Once Upon a Time picture presents

di Rucci
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Barbablù ***
Capitolo 2: *** Biancaneve ***
Capitolo 3: *** Intermezzo [I] ***
Capitolo 4: *** Cappuccetto rosso ***
Capitolo 5: *** La bella addormentata ***
Capitolo 6: *** Intermezzo [II] ***
Capitolo 7: *** Cenerentola ***



Capitolo 1
*** Barbablù ***


Gemini no Kanon

« Once Upon A Time » Pictures presents...

 

 

 

Gemini Kanon & Wyvern Rhadamantis in

 

« Barbablù »

 

 

C’era una volta, in un paese tanto lontano, un uomo tanto ricco quanto strano.

Su di lui circolavano le dicerie più disparate, ma nessuno osava denunciarle come si conviene, poiché lord Rhadamantis era il reggente della contea, ed aveva sempre governato con metodica moderatezza. Ciononostante, sul suo temperamento collerico – una leggenda, stando ai tanti che avevano provato di persona i suoi modi impeccabili e glaciali – correvano voci tanto bizzarre quanto inquietanti. Si era persino guadagnato il soprannome di Barbablù, e tutti nel regno ormai si riferivano a lui in quel modo, a mezza voce, tra un pettegolezzo e l’altro. Questo benché le chiome del signore fossero biondo champagne ed egli si presentasse sì con un minaccioso, cespuglioso, unico sopracciglio, ma di barba nemmeno l’ombra.

 

“Il signore non ha la barba blu” consolava, il fratello, la sorellina singhiozzante, attento a non mostrarsi troppo apprensivo, e continuò più dolcemente che poteva: “nemmeno un po’ blu.”

“Per forza non ce l’ha blu, non ha né barba né baffi. Qualcuno te l’ha mai spiegato perché lo chiamano Barbablù?” s’intromise un secondo ragazzo, che dell’altro pareva il riflesso allo specchio. Entrambi giovani e atletici, della stessa età, gli stessi lineamenti; il secondo che aveva parlato si dondolava, più disinteressato del gemello, penzolando una gamba dall’albero su cui si era appollaiato.

“Non l’ho mai chiesto, Kanon.”

Saga accennò uno sguardo di rimprovero ai rami che gli nascondevano il fratello, per tornare a carezzare i capelli della sorella minore. Non si dava pace, la poveretta, da quando la madre aveva dato loro l’annuncio che Barbablù aveva intenzione di presentarsi, due giorni dopo, per chiedere la mano di una delle – era rinomato – bellissime figlie della gran dama che viveva in città. L’una o l’altra, aveva precisato per iscritto, non faceva la differenza; e l’altra sorella versava più o meno nelle stesse condizioni, inorridita, solo che in quel momento giaceva a letto, stremata per i troppi infusi di valeriana con cui avevano dovuto sedare le sue crisi isteriche.

“Beh, io sì.” Un luccichio degli occhi veloce, scaltro, aveva accompagnato quella ripresa subitanea del discorso, con un sorrisetto fuori luogo. “E sai cosa? Non lo sa nessuno. Fanno la faccia scura e distolgono lo sguardo, biascicando tu non lo vuoi sapere…”

La dolce, sensibile sorellina scoppiò in sonori singhiozzi.

Saga lo fulminò.

“Beh…” si ritrasse, l’altro, quasi offeso. “È per dire che in verità non lo sa nessuno! Fanno tutti finta, ecco cosa!”

Ma ormai nessuno dei due lo ascoltava più. La giovane tirava su col naso, disperata, sillabando a mezzo del gran pianto: “Ma lo sape… te che… che fine hanno fatto le mo-mogli di Bar… di Barbablù? Nessuno lo sa, nessuno!” mugolò qualcosa mentre si soffiava il naso con il fazzoletto che Saga premurosamente le porgeva “…uno! Ecco! E io non lo voglio non lo voglio non…” Un altro singhiozzo. “Voglio morire...!” rantolò, buttandosi sulle ginocchia del fratello maggiore. Saga sospirò, sconsolato. La gran dama loro madre non aveva intenzione di costringere nessuna delle due figlie a tanto azzardate nozze, sebbene le ricchezze di Barbablù avrebbero reso possibile alla famiglia una sistemazione economica migliore. Essa aveva anche due figli maschi, ai quali voleva preparare l’avvenire, ed organizzare loro un matrimonio come si deve.

Ciononostante…

 

“Ebbene, signore? Quale tra le mie figlie preferite?”

Lord Rhadamantis aveva sorriso serafico, scatenando il tremito convulso di entrambe le sorelle, e con lo sguardo apparentemente cortese da serial killer decretò, con tutta l’aria di chi sta facendo una semplice osservazione:

“Tra loro, le mie preferenze vanno alla graziosa, radiosa fanciulla laggiù, dagli splendidi capelli dai riflessi del colore delle onde del mare.”

Il ritmo cadenzato con cui aveva parlato suonava come una garbata condanna a morte, comprese le metafore formalmente impeccabili. E un breve silenzio fu d’obbligo, nei secondi seguenti.

“…prego, mio signore?”

“Lei. La fanciulla dagli splendidi capelli dai riflessi del colore delle onde del mare” ripeté pazientemente il nobiluomo. Con un tono che ammazzava qualsiasi possibile replica in gola.

Saga e Kanon si erano voltati l’uno verso l’altro.

Saga per primo, in verità. Definirlo perplesso sarebbe un gradito eufemismo.

Stessa cosa doveva pensare la madre, da come diede ingenuamente le spalle al proprio ospite per rivolgersi ai due figli, che nemmeno sedevano sul divano, relegati in secondo piano. Passò con sguardo ebete da uno all’altro. Effettivamente, il commento del conte poteva benissimo riferirsi ad entrambi.

“No” chiosò con notevole savoir-faire lord Rhadamantis, nemmeno avesse letto loro nel pensiero “quella ha certamente splendidi capelli dai riflessi del colore del cielo notturno. Sono invero molto simili. Ma non è lei la fanciulla di cui parlo. I suoi capelli sono, invece, dai riflessi del colore delle onde del mare. Mi sembra molto chiaro.”

La piccola dissertazione diede di che riflettere a tutti gli astanti, per qualche secondo ancora.

La gran dama non si era preparata psicologicamente a un risvolto del genere.

Una delle sorelle pensava in cuor suo che l’appunto era molto pertinente.

L’altra che avevano davvero a che fare con un pazzo maniaco.

Saga rimase in silenzio.

Kanon si grattò il naso.

“Ebbene, ho deciso che sarà lei la mia sposa.”

“Ma… signore, siate ragionevole… non vedete che…?”

“Le vostre figlie sono indubbiamente le più belle della contea. La loro fama è meritata.”

“Vi ringrazio, mio signore, ma…!”

“E anche il tè che avete fatto servire era discretamente apprezzabile.”

“Vi ringrazio, tuttavia…”

“Quale parte del mio discorso non vi è chiaro, mia signora?”

Saga rimase in silenzio. Le due sorelline si tenevano per mano, impietrite, sentendosi autorizzate a defilarsi verso un angolo della stanza. La nobildonna, confusa, boccheggiava passando lo sguardo dall’arcigno profilo del gigante che troneggiava sulla stanza allo sbattere di palpebre del minore dei due gemelli; le sopracciglia discretamente inarcate parevano l’unico segno estraneo alla riflessione in cui era evidentemente immerso il ragazzo. Che, proprio mentre la dama pareva essere in grado di riprendere a parlare – balbettava, in sottofondo, qualche residua richiesta di delucidazioni – si riassettò i vestiti, si esibì in un modesto, compito inchino, e dando prova di notevole eroismo accettò la sua sorte e si congedò dal gruppo per andare di là a spazzolarsi i capelli.

 

La cerimonia si svolse in maniera pacifica e discreta, senza troppi preamboli né fronzoli.

Kanon apprezzò modestamente e rese grazie allo sposo. Dopotutto, non ardeva dalla voglia di presentarsi velato in chiesa, con a seguito una barca di mocciosi a reggergli lo strascico. Come dire, non faceva per lui. Ad ogni modo, ora era sposato con Barbablù.

Stava ancora metabolizzando per bene il fatto, dondolando la testa ad ogni scossone della carrozza che li stava conducendo allo splendido palazzo del conte. Lord Rhadamantis suo marito sedeva di fonte a lui, le braccia incrociate e le gambe accavallate e lo guardava. Sorridendo. Quando se ne accorse gli sorrise di rimando, imitando alla perfezione quel ghigno beffardo, più scanzonato, e con aria innocente si sistemò più comodamente sui morbidi sedili e stese per bene le gambe, perfettamente a suo agio. Non si erano detti una parola per tutto il viaggio. Gli occhi del signore brillarono di una strana luce fredda, quando lo vide assumere quel blando ma palese atteggiamento di sfida. Kanon avrebbe azzardato osservare che ne sembrava quasi compiaciuto. Non disse nulla. Aveva salutato con una pacca sulla spalla il suo sconvolto fratello gemello, baciato le sorelle, preso commiato da una madre con qualche capello bianco in più, tutto senza riuscire a farsi strappare dai loro sguardi un qualsiasi commento sul “fattaccio”. Ma la verità, per esser franchi, era che era discretamente curioso di vedere come sarebbe andata a finire.

Per essere ancora più franchi, moriva dalla voglia di cominciare a ficcare il naso in giro.

 

“Accadrà spesso che io debba assentarmi per lavoro.”

La voce possente del padrone di casa rimbombava, senza essere disturbata dall’eco, per gli alti corridoi. Kanon si guardava in giro, la bocca schiusa, registrando svelto tutti i particolari. Lo sfarzo della villa non le precludeva una distinta eleganza, di cui il padrone di casa aveva ben di che essere orgoglioso. Le decorazioni, i mobili, le tende, tutto riempiva il giovane di grande meraviglia. Contenne il suo entusiasmo, ancora sul chi vive, ma lodò a voce alta i quadri appesi alle pareti. La servitù, che era stata chiamata e disposta in due ordinate file lungo i lati del corridoio perché potesse dare il benvenuto alla nuova padrona di casa, vide Lord Rhadamantis sorridere dall’alto della sua signorilità, evidentemente fiero della propria magione, nonché del buon gusto della moglie. Perciò nessuno, malgrado lo scetticismo che accompagnava i passi baldanzosi del giovanotto sconosciuto, osò protestare.

“Mi ascolti, Kanon?”

Il ragazzo trasalì, nel sentire il suo nome scandito da quella voce profonda. Si fece avanti.

“Certo.”

“In mia assenza sarai tu a custodire le chiavi del palazzo.” Estrasse dalla tasca un tintinnante mazzo di chiavi. “Le lascio a te. Sono le chiavi di tutte le porte, tutti i forzieri, tutti gli armadi. Potrai invitare tutti gli ospiti che gradirai, disporre a tuo piacimento della dispensa, dell’argenteria, dei gioielli. Ora tutto ciò che è in questa casa è tuo. Solo, per nessun motivo al mondo dovrai aprire la porta che si trova in fondo alla galleria e che si apre con questa chiavetta d’oro. Mai. È questa l’unica restrizione che ti pongo. Se entrerai in quello stanzino, bada, sarà peggio per te: avrai di che pentirtene amaramente.”

Kanon, ovviamente, non si era perso una sola parola. Sbatté gli occhi, assunse l’aria più innocente del suo repertorio, e giurò all’amato sposo che mai e poi mai avrebbe trasgredito i suoi ordini, eccetera eccetera. Si trattenne dallo stringere le chiavi in pugno e ridere come uno psicopatico solo perché il marito non gliele aveva effettivamente consegnate in mano. Tanto meglio. Stava già meditando, mentre trotterellava diligentemente dietro al suo sposo, ad uno stratagemma per appropriarsi di quel mazzo in un momento molto più inatteso che la banale assenza per il classico viaggio di lavoro. Barbablù lo sottovalutava.

E così, mentre si guardava attorno, aggirandosi per le stanze senza preoccuparsi di celare la sua camminata mascolina, gira che ti rigira aveva già un abbozzo di piano in testa. Spostò lo sguardo dai tendaggi al marito, lo squadrò da capo a piedi, e via dal marito ai tendaggi, e di nuovo su di lui dai piedi al capo. E sorrise. Non lo ascoltava granché, lo avrebbe fatto con piacere, ma aveva altro a cui pensare. Quella sera avrebbe dovuto prepararsi con un attimo d’anticipo. Dopotutto, c’era da sedurre il grande Lord Rhadamantis.

 

Non che poi fosse stato tanto difficile.

Esattamente come si era figurato, Lord Rhadamantis non si era fatto grandi problemi.

Non era tipo che se ne faceva. Sull’apparente equivoco della bella “fanciulla dai capelli color del mare” in realtà c’era ben poco da dire, come si aspettava. Ma del resto, nemmeno Kanon era uno che si faceva grandi problemi. Lui era un ragazzo troppo spiccio, e la semplicità un’arma lungamente, ignominiosamente dimenticata. Dopo averci pensato a lungo, immerso fino al mento nella bollente vasca da bagno profumata, e aver deciso di tagliar corto, si era alzato, asciugato con cura, e presentato a letto con un sorriso disarmante, pericolosamente mellifluo.

Non che poi fosse stato tanto difficile.

Lord Rhadamantis dormiva, e lui aveva in mano le chiavi. Il tutto in meno di dodici ore.

Kanon sgusciò a passi felpati fuori dalla camera, poggiò i piedi nudi sulla fredda pietra del pavimento e poi camminò quasi solo sui tappeti, complici nel loro silenzio.

Era diretto verso il fondo della galleria.

 

Kanon si avviò verso la porticina misteriosa, infilò la chiave dorata nella toppa, la girò con cautela, entrò e… il suo volto fremette e si contorse per il disgusto.

All’interno di quello stanzino non v’era nulla di misterioso, né raccapricciante, né da film horror di serie B. Semplicemente, servizi da tè e porcellane da esposizione – tutte di squisitissima fattura. Però vasellame rimaneva.

“Mi hai disobbedito, Kanon.”

Il ragazzo si voltò, colto completamente di sorpresa. Era sicuro di averlo lasciato che dormiva tranquillamente tra le lenzuola, eppure Lord Rhadamantis era lì, dietro di lui, in vestaglia da camera, appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto. Il suo cipiglio pareva più minaccioso che mai.

“Cos’è questa roba?” chiese di rimando Kanon, piuttosto, indicando con enfasi l’eccellente collezione di maioliche. L’altro sogghignò. Lui rabbrividì. Aveva sogghignato nello stesso modo con cui aveva risposto al sorriso disarmante, pericolosamente mellifluo di Kanon, quando pensava di essere lui quello che l’avrebbe beffato. Quel sogghigno in quel momento aveva quella stessa luce negli occhi che l’aveva sfiorato come una lama quel pomeriggio in carrozza, ma l’aveva fatto in un modo che persino Kanon, per un attimo, aveva esitato. Ma il dado, come si suol dire, era tratto. E non ci aveva pensato.

“Lo puoi vedere con i tuoi occhi.”

“Va bene, ma…!”

“Coalport, Plymouth, Vauxhall, Liverpool, e, naturalmente, Worcester. Qualche pezzo è addirittura un rinomato Wedgwood. Capisci bene perché necessitano di una stanza a parte.”

“Beh…”
Lo sguardo del marito si fece più cupo. Kanon ci rifletté sopra attentamente.

“Sì, lo posso capire. Ma… perché addirittura l’ingresso proibito?”

“La curiosità è il brutto vizio delle donne.” Assieme allo sguardo s’incupì la voce, che andava in calando. “Non una delle mie mogli ha resistito alla tentazione di infilarsi in questa stanza nonostante il divieto. E ognuna di loro, affascinata da questi pregiati artefatti, ha voluto prendere in mano qualcosa, e immancabilmente combinare qualche danno. Ho perso due magnifici ornamenti in porcellana di Chelsea – ahimé, tristemente nota in effetti per la sua scarsa resistenza. La curiosità è donna.” Lo fulminò nuovamente, con lo sguardo, il terribile Barbablù. “E le donne non vi sanno resistere.”

Kanon sollevò le sopracciglia, perplesso. Scorse lo sguardo dal marito alle porcellane, non riuscendo a percepire dentro di sé la benché minima voglia di mettervi le mani sopra. Alla fine spostò di nuovo lo sguardo sul suo sposo.

“Rhadamantis… sono un uomo.”

Rhadamantis sorrise di nuovo con quella strana luce negli occhi che ben tre volte in una giornata Kanon aveva acceso. Non si era sbagliato. L’aveva intuito dal primo sguardo.

Aveva finalmente trovato l’anima gemella.

 

E così, il misterioso stanzino venne cerimoniosamente richiuso.

Kanon invitò a palazzo diverse volte i suoi amici, organizzando numerose cene, e inorgogliendosi di casa propria. Venne la madre, le sorelle, il fratello, venne persino Ikki – un ragazzino del circondario con cui Kanon aveva stretto solida amicizia dopo essere stato bulleggiato senza pietà da lui – che aveva spalancato bocca e occhi e, scettico, aveva commentato “roba da matti”, e si era rifiutato di prestargli l’ennesima consulenza in questioni di cuore. Disse che non gli importava niente se Kanon si era innamorato e se ne andò, ma fu comunque piacevole. Invitò anche un paio di volte, per cortesia, le ex-mogli del suo signore. Effettivamente, avevano fatto una brutta fine: erano state costrette a risarcirgli ogni piccolo pezzo della sua collezione che avevano danneggiato. Ci avevano speso una fortuna.

Durante ogni festa, il giovane sposo aveva interi servizi di stoviglie pregiate da adoperare, e mai si curò delle amate porcellane del consorte. Quando si annoiava della vita di corte, pretendeva di andare in avanscoperta, quando era periodo di guerra, assieme al valoroso conte. Lord Rhadamantis smentì la propria fama di Barbablù – di cui aveva sempre peraltro ignorato l’esistenza – e vissero assieme per sempre felici e contenti.

 

 

 

And they all lived happily ever after. ~

 

 

 

 

 

 

{ Ever after }

 

Mi dedico alla ripubblicazione di questa fan fiction dopo un anno e mezzo abbondante dalla sua comparsa sull’EFP, con un triliardo di scuse nei confronti di quanti la stavano seguendo. Che poi, chissà se ci sono ancora? *C* *DAAAAAAAN*

Riprendo con le favole perché dai, oggettivamente, quand’è che mi ricapiterà di scrivere qualcosa di altrettanto demenziale? E Rhadamantis, nel senso, l’avete visto? È Barbablù. Ma com’è che mi è venuto in mente? No, sinceramente, nel senso… vabbè. In un paio di giorni ho rispolverato questi raccontini, li ho un po’ ricorretti, e mi accingo a riprenderli in mano. Se vi capiterà di rileggere, noterete che ho migliorato la formattazione (scrivevo in Verdana, per Athena) e anche qualche cosetta di forma qua e là, ma pressoché impercettibile. Con mia grande sorpresa, non ho dovuto correggere più di tanto, quindi il tutto si è ridotto ad una sorta di betaggio in più. Che male non fa.

