Sfida sui ghiacci

di kristyblue
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Questo capitolo partecipa alla challenge "La sfida dei duecento prompt" di kamy.
Prompt 35 - Morte

*** Un altro tempo, un altro luogo ***

“Tu non hai alcun potere su di me!”

Le aveva lette su un libro, quelle parole, e poi ripetute a voce alta quando la vita di suo fratello Toby aveva finito per dipendere interamente da una sua scelta. Le aveva pronunciate sorreggendo lo sguardo affilato di Jareth, e sul momento ci aveva creduto. Per la prima volta da quando sua madre se n’era andata, Sarah si era sentita forte… invincibile. Nel giro di pochi attimi, o di un’eternità, o di quanto fosse durato il viaggio nel Labirinto, la ragazzina scontrosa, taciturna e prepotente era diventata un'adolescente consapevole delle sue forze, pronta ad affrontare la vita come aveva affrontato lui; a testa alta, senza indietreggiare.

Non m’importa di quanto puoi essere terrificante, avrebbe voluto urlargli contro. Non mi spaventano i tuoi poteri né il tuo esercito di Goblin. Questa partita l’ho vinta io, Maestà. E ti posso garantire che non sarà l’ultima.

In quel momento aveva saputo che qualunque avversità l’attendesse nel mondo reale, non sarebbe riuscita mai più a spaventarla, perché niente nella realtà poteva essere più terribile di Jareth, e lei lo aveva sconfitto. Mettendo in fuga lui, aveva messo in fuga le sue stesse paure. Io sola ho potere su di me, sulla mia vita! Io. Soltanto io.

Ma era poi vero?

All’epoca, Sarah si era detta che doveva per forza andare così, che quella era la conclusione inevitabile della sua ricerca per il fratello, e che non poteva finire diversamente. Tu o io, Re dei Goblin. Non possiamo vincere tutti e due. Anche se per un attimo, di fronte all’amarezza negli occhi di Jareth quando lui aveva scagliato in alto la sfera di vetro, si era sorpresa a pensare che in fondo un po’ le dispiaceva. Sì, Jareth avrebbe potuto essere crudele con lei e con suo fratello, avrebbe potuto giocare molto più sporco e schiacciare la sua fiducia in sé stessa… però non l’aveva fatto, affrontandola non come una creatura mitologica  e immensamente potente che si beffa di un patetico mortale, ma da pari a pari.

Avrebbe voluto smettere di pensare a lui, dimenticarlo con la fine dell’avventura. Però non ci era mai riuscita davvero. E negli anni, lentamente, aveva cominciato a dubitare delle frasi che gli aveva scagliato contro quel giorno.

Se è vero che lui non ha alcun potere su di me, allora perché non riesco a dimenticarlo? Perché, quando di notte ho gli incubi, sogno di urlare il suo nome e di colpo mi risveglio nella sicurezza della mia stanza? Era come se il suo nome bastasse a scacciare via le ombre.

Quando le cose non andavano per  il verso giusto, o quando Sarah si trovava di fronte a un ostacolo, allora sì, ricordava il momento in cui l’aveva sconfitto e si sentiva invadere da una gran sicurezza. Eppure, non riusciva a mentire a sé stessa; a farla sentire in quel modo non era tanto il ricordo della sconfitta di Jareth, quanto il pensiero di lui.

Poi, una volta, aveva letto qualcosa riguardo alle anime gemelle, e ne era rimasta folgorata.

Quadrava tutto. Lei e Jareth erano più simili di quanto nessuno dei due fosse disposto ad ammettere. Testardi, sfrontati, e sì, forse non erano le persone più adorabili sulla faccia della terra, ma dietro le maschere del  cinismo e dell’indifferenza, i loro cuori battevano in sincrono. Un sincrono che però non aveva nulla a che fare con il resto del mondo.

Il giorno in cui aveva raggiunto questa consapevolezza, suo padre aveva perso la vita in un incidente d’auto.

Era stato Toby a darle la notizia al telefono, e Sarah aveva fatto i bagagli in tutta fretta ed era balzata sul primo volo per raggiungere il fratello. Avrebbe voluto pensare che stava tornando a casa, ma in effetti quella aveva smesso di essere casa sua da un bel pezzo. Neppure ricordava quando i rapporti con suo padre avevano cominciato a raffreddarsi;  doveva essere stato dopo la morte di Karen. Sarah era riuscita a rappacificarsi con la matrigna e perfino a trascorrere degli anni felici e spensierati con la sua famiglia, in seguito all’avventura nel Labirinto. Ma dopo la morte di lei, il rimpianto per le occasioni sprecate, unito al ricordo di tutti i loro vecchi rancori, avevano assalito il padre di Sarah e lo avevano allontanato sempre più dalla figlia. Alla fine, Sarah si era trasferita sull’altra costa degli Stati Uniti. Tornava ancora nella vecchia casa in occasione dei compleanni del fratello e per Natale, e in quelle occasioni il padre sembrava davvero felice di vederla; nel resto dell’anno, però, si sen tivano pochissimo.

E adesso lui era morto. Prima che Sarah potesse rimettere le cose a posto, prima che il padre avesse trovato il coraggio di chiamarla e chiederle scusa. In aereo, all’improvviso, aveva capito che non ci sarebbe stata più nessuna occasione per chiarirsi ed era scoppiata in lacrime, incapace di controllarsi. Le era sembrato orribile, tutto a un tratto, il pensiero del tempo che scorreva implacabile, regolando i destini non solo delle persone uguali a lei, ma delle loro famiglie e dei loro amici.

Aveva scacciato quei pensieri tornando con la mente al Labirinto, e alla sua sfida con Jareth. E ancora una volta il ricordo di lui aveva fugato le ombre, sì; ma in un modo completamente diverso da quel che Sarah si aspettava. Per tutto il resto del volo non aveva fatto che rimuginarci su, e anche lungo il tragitto in taxi dall’aeroporto alla vecchia casa.

Era stata Charlotte, la ragazza di Toby, ad aprirle la porta. Sarah aveva scambiato qualche parola con lei ed era corsa subito incontro al fratello. Non lo vedeva da Natale, e aveva sentito un tuffo al cuore davanti al suo viso pallido e scavato, alle ombre viola sotto gli occhi arrossati. Chiaramente, la morte del padre era stata un bruttissimo colpo per lui, e per un attimo Sarah si era chiesta se dopotutto la scelta che aveva preso in aereo fosse quella giusta.

Si erano abbracciati ed erano rimasti così, stretti l’uno all’altra al centro della stanza, senza parlare, senza piangere. Ci sarebbe stato tutto il tempo per le lacrime, prima e dopo il funerale. In quel momento l’unica cosa che importava era essere di nuovo insieme… una famiglia, anche se solo per poco.

Lei e Charlotte avevano convinto Toby a buttare giù qualche sorso di brodo freddo.  Con gli occhi, la sua quasi-cognata ventunenne le aveva fatto capire che era il primo pasto che suo fratello consumava dal giorno dell’incidente.

“E' dura, ma tu devi mettercela tutta e tirare avanti. Per lui”, lo aveva supplicato Sarah.

Toby aveva fatto una smorfia.

“Lo so.”

“Lui non vorrebbe vederti così…”

“Lo so!”

“Lo capisco che… fa male”, aveva balbettato Sarah con voce rotta, mentre le lacrime ricacciate a viva forza in aereo rompevano gli argini. “Manca anche a me… tantissimo…”

Sul volto del fratello era comparso un debole sorriso.

“So anche questo.”

“Lavo i piatti e mi tolgo di mezzo”, aveva sussurrato Charlotte, alzandosi dal divano e scompigliando affettuosamente i capelli di Toby. “Vorrete stare un po’ da soli. Ci vediamo domani, amore. Buonanotte, Sarah.”

Più tardi, quando i suoi passi erano svaniti per le scale, Toby aveva detto con voce roca;

“Ho già preso accordi perché lo mettano accanto a Karen. Penso che lui avrebbe voluto così.”

Sarah gli aveva stretto le spalle.

“E tu?”, aveva chiesto, guardandolo con serietà negli occhi. “Adesso che farai?”

“Venderò la casa e andrò a vivere da qualche altra parte con Charlotte. Qui ci sono troppi…”

“… ricordi?”

“Sì. Di tutti e due.”

“Sarebbe stato felice di saperti sistemato. Charlotte gli piaceva davvero.”

Di nuovo, suo fratello si era sforzato di sorridere. “Già… è una ragazza adorabile. Non so come avrei fatto, senza di lei.” E, dopo una pausa; “O senza di te.”

“Non pensarci neanche. Adesso sono qui.”

“Quanto ti fermi, stavolta?”

“Pensavo di ripartire dopo il funerale, ma adesso che so quali sono i tuoi piani, aspetterò che tu e Charlotte abbiate trovato una casa per conto vostro. Se per voi va bene, cioè”, si era affrettata ad aggiungere, per timore di contrariarlo.

“La tua stanza è sempre al solito posto, lo sai.”

“Grazie.” Sarah lo aveva guardato con affetto e poi, d’impulso, aveva chiesto; “Senti, perché non venite anche voi con me? Tu e Charlotte. Che ne dici?”

“Vuoi che veniamo a stare da te? A Reno?”

“No. Io, ecco…” Prima di continuare, Sarah aveva dovuto fare appello a tutte le sue forze. "Non torno a Reno, Toby. Sistemerò un paio di faccende e poi… ho intenzione di andare a vivere .”

Toby si era voltato a guardare la sorella come se la vedesse davvero solo in quel momento.

“Là? Vuoi dire…”

“Nell’Underground, sì”, aveva risposto lei d’un fiato.

La reazione di Toby l’aveva delusa. Il ragazzo infatti era rimasto in silenzio, lo sguardo perso nel vuoto. Non sembrava neppure averla sentita.

“Toby, ti prego, dimmi qualcosa! Arrabbiati, se vuoi, urlami contro… ma dimmi qualcosa!”, lo aveva implorato.

“Scusa. Stavo solo riflettendo. Quando ti è saltato in testa di…?”

“Oggi, mentre ero in volo. E’ stata una decisione dell’ultimo minuto, però sento che è la cosa giusta.”

Toby aveva indicato tristemente le stanze buie,  che sembravano più vuote del solito. “Ha qualcosa a che fare con… be’… questo?”

“Ha tutto a che fare con questo. Non posso continuare a perdere le persone a cui voglio bene, Toby, non ce la faccio…” Nel buio, Sarah si era girata a guardarlo e per un attimo gli era sembrata piccola, smarrita e indifesa. Come se fosse stata lei la sorella minore. Toby avrebbe voluto confortarla, ma tutto quello che era riuscito a dire era stato;

“E io? A me non pensi, Sarah?”

“E’ per questo che ti dico… oh, Toby,  venite via anche tu e Charlotte! Potremmo ricominciare tutto da capo, noi tre insieme. Laggiù il tempo scorre diversamente, non è come nel nostro mondo…”

“Cosa vorresti, vivere per sempre?”

“Almeno non dovremmo più preoccuparci di lasciare qualcuno o di… essere lasciati.” Le parole le erano uscite di getto, prima ancora che se ne rendesse conto. Vedendo il fratello rabbuiarsi, aveva provato l’impulso di prendersi a schiaffi da sola. “Perdonami, non avrei dovuto…”

“Non hai detto niente di sbagliato, tranquilla. Piuttosto, che mi dici di quel Re degli Gnomi…”

“Goblin”, lo aveva corretto Sarah, senza riuscire a trattenere un sorriso al pensiero di come avrebbe reagito Jareth, sentendosi dare del re gnomo.

“Sì, lui… Dicevi sempre che gli hai dato una sonora batosta, ricordi? Che farai, se non ti volesse accogliere nel suo regno?”

“Ci penserò quando sarà il momento”, rispose Sarah. In realtà non era affatto sicura di come l’avrebbe accolta lui, ma non voleva parlarne con Toby.

Suo fratello aveva solo dei ricordi molto vaghi e confusi dell’Underground e di Jareth. In pratica, conosceva quel mondo solo attraverso i racconti di Sarah e le parole di Gogol, Didymus e Bubo.

Da piccolo, Toby chiedeva spesso di giocare con gli amici della sorella. Crescendo, tuttavia, aveva cominciato a trovarli sempre più strampalati e a disinteressarsi di loro. Solo una volta, all’età di tredici anni, aveva chiesto improvvisamente alla sorella se “quelli là” continuavano a farle visita.

“Sì, quando ho bisogno di parlare con loro”, aveva risposto lei, sorpresa che se ne ricordasse ancora. “Vuoi che te li saluti?”

“Magari un’altra volta”, aveva risposto Toby con una scrollata di spalle, prima di tornarsene a giocare con la Playstation.


