sempre che “conversare” valesse anche per i muti.
-Dunque è così che è andata? Oh, che grande dolore!- esclamò la vocetta della ragazza.
Scott si morse la lingua per non dire ingiurie inutili. Dawn era sveglia, certo, ma era decisamente troppo dolce per l’Arena.
Varcò la porta del vagone, trovandosi nella sala da pranzo. Dawn e B sedevano a un tavolo: la prima sembrava tranquilla come sempre, mentre B aveva l’aria mesta e sofferta, e la visiera del cappello calata fin quasi al naso.
-Vi piace chiacchierare, vedo.- soggiunse placido il ragazzo.
-Oh… ciao, Scott.- disse Dawn, spostandosi per fargli spazio sulla panca.
Scott la ignorò. Prese un coltello, e cominciò a giocherellarci.
Dawn poggiò la mano sulla spalla di B. –So come ti senti.- disse mestamente. –La tua aura è grigia. Sei infelice. Ma non devi arrenderti. Ci sarà sempre qualcuno, per te.-
B accennò un sorriso.
Scott era basito:-Come fate a comunicare? Lui non parla.-
-Lo so.- rispose tranquilla Dawn. –B ha sentito troppe urla ai suoi Hunger Games: per questo non parla.-
La ragazza diede una lieve pacca sulla spalla del ragazzone, che sospirò.
-Sai, è impressionante.- disse Scott.
-Cosa?- chiese Dawn.
-Trovo impressionante il fatto che tu cerchi sempre di essere carina con tutto e tutti.- il ragazzo si sedette su una seggiola e appoggiò sgraziatamente i piedi sul tavolo.
-A volte mi spaventi.-
-Da un pezzo ho smesso di cercare di spaventarti, Scott.- pronunciò lei.
-E adesso cosa cerchi di fare?-. chiese ancora Scott.
Dawn sorrise. –Ora cerco di capirti.
 
Distretto 8

-Continui a non parlarmi?-
Gwen e Trent scesero dal treno, e si diressero verso il palazzo dove sarebbero stati preparati alla parata dei tributi. La ragazza non rispose.
Una donna dall’abito rosa si avvicinò a Gwen, e allungò la mano per toccarla. La ragazza indietreggiò, come spaventata.
Trent le afferrò la mano, e gliela strinse. –Sono strani, vero?-
-Lasciami in pace.- rispose la ragazza, evitando il suo sguardo.
-Sei ancora arrabbiata con me per quella storia del volontario?- chiese ancora Trent-
Gwen si voltò verso di lui. –Ma bravo. Ci sei arrivato.-
E detto questo, si voltò.
Trent quasi la rincorse. –Ti prego, ascoltami. L’ho fatto per te. Non posso permettere che quelli ti uccidano!-
Gwen puntò i suoi occhi in quelli dell’altro. –Ora ascoltami bene, Trent. Nel caso tu non l’abbia capito, questi sono gli Hunger Games. Se non muoio io, muori tu. Oppure moriremo entrambi. E forse è meglio così.-
Trent rabbrividì addirittura. Mai aveva visto la sua amata Gwen parlare così.
-Mi dispiace tanto, davvero. Io volevo solo… scusami, sono uno sciocco.-
Il ragazzo chinò il capo, triste. Aveva perso le speranze.
Ma subito dopo, una mano gli toccò la spalla. Era la mano bianca, perfetta, di Gwen.
-Senti, mi dispiace.- disse la ragazza imbarazzata. –Non volevo parlarti così, è solo che… è tutto così difficile, tra la mietitura e il resto… e poi ti ci sei messo tu, e sei stato così gentile. Scusami, è colpa mia.-
Il ragazzo le sorrise, toccandole dolcemente il viso con la mano.
-Non importa. È inutile disperarsi, ora dobbiamo solo pensare al futuro. E lo faremo insieme.-
Gwen ricambiò il sorriso. Per la prima volta, dopo la mietitura, sentiva un senso di tranquillità.
Mentre si avvicinavano al palazzo, videro una figura di uomo che gli si avvicinava. Quando questo si avvicinò, poterono distinguerne i lineamenti.
Era indubbiamente un abitante di Capitol. Era nero, corpulento e muscoloso, ma aveva un’espressione piuttosto affabile, anche grazie all’ombretto rosa che portava sugli occhi.
-Benvenuti a Capitol City, ragazzi.- esclamò con aria benevola. –Io sono DJ, lo stilista.-
-Non dovresti aspettarci dopo i trattamenti? Di solito è così che funziona.- disse Trent, per nulla tranquillizzato dalla cordialità dello sconosciuto.
-Ho preferito incontrarvi prima, per conoscervi meglio.- rispose DJ, sempre gentilmente.
-Sapete, è stata la mia mamma a ispirarmi a diventare uno stilista. Lei è tutta la mia vita, non so come vivrei se non ci fosse…-
-Così anche a Capitol City esiste l’amore materno.- disse fredda Gwen all’orecchio di Trent.
-Sembra di sì.- rispose quello. –In fondo, non sono tutti dei mostri.
Gwen fu costretta a convenire che il compagno aveva ragione. E si ripromise di essere più ottimista, nei giorni futuri.
 
Distretto 9

-Duncan, apri questa porta!-
-Lasciami in pace.-
Courtney strinse forte i pugni, trattenendo a stento un poco elegante urlo. Da quando erano arrivati nel treno per Capitol, il ragazzo aveva rifiutato ogni suo tentativo di discutere una tattica, e si era barricato nella stanza rifiutando persino il servizio in camera.
La ragazza si passò una mano nei capelli, infastidita. Per un attimo pensò di lasciare quel troglodita a cuocere nel suo brodo e andare a pianificare una tattica da sola; poi si rese conto di una cosa importante: lei, a differenza di Duncan, non aveva mai vissuto all’aperto, né sapeva difendersi dagli imprevisti. La tattica non bastava: ci voleva anche la perizia.
Allora decise di provare con un approccio diverso: -Andiamo, Duncan, apri questa porta. Lo so che non ti piaccio, e tra parentesi, nemmeno tu piaci a me, ma è in ballo la nostra vita. Quindi, per favore, apri questa maledetta porta e fammi entrare.-
Alcuni esitanti secondi seguirono alle parole di Courtney. Poi la porta si aprì, e ne emerse il viso di Duncan.
-Entra, e sii veloce.-
La ragazza varcò la soglia, ma si bloccò pochi attimi dopo. Per terra c’erano un cuscino e alcune coperte.
-Hai dormito… per terra? Con un letto a disposizione?-
Duncan si sedette sul letto. –Mi trovavo meglio così. Ci sono abituato. E comunque, chi sei tu, per decidere come devo dormire?-
Stavolta Courtney non si trattenne più.
-Per quanto mi riguarda, fai come ti pare. Ma non sperare che io ti salvi la pelle.-
E detto questo, uscì.
Duncan, rimasto solo, non cercò di bloccarla. Gli occhi azzurri si erano fatti freddi, inespressivi.
Era rimasto impassibile quando nessuno era venuto a visitarlo nel Palazzo di Giustizia. Lo era rimasto anche quando un Pacificatore, mentre lui si dirigeva verso il treno, gli aveva indicato il palo delle fustigazioni con fare allusivo. E lo rimase anche mentre i preparatori presero a urlare come pipistrelli alla vista della sua schiena martoriata.
Era seduto sul lettino del centro benessere, in attesa dello stilista, e pensava.
-Sei Duncan Nelson?- chiese improvvisamente un voce.
Alzando la testa, Duncan trattenne le risa a stento. Aveva davanti un buffo omino dalla grossa testa, con grandi occhiali a oblò, che lo fissava.
-E tu cosa dovresti essere? Il mio punching ball da allenamento?-
L’altro si sistemò gli occhiali. –No, sono Cameron. Il tuo stilista.-
-E sei qui per rendermi ridicolo? Vi conosco, a voi.-
Cameron preferì non rimarcare l’errore di grammatica, e gli mise una mano sulla spalla. Duncan non la rifiutò.
-Lo so cosa pensi. Pensi che io sia un mostro come gli altri. E non ti biasimo nemmeno tanto. Ma non è così. Io vorrei aiutarti.-
Duncan sospirò. –E pensi di riuscirci? Dì, ma ti sei visto? Nemmeno mi arrivi alla spalla.-
Cameron rimase impassibile. –Sembra buffo, lo so, ma io sono uno stilista come gli altri. E se io posso renderti apprezzabile… tu puoi sopravvivere.-
 
Distretto 10

Sierra strinse la presa intorno alla forchetta, e prese a rotearla tra le dita con agilità. Di fronte a lei, Cody ammutoliva.
-Non permetterò a nessun Favorito di ferire il mio piccolo Cody.- quasi strillò la ragazza, lanciando una forchetta verso il muro di legno. I denti rimasero piantati dentro alla parete, a pochi centimetri dal collo di Justin.
-Attenti, mi scompigliate i capelli!- esclamò l’accompagnatore, fissandosi nello specchio.
-Oh, poverino, si preoccupa dei suoi capelli.- rispose un sarcastico Cody. –Il fatto che io e… lei- riprese indugiando sul “lei”-potremmo essere morti in capo a una settimana non ti sfiora minimamente, vero?-
Justin arrossì lievemente. Era costretto ad ammettere di avere torto.
-IO potrei essere morta.- puntualizzò Sierra. –Ma il mio Cody non morirà mai. Ci sarò io a proteggerlo.-
E così dicendo, la ragazza strinse il compagno di distretto in un fortissimo abbraccio.
Cody sospirò. –Forse preferisco la morte.-
All’improvviso, Sierra parve ricordarsi di una cosa.
-Cody, ho fatto questo per te.- disse frugandosi nelle tasche.
Quindi, gli porse un buffo oggettino color marrone chiaro. Era composto di fili intrecciati, in modo da sembrare una mucca.
-L’ho fatto io nei ritagli di tempo. Sai, per arrotondare i guadagni ho imparato a intrecciare i vimini.-
Cody trovava quell’oggetto veramente insulso; ma per non offendere Sierra, preferì accettarlo.
-Grazie mille… è proprio carino.- disse senza interesse.
Tuttavia, appena l’oggetto fu nelle sue mani, Cody lo strinse più forte tra le dita, come in cerca di conforto.
Un pensiero gli balenò alla mente: forse stava cominciando a provare qualcosa per Sierra?
Lo soffocò subito, lasciando che prevalesse un altro pensiero; il regalo della ragazza gli portava conforto in quanto sapeva di casa.
Justin, intanto, stava pensando ai propri regali, quelli che riceveva dalle ammiratrici.
E suo malgrado, giunse a concludere che di tutti i doni che aveva ricevuto, anche quelli più preziosi, non valevano che una minima parte della mucca di Sierra.
 
