L'ErrorE_/ di HuGmyShadoW (/viewuser.php?uid=38035)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** °(PROLOGO)° ***
Capitolo 2: *** °(Uno)° ***
Capitolo 3: *** °(Due)° ***
Capitolo 4: *** °(Tre)° ***
Capitolo 5: *** °(Quattro)° ***
Capitolo 1 *** °(PROLOGO)° ***
°(PROLOGO)°
Sono un ragazzo comune,
uno come tanti, perfettamente rientrante nei criteri della
normalità, che ha avuto solo la fortuna e la condanna di
nascere in una certa famiglia.
Non smettete ora di
leggere perché questa che sto per raccontarvi è
la mia storia, ma un giorno potrebbe benissimo diventare la vostra.
Il mio nome è
Jake, ho 17 anni. Non mi descriverò adesso, sarebbe
perfettamente inutile, e più avanti capirete
perché. Vivo in Germania, precisamente nella cittadina di
Loitsche, e fin qui non ci sarebbe nulla di strano, ma come presto vi
accorgerete, niente in questa storia è normale o affidato al
caso.
E infatti, il mio
cognome è Kaulitz.
Sì, lo so,
adesso sarete sorpresi, penserete ‘Non è
possibile’, ‘E’ una balla’,
‘Si sono inventati tutto’. Mi spiace deludervi, ma
è questa la verità. Scomoda, difficile da
digerire forse, ma io non ho il potere di alterare fatti già
avvenuti, altrimenti non sarei qui.
Mi chiamo Jake Kaulitz e
il mio nome, la mia vita, la mia intera esistenza è solo un
enorme, gigantesco sbaglio. Io
sono l’Errore.
°°°
Hallo
a tutti! Questa storia era un pezzo che mi gironzolava per la mente e
ho voluto provare a vedere se riuscivo a metterla su carta... Intanto
vi propongo l'introduzione, se piace continuerò a scrivere
gli altri capitoli. Vi pregherei di lasciarmi qualche recensioncina,
tanto per capire se quello che scrivo vale qualcosa o se farei meglio a
darmi all'ippica! xD
Grazie mille in anticipo a chiunque leggerà,
metterà nei prefeiti e commenterà la mia fic. A
presto!
Roby_*
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Capitolo 2 *** °(Uno)° ***
°(Uno)°
La nascita di un bimbo
inatteso, solitamente, è come la caduta di una stella
cometa, un evento emozionante ed irripetibile, una gioia immensa nel
cuore. In altri casi può essere un fastidioso problema, una
scelta sbagliata, una bruciante caduta sui pattini.
I coniugi Kaulitz
avevano appena avuto due gemelli, come previsto dalle radiografie.
Eppure, quattro mesi dopo, nacqui io, il 1° Gennaio 1990, un
anno più tardi, se vogliamo essere convenzionali. La
sorpresa fu grande perché tutti quei controlli medici non mi
avevano individuato. Che fosse stato un errore non intenzionale di un
medico inesperto o un segno del destino, nessuno mai lo seppe. E lo
sbalordimento fu ancora più grande quando i dottori si
accorsero che a tutti gli effetti io ero un altro gemello. Capite
adesso perché trovavo inutile descrivermi?
Allora, dicevo... quando
io, piccolo bimbo imprevisto, andai ad abitare a casa con i miei
genitori, i miei due fratelli avevano poco più di cinque
mesi. Non li ricordo, ma grazie alle descrizioni di mamma non mi
è difficile raffigurarmeli. Per un breve, felice periodo io
crebbi insieme a loro, sedendo sullo stesso passeggino e dormendo con
papà la notte. Poi qualcosa cambiò, si
lacerò irrimediabilmente. Simone, la mia mamma, faticava a
tirare avanti con tre figli piccoli a cui badare, e lo stipendio di
papà non bastava più. Mamma mi raccontava che
litigarono tanto in quel periodo, troppo stanchi, costretti a continui
sacrifici. Una sera papà arrivò perfino alle
mani, e di questo credo di avere un ricordo molto vago. Forse a causa
di un bicchiere di troppo trangugiato con leggerezza per lasciarsi alle
spalle i proprio problemi, forse per la rottura di una diga dentro di
sé, papà diede uno schiaffo a mia madre. Forte,
di rovescio, apposta per ferire. E anche più tardi, non gli
era dispiaciuto. Io ero presente e non potei fare nulla. Ancora oggi,
davanti ai miei occhi, si ripetono immagini in sequenza come fotografie
un po’ rovinate dal tempo: Simone che cadeva a terra con uno
strillo, che si rialzava tremando, che mi afferrava dalla culla e si
rifugiava in camera sbattendo la porta. Ci siamo addormentati piangendo
insieme, quella notte. Avevo pochi mesi, eppure questa scena
è sempre stata impressa in rilievo nella mia mente, sempre.
Alla fine, dopo sofferte
discussioni, vinse papà. Al limite della sopportazione,
costrinse la mamma a lasciarmi in adozione, o in un orfanotrofio.