Quella notte aveva la stessa espressione indifferente, e Sarah aveva capito quale sarebbe stata la sua risposta.

“Tu non credi davvero nell’Underground, non è così, Toby?”

“Sarah, per favore. Nostro padre è appena morto, e tu mi vieni a tirare in ballo le nostre… no, le tue fantasie?”

“Non sono fantasie! E’ successo davvero, e tu eri lì. Non ti ricordi… quando Didymus ti raccontava di come vivevano i cavalieri, e tu volevi solo tirare le corna a Bubo?”

“Piantala!”, era scattato suo fratello, balzando in piedi. “Non so se quelle cose sono successe veramente o se esistono solo nella mia testa. Cristo, Sarah! E’ finito il tempo delle favole, adesso siamo due persone adulte!”

Suonava così buffo che fosse proprio il ragazzo diciannovenne a parlare in quel modo, mentre lei, la donna adulta e razionale, aveva appena affermato che l’Underground esisteva davvero.

Eppure Sarah si era impuntata, con la testardaggine di un tempo.

“Ma non capisci che quaggiù siamo condannati a lasciare sempre qualcosa di interrotto? Non ho mai detto a nostro padre che gli volevo ancora bene, e adesso è tardi. Non voglio che succeda ancora, Toby. Non voglio più preoccuparmi del tempo che passa.”

Senza guardarla, il fratello aveva incassato la testa fra le spalle.

“Allora sei davvero… sicura?”

“Sì. E vorrei davvero che tu venissi con me, Toby.”

“Charlotte non accetterebbe mai. Anche ammettendo che io creda a tutta questa storia di un Underground – e non sto dicendo che ci credo – lei ha ancora le sue sorelle, i suoi genitori. Non posso chiederle di mollare tutto solo per seguire me.”

“Ma la sua famiglia potrebbe…”

“Potrebbe cosa? Trasferirsi in un mondo immaginario? Sarah, cerca di essere realista. Se parlassi di queste cose con uno qualsiasi dei famigliari di Charlotte, ti prenderebbero per pazza.” Sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi l’aveva guardata in volto e la sua espressione si era addolcita. “Se è quello che vuoi, va’ pure.”

“Ma in questo modo ti…” Non voleva dirlo, non riusciva nemmeno a immaginare un futuro senza suo fratello, l’unico familiare che le restasse.

“Dici che il tempo laggiù non ha lo stesso significato che nel mondo reale. Saresti disposta ad aspettarmi, Sarah?”

Lei aveva sentito che il cuore le accelerava i battiti.

“Aspettarti? Ma…”

“Non ti sto promettendo nulla”, aveva puntualizzato Toby. “Non voglio vivere in eterno mentre la donna che sposerò e i miei figli invecchiano e muoiono. Ma se Charlotte e io non dovessimo avere bambini… magari un giorno, fra cinquanta o sessant’anni, prenderemo in considerazione il tuo invito. Te la senti di aspettare, sapendo che quel giorno potrebbe anche non arrivare mai?”

“Sì, ma certo. Io ti aspetterò sempre, Toby”, aveva promesso Sarah, lanciandosi fra le sue braccia. E, finalmente, i due fratelli avevano potuto concedersi un lungo pianto liberatorio, che era durato fino alle prime ore del mattino.

Da allora erano passati tre mesi di attività frenetica. Dopo che il fratello e Charlotte si erano sistemati nella nuova casa, Sarah era tornata  a Reno per sistemare le ultime cose. A Charlotte, naturalmente, non aveva detto nulla dei suoi progetti; ci avrebbe pensato Toby, al momento opportuno.

Aveva trovato un acquirente per il suo appartamento, svuotato gli armadi e rimosso tutti i suoi oggetti personali dagli scaffali. Con sé avrebbe portato solo il vecchio libro sgualcito con la copertina rossa e il titolo scritto a lettere d’oro, che l’aveva seguita attraverso innumerevoli traslochi. Tutto il resto non le serviva, là dove sarebbe andata.

Lanciò un’ultima occhiata allo skyline della città, tirò la tenda e trasse un profondo respiro. Poi mormorò con voce fioca;

“Desidero che il Re dei Goblin mi porti via. All’istante.”

Di colpo le finestre si spalancarono, anche se fuori non tirava neppure un filo di vento. Un frullio di piume candide invase la stanza, e il cuore di Sarah le balzò in gola. Ancor prima di voltarsi, sapeva già chi si sarebbe trovata di fronte. 

Jareth. Il Re dei Goblin. Identico a com’era stato diciannove anni prima.

“Ciao, Sarah. Mi hai chiamato?”

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


*** Molte lune dopo ***

“Madre? Hai sentito quello che ti ho detto?”

La voce di Trisha la strappò bruscamente ai suoi pensieri. Sarah alzò lo sguardo dalla piccola sfera di vetro che aveva fissato fino a quel momento, ma senza vederla davvero.

“Scusami”, rispose, sorridendo debolmente. “Ero…”

“… distratta, sì. La tua mente volava al passato.” Trisha aggrottò la fronte. “Però non sembravi felice di cavalcare la ruota del tempo al contrario. Erano ricordi tristi?”

“Solo la prima parte. In realtà, pensavo al giorno in cui ho rivisto tuo padre per la seconda volta in vita mia.”

“Che strano”, osservò Trisha, come parlando fra sé. Sarah le rivolse un’occhiata interrogativa.

“Non capisco… perché strano?”

“Perché in genere, quando pensi a lui, il tuo viso si illumina e i tuoi occhi sorridono. Stavolta invece eri avvilita.”

“Sai, non… è stata una decisione semplice. Avrei voluto che anche tuo zio Toby venisse con me, e lasciarlo mi ha fatto soffrire.”

“Ma madre, tu lo rivedrai fra un altro ciclo delle stagioni, a Samhain”, puntualizzò Trisha, puntellandosi i fianchi con i pugni chiusa; quella posa la faceva assomigliare straordinariamente a Jareth. “Se nell’Aboveground non vivevate insieme, dov’è la differenza?”

“Be’... se lui e tua zia Charlotte vivessero qui, li potrei vedere ogni giorno.” Sarah non se la sentiva di parlare dell’altro, e ben più importante motivo, per cui avrebbe voluto il fratello con sé. Quell’anno, ad Halloween, era rimasta di stucco vedendo che i suoi capelli, un tempo biondi e poi sale e pepe, ormai erano quasi del tutto bianchi. E Charlotte aveva lo stesso sorriso, ma le sue mani erano contratte dall’artrite e le dita sembravano dei lunghi ragni pallidi. Lei invece era rimasta identica a quando aveva trent’anni; e Trisha – per cui il glorioso, dorato cammino nell’età adulta era appena cominciato - sembrava aver da poco superato la ventina, quando in termini umani avrebbe dovuto avvicinarsi più ai cinquanta che ai quaranta.

Io e Toby non sembriamo nemmeno più fratello e sorella, si era detta Sarah, con il cuore pesante. Chi ci vedesse adesso potrebbe credere che lui è il padre e io e Trisha le sue figlie. Però Toby non le aveva parlato di volersi trasferire nell’Underground, e neanche Charlotte aveva tirato in ballo l’argomento… anche se Sarah aveva sperato fino all’ultimo che lo facessero.

Trisha non poteva capire. Lei era nata immortale, non aveva mai scelto di diventarlo. A volte Sarah provava una sottile punta di invidia nei confronti del marito e della figlia; per loro il tempo era davvero privo di significato, mentre per lei – anche adesso che non era più soggetta alle sue regole – continuava a rimanere una minaccia vaga e indefinita, un’ombra scura che aleggiava sopra gli affetti del fratello e della cognata. Sentiva che non sarebbe mai stata in grado di pensare – o di non pensare – al tempo come facevano Trisha e Jareth.

“Se ti manca così tanto, perché non gli fai percorrere il Labirinto?”, chiese la figlia, che l’aveva osservata in silenzio.

Sbalordita, Sarah la fissò senza capire.

“Ma di che parli?”

“Dello zio Toby”, rispose spazientita Trisha, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Trasporti lui e zia Charlotte nel Labirinto e glielo fai attraversare in tredici ore. Loro perdono, restano a vivere qui, e il problema è risolto.”

“Stai scherzando?”, scattò Sarah, incredula. “Perché se è uno scherzo, ti avverto che non è divertente!”

Trisha socchiuse le palpebre.

“Non scherzerei mai su un argomento che ti sta tanto a cuore, madre.”

“Ma io… tu…”

“Il Labirinto esiste per questo, no? E tu vuoi che lo zio Toby venga a stare nell’Underground.

“Io non voglio costringerlo a vivere qui!”, protestò Sarah, mentre il sangue le affluiva alle guance.

“Ho parlato di costringerlo?”, ribatté Trisha, inarcando un sopracciglio sottile. “Il Labirinto non è una prigione invalicabile. Se lo risolve per tempo, può tornarsene nell’Aboveground.”

“Io ci sono riuscita per un pelo, e non avevo neppure la metà degli anni che ha lui”, insorse la madre, fuori di sé. “Scordatelo, Trish. Non voglio neppure sentirti dire una cosa del genere.”

“Che peccato”, osservò Trisha, stringendosi nelle spalle. Prese la sfera di vetro dalle mani di sua madre e la fece roteare – danzare – con le stesse movenze ipnotiche che Sarah conosceva tanto bene. “Se avessi voluto farlo, ti avrei aiutata volentieri.”

“Sì, certo.” Sarah fece una smorfia. “E non credi di dimenticare qualcosa?”

Trisha alzò gli occhi su di lei, con un lampo di ostilità nello sguardo.

“Cos’avrei dimenticato, secondo te?”, sibilò.

“Per esempio”, intervenne una voce divertita alle loro spalle, “che fino a prova contraria, quello che decide a chi far attraversare il Labirinto sono io.”

Trisha non tradì alcuna sorpresa. Solo il suo viso si irrigidì per un attimo, mentre sua madre si voltava verso il proprietario della voce.

Appoggiato a una colonna, le braccia pigramente incrociate sul petto, c’era Jareth; indossava l’abito da cerimonia e sfoggiava un ghigno compiaciuto. I capelli gli ricadevano sulle spalle come una cascata di luce, incorniciando gli occhi astuti e penetranti che il Re dei Goblin aveva trasmesso alla figlia.

“Devi sempre cogliere la gente di sorpresa, tu”, lo rimproverò scherzosamente Sarah.

Jareth inclinò la testa da un lato.

“Davvero ti ho colto di sorpresa, mia preziosa? Non capisco. Eppure sei stata tu a pronunciare il mio nome, solo un attimo fa…”

“Io non ho pronunciato il tuo nome!”

“Forse non a voce alta… ma con il pensiero l’hai fatto”, le assicurò lui. Poi il suo sguardo si spostò su Trisha, che era rimasta immobile come una statua, i pugni stretti lungo i fianchi. “E tu, mia cara? Avevi forse previsto che avrei interrotto la vostra discussione?”

La giovane Fae scosse la testa, irritata, e i suoi capelli scuri catturarono la luce.

“Sapevo che zio Toby non avrebbe affrontato il Labirinto… non oggi, perlomeno”, aggiunse, fulminando Sarah con un’occhiataccia. “Poteva significare che mia madre si sarebbe opposta o che tu non l’avresti permesso.”

Jareth si finse meravigliato.

“Ammirevole… sapevi tutto questo e hai tentato ugualmente di convincere tua madre a fare a modo tuo?”

“Il futuro non è statico e immutabile”, lo rimbeccò aspramente lei. “Da ogni nostra azione si diramano innumerevoli file di possibilità… e finché non si sceglie da che parte andare, sono tutte ugualmente valide. Io ho solo incoraggiato mia madre a scegliere il sentiero che reputavo migliore.”

“E naturalmente il tuo incoraggiamento era del tutto disinteressato, vero?”, suggerì Jareth, beffardo.

“Lo fai suonare come se avessi dei secondi fini per volere mio zio nell’Underground”, ribatté Trisha in tono ti sfida. Il ghigno sul volto di suo padre si allargò.

“Tutto questo improvviso interesse per tua madre e tuo zio Toby… Stai forse diventando sentimentale, mia cara? Oppure questo è solo l’ennesimo tentativo di scavalcarmi?”

Trisha strinse i pugni e scoccò un’occhiata velenosa al Re dei Goblin, che gliela restituì con altrettanta freddezza. L’aria intorno a loro vibrava di collera a stento trattenuta; sarebbe bastata una parola o uno sguardo sfrontato di troppo, a scatenare il finimondo.