Distretto 11

-Taylor… secondo te possiamo farcela?-
Questa fu la domanda che una Lindsay più spiritata che mai pose a un Tyler caduto in una crisi di mutismo.
Il ragazzo alzò gli occhi dal giornale nel quale si era immerso:-Forse… non so… chissà…-
Lindsay sospirò. Beth, che era seduta accanto a lei, le pose garbatamente una mano sulla spalla.
-Deve essere così brutto andare nell’arena.- disse incauta.
Quelle parole così lapalissiane furono il colpo di grazia della povera Lindsay, che scoppiò a piangere rumorosamente nella tenda del vagone.
Tyler le prese dolcemente la mano, mentre Beth arrossì: si era resa troppo tardi conto dell’errore.
-Senti, Tyler, ti va di andare nell’altra stanza ad allentarti con Brady?- chiese dolcemente la ragazza.
Tyler annuì, e lasciò la stanza dopo aver lasciato alla compagna di distretto uno sguardo pieno di dolcezza.
Rimasta sola con Lindsay, Beth le mise un braccio intorno alla spalla e cercò di asciugarle le lacrime.
-Su, su... non è così terribile, molti prima di te hanno vinto. Puoi farcela anche tu.-
Lindsay alzò la testa, e tirò su col naso.
-Come pensi che possa? Io non so combattere, non so fare i nodi, non so fare niente!-
E dette queste parole, prese a tirare fragorosi pugni contro la parete.
Beth le passò una mano nei capelli biondo oro. –Per esempio, sei molto carina.- disse soppesando le ciocche.
-E questo dovrebbe aiutarmi a non morire?- chiese l’altra, asciugandosi gli occhi.
-Agli strateghi piacciono le tribute belle.- rispose Beth. –Ricordati sempre che è un programma televisivo. Se riesci a piacergli, poco importa se non sai combattere: ci penseranno loro.-
La sua mano indugiò sui suoi fianchi pienotti. –Se fossi io ad andare nell’arena, morirei di certo al Bagno di Sangue.-
-Io non credo.- rispose Lindsay. –Non conta solo essere carine, purtroppo.-
La ragazza bionda chinò la testa verso il pavimento. Nel frattempo, Tyler era ricomparso nella stanza. Si avvicinò a Lindsay senza dire una parola e la abbracciò.
-Saresti una vincitrice eccellente, Lindsay.- disse poi.
E finalmente Lindsay sorrise.
 
Distretto 12

Zoey stava cercando di convincersi a mangiare quegli invitantissimi arrosti di manzo del distretto 10. Sapeva che una tattica spesso usata dai tributi dei distretti bassi era prendere peso prima dell’inizio dei giochi, in modo che la mancanza di cibo nell’arena non rappresentasse più un deterrente.
Ad un tratto la porta si aprì, ed entrò Mike accompagnato da una giuliva Anne Maria.
L’accompagnatrice sorrideva beata al ragazzo, ridendo di sottecchi alla vista di Zoey.
-Sentite, se proprio dovete fare la coppietta appiccicosa, potreste per favore andarvene di qui?- domandò Zoey con voce neutra.
Anne Maria sbuffò:-Come sei noiosa. Sto solo cercando di tenere allegro il tuo amico, ma se la signorina è infastidita posso anche smetterla.-
Zoey si alzò di scatto: -Ti conosco da poco e già non ti sopporto più. Si può sapere cosa ti prende?-
-Cosa prende a te, invece.- rispose un’agguerrita Anne Maria. –Non ti si può dire una cosa qualunque, che subito dai di matto. Sei un po’ suscettibile, cara la mia tributa.-
Qui, Zoey emise un sospiro basso. –Che colpa ne ho, se sto per morire?- chiese con voce tremolante.
Mike puntò uno sguardo basso e accusatorio su Anne Maria. L’accompagnatrice arrossì lievemente: persino lei, nel suo orgoglio, era stata costretta ad ammettere di aver detto una parola di troppo.
Mike svicolò dalla presa della ragazza, e si sedette accanto a Zoey.
-Ascoltami.- disse prendendole entrambe le mani. –So che per noi è difficile, ma so anche che lasciarsi abbattere non porterà assolutamente da nessuna parte. Non è detto che tu debba per forza morire, no?-
Zoey produsse un basso lamento, e gli rispose. –Hai ragione, scusa… è che ho davvero tanta paura dell’Arena… che qualcuno mi uccida…-
Mike le sorrise:-Ti andrebbe un’alleanza?-
In quell’istante, Zoey sentì come un grosso peso che le veniva tolto dal petto.
-Accetto volentieri.- disse con un sorriso.
E nessuno dei due si accorse degli occhi lucidi di Anne Maria.
 
Angolo Autrice
Ciao a tutti. Con questo, terminiamo i viaggi verso Capitol, e ci avviamo nel vivo della preparazione ai giochi.
Ora spiegherò l’abbinamento fatto tra i vari distretti.
Distretto 7: in TDRI B ha un rapporto molto carino con Dawn, e per niente simpatico con Scott. Unire le due cose sarebbe stato veramente pazzesco.
Distretto 8: DJ è uno dei personaggi che ha più affinità con Gwen e Trent.
Distretto 9: volevo metterci Harold, ma è occupato… Cameron è quello che gli assomigliava di più.
Distretto 10: l’ho scelto per la contrapposizione tra Justin, il ragazzo conteso da tutte, e Cody, lo sfigato al quale Sierra ha dedicato tutto il suo amore.
Distretto 11: ho scelto Beth, perché è la migliore amica di Lindsay.
Distretto 12: chi non ama le litigate tra Zoey e Anne Maria?
Ma Katie e Sadie, direte voi? Loro appariranno prossimamente… provate a indovinare che ruolo avranno.
Poi altra domanda: se Chris interpreta Snow e Josh interpreta Caesar, Chef chi interpreterà?
Inoltre invito chi non l’ha ancora fatto a leggere e recensire le mie FF sui Black Eyed Peas (ho cominciato una Long, dal titolo “Blood and Pain”); nonché a scriverne una voi.
Inoltre, ecco le colonne sonore che uso per alcuni distretti:
Distretto 2: Lady Gaga – Alejandro (indovinate perché)
Distretto 5: Iggy Azalea (rapper sconosciuta ai più, che mi ricorda Izzy)
Distretto 6: Kelly Clarkson (mi sembra adatta a Jo)
Distretto 7: Kerli (mi ricorda Dawn)
Distretto 8: P!nk (mi ricorda Gwen, e Nate Ruess in JGMAR mi fa pensare a Trent)
Distretto 9: Maroon 5 (Duncan e Adam Levine hanno la stessa voce)
Distretto 12: Katy Perry (vedi alla voce: Maroon 5)
A presto… Peas & Love!
Mitica

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


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Capitolo 4

 
La notte era ormai scesa, e le stelle illuminavano il cielo scuro come piccoli occhi vivaci.
Più lo sguardo scendeva, più quelle stelle finivano però a mischiarsi con altre luci, assai meno naturali: erano le luci di Capitol City.
Quella sera, più di metà dei cittadini di Capitol era scesa nelle strade, per vedere per la prima volta i nuovi tributi, in una sfolgorante parata tra luci e atmosfera.
In prima fila, Katie si sistemò sui capelli la parrucca rigorosamente rosa acceso; a poca distanza, la sua migliore amica Sadie era occupata a stringersi la cintura attorno a dei fianchi non proprio sottili.
Tutte e due indossavano ricchi e sgargianti abiti, in tutte le tinte del rosa, tutte e due avevano enormi parrucche argentate che si reggevano a mala pena sulla testa, tutte e due erano truccatissime, ben troppo per la loro giovane età; e tutte e due erano molto, molto emozionate.
-Sarà una grande edizione, Sadie.- disse Katie tutta fiera.
-Lo penso anche io, Katie.- rispose l’amica. –Non trovi carino il fatto che io e te abbiamo tante cose in comune?-
Katie emise un verso argentino: -Sì, Sadie. È adorabile. Sei la mia migliorissima amica.-
Le due ragazze si abbracciarono forte, come erano solite fare. In quel momento, il pubblico prese a rumoreggiare forte.
-Ehi, guarda!- esclamò Sadie. –Arrivano!-
 
E la parata ebbe inizio, con l’arrivo del carro del distretto 1.
Dakota era sempre splendida. Indossava un lungo abito bianco come l’avorio, dal profondo spacco e dalle ampie maniche, che le evidenziava con grazia i fianchi sottili. L’abito, a contatto con le luci, splendeva come un autentico diamante, e nello stesso modo splendevano i ricchi gioielli che le adornavano le mani, il collo, i fianchi e il viso, e il diadema d’oro massiccio che le coronava il capo biondo.
Sam era altrettanto elegante, seppur in maniera più posata. Indossava un elegante completo da sera, dello stesso materiale della compagna, che allo stesso modo emetteva magnifici riflessi, come la neve accarezzata dai raggi del sole. I polsi erano adornati da dei gemelli di diamante, e i suoi occhiali da vista tondi erano stati sostituiti da un nuovo paio, dalla montatura tempestata di pietre preziose.
La ragazza sorrideva, ancheggiava, e mandava baci a tutti, come se fosse nata e cresciuta sotto i riflettori; il ragazzo, invece, si ritraeva ai saluti e ai sorrisi, mostrando un lieve arrossamento delle guance paffute.
Sadie e Katie rimasero a bocca aperta, beandosi di tutte quelle luci, e desiderando ardentemente di poter indossare, almeno una volta nella vita, abiti come quelli.
 
Subito dopo fece la sua comparsa il secondo carro, trainato da due minacciosi stalloni scuri.
Heather e Alejandro offrivano uno spettacolo ancora più impressionante. Entrambi indossavano un’armatura dorata, lucida come un gioiello, sandali di cuoio, un monumentale cimiero, ornato da un vistoso pennacchio di crini di cavallo, e un’ampia cappa di raso rosso, che volteggiava sulle loro spalle come le ali di un uccello rapace.
Tuttavia, quelle armature sarebbero servite ben poco in una vera battaglia: quella di Heather, infatti, non era costituita che da un succinto corpetto e una sottofascia metallica intorno ai fianchi e alle cosce; la corazza di Alejandro, invece, aveva un ampio squarcio in corrispondenza del torace, mostrando la sua carnagione abbronzata e i suoi muscoli ben scolpiti.
Entrambi i tributi tenevano lo sguardo fisso sul pubblico, fieri e sicuri, e ogni tanto lo rivolgevano verso il compagno, come in un tentativo di intimidirlo.
Katie e Sadie erano ammutolite, con lo sguardo fisso sul petto nudo di Alejandro. Non avevano mai visto un ragazzo così bello prima di allora.
Una cosa era certa: Ezekiel era sconnesso, ma aveva fatto un ottimo lavoro.
 