Era sera, una gelida
sera di fine Febbraio. Papà era già andato a
letto, incapace ci dirmi anche solo addio, perché in fondo
mi voleva bene. Il caminetto era acceso e le fiamme gettavano luce su
tavolini, poltrone, soprammobili, che come in un grottesco gioco
manovrato da un abile marionettista, si deformavano e si allungavano a
dismisura, proiettando sulle pareti la parte meno innocua della loro
natura immobile e pacifica. Il fuoco mi aveva sempre affascinato.
Tremando e
singhiozzando, mamma mi aveva avvolto più stretto che mai in
cinque maglioni, distogliendomi dai miei leggeri pensieri, mentre io la
fissavo serio, non capendo. Aveva aperto la porta e senza guardarsi
indietro si era gettata nelle fauci della notte. L’aria della
sera mi aveva punto con mille aghi il viso, le mani, gli occhi. Avevo
freddo, ma non piangevo. Ero troppo occupato ad osservare con
curiosità le piccole stelle che, come minuscoli buchi di
luci, mi parevano salutare. Cominciò anche a nevicare, ad un
certo punto. E per me era un gioco anche quello, tentare di afferrare
con le manine i fiocchi bagnati che mi si posavano sul naso. E risi
forte, divertito.
Fu allora, credo, che
mamma scoppiò a piangere. Per tutto il tempo aveva tenuto lo
sguardo duro, fisso sui propri passi, e le labbra contratte; quel
cambiamento improvviso mi sconvolse.
Singhiozzando, mi
strinse forte al petto e si accasciò sugli scalini di un
condominio come una bambola di pezza a cui erano stati tagliati i fili.
E non capivo ancora, ma non volevo vederla così. Allungai un
braccio e le accarezzai goffamente le guance bagnate. Lei mi avvolse
ancora più stretto baciandomi la manina, poi si
alzò asciugandosi fieramente gli occhi e senza ripensamenti
si voltò. Il vento, umido di neve, sferzava la mia faccia.
Era piacevole dopotutto. A falcate decise, arrivammo a destinazione
relativamente presto. Riconobbi la casa, la mia casa, e lanciai un
gridolino di gioia. Mamma mi fece segno di non fare rumore e con
cautela mai vista la vidi infilarsi fra la porta sul retro. Sobbalzai
contro il suo petto su tanti gradini in una scalata infinita di ripidi
gradini, in controtempo coi battiti del mio cuore. Un cigolio simile in
tutto e per tutto a un lamento e... non so come, ma ad un certo punto
non vidi più nulla. Era diventato tutto buio e
l’aria aveva accolto un vago odore di chiuso.
Luce. Sbattei le
palpebre, abbagliato, e solo quando mamma mi ebbe adagiato in una culla
d’altri tempi, diversa dalla mia, capii che ero nella
“stanza sopra la casa”, la soffitta. Non ero ancora
entrato lì, e incuriosito lasciavo vagare lo sguardo senza
posarlo mai su niente.
Quella notte, mamma
rimase sempre con me. Mi parlò a lungo, mi
consolò, mi promise che non avrebbe lasciato che mi
portassero via. E io le credetti. Che altro potevo fare?
Mentre fuori nevicava,
mi addormentai al sicuro fra le braccia dell’unica donna
della mia vita, che, anche se ancora non lo sapevo, mi aveva salvato e
distrutto la vita in un unico istante.
°°°
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Capitolo 3 *** °(Due)° ***
°(Due)°
Un raggio di sole si
fece largo a fatica nella città di cianfrusaglie impolverata
che regnava nella soffitta. Filtrando attraverso lo spiraglio di una
piccola finestrella ad oblò, si muoveva lentamente, senza
fretta, ora immergendosi nel tessuto logoro di un vecchio divano, ora
scavalcando agilmente qualche sgangherato gioco da tavolo a cui
mancavano più pezzi di quanti ne contenesse, ora sbirciando
attentamente all’interno di scatoloni umidi e dimenticati da
tempo. Sembrava cercare qualcosa, il piccolo raggio di sole, ma senza
affannarsi troppo, perché sapeva bene che quello che bramava
era già lì.
Ero avvolto come in un
bozzolo da mille coperte indistinguibili le une dalle altre. Durante la
notte, il loro calore mi aveva protetto dagli spifferi, ma ora che il
giorno avanzava il loro morbido infagottarmi si faceva sempre
più soffocante. Sospirai immergendo il viso fra le pieghe
del cuscino e presi a lottare contro gli improbabili legacci della mia
prigione di stoffa. Avevo caldo, stavo sudando, ma non volevo
svegliarmi, e come se già non bastasse, una luce diretta
abbagliante che pian piano era scivolata senza un rumore lungo il mio
corpo mi aveva di botto inondato il viso. Tenendo le palpebre
furiosamente serrate, annaspai con le mani davanti al mio viso prima di
trovare il lembo del lenzuolo. Alla fine, con un gemito rabbioso,
calciai via le coperte che rotolarono inerti sul pavimento, ai piedi
del vecchio letto con le spalliere di metallo che fungeva da
“tana”. Barcollando, mi misi in piedi e mi grattai
la testa. Lunghe ciocche di capelli soffici e neri si impigliarono fra
le mie dita. Le liberai delicatamente e con gli occhi incollati di
sonno, mi trascinai a zig-zag fino ad una cassettiera addossata al muro
opposto. Schiusi le palpebre e un paio di occhi nocciola, gonfi e
ancora fragranti, insaporiti del dolce dormire della notte appena
passata ricambiarono il mio sguardo. Mi avvicinai di più
allo specchio, scrutandomi attentamente fra una macchia di ruggine e
un’altra. Mi piacevano quegli specchi, antichi, provati dal
tempo...
