Allegria di naufragi

di EmmaStarr
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Soldati ***
Capitolo 2: *** Fratelli ***
Capitolo 3: *** Universo ***
Capitolo 4: *** San Martino del Carso ***
Capitolo 5: *** Allegria di Naufragi ***



Capitolo 1
*** Soldati ***


SOLDATI

Bosco di Courton luglio 1918

 

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie

 

 

 

Zoro camminava piano, facendo sbattere la baionetta sulla coscia. Non gli importava dell'aria carica di pioggia, né del fango incrostato sul casco e nelle pieghe dei vestiti.

Aveva appena finito di sistemare un carico di bombe a mano per il giorno successivo, ed ora voleva godersi in pace quei pochi minuti di quiete prima della cena: il boschetto dietro l'accampamento non era sicuro né bello, ma di certo batteva la trincea con il suo odore di sangue e morte.

L'autunno aveva colorato le foglie degli alberi di un arancione sfavillante, allegro. Fin troppo allegro, a parer suo.

Lui era Roronoa Zoro, e per lui la vita non era mai stata sfavillante o allegra, anzi. C'erano state pochissime punte di colore, nei suoi ventun'anni di buio quasi completo: un pizzico di rosa con Kuina, da piccolo. Un pizzico era tutto quello che aveva potuto chiedere, dopodiché era tornato il buio.

Anni dopo era apparsa una leggera scia di giallo, fastidiosa e irritante. Buffo che quel giallo continuasse a seguirlo ovunque andasse, insultandolo e lamentandosi, ma senza lasciare che quel poco di colore svanisse definitivamente dalla vita di Zoro.

Un cuoco, il cuoco dell'accampamento, per la precisione. Giallo come l'allegria e come la rabbia. Irritante e fastidioso, già. Eppure senza quel vago sentore di giallo, quella piccola scia luminosa, Zoro era convinto che non sarebbe riuscito ad andare avanti con altrettanta forza di volontà.

– Marimo! Stai facendo una passeggiata?

Volontà di spaccarlo in due, ovvio.

– Non chiamarmi così. – ribatté, più per abitudine che per altro, senza nemmeno voltarsi a guardarlo. Il cuoco lo raggiunse, affiancandolo e prendendo a camminare accanto a lui.

– Ti dispiace se ti accompagno? – chiese noncurante, e Zoro sapeva che sarebbe stato inutile informarlo del fatto che, bé, lo stava già facendo.

Rimasero in silenzio per un po', circondati dalla quiete del bosco d'autunno, giallo, rosso, arancione e marroncino chiaro, una tavolozza consumata, un tappeto di braci ardenti. Ogni passo, uno scricchiolio. Zoro non sapeva se definirlo fastidioso o ipnotizzante.

– Tu non dovresti cucinare? – chiese dopo un po', sbuffando.

– L'ho già fatto. Tra un po' chiameranno per la cena, quindi ho pensato di venirti a cercare. Sai, è meglio che tu non ti perda un'altra volta, altrimenti poi il cibo finisce. – ribatté il cuoco, sogghignando.

Sanji il cuoco.

Sanji il cascamorto, che non mancava mai di corteggiare ogni infermiera dell'ospedale, anche la più brutta.

Sanji il guastafeste, che interveniva sempre quando Zoro si stava allenando per sbatterlo fuori dall'edificio di turno gridandogli di andare a mangiare.

Sanji il rompiscatole, con il quale non si poteva sperare di intrattenere una conversazione senza finire in una rissa all'ultimo sangue.

Sanji lo stupido, che non capiva mai quand'era il momento di lasciarlo in pace.

Sanji il cuoco, l'unico che si ricordava di portargli da mangiare di nascosto quando si allenava fino a tardi.

Si erano conosciuti lì, in quell'inferno di fuoco e sangue che era la trincea: soldato semplice e cuoco dell'accampamento. Un'accoppiata a dir poco assurda... se di accoppiata poi si poteva parlare. Zoro ricordava bene il loro primo incontro: era il suo primo giorno come soldato e aveva fame. Neanche a dirlo, la zuppa faceva schifo. Era andato a lamentarsi col cuoco, e così era iniziato tutto: con una rissa, e come altrimenti?

Piano piano, il loro rapporto di odio reciproco era diventato più un “io non uccido te se tu non uccidi me”, per poi tramutarsi in un “passo il tempo con te, ma solo perché mi piace provocarti” e sfociare infine in un “ok, siamo amici, ma prova solo a darmi sui nervi e ti ritroverai con tutte le costole incrinate”.

Un interessante compromesso.

Sanji alzò la testa, lo sguardo perso nel vuoto. – Sei venuto qui perché ti piace il posto? Non è male.

Zoro si strinse nelle spalle. – Mah. Può darsi, se ti piace deprimerti in mezzo a tutte queste foglie morte.

Sanji inarcò un sopracciglio, come domandandosi per l'ennesima volta chi mai glielo facesse fare di passare il tempo con un idiota simile. – Non lo so. Forse è che è più.. come una metafora. Le foglie possono cadere da un momento all'altro, no?

Non serviva altro, Zoro aveva capito. Anche con i soldati si usava quel termine, caduti. Ma era sbagliato, era brutto, perché poi non si rialzavano più.

Improvvisamente, si sentì più vicino a quei fragili relitti arancioni, pronti a cadere da un istante all'altro. Dipendeva da così tante cose... Il vento, la pioggia, gli animali, o semplicemente lo scorrere del tempo. All'improvviso, quel pensiero gli divenne insopportabile.

– Io non sono come quelle foglie. Morirò quando lo deciderò io. – sbottò, cocciuto.

Sanji sorrise. – È esattamente quello che mi aspettavo da te, Marimo. Evita di morire, ok?

Appena ebbe finito di pronunciare quelle parole, una foglia solitaria si staccò dal suo ramo e cadde dolcemente sui capelli di Sanji, quasi come un oscuro presagio. Il ragazzo la spinse istintivamente via, infastidito e forse leggermente turbato.

– Eppure ha una sua bellezza. – insistette dopo qualche istante. – Vedere questo bosco vivo, eppure che muore, è... struggente.

Zoro alzò gli occhi al cielo. – Cuoco, piantala di sparare sciocchezze del genere. – si lamentò. – Cosa mi importa della bellezza, in momenti come questi?

– Appunto! – si infervorò Sanji. – Capisco che un cervello atrofizzato come il tuo faccia fatica ad arrivarci, ma è appunto per questo! Appunto perché abbiamo poco tempo, appunto perché potremmo cadere come quelle foglie da un momento all'altro, dobbiamo godere della bellezza che abbiamo intorno e approfittare delle esperienze che ci si presentano davanti agli occhi. – la sua voce si abbassò, diventando quasi impercettibile. – Se ci rimane poco tempo... bé, allora sfruttiamolo. Non serve passarlo a lamentarsi, ti pare?

Zoro non era sicuro di aver capito tutto, in fondo lui non era solito fare di questi ragionamenti intricati. Però una cosa l'aveva capita: Sanji lo stava esortando a cogliere l'attimo. A sfruttare ogni istante. A non lamentarsi, e solo Sanji sapeva dei lamenti di Zoro, di tutte le sue recriminazioni, dei suoi gemiti e delle sue ossessioni.

Solo Sanji sapeva.

Sanji, che in quanto cuoco non doveva andare a combattere.

Sanji, che si intrufolava nel dormitorio di Zoro in piena notte e lo portava fuori a fare un giro quando sapeva che gli incubi lo avrebbero perseguitato.

Sanji, che aveva ascoltato tutte le grida, le accuse, l'odio di Zoro nei confronti del mondo.

Sanji, che all'occorrenza aveva fatto a botte con lui, nel buio di quelle notti, solo perché smettesse di autocommiserarsi in quel modo.

Sanji, che quando Zoro gridava “Bella roba, tu non devi mica andare là fuori, domani! Tu non sai cosa si prova!” rispondeva con un'alzata di spalle e una boccata di fumo, mormorando che c'erano altre maniere molto meno divertenti di morire.

Sanji, che dopotutto era l'unico vero amico che Zoro avesse mai avuto, e che quindi valeva la pena di essere ascoltato, ogni tanto.

– … Forse hai ragione. È bello, qui. – disse quindi, semplicemente.

Zoro era perfettamente consapevole del fatto che se quel giorno era lì, bé, magari il giorno dopo sarebbe potuto essere sottoterra. A pensarci troppo, rischiava di impazzire. Eppure quand'era con Sanji tutto il resto sembrava più lontano, sfocato: Zoro era una foglia, sì, ma non sarebbe caduto al primo soffio di vento.

Perché aveva un amico per cui lottare, un qualcosa per cui vivere: andiamo, come poteva sopravvivere Sanji senza prenderlo in giro?

– Ehi, Marimo, se rimani indietro ancora un po' finisce la cena, eh! E guarda che io non ti tengo niente da parte, questa volta!

Sanji tornò indietro correndo, e Zoro lo seguì, permettendo ad un caldo sorriso di fare capolino sulle sue labbra.

 

 

































Angolo autrice:
Ed eccomi qui, ad inaugurare questa pazza raccolta AU deprimente e incasinata. Questo è il massimo di Sanji/Zoro che posso offrirvi, perché li vedo così perfetti come friendship che qualcosa di più non riesco a scriverlo incolpate loro, non me, che io ci ho provato!
Ungaretti perché sì, Ungaretti perché lo amo con tutta me stessa, lui e il suo incredibile realismo, la sua poesia misteriosa e affascinante, con poche parole veloci ma incisive. Oh, questo è il tipo di poesia che amo di più. È anche facile da imparare a memoria, figuratevi un po'.
Inoltre "Allegria di naufragi", la poesia che dà il titolo all'intera raccolta, è un titolo che sa di mare, una specie di triste ironia. Ungaretti diceva sempre che si era al fronte con una tale dimestichezza con la morte che, attenzione, era il naufragio senza fine. Ma l'uomo, pur travolto, soffocato, consumato dal tempo e dal dolore è pronto a riprendere il cammino, come appunto un naufrago che non sa rinunciare alla speranza, all'esultanza nello scorgere la salvezza all'orizzonte.
Ecco, capite perché stimerò quest'uomo fino alla morte. Cioè- poesia.
MA! Siccome, contrariamente alle vostre conclusioni, non ho intenzione di farvi morire di noia, la finisco qui. Spero che se questo capitolo vi ha interessato almeno un pochino mi lascerete una recensione, anche solo per dire "datti all'ippica, che schifo".
La prossima shot parlerà di Ace e Rufy, la poesia che userò invece è una sorpresa ^^
A presto, grazie a tutti quelli che lasceranno un parere!
Un bacione, vostra
Emma ^^

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Capitolo 2
*** Fratelli ***


FRATELLI

Mariano il 15 luglio 1916

 

Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli

 

 

– Aspettami, Ace!