Grazie per avermi seguita sin qui, quindi, e rimbarchiamoci per condurre queste storie alla loro fine.

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Capitolo 2
*** Biancaneve ***


Gemini no Kanon

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Gemini Saga & Sagitter Aioros in

 

« Biancaneve »

 

 

      « Caro fratello,

      qui in città la vita scorre piuttosto monotona, senza di te. La signora nostra madre non fa che chiedermi tue notizie, anche a proposito della festa di Natale di cui ci hai parlato nella scorsa lettera. Le nostre sorelle stanno bene e sono impazienti di rivederti, perciò facci sapere al più presto. Saremo onorati, per Natale, anche dalla presenza del tuo consorte? Intendiamo presentarci con un regalo degno di lui, perciò non esitare nel caso ti vengano in mente consigli e suggerimenti a proposito.

      Come ti dicevo prima, nulla di rilevante è accaduto, a parte le poche scaramucce di cui ti accennavo nella scorsa lettera. Ikki ha scatenato una nuova rissa, ma sostiene di non averne la colpa. Ad ogni buon conto, ha massacrato tutti gli assalitori. Nulla di cui preoccuparsi, come vedi. Senza contare che Amelia, nostra sorella, ha finalmente trovato un corteggiatore degno di tale nome, che la sommerge di regali. Pare si sia definitivamente ripresa dallo spavento di “Barbablù”. Tutto a posto, quindi.

      Tuttavia, durante una delle mie lunghe passeggiate, mi è capitato di imbattermi in qualcosa di strano. Ora che tu sei altrove, ho più tempo per stare da solo e pensare, camminando, scoprendo ogni volta nuovi itinerari che spesso mi conducono oltre il limitare del bosco. L’episodio di ieri però è stato veramente singolare. Addentrandomi sempre di più nella selva, fiducioso, ho proseguito seguendo il mio istinto sino a raggiungere delle voci che già mi era parso di udire in lontananza, e ho scoperto che lì, nel punto più profondo del bosco, vi era un’intera comunità di persone. E che persone! Dovresti vederli, fratello: la loro testa non mi arriva alla cintola, portano tutti lo stesso copricapo e parlano una lingua incomprensibile, contorta e cupa, ma alla mia vista si sono come illuminati. Certo per via della mia incomprensibile altezza, si sono radunati tutti attorno a me farfugliando qualcosa in questa loro lingua credo piuttosto primitiva, e mi hanno trattato con molto riguardo. Volevano a tutti i costi farmi rimanere con loro – si toglievano il copricapo, meravigliati, non facevano che parlare, tra sé e con me, in maniera molto concitata, e avrebbero voluto trattenermi in tutti i modi. Mi hanno offerto dei doni, quando ho fatto segno di andarmene, e ho dovuto accettare manciate di pietre preziose dalle loro mani scure. Pietre pregiatissime, fratello! Loro stessi le cavano dalle loro miniere, tutte scavate nelle profondità della montagna che svetta sul bosco. Loro la considerano al pari di una divinità, e ne parlano con grandissimo riguardo, ma mostrano quasi la medesima deferenza al mio cospetto.

      Sono molto confuso, devo confessare. Suppongo che dovrei indagare a fondo su questa faccenda, ma, credimi, al momento non so che cosa pensare. Credo che tornerò presto a controllare, ripercorrendo la stessa strada, se quello di ieri è stato solo un sogno o un miraggio… eppure ne ho ricordi così vividi! D’altro canto, non so come comportarmi.

      Ti spedisco con questa mia uno splendido zaffiro, lucente come il mare stesso – questo paragone il tuo sposo potrebbe apprezzarlo – che era tra i doni dei misteriosi nani che ho incontrato. Fatico ancora a credere che non si sia trattato di una visione, voglio che anche tu tocchi con mano la testimonianza di quest’avventura così strana.

      Consigliami, Kanon – spero di avere presto una lettera in risposta. La signora nostra madre e le nostre sorelle si uniscono a me nel porgere i nostri saluti a Lord Rhadamantis. Nell’attesa di tue notizie, ti abbraccio.

 

                                                                                                                      Saga

 

      P.S. Mi chiamavano con un nome tutto particolare, di cui nonostante la grande fatica non sono riuscito a farmi spiegare il significato: Alles, Aires. Non saprei riscrivertelo. Ti giuro, fratello, che sono molto confuso. »

 

 

 

      « Caro fratello,

      anche a palazzo la vita è piuttosto noiosa, ti dirò. Per questo già progettavo la festa di Natale. Ti prometto che non appena avrò sistemato gli ultimi dettagli vi spedirò direttamente gli inviti ufficiali. Ne verrà recapitato uno anche a Ikki, a patto che non si porti dietro anche il fratello minore. Non per lui, quanto per i suoi amichetti. Non mi va di avere per casa il codazzo dei mocciosi al gran completo. Ovviamente Rhadamantis presenzierà alla festa. Approfitta di questa lettera per ricambiare cordialmente i saluti che gli avete inviato, e si unisce a me nell’augurarsi che possiate essere tutti nostri ospiti. Ci sarete tutti, vero? Amelia può portarsi dietro il suo galoppino, se lo desidera.

      Ti confesso che la tua storia mi ha parecchio incuriosito, e sono andato a documentarmi – per questo ci ho impiegato tanto a risponderti. Sei già tornato dai nanetti? Io ci sarei tornato. Voglio sapere al più presto che cosa ti hanno detto di altro. Fratello mio, è evidente che costoro ti hanno preso per una divinità! Io non avrei dubbi. L’esistenza di questo popolo era data per leggenda, ma ho trovato chi me ne ha parlato: gli anziani a palazzo li conoscono, non hanno un nome, sono semplicemente chiamati “i nani”. La gente crede che siano figure leggendarie, ritenuti i folletti che creano le pietre preziose. Adesso so che non è così. Sono operosi nanetti che si sono costruiti delle gran belle miniere: lo zaffiro che mi hai spedito era pregiatissimo. L’ho fatto stimare. Gran bel colpo.

      A proposito del nome che ti hanno attribuito, ho avuto un bel da cercare tra i libri della biblioteca. Sono poche le parole note della loro lingua, il che è comprensibile se essa suona davvero oscura come me la descrivi. Comunque, stando a quanto ho dedotto, la cosa più simile al nome che mi hai scritto potrebbe essere un composto di due parole, har-les, o ar-les “neve-bianca”. Non c’è da stupirsi, tu così chiaro in confronto alla loro pelle bruna, sarà stata la prima cosa che avranno notato assieme alla tua altezza.

      Praticamente ormai sei il loro dio, fratellone! Perché non torni a far loro visita? Sfrutta il carisma che la natura e in questo caso il fato ti hanno donato! Il conte necessiterebbe giusto un esercito di fanteria minore ben attrezzato. Facci un pensierino sopra, me lo prometti? Non è un’idea da buttar via. Il mio sposo si è mostrato notevolmente interessato, quando gliene ho parlato. Aveva quel luccichio sinistro negli occhi.

      Basta che non mi prometti di farti prendere dalle manie di onnipotenza e arrivare a tentare il colpo di Stato, siamo d’accordo, fratellone? Prima di arrivare a Sua Maestà o Sua Grazia il Principe dovresti marciare contro di noi, e non sarebbe bello. Lasciami almeno il tempo di radunare il mio esercito, o non potrò esserti d’aiuto nella tua scalata al trono.

      Ti abbraccio. Saluta mamma e le sorelle.

      Stammi bene,

                                                                                                                      Kanon »

 

Saga ripose la lettera che aveva ricevuto in risposta con uno strano turbamento nel cuore. Le parole di Kanon l’avevano riempito d’inquietudine.

Inizialmente se la rigirò tra le mani, più volte, poi finì per richiuderla in un cassetto, nervosamente. Diede un giro di chiave. Passeggiava in lungo e in largo su e giù per la stanza, senza riuscire a capacitarsi di quella strana ansia che si sentiva addosso. Se voleva essere uno scherzo, lo trovava abbastanza fuori luogo – di cattivo gusto, quasi.

Ma era quell’accenno al principe a suonare veramente sinistro. Saga aveva avuto in gioventù l’onore di fare la conoscenza del principe, e di essergli stato formalmente presentato. Quell’incontro era rimasto impresso nella sua mente con la forza di una luce abbagliante, tanto quanto il volto del nobile giovanetto, la sua grazia, la sua saggezza, la sua nobiltà d’animo. Ancora nei ricordi, il suo volto risplendeva come incorniciato da un’aureola.

Sarebbe morto, piuttosto di arrecare un danno a Sua Grazia il principe.

No, Kanon non poteva essere serio. Ma quella disinvoltura gli metteva come sempre i brividi. Saga si era sempre ben guardato dalla malizia che il proprio gemello ostentava più liberamente di lui. Distoglieva lo sguardo da un sogghigno più marcato degli altri, perché quel viso era identico al suo. Se lui…

Scosse la testa, a sopprimere una voce fastidiosa che gli era germogliata dentro. Si spaventò. Maledizione, Kanon!, si ripeteva. Non avrebbe mai dovuto chiedergli consiglio.

Normalmente l’avrebbe preso da parte e, dopo una bella lavata di capo, l’avrebbe rinchiuso a chiave nella sua stanza di modo che gli si rinfrescassero un po’ le idee. Da ragazzini una volta l’aveva tenuto un’intera giornata nello sgabuzzino, per colpa di qualche cattiveria che aveva detto. Una volta uscito, Kanon si era lamentato per giorni, neanche l’avesse segregato dietro le sbarre di una fossa marina, lasciandolo in balia dell’alta marea. Ad ogni modo, le attuali condizioni non glielo permettevano: Kanon era altrove, e decisamente ben protetto.

Decise di non rispondere al gemello, finché non gli si fossero schiarite le idee. Di certo, a scanso di tentazioni, quella lettera sarebbe rimasta ben chiusa dentro al cassetto.

 

La lettera rimase ben chiusa dentro il cassetto.

Ciò non impedì a Saga di raggiungere nuovamente il profondo del bosco, radunare i suoi nuovi adepti ed assoggettarli tutti al suo volere. Abbandonati i picconi, i coriacei e determinatissimi nani formarono uno squadrone d’élite che permise al suo condottiero di riportare numerose vittorie lungo lo sviluppo della sua politica espansionistica.

Con un input minimo, la parte oscura del giovane si era risvegliata, e pareva determinatissima a dare il peggio di sé: il nome dell’onnipotente Arles cominciò a spargersi a macchia d’olio tra tutte le autorità locali, allarmate da questa nuova comparsa. Era una stella in ascesa, poteva essere una cometa che sarebbe passata senza lasciare tracce dietro di sé tanto quanto una supernova in procinto di esplodere, coinvolgendo tutti – ed era sorto dal nulla, come se fosse il personaggio di una leggenda, destinato alla gloria e all’immortalità.

Saga osservava il suo volto allo specchio, inanellandosi attorno alle dita ciocche di capelli che per uno strano gioco ottico parevano di tonalità più cupa – quasi fossero grigi – e si compiaceva della fama che il suo nome acquisiva di giorno in giorno. Nemmeno l’arrivo dell’inverno lo preoccupava. L’inverno avrebbe ammantato i prati di quella bianca neve tanto innocente che era diventata il suo nome di battaglia. I nani ormai erano creature soggiogate. Marciavano, combattevano, roteavano asce e lanciavano frecce dalle loro balestre. Erano resistenti e tenaci come muli, e non osavano ribellarsi a lui. Lui d’altro canto – sogghignò, l’iride iniettata di sangue – era la loro divinità, o no?

Fu con l’arrivo dell’inverno, contrariamente a quanto chiunque si potesse aspettare, che decise di sferrare l’attacco decisivo, senza preamboli. I ripetuti successi militari l’avevano inorgoglito in maniera spropositata, e in quel momento più che mai si sentiva invincibile. Si era organizzato: la sua squadriglia era completamente soggetta al suo volere, in più aveva già provveduto a contattare due abilissimi ed esperti sicari, di cui nemmeno i nomi si sapevano con certezza. Le trattative con “Lupo” e “Cappuccetto Rosso” erano a buon punto. In aggiunta, vagheggiava di corrompere un ufficiale dell’esercito che sapeva molto vicino a Sua Grazia il principe. Aveva già steso l’incipit della pericolosa lettera, quando ebbe uno scatto nervoso e dovette uscire all’aria aperta.

“Servi!” chiamò, uscendo dalla tenda attorno alla quale era costruito l’accampamento – la più grande, composta da diverse stanze. Il tono della sua voce, come sempre, era un decreto. “Voglio che al più presto sia disponibile un messo per recapitare una lettera urgente al capitano delle guardie reali! Il capitano Shura deve avere questa lettera in mano entro sera, mi sono spiegato?”

I nani si agitarono, come sempre quando lo vedevano in quello stato. I suoi occhi erano terrorizzanti. Non avevano mai imparato a parlare la sua lingua, ma la comprendevano sin troppo bene. Due tra i più coraggiosi si fecero avanti, e condendo i gesti più delicati di cui erano capaci con il loro solito incomprensibile borbottio, condussero gentilmente il loro comandante all’interno della tenda.

“Mi sono spiegato?” ripeté Saga, la cui ira sfidarono i due nanetti nell’insistere a farlo rientrare. Ai due si aggiunse immediatamente un terzo, con un paniere coperto che reggeva tra le sue mani come fosse un tesoro o una sacra reliquia.

“Che cos’è quello?” sbottò il feroce condottiero, mettendo da parte la lettera. Stava ancora ragionando sulle righe che andava vergando mano a mano. Il nano si affrettò a scoprire il contenuto del paniere, rivelando frutta in abbondanza. Era raro trovarne in pieno inverno. Aspettò, intimorito, finché gli fu fatto un seccato cenno di avvicinarsi.

“Con il capitano Shura dalla mia parte, nulla mi sarà precluso.”

Saga vi mise mano con un gesto brusco, fissando ancora con astio l’inchiostro nero che andava asciugandosi. Contemplò la bellissima mela, rossa come il sangue, attorno a cui le sue mani si erano strette. Sogghignò: nulla; il reame, il potere, le ricchezze, e…

“Nulla.”

Addentò il frutto con malcelato compiacimento. I nani trasalirono. Saga li guardò di traverso, il succo mielato gli pizzicava le labbra; andò a suggere la curva del pollice, con cui ne raccolse una parte, e quasi se la morse: com’era dolce…

Poi fu tutto nero.

 

“Aioria, fratello mio! Questa è veramente una bellissima giornata!”

Aioria galoppava dietro a Sua Grazia il principe Suo fratello, sospirando per il ritmo che era costretto a tenere per stargli dietro.

“Vostra Grazia, fratello, non così veloce!”

“Sono impaziente di giungere a destinazione! Oggi è veramente una piacevole giornata.”

“Fratello, sono obbligato a ricordarvi che questa non è una scampagnata, sebbene sia per iniziativa vostra che ci stacchiamo dalle file reali senza scorta, ed inoltre…!”

“Il dovere mi chiama, Aioria.”

Era inutile ragionare con il Sua Grazia il principe. Egli, fendendo i rovi con un colpo di spada quando essi intralciavano il cammino, portava luce nella boscaglia. Aioria non si sentì per niente stupito quando raggiunta la meta del loro breve viaggio il fratello scese con un balzo dalla cavalcatura e si risistemò dei riccioli che erano già impeccabilmente al loro posto, e nemmeno quando consegnò con sconvolgente naturalezza le redini di Chirone ad un turbatissimo nanetto, che quasi se le fece sfuggire. Tutti i suoi compagni cominciarono a parlottare tra loro, gli occhi spalancati: quell’uomo risplendeva di gran lunga di più del loro signore quando esso era giunto ad illuminare il loro villaggio. Aioria si ritrasse leggermente alla strana vista: i nani erano gli esseri più curiosi che gli fossero mai capitati sotto gli occhi; involontariamente aprì la bocca, quasi balbettando. Aioros invece si guardava attorno, scalpitante di pure energia virile, senza capire il motivo di tutta quell’agitazione. Evidentemente le creature erano al di sotto del suo campo visivo.

“Vostra Grazia, fratello… le creature qui…”

“Creature? Oh, sì. Creature!” esclamò Aioros, abbassando finalmente lo sguardo, ma non il mento. Il loro parlottare confuso e ingarbugliato si faceva sempre più alto di volume, tanto che il prestante giovane nel vedersi interpellato da decine di nani corrugò le sopracciglia. “Il singolare e formidabile esercito dell’impavido Arles… presto! Portatemi dal vostro condottiero, o valorosi soldati!”

I nani agitavano le mani in segno di diniego. Sembravano spaventati.

“Volete che io chieda prima udienza! Ebbene, la chiedo!”

Nuovi cenni disperati.

“Abbiate perlomeno la creanza di annunciarmi, soldati! Io aspetterò quanto necessario!”

“Fratello, i nani mi sembrano quanto mai sconvolti… evidentemente qualcosa di grave è accaduto…”

“Non chiamarli ‘nani’, Aioria” il fratello maggiore scompigliò affettuosamente i capelli al biondino. “Non è educato. Potrebbero offendersi.”

L’altro ritenne buona cosa rimanere in silenzio a riflettere quest’affermazione. Cinque secondi però erano già troppi: Aioros si stava facendo strada a larghe falcate verso quella che sembrava la tenda più imponente dell’accampamento, osteggiato da gruppi di nani che nulla potevano contro il suo regale incedere. Gli toccò corrergli dietro.

Quale disgrazia!” sentì urlare da dietro la cortina; affrettò prontamente il passo per andare a vedere che cosa mai fosse successo.

Sostanzialmente era successo che i piccoli nani, stanchi delle angherie che erano stati costretti a subire dal demone in cui si era trasformato la loro divinità, avevano deciso di ribellarsi al despota. Ma, non osando levare la mano su di lui, le timorose creature decisero di avvelenare il suo cibo, per poi vederlo crollare in un mortale sonno in cui ritornò, almeno d’aspetto, il bellissimo dio che aveva fatto loro visita nel bosco. Nonostante questo non osarono sotterrare il corpo del giovane, temendo di profanare con la sua presenza la terra e di arrecare danno al suolo e alle pietre preziose che esso custodiva. Per questo motivo avevano operosamente costruito una magnifica bara di cristallo, con la quale speravano di isolare gli influssi maligni che il bellissimo gigante emanava da quando era venuto a farli suoi schiavi.

“Povere creature! Ben comprendo il vostro lutto! Avere perso un sì valoroso condottiero…! Tanto da custodire il suo corpo in questo sacrario! Ma non dovete disperare…” Aioria entrò che il fratello stava per l’appunto scoperchiando l’imponente bara. “Né avreste dovuto perdere la speranza! Non avreste dovuto rinchiuderlo qui dentro! Nessuno vi ha mai insegnato le norme basilari del pronto soccorso?”