“Brutta
faccia...”, pensai osservandomi da più
angolazioni. Sbadigliai accarezzando l’idea di tornarmene a
letto quando un pensiero mi balenò nella mente, veloce come
un battito d’ali.
-Ehi!-, esclamai ad alta
voce, osservando che il mio riflesso apriva la bocca come un efficiente
pappagallo. Immediatamente corsi al calendario ingiallito appeso di
sbilenco alla parete. Scorsi velocemente i giorni mentre il mio sorriso
si allargava mano a mano che il tempo di carta scorreva.
-Sì!!-.
Gettai a terra il
calendario e misi subito al suo posto uno nuovo fiammante. Accarezzai
delicatamente il primo quadratino del foglio di gennaio.
-Sì!
Sì! Sì!-. Ero incapace di contenere il mio
entusiasmo, ma dopotutto, capitemi. Non si compiono 17 anni tutti i
giorni!
Feci correre lo sguardo
per la stanza, disordinato specchio della mia vita fin dai primi mesi.
Un vispo orologio
ticchettante, unica nota stonata in quella sinfonia di polvere e
lentezza mi rivelò che erano già le otto passate.
Papà sicuramente non c’era.
Con
l’adrenalina che mi ribolliva nelle vene afferrai un paio di
jeans e un maglione senza nemmeno capire di che colore fossero,
caracollai fuori saltellando per infilarmi una scarpa e chiusi la porta
sbattendola forte.
Sentivo il cuore a mille
mentre scendevo con sofferta lentezza le scale scricchiolanti che
portavano alla soffitta, e il pompare del sangue nelle orecchie mi
assordava.
Senza accorgermene
arrivai davanti all’immacolata porta della stanza da letto di
mamma. Prima di bussare gettai un’occhiata al corridoio buio.
Tutto tranquillo. Mi schiarii la voce e battei le nocche contro il
legno.
-Mamma?-, chiamai
sottovoce socchiudendo la porta. La mia voce venne assorbita subito
dalla moquette. La stanza linda e profumata era perfettamente ordinata;
solo un libro sul comodino lasciato aperto dalla sera prima e un
maglione adagiato contro lo schienale della sedia a dondolo
in un angolo regalavano un po’ più
umanità a quella camera da catalogo.
-Mamma...?-, ripetei
avanzando. Mi diressi a passi silenziosi fino al centro della stanza
seguendo il percorso tracciato dalla debole striscia di luce che
filtrava dalla porta. Mi fermai accanto al letto e tesi le orecchie.
Niente, nessuno rumore.
“Sarà
in cucina?”, mi chiesi tornando in fretta sui miei passi.
Accompagnai con delicatezza la chiusura della porta e mi voltai.
-AH!-.
Un istante dopo mi
pentii del mio strillo e mi premetti una mano sul cuore, tentando
invano di rallentare il suo battito e il mio respiro.
-Mamma, mi hai
spaventato! Perché salti sempre fuori dal nulla?-, protestai
con il fiato corto.
Lei mi
osservò dolcemente mentre mi riprendevo, poi si
avvicinò e mi carezzò la guancia.
-Scusami, Jake...-.
Che tipo, mia madre. Per
me era la colonna portante della mia vita, l’unica donna a
cui mi fossi mai affezionato. Ogni volta che la vedevo cercavo di
respirare più a fondo il suo profumo, di imprimermi bene
nella mente il suo modo di sorridere, tutto un sollevarsi di fossette,
quel suo mettere le mani sui fianchi, ogni cellula del suo
meraviglioso, dolce essere.
L’amavo. E lei
amava me.
Con un sorriso, Simone
mi distolse dalle mie contemplazioni.
-Stavo per venire a
svegliarti. Vieni in cucina, c’è una sorpresa per
te!-. Nel dirlo si illuminò in volto, e anche non sapendo
cosa mi aveva preparato, era quello il mio regalo più
bello. La presi per mano e mi lascia guidare senza esitazioni
lungo il corridoio buio e poi giù per le ripide scale di
legno, attraverso l’atrio e fino in cucina.
-Papà non
c’è vero?-, le domandai con una punta
d’ansia nella voce.
-No, non è
ancora tornato da ieri sera... Adesso però dovresti chiudere
gli occhi-, ridacchiò con una mano già sulla
maniglia della porta.
-Ma dai, mamma! Non ho
più cinque anni!-, sbuffai.
Nei suoi occhi
calò un’ombra come un sipario e capii
all’istante di averla ferita. Mi morsi la lingua e sospirai.
