When the Moon rises

di Miyuki chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Pleased to meet you, hope you guess my name ***
Capitolo 3: *** Second chance ***
Capitolo 4: *** It's just a talk ***
Capitolo 5: *** What I look for ***
Capitolo 6: *** Let's get it started ***
Capitolo 7: *** I still smell the fear ***
Capitolo 8: *** The scent of grandfatherly love ***
Capitolo 9: *** Tale as old as time ***
Capitolo 10: *** Without an honest heart as compass ***
Capitolo 11: *** Burn, burn! ***
Capitolo 12: *** Tell me where our time went ***
Capitolo 13: *** I'm hoping, I'm praying I won't get lost between two worlds ***
Capitolo 14: *** So fragile on the inside ***
Capitolo 15: *** Just give me something to get rid of him ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Si trovava esattamente al centro dell’isola: era una locanda vecchia e malmessa, una di quelle che sicuramente avevano visto giorni migliori, con l’ insegna sbiadita che cigolava sopra l’ingresso su cui era ancora a stento leggibile la scritta “La Sirena Nera”.

All’interno il locale era angusto ma, come ogni sera, colmo di gente: dopotutto, nonostante le apparenze, era quanto di meglio si potesse trovare in un isola piccola come Mythos.
Le pareti dovevano essere state, almeno in origine, bianche; ma il tempo e l’umidità avevano ormai scrostato gran parte dell’intonaco, screpolato e sbriciolato sul pavimento di cotto rosso, ed ora era chiaramente visibile ogni singolo mattone che avesse contribuito alla costruzione di quel luogo. 

Una mezza dozzina di lunghi tavoli erano disposti in tre file parallele, addossati l’uno al’altro e consumati, un po’ dalle tarme ed un po’ per l’usura.

L’aria era opprimente, quasi soffocante, colma di odori –cibo, fumo, alcol- e di voci, grida e risate, mentre le cameriere si muovevano rapide e silenziose tra i tavoli, avvolte nelle loro divise nere con grembiule bianco.

Non mi piaceva quella locanda.

Mi sedetti su uno sgabello alto, di legno scuro e consumato, proprio davanti al bancone, cercando di ignorare il ribrezzo che mi procurava stare in un posto simile. «Principessina, la Sirena Nera non è di tuo gradimento? » Mi domandò ironico da dietro il bancone un uomo basso e nerboruto con radi capelli neri, che supposi essere il proprietario.
…Ribrezzo che, a quanto pareva, non ero stato sufficientemente bravo a nascondere.

«Me la farò andare bene. »Risposi freddo, senza quasi degnarlo di uno sguardo, mentre i miei occhi correvano per tutto il locale scrutando le facce degli avventori.

«Ti ha inquadrato subito, eh, Principessina? »Sogghignò nella mia direzione Reifer, prendendo posto poco distante da me.
Lo ignorai deliberatamente, promettendo a me stesso, per l’ennesima volta, che me la avrebbe pagata non appena non avessi più avuto bisogno di lui.

Tornai  a concentrarmi sui clienti della Sirena Nera.

Non mi stupii affatto nel notare che erano praticamente tutti pirati: del resto, Mythos non aveva molto da offrire, e non era strano che i suoi visitatori fossero uomini di mare che facevano porto all’isola soltanto per una serata di baldoria.

I miei occhi si soffermarono su un nutrito gruppo di pirati, che proprio in quel momento stava varcando la porta.
A capo del gruppo camminava, spavaldo e sorridente, un uomo dai capelli fulvi acconciati in una discutibile acconciatura alla Pompadour, vestito interamente di bianco, con un foulard giallo al collo che gli dava tanto l’aspetto di un cuoco.

La particolare capigliatura e la cicatrice a mezzaluna che contornava l’occhio sinistro non lasciavano dubbi sulla sua identità.

«Satch, dei Pirati di Barbabianca. »Annunciai ad alta voce.«Lo vedi? »

Seduto al mio fianco, Kai voltò subito il capo nella direzione che gli indicavo, come un cane da caccia che fiutata la selvaggina, drizza le orecchie e si prepara a stanarla.Lo vidi annuire in risposta alla mia domanda, senza distogliere lo sguardo dal pirata.

«Principessina, ti sei innamorata, che non smetti di fissare quel tipo? » tornò, nel frattempo, all’attacco Reifer, con uno dei suoi soliti sogghigni stampato sul viso, mentre mi circondava le spalle con il braccio.

Lo allontanai con un ringhio, adesso decisamente scocciato. «Piantala, Reifer. »L’uomo sbuffò sonoramente. «Che palle, sei più isterico del solito, Capitano. »
Lo trafissi con lo sguardo, gelido, sperando che una volta tanto il messaggio “Non ti conviene scherzare con me” arrivasse a destinazione.
Ebbi fortuna: Reifer, con l’ennesimo rumoroso sbuffo, sembrò recepirlo e  si risistemò al suo posto, ordinando altro rhum all’oste sotto lo sguardo severo di Hiro.

«Cosa pensi di fare? » domandò a mezza voce Kai, gli occhi grigi ancora puntati sull’uomo di Barbabianca. Sospirai, tornando a concentrarmi sul Comandante della quarta flotta. «Dammi solo cinque minuti…»

 «Che palle, è da mezz’ora che siamo qui ad aspettare i tuoi comodi senza fare un tubo.» tornò a brontolare Reifer sbattendo il boccale, già vuoto, sul bancone.

«Taci e porta pazienza, qui comando io. » tagliai corto, tornando ad osservare il gruppo di Barbabianca.

La mia attenzione venne catturata da un ragazzo moro, alto e muscoloso, con spalle larghe e petto ampio, impossibile da non riconoscere: Portgas D. Ace.

«Hey, stasera siamo persino fortunati…» commentai distrattamente, mentre osservavo il Comandante della seconda flotta ridere e scherzare con una ragazzina dai lunghi capelli chiari che camminava al suo fianco, e che portava anch’essa lo stemma di Barbabianca inciso sul petto.

«Kai, quella non è Haruta. » affermai perplesso. «Non la è. » confermò di rimando il biondo.

«Allora mi sa tanto che le nostre informazioni siano sbagliate, perché sembra che tra i Pirati di Barbabianca ci siano almeno due donne. »

«Ha importanza? » Ci riflettei un secondo. «No, in effetti no. Ma odio avere informazioni sbagliate. »

Con la coda dell’occhio vidi Kai accennare un sorriso. «Lo so, Fall. »

«E va bene, non importa… Voi due, potete andare. » ordinai severo, rivolgendomi a Reifer e Hiro.

«Finalmente cazzo! » proruppe subito il primo alzandosi bruscamente e, pagato l’oste, si diresse verso l’uscita senza una sola parola di più.

«Agli ordini. » gli fece eco Hiro, alzandosi anch’esso per andare dietro a Reifer.

Li seguii con lo sguardo per qualche istante, pensieroso, augurandomi con tutto me stesso che quei due ricordassero gli ordini e svolgessero al meglio il proprio dovere in mia assenza.

Massì, in fondo, anche se avevo così poca fiducia in Reifer che non gli avrei nemmeno affidato un pesciolino rosso, c’era pur sempre Hiro a tenerlo d’occhio.
Del resto, ormai, era un po’ tardi per preoccuparsi di cose simili.

«Molto bene… Andiamo anche noi. » dissi lasciando il mio sgabello e muovendomi in direzione dei pirati di Barbabianca, subito imitato da Kai qualche passo dietro di me.

«Finalmente, si va in scena. »
 



Spazio autrice:
Well, pareva impossibile ma alla fine ho davvero iniziato a pubblicare il seguito ò_ò
Vi mancavano i miei soliti inizi in medias res con personaggi che non si capisce chi siano e da dove sbuchino fuori, eh?
In realtà scommetto di no, ma, davvero, è più forte di me: mi piace troppo iniziare così!
Mi sa che non avete altro da fare che smettere di leggere farvene una ragione e sopportare... Ma non temete: lo so che al momento il prologo è alquanto confuso (visto che stavolta non mi sono accontentata di un solo personaggio nuovo, addirrittura quattro tutti assieme! E non gli ho nemmeno fatto una degna presentazione XP), ma le presentazioni ufficiali saranno già al prossimo capitolo quindi... forza e coraggio! :D
Sono stata molto indecisa su che generi scegliere da mettere nella presentazione della storia, ma alla fine ho scelto di sottolineare il carattere "avventuroso" e sovrannaturale della storia... Ebbene sì, vai con le creature strane, magia (meglio se nera), leggende e misteri!
Ciò non toglie che ci sarà posto anche per romanticherie (e vi dico la verità: sto soppesando anche l'erotico ù_ù), momenti comici e riflessioni filosofiche... sì insomma, chi più ne ha più ne metta!
Oh, e riguardo ai personaggi, oltre ad Ace e alcuni originali, ci saranno anche alcuni dei mitici capitani di Barbabianca, nonchè, come ospiti d'eccezione, i Mugiwara :D
Ok, ora che vi ho stressate tutte con questo infinito spazio autrice, vi lascio andare ^^
Ovviamente, se avete un paio di minuti, mi farebbe piacere sapere il vostro parere, ma in caso contrario ci vediamo la prossima settimana con l'aggiornamento ^^
Bye! :*

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Capitolo 2
*** Pleased to meet you, hope you guess my name ***


Pleased to meet you, hope you guess my name


Satch se ne stava sorridente di fronte a noi, bloccando la strada, affiancato da due ragazzi.
Li osservai distrattamente: uno biondo e uno moro, dovevano essere quei due tipi che avevo intravisto la sera precedente alla Sirena Nera, poco prima di riuscire a convincere Ace ad andarcene da quel postaccio.
Il Sole, sorto già da diverse ore, splendeva alto all’orizzonte, mentre la Moby Dick veleggiava tranquilla sull’acqua cristallina dell’oceano.
Ma, nonostante fosse mattina inoltrata, io mi ero appena svegliata.
Non è mai bello essere investite dai fiumi di parole che sgorgano dalla bocca di Satch ma, credetemi, la mattina appena alzate è davvero devastante.
«Satch levati, sto morendo di fame. »
Mi precedette Ace, guardandolo di traverso.
«Cielo, come siete entrambi scorbutici! Non volete fare bella figura? »
Rispose Satch per nulla intimorito, indicando i due ragazzi al suo fianco.
Chiusi gli occhi ed inspirai profondamente: uno, due, tre, quattro…
Arrivata fino a dieci, dovetti ammettere che in effetti la mia voglia di piantare le unghie nel collo di quel rompiscatole era lievemente diminuita.
«Forse non hai capito: io. ho. fame. »
Scandì Ace lentamente, mentre il suo sguardo si faceva più torvo, come se quell’unica frase fosse sufficiente ad avvertire Satch del pericolo che correva nel mettersi sulla sua strada.
Ed in effetti la era, era un chiaro avvertimento, ben comprensibile da chiunque conoscesse almeno un pochino Ace.
Tuttavia Satch scelse di fare una cosa molto pericolosa: lo ignorò deliberatamente.
«Uffa, abbiamo reclutato due nuove leve, non potreste mostrare almeno un po’ di entusiasmo? »
…Quei due volevano unirsi a Barbabianca?
«E poi, modestamente, sono stato io a notarli e a proporgli di unirsi a noi: sono certo diventeranno dei grandi corsari!~♥»
Stupita, sbirciai la reazione di Ace al mio fianco, che tuttavia non sembrava particolarmente interessato o colpito.
Ma, forse, dipendeva soltanto dal fatto che in quel momento aveva altre priorità...
«Piacere di conoscervi ragazzi, ci vediamo!»
Esclamò in fatti all’improvviso e, prima ancora che io potessi provare a dire o fare qualunque cosa, balzò in avanti scartando abilmente Satch e i due nuovi arrivati, precipitandosi a tutta velocità verso la sala mensa.
Sospirai sconsolata: certe cose non cambiano mai…
Satch lo osservò darsela a gambe, con le sopracciglia corrugate ed una smorfia di perplessità sulle labbra.
«Peccato, ci tenevo a presentarglieli…»
Mormorò pensieroso, accarezzandosi il pizzetto, parlando più a se stesso che a noi.
«Oh bè, non importa!– Esclamò subito dopo, tornando a sfoggiare il suo solito sorriso smagliante – significa che intanto li presenterò a te ~♥»
Trillò allegramente, con tanto entusiasmo che mi spaventò a tal punto da farmi desiderare di essere fuggita via con Ace.
Purtroppo per me, però, ero troppo poco affamata e troppo curiosa per darmela a gambe in quel modo…
«Mikami, ti presento Fall il Lupo Nero e Kai il Leone d’Oro~♥ »
Mentre Satch li presentava, orgoglioso di loro quasi come fossero suoi figli, osservai i due ragazzi, ora con rinnovata attenzione.
Kai aveva capelli biondo cenere che gli ricadevano scompostamente davanti agli occhi, scendevano ai lati del volto fin quasi a sfiorargli il mento, ed erano invece portati corti sul dietro, dove a stento arrivavano a solleticargli la nuca.
Sul viso dai tratti morbidi e regolari, pelle abbronzata e labbra piene, risaltavano gli occhi grandi, appena obliqui, di un colore indefinito tra il verde ed il grigio.
Indossava una maglia bianca a mezze maniche, con il collo alto ed uno strano disegno di un sole nero sul petto, abbinata ad un paio di lunghe braghe nere.
Il Lupo, Fall, era invece molto diverso: aveva capelli nerissimi e lisci che gli lasciavano scoperta la fronte e, spettinati e ribelli, scendevano a coprire tutto il collo, evidenziando così il pallore della sua pelle ed il viso dai tratti marcati, dalla mascella squadrata al naso dritto.
Ma la cosa più impressionante erano senz’altro gli occhi dal taglio affilato: uno era scuro, quasi nero, mentre l’altro era di un castano così chiaro da sembrare giallo, color ambra.
In aggiunta a ciò, una cicatrice attraversava in una verticale perfetta buona parte del suo viso, incidendo la tempia e scendendo fino a metà guancia: a giudicare dal tipo di ferita, era un miracolo che avesse conservato quell’occhio dorato.
Portava una camicia verde felce, i cui primi bottoni erano stati lasciati aperti, ed un paio di bermuda color kaki.
Entrambi sorridevano: quello di Kai era un sorriso lieve e pacato, mentre Fall appariva nettamente più spavaldo e sicuro di sé.
«Piacere…»
Sussurrai, sorridendo a mia volta.
«Su su, non fare la timida!»
Esclamò Satch piantandomi una poderosa pacca sulla spalla.
Lo fulminai con lo sguardo: era vero che erano ormai due mesi che ero entrata a far parte dei Pirati di Barbabianca, ma detestavo che lui si prendesse certe libertà con me.
E poi era… imbarazzante.
E non è bello essere messe in imbarazzo, soprattutto non davanti a persone che non conosci.
«Eddai micetto, non gu-
Satch si interruppe all’improvviso e si fece pensieroso, tornando a massaggiarsi il mento con una mano.
«Non va bene, non va affatto bene. Prima una Fenice… ma era okay, a chi non piacciono le fenici? Poi una Tigre… Ed è stato un po’ meno okay, non è bello essere costantemente minacciati con zanne e artigli. E ora un Lupo e un Leone… E questo non è decisamente okay, stiamo diventando uno zoo!»
Strepitò all’improvviso.
Supposi che, nelle sue intenzioni, la sua voce sarebbe dovuta apparire seria.
Fatto sta, che quello che percepì io fu soltanto il suo solito tono da pagliaccio.
Stavo già per dirgliene quattro ma, ricordandomi dei due ragazzi, decisi che non volevo mettermi in imbarazzo da sola facendo la figura della ragazzina isterica.
Ispirai profondamente e mi contenni:
«Ti sei scordato del membro più importante: la Moby Dick, la grande balena. »
Gli feci notare con una punta di sarcasmo.
«Neh, la vuoi smettere di rovinarmi le battute? »
Replicò il Comandante in quarta indispettito.
«Tanto non faceva ridere. »
«… Sei crudele.»
Singhiozzò, asciugandosi con la punta dell’indice una lacrimuccia immaginaria.
… Non volevo nemmeno provare ad immaginare cosa stessero pensando Fall e Kai.
Probabilmente, si erano già pentiti di essere entrati nella ciurma…
E come biasimarli? Gli interminabili discorsi di Satch e il suo dubbio senso dell’umorismo avrebbero terrorizzato chiunque.
«Ad ogni modo, si dà il caso che, a differenza di te e Marco, loro siano animali solo di nome: nessun frutto.»
Riprese il pirata, recuperando un briciolo di serietà.
«Vado a parlare un attimo con Ace, visto che è fuggito… Fate i bravi ~♥»
E detto questo, si diresse fischiettando verso la sala mensa, lasciandomi sola con i due nuovi arrivati.
«Per essere una ciurma così temuta, siete fin troppo amichevoli.»
Commentò Fall con un sorriso non appena Satch si fu allontanato.
Aveva una voce bassa e ferma, che in qualche modo risultava però anche lieve e misurata.
«Oh, Satch è il più socievole ed il più chiacchierone»
Risposi tra il divertito e l’imbarazzato, osservando il ragazzo mentre appoggiava la schiena ed i gomiti contro il parapetto della Moby Dick, perfettamente a proprio agio, mentre Kai rimaneva fermo e silenzioso.
«Sarei curiosa di una cosa, se posso chiedere…»
Iniziai titubante.
«Chiedi.»
Rispose Fall senza esitazione, mentre un lampo di interesse baluginava nei suoi occhi.
Anche se il suo, più che un invito, suonò come un ordine.
«Perché “Lupo” e “Leone”? Voglio dire, Satch ha detto che non c’è di mezzo nessun frutto del diavolo, quindi mi chiedevo…»
Il sorriso di Fall si ampliò, mentre si staccava dal parapetto e si avvicinava a Kai.
«Come perché, non vedi che bella criniera bionda?»
Rispose subito, circondando con un braccio il collo del Leone mentre con l’altra mano gli arruffava i già ribelli capelli dorati.
Kai arricciò il naso e incurvò le labbra in un sorriso più accentuato, mantenendo tuttavia il suo solenne silenzio.
Credetti di iniziare a capire perché Satch fosse così felice del loro arruolamento: da adesso, avrebbe finalmente potuto passare ore ed ore a parlare –o meglio, a stordire di parole –, approfittando del fatto che, silenzioso com’era, Kai non l’avrebbe interrotto.
«Capisco… E tu? Perché “Lupo”?»
Fall spostò la sua attenzione da Kai a me.
«Ovvio, perché sono forte e tenebroso.
E aspetta! Ancora non ti ho detto la parte migliore: il mio passatempo preferito è mangiare povere ragazze innocenti.»
Aggiunse rivolgendomi uno sguardo penetrante e significativo, mettendo in mostra un sorriso bianco e affilato che, dovetti ammetterlo, un che di pericolosamente lupino lo aveva senza dubbio.
Avvampai.
Okay, altro che Satch: questo era decisamente imbarazzante.
«In realtà mi sembra che il Lupo, più che Cappuccetto Rosso, sia finito col mangiarsi la nonna.»
Commentai innocentemente, tentando di alleggerire l’atmosfera, cercando di scacciare l’imbarazzo.
Voglio dire, dovevo farlo per il mio orgoglio: non potevo lasciare che l’ultimo arrivato mi mettesse in difficoltà!
«Credimi, la mia storia va in modo diverso.»
Ribattè senza scomporsi minimamente, assottigliando lo sguardo e senza smettere di fissarmi.
Iniziai ad indispettirmi:
«La versione ufficiale è quella in cui il Lupo mangia la nonna, credimi
Dissi con un sorriso un po’ forzato.
«E comunque, se anche ti piacciono le donne mature, non ci trovo nulla di male.
Dopotutto, come dice il proverbio, “gallina vecchia fa buon brodo”, no?»
Continuai candidamente, guarnendo il tutto con un sorriso innocente.
Innocente, sì… terribilmente falso, invece.
Ed il Lupo, a quel sorriso, non credette nemmeno per un istante:
«Ora sì, che mi sembra di avere a che fare con la ciurma dell’uomo più forte del mondo.»
Commentò con un tono basso e freddo, che mi venne istintivamente da definire come minaccioso.
Mi irrigidii, mentre le mie labbra smettevano di fingere sorrisi e si serravano in una linea dura.
Conoscevo quelle sensazioni: l’aria elettrica, i sensi allerta, i muscoli in tensione, il battito cardiaco accelerato…
Non avrei saputo dire come, ma eravamo già ad un passo dal saltarci alla gola.
Il sorriso del Lupo si fece più ampio e aggressivo, come se avesse intuito i miei pensieri, ed io non riuscii a trattenere un ringhio frustrato: glielo avrei insegnato io a prendersi gioco di me…
E allora sì, che avrebbe rimpianto di non essere un vero lupo, gli avre-
All’improvviso qualcosa mi arrivò alle spalle e mi afferrò con forza per il braccio.
Tesa com’ero, reagii d’istinto, prima ancora di capire cosa stesse succedendo.
Mi voltai, e affondai gli artigli nella persona che mi aveva appena afferrato.
Ci misi qualche secondo a realizzare che, la persona in questione, altri non era che Marco.
Rimasi a fissarlo, paralizzata e sbigottita.
Anche la Fenice rimase silente, la mano ancora ferma sul mio braccio, mentre le prime gocce di sangue iniziavano a gocciolare dalla sua spalla –nel quale i miei artigli avevano aperto tre lunghi tagli scuri –al ponte della nave.
Mi ci vollero altri lunghi secondi, per realizzare cosa avevo appena fatto.
Ritirai bruscamente la mano, mentre gli artigli di tigre tornavano ad essere semplici unghie.
«Mi dispiace mi dispiace!»
Mi affrettai a dire, mortificata.
Le ferite causate dai miei artigli sparirono all’istante, divorate dalle fiamme blu di Marco.
Quando il fuoco si fu estinto, la sua pelle era tornata liscia e sana.
Solo in quel momento notai Ace e Satch, alle spalle di Marco, che, ovviamente, avevano assistito alla scena per intero.
«Scusa Marco, io no-
«Non fa nulla.»
Mi interruppe la Fenice con una scrollata di spalle, con il suo tono di sempre, calmo e pacato.
«Come sarebbe a dire“Non fa nulla”?! Se ci fossi stato io al tuo posto mi avrebbe potuto staccare un braccio!!»
Iniziò a strillare Satch preoccupato per la propria incolumità, con una vocina acuta e sottile nella quale faticai parecchio a riconoscere la sua.
Ad Ace venne da ridere, e soffocò una risatina con la mano.
In effetti il Comandante in quarta, stavolta, era davvero comico, con quell’espressione costernata e gli occhi spalancati, la mascella tanto aperta da arrivare quasi a toccare il ponte; senza considerare poi il tono di voce estremamente virile…
Riuscii a non ridere, ma soltanto perché mi sentivo in colpa per aver attaccato Marco e per aver rischiato di ferire qualcuno che non sarebbe potuto guarire con altrettanta facilità.
«Allora per fortuna che non eri al mio posto»
Gli rispose Marco semplicemente, con il massimo della calma ed un sorriso angelico dipinto in viso.
«…Nessuno mi vuole bene.»
Sospirò Satch sconsolato, rannicchiandosi in un angolino con le ginocchia strette al petto, fingendo un pianto disperato.
E ve lo assicuro: era anche un pessimo attore.
«Yessss!»
Esultò Ace con un sorriso soddisfatto, mostrando il palmo della mano a Marco che gli batté il cinque, sorridendo a sua volta.
Li osservai confusa.
«E’ riuscito a zittirlo.»
Spiegò Ace con un sogghigno monello, in risposta alla mia occhiata interrogativa, riuscendo a strapparmi un sorriso.
Poi il moro si fece serio, ed il suo sguardo si spostò più volte da me ai due ragazzi, dubbioso.
Nel frattempo, né Fall né Kai avevano proferito parola o mosso alcun muscolo, rimanendo ad osservarci in silenzio, il primo con l’ombra di un sorriso sulle labbra ed il secondo serio ed attento.
«Vai, ci penso io.»
Disse Marco, rispondendo alla domanda che Ace non aveva esplicitamente posto.
Quest’ultimo sorrise, ancora una volta stupito dalle capacità empatiche della Fenice, e mi fece cenno di seguirlo mentre si dirigeva a prua.
Colsi al volo l’occasione per levarmi dalla scomoda situazione in cui mi trovavo, e sgusciai subito via mentre sussurravo a Marco un ultimo “Scusa”.
Quando mi fui lasciata il gruppo di pirati alle spalle, lasciai andare un sospiro di sollievo, rilassandomi.
«Va tutto bene?»
Mi chiese Ace, guardandomi con le sopracciglia corrugate in un espressione preoccupata.
«Sì, sì…»
Mi affrettai a rispondere, sistemandomi nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.
«…Davvero?»
«Sì… Forse Satch ha ragione, sono diventata davvero troppo impulsiva.»
«Ed è una cosa negativa?»
Mi domandò innocentemente, con un disarmante sguardo da bambino che mi fece sorridere.
«Temo di sì, visto quello che ho appena combinato…»
Sospirai atterrita.
Va bene che non avevo fatto chissà che danni, dopotutto era di Marco la Fenice che stavamo parlando, eppure mi sentivo allo stesso modo terribilmente in colpa.
«E comunque, sappi che è tutta colpa tua
Affermai poco dopo, piccata.
«Mia?!»
Ripetè lui incredulo, con gli occhi neri spalancati.
«Sì! Smoker con il suo allenamento era riuscito a farmi entrare un po’ di sale in zucca e smussare un po’ questo lato del mio carattere, ma stando con te ho dimenticato tutto quello che avevo imparato.»
Un sogghigno vittorioso si dipinse sulla faccia del pirata di fuoco:
«Se è così, allora mi prendo volentieri i miei meriti.»
Asserrì gonfiando il petto, realmente orgoglioso del fatto che lo indicassi come la causa principale del mio caratteraccio.
«E poi, è sempre un piacere mandare a puttane il lavoro di quel cane di un marine!»
Continuò con la sua espressione fiera e spavalda.
O almeno, la sua espressione fu tale finchè non gli mollai una gomitata in pieno stomaco, che lo costrinse a piegarsi in due.
Si portò una mano alla pancia, massaggiandosela:
«…Hai gradito poco l’appellativo “cane”, non è vero?»
Domandò con un sorrisetto colpevole.
«Precisamente.»
«Okay, scusa, non prendertela. Lo sai che, in fondo, gli voglio bene anche io.»
Lo guardai scettica.
In realtà avevo i miei dubbi al riguardo, ma non era davvero importante.
Nel senso, lo capivo che per lui non fosse facile portare rispetto ad un marine, figuriamoci addirittura provare affetto nei suoi confronti.
«Sei proprio sicura che vada tutto bene?»
Domandò tornando serio, scrutandomi con i suoi occhi scuri.
Deglutii: nonostante tutto, non mi ero ancora abituata al suo sguardo.
Continuavo a trovarlo…destabilizzante.
Ogni volta che lo guardavo negli occhi, mi tornava in mente quel vecchio detto, “Se fissi a lungo l’abisso, anche l’abisso fissa il tuo sguardo in te”.
I suoi erano abissi in cui mi sembrava di cadere e sprofondare ogni volta, di perdermici dentro.
Ma se quando dico “abisso” pensate ad una vuota voragine senza fondo, allora è chiaro che non abbiate mai conosciuto Ace.
Perché non era proprio vero che precipitavo in quegli occhi, la verità è che mi ci tuffavo di mia spontanea volontà.
E lo facevo perché laggiù, dove Ace permetteva solo a pochi di arrivare, trovavo quelle cose che fino ad allora avevo cercato, ovunque e quasi inutilmente: calore, sincerità, affetto, comprensione, forza… felicità.
«Ohi?»
La sua voce calda e preoccupata mi riportò alla realtà, facendomi riemergere da quegli abissi.
«…?»
«Stai bene?»
Ripetè per l’ennesima volta, scrutandomi attentamente.
«Scusa, mi ero distratta un attimo.
Sì, sì, sto bene.
Non so cosa mi sia preso, davvero.
Lo sai che la mattina appena alzata sono un po’ intrattabile, e in aggiunta temo che quel Fall non mi piaccia troppo.»
Conclusi con un sorriso per rassicurarlo, cercando di convincerlo che, davvero, non fosse successo nulla di importante.
Vidi i suoi occhi incupirsi, e le sue labbra incurvarsi appena verso il basso:
«Allora quello che sto per dirti non ti piacerà»
Mi informò mesto.
Un vortice di ipotesi apocalittiche mi attraversarono in un lampo la mente: devastanti attacchi della Marina, maremoti, mostri marini che volevano papparsi la Moby Dick e relativo equipaggio…
Già, certe cose non cambiano proprio: sarei rimasta la solita pessimista di sempre, per il resto della mia vita.
«Cosa?»
Domandai allarmata, studiandolo diffidente, sforzandomi inutilmente di captare i suoi pensieri.
«Satch mi ha appena informato che sia Fall che Kai entreranno a far parte della mia flotta.»
…Holy shit.
 
Spazio autrice:
Ed ecco il primo, vero, capitolo.
Colgo l’occasione per dire un paio di cose.
Oltre all’aver cambiato appena lo stile di scrittura, rispetto alla storia precedente, vorrei anche cambiare i contenuti.
Mi spiego: per esempio in don’t play non mi sono mai fermata a descrivere i sentimenti di Mikami per Ace (nel senso, lo sappiano tutte che un semplice “mi sono innamorata di te” non è un granché come descrizione), ed allo stesso modo non mi sono soffermata a parlare di tante altre cose perché non mi sentivo in grado di farlo.
Ultimamente ho avuto occasione di pensare (ebbene sì gente: ho imparato a pensare!) parecchio su molte cose diverse, e credo che questa storia sarà un ottima occasione per scrivere qualcosa di un po’ più maturo (almeno ci proviamo!).
 
Ok, ho finito con i pensieri seri, passiamo a quelli più frivoli.
Allora, vi ho stupite? Vi aspettavate uno scontro all’ultimo sangue? E invece no, forse dopotutto abbiamo a che fare con due bravi ragazzi ù_ù
Forse è un po’ arrogante da parte mia chiederlo, ma sarei curiosa di sapere il vostro parere su quei due loschi figuri (bè per il momento Kai è poco più di un soprammobile, ma comunque…), visto che, sarò sincera, sono entrambi un po’ un esperimento.
Ma di loro vi parlerò meglio più avanti :)
 
Vi chiedete perché gli spazi autrice diventino sempre più lunghi?
E’ perché sono un po’ logorroica, proprio come Satch (quanto mi è mancato scrivere di lui!), e poi perché quando leggo una storia mi piace anche chiacchierare con le autrici, e una volta tanto che l’autrice sono io voglio chiacchierare un po’ con voi à_à
Ma come sempre, sentitevi libere di ignorare i miei sproloqui XD
 
Ultima cosa, prometto: aggiorno oggi perché non sono sicura di riuscire ad aggiornare la prossima settimana come avevo promesso di fare, quindi ho pensato che nessuno sarebbe rimasto deluso se avessi anticipato la pubblicazione di qualche giorno ^^
 
Vi lascio davvero, ora, e filo ad aggiornare anche Ace in Wonderland.
Grazie per l’attenzione, a presto! :*

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Capitolo 3
*** Second chance ***


Second chance


«Perché? »
«Cosa?»
Finsi di non capire, smettendo di sistemare alcuni oggetti sul comodino e voltandomi verso Kai.
«Sai a cosa mi sto riferendo.»
Rispose, mentre si appoggiava allo schienale della sedia e mi osservava con quello sguardo strano, quello che mi rivolgeva sempre quando credeva che io avessi fatto qualcosa di assolutamente azzardato ed insensato.
«No che non lo so.»
Continuai a sostenere, spalancando gli occhi con aria innocente.
«Fall.»
Mi richiamò, accigliandosi.
«E va bene, va bene, ho capito.»
Mi arresi con un sorriso:
«Volevo solo vedere come avrebbe reagito, tutto qui, volevo soltanto capire chi avevo davanti.»
Kai continuò a guardarmi, assumendo un’espressione rassegnata.
Mi incupii appena: sapevo cosa stava pensando, e sapevo anche che no l’avrebbe mai detto ad alta voce.
Ma, se lo avesse fatto, ero certo che sarebbe suonato un po’ come “Non c’era alcun bisogno di ostentare tutta quella spavalderia”.
«Dopotutto, non è successo nulla, ci siamo soltanto presi una bella lavata di capo da Marco.»
Mi giustificai con un sorriso.
«Non cambierai mai.»
Rispose, sorridendo a sua volta, con quella che interpretai come un’affermazione ma che, dal tono in cui era stata pronunciata, sarebbe anche potuta essere una domanda.
«Non credo proprio. E, anzi, se anche posso cambiare, spero di non rendermene mai conto.»
 

*

 
«Dimmi che stai scherzando!»
Mi grattai la nuca con aria dispiaciuta, a disagio, mentre un sorrisetto forzato mi tirava le labbra:
«…Veramente no.»
Fui costretto a rispondere, confermando le sue paure.
Chinò il capo, sconfitta e rassegnata, sospirando rumorosamente.
«Stupidi pirati…»
Si lamentò con un filo di voce Mikami, pronunciando quella che ormai era diventata una frase di rito.
«Dai, non è poi così grave! Ci sono tanti altri pirati, ti accorgerai a stento della loro presenza.»
Esclamai, cercando di consolarla.
«E poi, ci sono io.»
Aggiunsi, sfoderando uno dei miei migliori sorrisi maliziosi, accompagnato da uno sguardo intenso e penetrante.
«Lo so…»
Sussurrò lei di rimando, sollevando il volto per tornare a guardarmi negli occhi e sorridendo a sua volta.
Si alzò in punta di piedi e mi prese piano il viso tra le mani, avvicinando il suo finchè i nostri nasi non si sfiorarono.
Come sempre, la sua pelle era fredda, mentre i suoi polpastrelli mi solleticavano le guancie.
«Per fortuna, tu ci sei sempre.»
Mormorò a fior di labbra, mentre il mio sorriso si addolciva, un attimo prima che la sua bocca si posasse sulla mia.
«Ahhh, beata gioventù!~♥»
Una voce sognante e nostalgica, di cui non mi fu affatto difficile immaginare il proprietario, fece trasalire Mikami.
Con un movimento repentino ed un po’ goffo si staccò da me con un balzo, incrociando innocentemente le dita dietro la schiena e tenendo gli occhi bassi, mentre un pudico rossore le colorava le guancie.
Scoppiai a ridere: sembrava una bambina che aveva appena commesso un misfatto e cercava di passare per innocente, ci mancava soltanto che si mettesse a fischiettare guardando altrove!
Avevo già assistito a scene simili dozzine e dozzine di volte, eppure continuavo a trovarle terribilmente divertenti.
«Nooo, ma perché? Eravate così carini! E poi, non si vedono molte scene del genere sulla Moby Dick. Sarà perché siamo quasi tutti uomini…»
Satch, bellamente accovacciato sul parapetto della Grande Balena, scoppiò in una fragorosa risata.
«Ma si può sapere che cavolo hai da ridere?!»
Gli ringhiò subito contro Mikami, rossa come un pomodoro.
Con un largo sorriso, incrociai la braccia dietro la nuca ed appoggiai la schiena contro la parete ruvida alle mie spalle.
Mi mancavano soltanto i pop-corn (che, detto tra noi, avrei sgranocchiato ben volentieri): era risaputo ormai su tutta la nave quanto fossero strampalati e divertenti gli scontri verbali tra quel pettegolo di Satch e la suscettibile Mikami.
Ah, ma non lasciatevi ingannare dalle apparenze: in realtà, si volevano molto bene quei due.
«Te l’ho mai detto che sei persino carina quando ti arrabbi e arrossisci? Mi ricordi quella signorina che conobbi quando ero giovane – Nina, credo si chiamasse. Era una tanto cara figliola, peccato solo che avesse il brutto vizio di-
«Satch!»
Lo richiamò Mikami, stroncando sul nascere uno dei suoi infiniti racconti che iniziavano tutti con "Quando ero giovane".
«Cosa eri venuto a dirci?»
Tornò a chiedere lei, mentre il rossore piano piano spariva e lasciava il posto ad un broncio infantile.
«…Cos’ero venuto a dire…?»
Satch si sfregò il pizzetto, pensieroso, sforzandosi di ricordare.
Mi schiaffai una manata in fronte, mentre Mikami sbuffava esasperata.
Ma era mai possibile che quel chiacchierone ricordasse alla perfezione fatti accaduti decine d’anni prima e non riuscisse a ricordare cosa era venuto a dire?!
«Oh già!»
Si illuminò all’improvviso, battendo il pugno sul palmo della mano aperta con aria vittoriosa.
«Ero venuto a darti una bella strigliata. Tu… - fece una pausa ad effetto - Tu volevi fare fuori Fall! Sei impazzita! Ed io che avevo anche detto “fate i bravi”! »
Smisi di ridere e lasciai cadere le braccia lungo i fianchi, nel vedere l’espressione di Mikami farsi torva e cupa.
«Non è colpa mia se tu hai portato a bordo un tale simpaticone. E si può sapere perché, tra tutte le flotte, proprio alla seconda lo dovevi assegnare?»
«Perché sì! E poi credevo vi avrebbe fatto piacere averer tra le vostre file due baldi giovani…»
Mugugnò Satch, offeso, mettendo su il broncio a sua  volta.
«Quindi fai la brava. Per davvero, però!»
«Grrr!»
Il ringhio minaccioso che proruppe dalla gola di Mikami mi convinse ad intervenire:
«Non vi dovete preoccupare, nessuno dei due, ci penso io a tenere a posto quei due ed a mantenere l’ordine.»
Affermai con sicurezza, circondando con il braccio destro le spalle di Satch e con quello sinistro Mikami, esibendo un sorriso a trentadue denti mentre quei due continuavano a guardarsi in cagnesco.
«Va bene Ace, mi fido di te.»
Sbuffò infine Satch, incapace di portare rancore a lungo, sciogliendosi in un sorriso.
«Neh, vado a cercare Kai e Fall, così gli faccio fare il giro della nave.  Bye bye!»
Esclamò allegramente, già dimentico dell’arrabbiatura, mentre si dirigeva sottocoperta verso i dormitori.
Mi voltai verso Mikami, che invece era ancora imbronciata:
«Dai, è Satch, lo sai com’è, si prende a cuore ogni nuova leva. Non prendertela con lui.»
Chinai il viso, per arrivare a guardarla negli occhi.
«E vedrai che anche quei due si daranno presto una calmata.»
«Non importa, se ci sei tu, posso sopportarli.»
Dichiarò, fissandomi negli occhi, mentre anche il suo broncio si distendeva in un sorriso luminoso.
Non potei che sorridere a mia volta e presi fiato per risponderle, per dirle che era davvero bello quando riusciva a mettere da parte la sua natura schiva e rivelare cosa provava per me, che avrebbe dovuto farlo più spesso, e che anche io provavo le stesse cose...
Ma lei mi precedette:
«Oh! Devo andare un attimo da Marco. Ci vediamo dopo!»
E così dicendo, con l’aria di una persona che si è appena ricordata una cosa davvero importante, mi schioccò un lieve bacio sul collo prima di voltarsi ed iniziare a correre verso la cabina della Fenice.
Rimasi un attimo spiazzato da quel brusco cambiamento.
«…Ti voglio bene anche io!»
Urlai, ridendo, nella sua direzione, un attimo prima di vederla sorridere e voltare l’angolo.
 