Era davvero uno strano spettacolo vedere due ragazzi, due soldati, correre ridendo fuori dal dormitorio.

Ormai era diventata un'abitudine, per i soldati del blocco otto, essere disturbati dalle urla allegre dei due fratelli. Ace e Rufy, si chiamavano. E avevano un modo tutto loro di vivere la guerra.

Il minore dei due stava rincorrendo l'altro, ridendo e sghignazzando. – Fermati, dai! È mio, ti prego, ridammelo!

– Non ci contare, caro mio! – ribatté Ace, sorridendo malizioso. – Tu hai rubato la mia parte, quindi è giusto che ora io mangi la tua, sono stato chiaro?

Rufy si imbronciò. – Ma dai, io sono più giovane, ho bisogno di energie! – implorò, sempre seguitando a rincorrerlo.

Ben presto si allontanarono dal dormitorio e dal blocco otto in generale, raggiungendo il boschetto che circondava la loro posizione. Si fermarono su un sasso, ansanti.

– E va bene, piccola peste. Faremo a metà. – concesse Ace, sospirando.

Rufy sorrise, riconoscente, e Ace si sentì il cuore più leggero. Ma quant'era stato fortunato? Lui sapeva benissimo cosa significava essere in guerra, e in fondo lo sapeva anche Rufy. Ma per loro era tutto diverso, non si lasciavano andare: a volte, la notte, i loro compagni di stanza gemevano, scossi dagli incubi o dalla guerra o da qualche altro sentimento che non aveva nome. Rabbrividivano nei loro letti perché avevano perso la strada, e Ace sarebbe benissimo potuto essere uno di loro. Se non fosse stato per Rufy.

Uccidere lacerava l'anima, e questa cosa non poteva essere cambiata. Combattere ti cancellava da dentro, e nessuno poteva farci niente. La guerra era orribile, e né Rufy né nessun altro avrebbe mai potuto cambiare questo fatto.

Eppure... eppure Rufy portava speranza. Rufy sorrideva, sorrideva sempre. Parlava di quello che avrebbero fatto una volta usciti, lo faceva ridere, scherzava. Organizzava il tempo con tutti i loro compagni, raccontava storie, rubava il cibo. Come aveva sempre fatto.

Anche lui aveva i suoi momenti di debolezza, certo, ma non si lasciava scoraggiare. – Quando usciremo di qui, – diceva sempre, – vorrei girare per il mondo e vedere un sacco di posti. Magari Parigi. Poi Londra. Anche Roma. E poi che dici, Ace, mi porti in America? Laggiù dicono che sia facile mettere su casa e vivere felici. Saremo felici, vero?

La sua espressione in momenti come quelli era impagabile, e dava a Ace la forza di andare avanti ogni giorno.

Perché non poteva arrendersi, non poteva mollare: come se la sarebbe cavata, poi, Rufy?

– Oh, era davvero cattivo. – rabbrividì Rufy, deglutendo l'ultimo boccone.

Ace inarcò un sopracciglio. – Questo non ti ha impedito di mangiarlo, però, dico bene?

– Sai che il cuoco si è ammalato? Sanji, quello bravissimo. Sono andato a trovarlo, però non sta tanto bene. Spero che si rimetta presto! – Sorrise con sicurezza. – Nel frattempo mi sa che dovrò accontentarmi di questo cibo qui...

– Ehi, questa è la mia metà! – si ribellò Ace, alzandosi in piedi. Rufy ritenne più saggio fuggire, ridendo.

Mentre Ace lo rincorreva, si sorprese da quanto le cose fossero cambiate nel giro di pochi anni. Lui e Rufy non erano fratelli di sangue, insomma, venivano da genitori diversi. Il primo giorno in cui si erano conosciuti, Ace aveva subito provato una profonda avversione nei confronti di quell'inutile affarino rumoroso e fastidioso. Ma Rufy non aveva ceduto, aveva voluto diventargli amico a ogni costo, e alla fine... Alla fine erano diventati più che amici. Veri e propri fratelli.

Ace aveva vent'anni e Rufy diciassette, quando era iniziata la guerra. Da allora erano già passati due anni, e i due avevano passato insieme ogni singolo giorno, senza mai smettere di sostenersi a vicenda e di sorridere.

Poi c'era la vita nella trincea, le interminabili ore di veglia, e la battaglia: là era Ace il capo, lui quello sempre in prima linea. A parte le ovvie ragioni di età, non poteva permettere e capitasse qualcosa a Rufy. Non se lo sarebbe mai perdonato, mai. Ma se in battaglia Ace aveva il controllo della situazione, quand'erano fuori era Rufy a tenere insieme i pezzi della loro sconclusionata esistenza.

E Ace non avrebbe mai potuto chiedere di meglio.

– Che fai, ti sei già arreso? – ridacchiò Rufy, voltandosi indietro. Ace infatti si era fermato e non lo stava guardando, quindi il minore ne approfittò per ficcarsi mezza pagnotta in bocca.

– Sta' giù. – sibilò Ace, lo sguardo puntato in un luogo poco distante da loro, a destra.

In un istante, Rufy si materializzò al suo fianco, il fucile carico tra le braccia. – Che cos'è?

– Non lo so, ma di sicuro non è dei nostri. – Traduzione: preparati a fare fuoco. Rufy annuì, serio. – Al tre. – sussurrò Ace. – Uno... Due...

Rufy prese la mira. Nonostante stesse per calare la sera, ci vedeva abbastanza bene: la figura appena visibile oltre un intricato cespuglio era decisamente umana, e sembrava seduta appoggiata ad una roccia. La figura era girata dalla loro parte, ma non poteva averli visti. Rufy non avrebbe permesso alla paura di paralizzarlo, era prontissimo. Eppure, c'era qualcosa che non lo convinceva: ma era appoggiato o... abbandonato? – Ace! – sibilò, urgente.

– Che vuoi? – la voce del maggiore era carica di tensione.

– Ace, sembra uno che sta facendo un pisolino! – rispose Rufy, facendo un cenno del capo in direzione del loro obiettivo.

Il maggiore guardò meglio, le sopracciglia corrucciate. Effettivamente, ora che guardava bene, era vero: sicuramente non era nella posizione di attaccarli. – E allora?

Rufy sorrise. – Allora non è pericoloso! Non serve sparargli, ti pare?

Un altro lato di Rufy che ogni volta lo sorprendeva. Non appena Ace aveva visto la figura, l'aveva classificata come pericolosa, e in quanto tale da eliminare. Questo era il risultato della sua guerra. Invece, Rufy conservava ancora un'innocenza di bambino che lo inteneriva e impensieriva al tempo stesso: non era la dote migliore per un soldato, l'innocenza. – Senti, Rufy... – attaccò, incerto.

– Ehi! C'è qualcuno? – Ace congelò. Il ragazzo misterioso si era accorto di loro! Doveva prepararsi ad uno scontro? Una cosa la sapeva: se avesse osato torcere un solo capello a Rufy, lui l'avrebbe fatto letteralmente a pezzi.

– C'è qualcuno? Io sono disarmato! Per favore, non sparate! – ripeté di nuovo la voce, nervosa. E Ace sapeva che, fra soldati, il nervosismo era sinonimo della paura più terribile.

– Di che reggimento sei? – domandò Rufy ad alta voce. Ace lanciò una mezza maledizione: adesso si metteva pure a parlarci?

– Probabilmente non del vostro. – ammise il ragazzo, alzandosi piano e sollevando le braccia.

– Allora perché dovremmo lasciarti in vita? – sputò Ace, sempre rimanendo nell'ombra.

Rufy inarcò le sopracciglia. – Ma Ace, è disarmato! Se voleva spararci poteva farlo prima. – La crudezza di quelle parole colpirono Ace come uno schiaffo. Poteva ucciderli. Avrebbe potuto farlo, e Rufy ne era ben consapevole. – Alziamoci in piedi, così lo vediamo. Nel frattempo teniamo alto il fucile, per essere sicuri. – propose il minore.

Ace ci rifletté un istante. Ora come ora, avevano tre opzioni: uccidere, scappare o alzarsi e parlare. Lui avrebbe preferito senza dubbio la prima, ma sapeva che Rufy non avrebbe mai accettato. Lo stesso valeva per l'idea della fuga, e comunque, Ace non scappava. Quindi, se non voleva mettersi a discutere con il fratellino in una situazione del genere, c'era un'unica cosa da fare... – E va bene, ma stai dietro di me. – sibilò, alzandosi con cautela.

– Spero per te che tu abbia detto il vero! Perché se hai mentito, sarà l'ultima cosa che avrai fatto! – minacciò, uscendo lentamente dal cespuglio che lo proteggeva dalla vista del nemico.

Rufy si alzò in piedi di fianco a lui, un passo più indietro, e fissò con curiosità il ragazzo che avevano di fronte.

Poteva avere l'età di Ace, forse un po' più grande. Era alto e aveva corti e ricci capelli biondi. Non aveva l'aria pericolosa, decise immediatamente. – Ciao. – sorrise Rufy, incoraggiante. – Ace, non ha armi, vedi? Non è un pericolo.

Il ragazzo misterioso sorrise appena, sconcertato. Quel soldato avversario gli aveva davvero detto... “ciao”? – C-ciao a te. No, non ho armi. Ero venuto qui a fare una passeggiata, e mi sono perso. Tra poco scatterà il coprifuoco, e mi sa che mi beccherò una ramanzina coi fiocchi. – ridacchiò, rassegnato.