-Va bene... Ecco, sono
chiusi!-, esclamai serrando per bene le palpebre.
Immaginai il suo sorriso
mentre mi mormorava -Resta qui...- e spariva oltre la soglia.
Più leggera di un soffio di vento, la presa della sua mano
svanì e le mie dita strinsero il vuoto.
Capii
all’istante quando fui veramente solo. Il silenzio era tutto
intorno a me e una vertigine aveva preso a contorcermi le budella.
Lì, vicino al semplice portaombrelli, ad un passo dalla mia
isola di salvezza, mi sentii come sull’orlo di un precipizio.
Potevo quasi sentire il vento fischiare nelle mie orecchie e se solo
avessi allungato il piede, probabilmente non ci sarebbe stato
più nulla a sostenermi... Mi spostai di un centimetro
più avanti, sempre ad occhi chiusi, e mi aspettai di sentire
il vuoto piombare sotto le mie dita...
-Jake-.
Sobbalzai.
-Jake... Ora puoi aprire
gli occhi-.
Con cautela, sollevai
prima una palpebra e poi l’altra. Niente precipizio. Niente
strapiombo incombente sotto i miei piedi, solo il vecchio, consumato
parquet di sempre.
Alzai gli occhi,
attirato da un chiarore.
Con un sorriso grande e
luminoso come la luna a sovrastare tante candeline in fila, Simone mi
porse una torta bellissima, glassata, invitante come nessun altra.
-Buon compleanno-.
Ci spostammo in cucina,
dove mi attendeva un pacchetto innocentemente posato sul tavolo. Soffia
sulle candeline, diciassette, blu come il cielo, e le spensi tutte in
un colpo. Nonostante le insistenze di mamma, preferii non esprimere
nessuno desiderio.
Con una fetta del dolce
davanti per ciascuno, Simone aspettò che aprissi il mio
regalo multicolore. Lo scartai con impazienza, facendo a brandelli la
carta, ed esibii un’impeccabile espressione da festeggiato
stupito.
Per farla contenta, solo
per la sua felicità.
Chiacchierammo tanto,
parlando del più e del meno, del tempo, del nuovo anno, di
papà, dei vicini, stando bene attenti a non toccare
l’argomento “fratelli”.
Il grande orologio sopra
il forno ormai segnava le dieci passate; entrambi sapevamo che
papà sarebbe tornato da un momento all’altro, ma
nessuno dei due intendeva finirla così.
Lanciando un breve
sguardo alla cucina ordinata, sospirai, pensando a quante volte avevo
abbandonato la mia cena solitaria per spiare loro, i miei fratelli e i
miei genitori, mangiare ridendo, conversando, felici, sereni... Io non
avrei mai fatto parte di questa famiglia, lo sapevo bene.
Sospirai, stuzzicando
con la forchetta la mia fetta di torta quasi intatta. Mamma se ne
accorse.
-Non ti piace?-.
Alzai gli occhi,
allarmato.
-No, no, è
buonissima! Davvero!-, esclamai.
Simone sorrise
morbidamente, di un sorriso umido, non solare come al solito. E
anch’io ricambiai lo stesso tipo di sorriso. Posai la
forchetta.
-Grazie mamma. Questo
è il più bel compleanno della mia vita-.
E coccolato dolcemente
da quel profumo di casa, rimasi sorpreso del fatto che lo pensavo
davvero.
°°°
Come
miya
shinizuu mi ha fatto notare, nel capitolo precedente è
scritto che Jake è nato quattro mesi dopo rispetto agli
altri due gemellini. Io non sono molto informata sulle gentica e
simili, però credo possa succedere che un bambino si formi
in ritardo rispetto ai fratelli, anche a mesi di distanza (in casi
più unici che rari... -_-'); diciamo che mi prendo questa
licenza poetica, e voi, se potete, perdonate
l'inverosimilità degli inizi.
Ringrazio quanti hanno commentato e quanti hanno messo la mia storia
fra i preferiti. Cercherò di aggiornare il prima possibile.
Baci <3
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Capitolo 4 *** °(Tre)° ***
°(Tre)°
Fui il primo ad udire la porta sul retro che sbatteva. Trasalii e
balzai in piedi con un sussulto. L’adrenalina aveva ripreso a
circolare, permettendomi di avere una percezione più
accelerata del mio mondo. Afferrai il piatto ancora pieno davanti a me
e lo gettai nel lavabo, nel quale atterrò con un tonfo
secco. Con il cuore in gola, sfrecciai a scaraventare la torta nel
frigorifero, con coltello e tutto. Infine, mi voltai per dare un bacio
a mamma e notai che non si era ancora mossa dalla posizione in cui si
trovava: la schiena curva, la testa bassa, le spalle cascanti.
-Mamma?-, chiamai
preoccupato inginocchiandomi davanti a lei.
Lei sorrise asciugandosi
gli occhi e mi prese le mani.
-Scusami, Jake... Avrei
tanto voluto che questo fosse stato un compleanno diverso, per te-.