Con l’arrivo del distretto 3, le urla di giubilo presero ad aumentare.
Staci non poteva puntare sul fisico: le forme rotondeggianti di Leshawna, e ancor di più la magrezza e il pallore di Harold erano uno spettacolo poco ameno.
Per questo la ragazza si era sbizzarrita, ispirandosi a degli appunti appartenuti a un prozio stilista.
I due ragazzi, quella sera, brillavano letteralmente di luce propria. Indossavano delle tute di materiale sintetico, simili a delle armature fantascientifiche, che coprivano tutto il corpo. Le tute erano costellate di piccoli led di luce bianca che brillavano vivacemente, riproducendo sui corpi dei tributi un piccolo cielo stellato.
Pure nei capelli il brillio continuava: i due tributi portavano sulla testa dei cerchietti metallici, che luccicavano allo stesso modo delle tute.
Harold si muoveva a scatti, come un lottatore di arti marziali, senza celare tuttavia un certo imbarazzo; Leshawna squadrava il pubblico senza sorridere, dura: probabilmente pensava a Leshawniqua.
Katie e Sadie guardarono le luci come incantate, convenendo di comune accordo che la ragazza sembrava sicuramente una persona tosta.
 
Il distretto 4 fu accolto da boati sempre più roboanti.
Gli abiti di Geoff e Bridgette sembravano ispirati dalla mitologia greca. La ragazza indossava un lungo abito di stoffa azzurra, decorato con madreperla dai riflessi rosei, e conchiglie elaborate adornavano i capelli biondi. Gli orli dell’abito sembravano però mutare composizione, e l’azzurro diventava un bianco delicato.
A guardare da vicino, si capiva meglio cosa rappresentasse esattamente quell’orlo: sembrava un’onda delicata, che rifrangendosi sulla spiaggia si rimescolava in mille gorgoglii bianchi.
Anche Geoff era straordinario. Indossava una toga corta, della stessa stoffa dell’abito di Bridgette; sulle spalle portava un lungo mantello, la cui estremità riproduceva allo stesso modo i flussi bianchi della compagna.
Quando il carro passò davanti a Katie e Sadie, le due ragazze si accorsero di una cosa: dai loro abiti si diffondeva l’odore forte del mare.
I tributi apparivano a disagio, quasi spauriti, mentre sfilavano di fronte alla moltitudine policroma di Capitol City. Tuttavia, sembravano percepire un conforto nello stringersi la mano a vicenda.
Nemmeno agli occhi ombrettati di Katie e Sadie la scena passò inosservata. Ed entrambe sospirarono romanticamente, gelose per il fatto che nessun ragazzo le avesse mai tenute per mano in quel modo.
 
Il distretto 5 non era meno splendente.
Owen e Izzy indossavano delle tute nere, che avvolgevano l’intero corpo, fatte di un materiale sintetico che si adattava a ogni tipo di corpo: su Izzy non sembrava flaccido, su Owen non stringeva.
Ma le tute erano adornate con alcuni sottilissimi tubi colorati, che circondavano i fianchi come cinture, decoravano spalle e colli, e fungevano da bordo agli stivali neri del duo.
I tubi emanavano sfumature cangianti, sempre diverse: prima un rosso fiammante, poi un giallo vivace, poi un delicato verde pastello, infine un azzurro quasi pari a quello del distretto precedente.
Katie e Sadie non erano certo delle cime in scienze, tuttavia sapevano che quelle colorazioni così accese erano dovute alla presenza di un gas, chiamato neon, che scorreva nei tubi.
Owen stava in piedi un po’ vergognosamente, abbagliato dal pubblico urlante; Izzy, invece, aveva raggiunto il picco della vivacità: saltava, agitava le braccia, si dondolava dal bordo della biga, e strillava euforicamente.
Quando, poi, salì sulle spalle di Owen, il pubblico esplose in una lunghissima ovazione.
Katie e Sadie erano sempre più incantate, e gli riusciva difficile, in quel momento, credere che il meglio dovesse ancora venire.
 
Il distretto 6 offriva uno spettacolo ancora più impressionante.
Per rappresentare i trasporti e i mezzi che caratterizzavano l’economia del distretto, lo stilista aveva puntato su delle tute da piloti in lucida pelle, che ben si addicevano con il fisico androgino di Jo e la postura militaresca di Brick.
Le tute fasciavano aderentissime i corpi tonici dei due tributi, riflettendo sulla loro lucida superficie i fari della parata. Su di esse, come in un catalogo, apparivano numerosi loghi di marchi capitolani, tra cui spiccava in bella vista il simbolo di Panem.
In testa, Brick e Jo portavano dei caschi da motociclisti, che completavano  la mise dando al tutto un’interessante aria futuristica.
Jo era tranquilla, annoiata addirittura, come se avesse compiuto quella parata un milione di volte nella sua testa; Brick, invece, cercava in ogni modo di fuggire gli sguardi del pubblico, che sembravano sbranarlo come i denti di uno squalo.
Katie e Sadie seguivano con gli occhi il luccichio delle tute, sentendosi trasportare in un altro mondo assieme ai due ragazzi sul carro.
 
Il distretto 7 offriva un’immagine differente.
Come distretto del legname e della carta, aveva una consuetudine: vestire i propri tributi da alberi.
Anche Dawn e Scott, dunque, indossavano quei tipici costumi. La ragazza indossava una tuta verde pallido, che ben si armonizzava con la sua pelle diafana e i capelli biondo platino; sulla tuta erano applicati dei pezzetti di odoroso muschio, frammenti di corteccia, e piccoli fiori. I capelli erano stati intrecciati in una corona sopra la testa, dalla quale sporgevano alcuni ramoscelli fioriti.
Scott aveva un aspetto ben più minaccioso: il suo costume, pur molto simile a quello della compagna, era stato arricchito con corteccia di maggiori dimensioni, che conferiva all’abito l’aspetto di un’armatura.
Sulle guance del ragazzo erano state tracciate due righe di pittura marroncina, simili a trucco di guerra.
Dawn era calma come sempre, a malapena sfiorata dagli sguardi del pubblico; per contenere la tensione leggeva le aure dei presenti, sprezzanti e divertite, e ne indovinava i diversi colori.
Anche Scott aveva un’aria distaccata, ma per altre ragioni: già pianificava i diversi modi per eliminare tutti gli altri ragazzi.
I nasini di Katie e Sadie aspirarono l’odore delicato del muschio; le ragazze, incantate, si chiesero quale dolore dovesse comportare l’abbandono di un posto così bello.
 
Gwen e Trent, in rappresentanza del distretto 8, non furono da meno.
DJ aveva preso ispirazione dai disegni di abiti che Gwen, ormai fiduciosa nello stilista, aveva portato con sé da casa. Con simili premesse, la ragazza era un vero spettacolo.
Gwen indossava un lungo abito di raso nero, che scendeva ben oltre i piedi in un lungo strascico agitato dal vento; le ampie maniche si allargavano maestosamente dietro le spalle, e un impalpabile velo di pizzo scuro, che calava sul volto della ragazza e volteggiava dietro le sue spalle, conferiva al tutto un’aria gotica, misteriosa, e insieme seducente. Altri stivali alla coscia, col tacco d’acciaio, completavano l’opera.
Trent era la degna controparte maschile della compagna: indossava un’ampia tunica scura, di elegante seta, e un manto nero che scendeva dietro le spalle, per aggiungere un tocco mitologico e sovrannaturale.
Gwen si ritirava dagli sguardi del pubblico invasato e policromo, con un’espressione sospesa tra la paura e il disprezzo; Trent, consapevole dell’impatto che quella parata avrebbe potuto avere sulla sua vita, cercava di prestarsi agli sguardi altrui, nonostante una smorfia di confusione fosse approdata sul suo volto e non fosse intenzionata ad andarsene.
Katie e Sadie soppesavano Trent con i loro sguardi, affascinate. Ogni secondo che passava, aumentava il loro attaccamento per i ragazzi sui carri.
 
Il distretto 9, sotto il sapiente comando di Cameron, aveva offerto uno spettacolo differente.
La bellissima Courtney, con la sua pelle ambrata e i suoi occhi scuri, indossava un abito giallo acceso, con sottili fili dorati che lo rendevano ancora più luminoso. Anche delle palline arricchivano il costume, simili a piccole gocce di pioggia dorata.
Guardando da vicino, Katie e Sadie si accorsero che non erano palline, ma chicchi di cereali.
Ce n’erano di tutti i tipi: mais fluorescente, miglio delicato, orzo marroncino, e minuscolo sesamo.
Anche tra i capelli, Courtney splendeva d’oro: una coroncina di spighe, poggiata graziosamente sul suo capo come un’aureola, spandeva sottili bagliori dorati verso il pubblico.
Duncan aveva un aspetto meno elegante: era a torso nudo, con dei pantaloni simili all’abito della ragazza, anch’essi ricoperti di cereali come lustrini.
Lui non portava coroncine: quando Cameron glie’l aveva porta, l’aveva sbattuta a terra con malgarbo.
Courtney aveva un’espressione tronfia, boriosa, come se tutto fosse stato programmato in partenza per la sua vittoria; Duncan era impassibile, scontroso, quasi schifato dagli sguardi che lo circondavano.
Katie e Sadie non avevano mai pensato, prima, che degli umili cereali potessero essere così belli da vedere.
Quando Duncan le superò, entrambe trasalirono: cos’aveva sulla schiena?
 