“Fratello!” si sgolò Aioria, mettendosi le mani fra i capelli.

I nani scuotevano la testa e agitavano convulsamente le mani, vociando, senza sapere come fare a spiegarsi con l’inarrestabile principe; ma egli aveva prontamente disposto il corpo di Arles, Neve Bianca, in posizione congeniale a praticargli la respirazione artificiale.

“Aioria, fratello! Vieni a darmi una mano col massaggio cardiaco!”

“Vostra Grazia, vi supplico!” si affrettò l’altro, la voce ormai ridotta ad un filo. Poi si coprì gli occhi. Passò i successivi dieci minuti al buio, a ringraziare sentitamente qualsiasi dio avesse concesso al principe erede al trono di non avere spettatori nel raggio di dieci miglia, a parte dei nani sbigottiti.

Fu con il luminoso viso di Aioros che Saga riprese i sensi, e ci mancò poco che gli prendesse una seconda sincope – la luce lo abbagliò, e lui rimase fermo e balbettante dov’era, spalancando gli occhi, mentre gli veniva rivolto uno splendente sorriso.

“Per fortuna sono giunto in tempo, nobile cavaliere! Mi ero recato da voi in tutta fretta per congratularmi sentitamente per i vostri successi militari e per il servigio reso – del tutto spontaneamente, e questo suscita la mia personale ammirazione – a tutto il regno! L’esercito del re era in serie difficoltà sui confini Ovest che voi avete magistralmente difeso, amico mio – se posso avere l’onore di chiamarvi amico – respingendo le invasioni del bellicoso regno tanto spesso ci ha messo in grave crisi! Non sapendo come sdebitarmi per tanto coraggio, tanta lodevole iniziativa, mi sono messo in viaggio per incontrarvi e chiedervi con tutta l’umiltà di cui dispongo se vorreste affiancarvi ai miei generali. E come vi trovo! I vostri fedeli soldati erano tutti in pena per voi, sapete?”

Saga durante tutto quel torrente di parole era stato assalito da un acuto attacco di schizofrenia: la parte malvagia era in fibrillazione, spasimava per avere un pugnale e conficcarglielo dritto nel cuore. Era lì – Aioros – lì – Aioros! – a due centimetri di distanza, vulnerabile come una neonata in culla. Ma trovarselo davanti così inaspettatamente era stato un pugno allo stomaco che aveva risvegliato un’altra parte di lui, quella che sino ad ora si era comportata sempre rettamente, il Saga che si era inchinato davanti a Sua Grazia il principe giurandogli eterna fedeltà. Ed era lì, davanti a lui, che ora sorrideva nuovamente, facendo l’invidia di tutti i testimonial di spot di igiene orale, ed innocentemente passava a chiamarlo per nome:

“Avevo come il presentimento che fossi tu, Saga. Mentre correvo qui c’era il tuo volto nei miei ricordi – ricordi quando ci incontrammo da bambini? Ho saputo da subito che eri tu. Perché prendi il nome da una divinità come Ares, amico mio? Ti si addice per il valore. Ma Ares è un guerriero solitario. Non preferiresti servire la dea della Giustizia?”

Ogni mondezza venne purificata. Nessuno puntualizzò niente a proposito della svista linguistica del principe sul nome di Arles. I nani non sapevano parlare – e a dirla tutta non capivano bene cosa stesse succedendo. Che gli eserciti abbattuti fossero nemici del re, nessuno sapeva che era successo per puro caso. Cosa poteva dunque turbare la felicità di quella scena? Il Saga ambizioso andò in frantumi all’ennesimo sorriso di Aioros; e i suoi occhi commossi non erano in grado di tradirlo, limpidi grazie a quell’apparizione come il cielo d’aprile.

Il primo amore non si scorda mai.

 

      « Caro fratello,

      sono felice nell’apprendere che potremo passare le feste natalizie in famiglia.

      Sua Grazia Ill.ma il principe Aioros ha calorosamente accettato l’invito che gli è stato fatto, e presenzierà al ricevimento a casa del Conte tuo marito. Bada bene di organizzare le cose come si deve! Sono molto emozionato per quest’occasione; la sua presenza sarà un vero evento alla festa. Puoi evitare di ringraziarmi, è tutto merito dell’innata cortesia della reale famiglia, la stessa con cui ha accolto me in veste di generale delle armate.

      Che sciocco sei stato a scrivermi quelle stupidaggini nell’ultima lettera; come se io fossi capace di una cosa simile! I nani, tuttavia, spontaneamente hanno voluto seguirmi, e ora anche loro presso l’armeria reale godono di ottimo prestigio. Sembra siano ancora un poco intimoriti da me, ma dopo un iniziale periodo di diffidenza hanno preso a servirmi con fedeltà. Sono ottimi soldati. Immagino che all’inizio sia difficile abituarsi ad uno stile di vita così differente dal solito. Nonostante ciò, sembra che si trovino bene.

      Sorvolerò anche sugli sciocchi commenti che Amelia nostra sorella mi ha riportato – usciti di bocca tua – a proposito del mio presunto amore a senso unico per il principe Aioros. Non hai il diritto di prendermi in giro. Come sempre, sei infantile. Sappi che il mio unico scopo per ora è quello di servirlo con lealtà, per ricambiare l’infinita gentilezza e i riguardi che ha usato e usa verso di me. Se questo poi dovesse Nel senso Comunque il principe mai penserebbe Insomma, smettila di prendermi in giro, che ne è dell’educazione che abbiamo ricevuto!

      L’onorevole capitano delle guardi reali Shura, Sua Grazia il principe Aioria e Sua Grazia Ill.ma il principe Aioros si aggiungono a me nel porgerti i più rispettosi saluti.

      A presto,

                                                                                                                      Saga »

 

 

 

And they all lived happily ever after. ~

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bonus ~

 

      « Caro fratello,

ti confermo con questa mia quanto comunicato precedentemente circa giorno ed orario della festa a palazzo. Bada bene di non sfigurare e presentati assolutamente in uniforme. Farai un figurone, e forse finalmente troverai moglie. O anche no.

      Non badare ad Amelia. Dice solo sciocchezze.

      Per ogni eventualità, comunque, provvederò ad appendere il vischio in punti strategici.

      Con affetto,

 

                                                                                                                      Kanon »

 

   

 

 

 

 

{ Ever after }

 

A Barbablù sono affezionata per svariati motivi, e non è esagerato dire che è stato anche per amor di quel capitolo che ho deciso di riprendere una fanfic abbandonata: è la prima storiella che ho elaborato, mi è uscita di getto praticamente al primo colpo, Kanon seduce Rhada, Rhada seduce Kanon, Rhada possiede dei Wedgwood. Cose così. Però Biancaneve mi abbatte. A questo turno ho dato il meglio di me. Dicono tutti delle robe assurde. Non me ne capacito. Davvero.

Comunque, guardate, guardate, avete visto che c’era un bonus? Eh? Eh? *datele un contentino e ditele che l’avete notato, sarà felice* Eh? *O* <3

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Capitolo 3
*** Intermezzo [I] ***


Signore e signori, sappiamo quanto sia importante prendere il fiato fra una lettura e l’altra

Signore e signori, sappiamo quanto sia importante prendere il fiato fra una lettura e l’altra.
In attesa delle prossime storie il nostro cast d’eccezione vi offre…

 

 

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Intermezzo [I]

 

Tra una pausa e l'altra, un coraggioso intervistatore selezionato all'interno del nostro staff ha provveduto alla realizzazione dei contenuti speciali: vi proponiamo di seguito le interviste che i protagonisti delle prime due storie hanno gentilmente voluto rilasciare.

 

 

 

« Barbablù »

 

 

D: Bene, vogliamo cominciare subito…?

Rhada: (si versa il tè)
Kanon: Oh, prego.

 

D: Dunque, numerose domande sono arrivate dai lettori… spettatori… uhm… comunque sia: le curiosità, Lord Rhadamantis, sono tutte puntate sul ruolo che voi avete avuto in questa… uhm, vicenda.

Rhada: …

D: …ehm…

Kanon: (sembra troppo impegnato ad intingere biscotti nel tè)

Rhada: Ragazzo mio, se volete un consiglio…

D: Ehm, ditemi.

Rhada: Non infilate troppi “ehm” e “uhm” nelle vostre affermazioni. Siate sicuro di quello che dite, o darete l’impressione di non sapere di cosa state parlando.

D: Ehm! Oh, certo. Scusate. Eh–ecco, prima di tutto una domanda che ci è capitato spesso di sentire: quante mogli esattamente avete avuto prima di… (esita) incontrare l’anima gemella?

Rhada: (dopo un lungo momento di silenzio impiegato a sorseggiare) …ritengo che questa domanda intacchi in maniera eccessivamente indiscreta la mia sfera privata. La prossima.

 

Silenzio. Non potendo far altro che eseguire quest’ordine, l’intervistatore fruga tra i suoi cartoncini.

 

D: Dunque. La prossima… molti fan desiderano sapere come è andata formandosi la sua collezione di porcellane.

Rhada: (gli si illuminano gli occhi) Ottima domanda. È una preziosa eredità di famiglia. Il primo pezzo risale a…

Kanon: (dopo aver lanciato uno sguardo eloquente, fa per alzarsi e battere in ritirata)

D: Oh, ah, molto bene, eredità di famiglia. (frettolosamente) Kanon, la prossima domanda è per te.

Kanon: (sospira di sollievo) Oh.

 

D: Diciamo che… molti lettori… spettatori… quello che sono… desidererebbero sapere il tuo stato d’animo quando sei stato “scelto” da lord Rhadamantis come sua… ehm… sposa?

Kanon: (sorride, accavallando le gambe) Oh, ma certamente.

Rhada: (sorseggia il suo tè, ma pare che stia dando un’occhiata anche alle sue gambe)

D: Ehm, chiaro, se non è troppo indiscreta come domanda.

Kanon: Assolutamente. (raccoglie distrattamente il suo cucchiaino) Naturalmente ero molto emozionato, è stato così inaspettato; io sono solo umilissimo servo di sua signoria, ancora inesperto, nuovo al grande mondo, non degno della sua illustre preferenza eccetera eccetera… spero tutt’ora di essere all’altezza del mio nobile e magnanimo sposo. (sciorina compitamente mentre mescola lo zucchero nella tazza)

D: …

Rhada: (gli lampeggia lo sguardo) …un’altra zolletta, mio diletto?

Kanon: Anche due. <3

 

L’intervistatore non può fare altro che frugare nuovamente tra i suoi cartoncini.

 

D: …beh. Direi che… siete stati entrambi esaustivi.

Kanon: Vuoi anche tu del tè?

D: No, grazie. Ecco, lord Rhadamantis, una lettrice chiede per sua personale curiosità se la vostra armatura è per caso foderata di tweed.

Rhada: (sorride con sguardo fisso) Dite a questa fanciulla che ammiro il suo buongusto.

D: ...quindi… l’avete…?

Rhada: (sorride e non risponde)

 

D: …va bene… un ultimo commento su questa produzione?

Rhada: Mi sono trovato molto bene.

Kanon: Certo! Hanno saputo riscattare la mia immagine! Voglio dire, ai vecchi tempi – quelli della mia tormentata giovinezza, sai – mi avevano definito come la brutta copia di mio fratello Saga, è stato molto offensivo, come!, ho detto, non è vero, io sono un cattivo interessante-&-simpatico! Ma questa produzione è stata un’ottima occasione per tornare alla ribalta come protagonista interessante-&-simpatico! Quindi, uhm… approvo le scelte della regia. Si può dire così? Anche dello sceneggiatore. Sì. Un grazie allo sceneggiatore.

D: …o… ok. Direi che con questo possiamo considerare l’intervista conclusa. Un ultimo commento?

 

Rhada: (sorride inquietantemente verso la camera per poi tornare al suo tè)

Kanon: Spero che abbiate tutti notato la mia elegante comparsata nella storia che mi seguiva. Cercherò di apparire di nuovo per i miei fan! (saluta con la mano, trillando)

 

 

« Biancaneve »

 

 

D: Dunque… la prossima intervista è ai protagonisti della seconda storia, “Biancaneve”!

Saga: Ehm… buongiorno.
Aioros: Biancaneve? (si volta) Fratello! Perché te ne stai in disparte?

Aioria: … (è in un angolino in piedi a fungere da security)

 

D: Principe Aioros…

Aioros: Ditemi, buon uomo.

D: Pare che voi siate stato il personaggio ad avere più successo.

Aioros: (gli s’incupisce lo sguardo) Una parola come “successo” non esiste nel vocabolario di un vero cavaliere. Un cavaliere non agisce per sé stesso o per la fama… agisce solo per la giustizia!

 

Il sole risplende e l’investe con la sua luce, regalandogli riflessi dorati fra i capelli. Sorride, come a stemperare la severità delle sue parole. Saga lo contempla ammirato. Aioria e l’intervistatore si guardano in giro non notando finestre aperte.

 

Aioros: Ma se ciò significa che sono riuscito a servire ancora una volta la giustizia, ebbene, sappiate che è questo ciò che conta! Vi ringrazio!

D: …di… di niente.

 

D: In quanto a voi, Saga, ecco…

Saga: Ditemi…

D: Ci sarebbero un paio di domande ma… come dire…

Saga: …ah…

D: Cozzerebbero con… il vostro attuale ruolo e lo stato ufficiale della vostra fedina penale… insomma, capite… il principe Aioros… ha mai saputo di Arles e dei suoi… ehm, trascorsi…?

Saga: …guardate, il punto è che…

 

Saga fissa Aioros. Aioros SORRIDE.

 

Saga: …non l’ho mai capito

D: Quindi… lasciamo stare?

Saga: Lasciamo stare.

 

D: Principe Aioria, venendo a voi… Sedete, sedete pure!… il vostro è un ruolo piuttosto particolare...

Aioria: Ah? (si stava facendo lasciare gli autografi dal regista e dallo sceneggiatore)

D: Insomma, vorremmo approfittare di questo spazio per farci spiegare da voi qualcosa a proposito della reale famiglia, se non vi dispiace

Aioria: Bene, cercherò di essere esauriente… (intasca autografi) Mio fratello, Sua Grazia il principe Aioros, è il figlio maggiore del re nostro padre, e pertanto suo erede diretto. Io sono il secondogenito del re, e in quanto tale ho il titolo di principe ma non sono l’erede al trono, motivo per il quale rimarrò un semplice vassallo.

D: La famiglia reale è stata spesso nominata, ma per ora solo voi due avete fatto la vostra entrata in scena… immagino la sua presenza sia limitata a questo?

Aioria: Non affrettiamo le cose, c’è tempo per parlarne. La famiglia reale è il centro pulsante del regno, è ovvio che se ne parli. Essa vigila ed è il primo motore di ogni cosa che avviene all’interno del reame. Nella prossima puntata per esempio…

D: Principe, per cortesia, niente spoiler.

Aioria: Ops, scusate.

D: Quindi se ne riparlerà.

Aioria: Avete detto che non volete spoiler!

 

D: Insomma, ogni occhio è puntato sulla leggendaria figura del principe.

Saga: (solenne) La fama del principe non ha eguali.

Aioria: Sì (squadrandolo non molto benevolmente, poi riprende a parlare all’intervistatore) …il nobile Aioros è senz’altro la figura più adatta ad ereditare il regno… voglio dire… ha quella presenza scenica tutta sua, se capite cos’intendo…

D: (senza esitare) Sì.

Saga: (idem) Sì.

 

D: Sempre a proposito di vostro fratello…

Aioria: Sì…?

D: …come fa a fare quella cosa…?

Aioria: Quella che?

 

Aioros si alza per sgranchirsi un po’ le gambe, fischiettando. Le nuvole si aprono al suo passaggio.

 

Aioria: ……sentite, non lo so. Immagino che ci si abitui.

D: (imbarazzato) Oh.

 

D: Allora per ora è tutto, vi ringrazio per la vostra disponibilità… le ultime dichiarazioni?

Aioros: Vi affido la cura e la salvezza di Atena.

D: Prego?

Aioros: (improvvisamente, affannato) Presto, Saga! (gli afferra un braccio, fissandolo profondamente negli occhi) Sento che l’equilibrio del regno è pericolosamente minacciato. Seguimi, mio valoroso prode!

Saga: (viene trascinato via prima che riesca a parlare)

D: …

Aioria: (fissando la telecamera) Posso salutare la mia ragazza?

D: …prego…

Aioria: Ciao, Marin! <3 (saltella)

 

Intermezzo [I] – fine

 

Prossimamente sui vostri schermi: Cappuccetto Rosso & La bella addormentata nel bosco!

 

 

 

 

 

 

 

{ Ever after }

 

Alla prima pubblicazione, gli intermezzi erano corredati di fanart della sottoscritta. Purtroppo ho dovuto toglierle perché non ho materialmente il tempo di disegnare più così regolarmente. La scelta anzi era se sacrificare le illustrazioni o gli intermezzi stessi, che alla fine poco c’entrano con le storie di per sé, ma rileggendo questo ho deciso che ne valeva la pena, alla fine sono buffi. XD Così, ce ne sarà un secondo. <3

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Capitolo 4
*** Cappuccetto rosso ***


Gemini no Kanon

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Pisces Aphrodite & Cancer Death Mask in

 

« Cappuccetto Rosso »

 

 

Cinguettii di uccelli e fruscii, il sottofondo al bosco ombroso chiazzato di luce.

Solo una figura passeggiava leggiadra tra l’erba e le fitte fronde, badando bene di non allontanarsi dal sentiero; il grazioso capo nascosto dal velluto rosso si voltava timidamente solo qualora fosse visibile, in mezzo alla radura, una macchia di delicati fiori…

Sempre riprendeva il cammino, nonostante gli indugi, ma poco passò prima che la scarpetta di vernice decise di calpestare, audace, l’erba selvaggia. Cappuccetto Rosso, svolazzante la mantella color cremisi, coglieva fiori da riporre nel paniere, canticchiando una melodia presa a prestito dai trilli delle capinere. Non si accorgeva, Cappuccetto Rosso, dell’ombra più grigia delle altre tra i rami…

Verde fringuello, cardellino, pettirosso, merlo, perché mai cantate? ~

Ma il merlo aveva cessato di cantare.

Occhi limpidi dalle lunghe ciglia andarono a cercarlo, perplessi.

Ma non lo trovarono.

Riprese a cogliere fiori.

Verde fringuello, cardellino, pettirosso… ~

Uno scalpiccio impercettibile dietro le spalle.

Le chiazze di luce sulla radura si spostavano. Rivelavano una presenza.

Cappuccetto Rosso fissava viole e bianche primule. Poi, con un gesto innocente, se ne liberò scaraventandole dietro le sue spalle.

“Oh, oh. Chi abbiamo qui?”