Rufy lanciò un'occhiata implorante ad Ace, che sbuffò e alzò gli occhi al cielo. – Bé, in questo caso non abbiamo motivo di ucciderti. – sbuffò, tutto sommato sollevato all'idea di non doversi portare dietro il peso di un altro omicidio - uno ancora, l'ennesimo -, e fece qualche passo avanti. Rufy lo seguì, allegro.

– Anche noi facevamo una specie di passeggiata. – spiegò il più giovane, allegro. – Circa. Cioè, io in realtà rubavo il cibo a Ace e lui mi rincorreva. Ah, io mi chiamo Rufy, e questo è mio fratello Ace. E tu?

Ace era l'unico ad accorgersi dell'assurdità del momento? Insomma, andiamo! Tra soldati di reggimenti diversi non... non si può essere amici. Non si può parlare. Anzi, già il fatto di non averlo ucciso era di per sé un crimine, in un certo senso.

Questo soldato un domani avrebbe benissimo potuto ucciderli, giù nel campo di battaglia. Allora perché...? Ma già lo sapeva, perché. Per Rufy non esistevano persone e persone: tutti erano uguali, tutti potevano diventare suoi amici. Ace si chiese un'altra volta come facesse quel ragazzino a combattere tutti i giorni: decisamente, era più forte di quel che dava a vedere.

– Io sono Sabo, piacere di conoscerti. – rispose il ragazzo, cordiale.

– Sì, sì, è stato un grande piacere. – disse in fretta Ace. – Ora è meglio se ce ne andiamo, d'accordo, Rufy?

Il più giovane stava per ribattere, quando dal suo stomaco provenne un feroce borbottio... – Oh, no, Rufy! Hai appena mangiato! – si lamentò Ace, scuotendo la testa. Due razioni! Se qualcuno doveva dirsi affamato, quello era Ace.

– Ehi, se volete, io ho del cibo. – li informò il ragazzo di nome Sabo, rivelando uno zainetto pieno zeppo di cibarie. – Col fatto che non mi avete ucciso eccetera, immagino di dovervi un favore...

Prima che Ace potesse ribattere, oppure prendergli lo zaino e scappare, dipendeva, Rufy gli si era già fiondato addosso. – Davvero? Posso? Grazie, grazie mille!

E già stavano parlando e scherzando come amici di vecchia data.

La cosa peggiore era che anche Ace c'era dentro. Nonostante tutti i suoi sforzi, si ritrovava a ridacchiare per le allegre battute di Sabo, a favorire del suo cibo e a partecipare attivamente a quel picnic improvvisato.

Il tempo passò velocissimo, e in breve i tre ragazzi impararono un sacco di cose l'uno sull'altro. I loro paesi di provenienza non erano molto distanti, a malapena mezza giornata di cammino, per questo si capivano: parlavano dialetti simili. Eppure i modi di vivere erano completamente differenti: strane abitudini, strani modi di dire. Anche il cibo era strano, ma non per questo meno gustoso, sia chiaro.

Ace non voleva venire coinvolto, assolutamente non voleva, eppure... Oh, accidenti: possibile che quel ragazzo gli ispirasse tanta simpatia? Possibile che fosse così felice di non averlo ucciso? Era sicuro che anche Rufy pensava le stesse cose, glielo leggeva in faccia.

E ora come avrebbe potuto combattere entro poche ore, sapendo che il nemico invisibile che lui doveva uccidere poteva essere Sabo?

Il segnale del coprifuoco suonò in lontananza. – Oh! Dobbiamo andare! – fece Rufy, balzando in piedi. – È stato davvero un piacere, Sabo! Sono felicissimo di non averti ucciso, e il vostro cibo era buonissimo!

Sabo sorrise. – Anch'io sono felice. Che non mi avete ucciso innanzi tutto, ma anche di avervi conosciuto.

– Quando la guerra sarà finita, ci incontriamo tutti insieme. Verremo a trovarti. – promise Rufy, sorridente. – Sarebbe davvero bello se ci vedessimo di nuovo, magari possiamo organizzare qualcosa tutti insieme.

Il volto di Sabo passò dallo stupore alla felicità in un millesimo di secondo, ma Ace se ne accorse benissimo. – Ne sarei molto felice.

Non aveva detto “se saremo ancora vivi”. Anche se l'aveva pensato. Questo era l'effetto che Rufy faceva sulle persone, e ancora Ace non riusciva a capire come diavolo facesse.

– Su, Rufy, dobbiamo andare. – disse gentilmente. Il minore annuì, e lo precedette iniziando a correre. Ace si voltò un'ultima volta. – Allora, bé... stammi bene. – disse alla fine, accennando l'ombra di un malinconico sorriso.

– Anche tu. Ah, Ace... – fece Sabo, come ricordandosi di qualcosa all'improvviso.

– Sì?

– Sei davvero fortunato. Ad avere Rufy, intendo. Sta' attento che non te lo uccidano. – sorrise Sabo. Era un sorriso triste, il sorriso di chi sa come va il mondo.

Ace raddrizzò la schiena, fiero. – Dovessi morire, non permetterò che gli facciano del male. – Come poteva pensare il contrario? Ace aveva bisogno di Rufy.

Sabo sospirò, un po' più tranquillo. – D'accordo, bravo. Addio, Ace! È stato davvero bello! E grazie! – lo salutò, scomparendo ben presto nel folto del bosco.

Ace rimase fermo a fissare il luogo in cui era sparito, finché un Rufy un po' indispettito tornò indietro a chiedergli cos'avesse.

– No, niente. – lo rassicurò, voltandosi e seguendo il fratellino.

Le parole di Sabo lo avevano colpito: Sta' attento che non te lo uccidano. No, lui piuttosto sarebbe morto, questo era certo.

Perché Rufy era suo fratello, e non c'era niente di più importante.

– Ace! Ti dai una mossa? Oggi sei più lento del solito! – lo schernì la voce di Rufy da lontano.

Ace ghignò. – Rimangiatelo subito! – gridò, fiondandosi all'inseguimento di quella piccola peste.

Del suo sciocco, piccolo, fastidioso e assolutamente fantastico fratellino.

 





























Angolo autrice:

Ok, come era anche vagamente scontato ma le cose scontate conquisteranno il mondo, la shot su Ace e Rufy si basava sulla poesia "fratelli".
Ho deciso di farli interagire con un soldato del reggimento nemico perché andiamo, la domanda "di che reggimento siete, fratelli?" della poesia è struggente. Perché è orribile che dei fratelli si uccidano a vicenda, e ho messo Sabo tra gli avversari perché fosse chiaro che era loro fratello.
E poi, per chi ha colto il vago colpo di scena... Sanji è malato! Cosa sarà successo? In realtà tutte queste shot sono un po' collegate tra loro, lo vedrete ancora di più nella prossima, che, per la cronaca, sarà una KiddLaw. Poi salterà fuori una su Robin e Nami, e alla fine ci sarà la conta dei superstiti (?), una shot conclusiva, diciamo. Quindi questa raccolta si concluderà al capitolo 5, li ho già pronti tutti *feels satisfied*
Grazie a chi ha recensito, vi adoro tantissimo! *.*
Un bacione, vostra
Emma ^^

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Capitolo 3
*** Universo ***


UNIVERSO
Devetachi il 24 agosto 1916

 

Col mare

mi sono fatto

una bara

di freschezza

 

 

Kidd saltò di lato per evitare un'esplosione, il fiato corto.

La battaglia infuriava intorno a lui, spietata e crudele come tutti i giorni, una nuvola di fumo e sangue che mozzava il fiato e faceva bruciare gli occhi di dolore, ma Kidd c'era abituato. Anzi, in un certo senso gli piaceva anche.

Schivò all'ultimo una raffica di granate e imprecò. Accidenti a lui! Possibile che fosse così distratto? Il fatto era che aveva dormito poco. Tutto per colpa di quel medico del cazzo.

Era cominciato nella solita, vecchia maniera: con una pallottola nel braccio qualche giorno prima. Kidd era riuscito a tornare vivo all'accampamento, e si trovava nell'ospedale a farsi operare.

– Sta' più fermo, insomma! Non è mica un lavoro facile, cosa credi? – chiese il chirurgo, divertito.

Kidd sentiva di odiarlo. – Scusa, sai. Mi stai soltanto maciullando il braccio, ma prego, continua pure.

– È la prima volta che capiti da queste parti, vero? – chiese il medico con un leggero sorriso. – Ecco, è quasi a posto. Resta fermo per qualche giorno, poi quando vai a combattere mantieniti nelle retrovie.

Kidd grugnì, infastidito: quel medico gli dava davvero sui nervi, e il braccio lo stava uccidendo. – Cosa intendi con quasi a pos... Ahi! – esclamò di dolore, quando sentì una forte stoccata e un dolore atroce provenire dal braccio.

– Intendevo questo. Ecco fatto. Ah, e se te lo stavi chiedendo, il medico che ti ha appena salvato la vita si chiama Trafalgar Law. – commentò serafico il dottore, iniziando a mettere via le sue cose.

Kidd sbuffò. – Salvato la vita, adesso.

L'altro alzò un sopracciglio, sempre senza smettere di sorridere. – Non crederci, se ti va. In fondo, non credo tu abbia mai sentito parlare di avvelenamento del sangue. Ma sei stato fortunato: ti è capitato il medico migliore in circolazione.

Kidd sbuffò per l'ennesima volta: quel Trafalgar Law gli stava davvero sulle scatole. Ma chi si credeva di essere? Non conosceva il significato della parola modestia? – Piantala. – grugnì, serrando la mascella. – Ho saputo che giusto ieri sono morti due uomini.

Law sembrò confuso, poi il suo volto si aprì in un sorriso che aveva del sadico. – Ah parli del cuoco e dell'altro soldato. Senti, per quanto riguarda quel Sanji aveva un tumore ai polmoni, sai, una di quelle cose che se non ti fai visitare in tempo non ci si può fare niente, e lui era uno testardo. Diceva che non voleva far preoccupare... non so più chi. Qualcuno. – si alzò ed iniziò a mettere via le sue cose. – L'altro, mi pare si chiamasse Ace, è arrivato che era già morto: un'imboscata, mi hanno detto. Sai che il suo corpo l'ha portato il fratellino minore, dal campo di battaglia fino a qui, strappandolo ai nemici? Era ferito da far paura, lo davano tutti per spacciato. Ma, come ti dicevo, io sono il migliore medico in circolazione: è ancora vivo.