Il distretto 10 non sfigurò, accanto ai precedenti.
Sierra e Cody indossavano degli abiti realizzati con delle piume colorate. Parevano uccelli di un altro mondo.
Certo, quelle non erano piume naturali: nessun uccello, nemmeno gli ibridi, aveva dei brillantini sulle piume.
Le piume formavano un simpatico copricapo sulle loro teste, che ricordava quelli un tempo usati dai capi indiani. Poi rivestivano le semplici tute marroni indossate dai ragazzi, senza lasciare un angolo libero.
Ma erano le braccia il pezzo forte: le piume formavano ampie volute sotto le braccia dei ragazzi, come se si trattasse di autentiche ali d’uccello.
I lustrini argentati e dorati sulle piume, illuminati dai fari della parata, riflettevano iridescenti sfumature, che rendeva ancora più difficile capire a quale specie appartenessero quegli uccelli, ma faceva certamente una magnifica figura.
Sierra era eccitata, divertita addirittura, ma anziché preoccuparsi di sé stessa, si curava solamente del compagno di distretto accanto a lei. Lo abbracciava, lo agitava, e tentava ripetutamente di baciarlo.
Cody, da parte sua, sembrava apprezzare poco le attenzioni della ragazza, ma allo stesso tempo, sembrava che vi si crogiolasse, come se Sierra rappresentasse un’ancora di salvezza.
Katie e Sadie sospirarono romanticamente. Sembrava così dura decidere il loro tributo preferito…
 
La parata volgeva al termine. Il penultimo distretto, l’11, era apparso agli occhi dei presenti.
Per lo stilista era stato assai semplice scegliere su quale dote puntare per valorizzare Lindsay, data la grande bellezza della ragazza.
L’abito che la tributa indossava era scollato e molto corto, per mostrare le sue forme generose.
Era verde, il verde del prato; anzi, era esso stesso prato.
La stoffa dell’abito era realizzata in modo da essere in tutto simile ai verdi prati del distretto 11. Sul corpo di Lindsay c’era un vero e proprio mantello d’erba, che ondeggiava nel vento e spandeva tutt’intorno un soave profumo.
Sull’abito crescevano inoltre anche dei fiori: papaveri vivaci, delicati nontiscordardime, violette, margherite e denti di leone, che formavano un bouquet innovativo e coloratissimo.
Tyler non era da meno: la sua maglietta e i pantaloni coordinati riproducevano una copia esatta del prato della ragazza, dando ai due tributi un aspetto mozzafiato.
Lindsay sorrideva a tutti, con la sua tipica aria dolcemente ingenua, al momento dimentica della morte incombente. Anche Tyler era sorridente, nonostante a un certo punto, essendosi sporto troppo, aveva rischiato di cadere dal carro.
Katie e Sadie, ammaliate dai fiori, erano al settimo cielo, e riusciva difficile, per loro, credere che quell’incanto fosse prossimo a finire.
 
E come ogni bel sogno, anche la parata dei tributi si concluse in quel momento, con l’arrivo del distretto 12.
Zoey e Mike erano la degna conclusione di uno spettacolo senza precedenti.
I ragazzi indossavano delle tute argentate, aderenti, che coprivano l’intero corpo come una tuta fantascientifica. Indossavano dei copricapi che ricordavano i caschi indossati dai minatori quando scendevano nelle miniere.
Ma dalla sommità dei caschi si levava un getto di volute di fuoco, come gli zampilli d’acqua di una fontana, che si librava nell’aria in spirali e piogge rosso fiamma, e ricadeva intorno ai piedi dei tributi, dove si estingueva.
Le tute argentate, appositamente scelte per lo scopo, riflettevano le fiammelle sui corpi snelli dei due ragazzi, creando un gioco di luci caleidoscopico e affascinante.
Zoey sembrava poco a suo agio sotto le luci della parata, e il rossore sulle sue guance faceva il paio con i suoi capelli vermigli e con le fiamme dell’abito.
Mike, invece, posava elegantemente per le donne del pubblico, che se lo mangiavano con gli occhi, e rispondeva agli elogi, chissà perché, con un accento vagamente francese.
Katie e Sadie erano alquanto dispiaciute che tutto fosse già finito, ma non persero tempo a trovarsi di nuovo d’accordo sulla bellezza di quegli abiti.
 
I carri si fermarono davanti al palco soprelevato, tra le grida di giubilo del pubblico, che era completamente fuori di sé: urlava, si sbracciava, e lanciava fiori sui ventiquattro ragazzi in una pioggia colorata.
Da lassù apparve una figura di uomo, dai capelli candidi e dallo sguardo sadico e sprezzante.
Era il presidente McLean.
-Benvenuti.- esclamò, con voce sicura. –Benvenuti.-
I suoi occhi squadravano uno ad uno i carri che si erano appena fermati sotto di lui, con lo sguardo che un contadino lancia alle bestie prima della macellazione.
-Tributi, vi diamo il benvenuto. Rendiamo onore al vostro coraggio…- proseguì poi.
E qui, un ghigno apparve sul suo viso: -…e al vostro sacrificio.-
Una risatina sardonica attraversò il volto del presidente.
-Vi auguriamo felici Hunger Games.- esclamò, sempre sogghignando. –E possa la fortuna sempre essere a vostro favore.-
Con queste parole scomparve, mentre le urla del pubblico si facevano sempre più forti da non poter più aumentare.
 
-Non mi piacciono gli Hunger Games, Sadie.- disse Katie, mentre le due ragazze si apprestavano a lasciare gli spalti.
-Nemmeno a me piacciono, Katie.- rispose l’altra ragazza. –Quei ragazzi così simpatici… non è per niente carino che debbano morire.-
-A me non dispiaceva per niente guardarli, ma una volta che hai visto da vicino questi ragazzi non è più lo stesso.- sospirò Katie.
-Non è per niente carino, Katie.- rispose Sadie pensosa. –Ma noi, cosa possiamo farci?-
 
Angolo Autrice
Salve a tutti.
Anche questa è fatta, eh? È stato faticosissimo, ma non mi dispiace affatto com’è venuto.
Vi piacciono i costumi? Vi sembrano adatti? Cosa avreste fatto voi?
Ora sono apparse, quindi, anche Sadie e Katie.
Mi sembrava interessante inserire il punto di vista di due comuni cittadine di Capitol, e pensavo che le due MAPLV sarebbero state adatte.
Io starò per un po’ senza pc, quindi temo che non tornerò a postare tanto presto.
Intanto godetevi questo, e passate a recensire le mie storie sui Black Eyed Peas (intendo chi non l’ha ancora fatto).
Il discorso del presidente McLean è lo stesso discorso fatto da Snow nel film. Giusto per chiarire…
Infine, ecco le colonne sonore del capitolo.
Uprising – Muse
Seven Nation Army – The White Stripes
Givin’ the Dog A Bone – AC/DC
A presto
MiticaBEP97
Ps: la richiesta per il banner rimane aperta.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - prima ***


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Capitolo 5 - prima

Con il progressivo avvicinarsi degli Hunger Games, ogni tributo sentiva la morte avvicinarsi sotto la pelle.
L’unico conforto a quel pensiero disarmante era la consapevolezza che ci sarebbe stato, tra loro, un vincitore.
Così, il giorno successivo, la sala allenamenti era piena sin dalle prime ore del giorno.
Ogni tributo cercava tra le varie stazioni quella che più sembrava essergli utile per costruire la propria sopravvivenza.
 
Alejandro, l’affascinante leader Favorito del distretto 2, aveva cominciato per primo l’allenamento.
La sua arma, una spada lucente e affilatissima, sembrava un’appendice del suo braccio muscoloso, tanta era la perizia con cui se ne serviva.
In pochi attimi, il manichino contro cui stava duellando fu ridotto a un mucchio di braccia, gambe e pezzettini di ogni sorta.
Per tutta la durata dell’allenamento, due occhi sgranati e ammirati lo avevano guardato con vivo interesse.
-Devo proprio farti i complimenti, amico.- disse Owen, mentre Alejandro riponeva la spada su un panchetto. –Ci sai fare con la spada.-
-Ti ringrazio.- rispose quello. –Sai, è una cosa da Favoriti.-
-Alejandro, vero?- domandò il ragazzone. Impossessatosi della spada, aveva preso a compiere evoluzioni inconcludenti attorno al manichino, senza colpirlo minimamente.
-Hai fatto centro.- rispose il Favorito, ravviandosi i capelli.
Owen ci rifletté sopra:-È piuttosto lungo. Posso chiamarti solo… Al?-
Alejandro aveva passato un’intera vita ad allenarsi ad affrontare ogni pericolo. Era un guerriero forte e indomito, che padroneggiava ogni arma con perizia. Ma bastavano due lettere, quelle due lettere, a intimorirlo.
-Ceeerto.- rispose dopo un lungo attimo di pausa. –Se vuoi che provi la mia spada su di te.-
 -Lascialo perdere, Ale.- intervenne Heather. Si avvicinò ai due ragazzi, con un degnissimo arsenale di coltelli appeso alla cintura. –Dobbiamo pensare alla coalizione, ricordi?-
Owen si ritrasse:-Allora… vi lascio soli.-
 
-Non perdere tempo con questi pivelli.- disse Heather.
-Non ne avevo alcuna intenzione.- rispose Alejandro. –Pensiamo alla coalizione, piuttosto.-
-io vorrei quelli dell’1 e del 4.- propose Heather. Prese un coltello sottile e affilato dalla cintura. Si mise in posizione per lanciarlo, e indugiò. Non certo perché fosse impreparata: doveva soltanto scegliere se colpire il bersaglio sullo stomaco, sul petto o in mezzo alla fronte.
Alejandro si sedette su uno sgabello. -A me quei quattro non sembrano nulla di eccezionale. Anzi, li trovo proprio ridicoli.-
Heather scelse la testa: il coltello andò a posizionarsi esattamente nel mezzo.
–Secondo me vanno bene. E poi, il fatto che siano incapaci è un vantaggio: ci permetterà di vincere più facilmente.-
-Io vorrei la ragazza del 3 e dell’11.- disse Alejandro.
-A che scopo circondarsi di ragazze inutili?- domandò Heather, selezionando un secondo coltello.
-Io dico che possono servirci.- rispose l’ispanico. In realtà, le ragazze non erano utili che a lui: le avrebbe manipolate come burattini, una volta nell’arena.
-Allora prendete anche me.- intervenne una terza voce.
I due ragazzi si girarono: la ragazza del distretto 6, quella dall’aspetto mascolino, era apparsa alle loro spalle.
-Io dico che fareste bene a prendermi con voi.- disse Jo tutta tracotante. –Sono un’ottima guerriera.-
-Non abbiamo bisogno di…- provò a dire Heather, ma Alejandro la interruppe.
-Sei la benvenuta, Josephine.- disse.
La ragazza, a dispetto del suo orgoglio, arrossì leggermente. Heather strinse con rabbia gli occhi, e scagliò un secondo coltello, proprio nel centro del petto del bersaglio.
 