Mi allungai a baciarle
la guancia senza riuscire a mandare giù il groppo che mi
bloccava la gola.
-Lo è
stato... Grazie di tutto-.
Lei ridacchiò
istericamente e mi carezzo il viso, delicata come il battito
d’ali di una farfalla.
Passi
nell’atrio.
-Simone, ci sei?-.
-È
papà... Devo andare-, sussurrai in fretta e furia. Strinsi
le sue mani nelle mie e sfrecciai fuori proprio nell’istante
in cui la seconda porta della cucina si apriva.
-Simone... Che
succede?-, sentii chiedere papà prima di imboccare
tristemente le scale e raggiungere di nuovo la mia Tana. Mi chiusi la
scricchiolante porta di legno alle spalle e barcollai a stendermi sul
mio letto tutto cigoli.
A pancia in su, rimasi a
fissare per un lasso di tempo interminabile la polvere vorticare in una
strana danza lungo il cono di luce proiettato dalla finestrella. La
luce cambiò, diventò più morbida e
scura, solo un pallido riflesso del giallo intenso di quella mattina.
Non sentivo niente, né la fame né il bruciore
delle lacrime che mi scorrevano pigre sulle guance. Il tempo passava,
passava, passava, senza un qualcosa che potesse attirare nuovamente la
mia attenzione e risvegliarmi da quello stato catatonico in cui mi
trovavo. Potevo solo guardare senza vedere davvero il soffitto e
pensare; più che altro, immaginare, fantasticare... Come
sarebbe stata la mia vita se il destino avesse deciso diversamente per
me, cosa avessi provato nell’essermi svegliato in un vero
letto, in una vera stanza, magari proprio quella mattina, il mio
compleanno. Sorrisi, mentre altre lacrime, a mia insaputa, mi
sgorgavano dagli occhi arrossati e stanchi. Faceva troppo male pensare
agli “e se...”, perciò smisi.
Altri secondi, minuti,
ore che si accumulavano inerti in un angolo della mia stanza e da
lì mi fissavano con occhi spenti...
Solo quando fui scosso
dai primi spasmi mi accorsi di avere freddo. Sbattei le palpebre,
confuso, mi asciugai gli occhi e afferrai l’orlo delle tante
coperte. Avevo le braccia e le mani intorpidite, tanto che solo dopo
alcuni tentativi riuscii a tirarmele con un sospiro fin sopra la testa.
Al caldo, sotto quell’improvvisato rifugio nel Rifugio, mi
concessi di chiudere gli occhi e far finta di non esistere. A poco a
poco il freddo si calmò. Forse mi addormentai. Persi di
nuovo la cognizione del tempo... ma l’avevo mai avuta?
All’improvviso
mi svegliai, non bruscamente, quasi incalzato da qualcosa. Sbadigliai e
finalmente mi azzardai a far capolino con la testa dal mio fagotto di
coperte, anche perché stavo soffocando lì sotto!
Mi rizzai a sedere ancora intontito e volsi lo sguardo in alto...
-Wow-, mormorai
improvvisamente sveglio, alzandomi in piedi sul letto. Dal cielo
malinconico e grigio, solo un ricordo sbiadito del blu terso di quella
mattina, fioccavano disordinatamente angeli bianchi. Piccoli o grandi,
svelti o restii a lasciare la propria nuvola,
un’infinità di fiocchi di neve scendevano dal
cielo. Mi avvolsi una coperta attorno alle spalle e salii sopra al
comodino, in prossimità dell’unica finestrella ad
oblò della mia “camera”.
Lo spettacolo che mi si
parò davanti mi spezzò il fiato. La
città, sotto di me, imbiancata e silenziosa, sottomessa al
candore della neve. E capii.
Che lungo le strade
ghiacciate non sarebbe passata alcuna macchina; sui tetti di zucchero
filato non avrebbe saltato nessun gatto; i vialetti sarebbero rimasti
vuoti delle passeggiate degli adulti. La neve proteggeva il silenzio e
l’innocenza...
Sbam!
Il tonfo secco della
porta che sbatteva mi fece quasi cadere dal comodino per il salto di un
metro che feci! Scesi prudentemente rabbrividendo al contatto dei miei
piedi col pavimento gelato. Trascinandomi dietro la coperta come una
specie di strascico imbottito saltellai in punta di piedi verso
l’entrata.
In un primo momento
credetti di essermi perfino sbagliato, di non aver mai sentito niente
perché nella penombra sempre più fitta non scorsi
alcunché. Stavo per tornarmene alla finestrella,
intenzionato a passarci l’intero pomeriggio e forse anche la
sera, quando un lembo colorato di qualcosa che non avevo proprio notato
attirò la mia attenzione. Tornai indietro e mi inginocchiai
vicino alla “cosa”, mezza infilata sotto la porta.