Si voltò di scatto. Un fruscio di stoffe e trine. Gli occhi della figura che si stagliava – altissima, per Cappuccetto Rosso inginocchiato tra i fiori – brillavano come brace. Le viole e le primule giacevano ai suoi piedi. Rimase in silenzio, l’angelica figura. Sapeva che non si doveva dare confidenza al primo venuto. Perciò non rispose.

“Cosa ci fa una graziosa creaturina come te tutta sola nel bosco?” la voce, raschiante e bruta,  dava una tinta sinistra al tono ruffiano di chi parlava. La parola graziosa era stata quasi sputata, facendo trapelare disprezzo. Tuttavia ghignava.

Gli occhi ardevano. Rossi. Come quelli di un lupo.

“Che c’è, bellezza? Il gatto ti ha mangiato la lingua?”

“La nonna dice sempre che non devo parlare con gli sconosciuti.”

Si fece scappare, ingenuamente, la morbida voce. Ma con una scioltezza modulata, troppo sicura. Il Lupo rise. Sghignazzò, aperto, volgare.

“Ma sentilo. Sei proprio una puttana.”

L’altro, inaspettatamente, educatamente, maliziosamente, sorrise. D’altro canto, se avesse voluto, avrebbe semplicemente ucciso. Si fece scivolare il cappuccio dalla testa con deliziosa civetteria, e sbatté gli occhi riprendendo con facezia un’aria dignitosa e subito dopo, tocco di classe, imbronciata. Lo fece solo ridere di più, e a quella risata sgangherata Cappuccetto Rosso tornò a sorridere, imperscrutabile, assottigliando gli occhi.

“Sei sempre il solito. Non hai un briciolo d’eleganza. Non hai classe.”

Raddrizzò il capo che aveva rovesciato, il Lupo, con una smorfia grottesca e buffa, e sputò astioso: “Che? E che cavolo c’entra?”

“Hai fatto un’entrata in scena da B movie.”

“Ma guardati te, piuttosto, ti vesti in maniera sempre più indecente ogni giorno che passa.”

“Apparire aiuta ad ingannare. Dimmi, ti sembro forse un efferato sicario?”

Da dov’era seduto, Aphrodite accavallò vezzosamente le gambe, fissandolo mentre inclinava il capo di lato. L’altro fece una smorfia a metà tra il disgusto e… non si capì bene cos’altro. Di sicuro non disdegnò le gambe accavallate.

“Ti basta la faccia per sembrare una donna.”

“Il gothi-loli va di moda. Stai pestando le mie viole.”

“Da quando in qua te ne frega qualcosa delle viole?”

“Infatti.” Stava appunto svuotando coscienziosamente il cestino di vimini. Cascate di fiori che cadevano impietosamente, come prima i fiori gettati alle spalle. “Sono le rose che m’interessano.”

“Non parlarmi dei tuoi fiori puzzolenti. Quando penso che ho rischiato di…”

“Di?” Ci fu una manciata di secondi di silenzio. “…Lupo?”

“Non chiamarmi così, ‘sta minchia. Se lo fai ancora ti spacco quel bel visino che ti ritrovi.”

“Puoi provarci” flautò. “Se vuoi ritrovarti dissanguato.”

Silenzio, ancora. Passarono cinque minuti buoni seduti uno di fianco all’altro. Cappuccetto Rosso sfogliava con indifferenza i fiori che non gli interessavano, ed usava i loro petali per avvolgere e preservare dagli urti le rose selvatiche dalla bellezza graffiante che si svelavano sul fondo del cesto. Il Lupo invece si era disteso, in quella maniera nervosa propria delle bestie selvatiche, e nonostante questo aveva l’aria di chi stava per addormentarsi.

“Se penso che dovevamo lavorare assieme mi vengono i brividi” biascicò ad un certo punto.

“Ah, questo volevi dire.”

“Sì. Con te attorno, te e tutte quelle maledettissime rose. E tienmele lontane!”

Aveva fatto per porgergliene una. Aphrodite si corrucciò.

“Quanto sei indisponente, Lupo.”

“Ti ho detto di smetterla di chiamarmi così. Mi fa schifo. È il nome che va in giro, ma non lo sopporto. Maschera di Morte è quello che preferisco.”

“Maschera di Morte è lungo e direi lì lì sulla soglia dell’imbarazzante.”

“Ne hanno terrore. Il terrore mi piace. Mi fa sentire forte. Ne hanno terrore tutti.”

“Tranne Shiryu il Dragone.”

“Tranne Shi–NON TIRARE IN BALLO QUELLA VECCHIA STORIA.”

“Come vuoi…”

“Cosa vuoi saperne te, che vai in giro vestito da pervertito.”

“Non ti vedo dispiaciuto.”

“Fottiti.”

“Eppure…” sfogliava una margherita, Aphrodite, ignorandolo bellamente. Un sospiro. “Questa collaborazione sarebbe stata una buona occasione, non trovi?”

“Che?”

“Finché ognuno è per proprio conto non si può stabilire…”

“Stronzate. Lo sai.”

“Prego?”

“Sono io il più forte.”

Aphrodite inarcò graziosamente le sopracciglia.

In maniera talmente sarcastica da sfiorare il sadismo.

Maschera di Morte andò su tutte le furie, come era prevedibile. Aphrodite più che altro cercava di nascondere dietro una compassata facciata di porcellana quanto si stesse ferocemente divertendo.

“Che cazzo hai da guardare così? Lo sanno tutti! Sono terrorizzati dal lupo sanguinario, maschera di morte, mi chiamano, e il terrore è la prova, te non capisci una minchia. Pensi che Death Mask rivaleggi con le signorine in gonnella?!” e qui scoppiò a ridere, una risata malvagia, forte e disturbante. “Sei solo un principiante.”

“Tu un semplice imbecille.”

S’incupì, repentino, sbigottito: “Che hai detto?”

“I nostri nomi suonano dall’una all’altra parte del paese” spiegò l’altro, trattenendosi dal ridere di fronte a quell’inaspettata faccia da schiaffi. “Tanti, sono, i nomi, ma tutti si riferiscono a noi. Non a me, non a te. Arles si è rivolto ad entrambi. Non puoi dire…”

“Un buono a nulla, uno sfigato. È sparito nel niente prima che potessimo entrare in azione. Lo vedevo bene, mi piaceva il suo modo di fare, l’avrei seguito, ma ci ha messo poco a diventare un cane del re.”

“Non sto parlando di lui, adesso…”

“E allora di che minchia stai parlando?!”

Aphrodite si alzò di scatto, seccato. Le conversazioni, con Death Mask, come sempre finivano per diventare estenuanti. Anche adesso gli stava con fiato sul collo, domandando, e le domande di Death Mask avevano l’abitudine di farsi sempre più sboccate quanto più era evidente che non stava capendo il discorso. Aphrodite era abituato alla volgarità di Death Mask; ma alla lunga, la tentazione diventava quella di strangolarlo.

“Ti sfido.”

“Che?”

“Ti sfido. Trova una vittima.”

“Trova una…?”

“Sì. È così difficile?” lo canzonò, con voce melodiosa. “Trova una vittima. Il primo di noi che finisce il lavoro…”

“Frena, frena, belloccio. Stai…? No, ok, aspetta. Mi piace.”

“Oh, che cosa c’è di difficile?”

“Va bene, va bene, ho capito.”

“Vai e portala, su.”

“Eh ‘sta minchia, non sono mica un cane! Vado!”

Sparì. Una sfida lanciata in cinque minuti, Maschera di Morte spariva, curvo, con le sue falcate forti e larghe nel fitto del bosco. Aphrodite sorrise; prima di tutto, finalmente nella radura regnava di nuovo un piacevole sottofondo. Il merlo aveva addirittura ripreso a cantare. Per seconda cosa – accarezzò una rosa – era veramente arrivata l’ora di fare abbassare la cresta a quel presuntuoso di un italiano…

 

“Lupo. Lupo sanguinario. La Belva…”

Shura s’interruppe un secondo a pensare al cattivo gusto di quest’ultimo nome d’arte. Sorvolò. Già leggere a cavallo si rivelava difficile. Ma stava coscienziosamente studiando:

“Maschera di Morte, Death Mask. La Maschera. La Morte.”

Era chiaro. Lupo, morte e maschera. Assortiti a piacere.

“Rosa, Rosa rossa,” riprese a leggere “Rosa scarlatta, Rosso Sangue…” dovette stringere le redini, il cavallo voleva fermarsi a brucare l’erba. “…Cappuccetto Rosso. Cappuccetto Rosso?”

Il capitano delle guardie reali era perplesso. Conosceva la storia di Cappuccetto Rosso, probabilmente gliel’avevano raccontata da bambino, e doverla associare ad uno spietato sicario doveva evidentemente turbarlo. Ma non staccò lo sguardo dai fogli – stava sempre coscienziosamente studiando: era in borghese, ed era in missione. Una missione tutta particolare per conto del principe Aioros.

 

“So di potere affidarmi solo a te, Shura.”

“Potete contare su di me, Vostra Grazia.”

“Questi due individui si stanno rivelando oltremodo pericolosi, e non abbiamo nessuno strumento per poter dar loro la caccia. Sono avidi, spietati, crudeli, mio nobile Shura. Acconsenti ad indagare per primo?”

“Sì, signore.”

“Fino ad ora pochi elementi ci erano noti di questi due criminali. Ma grazie all’aiuto del generale Saga…” Qui un sorriso illuminò quasi a giorno la stanza. Shura, composto, socchiuse gli occhi, in assenza di un parasole. Non voleva apparire maleducato. Saga era seduto lì a fianco, arrossì leggermente e si schernì.

“Ehm…”

“Che era a conoscenza di qualche indizio in più…”

“Se è lecito, Vostra Grazia, come…?”

“…qualche indizio in più” ripeté interrompendolo il regale giovane.

Il principe Aioros continuava a sorridere. Imperturbabile e fisso. Saga stava palesemente facendo finta di niente, arrossendo ormai fino alle orecchie. Prese ad ordinare delle carte in fila sul tavolo. Il fatto che Shura continuasse a bucargli la schiena con quello sguardo, lo sentiva, che neanche due puntaspilli tra le scapole, non lo aiutava. Ma Shura era ben lontano dal voler turbare l’animo del principe.

“Comprendo.”

 “Agirai per noi in avanscoperta, capitano?”

Il capitano ricevette in mano un dispaccio, scritto di pugno dai due uomini che aveva davanti.

Lo ripose al sicuro e fece un inchino formale.

“Sì, Vostra Grazia.”

 

“Oi.”

“Mh?”

La rosa intrecciata tra i capelli conferiva al bellissimo giovane un’aria ancor più voluttuosa. Death Mask si limitò a far ruotare gli occhi verso al cielo, ma lo sbuffo uscì nervoso. Non si sentiva perfettamente a suo agio, in verità. Si ritrovò a borbottare:

“C’è un ciuro, sulla strada, là, passa a cavallo.”

“Ah?”

“Ciudiddu coi capelli scuri. Cavallo bianco. Ha una spada e basta. Giù da là, contro la scarpata. Sembra un po’ stordito, ma scommetto che è una preda mica facile.”

“Perché lo dici?”

“Lo so. Ci so fare. Ci stai?”

“Va bene.”

“Dividiamoci.”

Si allontanarono per i due capi opposti della radura.

“Lupo?”

“La prossima volta ti accoppo, ‘sta minchia. Ripetilo ancora e ti sbuccio come un mandarino, sono stato chia–?”

Assottigliò i bellissimi occhi, Aphrodite, velenoso: “Prova a barare e ti ammazzo.”

“Eh? Chi, io? Bara te e ti trovi secco. Fa’ in tempo a pensare di mettermi i bastoni tra le ruote che appendo la tua bella faccia in casa mia” gracchiò l’altro. Si fissarono in cagnesco. Si allontanarono.

Niente scherzi, su questo erano d’accordo.

Ostacolare l’altro – ovviamente – sarebbe stata la parte più divertente.

La vittima faceva solo parte del gioco, non avrebbe dato problemi. Era solo un’ignara pedina.

 

“Uh?”

Era la quarta, forse quinta rosa che Shura trovava conficcata nel terreno. Era innaturale, pensò, decisamente innaturale che le rose crescessero a quel modo. E ogni tanto aveva percepito un fischio sordo, un sibilo quasi impercettibile. Ma il capitano non ci si spaccava la testa; proseguiva, in guardia, una meta ben precisa. Spronò il cavallo proprio mentre la sesta rosa – bianca, questa volta, minacciosa – si conficcava a terra là dove un secondo prima sulla traiettoria c’era la sua testa.

“Dannazione! Ma come fa?!”

Aphrodite rasentava l’isteria. La terza rosa andata a vuoto era stato il colpo che aveva cominciato ad urtare i suoi nervi. E ogni rosa sprecata peggiorava la situazione. Era molto. Molto. Molto. Nervoso.

Tanto nervoso che Maschera di Morte sgattaiolava, silenzioso, alle spalle della vittima scesa da cavallo, ed era già bell’e che pronto per tagliargli la gola; ma i suoi sensi a mille gli furono utili più che altro per bloccarsi e tirarsi indietro quando un muro di rose velenose gli si piantò proprio davanti ai piedi, fitte che manco uno zerbino. Mandò giù tutte le bestemmie che gli si stavano affollando in gola, batté in ritirata, cercò, fiutò, trovò – Aphrodite lo vide in tempo e corse via, ma il lupo era svelto e cieco di rabbia e lo aggredì, balzandogli addosso:

MA IO TI SGOZZO!

Fu graffiato da unghie e spine, Aphrodite lottava feroce, e cadevano entrambi, rotolando sull’erba selvatica, fiori e sterpi. Lo sentì urlare: “Tu per primo mi hai ostacolato! Lo so che sei stato tu, sei stato tu, lo so! Maledetto, maledetto–”

Gli tappò la bocca, appena furono fermi. Ansimavano, feriti e furibondi. Lui lo morse.

AHIA!”

Death Mask si tirò in piedi, imprecando in siciliano strettissimo, scomodando dai loro seggi i santi tutti, dai più eminenti a quelli abituati ad un seguito di accoliti molto ristretto. Tutti se li ricordò. E poi si buttò di nuovo addosso all’assassino, Rosa scarlatta, dalla bellezza che feriva e che gli aveva morso una mano, ‘sta minchia.

“Quanto mi fai incazzare!”

Rantolò, tremendo, afferrandogli i polsi con una forza incredibile. Poi lo baciò.

 

“Quindi, capitano? Il vostro rapporto è questo?”

“Sì, signore, negativo, per quest’oggi, purtroppo.”

“Non avete trovato niente di sospetto, quindi.”

“Niente di sospetto, no, Vostra Grazia. In quel bosco c’è qualcuno. Ho percepito chiaramente due presenze minacciose, di cui ero certamente l’obiettivo. Ho sventato un esiguo numero di attentati alla mia persona, senza darne mostra per non insospettirli. Per questo è necessaria una perlustrazione più approfondita, signore. Per conto mio con il tempo che rimaneva ho setacciato il luogo il più possibile, ma sembrava non ospitasse anima viva. Il bosco era disabitato, se non fosse per una… ehm… coppia di… giovani, che ho… interrotto, ehm… in un momento poco opportuno.”

Era uno spettacolo compassionevole, quello del capitano delle guardie reali che arrossiva sino alla punta delle orecchie. Saga pensò per un attimo che c’erano buone possibilità che quella scena l’avesse traumatizzato per il resto dei suoi giorni. Provò quasi tenerezza per lui.

“Non ti capisco, nobile Shura.” Il principe, la sua principale fonte d’imbarazzo, aggrottava virilmente le sopracciglia. Shura si fece se possibile ancor più rosso.

“Beh, io… mio signore, Vostra Grazia, la… fanciulla, voglio dire, i due giovani, Vostra Grazia, io… erano piuttosto intenti… voglio dire… personalmente… la loro persona… erano…”

“Sì, sì, capisco.” L’erede al trono annuì solennemente. “Non c’è niente di più imbarazzante che introdursi in un intimo colloquio tra due amanti.”

“Ecco, sì” prese al volo lo spunto, ormai senza fiato, il valoroso soldato, senza bene capire a cosa acconsentisse. Saga invece si reggeva le tempie, non osando intervenire; si schiarì la voce, vagamente imbarazzato: “Beh… in questo caso immagino sarà solo questione di tempo.”

“Sì, signore, senza dubbio, generale.”

“Quando due giovani sono innamorati, nel conversare s’isolano dal mondo intero” continuava a ragionare saggiamente Aioros, fra sé e sé. “E qualunque benintenzionata persona ha la sensazione d’essere un terzo in mezzo a tale armonia. Non è vero, nobile Saga?”

Saga gli rivolse un modesto sorriso. Aioros sorrise a sua volta. Pareva che le stelle sulla volta celeste scintillassero tutte assieme. Shura aveva la vaga sensazione d’essere un terzo.

“Animo, capitano!”

“Ah! Sì, signore. Chiedo solo che questa missione mi sia lasciata. Perlustrerò il luogo ogni giorno finché non avrò trovato indizi di un certo rilievo.”

“I due in questione, perdonate…”

“No. Non credo abbiano idea della mia identità.”

“Lo credo bene, altrimenti avrebbero preso più sul serio la vostra presenza, capitano” intervenne Saga. “Ai tempi del vostro servizio come guardia personale della famiglia reale non avete sventato più di una ventina di avventati?”

“Trentadue sicari. Giustiziati con Excalibur.” puntualizzò con un battito di ciglia il capitano. Non aveva l’aria di vantarsene. Reggeva nella destra l’elsa della spada, tranquillamente inguainata.

“È per questo che siete stato nominato capitano delle guardie reali, un anno fa. I vostri trascorsi sono molto famosi. Non dubito che vi avrebbero preso tanto alla leggera, data la vostra fama. Non dubito che ne uscirete incolume.”

“Datemi ancora un mese, Vostra Grazia, al massimo due. Perlustrerò il luogo ogni giorno fino a quando non riscontrerò qualche indizio utile.”

“Permesso accordato, capitano Shura. Avete tutto il tempo che vi sarà necessario.”

 

“Dovremmo rifarlo, sai.”

“Eh?”

Abbassò lo sguardo, Aphrodite, il mento a poggiarsi sul petto. Sbuffò, scostandosi così un ciuffo di serici capelli che gli era finito davanti agli occhi.

“Dovremmo rifarlo. Domani.”

“Che cosa?”

“La sfida.”

“La che?”

“La sfida.”

“Ah. Ah, la sfida. Che–? Ah, la sfida.”