Kidd alzò gli occhi al cielo: come se gli importasse qualcosa... – Se hai finito di decantare le tue lodi, avrei voglia di riposare.

Law rise. – Sicuro. Ti lascio, in fondo dovrai ancora smaltire la vergogna: farti ferire in quel modo, roba da non credersi! E pensare che dicevano fossi il guerriero più spietato del nostro esercito. A dopo, signor Eustass!

Il medico uscì, seguito dagli insulti molto coloriti del paziente. Decisamente, un tipo irritante come pochi.

Già, quella era stata la sua prima impressione, ricordò Kidd lanciando una granata alle sue spalle: irritante. Oh, se aveva avuto ragione! Law era il tipo di persona che ti fa venire i nervi già solo per come sorride. Se poi apre anche la bocca e si mette a parlare, uno sente l'impellente bisogno di colpirlo in testa con qualcosa di molto pesante.

Eppure era l'unica compagnia che Kidd aveva avuto per quei suoi giorni di convalescenza, e aveva dovuto farsela andar bene.

– E hai una ragazza, a casa? – chiese un giorno Law, sorridendo sornione.

Kidd grugnì un “ma perché diavolo non mi lasci in pace, una volta tanto?” senza dar segno di voler davvero rispondere.

– Oh, andiamo, guarda che a me puoi dirlo. Non ho intenzione di assalirti nel sonno e stuprarti, se è questo che ti preoccupa...

L'unica arma di Kidd era un cuscino, ma vedette di farselo bastare. – Oh, ora sì che sono tranquillo. Così posso farlo io mentre te ne stai a dormire. – sibilò, un lampo di eccitazione negli occhi.

Quella notte fu probabilmente la più appagante della sua vita.

Più che altro, il sesso era un ottimo metodo per scacciare le preoccupazioni e smettere di essere in ansia, per una volta. Inoltre quel Law ci sapeva davvero fare, accidenti a lui.

– A quanto pare alla fine non morirai, signor Eustass. E sembra che il tuo braccio stia bene. Domani torni a combattere. – sospirò Law quando ebbero finito.

Kidd ghignò. – Che c'è, sei preoccupato per me?

L'occhiata di Law aveva un che di malinconico. – Non dire cazzate. – tacque, ma ormai aveva stuzzicato l'interesse di Kidd.

– Allora? Dillo, che in realtà hai paura che mi faccia ammazzare. Ma non succederà mai, perché Eustass Kidd non perde contro nessuno, nemmeno contro la Signora Morte! – fece l'altro, baldanzoso.

Law si tirò a sedere, lo sguardo serio. – Sei mai stato nel capanno dietro l'ospedale?

Kidd scosse la testa, confuso.

– Bé, è laggiù che teniamo tutte le bare. Sì, quelle in cui si mettono i cadaveri. Poi si seppelliscono nel bosco, da qualche parte lontano da qui. Tu... dovresti vedere quanti sono. È semplicemente uno sbaglio. I dottori dovrebbero salvarle, le persone, no?

Kidd non sapeva cosa dire, e Law ghignò. Un ghigno triste, però, malinconico. – Bé, in quel capanno che ti dicevo... c'è già la bara col tuo nome sopra. L'ho vista stamattina.

Il cuore di Kidd perse un battito. Ma... Ma era come se... – Ehi, calma, io non sono ancora morto! – gridò, offeso e anche un po' turbato.

– Credi che importi? Sei quello che ha più possibilità di farlo. Sei sempre in prima linea. Sei già stato ferito. È così noioso... Funziona sempre così, non cambia mai: quando uno è forte, gli preparano la bara. Quella di Ace era pronta da due mesi buoni.

Law si passò una mano sulla fronte sudata, e Kidd sembrava sul punto di vomitare. – Sai... – riprese il medico, lo sguardo lontano. – Io sono nato su un'isola.

Ed ecco che parte con la storia della sua vita, pensò Kidd scoraggiato. Era quello che volevano tutti, alla fine. Una scopata, una spalla su cui piangere, e basta. Potersi sfogare, potersi sentire appagati, e poi tornare all'inferno di tutti i giorni.

– Là quando muori il tuo corpo non viene seppellito. Lo si getta in mare.

Ok, questo era strano. – Ma i cadaveri non galleggiano? – inorridì Kidd. – E se uno va in barca, e...

Law rise, una risata amara, ma un po' meno fredda di prima. – Non è questo il punto. È che la tua bara è il mare. Non è meglio che morire in un posto del genere?

Kidd sbuffò. – Ti ho detto che non morirò.

Law si sdraiò di nuovo, accanto a lui. – È una questione di punti di vista, signor Eustass, mettiamola così. Se sopravvivi adesso, sopravviverai a tutto. – sussurrò, malizioso.

E il resto si può facilmente intuire.

Ovviamente il giorno dopo Kidd si trovava già nelle trincee, e aveva ignorato il consiglio di Law di restare nelle retrovie.

Ergo, aveva sonno ed era in prima linea. Pessima combinazione. Ma nonostante sapesse di doversi concentrare al massimo, il pensiero di quella bara lo raccapricciava ancora: era quasi una presa in giro! “Muori, muori, avanti! Siamo già pronti, puoi tranquillamente morire”, diceva.

Sparò ad un nemico che gli si era parato davanti e proseguì, lanciando bombe a mano e granate. Si stava alzando la nebbia, coprendo alla vista lo scempio e il sangue tutt'intorno.

I suoi riflessi erano più lenti del solito, ma l'immagine di quella bara col suo nome sopra gli dava una forza mista a disperazione che gli impediva di crollare. Suonò il segnale della ritirata, e Kidd iniziò a fare marcia indietro.

In realtà se lo sentiva che sarebbe successo.

In realtà non aveva mai pensato di poter ingannare la Signora Morte in eterno.

In realtà era sicuro di averlo sempre saputo, e che anche Law sapesse.

In realtà mancava solo che si presentasse l'occasione, e quando arrivò nelle vesti di una bomba a mano apparsa da oltre la nebbia, semplicemente Kidd l'accettò.

Sentì qualcuno gridare, si sentì trascinare su, ma era tutto confuso, tutto ovattato. Si accorse confusamente di essere arrivato all'ospedale, e gli sembrò di vedere il viso di Law contorcersi in una smorfia di sorpresa mista a dolore. Ma forse se l'era solo immaginato.

– Non provarci nemmeno. – sibilò a fatica. Il medico gli si avvicinò.

– Eh? – chiese, urgente.

Kidd tossì. – Non provarci nemmeno a mettermi in quella bara. Voglio... voglio essere buttato in mare. – tossì di nuovo. – Sarà una bara più... fresca. Più grande.

Lo stesero da qualche parte, ma Kidd sentiva che non c'era più niente da fare. Prima di perdere conoscenza gli sembrò di sentire Law che gli diceva qualcosa.

Forse bastardo.

* * *

La prima cosa di cui si accorse era il freddo.

Aveva dannatamente freddo, accidenti! C'era la finestra aperta, o... ah, no. Lui era morto, già.

Cercò di muoversi, ma non ci riusciva. Cavolo, sperava che sarebbe stato meno doloroso. Non riusciva neanche ad aprire gli occhi? Oh, questo sì. Però non c'era nessuna differenza, era buio in ugual modo.

Oh, perfetto: aveva freddo, stava male, non si muoveva ed era buio: era all'inferno.

Mentre stava ponderando l'idea di suicidarsi, non sapeva come, ma in qualche modo da lì se ne sarebbe andato, gli parve di sentire uno strano rumore. Era un... sospiro? Ed erano le sue orecchie ad ingannarlo, o quel sospiro era dannatamente familiare? Cercò di parlare, ma riuscì solo a gemere.

Come una risposta immediata, qualcuno schizzò in piedi. Poi si accese una luce, e Kidd perse completamente il senso di quello che stava succedendo.

Si trovava... nel dormitorio dell'ospedale? L'inferno era davvero fatto così? Oppure era... era ancora vivo? L'idea era così assurda che all'inizio Kidd la scartò a priori, però... O era morto anche Law, o c'era qualcosa che non andava.

– Ah, siamo svegli. Ce n'è voluto, di tempo, signor Eustass. – sbuffò la voce del medico più odioso del reggimento.

Kidd tossì, e alla fine riuscì a formulare due parole in croce. – Ma... ma cosa...

– Sì, testa di cazzo, sei ancora vivo. Questo perché io sono il migliore medico in circolazione sulla faccia della Terra, mi sembrava di averlo già detto. Ma guai a te se mi costringi ancora a lavorare così tanto, eh! Sono stato sveglio due notti di fila, per rimetterti in sesto. Eri letteralmente a pezzi, razza di coglione. – Il discorso sarebbe stato più convincente, se Law non stesse sogghignando come di suo solito.

– Perciò... me la sono cavata? Sul serio? – gracchiò Kidd, incredulo.

– Così pare. Insomma, quasi tutto. – Law fece un gesto con il capo, alludendo al braccio di Kidd. Quello abbassò lo sguardo, intuendo già cosa stava per vedere. Sospirò, poi sul suo volto comparve il suo solito ghigno. – Un braccio in meno. Bah, in fondo a cosa me ne servono due?

– Assolutamente niente, infatti. Uno è di scorta. La tua guerra finisce qui, hanno detto. Prendi il primo treno appena riesci a muoverti con le tue gambe.

Sul volto di Law erano mischiati divertimento e rassegnazione. – Questa è la vita di noi medici... Salviamo il culo a voi soldati, e poi non possiamo nemmeno giocarci un po'.

Tutto quello che Kidd poteva lanciargli era un'occhiataccia, ma fu un'occhiataccia che Law non avrebbe dimenticato tanto facilmente.

– Non aspettare che ti ringrazi. – bofonchiò, risentito.

Law rise. – Figurati! Grazie a te.

Kidd lo guardò, stupito. Sul volto del dottore aleggiava un sorriso malizioso. – Era la prima volta che qualcuno prendeva così sul serio quella balla dei cadaveri in mare. È stato divertente vederti implorare in quel modo che non ti mettessero in una bara di legno, ma in una di freschezza, o chissà cosa stavi farneticando! – rise ancora, appoggiandosi ad una sedia. Kidd l'avrebbe strozzato.