-Hai visto, Brick? Mi hanno presa!-
Jo era letteralmente eccitata. Brick, lì accanto, era sdraiato sulla piattaforma del corpo a corpo e faceva degli addominali.
-Beh… sono certo che non sfigurerai.- disse infine.
-Lo so.- rispose Jo, tronfia e boriosa come sempre. –Quegli sciocchi Favoriti non hanno ancora capito con chi hanno a che fare.-
Brick era orgoglioso della ragazza, ma una domanda continuava a tormentargli la testa.
-E io, come farò?-
Fu Jo a rispondere a quel dilemma. –Non preoccuparti, cocco. Troverai un modo.-
Si sdraiò accanto al ragazzo, e incominciò a fare addominali assieme a lui.
-Gara di piegamenti?-
-Gara di piegamenti.-
 
Come tributi del distretto 1, Dakota e Sam avrebbero dovuto sembrare a loro agio nella sala degli allenamenti: invece non sapevano, letteralmente, che pesci prendere.
-Sai, Sam.- disse Dakota. –A volte penso di aver fatto una grande sciocchezza, a venire qui.-
Non che Sam avesse bisogno di conferme. Tuttavia, preferì non rincarare la dose.
-Forse lo troviamo, un sistema per vincere.- disse. –Io comincerei da quello lì.-
Con un dito troppo tozzo per sembrare quello di un Favorito, il ragazzo indicò la postazione del salto degli ostacoli.
Dakota annuì. si posizionò per prima all’inizio del percorso, e partì.
Gli ostacoli erano dieci, ma Dakota riuscì a reggere fino al settimo prima di cadere.
-Visto? Non ne sono capace!- si lamentò con Sam, che era venuto a soccorrerla. –Sono uno schifo di Favorita.-
Sam le prese dolcemente la mano. –Non dire così.- la rassicurò. –Sei una Favorita perfetta: sei carina, sei sicura di te… almeno, quando sei partita lo eri. E sette ostacoli sono comunque ottimi: io non arriverei a tre.-
Dakota arrossì lievemente. Gli occhi di Sam, prima grossi e opachi, ora le sembravano decisamente invitanti. Era talmente persa, in quell’ameno luogo che quegli occhi rappresentavano, che nemmeno l’unghia rotta dalla caduta la interessava più. Sam, da parte sua, sembrava attratto allo stesso modo.
Fu lui, a ogni modo, il primo a riaversi.
-Adesso ci provo io.- decise, improvvisamente spavaldo.
Si posizionò davanti agli ostacoli, prese la rincorsa, e saltò.
Fu così che scoprì di avere ragione riguardo al proprio punteggio in ostacoli: non riuscì a superarne neanche uno.
 
Chi, invece, sembrava aver trovato pane per i suoi denti era Sierra, la vivace tributa del 10.
Si era appropriata della postazione di nodi, e aveva cominciato a intrecciare rapidamente le corde con un’agilità invidiabile.
-Ci sai fare, vedo.- disse Cody, al quale la ragazza cercava in ogni modo di inculcare le basi della tecnica.
Sierra diventò tutta rossa, ma non smise di intrecciare.
-Sai, a casa intrecciavo cesti. Se vuoi posso insegnartelo.-
Cody decise di valutare i pro e i contro: Sierra era fanatica e scatenata, certo, ma dopotutto era anche molto coraggiosa, e sembrava poco spaventata dall’arena e dagli Hunger Games.
Inoltre, e questa era la cosa più importante, non poteva negare che stesse cominciando a stargli simpatica.
-Mi farebbe molto piacere.- rispose alla fine.
Sierra sentì una sensazione frizzante, come un fuoco artificiale nello stomaco. Un sorriso ebete le piegò la bocca, mentre le mani intrecciavano le corde sempre più in fretta.
-Sai una cosa, Sierra? In fondo, non sei tanto male.- disse improvvisamente Cody.
Sierra sgranò gli occhi, e ammutolì. La corda rimase inerte nelle sue mani.
-D-dici sul serio, Cody?- riuscì infine ad articolare.
-Ma certo.- rispose quello. –Anzi, credo che in fondo potremmo anche essere amici.-
Se Cody si aspettava un ringraziamento, rimase deluso. Sierra non parlò: ma afferrata con più forza la corda, aveva preso a sbatterla furiosamente sul tavolo.
 
La corda che Sierra mulinava contro il tavolinetto produceva un rumore secco, di schiocco, che si propagò per tutta la sala dell’allenamento, fino a raggiungere un paio di orecchie che odiavano quel rumore più di ogni altro.
Duncan rabbrividì con la lancia in mano, la bocca semiaperta e gli occhi fissi nel vuoto. Quel rumore era identico a quello provocato dalla frusta, mentre si abbatteva crudelmente contro la sua schiena.
Ancora, come tante altre volte avevano fatto, i ricordi della tortura si affollarono come tafani nella mente del tributo, strappandolo dalla realtà e dall’allenamento in corso.
Fu una voce femminile, gentile ma decisa, a riportarlo alla realtà.
-Ne hai ancora per molto? Vorrei lanciare anche io.-
Duncan si voltò. Aveva davanti una ragazza pallidissima, dai capelli scuri striati di azzurro.
Era Gwen, la tributa del distretto 8. Con lei c’era un ragazzo moro di cui Duncan non ricordava il nome.
Biascicò un patetico “scusa”, e scagliò la lancia contro il manichino. Lo mancò di parecchio.
Duncan aprì la bocca per imprecare, ma fu Gwen a venirgli in soccorso.
-Lascia stare, capita a tutti… Non sei un favorito, vero?-
Duncan sentiva uno strano senso di sicurezza mentre parlava con la ragazza. E quello che più lo innervosiva era non capire il perché.
-No, non sono un Favorito.- rispose frettolosamente; quindi si spostò per lasciare la postazione a Gwen e al compagno.
-Comunque io sono Trent.- disse il ragazzo. –E lei è Gwen. Tu devi essere… Duncan.-
Lui annuì in risposta. Quella conversazione gli pesava sulle spalle come aria calda, ma allo stesso tempo lo rassicurava: tra le attività che Duncan era solito praticare, le chiacchiere non figuravano al primo posto.
Gwen, nel frattempo, aveva scagliato la sua prima lancia, riuscendo a centrare in pieno il braccio della sagoma.
-Sei proprio brava.- disse Trent alla ragazza, che arrossì appena.
-Si impara in fretta.- rispose Gwen, sorridendo. Poi, il suo sguardo si fece più serio.
-Sentite…- cominciò un po’ esitante –Cosa ne direste di un’alleanza a tre?-
-Un’… un’alleanza?- domandò Trent, come se Gwen gli avesse proposto di ingoiare la lancia anziché scagliarla.
Duncan invece saltò su:-È un’ottima idea. Ci sto.-
Gwen guardò Trent:-Ci stai?-
Come risposta, il ragazzo annuì appena.
-D’accordo.- disse Duncan. –Se le cose stanno così, mi sa che andrò a lanciare qualche coltello. Ci si rivede!-
 
Rimasti soli, Trent e Gwen si guardarono con aria imbarazzata, come se tra loro fosse improvvisamente sceso un grosso muro.
-Un’alleanza con Duncan? Ma perché? Non abbiamo bisogno di delinquenti, tra noi.-
-Andiamo, Trent, sii ragionevole.- rispose Gwen. –Non importa se rubava. D’accordo, con la lancia non ci sa fare, ma ha vissuto all’aperto per anni. Ci sarà utile.-
-Utilissimo… se vuoi prenderti un coltello nella schiena mentre dormi.- fu la risposta di Trent. –Avevi già me per proteggerti. Non ti basta?-
-Non si sa mai…  meglio vivere in tre che morire in due.-
Trent alzò gli occhi al cielo, come se stesse discutendo con un bambino.
-Non importa. Non sarò io a farti cambiare idea. Ma se necessario, lo ucciderò. Non sono venuto qui per vedere il primo punk di passaggio uccidere te. E non sarà certo lui a far morire la mia ragazza.-
Gwen, ovviamente, aveva una risposta pronta per le mani, ma non ebbe la capacità di servirsene.
Non possiamo biasimarla: dove lo trovi, il coraggio per offendere qualcuno che si è sacrificato per te?
Ora Gwen, ufficialmente, era la sua ragazza. E sapeva che nessuno, né Duncan né chiunque altro, avrebbe mai impedito a Trent di combattere e morire per lei.

Angolo Autrice
Ciao.
Ed eccoli qui: i nostri tributi che si allenano.
Al momento solamenente dodici di loro sono apparsi nella storia, ma fra poco verranno anche gli altri.
Ditemi se vi piace (ovvero: recensite).
Inoltre: c'è una OS Duncney, scritta da me, che ho pubblicato da poco, e NON ha nemmeno una recensione.
Vi prego, aumentatele, o mi vedrò costretta a cancellarla.
Vi piace il banner fatto da Nightlock per me? Lo trovo carinissimissimo... 
Insomma, divertitevi. A presto.
MiticaBEP97

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Capitolo 7
*** Capitolo 5 - seconda ***


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Capitolo 5 - seconda

Con l’arrivo degli altri tributi, l’allenamento si faceva sempre più intenso.
Ormai, tutti e ventiquattro i tributi avevano cominciato a combattere per finta, per non essere completamente indifesi quando sarebbe venuto il momento di farlo davvero.
Scott, tributo del distretto 7, accarezzò sensualmente una lucente accetta che stringeva in mano. L’arma faceva le fusa come un gattino, e sembrava sussurrargli con voce flautata “lanciami, lanciami”.
E Scott obbedì: con un sibilo acuto, l’arma volò fino al collo di un manichino, e tranciò di netto la sua testa.
Pochi metri più in là, una coppia di tributi di cui il ragazzo non ricordava il nome stava scagliando (o più correttamente “cercando di scagliare”) delle frecce contro dei bersagli. Erano dei veri disastri: lui non riusciva nemmeno ad avvicinarsi a un manichino, lei aveva piazzato soltanto una freccia, sul piede della sagoma.
Scott sogghignò a bassa voce, poi afferrò una seconda accetta e la scagliò dritta nell’intercapedine tra i due.
Quando sentì le loro urla, il ragazzo ridacchiò boriosamente.
Nessuno in tutta la stanza sapeva lanciare le accette meglio di lui.
-Non sono scherzi da fare, Scott.- disse una vocetta acuta da dietro la sua spalla.
Il tributo sussultò: -Chi sei? Sei la mia coscienza?-
-No, sono soltanto Dawn.- rispose la vocina.
Scott si voltò: eccola lì, la sua piccola compagna di distretto, tranquilla come suo solito, con tra le mani una bizzarra mistura di erbe.
-Dovevi proprio arrivarmi da dietro?- domandò Scott indispettito. –Mi hai fatto venire un colpo.-
-Hai paura?- chiese la ragazza. –Non ti biasimo.-
Scott sussultò nuovamente. Dawn era, in tutta onestà, il prototipo della sfacciataggine.
-Paura io? Bah.- rispose il ragazzo. –Io non ho paura di niente. Io sono quello che ammazzerà tutti i presenti, inclusa te. La paura… non so nemmeno come si scriva, la parola “paura”.-
Per qualche ragione, Dawn pensò che in quel momento non stesse mentendo.
Scott, nel frattempo, continuava a pavoneggiarsi. –E tu? Cosa sai fare?-
Dawn non rispose. Si limitò a prendere un coltello di piccole dimensioni, e a passarlo impercettibilmente sul proprio dito. Un sottile taglio si era aperto in corrispondenza del dito.
-E questo cosa sarebbe?- domandò Scott. Cominciava a chiedersi se Dawn fosse del tutto sana di mente.
Ma Dawn sorrise, placida, e si passò sul dito la miscela di erbe. In pochi attimi, la ferita era scomparsa.
-Lo vedi?- domandò la ragazza a uno Scott ammutolito e senza parole.
-Non basta saper uccidere, per vincere.-
 