Il sorriso sarcastico di Aphrodite non aveva uguali sulla Terra. Era quello più capace di qualsiasi altro di farti sentire un completo idiota. Lui ti poneva quella domanda trabocchetto, tu ci cascavi come un pirla, poi stavi in silenzio, lui stava in silenzio e poi lì, gli s’incurvavano le labbra in quel modo e in mezzo secondo ti umiliava sino all’interno delle ossa. Gli ribollì il sangue nelle vene. Death Mask si chiese se saltargli di nuovo addosso, sgozzarlo, o baciarlo di nuovo o mandarlo a farsi fottere o provvedere direttamente lui, ora lì e subito. Come prima. Come tutte le altre volte. Nel dubbio, rimase fermo e lo guardò malissimo, più torvo che poteva, sino a suscitare le sue risa più cristalline. Era bello, bello, crudele e dolcissimo. E più lo provocava, più lo metteva in obbligo di rispondere, di imporsi, di prenderlo per i polsi e salirgli sopra e fargli capire chi comandava. E Aphrodite lo sapeva, perché lo faceva apposta. E questo, a Death Mask, piaceva.

“Tu lo sai.”

“Cosa?”

“Ce lo siamo fatti scappare. Finché non muore, non ci sarà un vincitore.”

“Morirà. Non sembrava uno sveglissimo. La prossima volta che torna, muore.”

“E quando?”

“Domani.”

“E se non domani?”

“Dopodomani.”

“E se non–?”

“Beh, prima o poi muore!”

“Io mi sono divertito.”

“Solo te ti diverti.”

“Anche tu.”

“Fino a quando non mi hai lanciato quelle fottutissime rose.”

“E ti ho morso.”

“E mi hai morso.”

Era bello, bello, crudele e dolcissimo. E più lo provocava…

E Aphrodite lo sapeva, perché lo faceva apposta. E questo, a Death Mask, piaceva.

“E se finisce in pareggio?”

“Oggi è finita in pareggio.”

“No.” ghignò il lupo, saldi gli artigli sul velluto cremisi, saldi mentre lo stringeva a sé, la preda conquistata. “Ho vinto io.”

“No. Ho vinto io.” A sorpresa, il sorriso di Cappuccetto Rosso. Crudele e bellissimo.

E potevano benissimo avere ragione entrambi.

 

 

And they all lived happily ever after. ~

 

 

 

 

 

 

{ Ever after }

 

Per amor di cronaca, debbo farvi notare che la dolce melodia che intona Pisces non è una qualsiasi bucolica amenità da passeggio. Green Finch and Linnet Bird sotto il suo incantevole aspetto – e deliziosi gorgheggi, ascoltatela – viene dal soundtrack di Sweeney Todd.  Sì, beh. Non potevate aspettarvi di meno.

Questo capitolo era veramente riuscito bene, e in più Shura mi fa una tenerezza mostruosa. Certo che è un figo, però. Bisogna lustrarselo meglio! Su Death Mask non mi pronuncio, è incontenibile, e io confesso, mi sono divertita come una cretina a trovare i modi più improponibili di fargli esternare i suoi scleri. Bisognerebbe lasciargli più carta bianca. Aphrodite è il migliore.

…Oddio come mi manca l’adorabile acidità di Aphrodite. Quand’è che torna dalle vacanze? çOç

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Capitolo 5
*** La bella addormentata ***


Gemini no Kanon

« Once Upon A Time » Pictures presents...

 

 

 

Aquarius Camus & Scorpio Milo in

 

« La bella addormentata nel bosco »

 

 

Introdotte da una lunga strada, una diramazione di quella via polverosa che solca la campagna, eccole stagliarsi, le mura, contro cieli azzurri e bigi. Giù, più giù, seguendo boschi che si diradano ai piedi delle torri, alti pini silvestri sino alla superba cancellata che racchiude giardini più preziosi. È suggestivo, lo scenario che lo contorna. Si dice esso sia il maniero della bella addormentata.

 

Ora, diciamocelo. Sua regia maestà o meno, il principe Aioria sentiva l’urgente bisogno di una vacanza. Non che avesse dovuto sopportare poco, durante il corso di quell’anno, comunque, a farci due conti: in autunno, le nozze di uno dei suoi conti. E non erano le nozze in sé a turbarlo, quanto piuttosto il fatto che la sposa in questione si trattasse di un uomo. Un uomo, da qualsiasi parte lo si guardasse, rimaneva decisamente un uomo. Durante l’inverno, ad ogni modo, le attenzioni della corte avevano dovuto spostarsi sulla minaccia del condottiero Arles, in un assedio che aveva dovuto essere seguito passo passo, dato l’anormale e imprevedibile susseguirsi delle sue vicende. Il fatto che Arles, in quel momento, si aggirasse tranquillamente per le stanze del palazzo al fianco del suo nobile fratello, poi, non aiutava a chiarire la faccenda (anzi, il giovane principe trovava ancora più inquietante il fatto che il generale gli sorridesse, bello e invincibile, sfoggiando con naturalezza il suo aspetto identico a quello dell’altra… stramberia che nel mentre sorbiva beatamente il tè nel palazzo di Lord Rhadamantis). E ora, come se non bastasse, dall’inizio della primavera il capitano Shura impegolato in quella missione senza capo né coda, per la quale ogni settimana partiva ed ogni settimana ritornava, in un inspiegabile gioco dell’oca…

“C’è abbastanza di che farsi venire un esaurimento nervoso” stava appunto spiegando il principino al suo giovane amico d’infanzia. Milo ridacchiò, e gli lanciò due solide pacche alla schiena come si fa con gli amici, principi reali o meno. Nobili di grande origine, di grande stirpe, da sempre diretti vassalli del re, il riflesso naturale era trattare l’amico coetaneo da pari a pari:

“Te l’ho detto, io. Ti ci vuole una bella vacanza, ecco cosa.”

“E tu te ne vuoi approfittare per fare baldoria.”

Milo scosse le spalle. Il sorriso malizioso di qualche secondo dopo probabilmente stava a significare: e se anche fosse? Aioria, il serio Aioria, sospirò, dandosi un contegno.

“È solo un vecchio castello di famiglia.”

Inarcava le sopracciglia bionde, tornando al discorso intavolato dal giovane atletico che gli sedeva di fronte giocherellando distrattamente con un prezioso tagliacarte.

“Ebbene? Non è forse il luogo di villeggiatura estivo prediletto dalla tua famiglia? Non puoi aver dimenticato i giorni felici che vi passammo assieme da bambini, Aioria. Fu lì che ci conoscemmo, appena ragazzini. Non vedo posto più adatto.”

“D’accordo, d’accordo. Alla prima occasione buona…”

“Che devi fare ancora?”

“Presenziare ad una cerimonia.” Tentò di togliergli di mano il tagliacarte, ma Milo non ne voleva sapere. Si allungò sul tavolo, deciso a riprendersi ciò che era suo, sbuffando: “Onorificenze per merito. Dammi qua.”

“Per merito, eh?” L’altro si tirava all’indietro, dondolandosi sulla sedia. Il tagliacarte gli piaceva. Mano a mano che si tirava indietro, si allungava verso la porta semichiusa, e gli capitò di buttare uno sguardo fuori. Una figura attendeva nei corridoi, che il giovane nobile poteva bene intravedere dalla porta aperta dello studio.

“E dimmi…” distrattamente, soggiunse, allungando di più il capo, curioso. C’era qualcosa di famigliare in quelle lunghe chiome. “Per caso è una nostra conoscenza?”

“La è.” Con uno scatto felino, Aioria ne approfittò per riprendersi l’ambito tagliacarte. “Te lo ricordi, Camus?” Ne saggiò la punta con l’indice. Il sorriso sulla bocca di Milo si allargò, sino a scoprire i denti bianchi. Un ghigno più marcato, o l’illuminarsi degli occhi?

“Certo che me lo ricordo.”

 

Camus si guardava attorno, sbattendo gli occhi, senza insistere per non apparire maleducato.

Non riusciva esattamente a capire come avesse fatto ad ottenere un invito tanto prestigioso, pur tenendo conto delle onorificenze di grande merito che gli erano state conferite – assieme ad un titolo nobiliare che l’avrebbe senz’altro elevato di condizione sociale. Sicuramente i suoi studi avevano attirato parecchio interesse da numerose istituzioni ed accademie, ma non riusciva a spiegarsi quest’episodio in particolare sino in fondo. Erano stati giorni piacevoli, comunque, passati a rievocare. Sedeva a tavola in compagnia di giovani uomini con cui aveva trascorso parte dell’infanzia in quel vecchio maniero, in onore dei vecchi tempi, ed ora stava ascoltando per l’ennesima volta la vecchia favola della bella addormentata.

“Ancora con questa storia, Milo! Quante volte devo ripetere che è solo un vecchio castello di famiglia?”

“Perché non ci racconti la storia?”

“Eh?” sospirò sconsolato, il giovane principe. Guardò interrogativo la dama al suo fianco, che non gli sorrise direttamente, ma gli fece capire con gli occhi che a lei sarebbe piaciuto ascoltarla. Si trovò così in preda ad un grosso dilemma: “Di nuovo?”

Ogni volta che riceveva ospiti nell’antico castello, il quale era considerato popolarmente il palazzo colpito dalla maledizione della strega trecento anni addietro, era di rito raccontare la leggenda della bella addormentata. Tutti, senza esclusione, gliela chiedevano. Non la si scampava. Sospirò di nuovo, per prendere tempo.

“Dai, Aioria, per piacere! Non ce la racconti da quando eravamo bambini!”

“Sarebbe carino” suggerì per la prima volta la giovane, tirandosi discretamente indietro una delle ribelli ciocche fulve dietro l’orecchio. Aioria si rivolse di nuovo a lei, consapevole di essere sul punto di cedere. Cedette.

“D’accordo, d’accordo.”

Milo lanciò un’occhiata vittoriosa a Camus. Camus gliela restituì, perplessa, per tornare ad ascoltare il padrone di casa. Milo non si diede per vinto. Da una settimana non faceva che gironzolare attorno all’amico ritrovato. Era più forte di lui, e gliel’aveva detto. Non ci era voluto nulla a ritornare in confidenza, nemmeno per Camus, Camus dai tranquilli occhi chiari. E il confine per passare dalla confidenza all’intimità per Milo era molto sottile. Per esempio aveva recentemente scoperto, negli ultimi tre giorni, quanto amasse ripetergli di essere felice di averlo di nuovo al suo fianco. E lo sentiva, Milo. Era una dolce primavera, per lui. Niente era più bello di seguire Camus lungo i viali alberati, lasciandosi prendere dai ricordi e considerare quanto elegante fosse diventata la sua figura, i suoi modi, quanto fosse adorabile il suo modo di sbuffare e altre mille piccole scemenze che Aioria (costretto ad ascoltarle) non poteva assolutamente tollerare. Milo non capiva perché. In soldoni, era innamorato. Non capiva perché la gente non ne fosse felice.

“C’era una volta un Re e una Regina che erano disperati di non aver figli, ma tanto disperati, da non potersi dir quanto. Voti, pellegrinaggi, le provarono tutte, ma nulla giovava. Dopo tanto penare alla fine la Regina rimase incinta, e partorì una bambina. Fu fatto un battesimo di gala: si diedero per madrine alla Principessina tutte le fate che si poterono trovare nel paese, perché ciascuna di esse le facesse un regalo; e così toccarono alla Principessa tutte le perfezioni immaginabili di questo mondo. Dopo la cerimonia del battesimo, il corteggio tornò al palazzo reale, dove si dava una gran festa in onore delle fate. Davanti a ciascuna di esse fu messa una magnifica posata, in un astuccio d’oro massiccio, dove c’era dentro un cucchiaio, una forchetta e un coltello d’oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e di rubini. Ma in quel mentre stavano per prendere il loro posto a tavola, si vide entrare una vecchia fata, la quale non era stata invitata con le altre, perché da cinquant’anni non usciva più dalla sua torre e tutti la credevano morta…”

“E vi pare che sia questo il modo? Fare sì che non ricevessi neppure un invito!”

Qualcuno anticipava il racconto del principe. I presenti si voltarono, sorpresi, per un attimo colti in contropiede. Quasi si aspettavano di trovarvi la vecchia strega, adirata per l’esclusione alla cerimonia, e invece al suo posto si stagliava composta la figura di un giovane dai lineamenti d’angelo. Tutto di lui emanava bellezza, dalle preziose sete indiane dei suoi vestiti all’oro dei suoi capelli. Il suo viso sarebbe stato capace d’infondere la serenità più pura, insomma, e tuttavia dalla sua bocca uscivano improperi di una veemenza inaudita:

“Ah, ma quest’affronto non passerà impunito! Potete starne certi! Nessuno aveva mai osato tanto, e

ora qui, in vostra presenza, vi maledico!”

“Un momento, prego.” Camus era stato l’unico ad azzardare una risposta, alzandosi in piedi, composto, tra i compagni impietriti. “Siete voi che giungete qui senza preavviso, senza annunciarvi e senza esporre le vostre ragioni prima d’insultarci. Abbiate il coraggio di esporvi!”

Vi fu un breve silenzio, di una manciata di secondi, in cui l’improvviso ospite ritrasse appena il capo, come sconcertato da tanta audacia, ed infine aprì gli occhi, azzurri come il cielo e affilati come la lama di una scimitarra.

“Bada, Camus. Attento a quello che fai.” Tese un dito verso il giovane, sforzandosi di mantenere un rigido tono superiore. Milo si alzò in piedi a sua volta. Si conoscevano? O quel misterioso giovane aveva indovinato il suo nome per qualche oscura magia?

“In verità ti dico, a te e questa sciocca compagnia, che non dovrai aspettare né il tuo sedicesimo compleanno, né pungerti il dito col fuso d’un arcolaio per sprofondare in un sonno profondo! Ben più profondo della morte. Tu sai bene di cosa parlo” sibilò infine, per poi lasciare la stanza, misteriosamente come vi era penetrato.

I presenti erano ammutoliti. Che cosa significava quest’ultima, oscura maledizione?

“Aioria! Aioria, che cosa fai, presto, fallo inseguire! Ma Aioria! Sai chi è quell’uomo?”

Scosso dalle vivaci proteste della giovane promessa sposa, Aioria tuttavia non batteva nemmeno le palpebre, l’aria sconvolta. Milo si unì al coro delle proteste quasi immediatamente. Maledizione a quel biondino invasato! Aveva la pelle d’oca giù per la schiena!

“Ma Aioria! Chi diavolo era quello?”

“Fate silenzio” sbottò infine il principe, riportando la calma. Sembrava molto turbato. Rivolse lo sguardo a Camus, che gliene restituì uno impassibile.

“Non avrei mai pensato…” mormorava fra sé e sé intanto il giovane della casa reale. Ma non ci fu verso di cavargli un’altra parola di bocca. E il pranzo riprese.

 

Tutto per colpa di quel cretino di Aioria!, pensava freneticamente Milo riguardo al suo unico signore e padrone, in sella al suo cavallo. Tutta colpa sua, che non aveva voluto dirgli da dove era spuntata quella malefica strega… stregone… quello che era! E ora per colpa sua Camus si trovava in grave pericolo.

Il resto del periodo di svago in campagna era passato pigramente, tranquillamente, com’era normale aspettarsi. Niente di niente era successo, ovviamente. E Milo ci aveva fatto una bella risata sopra. Incosciente! Come un fulmine a ciel sereno, appena rincasato gli era stata recapitata un’infausta notizia: il nobile Camus, non appena rientrato nella sua dimora, si era chiuso in camera e da allora era sprofondato in un sonno innaturale, profondo, dal quale nessuno riusciva a svegliarlo. Lo stato di catalessi durava ormai da giorni. E lui era su un cavallo, che galoppava a tutta velocità.

Tuttavia, l’impresa presentava una lunga lista di ostacoli da superare.

Prima di tutto, trovare il castello nel quale Camus si trovava in quel momento. Ma era un problema al quale aveva presto ovviato, chiedendo indicazioni. Era solo stato tanto avventato da urlare di mettere la sella al cavallo e precipitarsi al salvataggio da non stare a pensare a dettagli come il luogo in cui si stava effettivamente recando, ma aveva rimediato a mezza via.

In secondo luogo, lì al galoppo, i capelli al vento, non riusciva a ricordarsi con esattezza se formalmente egli si potesse fregiare dei titoli di Principe Azzurro, Primo Amore e via dicendo. Il titolo nobiliare era di un gradino più sotto. E non avrebbe mai ceduto il posto ad Aioria. Aioria aveva la morosa. Per quanto riguardava il Primo Amore…

Tirò tanto bruscamente le redini al cavallo che questi ad avere la parola avrebbe volentieri imprecato e bestemmiato contro il suo padrone – probabilmente la giusta traduzione del suo nitrire, sbuffare e fermarsi con stizza puntando gli zoccoli infangati al suolo, più volte, a passetti nervosi, per fermare il proprio moto precipitoso. Uno sconvoltissimo Milo, nel frattempo, era in preda ai flashback più scomodi che la narrazione potesse regalargli in un momento come quello…

 

“Smettetela di prendermi in giro!”

“Perché? Solo perché sei il principino?”

“Smettila, Milo!”

La vocetta acuta ma decisa di Aioria era petulante, e tuttavia divertente. Milo rideva, rideva.

Com’era presuntuoso, quel bambino dai lunghi ricci. Camus se ne stava in disparte, senza parlare. Poi lo rimproverò:

“Milo, smettila. Non sta bene.”

“Ma dai, non è buffo? Aioria ha già la fidanzata!”

“Smettila!

“Ma è piccolo!”

“Smettetela!”

“Io non ho detto niente” fece notare il bambino dai capelli dai riflessi turchesi, con aria distaccata. Fissava Aioria in un modo che poteva sembrare perlopiù impassibile, ma in verità era sempre molto gentile con lui. Aioria era semplicemente arrabbiato, i capelli arruffati come la criniera di un leone. Era anche molto rosso.

“Il fratellone dice che è la mia promessa sposa! Non dovete permettervi di prendermi in giro!”

“Ma dai, è solo buffo. E poi Marin è un maschiaccio. Gioca sempre con noi col pallone.”

“Perché è forte e coraggiosa!”

“Aaah, allora ti piace, ti piace!”

“Sì, mi piace!” Arrossì di più, Aioria. Poi mandò giù e cominciò a sfregarsi il naso, con aria compiaciuta. Aveva una bella mossa con cui controbattere al moccioso suo coetaneo. Gonfiò tutto il petto e gli buttò giù: “Sei solo invidioso!”

“Invidioso?” spalancò la bocca Milo. “IO? E di che?”

“Perché sono il suo fidanzato e posso darle i bacini. E tu non puoi. Lo so che sei invidioso!”

Milo si offese a morte.

“Non c’entra un bel niente!” Strillò.

“E invece sì!”

“E invece no!”

“E invece sì!”

“Per piacere, calmatevi…”

Camus fece per mettersi in mezzo. Milo lo abbrancò per un braccio, gelosissimo. Camus era il suo migliore amico, Aioria lo stava facendo arrabbiare, e lui non si doveva mettere in mezzo! Doveva stare con lui!

“Sai che me ne importa della tua fidanzatina!”

“Ahia, Milo, mi fai male.”

“Io tanto ho Camus!”

“Ma scemo, non è mica la stessa cosa!”