*

 
«Avanti.»
La porta si aprì con uno schianto e Mikami si precipitò all’interno della stanza.
«Scusascusascusascusascusascusascusa!»
Iniziò a cantilenare con il capo chino ed i palmi delle mani aperti sulle ginocchia, tanto velocemente che mi ci vollero alcuni secondi per riuscire a capire cosa stesse dicendo.
«Ancora? Ti ho già ditto che non è successo niente. Comunque accetto le tue scuse, se questo ti fa sentire meglio.»
Smise di scusarsi, riprese fiato ed alzò il viso fissandomi negli occhi.
«Sicuro? Davvero?»
«Sì, smettila.»
Sorrisi scuotendo la testa, divertito.
Finalmente, sembrai convincerla.
Lasciò andare un sospiro di sollievo:
«Ora mi sento meglio.»
Sorrise a sua volta.
«…Ma non ho capito bene cosa sia successo tra te e quel ragazzo.»
Aggiunsi corrugando le sopracciglia, lievemente confuso.
Che fosse un po’ impulsiva, lo sapevo.
E anche che fosse un po’ suscettibile, è vero, ma non mi sembrava plausibile fosse diventata così aggressiva senza un motivo.
Spalancò gli occhi e schiusa le labbra, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca.
Corrugò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, pensierosa, tornando a guardarmi con un’ espressione indecifrabile qualche secondo dopo.
«…Lui cosa ha detto?»
Poggiai il gomito sul tavolo ed il viso sulla mano:
«Non è stato molto chiaro. Ha detto qualcosa sul fatto che gli fosse sfuggita la situazione di mano e che avesse parlato troppo. E si è anche scusato.»
Mikami annuì piano, pensierosa.
«Qualcosa del genere…»
Confermò.
«Senti…»
Esordì, prendendo posto davanti a me.
«…Che impressione hai avuto di lui?»
Chiese, osservandomi attentamente.
Pacatamente, mi sfregai il mento con il dorso della mano.
«Mi è sembrato… furbo.»
Mikami annuì nuovamente, con maggiore convinzione.
«Non so ancora esprimere un giudizio sulla sua intelligenza, ma di sicuro fa un po’ troppo il furbo per i miei gusti. Non mi fido di lui.»
Sottolineò l’ultima frase con uno sguardo intenso, probabilmente in cerca del mio appoggio.
«Perché? Non è ancora un crimine essere intelligenti. E’ troppo presuntuoso, ma stai certa che un paio di giorni tra di noi e cambierà.»
Risposi con un sorriso conciliante, tornando ad appoggiare placidamente il viso sulla mano.
«Non è un crimine, però…»
Ammise, anche se poco convinta.
«Tu ti fidi di lui?»
Scrollai le spalle:
«Perché no? E’ uno dei nostri, adesso, e come tutti gli altri è innocente fino a prova contraria. Mi fido e continuerò a farlo, a meno che non accada qualcosa che mi faccia cambiare idea.»
«Sì, forse hai ragione.»
Disse piano, sfregandosi il collo con la mano come faceva ogni volta che si sentiva a disagio.
Tirai ad indovinare: stava pensando che Ace si era fidato di lei quando ancora era un marine, e che quindi non ci fosse motivo per cui le non dovesse fidarsi di uno dei suoi fratelli.
Tuttavia, non le chiesi se avessi indovinato o meno cosa le passasse per la mente.
«Hai ragione.»
Ripetè dopo qualche altro attimo, stavolta più convinta.
Le sorrisi, felice che avesse deciso di dare una seconda occasione a quei due ragazzi.
Dopotutto eravamo i Pirati di Barbabianca, ed era risaputo che il Babbo desse una seconda opportunità praticamente a chiunque, come l’aveva data a lei, ad Ace… a me.
E quindi perché noi, suoi figli, non avremmo dovuto fare altrettanto?
Mi fece davvero piacere averla convinta.
«Grazie, Marco.»
Disse Mikami con un sorriso, a cui io ricambiai prontamente.
«Allora vado, torno da Ace. Ciao, e scusa ancora!»
Aggiunse, un attimo prima di chiudersi la porta alle spalle mentre io alzavo la mano in un muto segno di saluto.
 

*

 
Mi imbattei in Kai non appena ebbi lasciato la cabina di Marco, andando quasi a sbattergli contro.
Balzai indietro, colta di sorpresa da quell’incontro.
E, più che sorpresa, mi sentivo terribilmente imbarazzata, nonché confusa riguardo il comportamento da tenere nei suoi confronti.
Lui mi fissò intensamente per un istante con i suoi occhi chiari, attentamente, prima di parlare:
«Ciao, ti stavo cercando.»
Aveva una voce bassa e pacata, quasi monocorde.
«Hem… Ciao.»
Risposi, sfregandomi nervosamente il collo, a disagio, mentre il mio sguardo guizzava di qua e di là per non incontrare il suo.
«Volevo soltanto chiederti scusa per prima.»
Disse, andando subito al punto, notando probabilmente che non stavo proprio morendo dalla voglia di intavolare una conversazione con lui.
«Non importa, poi tu non hai fatto nulla.»
Mi affrettai a dire con un sorriso di circostanza, in realtà non molto convinta che mi importasse così poco di quel “piccolo incidente”.
Ma, del resto, lui davvero non centrava nulla.
E, ad ogni modo, avevo promesso a Marco che avrei dato una seconda chance, ad entrambi.
Kai sorrise gentilmente:
«Fai finta che sia stato Fall a scusarsi.»
Corrugai le sopracciglia, cercando con scarsi risultati di mascherare il mio scetticismo.
Il Leone era una specie di portavoce?
Non mi sembrava molto… come dire… decoroso, chiedere ad altri di scusarsi al proprio posto.
Ma preferii non controbattere.
Dopotutto, dovevo cercare di andarci d’accordo, e discutere di cosa fosse o meno onorevole non mi sembrava proprio un buon inizio.
«Hum…Allora va bene.»
Mi sforzai di accettare le sue scuse, desiderosa soltanto di tornare da Ace.
Non ci avrei certo scommesso, e invece il Leone ebbe la delicatezza di capire il mio disagio, e si congedò rapidamente:
«Sono lieto tu abbia accettato le nostre scuse.»
Concluse con un breve sorriso, accennando un inchino e voltandomi le spalle, mentre si dirigeva verso la sottocoperta.
Ora che mi dava la schiena, non mi curai più di nascondere la mia perplessità, osservandolo apertamente con curiosa mentre si allontanava.
Era un pochino… strano.
Se non altro, sembrava più simpatico e trattabile di Fall.
E, del resto, stando sulla Moby Dick, ci avevo fatto il callo, ai tipi strani; uno in più o uno in meno non avrebbe certo fatto la differenza.
Iniziai davvero a credere che forse, dopotutto, non sarebbe stato così tragico avere quei due come compagni di flotta.
Forse, avrei continuato a non sopportare Fall, ma Kai… forse, una seconda occasione, la meritava davvero.


Spazio autrice:
Woah, scusate il ritardo!  >_<
Non vi annoio coi dettagli, ma sono state due settimane piene.... Da adesso in poi dovrei essere praticamente sempre a casa, davvero davvero stavolta.
Passando al capitolo...
Ebbene! Marco è il solito bravo ragazzo calmo e tranquillo, ed ho immaginato che, non avendo assistito al dialogo dello scorso capitolo tra Fall e Mikami, non avesse nessun motivo particolare per non fidarsi di lui :)
E riguardo la storia delle seconde occasioni... bè, ricordo bene il flashback in cui Ace si unisce alla ciurma, quando Marco gli dice che Barbabianca li ha accettati quando tutto il resto del mondo li considerava dei buoni a nulla, quindi mi sembrava una riflessione appropriata.
E.. si bè ecco, mi scuso perchè il capitolo è un po' cortino, ma ho già fatto aspettare troppo e non volevo protrarre oltre l'attesa: mi rifarò con il prossimo :)

Nel prossimo capitolo!
Ace avrà una conversazione a quattr'occhi con Fall: riusciranno a discorrere da persone normali o qualcuno si troverà con il sedere in fiamme?

Curiosità (giusto perchè ho voglia di chiacchierare XD)!
Molte di voi, nella storia precedente, avevano commentato il nome che avevo scelto, Mikami (sarà perchè ve l'ho tenuto nascosto per i primi capitoli XP), quindi voglio svelarvi perchè Mikami si chiama Mikami.
All'inizio doveva chiamarsi come un mio vecchio personaggio, Miyuki, ma poi mi sono resa conto che avevo già usato quel nome come nickname, e non volevo darlo anche al mio persoaggio originale.
Perciò, ho pensato ad un altro nome giapponese che iniziasse con la M (ho una fissa per quella lettera, cosa ci volete fare? il nostro caro Marco ne sa qulacosa XP), e mi è venuto in mente quel cartone fighissimo che guardavo da bambina: Mikami l'acchiappafantasmi. ù_ù
Ho subito capito che era il nome giusto, anche perchè nei miei ricordi quella donzella era davvero tosta, e mi sarebbe piaciuto che anche il mio personaggio fosse tosto ù_ù
Ecco, ora lo sapete ù_ù

Lo so, divento sempre più logorroica, è colpa di Satch, mi fa male scrivere di lui <3
A presto gente :*

P.S.:in tempo utile aggiornerò anche Ace in Wonderland, promesso! >_<

 

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Capitolo 4
*** It's just a talk ***


It's just a talk


«E così, tu sei Ace.»
 
Mi voltai sorpreso, al suono di una voce maschile.
Uno dei due ragazzi appena arrivati, quello moro, comparve al mio fianco. Fece leva sulle braccia e si sedette agilmente sul parapetto della Moby Dick, osservandomi con un ampio sorriso.
 
Sorrisi a mia volta, colto di sorpresa. «Sono proprio io», confermai.
 
Non sapevo chi dei due avessi davanti, se Fall o Kai, non essendo stato presente quando Satch li aveva presentati. Il ragazzo sembrò notare il mio lieve smarrimento: «Sono Fall» disse, tendendomi la mano.
 
«Piacere».
 
Gliela strinsi, provando una lieve punta di fastidio nel realizzare che era quello il ragazzo che irritava Mikami.
Aveva una stretta forte ed avvolgente.
 
«Ahm, mi dispiace per l’incidete di prima, non era mia intenzione» fece lui con un sorriso colpevole, accorgendosi probabilmente del cambiamento nel mio sguardo. «Ho tirato un po’ troppo la corda, non volevo provocare nessuno, davvero.»
 
Mi rilassai, lasciando che il mio sorriso si ampliasse: dopotutto non era così difficile entrare a far parte della lista nera di Mikami, forse c’era realmente stato solo un piccolo malinteso e, del resto, lei sembrava più turbata per aver ferito per sbaglio Marco che per quello che era successo con quel ragazzo.
Poi, Makino mi aveva insegnato che era scortese non accettare le scuse di qualcuno realmente dispiaciuto per ciò che ha fatto.
 
«Può succedere». Scrollai le spalle. «L’importante è non continuare a commettere gli stessi errori… Soprattutto quando tocca a me sistemarli» aggiunsi con un sorriso sornione.
«Oh, già! Questo mi fa venire in mente una cosa. Non so se lo sai già, ma tu ed il tuo amico, da oggi in poi, siete parte della mia flotta».
 
«Sì, Satch ci ha già informati» rispose, continuando a sorridere. «Allora... Comandante... qual è il programma?»
 
Sbattei un paio di volte le palpebre, provando una punta di confusione di fronte al suo sguardo sveglio ed estremamente interessato.
 
«Programma?»
 
«Sì, programma. Intendo… cosa fanno i temuti Pirati di Barbabianca di solito? Andiamo alla ricerca di valorosi uomini che si uniscano alla flotta? Conquistiamo nuovi territori, nuove isole? Andiamo a caccia dei pirati nemici per sbarazzarci della concorrenza?...O cerchiamo il One Piece, il leggendario tesoro di Gol Roger?»
 
Sentire il  suo nome, il nome di quell’uomo,detto con una tale noncuranza, mi paralizzò.
 
«…No? Non è questo che fanno i Pirati di Barbabianca?» Domandò Fall, confuso dalla mia reazione.
Parlò lentamente, cautamente quasi, scrutandomi a fondo.
 
Mi sentii improvvisamente indifeso e, per un fastidiosissimo secondo, ebbi la sensazione, anzi, no, quasi la certezza, che quel ragazzo dallo sguardo così strano potesse indovinare il motivo del mio nervosismo.
Mi ripresi in fretta, cercando di dissimulare la mia tensione, sforzandomi di concentrarmi su qualcosa che non fosse quel bastardo di mio padre.
Padre... mi veniva difficile anche solo pensare a quell’aggettivo da accostare al suo nome.
L’unico padre, quello vero, l’unico che meritava che io mi rivolgessi a lui con quel titolo, era Barbabianca.
E nessun’altro.
 
«Scusa, stavo pensando ad un'altra cosa.»
 
Mi giustificai con un sorriso tirato, cercando di prendere tempo e di recuperare le fila del discorso.
Mi grattai nervosamente la nuca, rimpiangendo amaramente di non aver nessun cappello la cui  falda potesse nascondere il mio sguardo, non essendo ancora riuscito a sostituire il mio, valorosamente caduto nella battaglia contro Smoker alcuni mesi prima.
 
«Non importa…» disse Fall, che sembrava aver improvvisamente perso interesse nei miei confronti e si era fatto pensieroso, mentre i suoi occhi si fissavano su un punto imprecisato del ponte.
 
«Comunque, al momento non abbiamo nessun programma, come dici tu, particolare. Solo un po’ di relax.»
 
«Oh, capisco.» Rispose, tornando ad alzare lo sguardo su di me, con le sopracciglia scure inarcate per la sorpresa.
 
«C’è qualche motivo particolare per questa domanda?»
In realtà la sua domanda mi sembrava più che legittima, ma temevo che se fossi rimasto in silenzio non sarei riuscito a distrarre la mia mente dal pensare a lui.
Così, invece, continuando quella conversazione leggera che non mi costringeva a pensare, riuscii in breve a levarmi di dosso le sensazioni che ogni volta mi procurava anche soltanto sentire il suo nome, tornando presto di buon umore.
 
«Mh…No, al momento no, ero soltanto curioso.» Rispose, dopo una breve esitazione.
 
Corrugai le sopracciglia.
«”Al momento”?»
 
Crollò le spalle con un sorriso furbo e sfuggente, scendendo dal parapetto con un colpo di reni ed atterrando morbidamente sul ponte, quasi senza far rumore.
 
Capii che intendeva andarsene.
 
«Hey!» protestai, «Non puoi gettare il sasso e ritirare la mano! Rispondimi».
 
«Nulla di importante, davvero». Scosse il capo con un sorriso. «Era solo per dire.»
 
Feci per protestare nuovamente, ma lui mi precedette.
 
«Arriva compagnia», commentò con un sorriso lieve.
 
Volsi lo sguardo nella direzione che Fall mi indicava, e vidi Mikami venire verso di noi.
Quando scorse il ragazzo, si fermò, spalancando gli occhi ed assumendo un espressione indispettita, tanto che per un istante credetti che avrebbe fatto dietrofront e sarebbe tornata sui suoi passi.
 
Invece si riprese in fretta, tornando ad avvicinarsi.
Addirittura accennò un sorriso, anche se chiaramente non era molto convinto.
 
«Temo di aver un’innata abilità nel farmi odiare». Commentò Fall, abbastanza piano da non farsi sentire da lei.
Esibiva lo stesso sorriso furbo e lievemente canzonatorio di poco prima, ma per un attimo mi sembrò di udire nelle sua parole una punta di amarezza.
Ma, chissà, aveva parlato tanto piano che avrei anche potuto essermi sbagliato.
 
«Hum… ciao» esordì poco convinta Mikami, ormai prossima a noi, mentre il suo sguardo incerto sfuggiva quello di Fall e cercava il mio.
 
Le sorrisi, puntando le mani sui fianchi. «Allora, sei a posto adesso? Sistemato con Marco?»
 
«Sì, ora credo davvero di aver sistemato tutto.» Rispose, mentre il suo sorriso si faceva più sicuro.
 
«Mi sa che rischio di fare il terzo incomodo» fece Fall, dopo aver spostato un paio di volte lo sguardo da lei a me.
 
Ci voltò le spalle, e mosse un paio di passi.
 
«Oh, e scusa, di nuovo» aggiunse, rivolto a Mikami, reclinando appena la testa di lato per sbirciare la sua espressione.
 
Lei sembrò sorpresa.
«Hem… non fa nulla…» rispose con un sorriso un po’ nervoso, o forse imbarazzato, dopo qualche istante. «…Credo che il tuo amico ti stia cercando» soggiunse subito dopo, riuscendo a stabilizzare il suono della propria voce su un tono cortese ma distaccato.
 
«Già, immagino di sì» commentò Fall, tornando a darci le spalle. «Andrò a cercarlo», concluse.
 
Affondò le mani nelle tasche delle braghe e riprese ad allontanarsi, senza aggiungere una sola parola di più.
 
Lo seguii con lo sguardo, finchè non svoltò l’angolo.
 
«Allora?» Domandò Mikami ansiosa, recuperando il solito tono di voce, mentre si stringeva al mio fianco e, a sua volta, osservava il punto in cui era appena scomparsa la figura del ragazzo.
 
Feci spallucce.
 
«Non lo so, è un po’ strano. Non sono riuscito ad inquadrarlo molto bene.»
 
«Nemmeno io, ad essere sincera. Ora sembrava già molto diverso da quando gli ho parlato… sì, bè, prima.» Rimase in silenzio per qualche istante. «Gli hai detto qualcosa?»
 
«No, in realtà no. E’ stato lui a venire da me, a chiedermi come occupano di solito il tempo i Pirati di Barbabianca». Feci una pausa. «Ma, in realtà, non ho avuto l’impressione che gli interessasse davvero la risposta a quella domanda.»
 
«No?»
 
«No. Magari si annoiava, e ha pensato che fare conoscenza con me potesse essere un modo come un altro per ammazzare il tempo.»
 
«Può essere» ammise. «Anche l’altro ragazzo è un po’ strano, comunque.»
 
«Il biondo?»
 
«Sì. Pensa che quando sono uscita dalla stanza di Marco mi sono imbattuta in lui, che ha insistito tanto per scusarmi a nome di Fall.»
 
Risi. « Davvero?»
 
«Già.»
 
Rimanemmo entrambi in silenzio per qualche secondo.
 
«Sai, sembra proprio che tu avessi ragione: pare che Fall si sia già calmato» fece lei dopo un po’, guardandomi con un sorriso sollevato.
 
«Regola numero uno: Portgas D. Ace ha sempre ragione. Non lo sapevi?» affermai con un sogghigno sicuro.
 
«Ahhh?? Ma piantala! Potrei stare qui tutto il giorno ad elencarti tutte le volte che ti sei sbagliato su qualcosa e anche così non sarebbe che una piccola parte di tutti i tuoi errori!» Esclamò ridendo, dandomi una spinta giocosa.
 
«Ma che dici? Dimmi almeno tre cose su cui ho sbagliato.» La sfidai, mentre il mio sogghigno si ampliava.
 
«Ti accontento subito!» esclamò, accettando subito la sfida. Corrugò le sopracciglia e socchiuse gli occhi, mettendosi chiaramente a pensare ad un mio errore da citare.
 
Colsi al volo l’occasione.
 
«Visto? Non ti viene in mente nulla! Invece io non devo nemmeno starci a pensare un secondo, per farmi venire in mente qualche esempio» feci, vittorioso. «Esempio numero uno: avevo detto che saremmo andati d’accordo, io e te, e così è stato. Esempio numero due: avevo detto che ti saresti unita ai Pirati di Barbabianca, e così è stato. Esempio numero tre: avevo detto che…» rimasi spiazzato, non ricordando un altro esempio.
Ma, ci tengo a farlo presente a tutti, il mio era soltanto un vuoto momentaneo, perché ne avrei potuti trovare a bizzeffe di esempi che provassero la mia teoria; avevo soltanto bisogno di pensarci un attimo…
 
Mikami prese fiato, pronta sicuramente a ribattere qualcosa, e così io mi ritrovai a dire la prima cosa che mi passava per la mente per impedirle di replicare.
 
«Avevo anche detto che pane burro e marmellata è un ottimo abbinamento, e quando finalmente ti sei decisa a provare hai dovuto ammettere che, anche in quell’occasione, avevo ragione!»
 
Okay, forse non era esattamente la cosa più intelligente che potessi dire, ma al momento proprio non riuscivo a farmi venire in mente nient’altro.
 
Se non altro, la mia uscita bizzarra la spiazzò.
 
Sbattè un paio di volte le ciglia, con la bocca ancora aperta.
 
«Sei un caso senza speranza» esalò infine, lasciando cadere il mento contro il petto, avvilita.
 
«Lo so che non sai perdere ma, per favore, non fare quella faccia!» La presi in giro, fiero ed orgoglioso della mia vittoria.
 
«Ma cosa centra perdere o vincere? Ti sto solo compatendo» borbottò, scuotendo la testa.
 
«Ho vinto io, in ogni caso» affermai, imperterrito. Sospirai e mi passai una mano tra i capelli, tornando serio. «Cosa facciamo oggi?»
 
Mikami sollevò il viso, pensierosa. «Mhhh, non lo so. Ma dormire mi sembra una buona opzione.»
 
«Ancora?! Ma se ci siamo appena alzati!»
 
Scrollò le spalle, sbuffando. «Uffa. E va bene, allora proponi qualcosa tu.»
 
«Vediamo…» rimasi pensieroso per alcuni istanti, rendendomi conto che, in effetti, sulla Moby Dick non c’era un gran che da fare. «Prendiamo lo Striker e andiamo a fare un giro!» esclamai, illuminandomi.
 
La mia proposta sembrò attirare la sua attenzione.
 
«Non male come idea» ammise, rivolgendomi un ampio sorriso.
 
«Visto? Lo dicevo io, che non sbaglio mai.»
 
«Ma fammi il favore!» rise, appoggiando i gomiti al parapetto della Moby Dick, osservando l’oceano. «E poi, sembra proprio che oggi sarà una splendida giornata.»
 
«Lo sarà senza dubbio.»
 
«Allora è deciso. C’è qualche isola nei dintorni?»
 
Mi appoggiai a mia volta al parapetto e rivolsi lo sguardo al cielo limpido, riflettendo. «Non saprei, non conosco benissimo questa zona, ad essere sincero…». Feci una pausa. « Bè, non ci rimane altro da fare che scoprirlo allora!»
 
«Biblioteca?»
 
«Certo, lì troveremo di sicuro qualche navigatore disposto ad aiutarci.»
 
Con un ampio sorriso mi diressi così verso quel luogo, subito seguito da Mikami che trotterellava allegramente alle mie spalle.

Spazio autrice:
Buonaseraaaaaaaa!
Eccomi con l'aggiornamento :)
Ho voluto cambiare un po' l'impaginazione del capitolo, perchè quella che uso di solito non mi sembra più adatta: questa mi sembra più pratica ed efficace ^^
In realtà avrei diverse cose da dire, ma siete fortunate: oggi ho già scritto tanto, e quindi ve le risparmio XD
Vi dico solo una cosa: questi primi capitoli sono soltanto di introduzione, dal prossimo scoprirò alcune delle mie carte e la storia inizierà a mettersi in moto :)
A presto ragassse! :*

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Capitolo 5
*** What I look for ***


What I look for



«C’è da dire, che è tutto piuttosto calmo e tranquillo qui» sospirai, incrociando comodamente le braccia dietro la nuca.
 
«Cosa ti aspettavi?» chiese Kai divertito, mentre la sua testa bionda faceva capolino dalla branda posizionata sopra la mia.
 
«In realtà, non lo so bene nemmeno io» ammisi, corrugando le sopracciglia. «Ma credevo… Mh, beh, non importa» conclusi, socchiudendo gli occhi e girandomi su un fianco.
 
«Non credi che dovremmo alzarci? L’alba è già passata da un bel po’» .
 
Sospirai, e mi diedi un rapido sguardo intorno: nel dormitorio erano rimasti soltanto una decina di pirati che, avendo badato alla nave, vele e timone la notte, al momento dormivano scomposti e russavano sonoramente.
 
«Forse… o forse no. Sono passate due settimane da quando siamo arrivati, e tutto ciò che sembrano fare questi uomini è mangiare, dormire, bere, festeggiare, e bere e mangiare di nuovo. All’inizio l’idea di non fare nulla tutto il giorno era anche allettante, ma sta diventando un po’… noioso. Decisamente, noioso. Forse, dopotutto, dovremmo andare a fare due chiacchiere con il nostro… hem… Comandante.»
 
«Sembra davvero ti faccia uno strano effetto dire quella parola» commentò Kai, nuovamente divertito.
 
«Sai com’è, di solito sono io quello che dà gli ordini. E’ un duro colpo per il mio orgoglio» sospirai.
 
«Sopravvivrai.» Accennò un sorriso. «Quando eri tu il capitano rischiavamo ogni giorno l’osso del collo, davvero ti dispiace così tanto qualche giorno di riposo?»
 
Gli lanciai uno sguardo minaccioso. «Punto primo, io sono capitano, non ero. Solo non lo sono di questa nave.»
Mi misi a sedere, contrariato, mentre per un attimo l’idea di afferrarlo per la collottola e scaraventarlo giù dalla sua branda mi attraversa la testa. Sarebbe stato un bel volo, un paio di metri e poi giù, per terra, a baciare il pavimento di legno duro. Allettante, ma forse sarebbe stata una reazione esagerata, anche per uno come me.
Mi limitai a squadrarlo con fare torvo. «Punto secondo: stai forse insinuando che non facevo – cioè, faccio – bene il mio dovere? Mi sembra che dopotutto abbiate ancora la testa attaccata al collo, tu e gli altri ragazzi». “Anche se alcuni di voi starebbero meglio senza, non c’è alcun dubbio”, aggiunsi mentalmente.
 
Kai sollevò entrambe le mani mostrandomi i palmi aperti, in un segno di muta resa, un lieve sorriso che ancora aleggiava sul suo volto abbronzato.
 
Alzai gli occhi al cielo, irritato. In linea di massima era fantastico avere tra i propri uomini qualcuno come lui, docile, obbediente e fedele come un cagnolino, ma giuro che certe volte avrei proprio voluto che mi contraddicesse dicendomi in faccia quello che pensava, anziché limitarsi a sorridermi e sventolare bandiera bianca.
 
Sospirai. Ma perché mi sentivo così dannatamente frustrato e litigioso? Avrei pagato anche un milione di berry pur di trovare un modo per distrarmi, per trovare qualcosa da fare in quei giorni piatti e noiosi, che scorrevano tutti uguali.
Oggi sarebbe stato uguale a ieri, all’altro ieri e al giorno prima ancora. E sarebbe stato anche uguale a domani, a dopodomani e via dicendo.
 
Non ce la potevo fare.
Nella mia disperazione, avevo anche pensato di azzuffarmi con alcuni degli altri pirati, ma considerando ciò che era accaduto il primo giorno con la ragazzina tigre, avevo preferito evitare.
 
Ne avevo abbastanza.
 
«E va bene, alziamoci» affermai, mettendomi a sedere sul ciglio del letto.
 
«Hai deciso? »
 
«Sì, qui è una noia mortale. Vediamo se riesco a movimentare un po’ la situazione…». Mi alzai in piedi, stiracchiandomi pigramente, e mi vestii alla svelta.
 
«Vieni con me?» feci, rivolto a Kai.
 
Fece segno di sì con la testa, mentre finiva di prepararsi a sua volta.
 
«Molto bene. Andiamo a cercare Ace allora» affermai, finendo di abbottonare la camicia ed uscendo dal dormitorio, imitato da Kai.
 
 

*

 
Sbirciai furtivamente le carte che avevo ricevuto, per l’ennesima volta, e altrettanto velocemente le rimisi sul tavolo, coperte.
 
Donna di cuori, tre di picche, jack di fiori, donna di quadri, otto di cuori.
 
Mi sforzai di rimanere impassibile, mentre ricontrollavo le carte comunitarie scoperte fino a quel momento. Asso di cuori, dieci di picche, sette di fiori, due di fiori.
Deglutii.
Eravamo rimasti in gioco soltanto io, Satch e Willas, ma sentivo che questa sarebbe stata la volta buona. Andiamo: non avevo fatto altro che perdere fino a quel momento, la fortuna prima o poi sarebbe anche dovuta girare no?
 
«Me ne tiro fuori» sbottò Willas con un’imprecazione rumorosa, lanciando le sue carte a terra e alzandosi bruscamente.
 
Satch ghignò «Siamo rimasti solo tu ed io, caro Ace!». «Tanto lo so che stai bluffando, vecchio» risposi imbronciato, di fronte alla sua spavalderia. Mi augurai di non avere torto.
 
“Un kappa o un nove, un kappa o un nove, un kappa o un nove!” era tutto ciò di cui avevo bisogno per vincere.
Incrocia le dita sotto il tavolo mentre, lentamente, veniva scoperta l’ultima carta comunitaria.
 
Un sei di fiori.
 
Oh, al diavolo.
Se non altro, avevo comunque una coppia di donne: tutto ciò che dovevo fare era augurarmi che Satch stesse davvero bluffando, e che non avesse in mano nulla.
 
«Giù le carte ragazzo!» esclamò con entusiasmo il capitano in quarta.
 
“Sta bluffando, sta bluffando, sta bluffando!”
 
«Coppia di donne» affermai, con la sgradevole sensazione che non sarebbe stato nemmeno vagamente sufficiente a farmi vincere la mano.
 
«Coppia di assi! ~♥» Gorgheggiò Satch con uno smisurato sorriso, mostrandomi l’asso di fiori e quello di picche che facevano bella mostra nella sua mano.  «Per chiamarti Asso ed essere stato comandante dei pirati di picche, devo dirti che hai proprio poca dimestichezza con le carte!» mi canzonò.
 
Ignorai l’ennesima battutina, mi alzai e, scuro in volto, mi allontanai dal tavolo di gioco.
Ace Pugno di Fuoco? Ace Sfiga Nera, avrebbero dovuto chiamarmi.
Stupida fortuna, e ancor più stupida sfortuna.
 
Guardai torvo Satch che incassava la vincita. «Avanti, chi di voi ragazzacci ha abbastanza fegato da sfidarmi?» stava dicendo. «Willas? Non vuoi la rivincita? Ike, Gory, Ned, Jon, non volete nemmeno fare un tentativo? Aaaaavantii! Ma siete pirati o siete conigli? ~♥ Oh! Fall, Kai! Almeno voi, vi va una partita con il vostro vecchio Satch?»
Sentii Fall, alle mie spalle, rispondere con la sua voce bassa «Grazie Satch, ma per stavolta passiamo.»
 
Sbuffai e mi allontanai dal tavolo da gioco, decidendo che per quel giorno ne avevo decisamente abbastanza di incassare sconfitte su sconfitte.
 
«Hey!» A quel richiamo mi voltai, sentendo una mano che si posava sulla mia spalla.
 
«Oh, ciao Fall. Kai.» Mugugnai, voltandomi ed incontrando i volti dei due ragazzi.
 
Fall il Lupo Nero, nel vedere la mia espressione affranta, sogghignò. «Satch ti ha fatto a pezzi».
Mi rabbuiai ulteriormente, senza prendermi la briga di rispondere. Dopotutto, la sua non era nemmeno una domanda.
 
«Sarai stufo ormai di giocare a poker.» commentò, con un ennesimo ghigno divertito.
 
«Ci puoi giurare. Se almeno riuscissi a vincere qualche volta sarebbe tutta un’altra storia, ma così… è frustrante.» Fall annuì convinto.
 
«Quindi se, ipoteticamente parlando, io avessi un metodo alternativo per passare il tempo, tu potresti essere interessato?»
 
Mi feci attento, incuriosito dalle sue parole e attratto dal luccichio improvviso che si era acceso nei suoi occhi. Sogghignai. «Diciamo che, ipoteticamente parlando, sì, poterebbe interessarmi.» Lo studiai per qualche istante. «Beh, dipenderebbe tutto dalla natura di questo ipotetico passatempo.»
 
Rise. «E va bene. Diciamo, allora, che stiamo parlando di una caccia al tesoro.»
 
Corrugai le sopracciglia, osservandolo con un espressione tra il divertito e lo scettico. Era da… quanto? Beh, sicuramente un bel po’ di anni che non partecipavo ad una caccia al tesoro, considerando che l’ultima volta era stato con Rufy e Sabo e, sinceramente, nemmeno morivo dalla voglia di rispolverare quel vecchio gioco da bambini.
 
Ma decisi comunque di stare al gioco, giusto per vedere dove Fall voleva andare a parare. «Suppongo dipenda tutto dalla natura del tesoro, in questo caso.»
 
«Aye, mi sembra una risposta più che legittima.» concordò Fall, ampliando il sogghigno e mettendo in mostra una lunga fila di denti candidi che non poteva fare a meno di ricordarmi il suo soprannome, Lupo Nero.
 
«Il One Piece» disse soltanto, mentre una luce sinistra brillava nei suoi occhi profondi.



Spazio autrice
Su le mani! Quante di voi mi avevano data per dispersa? Quante per morta?
Scherzi a parte, come potete notare sono viva, e vi devo un sacco di scuse per la lunga, lunghissima attesa. Ma proprio tante scuse, una valanga di scuse.
Mi scuso anche per il fatto che il capitolo in questione è un po' corto, l'unica giustificazione che posso darvi è che, se avessi voluto allungarlo, vi avrei dovuto far aspettare ancora, e ho preferito evitare, visto che prima di tutto ciò che volevo era farvi sapere che sono tornata.
E poi, dopotutto, credo di aver detto più cose in questo capitolo che in tutti gli altri messi assieme, nonostante la lunghezza ridotta XD

In effetti, mi sono sempre chiesta perchè ci fossero così poche fic sull' One Piece visto che, teoricamente, questo fantomatico tesoro è il fulcro dell'anime, perciò ho deciso di scrivere io stessa qualcosa in proposito.

Come ultima cosa, vorrei ringraziare chi vorrà seguire la storia nonostante la smisurata attesa e chi magari ha appena iniziato a leggerla ma, soprattutto, ci tengo a ringraziare Sherry21, Titty89 e _Michiko_, che avendomi scritto chiedendomi se volessi aggiornare ancora mi hanno dato la carica e ridato la voglia di arrivare in fondo alla storia, grazie davvero!

Da ora in poi sarò più presente e puntuale, aggiornerò almeno una volta ogni 2 settimane (mi piacerebbe di più una alla settimana, ma non posso promettervelo), prometto :)

Di nuovo, scusate l'attesa! :*

 

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Capitolo 6
*** Let's get it started ***


Let's get it started



«Il…One Piece » ripetei incredula.
 
I miei occhi scivolarono da un viso all’altro, passando dall’espressione perplessa di Ace, a quella compiaciuta di Fall, a quella indifferente di Kai. «Ma… siete sicuri? » domandai, perplessa.
 
Mi mancavano le parole.
 
Del resto, cosa bisognava rispondere quando uno – per di più un novellino, arrivato da chissà dove per chissà quale motivo – ti informava, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, di sapere con certezza dove si trovasse il One Piece?
 
«Assolutamente » mi rispose Fall con fierezza, senza un attimo di esitazione, con un sorriso compiaciuto stampato sul volto.
 
«Quel One Piece? Il leggendario tesoro di Gol D. Roger? Il tesoro del Re dei pirati? » continuai, sempre più esterrefatta, provocando nel moro risa di scherno. «Ragazzina, quanti altri One Piece conosci? »
 
R- ragazzina? Nessuno mi chiamava in quel modo.
 
Un tempo, Smoker mi chiamava così.
 
Ma era stato prima.
 
Prima che conoscessi Ace, prima che diventassi un pirata, prima che diventassi parte della famiglia di Barbabianca. Erano passati due, forse tre mesi, ma a me sembrava che fosse trascorso tanto, forse troppo tempo, era quasi il ricordo di un’altra vita. Erano stati due mesi, ma lunghi quanto una vita intera.
 
«Mikami. Il mio nome è Mikami. » lo ammonii, lanciandogli uno sguardo torvo. Fall fece spallucce, tutt’altro che impressionato dal mio astio, quasi come se non avesse sentito nulla. « Come dicevo sì, è di quel One Piece che sto parlando, non credo ne esistano altri.» riprese, per nulla turbato.
 
«E come fai a sapere dove si trova? » si intromise Ace. Aveva le sopracciglia corrugate e un’espressione scettica negli occhi, notai, mentre maledicevo mentalmente lo stupido lupo.
 
Strano.
 
 Ace… beh, mi sarei aspettata di vederlo fare i salti di gioia, di fronte ad una notizia del genere.
 
In fondo, uno dei suoi pregi più grandi era quello di sorridere sempre e comunque, e di riuscire ad essere felicissimo per cose che, se fossero accadute ad una persona normale, a stento le avrebbe notate.
 
Quindi non capivo.
 
Era del One Piece che stavamo parlando, del tesoro più famoso e ricercato di tutti e sette i mari, del sogno di ogni pirata, di ciò che milioni di persone desideravano più di qualunque altra cosa! Persino io, pessimista e cupa com’ero, avrei voluto mettermi a fare i salti di gioia!
 
E allora perché lui aveva quell’espressione così… così poco entusiasta, così poco da Ace?
 
Ma conservai le mie domande per dopo, quando fossimo rimasti solo io e lui.
 
«Come si fa a trovare un tesoro? Con una mappa » rispose Fall, con voce bassa e il suo usuale tono, tra il canzonatorio e lo spavaldo.
 
«E dove l’avresti trovata questa mappa? »
 
«E’ una storia lunga. E noiosa, molto noiosa. Diciamo semplicemente che l’ho trovata. » tagliò corto il moro, con un sogghigno furbo che non mi piacque nemmeno un po’ e, anzi, mi procurò un brivido freddo lungo la schiena.
 
«E cosa ti fa credere che sia realmente il One Piece? » insistette Ace.
 
«Ho le mie motivazioni » rispose Fall, imperturbabile.
 
Ace scosse la testa, con un sospiro e un sorriso sghembo. « Quindi abbiamo un novellino che sostiene di sapere dove si trovi il One Piece, sostiene di essere in possesso della mappa che ci guiderà al tesoro, ma si rifiuta di dirci dove l’ha presa o che cosa lo rende così sicuro che sia autentica.» Rimase a fissare Fall a braccia conserte. « Non sembra un grande affare.» concluse infine.
 
« Ammetto che, vista in questa prospettiva, l’impresa che ti sto proponendo possa apparire un azzardo – concesse lui – ma a giudicare dal modo in cui giochi a poker, sembri uno che non ha paura di azzardare», sogghignò.
 
Anche Ace sogghignò. « Può essere, ma giocare a poker e imbarcarsi in un’impresa del genere sono due cose profondamente diverse. Se non altro, per il semplice fatto che, nell’azzardo che tu mi proponi, è coinvolto anche il mio equipaggio, i  miei uomini, ed essendo io il loro comandante, ho verso di loro delle responsabilità che non posso prendere tanto alla leggera. »
 
Mentre Ace diceva queste parole, un ampio sorriso comparve sulle labbra di Kai, il primo vero sorriso che gli vedessi fare. Era rivolto a Fall e, quando questo se ne accorse, lo fulminò con uno sguardo truce.
 
Certo che quei due erano proprio una strana accoppiata, qualunque cosa quel muto scambio di sguardi stesse a significare.
 
« Non è necessario che partecipi l’equipaggio al completo. Spiega ai tuoi uomini la situazione e chiedi loro di scegliere autonomamente se vogliono azzardarsi a cercare il One Piece o se invece preferiscono rimanere qui, a oziare e farsi spennare come galline da Satch, a poker o a qualunque altro gioco» suggerì Fall, lasciando perdere Kai e il mezzo sorriso che ancora aleggiava sul suo volto.
 
Ace ghignò. « Sono uomini coraggiosi e orgogliosi, e nessuno di loro si tirerebbe indietro.»
 
« E allora dov’è il problema?»
 
« Che potrei finire col mettere comunque in pericolo le loro vite.» gli rispose lui, semplicemente.
 
L’espressione di Fall si fece scura, mentre un ghigno incurvava le sue labbra e i suoi occhi si accendevano come fuochi. « Che pirata è un pirata che non osa rischiare?» chiese.
 
« Un pirata saggio.»
 
«O un pirata codardo. »
 
I due rimasero a fissarsi per qualche istante, muti.
 
Forse, sarei dovuta intervenire.
 
Avrei dovuto dire a Fall che era un idiota, che non sapeva niente, e di chiudere la fogna che aveva al posto della bocca. L’avrei volentieri preso a calci e sbattuto fuori dalla cabina di Ace, lui e quella sottospecie di cagnolino ammaestrato che gli faceva da ombra.
 
D’altronde… d’altronde, Ace era anche il mio comandante. Decisioni del genere spettavano a lui e a lui soltanto.
 
E, soprattutto, era orgoglioso: non avrebbe accolto volentieri il mio andargli in aiuto. E poi avevo imparato a fidarmi di lui e sapevo che, effettivamente, non aveva bisogno di alcun aiuto per rimettere a posto un novellino troppo spavaldo.
 
Quindi, per quanto mi bruciasse, mi imposi di stare zitta e buona al mio posto, lasciando che se la vedessero loro due.
 
Osservai Kai. Anche il suo ruolo sembrava quello di starsene buono e zitto al fianco di quello che, più che un amico, sembrava il suo capitano e padrone.
Mi attraversò un brivido di ribrezzo quando mi venne da domandarmi se, agli occhi degli altri, anche io non apparissi come lui, una sorta di cagnolino ammaestrato che ubbidiva ciecamente ad Ace.
 
Mi augurai sinceramente di no.
 
« E va bene, lasciamo stare i miei uomini» cedette Ace, distraendomi dai miei pensieri e riportandomi alla realtà. « Perché dovrei fidarmi ciecamente di ciò che mi hai detto?»
 
« Perché non hai alcun motivo per non farlo» rispose dolcemente Fall con un sorriso innocente, facendo riecheggiare nella mia mente le parole di Marco di un paio di settimane prima: “E’ uno dei nostri, adesso, e come tutti gli altri è innocente fino a prova contraria. Mi fido e continuerò a farlo, a meno che non accada qualcosa che mi faccia cambiare idea.” .
 
Ritenere chiunque degno di fiducia fino a prova contraria, in pratica. Mi sembrò curioso che Fall e Marco, così diversi, così incredibilmente diversi, sembrassero pensarla allo stesso modo.
 