“Vediamo di calmarci”, intervenne Sarah, correndo subito ai ripari. Posò una mano sulla spalla del marito, più per trattenerlo che per placare la sua ira, e disse con decisione; “Trisha non stava cercando di convincermi a fare proprio un bel niente… anche perché sa benissimo che non ci riuscirebbe”, puntualizzò, fissando la figlia dritta negli occhi come per sfidarla a protestare. “Stavamo solo parlando di questioni senza importanza.”

Trisha aveva ancora l’aria vagamente bellicosa, ma l’occhiata ammonitrice della madre la spinse a distogliere lo sguardo e indietreggiare.

“Niente da ridire?”, la stuzzicò Jareth. Sarah gli sferrò una gomitata.

“La decisione è stata presa”, rispose Trisha a denti stretti. “Niente che io dica può influenzare… o alterare lo svolgersi degli eventi.” Sputò quella parola come se fosse stata velenosa, esitò e poi concluse amaramente; “Quindi… immagino che quelle di cui parlavamo fossero a tutti gli effetti questioni senza importanza.”

Per il momento, pensò, fissando con rabbia la punta degli stivali di Jareth.

Come se niente fosse, il Re si voltò verso Sarah e le porse il braccio. “Vogliamo andare, mia preziosa? Il ballo sta per iniziare.”

“D’accordo”, rispose in fretta lei. “Vieni, Trisha.”

“Devo proprio?”, mormorò svogliata la giovane Fae. “Preferirei aspettarvi qui, se non è un problema.”

Jareth sogghignò.

“Non credo proprio. Sarebbe una tentazione troppo forte per te, aggirarti vicino al trono.”

“Non lo faccio mica saltare in aria”, ribatté lei, acida.

“L’ultima volta che ci siamo assentati hai cercato di attirare due mortali nel Labirinto”, le ricordò il Re. “Solo che le cose non sono andate esattamente come avevi previsto, vero?”

Furiosa, Trisha raddrizzò le spalle.

“E’ stato un incidente! Non sapevo chi fossero quei mortali, non mi ero preoccupata di studiarli. Ho sbagliato, va bene? Vuoi rinfacciarmelo per tutta l’eternità, padre?”

“Spero di cuore che non ci vorrà così tanto, prima che tu diventi una Regina responsabile.”

Finitela!”, sibilò Sarah, pilotando con fermezza il marito in avanti per un braccio. “Possiamo dare un taglio alle discussioni, almeno per oggi?”

“Mia preziosa, dovresti sapere che ogni tuo desiderio è un ordine, per me”, rispose Jareth. A Trisha non sfuggì il modo, del tutto intenzionale, con cui aveva sottolineato quelle due parole.

“Obbedisco al volere della mia sovrana e signora madre”, sibilò, come a precisare che era solo merito di Sarah se aveva lasciato cadere lì la questione.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


*** Al ballo ***
 
Sarah si strinse a Jareth e lasciò che lui la facesse volteggiare delicatamente su sé stessa.

Era un sogno. Un sogno sfavillante di luccichii e bagliori argentei che sembravano fluttuare al ritmo della musica, romantica e avvolgente.

La sala da ballo non assomigliava affatto a quella caotica, fumosa e decadente del loro primo ballo.  Sarah percepiva  la presenza delle altre coppie di danzatori, ma come da una gran distanza. Al loro passaggio, gli ospiti si ritraevano per fare ala al Re e alla Campionessa, contribuendo a creare l’illusione che fra loro due e il resto della sala ci fosse una barriera invisibile.

“Sei felice, mia regina?”, le sussurrò Jareth. Anche dopo tutto quel tempo, la sua voce aveva il potere di farle correre un brivido lungo la schiena. Senza staccare lo sguardo dai suoi bellissimi occhi cangianti, Sarah rispose;

“Con te lo sono sempre.”

Un sorriso divertito balenò sul volto di Jareth.

“Mi fa piacere… temevo che mi trovassi un po’ arrugginito.”

“Dicono che ballare sia un po’ come andare in bicicletta, no?”, scherzò lei. “Non è passato così tanto dall’ultima volta...”

“Ogni istante che trascorro senza di te mi sembra a un’eternità…. la stessa eternità che ho trascorso prima di conoscerti”, affermò solennemente Jareth. Qualcosa, nel tono in cui lo disse, strideva con il sorriso scanzonato di un attimo prima. Quell’unica nota stonata bastò a far scattare un campanello d’allarme nella testa di Sarah.

“Che vuoi dire, Jareth?”

“Niente di particolare”, mormorò lui, dopo un attimo d’esitazione.

Confusa, Sarah gli rivolse un’occhiata interrogativa. Visto che Jareth non accennava a spiegare un bel nulla, incalzò;

“Parli come se fossimo sul punto di separarci. Ma non è così, vero? Senti, se devi partire, io vengo con te. Lo sai.”

“Non si tratta di questo.”

“E allora di cosa? Non farmi stare in pensiero!”

Gli occhi fieri e impassibili di Jareth si fissarono in quelli verdi di Sarah. Le rispose con una domanda.

“E’ vero quanto sostiene Trisha? Sei ancora preoccupata per tuo fratello?”

“Non capisco”, replicò nervosamente lei. “Che c’entra Toby con…?”

“Finora non avevo mai capito perché ti dessi tanta pena per lui.” Jareth scosse la testa, sospirando. “Mentre adesso…”

“Adesso cosa?”, proruppe Sarah. “Jareth, niente segreti, ricordi?”

“Cosa ti fa pensare che ti stia nascondendo qualcosa, mia preziosa?”, chiese Jareth, ricomponendosi. “Lo sai che non potrei mai mentirti. Non hai che da temermi, amarmi, fare ciò che ti dico… e io diventerò tuo schiavo”, sussurrò.

“Allora dimmi come stanno davvero le cose. Cosa intendevi, quando hai detto che finora non capivi la mia preoccupazione per Toby?”

Il Re dei Goblin distolse lo sguardo, senza rispondere.

“Adesso invece lo capisci?”

Lui continuava a tacere.

“Jareth…?”, lo esortò Sarah.

“Sai come funziona la successione dinastica nell’Underground, mia preziosa? Che cosa comporta?”

Sempre più sconcertata, Sarah batté le palpebre. “Non capisco…”

“E’ piuttosto semplice”, spiegò Jareth. “Il Labirinto sceglie da sé il successore del suo sovrano, nel momento stesso in cui viene a contatto con lui o con lei. Il tuo caso fu diverso, e proprio per questo particolare. Tu sbandieravi la tua sfida, ma il Labirinto capì, molto prima che tu ed io ce ne rendessimo conto, che il tuo potere e il mio erano speculari. In altre parole, tu non potevi diventare Regina se io non fossi stato Re.”

“Ci capisco sempre meno”, balbettò Sarah. “Cosa c’entra tutto questo con…?”

“Quando tu mi consegnasti tuo fratello, io lo portai al castello, come mi avevi chiesto”, disse mestamente Jareth. “In quel momento, il Labirinto lo ha scelto come mio successore.”

Sarah rimase senza fiato, e si fermò così bruscamente da andare a sbattere contro un’altra coppia di ballerini.

“Toby? Vuoi dire che Toby è…”

“Non ancora… ma se mettesse piede nell’Underground, il richiamo del Labirinto lo spingerebbe inevitabilmente a reclamare il posto che gli spetta di diritto.” La voce di Jareth era lapidaria.

“E per farlo…”

“Sì, mia preziosa. Per farlo dovrà affrontare me.”

Rimasero immobili, come raggelati dal peso di quella verità. Sarah si sentiva girare la testa; si aggrappò più forte al marito e lui la sorresse con fermezza. Gli altri ballerini intanto avevano ripreso a scorrere pigramente attorno a loro, ignari di quanto stava succedendo.

“E’… voglio dire… deve succedere per forza?”, chiese Sarah, non appena ebbe ritrovato l’uso della parola. “Non c’è un altro modo per…?”

“No, purtroppo. Il destino del sovrano che viene sconfitto è nelle mani del vincitore.”

A quelle parole, la mascella di Jareth si contrasse impercettibilmente. Quel movimento non sfuggì a Sarah, pur sconvolta com’era.

“Jareth? Tu hai… paura di Toby?” Sembrava così assurdo! Toby, nell’Aboveground, era solo un anziano malandato, e Jareth era…

“Non è l’eventualità che tuo fratello mi succeda a preoccuparmi.”

“Ma se hai appena detto...”

Jareth si sforzò di sorridere. “Il legame fra te e tuo fratello potrebbe influenzarlo… a mio favore. Su questo non ho alcun dubbio.”

“Toby non si sognerebbe mai di farti del male”, affermò Sarah con decisione.

“Lo so. E’ dall’altro successore che… non so davvero cosa aspettarmi.”

Incredula, la Campionessa strabuzzò gli occhi.

“C’è un altro sfidante?”

“Non l’avevi capito?” Jareth inarcò un sopracciglio. “Non è un caso se negli ultimi tempi Trisha si ribella sempre più spesso ai miei ordini. E’ diventata una Fae adulta, e il Labirinto ha cominciato a parlarle. I suoi scatti d’ira, il suo continuo mettere alla prova la mia autorità, non sono che un lento e paziente allenamento. E quando sarà pronta...”

“Trisha?”, boccheggiò Sarah. “Vuoi dire che nostra figlia…”

Jareth annuì gravemente. I suoi occhi stavano fissando un punto tra la folla; una figura in abiti sgargianti si era avvicinata a Trisha e le stava parlando in tono confidenziale.

“Alla luce di quanto ha preso da me, non mi sorprenderebbe se fosse proprio nostra figlia a rinchiudermi nelle Segrete e gettare via la chiave.”

 

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Questo capitolo partecipa alla challenge "La sfida dei duecento prompt" di kamy.
Prompt 11 - Mani


*** Nel frattempo ***
 
Cosa ci trovassero i suoi a circondarsi di leccapiedi festaioli, Trisha proprio non lo capiva.

Era appoggiata a una colonna, con i lunghi e fluenti capelli scuri sciolti sulle spalle, e osservava i ballerini sfrecciarle davanti. Ogni tanto salutava qualcuno con un cenno o un sorriso fugace, ma in realtà avrebbe voluto spedirli tutti a ballare nella Gora. Ecco, quello sì che sarebbe stato divertente.

Suo padre e sua madre ovviamente avevano fatto in modo di ballare dalla parte opposta del salone, il più lontano possibile da dove si trovava lei. In effetti, Trisha sospettava che l’iniziativa fosse stata di Jareth. Negli ultimi tempi l’aveva visto sempre più scostante e irrequieto, anche se con sua madre cercava di non darlo a vedere.

Quindi lui lo sa, rifletté. Anche se non possedeva il suo Dono, il Re dei Goblin doveva aver intuito come stavano le cose. Forse era stata troppo prevedibile, in fondo. E adesso suo padre sarebbe stato in guardia… il che significava – Trisha inarcò le sopracciglia – che lei doveva fare altrettanto, se voleva sperare di cavarsela.   

Sentì lo stomaco fare una buffa piroetta e poi contrarsi. Il Dono avrebbe giocato a suo favore, ma contro un Fae infinitamente più vecchio e potente di lei…

“Posso offrire un brindisi alla futura sovrana dell’Underground?”, domandò una voce squillante alle sue spalle.

A parlare era stato un uomo sorridente, dalla corporatura esile e la pelle così pallida da sembrare di porcellana. Indossava una camicia bianca sotto a un elegante completo pantalone a righe metallizzate blu e argento, che si intonava bene all’azzurro degli occhi. Anche i suoi capelli erano argentei, raccolti in punte ghiacciate, e le sopracciglia erano formate da tanti piccoli cristalli gelidi. Al posto della cravatta, lo stravagante personaggio sfoggiava un candelotto di ghiaccio. In mano reggeva due bicchieri, uno per sé stesso e uno per la giovane Fae.

Trisha lo studiò per una frazione di secondo, poi accettò il bicchiere con un cenno di ringraziamento.

“Allora sei tu, il motivo per cui avevo previsto che non sarei andata a prendermi da bere”, sorrise. “Non sei l’araldo invernale? Com’è che ti chiami… Bruma?”

“Brina”, la corresse lui, senza smettere di sorridere. Le prese la mano e se la portò alle labbra, che erano fredde come il ghiaccio. “Jack Brina. Ai tuoi ordini, Principessa.”

Inaspettatamente, il volto di Trisha si rannuvolò.

“Che peccato, eri partito bene...”

“Ho detto qualcosa che non va?”, chiese Brina, palesemente confuso.

“Non proprio. E’ solo che preferisco essere chiamata Trish o Trisha.” In fondo, il titolo di Principessa prevedeva che ci fosse qualcuno – un Re o una Regina, per esempio – a cui sottostare.