Milo ringhiò mentre abbracciava il suo amico fin quasi a soffocarlo, e poi, presogli il viso con le manine, gli stampò sulla bocca un bacio maldestro, frettoloso, che servì solo per rivolgersi ad Aioria e fargli la linguaccia:

“Invece sì! Visto!”

“Ma Milo, che schifo! Siete due ragazzi!”

Aioria era affascinato e scandalizzato al tempo stesso. Era assolutamente, moralmente convinto che c’era qualcosa sotto e non era la stessa cosa. La sua faccia era molto dubbiosa. Milo gli fece un’altra linguaccia. E Camus si divincolava.

“Non c’entra niente!”

“E invece sì!”

“E invece no!”

“E invece sì!”

 

E invece sì, diede ragione Milo ad Aioria, oh, sì. Quella cosa faceva la differenza. Non poteva crederci. Rimase cinque minuti buoni barcollante in sella al cavallo fermo, come inebetito. Possibile che fosse stato un moccioso tanto imbecille?

“Non c’è tempo da perdere, su, su, al galoppo, al galoppo! Hah!

Incitò di colpo il proprio destriero, che partì di buona lena, con uno scatto sorpreso. Il padrone quel giorno era particolarmente nervoso. Sperava almeno di ricavarci qualcosa in biada e carote una volta rientrato in scuderia.

 

“Presto, conducetemi da lui” sillabò, col cuore in gola, mentre consegnava le redini ai servitori in cortile. Milo salì le scale con la netta sensazione che la terra gli stesse crollando sotto i piedi. Di tutta la confusione in quell’assurda vicenda, non riusciva a togliersi dalla testa che Aioria gli aveva raccontato mille volte che il primo bacio del vero amore avrebbe risvegliato la bella addormentata, ma qui non c’era nessun primo bacio, e Camus dormiva, bello ed immobile, il viso pallido, i lineamenti dritti e severi, eppure dolci, come li vedeva dolci, ora che entrava nella stanza, e l’amico giaceva inerte e composto fra i velluti color porpora e amaranto. Oh, Camus! Quante cose c’erano ancora da dire! E lui giaceva, immobile, e chissà se si sarebbe mai svegliato! Camus, che non aveva fatto in tempo a stringere tra le braccia!

“Camus!” si gettò su di lui, un’accorata invocazione, sollevandolo e stringendolo a sé, nella perfetta scena madre di un bacio appassionato e senza speranza.

“Ma che cos-Milo!” soffocò invece Camus, sulla sua bocca. Si separarono come se avessero preso la scossa elettrica. Milo finì seduto a terra, con un pesante tonfo.

“Ahia!”

“Ma sei pazzo?! Cosa ti prende?”

Camus, bello, non più algido Camus, seduto, si sfregava la bocca, guardandolo indignato, i capelli scomposti. Il giovane a terra boccheggiava.

“Camus… sei sveglio…”

“Certo che lo sono! Grazie a te! Hai interrotto la mia pratica!” sbuffò, finalmente infastidito.

Borbottò qualche cosa d’altrettanto oscuro, mentre si alzava da dov’era steso, barcollando un po’. Faticava a riprendere perfettamente l’equilibrio, abbandonato com’era nel torpore da giorni.

“Ma io… tu… dormivi da giorni… erano tutti preoccupati… e… e la strega del castello, voglio dire, lo stregone… e tu… e io… e…!”

“Strega? Stre… oh, ma no, ma parli di Shaka? Se ti sentisse ti strapperebbe i capelli.”

“Shaka?”

“Milo.” Si sedette, accavallando le gambe, un sospiro sconsolato. Il clima era cambiato. Camus aveva preso la parola. Muto, l’altro ebbe l’ardire di avvicinarsi, quieto quieto, come un gatto, standosene buono e fermo. “Shaka era l’altro studioso che assieme a me contendeva il titolo che la famiglia reale mi ha conferito per meriti di studio, in campo scientifico. Lavoravamo entrambi sullo stato di sonno apparente” cominciò a spiegare, interrompendosi per sbadigliare. “Shaka sostiene di essere capace di raggiungere questo stato tramite la meditazione, io sono capace di ottenerlo per autoibernamento.”

“Autoibernamento.” ripeté Milo.

Camus gli faceva paura. Poco ma sicuro. Ma era salvo!

“Autoibernamento, sì.”

“Autoibernamento. Ma sei vivo!”

“Sto benissimo.”

“Allora era a quello che si riferiva con quelle strampalate, ambigue parole! Io credevo ti stesse maledicendo!”

“Oh, mi stava maledicendo. Non mi può sopportare. E poi il premio l’ho ottenuto io” considerò l’altro in tono neutrale.

“Oh, Camus!” lo abbracciò di slancio, ignorando i suoi commentini acidi. Quant’era bello!

“Milo, mi fai male.”

“Quanto sono stato in pena!”

“Ma non potevi chiedere ad Aioria?”

“Quanto ho penato, Camus! Tu non ne hai idea!”

“Davvero, Camus, Aioria lo conosce, non ti ha spiegato…?”

“Camus, io ti amo!”

“Milo, per l’amor del cielo, sto bene, ti ho detto.”

Il giovane in ginocchio ai suoi piedi gli giunse le mani e lo guardò amorevolmente, appassionatamente, intensamente negli occhi: l’aveva risvegliato dal sonno con un bacio, e ora era suo. Tutti gli altri dettagli erano quisquilie burocratiche. Camus sospirò. Poi, incrociando le braccia con uno sbuffo divertito, gli rilanciò indietro un sorriso e un’occhiata ironica, che diceva: tu non ti arrendi proprio mai, vero?

Milo incassò, strinse la presa e ghignò. No. Mai.

 

“Voi lo sapete…”

“Ahn?”

“…che tutto ciò… è profondamente malato, vero?”

“A che ti riferisci, Aioria?”

Il sangue reale del principe gli permetteva di non scomporsi tanto facilmente. Ma Milo era suo amico. Era quello che lo prendeva a pacche sulle spalle, gli rubava i tagliacarte e gli lanciava le nespole dall’altra parte del cortile. Il minimo era mettersi le mani nei capelli e aspettare che tutto passasse.

“Non hai una buona cera, vecchio mio. Perché non ti prendi un’altra vacanza? Veniamo anche io e Camus con i bambini!” propose l’amico in tono innocente.

“Ecco! Ecco! È questo il punto! Non so se vi rendete conto…”

“Che cosa?”

“Milo, tu lo sai che alla fine della favola la bella addormentata e il principe hanno due figli?”

“Certo che lo so, sciocco, me l’hai raccontata tante di quelle volte…”

“Beh, vi sembra forse normale?”

“Oh, dipende dal punto di vista.” Milo si voltò a rimirare i due ragazzini, alti e forti, che seguivano passo passo la luce dei suoi occhi, l’elegante maestro che li precedeva ed indicava loro ogni forma e colore. Presto li avrebbe eruditi sui principi della fisica. Era già qualche tempo che avevano preso a vivere assieme a loro, per mettersi sotto l’ala protettiva del mentore di prestigio più alto nel regno, e… beh, il castello di Milo era grande. “Si chiamavano Aurora e Giorno, nevvero? Beh, un maschietto e una femminuccia. Che tenerezza. Comunque trovo che anche Isaac e Hyoga siano due bei nomi.”

Naturalmente Aioria non intendeva nulla di tutto ciò. Prese un profondo respiro e decise di lasciar correre. Ci si era tanto abituato, negli ultimi tempi…

“Allora? Un’altra bella villeggiatura al maniero?”

“Per carità. Shaka l’ha preteso come laboratorio personale. È ancora oltraggiato dal fatto che l’Accademia Reale abbia prediletto Camus a lui nell’assegnazione di quel tipo di…”

“E ti fai mettere i piedi in testa così facilmente?”

“Tu forse non hai capito che stiamo parlando di un personaggio molto importante, di grande fama, e…”

“Oh, lascia che rosichi ancora un po’, in questo caso. Bene. Dove potremmo andare per l’estate, allora?”

Gli brillarono gli occhi. E dietro di lui sfilava con maestà una figura la cui sagoma era impossibile da confondere, e si avvicinava ai due giovani, e Aioria sapeva che di lì a due minuti tutto sarebbe stato perduto, e qualche cosa di ancora più assurdo si delineava all’orizzonte per quell’estate calda e soleggiata, e nemmeno osava immaginare cosa il destino avrebbe potuto preannunciargli dietro a quelle tonanti, chiare ed innocenti parole:

“Giovani cavalieri che qui siete giunti! Sbaglio o vi ho sentito parlare di villeggiatura estiva?”

 

 

And they all lived happily ever after. ~

 

 

 

 

 

 

{ Ever after }

 

Vi confesserò un torbido segreto. All’epoca della stesura di questo capitolo, io odiavo profondamente Shaka. Non gli ho fatto fare una bruttissima figura, alla fin fine, cerco di essere imparziale coi personaggi; ma mi stava proprio sul cazzo. Questa cosa, a distanza di tempo, mi fa lollare tantissimo e progettare una sua ricomparsata decente. Mica per altro, è che Shaka può essere molto più antipatico di così. Mi sembra tutto potenziale sprecato.

Il mio problema più grande, alla fine di questa favola, era che ci tenevo veramente molto a citare più o meno tutti. Se notate, infatti, anche nei precedenti capitoli uno dei bronze saint è perlomeno nominato. Solo che a questo punto, dopo un intermezzo, sceneggiatura voleva che ci fosse una fiaba molto più lunga delle altre, a chiusa del ciclo di storielle; molto carina, tra l’altro, e me la serbo proprio per ultima, solo che non mi offriva un cast poi così ampio di personaggi da sfruttare. Dovete agli imput maledetti di Shinji e di Stateira se vedrà presto la luce un capitolo in più, che mi ha dato lo sprono a ripartire. Sempre siano benedetti.

E con questo, finisco di rivangare nostalgicamente, e passo al nuovo. Ci si vede. <3

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Capitolo 6
*** Intermezzo [II] ***


Signore e signori, sappiamo quanto sia importante prendere il fiato fra una lettura e l’altra

Dopo una lunga attesa, ed un altrettanto lungo silenzio stampa da parte della produzione, finalmente un esclusivo reportage che anticipa il ritorno delle nostre storie preferite! Ecco a voi…

 

 

« Once Upon A Time » Pictures presents...

 

 

 

Intermezzo [II]

 

Il nostro coraggioso staff, in quest’occasione, si è sentito umano e ha tentennato. C’è stata una viva contesa su chi avrebbe avuto l’onore di intervistare i due sanguinari sicari più temibili del regno, e alla fine è stata scelta la ragazza delle fotocopie. Ma siamo sicuri che sarà stata all’altezza. Via con i contenuti speciali!

 

 

 

« Cappuccetto Rosso »

 

 

D: Ah… devo ammettere che è tutto più emozionante, visto da qua sopra…

Aphrodite: Sì, eh? (cordialmente) A proposito, solleva i piedi, zuccherino.

D: Co… così?

Aphrodite: Sì, così… e attenta alla testolina. Death Mask! Ora! Il cappio!

D: Oh, santo cielo.

 

D: Dunque, ehm, mi sono preparata le domande che mi hanno dato e, eh, uhm… devo dire che… le ho perse. Devono essere volate giù. Oh, e adesso…?

Death Mask: La tiriamo ancora alla lunga? (sputa per terra, da un’altezza di ben tre metri da terra) Và che qua c’è gente che lavora!

Aphrodite: Stai zitto e tirali meglio, quei nodi!

D: Ecco, per esempio. Perché siamo su un albero?

Aphrodite: Perché stiamo costruendo una trappola, piccina. (tira con sorprendente forza una fune, facendo leva su due rami) Death Mask! Il cappio! (strilla)

Death Mask: Va bene, va bene, lo stringo, brutto isterico! (mastica, passando sull’altro albero)
D: Ehm. E per chi è la trappola?

Aphrodite: (sospira, che sta tenendo in tensione una fune) Per una vittima. (con evidente sarcasmo)

D: Ah! Oh. Allora non l’avete ancora preso! In ufficio ancora si scommette, davano vincitore Lupo uno a dieci… ma davvero non l’ave—

Aphrodite: NO.

 

D: Passiamo alla prossima domanda…

Aphrodite: Te le stai inventando sul momento?

D: Sì! Ho perso il foglio… dunque… io ho pensato, leggendo… che voi due non siete poi così cattivi, nel senso, non è che siete di quei delinquenti che si comportano così perché vengono da un’infanzia povera, e tutto, cresciuti negli stenti… oppure come Robin Hood, tipo?

 

Aphrodite si volta verso Death Mask con espressione scandalizzata. Death Mask, con sguardo vitreo, traduce mentalmente quello che gli sta comunicando tramite contorsioni facciali.

 

Death Mask: Dai, di che ti lamenti? Poi ci sganciano la grana!

 

D: Altra domanda. Come vi siete conosciuti?

Aphrodite: (alzando ironicamente un sopracciglio) Per lavoro.

Death Mask: (sghignazza)

D: È stato un colpo di fulmine?

Aphrodite: Volevo ammazzarlo.

Death Mask: (se la ride anche di più)

D: E Death Mask sta sempre-sempre-sempre sopra?

Death Mask: (rischia di strozzarsi con le sue stesse funi) Mandala via! VIA!

 

La ragazza delle fotocopie plana in caduta libera da una quercia. Fortunatamente, cade fra le braccia di un aitante cavaliere. Cappuccetto Rosso e Lupo se la battono all’istante.

 

D: Oh… oh! Che fortuna! Proprio voi cercavo!

Shura: Oh. (non fa ulteriori commenti. Ma fissa la quercia)

D: (smonta faticosamente) Se mi date un momento, intanto cerco le domande che ho perso!

Shura: … (smonta e prende a pungolare con Excalibur le fronde più a portata)

 

D: Capitano Shura, molti spettatori/lettori desiderano sapere se vi sentite molto afflitto da questa situazione. Due fuggiaschi in libertà, le vostre ricerche infruttuose…

Shura: No. Faccio solo il mio dovere.

 

Shura stende il braccio e trancia di netto una fune. Dal profondo delle fronde parte di netto un masso che, dopo una pesante planata, si schianta dove fino a un attimo prima stava il cavallo a pascolare. Shura si limita ad osservare.

 

D: Oh, santo cielo… e che mi dice della sua vita privata?

Shura: Prego?

D: Eh… questo lavoro le porterà via un sacco di tempo… siete il tipo che sacrifica l’amore e la famiglia per la carriera?

Shura: … (è del Capricorno, sarebbe strano altrimenti)

D: Capisco. Qualche ultima dichiarazione, prima che vada?

Shura: Ah… mi dispiace di essere stato scortese. (sbatte gli occhi e si gratta appena il capo, a mo’ di scusa) Sono impegnato in una missione delicata, e Sua Grazie il principe Aioros conta su di me. Ah, e fate attenzione su per quel sentiero. Ci sono una decina di trappole mortali innescate da fili rasoterra. Le balestre invece scattano in automatico. E le... tutto bene? Signorina?

 

 

« La bella addormentata »

 

 

D: Sono veramente grata di aver trovato rifugio qui. Grazie. Grazie. Grazie.

Milo: …ma che vi è successo, per Dio?

D: Tutto bene. Sono qui per intervistarvi. Grazie per avere mandato una carrozza a prendermi!

Milo: Non arrivavi più! (passa al tu, con un sorrisone) Allora, quest’intervista? Prima di tutto ti porterò a visitare il castello. Così potrai vedere Camus. E le stanze dove Camus insegna Fisica ai suoi due allievi. Anche nei giardini, ama insegnare, Camus.

D: Non è necessario…

Milo: Non fare complimenti e scrivi.

 

D: Grande successo la vostra performance infantile nel flashback. Fan conquistate.

Milo: Grazie, grazie.

Camus: Sì, erano veramente così. Tutto il giorno a inventarne di nuove e punzecchiarsi.

Milo: Aioria è sempre stato un leoncino spelacchiato.

Camus: Milo.

Milo: E Camus un pinguino arrabbiato.

Camus: Milo.

Milo: …eri un pinguino arrabbiato bellissimo! (con foga)

Camus: …

 

D: Camus, o… Professor Camus: ma Shaka vi odia veramente tanto?

Camus: Non saprei. (accavalla le gambe, prima di rispondere) La nostra rivalità si limita al campo di studi, né più né meno. Ma io sono piuttosto intransigente su certe questioni, e Shaka decisamente puntiglioso. Direi che è inevitabile lo scontro.

D: “Decisamente puntiglioso” sta per “rompiballe”?

Camus: N—

Milo: Sì!

D: Nessun rancore, quindi.

Camus: (fissa Milo per sincerarsi che non intervenga prima, e poi chiarisce) Assolutamente.

D: D’accordo, ma tra voi due chi è il più bello?

Camus: …eh?

Milo: Camus! <3

 

La ragazza delle fotocopie scribacchia velocemente un titolo per il servizio: “Scorpio Milo, l’esempio pulsante dell’Imparzialità”. Poi torna a sfogliare le domande.

 

D: Come vi sentite, ora che vi siete realizzati e avete messo su famiglia? Il Primo Amore dura per sempre? Gli spettatori/lettori ci tengono ad avere la vostra opinione in merito.

Milo: Avrei voluto anche una femminuccia…

Camus: Milo. Non sono figli tuoi.

Milo: … (si mette in un angolino a fare cerchiolini)

Camus: L’amore è qualche cosa che si costruisce. È qualcosa di laborioso, che c’entra con il destino e con la volontà contemporaneamente. Un amore che dura a lungo può essere destinato dal primo momento se le due persone che si… Milo, smettila di tenermi il broncio!

Milo: (tattica Scorpio numero uno, lo guarda serio e afflitto)

Camus: Non sono contro l’educazione femminile. Un giorno potrò avere anche un’allieva. (lo grattina dietro le orecchie)

Milo: Oh, Camus, sarebbe bellissimo. Come la chiamiamo?

D: …

 

 

 

Intermezzo [II] – fine

 

Prossimamente sui vostri schermi: Cenerentola & La bella dai capelli d’oro!