Per quel che mi riguardava, era sempre stato l’opposto.
 
Io non mi fidavo degli altri per principio, a meno che non mi dessero un buon motivo per farlo.
 
Ma, come avevo imparato molto in fretta, nella ciurma di Barbabianca – no, nella famiglia di Barbabianca – molte cose funzionavano al contrario.
E, per quanto io fossi scettica e pessimista per natura, non potevo negare che fino a quel momento avessero sempre funzionato. E probabilmente avrebbero continuato a farlo.
 
Fino a prova contraria, ovvio.
 
«Tuttavia, il vero motivo per cui dovresti farlo è un altro » proseguì Fall. «Dovresti imbarcarti in questa impresa perché non hai nulla da perdere, e tutto da vincere. E poi, sei un pirata. Nessun pirata che si rispetti rinuncia a dare la caccia ad un tesoro, soprattutto se è ghiotto come quello di cui stiamo parlando» concluse, con un sorriso candido.
 
Se non altro, bisognava ammettere che fosse un buon oratore.
 
Ace si sfregò il mento con una mano, pensieroso.
 
«”Faremo di Barbabianca il Re dei pirati!”. Non è una specie di motto per voi?» continuò Fall, battendo il ferro fintanto che era ancora caldo.
 
Ace sembrò non notare di come avesse detto “per voi” anziché “per noi”, ma a me quel piccolo dettaglio non sfuggì. E non mi piacque per niente.
 
«E se questo è anche il tuo, di sogni… beh, allora avere il One Piece ti tornerà utile.» concluse con un sorriso affilato.
 
«Non si può certo dire che tu non sappia come convincere le persone ad unirsi alla tua causa» commentò Ace con un sogghigno. «Devo ammettere che il tuo ragionamento non fa una grinza.»
 
Rimase in silenzio per qualche istante. «E va bene. Partiamo. Anche io sono stanco di rimanere qui a non fare nulla. E poi, diciamocelo… Non ce la faccio davvero più a sopportare Satch» concluse con una risata divertita.
 
Uno smisurato sorriso splendente comparve anche sul volto di Fall, chiaramente soddisfatto di essere riuscito nella sua impresa. «Sapevo che non mi avresti deluso, Comandante
 
«Molto bene, allora più tardi andrò a parlare con il Babbo e con gli altri, e deciderò quando partire.»
 
Il Lupo Nero annuì convinto, mentre il suo sorriso, se possibile, si faceva ancora più ampio. «Bene, allora noi vi lasciamo. Buona giornata!»
 
In quel momento il sorriso di Fall era così ampio e solare, caldo quasi, che sarebbe anche potuto apparire un ragazzo carino e simpatico. Certo, a patto che non lo si avesse prima sentito parlare in quel modo ad Ace.
 
Comunque, lui ed il suo cagnolino biondo se ne andarono, contenti e soddisfatti (anche se, a dire la verità, l’espressione di Kai non lasciava trasparire nulla, se non la solita abituale calma e compiacenza).
 
Quando finalmente la porta della cabina si chiuse alle loro spalle, mi lasciai cadere sul letto, rilassando tutti i muscoli che, fino a quel momento e senza quasi accorgermene, avevo tenuto contratti ed in tensione.
 
«Finalmente se ne sono andati!» esclamai con un sospiro di sollievo.
 
Ace sospirò a sua volta, sedendosi di traverso sul letto, al mio fianco. «E’ stata una tortura. Faccio schifo quando si tratta di portare avanti delle lunghe discussioni come questa. Io sono per l’azione, non per le parole» sbuffò, poggiando la nuca contro il muro.
 
«Oh, giusto» ricordai, mettendomi a sedere a gambe incrociate «Com’è che ti ha dovuto convincere?» domandai incuriosita, chinando la testa di lato. «Conoscendoti, credevo che appena avessi sentito anche solo nominare il One Piece saresti balzato in piedi urlando di gioia, e a me sarebbe toccato legarti bello stretto per impedirti di prendere lo striker e partire alla volta del tesoro seduta stante» gli rivelai, non riuscendo a trattenere una risatina.
 
Sorrise, grattandosi la nuca, lievemente a disagio «Beh…» iniziò a dire, ma poi si interruppe e rimase zitto.
 
«Va tutto bene?» domandai perplessa, con un velo di preoccupazione nella voce. Che si sentisse male, forse?
 
«Sì sì!» si affrettò a rispondermi, «è solo che mi sarebbe piaciuto rimanere qui con gli altri ragazzi ancora un po’ prima di partire di nuovo» spiegò con un sorriso.
 
«Sicuro che sia solo questo?»
 
Vero che sapessi quanto Ace fosse legato a Barbabianca, Marco, Satch e tutti gli altri, ma eravamo già sulla Moby Dick da più di due mesi, anche a me sembrava fosse arrivato il momento di andarcene un po’ in giro solo noi, solo la seconda flotta.
Sebbene mi rendessi conto che il mio parere, in quanto ultima arrivata – non più ultima ormai, ma penultima in realtà – potesse contare soltanto fino ad un certo punto.
 
Nonostante ciò, rimaneva il fatto che anche a me sarebbe piaciuto partire, ed imbarcarci in qualche avventura. La mia prima avventura da pirata.
 
Ma mi guardai bene dal dirlo ad Ace.
 
Se lui preferiva rimanere con il Babbo e gli altri, se aveva cambiato idea e non voleva più inseguire il One Piece o, quanto meno, non voleva farlo nell’immediato futuro, io sarei stata dalla sua parte.
 
«Sì, certo.»
 
«Guarda che, se c’è qualche motivo per cui non vuoi andare, o semplicemente non ti va, non sei obbligato a correre comunque dietro al One Piece» lo rassicurai.
 
Drizzò la testa e mi lanciò uno sguardo malandrino. «Sono Portgas D. Ace, nessuno mi obbliga a fare nulla che io non voglia fare » affermò, con un sogghignò spavaldo. «E se dico che voglio partire, significa che voglio partire!» continuò gonfiando il petto con orgoglio.
 
Sorrisi. «Ora sì che ti riconosco.»
 
«Ora che ci penso, effettivamente, non hai ancora vissuto nessuna grande avventura, come pirata. E ciò non è affatto bene» asserì, investendomi con i suoi occhi nerissimi e vivaci, incantandomi con quel suo sorriso da ragazzino dispettoso.
 
«Già! Questo sarà il mio battesimo del fuoco.»
 
«Fuoco? Per questo non serve il One Piece, ci penso io» sogghignò, avvicinandosi a me con un rapido movimento felino, sfiorandomi il collo con le labbra.
 
«Mi fai il solletico!» ridacchiai, inclinando il capo per lasciargli spazio. Strinsi le braccia attorno alle sue spalle, sentendo i suoi capelli neri e ondulati che mi solleticavano la pelle mentre la sua bocca mi accarezzava – no, scottava quasi.
 
«Allora, renderemo Barbabianca il Re dei pirati?» gli chiesi in un bisbiglio, mentre le mie dita scorrevano morbide sulla sua schiena tracciando il contorno della Jolly Roger.
 
«Renderemo Barbabianca il Re dei pirati» confermò Ace, gli occhi e la voce carichi di determinazione, un attimo prima di sollevare il viso e baciarmi.
 
 
 
 
 
Il resto della giornata trascorse tranquilla, mentre io sonnecchiavo sottocoperta e sfogliavo pigramente le pagine di un vecchio libro che avevo trovato in biblioteca, ed Ace organizzava la partenza con gli altri comandanti.
 
«Non gliel’ho detto» biascicò poi il pirata a cena, affondando nel suo solito modo da selvaggio i denti in un cosciotto d’agnello, riuscendo a sporcarsi con la salsa della carne tutte le guance fin quasi alle orecchie.
 
«Cosa?» domandai, piluccando distrattamente con le dita un po’ di formaggio dal mio piatto, senza quasi prestare attenzione all’abbuffarsi di Ace. Stando con lui, era la prima cosa a cui avevo fatto il callo.
 
«Del One Piece» rispose, senza smettere di mangiare, cacciandosi in bocca un pezzo di pane nero grosso quasi quanto il mio pugno. Lasciai perdere il formaggio e lo guardai perplessa. «Cosa?! Perché no?»
 
«Shh, abbassa la voce! Non gliel’ho detto perché, se lo sapessero, vorrebbero venire tutti.»
 
Non capii. «E dove sarebbe il problema?»
 
Ace sospirò, smettendo per un attimo di ingozzarsi e facendosi serio. «Capisco che tu sia eccitata all’idea di trovare il leggendario tesoro ma, parliamoci chiaro, quante possibilità ci sono che sia davvero il One Piece? Forse una su un milione, a voler essere ottimisti. Sarebbe un inutile spreco di tempo ed energie, per non parlare dei pericoli in cui ci si potrebbe imbattere.»
 
«E cosa gli hai detto allora?» chiesi, non ancora convinta.
 
Ace scrollò le spalle. «Semplicemente, che mi andava di fare un giro. Anzi, per la precisione, ho detto che ci saremmo presi una vacanza, tu ed io. Altrimenti, non avrei saputo giustificare il motivo per cui non volevo che i miei uomini mi seguissero.»
 
Lo guardai, sempre più perplessa. «E come hai giustificato il fatto che, pur non volendo il tuo equipaggio, ti tiri dietro  Kai e Fall?»
 
Sorrise. «Io questo non l’ho mai detto.»
 
«Perciò…»
 
«Esatto: ci faremo dare la mappa, spiegare tutto ciò che va spiegato, e andremo. E quando torneremo, se la mappa e le altre informazioni saranno corrette, avremo con noi il One Piece» concluse, con una smorfia scettica.
 
«Quindi, se per assurdo ci succedesse qualcosa, nessuno saprebbe dove siamo, se non quei due?!»
 
Ace si offese e mise il broncio, strizzando gli occhi e sporgendo in fuori le labbra come un bambino. «Ti sembro uno che permetterebbe mai che ti accadesse qualcosa?»
 
Mi fece arrossire.
 
«Comunque, Marco sa tutto» ammise dopo qualche istante di silenzio, mentre il suo broncio svaniva nell’istante in cui i suoi denti affondavano nell’ennesimo cosciotto.
 
Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo, sentendomi decisamente più tranquilla ora che sapevo che la Fenice sapeva tutto e quindi, in caso di bisogno, avrebbe saputo dove trovarci.
 
«Tutto quello che ci rimane da fare – biascicò, tra un morso e l’altro – è farci dare la mappa. Voglio partire al più presto.» Annuii convinta, rendendomi conto che, effettivamente, non vedevo davvero l’ora di partire.
 
Terminata la cena, ci mettemmo a cercare Kai e Fall, trovandoli mentre abbandonavano la sala da pranzo, probabilmente diretti ai dormitori.
 
«Non così in fretta» li fermò Ace con un largo sorriso, mentre Fall si girava con espressione incuriosita.
 
Vedendoci, sorrise.
 
«Allora, quando si parte?» domandò ad Ace, senza perdere tempo.
 
«Ancora non lo so, ma presto. E, a proposito di questo… Ho pensato che sarebbe meglio che gli altri non ne sapessero niente, né i pirati semplici né i comandanti. Quindi, andrò senza equipaggio.»
 
Il Lupo lo guardò perplesso, impiegando alcuni istanti a capire che cosa implicasse quell’affermazione. «Stai dicendo che parti senza di noi?» domandò, allibito.
 
«Già» rispose Ace, grattandosi la nuca con un sorriso colpevole.
 
«Non vorrei deluderti, Comandante, ma temo che sarà impossibile fare come tu dici» replicò Fall, con un’espressione che era quanto di più vicino possibile al dispiaciuto gli avessi mai visto in viso.
 
Anche se, non ne dubitavo, fosse profondamente e totalmente falsa.
 
«Perché?» domandò Ace, corrugando le sopracciglia. Sapevo che la sua testa era dura almeno quanto la mia: un testone come lui non gliela avrebbe data vinta tanto facilmente.
 
Questo pensiero mi fece sentire un po’ meglio.
 
«E’ un po’ imbarazzante, ma… Io non ho mai detto di avere una mappa. Ho detto di conoscere la mappa, è diverso.»
 
Ace socchiuse gli occhi, cercando di capire dove volesse andare a parare.
 
«Ho effettivamente avuto la mappa per un certo tempo, questo non lo nego, ma poi sono stato costretto a disfarmene. Perciò ora non è più in mio possesso, non nel senso fisico del termine, ecco. Ma è tutto qui» affermò, picchiandosi la punta dell’indice sulla tempia. «Ho memorizzato tutto.»
 
Soltanto a fatica, mi trattenni dall’imprecare ad alta voce.
 
Sapevo cosa significava questo: se volevamo arrivare al One Piece, Fall il Lupo Nero sarebbe dovuto venire con noi.
 
Ma cosa avevo fatto di male? Perché capitavano tutte a me?
 
«In questo caso, mi dovrò inventare qualcosa per giustificare la vostra presenza ai comandanti e al resto dell’equipaggio…» disse Ace, pensieroso ma nient’affatto preoccupato. «Oh, beh, mi inventerò qualcosa.»
 
Quando tornò a guardare Fall, Ace aveva sul viso un largo sorriso sornione.
 
«Ricapitolando…Non vuoi dirmi dove hai trovato la mappa e non hai più nemmeno nessuna mappa da mostrarmi, né vuoi dire cosa ti rende così sicuro che sia proprio il One Piece, il tesoro che troveremo. Ma non importa, alla fine non sono domande realmente importanti. C’è però una domanda davvero importante… » Il suo sorriso si fece affilato. «Insieme a tutte queste informazioni dalle origini misteriose, sai anche che cosa è, il One Piece?»
 
Fall ricambiò lo sguardo profondo di Ace con un sorriso furbo.
 
«Qualcuno dice che sia una nave inaffondabile, capace di solcare qualunque mare e di resistere anche alla tempesta più feroce.
Qualcuno dice che sia un raro frutto del diavolo, il più raro, e che chi lo mangerà acquisirà poteri tali da poter sbaragliare tranquillamente il possessore di qualunque altro frutto esistente.
I meno fantasiosi sostengono che sia un tesoro di oro, gioielli e diamanti, così grande e prezioso da poter abbagliare un uomo con il proprio splendore.
I più sentimentali dicono che sia qualcosa di banale, di valore nullo per qualunque uomo, ma prezioso come nient’altro per Gol D. Roger: una foto della donna amata. »
 
Scosse la testa divertito. «E tu, Ace? Tu cosa pensi che sia?» gli domandò, con un sorriso pungente.
 
Ace era improvvisamente impallidito ed aveva contratto la mascella, diventando rigido come un tronco.
 
Poi, accorgendosi che tutti lo stavamo fissando incuriositi da quella reazione improvvisa, cercò di mascherare il proprio stato d’animo.«Nessuna nave è più resistente della Moby Dick, e nessun uomo sarà mai più forte del Vecchio» disse, con una risata che suonò forzata. «Per quel che mi riguarda, il One Piece potrebbe anche essere un forziere vuoto, e non farebbe alcuna differenza. Tutto ciò che conta è che, una volta ottenuto, renderà Barbabianca il Re dei pirati. »
 
Continuai a rimanere in silenzio, senza tuttavia capire come mai i modi di Ace fossero diventati così bruschi tutto d’un tratto.
 
Fall fece spallucce, con il solito sorriso di chi la sa lunga dipinto sul viso. « Io so cos’è in realtà il tesoro.»
 
Rimanemmo entrambi zitti, ammutoliti, in attesa che il Lupo Nero svelasse il mistero.
 
«Non chiedermi come faccio a saperlo, perché anche questa è una storia lunga e noiosa. Quello che ti posso dire, è che il One Piece è… la Vita Eterna.»
 
 
Spazio autrice:
Yaiiiii sono riuscita ad aggiornare questa settimana! Sono fiera di me stessa :D
Okay, delirio a parte, ecco il ritorno di Mikami :)
Riguardo il modo un po’ strano in cui Ace reagisce parlando del One Piece, ho immaginato che per lui la faccenda fosse un pochino più complessa del  “troviamo il tesoro a tutti i costi”, essendo il tesoro del suo odiato padre. Ma di questo parlerò meglio nei prossimi capitoli, sfruttando il punto di vista di Ace stesso.
E vi aspettavate di scoprire cosa fosse il tesoro nelle ultime righe dell’ultimo capitolo? E invece no, Fall è incredibilmente informato, ma certo non vi rovinerò la sorpresa svelandovi com’è che sa tutte queste cose XD
Riguardo la faccenda del voler evitare di prendere su tutto l’equipaggio della seconda flotta per evitargli inutili rischi, forse l’Ace di Oda non ci avrebbe pensato, ma io l’ho voluto rendere un po’ più maturo e responsabile (dopotutto anche nell’anime non è completamente disinteressato alla salute dei suoi uomini, visto che cmq quando parte per l’impresa kamikaze di vendicare Satch lo fa da solo). Anche se, alla fine, credo che almeno 2-3 persone se le prenderà su, adesso vedrò come gestirmela :)
 
Ah, avrei una domanda tecnica da porvi: siccome questa storia potrebbe diventare alquanto lunghina, preferireste capitoli più lunghi in numero minore, o più capitoli ma più corti?
Io proprio non riesco a decidermi!
Se sopravvivo a tutti questi maledetti esami, ci sentiamo tra un paio di settimane  ^^

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Capitolo 7
*** I still smell the fear ***


I still smell the fear


Il gatto.
 
Quello stupido dannato gatto.
 
Puntuale come sempre, alla mezzanotte del primo giorno del mese.
 
Quello stramaledetto gatto, con il pelo color pece e gli occhi di un viola così profondo da sembrare nero.
 
Puntualissimo mi stava aspettando, elegantemente seduto sul mio letto, con la lunga coda che si agitava appena, come a rimproverarmi del mio ritardo. Era mezzanotte passata da cinque minuti.
 
Mi fermai davanti a lui.
 
Mi guardò, chiuse e riaprì lentamente gli occhi viola, ammiccò. “Ti stavo aspettando”, sembrò dire. Ma poi non lo disse, perché ovviamente i gatti non parlano.
 
E anche questo gatto non parlò.
 
Non parlò, finché, ammiccando nuovamente nella mia direzione, incurvò le labbra nere in un sogghigno scarlatto.
 
E allora, solo allora, iniziò a parlare.
 

«Sul fondo del mare le figlie della Luna incoronate
Di alghe rosse e brune
Vegliano il loro tesoro,
E acqua che affoga è la loro voce
E veleno che uccide sono le loro parole.
 
Ma sul fondo del mondo la Signora Nera attende
 il suo dono,
E acqua che disseta è la sua voce
E unguento che salva sono le sue parole.
 
Non attardarti nelle camere del mare
A cacciare il tesoro della Luna.
 
Undici anni son passati
E nessuno più ne rimane da trascorrere,
Due mesi ancora devono passare
Ma dieci già son trascorsi e
Sul fondo del mondo sono diventati polvere che scorre
Tra le dita della Signora Nera.»

 
E poi tacque.
 
Con un balzo soffice atterrò sul pavimento scuro, ammiccò un’ultima volta, e scomparve tra le ombre nere e lunghe come il suo manto, senza un suono.
 
 
Mi svegliai all’improvviso, madido di sudore e con il cuore che martellava come impazzito nel petto.
 
Mi misi a sedere, gli occhi spalancati che frugavano in ogni angolo buio del dormitorio.
 
“Era un sogno. Un sogno, solo e soltanto uno stramaledetto sogno.”
 
Ma l’illusione finì presto. Perché sapevo, che non era solo un sogno. Non era mai solo un sogno.
 
L’illusione finì nel preciso istante in cui i miei occhi sbarrati ne incontrarono un paio viola, luminosi nel buio profondo che regnava sovrano nell’angolo più remoto del dormitorio.
 
Mi fissarono un istante, ammiccarono, e come all’improvviso erano comparsi, scomparvero, diventando sempre più scuri fino a confondersi con le tenebre e sparire.
 
Non ebbi nemmeno bisogno di alzarmi a controllare. Sapevo bene che, se anche avessi ispezionato ogni angolo di quella maledetta nave, non avrei trovato nemmeno l’ombra del gatto.
 
Non ero stupito che mi avesse seguito fin sulla Moby Dick, affatto.

Rimasi immobile, le lenzuola ancora aggrovigliate tra le dita, ascoltando il battere furioso del mio cuore.
 
Ci si sarebbe aspettato che, dopo la bellezza di undici anni, dodici quasi – “undici anni son passati e nessuno più ne rimane da trascorrere, due mesi ancora devono passare ma dieci già son trascorsi” cantilenò istericamente una vocina acuta nella mia testa –, uno dovesse anche farci il callo a certe cose.
 
Eppure non era così, e ad ogni visita di quel maledetto felino sentivo la stessa identica sensazione di terrore della prima volta. No, anzi: era molto peggio ora che il tempo era agli sgoccioli, ora che ogni sua visita significava che quel giorno era sempre più vicino.
 
Non c’era niente che riuscisse a spaventarmi come quel gatto e le sue dannate filastrocche da bambini.
 
“Escluso il padrone del felino” fui costretto ad ammettere con me stesso, mentre un brivido violento mi scuoteva.
 
Una goccia di sudore bollente corse giù lungo il collo e scivolò sul petto. La asciugai con il dorso della mano.
 
Tornai a sdraiarmi.
 
Eccetto il mio respiro ancora affannoso, silenzio.
 
No, un momento… un fruscio? Qualcosa si stava muovendo?
 
Avevo la netta sensazione che ci fosse qualcosa in quella stanza, qualcosa di profondamente diverso e molto più spaventoso, innaturale, dei pirati addormentati.
 
Però sapevo, lo sapevo proprio, ne ero assolutamente certo, che il gatto se ne fosse andato. Come ogni volta, se ne andava immediatamente, una volta riferito il suo cupo messaggio.
 
Ma… se questa volta fosse stato diverso? In fondo, che importava cosa era accaduto durante le precedenti visite? Forse…
 
E poi c’era quel fruscio, ora più lieve ora più insistente, che…
 
Sapevo, che non avrei dovuto farlo. Sapevo, che mi avrebbe fatto stare peggio, ma non riuscii ad evitarlo.
 
Lentamente, con i muscoli tesi come corde di violino ed il respiro che mi moriva in gola, girai la testa.
 
Scrutai il dormitorio buio, trattenendo il fiato per non far rumore.
 
Quasi completamente buio, non c’era nemmeno la Luna nel cielo, dagli oblò filtrava soltanto qualche raggio di luce proveniente dalle lanterne ad olio che bruciavano all’esterno. E silenzioso, fatta eccezione per il ritmico respirare degli altri pirati e per il loro sommesso russare.
 
Niente. Non c’era niente di anormale.
 
Del resto, sapevo che quella bestia infernale se n’era andata. Ma…!
 
Smisi di respirare.
 
… Non era la sua coda quell’ombra scura che dondolava lieve sotto quel letto? No, no, dovevo smetterla, non poteva essere. Sapevo, che se n’era andato.
 
…E non erano i suoi occhi quelle due fessure che scintillavano debolmente su quella branda? Forse…
 
E… cos’era che mi solleticava le piante dei piedi? Forse… forse i suoi baffi? Forse il suo pelo?
 
Non ressi più, e facendo appello a tutto il mio coraggio voltai bruscamente la testa.
 
E niente. Vicino ai miei piedi non c’era niente.
 
Di nuovo niente.
 
Io lo sapevo, sapevo che quel demonio se n’era andato. Ma sapevo anche che questa consapevolezza non mi avrebbe impedito di vederlo in ogni ombra, di sentirlo in ogni fruscio, e percepirlo in ogni alito di vento che entrava dall’oblò aperto e mi sfiorava la pelle bollente. “E poi non si sa mai…” aggiunse timidamente, una vocina flebile flebile nella mia mente.
 
Sapevo, che non sarei più riuscito a dormire.
 
Mi alzai, e al buio infilai le braghe. La fibbia della cintura emise un lieve tintinnio metallico, mentre ci litigavo nervosamente cercando di stringerla. Mi ci vollero quasi una decina di secondi per riuscirci, tra il buio e i nervi a fior di pelle.
 
Rabbrividendo, rivolsi lo sguardo alla branda sopra la mia, cercando di impedire alla mia fantasia di immaginare cosa poteva attendere nel buio.
 
(“Il gatto, il gatto! E’ sopra di te, in agguato, pronto a saltarti alla gola!”)
 
Sospirai di sollievo – anche se, del resto, io sapevo perfettamente che non c’era niente in agguato nelle tenebre – : c’era solo Kai, che dormiva profondamente, senza emettere alcun suono. Ciocche di capelli biondi schiariti dal Sole  gli nascondevano il viso, ed il leggero lenzuolo che gli copriva il petto si sollevava e si abbassava dolcemente al ritmo del suo respiro.
 
Pensai di svegliarlo.
 
Avevo già allungato una mano verso di lui, per scuoterlo, quando cambiai idea.
 
…Come avrei potuto giustificarmi per averlo svegliato in quel modo, appena qualche ora prima dell’alba? Non potevo dirgli del gatto.
 
Sapevo, che lui l’avrebbe capito da solo. L’avrebbe capito nell’istante esatto in cui avesse visto la mia faccia.
 
Ma questo per me non faceva alcuna differenza. Non potevo svegliarlo e basta. Non potevo svegliarlo, ed ammettere con lui che l’avevo fatto perché… avevo avuto paura.
 
Un capitano non dovrebbe mai mostrare le proprie paure ai suoi uomini. Mai.
 
Decisi di lasciarlo dormire.
 
Tuttavia avevo un disperato bisogno di parlare con qualcuno, qualcuno che mi facesse dimenticare di quell’orrido incontro e che mi aiutasse a tornare alla realtà, sperando di riuscire anche a liberarmi dall’orrenda sensazione che il gatto sarebbe potuto nuovamente spuntare fuori dalle tenebre da un istante all’altro.
 
Non persi nemmeno tempo a cercare una maglia o le scarpe.
 
Abbandonai a lunghi passi rapidi e nervosi il corridoio, costringendomi a tenere lo sguardo fisso davanti a me per evitare che la mia fantasia, particolarmente vivida quella sera, continuasse a giocarmi brutti scherzi.
 
Finalmente, arrivai all’aperto, sul ponte principale.
 
Solo allora sentii i muscoli rilassarsi e sciogliersi, mentre l’aria fresca della notte raffreddava la mia pelle ancora bollente.
 
Inspirai a fondo il profumo salmastro e penetrante dell’oceano, iniziando finalmente a sentirmi un po’ meglio. Mi appoggiai al parapetto e mi sporsi verso il mare sottostante, nero e lucido come una pozza di inchiostro, lasciando che i suoi schizzi arrivassero a bagnarmi il viso ed i capelli, mentre il ritmico sciabordare delle onde contro i fianchi della nave mi aiutava a scacciare quell’opprimente senso di inquietudine.
 
Rimanendo lì, con il vento tra i capelli e il mare sulle labbra, sarebbe stato davvero facile pensare che tutto ciò che era accaduto sotto coperta non fosse stato davvero altro che un sogno troppo vivido.
 
Sarebbe stato bello, sì, ma…
 
Scossi la testa tornando ad incupirmi. Erano pensieri completamente inutili, perché sapevo perfettamente che non si trattava di sogni o di incubi.
 
Sapevo, che il tempo stava per finire. Lo sapevo molto bene anche prima che fosse il gatto ad annunciarlo, che ormai ero agli sgoccioli. Del resto, stavo facendo tutto il possibile per-
 
Una mano si posò all’improvviso sulla mia spalla, facendomi sussultare vistosamente e scartare di lato.
 
Avevo ancora la schiena schiacciata contro il parapetto, quando mi resi conto che era soltanto Marco la Fenice.
 
«Non ti ho sentito arrivare» mi giustificai bruscamente. Bella figura avevo appena fatto, lui mi sfiorava una spalla e io per poco non mi mettevo a strillare come una femminuccia. Del resto, non era nemmeno tutta colpa mia se avevo ancora i nervi a fior di pelle.
 
«Scusa, non volevo spaventarti, Fall» replicò pacato l’uomo, che parve non notare il mio disagio.
 
Spaventarmi… Non mi aveva spaventato, mi aveva solo colto alla sprovvista. Non aveva idea di chi aveva di fronte, uno come lui non avrebbe mai potuto spaventarmi, nemmeno… beh, in nessun caso.
 
Repressi il mio disappunto come meglio potevo, serrando i denti e sforzandomi di sorridere, impegnandomi a tenere a freno la lingua.
 
«Sei insonne?» continuò la Fenice con un sorriso misurato, che sembrava continuare a non accorgersi del mio malumore. Forse avrei dovuto ringraziare le tenebre che fino ad un momento prima stavo maledicendo, che gli impedivano di riuscire a scorgere bene l’espressione sul mio viso.
 
«A volte. Stasera sì» risposi, cercando di recuperare l’autocontrollo perduto. «Anche tu?»
 
«Sì, spesso» rispose con un sorriso più accentuato. «E il tuo amico?»
 
«E’ nel dormitorio. Dorme come un sasso sempre e comunque, lui.»
 
«Capisco. Sembra strano trovarti da solo, generalmente, siete sempre insieme.»
 
Mi limitai a scrollare le spalle con un sorriso, non sapendo cosa replicare.
 
«Ad ogni modo, il sole sorgerà tra un paio d’ore, e se non sbaglio tu hai il primo turno alle vele oggi. Ti converrebbe tornare dentro a riposare, anche se non riesci a dormire.»
 
L’idea di tornare là dentro mi raggelò il sangue nelle vene. Ma mi ripresi subito. «Forse hai ragione, ma… credo che rimarrò un altro po’ qui a guardare il mare.»
 
«C’è qualche problema?» domandò la Fenice a bruciapelo, rivolgendomi uno sguardo profondamente interessato, paterno quasi.
 
«No, no» risposi, stavolta senza esitazione. Per un breve, folle istante, pensai di essere sincero, e raccontargli quale fosse effettivamente il mio problema.
 
Pfffff, se glielo avessi davvero spiegato, probabilmente sarebbe scoppiato a ridermi in faccia. Non mi avrebbe mai creduto. E, del resto, io stesso ammettevo che era una storia parecchio strampalata.
 
Nemmeno io avrei mai creduto ad una storia del genere. Se non fosse stato che, piccolo dettaglio, era invece più che vera, verissima, ed io ne avevo vissuto ogni singolo e più piccolo particolare sulla mia pelle.
 
E cosa mi restava da fare, se la verità era incredibile – nel senso letterale del termine, che non poteva essere creduta? Potevo soltanto raccontare una bugia credibile.
 
Quindi, dandomi dell’idiota per aver pensato anche solo per un secondo di potergli raccontare la mia storia, alimenti la mia bugia. «Mi sono addormentato questo pomeriggio e ho dormito più di quanto avrei voluto, perciò ora non ho proprio sonno, e non mi sento nemmeno stanco. Le mie ore di riposo le ho già fatte.»
 
La Fenice annuì, comprensiva.
 
Per un breve istante, ebbi la sensazione che anche Marco stesse mentendo. Non avrei saputo perché, ma avrei potuto giurare che sapeva perfettamente che tutto ciò che gli avevo detto era una bugia, e non solo: mi parve persino che sapesse il motivo per cui stavo mentendo.
 
Di nuovo, mi diedi dell’idiota.
 
Marco non poteva sapere.
 
Era tutta colpa di quello stupido gatto. Così paranoico e nervoso, quasi faticavo io stesso a riconoscermi.
 
Controllo. Dovevo recuperare il controllo.
 
«Hai un bel po’ di cicatrici, eh?» affermò, cambiando argomento e rivolgendomi l’ennesimo sorriso pacato, indicando il mio petto scoperto.
 
Abbassai distrattamente lo sguardo a mia volta, osservando con poco interesse le linee chiare che mi solcavano la pelle. «Quale pirata non ne ha?» replicai con un sorriso. «Beh, giusto, a parte te.»
 
Il suo sorriso si ampliò, ma non ribatté. «E anche quella sembra essere il ricordo di una brutta ferita» aggiunse invece, indicando il mio viso.
 
Automaticamente, sfiorai la lunga cicatrice verticale che mi occupava una buona metà del volto. Al tocco, era lievemente in rilievo. «Già, non è stato divertente» sogghignai, ricordando il modo in cui me l’ero procurata.
 
Mi sarei aspettato che Marco mi facesse altre domande in proposito, e invece rimase zitto, continuando a sorridere tranquillamente. Io feci lo stesso. Magari in un altro momento mi sarei anche divertito ad inventare una storia bizzarra e avventurosa – ma pur sempre credibile, a differenza della realtà – riguardante il modo in cui me la ero procurata, ma quella sera proprio non ero dell’umore, e rifilargli una frottola inutile sarebbe stato più faticoso che piacevole.
 
«Ace mi ha detto che tu e Kai andrete alla ricerca del One Piece con lui e Mikami » disse d’un tratto.
 
Arrivati a quel punto, avrei preferito che Ace non gli avesse detto nulla, lasciandolo nell’ignoranza come diceva di aver fatto con il resto della ciurma. Ma suppongo sarebbe stato davvero chiedere troppo.
 
«Sembra proprio di sì» sorrisi. «Ti unirai a noi?» domandai con falsa innocenza.
 
La Fenice rise, e scosse la testa. «No, no. Ci sono altri compiti di cui mi devo occupare. Con Ace, ve la caverete benissimo da soli» assicurò.
 
«Non ne dubito» dichiarai. Non dovetti fingere quella volta: davvero non dubitavo che, in un modo o in un altro, me la sarei cavata.
 
Comunque, sentirgli dire che non sarebbe venuto con noi fu un vero e proprio sollievo.
 
Non mi piaceva quell’uomo.
 
O meglio... Sì, mi piaceva, ed era proprio questo il problema: avevo la netta sensazione che fosse il tipo di pirata che, nonostante l’aspetto pacato e conciliante, potesse diventare estremamente pericoloso e agguerrito. Non il tipo d’uomo che avrei voluto trovarmi contro come nemico, a conti fatti, proprio per niente.
 
Dovendo scegliere, avrei di gran lunga preferito vedermela con Satch, che era senza ombra di dubbio uno dei pirati più ingenui che avessi mai visto e che anzi, a ben pensarci, sembrava tutto fuorché un pirata. Andiamo: mi ci erano voluti appena dieci minuti per fargli credere che l’idea che io e Kai ci unissimo alla flotta fosse sua, e non si era nemmeno accorto che erano quelle le mie intenzioni fin dall’inizio.
 
Anche Ace sarebbe stato un avversario più facile da affrontare, rispetto a Marco. Certo, forse il frutto della Fenice non eguagliava quello di Pugno di Fuoco come potere offensivo, eppure… Ace mi dava l’idea di essere in tutto e per tutto simile al proprio elemento.
Se lo avessi sfidato probabilmente avrebbe fatto, letteralmente e metaforicamente, fuoco e fiamme, ma dubitavo che si sarebbe disturbato a pensare ad una vera e propria strategia di attacco.
Mi sembrava essere troppo impulsivo ed incontrollabile, non pareva proprio uno che ci andava tanto per il sottile.
 
Invece Marco… Non avrei saputo dire perché mi sembrasse così temibile. Sicuramente il potere che possedeva faceva la sua parte, eppure non mi pareva che si trattasse soltanto di questo.
 
Per certi aspetti, quasi mi ricordava Kai.
 
Ma Kai rimaneva pacato e misurato anche quando combatteva, e generalmente non prestava troppa attenzione a ciò che gli accadeva intorno. Del resto, tutto ciò che volevo da lui era che facesse ciò che gli ordinavo, però…
 
Non c’erano dubbi: ero praticamente certo che fosse la Fenice l’avversario più temibile, anche perché non riuscivo a togliermi completamente di dosso la sensazione che mi stesse studiando e che, a differenza della maggior parte degli altri pirati, avesse fiutato che c’era qualcosa che non quadrava.
 
Certo, anche Mikami l’aveva fiutato, ma lei… non era un problema, ci avrei pensato a tempo debito. Avevo già una mezza idea.
 
Sì, ero convinto che dell’intera nave, soltanto Barbabianca – a cui eravamo stati presentati poco dopo il nostro arrivo, ma che da allora non ci aveva più prestato molta attenzione – sarebbe stato un avversario peggiore di Marco.
 
Mentre ero immerso nei miei pensieri, un uomo apparve da prua, e fece cenno a Marco di raggiungerlo. Questo si congedò da me con un breve cenno del capo, prima di andare incontro all’altro pirata.
 
Sollevai a mia volta la mano, rispondendo al saluto, e tornai a scrutare il mare oltre il parapetto.
 
Passai così ciò che restava della notte, passeggiando avanti indietro sul ponte, andando dalla prua alla poppa, fermandomi di tanto in tanto ad osservare le onde o le stelle.
 
Mi stavo quasi per appisolare su un vecchio barile dalla pancia gonfia che odorava di muffa e salsedine, quando mi accorsi che il riverbero dei primi raggi del Sole stava finalmente iniziando a schiarire l’aria scura della notte.
 
Attesi in silenzio una manciata di minuti, finchè il Sole non comparve all’orizzonte. Sembrava un’affilata falce scarlatta che sorgeva dalle profondità marine per squarciare le morbide nuvole rosa e viola che macchiavano il cielo di un tenue celeste che, guardando più in alto, sfumava nell’indaco e poi nel blu profondo della notte, che pareva proprio non volesse lasciare il posto al giorno nascente.
 
“L’alba” commentai tra me e me, ben lieto di veder sorgere il Sole, augurandomi con tutto il cuore che, assieme agli ultimi stracci di notte nera, facesse piazza pulita anche di ciò che rimaneva delle mie ansie.
 
Nascondendo uno sbadiglio con la mano, mi alzai in piedi e mi diressi verso l’albero maestro, preparandomi ad iniziare il mio turno alle vele, più stanco che mai.
 

*

 
Due giorni dopo eravamo pronti a partire.
 
Alla fine, saremmo partiti in otto: oltre Ace e Mikmai, me e Kai, sarebbero venuti con noi anche un cuoco, un medico ed un paio di altri pirati, di cui non conoscevo i nomi ma che spesso avevo visto durante la mia permanenza sulla Moby Dick.
 
Scaricai con malagrazia l’ultimo barile, colmo fino all’orlo di mele, sulla nave della seconda flotta, e tornai per un’ultima volta sul ponte della nave di Barbabianca.
 
Attesi pazientemente al fianco di Kai, a braccia conserte, mentre i pirati si scambiavano gli ultimi saluti.
 
Barcollai e quasi persi l’equilibrio quando Satch, dopo aver passato un quarto d’ora buono ad abbracciare Ace e dirgli, quasi tra le lacrime, quanto gli sarebbe mancato, ed essere stato respinto da Mikami alla quale avrebbe riservato volentieri lo stesso trattamento, gettò con slancio le braccia al mio collo, lamentandosi a gran voce di quanto Ace fosse crudele nel “portare con sé proprio i miei due nuovi pargoli”.
 
Rimasi così sorpreso e interdetto che quasi arrossii per l’imbarazzo, di fronte a quell’insensata ed esagerata manifestazione di affetto, che solo a fatica riuscii a sopportare.
 
Lo stesso trattamento toccò poi a Kai, che lo subì di buon grado, sorridendo cortesemente e cercando addirittura di rassicurare Satch, dicendogli che con Pugno di Fuoco saremmo stati in buone mani.
 
Repressi un sospiro scocciato. Quanto avrei voluto che quel ragazzo mostrasse un po’ più di carattere di tanto in tanto!
 
Scene simili andarono avanti per altri cinque minuti almeno finchè, finalmente, dopo che anche Barbabianca ebbe adeguatamente salutato i suoi figlioletti, me e Kai compresi, salimmo tutti a bordo della nave della seconda flotta e, dopo qualche minuto ancora in cui i pirati continuarono a urlarsi saluti e raccomandazioni – nonché prese in giro ed insulti amichevoli –, Ace diede il comando di levare l’ancora.
 
Così, finalmente, nel primo pomeriggio, partimmo alla volta del One Piece.
 
Eppure, dopo un soltanto un paio di ore di navigazione, il nostro entusiasmo era già completamente scemato. Era una giornata calda e afosa e anche il vento, favorevole alla nostra partenza, ci aveva abbandonati molto in fretta.
 
La nave procedeva piano, con una lentezza quasi esasperante, lasciandosi svogliatamente cullare dal mare tranquillo e piatto.
 
Pensare di far procedere a remi una nave di quella stazza, essendo poi noi otto soltanto, era a dir poco folle, l’unica cosa che potevamo fare era aspettare pazientemente che il vento tornasse ad esserci favorevole, sperando che quel momento arrivasse il prima possibile.
 
Da quando eravamo partiti, Mikami era sparita da qualche parte sottocoperta e lo stesso aveva fatto il cuoco, infilandosi in cucina a sistemare le provviste che avevamo caricato quella mattina. Il medico, che avrebbe dovuto occuparsi del timone, approfittando della bonaccia l’aveva fissato e si era rifugiato nella sua stanza, e lo stesso avevano fatto anche gli altri due ragazzi.
 