“Vedrò di ricordarmelo”, promise Jack Brina, recuperando in fretta il sorriso smagliante. “Che bel nome, Trisha. E’ davvero…”

“Significa semplicemente ‘nobile’”, ribatté lei. “Comunque, meglio un nome meramente descrittivo che un titolo in cui non mi rispecchio affatto.”

L’uomo di ghiaccio sembrò ancor più sconcertato.

“Non ne vai orgogliosa?”

“Non particolarmente, e in occasioni come questa ne farei volentieri a meno.”

“Che strano”, disse lentamente Brina, fissandola con occhi scintillanti. “Ci sono persone in questa sala che darebbero l’anima pur di essere al tuo posto, e tu invece…”

“Io invece darei l’anima per non essere più la Principessa dei Goblin”, sogghignò Trisha. “Ma non preoccuparti. Non ho intenzione di restarlo ancora a lungo. Alla salute!”, concluse, inclinando il bicchiere verso Jack Brina come per un brindisi. Ma al primo sorso, fece una smorfia. “Che schifo, questa robaccia! Mio padre dovrebbe affidare i rinfreschi a degli schiavi umani, anziché ai suoi goblin.”

“Tuo padre ha degli schiavi umani al suo servizio?”, chiese Jack, sorpreso.

“Solo per tredici ore alla volta.”

“In effetti il catering lascia un po’ a desiderare”, osservò lui, guardandosi attorno. “Ti andrebbe una granita?”

“Una… che cosa?” Trisha lo fissò senza capire.

“E’ una bibita che si fa con il ghiaccio. Ai mortali piace.”

“Oh, giusto, avevo scordato che lavori nell’Aboveground.” La giovane Fae aggrottò la fronte nel tentativo di ricordare. “Da qualche parte intorno al Circolo Polare Artico, dico bene?”

“Al Polo Nord”, annuì sorridendo Jack Brina.

“Quindi sei un collaboratore di quel… Kringle, giusto?”

“No, Kringle si è ritirato da qualche tempo”, disse Jack con una smorfia. “Adesso c’è un altro tizio. Calvin. E’ lui il nuovo Santa Clause.”

“Calvin”, ripeté Trisha, come se quel nome avesse per lei un significato speciale. Guardò di sottecchi Jack Brina, sorrise e sibilò; “E così anche stavolta ti hanno messo in disparte…”

Capì subito di aver toccato un nervo scoperto; Jack raddrizzò la testa e le scoccò un’occhiata risentita.

“Non so di cosa parli”, rispose a denti stretti.

Trisha si strinse nelle spalle. “Dico solo che è un’occasione sprecata. Tu hai senz’altro più esperienza sul campo.”

“Oh, intendevi questo…” A fatica, Brina tentò di sorridere, anche se il risultato stavolta era meno convincente. “Be’, vedei, da un certo punto di vista naturalmente hai ragione, ma immagino che sia meglio così… a ognuno la sua specialità.”

“Se preferisci l’efficienza alla logica”, convenne Trisha, guardando con aria assente il contenuto del suo bicchiere.

A quel punto sembrava che entrambi avessero esaurito gli argomenti a disposizione. Rimasero a osservare le coppie che danzavano, senza rivolgersi la parola l’un l’altro. In effetti non aveva molto senso rimanere lì, ma Trisha non ci pensava proprio ad andarsene; in fondo era stato Brina a venirla a cercare.

Con la coda dell’occhio, si accorse che il sorriso di lui stava riacquistando in fretta il suo smalto. Adesso sembrava molto più rilassato rispetto a poco prima.

“Sai”, disse alla fine, “davvero non capisco come mai una creatura incantevole come te se ne stia a fare tappezzeria. Mi concedi un ballo?”

“Se ci tieni”, ribatté lei. Cominciava a essere stanca di quel tipo assurdo. Forse aveva preso una svista sul suo conto; forse Jack Brina era solo un viscido leccapiedi come tutti gli altri. Sarebbe stato un piacere spedirlo a calci nella Gora dell’Eterno Fetore.

Le porse una mano e lei vi posò sopra la propria. Ma nel momento in cui le dita di Jack Brina sfiorarono le sue, Trisha sollevò bruscamente lo sguardo, soffocando un’esclamazione di sorpresa.

Jack trasalì e la lasciò andare.

“Che c’è?”, chiese, allarmato. “Ho le mani troppo…?”

“No, va tutto bene”, rispose Trisha con voce metallica. Fissava, come ipnotizzata, i lunghi fili luminosi che si dipanavano come serpi dai polsi di Jack Brina. Nell’attimo in cui le loro mani si erano toccate, due di quei tralci si erano avvinti a quelli intorno ai polsi della Fae.  Nel giro di un secondo, le quattro linee formarono un unico filo che emetteva una fioca luce pulsante.

Sbalordita, Trisha lo guardò strisciare sul pavimento e farsi strada fra i ballerini, come se avesse avuto una meta ben precisa in mente. Lo seguì con lo sguardo finché non lo vide insinuarsi lungo gli stivali di pelle di Jareth; poi tornò a voltarsi di scatto verso uno sconcertato Jack Brina, e il suo sguardo si addolcì di colpo.

“Sicura di star bene?”, chiese lui. Stavolta nella sua voce c’era una traccia di autentica preoccupazione. Evidentemente non se la sentiva di scoprire come avrebbe reagito il Re dei Goblin se sua figlia si fosse sentita male dopo aver parlato con lui.

“Sto benissimo”, rispose Trisha, in tono più tranquillo.

“Allora… ehm… te la senti ancora di ballare?”

Trisha annuì e lasciò scivolare la mano in quella di Brina. Stavolta lui non si ritrasse, anche se la Fae sentiva che i suoi nervi erano tesi sotto la pelle. Sorridendo debolmente, Jack Brina le cinse la vita con un braccio e lei si aggrappò al suo collo, mentre si facevano largo fra le altre coppie.

“Non ti preoccupa un po’ di freddo, vero?”, chiese Jack, con un sorriso affettato. “Oppure vuoi metterti addosso uno scialle o qualcosa del genere?”

Come sua madre, anche Trisha era a spalle nude, ma la cosa non sembrava affatto infastidirla.

“Tranquillo, sono immune alle patologie da raffreddamento”, ribatté. Sorrise a sua volta e gli fece l’occhiolino. “E poi ogni donna sogna di ballare insieme a un uomo da brividi, no?”

Jack scoppiò a ridere. “Allora questo è il tuo giorno fortunato, Principessa.”

Più di quanto tu creda, Brina, pensò Trisha, trattenendo a stento un ghigno diabolico. Si guardò intorno e chiese;

“Allora, dimmi un po’, c’è qualche altro tuo collega del Consigli delle Creature Leggendarie, in giro? Non mi avevano avvertito che avremmo avuto ospiti così illustri.”

“No, no, sono qui da solo.”

“Come sta l’Uomo dei Sogni? E’ un po’ che non si fa vedere da queste parti… anche se immagino che lui e mio padre abbiano i loro canali privilegiati per tenersi in contatto.”

“Al momento… non è molto loquace”, rispose cautamente Jack. “Tu… ehm, lo conosci bene, allora?”

“Oh, no, quasi per niente. L’ho incontrato a qualche mortifero ricevimento di corte, e per la maggior parte del tempo non ha fatto che dormire. Davvero, mi meraviglia che mio padre abbia potuto affidare un compito così importante a un individuo simile. Santa è fortunato a poter contare su un araldo come te….”

“Veramente il mio incarico è un po’ diverso”, precisò Jack. “Inoltre, Santa non si perde nessun incontro del Consiglio, quindi non è che io faccia esattamente le sue veci… come l’Uomo dei Sogni per tuo padre.” Le fece un sorrisetto e aggiunse con sussiego; “Comunque, preferisco così. In questo modo posso dedicare più tempo a faccende importanti.”

“Che genere di faccende?”

Jack ammiccò. “E’ un’informazione riservata. Non vorrai corrompermi?”

“Dipende”, rispose Trisha, abbassando la voce in tono cospiratorio. “Qual è il tuo prezzo?”

Jack Brina si protese verso di lei. I suoi occhi azzurri scintillavano. “E’ vero che prevedi il futuro?”

“Ho il Dono, sì, ma riesco a vedere solo le diramazioni dei futuri possibili. Non posso sapere in anticipo quale sarà il filo del destino, finché non si srotola nel presente.” Trisha gli rivolse un sorriso di scuse. “Non è facile spiegarlo a parole, mi dispiace.”

“Non mi interessano gli aspetti tecnici”, disse lui, agitando una mano come per allontanare un insetto. “Che cosa vedi nei miei futuri possibili?”

Trisha finse di pensarci su, poi gettò indietro la testa e scoppiò in una risata melodiosa.

“Ho paura che sia anche questa un’informazione riservata. E se vuoi corrompermi, ti avverto che lo fai a tuo rischio e pericolo”, ribatté scherzosamente.

“La vita è fatta di rischi”, ghignò Jack. “Allora, che cosa vuoi in cambio? Posso mettere una buona parola con il Consiglio per farti avere il posto dell’Uomo dei Sogni…”

Lei alzò una mano a zittirlo. “Grazie, ma non ho nessun interesse a diventare la portavoce di mio padre all’interno del Consiglio. E poi anch’io, come te, ho delle faccende importanti a cui badare. A proposito, Padre Tempo è sempre in circolazione?”, chiese, in tono svagato.

Jack Brina non se l’aspettava. Faticò a nascondere l’irritazione per quell’improvviso cambiamento di discorso, ma alla fine riuscì a ricomporsi in un sorriso di circostanza.

“Sì, lui è sempre inaffondabile.”

Trisha fece una smorfia. “Detto fra noi, non credo di piacergli un granché. Da piccola ero convinta che fosse parente del nostro Saggio, e quindi un suddito di mio padre. Non me l’ha mei perdonata…”

“A Padre Tempo non piace nessuno”, rispose Jack in tono neutro.

“Neanche tu?”

“Soprattutto io.”

“Be’, a mio padre non piacciono loro”, affermò Trisha, con un lampo nello sguardo. “Non li sopporta, per questo manda sempre l’Uomo dei Sogni al posto suo. Forse non dovrei dirtelo, Brina, ma…”, si morse un labbro, come incerta se proseguire o no.

“Ma…?”, la incitò lui, carezzevole.

“Il tuo capo, Santa, è in assoluto quello che detesta di più.”

Come aveva immaginato, a quelle parole Jack Brina si paralizzò di colpo.

“Vuoi dire che tuo padre non sopporta Santa Clause?”, ripeté lentamente.

“Se ci pensi bene, è logico”, fece Trisha. “Mio padre trasforma i piccoli mortali che nessuno vuole in goblin, mentre Santa porta allegria, buonumore e bei doni. Quante possibilità ci sono che un bambino nella lista dei buoni diventi un goblin? E’ concorrenza sleale!”

“Capisco”, mormorò Jack Brina. Sembrava rapito dagli scenari che le parole di Trisha gli prospettavano. A quel punto, lei sferrò prontamente il colpo di grazia.

“Credo che a mio padre piacerebbe molto fargli attraversare il Labirinto. Sarebbe una specie di rivincita per tutti i Goblin che Santa gli ha soffiato…”

“E cosa succede a chi non completa il Labirinto?”, chiese lui, senza fiato.

“Si perdono nei loro sogni e non riescono mai più a venirne fuori, mentre quelli che dovevano salvare diventano goblin.” Trisha scosse la testa e gli sorrise. “Comunque mio padre ce l’ha solo con Santa, non preoccuparti. Tu non c’entri, in questa storia.”

Lentamente, gli occhi di Brina tornarono a focalizzarsi su di lei. “Davvero?”

"Ma certo. Chiunque potrebbe vedere che tu sei un tipo a posto”, lo rassicurò Trisha. “E poi… a me piaci, signore dei ghiacci.”

Approfittando del fatto che si fossero fermati, scivolò più vicina a lui e gli sfiorò una guancia con il naso. Jack sembrò sorpreso, ma poi sorrise e le lasciò andare la mano, per stringerla ancor più contro di sé. Il suo respiro gelido le accarezzò il volto e il collo, facendola rabbrividire… ma non solo di freddo.

“Allora è una fortuna che noi due andiamo così d’accordo…”, sussurrò l’araldo invernale.