 

 

 

 

 

 

 

{ Ever after }

 

Habemus papam. Riprendo una pubblicazione interrotta più di un anno fa, nonostante il grande divertimento che mi dava. Mi sono scatenata con le oneshot e, pur senza abbandonare Saint Seiya, che è un fandom che ormai mi ha rapita e attirata come un vortice senza ritorno, mi sono dedicata ad altro. Poi, se ne chiacchierava nella verandina di un bungalow con un po’ di gold saint e, vuoi che da sempre vagheggiavo di porre termine alla raccolta, vuoi che ci ero affezionata (specie a Barbablù, che mi è venuta fuori davvero dal niente), vuoi che da tempo pensavo almeno di darle una sistemata, l’ho ripresa in mano e mi sono decisa a finirla. Ho i soggetti e l’ispirazione per le ultime due fiabe – che doveva essere una, ma i gold saint di cui sopra hanno ottime idee – e quindi eccomi qui. Ne ho approfittato per dare un giro di correzioni qua e là e per dare al testo una formattazione decente. Se volete dare un’occhiata indietro, troverete le stesse identiche storie forse appena più scorrevoli, una formattazione migliore e delle noticine in fondo. Per quanto riguarda il resto, lo spirito è sempre lo stesso. Se ci siete ancora, accompagnatemi sino all’happy ending. *_* <3

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Capitolo 7
*** Cenerentola ***


Gemini no Kanon

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Andromeda Shun & Cygnus Hyoga in

 

« Cenerentola »

 

 

C’era una volta una magnifica villa, sulla sommità di una collina, un palazzo nuovo, ricco ed elegante, che senza eccessivi sfarzi s’imponeva sulle case del paese. Descriverla adeguatamente sarebbe il solo modo di rendere onore alle sue verdi e curate siepi, alle finestre istoriate, ai corridoi caldi e luminosi. Ma quello che c’interessa sapere di questa villa è che, al momento di cui si scrive, essa era in preda all’isteria collettiva.

“Le carrozze! Avete chiamato le carrozze? Non c’è più tempo! Le carrozze devono essere prenotate in anticipo! Vi dico che le nostre sono inagibili. Vorrei proprio sapere chi ha avuto la bella idea di uscire a passeggio in campagna, proprio in campagna, e proprio nei sentieri allagati dalla pioggia! Ah, ma se…”

“I signori, Lady Pandora. Sono stati i signori a…”

“Ah, non si può stare tranquilli un minuto. Parlerò io con i signori. Le carrozze, per amor del cielo! Avete prenotato le carrozze sì o no?”

“Andiamo subito, Lady Pandora.”

“Sbrigatevi, insomma!”

“Sì, signorina!”

Non tutta la villa, a dire il vero, tuttavia, era coinvolta nel clima frenetico. In un appartato salottino, per esempio, due distinti gentiluomini sedevano uno di fronte all’altro, il massimo dei loro sforzi proiettato nel meditare sulla prossima mossa a scacchi.

“Lady Pandora sembra piuttosto agitata. Cavallo in G4.”

“E sta venendo qui. Torre in G6. Attento, Minos.”

“Alla torre o a Lady Pandora? Il mio cavallo è guardato da un pedone.”

“A Lady Pandora, infatti. Prendi su la scacchiera. Filiamocela.”

“Aiacos! Minos!”

Come la gentil donzella posò piede nella stanza, i due si bloccarono istintivamente, senza osare proseguire nel tentativo di fuga. Minos ancora ancora, incrociando le braccia dietro la schiena, poteva fingere di non saperne niente. Aiacos, che reggeva in bilico la scacchiera sulla testa, non poté fare altrettanto.

“Ma insomma, che combinate! Per l’amor del cielo, devo starvi dietro come a due bambini! Voi due, tra i tre conti e magistrati più importanti dell’intero regno, che sedete al Tribunale di Sua Maestà ogni giorno…” Due passetti lesti lesti, e Minos drizzò la schiena, con aria impassibile, per farsi raddrizzare il panciotto. “Ma che disordine!” Aiacos guadagnò solo una tirata d’orecchie.

“Ahia! …non me lo meritavo.”

“Sì, invece. Di chi è stata l’idea di uscire in carrozza, imbrattandomela tutta di fango?”

“Sua.”

“Sua.”

“Decidetevi.”

“Non ha importanza, Lady Pandora. Penserò io a sistemare tutto.”

I tre si voltarono quasi contemporaneamente verso la dolce voce che si era introdotta nel loro discorso. Un ragazzino esile, dallo sguardo sognante, aveva fatto capolino dalla porta. I suoi abiti erano certamente poveri, ma straordinariamente puliti, e né quelli né gli strofinacci che gli impegnavano le mani, segno della sua condizione servile, riuscivano ad intaccare la straordinaria bellezza del suo volto efebico, la luminosità dei suoi occhi, il sorriso gentile. Le sue parole risvegliarono un grande sospiro nella giovane donna che, ora, si portava una mano al petto.

“Shun. Grazie al cielo, sei un angelo.”

“Oh, sono contento di potere esservi utile.”

“Sentito? Ci pensa Shun” liquidò allegramente Aiacos, girando attorno a Pandora per riappoggiare la scacchiera sul tavolino, per ridare un’ombra di dignità alla scena. “Non faremo brutta figura alla festa. Tranquilla.”

“Dovreste essere più coscienziosi, voi due! Questa festa è un’occasione importantissima, è il primo ballo della stagione, indetto dal principe in persona! È un evento di grande prestigio, ed è importante che voi, in quanto eminenti personaggi pubblici, vi mettiate in mostr-Aiacos! Quei cioccolatini non sono per te!”

“E per chi sono?”

Lo strano trio si era rimesso a ciarlare – più o meno – allegramente per conto suo, ma Shun non se ne crucciò. Era ormai abituato ai frequenti siparietti che si svolgevano in quella casa. Per non essere d’impiccio o d’incomodo, si spostò ai margini della stanza, cominciando diligentemente a spolverare i soprammobili.

“Allora” sospirò per l’ennesima volta Pandora, cercando di fare il punto della situazione. “Il ballo si terrà stasera alle dieci in punto. Forse riusciremo ad avere le carrozze pronte in tempo – ma sappiate che dopo facciamo i conti anche a questo proposito – e i vestiti sono pronti e stirati nelle camere degli ospiti.”

“La mia è quella blu?”

“Sì, Aiacos, la solita. Mesi che te ne alloggi a scrocco in questa casa, e…”

“Va bene, va bene, ho capito.”

“Bene. Ora vi farò un’altra semplice domanda. Avete, non è vero – spero vivamente che non abbiate pensato che potessi occuparmi anche di questo – una compagna con cui presentarvi?”

Passarono tre secondi di silenzio. Più che sufficienti per dare un’idea della risposta a Lady Pandora, che invece del tanto sospirato udiva solo Shun canticchiare allegramente nella sua opera di pulizia. I due uomini si guardarono in faccia.

“Tu chi porti, Minos?”

“Ma sì, ma sì” si distrasse quello, allungando le dita pallide verso il tavolo a spostare un pezzo da un quadro nero ad uno bianco, in orizzontale. “Mi porterò dietro Rune.”

“Rune è il tuo procuratore.”

“Lo so.”

“È un maschio.”

“Appunto. Non è rumoroso, non fa commenti inopportuni, non si attarda quand’è ora di andarsene. Direi che è perfetto.”

“E va bene.” Batté il piede a terra, Pandora, spostandosi con lo sguardo da uno all’altro. In fondo, non c’era niente di male per un uomo celibe a farsi accompagnare dal proprio assistente, specie se ricoperto di una carica importante come quella di procuratore di Lord Minos. Passò dunque lo sguardo all’altro gentiluomo, con un che di vagamente minaccioso. “Aiacos?”

Minos sogghignò. Adesso arrivava il bello. Appoggiò sfacciatamente il viso alla mano, un gomito sulla scacchiera, pregustandosi le arrampicate sugli specchi dell’amico e collega, che stava cercando di mantenere un sorrisetto sicuro e spavaldo, in evidente ricerca di una risposta convincente. Alla fine, sotto gli occhi divertiti del Giudice, allargò il sorriso fino a farlo divenire smagliante, e spalancò le braccia: “Naturalmente pensavo di invitare voi, mia splendida, avvenente Lady Pandora!”

“Mmh. Questa è una buona risposta. Sarei venuta lo stesso, ma, naturalmente, al braccio di Lord Aiacos sarà tutt’un’altra cosa. E va bene.”

Vittoria schiacciante. Minos sbuffò svogliato, mangiandosi un pedone senza aspettare il proprio turno. Ma ormai Aiacos era andato. Tubò, così, a voce alta, per interrompere la gloria del collega:

“E Lord Rhadamantis? Mia Lady Pandora, perché non controllare a dovere anche lui?”

“Perché io so badare a me stesso, Minos.”

“Si-signor Rhadamantis!” pigolò Shun, scostandosi per fare entrare l’uomo imponente che si profilava sulla soglia. Lord Rhadamantis entrò con tutto il suo severo cipiglio, in netto contrasto con il ghigno divertito di Minos e la disinvolta postura di Aiacos. Il quale tuttavia raggiunse subito il collega alla scacchiera, come riunito da un’improvvisa complicità: “Uuh, c’è Barbablù!”

“Barbablù, Barbablù!”

“Finitela, idioti.”

“Rhadamantis, mio caro. Qual buon vento ti porta?”

Rhadamantis, aggrottando il nobile monociglio, spostò gli occhi da Pandora, signorilmente accomodata in poltrona, a Shun, che si fece piccolo piccolo. Ma ritornò quasi subito alla nobildonna, omaggiandola di un piccolo, marziale ma rispettoso inchino.

“Vengo a recapitarvi l’invito ufficiale al ballo di stasera, mia signora.”

“Oh, è meraviglioso. Ti ringrazio” flautò lei, prendendo tra le dita la busta che il conte le allungava gentilmente. Gesto di diverso tenore quello invece diretto agli altri due uomini, che ricevettero le loro buste senza troppa grazia né formalità.

“Immaginavo che foste qui, come al solito. Ho anche i vostri.”

“Grazie, caro collega!” vociò Aiacos, sghignazzando.

“Aah, il malvagio Barbablù in realtà ha un cuore d’oro! Fufu.”

“Finitela. E badate di non presentarvi in ritardo.”

“Come sta la tua adorabile mogliettina, vecchio mio?”

“Sta bene.” Per la prima volta da quand’era entrato, Barbablù ricambiò i sorrisetti dei due gentiluomini con un sottile, inquietante sogghigno. Lady Pandora scosse la testa, disapprovando.

Shun, il dolce, piccolo Shun, aveva gli occhi inavvertitamente spalancati sulla scena, sebbene le sue mani continuassero a lavorare operose. Non riusciva a staccare nemmeno le orecchie da quella strana, tagliente conversazione, che ai suoi occhi tuttavia spalancava scenari da fiaba. Un ballo! Un principe! Si ritrovò a sospirare impercettibilmente, riabbassando le palpebre e concentrando lo sguardo sulla grata del caminetto, che stava strofinando vigorosamente con lo straccio per ripulire dalla fuliggine. Lui a quella festa non sarebbe potuto mai andare, perché…

“Quel ragazzino” saettò di lato gli occhi Rhadamantis, senza farsi udire dal diretto interessato, intento a spolverare e fantasticare, con sguardo trasognato “perché è dedito a faccende tanto umili? Sono stato male informato, o è il padrone di casa?”

“Più o meno” Lord Minos aveva la pessima abitudine di incrociare le gambe ed appoggiare i piedi sul primo ripiano che gli capitava, in casa propria o di altri. Si vede che era stato abituato a trattarsi bene. Dovette posarli solo sotto lo sguardo fulminante di Pandora. “Lady Pandora ha la casa in affidamento, non lo sai?”

“In affidamento?” interrogò la voce cavernosa del conte, che rimaneva severamente in piedi. La gentildonna incrociò le mani in grembo, sospirando e lasciando finalmente perdere Minos.

“In affidamento, Rhadamantis.” Drizzò la schiena, un sorriso signorile dipinto in volto. “Questa bella casa che vedi è frutto del duro lavoro di un nobile giovanotto che ben dovresti conoscere. È un mio lontano parente. È assente da lungo tempo, per uno dei tanti viaggi di lavoro che lo portano lontano. Io sono responsabile in vece sua della casa e del suo grazioso, dolcissimo fratello minore.”

“Stai parlando di Ikki?” biascicò da dietro Lord Aiacos, steso ancor più comodamente di Minos sui divani. “Di quale nobiltà andate cianciando, Lady Pandora? È solo un borghesotto arricchito! Come, poi, non si sa bene.”

Goodness gracious. Un borghese.”

“Volete tacere?” li rimproverò inviperita l’interpellata. Gettò una breve occhiata al soggetto della loro discussione, che tuttavia si trovava ad una ragionevole distanza da loro, e con la testa decisamente fra le nuvole. “È da casa sua che da mesi andate avanti e indietro come se fosse un albergo! E solo vantando la vostra conoscenza con me! Dovreste vergognarvi.”

“Beh, è una bella villetta” commentò con un’encomiabile faccia di bronzo Minos.

“Oh, andiamo, Lady Pandora!” rise ad alta voce Aiacos, distogliendo Shun dalle sue riflessioni. “Rallegriamo un po’ la casa, non è vero? Non è vero, Shun?”

Il ragazzino si beccò una brusca seppur a modo suo affettuosa scompigliata di capelli. Sbatté gli occhioni verdi, senza capire, ritrovandosi la manona di Aiacos sulle spalle.

“Il nostro angelo del focolare!”

“La nostra Cenerentola” motteggiò dal fondo della sala Minos, con un innaturale tono apatico.

“Oh!” Shun arrossì terribilmente “Voi… non dovete badare a me! Lady Pandora sta facendo del suo meglio per badare alla casa del mio signor fratello, e io le sono così grato! Da solo non ce la farei a badare agli affari, e alla servitù…”

Sulle sue labbra sbocciò un modesto sorriso, e riabbassò presto gli occhi sullo strofinaccio, torcendosi quasi le dita. Non si sentiva invero all’altezza di quei tre nobiluomini tanto adulti e di tanto alto rango. Finì la frase quasi sussurrando: “Preferisco rendermi utile come posso.”

“Sentito?” chiosò allegramente il Giudice, finendo di scompigliarselo a dovere. “Gli piace così!”

“Mh” grugnì vagamente il terzo componente del gruppo, limitandosi a dare una rassettata alla propria impeccabile giacca di tweed. “Sarà. Non voglio immischiarvi negli affari vostri. Ad ogni modo tolgo il disturbo, è già ora di pranzo. Mi raccomando, puntuali al ballo.”

“Quando mai siamo in ritardo, o nostro inflessibile Barbablù?”

“Quattro volte su tre. A stasera.”

 

La verità era che Shun avrebbe voluto terribilmente partecipare a quella festa. E avrebbe anche potuto, in realtà. Era lui il padrone di casa, e sarebbe bastata una parola gentile a Lady Pandora per ottenere di potere unirsi al gruppo; ma ci si era tanto arrovellato che aveva finito per perdere il coraggio. E così si limitò al modesto, secondario ruolo di Cenerentola, aiutando come sempre i due ospiti a prepararsi e tirarsi a lucido in vista dell’evento, trascurando sé stesso e mentendo sui suoi programmi per la serata. Ma a ben vedere, che cosa mai avrebbe avuto a che spartire con loro? Lady Pandora, per quanto lontana parente, era nobile. Anche Lord Aiacos e Lord Minos lo erano. Lui non era nessuno – o quasi. Suo fratello aveva lavorato tanto, e ancora lavorava sodo, investendo in affari a lui non del tutto chiari, ma eccome se lavorava. E lo faceva per lui. Grazie alla volontà, al talento e all’intuito aveva assicurato ad entrambi una bellissima casa, una posizione rispettabile. Avrebbe potuto dirsene fiero. Ma nonostante questo, Shun si sentiva fuori luogo. E, meditava rannicchiato immobile al davanzale della sua finestra, Ikki gli mancava davvero tanto.

Ah, come avrebbe barattato quella villa lussuosa e le carrozze per una modesta casetta, ma con il fratello al suo fianco! Per scacciare le lacrime che minacciavano di uscire al pensiero, si costrinse a scendere le scale e fare una passeggiata nel giardino. La fresca brezza della sera gli rinfrescò il viso, ma non gli allietò la mente. Fissava le stelle, gli occhi tristi, pensando che per una volta, una soltanto, gli sarebbe piaciuto vedere la corte. Vedere principi e dame, e balli e risate, e le luci scintillanti di una festa a palazzo, come in una bellissima fiaba. Come in una bellissima fiaba – chiuse gli occhi, il petto scosso dai sospiri – una gentile fata sarebbe giunta ad aiutarlo, forse, se l’avesse sperato con tutto il cuore. Giunse le mani. Se ci avesse creduto una buona fata avrebbe avuto compassione di lui, e avrebbe…

“Maledizione!”

…sfondato la siepe del lato Ovest, su un cavallo imbizzarrito, costringendolo ad una repentina fuga ed una caduta fra le sterpaglie. Shun urlò spaventato, riparandosi sotto una panchina, mentre attorno a lui sembrava scoppiato l’inferno: urla virili, scalpitii e nitriti sordi, e il fragore di un marasma di bauli ed oggetti rovesciati, che rischiavano di cadergli addosso. Quando riuscì a tirarsi fuori dal suo nascondiglio, spalancò la bocca stupefatta nel vedere suo fratello maggiore smontare da cavallo, con aria parecchio malconcia e soprattutto parecchio, parecchio incavolata.

“Un giorno o l’altro farò loro la pelle!” imprecò, strattonando il cavallo sino a farlo fermare, nervoso.

“Fratello!”

“Shun!”

“Ikki, sei tornato!” Il giovane non poté fare a meno di buttare le braccia al collo del ragazzo più grande, che con aria corrucciata lo sostenne. “Sei stato via a lungo, fratello! Quanto mi sei mancato!”

“Sono tornato, Shun. Ma che ti succede? Cos’è quella roba che hai addosso?”

E tu?, avrebbe benissimo potuto chiedere Shun. Ma Ikki, dall’altro dei suoi abiti lisi e stracciati come quelli di un avventuriero, aveva l’aria di chi era abituato ad ottenere risposte, più che a darne. Così il ragazzino tacque, arrossendo appena.

“Che cosa fai conciato come un servo?”

“Ho… ho dato una mano… in casa, fratello. Io…” Alzò gli occhi, verdi, splendenti, verso i suoi, neri, seri. E non ce la fece a trattenersi oltre. Davanti al suo amato, caro, fratello, appena rientrato da chissà quale pericoloso viaggio, non gli venne di meglio da fare che scoppiare in lacrime, raccontando ogni cosa. Di ogni angustia, di ogni lavoro, di ogni preoccupazione e timore, e di ogni desiderio. Soprattutto quell’ultimo, sciocco desiderio, di un ballo e di una fiaba. Davanti ad Ikki, che tornava coperto di polvere e bello come un cavaliere che esce dalla battaglia, che lo ascoltava senza sollevare un sopracciglio. Alla fine tacque, mordendosi le labbra. E magari aspettandosi una bella sberla.

Invece, quello che gli arrivò in faccia fu il tonfo morbido di qualche abito recuperato nei bauli sparpagliati. Spalancò gli occhi, incredulo e confuso.

“E così” scandiva la voce profonda del ragazzo di spalle “quell’arpia usurpa la mia casa in mia assenza.”

Suo fratello, il suo forte, impavido fratello, frugava silenzioso nei bagagli sparsi, mentre il cavallo trottava tutt’attorno, ancora agitato e confuso. Shun pensò vagamente che anche quel poveretto doveva avere avuto una brutta serata. Ma presto si vide piantati addosso gli occhi scuri e taglienti del fratello, che gli porgeva qualcos’altro con un gesto deciso e che non avrebbe ammesso un rifiuto.