Anche Kai si era rifugiato sottocoperta in cerca di un riparo dal Sole rovente, mentre io vagavo come un’anima in pena da un angolo all’altro della nave, cercando senza successo di capire quale fosse la zone più fresca.
 
Soltanto il comandante non sembrava turbato dal clima torrido e, appena il vento ci aveva abbandonati, si era sdraiato su un amaca in pieno Sole, addormentandosi e mettendosi a russare sommessamente dopo appena un paio di minuti.
 
Chissà, probabilmente il frutto del diavolo che aveva ingerito faceva in modo che non soffrisse né il Sole rovente ne l’aria così calda da essere irrespirabile.
 
Il resto della giornata passò allo stesso modo, e senza che nemmeno un soffio di vento avesse mai nemmeno sfiorato le nostre vele.
 
Osservai il Sole calare dietro il mare, immensamente sollevato, attendendo con impazienza che anche la temperatura calasse, almeno di qualche grado.
 
Ero seduto con la schiena appoggiata all’albero di trinchetto, le gambe incrociate, intendo ad affilare e lustrare la lama delle mie spade, quando Mikami emerse sbadigliando dalla sottocoperta.
 
Vedendomi si arrestò, spaesata, indecisa sul da farsi. Infine dovette decidere che, dal momento che avremmo dovuto trascorrere insieme più tempo di quanto non sarebbe piaciuto ad entrambi, continuare ad ignorarmi sarebbe stato inutile.
 
Mosse qualche passo nella mia direzione, con un sorriso incerto tirato sulle labbra.
 
«Non sapevo fossi uno spadaccino» esordì, mentre i suoi occhi chiari si fissavano curiosi sulle mie lame.
 
«Non c’è stata ancora occasione di presentarvi le mie ragazze.» Sollevai la spada che avevo appena finito di lucidare, lasciando che gli ultimi raggi del sole scintillassero sulla lama ondulata, mentre tenevo la sua gemella in grembo, ancora nel fodero.
 
«Non avevo mai visto spade simili» commentò, avvicinandosi di qualche passo ancora per osservarle da più vicino, mentre la lama splendeva mandando riflessi blu, e la luce del Sole rimaneva intrappolata nelle incisioni minute che la intarsiavano dalla base alla punta.
 
«Sì, questo tipo di spada si chiama kriss, e non è molto comune» confermai, rigirandomela tra le mani. «La particolarità, come puoi ben vedere, è la lama lunga e ondulata, anziché dritta come nelle spade comuni o curva come nelle katane. Sono due spade gemelle, dalle lame nere finemente intarsiate, a doppio taglio, pressoché prive di guardia, con elsa d’osso avvolta in strisce di cuoio per facilitarne l’impugnatura.  »
 
Lei osservava in silenzio, giustamente ammirata. «Che strana, perché la lama è ondulata?»
 
«Nelle spade comuni è dritta per favorire gli affondi, e nelle katane è curva per facilitare i colpi di taglio, ascendenti, discendenti, laterali o diagonali. I kriss sono prevalentemente lame da affondo. Prova a chiedere al medico di bordo perché hanno la lama a biscia… » le consigliai con un sogghigno.
 
Lei mi guardò perplessa, e sembrò non aver afferrato.
 
Sospirai. «Se si sanno usare, posso infliggere ferite profonde e, soprattutto, difficili da medicare. Una lama ondulata lascia una ferita irregolare e asimmetrica, tutt’altro che facile da curare, anche utilizzando dei punti di sutura» conclusi la spiegazione.
 
«Oh» commentò, ritraendosi appena, come se solo allora avesse realizzato che quella che aveva davanti era una spada vera, e non un bel giocattolo.
 
«Non te ne intendi di spade, eh?»
 
«No» ammise «Anche se mi sarebbe piaciuto imparare a maneggiarle.»
 
«Buongiorno» biascicò in quel momento una voce assonnata alle mie spalle e, voltandomi, vidi che Ace si era finalmente svegliato.
 
«Buonasera, ormai. Non avrai mica dormito tutto il giorno!» lo apostrofò subito Mikami.
 
«Ahhhmm… Può essere» ridacchiò in risposta il pirata, con un sorrisetto colpevole. «Carine!» commentò poi con un fischio di ammirazione, notando a sua volta le spade che tenevo in grembo. «Ma quella roba su di me non ha effetto» aggiunse, con un sogghigno sghembo.
 
«Chi ti dice che non siano fatte di algamatolite?» ribattei, con un ghigno di sfida.
 
L’espressione di Ace si raggelò in un istante, facendosi sospettosa.
 
«Lo sono?» domandò, scrutandomi con gli occhi neri ridotti a due fessure. Anche Mikami si fece attenta.
 
«No» risposi, lasciandomi sfuggire una risata di fronte alla loro preoccupazione.
 
Appena avuta la mia risposta, anche Pugno di Fuoco scoppiò a ridere, recuperando all’istante la propria spavalderia, mentre Mikami, pur rilassandosi a sua volta, scuoteva la testa con un sospiro rassegnato.
 
«Comunque, se continuiamo di questo passo, non ti serviranno» riprese Ace, sbuffando rumorosamente. «Se il vento non si decide a soffiare, rimarremo bloccati qui, in mezzo al nulla» si lamentò, mettendo il broncio come un bambino.
 
«E pensa che almeno tu non senti il caldo, un'altra giornata come questa e ci scioglieremo tutti come ghiaccio al Sole» rincarò la dose Mikami, cupa.
 
Mi alzai in piedi, facendo dolcemente scivolare la spada nel fodero di cuoio bollito. «Non disperatevi, prevedo che da domani il vento riprenderà a soffiare.»
 
«Sei un meteorologo?» domandò Ace, speranzoso e incuriosito, mentre Mikami mi osservava inclinando la testa di lato, altrettanto curiosa.
 
Sogghignai. «Beh… Più o meno. Sì diciamo di sì, in un certo senso…»
 
 
Spazio autrice
Yeaaahhh finalmente ce l’ho fatta! Scusate il ritardo, l’esame di genetica mi ha stesa -.-
Ma passiamo alla storia! Come avete potuto leggere, questo capitolo è incentrato su Fall: lo so che non vi piace, ma c’era bisogno che voi iniziaste a conoscerlo un po’ meglio! Del resto credo di avervi anche dato abbastanza spunti di riflessione, soprattutto nella prima parte del capitolo.
Mi rendo conto che al momento vi ho fornito solo informazioni frammentarie e un po’ vaghe ma… vedrete, tutto a tempo debito, per il momento vi basti sapere che Fall ha le sue ragioni per avere una fifa blu del micio con gli occhi viola XD
Giusto per chiarezza: non l’ho inventato io, il kriss è davvero un tipo di spada :)
Beh, credo che per ora sia tutto!
Devo solo informarvi che da questo week-end mi prendo due settimane di vacanze (in realtà forzate, ma sorvoliamo… -.-) quindi in quel periodo la mia attività su efp sarà nulla o cmq molto molto limitata… ma prometto di non sparire più nel nulla, appena tornata inizierò a lavorare sul capitolo per aggiornare il prima possibile.
A prestoooo! :*

 
 
 
 

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Capitolo 8
*** The scent of grandfatherly love ***


The scent of grandfatherly love


Erano ormai passati tre giorni da che avevamo levato l’ancora.
 
Come aveva previsto Fall, dal giorno successivo alla nostra partenza il vento aveva ripreso a spirare, calmo ma costante. Non avevo capito cosa avesse voluto dire quando, alla mia domanda se fosse un meteorologo, aveva risposto “in un certo senso”, ma nemmeno mi importava più di tanto, ad essere sincero. Bastava che il vento soffiasse, e potevo essere felice.
Inoltre, da quando era tornato ad esserci favorevole, anche l’umore della mia piccola ciurma era notevolmente migliorato, in gran parte grazie alla brezza salata che rendeva loro più sopportabile il clima rovente.
 
Però, nonostante questo, mi ero un po’ pentito di non aver preso con me un numero maggiore di uomini. Intendo, non che ce ne fosse bisogno, noi otto soltanto eravamo più che sufficienti per governare la nave, soltanto che, dopo la confusione della Moby Dick, sembrava tutto così vuoto e triste!
 
Anche se, del resto, non si poteva dire che mi annoiassi.
 
Passavo il tempo a cercare di sgraffignare qualunque cosa fosse commestibile dalla cucina per poi passare, ogni volta, l’ora successiva a fuggire dal vecchio Gary, che iniziava a rincorrermi per tutta la nave armato ora di padella, ora di coltellaccio, ora di mattarello, minacciandomi di tagliarmi le mani se avessi provato ad allungarle nuovamente verso le sue provviste – inutile dire che, sordo alle minacce, qualche ora dopo ci riprovavo.
Inutile anche assicurarvi che le mie mani fossero comunque ancora al loro posto.
 
Oppure stavo con Mikami.
 
Dopo una giornata intera passata a cercare di spiegarle le regole del poker, mi ero arreso all’evidenza: sembrava proprio che non riuscisse a farsele entrare in testa. “E’ noioso”, diceva, giocherellando distrattamente con le carte che le davo.
 
In compenso, avevo scoperto che aveva un innato talento per il Black Jack, e che anzi era praticamente imbattibile. Fortuna del principiante, dicevo io.
 
Anche ora, eravamo impegnati in una partita a quattro a Black Jack. O meglio, lo eravamo fino a qualche istante fa: Mikami aveva appena scoperto le sue carte e, tanto per cambiare, aveva un asso e una donna. Un Black Jack.
 
«Di nuovo?!? Non è possibile!» protestò a gran voce Igor il medico di bordo, dando una poderosa manata al tavolo.
Io mi limitai a sospirare rassegnato, mentre Jon, uno dei ragazzi che avevo deciso di portare con me, imprecava a gran voce. «Ma non può essere!» stava dicendo il pirata rivolto a Mikami, «Ma che culo hai?!?»
«Un gran culo» risposi io per lei con un sorrisetto malizioso, poggiando distrattamente le mie carte sul tavolo, senza nemmeno stupirmi della sua ennesima vittoria.
 
«Ace!!» gridò lei, arrossendo e tirandomi addosso l’intero mazzo che, rimbalzando sulla mia testa, sparse sul pavimento tutte le carte in un arcobaleno di cuori, quadri, fiori e picche.
 
«Che c’è? Ho solo confermato che sei incredibilmente fortunata!» cercai di difendermi, mostrando la mia espressione più innocente.
 
«E’ inutile che mi guardi a quel modo, lo so benissimo che sei la persona meno innocente di questo mondo!» protestò guardandomi di sottecchi, con le braccia incrociate sul petto, le labbra contratte in un broncio infantile. «Beh, c’ho provato» sogghignai, scrollando le spalle.
 
«Facciamo un'altra partita?» Chiese Mikami improvvisamente, rivolta agli altri, decidendo di ignorarmi. «No. Devo andare a controllare alcune cose nella mia cabina» rispose Igor, sbuffando irritato. «Anche io me ne tiro fuori. Piuttosto che giocare di nuovo contro di te, vado ad affrontare un Re dei mari completamente disarmato. Sono certo che avrei più possibilità di vincere a questo modo contro di lui che non contro di te» disse Jon, alzandosi ed andandosene con passi pesanti.
 
«Uffa» protestò Mikami, sospirando rumorosamente, accentuando il broncio. Si chinò, ed iniziò a radunare le carte che aveva fatto cadere quando prima me le aveva tirate addosso. «Credevo che la vita di un pirata fosse un po’ più movimentata.»
 
Ridacchiando, mi chinai a mia volta, aiutandola con le carte. «Preferiresti una bella tempesta? Magari poi potremmo naufragare su qualche isola interessante. Oppure vorresti affrontare un Re dei mari, come diceva prima Jon? Pensa, se riuscissimo a sconfiggerlo poi potremmo anche chiedere a Gary di cucinarcelo. Chissà che sapore avrebbe…»
 
«Smettila di prendermi in giro!» protestò a gran voce, tirandomi nuovamente addosso tutte le carte che aveva raccolto fino a quel momento.
 
«Aiah! Smettila!» protestai, seguendo con lo sguardo le carte che si sparpagliavano nuovamente su tutto il pavimento. «Adesso ci tocca raccoglierle da capo…»
 
Si alzò e andò a sbirciare fuori da uno dei piccoli oblò che si aprivano sulla parete di destra della sala comune. «Sono così annoiata, che l’idea di dare una bella pulita a questa nave inizia a sembrarmi quasi allettante» mugugnò, passando un dito sul vetro sporco e pieno di polvere. «E tu sai quanto odio fare le pulizie…» borbottò, incupendosi.
 
Lasciai perdere le carte, incupendomi a mia volta.
 
Ogni tanto, mi chiedevo se lei fosse davvero felice.
 
Non potevo fare a meno di chiedermi, in momenti come quello, se non le capitasse mai di pentirsi di aver lasciato la Marina per diventare un pirata. E per stare con me, alla fine.
 
Le capitava mai di desiderare di poter tornare indietro per comportarsi in maniera differente? Le sarebbe bastato, quella volta in cui avevo affrontato Smoker, schierarsi dalla sua parte, anziché prendere le mie difese. Oppure avrebbe potuto implorare il Vecchio di perdonarla e di riprenderla con lui quando si erano rivisti poco dopo, in quell’isola con la neve. Le cose per lei sarebbero andate in maniera completamente diversa, allora.
 
Invece aveva scelto di buttare al vento tutto e diventare un pirata.
 
Non dubitavo che, quando finalmente aveva presto questa decisione, lei ne fosse stata realmente convinta, ma ora? Era ciò che pensava ora, che mi spaventava.
 
Non era la prima volta che fissava il vuoto con aria malinconica, assente, persa in chissà quali pensieri.
 
Cosa avrei dovuto fare?
 
Temevo che, se gliene avessi parlato, lei avrebbe colto al volo l’occasione e se ne sarebbe andata. E non volevo.
 
D’altra parte… se lei non era felice… Non avevo alcun diritto di tenerla con me contro la sua volontà.
 
La osservai. Aveva gli occhi socchiusi, presi a scrutare fuori dal piccolo oblò, come se fosse intenta a guardare qualcosa che soltanto lei riusciva a vedere. Le labbra dischiuse le conferivano un aria rapita e persa allo stesso tempo. Il mio sguardo scese sul collo, sui capelli chiari che portava sempre sciolti e sul suo petto: l’effige di Barbabianca.
 
… Sarebbe bastato così poco a tenerla al mio fianco? Un po’ di inchiostro tra le clavicole, a sporcare la sua pelle bianca, sarebbe stato sufficiente?
 
No. Certo che no. Non sarebbe mai bastato, neanche tra mille vite.
 
«Ace…?»
 
Sentendomi chiamare, alzai lo sguardo verso Mikami. «Stai bene?» domandò preoccupata, accorgendosi dell’espressione mesta e abbattuta che doveva essersi impressa sul mio viso mentre mi chiedevo se con me lei fosse davvero felice.
 
«Ahm, sì» risposi, forzando un sorriso. «Sicuro?» insistette, scostandosi dall’oblò e tornando a sedersi al mio fianco, guardandomi intensamente.
 
La scrutai per qualche istante a mia volta. I suoi grandi occhi celesti avevano preso ora una sfumatura tendente al grigio ghiaccio, ed erano fissi nei miei, cercando di indovinare cosa mi turbasse. Non riuscii a reggere il suo sguardo.
 
«Sì, sì, non è niente, davvero. Ho un idea. Volevi che ti insegnassi a pescare? Questo potrebbe essere il momento adatto, è una splendida giornata, il mare è calmo e non abbiamo niente da fare» mi affrettai a dire, continuando a sorridere, non sapendo bene nemmeno io se con quell’idea stessi cercando di distrarre lei dalla noia o me stesso da quei pensieri cupi.
 
«…Pesca?» ripeté, spalancando gli occhi e inclinando la testa di lato, spiazzata. Annuii, mentre il mio sorriso si faceva un po’ più convinto, vedendo che ero riuscito almeno nell’intento di suscitare il suo interesse. «Sì! Sarebbe fantastico.»
 
Tirai un sospiro di sollievo e lasciai che una risata sfuggisse dalle mie labbra, vedendo che Mikami, a quella prospettiva, mi sorrideva con entusiasmo. «Molto bene allora. Vieni, andiamo a prendere le canne da pesca» esclamai allegramente, lasciando che mi precedesse nel percorrere il breve corridoio che dalla sala comune portava al ponte principale.
 
Mentre la osservavo che camminava davanti a me con rapidi passi lievi, senza quasi fare rumore,  la mia mente tornò ai pensieri di poco prima, senza che io riuscissi a fare nulla per impedirlo. Il mio sorriso si spense, e realizzai che non ero pronto per affrontare quel discorso. Non ero pronto a chiederle cosa provava, se si pentiva mai di aver lasciato la Marina, se voleva ancora essere un pirata, se voleva ancora essere figlia di Barbabianca. Se voleva ancora stare con me.
 
Non ero pronto a chiederle se era felice.
 
Non ancora, era troppo presto. L’avrei fatto – ovviamente le avrei parlato, dopotutto ero il comandante in seconda di Barbabianca, non potevo permettere che mi spaventasse così poco. Davvero, l’avrei fatto. Solo non in quel momento. E nemmeno il giorno dopo, o quello dopo ancora. Mi serviva solo un altro po’ di tempo ma… l’avrei fatto.
 
Lo giurai a me stesso.
 
Qualche minuto dopo ero seduto sul parapetto della mia nave, le gambe a ciondoloni e la canna da pesca stretta tra le mani, e quei pensieri scomodi parevano già non essere altro che un ricordo lontano.
 
Stavo canzonando Mikami che, a quanto pareva, aveva paura di sedersi a fianco a me sul parapetto. «Non ci penso nemmeno!» stava dicendo proprio in quell’istante, con gli occhi spalancati ed i talloni ben piantati a terra. «Avanti! Non avrai mica paura di cadere in acqua, vero?» la punzecchiai con un sorrisetto provocatorio. Lei strinse le labbra e arrossì. «No che non ho paura!» replicò indignata. «A me sembra proprio di sì, invece. Daiiii non puoi essere un pirata ed aver paura del mare!» continuai, sogghignando e prendendomi spudoratamente gioco di lei. Prese fiato ed aprì la bocca come per replicare nuovamente ma, poi, il suo orgoglio dovette avere la meglio. Socchiuse gli occhi, e con movimenti lenti e misurati si sedette in fine sul parapetto, ad un paio di metri da me, tesa come una corda di violino. «Che c’è, non mordo mica! Da quando hai paura di starmi vicina?» la presi nuovamente in giro, osservandola divertito. Mi ignorò, puntando ostinatamente gli occhi verso l’orizzonte. «Peggio per te» risi malizioso. Sistemai l’esca e con un unico movimento fluido del braccio destro scagliai lontano l’amo, mandandolo a sparire nell’oceano cristallino ad una quarantina di metri dalla nave.
 
Mi voltai verso Mikami che, con una smorfia di profondo disgusto dipinta sul volto, stava facendo i conti con le esche. Cioè, in realtà si stava limitando a fissarle, profondamente schifata.
 
«Cosa stai aspettando, di preciso?» domandai, sebbene immaginassi già la risposta, con un sogghigno che andava da un orecchio all’altro.
 
«Che. Schifo.» scandì, senza staccare gli occhi dal piccolo contenitore che conteneva le suddette esche. «Sono solo vermi» la rassicurai, trattenendo a fatica una risata impertinente.
 
«Sono viscidi. Si contorcono e si agitano. Fanno schifo. Io non li tocco»
 
A quel punto, scoppiai proprio a ridere rumorosamente. «Non ti faranno mica paura!» la presi in giro, senza riuscire a fermare le risate. «Ma che paura! Fanno solo… schifo.» ribattè offesa, storcendo il naso.
 
«E come credi di poter pescare senza esca?»
 
Smise di osservare i vermi e puntò gli occhi azzurri, chiarissimi, nei miei, rivolgendomi uno sguardo eloquente. «Vorrei tanto aiutarti a mettere l’esca sull’amo, ma sei così distante!» Dissi, inclinando la testa di lato con un sogghigno dispettoso.
 
Mi rivolse uno sguardo truce. «Bastardo.»
 
Davvero, tutto ciò era troppo divertente.
 
Mikami mugugnò contrariata, mentre probabilmente valutava se le facesse più schifo mettere le mani in mezzo ai vermi o più paura doversi spostare dalla posizione in cui si trovava.
 
«Aspetta. E quella?» domandò all’improvviso, mentre il broncio sul suo viso scompariva e lei inarcava le sopracciglia, fissando un punto all’orizzonte.
 
«Ah?» Volsi anche io lo sguardo all’orizzonte, senza capire. I miei occhi vagarono per qualche istante sull’oceano lucente, prima di individuare ciò che aveva attirato l’attenzione di Mikami: una macchiolina lontana, che veleggiava pacifica. «…Una nave?» mi chiesi, perplesso.
 
Riavvolsi la lenza ed adagiai la canna da pesca sul ponte, socchiudendo gli occhi ed affilando lo sguardo, incuriosito da quel puntino scuro all’orizzonte. Di minuto in minuto, diventava sempre più grande.
 
Qualunque cosa fosse, era chiaro che ci stesse venendo incontro, e che lo stesse facendo a grande velocità.
 
«Mmmhhh» mi sporsi in avanti, concentrandomi. Ma che diavolo poteva essere? Una nave, okay… ma di chi?
 
«Ace c’è una- oh, te ne sei già accorto da solo…» sentendomi chiamare mi voltai, incontrando gli occhi di due colori diversi di Fall, di vedetta sulla coffa.
 
«Riesci a capire chi è?»
 
«Dai colori della nave, direi la Marina. E’ veloce, molto veloce, se non ci spostiamo di qui ci sarà addosso tra non molto.»
 
«Un modo come un altro per scoprire chi c’è sulla nave» sogghignai, scrocchiando con fare eloquente le nocche delle mani.
 
«Quindi… non ce ne andiamo?» domandò Fall, lanciandomi uno sguardo sorpreso e contrariato insieme. Ricambiai lo sguardo, divertito. «Andarcene?? Certo che no! Saranno loro a doversi spostare dalla nostra strada, e non il contrario» affermai con un ghigno, mentre già sentivo il mio fuoco iniziare ad ardere prepotentemente all’interno del mio corpo.
 
«Ma… Siamo otto soltanto, e quella deve essere una nave bella grossa» provò a replicare lui.
 
Gli rivolsi un sorriso affilato. «Avanti, sei un pirata, non ti spaventerai di fronte a così poco. Facci vedere se sai davvero usare quelle due spade luccicanti con cui giocavi l’altro giorno.» Mi squadrò,  torvo, le sopracciglia corrugate che disegnavano ombre scure sugli occhi socchiusi, e con un balzo scese dalla coffa. «Se è questo che vuoi, Comandante» acconsentì con voce bassa, snudando con un lieve tintinnio le spade gemelle che portava nei foderi assicurati alla cintura, uno per lato.
 
In quel momento sopraggiunse anche Igor, che doveva aver notato a sua volta la presenza della nave. «Capiti al momento giusto. Raduna gli altri, e dì loro di preparasi alla battaglia» dissi. Il medico fece come gli era stato ordinato, sparendo nuovamente dalla mia vista.
 
Solo in quel momento ricordai Mikami.
 
Era scesa dal parapetto, e scrutava la nave all’orizzonte, inespressiva. Era vero che era un pirata (ma lo sarebbe rimasta per molto? Mi imposi di chiudere quel pensiero in un angolo dimenticato della mia mente, e di non pensarci più, finchè non mi fossi sentito pronto ad affrontare quella discussione) e che, l’ultima volta che avevamo affrontato l’argomento, aveva affermato che non avrebbe avuto nessun problema a combattere al mio fianco, però… non c’era stata ancora occasione di vedere se fosse realmente intenzionata a combattere i marines, o se le sue fossero state soltanto parole.
 
Ad ogni modo, non volevo forzarla. Non dopo i pensieri che avevano iniziato ad ingombrare la mia mente da qualche tempo e che, per quanto mi sforzassi, faticavo ad ignorare, non da quando il dubbio che potesse non essere più convinta della sua scelta mi aveva assalito.
 
«Te la senti?» le domandai, cercando di apparire il più naturale e spensierato possibile. Si voltò verso di me. Mi scrutò attentamente per un attimo ed annuì, decisa.
 
Lasciai andare un sospiro di sollievo. «Bene.»
 
Nel frattempo, il resto del piccolo equipaggio si era radunato alle mie spalle. «Allora» incominciai, voltandomi verso di loro, «il piano è semplice: aspettiamo che ci siano abbastanza vicini e poi andiamo all’arrembaggio. Igor e Gary, voi rimanete sulla nave. Se qualcosa va storto… beh, non lo so, mettetevi a urlare e verremo in vostro soccorso.» Igor fece un cenno d’assenso, mentre Gary borbottava qualcosa e imprecava tra i denti. «Tutto chiaro?» domandai, con un sorriso impaziente. Kai, nelle cui mani erano ora comparsi dei corti coltelli, annuì, impassibile, e così fecero anche gli altri due ragazzi, Jon e Robert. Fall rimase immobile, con un espressione  tutt’altro che amichevole sul viso dai lineamenti marcati, continuando a tenere le due spade strette in pugno. «Sì» confermò anche Mikami.
 
Quindi, soddisfatto, tornai a voltarmi verso l’oceano, notando soltanto in quel momento come la nave si fosse già fatta pericolosamente vicina. Beh, poco male: non stavo più nella pelle all’idea di abbrustolire le chiappe di qualche marines e-
 
Sbiancai.
 
Tutto il mio entusiasmo scemò in un solo istante, mentre osservavo con più attenzione la nave.
 
I miei occhi sbarrati si fermarono sulla polena, che ora era chiaramente visibile.
 
«U… Un cane» riuscii solo a balbettare.
 
Mikami comprese al volo il significato di quella parola e chinò il capo, atterrita, tesa come una corda di violino. Agli altri ci volle qualche istante di più, ma nemmeno loro tardarono troppo a capire chi avessero di fronte.
 
«Il vice ammiraglio Garp» sentii sussurrare Jon, mentre Fall sibilava una lunga serie di imprecazioni.
 
Non poteva star succedendo davvero.
 
Com’era possibile?! Il mare era immenso, e la rotta che stavamo seguendo poco frequentata, come aveva fatto a trovarmi? Deglutii a fatica, a causa del nodo che mi si era formato in gola, iniziando a sudare freddo.
 
Erano anni che non rivedevo il Vecchio e, in tutta sincerità, proprio non ne avevo sentito la mancanza. Non mi sarebbe dispiaciuto continuare così, a stargli lontano, e non avevo alcuna voglia di incontrarlo di nuovo faccia a faccia. Chissà cosa mi avrebbe fatto, ora che ero davvero diventato un pirata!
 
«A- Ace, cosa facciamo?» chiese Mikami con un filo di voce, mentre la nave del Vecchio si faceva sempre più vicina.
 
«Ce ne andiamo!» esclamai senza un attimo di esitazione. «Igor al timone!» ordinai con urgenza. Ma l’uomo non fece in tempo a muovere un solo passo, che una palla di cannone passò fischiando ad appena un metro dalla mia testa, mancando la nave per miracolo. Rimasi immobile, raggelato.
 
Un potente urlo scosse la nave, facendomi sobbalzare vistosamente.
 
«DOVE CREDI DI ANDARE, RAZZA DI NIPOTE DEGENERE CHE NON SEI ALTRO!»
 
Con queste parole, il Vecchio fece la sua apparizione. Se ne stava impettito sul ponte della grande nave da guerra, con l’uniforme della marina tirata sul petto ampio e sulle braccia muscolose, ancora sollevate nell’atto di lanciare una palla di cannone, con il mantello bianco che ondeggiava alle sue spalle e un espressione che ricordava quella di un toro imbufalito stampata sul volto squadrato.
 
«O-ohi, Vecchio è passat-»
 
«Chiamami NONNO! Io sono tuo NONNO, nipote sfrontato!» Il ruggito del Vecchio mi fece gelare il sangue nelle vene. «Razza di mascalzone, a causa tua ora anche Rufy è diventato un pirata!»
 
«Ecco, io… mi dispiace, nonno!» mi giustificai nervosamente, ignorando gli sguardi carichi di stupore che la ciurma mi rivolgeva. «Rimarrei volentieri a fare due chiacchiere con te, a rivangare i bei vecchi tempi andati, ma sono un po’ di fretta, per cui, se mi vuoi scusare…»
 
«COSA CREDI DI FARE, FURFANTE DI UN NIPOTE!» mentre pronunciava quelle parole, afferrò un’altra palla di cannone e la scagliò nella mia direzione, con una forza ed una precisione tale che avrebbero fatto invidia anche al più potente dei cannoni.
 
Fu questione di un attimo e la palla di cannone finì in acqua, deviata da una fiammata prepotente.
 
«C’è mancato poco…» sussurrai con voce roca, deglutendo nervosamente, consapevole che se avessi agito anche solo un secondo più tardi, quella palla di piombo ci avrebbe colpiti in pieno. «Senti nonno» iniziai, alzando la voce perché potesse udirmi «non puoi lasciarmi andare? Solo per questa volta, ed io prometto di non finirti mai più tra i piedi. Dopotutto l’hai detto anche tu, sono pur sempre tuo nipote» cercai di convincerlo, sorridendo nervosamente nel modo più conciliante che mi riusciva.
 
«LASCIARTI ANDARE? STUPIDO D’UN NIPOTE, COME TI PERMETTI DI FARE CERTE RICHIESTE!» tuonò Garp, facendomi nuovamente sussultare, un attimo prima di riprendere a tempestarci con una fitta pioggia di palle di cannone.
 
Solo miracolosamente riuscii ad intercettare tutte le palle ed evitare che la mia nave colasse a picco, piena di buchi come un colabrodo.
 
«Nonno io-» ansimai, ma lui mi interruppe all’istante «PORTA RISPETTO, NIPOTE!» gridò con la sua voce tonante, facendo tremare di paura persino i marines che lo circondavano. «Ma io-» feci per replicare, ma l’ennesima palla di cannone attraversò fischiando l’aria e, stavolta, non fui abbastanza svelo. Con uno schianto sinistro, il proiettile di piombo si portò via una buona porzione del parapetto della mia povera nave, prima di finire in acqua con un tondo sordo, sollevando alti schizzi cristallini.
 
Quasi non udii nemmeno le imprecazioni dei miei uomini, tanto la presenza del Vecchio mi terrorizzava.
 
«Portatemi altre palle di cannone!» tuonò Garp, mentre quei poveri marines correvano da tutte le parti come conigli spauriti, affrettandosi ad eseguire l’ordine.
 
Realizzai che quella breve tregua poteva essere la nostra unica possibilità di fuga.
 
«Alle vele! Presto, le vele! Ammainatele!» sbottai con una certa urgenza. Fall, Kai e Robert scattarono subito, senza perdere un istante di tempo.
 
«COSA CREDI DI FARE!? NON RIUSCIRAI A FILARTELA COSI’ FACILMENTE! VIENI QUI, CODARDO DI UN NIPOTE, E FATTI DARE QUALCHE PUGNO AMOREVOLE!»
 
Normalmente, darmi del codardo sarebbe equivalso a firmare la propria condanna a morte.
 
Ma non stavolta.
 
Che Garp dicesse pure tutto quello che ne aveva voglia, io non mi sarei avvicinato a lui neppure per tutto l’oro del mondo, neppure se mi avessero offerto il One Piece. Mai, mai e poi mai.
Insomma, essere coraggiosi è una cosa, ma essere stupidi è un’altra, ed io certo non ero stupido al punto di andare di mia spontanea volontà tra le braccia del mio caro nonnino.
 
Finalmente, con le vele opportunamente sistemate, iniziammo a muoverci più velocemente, e la distanza tra la mia nave e quella del Vecchio iniziò ad aumentare.
 
La mia era più piccola e veloce, ma lo sarebbe stata abbastanza da riuscire a seminare Garp?
 
No.
 
Me ne resi conto nel momento in cui, rifornito di palle di cannone, Garp sferrò un nuovo attacco, facendo piovere nuovamente su di noi una fitta pioggia di piombo.
 
Se fossimo andati avanti a quel modo, non saremmo mai riusciti ad allontanarci. La portata dell’attacco del Vecchio era troppo estesa.
 
Mentre Igor si occupava del timone e gli altri ragazzi bisticciavano con le vele, illudendosi che se fossimo riusciti a prendere maggiore velocità saremmo forse riusciti ad uscirne illesi, io ero occupato ad intercettare con le mie fiamme gli attacchi del Vecchio. Facile a dirsi, ma non a farsi: nonostante il mio impegno, alcune palle erano comunque riuscite a colpire la nave anche se, fortunatamente, solo di striscio.
 
«NIPOTE! ARRENDITI, DI FRONTE ALL’AMORE DI TUO NONNO!» muggì il Vecchio, e quasi mi parve di vederlo sbuffare vapore rovente dalle narici, proprio come un vecchio toro infuriato.
 
«MAI!» strinsi i denti, mentre proprio in quell’istante una palla di cannone colpiva con uno tonfo sordo il ponte, schiantando le assi di legno e sprofondando nella pancia della nave.
 
Deglutii, mentre una goccia di sudore freddo mi scivolava sulla fronte. Adesso sì che si stava mettendo male.
 
Poi, quando iniziavo ad essere davvero preoccupato per la nostra incolumità, accadde un vero e proprio miracolo.
 
Quando riportai il mio sguardo sul Vecchio, preparandomi ad intercettare la successiva pioggia di palle di cannone, lo trovai… addormentato.
 
Se ne stava là, a russare rumorosamente a bocca aperta, dormendo in piedi come i cavalli. Addirittura aveva un braccio sollevato nell’atto di attaccarci, e una palla di cannone ancora stretta in pugno.
 
Il sollievo che provai di fronte a quella scena fu tale che scoppiai nervosamente a ridere. Risi a più non posso, sentendomi per una volta tanto fortunato, sfacciatamente fortunato.
 
Nel frattempo la nostra nave, sebbene ammaccata in più punti, era riuscita a guadagnare velocità e si allontanava velocemente, scivolando silenziosa sull’acqua calma.
 
I marines, senza gli ordini di Garp, sembravano completamente persi.
 
Pensai che avrebbero almeno tentato di inseguirci ma, invece, invertirono la rotta.
 
A quanto pareva, senza il vice ammiraglio non si sentivano in grado di affrontare il sottoscritto. Forse, dopotutto, non erano così stupidi come mi erano sembrati ad una prima occhiata.
 
«Pheeeewwww» sospirai rumorosamente, incredibilmente sollevato, «per un attimo ho davvero avuto paura.»
 
Quando mi voltai verso i miei uomini, trovai solo Mikami che mi fissava, bianca come un lenzuolo e con gli occhi sbarrati. Gli altri dovevano essere andati giù nella stiva, sperando di riuscire a contenere i danni che aveva causato l’ultima palla di cannone che ci aveva colpiti.
 
«Quello… quello è davvero tuo… nonno?» domandò Mikami, con un tono che non avrei saputo dire se più atterrito o più allibito.
 
«He… Sì» ammisi, assalito dallo sconforto, lasciando ciondolare in avanti la testa.
 
Lei continuava a fissarmi con gli occhi spalancati, evidentemente incredula, senza riuscire a dire una sola parola.
 
Mi grattai nervosamente la nuca, sentendo di doverle ulteriori spiegazioni. «Cioè, non abbiamo proprio un legame di sangue, però…» già, però cosa? Non ero dell’umore giusto per raccontarle tutta la storia della mia infanzia. In realtà, non ero nemmeno sicuro di volerlo fare. «Diciamo che è una sorta di nonno adottivo» dissi infine, sperando che ciò le bastasse.
 
«Il nonno del secondo comandante dell’uomo più forte del mondo è Garp l’Eroe, vice ammiraglio della Marina?» mormorò dopo alcuni istanti, con quell’espressione così buffa ancora sul viso.
 
«Purtroppo» confermai, con un sorrisetto tirato.
 
«Se non avessi appena sentito Garp chiamarti “nipote” non ci avrei mai creduto.»
 
«Già. Non sai quanto mi piacerebbe avere un nonno meno spaventoso.»
 
Mentre dicevo quelle parole, Robert riemerse dalla sottocoperta. Era un ragazzo giovane, all’incirca della mia età, con una massa di spettinati capelli rossicci e grandi occhi castani. «Dobbiamo rivedere i nostri piani: abbiamo sistemato la falla come meglio potevamo, ma non so quanto reggerà. Dobbiamo fermarci da qualche parte e farla riparare come si deve, o se per sfortuna dovessimo imbatterci in una tempesta, coleremmo certamente a picco.»
 
«Maledetto Vecchio…» borbottai scocciato.
 
Anche Gary e Fall comparvero sul ponte, e quest’ultimo aveva stampata in viso un’espressione cupa e irata e, quando mi rivolse un breve sguardo aggressivo, sembrò volermi dire “te l’avevo detto”. Lo ignorai.
 
«E va bene» sospirai rassegnato, «adesso andrò a dire a Jon di tirare fuori le sue carte nautiche e vedremo cosa fare.»
 
Maledetto Vecchio bisbetico. Ma perché la mia famiglia doveva sempre essere così problematica?

Spazio autrice:
Piuuuuufff che fatica questo capitolo! Ora che l'ho finalmente concluso mi sento meglio :D
Vi ricordate vero che in questa storia compariranno anche i mugiwara? Ad essere sincera non so ancora bene quando, mi ero fatta una scaletta ma poi la comparsa imprevista di Garp - non è colpa mia, davvero, subito non doveva esserci, ma poi la storia si è evoluta per conto suo! - ha sballato un po' anche i miei di piani, non solo quelli di Ace, quindi non so ancora dirvi quando compariranno con precisione XD
Oh, a proposito, vi piacerebbe rivedere qul burbero di Smoky? Nemmeno lui doveva esserci all'inizio, ma mi sta venendo una certa idea.... Fatemi sapere, dai ;)
A prestoooo :*


 
 

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Capitolo 9
*** Tale as old as time ***


Brevissima premessa: mi scuso in anticipo per gli orrori grammaticali in cui vi imbatterete in un certo punto del capitolo, ma era necessario, davvero. Capirete leggendo – spero XD
 
Tale as old as time
 
Continuai ad osservare Ace, incredula.
 
Ancora non ci potevo credere. Ace e Garp… parenti? Nipote e nonno? Pirata e marines? Secondo comandante di Barbabianca e vice ammiraglio? Era troppo assurdo anche per me, che di cose assurde ne avevo viste un bel po’ da quando avevo conosciuto Ace.
 
Visto che il pirata non sembrava intenzionato a darmi ulteriori spiegazioni riguardo quel legame di parentela così inaspettato, dovetti trarre le mie conclusioni da sola.
 
“Allora…” iniziai a fare mente locale “Monkey D. Rufy è il fratello di Ace, quindi anche lui è nipote di Garp. Effettivamente, hanno anche lo stesso cognome. Garp deve essere il padre di loro padre, il nonno paterno”.
 
Ma c’era qualcosa che proprio non mi tornava: perché Ace e Rufy, se erano fratelli, portavano cognomi differenti? Forse erano fratellastri, stessa madre ma padri diversi. Avrebbe spiegato i cognomi.
 
Rimasi a rimuginare in silenzio per qualche istante.
 
No, ancora non andava. Così, sorgeva un altro problema: come poteva essere Garp il nonno paterno di entrambi, se i due ragazzi avevano padri diversi?
 
Mi scompigliai la frangia sbuffando frustrata, rendendomi conto che, per quanto mi fossi sforzata di pensare ad una soluzione per quel grattacapo, non ci sarei arrivata.
 
Dovetti infine arrendermi all’evidenza: c’era qualcosa che toccava.
 
Le cose non potevano stare come diceva Ace, era semplicemente impossibile. A meno che…
 
A meno che, Ace non avesse cambiato il proprio cognome. Magari lui e Rufy avevano davvero lo stesso padre – che avrebbe poi dovuto essere il figlio di Garp, e quindi portare il cognome “Monkey D.”, ma per qualche motivo Ace aveva deciso di cambiare il proprio cognome in “Portgas D.”. Era l’unica spiegazione possibile anche se, dovetti ammettere con me stessa, poco convincente.
 
Perché avrebbe dovuto cambiare il proprio cognome?
 
Da qualunque parte si guardasse la faccenda, c’era sempre qualcosa che non tornava, un po’ come un puzzle in cui non combaciano i pezzi.
 
Il fatto poi che Ace non mi avesse mai parlato della sua infanzia e che, anzi, sembrasse schivare con molta attenzione l’argomento, non faceva altro che aumentare la mia curiosità.
 
Certo, a voler essere del tutto sincera, nemmeno io gli avevo mai parlato della mia, però… La mia non era stata nulla di interessante, nulla di eccezionale. Sarebbe stata una storia parecchio noiosa da raccontare.
 