“Hai detto bene, Jack.” Trisha si morse un labbro. “Volevo dire…”, mormorò, alzando gli occhi su di lui. Adesso i loro volti distavano solo pochi millimetri. “Brina…”

In cuor suo, era trionfante. Stava per succedere… ora lui l’avrebbe baciata e a quel punto sarebbe stato un gioco da ragazzi sedurlo, confonderlo e manovrarlo come una pedina senza cervello. Ma in quel momento, Trisha lanciò un’occhiata oltre le sue spalle e vide che Jareth li stava osservando dall’altro capo della sala. Maledizione!, pensò, furente. Perché deve sempre accorgersi di tutto? 

Un attimo prima che le labbra di Jack Brina sfiorassero le sue, Trisha si ritrasse e gli scoccò una fredda occhiata calcolatrice.

“Che mi dici di quella ragazzetta dell’Aboveground?”, chiese, raddrizzando le spalle. “Quella che parlava in quella stranissima lingua… mi pare che lavorasse anche lei per Santa, no?”

Jack la fissò sconcertato. “Di cosa parli? Quale ragazzetta…?”

“Non si chiamava Beniamina?”, suggerì sarcastica lei. “Vi ho visti assieme, a qualche ricevimento. Ti stava sempre dietro.”

“Cos… oh, aspetta!”, fece Jack, illuminandosi. “Vuoi dire quella… itaglianna che si occupa del reparto dolcetti e caramelle? Io non ho niente a che fare con lei!”, si affrettò a puntualizzare. “Sì, le avrò detto qualche smanceria per essere carino…”

“Ti avverto, Brina. A me non piacciono le competizioni.” C’era una nota minacciosa, ora, nella voce della Fae.

Ma certo! Non può esserci nessuna competizione fra una bellezza del tuo calibro e una semplice... una comune... una manovale di Santa Clause troppo cresciuta! Nessuno con un po’ di sale in zucca si sognerebbe di paragonare…”

Trisha sospirò e lasciò vagare lo sguardo sui ballerini che vorticavano intorno a loro.

“Non so se faccio bene a crederti… Però voglio darti una chance, Brina. Qualcosa mi dice che ne vali la pena.” Alzò gli occhi su di lui e non riuscì a trattenere un sorriso luminoso. “Che ne dici se riprendiamo il discorso in privato? Forse potremmo trovare un accordo anche per quanto riguarda il tuo futuro.”

“Va bene”, rispose subito lui. “Dove ci vediamo?”

“Mi chiedo com’è l’Aboveground dalle tue parti”, mormorò distrattamente Trisha. “Magari, quando torni indietro, potresti… desiderare che la figlia del Re dei Goblin venga da te, all’istante.”

Jack Brina sorrise trionfante.

“Lo farò sicuramente.”

“Ah, e... Brina?”, aggiunse lei, mentre riprendevano a ballare. “Se dovessi aspettare troppo a lungo il tuo invito, potrei anche ricordarmi di avere altri impegni per la serata. Giusto perché tu lo sappia”, concluse, con un sorriso da barracuda. 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Questo capitolo partecipa alla challenge "La sfida dei duecento prompt" di kamy.
Prompt 186 - Padre


NOTA: Rieccomi! Dopo una latitanza lunghissima dalle pagine di EFP per tutta una serie di casini, torno a "regalarvi" un nuovo capitolo, quanto mai indicato visto il periodo dell'anno e il fatto che la mia storia è un crossover con la serie di Santa Claus :) Stavolta assistiamo a un "amorevole" (si fa molto per dire) faccia a faccia fra padre e figlia. La matassa comincia ad aggrovigliarsi, che starà complottando Jareth insieme all'Uomo dei Sogni? E in tutto questo, dove si è cacciata Sarah? Se vi va di lasciare un commento sarò felice di leggere cosa ne pensate fin qui :)

 
*** Più tardi ***
 
Furente, Trisha entrò nella sua stanza, sbattendo la porta dietro di sé, e si lasciò cadere davanti al tavolino da toeletta istoriato.

Scrutò con aria torva lo specchio che le rimandava la sua immagine. Con quei capelli che si arricciavano alle estremità, gli occhi impari, il naso dritto e la bocca tesa in una linea sottile, sembrava una versione scura di Jareth. Già altre volte la somiglianza con suo padre l’aveva infastidita, ma mai come in quel momento in cui l’unica cosa che avrebbe voluto fare era scagliargli contro una sfera e vederlo scomparire per sempre, magari nelle profondità delle segrete o nella Gora dell’Eterno Fetore. Dovunque, in qualsiasi luogo da cui il suo sorriso di scherno non potesse tornare a tormentarla.

Era stato un incubo trattenersi per tutta la durata del ballo; insopportabile sorridere e fingersi spensierata, mentre i suoi pensieri volavano lontano da lì.

Ecco fatto, padre. Ho evitato di rovinarti il divertimento, no?, pensò, mentre si spazzolava furiosamente i capelli. Peccato che ci abbiate pensato tu e mia madre a rovinarlo a me!

Quando li aveva raggiunti, dopo aver ballato con l’araldo invernale, si era subito accorta che qualcosa non andava. Sua madre, come al solito, tentava di salvare le apparenze; le aveva sorriso e chiesto se si stesse divertendo, ma si vedeva benissimo che era tesa come un elastico. Persino la sua voce suonava falsa, ancora prima che gli invisibili fili del destino che partivano da lei si intrecciassero con aria di sfida a quelli che partivano da Jareth.

E per quanto riguardava suo padre…

Lui, naturalmente, era troppo astuto per uscire allo scoperto. Ma dal modo in cui aveva sorretto lo sguardo di Trisha, da come l’aveva squadrata, lei aveva capito subito cosa doveva essere accaduto. Glielo aveva letto in faccia, chiaro come una confessione, e si era sentita perduta.

Cosa diavolo era saltato in mente a sua madre, di impicciarsi? Lei non  c’entrava neppure, in quella faccenda della successione! Anche se aveva sposato il Re dei Goblin e rinunciato alle sue spoglie mortali per diventare una Fae, non era comunque di stirpe reale. Perché aveva dovuto intromettersi, capovolgendo il filato del destino?

Sconfortata, Trisha balzò in piedi e si aggirò per la stanza come un’anima in pena, tormentandosi le unghie.

Che cosa faccio, adesso?

Non sarebbe mai riuscita a tener testa ai suoi genitori. Non contemporaneamente. Sarah forse poteva essere un’avversaria alla sua altezza, ma già per sconfiggere il solo Jareth avrebbe dovuto far ricorso a ogni fibra della sua magia, comprese quelle che non sapeva di possedere. Da qualunque angolazione lo guardasse, l’esito dello scontro era segnato; i fili del suo destino si ritraevano come serpentelli davanti a quelli congiunti dei suoi genitori, e la luce che emettevano era sempre più debole… sempre più fioca…

“Non è giusto!”, ringhiò Trisha, stringendo i pugni.

“Mi sembri sempre più simile a tua madre”, osservò improvvisamente una voce alle sue spalle, in tono canzonatorio.

Come già quel mattino, la giovane Fae non si voltò neppure. Il debole di suo padre per le entrate a effetto era cosa nota a chiunque si trovasse anche solo di passaggio per la città di Goblin. I mortali naturalmente non se lo aspettavano mai, e rimanevano di stucco quando Jareth compariva dal nulla con uno svolazzo, o emergeva dalle lacere vesti di un mendicante. D’altronde, la maggior parte dei mortali dell’Aboveground era anche stupida come la paglia.

“Che onore”, sibilò Trisha, rancorosa. “Il Re dei Goblin trascura i suoi regali doveri per conferire con me. Devo inchinarmi?”

“Ho dei doveri anche come padre”, ribatté Jareth, e lei avrebbe potuto giurare che stesse sogghignando. “Come mai tanto veleno, mia cara? E’ andato tutto a meraviglia, no?”

Lo sa?, pensò Trisha, con un tuffo al cuore. Non osò lanciare nemmeno un’occhiata ai fili del destino, con lui nella stanza; Jareth avrebbe potuto approfittare di quella sua distrazione per lanciarle contro una sfera. Se voleva aprire lui le ostilità, avrebbe sicuramente colpito a tradimento. Magari perfino alle spalle.

“Se ti riferisci al ballo”, disse, sforzandosi di ricacciare indietro la paura, “è stato uguale a quelli che l’hanno preceduto e a quelli che seguiranno, e che spero siano esigui come i mortali che nei secoli hanno attraversato con successo il Labirinto…”

Come se lui le avesse letto nel pensiero, una sfera di cristallo rotolò pigramente ai suoi piedi. Trisha si voltò di scatto a fronteggiare Jareth, che aveva incrociato le braccia sul petto e la fissava divertito.

“Che significa?”, sibilò la ragazza, con voce di ghiaccio.

Jareth le sorrise.

“Lo sai, no? E’ solo un cristallo…”

“Credevo che stessimo parlando del ballo, non dei miei sogni!”

“Una cosa non esclude l’altra. A proposito, ti ho visto ballare insieme all’araldo invernale…”

Trisha resistette all’impulso di abbassare lo sguardo. Sarebbe stato come tradirsi.

“Be’, non c’erano molte altre alternative. Il rinfresco era penoso e la compagnia uno strazio…”

“Quindi adesso siete amici, tu e quel… come si chiama… Bora?”, sghignazzò Jareth. “Per tutti i Goblin, sei davvero caduta in basso se non sai nemmeno sceglierti un alleato decente!”

“Si chiama Bruma”, lo corresse Trisha a denti stretti. “E si dà il caso che non sia affatto un mio alleato!”

“Come vuoi. Servitore, allora. Sgherro, lacché… o magari aiutante. Non è così che li chiama il loro capo?”

“Non mi serve l’aiuto di un galoppino di quello stupido Santa Clause! Quello che voglio me lo prendo da sola!”

Non come lui, che si circondava di servi stupidi e inetti! Trisha intendeva servirsi dell’araldo invernale solo come pretesto per evitare uno scontro diretto con Jareth, ma quando a città di Goblin e il Labirinto fossero stati suoi, lo avrebbe appeso in una segreta a mo’ di decorazione natalizia. Anzi, alla prima occasione avrebbe spedito l’intero Consiglio delle Creature Leggendarie a fargli compagnia. In fin dei conti, una volta esaurita la loro utilità, che cosa devo a quella gente?

Jareth stese una mano verso la sferetta di cristallo sul pavimento, che sfrecciò attraverso la stanza gli atterrò vorticando nel palmo.

“Dici che non ti serve nessun aiuto per prenderti quello che vuoi”, sibilò il Re dei Goblin. “Allora che cosa stai aspettando?”

Sorrideva ancora, ma dal suo viso era scomparsa ogni traccia di buonumore. Trisha ricordava di averlo visto così infuriato solo quando lei aveva attirato nel Labirinto quei due mortali. Istintivamente, arretrò di un passo.

“Io non… Cosa ti dà la certezza che sarò io, anziché lo zio Toby?”, proruppe disperata.

“Tuo zio non ha più rimesso piede nell’Underground,  da quand’era bambino. Il suo tempo mortale è agli sgoccioli, e se finora non ha manifestato nessun desiderio di unirsi a noi…”

“Però potrebbe farlo da un momento all’altro! Gli umani sono ossessionati da certe cose. Anche mia madre non riesce a smettere di contare il tempo che passa…”

Jareth ebbe un attimo d’esitazione, e lei lo incalzò;

“Finora lo zio Toby non ha mai pensato seriamente alla morte. Ma se cambiasse idea? O se zia Charlotte se ne andasse prima di lui? Non è escluso che succeda, lo dicono i suoi futuri possibili…”

“Ne hai parlato con tua madre?”

“No, lei non vuole nemmeno che accenniamo all’argomento… e tu, invece, gliel’hai detto?”, fece Trisha, con una smorfia. “Vi ho visti confabulare…”

“Le ho accennato qualcosa, sì.”

“Le hai detto anche che speri che suo fratello muoia prima di cambiare idea?”, lo sfidò lei. Jareth si irrigidì, mentre i suoi occhi si riducevano a due fessure lampeggianti di collera.

“Non so di cosa parli”, sibilò.

“E’ per questo che ultimamente non la smetti di tormentarmi? Vuoi sbarazzarti di me, intanto che aspetti la dipartita dello zio Toby?”, lo aggredì Trisha, che aveva recuperato un po’ di colore. “Durante l’ultimo ricevimento di corte, dopo che tutti gli altri se ne erano andati, ti sei attardato con l’Uomo dei Sogni. E quando sono tornata, stavate ancora parlando.”

Jareth arricciò il naso.

“Il giorno che deciderò di coinvolgerti nelle faccende fra me e i miei sudditi, te lo farò sapere.”

“Vi ho sentiti! Avete nominato lo zio Toby, e l’Uomo dei Sogni ha detto che era tutto sotto controllo. Cosa fai, gli mandi dei sogni creati apposta per tenerlo lontano dall’Underground?”