“Togliti quei vestiti, Shun. Andiamo a vendicarci.”

 

Certo non era quello il programma della serata che aveva in mente.

Stretto alla schiena di Ikki, le braccia a stringerlo fortissimo in vita, in quel galoppare disperato, Shun pensava freneticamente al da farsi. Aveva sperato in una fiaba, e si stava trasformando in un romanzo di pirati.

“Ma fratello!” tentò di farsi sentire da sopra il ritmo feroce della cavalcata. “Non faremo mai in tempo! Che cosa vuoi fare!”

“Voglio andare a dirgliene quattro!” ruggì quello, facendosi sentire eccome. Shun deglutì, discretamente intimorito dalla piega che stavano prendendo gli eventi. Non era certo sua intenzione arrivare a palazzo reale per piantare delle grane, o per fare scenate. O peggio, per menare le mani.

“Ma fratello, io…!”

“Non ora, Shun! Siamo quasi arrivati!”

Nel fresco della notte, Shun alzò gli occhi, e vide il castello. Non aveva mai visto niente di più bello in vita sua. La guancia appoggiata alla forte schiena del fratello, nel vento della cavalcata, fu sorpreso dall’altezza delle torri, slanciate, e dalle luci. Quando si fermarono, fu bruscamente, ma non troppo. Ikki non l’avrebbe mai lasciato cadere: smontò, bruscamente, affidando il cavallo al primo stalliere, e lo aiutò a scendere con entrambe le mani.

“Ora stammi a sentire. Io entro dentro e sistemo tutto.”

“Ma Ikki… fratello mio.” Shun gliele afferrò, quelle mani, e Ikki le lasciò dov’erano, pur scalpitando di energia virile. Sospirò. Ora riconosceva il fratello, il dolce, piccolo fratello, avvolto in abiti più consoni ai suoi bei lineamenti: quello che ora era diventato un giovane ed elegante cavaliere pretendeva la sua attenzione, e  la ottenne. “Sii prudente, ti prego.”

“Lo sarò. Tu aspettami qui, Shun” gli ordinò protettivo, volgendosi verso il portone e le guardie reali, il petto in fuori, ben deciso ad andare a fare giustizia. “Non permetterò che chi ti ha maltrattato sin’ora resti impunito. Tu dovrai entrare a testa alta quando sarà il momento. Mi hai capito?”

“S… sì!” si mise sull’attenti lui.

Shun restò fermo obbediente dove il fratello maggiore gli aveva detto, fissandolo con ammirazione mentre procedeva a larghe falcate. Ammantato a sua volta di abiti più adeguati all’occasione, Ikki aveva tutte le intenzioni di presentarsi senza invito. Bastò guardare significativamente le guardie e scrocchiare le nocche del pugno, e le porte si aprirono magicamente.

 

Nel frattempo la festa, colorata e piena di musica, si svolgeva al ritmo di valzer. Quasi tutti gli invitati avevano ballato almeno il primo giro. Quasi tutti: non il principe, troppo impegnato ad illuminare a giorno l’intero salone, accompagnato dall’immancabile generale; il capitano delle guardie, impettito come sempre sull’altro fianco; e una manciata di dame o cavalieri solitari che ancora non si erano incontrati. Tra questi, un giovane ragazzo: una figura vestita quasi interamente di bianco, dall’aria seria e vagamente malinconica, che se ne stava in disparte. Guardava fuori dalla finestra, quasi fosse impegnato a contare le stelle.

“Hyoga! Che cosa ci fai lì?”

“Ah… nobile Milo. Nulla, nulla di importante.”

“Non hai ancora preso parte alle danze!”

“Per me è già solo un onore essere qui” si schernì il ragazzo, con un timido sorriso. “Grazie alla benevolenza vostra e del Maestro. Ma non mi sento dell’umore giusto per una festa.”

“Isaac si sta divertendo” gli sorrise gentilmente il nobile vassallo del principe, affiancandolo come un fratello maggiore. Lo fece sorridere. “Perché non ti unisci a lui?”

“Sono troppo pensieroso, temo.”

“A che cosa pensi?”

Scosse le spalle, senza nessuna espressione in particolare. I capelli biondi gli ricaddero dolcemente sulle spalle, mentre tornava a rivolgere lo sguardo alla finestra. “Al passato.”

“Al passato. Ti va di parlarne?”

“Magari un’altra volta.” Hyoga accennò con un gesto vagamente preoccupato alle spalle del suo nobile amico. “Credo che il Maestro abbia bisogno di voi. Il Venerabile Shaka…”

Milo seguì la traiettoria del suo sguardo e sbiancò. Non quel demonio! Non quella furia bionda! Non quello a dirigersi con intenzioni scientifico-disquisitorie al suo Camus!

“Fermi tutti!” si sgolò, partendo alla carica. “Camus! Non rivolgere la parola a quella maledetta strega!”

Hyoga, giovane rampollo di nobile famiglia, era stato educato da una stirpe di cavalieri a non indietreggiare di fronte al nemico. Ma siccome l’amato amico del suo precettore stava già facendo il diavolo a quattro, il giovane pensò di approfittarne per sfuggire per un poco al rumore della festa, e di fare quattro passi in giardino. Si defilò elegantemente, una figura bianca e slanciata, per la portafinestra che dava sui giardini, più o meno nell’esatto istante in cui Ikki faceva il suo ingresso in sala.

 

Shun, nel frattempo, aveva avuto più o meno la medesima idea. Angosciato all’idea di dover aspettare il fratello, aveva optato per una strada alternativa, ed ora si ritrovava, da Cenerentola ad elegante cavaliere, negli opulenti cortili del castello del re. Inutile descrivere la sua meraviglia nel contemplare i viali ornati di composizioni floreali, le fontane, che alla luce della luna acquisivano una magia tutta loro. Tutto, sotto la luce della luna, in quel posto da fiaba, era magico: i germogli delle aiuole, teneramente chiusi; le fronde degli alberi, che stormivano quiete; i due loschi figuri nell’ombra, che finivano di legare e imbavagliare un poveretto stordito.

Due loschi figuri. Già.

“Bello che impacchettato” scandì una voce per entrambi, soave.

“Già!” una risata sgangherata, e lo scattare di un coltello. “E ora lo sgozziamo!”

“Sei veramente senza un briciolo di eleganza. Non hai classe.”

Scuci i soldiii!” cantilenava infatti il malvivente piegato sulle gambe, minacciando con enorme godimento il poveraccio a terra con gli occhi sbarrati, dondolando avanti e indietro il coltello.

Death Mask. Non fare rumore!

“Sgancialo, sgancialo, sgancialo il danarooo!”

Shun era rimasto a dir poco impietrito di fronte allo spettacolo. Due borseggiatori nei giardini del re? Ma chi erano quei due uomini? Fece un passo indietro, automaticamente, il cuore in gola. E sfortunatamente fece abbastanza rumore per farsi sentire: un istante, e quelli avevano gli occhi sull’intruso. Uno scintillio di occhi, un mantello scarlatto nella notte. Cappuccetto Rosso, il sicario dalla bellezza fatale, mosse un passo avanti. Aveva puntato l’inerme preda.

“Ci penso io a questa caramellina.”

Shun deglutì. Non aveva che una risorsa a sua disposizione.

Solo una.

 

“Pandora!”

Lady Pandora capì che la situazione era nera nel momento stesso in cui lo vide entrare a passo di carica nel salone. Ikki era abbastanza conosciuto per il temperamento irascibile e per i suoi colpi di testa, ma dovette ammettere che quando si sentì chiamare da un capo all’altro della sala da ballo, con voce tonante, fece fatica a deglutire lo champagne.

“Aiacos. Minos. Rhadamantis!” riuscì ad articolare, raccogliendo le gonne ed allontanandosi il più possibile dal raggio d’azione del ragazzo che, inferocito, stava attraversando a grandi passi l’intera pista da ballo, aprendo la folla con abbondante indifferenza alle occhiate e agli urletti delle signorine. Lui puntava l’arpia, e l’arpia scappava, giustamente. Bene. Molto bene. Valutò con un’occhiata i tre energumeni verso i quali l’arpia se ne stava scappando e decise semplicemente di falciarla prima che li raggiungesse. Prese la rincorsa, spiccò un salto e si preparò a stenderla con un calcio rotante.

Pandora urlò, cadendo a terra nello sgomento degli astanti.

Gli occhi sbarrati, il fiato corto, ma incolume.

Il calcio era stato parato da un braccio solido e da una presa altrettanto micidiale. Ikki, liberatosi dall’uomo che si era messo improvvisamente in mezzo fra sé e l’usurpatrice maledetta, si piegò sulle ginocchia. Indifferente al rumoreggiare sconvolto della folla, squadrò da capo a piedi l’orientale che si lisciava le pieghe della cintura di seta, come se avesse appena scacciato una mosca.

“E tu chi diavolo sei?”

“Rispondi tu per primo. Con quale cognizione attacchi una donna?”

“Non sono un gentiluomo” sogghignò il giovane, serrando i pugni, pronto in guardia. “Se mi si fa un torto, io lo vendico, senza guardare in faccia nessuno. E tu? Sei il paladino delle donne?”

“Che sciocchezza.” Un sorriso sornione. Finalmente quell’uomo dal viso delicato come quello di una fanciulla aprì gli occhi: erano azzurri, e tremendi. “È solo che non mi piacciono i tipi rumorosi.”

 

“Basta, ti prego, basta” gemeva intanto il sicario più spietato dell’intero regno. “Basta con quegli occhioni.”

Aveva fatto un errore. Aveva fatto un errore a coprire la fuga di Lupo, assicurandogli che si sarebbe sbarazzato lui del ragazzino. L’aveva sottovalutato. Aveva sottovalutato i suoi grandi occhi luminosi. Aveva fatto l'errore di prestare orecchio alle prime tre parole che gli aveva rivolto, e da allora gli sembrava di essere stato risucchiato in un vortice senza fine. Sentiva come lo zucchero scorrergli per le vene, e annegava nella melassa. Era quasi senza forze.

“…E così è stato per puro miracolo che mi sono ricongiunto con mio fratello, il mio caro, perduto signor fratello. Vi prego, signore, io so che c’è del buono in voi, vi prego, prendete i miei scarsi averi ma preservate la vita di quest’uomo! È legato e imbavagliato, al freddo, e senza dubbio morirà se lo lasciate lì! Oh, vi prego! Vi scongiuro!

“Chi va là?”

Cappuccetto Rosso si voltò di scatto. Oh, no. I ragazzini ora erano due.

Shun abbassò le mani, giunte nella foga della supplica, per rivolgere gli occhi velati di lacrime alla figura che avanzava con passo spedito per il viale ciottoloso.

“Chi va là, ho detto!” pronunciò più scandito e forte, emergendo all’ombra. Era un’apparizione di un bianco rifulgente, un ragazzo giovane ma fiero, che alzava la voce in maniera il più possibile controllata. Shun riconobbe ogni cosa, ogni singola cosa, in lui, dai capelli biondi agli occhi di ghiaccio: ognuna formava l’immagine di un meraviglioso principe. E non solo.

“Hyoga!”

“Shun?”

Fu come se il tempo si fosse sospeso.

Sotto la luce della luna, tutto era davvero magico. Anche quell’incontro, anche quell’incrociarsi di occhi. Non c’erano che Hyoga e Shun. Nel senso più letterale del termine, perché Aphrodite ne aveva approfittato per darsela a gambe.

“Shun! Sei proprio tu!” il giovane nobile si era lanciato in avanti, a prendere le mani dell’altro ragazzo, e a trarlo dalla polvere in cui era inginocchiato. “Che cosa… che cosa ci fai qui? Va tutto bene?”

“Oh, sì, va tutto bene ora che sei arrivato, Hyoga. Guarda, non mi sono fatto niente” rise, quasi, il ragazzino, imbarazzato e confortato dalla stretta alle sue mani. Hyoga, per la prima volta in quella serata, sorrise. Poi scosse la testa, sorpreso da quell’incontro inaspettato.

“Quanto tempo è passato?”

“Sei, sette anni, da quando giocavamo assieme.”

“Sì. Sì, lo ricordo.”

“Non mi sbagliavo” Shun estrasse le mani dalle sue solo per congiungere i palmi, in un gesto complice, guardandolo con occhi entusiasti. “Sei diventato davvero un principe.”

A quelle parole, tanto innocenti e tanto dolci, il giovane ed algido biondo arrossì.

“Ti sbagli, io…”

“Ma sì, Hyoga. In ognuno dei nostri giochi, tu eri sempre il principe. Me lo ricordo benissimo.”

“Sì. E Seiya era il cavaliere. E Shiryu il mago. Tu volevi fare il principe come me, ma gli altri bambini ti prendevano in continuazione in giro, perché dicevano che eri più adatto a fare la principessa. Quante volte Ikki li ha malmenati per difenderti.”

“È vero!” Una risata argentina, che riecheggiava dal passato. “Solo che…” Shun spalancò gli occhi, come se si fosse all’improvviso dimenticato qualche cosa di estremamente importante. “Non mi ricordo che cosa faceva Ikki.”

“Ikki? Ma è semplice.” Rise il biondo, come ritrovando all’improvviso l’allegria. La risata riscaldò il giardino, cancellò ogni preoccupazione. Riscaldò persino un po’ il cuore ed il sorriso di Shun, che si lasciò volentieri riprendere per mano, timidamente, per riprendere una passeggiata che aspettava da troppi anni. “Ikki faceva il cattivo.”

 

La festa era in delirio.

Piatti rovesciati, bicchieri in frantumi, gridolini di signore impegnate a fare il tifo per uno o per l’altro fascinoso giovanotto, entrambi estremamente concentrati nel riempirsi di botte. Avevano uno stile di combattimento estremamente diverso, ma ciò non influiva sul fascino dell’incontro. Volavano delle legnate storiche.

“E… chi lo sapeva che Shaka… menava così.”

“Oh, nel suo paese è molto famoso anche per questo.”

“Camus…” sudava freddo, Milo, e voleva davvero tirare un po’ più lontano dal ring il suo amato, intento ad analizzare con precisione clinica l’onda d’urto che aveva spedito Ikki contro una portafinestra. Nemmeno il rumore di vetri infranti gli fece sbattere le ciglia.

“Qualcuno… qualcuno deve farli smettere!” agitatissima, Lady Pandora cercava inutilmente di riportare la ragione là dove tutti ormai erano più che altro intenti a godersi lo spettacolo.

“E perché mai? Minos, una tartina?”

“Grazie, mio caro. Dici bene. Fa atmosfera. Ah, ha ripreso la musica, eccellente. Rune, balliamo!”

“M-ma V-Vostra Ec-Eccellenza, mio signore, n-non posso…!”

Fufu. Avanti, i passi sono gli stessi, ma conduco io, facile. Uno, due…”

Ma ecco che una luce di speranza investì improvvisamente i presenti: il principe Aioria era finalmente giunto, avvisato dalle guardie del tafferuglio che era scoppiato senza preavviso nel giro di pochi minuti in sala. L’espressione terrea sul suo volto la diceva tutta.

Preparati! L’universo ora ci attende!

Fermati! Ci oscureremo in un mondo di luce!

Accorso in tutta fretta, il principe Aioria notò, basito, che le due frasi gridate con tanto impeto dai due che ormai si stavano ammazzando non avevano nessun senso. Ma non se la sentì davvero d’intromettersi.

 

Ignari di tutto e di tutti, il principe che non era un principe e Cenerentola che non era affatto Cenerentola si raccontavano le loro vite da quando il destino li aveva separati, le braccia appoggiate al parapetto di una terrazza bianca. C’era tempo per decidere se vivere per sempre felici e contenti. Shun, per il momento, era contento di avere visto un castello tanto grande, e le luci, e quel magnifico giardino. Hyoga era contento di avere visto Shun.

“Di una cosa, però, mi dispiace” sospirò il ragazzo più giovane, il viso candido appoggiato alle mani. Hyoga lo scrutava attentamente, conoscendolo e riconoscendolo sempre di più ogni momento che passava. Tanto che gli venne spontaneo domandare subito: “Che cosa?”

“Sono riuscito a venire al ballo, ma non ho ballato!” rise il suo giovane amico, afferrandosi con le mani al parapetto e dondolandosi appena, sotto la luce della luna. Hyoga rimase in silenzio per qualche secondo. Poi gli sorrise.

“Nemmeno io.”

Per qualche incomprensibile ragione, Shun arrossì. Anche Hyoga, ma non aveva importanza, finché c’era solo la luna, sul giardino. Gli tese la mano. Anche se non era davvero un principe, potevano sempre riprendere a giocare. La musica non era ancora finita.

 

 

And they all lived happily ever after. ~

 

 

 

 

 

 

{ Ever after }

 

È venuta lunghissimaaa! Com’è possibile? Ba… bakana! Ma-masaka! *O*; Athena no tameni! *a caso, ormai*

E… ecco, sono tornata con le favole! No, a dire il vero non è poi tanto lunga, si dilunga appena più delle altre. Ma non è colpa mia. Essenzialmente porta via tanto tempo la prima parte, che doveva essere più sbrigativa, ma mi divertiva troppo orchestrare gli scambi di battutine dei Tre Giganti Infernali. Quanto se vojonobbene. E un po’ se ne è andato. Poi devo dire che non mi aspettavo tutta questa rilevanza di Ikki a livello di trama. Alla fine si tratta di una sorta di parallelo delle diverse sorti dei due fratelli al ballo: anche qui le parti di Ikki dovevano essere solo un piacevole (?) intermezzo, ma ha finito per piantare più grane del necessario. Non vi distraete, però, eh! La storia è davvero dedicata a quei due anatroccoli di Hyoga e Shun, guardate come sono carini. Ikki a conti fatti non fa altro che menare le mani a destra e a manca. È solo che fa più casino.

 

Grazissimissime a Shinji e LeFleurDuMal che sono stati gli unici ad accorgersi che avevo aggiornato questa perduta fic. Y_Y Perché lo sapevano, peraltro. Gh. Mille grazie anche a Kijomi che mi ha betato qua e là le mie svistine, e a Stateira perché assieme agli ammorih di cui sopra – e lei è inclusa nel prezzo – mi ha fatto venire tutte le idee necessarie per riprendere Once Upon a Time Picture presents. Wheeeeeeeeeeeee! <3

 

NOTA NECESSARIA: Le amabili cantilene di Death Mask, intento a svuotare le tasche della sua povera vittima – chissà che fine avrà fatto, a proposito – non sono parto mio. Sono una citazione più o meno diretta di Willwoosh, i cui video su Youtube mi fanno spaccare. Questo è il video incriminato che ha attentato più volte al mio apparato respiratorio, mio e di un altro paio di Gold Saint. È da quello che sono state tratte le battute del nostro lupaccio. Se avete tempo e voglia vi raccomando di visitare il suo canale, c’è da ridere per ore.

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