-Sai bene?- domandò Mike a Zoey.
Stavano allenandosi al tiro con l’arco, quand’ecco che qualche tributo un po’ prepotente aveva scagliato un’ascia tra di loro, rischiando seriamente di mutilarli, o peggio.
-S-sì.- rispose la ragazza, rialzandosi da terra.
Mentre Mike le porgeva la mano per aiutarla a rialzarsi, i suoi occhi incontrarono quelli nerissimi del ragazzo.
Era solo un momento, un attimo tra tanti, ma a Zoey sembrava speciale. Gli occhi di Mike erano un abisso di oblio dove perdersi, un battito di vita in un luogo di morte.
Anche Mike era rimasto a guardarla incantato. La ragazza dai capelli vermigli era come un angelo caduto nell’inferno dell’arena.
Fu con grande rammarico che i loro occhi dovettero staccarsi, per tornare nella sala dell’allenamento e alla realtà.
Mike raccolse da terra l’arco, attorno al quale erano sparpagliate le inutili frecce.
-Vuoi provare tu?- domandò a Zoey.
La ragazza ebbe un attimo di esitazione, ma annuì.
Zoey imbracciò l’arco, incoccò la freccia e tese la corda. Il battito del suo cuore era talmente forte da oscurare quasi la voce di Mike, che la esortava a lasciare la corda.
-Immagina di trovarti nell’arena!- esclamò Mike.
E Zoey immaginò.
Immaginò di colpire qualche innocente con la freccia, di fargli scaturire del rosso e polposo sangue dalla ferita, di vederlo dibattersi a terra impotente…
No, non poteva farcela.
Zoey lasciò andare arco e freccia, e portò le mani al capo con un sottile urlo.
-È tutto inutile!- esclamò, mentre Mike le prendeva le mani tremanti. –Non posso farcela.-
Mike le strinse con più dolcezza i polsi, sorridendo come se fosse tutto un dolce gioco.
-Io dico che puoi farcela. Basta solo che tu impari a volerlo.-
 
Ovviamente non tutti i tributi non-favoriti erano così spaesati. Qualcuno, anzi qualcuna, sembrava cavarsela egregiamente.
Courtney scelse una lunga sciabola da un confuso mucchio di armi, e la strinse forte come per aumentarne il potere distruttivo.
Poi si scagliò contro un manichino con un urlo animalesco, e cominciò a piantare l’arma più e più volte nel suo petto.
A carneficina finita, si rialzò, contemplando quello che restava del manichino con lo sguardo di un artista che ha concluso un bel quadro.
-Se questo qui fosse stato Duncan, ci avrei messo di meno.- sogghignò pensando alle disastrose prestazioni con la lancia del compagno di distretto.
Ma Courtney non sapeva che qualcuno la stava tenendo d’occhio.
-Guardala, Harold, che esibizionista.- soggiunse Leshawna con in mano una grossa mazza chiodata. –Qualcuno dovrebbe spiegarle che questo non è un concorso a punti.-
Harold annuì. –Certo noi possediamo delle doti che lei non ha.-
Pronunciata questa frase –temo sbagliata, se riferita a lui- Harold raccolse un paio di nunchaku costellati di borchie taglienti, e li guardo affascinato.
-Questa nobile arma è appartenuta agli antichi ninja che abitavano le lontane terre dove sorge il sole.- pronunciò estasiato con l’arma in mano. –E ora io, Harold NorbertCheever Doris McGrady V, avrò il privilegio di onorare le somme gesta di quei nobili guerrieri durante questi Hunger Games.-
Sotto gli occhi di Leshawna, che ancora ridacchiava per il “Doris”, Harold iniziò a roteare l’arma sempre più velocemente, a rischio di colpirsi in testa. E così, fortunatamente, non accadde.
-Mica male, dolcezza.- disse Leshawna, ammirata. –Tu che ne dici?- domandò poi a Courtney, che si avvicinava.
La ragazza ridacchiò:-Avrei fatto di meglio.-
-Dimostramelo.- rispose semplicemente Leshawna.
Courtney non si scompose. Afferrò i nunchaku e cominciò a rotearli, con una grazia tale da far credere ad alcuni Pacificatori che stavano guardando che lei fosse una Favorita.
Terminata la performance se ne andò per i suoi passi, lasciando Harold e Leshawna ammutoliti e timorosi per la loro incolumità.
 
Sulla piattaforma di corpo a corpo, Geoff si posizionò per la lotta. Dall’altra parte, Tyler faceva lo stesso.
-Cercherò di non farti troppo male, amico.- disse il ragazzo del 4.
-Che buffo, stavo per dire la stessa cosa.- rispose Tyler.
Pochi attimi dopo, cominciarono ad avvinghiarsi sul tappeto da lotta. Pochi metri più accanto, le rispettive compagne di distretto, ovvero Bridgette e Lindsay, stavano a guardare, con davanti un vero e proprio campionario di foglie, bacche e fiori.
-Tu vieni dal distretto 11, giusto?- domandò la prima, esaminando una foglia allungata, di colore rossiccio.
-Beh, sì… perché?- rispose Lindsay.
-Allora devi conoscere bene le bacche velenose. Perché non mi aiuti?- chiese Bridgette, scartando definitivamente la foglia: quelle piante, note come Baci del Diavolo, portavano alla morte per asfissia in parecchie terribili ore.
Lindsay arrossì fino alla radice dei capelli. In realtà, anche se non sapeva come spiegarlo alla ragazza gentile accanto a lei, lei sapeva poco o niente di botanica.
-Qualcosa non va?- domandò cortesemente Bridgette.
-Io… stavo esaminando questi graziosi fiorellini.- rispose sbrigativamente Lindsay, afferrando di scatto una campanella violacea, con striature gialle.
Bridgette fu indecisa se trasalire o scoppiare a ridere. –Lindsay, quei graziosi fiorellini sono Campanule Mietitrici, e sono velenosissime. Il loro succo paralizza gli organismi interni; in pratica ti trasforma in una statua.-
Lindsay lasciò di scatto la pianta, come se al suo interno fosse presente uno scorpione velenoso.
-Non sai proprio niente di piante, eh?- ingiunse Bridgette.
Lindsay poté però evitarsi le imbarazzanti spiegazioni: stavano infatti facendo ritorno dalla postazione di corpo a corpo Geoff e Tyler.
-Allora, come è andata?- domandò Lindsay sorridendo in modo innocente, per cercare di cambiare argomento.
-Mi ha battuto.- ammise Tyler. –Ma è stata solo fortuna. Tu, invece, cosa hai fatto?-
Lindsay arrossì nuovamente, cercando una via d’uscita da quella vergognosa situazione negli occhi di Tyler.
Fu Bridgette a venirle in aiuto: -Io e lei abbiamo fatto pratica di erbe medicamentose.-
Lindsay emise un sospiro di sollievo, e lanciò a Bridgette uno sguardo pieno di gratitudine.
 
D’improvviso, un fumo denso e grigio invase la sala degli allenamenti, mentre una terribile esplosione spedì tutti i presenti gambe all’aria.
Tributi e Pacificatori presero a tossire, accecati dal fumo che avvolgeva ogni cosa.
Mentre la coltre grigia si diradava, una figura indistinta cominciò a profilarsi sullo sfondo della scena.
Il fumo continuava a disperdersi, rivelando un corpo verde e arancione che saltellava del tutto indifferente al caos generale.
-Bum! Bum!- esclamò un’euforica Izzy. Poi si accorse degli sguardi taglienti di tutti.
-Che c’è? Non vi è piaciuto?-
La ragazza avanzò verso il centro della pista, pulendosi via le macchie nere di fumo con secchi gesti della mano.
-Prodotti chimici, gente!- strillò improvvisamente a pieni polmoni. –Noi del Distretto 5 siamo espertissimi in chimica! Salteremo tutti quanti per aria, e sarà fantastico!-
E mentre parlava, era così euforica da non accorgersi che nessuno la stava ascoltando.
 
Seduti su una piattaforma soprelevata, gli Strateghi confabulavano a bassa voce.
Nella sedia centrale, il viso malevolo curvo in un’espressione di sdegno e disgusto, sedeva il Primo Stratega, il famigerato Chef Hatchet, famoso per la sua straordinaria capacità di non farsi mai sfuggire un’azione dei tributi che fosse degna di nota o pericolosa.
L’omone dedicò un ultimo patetico sguardo ai ventiquattro ragazzi che si stavano allenando, come un giocatore d’azzardo che aspetta di ricevere la prima mano di carte, e nell’attesa studia le mosse disponibili.
Uno Stratega seduto accanto al suo fianco gli si avvicinò.
-Abbiamo un bel pacchetto quest’anno, non trovi?- domandò.
Chef alzò lo sguardo dai tributi. Un sorriso sadico gli curvava orribilmente le enormi labbra.
E rispose con un sogghigno:-Lo vedremo alle sessioni private.-
 
Angolo Autrice
Okay, uccidetemi.
Fatelo ora.
Mi dispiace tanto, tanto, tanto e davvero tanto per il ritardo. Lo so, non avrei dovuto. Non so nemmeno come giustificare (o tentare di giustificare) questo imperdonabile ritardo.
A ogni modo eccomi, quindi vediamo di concludere questo nuovo capitolo.
Stiamo entrando nel vivo dei giochi, e gli Strateghi cominciano a decidere come comportarsi.
E voi, per chi tifate?
Ci si vede presto (lo giuro), per questa favolosa edizione degli Hunger Gamessss!
Ciao.
MiticaBEP97. Unica e sola regina di EFP (che modestia).