Quindi, era tutta una finta? Quel Trafalgar Law era davvero impossibile.

– Bé, ormai sei sveglio e posso andare a dormire io. Cerca di non soffocare nel sonno o di fare altre cose stupide che possano rovinare il lavoro di due notti in bianco, intesi? – fece Law, avviandosi verso la porta. – A domani, allora. E rimettiti in fretta, perché ormai che mi sono abituato a non dormire la notte, che almeno sia per una buona ragione. – ghignò, la malizia fatta persona.

– Puttana. – sibilò Kidd tra i denti. Law rise e uscì.

Eppure, Kidd ne era sicuro, la cosa non sarebbe finita lì: con due braccia o uno solo, la sera successiva avrebbe ridotto quella sottospecie di medico peggio di un colabrodo, garantito.

 










Angolo autrice:
Uhm. Delle note erano necessarie, penso. Sì, lo so, lo so. Ho ucciso Sanji e Ace senza un minimo di preparazione (ditelo, che non ve l'aspettavate). La fila per scannarmi è in fondo a destra.
Ma tutto ha un senso, non disperate, e vedrete che presto tutto verrà spiegato. Perché questa è la guerra, e in guerra- in guerra si muore, ecco. Non tutti, non sempre, ma è una possibilità. E se ricordate, nella shot su Sanji e Zoro c'era Sanji  che, dopo aver aspirato dalla sigaretta, dice che "ci sono modi meno divertenti per morire". Era un'anticipazione, chi se n'era accorto? ... Ok, non importa.
Quello che intendo dire è che la vita va avanti, già nel prossimo capitolo (Nami e Robin), vedrete come hanno reagito Rufy e Zoro. Effettivamente vi sarà chiaro ormai che questa più che una raccolta è una long, e... e basta, ok, ora la smetto. Due parole su Kidd e Law... Credevate che l'avrei ucciso, Kidd, vero? Dopo aver fatto fuori Sanji e Ace potrei averci preso la mano. Ma non sono così cattiva, su... Io li adoro, e immagino che tra di loro sarebbe andata esattamente così.
Ecco, ora ho finito davvero. Fatemi sapere cosa ne pensate, mi raccomando!
Un bacione, vostra
Emma ^^

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Capitolo 4
*** San Martino del Carso ***


SAN MARTINO DEL CARSO
Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916

 

Di queste case
non è rimasto

che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato

 

 

Robin sistemò la cinghia della borsa sulla spalla, guardandosi intorno. Era arrivata.

Fare la crocerossina non era mai rientrato nei suoi interessi principali, ma non è che avesse molte altre opzioni: non aveva nessun altro posto dove andare, e almeno al fronte avrebbe avuto cibo gratis e un tetto sopra la testa.

Appena entrata nell'edificio che presumeva fosse l'ospedale, un chirurgo dall'aria trasandata le si avvicinò. – Tu devi essere Nico Robin, dico bene? – chiese, sfoderando un sorriso stanco.

– È esatto. – rispose lei, guardinga. Non le piaceva essere riconosciuta così facilmente.

Il dottore inarcò un sopracciglio, sempre continuando a sorridere. – Bene, io mi chiamo Trafalgar Law. Ti stavamo aspettando, dolcezza. Hai già messo via le tue cose? – Robin annuì. La borsa che aveva in spalla era l'unica cosa alla quale non poteva permettersi di rinunciare.

– So già quale sarà il mio alloggio, pare che condividerò la stanza con una ragazza di nome Nami. Non l'ho ancora vista.

Law si limitò a precederla in silenzio attraverso una serie di corridoi. – Ah, sì, Nami. – commentò dopo un po'. – Forse è meglio se ti metto a lavorare con lei, che ne dici? Di recente ha dei pazienti davvero particolari. – sogghignò, come se avesse appena fatto una battuta di cui soltanto lui poteva cogliere il significato.

– Come desidera lei, dottore. – ribatté Robin, ubbidiente.

Law sorrise, un sorriso distante, un po' malinconico. – Allora siamo d'accordo. È qui. La tua pausa pranzo è dalle due alle due e un quarto, poi finisci il turno alle dieci di sera. Una notte a settimana avrai l'orario notturno e il martedì è il tuo giorno libero. Al mattino si comincia alle sette. Lo so che i turni sono un po' serrati, ma abbiamo, come dire... – sorrise, un lampo inquietante negli occhi. – Carenza di personale.

– Oh. – Robin non sapeva come ribattere, quindi rimase in silenzio.

– Allora, io ti saluto. – fece il dottore, spalancando la porta.

Dall'interno Robin sentì provenire strani rumori: urla allegre, il rumore di qualcosa che si rompeva, forse un vaso. Risate, grida... – Ehi, Nami! – gridò Law. – Hai un'assistente! Lei è Nico Robin! Ragazzi, siate gentili e non fatela incazzare, mi sono spiegato? E Rufy, se hai rotto un altro vaso ti giuro che stanotte pisci per terra, e non sto scherzando!

Le grida si interruppero di botto. – D'accordo, Traffy. – fece una voce ubbidiente.

– E chiamami dottor Trafalgar. – mugugnò quello, prima di ammiccare nella direzione di Robin. – Bé, se ti danno problemi chiamami, dolcezza.

Robin rimase sulla soglia finché l'ombra del chirurgo non si fu volatilizzata, poi fece qualche passo avanti. La stanza non era molto grande, ma tutto sommato aveva un'aria confortevole. Comprendeva tre letti, uno libero e due occupati: gli ospiti erano un ragazzo allegro e sorridente, probabilmente Rufy; l'altro era un ragazzo ombroso dai capelli verdi e un occhio bendato.

– Oh, sia lodato il cielo, un'assistente! – esultò l'infermiera dai capelli rossi, precipitandosi a stringerle la mano. – Io mi chiamo Nami, e sono di turno con questi due scapestrati per quattro ore al giorno. Al giorno, capisci? Meno male che sei arrivata tu, Nico Robin, giusto?

La ragazza sorrise gentilmente. – Sì, è il mio nome. Non preoccuparti, farò del mio meglio.

– Molto piacere, Nico Robin. – disse il primo ragazzo, quello dai capelli neri e dal sorriso esageratamente grande. – Io mi chiamo Rufy, lui invece è Zoro. Siamo entrambi qui da quasi due mesi, e manca poco che ci rilascino, quindi non dovrai soffrire troppo. – ridacchiò, allegro. – Il problema è che noi non siamo fatti per starmene sdraiati a letto tutto il giorno, vero, Zoro? È così noioso! – sbuffò, per sottolineare l'importanza di quel “noioso”.

Robin sorrise. – E allora cosa fate tutto il giorno?

Nami si passò una mano sulla fronte, sconfortata. – Mi fanno impazzire, ecco cosa fanno! Gridano, cercano di uscire, distruggono le cose, si fanno male da soli.

– No, aspetta, noi ci alleniamo. – puntualizzò Zoro, sollevando un sopracciglio.

Rufy sorrise. – Esatto! Con il corpo a corpo, perché la volta che abbiamo preso un fucile Nami ci ha-

– Nami vi ha presi a sberle per cinque ore! – gridò l'infermiera, inferocita. – Delle armi, capisci? – gemette poi, accasciandosi su una sedia.

Robin rise di cuore. – Siete davvero dei tipi interessanti! Non vi interesserebbe leggere qualcosa?

Rufy inarcò un sopracciglio, confuso. – Leggere? È da quando Ace non... – sul suo volto passò per un istante una smorfia di dolore, prima di tornare al consueto sorriso. – Insomma, è un bel pezzo che non leggo.

Il ragazzo lanciò un'occhiata a Zoro, che rispose con uno sguardo di profonda comprensione che parve rassicurarlo completamente, e che lasciò Robin un po' confusa.

– Cosa credi, io ci ho già provato. – sospirò Nami. – L'unico metodo per tenerli buoni è minacciarli e picchiarli di santa ragione.

Robin si concentrò un attimo, poi chiese noncurante: – Scommetto che qui non vi danno tanto cibo, vero?

Lo sguardo di Rufy e Zoro si incupì. – Io ne vorrei sempre di più... – mugugnò Rufy. Zoro annuì.

– È da quando siamo qui che non... sai... – tentò di spiegare Rufy. – Oh, pazienza. Non parliamo di quello che succedeva prima. – lanciò un'altra occhiata significativa a Zoro, che annuì silenziosamente. – Piuttosto: dicevi, a proposito del cibo?

Robin sorrise. – Se vi va, potrei procurarmene un po'... Basta che in cambio voi evitiate di fare alcune cosette.

Nami sollevò lo sguardo, entusiasta. A quell'idea non aveva ancora pensato!

– Quali cosette? – disse Zoro, inarcando un sopracciglio.

– Intanto, niente armi. – iniziò Robin, decisa.

Rufy annuì, impaziente. – Posso farlo. Poi?

– Non rompete nessun vaso. – il volto di Robin si aprì in un sorriso, alludendo alla scenetta di poco prima.

– Considerando che Traffy non me ne darà mai un altro... Continua. – commentò Rufy, lugubre.

– Per ultimo, finché ci siamo noi, evitate di uscire da questa stanza. Queste sono le condizioni.

Nami sembrava sul punto di saltarle addosso dalla felicità.

– Che dici, Zoro? Si può fare? Non è che ci ha chiesto di non allenarci. E poi non possiamo uscire solo finché ci sono loro. – rifletté Rufy, eccitato. – Ci darà più cibo! – gridò alla fine, incapace di contenersi, gli occhi luccicanti dall'entusiasmo.

Zoro sorrise, chiudendo l'unico occhio sano. – Si può fare.

Un coro di grida di giubilo (prevalentemente di Rufy e Nami) si alzò nella sala, e Robin sorrise. Era una compagnia interessante, non si sarebbe trovata poi male. Meglio di dove stava prima, sicuro.

 

* * *

 

– Che bello, non posso credere che saremo compagne di stanza! – esultò Nami, rientrando in camera e chiudendosi la porta dietro di sé.

Robin sorrise, gentile. – Anch'io sono felice di essere nella tua stessa camera, Nami.

– Hai già conosciuto qualcuno, qui? – chiese la ragazza, iniziando a togliersi la divisa.