O, almeno, la mia infanzia non aveva avuto nulla di interessante finchè non avevo incontrato Smoker. Ma dubitavo che Ace volesse sentire parlare di lui. Fondamentalmente, era questo il motivo per cui io non gliene avevo mai parlato: evitando le parti riguardanti Smoker e la Marina, sarebbe stato un racconto ordinario e noioso, dubitavo che una storia del genere sarebbe mai potuta interessare a qualcuno, nemmeno se quel qualcuno era Ace.
 
Ma lui… lui sembrava avere altri motivi per non voler parlare della sua infanzia, di come aveva trascorso il suo tempo prima di diventare un pirata di Barbabianca.
 
Forse glielo avrei chiesto.
 
“Ma certo il momento per parlarne non è questo” decisi, osservando Ace che, con un’enorme mappa nautica aperta davanti al viso, si lamentava a gran voce, cercando inutilmente di dare un senso a quello che aveva davanti agli occhi mentre Jon, irritato, cercava di indicargli la nostra posizione e la rotta che avremmo dovuto seguire.
 
*
 
Un paio d’ore dopo, avevamo gettato l’ancora.
 
Avevamo scelto di approdare su un’isola dalle alte coste montuose e frastagliate, che garantivano alla nostra nave un riparo dalle maree e dai venti, oltre che da eventuali sguardi indiscreti. Inoltre, la deviazione che avevamo dovuto compiere rispetto la rotta che stavamo seguendo era stata minima.
 
Il vero problema era però un altro: trovare un carpentiere che fosse disposto a riparare la nave, senza denunciare la nostra presenza alla Marina o cercare di riscuotere la taglia sulla testa di Ace.
 
Per questo motivo, dopo più di mezz’ora di discussione, ero riuscita a convincere il suddetto pirata ad indossare una camicia: mi auguravo con tutto il cuore che bastasse coprire il tatuaggio di Barbabianca sulla sua schiena per evitare che venisse riconosciuto.
 
Anche io avevo coperto il mio, indossando una maglietta scura e accollata. Anche se, in realtà, dubitavo che qualcuno vedendomi mi avrebbe mai etichettata come uno dei pirati di Barbabianca: più probabilmente avrebbero pensato che fingevo di appartenere alla sua ciurma, per ottenere il rispetto di chi mi circondava o per evitare di essere importunata. Ad ogni modo, preferivo non correre rischi.
 
Come sempre, Igor e Gary erano rimasti sulla nave, mentre noi tutti eravamo sbarcati e, guidati da Jon (Ace non brillava certo per senso dell’orientamento), stavamo attraversando un fitto bosco cercando di raggiungere il centro dell’isola, dove avrebbe dovuto trovarsi il villaggio.
 
Osservai Ace, che qualche passo avanti a me procedeva senza problemi tra la vegetazione fitta, e non potei fare a meno di pensare che quella della camicia fosse stata proprio una buona idea. Non che vederlo andare in giro a petto nudo con gli addominali in mostra mi dispiacesse, chiariamoci! Ma la camicia era un’alternativa molto valida. Il colore bianco evidenziava il suo fisico asciutto e atletico ed i primi bottoni non allacciati lasciavano intravedere i pettorali. Inoltre, con la sua pelle abbronzata e i capelli scuri faceva un piacevole contrasto, decisamente gli do-!
 
Intenta ad osservare Ace e persa nelle mie fantasticherie su di lui, inciampai malamente in una radice sporgente, e quasi ruzzolai a terra. Se riuscii a rimanere in piedi, fu soltanto perché qualcuno mi afferrò prontamente il braccio.
 
«Grazie» sospirai grata, voltandomi verso il mio salvatore.
 
I miei occhi si scontrarono con quelli bicolore di Fall che mi stava osservando stranito, con un sopracciglio sollevato e l’altro corrugato. Mi lasciò andare il braccio, mentre le sue labbra si stendevano in un ghigno. «Scommetto che se non ti avessi afferrata, a quest’ora avremmo tutti appurato che è solo una leggenda metropolitana che i gatti cadono sempre in piedi.» 
 
Rimasi interdetta, e mi pentii di averlo ringraziato così caldamente.
 
Quello se le andava a cercare, davvero! Perché non poteva limitarsi a rispondere “Prego” o “Non c’è di che” e poi riprendere a camminare? Aveva un talento più unico che raro per farmi saltare i nervi. Mi trattenni dal rispondergli – e dal mollargli un bel calcio nel culo – solo perché, effettivamente, mi aveva evitato una caduta altamente imbarazzante.
 
Ripresi a camminare senza smettere di fissare con astio la schiena di quello stupido ragazzo, continuando a lanciargli mentalmente maledizioni, senza notare che, davanti a me, Ace si era fermato.
 
Un paio di passi, ed il mio naso fu vittima di un doloroso scontro con la sua schiena.
 
«Ahi» mugolai contrariata, portandomi istintivamente la mano a coprire la parte lesa. «Va tutto bene?» chiese Ace voltandosi verso di me, guardandomi divertito.
 
Essendo decisamente più bassa di lui, mi trovai faccia a faccia con i bottoni lasciati aperti della sua camicia, e, prima che potessi impedirmelo, la mia mente aveva già ripreso a fantasticare. Non riuscivo a smettere di pensare che, paradossalmente, la cosa più bella di quell’indumento era il fatto che avrei potuto toglierglielo, il che rappresentava per me una novità, non avendo mai visto Ace con nulla di simile indosso. Continuavo ad osservare quei bottoni e ad immaginare come sarebbe stato bello allungare una mano e slacciare anche il quarto e il quinto, e passare le dita sulla pelle liscia e tesa dei suoi pettorali. Poi sbottonare anche il sesto, e il settimo e-
 
Ace abbassò bruscamente il viso, ponendosi al mio livello. Trattenni il fiato, osservando i folti capelli neri come petrolio ricadere ribelli e spettinati sulla sua fronte, le sopracciglia corrugate a dargli un’aria dispettosa e sorniona mentre gli occhi altrettanto neri brillavano furbi sulle guance costellate di piccole lentiggini, le labbra increspate in un ampio sorriso seducente.  «A cosa stai pensando?» chiese, in un sussurro bollente.
 
«N-Niente» biascicai senza riuscire ad evitare che le mie guance andassero in fiamme, mentre mi sentivo decisamente nuda di fronte al suo sguardo intenso.
 
«La tua reazione dice chiaramente il contrario»mi contraddì in un soffio, abbassando la voce, sfiorando la punta del mio naso con il suo. Boccheggiai, senza avere la più pallida idea di cosa ribattere, completamente ipnotizzata dalla sua voce e dal suo sguardo. «Per ora concentrati su dove metti i piedi, riprendiamo il discorso più tardi» suggerì con una risata bassa, sfiorandomi le labbra con le sue e voltandosi per riprendere a camminare.
 
Rimasi ferma per qualche istante, ancora stordita.
 
Era imbarazzante come non fossi ancora riuscita ad abituarmi neanche un po’ a certe cose.
 
«Su, su, cammina, o rimarrai indietro!» mi avvertì ridacchiando Robert passandomi al fianco, dandomi una leggera spintarella per incoraggiarmi a muovermi.
 
«Uh sì» risposi distrattamente e, altrettanto distrattamente, ripresi a camminare. I miei pensieri erano ancora rivolti ad Ace ed a quel suo “più tardi”, e fu su questo che si concentrarono le mie fantasie per i restanti dieci minuti che impiegammo per uscire dal bosco – fu soltanto per miracolo che non inciampai in qualche sasso, radice o ramo.
 
«Il villaggio» indicò Jon con l’indice, non appena sbucammo fuori dalla vegetazione.
 
Di fronte a noi si stendeva per un paio di centinaia di metri una vallata verdissima, punteggiata qua e là da piccoli arbusti scuri e cespugli fioriti e, ai margini di essa, sorgevano le prime case del villaggio. Villaggio… chiamarlo villaggio era riduttivo, dalla posizione sopraelevata in cui ci trovavamo si riusciva chiaramente a vedere tutta la sua estensione, e le numerose case che lo componevano.
 
Non fui in grado di decidere se questo fosse per noi un bene o un male: da una parte sarebbe stato più facile trovare qualcuno disposto ad aiutarci, ma dall’altra sarebbe anche stato più facile trovare qualcuno in grado di riconoscere Ace.
 
Ad ogni modo iniziammo subito la discesa e, nel giro di qualche minuto, arrivammo dinnanzi alla prima casa del villaggio.
 
«Allora» esordì Ace, prendendo la parola «Ci sono tre cose che dobbiamo fare: cercare qualcuno in grado di riparare la nave, qualcuno che ci venda del cibo per rifornire la stiva, ed un posto in cui alloggiare intanto che le riparazioni vengono ultimate. Il carpentiere è la questione più urgente.»  
 
«Stai proponendo di separarci?» gli chiesi.
 
«Esattamente» confermò Ace con un sorriso smagliante. «Questo villaggio è molto grande, se rimaniamo uniti rischiamo di perdere troppo tempo, ed io vorrei salpare il prima possibile. Perciò, dividiamoci in due gruppi. Fall, Kai e Jon andrete di là» disse indicando l’ampia strada sterrata che si apriva alla sua sinistra «mentre io, Mikami e Robert andremo di qua» concluse, indicando un’altra strada davanti a sé. «Ci troviamo qui tra due ore. Se succede qualcosa…» si interruppe, grattandosi la nuca perplesso. «Ma perché faccio sempre questo discorso? Ve la sapete cavare, se anche dovesse succedere qualcosa non avreste problemi» concluse, mentre un luminoso e spavaldo sorriso a trentadue denti si apriva sul suo viso allegro. «A dopo!» concluse agitando la mano in direzione dei tre ragazzi.
 
A quel segnale, ci separammo.
 
*
 
Quasi tre ore dopo io, Ace e Robert riuscivamo finalmente a tornare al punto di incontro, trafelati e con il fiato grosso.
 
«Si può sapere dove diavolo siete stati fino ad adesso? Avevamo detto due ore!» sbottò Fall, visibilmente irritato, fulminandoci con lo sguardo. Anche Jon ci lanciò un’occhiata non proprio amichevole, mentre Kai, che sonnecchiava con la schiena poggiata contro un muro di mattoni, sbadigliava, e si alzava in piedi stiracchiandosi.
 
«Scusate, ci siamo persi» disse Ace grattandosi imbarazzato la nuca, con l’espressione più candida ed innocente del mondo sul viso abbronzato.
 
«Da questi due c’era da aspettarselo» s’intromise Jon, guardando in cagnesco il moro e me «ma ero convinto che almeno tu possedessi un minimo di senso dell’orientamento» concluse, rivolto a Robert.
 
Il ragazzo arrossì lievemente, guardandosi i piedi «All’inizio credevo di riuscire a tornare indietro, ma poi le strade si sono fatte più intricate e mi sono perso anche io, mi dispiace…»
 
«La prossima volta che ci dividiamo, voi due venite con me»  ringhiò Jon con un tono che non ammetteva repliche, rivolgendosi stavolta ad Ace e me. Entrambi, sentendoci in colpa per averli fatti aspettare così tanto, annuimmo docilmente.
 
«Abbiamo trovato noi il carpentiere e la locanda. Avremmo anche trovato un posto in cui poter comprare alcune razioni da viaggio e cose simili, ma l’atteggiamento del proprietario non mi è piaciuto, quindi se possibile preferirei evitarlo. Voi? Cosa avete trovato?» riprese a dire Fall, ancora chiaramente scocciato per essere rimasto un’ora ad aspettarci.
 
«Locanda e provviste» rispose prontamente Ace. «Quindi Jon, anche se è tardi, torna dal carpentiere che avete trovato e digli che è assunto, e che voglio che inizi a lavorare il prima possibile. Se accetta, portalo alla nave, così può iniziare subito a ripararla. Chiedigli quanto tempo crede che sarà necessario e poi torna da noi a riferire.»
 
Jon borbottò qualche protesta, chiaramente non entusiasta all’idea di dover riattraversare tutto il villaggio e tutto il bosco. «E dove vi trovo?» chiese, lanciando ad Ace uno sguardo da cane bastonato. Quest’ultimo non vi fece caso «Noi andremo alla locanda che abbiamo trovato io e gli altri a cenare» gli rispose allegramente.
 
«Non ho idea di dove si trovi, la locanda. Uno di voi tre deve venire con me così quando avrò finito con il carpentiere potrà indicarmi la strada, e dal momento che né te né lei avete un briciolo di senso dell’orientamento, quel qualcuno deve essere Robert. A meno che non si sia completamente rincoglionito… credi di riuscire a tornare alla locanda?» domandò quindi, torvo, rivolgendosi al ragazzo in questione.
 
«S-sì, nessun problema.» confermò questo, diventando nervoso sotto lo sguardo sospettoso dell’altro.
 
«Allora è deciso» esclamò Ace. «Andate, ci vediamo dopo» congedò i due, con un ampio sorriso.
 
«E per le provviste?» domandò stancamente Fall. «Ci penseremo domani, tanto non credo proprio che ci vorrà una notte sola a riparare la mia povera nave» lo liquidò Ace con la sua solita noncuranza. «Adesso ho cose più importanti a cui pensare: la cena!» esclamò subito dopo, con gli occhi che brillavano.
 
Fall gli lanciò un’occhiata irritata. «Piuttosto, se quello che dice Jon è vero, siete sicuri voi due di essere in grado di ritrovarla, la locanda?»
 
L’entusiasmo negli occhi di Ace si spense improvvisamente e lui sbiancò, rimanendo immobile, come congelato. Anche io mi irrigidii, sgranando gli occhi.
 
Il pirata si voltò lentamente verso di me «Tu… te la ricordi la strada… vero?»
 
Deglutii, attorcigliando nervosamente una ciocca di capelli attorno al dito «Ecco, veramente, io… speravo che fossi tu, a ricordarla.»
 
*
 
«Pheew, sono pieno» gorgogliò Ace, soddisfatto, lasciandosi cadere all’indietro contro lo schienale della panca su cui era seduto.
 
Dopo vari tentativi andati a vuoto e una mezz’ora buona di tempo buttata via, io ed Ace eravamo riusciti, infine, a ritrovare la famigerata locanda. A quel punto Ace si era precipitato dentro, ed aveva ordinato per cena tutto ciò che era elencato nel menù, strafogandosi a più non posso sotto gli sguardi attoniti delle cameriere e dell’oste. Fin qui, tutto normale.
 
Peccato poi che, venuto il momento di saldare il conto, vista l’esorbitante cifra, avesse ben pensato di darsela a gambe. Per cui era fuggito come un razzo, con me e gli altri poveri ragazzi subito dietro, ed avevamo corso a tutta velocità per almeno dieci minuti buoni, prima di riuscire a seminare il suddetto proprietario della locanda. Ovviamente, una volta riusciti a liberarci di loro, avevo mollato ad Ace un pugno nelle costole così forte che gli era venuto il livido, intimandogli di non riprovare mai più a fare una cosa del genere in mia presenza.
 
Quindi, per forza di cose, ci eravamo diretti verso l’altra locanda, quella trovata da Kai, Fall e Jon.
 
Appena entrati, Ace aveva chiesto da mangiare. Di nuovo.
 
Se non altro, si era almeno trattenuto, e al momento di pagare non se l’era data a gambe cosicché, anche noi, avevamo finalmente potuto cenare in santa pace.
 
Sospirai, ricordando tutte le corse fatte nelle ultime ore, tornando poi a posare lo sguardo su Ace. Era davvero incredibile la quantità di cibo che poteva finire nel suo stomaco. D’altra parte, era anche vero che ormai ci avevo fatto l’abitudine, sebbene continuassi a non riuscire a spiegarmi come facesse a non ingrassare nemmeno mezzo grammo: avessi seguito io la sua dieta, sarei diventata una balena nel giro di due giorni. Beato lui, e il suo metabolismo incredibile.
 
Kai era uscito più di mezz’ora prima, alla ricerca di Jon e Robert.
 
Fall era rimasto elegantemente seduto sul suo sgabello, facendosi i fatti suoi per tutta la cena, rimanendo fino a quel momento incredibilmente silenzioso. Cosa di cui mi compiacqui non poco: era decisamente più simpatico quando se ne rimaneva zitto al suo posto.
 
«Quanto tempo credi che perderemo, rimanendo su quest’isola?» domandò Fall, rivolto ad Ace, girando stancamente il capo verso di lui, poggiando nel piatto con un lieve tintinnio le posate con cui stava giocherellando.
 
Ace si sistemò meglio sulla panca, e fece spallucce «Due, tre… forse quattro giorni… Spero non di più.»
 
Fall aggrottò le sopracciglia, incupendosi.
 
«Impaziente di arrivare al tesoro?» domandò Ace, con un ampio sorriso complice. «U- uh sì» rispose Fall rispondendo con un sorriso simile, anche se sul suo viso sembrava un’espressione decisamente stonata.
 
«Ad ogni modo lo scopriremo presto, non appena il tuo amico riuscirà a trovare Jon e Robert. Spero vivamente non si tratti di una sosta lunga, non vedo l’ora di trovarlo!» esclamò poi, determinato.
 
«Ragazzino, cerchi un tesoro? Anche io da giovane davo la caccia al tesoro.»
 
Tutti e tre ci voltammo, al suono di quella voce roca e gracchiante. Ci trovammo davanti un uomo anziano, parecchio anziano, almeno a giudicare dalle profonde rughe che solcavano la pelle abbronzata. Aveva ancora radi e sottilissimi capelli bianchi, che tuttavia lasciavano intravedere la sommità della testa e le macchie marroni, tipiche della vecchiaia, che chiazzavano la pelle, e che, anche se più piccole, erano chiaramente distinguibili anche sulle mani e sul viso. Due acquosi occhi azzurri facevano capolino da sotto le sopracciglia cespugliose, anch’esse bianche. Indossava un abito curioso, simile ad una lunga tunica grigia, ed avanzava, incurvato in avanti, poggiandosi ad un massiccio bastone da passeggio dal manico elaborato.
 
«Ragazzino?» sillabò Ace, sorpreso di fronte a quell’appellativo.
 
«Cercavo il tesoro, quando ero giovane, ma non ci sono mica mai riuscito a trovarlo. Anche tu cerchi il tesoro?» ripetè il vecchio, come se non lo avesse nemmeno udito.
 
«Sì, cerchiamo un tesoro» rispose Ace studiando l’anziano, titubante.
 
«E così cercate il tesoro! Io non l’ho mai trovato il mio tesoro. Vuoi che ti racconti la storia del mio tesoro?»
 
«Ecco, Vecchio, veramente io-
 
«Sì, ci piacerebbe molto sentire quella storia» si intromise Fall, interrompendo Ace.
 
Sia io che il pirata ci voltammo verso di lui, increduli ed allibiti di fronte a quell’intervento totalmente inaspettato. Pensai subito che volesse prendersi gioco di quel povero vecchietto, a cui chiaramente mancava qualche venerdì, ma mi dovetti ricredere quando studiai meglio l’espressione sul suo volto dai tratti marcati. Sembrava essere realmente interessato e più serio che mai, e anche quando scrutai sospettosa nei suoi occhi non vidi nulla che potesse ricordare neanche vagamente la burla.
 
Magari era un appassionato di folklore, o era soltanto curioso. Non mi riusciva davvero possibile credere che avesse acconsentito soltanto per far felice un povero vecchio. Non sarebbe stato da lui. Proprio per niente. Neanche tanto così.
 
Le mie supposizioni vennero interrotte dal vecchio che, dondolando lentamente la testa su e giù, iniziò senza indugi il proprio racconto.
 
In realtà me ne sarei andata di sopra nella mia stanza più che volentieri: quell’uomo mi dava i brividi e, purtroppo, ero tutto tranne che una persona paziente, non ero certa di riuscire a rimanermene buona buona a sentire quel vecchio raccontare tutta la storia della sua vita, né tanto meno morivo dalla voglia di sentirmi ripetere che non era riuscito a trovare quel benedetto tesoro quando era giovane. Ma ormai il vecchio aveva iniziato a parlare, e mi sentivo troppo in colpa ad andarmene in modo così indelicato e maleducato.
 
Per cui, mandando l’ennesima maledizione a Fall, mi sedetti più comodamente sulla panca e, tratto un profondo respiro, mi preparai a sorbirmi quello che si preannunciava essere un racconto piuttosto lungo e noioso.
 
«Quando ero giovane ero un marinaio e ho navigato tutti i mari alla ricerca del mio tesoro, anche se alla fine non sono mica riuscito a trovarlo. Vè, era un tesoro che tutti volevano e che tutti cercavano ma che-
 
«Il One Piece?» lo interruppe bruscamente Ace, improvvisamente interessato.
 
«Il One Piece? Mai sentito. Ragazzino il mio tesoro era un tesoro molto ricercato, che tutti volevano e che tutti cercavano, ma che nessuno ci riusciva mai, a trovarlo»
 
«Non può trattarsi del One Piece, quest’uomo è molto vecchio, probabilmente quando lui era giovane Gol D. Roger era ancora un bambino che giocava a far navigare la barchette di carta nelle pozzanghere sognando di poterle usare per esplorare gli oceani» bisbigliai nell’orecchio ad Ace mentre il vecchio faceva una pausa per sedersi su uno sgabello basso. Il moro fece una smorfia che non riuscii ad interpretare, e riprese ad osservare il vecchio che, di lì a qualche istante, riprese a parlare.
 
«Era il Tesoro di Luna. C’era anche una leggenda su questo tesoro, che mi raccontava sempre mio padre quando ero bambino. Anche mio padre –  lo sai? – ha cercato il tesoro, ma neanche lui l’ha mai trovato.» L’uomo diede qualche colpo di tosse per schiarirsi la gola e poi riprese a parlare, sebbene la sua voce fosse rimasta roca e gracchiante esattamente come qualche istante prima. «La leggenda diceva che era  un tesoro che la Luna aveva dato a un pescatore. Il pescatore usciva tutte le notti in mare a gettare le sue reti – proprio come mio padre, anche mio padre faceva il pescatore ed usciva a volte anche di notte, lo sai? E allora la Luna, che lo guardava sempre pescare, si era innamorata di lui. Del pescatore, dico, non di mio padre, che mio padre cercava solo il tesoro, ma non era mica l’innamorato della Luna. Ma l’uomo e la Luna non potevano stare insieme, e allora la Luna, per poterci stare, aveva deciso di dargli un tesoro magico. Eh, perché anche l’uomo amava la Luna, che di notte quando non c’era più il Sole era lei a fargli vedere la strada con la sua luce, che altrimenti il pescatore, se non c’era la Luna, non ci usciva mica in mare, perché al buio era troppo pericoloso e poi non ci riusciva più a tornare a casa.»
 
Sospirai, sforzandomi di districare quel garbuglio che era il fiume di parole che usciva dalla bocca del vecchio. In pratica, se avevo capito bene, la Luna ed un pescatore si erano innamorati e lei, per poter stare con lui, gli aveva dato un tesoro magico, che era poi il Tesoro di Luna da cui quel vecchio era ossessionato. Buono a sapersi.
 
«Però la Luna era una donna, e te lo sai come sono le donne no? Lo sai sì o no?» domandò, stirando le labbra rugose in un sorriso sdentato, rivolgendosi contemporaneamente ad Ace e Fall. Quest’ultimo rimase impassibile, continuando ad osservarlo interessato, mentre Ace, colto alla sprovvista e chiaramente a disagio di fronte al vecchio, balbettava un titubante “sì”.
 
«Phe, ecco, lo sai. E allora la Luna voleva che il pescatore gli provasse che lui l’amava davvero, perché le donne sono così, e perché la Luna era una donna, e te lo sai come sono le donne. E allora ci aveva detto al pescatore di superare tre prove d’amore. E il pescatore aveva detto di sì, aveva detto che le superava, perché lui la amava la Luna, e perché te lo sai come sono le donne, che agli uomini ci fanno fare tutto quello che vogliono.» Fece una breve pausa e, per la prima volta, sembrò accorgersi della mia presenza. Aggrottò le sopracciglia folte, borbottò qualcosa che suonava un po’ come “Tsè, io lo so come sono le donne”, e riprese a raccontare.
 
“Pazienza Mikami, pazienza” mi ripetei nuovamente, soffocando a fatica un rumoroso sospiro.
 
«E il pescatore ce le aveva fatte davvero, alla fine ci era riuscito a superarci quelle tre prove lì per la Luna. Però poi, quando la Luna ci stava per dare il suo premio, quando ci stava per dare il tesoro magico, era arrivato il Sole, e non era mica stato tanto felice vè! Perché era lui che era il marito della luna, mica il pescatore! Allora quando ha visto cosa stava succedendo ha iniziato a brillare così forte che lo ha abbagliato, il pescatore, e quando poi lo ha abbagliato e il pescatore era diventato cieco, lo ha bruciato con le sue fiamme, perché la Luna era la sua di moglie, mica quella del pescatore. Poi il Sole ha riportato in fretta la Luna in cielo, e la Luna s’è scordata di riprenderselo, il suo tesoro, quindi il tesoro è rimasto lì in terra. E allora tutti hanno iniziato a cercare il Tesoro della Luna, solo che non l’ha mica poi trovato nessuno, vè! Anche io l’ho cercato quando ero giovane, lo sai?»
 
Quindi, la Luna aveva messo alla prova quel pover’uomo con tre sfide da superare, e anche se il poveretto era effettivamente riuscito a farcela, poi era stato ucciso dal Sole, che essendo il marito della Luna, quando aveva scoperto tutto, era diventato geloso. Alla faccia del lieto fine!
 
«Però io lo so dove c’è il tesoro, eh! Lo so, io lo so, e so anche dove c’è la chiave, lo so!» riprese, vivacemente, il vecchio.
 
«Chiave? Non hai mai parlato di una chiave» disse Fall, osservando attentamente l’uomo. Non riuscivo ancora a crederci ma, a quanto pareva, per un motivo che proprio non riuscivo a comprendere, lui era veramente interessato a quel racconto strampalato.
 
«Si che te l’ho detto, eh!» si animò il vecchio, pestando il bastone per terra e facendomi trasalire.
 
Fall ritrattò ciò che aveva detto con una velocità sorprendente. «Scusami, l’hai detto, ma io non ho sentito, puoi ripetere per favore?»
 
Ero a dir poco allibita. Non l’avevo mai visto così docile ed arrendevole. Come poteva fare l’arrogante e lo spavaldo con Ace – con Ace! Che se avesse voluto, l’avrebbe incenerito in due secondi netti con uno schiocco di dita – ed essere poi tanto gentile e rispettoso con un vecchio così stordito che a stento si capiva ciò che diceva? Doveva mancare anche a lui qualche venerdì, per forza, era l’unica soluzione plausibile.
 
«Tsè, te lo ripeto, che c’era una chiave! Il premio perché il pescatore aveva superato tutte le prove era la chiave, che poi se ci avevi la chiave potevi aprire lo scrigno dove dentro c’era il tesoro, che se no lo scrigno non si apriva mica e te non lo potevi mica avere, il tesoro.»
 
Ascoltai distrattamente, pensando che la Luna fosse proprio una gran simpaticona. Non solo voleva che il suo innamorato superasse delle prove ma inoltre, una volta superate, non gli dava nemmeno il tesoro, ma gli dava la chiave per aprire lo scrigno del tesoro. Come minimo, poi il pescatore sarebbe dovuto andare anche alla ricerca dello scrigno, per poter finalmente arrivare ad avere quel benedetto tesoro. Peccato soltanto che a quel punto fosse stato accecato ed incenerito. Poveretto, che brutta fine davvero doveva aver fatto.
 
«E tu sai dove sono sia la chiave che il tesoro?» continuò ad insistere Fall.
 
In risposta, il vecchio continuò a ciondolare la testa avanti e indietro, su e giù, sorridendo felice.
 
«E saresti disposto a dircelo?» domandò Fall. Mentre poneva quella domanda, mi parve stranamente nervoso. A quanto pareva, era proprio vero che quel vecchietto gli faceva più paura di me ed Ace messi assieme.
 
«Massì, che tanto io sono vecchio, e se non l’ho mica trovato da giovane non lo trovo mica più neanche adesso, il mio tesoro» acconsentì l’uomo. «La chiave è sull’isola Kimhina, e il tesoro c’è sepolto da qualche parte intorno all’Inedel.»
 
«Kimhina?» ripetè Fall, aggrottando le sopracciglia.
 
«Massì quell’isola che è a qualche giorno di qui, quella piccola piccola dove non ci abita mica più nessuno, che ci sono solo le piante, che sono loro le padrone dell’isola, mica le persone» confermò il vecchio, convinto. Fall rimase in silenzio, pensieroso.
 
«Ma se sai dov’è la chiave e dov’è il tesoro, perché non sei riuscito a trovarli?»
 
«Tsè, non è mica facile, vè! La chiave la proteggono le piante, che a loro le persone non ci piacciono mica, e il tesoro non è facile da trovare, che quelle acque lì non sono mica sicure, che sono piene di scogli e di bestie feroci» si animò il vecchio, alzando la voce.
 
«Ora basta, Itori, hai parlato abbastanza per stasera» s’intromise all’improvviso il proprietario della locanda, attirato dal tono di voce del vecchio, indicando cortesemente l’uscio a quest’ultimo che, docilmente e senza dire una parola, si alzò, e lasciò la locanda come gli era stato chiesto.
 
«Scusatelo, viene sempre qui a parlare con i clienti quando si sente solo, e i forestieri sono quelli che gli piacciono maggiormente. Vi stava raccontando la leggenda del tesoro?» chiese l’oste, un uomo sulla quarantina con corti capelli brizzolati, una corta ed ispida barbetta grigia che gli copriva il mento ed un paio di gioviali occhi castani.
 
Noi tre annuimmo.
 
L’uomo sospirò. «Eh, la solita vecchia leggenda. E’ ossessionato da quel tesoro. Ha avuto un incidente in mare quando era giovane e, anche se si è salvato per miracolo, da allora non è più stato lo stesso. E’ diventato mezzo matto, e non fa altro che parlare di leggende, Luna, e vecchi tesori. Per il nostro villaggio, è diventato una sorta di mascotte.» Al bancone, un avventore richiamò la sua attenzione. «Devo rimettermi al lavoro. Mi scuso se vi ha arrecato disturbo, non date troppo peso alle sue parole, ormai non sa più quello che dice. Con permesso» accennò quindi un rapido inchino e si diresse verso il bancone, tornando al proprio lavoro.
 
Sospirai, grata che il vecchio se ne fosse andato.
 
Proprio in quel momento, fecero il loro ingresso Kai, Jon e Robert, il primo sorridendo pacifico come d’abitudine, mentre gli altri due sembravano parecchio spossati, e Jon anche parecchio incazzato.
 
«Finalmente. Sto morendo di sonno, vieni di sopra anche tu?» Fall si rivolse bruscamente a Kai. Nonostante le sue parole, non sembrava affatto stanco, soltanto stranamente silenzioso e pensieroso. Come da manuale, il biondo annuì, e, augurandoci la buonanotte, si incamminò su per le scale dietro a Fall, che era sparito senza dire un ulteriore parola.
 
Non che mi dispiacesse: meglio zitto e scortese che chiacchierone e molesto.
 
Avevamo preso tre stanze, ognuna da due persone: io ed Ace, Fall e Kai, Jon e Robert, mentre Gary e Igor sarebbero rimasti sulla nave.
 
«Allora qual’è il responso? Quanto tempo ci vorrà per le riparazioni?» domandò sorridente Ace ad un molto irritabile Jon, che aveva appena finito di ordinare la cena.
 
«Un paio di giorni. Ha detto che non è poi così grave» rispose il ragazzo in un ringhio, affondando nervosamente la forchetta nella bistecca che aveva nel piatto.
 
Ace, che sembrava essere totalmente immune all’aura di negatività che emanava il suo sottoposto, sorrise ancora più apertamente. «Molto bene, quindi abbiamo un paio di giorni di relax! E non dovremo nemmeno ritardare molto la partenza, che bella notizia» esclamò, allegro come sempre.
 
Jon emise un minaccioso verso gutturale, infilzando nella carne anche il coltello, senza degnare il comandante di un ulteriore sguardo.
 
Nascosi uno sbadiglio con la mano, accoccolandomi sulla panca. Appoggiai la fronte contro la spalla di Ace. «Ho sonno, andiamo su anche noi?»
 
Si alzò e allungò le braccia oltre la testa, stiracchiandosi «Andiamo.»
 
«Buonanotte, ragazzi.»
 
«A domani!»
 
Quindi, seguendo Ace, salii a mia volta le scale, notando soltanto allora che mi sembrava di avere le palpebre pesanti come macigni. Le corse su e giù per il paese, abbinate a quel vecchio e alla sua storia noiosa e pseudo-incomprensibile mi avevano stesa.
 
Richiusi la porta della camera alle mie spalle e poggiai pesantemente la schiena contro essa, sbadigliando di nuovo. «Questa giornata mi ha distrutta» mormorai, andandomi a sedere sul letto con malagrazia, dando le spalle ad Ace.
 
Senza preavviso le mani calde del pirata si posarono dolcemente sulle mie spalle ed iniziarono a massaggiarle piano, in lenti movimenti circolari. Mi lasciai sfuggire un sospiro di piacere, chinando il capo per lasciargli più spazio, iniziando a rilassarmi. «Non dirmi che sei davvero così stanca, credevo avessimo un discorso in sospeso, io e te» mi sussurrò con la sua voce bassa, in modo decisamente sensuale, avvicinandosi fino a sfiorarmi l’orecchio con le labbra.
 
Deglutii, irrigidendomi all’istante sotto le sue mani.
 
Rise, una risata bassa e lieve. «Rilassati» mormorò con lo stesso tono di poco prima, mentre le sue dita si spostavano sul mio collo, gentili ma sicure nei propri movimenti, quasi come se stessero seguendo una danza ben precisa.
 
Inutile dire, che a quel punto mi fosse già passato tutto il sonno che potevo avere fino a qualche istante prima. Nemmeno mi ricordavo più che significato avesse, la parola “sonno”, in quel momento.
 
«Allora? Credi di potercela fare o sei troppo stanca?» continuò a provocarmi, con quello stesso tono di voce, invitante e anche lievemente divertito.
 
«Credo di potercela fare» risposi, tutto d’un fiato, con un filo di voce.
 
Sentii le sue labbra, poggiate sul mio collo, incurvarsi in un sorriso, un attimo prima che le schiudesse ed iniziasse a baciarmi, con studiata calma, mentre il suo braccio sinistro scendeva a circondarmi la vita per attirarmi a sé.
 
Chiusi gli occhi sospirando di nuovo mentre, quasi involontariamente, le mie mani si spostavano sul suo braccio ed io iniziavo ad accarezzare la pelle abbronzata dell’avambraccio, lasciata esposta dalle maniche arricciate fino ai gomiti della camicia.
 
Sentii la sua mano destra sfiorarmi la guancia, accarezzare le labbra, scendere sul mento e farmi gentilmente reclinare il capo. Ubbidii docilmente. Mi strinse più forte contro di sé ed anche i suoi baci si fecero più decisi, come notai quando, con un brivido, avvertii i suoi denti lambirmi la gola.
 
«Ace…» sospirai, stringendo con le mie la mano che mi circondava i fianchi.
 
«Si?» le sue labbra si separarono dal mio collo giusto l’istante necessario per rispondere, per poi tornare senza esitazione a ciò che stavano facendo fino all’attimo prima.
 
Mi rigirai nel suo abbraccio e, quando fummo faccia a faccia, intrecciai le dita tra i suoi capelli scuri e ribelli, baciandolo. Ace, dal canto suo, certo non si fece pregare per rispondere al bacio, ora mordendomi piano le labbra e ora accarezzandole con la lingua.
 
Ci separammo dopo alcuni istanti, entrambi senza fiato, guardandoci fisso negli occhi.
 
Fu più forte di me, non riuscii a non arrossire, leggendo le sue intenzioni nei suoi occhi neri e roventi e nel suo sorriso seducente.
 
Lo baciai nuovamente.
 
Mentre le mie labbra erano impegnate con le sue, in quella che avrebbe potuto essere tanto una danza quanto una lotta, le sue mani si insinuarono sotto la mia maglia. Inarcai la schiena e mi lasciai sfuggire un gemito mal trattenuto, avvertendo i suoi palmi roventi sulla pelle nuda. Da come si mossero le sue labbra, intuii che stesse sorridendo soddisfatto.
 
Le sue mani risalirono lentamente per la mia schiena fino ad arrivare alle spalle. Si scostò da me per sfilarmi la maglia ed io, nuovamente obbediente, lo lasciai fare, allontanando le dita dai suoi capelli giusto il tempo necessario perché l’indumento finisse a terra.
 
Tornammo a baciarci, ma dopo pochi istanti lui si separò nuovamente da me, con una smorfia. «Non è la stessa cosa, pelle contro pelle è molto molto meglio» asserì, con un tono rovente almeno quanto il suo sguardo, portando le mani al primo bottone della camicia, deciso a levarsela il prima possibile.
 
«Faccio io» lo bloccai subito. Finalmente, era giunto il momento in cui avrei sbottonato quella benedetta camicia. Poggiai le mani sulle sue spalle e lo spinsi, facendolo sdraiare sul letto. Ace mi rivolse uno sguardo incuriosito, ma non protestò.
 
Toccò a me sorridere quando, sedendomi a cavalcioni sui suoi fianchi, lo vidi sussultare e deglutire, colto alla sprovvista.
 
Soddisfatta di essere riuscita, per una volta tanto, a spiazzarlo, mi chinai sui di lui.
 
Indugiai per qualche secondo sulle sue labbra prima di scendere a baciargli lentamente la mandibola e il collo, finchè, quando feci per passare al petto, non incontrai l’orlo della camicia.
 
Le mie mani sbottonarono rapidamente i primi bottoni e scivolarono lievi sotto il tessuto leggero, accarezzando i pettorali del pirata con i polpastrelli e solleticando la sua pelle liscia e abbronzata con le unghie.
 
Lo ascoltai sospirare, compiaciuta, trovando decisamente piacevole il fatto che, una volta tanto, fosse lui quello sotto. Mi dava una strana sensazione di forza vederlo così tranquillamente steso sul letto, disposto a farsi strapazzare da me. Sembrava un invito, un modo per dire “sono a tua disposizione”, e la cosa era chiaramente eccitante, considerando che era di Ace che si stava parlando.
 
Aprii anche gli ultimi bottoni, lieve e rapida.
 
Tornai a posare le mani sul suo petto, coi palmi aperti, e le feci lentamente scorrere lungo il suo corpo, scostando i lembi della camicia. Mi accorsi che tratteneva il fiato, e non potei fare a meno di sorridere.
 
Quando arrivai a sfiorare l’orlo delle sue braghe, tornai a muovere le mani verso i pettorali e poi verso le spalle, scoprendo quanta più pelle potevo.
 
Ace, che aveva nel frattempo ripreso a respirare, anche se in modo non proprio regolare, si mise seduto, permettendomi di sfilare definitivamente la camicia, che andò molto presto a fare compagnia alla mia maglietta da qualche parte sul pavimento.
 
Rimanemmo qualche istante faccia a faccia, a fissarci negli occhi, immobili.
 
Quelli di Ace erano neri come la pece, profondi come abissi, e bollenti come il fuoco.
 
Non riuscii a resistere a lungo ed allacciai le braccia attorno al suo collo, nello stesso istante in cui lui mi cingeva i fianchi e riprendevamo a baciarci. Approfittando della situazione, lo feci nuovamente sdraiare nella posizione in cui si trovava poco prima, mentre il bacio si faceva più intenso e selvatico fino a diventare una vera e propria lotta, che si concluse con la vittoria di Ace soltanto quando, senza preavviso, le sue mani scivolarono insidiose all’interno della mia coscia, strappandomi un gemito rumoroso, e distogliendomi dal mordere le sue labbra.
 
Lui sogghignò, chiaramente soddisfatto, mentre io arrossivo sotto il suo sguardo malizioso.
 
Ma mi ripresi in fretta e gli restituii il favore: altrettanto senza preavviso, mi chinai a baciare i suoi addominali, tra l’ombelico e l’orlo delle braghe. Lo sentii soffocare un gemito, che però non riuscii più a trattenere quando, anziché limitarmi ad usare le labbra, iniziai ad accarezzarlo anche con la lingua.
 
«Questo… è un colpo terribilmente basso» ansimò, con voce roca.
 
Sorrisi contro la sua pelle. «Hai iniziato tu» mi giustificai, candida.
 
Stavo giusto pensando in che altro modo avrei potuto strapazzarlo quando, afferrandomi i polsi, Ace ribaltò le posizioni in un istante con un colpo di reni, e fui io quella che finii sdraiata sul letto, i polsi bloccati sopra la testa.
 
Sopra di me, quello stupido pirata sorrideva, sebbene il suo respiro fosse ancora irregolare e le sue guancie coperte di lentiggini arrossate.
 
Mi indispettii per quel brusco cambiamento, e cercai di divincolarmi.
 
Ace non fece una piega. Chiaramente, era molto più forte di me.
 