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Capitolo 8
*** Capitolo 6 - prima ***


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Capitolo 6 – prima
 
Dopo tre giorni di allenamenti, tutti i tributi erano giunti alla stessa conclusione: per quanto dura potesse essere, rimanere inerti e paralizzati ad aspettare che la morte giungesse era l’ultima cosa che dovesse essere fatta.
C’era una possibilità di sopravvivenza, per quanto esigua per alcuni. E bisognava tentare il tutto per tutto per raggiungerla.
Ed era esattamente per quello che, il giorno in cui ebbero inizio le sessioni private, nessun tributo si era fatto sorprendere impreparato.
 
La sala adibita alle sessioni private era silenziosa, immersa in un’atmosfera nebulosa di sogno.
Le luci stroboscopiche si riflettevano sulle superfici lisce e specchiate di spade e coltelli, sui bersagli, su archi e frecce, e sul nutrito assortimento di sostanze chimiche e venefiche.
Dall’alto della loro postazione, come avvoltoi pronti a piombare sulla preda, gli Strateghi guardavano la scena in attesa dell’arrivo del primo tributo. Chef Hatchet, il Primo Stratega, sedeva al centro, e le sue dita nerborute stringevano con forza i braccioli della sedia, come se dovesse scappare da un momento all’altro. I suoi occhi porcini squadravano la stanza vuota, impassibili e vogliosi.
-Molto bene.- disse dopo una lunga pausa. –Fate entrare il primo.-
 
Una porta scorrevole, nell’angolo della stanza, si aprì, ed entrò Sam, con sguardo terrorizzato.
Quando i suoi occhi incontrarono quelli scuri e crudeli del Primo Stratega, il ragazzo deglutì e fu scosso da un brivido.
Comunque ormai era fatta: era entrato, e non poteva tirarsi indietro.
Così, preso un grande respiro, si incamminò verso un mucchio di lunghe lance dal manico d’acciaio e dalla letale punta metallica. Ne prese in mano una, e si voltò verso il bersaglio.
“Ora o mai più” pensò, prima di scagliare l’arma verso il manichino.
La lancia andò a piantarsi all’esterno del manichino, a poca distanza dal ventre. Nel silenzio imbarazzato si udì Chef Hatchet che sghignazzava.
Col battito del cuore accelerato, Sam prese una seconda lancia, e la scagliò subito dopo la prima. Non andò affatto meglio: l’arma sbatté malamente contro il bordo del bersaglio, e rotolò per terra miseramente.
Sam sentiva la tensione sulla pelle. Le mani gli sudavano e voleva soltanto andarsene via di lì. Ma aveva il tempo di un ultimo tentativo. Prese una terza lancia, e la scagliò verso il solito manichino.
Un coro di “oooh” si alzò senza preavviso dal palco degli Strateghi. Sam si voltò verso il manichino, e trasalì.
Forse era un colpo di fortuna, o forse i geni di Favorito erano misteriosamente riaffiorati in Sam: fatto sta che, sorprendentemente, la lancia era andata a piantarsi esattamente al centro della testa del manichino.
Sam tirò un sospiro di sollievo, e si voltò per andarsene.
-V-visto?- domandò agli Strateghi. –Non era poi così male.-
Poi sparì alla velocità della luce attraverso l’uscita.
 
Subito dopo l’uscita di Sam, anche Dakota fece la sua comparsa nella stanza.
Non era meno preoccupata del compagno: le sue capacità belliche erano decisamente ridotte.
Ma dopo pochi passi, si ricordò di quello aveva detto lei stessa a Sam durante il viaggio verso Capitol: “spunterò tutti i coltelli con il mio fascino”.
“E perché no?” pensò Dakota. Sarebbe potuto funzionare.
Si avviò, quindi, fin sotto al palco degli Strateghi, e si fermò di fronte a loro. Poi si infilò una mano nei capelli, e li agitò con un gesto fluido, facendoli scorrere sulle sue spalle come un fiume dorato.
Alcuni uomini ammiccarono, Chef invece rimase a guardarla di sottecchi. Non pareva persuaso.
Dakota se ne accorse, e rabbrividì. Cercando di mantenere la calma, si incamminò verso un mucchio di armi, ancheggiando con grazia come se stesse sfilando su una passerella.
Poi prese dal mucchio la più aggraziata delle armi, un fioretto dall’elegante manico curvilineo, e cominciò a rotearlo in direzione di un manichino. Senza mai colpirlo: l’obbiettivo di quella danza aggraziata era soltanto quello di mostrare le sue qualità fisiche.
Appena si rese conto che il tempo stava per finire, posò l’arma, e ravviatasi i capelli si incamminò verso l’uscita, con la sua solita andatura da modella.
 
Erano tutte un gioco di estetica, le Sessioni Private. E fu Alejandro a confermare quella tesi.
Quando il ragazzo fece il suo ingresso nella stanza, il suo sguardo sicuro non degnò di un’occhiata gli Strateghi seduti in fondo alla stanza. Si limitò a voltarsi in modo teatrale, poi si passò una mano nei capelli ed esclamò: -Fa proprio caldo, qui dentro!-.
Effettivamente, le temperature sfioravano i trenta gradi: il freddo era mal visto a Capitol City. Ma Alejandro non si scompose: si sfilò la maglietta, e la lanciò con noncuranza alle sue spalle.
I fari illuminavano il suo torace nudo, attraversato da sottili gocce di sudore.
Poi Alejandro prese in mano una delle spade, la più grossa. Era uno spadone a due mani, ma lui riusciva a tenerlo con una mano sola. Quindi estrasse dalla manica una striscia di stoffa nera, e se la legò sugli occhi.
Stringendo con forza la spada, si tuffò in avanti, dove sapeva essere i manichini da allenamento. Poi prese a roteare la spada, velocemente, facendo volare dappertutto pezzi di imbottitura e di stoffa. Non aveva bisogno di vedere, lui: il solo movimento dei manichini gli bastava per capire dove si trovassero.
Alla fine della sessione, accaldato e fiero di sé, si scoprì gli occhi e posò la spada.
Recuperata quindi la maglietta da terra, rivolse uno sguardo compassionevole alla porta dalla quale era entrato, e uscì senza voltarsi più indietro. Non aveva bisogno di conferme per la sua perfezione.
 
Heather non deluse le aspettative in lei riposte.
Si diresse senza esitazione verso un mucchio di coltelli di tutte le forme, lisci e seghettati.
Squadrò con sicurezza il bersaglio dei lanci, e scagliò la prima arma verso la testa della sagoma umana che faceva da bersaglio. Centro perfetto: in mezzo agli occhi.
Il secondo coltello penetrò con esattezza nel mezzo del ventre del bersaglio. Il terzo nel collo. Il quarto e il quinto nel mezzo dei palmi delle mani. Il sesto arrivò nel centro del petto.
Heather squadrò teatralmente il banco degli strateghi, e sbadigliò.
Non che fosse realmente annoiata: era tutto un gioco di impressioni, non dissimile da quello di Alejandro.
Heather afferrò due coltelli insieme, e li lanciò in contemporanea verso un secondo bersaglio.
Si piantarono entrambi nei palmi delle sue mani.
Ma Heather non aveva ancora finito: afferrò due coltelli per mano, e li lanciò non verso il bersaglio, ma verso i manichini imbottiti che servivano per le armi a mano.
Le lame affilate recisero di netto le corde che assicuravano i manichini al sostegno, facendoli cadere a terra come cadaveri staccati dalla forca.
Heather si ravviò i capelli, compiaciuta. –Vorrei proprio vedere se Alejandro ha saputo fare di meglio.-
 
Con l’arrivo di Harold, l’esibizione era ormai nel pieno della sua durata.
Il ragazzo entrò nella stanza confusetto, come se fosse entrato per errore in una stanza errata.
-Ehilà, salve!- esclamò verso gli strateghi, forse in un tentativo di battuta. Inefficace.
Poi si voltò verso il mucchio delle armi, e scelse gli stessi nunchaku con cui si era allenato in precedenza.
Quindi fronteggiò un manichino, squadrandolo con aria di sfida, e cominciò a roteare l’arma.
Il nunchaku roteò veloce, sempre più veloce, sbattendo con un rumore soffocato di percussione contro la testa imbottita del pupazzo.
Veloce, sempre più veloce…
Fino a che l’arma non si abbatté, con un colpo secco, sul mento di Harold.
Il ragazzo mugolò di dolore, lasciando cadere l’arma. Gli strateghi presero a rumoreggiare.
Nessuno parve sorpreso: il distretto 3 non aveva una grande fama dal punto di vista del combattimento.
Harold, che dopo il colpo subito si era ritrovato (chissà come) seduto per terra a  massaggiarsi il mento, si rialzò. Guardando gli strateghi con un’espressione quanto più orgogliosa possibile, unì le mani e compì un perfetto inchino orientale.
Ovviamente, nessuno di quegli omoni ottusi sapeva nulla dell’Oriente. Non che fosse strano: già le conoscenze di Harold erano sopra la media.
Harold pronunciò uno stentato “namasté” e si involò attraverso l’uscita.
 
Leshawna, da parte sua, fu quanto meno accettabile.
Entrò quasi a passo di carica nella stanza, come se avesse il desiderio di finire il prima possibile quella prova.
Recuperò quindi la sua mazza chiodata dal consueto mucchio di armi, e come aveva prima fatto Harold, fronteggiò il manichino con fierezza.
Strinse febbrilmente la mazza, cercando di concentrarsi. Doveva immaginare un bersaglio concreto, qualcosa o qualcuno che le stimolasse la voglia di colpire.
Il suo primo pensiero andò ai Favoriti: come li odiava! In particolare quella ragazza mora del distretto 2… era così perfetta, con quel corpicino flessuoso… e sembrava così desiderosa di uccidere qualcuno il prima possibile. La odiava, oh, come la odiava!
-A noi due, Heather.- mormorò appena.
Poi si lanciò contro il manichino, e cominciò a menare colpi su colpi.
Andò avanti furiosamente, senza pensare a nient’altro che a colpire il suo obbiettivo, finché Chef Hatchet non le disse di smettere.
Poi se ne andò, silenziosa e minacciosa come era venuta.
 