– Solo te e il dottore. – rispose Robin, facendo altrettanto.

Nami ridacchiò. – Law... È il dottore più abile che abbia mai visto, sul serio. È così abile... Però a volte è davvero strano. Pensa che un giorno... sarà stato poco dopo che mi avevano assegnato Rufy e Zoro... L'ho visto sul retro dell'ospedale a spaccare la legna. No, non era legna, era... come una cassa. La stava proprio spaccando, capisci? Con tanto di ascia. E sorrideva in un modo... Poi è arrivato qualcuno gridando che non era necessario, e che bastava cambiare il nome o qualcosa di simile. Law l'ha mandato a quel paese e ha continuato a spaccare quella cassa con un sorriso che faceva davvero paura. A parte questo, è una brava persona. – concluse, sorridendo.

Robin annuì. – Spero di avergli fatto buona impressione.

La più giovane si buttò sul letto con aria esausta. – Ma certo che l'hai fatta, hai un'aria talmente affidabile... Mi hai anche dato una mano con quei due pazzi! Io davvero non so come ringraziarti, Robin.

Quella scosse la testa, dolcemente. – Oh, ma non c'è bisogno di ringraziarmi, ho fatto solo il mio dovere. Piuttosto... Non ti sembrano un po' strani, quei due? Ogni tanto si scambiavano certe occhiate, e Rufy ha tirato in ballo un nome, un certo Ace...

Lo sguardo di Nami si fece più scuro. – Oh, certo. Lo so, sono davvero strani sotto ogni punto di vista. Vedi, il giorno in cui sono finiti qui... Rufy è in ospedale da due mesi, è arrivato qua in fin di vita trasportando il cadavere di suo fratello Ace, morto in un imboscata per proteggerlo. Era distrutto, perché vedi, Ace era tutto quello che aveva. Quello stesso giorno è morto un cuoco del posto, un tumore ai polmoni, mi pare. Ed era l'unico amico di Zoro, che non si è concentrato abbastanza in combattimento ed è stato ferito molto gravemente alla testa. Ha perso un occhio, quel giorno. I due si sono ritrovati in stanza insieme, e non spiccicavano parola. Dovevi vederli: erano così provati, sia fisicamente che emotivamente! Io pensavo, insomma... temevo che non ce l'avrebbero fatta. – Nami tirò un profondo sospiro, affranta: la vita delle infermiere in fondo era anche questo. Veder morire i propri pazienti, uno dopo l'altro.

– Dev'essere stata dura, per loro. – commentò Robin, interessata. – Come è possibile che... – quell'immagine di Rufy e Zoro non si adattava per niente all'idea che si era fatta di loro solo poche ore prima, decisamente.

Nami sorrise, un sorriso radioso, speciale. – È stato per via di Rufy. A quanto pare, suo fratello prima di morire gli aveva fatto fare una promessa. Di... vivere, di essere felice anche per lui, di sorridere, insomma. E lui si è sforzato davvero tanto, sorrideva e cercava di fare amicizia con Zoro. Ma quello niente, non ne voleva sapere: se ne stava zitto e immusonito. Quanto mi dava sui nervi! Certo, ripensandoci, almeno ai tempi non facevano casino. – ridacchiò prima di continuare. – Poi, un giorno, Rufy gli ha chiesto per l'ennesima volta qualcosa di stupido, non so se era di scappare insieme in cucina o fare una gara di tiro a segno con le siringhe di Law, e Zoro non ci ha visto più. Gli ha detto di stare zitto, di lasciarlo in pace, che non poteva capire... Rufy non se l'è affatto presa. – Nami sorrise, questa volta un sorriso dolce e quasi ingenuo. – Rufy non se la prende mai. Invece, gli ha raccontato di suo fratello Ace e gli ha detto che... che quel Sanji non lo avrebbe di certo voluto vedere così. Zoro ha borbottato qualcosa su dei colori, rosa, giallo o che so io, e Rufy ha detto... Ha detto che a lui piaceva il rosso, e che sarebbe stato una grandissima macchia rossa nella vita di Zoro. Rosso come i lamponi e Babbo Natale, ha detto! – a Robin scappò una risatina.

– Davvero un tipo interessante. – commentò.

– Vero? Da allora, Zoro ha iniziato a lasciarsi coinvolgere. Sorrideva, prima poco, poi sempre più spesso. Io dico, dico... – sospirò. – Però stare con quei due alla fine fa bene. Insomma, siamo in guerra. Vedere gente che vive così tanto, dà speranza.

Quella frase colpì Robin più che tutto il resto. Speranza... Potesse averne anche lei, un po' di speranza!

Nami si stiracchiò, soddisfatta. – Ciò non toglie che facciano casino, e che senza di te sarei spacciata. Grazie davvero, Robin! Sai, è da quando sono in questo posto popolato solo da maschi che spero di trovare una migliore amica.

Robin volta la testa, sconvolta. Aveva detto...? Nami le sorrise, e lei non poté fare a meno di risponderle.

Migliore amica... Non poteva dire di averne avute tante, in passato.

 

* * *

 

Robin si agitava nel letto, il viso sudato.

Un altro incubo.

Nami era inginocchiata accanto a lei, e cercava di svegliarla. – Robin! Robin, ti prego, svegliati!

La donna si agitava, gemendo: stava sicuramente soffrendo, osservò Nami con rammarico. Avesse potuto fare qualcosa! Ma se non si svegliava... – Robin! Ti prego, dai, fatti forza! Sveglia! Sta succedendo un'altra volta, non mi piace... – un singhiozzo le scappò di bocca, e Robin spalancò gli occhi, completamente sveglia.

Ansimava leggermente.

– C-cosa...

Nami l'abbracciò di slancio. – H-hai avuto u-un altro incubo, i-io credo... Ti prego, dimmi cosa c'è che non va!

Robin rimase un attimo paralizzata dal gesto d'affetto dell'amica, anche se in fondo se l'aspettava. Erano quasi due settimane che Robin era arrivata al fronte, e subito aveva trovato in Nami quello che pensava non avrebbe mai potuto trovare: un'amica. Sin da quando era piccola, non ne aveva mai avuta una.

Forse era il momento di dirglielo, forse se l'avesse fatto avrebbe smesso di sognare quella scena tutte le notti.

– Non è un semplice incubo, Nami. – sospirò, prendendo a raccontare. L'altra la ascoltava attenta, gli occhi lucidi nel buio della stanza. – La verità è che... io vengo da un paesino lontano da qui, nella campagna. Quando vivevo lì non avevo un singolo amico, perché provenivo da una famiglia un po'... diversa, ecco. Mia madre era archeologa. Un tipo strano, eccentrico, ma in giro si dicevano cose orribili sul suo conto. Io però non ci credevo, perché con me era molto buona. Se ne andò che ero molto piccola, lasciandomi presso alcuni miei parenti. Mi... mi trattavano quasi come una serva, ma potevo sopportarlo.– Robin prese un bel respiro e continuò. – Successe quando avevo quindici anni. La guerra era appena iniziata, e il mio paese era molto vicino al confine nemico. Non avevo notizie di mia madre da tantissimo tempo, avevo una mia routine, quando arrivarono. Erano soldati del reggimento nemico, e portavano mia madre con sé. Quel giorno, mentre io ero andata a fare una passeggiata fuori dal paese... – la sua voce ebbe un tremito. – Iniziarono i bombardamenti. Fuoco, sangue, grida. Tornai indietro più in fretta che potei, ma... era troppo tardi. – la sua voce divenne un sussurro a malapena udibile. – Non c'era più nessuno in vita.

Nami si portò una mano alla bocca, sconvolta. – R-Robin, ma come...

L'altra sorrise, un sorriso stanco. – Pazienza, ho avuto il tempo di elaborare questa cosa. Solo che a volte me la sogno, tutto qua. Il mio intero paese è stato sterminato per ragioni che nemmeno conosco. Avresti dovuto vederlo... Cioè, no, non augurerei quella vista a nessuno. I muri erano completamente a brandelli, non puoi nemmeno immaginare la desolazione. Di tutto quello che conoscevo, non era rimasto nulla. Di tutti quelli che conoscevo, non è sopravvissuto nessuno. In seguito ho girato il mondo, cercando un posto dove vivere, e alla fine sono arrivata qui. Sono felice di aver trovato te, Nami.

La minore scoppiò a piangere, abbracciandola. – A-anch'io ho p-perso mia madre da piccola, Robin. – singhiozzò, stringendola. – T-tu sei davvero m-molto coraggiosa, sai?

Dopo un istante di confusione, Robin rispose alla stretta della compagna, lasciando che le lacrime inzuppassero la sua maglietta.

– Non piangere, Nami. – sussurrò. – Loro, tutti loro, sono nel nostro cuore. Non importa se non sono stati nemmeno seppelliti, capisci? Nel nostro cuore non può mancare neanche una croce.

Nami annuì, tirando su col naso. – Robin...

– Sì?

– Se hai un altro incubo svegliami, ok?

Robin aveva un groppo in gola. Non era mai stata così felice. – C-certo, Nami. Ma sai, ho come la sensazione che... che non ne avrò più.

 

 

 





Angolo autrice:
Vaaa bene. Questo capitolo doveva essere su Nami e Robin, e alla fine è diventato tutto su RUfy e Zoro con anche un paio di accenni al KiddLaw. PAZIENZA.
Volevo solo far notare che se storie su Nami e Robin scarseggiano. E non intendo in senso amoroso, ma semplicemente come si vedono tante Rufy/Zoro Nakamaship, anche tra le due donne della ciurma del Cappello di Paglia c'è un tipo di rapporto che sarebbe bello approfondire. Mi hanno sempre incuriosita, non c'è niente da fare ^^"
Voglio ringraziare di cuore tutti quelli che seguono questa raccolta (e che non mi hanno uccisa per lo scorso capitolo. Grazie). Sul serio, sono felicissima di poter condividere questa storia con persone così stupende! <3
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, e sarà più un riepilogo generale. La conta dei superstiti, in un certo senso, tutti insieme. Cosa ne verrà fuori? Ci vediamo sabato prossimo!
Nel frattempo auguro a tutti buon Natale e buone feste! ^^
Un bacione
Emma

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Capitolo 5
*** Allegria di Naufragi ***


ALLEGRIA DI NAUFRAGI

Versa il 14 febbraio 1917

 

E subito riprende
il viaggio

come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare

 

La guerra era finita.