«Non vale» protestai. «Sai cosa succede a questo punto, vero?»
 
«Certo. Io ti spoglio e facciamo tante cose sporche» sogghignò, con quella sua solita espressione tra il malizioso e il dispettoso dipinta in viso.
 
«Veramente, io intendevo che se non mi lasci andare ti ritroverai molto presto con i miei artigli piantati nella schiena e i miei denti nel collo»
 
Ace fece spallucce. «Facciamolo, sembra divertente» sorrise, per nulla scoraggiato. Vedendo che rimanevo seria, offesa, si chinò su di me, accarezzandomi il collo con le labbra. «Se ti azzardi a trasformarti adesso, potrei non rispondere più delle mie azioni» mi ammonii, sussurrando al mio orecchio con voce bassa e calda.
 
Io… davvero non avrei voluto dargliela vinta tanto facilmente, ma sentirlo usare quel tono mentre le sue labbra mi erano così vicine e le sue mani mi accarezzavano il ventre, continuando a giocherellare con il bottone dei miei shorts… era davvero troppo.
 
«Stupido pirata…» mugugnai, voltando il viso per baciarlo per l’ennesima volta consapevole, che, di nuovo, sarei finita con lo stare al suo gioco.
 
Ma sapete una cosa? Se questo comprendeva l’averlo nudo davanti – e non solo – a me, alla fine quello di Ace non era un gioco a cui mi dispiacesse partecipare.
 
 
Spazio autrice:
Scrivere l’ultima parte del capitolo è stata una faticaccia che non immaginate. Non che mi venisse difficile immaginare la situazione *coff coff*, soltanto che ad ogni riga mi partiva un mega filmino mentale, ma proprio uno di quelli molto seri (oltre che chiaramente vietato ai minori XD), e quando dopo dieci minuti mi ripigliavo, dovevo rileggermi tutto da capo perché non ricordavo più dove ero arrivata ^^”  Sì, sono consapevole di essere messa male se reagisco in questo modo di fronte a cose che io stessa ho scritto -.-
Diamo tutta la colpa ad Ace XD
 E poi queste scene non so mai bene come troncarle senza sconfinare nel rating rosso, dal momento che, vista la mia passione per le scene molto dettagliate, oltre un certo punto con il rating arancio è impossibile andare, e non è stato facile trattenere la mia mente perversa… Potrei anche fare una one shot con rating rosso, tipo retroscena della storia, in cui mettere ciò che ho censurato, ma non so, vedremo, dovrei prima fare i conti anche con la mia timidezza ^^’
Parlando di cose un po’ più serie, vi assicuro che il vecchietto in questione non è un tappa buco che ho piazzato lì perché non sapevo come proseguire, davvero, il vostro “amato” Fall vi spiegherà tutto nel prossimo capitolo, dove avremo anche il caro vecchio Smoky ^^
Un minuto di silenzio per tutti gli articoli, i tempi verbali, le virgole e le altre cose che ho ucciso facendo parlare il vecchio, ma avevo bisogno che fosse un po’ sgrammaticato, abbiate pazienza! Se non altro ho messo Mikami come traduttrice, giusto per essere sicura di capirci XD
Bene, dopo questo spazio autrice lungo chilometri, vi saluto! Ah, ultima cosa: probabilmente tarderò con il prossimo aggiornamento, causa sessione di settembre unita al fatto che sono indietro anche con un’altra storia che sto pubblicando ^^’
Ad ogni modo, ci sentiamo presto, byeeee! :*

 

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Capitolo 10
*** Without an honest heart as compass ***


Without an honest heart as compass

Entrammo nella piccola stanza dalle pareti grigie. Il pavimento era di legno scuro e consunto e l’unico mobilio consisteva in due letti dalle coperte immacolate, tra i quali era stato sistemato un comodino rettangolare, e una piccola scrivania con una sedia, situata sotto l’unica finestra e anch’essa realizzata in legno, ormai rovinato dalle tarme e dall’usura.
 
Mi appropriai del letto di sinistra, quello più vicino alla porta. Mi sedetti, pensieroso.
 
Kai sedette sull’altro letto. Non disse nulla, ma sentivo distintamente i suoi occhi puntati sulla schiena. Chiaramente, si era accorto che c’era qualcosa che mi dava da pensare ma, un po’ per il suo carattere riservato e pacato, un po’ per il fatto che ormai mi conosceva davvero bene, preferiva non parlare, attendendo pazientemente che fossi io a farlo per primo.
 
Non dovette aspettare troppo a lungo.
 
«Non ci crederai, ma so dov’è la chiave» dissi senza preavviso, voltandomi ad osservarlo.
 
Mi guardò per un lungo istante con aria interrogativa, evidentemente senza capire di cosa stessi parlando. Poi, dovette invece capire. Si fece subito attento, spalancando gli occhi e drizzando la schiena. «…Davvero?» domandò, incredulo.
 
Annuii. «Mentre tu eri in giro a fare da balia a quei due, ci siamo imbattuti in un vecchietto tutto svitato che ci ha raccontato la leggenda del tesoro, ed ha concluso dicendo che la chiave si trova su un’isola di nome Kimhina. Sapeva addirittura la posizione esatta del tesoro. Quando mi sono reso conto che, anche se sembrava l’esatto opposto, quel vecchio sapeva perfettamente ciò che stava dicendo, quasi non ci ho potuto credere.»
 
«…Sei sicuro?» fu tutto ciò che riuscì a dire, sbigottito.
 
Sospirai, infastidito. «No, ovvio che no, non posso esserne sicuro.» Mi sdraiai sul letto ed incrociai le braccia dietro la nuca, fissando gli occhi su una lunga crepa che solcava l’intonaco del soffitto. «E’ impossibile essere certi che la chiave sia realmente lì. E a dire tutta la verità, la versione della leggenda di quel vecchio era sbagliata. Nel suo racconto, il pescatore supera tutte e tre le prove ma, quando sta per ricevere la chiave dalla Luna, viene incenerito dal Sole.»
 
Mi voltai nuovamente, incontrando lo sguardo perplesso di Kai. «Ah, già, mi stavo scordando di dirti che nella sua versione la Luna ed il Sole sono marito e moglie, quindi quando il Sole capisce che lei gli vuole mettere le corna con un pescatore, pensa bene di fare fuori il rivale e di riportarsi a casa la Luna con le maniere forti. Assurdo, eh?»
 
Lui sbattè un paio di volte le palpebre, e scosse la testa. «Ho cancellato la parola “assurdo” dal mio vocabolario molto, molto tempo fa.»
 
Tornai nervosamente a sedermi. «Ahhhh, c’è una bella differenza! Un conto è dire che la Luna ed il Sole sono sposati, un altro è… beh, tutto il resto.»
 
Sospirai.
 
In realtà, per quanto mi scocciasse ammetterlo, forse non aveva tutti i torti. Dopo quello che avevo visto, effettivamente, nulla avrebbe più dovuto sembrarmi impossibile. Se credevo tranquillamente al fatto che, molto tempo fa, la Luna si fosse realmente innamorata di un pescatore e l’avesse messo alla prova, se sapevo con certezza che, purtroppo, quel dannato gatto era reale, se sapevo che lui, lui e le sue stregonerie erano reali… Mi incupii.
 
«Anche se non fosse una storia assurda, è comunque la storia sbagliata» tagliai corto.
 
«Come fai ad essere certo che sia la sua versione sbagliata, e non la tua?» domandò Kai, incurante del mio umore che andava rapidamente peggiorando.
 
Gli lanciai uno sguardo truce e apertamente minaccioso. Sapeva benissimo come facevo a saperlo, e per di più non era qualcosa di cui mi facesse piacere parlare. E lui sapeva anche questo.
 
Sollevò le mani, con i palmi aperti verso di me, in segno di resa, con un sorriso di scusa.
 
Distolsi lo sguardo con un sospiro rabbioso. «Ad ogni modo, questo ci costringe a rivedere i nostri programmi. Aver scoperto dov’è la chiave è senz’altro un bene, ma è solo questione di tempo prima che si rendano conto che non è il One Piece il tesoro a cui stiamo dando la caccia.»
 
«Vuoi dirgli la verità? Non sarebbe da te, Fall » commentò il biondo con uno dei suoi soliti sorrisi tranquilli. Maledizione a lui, quel ragazzo, oltre che essere completamente immune al mio malumore ed al mio caratteraccio, sembrava totalmente incapace di perdere la calma e preoccuparsi. Sì, in realtà era proprio per l’ incredibile autocontrollo e la sua disarmante tranquillità che mi fidavo quasi ciecamente di lui, eppure, in una situazione del genere, quando io ero teso come una corda di violino e avevo i nervi a fior di pelle, quel suo rimanersene perfettamente calmo a sorridere pacificamente era frustrante.
 
«Infatti sto pensando ad un’alternativa» replicai secco.
 
In realtà, ero già arrivato alla conclusione che di alternative non ce ne fossero. Persino ad Ace e ai suoi sarebbe sembrato strano che, casualmente, il Tesoro della Luna si trovasse sulla stessa isola del One Piece. Per non parlare della storia della chiave: oltre il fatto che non si era mai sentito da nessuna parte che per arrivare al One Piece servisse una chiave, il fatto che questa presunta chiave fosse – di nuovo – sulla stessa isola in cui si trovava anche quella dell’altro tesoro… era proprio ingiustificabile. Non vedevo altra scelta, se non rivelare agli altri che non era mai stato il One Piece il tesoro a cui stavamo dando la caccia, ma il Tesoro della Luna. L’unico interrogativo, a quel punto, era: come avrei potuto dirglielo? In ogni caso, avrei dovuto ammettere di aver mentito.
 
«Non c’è un’altra soluzione» decretai cupamente, «dobbiamo dirgli la verità.»
 
«Tutta?»
 
Kai fu investito da un'altra occhiata carica d’ira. «Chiaramente, no» sibilai, sentendo che stavo realmente iniziando a perdere le staffe, «solo la parte che riguarda il tesoro.»
 
Lui, stranamente, decise di insistere. «Se gli dicessimo tutto, magari potrebbero anche aiutarti. Almeno, Ace sembra il tipo di persona che sarebbe disposto a farlo. Potremmo fare un tentativo, visto che dobbiamo comunque ammettere di non essere stati corretti con loro.»
 
Quelle parole arrivarono molto, molto vicine a farmi perdere la pazienza. E finalmente dovette accorgersene anche Kai, quando la mia voce si fece così bassa da essere udibile a stento. Possibile che non ci arrivasse?! «Ho. detto. di. no.»
 
La luce artificiale del lampadario sembrò calare bruscamente di intensità ed affievolirsi, mentre le nostre ombre e quelle dello scarno mobilio si facevano più lunghe e dense, allungandosi verso di noi come nel tentativo di arrivare a ghermirci. Anche l’aria nella stanza si era improvvisamente fatta più fredda e pesante.
 
Solo allora Kai, allarmato, si rese conto di aver tirato davvero troppo la corda. Se non fossi stato così furioso per tutte le stronzate che continuava a sparare, mi sarei certamente stupito del fatto che non si fosse tirato indietro molto prima. Generalmente, smetteva di discutere nell’istante in cui capiva che mi stava facendo innervosire, per evitare situazioni spiacevoli di cui avrebbe poi dovuto pagare il prezzo.
 
Mi resi conto che, comunque, la situazione mi stava effettivamente sfuggendo di mano. Rivolsi un ultimo sguardo irato al ragazzo e, afferrando al volo le mie spade, che avevo precedentemente appoggiato sulla vecchia scrivania, uscii dalla stanza, chiudendo malamente la porta alle mie spalle.
 
Scesi le scale. Al piano inferiore, nonostante l’ora tarda, c’erano ancora un paio di avventori, seduti al bancone a chiacchierare pigramente con l’oste. Quest’ultimo, quando mi vide, aprì la bocca come per dire qualcosa – probabilmente credeva avessi fame, sete, o qualcosa di simile –, ma il mio sguardo scuro fu sufficiente a fargliela richiudere senza aver spiccicato parola.
 
Uscii dalla locanda. Il buio, fuori, mi sembrò quasi accecante.
 
Sbattei un paio di volte le palpebre, lasciando che i miei occhi si abituassero all’oscurità. L’aria era piacevolmente fresca, densa del profumo delle rose rampicanti che, selvagge, crescevano a ridosso del muro a nord della locanda, artigliando con le loro dita spinose il vecchio e malconcio intonaco.
 
Sentii immediatamente i muscoli che si rilassavano e la tensione che dolcemente si scioglieva ed iniziava a scivolare via.
 
Sistemai i kriss nella cintura – odiavo essere disarmato – ed iniziai a camminare senza una meta precisa con le mani affondate nelle tasche delle braghe, vagando nel labirinto che costituivano le case tipiche di quel villaggio, basse e pressate le une alle altre.
 
Quella notte il cielo era limpidissimo, di un blu intenso tendente al nero che ricordava il velluto. Era costellato di stelle: riconobbi il Grande e poi il Piccolo Carro, più un altro paio di costellazioni che conoscevo ma di cui mi accorsi di aver totalmente scordato il nome.
 
C’era solo uno spicchio di Luna.
 
Quello spicchio sottile aveva la gobba rivolta verso est, e formava una sorta di C ribaltata, come vista allo specchio. Pochi giorni, e ci sarebbe stata la Luna nuova.
 
Rabbrividii, e distogliendo lo sguardo mi imposi di pensare ad altro. Stavo diventando paranoico: figurarsi se la Luna avrebbe, anch’essa, iniziato ad infastidirmi. Probabilmente erano secoli che non scendeva più sulla Terra. Anzi, era probabile che non l’avesse più fatto, dopo che il pescatore l’aveva delusa.
 
Camminai tra le vie e gli stretti sentieri bui per mezz’ora buona. Col tempo, avevo imparato che quello di passeggiare nel cuore della notte, quando tutti gli altri dormivano, era uno dei pochi metodi efficaci per svuotarmi la mente e rilassare i nervi.
 
Quando rientrai nella locanda, il mio umore era decisamente migliorato. Lanciai un’occhiata distratta al bancone, notando che la coppia di clienti era ancora lì, al suo posto. Salii le scale, diretto alla stanza che dividevo con Kai.
 
Appena arrivato in cima alle scale, non feci in tempo a muovere nemmeno un passo in corridoio che quasi mi scontrai con qualcuno. Indietreggiai di qualche passo, vedendo i bermuda neri ed il petto nudo e riconoscendo in quel qualcuno Ace.
 
«Ciao!» esclamò lui, con un ampio sorriso stampato in faccia.
 
«Ciao» ricambiai con poco entusiasmo.
 
«Come mai sveglio ancora a quest’ora? Credevo fossi stanco» domandò innocentemente lui. Ah, vero, mi ero completamente scordato di aver detto che andavo subito di sopra perché avevo sonno.
 
«Ah, sì, ma sono un po’ insonne, non sono riuscito a dormire» risposi con un sorriso stanco. La solita vecchia scusa che torna sempre utile. «E tu?»
 
«Ho fame» affermò con un ampio sorriso, portandosi una mano alla pancia che, effettivamente ora che ci facevo caso, emetteva dei bassi e prolungati lamenti.
 
Inarcai un sopracciglio. «E cosa ci hai fatto con quel quintale di roba che hai ingurgitato a cena? Anzi, nelle due cene» mi corressi, lanciandogli uno sguardo stranito.
 
Un ampio sogghigno malizioso di dipinse subito sul suo viso «Io-
 
«Fa lo stesso, non lo voglio sapere» lo interruppi subito. Avevo sopportato anche troppo per quella sera, non credevo di poter resistere anche ad Ace. «Torno in camera sperando di riuscire a prendere sonno. ‘Notte.» tagliai corto, sgusciando rapidamente nella mia stanza e chiudendomi la porta alle spalle.
 
Sospirai.
 
Sentendomi realmente stanco, mi sedetti sul bordo del letto, sfilando le scarpe e mandandole a finire in un angolo della stanza. Mi voltai. Al buio, identificai Kai nel fagotto di lenzuola adagiato sull’altro letto. Era perfettamente immobile, ma dubitavo stesse realmente dormendo.
 
L’ennesimo sospiro. Mi spogliai, e con uno sbadiglio mi infilai sotto le coperte. Ero davvero troppo stanco per pensare a come risolvere la questione del tesoro. Ci avrei pensato la mattina seguente.
 
*
 
Qualche ora più tardi ero nuovamente sveglio, a fissare, senza vederlo realmente a causa dell’oscurità, il soffitto, le braccia incrociate dietro la nuca e le lenzuola stropicciate in un fagotto informe ai piedi del letto.
 
Sembrava che a forza di dire agli altri che soffrivo di insonnia, fossi diventato insonne realmente.
 
 Sospirai.
 
La verità, era che semplicemente ero troppo preoccupato per riuscire a dormire.
 
Continuavo a chiedermi cosa avrei detto ad Ace e agli altri e, anche se quando mi ero messo a letto ero crollato addormentato nel giro di pochi minuti, dopo poche ore di sonno – in cui tra l’altro ero stato tormentato da sogni caotici e ingarbugliati, popolati ora da Ace e la sua ciurma, ora da quel demonio di un gatto e da altri demòni ancora più oscuri di cui preferii non ricordare – mi ero svegliato, con un’unica domanda che continuava ad assillarmi: “E ora cosa gli dico?”
 
Sospirai nuovamente, rassegandomi all’evidenza che non sarei riuscito a riposare. Non finchè non avessi risolto quel piccolo problema, almeno.
 
Perciò mi misi seduto, sistemai il cuscino contro la testiera del letto e vi appoggiai la schiena: se la mia unica possibilità era trovare una soluzione per la situazione in cui mi ero cacciato… beh, non avevo altra scelta se non trovarla.
 
*
 
Quando mi svegliai il Sole era già alto nel cielo e la sua luce entrava prepotentemente dalla finestra spalancata, assieme ad una lieve brezza. E quando dico che il Sole era già alto non intendo dire che era sorto da qualche ora: intendo dire che era proprio alto, e che probabilmente era mattina inoltrata o, addirittura, primo pomeriggio.
 
Con una smorfia irritata mi passai una mano tra i capelli, levandomeli da davanti gli occhi, e constatai che non solo avevo passato in bianco buona parte della notte e dormito poi tutta la mattina, ma che avevo anche una forte e fastidiosa emicrania. E stavo morendo di fame.
 
Calciai le coperte in fondo ai piedi, e feci scivolare le gambe giù dal letto. Non mi stupii di non vedere Kai nella stanza.
 
Inutile dire, che fossi di pessimo umore.
 
Dopo una lunga  tappa al bagno – se non altro l’acqua gelida della doccia fu utile a lavare via gli ultimi residui di sonno – mi vestii svogliatamente e, uscito dalla mia stanza, mi diressi al piano di sotto. Tutto ciò che volevo in quel momento era che Ace e quegli altri tizi che aveva il coraggio di chiamare “ciurma” non ne avessero combinata una delle loro. Visto il mio umore a dir poco pessimo, non ero certo di essere in grado di trattenermi dal farli a fette nel caso si fossero messi nei pasticci. Per essere chiari, non che fosse affar mio se si mettevano o meno nei guai, ma di tempo da perdere proprio non ne avevo, e avrei gradito che la mia emicrania non peggiorasse.
 
E poi, volevo risolvere la questione del tesoro il prima possibile.
 
Incredibile a dirsi, ma fui fortunato: quando arrivai di sotto trovai che la ciurma al completo era seduta a tavola, impegnata a divorare il pranzo in maniera a dir poco famelica.
 
Vedendoli, tirai un sospiro di sollievo. Forse, dopotutto, la fortuna stava girando, e non sarebbe andata poi così male.
 
Mi andai ad unire a loro, sedendomi al tavolo sussurrando uno svogliato “buongiorno”. Gli uomini ricambiarono il saluto, e nessuno di loro sembrò particolarmente colpito dal fatto che avessi dormito tutta la mattina. Meglio così, mi sarei sentito monotono a tirare ancora in ballo la scusa dell’insonnia, e mi sarei anche sentito un  po’ stupido nel dover aggiungere che poi mi ero incredibilmente addormentato con il sorgere del Sole e che avevo tirato dritto tutta la mattina.
 
Chiamai l’oste, ordinando a mia volta il pranzo.
 
Quando ebbi finito, se non altro, il mal di testa si era alleviato ed io mi sentivo già un po’ meglio, nonostante il chiasso che riuscivano a fare gli uomini di Ace e il loro rivoltante modo di abbuffarsi.
 
«Cosa facciamo, ora?» domandò ad un tratto Mikami guardando con aria curiosa Ace, che dal canto suo era scompostamente seduto sulla sedia – quasi più sdraiato che seduto – e, con gli occhi a mezz’asta, sembrava sul punto di addormentarsi da un momento all’altro. A quelle parole sembrò riscuotersi, si sistemò meglio sulla sedia e fece spallucce. «Quello che vogliamo. Anche se fossimo fortunati, la nave non sarebbe pronta prima di domani o dopodomani. Perciò, nel frattempo possiamo fare tutto ciò che ne abbiamo voglia » concluse con un sorriso sghembo.
 
«In questo caso, io ne approfitto per fare un giro» disse subito Jon, alzandosi da tavola. «Dì la verità, vai in cerca di ragazze! O forse le hai già trovate?» lo stuzzicò Ace con un sorriso dispettoso. Il ragazzo gli lanciò uno sguardo privo di interesse. «Fatti i fatti tuoi. E quasi dimenticavo: tu e lei non potete andare in giro soli per nessuna ragione. Capito? Nessuna! O ci toccherà passare tutto il resto del giorno a cercarvi.» Ace si grattò la nuca ridacchiando, promettendo a Jon che lui e Mikami sarebbero stati attenti a non perdersi.
 
Inarcai un sopracciglio. Fossi stato io al posto di Ace,  non avrei tollerato una tale mancanza di rispetto da parte di un mio subordinato. Del resto, c’era da dire che nella ciurma – no, anzi, non ciurma, famiglia, come piaceva dire a loro – di Barbabianca di cose che andassero nel verso giusto ce n’erano ben poche. Quindi non mi stupii più di tanto di fronte alle risate di Ace.
 
«Allora io tornerò alla nave, a vedere come procedono i lavori e come stanno Gary e Igor » decise Robert suscitando l’approvazione di Ace, che annuì vigorosamente.
 
Sentii gli occhi di Kai indugiare su di me, in una domanda muta che, se fosse stata espressa a parole, avrebbe suonato pressappoco così:”E dove andiamo noi?”
 
La mia mente si mise subito in moto.
 
Avrei preferito parlare con Ace della faccenda del tesoro da solo, ma sembrava che fosse pressoché impossibile separarlo da Mikami. Temevo mi sarei dovuto accontentare di essere riuscito a levarmi di torno il resto della ciurma, il che era sempre meglio che niente.
 
Inspirai profondamente e mi rivolsi ad Ace, stampandomi sulle labbra un sorriso cortese. «Io e Kai verremo con voi, così potrete visitare l’isola evitando di perdervi.»
 
Tra noi calò il silenzio più completo.
 
 Tre paia di occhi spalancati ed attoniti si fissarono sulla mia persona, ma il mio sorriso non si incrinò nemmeno di mezzo millimetro.
 
Il primo a riprendersi fu Kai che, intuendo a cosa stessi pensando, tornò presto ad esibire la sua espressione serena e pacata. Anche Ace si destò in fretta, sfoderando uno dei suoi sorrisi a trentadue denti e dichiarandosi d’accordo. Solo Mikami continuò a fissarmi con espressione sbigottita.
 
Le rivolsi uno smagliante ed innocente sorriso, alzandomi da tavola. «Bene allora, possiamo andare.»
 
Anche gli altri si alzarono, e qualche minuto dopo eravamo già fuori dalla locanda. Ace si era subito messo a vagare senza meta tra case del villaggio, diretto chissà dove, con Mikami che gli trotterellava dietro come un cagnolino – facendo del suo meglio per ignorarmi – ed io e Kai che li seguivamo ad un paio di metri di distanza.
 
La mia mente era occupata da un unico ingombrante pensiero: il tesoro.
 
Accelerai il passo e mi portai al fianco di Ace, guadagnandomi un occhiataccia da Mikami, deciso a risolvere la questione il prima possibile.
 
«Ace, ricordi il vecchio di ieri sera e la sua leggenda?» domandai con noncuranza, continuando a sorridere pacatamente, le mani affondate nelle tasche delle braghe. «Certo, quello un po’ svitato che continuava a parlare della Luna e di un tesoro» confermò il pirata, osservando con vivo interesse una bancarella che vendeva calamari fritti e prestandomi ben poca attenzione. «Sì. Beh, non era poi così svitato come sembrava» iniziai a dire, senza però riuscire ad interessarlo più di quanto facessero i calamari che sfrigolavano nell’olio. Sembrava invece che le mie parole avessero attirato l’attenzione di Mikami che, pur fingendo disinteresse, mi sbirciava di sottecchi.
 
Iniziai ad irritarmi, non mi stava affatto rendendo le cose facili.
 
«Il tesoro di cui parlava il vecchio è il One Piece» dissi senza preavviso.
 
A quelle parole, finalmente gli occhi neri del pirata scattarono verso i miei, e lui si fece attento. Anche Mikami smise di fingere, e mi rivolse uno sguardo diretto ed apertamente esterrefatto.
 
«Cioè, non esattamente. Il tesoro che stiamo cercando, e che avevo detto essere il One Piece, è in realtà il tesoro di cui parlava quel vecchio ieri sera» mi spiegai, ora che finalmente ero riuscito a destare l’attenzione di Ace.
 
Il comandante di Barbabianca rimase immobile, a fissarmi con gli occhi spalancati e la bocca aperta, completamente spiazzato, mentre l’espressione di Mikami al suo fianco si faceva scura e minacciosa.
 
Era incredibile constatare quanto fossero diversi l’uno dall’altra.
 
Di ciò che avevo detto, l’unico messaggio che aveva recepito Mikami era stato che io avessi mentito e li avessi presi in giro, ed aveva reagito di conseguenza preparandosi, senza tanti giri di parole, ad attaccarmi così, su due piedi, mentre la consapevolezza di essere stato raggirato non aveva nemmeno sfiorato Ace, che stava probabilmente cercando di metabolizzare la scoperta che il tesoro che stava inseguendo non era il One Piece, il tesoro più famoso di tutti i mari, ma un altro strano tesoro di cui prima della sera precedente non aveva mai sentito parlare.
 
«C-come…?» balbettò Ace, incredulo.
 
«E’ stato un mio errore, una svista. Il tesoro a cui stiamo dando la caccia, la Vita Eterna, è il Tesoro della Luna, non il One Piece» ripetei lentamente, continuando a sorridere imperturbabile.
 
Mentre Ace cercava ancora di assimilare le informazioni ricevute, Mikami sembrava diventare sempre più tesa e nervosa di secondo in secondo, tanto che mi sembrava quasi di riuscire a sentire il digrignare dei suoi denti.
 
Non fu facile trattenermi dal provocarla ulteriormente e mettere mano alle spade.
 
Mi sforzai di evitare a tutti i costi che i miei occhi incontrassero i suoi: azzuffarmi con lei era l’ultima cosa di cui avevo bisogno.
 
«Perchè?» domandò Ace. Si era fatto serio, e sembrava aver infine realizzato che avessi giocato sporco.
 
Ahah, “perché”. Ora sì che arrivava la parte difficile.
 
Mi sforzai di continuare a sorridere e di fare in modo che niente perturbasse la mia espressione serena, comportandomi come se stessi parlando di una cosa frivola e priva di alcun interesse od importanza.
 
«Le mie informazioni non erano precise al cento per cento, non sapevo con certezza se il tesoro in questione fosse o meno il One Piece. Però sapevo per certo dove si trovasse e in cosa consistesse, e ho creduto che si trattasse del One Piece perché… voglio dire, il One Piece è il tesoro dei tesori, qualcosa di estremamente raro ed importante, e cosa ci può essere di più importante della Vita Eterna? Ma ieri sera, sentendo parlare quell’uomo, mi sono reso conto che ciò che lui stava raccontando sul Tesoro della Luna combaciava perfettamente – beh, quasi – con le informazioni che avevo raccolto io, e mi sono così reso conto che dovevo essermi sbagliato, e che non era il One Piece il tesoro a cui stavamo dando la caccia, ma quello della Luna.»
 
Osservai la reazione di Ace, trattenendo il respiro.
 
Gli occhi del pirata si erano fatti scuri ed impenetrabili, e quando parlò il suo tono era duro e freddo. «Perché non me l’hai detto prima?»
 
Oh, questa era una domanda facile, a cui avrei potuto rispondere altrettanto facilmente. «Temevo che se ti avessi detto che non ero certo di alcune delle mie informazioni, tu avresti deciso di non partire.» Pronunciando quelle parole, mi sforzai di mettere da parte l’orgoglio ed esibire un sorriso colpevole e un aria dispiaciuta.
 
Ace rimase in silenzio, soppesando le mie parole, gli occhi ridotti a due fessure affilate e le labbra contratte in una linea dura. Mi rendevo conto che non fosse un buon segno, tuttavia una parte di me stava quasi esultando: almeno, ora, avevo visto il vero Portgas D. Ace, l’uomo da 550.000.000 Berry considerato dalla Marina uno dei ricercati più pericolosi, Pugno di Fuoco, e non il ragazzino coperto di lentiggini che giocava a fare il pirata e rideva tutto il giorno.
 
«E perché ti interessa così tanto arrivare a questo tesoro?»
 
Mi voltai, stupito nel sentire la voce di Mikami.
 
Non ci voleva un genio per capire che non stesse aspettando altro che una qualsiasi scusa per saltarmi alla gola e, del resto, fossimo stati in una situazione diversa, certo io non mi sarei fatto pregare. Gliela avrei servita ben volentieri su un piatto d’argento, la sua preziosa scusa.
 
Ma di nuovo, mi trattenni. Sapevo di dover stare molto attento a ciò che avrei risposto, una sola frase sbagliata avrebbe potuto mandare tutto in fumo. E allora sì, che sarebbe stata la fine.
 
Smisi di sorridere e mi feci serio. «Non sono così stupido da credere di poter diventare il Re dei pirati. Ma posso aiutare Barbabianca a diventarlo: se fossi io a portarvi al tesoro, chiunque nei quattro mari imparerebbe a conoscere il mio nome. E se anche il tesoro a cui vi porto non è il One Piece… credo che anche un tesoro come la Vita Eterna potrebbe valere un posto nella storia della pirateria.»
 
Tra tutte le menzogne che avevo detto, questa mi risultò essere una delle più difficili da pronunciare.
 
Fama e ricchezza non avrebbero potuto interessarmi meno di così, e dover dire che erano quelli i veri motivi che mi spingevano ad agire mi lasciava l’amaro in bocca. Era stato un duro colpo tanto per il mio orgoglio quanto per il mio onore, ma quando ci avevo pensato la notte precedente era stata l’unica scusa plausibile che mi era venuta in mente. Per quanto mi facesse ribrezzo, credevo davvero che avrebbe potuto funzionare.
 
E infatti, Mikami sembrò soddisfatta di udire quelle parole.
 
E perché non avrebbe dovuto esserlo? Dopotutto a lei interessava soltanto trovare delle prove che attestassero il fatto che io fossi, come lei chiaramente pensava, una persona meschina e senza scrupoli. Perché quindi non essere soddisfatta, se io stesso mi dichiaravo tale davanti a lei ed Ace?
 
Era profondamente irritante, ma era stata l’unica soluzione che avevo trovato.
 
Mikami emise un suono brusco, una via di mezzo tra uno sbuffo e un ringhio, e distolse con una smorfia di ribrezzo i suoi occhi dai miei. Contrassi le dita, affondate nelle tasche delle braghe, sforzandomi di evitare che ciò che provavo si riflettesse nella mia espressione. Se avesse saputo ciò che sapevo io, forse si sarebbe comportata diversamente.
…O, forse, no. Ma alla fine, ciò che lei pensava di me non importava, non aveva la minima importanza.
 
Dovevo rimanere calmo e concentrato.
 
Spostai lo sguardo su Ace. Anche lui sembrava essersi lasciato convincere da ciò che avevo appena detto, ed il suo sguardo, ancora serio, si era fatto però un po’ meno duro.
 
«C’è altro di cui dovrei essere informato?» chiese, con voce misurata e pacata.
 
«No», risposi senza esitazione. “Sì”, sarebbe stata invece la risposta più sincera.
 
Ace sospirò e, scuotendo la testa, incrociò le braccia sul petto, mentre perdeva quell’espressione seria e tornava ad essere un ragazzino che gioca a fare il pirata.
 
…Era fatta?
 
«Beh, ormai che siamo qui, sarebbe proprio da stupidi tornare indietro. E poi, effettivamente, la Vita Eterna, anche se non è il One Piece, non è cosa da poco» commentò, mentre un sorrisetto dispettoso affiorava sulle sue labbra.
 
Oh. Allora era davvero fatta. Dopotutto, era stato anche più semplice del previsto. Mi lasciai andare ad un sorriso sincero. «Sono felice che tu non te la sia presa troppo. Scusa. E grazie.» … dopotutto, visto la piega che avevano preso le cose, potevo anche concedergli un po’ di gratitudine e gentilezza.
 
«Non c’è problema. Ma la prossima volta, gradirei che mi dicessi tutto quello che sai, senza omettere nulla» disse sorridendo, con una punta di rimprovero negli occhi neri.
 
Annuii in risposta al suo avvertimento. «Sì. E a proposito di questo, c’è un’altra cosa che devo dire, riguardo il fatto che ciò che so non corrisponde alla perfezione con ciò che ci ha raccontato il vecchio.»
 
Ace inarcò un sopracciglio, perplesso e lievemente sospettoso, mentre Mikami mi lanciava uno sguardo torvo. Quanto meno, aveva smesso di ringhiare.
 
«Non ti preoccupare, non è nulla di così importante, si tratta solo della leggenda» mi affrettai a rassicurarlo con un sorriso.
 
«Oh» commento solo Ace, stupito, mentre Mikami sembrava perdere interesse e distoglieva lo sguardo irritata.
 
«Se non vi interessa non ve la racconto, tanto non è di importanza fondamentale» dissi, incrociando le braccia sul petto. «No, a me interessa» rispose Ace. Lanciò un’ultima occhiata alla bancarella con i calamari e si allontanò, andandosi a sedere su una panchina a qualche metro di distanza, lontano da orecchie indiscrete. Lo seguii. Kai e Mikami fecero lo stesso, il primo andando ad appoggiare la schiena contro il muro di una casa lì vicino e la seconda sedendosi al fianco di Ace, con fare apertamente scocciato.
 
«Allora…» esordii, sistemandomi di fronte ai due pirati e fissando i miei occhi in quelli incuriositi di Ace. «La leggenda narra che la Luna si innamorò di un pescatore, e si dice che lo amasse a tal punto da volergli offrire la Vita Eterna, cosicché il loro amore potesse essere per sempre. Ma questo già lo sapete.
Si sa, la Luna rappresenta il principio femminile, mutevole e capricciosa: volle mettere alla prova il pescatore, volle assicurarsi che fosse degno del suo amore: tre sarebbero state le prove per lui da affrontare. Ma sapete già anche questo. Ora, quel vecchio ieri sera ha detto che il pescatore riuscì a superare le prove, ma ha sbagliato: non fu così che andarono le cose, ed è quello che sto per raccontarvi ora ciò che ancora non sapete.
La prima prova a cui la Luna sottopose il pescatore fu una prova di coraggio, volta ad assicurarsi che l’uomo non sarebbe fuggito davanti alle difficoltà che il loro amore avrebbe inevitabilmente incontrato: egli avrebbe dovuto passare tutta la notte in mare nel buio più completo, affrontando, completamente solo, l’oceano e le creature che in esso abitano. Fu una prova dura e pericolosa, ma il pescatore era un uomo forte e riuscì a superarla, ottenendo come premio uno speciale amuleto che gli avrebbe permesso di illuminare anche le tenebre più buie.
Venne poi la seconda prova. Era una prova di determinazione: il pescatore avrebbe dovuto contare tutte le stelle che erano nel cielo, per dimostrare alla Luna di essere davvero sicuro dei sentimenti che provava per lei. Anche quella volta, con infinita pazienza e volontà d’acciaio, il pescatore riuscì a farcela. Come premio per l’impresa riuscita, ricevette in dono una chiave capace di adattarsi a qualunque serratura e aprire qualunque cosa, compreso lo scrigno contente il tesoro.
Quindi, rimase soltanto la terza prova da superare. La Luna rassicurò il pescatore, dicendogli che, visto ciò che aveva passato con le prove precedenti, quella sarebbe stata per lui una passeggiata. Tutto ciò che l’uomo avrebbe dovuto fare per superarla, sarebbe stato dire quale, fra tutte le cose esistenti al mondo, era per lui la più importante. La Luna, ovviamente, si aspettava di sentirsi rispondere “tu” e così, quando non fu quella la parola che sentì uscire dalle labbra del pescatore, avvampò di rabbia, tingendosi completamente di rosso. La risposta che gli diede il pescatore fu “la felicità”… Beh, a volerla dire tutta, si dice che il pescatore fallì l’ultima prova soltanto a causa di un incomprensione con la Luna: la leggenda vuole che lui avesse risposto “felicità” spiegando poi che l’unico modo che aveva per essere felice era stare con la Luna ma ella, furibonda, non lo era più stata a sentire.» Mi sfuggì una smorfia per i risvolti sdolcinati che includeva quella leggenda e, dopo un profondo sospiro, ripresi a raccontare. «Ad ogni modo, qualunque cosa avesse inteso o detto il pescatore, il risultato fu uno solo: la prova non venne superata. Così la Luna, furibonda e delusa, se ne tornò in cielo, e non volle più saperne nulla di lui.
Ma la leggenda non finisce qui. Perché una stella, ancella della Luna, si era a sua volta innamorata del pescatore.
I due si erano incontrati alla vigilia della prima prova e poi prima di ogni prova successiva, quando ella si presentava al pescatore in vece della Luna e gli spiegava cosa avrebbe dovuto fare per riuscire nell’impresa. Ciò era necessario perché la Luna era troppo importante, e solo una volta ogni mese, con la Luna Nuova, le era permesso lasciare il cielo, e quindi soltanto in quell’occasione poteva recarsi di persona sulla Terra.
Come dicevo, anche quella stella si innamorò del pescatore e, ritenendo inutili le prove a cui lo aveva sottoposto la Luna, decise che gli avrebbe concesso la Vita Eterna. Così sottrasse alla Luna, mentre essa dormiva, un pezzetto di Pietra Filosofale, con il quale sarebbe riuscita ad ottenere che il pescatore potesse vivere per sempre al suo fianco. Quindi, diede appuntamento all’uomo in una caverna in riva al mare in una notte di Plenilunio: in quel momento, la Luna non avrebbe in nessun modo potuto lasciare il cielo per intervenire perché, se lo avesse fatto, tutti si sarebbero accorti della sua assenza, e non avrebbe nemmeno potuto vedere i due innamorati al riparo nella grotta.
Ma fu tutto inutile: le altre stelle, invidiose dell’amore della sorella, riferirono tutto alla Luna.
Ella quindi decise di vendicarsi, e quella notte mandò sulla terra due pericolose creature al suo servizio: la malvagia Lilith e la dolce Selene» feci una breve pausa.
 
Non potei fare a meno di sorridere, iniziando a raccontare la parte che di tutta la leggenda mi piaceva maggiormente. «La punizione che la Luna avrebbe inflitto ai due amanti sarebbe stata terribile. Lilith e Selene trovarono la grotta in cui i due si erano dati appuntamento e ve li intrappolarono: Lilith torturò ed uccise il pescatore davanti alla povera stella impotente. Inoltre la stella, essendo immortale, venne condannata a rimanere per sempre in quella grotta, bloccata dalla alta marea con la sola compagnia di Selene, finchè la Luna non avesse deciso di perdonarla e l’avesse liberata riammettendola in cielo. In realtà, il piano di vendetta della Luna, almeno in parte, fallì. Infatti la stella, assistendo alla morte del pescatore, soffrì così tanto che la sua luce si spense e lei morì.» Trassi un profondo respiro. 
 
«La Luna poi, impegnata com’era a governare le altre stelle, illuminare le strade dei viandanti e splendere la notte sui volti degli innamorati, si dimenticò dell’intera faccenda, del pescatore, della stella, di Lilith e Selene, e anche del frammento di Pietra Filosofale che la stella aveva ancora con sé. »
 
Sogghignai «Si dice che Lilith e Selene siano ancora in quella grotta, la prima a vegliare sulle ossa del pescatore e la seconda ad accudire la povera stella morta, pettinandole i capelli e lisciandole gli abiti. Ma è solo una leggenda, una storia per bambini» conclusi con un sospiro.
 
«E’ un bel po’ diversa da come l’abbiamo sentita raccontare ieri sera» commentò Ace, grattandosi la nuca perplesso. «Sei sicuro di quello che ci hai raccontato?» chiese, e non potei non notare che la sua voce aveva assunto un tono sospettoso. Certo non era qualcosa di cui avrei potuto lamentarmi, dopo aver scoperto la mia menzogna un po’ di diffidenza nei miei confronti era una reazione perfettamente normale.
 