La tirai fuori e me la alzai davanti al viso, aguzzando la vista,
curioso. Quando capii di cosa si trattasse non potei fare a meno di
sorridere. Me lo strinsi al petto e corsi ad imbacuccarmi di nuovo a
letto: gli spifferi nella Soffitta erano tremendi e non potevo
permettermi di ammalarmi! Mi avvolsi stretto nelle coperte,
improvvisamente euforico, e accesi la piccola lampada a braccio che
stazionava da sempre sul mio comodino. Mi ravviai i capelli spostando
dietro le orecchie un ciuffo scuro dispettoso. Eccitato, accarezzai il
dorso del volumetto nero a scritte oro, il mio unico regalo di
compleanno.
‘Oceanomare’
recitava l’elaborata grafia dorata sulla copertina.
“Mmm...
Chissà com’è”, pensai
curioso.
Sollevai la copertina
rigida e l’immagine di un mare arrabbiato, grigio,
tumultuoso, eppure affascinante e seducente mi apparve sotto il titolo,
stavolta declamato in un carattere nero più sobrio.
Fuori, la neve
continuava a cadere silenziosamente, ma io ero già stato
rapito dalle onde di parole, frasi e pagine che i miei occhi scorrevano
rapidamente. Dietro quella pagina bianca si accavallavano maree spumose
e fiotti color acciaio implacabili e morbidi e orizzonti infiniti
dipinti di sole. I miei occhi scivolavano insaziabili sulle ordinate
file nere, scoprendo a poco a poco un mondo diverso mai immaginato.
Infine, posai il libro.
L’avevo finito incredibilmente in fretta, affamato di quel
sapore di salsedine che potevo sentire provenire dalle pagine, affamato
di vita, di racconti altrui, anche se così tristi e
orribilmente veri. Gli occhi mi bruciavano e mi sentivo la testa
pesante. Sbadigliai, pronto a lasciarmi andare al mondo dei sogni,
quando un rumore al piano di sotto mise in allarme i miei sensi. Tesi
le orecchie. Una porta che si chiudeva non troppo silenziosamente.
Risate soffocate. Voci maschili, giovani, chiare. Altre risate ed
infine un silenzio costellato di qualche raro sussurro.
Abbandonai la testa sul
cuscino con un sospiro e mi stropicciai stancamente la fronte.
Accidenti. E chi se lo poteva ricordare che proprio oggi sarebbero
tornati a casa i miei fratelli?!
°°°
Ta-daaan! Colpo di scena! ^^
Scusatemi se non aggiorno sempre presto, ma i miei impegni verso la
comunità crescono di giorno in giorno, allontanandomi sempre
più dal pc! T^T
Ma non temete, in qualche modo riuscirò a scrivere
qualcosina per voi!
Allora, ringrazio chi ha messo la mia ficcy fra i preferiti, chi ha
commentato (sperando che mi lasci una recensioncina sempre :P) e anche
chi ha solo letto, che mi fà tanto felice lo stesso! ^^
Vi saluto, alla prossima!
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Capitolo 5 *** °(Quattro)° ***
°(Quattro)°
Il mattino seguente mi svegliai lentamente, senza alcuna fretta, come
una farfalla che esce dal suo bozzolo. Nessun raggio di sole
impertinente o uccellino che si schiantava contro la finestra erano
stati la causa del mio risveglio prematuro, e forse fu proprio
perché l’avevo deciso io che aprire gli occhi fu
quasi piacevole. Mi stiracchiai pigramente, sbadigliando alla vecchia
pendola a cucù incastrata fra il vecchio armadio di legno e
la vecchia scatola di vecchi peluche. Non si poteva negare che la mia
Tana fosse ben fornita di pezzi d’antiquariato...
Mi alzai di buono, anzi, di ottimo umore e mi ritrovai a infilarmi i
jeans del giorno prima fischiettando sottovoce
“Livin’ la vida loca”: quel giorno ero
proprio in vena di follie, avevo voglia di vivere la mia vita in modo
pazzo, proprio come nella canzone. Anche se forse, prima di tutto, la
mia vita dovevo viverla...
Lanciai un’occhiata alla finestrella rotonda semi aperta
dalla notte appena trascorsa, e di rimando il cielo grigio e arrabbiato
sembrò scrutarmi con dolorosa attenzione.
Un brivido freddo mi attraversò la schiena, per cui corsi ad
mi infilarmi l’ennesimo maglione, rosso, sopra agli altri due
che già indossavo. Adoravo il blu, praticamente avrei
indossato solo quel colore, e invece quasi ogni maglione, t-shirt, o
camicia che possedevo erano bianche, arancione o nere.
Un’altra piccola ingiustizia della vita. Ma in fondo, che
m’importava dei colori?
Stavo per scendere a fare colazione, ma prima gettai
un’occhiata frettolosa alla sveglietta azzurra (almeno
quella!) e mi bloccai in mezzo alla stanza. Era troppo presto? O troppo
tardi? Non avevo idea di quando si svegliassero abitualmente i miei
fratelli... E se li avessi incrociati per le scale, o in camera di
mamma? Che spiegazione avrei dato loro? Preferii non pensarci.
Con cautela, mi avvicinai in punta di piedi alla porta e la socchiusi
di qualche centimetro, rimanendo in ascolto. Nessun rumore. Mi azzardai
ad aprirla un po’ di più e ad affacciarmi fuori
con la testa. Silenzio più assoluto. Erano tutti a letto, a
quanto pareva...