“Ti avverto, Trish…”, minacciò il Re dei Goblin.

“No, sono io che ti avverto! Se non mi lasci in pace, vado da mia madre e giuro che spiffero tutto! Scommetto che non sarebbe più tanto ansiosa di schierarsi dalla tua parte, se sapesse che stai facendo il lavaggio del cervello al suo adorato fratellino”, ribatté sardonicamente lei.
 
Jareth strinse la sfera di cristallo nel pugno e alzò il braccio per lanciargliela contro. In quel momento però un’altra sferetta apparve dal nulla; emetteva un leggero bagliore argenteo mentre scivolava verso di loro, come una ninfea trascinata dalla corrente. All’interno, fra mille sfavillii argentati, Jack Brina sorrideva compiaciuto.

“Desidero che la figlia del Re dei Goblin venga da me all’istante”, lo sentirono pronunciare.

“Parli del diavolo…”, mormorò Jareth.

Trisha sospirò stancamente, strofinandosi il setto nasale. “Immagino che dovrò andare a sentire cosa vuole. Senti…”, aggiunse, visto che il padre sembrava aver sbollito almeno in parte la rabbia di pochi istanti prima. “Hai qualcosa in contrario se mi faccio un giro per l’Aboveground, quando ho finito con lui? Preferirei stare alla larga dal Castello, per un po’.”

Jareth inarcò un sopracciglio.

“Allora non desideri riprendere il discorso di tuo zio Toby, mia cara?”

“Magari lo riprendiamo un’altra volta, quel discorso. Oggi non è giornata.”

“Ma se hai appena detto…”

“Devo andare”, tagliò corto Trisha, prima di scomparire in una nuvola di fumo luccicante. La sua voce aleggiò ancora per qualche istante dietro di lei. “Dì alla mamma di non aspettarmi.”

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Questo capitolo partecipa alla challenge "La sfida dei duecento prompt" di kamy.
Prompt 12- Angoscia


Al termine del ballo, dopo che anche l’ultimo ospite si era congedato, Sarah rimase a lungo ad aggirarsi per il castello come una sonnambula.

Jareth doveva aver intuito il suo stato d’animo, e si era prudentemente tenuto alla larga. In quanto a Trisha, lei di certo aveva altro per la mente. Meglio così; in quel momento Sarah non se la sentiva di vedersi intorno nessuno dei due. Aveva bisogno di stare da sola. Calmarsi. Rimettere ordine nel groviglio turbinoso dei suoi pensieri e delle sue emozioni.

Le sembrava di impazzire. Una parte di lei avrebbe voluto urlare, piangere, colpire qualcosa, ma nello stesso tempo si sentiva anche svuotata e priva di forze. E si odiava per quelle sue stupide debolezze da essere umano! Perché non riusciva ad affrontare la situazione con distacco? Dov’era finito il suo sangue freddo, ora che ne aveva bisogno? Detestava sentirsi così angosciata e indifesa, mentre lavita della sua famiglia era sul punto di disintegrarsi.

Concentrati, Sarah! Rifletti! Dev’esserci un modo per uscire da questo… questo ginepraio!

Le parole di Jareth continuavano a risuonarle nella mente, implacabili.

“Il Labirinto sceglie da sé il successore del suo sovrano. Il destino del sovrano che viene sconfitto è nelle mani del vincitore.”

Sconfitto… al solo pensiero le si serrò lo stomaco.

Come poteva il Labirinto chiederle di scegliere fra suo fratello e suo marito? Fra sua figlia e suo fratello? Fra suo marito e sua figlia?

Perché era di quello che si trattava; a Sarah era bastata un’occhiata all’espressione di Jareth per capirlo.

In tutti quegli anni si era illusa che fuggire fosse la soluzione ai suoi problemi. Aveva fantasticato di vivere con la sua famiglia nell’Underground, al riparo dalle leggi che governavano il destino dei mortali. Jareth glielo aveva lasciato credere, ma in cuor suo doveva aver sempre saputo come stavano le cose. Perché non glielo aveva mai detto? Forse non voleva metterla di fronte alla verità prima che non fosse assolutamente necessario… ma conoscendo suo marito, era più probabile che avesse solo voluto evitare delle inutili discussioni. In un altro momento Sarah se la sarebbe presa, ma ora non aveva neppure la forza di arrabbiarsi con lui.

Si sentiva… tradita. Ecco la parola giusta. Il Labirinto l’aveva ingannata, e adesso le presentava il conto dei suoi sogni.

No, dannazione! Non era per questo che aveva rinunciato alla sua vecchia vita da mortale! Doveva esserci un modo per risolvere tutta la faccenda. Toby e Charlotte avrebbero potuto vivere in qualche altro luogo dell’Underground che non fosse per forza la città di Goblin… un posto abbastanza lontano dall’influenza del Labirinto, insomma. E per quanto riguardava Jareth e Trisha, poteva escogitare qualcosa per tenerli alla larga l’uno dall’altra. Magari non avrebbe funzionato per sempre, ma almeno per un po’ sì.

Stai solo rimandando l’inevitabile, Sarah…

Da quando la voce dei suoi pensieri assomigliava così tanto a quella di suo marito? Si chiese se Jareth non la stesse osservando da una sfera, e se quel sussurro non provenisse davvero da lui. Poteva quasi vederlo sorridere mestamente, scuotendo la testa in quella modo accondiscendente che le aveva sempre dato ai nervi.

Più di ogni altra cosa, era stata l’amarezza nel suo sguardo a coglierla di sorpresa. Le aveva riportato alla mente il loro scontro nella Stanza di Escher, quando Jareth le si era parato di fronte e l’aveva tentata di nuovo, per l’ultima volta. Aveva recitato il suo ruolo fino in fondo, ma stancamente, senza ostentare più alcuna baldanza, ormai rassegnato alla sconfitta.

Quella sera, dopo molti anni, Sarah aveva visto nei suoi occhi la stessa espressione, e si era sentita mancare il terreno sotto i piedi.

Lo sa. Sa che qualunque cosa io faccia, non sarà abbastanza. Sa che non riuscirò a impedire a lui e a Trisha di battersi. Sa che Toby…No, maledizione, no! No! Non m’importa se è così che vanno le cose, da queste parti! Io non lo accetto. Non lo accetterò mai!

Alla fine, stremata e in preda all’angoscia, se ne tornò nelle sue stanze. Didymus, che come al solito montava la guardia, le si fece incontro sollecito. Era piccolo, e assomigliava a una via di mezzo fra uno scoiattolo e una volpe che camminasse eretta sulle zampe posteriori.

“Milady, c’è qualcosa che vi turba?”, chiese, con i folti baffoni frementi.

Sarah si sforzò di sorridere.

“Non riesco a nasconderti niente, vero, Didymus?”

“Ohibò! Deve trattarsi di faccenda alquanto grave, lo intuisco dallo sconforto nei vostri occhi! Desiderate che informi il vostro regal consorte?”

“No. Lui non… posso parlare con te, invece?”

Il minuscolo cavaliere si esibì in un inchino assurdamente profondo.

“Sempre al vostro servizio, Milady!”

“Senti… che cosa sai della successione dinastica, qui nell’Underground?”, chiese Sarah, inginocchiandosi accanto a lui. “Prima, al ballo, Jareth mi ha accennato qualcosa. Ma come funziona, esattamente?”

Ebbe l’impressione di scorgere qualcosa di molto simile alla compassione balenare nei piccoli occhi brillanti di Sir Didymus. Subito dopo però il cavaliere si raddrizzò l’armatura, arruffò la coda e, dopo essersi schiarito la voce, esordì in tono d’importanza;

“Ordunque… la tradizione stabilisce che qualora un contestante si palesi al sovrano in carica, ambedue siano tenuti a misurarsi a singolar tenzone, non all’arma bianca come è d’uopo fra cavalieri, ma avallandosi delle rispettive abilità magiche. Giostrare in siffatta maniera richiede un’impressionante velocità di riflessi, onde evitare che lo sfidante faccia appello alla magia del Labirinto prima dell’attuale reggente.”

“Cosa vuol dire?”, mormorò Sarah. “Il Labirinto può scegliere da che parte stare?”

“No, Milady. Il Labirinto non interferisce nella tenzone; si limita a rispondere in egual misura a entrambi i contestanti. Per codesta ragione ciascuno sfidante è tenuto a primeggiare in astuzia e imporre la sua volontà al tessuto magico del Labirinto, onde evitare che l’avversario faccia altrettanto.”

Sarah deglutì nervosamente. Era fin troppo facile immaginarsi Jareth e Trisha alle prese con il combattimento descritto da Didymus. E se lei avesse dovuto schierarsi…

“Non c’è un modo per evitarlo?”, implorò. “Cosa succede se uno sfidante rifiuta di battersi?”
 
Didymus scosse il capo, dispiaciuto.

“La magia insita nel Labirinto, la stessa essenza che scorre nelle vene degli sfidanti, continuerebbe inesorabilmente a sospingerli verso il conflitto.” I suoi baffi tremarono leggermente. “Di certo ricorderete, milady, la determinazione che provaste  quando la nostra compagnia di fratelli d’arme assaltò la fortezza del vostro regal consorte.”

“Certo che mi ricordo. Non potevo lasciare che mio fratello…” Sarah si voltò a guardarlo, socchiudendo gli occhi verde pallido. “Mi stai dicendo che per Trisha è la stessa cosa? Che nostra figlia non avrà mai pace, finché io e suo padre regniamo sulla Città di Goblin?”

A disagio, Didymus cincischiò con l’enorme piuma che decorava il suo berretto da moschettiere.

“Non volevo insinuare che la vostra regal erede…”

Sarah rifletté per un attimo. “E se io non volessi più… voglio dire… se mi facessi da parte? Un sovrano può abdicare?”

“Non credo che una simile eventualità si sia mai verificata, Milady”, rispose Didymus, battendo le palpebre, sorpreso. “Non dacché ho memoria…”

“Be’… vuol dire che lancerò una moda”, ironizzò lei. “E poi a me non importa niente di queste storie di dinastie e successioni. Mi accontento anche di vivere come una qualunque suddita. Se Trisha vuole regnare al posto mio, per quanto mi riguarda può accomodarsi. E almeno così lei e Jareth non…”

Negli occhi di Didymus scorse di nuovo quell’espressione compassionevole. Malgrado tutto, la infastidì.

“Che c’è, Didymus? Ho detto qualcosa che non va?”

“Oh, Milady, io non vorrei che voi poteste rimpiangere la vostra scelta…”

“Non la rimpiangerò, stai tranquillo. Te l’ho detto, non mi importa di regnare sul Labirinto… o sulla città di Goblin… o su tutto quanto l’Underground. La mia famiglia e i miei amici vengono prima di tutto”, concluse Sarah, dandogli un buffetto affettuoso sulla testa. Poi si alzò stancamente da terra.

“Avete intenzione di ritirarvi nei vostri alloggi, Milady?”

“No, non sono stanca.” Aveva ancora troppa adrenalina in circolo, ora che l’angoscia aveva un po’ allentato la presa. “Penso che farò un salto da mio fratello, nell’Aboveground. Se vedi Trisha, mentre sono via, puoi dirle che le voglio parlare?”

“Ogni suo desiderio è un ordine, Milady”, rispose Didymus, scattando sull’attenti.

“Grazie. Non so come farei, senza di te.” Stavolta lei riuscì a sorridergli con più convinzione. Entrò nella sua stanza, andò alla finestra e la spalancò. Il labirinto, alle pendici del castello, era avvolto nella solita immutabile foschia dorata, uguale a sé stessa in in qualunque momento del giorno e della notte… non che nell’Underground ci fosse una vera distinzione fra il giorno e la notte, naturalmente.

Non le sarebbe mancato, vivere al Castello. Aveva suo fratello, sua cognata, i suoi amici, la sua bambina (come si sarebbe infuriata, Trisha, a sentirsi chiamare così!). Aveva Jareth. Non le serviva nient’altro.

Ma mentre lasciava che il vento la sospingesse fuori dalle mura del Castello, in un turbine di piume candide, per un attimo avvertì ancora un vago senso di inquietudine, l’ombra di una minaccia senza nome, in agguato negli angoli più remoti della sua mente.  