«Sì, certissimo.»
 
Tuttavia, Ace non sembrò esserne molto convinto. «Ma che importa? Alla fine è solo una leggenda. Tu e il vecchio concordate sul luogo nel quale è nascosto il tesoro, ed è questo ciò che conta» decise con una scrollata di spalle. «Dove hai trovato le tue informazioni?»
 
Quella domanda inaspettata mi raggelò il sangue. Per quella, non avevo una scusa pronta. Cercai di non dare a vedere la mia agitazione e mi sforzai di stendere le labbra in un sorriso, sperando che ciò che avrei inventato sul momento sarebbe risultato credibile. «Ho fatto delle ricerche. Ho viaggiato molto e fatto molte domande, e alla fine ho messo insieme i pezzi.»
 
Ace si sfregò il mento, pensieroso. Trattenni il respiro. «Capisco… Visto che non abbiamo nulla da fare, potremmo metterci alla ricerca del vecchio di ieri sera e fargli altre domande in proposito.»
 
Annuii deciso, rilassando i muscoli: sembrava che, almeno per quel momento, Ace non mi avrebbe fatto altre domande.
 
«Allora torniamo alla locanda. Aspettiamo che tornino anche Jon e Robert, gli spieghiamo la situazione e andiamo tutti a cercare il vecchietto» decise Ace, alzandosi. Si stiracchiò, allungando le braccia oltre la testa, e si mise in marcia verso sud-est, subito seguito da Mikami, che teneva ancora il broncio.
 
Lo richiamai. «Ace… la locanda è dall’altra parte.»
 
*
 
Un paio di ore dopo era tornato anche Jon, e la ciurma era stata nuovamente al completo. Ace, che aveva già spiegato tutto a Robert arrivato mezz’ora prima, ripetè tutto anche a Jon il quale, quando seppe della mia “svista” riguardo al One Piece, commentò con un “che bastardo” diretto nella mia direzione, ma non sembrò essere particolarmente colpito da quella notizia.
 
Quindi, quando tutti furono al corrente della situazione, Ace decise di dividerci in due gruppi per perlustrare più velocemente l’isola, dal momento che né l’oste né gli avventori della locanda erano stati in grado di dirci dove avremmo potuto trovare il vecchio: io e Kai saremmo andati a nord con Robert, mentre lui e Mikami sarebbero andati a sud con Jon.
 
«Ci troviamo di nuovo qui tra due ore. Buona fortuna!» esclamò Ace al momento di dividerci, imboccando assieme agli altri due ragazzi una stretta via sterrata. «A dopo» risposi, avviandomi assieme a Kai e Robert nella direzione opposta.
 
Vagammo tra le vie quasi deserte per una buona mezz’ora, senza riuscire a trovare nulla. In realtà non mi sarei stupito se, allo scadere delle due ore, fossimo stati punto e a capo, senza aver trovato nessun vecchio: temevo di aver prematuramente esaurito la mia dose di fortuna quotidiana. “Ma mai dire mai” pensai tra me e me, continuando a camminare.
 
Sbucando da una vietta laterale iniziammo a percorre una delle strade principali del villaggio, quando un insolito trambusto attrasse la nostra attenzione.
 
Mi arrestai e tesi le orecchie, guardandomi intorno e cercando di capire da dove provenisse quel suono. Mi voltai verso destra localizzando in un viale sterrato, per buona parte nascosto dietro un folto gruppo di case, quella che sembrava essere la fonte degli scalpiccii concitati e delle grida brusche.
 
Dopo pochi secondi una ventina di uomini sbucarono da quella via precipitandosi sulla strada principale, simili ad un nugolo di insetti sul miele. Erano armati con fucili e katana e la loro uniforme, bianca come la neve e ornata di blu, li identificava senza alcuna possibilità di errore: marines.
 
Rimasi agghiacciato di fronte a quella vista, e per un attimo il mio cuore smise di battere. Ma ripresi velocemente il controllo, appena in tempo per fermare Robert che sembrava sul punto di mettersi a fuggire da un momento all’altro. Lo afferrai per il colletto della maglia senza tante cerimonie, tirandomelo vicino. «Cosa credi di fare?» sibilai, «mettersi a fuggire è il modo migliore per farsi inseguire. Tu non sei nessuno, e nemmeno io e Kai lo siamo: comportati normalmente, e nessuno verrà ad infastidirci.» Mentre parlavo ripresi a camminare, sforzandomi di ostentare calma e tranquillità, costringendo anche il ragazzo a fare lo stesso. Anche Kai continuò a camminare e, come sempre, sembrava essere il più calmo di tutti, solo lo sguardo freddo e attento che aveva negli occhi rivelava il suo reale stato d’animo.
 
«Dobbiamo correre da Ace! Saranno qui per lui, dobbiamo avvertirlo!» protestò debolmente Robert, che ancora tenevo per il colletto.
 
Sapevo che probabilmente aveva ragione. Quella su cui ci trovavamo era un isola priva di alcuna importanza, e le probabilità che lì si trovasse anche un altro ricercato non erano molto elevate.
 
Sbirciando alle mie spalle, notai che il numero dei marines era salito. Ad occhi e croce, ora, sembravano essere una cinquantina, e continuavano ad arrivarne.
 
Già, dubitavo che un tale dispiego di forze della Marina, proprio mentre noi ci trovavamo su quell’isola, fosse un caso. Era vero che Ace aveva sempre tenuto in dosso la camicia che nascondeva la Jolly Roger, eppure… Un flash mi lampeggiò davanti agli occhi: rividi la sera precedente quando, mentre tornavo in camera dopo la passeggiata notturna, mi ero quasi scontrato contro Ace che andava a fare uno spuntino. E ricordai che era a dorso nudo, e che alla locanda, oltre all’oste, c’erano almeno un paio di clienti. Possibile che…?
 
I miei pensieri vennero bruscamente interrotti dall’aumentare d’intensità delle grida dei marines alle nostre spalle.
 
Mi imposi di non voltarmi a guardare, ma tesi le orecchie cercando di capire cosa stessero dicendo.
 
All’inizio, le voci erano lontane e confuse, accavallate una sull’altra, ma nel giro di pochi secondi si fecero sensibilmente più vicine, ed io riuscii distintamente a capire cosa stessero dicendo. “Sono loro!” e “Sono quelli che erano con Pugno di Fuoco!”, e poi ancora “Prendeteli vivi, dobbiamo farci dire dov’è Portgas!”, e un infinità di altre frasi simili.
 
Lasciai bruscamente andare Robert che si voltò nella direzione dei marines, titubante, indeciso se affrontarli o fuggire, e rivolsi un’eloquente occhiata a Kai, che non aspettava altro che un mio segno: estrasse i coltelli, e si voltò fronteggiando a sua volta il nemico.
 
Un sibilo acuto, ed anche io estrassi i kriss, impugnandoli saldamente in mano.
 
Forse la fortuna non era stata dalla nostra parte, ma mi consolai pensando che, se non altro, fare a fette qualche marines mi avrebbe liberato dallo stress che avevo accumulato negli ultimi giorni, e nell’ultimo in particolare. Forse era vero che non tutto il male veniva per nuocere, dopotutto, e certo quegli uomini per me non rappresentavano una vera minaccia.
 
Dovetti ricredermi molto in fretta: una scia di denso fumo bianco venne lanciata nella mia direzione e fu solo miracolosamente e per pochi, preziosissimi centimetri, che riuscii ad evitare il pugno che si trovava all’estremità di tale scia.
 
Un brivido freddo mi percorse la schiena, quando alzando lo sguardo incontrai l’uomo che aveva lanciato quell’attacco.
 
Solo allora mi resi conto che la fortuna mi aveva davvero voltato le spalle.
 
   
 Spazio autrice:
Scusate l'enorme, immane, immenso ritardo >_< Sapevo che avrei potuto tardare un po' nell'aggiornamento, ma davvero non credevo così tanto... scrivere due storie insieme non fa proprio per me, non so cosa mi sia venuto in mente, in più con le lezioni che sono ricominciate ho molto meno tempo libero di prima -.-
A mia discolpa posso solo dire che questo capitolo, tra una cosa e l'altra, è diventato chilometrico (quasi il doppio dei primi!), la prossima volta lo faccio più corto così riesco anche ad essere un po' più puntuale forse -.- Ma sfogo a parte... No, stavolta sono esaurita dal capitolo, non ho niente da dire, lascio la parola a voi ^^'
Prometto che cercherò di aggiornare in tempo utile prossimamente, a prestooo! :*

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Capitolo 11
*** Burn, burn! ***


Burn, burn!

«No! Non di lì! Dall’altra parte! E’ la seconda volta che, a dar retta a te, rifacciamo quella strada!» sbottò Jon frustrato, schiaffandosi una manata in fronte.
 
Ridacchiai nervosamente, grattandomi la nuca. «Non è colpa mia, queste strade sembrano tutte uguali» dissi in mia difesa, supportato da Mikami che concordò, scuotendo con decisione la testa su e giù.
 
A Jon sfuggì una smorfia di disperazione. «Non è colpa delle strade! E’ colpa vostra, siete totalmente senza speranza, potreste perdervi anche in un bicchiere d’acqua! Adesso basta: Ace, non rompere, io faccio strada e tu mi segui» ordinò con un tono che non ammetteva repliche, calcando la voce sui due pronomi.
 
«E va bene» mi arresi, chinando il capo ed affrettandomi a seguirlo mentre imboccava una stretta via sulla sinistra. «Se ti può consolare, io ne capisco ancora meno di te, potrei giurare che è  questa la strada che abbiamo percorso un attimo fa» cercò di consolarmi Mikami, riprendendo la marcia a sua volta.
 
Sorrisi. «Vero, tu sei peggio. Ti perdi anche sulla Moby Dick.»
 
«E’ oggettivamente una nave immensa! E comunque non prendermi in giro, hai sentito Jon, no? Sei anche tu un caso del tutto senza speranze, in fatto di orientamento.»
 
Risi e incrociai le braccia dietro la nuca davanti al broncio infantile di Mikami, osservando divertito il modo in cui aggrottava le sopracciglia e sporgeva in fuori il labbro inferiore.
 
«Guardatevi in giro voi due, anziché perdere tempo» ci intimò Jon, «vi ricordo che stiamo cercando quello stupido vecchio e, dal momento che io non l’ho mai visto, siete voi che dovete riconoscerlo.»
 
Ah già, il Vecchio. Distolsi lo sguardo da Mikami e mi guardai pigramente intorno. Donna, ragazzo, ragazza, bambino, un altro bambino, donna con un bambino… nessuna traccia di vecchi.
 
Voltammo l’angolo, e qualcosa, o meglio qualcuno, venne a sbattermi contro.
 
«Mi scusi, ero distratto, non l’avevo vista» dissi prontamente, inchinandomi come mi aveva insegnato Makino.
 
Non ottenni risposta, e nemmeno Jon e Mikami parlarono. Perplesso, tornai a sollevare il capo, guardando in faccia l’uomo che mi era venuto addosso. Fu così, che i miei occhi incontrarono quelli sbarrati dal terrore di un giovane marines che mi fissava, immobile.
 
Improvvisamente lanciò un urlo acuto, lasciò cadere la katana che teneva in pugno e, voltandosi verso la direzione in cui era venuto, iniziò a correre a più non posso.
 
In realtà non andò lontano: Jon tese una gamba ed il poveretto vi inciampò, finendo faccia a terra in meno di un secondo. Il pirata si sedette comodamente sulla schiena del terrorizzato ragazzo, e afferatolo per il colletto dell’uniforme alla marinara  lo costrinse a sollevare il capo. Il suo sguardo passò da me al marines un paio di volte. «Ho come l’impressione che il nostro piano di non attirare l’attenzione della Marina sia miseramente fallito.» commentò, palesemente scocciato.
 
«Già, a quanto pare ci hanno beccati lo stesso.»
 
«Ti hanno beccato» mi corresse Jon irritato, lanciandomi uno sguardo accusatorio.
 
«Può essere» ammisi, con un rilassato sorriso a trentadue denti. Dopotutto, ero io del gruppo quello che aveva un’enorme taglia sulla testa.
 
Udimmo uno scalpiccio concitato e subito dopo cinque, forse sei, altri marines sbucarono da dietro l’angolo, allertati probabilmente dall’urlo che aveva lanciato il loro compare nell’istante in cui mi aveva riconosciuto. Non appena ci videro, si misero ad urlare a loro volta, ma non di paura: chiaramente, stavano informando il resto della squadra di averci trovati.
 
Jon con un balzo si alzò da terra e fu subito addosso ai nuovi arrivati: uno di loro fu atterrato da un gomitata in piena faccia, mentre l’altro incassava un dolorosissimo calcio sul ginocchio e finiva a terra contorcendosi dal dolore, con l’articolazione a pezzi.
 
Quasi quasi mi dispiacque per quel povero ragazzo, Jon era sempre stato anche troppo violento.
 
Osservai senza interesse uno dei marines che, inferocito per la sorte toccata ai due compagni, si avventava su di me con la katana tesa in avanti.
 
Sospirai annoiato quando la lama passò attraverso il mio petto tra una miriade di piccole fiamme scarlatte lasciandomi illeso e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo all’avventato marines, lo stesi con un montante che lo centrò dritto dritto sul mento, spedendolo a terra privo di sensi. Anche al quarto e al quinto uomo non toccarono sorti migliori: due pugni ben piazzato in pieno volto, ed entrambi andarono al tappeto.
 
Nel frattempo il primo marines, quello che aveva dato l’allarme e che poi aveva tentato di fuggire, si era rimesso in piedi e, in un impeto di coraggio, aveva recuperato la katana e si era lanciato verso Mikami, individuandola probabilmente come l’elemento più debole del gruppo.
 
Lei, con indifferenza, mosse un passo di lato schivando l’attacco all’ultimo istante e, approfittando della posizione in cui era venuta a trovarsi, sferrò una gomitata dietro la nuca al ragazzo, che finì a terra privo di sensi.
 
Mi sentii sollevato.
 
Nonostante tutti i discorsi che avevamo fatto in proposito, quella era la prima volta in cui ci trovavamo realmente a dover combattere la Marina da quando lei aveva accettato di unirsi alla ciurma. Per un istante, avevo davvero temuto che si sarebbe tirata indietro o, peggio, fosse entrata in crisi, riprendendo a chiedersi se fosse giusto lottare contro i marines, chi fossero i buoni e chi i cattivi, rimettendo in discussione la parte con cui schierarsi.
 
Invece era rimasta impassibile, e anche se il modo in cui aveva messo fuori combattimento il marines lasciava chiaramente intendere la sua intenzione di arrecare al ragazzo il minor danno possibile – ma del resto anche io cercavo di non uccidere nessuno, a meno che non fosse strettamente necessario – , non potevo che tirare un sospiro di sollievo di fronte alla sua reazione.
 
Fui distratto da questi pensieri da una nuova ondata di marines, che si riversò scompostamente nel piccolo vicolo. Stavolta, erano almeno una ventina di uomini, e non dubitavo che se non avessimo trovato un modo per far perdere le nostre tracce ne sarebbero arrivati altri.
 
Inspirai profondamente, sentendo il familiare crepitio delle fiamme pizzicarmi la pelle, mentre l’aria attorno a me si faceva rovente. Feci scrocchiare le nocche delle dita. «Il Vecchio può aspettare, vediamo di liberarci di loro prima…»
 
*
 
Non ci volle molto, appena una manciata di minuti.
 
Del resto, quando si ha a disposizione un potere come il mio, non ci vuole mai molto.
 
Era bastato innalzare un alto e ruggente muro di fuoco: i più si erano immediatamente allontanati, intimoriti dalle fiamme e scottati dall’insopportabile calore che esse sprigionavano, ed i pochi coraggiosi che avevano cercato di combattere comunque… beh, ci erano rimasti in mezzo.
 
Non mi faceva piacere uccidere, vero, ma non ero nemmeno un santo. Ero pur sempre un pirata, e se qualcuno era così stupido da gettarsi di sua spontanea volontà tra le mie fiamme, peggio per lui, io certo non ci avrei perso su il sonno.
 
Mi voltai verso Jon e Mikami. «Ce ne siamo sbarazzati, per ora, ma se non ce ne andiamo torneranno. Non vorrei dover dare fuoco a tutta l’isola, quindi ci ritiriamo… dobbiamo solo trovare un posto in cui nasconderci finchè la nave non sarà stata riparata. Ma prima di tutto dobbiamo trovare gli altri: potrebbero essere in difficoltà.»
 
Entrambi annuirono. Mikami aveva un espressione molto seria e sembrava anche parecchio tesa, ma non protestò, ed io non le chiesi nulla.
 
Per quanto sentissi il bisogno di sapere cosa stesse pensando, ero pur sempre il comandante, e la mia priorità in quel momento era che tutti i miei uomini fossero in salvo. E, riguardo a questo, ero alquanto preoccupato: ora che il trambusto causato dai marines era cessato, potevo chiaramente udire altri rumori concitati e distanti, indicatori del fatto che, con tutta probabilità, vi era in corso un’altra battaglia da qualche parte sull’isola.
 
Anche Mikami e Jon udirono quei rumori.
 
«Vengono da là» disse freddamente Mikami, tendendo la mano verso destra.
 
«Faremo meglio a sbrigarci» aggiunse Jon, nervoso. A quanto pareva, anche loro erano arrivati alla conclusione che si dovesse trattare di Kai, Robert e Fall.
 
Annuii, facendomi serio. Non conoscevo quasi per niente Kai e Fall, e non avevo la più pallida idea di come se la sarebbero cavati in un combattimento.
 
Sapevo che di Robert potevo fidarmi… ma ce la avrebbe fatta da solo contro un gruppo di una ventina di marines?
 
Preferii non cercare una risposta a quella domanda. Tutto ciò che dovevo fare, era muovermi in fretta.  «Sì, faremo proprio meglio a sbrigarci.»
 
*
 
Dopo pochi minuti che parvero durare un’eternità e seguendo i rumori della battaglia, riuscimmo finalmente a raggiungere il resto della ciurma. Arrivai per primo, con Jon e Mikami a diversi metri di distanza che correvano a più non posso per starmi dietro.
 
Spalancai gli occhi, spiazzato di fronte a ciò che stava accadendo davanti ai miei occhi: Robert era steso a terra, immobile, circondato da una vistosa chiazza rossa che impregnava il selciato. Davanti a lui c’era Kai che si batteva come una belva: era agile, estremamente rapido e preciso nell’utilizzare quei piccoli ed affilati coltelli che quasi scomparivano, stretti nelle sue mani. Affrontava più avversari contemporaneamente, ma era chiaro che, nonostante la sua inaspettata abilità, fosse ormai in seria difficoltà.
 
Ma non era nemmeno questa la cosa più incredibile.
 
Strinsi involontariamente i pugni, sentendo la rabbia crescermi dentro.
 
Buona parte del campo di battaglia era avvolto da stramaledetto fumo bianco, ed io conoscevo una sola persona in grado di produrre un simile effetto.
 
Smoker.
 
Aguzzando la vista, riuscii infatti a distinguere l’imponente figura del marine, che si stagliava tra le volute di fumo denso.
 
Dopo un primo momento di furia, dettato dal ricordo ancora fin troppo vivo della bruciante sconfitta che mi aveva inflitto e dai problemi che aveva causato con Mikami, ripresi il controllo di me stesso, e mi sentii quasi felice.
 
Ma no, no, non era certo felicità quella che provavo. Era più una sorta di insana euforia: finalmente, avrei potuto prendermi la mia rivincita.
 
Avevo già iniziato ad avanzare verso di lui, con le fiamme che ruggivano sulla pelle, quando mi arrestai per la sorpresa.
 
Fall, balzando fuori da una nuvola di denso fumo biancastro e opaco, si avventò sul Vecchio con le spade sguainate. Un acuto tintinnio metallico, e le due lame ondulate si scontrarono con la jitte.
 
Spalancai gli occhi e sbattei le palpebre, incredulo.
 
Fall e Smoker rimasero a fronteggiarsi, faccia a faccia, per una manciata di secondi. Feci appena in tempo a vedere che si separavano con un balzo, preparando un nuovo attacco, prima che il fumo li inghiottisse di nuovo. Anche se non potevo più vederli, potevo ancora sentire il rumore prodotto dal periodico incrociarsi delle loro armi.
 
Fall… gli stava tenendo testa?
 
«Che stai facendo?!» Jon, arrivandomi da dietro, mi afferrò per una spalla e mi scosse.
 
Mi voltai verso di lui, che ansimava per la corsa ed aveva un’aria seria e preoccupata, espressioni che solitamente non gli appartenevano. «Robert! Dobbiamo intervenire!» mi urlò.
 
Aveva ragione.
 
Mi precipitai verso Kai e Robert.
 
La mia comparsa sembrò spiazzare i marines che stavano combattendo contro il ragazzo biondo che, vedendomi arrivare circondato dalle fiamme, indietreggiarono, scambiandosi sguardi confusi. Kai, ansante e stremato, accennò un sorriso di sollievo, vedendomi comparire al suo fianco. «Stai indietro» gli suggerii, mentre i marines, recuperato il coraggio dopo la sorpresa iniziale, tornavano ad avvicinarsi. Ubbidì, e, assieme a  Jon, anch’egli accorso in aiuto, sollevarono Robert, completamente inerte.
 
«Vi copro io, voi cercate di trovare un posto sicuro in cui riparavi. Tornate alla nave, se riuscite, c’è bisogno che Igor lo veda immediatamente» dissi, lanciando uno sguardo preoccupato a Robert. «Ma fate attenzione che nessuno vi veda, se la Marina scopre dove abbiamo ancorato la nave avremo dei seri problemi a lasciare l’isola.»  
 
Inspirai profondamente mentre le fiamme sul mio corpo, alimentate dall’ossigeno, ruggivano vigorose. «Kyōkaen!» Al mio comando, il fuoco si alzò a formare un muro impenetrabile.
 
Lanciai un’occhiata fugace alle mie spalle vedendo Kai e Jon che, con Robert a peso morto, cercavano di allontanarsi il più in fretta possibile dal campo di battaglia.
 
E poi vidi Mikami.
 
Era rimasta in disparte, ferma a diversi metri dalla battaglia, perfettamente immobile. Non riuscivo a vedere la sua espressione.
 
Le fiamme divamparono e ruggirono con più forza, mentre sentivo la rabbia tornare a prendere il sopravvento su di me. Lo sapevo, l’avevo capito fin da quando me l’ero trovato davanti, lo sapevo che Smoker avrebbe causato dei grandi problemi! Problemi che non sapevo se sarei stato in grado di risolvere, problemi che-
 
Mi ero quasi scordato di Fall.
 
Me ne ricordai quando, con un gemito strozzato, finì a terra a pochi metri da me, incassando probabilmente un colpo sferrato dalla jitte. Una delle due spade gli era sfuggita di mano ed era finita a terra, strusciando sulla pietra e producendo un rumore acuto e sgradevole.
 
«White Blow!»
 
«Hiken!»
 
Le mie fiamme si scontrarono contro le spire bianche del Vecchio, ed entrambi gli elementi si dissolsero con un sibilo ad una spanna dal volto di Fall, che era rimasto immobile con gli occhi sbarrati temendo il peggio.
 
«Alzati e vattene da qui, subito, gli altri sanno cosa fare. E porta via anche Mikami» gli ordinai, serio. Fall si riprese subito, alzandosi in piedi. Anche lui era affannato, con gli abiti laceri e visibilmente ammaccato. Sembrò sul punto di ribattere qualcosa, ma un mio sguardo fu sufficiente per fargli cambiare idea.
 
Per una volta, fece come gli era stato detto. Rapido, recuperò la spada perduta, e si affrettò a raggiungere gli altri ragazzi.
 
Gli rivolsi un ultimo sguardo, dopodiché tornai a concentrarmi sulla battaglia.
 
Il fumo svanì e Smoker comparve davanti a me, jitte in pugno e sigari tra i denti, la fronte aggrottata e la solita profonda ruga tra le sopracciglia a dargli un espressione perennemente accigliata.
 
I suoi occhi grigi ed impenetrabili mi rivolsero uno sguardo di insufficienza. «Portgas… Iniziavo a pensare che non ti saresti fatto vedere.»
 
Ricambiai l’occhiata con un sorriso feroce. «Non temere Vecchio, non me ne sarei mai andato senza prima passare a farti un salutino.»

Spazio autrice:
Più o meno all'incirca, io ci sono. Il mio pc sempre meno, se tardo a rispondere a recensioni o messaggi è anche per questo, perdonatemi, prima o poi riuscirò a separarmi da lui e farlo sistemare.
Anche per questo ho postato ora, anche se avrei voluto fare un capitolo più lungo, ma mi sono davvero resa conto che i tempi tra un aggiornamento e l'altro si sarebbero allungati troppo, perciò portate pazienza!
Per il motivo sopra citato, in questo capitolo Smoker e Mikami non si degnano praticamente di uno sguardo... ma vi anticipo che il prossimo capitolo sarà tutto incentrato su di loro :)

    Wow non ci credo, sono davvero riuscita ad inserire le immagini!
    Un bacio enorme a Yellow Canadair, che mi ha spiegato come fare
    con la pazienza di una santa XD Grazie caVa :*
    Come potete vedere, questi due loschi tizi (dai, loschi, solo la brutta
    bestia qui a sinistra ha un aria losca) sono Fall e Kai.
    Allora, sono curiosa, sono come ve li immaginavate? XD
    Perdonate i fogli a righe, ma quelli bianchi ultimamente mi mettono    ansia, cosa ci volete fare.
    Detto questo, vi lascio :)
    Prometto che cerchero di non tenervi troppo sulle spine e mi    impegnerò per postare in tempo utile il prossimo capitolo ^^'
    A prestooo! :*

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Capitolo 12
*** Tell me where our time went ***


Tell me where our time went

Il fumo svanì e Smoker comparve davanti a me, jitte in pugno e sigari tra i denti, la fronte aggrottata e la solita profonda ruga tra le sopracciglia a dargli un espressione perennemente accigliata.
 
I suoi occhi grigi ed impenetrabili mi rivolsero uno sguardo di insufficienza. «Portgas… Iniziavo a pensare che non ti saresti fatto vedere.»
 
Ricambiai l’occhiata con un sorriso feroce. «Non temere Vecchio, non me ne sarei mai andato senza prima passare a farti un salutino.»
 
Lo sguardo dell’imponente marine si fece più cupo e minaccioso. «Fare lo spavaldo non ti aiuterà. Devo finire il lavoro che ho iniziato l’ultima volta che ci siamo visti: ti prometto che non te ne andrai di qui senza un paio di manette ai polsi.»
 
Le fiamme sulle mie spalle divennero più alte e minacciose, alzandosi verso il cielo con un ruggito sordo. Certo Smoker non era tipo da lasciarsi intimidire, ma altrettanto certamente io non ero tipo da non rispondere ad una simile minaccia. «Ah si? E io ti prometto che quando avrò finito non sarai in grado di andartene sulle tue gambe. Vediamo chi di noi due si rivelerà essere un uomo di parola» lo sfidai con un ghigno minaccioso.
 
Smoker non rispose nulla.
 
Un solo, brevissimo istante, e scattò verso di me, la parte inferiore del corpo mutata in fumo e la jitte serrata stretta nel pugno.
 
Mi scansai di lato con un balzo, appena in tempo perché quella maledetta arma non mi centrasse in pieno.
 
Era lei, quella jitte, il mio principale problema. Smoker non mi faceva paura, non mi intimoriva né il suo frutto del diavolo né la sua forza fisica, il suo sangue freddo, o cose simili. Era solo quella dannata algamatolite, a rappresentare un autentico problema.
 
Dovevo trovare un modo per separare Smoker dalla sua arma, e solo allora avrei potuto affrontarlo ad armi pari. Ma come?
 
Mentre pensavo freneticamente a come risolvere il mio problema, Smoker tornò all’attacco.
 
Schivai un nuovo affondo della jitte chinandomi, ed evitai anche il successivo scartando di lato. Con il terzo attacco, invece, Smoker fu più veloce di me.
 
Incassai il colpo dritto tra le costole, indietreggiando e soffocando un gemito.
 
Smoker non si lasciò sfuggire l’occasione e, con un ringhio, mi fu nuovamente addosso.
 
Sentii la rabbia che, come una scossa elettrica, mi attraversava il corpo: non sarebbe andata a finire come la volta precedente.
 
Le fiamme sul mio corpo divamparono in una potente fiammata, rendendo l’aria rovente e soffocante, offuscando per un attimo la visuale di Smoker che ebbe un leggero tentennamento.
 
Fu sufficiente: strinsi la mano destra a pugno e caricai un potente montante che andò a colpire il marine dritto sulla mascella, costringendolo ad indietreggiare con un brusco scatto e un ringhio frustrato.
 
«L’ambizione…» commentò Smoker torvo, gli occhi ridotti a due fessure.
 
Sogghignai. «Avresti dovuto aspettartelo.» Forse non avrei potuto usare il potere delle mie fiamme, ma pareva che nemmeno lui potesse essere immune ai miei pugni. «Pugno di fuoco, ricordi?»
 
Come immaginavo, Smoker non si fece intimidire.
 
Il combattimento riprese all’istante, con il marine che agitava a destra e sinistra la jitte ed io che, mentre schivavo i colpi, appena scorgevo un apertura nella sua difesa cercavo di sferrare un pugno.
 
Fu presto chiaro ad entrambi che, anche lottando in questa maniera, senza ricorrere ai frutti del diavolo, le nostre abilità sembravano comunque essere equivalenti. Per ogni colpo che riuscivo a mettere a segno uno ne subivo, e la stessa cosa valeva per Smoker.
 
Non avevo altra scelta: se volevo liberarmi di lui, l’unico modo per farlo era sbarazzarmi della jitte. Allora sì che Smoker, impossibilitato ad attaccarmi con qualunque mezzo, sarebbe stato costretto ad abbandonare lo scontro. O a farsi pestare a sangue da me, se fosse stato particolarmente testardo.
Infondo, a me andavano ugualmente bene entrambe le opzioni.
 
Mentre continuavamo a combattere, l’incendio attorno a noi divampava, impedendo a chiunque non fosse il possessore di un rogia di avvicinarsi a noi.
 
La jitte calò nuovamente su di me ed io inclinai la testa appena in tempo per schivare il colpo, avvertendo con un brivido la pietra che mi sfiorava la guancia.
 
Fu allora che me ne accorsi: un sottile filo di fumo si alzava dalla jitte.
 
Ma era del tutto diverso dal fumo che componeva il corpo di Smoker o da quello che emanavano i suoi sigari, era molto diverso. Sembrava quasi che la pietra fosse… calda.
 
Che le mie fiamme l’avessero scaldata a quel punto? Non sapevo se fosse possibile che i poteri del mio frutto potessero avere effetto sull’algamatolite considerando che, appunto, la sua proprietà più importante era quella di annullare i poteri dei frutti del diavolo e, in alcuni casi, di prosciugare completamente le forze dei suoi possessori.
 
La jitte si abbattè sul mio polso, deviando il pugno diretto al volto di Smoker e costringendomi contemporaneamente a ritirare il braccio e passare dall’attacco alla difesa.
 
Non sapevo se avrebbe funzionato, ma dovevo provare.
 
Inspirai profondamente. « Dai Enkai…» Le fiamme divorarono l’ossigeno e crebbero in un istante con un ruggito minaccioso, divampando tutt’attorno al mio corpo, bruciando il terreno e tutto ciò che trovavano sulla loro strada.
 
Smoker, impassibile, si limitò a socchiudere gli occhi e gettarmi uno sguardo affilato. «Qualunque cosa tu stia pensando di fare, dovresti già sapere che su di me non avrà effetto» abbaiò, per nulla intimorito.
 
Sogghignai. «Lo vedremo… Entei
 
Al mio comando, le fiamme si condensarono e si raccolsero in un enorme palla fiammeggiante.
 
L’aria era diventata quasi irrespirabile, così rovente che tremava e baluginava per la temperatura estremamente elevata e, a quella vista, persino Smoker indietreggiò, osservando il fuoco con gli occhi spalancati.
 
Non sarei voluto arrivare a tanto, ma mi sembrava di non avere scelta. Mikami e gli altri – e Robert, soprattutto Robert – avrebbero potuto essere in pericolo ed avere bisogno di me, e dovevo affrettarmi a raggiungerli. E Smoker mi era nei piedi.
 
E poi volevo proprio dargliela a quel marine una bella lezione.
 
Scagliai contro Smoker la palla di fuoco.
 
Per diversi secondi, le fiamme ruggirono e rombarono con una tale violenza, che non fui in grado di udire nulla, e diventarono così luminose che non riuscii nemmeno a vedere nulla.
 
Poi, gradualmente, la loro violenza prese a scemare anche se, pure in quel modo, sembrava comunque di essere finiti dritti dritti all’inferno.
 
Ci vollero però un paio di minuti ancora prima io riuscissi a distinguere Smoker: il marine era ancora in piedi, davanti a me, incurante dello scenario apocalittico che lo circondava.
 
Non mi stupii. Sapevo che il fuoco non lo avrebbe ferito, non era a questo che miravo con il mio attacco.
 
Un largo ghigno soddisfatto si allargò sulle mie labbra: la jitte era a terra, ai piedi di Smoker, arroventata a tal punto che la pietra, normalmente grigia, aveva assunto un intenso colore rosso incandescente.
 
Il mio sorriso si fece ancora più largo: avevo la vittoria in pungo.
 
*
 
La conclusione era stata una soltanto: se volevamo che il ragazzo vivesse, non avevamo altra scelta che tornare alla nave.
 
Personalmente, ritenevo che fosse la scelta peggiore che avremmo potuto fare.
 
Kai era sfinito e ammaccato, ed io non ero messo molto meglio: se i marines ci avessero visti mentre cercavamo di tornare all’insenatura in cui la nave era ancorata – e, se fossero stati almeno un po’ intelligenti, avrebbero pattugliato molto attentamente la costa – non avremmo avuto speranze di cavarcela. E certo non avremmo potuto fare affidamento sul resto della ciurma: Robert era più di morto che vivo, Jon era terrorizzato da ciò che stava accadendo all’amico e dubitavo fortemente che, in quella condizione, avrebbe potuto esserci d’aiuto se ce la fossimo vista brutta, mentre Mikami, l’unica che forse, considerando che possedeva uno zoo-zoo, avrebbe potuto anche rivelarsi utile, se ne stava immobile con lo sguardo perso nel vuoto, anche lei in uno stato simile allo shock. Ed Ace era ancora chissà dove, a combattere Smoker.
 
Cioè, nella migliore delle ipotesi era ancora a combattere Smoker. Nella peggiore… era finito ammanettato in qualche cella buia: l’ennesimo trofeo del Cacciatore Bianco.
 
Nonostante tornare alla nave fosse la cosa meno consigliabile da fare, mi rendevo benissimo conto che rappresentava l’unica possibilità di sopravvivenza per Robert.
 
Avevo dato un occhiata alla ferita, e non avevo visto niente di buono: era un lungo e profondo taglio che incideva la gamba destra, sopra il ginocchio. A giudicare dal modo in cui sanguinava, la katana che lo aveva colpito aveva reciso l’arteria.
 
Non avevo potuto fare molto, se non fasciare la ferita il più stretta possibile con la stoffa strappata dalle braghe. Se avessi avuto gli strumenti, sarei stato certamente in grado di ricucire la ferita e di fargli una trasfusione, ma così, nascosti nel mezzo della vegetazione… Non avevo potuto fare nulla.
 
Così, avevamo ripercorso a ritroso la strada che avevamo seguito quando, scendendo dalla nave, ci eravamo diretti al villaggio.
 
Non era stato facile: eravamo tutti stanchi, e portare Robert a peso morto, prima su per la vallata e poi tra la vegetazione fitta del bosco, non era stato facile.
 
Ancora non mi capacitavo di come fosse stato possibile, ma sembrava che qualcuno avesse ascoltato le mie suppliche: infine eravamo riusciti ad arrivare alla nave, con Robert ancora vivo e senza che nessuno ci vedesse.
 
Sia Igor che Gary erano subito accorsi capendo che qualcosa non era andato per il verso giusto, vedendoci tornare feriti e malconci e senza Ace.
 
Vedendo Robert, Igor il medico era sbiancato, e l’aveva portato subito in infermeria dove si era chiuso e dove si trovava tutt’ora, a più di un ora di distanza dal nostro ritorno.
 
Mi lasciai cadere sul letto, esausto, dopo aver finalmente finito di medicare l’ultima ferita a Kai.
 
«C’è stato un momento, in cui me la sono davvero vista brutta» disse Kai, lanciandomi uno sguardo preoccupato.
 
Voltai il capo, incontrando il suo sguardo titubante. «Lo so. Ma non potevamo rischiare. E’ di fondamentale importanza che tu continui in questo modo, anche se ti mette in difficoltà non poter combattere liberamente. Tanto, se tutto procede come previsto, non dovremmo più lottare finchè non arriviamo al tesoro.»
 
Kai annui, rimanendo inespressivo. Dopotutto, le ferite che aveva riportato non erano state gravi, nulla che non avessi potuto sistemare con qualche punto, non c’era motivo di preoccuparsi tanto.
 
Feci per incrociare le braccia dietro la nuca, ma una fitta di dolore mi bloccò: digrignai i denti e tornai ad abbassare gli arti, imponendomi di respirare profondamente.
 
Non mi ero procurato nessuna ferita da taglio, ma quella maledetta jitte mi aveva lasciato certi lividi… ed ero anche stato fortunato che Smoker si fosse limitato a questo, ancora non mi capacitavo di come avessi fatto a cavarmela con così poco, senza nemmeno un osso rotto o fratturato.
 
Mi scocciava ammetterlo, ma l’intervento di Ace era stato provvidenziale.
 
Già dal primo istante in cui lo scontro tra me e Smoker era iniziato – ma che dico, prima, lo sapevo già da quando avevo riconosciuto il marine – avevo capito che non avevo alcuna possibilità di batterlo, e che anche tenergli testa non sarebbe stato affatto facile.
 
Ace era intervenuto al momento giusto: se avesse tardato anche di un solo secondo, probabilmente avrei riportato ferite ben più gravi di qualche livido o qualche frattura.
 
Mi chiesi come se la sarebbe cavata.
 
Pugno di Fuco contro il Cacciatore Bianco: uno scontro alla pari, uno di quegli scontri che vale certamente la pena vedere.
 
Ciò che mi preoccupava, era la Jitte: se avessero combattuto usando soltanto il potere dei loro frutti, o utilizzando l’haki e dandosele a mani nude, non credevo che Ace avrebbe dovuto avere problemi a tenere testa a Smoker. Forse non sarebbe riuscito a batterlo, ma certamente non avrebbe nemmeno perso tanto facilmente. Invece, la Jitte, dava a Smoker un netto vantaggio.
 
E poi, Smoker non era solo, ma aveva dalla sua un intero esercito di marines.
 
Certo, tutti quegli uomini, sebbene fossero stati addestrati ed allenati, erano solitamente del tutto inoffensivi; eppure, sarebbe bastato che ognuno di loro fosse stato armato con un’arma fatta con l’algamatolite per renderli all’improvviso pericolosi.
 
Rimasi a rimuginare sull’esito della battaglia per alcuni altri minuti, arrivando ad un'unica conclusione: le cose per Ace non si erano messe bene, affatto.
 
*
 
Dopo pochi minuti, udii che il respiro di Ace si faceva più profondo, lento e regolare.
 
Attesi.
 
Quando fui certa che si fosse addormentato smisi di giocherellare con i ciuffi troppo lunghi della frangia e mi misi lentamente a sedere, volgendomi a guardarlo.
 
Dormiva profondamente, a pancia in giù, con un braccio allungato sotto il cuscino, quasi come se lo stesse abbracciando. Allungai la mano, colta dalla voglia di accarezzarlo e ricalcare con i miei polpastrelli le linee nere che spiccavano sulla pelle abbronzata, partendo dalla A, passando per quella S sbarrata e per la C, fino alla E; ma ad un palmo da lui ritrassi la mano, temendo di svegliarlo.
I capelli corvini risaltavano sulle lenzuola candide: una ciocca ribelle gli ricadeva davanti agli occhi, nascondendo parzialmente il suo viso affondato nel cuscino.
 
Rimasi ad osservarlo ancora, in perfetto silenzio, quasi senza respirare.
 
Una parte di me, sarebbe voluta correre da Smoker.
 
Quel pomeriggio, quando lo avevo improvvisamente visto lì, nel mezzo del campo di battaglia pervaso dal fumo, dal suo fumo, il mio primo istinto era stato quello di corrergli incontro.
 
Mi ero sentita felice, incredibilmente felice quando i miei occhi avevano incontrato la sua figura imponente e minacciosa, ed avevo già mosso il primo passo nella sua direzione quando mi ero resa conto che, semplicemente… non potevo.
 