Prima di entrare, Geoff lanciò uno sguardo alla sua Bridgette. La ragazza stava seduta su una panca, dondolando avanti e indietro sulle gambe, con aria nervosa.
Il ragazzo le fece un rapido sorriso per confortarla, e varcò la soglia.
Un brivido lo percorse alla vista degli occhi da avvoltoio di Chef Hatchet. Prese un profondo respiro, e si avvicinò alla postazione dei tridenti.
Le prime parole che gli vennero in mente quando lo prese in mano furono “Okay… come si usa questo aggeggio?”. Geoff non sapeva maneggiare il tridente, e nessun’altra arma.
Ciononostante, si avvicinò a un bersaglio, e strinse con più forza l’arma, cercando di concentrarsi.
Allungò la mano col tridente verso di esso, e lo toccò un paio di volte.
Dopodichè si voltò verso gli strateghi, e domandò: -Va bene così?-
Nessuno diede segno di aver notato la sua presenza, tranne Chef Hatchet: l’omaccione puntò gli occhi in quelli di Geoff, e fece beffardamente segno di no.
Geoff deglutì. Si avvicinò nuovamente al manichino, e lo colpì più a fondo.
-E adesso?- domandò di nuovo.
Chef ripeté il segno di diniego, rendendo Geoff ancora più nervoso.
Il tributò puntò ancora più a fondo il tridente, e finalmente la punta passò dall’altra parte.
-Adesso?- domandò per la terza volta. E qui Chef parve cambiare espressione: il suo cipiglio arrabbiato si trasformò in un ghigno malvagio.
Geoff, a quel punto, non trovò di meglio da fare che andarsene.
-Beh… ci si vede, amico.- disse. E scappò via, come se fosse inseguito.
 
Bridgette, a differenza del compagno, era relativamente calma. Ormai aveva abbandonato da un pezzo la sua aria vulnerabile e rassegnata: la sua natura razionale aveva preso il sopravvento, e aveva capito che l’unica cosa necessaria da fare sarebbe stata agire, cercare di accattivarsi qualche sponsor e non lasciare nulla al caso.
Con quella filosofia, aveva volutamente smesso di tentare di diventare un’assassina: non ci sarebbe riuscita, nemmeno se le avessero dato intere settimane per prepararsi.
Nella stanza delle sessioni private, la ragazza si diresse subito verso il centro della stanza. Si era improvvisamente ricordata di un suo vecchio talento: la verticale.
E così fece: si rovesciò a testa ingiù, e camminando sulle mani fece il giro della stanza, senza cadere.
Bridgette aveva imparato a camminare sulle mani durante la pesca dei molluschi: aveva cominciato ad allenarsi nell’acqua bassa, per poi arrivare a padroneggiare la tecnica anche sulla terraferma.
Tuttavia, appena conclusosi il giro, la ragazza notò le espressioni degli strateghi farsi impassibili: non era esattamente quello che cercavano.
Per un attimo, la ragazza parve disorientata: poi le venne improvvisamente un’idea.
Si arrampicò senza troppa difficoltà su uno degli ostacoli, e lì rimase in equilibrio, a braccia aperte. Chiuse gli occhi, e immaginò di trovarsi sulla sua tavola da surf, nel distretto 4, lontana da Capitol e dalla morte.
Alla fine dell’esibizione, semplicemente saltò giù e se ne andò senza salutare.
Non era certa che gli strateghi avrebbero apprezzato il suo talento nell’equilibrio, ma una cosa la sapeva: non sarebbero mai riuscita a trasformarla in un’assassina
 
Owen entrò con aria disorientata, come se avesse sbagliato porta. Si guardò per un po’ intorno, e alla vista di Chef e dei suoi minacciosi compagni, impallidì.
In quel momento entrò un cameriere, che reggeva tra le braccia un enorme vassoio contenente un gigantesco arrosto di bue.
Owen si leccò le labbra:-Non ne potrei avere giusto un pezzettino, signor stratega? Sembra tanto buono e succulento…-
Chef ridacchiò, e con lui alcuni tra gli altri strateghi. Owen capì in quel momento di aver fatto una colossale sciocchezza. Così, senza indugiare oltre, si avvicinò alla postazione delle armi e scelse un lungo martello.
Lo afferrò con una mano, dubbiosamente, come se si trattasse di uno spiedo, poi cominciò a ruotare su sé stesso, trascinato dal peso dell’arma, che in quel momento sembrava superare il suo.
Gli strateghi stavano a guardare, con le forchette a mezz’aria.
Poi accadde: Owen traballò e cadde, come un bue abbattuto, e lasciò andare il martello, che volò dritto dritto verso il palco degli strateghi.
Si udì qualcuno gridare “via!” e un attimo dopo il martello piombò sul pavimento con un tonfo fragoroso.
Quando gli strateghi, con Chef alla loro testa, si avviarono ai loro posti, di fronte a loro c’era un Owen imbarazzatissimo, che si tormentava le dita delle mani.
Chef ridacchiò, poi afferrata una coscia di pollo la scagliò verso il tributo come se fosse stato un cagnolino affamato.
Il ragazzone lasciò in tutta fretta la stanza, sbocconcellando la coscia.
Chef sogghignò:-Questo non arriverà alla prima nottata. Tanto vale che ingrassi ancora.-
 
Con l’arrivo di Izzy, gli strateghi cominciavano a sembrare infastiditi. Con poche eccezioni, nessun tributo sembrava soddisfare le loro brame.
Izzy sembrava poco interessata alla loro espressioni corrucciate. Camminava saltellando, placida, e sorrideva.
-Buonasera, signori strateghi! Dai, cosa sono quelle facce arrabbiate? Ancora non è morto nessuno!-
Si guardò intorno per un attimo, poi si bloccò, e come se qualcuno l’avesse chiamata schizzò verso la postazione dei prodotti chimici. Si lanciò letteralmente verso di essi, e cominciò a mescolare polverine e liquidi colorati con lo sguardo di una pazza.
-Adesso facciamo bum bum!- mormorava lavorando. –Adesso Izzy e gli strateghi fanno bum!-
Uno degli strateghi sembrava preoccupato:-Chef, non dovremmo…-
Ma la frase fu tranciata a metà: improvvisamente si sentì una fragorosa esplosione, e un fumo denso e nero offuscò la vista a tutti gli strateghi, che cominciarono a tossire e lacrimare.
Quando il fumo si diradò, e Chef e gli altri strateghi si furono rimessi a posto, Izzy era comparsa chissà come nel mezzo della stanza, e saltellava sul posto ripetendo frasi prive di senso compiuto:-Bum! Bum! A Explosivo piace tanto il bum bum!-
Poi la ragazza incontrò lo sguardo di Chef, privo di ogni sfumatura amichevole. E il suo si fece più freddo.
-Hai visto che so fare, strateguccio caro? Stai attento, perché la prossima volta potrebbe non andarti così bene.-
E dette queste parole, se ne andò sempre saltellando.-
 
Quando Brick varcò la soglia della stanza, gli strateghi erano ancora accigliati a causa di Izzy e della sua esplosione. Il ragazzo, già di per sé poco tranquillo, si fece ancora più agitato.
-Va bene… adesso vado… faccio una cosa e…- biascicava visibilmente nervoso.
Il ragazzo si sdraiò per terra, su uno stuoino, e cominciò a fare le flessioni.
Andò avanti per svariati minuti, senza mai smettere, senza mai fermarsi a riposare. Nel frattempo, gli strateghi avevano iniziato a rumoreggiare: parevano seriamente infastiditi dalla monotona esibizione del ragazzo.
-Chef, questo è un mortorio.- imprecò uno di essi.
Brick lo udì. Si alzò di scatto dallo stuoino, e proprio allora tutta la fatica delle flessioni parve piombargli addosso, come un’ondata di nausea. Traballò per alcuni istanti, poi piombò a terra.
Come se non fosse bastato, improvvisamente cacciò un urlo: era atterrato esattamente sul braccio destro, torcendsi fortemente il polso.
Rialzatosi, massaggiandosi il polso, si trovò davanti le risate degli strateghi. Quello fu il colpo di grazia.
Improvvisamente un odore acre invase l’aria, e gli sguardi generali si puntarono impietosi sul povero Brick, e sui pantaloni del ragazzo, che misteriosamente si erano bagnati.
Di fronte a un simile imbarazzo, Brick preferì non attendere oltre, e schizzò fuori dalla stanza alla velocità della luce.
 
Jo si presentò con aria tracotante, a passo di marcia.
Squadrò per un attimo la bancata degli strateghi, con aria di sufficienza: lei, a differenza di Brick, non aveva paura di loro.
Si avviò verso il mucchio di pesi, e scelse tra quelli il più grosso. Alcuni strateghi cominciarono a ridacchiare: non era frequente che una tributa scegliesse proprio quella postazione, e nella maggior parte dei casi i risultati erano poco felici.
Ma Jo sapeva benissimo di essere assai superiore a quelle ragazze sciocche, incapaci di rivaleggiare coi maschi per forza. Sollevato il peso senza particolare sforzo, la ragazza lo scagliò dritto verso i manichini più lontani, abbattendoli come birilli.
Un coro di “oooh” seguì: nessuno prima, uomo o donna che fosse, aveva mai fatto una cosa simile.
Jo ridacchiò: aveva appena cominciato.
Afferrò due pesi inferiori, uno per mano, e li fece ondeggiare una paio di volte avanti e indietro: poi li scagliò nuovamente nella direzione di prima: un boato metallico diede a intendere che i pesi si fossero scontrati.
Jo si spolverò rapidamente gli abiti, poi fece un veloce inchino agli strateghi, e se ne andò sempre a passo di marcia.

Angolo Autrice:
Okay, potete anche ammazzarmi.
Fatemi male, fatemi molto male, riducetemi allo spessore di una sogliola, pestatemi finchè non ne posso più *porge mazza*. Dovevo pubblicare questa parte della FF molto tempo fa.
Ma... ecco, ero poco ispirata. La mia passione per HG e TD si era improvvisamente e inspiegabilmente ridotta.
Questo finchè sabato non ho visto Catching Fire al cinema. Allora SAPEVO che avrei dovuto scriverlo.
Ora, per una settimana, sarò senza PC, e non potrò postare un emerito nulla. Perciò godetevi il capitolo, e ditemi chi vi piace di più in una recensione.
Se vi va, passate a controllare le altre storie che ho postato.
Trattasi di: 
-Una OS di dubbia orgine su... okay, mi vergogno a dire su cosa e chi, ma vi dico solo che è un film della Pixar pieno di creature strane, classifiche impietose, comicità fisica e ragazzine pucciose.  Il mio soggetto presenta le seguenti caratteristiche: ha dei complessi fino agli occhi, un caratterino che più adorabile non si può (capito il sarcasmo?) e un'alter ego nerd con tendenze culinarie. Ah, abita nel mio armadio.
-Una OS su uno Youtuber, il suo joystick, e una creaturina in CGI gradevole come un sasso nella scarpa.
-Una OS su una rapper culona e amante del rosa e un rapper con i denti di Enobaria e la voce di un pappagallo. (#respect).


 

 

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