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Questo capitolo partecipa alla challenge "La sfida dei duecento prompt" di kamy.
Prompt 143 - Gelosia


NOTA: Ritorno ad aggiornare dopo un periodo difficilissimo (compreso un lutto) che non mi ha lasciato molto tempo da dedicare alla scrittura, purtroppo. Per fortuna adesso mi sto sfogando tantissimo con questa storia e spero di riuscire ad aggiornarla più spesso!
In questo capitolo vengono citati personaggi di altri fandom con cui ho fatto dei crossover minori.
Seth Applegate (interpretato da Douglas Seale) e Joe Carruthers (interpretato da Oliver Clark) sono i Babbo Natale del film “Ernesto salva il Natale” del 1998, mentre il Kris Kringle della mia storia è sia il Babbo Natale interpretato da Richard Rehlie nel film “Zampa e la magia del Natale” (2010), sia quello interpretato da Richard Attenborough in “Miracolo nella trentaquattresima strada” (1994), sia quello che muore cadendo dal tetto di Scott Calvin nel primo “The Santa Clause”.
La faccenda della Santa Clausola di Matrimonio, che impone a Babbo Natale di sposarsi entro otto anni dalla sua entrata in servizio, altrimenti la sua magia si esaurirà, proviene dal secondo film della serie di Santa Clause; “Che fine ha fatto Santa Clause?”, dove è Scott che deve trovare una consorte prima che sia troppo tardi. Diciamo che l’espediente della Clausola di Matrimonio funzionava bene sia nel caso di Applegate (che all’inizio di “Ernesto Salva il Natale” sta perdendo i suoi poteri magici e deve trovare un successore) che nel caso di Kringle; in pratica, è caduto dal tetto perché comunque non era più in forma come una volta, la sua magia si stava affievolendo (come già quella di Applegate prima di lui) e forse non ne aveva neanche più voglia. In “Zampa Natale” la magia è convogliata da un ghiacciolo che porta al collo e possiamo immaginare che nella caduta gli sia volato via, rendendolo mortale (com’era capitato nel film dove viene investito da un’auto e perde la memoria; il ghiacciolo gli viene rubato mentre è privo di sensi, e lui ritorna appunto a essere un mortale vecchio e stanco).
La cosa del cane di Babbo Natale viene appunto da “Zampa e la magia del Natale”, così come il personaggio del capo elfo Eli (si pronuncia Elai, all’inglese), interpretato da Danny Woodburn. Invece Bernard, interpretato da David Krumholtz, compare in “Santa Clause” e “Che fine ha fatto Santa Clause?” (sarà rimpiazzato dall’elfo Curtis solo nel terzo film). Arendelle non penso che serva spiegare che viene da “Frozen” e la dimora estiva di Jack Brina a Gstaad è citata per quanto ne so solo nella traduzione italiana del terzo Santa Clause.
Il personaggio di Phoebe è a sua volta un richiamo a un altro film (Santa’s Baby 2), mentre Beniamina è Beniamina Volò (interpretata dalla Pivetti in “SOS Befana” e “Miacarabefana.it”) ovvero la Befana, che ho immaginato essere una dipendente “specialistica” di Santa Clause ^_^
E ora passiamo a vedere che combineranno Jack e Trisha...

*** Nell’Aboveground ***
 
Il ghiacciolo sfrecciò attraverso la stanza e si conficcò dritto in mezzo agli occhi ammiccanti di Babbo Natale, al secolo Scott Calvin.

Pazzesco. Quel tizio era Santa Clause da poco più di un anno, e già la sua faccia aveva rimpiazzato quella di Kringle nei poster e sulle cartoline natalizie. Evidentemente quelli del reparto merchandising dovevano essere tutti drogati di lavoro, oppure Calvin gli pagava degli straordinari da urlo per farsi un po’ di pubblicità extra.

Jack Brina si avvicinò al poster (il più piccolo che fosse riuscito a procurarsi) e osservò compiaciuto i ghiaccioli che sporgevano da tutte le parti, come gli aculei di un riccio.  Ormai non rimanevano che pochi frammenti visibili della faccia di Calvin. Un pezzetto di barba e la punta del cappello.

“Hai finito di ridere, caro il mio mister ‘Ehi tu, fuori dal mio Polo Nord’?”, lo schernì Brina.

D’accordo, forse giocare alle freccette con la foto del suo nuovo boss non era un passatempo intelligente, e sì, se lo avessero beccato c’era la possibilità concreta di farsi sbattere per l’eternità al reparto dolcetti e caramelle, a soffiare cristalli di zucchero ghiacciato sui dolcetti natalizi. Ma l’insofferenza di Brina nei confronti dell’establishment (e in particolare nei confronti di tutti i buffoni che avevano indossato il costume rosso di Santa Clause) era tale che non gli importava più di correre dei rischi.

Anche stavolta avevano scelto un patetico mortale. E non solo; fra tutti i sette miliardi di babbei che vivevano nell’Aboveground, la Santa Clausola veniva sempre fatta sottoscrivere a dei brocchi senza un briciolo di personalità o carisma. Possibile che il Consiglio delle Creature Leggendarie non riuscisse a selezionare qualcuno di decente? Okay, lo standard del mortale medio era decisamente basso, ma a tutto c’era un limite! Anche quella nuova che dirigeva il reparto dolcetti e caramelle veniva dall’Aboveground, ma lei almeno sapeva farsi una risata, ogni tanto. E invece, i Santa Clause erano di una piattezza deprimente. Con gli ultimi, poi, avevano praticamente raschiato il fondo del barile.

Prima c’era stato Applegate, un vecchietto squinternato che era letteralmente andato a pezzi dopo il divorzio dalla moglie (i reumatismi della signora Applegate erano stati il colpo di grazia al loro matrimonio). Aveva tirato avanti finché non erano scaduti gli otto anni della Santa Clausola di Matrimonio, e si era ritirato di buon grado quando la sua magia aveva cominciato a esaurirsi.

Poi era stato il turno di Carruthers, che però aveva mollato dopo soli tre anni e centodue giorni, schiacciato dalle responsabilità e dallo stress. Carruthers era il Santa Clause con il mandato più breve in assoluto.

Il Consiglio delle Creature Leggendarie avrebbe potuto sprecarsi a scegliere un candidato più meritevole, tanto per cambiare. Invece avevano preso Kringle che, da quanto aveva capito Jack, doveva essere stato qualcosa di simile a un contabile, e dirigeva il Polo Nord con la stessa pignoleria. A un certo punto aveva avuto la bella idea di restarci quasi secco, perdendo buona parte della sua magia in un incidente. C’era di che ben sperare, si era detto Brina, preparandosi il suo bel discorsetto di condoglianze per l’inconsolabile vedova; se si fosse mostrato comprensivo, forse la donna avrebbe messo una buona parola per lui con i colleghi del Consiglio. E invece, neanche a parlarne! All’ultimo minuto, lo stupido cane di Kringle gli aveva ceduto la sua essenza magica, e quel vecchio ipocrita ciccione era tornato al lavoro come se niente fosse. Ancora una volta, Jack aveva dovuto ingoiare il rospo e tornare al suo noioso, inutile incarico di rappresentanza.

Poi, però, era stata la moglie di Kringle a lasciarci la pelle, quando era caduta in un crepaccio durante una bufera di neve. E la cosa più ridicola era che qualche elfo linguacciuto aveva perfino avuto la faccia tosta di accusare lui! Che colpa ne aveva, se la signora era così fuori di testa da andarsene a passeggiare nel bel mezzo di una tormenta? Kringle, però, non aveva mai dato credito alle calunnie sul suo conto… non aveva mai sospettato… ed era per quello che a Jack in fondo un po’ dispiaceva che non fosse più lui, il boss. Quel tizio era di un’ingenuità disarmante.

Del resto, senza una moglie, la magia di Kringle aveva cominciato ad affievolirsi con lo scadere della Santa Clausola di Matrimonio. Aveva perfino rischiato di finire in manicomio, da qualche parte negli Stati Uniti. E alla fine c’era rimasto secco per davvero, cascando giù dal tetto di quel Calvin. Jack era in prima fila al suo funerale. Era stata dura fingersi compunto e affranto, ma ce l’aveva fatta senza troppi problemi. Solo l’elfo numero uno, Eli, e il numero due, Bernard, l’avevano squadrato con disprezzo per tutto il tempo, anche se lui aveva finto di non accorgersene.

In tutti questi avvicendamenti di personale, mai che al Consiglio delle Creature Leggendarie fosse venuto in mente di dargli uno straccio di possibilità. Nessuno aveva detto “Ehi, perché non facciamo provare Jack?”, o anche “Brina, tu te la sentiresti?”. Niente di niente. Per loro era come se non esistesse nemmeno.

Be’, la vedremo, pensò furente, passandosi una mano fra i capelli di ghiaccio. La vedremo…

Geloso del barbuto, lui? Niente affatto. Gelosia non era una parola abbastanza forte per descrivere quel che provava. Non si avvicinava neppure lontanamente alla portata del suo odio davanti alla faccia rubizza del Santa Clause in carica. Jack Brina era stufo di fare da spalla a una manica di idioti, stufo di vivere nell’ombra, trattato come una nullità. Voleva o sputare addosso a Babbo Natale, ferirlo, farlo scomparire dalla faccia della terra… e qualcosa gli diceva che la figlia del Re dei Goblin era proprio la persona che faceva al caso suo. Se non fosse stato per lei, si sarebbe risparmiato la seccatura di partecipare a quel terribile ricevimento di corte.

La ragazza era scaltra. Dopo aver sondato il terreno con tutte quelle domande sul Consiglio e il lavoro di Jack al Polo Nord, aveva fatto la sua mossa, lasciandosi sfuggire – certamente di proposito – quell’accenno al risentimento del padre per Santa Clause. Bella e pericolosa. Chissà cosa le frullava in quella testolina tanto sexy? A Jack importava di lei solo per i suoi poteri, altrimenti l’avrebbe quasi trovata adorabile. Come un tenero animaletto da compagnia pronto a ucciderti nel sonno.

“Desidero che la figlia del Re dei Goblin venga da me, all’istante!”, proclamò a gran voce, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Per qualche minuto, le sue parole rimasero sospese nella caverna di ghiaccio. Poi, dall’imboccatura di uno dei tunnel che si diramavano in tutte le direzioni, salì un lieve tintinnio. Qualcuno aveva fatto scattare i ghiaccioli che fungevano da campanello d’ingresso.  Jack sorrise malizioso e si avviò da quella parte, dopo aver scoccato un’ultima occhiata di trionfo a quel che restava del manifesto di Santa Clause.

Era fatta. A giudicare dalla velocità con cui si era precipitata alla caverna di ghiaccio, anche la figlia di Jareth doveva essere ansiosa di riprendere il loro discorsetto. Del resto, lui ci sapeva fare con le donne… mortali o Fae che fossero. Perfino qualche elfa gli moriva dietro.

Ma quando arrivò all’ingresso della caverna, non trovò nessuna traccia di Trisha. Ad aspettarlo c’era solo Bernard, il folletto numero due.

“E tu che ci fai qui?”, chiese Jack, senza riuscire a nascondere la sorpresa.

Bernard fece una smorfia.

“Chi ti aspettavi? Il Consiglio al gran completo?”

Piccolo insolente… Jack provò l’impulso feroce di spalancare un crepaccio sotto i suoi piedi e scaraventarcelo dentro. Invece si limitò ad alzare le spalle, con un sorrisetto sarcastico.

“No, pensavo piuttosto alla responsabile biondina del reparto corrispondenza… sai, l’ho invitata a Gstaad, a vedere la mia collezione di ghiaccioli. Com’è che si chiama? Phoebe, no?”

Bernard arrossì e lo fulminò con gli occhi. Aveva un debole per la bella folletta postina… come molti altri, del resto.

“Lasciamo Phoebe fuori da questa storia, se non ti dispiace!”, ringhiò.

“Come vuoi, Bernie. Dì un po’, non sarai mica geloso?”, lo stuzzicò Jack, sogghignando. “E’ così, vero? Oooh, che cosa dolce! Se l’avessi saputo prima, mi sarei fatto da parte…”

“Brina, sono qui per questioni di lavoro. Sempre ammesso che ti ricordi cosa significa, la parola lavoro!”

“Forse me lo ricorderei meglio, se avessi un incarico più impegnativo!”, sbottò Jack.

“Perfetto, allora ti accontento subito”, replicò secco Bernard. “C’è da sistemare il Grande Ghiacciolo, l’ultima slavina ha aperto una crepa mostruosa sul soffitto… e come al solito sappiamo chi ringraziare per questo contrattempo”, aggiunse, sbuffando.

“Ce l’hai con me? Guarda che io non mi sono nemmeno avvicinato alla caverna del Grande Ghiacciolo! Ero fuori per…” Si trattenne a stento dal gettargli in faccia la verità; mentre loro sgobbavano agli ordini di Calvin, lui si intratteneva con l’aristocrazia. Ma Bernard sarebbe andato subito a spifferare tutto a Eli, il folletto numero uno. Ed Eli avrebbe informato Calvin, che invece doveva restare all’oscuro delle sue macchinazioni. Almeno per il momento. “… per certi miei affari personali. E comunque, siamo al Polo Nord. Posso ricordarti che da queste parti le slavine sono all’ordine del giorno?”