Il mio stomaco diede in un debole ruggito di protesta per la fame e
l’eco che si propagò giù per le scale
sembrò un boato nella calma sonnacchiosa della prima
mattina. Mi premetti la pancia con le braccia per soffocare i brontolii
e mi apprestai a fare una capatina in cucina alla ricerca di qualcosa
da mettere sotto i denti.
Durante la mia lenta e attenta discesa, ogni gradino scricchiolante,
ogni fruscio fuori dalla finestra mi facevano sobbalzare e tendere
spasmodicamente le orecchie alla ricerca della fonte di quel rumore,
immobilizzato; dopo qualche secondo mi tranquillizzavo e riprendevo a
scendere, scalino dopo scalino, col cuore in gola e uno strisciante
panico posizionato più o meno dietro la nuca.
Dopo il doppio del tempo che ci avrei messo per arrivare a piano terra
senza nessuno in casa, finalmente, nella luce acerba del mattino che
filtrava dalla porta a vetri, la porta bianca mi si parò
davanti. La aprii, titubante, e mi avvicinai subito al frigo, bianco
anch’esso. Quando lo spalancai, per un momento la luce
interna mi abbagliò, tanto che dovetti chiudere gli occhi
per qualche secondo prima di riprendere a distinguere qualsiasi cosa.
“Vediamo, vediamo...”, rimuginai fra me e me
procedendo nell’esplorazione. C’era qualche
confezione di latte aperta, diverse lattine di Redbull, comprate
apposta per i miei fratelli probabilmente, frutta, verdura, merendine
e... ah, la torta di ieri! Ancora intatta. Mamma doveva essere riuscita
a difenderla bene. Un’immagine molto fantasiosa di mia madre
con un mitra in mano e l’elmetto in testa di guardia al
frigorifero mi fece sorridere. Ce l’avrei anche vista,
mettere a rischio la propria vita per proteggere glassa e candeline!
“Questa è meglio farla sparire”, pensai
afferrando delicatamente il dolce e allungandomi a pescare una
forchetta e un coltello da un cassetto. Posai il tutto sul tavolo
bianco della cucina, chinandomi ancora sullo sportello aperto per
decidere che prendere da bere.
Un rumore soffocato che non riuscii ad identificare mi fece drizzare
improvvisamente. Silenzio. Forse me l’ero solo immaginato.
Alzai le spalle e mi rimisi a trafficare col frigo tendendo bene le
orecchie. Un altro rumore. Non potevo sbagliarmi, stavolta! Balzai
indietro con il cuore che mi batteva forte nelle orecchie e ascoltai,
ascoltai con tutto me stesso, teso come mai prima di allora.
Un colpo di tosse, proprio ai piedi delle scale, nell'atrio, e un'ombra
che si allungava sempre di più sotto la fessura della porta.
-Merda...-, mormorai voltandomi e precipitandomi fuori dalla cucina,
attraverso la porta di servizio. Ai piedi avevo solo un paio di calzini
ai piedi, e slittando qua e là sul pavimento stralucido,
corsi fuori in giardino, sull'erba ghiacciata, affiancato costantemente
dalla mia ombra che mi teneva testa senza alcuno sforzo. Col fiatone e
una paura gelida che non dipendeva dalla temperatura esterna attorno ai
meno 5°C, mi appoggiai al muro e vi ci scivolai contro, fino a
toccare terra, sfinito. Per qualche minuto rimasi ad osservare il sole
timido e stanco oltre la coltre di nuvole tentando di riprendermi,
mentre un solo pensiero mi scorreva nella mente: potevo essere visto.
L'unica incognita era da chi...
Il mio sedere stava diventando un blocco di ghiaccio, perciò
mi rialzai in piedi battendo i denti. E se fosse stata solo Simone,
scesa per un bicchiere d'acqua? La mia lotta interiore stava diventando
un affare di Stato per la mia mente, combattuta fra i due sentimenti
che si sfidavano a colpi di sciabole nella mia testa. Non so dire
quanto passeggiai avanti e indietro cercando di decidermi a favore di
una delle due idee che mi ronzavano dentro, ma se fosse stata estate,
il cemento sotto i miei piedi sarebbe diventato rovente!
Alla fine, la curiosità ebbe il sopravvento sulla paura,
poiché fu di certo la curiosità a farmi
strisciare di nuovo attorno alla casa fino all'ingresso sul retro.
Ancora quei brandelli di responsabilità e paura cercavano di
attirare la mia attenzione, mail desiderio di sapere chi c'era in
cucina li seppellì ben presto.
Senza rendermene conto, arrivai. La porta era chiusa male
come l'avevo lasciata. Non era mamma dunque, lei se ne sarebbe accorta
all'istante e l'avrebbe accostata con precisione... forse era
papà, o forse, forse...