Nessuno poteva crederci, continuavano tutti a ripeterselo l'un l'altro, senza nemmeno la forza per realizzarlo davvero.

– Zoro! Zoro, Zoro, Zoro, hai sentito? Oh, hai sentito? La guerra è finita, è finita!

Rufy correva come un pazzo, sventolando la mano per attirare l'attenzione del compagno.

Tutto nell'aria sembrava gridare di gioia. Il cielo era azzurro, limpido, e addirittura dal boschetto sembravano provenire i canti degli uccellini.

Zoro ghignò, raggiungendo l'amico. – Da non crederci, eh? Incredibile... – si grattò la testa. – Non pensavo che... sai, non immaginavo che...

Rufy inclinò la testa, confuso. – Che cosa?

Zoro aveva intenzione di dire “non immaginavo che saremmo stati ancora vivi”, ma si trattenne. Quello non era il tipo di discorso da fare con Rufy, ecco.

– No, niente, lascia stare. Piuttosto, che cos'hai lì? – chiese, alludendo ad una borsa all'apparenza vuota che Rufy portava a tracolla.

– Oh, questa? No, il fatto è che siccome la guerra è finita – oh, non riesco ancora a crederci! –, ho cercato l'uomo della posta. Sai, volevo contattare Sabo.

Zoro annuì: Rufy gli aveva parlato di questo soldato avversario, e nonostante fosse un po' scettico ormai aveva imparato che con lui non ci si doveva sorprendere di nulla. – E gli hai dato una lettera? Scusa, sapevi l'indirizzo di questo Sabo?

Rufy sorrise, un po' imbarazzato. – Il realtà no, gli ho detto di portarla all'altro reggimento e di chiedere in giro. Ha storto un po' il naso, però ha detto che farà il possibile. In cambio, mi ha detto di finire di consegnare la posta. Tanto, io conosco quasi tutti!

Il suo sorriso non imbrogliava nessuno, decise Zoro. – Tu. Consegnare delle lettere. Non me la dai a bere, Rufy! Quante ne hai consegnate, tu?

– Ancora nessuna. – confessò Rufy, ridacchiando. – Più che altro mi ha aiutato Nami. Io conosco le persone, ma non mi ricordo dove abitano! – si lagnò. – Me ne ha lasciata una, però. Dice che è per Traffy. Mi accompagni?

Zoro alzò le spalle. – Ok. Ma è una lettera?

Rufy frugò nella borsa. – No, sembra una cartolina. E... – si interruppe alla vista della cartolina e scoppiò a ridere, tanto che Zoro dovette strappargliela di mano.

Il retro della cartolina ritraeva due donne in atteggiamenti molto equivoci, ed erano decisamente svestite. Zoro arrossì furiosamente. – Ma...

– Oh, quando Traffy la vedrà impazzirà! Vediamo cosa c'è scritto dietro! – rise Rufy, girandola. – Ehi, bastardo. Ma sei ancora vivo? No, perché come vedi io sono in bella compagnia. Se vuoi unirti a noi posso metterci una buona parola, ok? Non fare cazzate, e ricordati che non mi manchi neanche un po'. Assolutamente non tuo, Eustass Kidd. Ehi, me lo ricordo! Era quel soldato che se n'è andato qualche mese fa, giusto? Quello a cui hanno tolto un braccio.

Zoro si concentrò un attimo, poi annuì. – Sì, mi ricordo. Bé, almeno sta bene.

– Ed è in dolce compagnia. – tubò Rufy, scoppiando subito dopo a ridere. – Se ha invitato anche Traffy vuol dire che gli piace?

– A chi è che piaccio? – fece una voce dietro di loro.

Zoro congelò. – Ehm, no, cioè...

– Traffy! – sorrise Rufy, allegro. – La guerra è finita, non è fantastico? Bé, l'uomo della posta mi ha dato una cosa da consegnare a te. – frugò nella borsa ed estrasse la cartolina.

Law la lesse tutta d'un fiato, un sorriso beffardo sulle labbra. – Secondo me gli piaci, Traffy. – confidò Rufy, mentre Zoro si sbatteva una mano sulla fronte.

Law sorrise. – Tu dici? – commentò placido, prima di allontanarsi verso l'infermeria, la cartolina ancora stretta fra le mani.

– A giudicare da come si comporta... – borbottò Rufy, concentrato. – Credo che la sua prossima meta sarà quel signor Eustass Kidd. Pensa, c'era ha persino scritto l'indirizzo del mittente! Non lo fa mai nessuno!

 

* * *

 

Ricevettero una medaglia, d'oro, molto grossa. Rufy aveva provato a morderla, ma si era dovuto arrendere al fatto che era d'oro, e l'oro, bé, non si mangia.

Fu solo in quel momento che scoprirono che la guerra l'avevano vinta: a loro bastava sapere che era finita.

– Adesso cosa facciamo, Zoro? – sorrise Rufy, entusiasta, mentre uscivano dall'austero edificio in cui avevano ricevuto la medaglia.

L'amico si strinse nelle spalle. – Non saprei. Non ho mai... insomma, potrei tornare al mio paese.

Anche se non mi aspetta nessuno, pensò amareggiato. Rufy aggrottò le sopracciglia. – Io e Ace volevamo fare il giro del mondo. Siccome mi ha fatto fare una promessa, significa che lo devo fare per forza, anche senza di lui. Sarà divertente, non pensi? Ieri ho chiesto a Nami se voleva venire con me, e anche se ha passato dieci minuti a lamentarsi di quanto stupida e avventata fosse quest'idea ha detto... – arrossì un po'. – Ha detto di sì. Inoltre penso che verrà anche Robin. Cioè, non me l'ha detto esplicitamente, ma se viene Nami penso che verrà. Sarebbe bello se... insomma, se venissi anche tu.

Zoro rimase zitto per un istante, e Rufy si precipitò a spiegare. – Non è una cosa campata per aria, giuro! Ho fatto un piano, con Ace. Partiamo dall'Europa, prima Lisbona, poi Madrid, Parigi, Londra, Roma e Vienna. Pensavo che volendo saremmo potuti passare a trovare Sabo, ora che so dove abita. Quelle poi sono le città più belle, ovviamente faremo altri giri in mezzo...

– Rufy...

– E se è una questione di soldi guarda che non è un problema, perché mio nonno era ricchissimo e ha detto che se ci arruolavamo lasciava a me e Ace tutto quello che aveva in eredità, e quindi ora credo di essere milionario o qualcosa del genere, e...

– Rufy...

– Ti assicuro che sarà divertentissimo, in Francia si mangia molto bene e dicono che-

– Rufy! – Zoro si stava controllando a fatica.

Dopo la morte di Sanji, era sicuro che non sarebbe mai più stato felice in vita sua. Anzi, l'idea stessa di vita stava iniziando ad infastidirlo. Era stato ferito gravemente e ricoverato d'urgenza, e proprio allora, quando aveva toccato il fondo, aveva conosciuto Rufy.

Era strano, all'inizio lo detestava, ma piano piano aveva iniziato ad apprezzarlo sempre di più. Rufy non era come Sanji, non sarebbe mai potuto essere come lui. D'altra parte, Zoro non era come Ace. Non ci si poteva fare niente, e su questo non ci si poteva fare proprio niente.

Eppure, quello che c'era tra di loro era qualcosa di nuovo, bello, quasi incredibile. Rufy non attaccava briga, Rufy rideva. Zoro aveva ben presto smesso di paragonarlo a Sanji e aveva iniziato a considerarlo Rufy, Rufy e basta. Rufy, sempre assurdamente convinto delle cose più assurde: che sarebbero sopravvissuti, per esempio. Che la guerra sarebbe finita. Aveva avuto ragione, in fondo, no?
Ma Rufy non era solo questo. Rufy dava senza chiedere niente, Rufy rideva e faceva ridere gli altri. Rufy non se la prendeva se gli gridavi contro.

Prima Sanji, poi Rufy. Zoro era di sicuro una persona fortunata: nella sua vita aveva trovato delle persone davvero speciali.

Per questo, quando Rufy gli propose di viaggiare per il mondo con lui, Zoro era rimasto per un attimo in silenzio: era semplicemente senza parole, non riusciva a credere che stesse succedendo proprio a lui. Come poteva Rufy pensare che sarebbe voluto non venire? Com'era possibile? Zoro non aveva nessun altro posto dove andare: viaggiare con lui, Nami e Robin, che ormai vedeva alla stregua di due sorelle, sarebbe stato fantastico. Oltre ogni sua più assurda fantasia.

E ancora Rufy temeva che avrebbe potuto rifiutare? Ma se non poteva essere più felice di così! – Rufy. – ripeté con più forza, prendendo fiato. – Io... sarei davvero felice di venire. Verrei anche se non fossi così ricco. Anche se tu non avessi la minima idea di dove andare. Va bene lo stesso, va bene... lo stesso...

Il volto di Rufy si illuminò, E Zoro sentì forte e chiara nella mente la risata di quello stupido cuoco. – E va bene, Marimo, vai pure a divertirti! Ma anche se sarai in Francia ricordati che come me non cucina nessuno, sono stato chiaro? Ficcatelo bene in testa!

Zoro alzò lo sguardo e sul suo volto si riflesse il sorriso gioioso dell'amico.

In fondo, nella sua vita sempre buia, qualcosa per cui valeva la pena di aprire gli occhi c'era: Kuina era stata uno schizzo di rosa. Bellissimo, da conservare nella memoria come un gioiello prezioso.

Sanji, poi, gli era sembrato come un'allegra e casinista scia di giallo che l'aveva accompagnato per quasi due anni e gli aveva dato una spinta, la forza di andare avanti. Una scia del genere non si dimentica facilmente.

Nami poteva essere vista come un allegro spruzzo arancione: sempre attiva, sempre pronta a gridargli addosso ma anche sorridente, onesta, pronta ad una parola gentile.

Robin? Lei era una gentile pennellata di viola, elegante e calma. Con la sua pacatezza e la sua pazienza, era davvero un'ottima persona su cui si poteva sempre contare.

E Rufy...