“Be’, in ogni caso, il soffitto della caverna va riparato”, tagliò corto Bernard. “Hai quarantotto ore, Brina.”

“Una crepa sul soffitto? Ma per chi mi avete preso, per un muratore?”, sibilò Jack.

“Ritieniti fortunato che il Consiglio ti affidi un incarico del genere, con tutte le infrazioni che hai commesso!” lo rimbeccò aspramente Bernard, incrociando le braccia sul petto magro. “Se fosse dipeso da me…”

“Lo so, lo so. Tu avresti preferito che mi esiliassero”, sogghignò Brina. “Dev’essere frustrante non avere voce in capitolo, vero, Bernie? Non è prevista una sanzione per i sottoposti che criticano un membro del Consiglio? Be’, dovrebbe esserci.”

Sembrava che Bernard stesse per esplodere.

“Sta’ a sentire, Brina, se credi di minacciarmi…”

“Minacciarti? Io?” Jack si finse scandalizzato alla sola idea. “Ma come ti saltano in testa certe idee, Bernie?”

“E non chiamarmi Bernie!”

“Come ti pare”, sbuffò Jack, alzando gli occhi al cielo. “Senti, ora ho delle faccende da sbrigare. Mi faccio vivo io con il Consiglio, appena ho cinque minuti per risolvere quella faccenda della crepa sul soffitto.”

Bernard spostò il peso del corpo da un piede all’altro.

“Niente scherzi, Brina, intesi? Sai quant’è importante per noi il Grande Ghiacciolo.”

“Lo so, lo so…!”

“Tanto ci saranno anche Madre Natura e Padre Tempo, a controllare che vada tutto bene.”

Be’… quello era veramente offensivo. Cosa credevano, i suoi cari colleghi del Consiglio? Che avesse ancora bisogno di baby-sitter?

“Posso sistemare una crepa sul soffitto anche da solo”, sibilò, stringendo i pugni. “Non mi serve l’aiuto di…”

“Forse non hai capito”, lo interruppe freddamente Bernard. “Il Consiglio non si fida di te, Brina. Mandano qualcuno per sorvegliarti, non per aiutarti.”

Gli occhi di Jack scintillarono minacciosi. La collera e la gelosia che aveva faticosamente represso lo investirono con la furia di una tormenta di neve. Lentamente, raddrizzò le spalle e si avvicinò al folletto. Bernard faceva parte di quelli che aveva soprannominato “manovali troppo cresciuti”; Jack era poco più alto di lui, ma poterlo guardare con aria di superiorità anche solo per cinque centimetri scarsi era comunque una bella soddisfazione.

“Non si fidano?”, ripeté, in un sussurro gelido come l’inverno stesso. “E il Grande Capo, cosa pensa di tutta questa storia? Non mi sembra che abbia mai avuto da ridire sul mio conto, no?”

“Santa Clause non ti conosce ancora”, rispose Bernard, in tono di sfida.

“Oh, perché tu invece sì?”

“Sappiamo a che gioco stai giocando, Brina. L’incidente della signora Kringle. Lo strato di ghiaccio sul tetto della casa di Scott Calvin…”

“Cosa vorresti insinuare? Che sono stato io a far cadere Kringle da quel tetto?” Jack scoppiò a ridere.  “E allora spiegami perché l’avrei fatto, quando so benissimo come funziona la Santa Clausola! Non ti sei mai soffermato a pensare che, se davvero fossi stato io, come minimo mi sarei portato via il costume prima che quel mortale potesse metterci le mani sopra?”

Prima che Bernard potesse rispondere, una piccola ombra scura si insinuò nella caverna, attorcigliandosi attorno alle sue caviglie. Era un gatto nero, dal mantello liscio e lucido.

“Dannazione! Brina, tienimelo lontano!”, guaì il folletto, balzando indietro. “Sono allergico ai gatti!”

“E io cosa posso farci?”, replicò Jack. “Non so da dove sia sbucato, questo gatto. Non l’ho mai visto prima d’ora.”

Il gatto lasciò vagare i suoi occhi verdi da Jack a Bernard, e annuì con il muso. Poi, in un baleno, abbandonò le fattezze feline e si tramutò in Trisha.

Era accaduto tutto così in fretta che perfino Brina rimase spiazzato dalla sua improvvisa comparsa. Quanto a Bernard, sembrava sul punto di svenire.

“Hai la memoria corta, signore dei ghiacci”, disse Trisha, ammiccando all’indirizzo di Jack. Quindi si voltò verso Bernard, sorrise e gli spostò un ciuffo ribelle dal viso. Ma nei suoi occhi non c’era ombra di dolcezza. Lo fissava con un’intensità quasi famelica, come se fosse stata ancora un gatto e lui un canarino in trappola. “Davvero sei allergico? E’ un vero peccato.”

“Sua Altezza!” Il povero Bernard scattò maldestramente sull’attenti, rosso in viso. “Sono mortificato! Non sapevo che avesse in programma di visitare il Polo Nord, altrimenti avrei organizzato un comitato di benvenuto per…”

Lei lo zittì con un gesto imperioso, e Jack si sorprese a guardarla con un nuovo, ammirato rispetto. Ci voleva classe per far abbassare la cresta a un folletto saccente come il vecchio Bernie. Forse l’aveva giudicata troppo in fretta, dopotutto.

“Lascia stare, Brian, non sono qui in veste ufficiale”, disse Trisha. Poi esitò, aggrottando la fronte. “Oppure il tuo nome è Brent?”

“Ehm, no. Veramente mi chiamo Bernard”, rispose lui, e incenerì con lo sguardo Jack, che rideva silenziosamente sotto i baffi.

Trisha sogghignò.

“Sì, sì, come ti pare. Comunque dovresti fare qualcosa per quell’allergia, sai? E sarebbe anche il caso che ti facessi vedere più spesso a corte.” A giudicare dal tono, sembrava più un ordine che una richiesta. Bernard fece un passo indietro, visibilmente atterrito. Era difficile capire se lo spaventasse di più l’idea di contrariarla o di obbedirle.

“Ma sua Altezza, io non… il mio incarico non prevede…”

“Bernard è il folletto numero due di Santa Clause”, spiegò Jack, sfoderando un sorriso odioso. “Il braccio destro del braccio destro. La riserva, in altre parole…”

“Per tua informazione, faccia di brina, sono stato promosso a folletto numero uno già da un anno!”, sibilò Bernard.

“Tu?” Jack lo guardò come se stesse scherzando. “Non ne sapevo niente. Eli che fine ha fatto?”

“Se n’è andato dopo che Kringle… lo sai”, rispose Bernard, con una smorfia amara.

Ovvio; di tutti i Santa Clause, Kringle era quello con cui il vecchio Eli aveva legato di più.

Jack faticò a nascondere la sua irritazione. Era davvero troppo. Adesso perfino i folletti facevano carriera, mentre lui – lui, una Creatura Leggendaria! – non aveva nemmeno diritto a una singola, insignificante festività in suo onore!

Si accorse che Trisha lo stava fissando. Per un attimo, ebbe l’impressione di scorgere un sorriso segreto nei suoi occhi cangianti.

“Santa vi permette di disertare?”, intervenne la Fae, alzando un sopracciglio. “Piuttosto... inusitata, come pratica. Ma immagino che un mortale non capisca mai davvero come funzionano le cose nell’Underground. Anche per mia madre non è facile.”

Bernard fece per ribattere, ma poi ci ripensò. Evidentemente non moriva dalla voglia di attirare su di sé l’attenzione di Trisha. Lei però se ne rese conto, perché afferrò la mano di Brina e la strinse spasmodicamente, come per trattenersi dal ridere.

Ahia, pensò l’araldo invernale, guardandola di traverso.

“Ora sparisci, Brandon“, tagliò corto lei. “Che so, vai a costruire doni per i piccoli mortali. Prepara dei dolci. Qualunque stupida cosa facciate in quel luogo. Ah, e non disturbarti a portare i miei saluti a Santa. Lo incontrerò personalmente, prima o poi.” Sorrise di nuovo, con quella sfumatura beffarda che faceva pensare a un predatore. “E gli dirò che ti voglio nella Città di Goblin, una volta o l’altra.”

Bernard strabuzzò gli occhi, inorridito.

“M-m-ma S-S-Sua Altezza… i-i-io n-n-non… n-non…”, balbettò con voce strozzata.

“Be’? Non l’hai sentita? Marsh!”, gli ordinò seccamente Brina, battendo le mani.

Il folletto barcollò all’indietro, evitando per un pelo di perdere l’equilibrio e sfracellarsi giù da un crepaccio insidioso che si apriva accanto alla caverna. Jack capì che non aveva il coraggio di voltare le spalle alla figlia del Re dei Goblin. Continuò ad arretrare finché uno dei suoi piedi non sfiorò la superficie scivolosa del ponte di ghiaccio; a quel punto ruotò su sé stesso e schizzò via come una lepre delle nevi. Una lepre delle nevi inseguita da mille lupi inferociti.

Incapace di trattenersi oltre, Trisha scoppiò a ridere di cuore.

“Ottimo lavoro, Principessa!”, si congratulò Jack. “Davvero, quell’entrata in scena è stata qualcosa di spettacolare. E il modo come lo hai umiliato…”

“Hai visto la faccia che ha fatto?”, farfugliò lei, tenendosi un fianco dal gran ridere. “Alla fine si è perfino messo a chiocciare come na gallina! Per tutti i goblin, è ancora talmente un ragazzino… “

“Non riesco a credere che ora sia lui, l’elfo numero uno Voglio dire… basta guardarlo per capire che non è tagliato per quel ruolo.”

“Certo, lui non è come te.” Trisha sorrise e sbatté le ciglia con aria civettuola. “Non mi fai entrare in casa, signore dei ghiacci?”

“Ma certo… prego, da questa parte”, esclamò Jack, facendole strada lungo un tunnel scavato nella roccia.
 
La caverna assomigliava un po’ a un labirinto di cunicoli che si diramavano in tutte le direzioni. I passi dei due Fae riecheggiavano sordi attorno a loro, rimbalzando contro le pareti di ghiaccio.

“Sbaglio o il pavimento sta salendo?”, chiese Trisha a un tratto.

“Sì, diciamo che ho fatto alcune modifiche alla struttura originale”, ammise Jack. “Mi piace permettermi qualche comodità.”

“Alla faccia delle comodità!”, replicò lei, ridendo. “Ma quanto è grande, esattamente, questo posto?”

“Be’, più o meno copre due terzi del ghiacciaio. Ho dovuto allargare un po’ il parcheggio e il canile – sai, i lupi hanno avuto una cucciolata l’inverno scorso e adesso quelli di un anno incominciano a litigare con gli altri. Eccoci, questo è il salotto per gli ospiti”, disse Jack, e la precedette in un’enorme stanza scavata nel ghiaccio. Al centro c’era un imponente pianoforte a coda, e due eleganti poltrone dorate circondavano un tavolino pure di ghiaccio. “Ti posso offrire qualcosa? Un ghiacciolo, una granita?”

“No, grazie”, rispose Trisha, lasciando vagare lo sguardo sulle pareti scintillanti. “Allora è qui che vivi…”

Jack le rivolse un sorriso smagliante.

“Generalmente sì, anche se è solo una delle mie proprietà. Una volta qui ci abitava mia madre, è stata lei a lasciarmi la caverna. Ma ho anche dei possedimenti in altri ghiacciai. Perito Moreno, il Kilimangiaro…”

“Anche Arendelle, nell’Underground?”

“No. Lì ci abitano alcuni miei cugini. Ma hanno un po’ allentato i rapporti con mia madre, quindi non ci sentiamo molto”, rispose Jack, con una smorfia. “E poi ho un ghiacciaio per le vacanze a Gstaad, in Svizzera…”

“Svizzera”, ripeté Trisha, che si era avvicinata al pianoforte per studiarlo meglio. “Non è lontana dall’Italia, no? Allora è lì che hai conosciuto la ragazzetta dell’Aboveground? Beniamina?”

“E questa cosa sarebbe, principessa? Gelosia?”, sogghignò Jack.

“Gelosia? Di una mortale? Ma figurati!” Trisha rise, scuotendo i capelli scuri. Poi si voltò di scatto e puntò un lungo dito sottile contro il poster di Santa Clause, infilzato di ghiaccioli. Trionfante, lanciò un sorriso di scherno a Jack. “No, vedi… direi piuttosto che questa è gelosia, Brina.”
  

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