Mi arrampicai sopra un secchio rovesciato per arrivare alla piccola
finestrella della cucina, ci sbirciai dentro e per poco non ruzzolai a
terra! Miracolosamente mi aggrappai al pressoché inesistente
davanzale, riuscendo a farlo nemmeno troppo rumorosamente e attesi,
cercando di cogliere qualunque rumore che lasciasse presagire che Tom,
che ora si stava sbafando tranquillamente la mia torta, avesse scoperto
la mia presenza. Poiché non sentivo nulla e mi stavo
stufando di rimanere mezzo accucciato e aggrappato per le unghie,
provai a rialzarmi per dare un'altra occhiatina. Sospirai di sollievo
quando constatai che il mio fratellone coi rasta non si era accorto di
niente, e mi accigliai, un po' meno contento, quando mi accorsi che
aveva praticamente finito tutto il mio dolce.
E mentre fissavo con disappunto quella leccornia al cioccolato sparire
nello stomaco di quell'ingordo del mio gemello, mi domandai questa
cosa: Se qualche vicino troppo mattiniero avesse messo fuori la testa
in questo momento, cos'avrebbe visto? Un ragazzo alto e longilineo con
una gran massa di corti capelli neri in calzini che spiava nella casa
dei vecchi Kaulitz, mi risposi. Decisamente non sarebbe stata una bella
immagine. Senza contare che qualche nonnina più furba delle
altre con un bel po' di anni alle spalle avrebbe potuto tranquillamente
scambiarmi per un ladro o un malintenzionato, e chiamare la polizia. E
nemmeno questa sarebbe stata una buona cosa.
Il mio stomaco brontolò ancora una volta, protestando alla
vista dell'ennesima fetta che svaniva come per magia al semplice
lavorio di mascelle di Tom. Già, Tom... Lo osservai bene per
tutto il tempo che rimase ad ingozzarsi e finché non
sbadigliò e se ne tornò di sopra sbattendo la
porta, lasciando torta e bibita sul tavolo.
Non è che non l'avessi mai visto, avevo quei pochi ricordi
sbiaditi dell'anno passato assieme a lui e a Bill, e ovviamente mamma
comprava qualunque rivista che nominasse anche di sfuggita i Tokio
Hotel, per cui potevo quasi affermare di conoscere tutti i componenti
della band. Averceli in casa però era un altro paio di
maniche!
Soffiai fuori un po' di vapore verso il cielo, tanto per vedere come si
confondeva con le nuvole e solo in quel momento mi accorsi di star
tremando violentemente. Non mi sentivo più i piedi,
perciò saltai giù dal secchio e presi a pestare
per terra, tentando di tornare a far circolare il sangue nelle dita.
Non ce la facevo più, dovevo tornarmene dentro, al
calduccio! Mi avviai verso la porta e la socchiusi, avvertendo
già il familiare calore della mia Tana, quando qualcuno dai
capelli scuri mooolto arruffati si materializzò
stiracchiandosi all'altra entrata della cucina. Imprecai fra me e me
facendo immediatamente marcia indietro e correndo di nuovo al mio
secchio. Era Bill, ovvio. Ringraziai il cielo che avesse il risveglio
lento e fosse riuscito ad aprire gli occhi solo quel tanto che bastava
per centrare la porta, altrimenti mi avrebbe scorto di sicuro!
Sarei rimasto ore ad osservare i miei fratelli, ma il freddo intenso
partito dai miei piedi mi era ormai arrivato al cervello,
rendendo le riflessioni strategiche per tornarmene in Soffitta senza
farmi vedere decisamente più faticose.
“Allora, se io passo di qua c'è Bill. E se
entrassi dalla porta principale? No, no, è chiusa a
chiave... Quindi devo aspettare che si alzi mamma e... ma che dico, non
posso aspettare chissà quanto tempo, sto congelando
già adesso! Merda...”.
Come se non avessi già perso la percezione di quel paio di
orecchie ai lati della testa, una brezza freddo si mise a soffiare,
attraversando i miei tre maglioni e trafiggendomi la carne con mille
spine di ghiaccio. Ormai stavo improvvisando un esibizione di tip tap
per riuscire a scaldarmi almeno un po', e come pubblico avevo solo
l'urlo del vento e lo stridio dei rami dell'albero dietro casa...
Aspetta un attimo... L'albero?
Un'illuminazione a forma di lampadina mi si accese sopra la testa
mentre costeggiavo il muro scrostato della casa e sfrecciavo dritto
dritto alla vecchia quercia nodosa che si stagliava contro il cielo
ingrigito come una figura stilizzata per bambini.
Mi avvicinai guardandomi attorno con attenzione,
nell'eventualità che le solite vecchiette stessero guardando
proprio dentro casa, ovvio, e presi a tastare il tronco e i rami bassi
della pianta come se fossi cieco, appoggiando gradualmente il peso ora
su questo tralcio, ora su quella fronda. Aveva i suoi anni, quel
bestione, ma tutto sommato sembrava abbastanza sicuro...
Sbuffai, prossimo all'assideramento, maledissi almeno cinque volte il
mio stomaco brontolone, mi accucciai in modo d'avere più
spinta per raggiungere quel ramo che sembrava tanto perfetto e...
saltai!
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