Non puoi capire, quindi lasciami in pace!
– Capire cosa?

Prima c'è stato il rosa, poi il giallo. Adesso nella mia vita non c'è più neanche un colore, quindi perché dovrebbe valere la pena viverla?

Mmmmh...

Piantala di mugugnare, mi dai sui nervi.

No, stavo pensando che a me piace il rosso, rosso come i lamponi e Babbo Natale! Sì, sarò una grandissima macchia di rosso! Va bene, Zoro?

– …

Allora affare fatto. Da adesso nella tua vita c'è un nuovo colore, e di conseguenza vale di nuovo la pena vivere! Giusto?

– … Ok, va bene.

Rufy era l'enorme macchia di rosso che l'aveva salvato. E una macchia, si sa, puoi sfregarla quanto vuoi: per quanta forza ci si possa mettere, non se ne andrà via. Mai più.

 

* * *

 

Il treno arrivò sferragliando, e un giovane e svogliato ragazzo scese alla fermata. Si spolverò dalla felpa e sistemò la cinghia della borsa sulla spalla: il posto sarebbe dovuto essere quello, valutò. Sì, decisamente quello. E infatti, qualche istante dopo, trovò anche l'oggetto delle sue ricerche: un ragazzo dai folti capelli rossi che dormiva senza ritegno appoggiato ad una panchina.

– In questi quattro mesi ti sei fatto decisamente più grasso. – commentò Law annoiato, svegliandolo con un deciso pugno in testa.

– Ma... ma cos... Tu! – esclamò, gli occhi di fuoco. – Sono ore che aspetto, cretino!

Law inarcò un sopracciglio. – Il treno era in perfetto orario, signor Eustass. – osservò. – O sei qui da tanto tempo perché non vedevi l'ora che arrivassi?

Gli insulti di Kidd erano una delle cose che più gli erano mancate, di lui.

– Allora, la tua buona compagnia? – sussurrò mellifluo il giovane dottore. – Guarda che anch'io non mi sono certo votato alla castità, in questo tempo. Insomma, hai idea di quanti avvenenti soldati apparissero nel mio ospedale ogni giorno?

Kidd arrossì, poi imprecò. – Se vuoi farmi ingelosire caschi male, stronzo. – sputò.

– Credevo che fosse il tuo piano. Farmi ingelosire, intendo. – sorrise Law.

Kidd scosse la testa, come cercando di scacciare pensieri inutili. – … Sai cosa? Andiamo a casa mia e basta. – decise.

Law sogghignò. – Mi sembra ragionevole. La casa è vuota, vero?

– Completamente. – sbuffò Kidd. – Per chi mi hai preso?

– Questo significa che... Non c'è nessuno. – proseguì Law, fissandosi le unghie con estremo interesse.

Kidd alzò un sopracciglio. – È la comune definizione di “vuota”, sì.

– Nessuno ti sentirà urlare, allora. Ho un bel po' di arretrati da recuperare. – sogghignò Law, alzando lo sguardo e incastrandolo con quello di Kidd.

Entrambi sorrisero nello stesso momento, identici e paurosi.

– Vedremo chi sarà ad urlare per primo. – commentò caustico Kidd. – Nel frattempo, sai cos'ho scoperto?

– Che il sesso praticato senza un braccio causa forti complessi di inferiorità?

– Che in molte isole, – proseguì Kidd imperterrito, scoccandogli un'occhiataccia – è usanza gettare i cadaveri in mare. Davvero, non per scherzo. Allora, cos'hai da ribattere?

Law sollevò un sopracciglio. – La tua dedizione nei miei confronti mi commuove. Anche se non sapevi che sarei venuto fino a stamattina, quando ti ho avvisato, hai fatto tutte queste ricerche su una cosa che ti ho detto subito dopo aver scopato. Bé, mi spiace deludere le tue aspettative, ma io nemmeno l'ho mai vista, un'isola. Sono nato in campagna. Non racconto la verità sulle mie origini al primo che passa, sai com'è.

Kidd ringhiò. Law aveva parlato con il suo solito tono strascicato e indifferente, ma lui sapeva di averlo colpito. Law veniva davvero da un'isola, di questo era certo, perché aveva chiesto in giro al fronte prima di partire. Un'isola del nord, se non ricordava male.

Si ripromise di lasciar cadere così, per caso, il nome dell'isola in una loro discussione qualsiasi. Sarebbe stato esilarante vedere la sua reazione, e avrebbe dimostrato che, quella notte, Law si era davvero aperto con lui e gli aveva davvero raccontato la verità.

– Come ti pare. – si limitò a commentare, alzando le spalle. – Su, spostiamoci da qui, che sta arrivando un altro treno.

Law obbedì, e stava per uscire dalla stazione quando una voce dannatamente conosciuta raggiunse le sue orecchie: – Traaaaaaffyyyyy!

Dottor Trafalgar. – sibilò quello, fermandosi di scatto e riducendo gli occhi a due fessure.

Kidd si voltò, sorpreso. – Ma lo conosci? Chi è?

Dal finestrino del treno che si era appena fermato un ragazzino dall'aria allegra si stava sbracciando. – Ehi, Traffy! Quanto tempo, eh?

– È un mio vecchio paziente. – commentò Law. Ehi, ora che ci pensava, poteva... – Un paziente davvero... esemplare, se vuoi la mia. – aggiunse, un sorriso malizioso negli occhi.

Kidd rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva. – I-intendi... Cioè, cosa...

– Ehi, Rufy! – gridò Law, sollevando la mano in segno di saluto. – Che ci fai qui?

– Oh, non scendo, sono di passaggio! – rispose quello, spenzolandosi giù dal finestrino. – Indovina un po'? Andiamo a fare il giro del mondo!

Law rise. – Bé, sembra una cosa divertente... – Law calcò bene l'accento su quel “divertente” godendosi l'espressione scandalizzata di Kidd. – Allora buon viaggio!

Il rosso sembrava sull'orlo di una crisi isterica, e Law godeva come un matto.

– Quello è il signor Eustass Kidd? – chiese Rufy, indicando il ragazzo di fianco a Law, che sbiancò.

– C-come lo sai?

Rufy sorrise. – È quello della cartolina, giusto? Sai, signor Kidd, che quando Traffy l'ha vista era felicissimo? Ha sorriso per tutto il giorno! Avresti dovuto vedere la sua faccia...

Law avvampò. – M-ma cosa dici, n-non...

L'espressione di Kidd era passata dall'invidia più scura ad un ghigno davvero inquietante. – Ah, davvero? Com'era esattamente, la sua faccia?

Rufy, si concentrò per un istante, come pensandoci su. – Più o meno come la tua adesso. Sembrate felici, eh? – sorrise ancora di più, inclinando la testa. – Bé, buon divertimento!

Il treno sferragliò, pronto per rimettersi in moto. Dietro le spalle di Rufy Law riuscì a scorgere altre tre persone che stavano probabilmente cercando di far rientrare Rufy nello scompartimento. – Ah, devo andare! Ci vediamo in giro, ok? Magari vi mando una cartolina! – rise, ritirando la testa all'interno dello scompartimento, e il treno partì.

I due rimasero in silenzio per un po'.

– Allora... – commentò Kidd. – Eri felice quando hai visto la mia cartolina?

– Allora... – ribatté Law. – Eri felice quando hai scoperto che Rufy non è il mio amante?

Kidd borbottò qualcosa di indefinito, e camminando fianco a fianco uscirono dalla stazione.

L'aria era fresca, il cielo limpido, e tutto sembrava pronto per cominciare qualcosa di meraviglioso, perfetto.

– … Io sto sopra, sono stato chiaro?




















E con queste note drammatiche, la storia giunge alla fine.
... Sì, non ho potuto farci niente, va bene? Una specie di Happy End doveva esserci, io sono fatta così. QUesto capitolo prende il titolo dalla poesia che effettivamente dà il titolo anche alla raccolta. Mi sembrava carino chiuere così, anche se sono stata indecisa fino all'ultimo con "Vanità" (La sapete? Dice: D'improvviso è alto sulle macerie il limpido senso dell'immensità. Era splendida, non dite niente, ma il titolo non mi convinceva...)
La guerra è finita, e siccome stiamo parlando dei nostri eroi era impossibile non mostrare come, in un modo o nell'altro, andranno tutti avanti verso i loro sogni.
Spero che questa storia vi sia piaciuta e vi abbia fatto riflettere. Un'ambientazione del genere è stata dura da trattare, specialmente con dei personaggi del genere da gestire, ma... spero vi abbia lasciato qualcosa, ecco. La trincea è un argomento che mi sta molto a cuore, Ungaretti pure. Alla fine, sono felice di aver potuto scrivere una storia del genere. Grazie per averla letta, davvero.

Eccoci infine al momento dei ringraziamenti!
Grazie a tutti per il vostro supporto: come avrei fatto senza dei recensori così stupendi come voi?
Grazie a monkeyD_bonney, per la sua bellissima recensione, per essere stata la prima e per avermi fatta sorridere. Grazie a Super Mimi_ per i commenti così meravigliosi, per le correzioni e la simpatia, per aver capito. Grazie a iaele santin per i suoi commenti sempre presenti, sempre la prima! Grazie a Momo_chan per avermi lasciato il suo parere e per il commento tanto dolce. Grazie a Yellow Canadair per le recensioni profonde e bellissime, per avermi fatta stare bene e per esserci sempre stata. Grazie a callas d snape per la recensione stupenda, per avermi seguita e per essere stata così coinvolta. Grazie a __Ace per le recensioni meravigliose, per la gentilezza e anche per la pazienza. Infine grazie a Roronoa Elettra per avermi lasciato il suo parere, sono contenta di averti commossa!
Grazie a ErinThe, iaele santin, Ikki e Margherita Dolcevita per le preferite.
Grazie a Ikki, Kaizokuo_Roger, Kimberly D Crystal, mistery dragon, Mistery_Lawliet, monkeyD_bonney, Quinn Fabray, Rain e Ren, Super Mimi_, Sweet_Truffle, Yellow Canadair e __Ace per le seguite.
Grazie a chi ha letto soltanto e grazie a te, se sei arrivato fino a questo punto.
Spero di risentirvi tutti molto presto!
Un abbraccio,
Emma

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