Non avrei potuto corrergli incontro, per il semplice fatto che non ero più un marine, ma avevo scelto di diventare un pirata.
 
Il sorriso che si era allargato sul mio volto alla vista di Smoker si era spento in un istante, come una fiammella a cui viene tolto l’ossigeno. E, come se mi avessero tolto davvero l’aria, ero rimasta a fissarlo, boccheggiando, senza sapere cosa fare, ma con la sensazione di aver sbagliato tutto.
 
Forse aveva avuto ragione quell’uomo, quello schiavista in cui ci eravamo imbattuti quando ancora ero un marines e sulla nave di Ace ero soltanto un ospite sgradita. Forse aveva avuto ragione, nel dire che non ero altro che un cagnolino che scodinzolava davanti al suo padrone, impaziente di ricevere una carezza come ricompensa per l’ubbidienza dimostrata. Forse era per questo che mi sentivo così smarrita, forse davvero non ero altro che un cane che aveva perso il padrone.
 
Per tutto il giorno, avevo evitato di pensarci.
 
Lo avevo fatto perché sapevo che Ace si stava battendo con lui, e perché sapevo cosa sarebbe accaduto se, come la scorsa volta, fosse stato sconfitto: non potevo, non volevo, permettermi di provare nemmeno una punta di affetto per Smoker né volevo rendermi conto che, nonostante tutto, sentivo la sua mancanza, non fintanto che il marine avesse rappresentato per Ace un tale pericolo.
Mi ero ossessivamente ripetuta, per tutto il giorno, che sarebbe andato tutto bene, e che ad Ace non sarebbe accaduto nulla.
Mi ero ripetuta che era solo questione di tempo, che si trattava soltanto di aspettare, e lui sarebbe salito con un balzo sulla nave, sorridendo come se nulla fosse successo.
 
E poi, finalmente, Ace era tornato, e quell’enorme macigno nero che mi pesava sul cuore era scomparso.
 
Gli ero corsa incontro e lo avevo abbracciato, l’avevo stretto forte nascondendo il viso contro il suo petto, trattenendo a stento le lacrime. Lui mi aveva sussurrato qualcosa a voce bassa, sorridendo e carezzandomi i capelli.
 
Anche Gary e Jon, come me in attesa sul ponte, gli erano corsi incontro, anch’essi sollevati e più felici che mai di vederlo tornare sano e salvo. Ace aveva chiesto di Robert e, sentendo che era fuori pericolo e che si sarebbe ripreso, si era rilassato con un sospiro.
 
Sullo scontro contro Smoker non aveva detto nulla, ed io, del resto, nulla gli avevo chiesto. “Non mi importa” avevo continuato a ripetermi, “l’unica cosa importante è che Ace stia bene”.
 
Ma avevo mentito.
 
Era chiaro che mi importasse.
 
Per il resto del pomeriggio ero riuscita a non pensarci stando accoccolata contro il fianco di Ace e seguendolo ovunque come se fossi stata la sua ombra, grata per il fatto che fosse tornato e che stesse bene.
 
Ma ora che il pirata dormiva profondamente e che io mi ero rilassata cercando di prendere sonno a mia volta, non riuscivo ad evitare di pensare a Smoker, e tutti i pensieri su di lui che avevo tenuto lontani come meglio potevo durante il giorno, avevano preso ad affollarmi la mente ed io mi ero accorta che non potevo, semplicemente non potevo, ignorare l’affetto che ancora provavo per lui.
 
Io volevo andare da lui.
 
Volevo vederlo, guardarlo negli occhi, parlargli. Non che avessi, in realtà, nulla da dirgli, ma sentivo comunque di doverlo incontrare.
 
Però… Sapevo che Ace non ne sarebbe stato felice. Non me lo avrebbe proibito, certo, questo probabilmente no, ma certamente ne avrebbe sofferto. Come avrei dovuto fare?
 
E poi, un pensiero era scivolato nella mia mente, silenzioso e sinuoso: e se fossi andata da Smoker mentre Ace dormiva?
 
Subito, avevo scartato categoricamente quell’idea, senza nemmeno prenderla in considerazione. Era un colpo basso, non mi sarei comportata in modo così sleale verso Ace, gli volevo troppo bene e già troppe volte aveva sopportato i miei sbalzi di umore ed i comportamenti all’apparenza inspiegabili.
 
Ma quel pensiero aveva continuato a tornare e non mi aveva dato tregua. Dopo un po’, avevo iniziato a pensare che non sarebbe stata un’idea così pessima e che, anzi, se lui non avesse saputo che avevo parlato con Smoker, non ne avrebbe sofferto, e che questa sarebbe stata quindi l’opzione migliore per entrambi.
 
Avevo continuato ad osservare Ace che dormiva tranquillo, sfinito dopo la battaglia con Smoker, chiedendomi cosa avrei dovuto fare.
 
Altri lunghi minuti, ed infine mi ero decisa: sarei andata da Smoker in quel preciso momento, evitando che Ace lo venisse a sapere.
 
*
 
Ero sgusciata silenziosamente fuori dalla cabina, sul ponte, e poi a terra. Non era stato difficile evitare che qualcuno mi vedesse: dopo la giornata movimentata che avevamo passato, erano tutti troppo stanchi per rimanere a bighellonare sul ponte o lungo i corridoi, e anche i carpentieri, avendo quasi finito di riparare la nave, non avrebbero ripreso a lavorare prima della mattina successiva.
 
Anche trovare il luogo in cui la nave della Marina era ormeggiata non era stato difficile. Mi era bastato tornare al villaggio, e una donna che avevo incontrato mi aveva indicato la via per il porto. Avevo camminato in quella direzione, seguendo il profumo del mare, e dopo appena una decina di minuti l’avevo vista: era senza dubbio la nave di Smoker, con il suo nome impresso sulle vele a grandi caratteri neri.
 
Vista da fuori, sembrava la coppia esatta di quella che Ace aveva bruciato, la prima volta che ci eravamo incontrati – o per meglio dire, scontrati.
Smoker era un tipo abitudinario, e non ero poi così stupita nello scoprire che aveva voluto la nuova nave, almeno a vederla dall’esterno, in tutto e per tutto simile a quella vecchia.
 
Salire a bordo era stato, se possibile, ancora più facile che trovare la nave: c’erano appena due coppie di marine di guardia, una sul molo ed una sul ponte principale, ed eludere la loro sorveglianza era stato un gioco da ragazzi. Dopotutto, nessun pirata o malvivente con un briciolo di buon senso sarebbe mai salito di sua spontanea volontà su una nave della Marina, soprattutto se quella nave era di Smoker: a che scopo quindi una massiccia sorveglianza?
 
Le cose, una volta a bordo, diventarono invece più difficili.
 
Iniziai ad agitarmi: cosa avrei fatto se qualcuno mi avesse vista? La nave pullulava di marines, certo non avrei potuto affrontarli tutti da sola e, forse, per via del loro numero, sarebbero anche riusciti a bloccare una mia possibile fuga.
 
Eppure, ormai che ero lì, non volevo tirarmi indietro.
 
Presi coraggio e imboccai rapidamente il corridoio principale che speravo avrebbe, come nella nave precedente, portato dritto davanti alla cabina di Smoker.
 
Lo percorsi a passi lunghi e rapidi, quasi correndo, augurandomi con tutto il cuore che nessun marines scegliesse di passare per quello stesso corridoio in quello stesso momento.
 
Fui fortunata: non incontrai nessuno durante il mio breve tragitto, e trovai subito la porta che stavo cercando. Rimasi immobile, con il cuore che batteva rapidamente nel petto. Annusai l’aria: l’odore dei sigari di Smoker era più forte e penetrante che mai.
 
Doveva essere la sua cabina.
 
Allungai la mano verso la maniglia, ma appena le mie dita sfiorarono il metallo freddo, la ritrassi con un movimento brusco, sentendo il coraggio e la determinazione che mi avevano guidato fin lì che svanivano all’improvviso.
 
Inspirai profondamente.
 
Mi imposi di non pensare a cosa sarebbe accaduto una volta che avessi varcato quella soglia: sapevo che, se mi fossi soffermata a rifletterci su, molto probabilmente avrei cambiato idea e mi sarei dileguata in fretta, molto in fretta.
 
“Inspira, espira” dovetti ricordare a me stessa.
 
Dopotutto, per quel che ne sapevo, Smoker avrebbe anche potuto arrestarmi.
 
A quel pensiero, il sangue mi si gelò nelle vene, ed io smisi di respirare: era una possibilità che non avevo valutato.
 
Mi riscossi udendo il rimbombare di passi che si avvicinavano nel corridoio.
 
Mi schiacciai contro il muro, guardandomi intorno agitatissima. Dovevo decidere cosa fare, e dovevo farlo in pochi secondi, prima di farmi scoprire: affrontare Smoker o infilare la coda tra le gambe e filarmela? Ero ancora in tempo per entrambe.
 
Guardai ansiosamente a destra e sinistra, sentendo i passi che si avvicinavano, più che mai combattuta sul da farsi. La scelta più semplice e meno rischiosa sarebbe stata quella di fuggire e tornare da Ace, ma se in quel momento fossi fuggita, forse non avrei più avuto occasione di parlare con Smoker.
 
Presi fiato e controllando il tremito violento della mia mano aprii la porta e mi infilai dentro la stanza, richiudendo rapida il battente di legno alle mie spalle.
 
Nella stanza immersa nella penombra, l’odore dei sigari riempiva l’aria, denso e pesante. Smoker era seduto alla scrivania, e mi dava le spalle.

Quando sentì il tonfo della porta che si chiudeva si voltò con un ringhio infastidito: sapevo che odiava che si entrasse nella sua cabina senza bussare.
 
Fu tale lo stupore quando mi vide che rimase a fissarmi immobile per alcuni secondi, a bocca aperta, rischiando di far cadere i due sigari che, come sempre, pendevano dalle sue labbra.
 
Anche io rimasi immobile, con la testa completamente svuotata da ogni pensiero, ricambiando il suo sguardo.
 
«Ragazzina» disse, con un tono stranamente titubante, quasi interrogativo, che male si addiceva alla sua persona.
 
«Smoker» risposi con un filo di voce, accennando un sorriso tirato, senza staccare la schiena dalla porta contro la quale stavo ancora premuta.
Provai un'intensa ondata di sollievo nel constatare che, come Ace era tornato sano e salvo, anche lui non sembrava essere ferito gravemente, nonostante alcune ombre violacee sul viso che sarebbero senz'altro divenute, già la mattina successiva, dei bei lividi.
 
«Cosa diavolo stai facendo?» ringhiò alzandosi in piedi, ritrovando in un attimo il suo solito tono di voce brusco e rude.
 
Mi feci piccola piccola, schiacciandomi maggiormente contro la porta. Non me lo ricordavo così… grosso e minaccioso. Forse non era stata poi una buona idea venire.
 
Tuttavia, sebbene fossi, non lo nego, intimorita da Smoker, la mia non era vera e propria paura: nonostante tutto, una parte di me era davvero felice di trovarsi lì, scioccamente felice, direi, considerando la situazione.
 
«Io…» esordii, ma senza sapere come proseguire.
 
Smoker fece alcuni passi verso di me, le braccia incrociate sul petto e la familiare ruga tra le sopracciglia ad increspargli la fronte e dargli un aria quanto mai torva.
 
«Allora?» Mi incalzò, squadrandomi dall’alto verso il basso.
 
«Volevo vederti» balbettai a bassa voce, non riuscendo a trovare un’altra risposta da dargli.
 
Smoker inarcò uno dei sopraccigli scuri ed assunse un aria stranita. Sbuffò una nuvola di fumo, e mi scoccò un’occhiata severa. «Vedo che continui a non pensare prima di agire» commentò.
 
Avrei potuto ribattere che, invece, ci avevo pensato parecchio, ma la verità è che quel rimprovero mi fece piacere, dandomi per un attimo l’illusione che le cose tra noi fossero semplici e lineari come in passato: lui mi sgridava quando mi comportavo in maniera illogica o irresponsabile ed io chinavo il capo ed annuivo, per poi tornare a ripetere lo stesso errore la volta successiva.
 
«Non saresti dovuta venire» disse bruscamente, assottigliando lo sguardo e fissando i suoi occhi grigi e minacciosi nei miei.
 
Vacillai. Mi morsi il labbro, chinando il capo. Sapevo che aveva ragione, eppure avevo sperato che, in qualche modo, sarebbe stato felice di vedere che, nonostante tutto, avevo scelto di rischiare e di intrufolarmi su una nave della Marina solo per parlare con lui.
 
Forse era davvero come aveva detto lui, dopotutto, ed io continuavo ad agire senza valutare fino in fondo ciò che stavo facendo.
 
Stavo ancora cercando qualcosa con cui ribattere, quando un sommesso bussare alla porta mi fece sobbalzare, e quasi mi strappò un grido.
 
Smoker mi osservò per un altro istante, cupamente, digrignando i denti attorno al filtro dei sigari, prima di distogliere lo sguardo e concentrare la propria attenzione sulla porta, contro cui ero ancora appoggiata.
 
Deglutii, iniziando a sudare freddo.
 
Se ora un altro marine mi avesse vista, sarebbe stato davvero un bel problema: Smoker certo poi non avrebbe potuto lasciarmi andare come se nulla fosse successo. Sempre ammesso che non volesse seriamente arrestarmi sin dal principio.
 
«Smoker-san?» domandò una voce femminile, titubante, dall’altra parte della porta.
 
Lanciai un’occhiata spaventata a Smoker, implorando con gli occhi di suggerirmi cosa fare, di trovare una soluzione per la situazione che si stava venendo a creare.
 
Dopotutto, sembrava che davvero avesse ragione: non avevo valutato affatto bene la pericolosità dell’impresa in cui mi ero imbarcata.
 
Con un ringhio sordo e un espressione di profondo fastidio negli occhi grigi, si avvicinò alla porta a grandi passi.
 
Quando lo vidi allungare una grande mano guantata verso di me, ebbi paura: trattenni il fiato e chiusi gli occhi, senza sapere cosa aspettarmi ma temendo che non sarebbe stato nulla di buono.
 
Invece Smoker si limitò a scansarmi bruscamente, lanciandomi un breve sguardo d’ammonimento prima di spalancare la porta con uno sbuffo scocciato.
 
Rimanendo nella posizione in cui ero, ero completamente nascosta dal battente della porta aperta, e chiunque fosse la donna che in quel momento stava sull’uscio non sarebbe mai riuscita a scorgermi, neanche se si fosse sporta verso l’interno della cabina. Certo, le cose sarebbero però diventate alquanto imbarazzanti se quella donna fosse entrata nella stanza: allora sì che non avrei avuto alcun posto in cui nascondermi, e per Smoker non sarebbe certo stato facile spiegare perchè mai teneva nascosto nella sua cabina un pirata della flotta di Ace.
 
Trattenni il fiato, senza osare respirare, e rimasi in religioso silenzio con le spalle schiacciate contro la parete, rimpiangendo di non essere rimasta a letto, accoccolata contro il petto di Ace.
 
«Tashigi» ringhiò Smoker, con il solito tono burbero.
 
«I-io non voglio disturbarla, ma mi è sembrato di vedere qualcuno che si aggirava in modo sospetto per la nave, e mi è parso di averlo visto entrare nella sua cabina, e cos-
 
«Come vedi, qui ci sono solo io» la interruppe bruscamente Smoker, espirando una densa nuvola di fumo grigio bianco.
 
«S-sì! Mi scusi» esclamò subito lei con tono sommesso.
 
Altri brevi istanti, e Smoker liquidò la donna. La porta venne richiusa.
 
Continuai a non muovermi, finchè non udii i passi della donna allontanarsi lungo il corridoio.
 
«Così, mi hai già rimpiazzata» dissi, quasi senza rendermene conto, dimenticandomi completamente della paura di essere scoperta che mi aveva attanagliato la gola fino a quel momento.
 
Smoker tornò a concentrarsi su di me, investendomi con uno sguardo duro e tagliente. «Sei tu che te ne sei andata. Nessuno è strettamente indispensabile nella Marina: se qualcuno si ritira o per qualunque motivo smette di occupare il proprio posto, viene sostituito.»
 
Strinsi i denti.
 
Sapevo che aveva ragione, eppure questa consapevolezza non mi aiutava a sentirmi meno ferita.
 
Dopotutto però sapevo che stava mentendo, sapevo di non essere per lui soltanto una persona qualsiasi: se lo fossi stata, mi avrebbe arrestata all’istante, per diserzione e pirateria.
 
O forse, più che saperlo, lo speravo ardentemente?
 
«Scommetto che lei, a differenza di me, pensa prima di agire» dissi a bassa voce, in un sussurro, rivolta più a me stessa che a lui.
 
Smoker non rispose, e si limitò a sbuffare tra le labbra socchiuse l’ennesima boccata di fumo. Si avvicinò alla scrivania, afferrò un oggetto che non riuscii ad identificare, e lo lanciò nella mia direzione.
 
Lo afferrai istintivamente al volo con un sussulto. Me lo rigirai in mano: era il vecchio cappello di Ace con i due smiley, quello triste e quello sorridente. Sporco e ammaccato, ma era lui.
 
«Quel maledetto cappello mi è nei piedi, portatelo via» abbaiò nella mia direzione.
 
«L’hai tenuto come trofeo?» domandai, sforzandomi di incurvare le labbra verso l’alto in un sorriso, mentre la voce di quella donna, quella Tashigi, continuava a rimbombarmi nelle orecchie.
 
«Non dire stupidate.»
 
Rimanemmo per diversi minuti in silenzio.
 
Mi rigirai tra le mani il cappello logoro, senza sapere cosa dire o fare, ma senza un briciolo di voglia di andarmene in quel modo, senza essere riuscita a dire o fare nulla.
 
«Allora? Adesso hai una taglia sulla testa, non dovresti proprio stare su una nave della Marina. Dovrei arrestarti.»
 
Ignorai quella non tanto velata minaccia, e lo guardai sorpresa: «una taglia?»
 
Smoker si voltò, afferrò nuovamente qualcosa sulla scrivania stracolma di documenti e pile di fogli, e me lo mostrò: era un volantino stampato su carta ingiallita. Lo osservai con attenzione: vi era impressa una vistosa scritta “WANTED”, che sovrastava una mia foto in cui comparivo di tre quarti, lo sguardo serio e fisso avanti a me.
 
Rimasi impietrita.
 
“dead or alive
MIKAMI
7.000.000 Berry”
 
Diceva il resto del volantino.
 
Puntai nuovamente gli occhi su Smoker, confusa. «Ma non ho fatto nulla!» protestai agitata.
 
«Abbassa quella voce!» ringhiò lui. Sobbalzai, ricordandomi soltanto in quel momento della situazione in cui mi trovavo, e coprendomi istintivamente la bocca con le mani. «Sei colpevole di diserzione, oltre che di pirateria, ovviamente» disse duramente, scoccandomi un’occhiata gelida. «Non potevi davvero aspettarti che, prima o poi, qualcuno non notasse la tua assenza.»
 
Rimasi in silenzio, continuando ad osservare il volantino, incredula e atterrita.
 
«Ci sono anche questi, freschi di stampa» disse Smoker, allungandosi ed afferrando altri fogli tra quelli che si trovavano impilati sulla scrivania. Robert, Jon, Kai e Fall: un volantino per ognuno di loro, con tanto di taglia e foto.
 
Quella di Fall era la più alta: 20.000.000 berry.
 
Avevo visto che aveva combattuto, anche se per pochi minuti, con Smoker, e che, inspiegabilmente, non solo ne era uscito vivo, ma anche non eccessivamente ammaccato. Mentre osservavo la sua foto – era stato immortalato di profilo, dalla parte sinistra, con l’occhio dorato e la cicatrice che incideva la tempia fino alla guancia – , conclusi che probabilmente era per questo che la Marina doveva aver deciso che, tra noi cinque, era lui quello più pericoloso.
 
Rimasi ancora in silenzio, pensierosa.
 
«Non puoi intrufolarti su una nave della Marina come se niente fosse. Non è un gioco» disse Smoker tutto d’un tratto, perdendo la sua aria minacciosa ed assumendone una seria e severa.
 
Chinai il capo. Sapevo che aveva ragione, e solo ora, dopo aver visto quel manifesto ingiallito, mi rendevo conto di quanto fossi stata imprudente a fare una cosa del genere.
 
«Non so cosa tu volessi fare, ma farai meglio a non compiere nuovamente simili azioni. Se qualcuno dovesse vederti, sarebbe un dannato problema per entrambi.»
 
Annuii, ma non mi mossi.
 
Smoker tornò ad avvicinarsi, le braccia incrociate sull’ampio petto lasciato scoperto dalla giacca sbottonata.
 
«Te lo ripeto: sparisci. Abbiamo già rischiato anche troppo.»
 
Sospirai, abbattuta.
 
Ma cosa mi ero aspettata?
 
Non sarei dovuta venire.
 
Non era servito a nulla.
 
Chissà cosa mi ero messa in testa di fare.
 
Ero rimasta lì davanti a Smoker, spaesata e confusa, praticamente senza riuscire a dire una sola parola.
 
Smoker emise un ringhio frustrato. «Ti do due minuti di tempo. Al loro scadere, se sarai ancora qui, ti arresterò» disse, scuro in volto.
 
«Mi manca» sussurrai.
 
Il marine mantenne, impassibile, la propria smorfia torva e minacciosa. «Di cosa diavolo stai parlando?»
 
«Di quello che avevo prima. Mi manca indossare l’uniforme, gli addestramenti, le adunate, mi manca essere rimproverata da te, lamentarmi della puzza dei tuoi sigari, farmi trascinare quasi a forza sulla nave… mi manca tutto quello che facevo prima.»
 
Lo sguardo di Smoker si fece più sottile e pungente. «Sai che non mi piace chi non dice le cose in modo diretto. Stai cercando di dire che vuoi tornare a fare il marine?»
 
Angolo autrice:
Purtoppo ormai mi sono arresa all'evidenza che più velocemente di così non riesco ad aggiornare, portate pazienza >_<
Ed anzi, vi devo informare che per il prossimo capitolo probabimente dovrete attendere anche un po' di più, devo aggiornare prima un'altra storia che sto trascurando da troppo tempo...
Detto questo, siete libere di tirarmi tutti i pomodori e le uova marce che volete per il modo bastardo in cui ho concluso il capitolo XD
A presto, e grazie a tutte quelle che stanno pazientemente sopportando i miei ritardi XD

 
 

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Capitolo 13
*** I'm hoping, I'm praying I won't get lost between two worlds ***


I'm hoping, I'm praying I won't get lost between two worlds

Lo sguardo di Smoker si fece più sottile e pungente. «Sai che non mi piace chi non dice le cose in modo diretto. Stai cercando di dire che vuoi tornare a fare il marine?»
 
Sobbalzai e sbiancai. «NO!» mi uscii in un urlo stridulo. «IO N-
 
«Abbassa la voce!» mi intimò nuovamente il marine con un ringhio sordo, incenerendomi con lo sguardo.
 
Mi morsi il labbro, agitata ed imbarazzata. «Non sto dicendo che voglio tornare a fare il marine.» misi subito in chiaro, brusca, senza riuscire tuttavia a placare l’irrequietezza che mi animava.
 
Smoker rimase impassibile. «Quindi? Ancora non ho capito il motivo per cui sei venuta.»
 
Chinai il viso, osservando agitata le assi di legno del pavimento, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro.
 
…Avrei voluto entrambe le cose, era questa la verità. Avrei sia voluto rimanere con Ace, che tornare con Smoker. Perché non esisteva un modo per stare con entrambi?
Certo, rivelare questi pensieri al marine sarebbe stato inutile: avrebbe sbuffato e, infastidito, mi avrebbe dato della sciocca per aver anche solo potuto pensare ad una cosa tanto assurda. Del resto non me la sentivo di biasimarlo, fossi stata in lui avrei reagito nello stesso modo.
 
Sapevo cosa volevo, e ancora meglio sapevo che mai avrei potuto ottenerlo.
Non mi veniva in mente alcun modo in cui avrei potuto passare contemporaneamente del tempo con un pirata e con un marine. L’avevo visto appena qualche giorno prima: Ace aveva dovuto affrontare il suo stesso nonno. Se non avevano alcuna possibilità di resistere, tra pirati e marine, nemmeno i legami di parentela così stretti, come potevo pensare di riuscire io in una tale impresa?
 
In linea di massima, ero sempre stata dell’idea che i problemi privi di soluzione erano ben pochi, se non addirittura inesistenti. Ero sempre stata convinta che ci fossero, semplicemente, problemi con soluzioni facili (per esempio, la prima volta che avevo incontrato Smoker: quando mi ero posta il problema di cosa fare, scegliere di seguirlo era stata una decisione assolutamente facile da prendere) e problemi con soluzioni meno facili (come quando avevo incontrato Ace e ridimensionato l’idea che avevo sui pirati: allora, decidere cosa fare, non era stato affatto facile), ma in ogni caso le soluzioni c’erano: bastava soltanto avere la pazienza, la determinazione e l’astuzia per scovarle.
 
Stavolta invece, mi appariva chiaro, di soluzioni proprio non ce n’erano.
 
Non c’era nemmeno molto da rifletterci su: non c’erano e basta, non c’era alcun modo in cui io avrei mai potuto stare contemporaneamente con un pirata e con un marine. Stavolta, non vedevo via d’uscita.
 
L’unica soluzione possibile sarebbe stata essere tutti da una stessa parte: o tutti pirati o tutti marine. Ma era chiaro che, una cosa simile, non sarebbe mai accaduta: non avrei saputo dire se sarebbe stato più improbabile vedere Ace indossare l’uniforme da marine o Smoker smettere la sua, per mettersi a solcare i mari con il vessillo di Barbabianca tatuato sulla schiena o sul petto.
 
E quindi, anche l’unica possibile soluzione che mi era venuta in mente si rivelava in realtà non essere né l’una né l’latra: né possibile né, tanto meno, una soluzione.
 
Ero punto e a capo.
 
«E’ chiaro che tu non abbia niente da dire. Vuoi andartene, ora?» nonostante il modo, tutto sommato cortese, in cui era stata formulata la domanda, era chiaro che di cortese in Smoker, in quel momento, non ci fosse proprio nulla, e quella domanda pareva, per il tono in cui era stata formulata, più un ultimatum che un gentile invito.
 
«Davvero non c’è una soluzione?» tentai in ultimo, in un sussurro mesto, pur conoscendo già la risposta.
 
«Per cosa?» sbuffò Smoker che, ora, iniziava ad irritarsi davvero.
 
«Per questa situazione. Io voglio bene ad entrambi.» bisbigliai, senza avere tuttavia il coraggio di esprimermi più chiaramente, senza riuscire a dire apertamente che, le due persone a cui sarei voluta rimanere vicina, erano lui ed Ace.
 
Smoker aggrottò maggiormente le sopracciglia, con fare minaccioso, facendosi ancora più torvo. Sapevo che odiava dover leggere tra le righe e dover cercare di interpretare le parole non dette, ma tuttavia sperai che capisse comunque ciò che intendevo dire perché, mi resi conto, io il coraggio di parlare chiaramente non lo avevo.
 
La determinazione che mi aveva spinto ad intraprendere quella folle impresa sembrò abbandonarmi tutta assieme nel giro di un istante, e io stessa iniziai a chiedermi cosa fossi venuta a fare.
 
Per la prima volta da quando avevo messo piede sulla nave, e senza che Smoker mi minacciasse, sentii il bisogno impellente di andarmene, di scappare e nascondermi dallo sguardo penetrante ed indagatore del marine.
 
Chiaramente, non lo feci.
 
Ma decisi che, quando lui mi avesse nuovamente intimato di andarmene, me ne sarei realmente andata. Dopotutto, lui aveva ragione: non avevo nulla da dirgli – o meglio, non c’era nulla che fossi in grado di dirgli – e con la mia ostinazione a rimanere lì non stavo facendo altro che metterlo in una situazione parecchio scomoda.
 
Smoker digrignò per alcuni istanti i denti attorno ai sigari, studiandomi cupamente con i suoi occhi grigi, minaccioso ed infastidito assieme, ed io credetti – ed una parte di me lo sperò – che si sarebbe limitato a ripetermi di andarmene, lasciando perdere quella frase che avevo buttato lì, che avrebbe potuto dire tutto e, al contempo, non dire assolutamente nulla.
 
«Non ci sono soluzioni. I pirata ed i marine sono nemici, non c’è altro da dire.» disse invece bruscamente ad un certo punto, lanciandomi uno sguardo freddo e ostile.
 
Quella risposta inaspettata mi fece sussultare, ed io fui costretta a duplicare lo sforzo per riuscire ad ignorare il bisogno sempre più impellente che provavo di fuggire via.
 
Mi sembrava di avere come un nodo strettissimo attorno alla gola, che mi rendeva difficile articolare le parole e respirare.
 
Mi resi conto di aver tanta voglia di piangere.
 
«Ma…» iniziai con voce tremula.
 
«Non ci sono né ma né se, è così e basta.»
 
«… e la Flotta dei sette?» insistetti, trovando in quell’idea improvvisa un briciolo di speranza.
 
«A Portgas non interessa.»
 
«Come puoi dirlo? Forse-
 
«Ascoltami quando ti parlo!»
 
Non urlò, ma il suo sguardo ed il suo tono furono tali da indurmi all’istante al silenzio. «Quel posto gli è già stato offerto, ed ha rifiutato. Non è interessato. »
 
Quell’affermazione mi piombò addosso come un macigno.
 
Allora davvero non c’era una soluzione.
 
«Comunque, anche se lui avesse accettato, non avrebbe funzionato.» Lasciai andare un sospiro tremulo, che vibrò brevemente nell’aria densa di fumo della cabina. Mi resi conto che aveva ragione. Non sapevo se Smoker avesse fatto quella precisazione per dire fino in fondo come stavano le cose o soltanto per cercare di consolarmi, ma volli credere che lo avesse fatto per quest’ultimo motivo.
 
Questo pensiero mi fece sentire lievemente meglio. O almeno, così mi sentii finche Smoker, abbassando la voce, non aggiunse «… un pirata rimane pur sempre un pirata.»
 
Mi tolse il fiato.
 
Si stava riferendo a me? Era diretta a me quella frase? Era di me che stava parlando?
 
Mi morsi il labbro in silenzio, gli occhi ancora fissi sul pavimento. Ace, sapevo che stava parlando di Ace. Era a lui che era riferita quella frase sprezzante. Eppure, non riuscii a convincermene fino in fondo, e mi sembrò di sentire il nodo attorno alla mia gola farsi sempre più stretto.
 
Rimasi così, muta, a capo chino, a ricacciare indietro le lacrime, stringendo in modo spasmodico la falda del cappello di Ace. Distolsi con un brivido lo sguardo dallo smiley ghignante, non riuscendo a togliermi dalla testa l’idea che stesse ridendo di me.
 
«Devi arrenderti. Non puoi essere sia un pirata che un marine.»
 
Strinsi ancora più forte i pugni, soffocando un singhiozzo. «Non mi importa più niente di essere un pirata e un marine. Mi importa solo di te ed Ace» riuscii a dire infine, con la voce incrinata.
 
«Questa precisazione è irrilevante, non fa alcuna differenza.»
 
Pensai a qualcosa da dire per contraddirlo, ma non mi venne in mente nulla. Non gli si poteva dare torto.
 
«Finchè continuerai ad essere un pirata, su questa nave non ci sarà posto per te. Perciò, per l’ultima volta: vattene, è un ordine.»
 
A quel punto, cedetti.
 
Mi arresi davvero.
 
Inspirai profondamente.
 
«Appunto, sono un pirata, non prendo ordini da te.» dissi con freddezza cercando di controllare il tremito della mia voce, ignorando le lacrime che minacciavano di rotolare giù dalle guance e il nodo in gola, tornando finalmente a sollevare lo sguardo e a fronteggiarlo.
 
Smoker rimase impassibile, tutt’altro che impressionato, ricambiando il mio sguardo con indifferenza senza dar segno di voler reagire a quell’atto di sfida.
 
Avrei preferito che mi avesse abbaiato contro un altro ordine o che avesse impugnato la jitte: quella totale assenza di reazione scatenò dentro di me una rabbia cieca che, come un onda in piena, spazzò via tutta la tristezza che si era accumulata durante il nostro discorso.
 
“Non gli importa nulla”, era tutto ciò che riuscivo a pensare.
 
Strinsi i denti per soffocare un ringhio furibondo e mi voltai, afferrando con furia la maniglia della porta e aprendo malamente l’uscio, che richiusi poi bruscamente alle mie spalle producendo un tonfo sordo.
 
Non mi voltai indietro, né mi diede da pensare la consapevolezza che il chiasso che avevo fatto avrebbe molto probabilmente attirato qualche marine. Ripercorsi il corridoio a lunghi passi rabbiosi fregandomene di tutto. Dove stava il problema? Se qualche marine mi avesse scoperta, gli avrei tappato la bocca molto volentieri. Anzi, una parte di me, smaniosa di sfogare la rabbia accumulata, sperava di imbattersi in qualche soldato.
 
Provai addirittura una certa delusione quando, arrivata all’aperto sul ponte, constatai che nessuno aveva tentato di fermarmi, e mi arrabbiai ancor di più.
 
Stavo già per scendere a terra quando una voce mi bloccò.
 
«Ferma dove sei!»
 
Mi voltai lentamente.
 
Qualche metro avanti a me stava una donna con corti capelli scuri tra il blu e il nero, occhi dello stesso colore ed un paio di occhiali dalla montatura rossa tenuti sollevati sulla fronte. Non portava l’uniforme della Marina, ma una camicia dalla discutibile fantasia floreale abbinata ad una giacca e ad un paio di braghe di pelle. Aveva un aria decisa e determinata, e puntava nella mia direzione una katana che impugnava con entrambe le mani.
 
Avevo riconosciuto la sua voce: Tashigi.
 
Una scarica di adrenalina mi attraversò il corpo. I miei sensi erano allerta ed i muscoli tesi. Non riuscii ad impedirmi di incurvare le labbra in un sorriso minaccioso: non sarebbe potuto capitarmi avversario migliore.
 
Se avessi voluto, sarei tranquillamente potuta balzare giù dalla nave e mettermi a correre nell’oscurità, facendo perdere le mie tracce senza troppi problemi e, probabilmente, in un’altra situazione, sarebbe stato proprio così che mi sarei comportata. Ma in quel momento ero troppo furibonda per svignarmela a quel modo, ed inoltre ero certa che non avrei mai più avuto un occasione del genere per confrontarmi con quella donna, che odiavo anche senza conoscere.
 
Non mi passò per la testa nemmeno per un istante che, essendo su una nave piena zeppa di marine, e con Smoker dietro l’angolo, non sarebbe stata una buona idea affrontare quella donna, e che probabilmente sarei stata io ad avere la peggio: tutto ciò che volevo, era farle male. Molto male.
 
«Cosa stai facendo qui? Chi sei?» chiese la donna, cercando probabilmente di apparire minacciosa ma non riuscendo ad ottenere da me altro se non rinnovata ilarità.
 
Indossai il cappello di Ace che ancora stringevo in pugno, lasciandolo ricadere sulla schiena, per avere entrambe le mani libere e, afferrato l’orlo superiore della mia maglia, lo strattonai verso il basso, mostrando, senza dire una parola, il tatuaggio che mi identificava come appartenente alla flotta di Barbabianca.
 
La donna si calò gli occhiali sul naso e socchiuse gli occhi per mettere meglio a fuoco le linee nere che spiccavano sulla mia pelle chiara. Identificato il simbolo sussultò, colta chiaramente alla sprovvista, e tentennò, come se fosse indecisa se attaccarmi o darsela a gambe e andare a chiamare i rinforzi.
 
Non le diedi il tempo di decidere e le balzai repentinamente addosso.
 
A spiccare il salto fu un’esile ragazzina, ma a piombarle addosso fu invece una tigre inferocita tutta zanne, muscoli e artigli.
 
Cadendo a terra la donna lanciò un urlo acuto, sorpresa e spaventata allo stesso tempo.
 
Ero fermamente intenzionata ad affondare i denti nel suo collo e già mi sembrava quasi di sentire il sapore del sangue in bocca quando, invece, mi arrivò sulla nuca l’elsa della katana. Forse avevo sottovalutato quella donna.
 
Stordita, fui costretta ad indietreggiare con un balzo per evitare la lama della katana, però non prima che i miei artigli avessero aperto un taglio lungo e scuro nel braccio sinistro della mia avversaria.
 
Tashigi si rialzò ansante, con i capelli scarmigliati e gli occhi sbarrati, la katana stretta in una sola mano ed il braccio ferito lasciato ricadere inerte lungo il fianco, mentre un’abbondante scia di sangue colava già sul legno scuro del ponte.
 
Mi ripresi in pochi istanti, e tornai ad avvicinarmi. Le girai attorno, lentamente, le fauci socchiuse, disegnando cerchi sempre più stretti. Lei rimaneva immobile, le dita serrate sull’elsa della katana, seguendo ansiosamente i miei movimenti con lo sguardo. Era facile indovinare che avesse paura.
 
In un istante piegai le zampe posteriori, e spiccai un nuovo balzo in avanti.
 
Nonostante tutto, Tashigi non si fece trovare impreparata ed io, pur scartando bruscamente di lato, non riuscii ad evitare completamente la lama della sua katana che, sibilando vicino al mio orecchio, mi graffiò il muso ed andò a conficcarsi poco sotto la spalla sinistra.
 
Ero così presa dallo scontro, che quasi non sentii nemmeno il dolore per la ferita e, anzi, riuscii a sfruttare il colpo che mi veniva inferto a mio favore: scattai in avanti  e, voltando con un movimento repentino la testa, affondati i denti nel suo polso, prima ancora che lei avesse il tempo di ritirare la katana e difendersi.
 
Il suo urlo di dolore assieme al gusto del sangue non fecero altro che accrescere la mia voglia di combattere.
 
Strinsi con più forza i denti attorno al polso di Tashigi, tendendo le orecchie ed aspettando di sentire il rumore secco dell’osso che si rompeva e si fratturava, più che mai decisa a conciarla per le feste.
 
Tuttavia, ben presto fui costretta a rivedere i miei piani: una scarica di proiettili esplose ai miei piedi ed io, colta alla sprovvista, abbandonai il polso della donna ed indietreggiai bruscamente.
 
Emisi un ringhio frustrato, nel vedere davanti a me un piccolo gruppo di marines con i fucili puntati nella mia direzione. Non mi ci volle molto per capire che, ora che mi ero allontanata da Tashigi e che i proiettili non avrebbero più rischiato di colpirla, non si sarebbero limitati al fuoco di avvertimento, ma avrebbero sparato per colpire.
 
Agitai nervosamente la coda, furiosa per l’interruzione ed ulteriormente agitata dai passi che, tendendo le orecchie, potevo sentire provenire dal corridoio e dalla sottocoperta.
 
Solo allora realizzai che le cose per me si sarebbero messe veramente male, se non me ne fossi andata al più presto.
 
Sfogai la mia frustrazione in un ruggito tonante e minaccioso, un attimo prima di balzare giù dalla nave e a terra, schivando per un soffio una nuova raffica di proiettili.
 
Iniziai subito a correre nell’oscurità, più veloce che potevo, digrignando ancora i denti per la rabbia. Non mi voltai indietro e, in pochi istanti, mi lasciai il porto alle spalle e mi inoltrai nel paese.
 
Continuai a correre.
 
Arrivata alla vallata, che iniziava subito finito il paese, rallentai fino ad una fiacca corsetta, e poi rallentai di nuovo, iniziando a camminare tra la vegetazione.
 
Lo sforzo compiuto mi costringeva a respiri brevi e rapidi ma, almeno, era servito a sfogare in buona parte la mia rabbia. C’era anche un lato negativo in questo: ora che mi stavo calmando, la ferita alla spalla iniziava a farsi sentire, e ad ogni passo bruciava come l’inferno.
 
Procedetti così per alcuni metri poi, constatando che il dolore diventava sempre più forte, smisi di essere una tigre e tornai ad essere una ragazza: se non altro, in quel modo non ero costretta ad appoggiare il mio peso sulla spalla ferita ad ogni passo.
 
Non so quanto tempo mi ci volle per risalire la valle e attraversare il bosco fino a dove era ancorata la nave di Ace, ma mi parve un’eternità.
 
Quando finalmente arrivai, ero esausta, con il respiro affannoso, ferita e sanguinante.
 
Salii a fatica a bordo. Mi guardai intorno con fare circospetto: sembrava che nessuno si fosse mosso, e che fossero ancora tutti nelle proprie cabine.
 
Arrancai fino all’infermeria. Stavo già per sgusciare furtivamente oltre l’uscio, intenzionata a medicare da sola la ferita, in un modo o in un altro, quando ricordai che là dentro riposava Robert. Non potevo entrare.
 
Rimasi ferma, con le spalle poggiate contro il muro chiedendomi cosa fare, la rabbia ormai totalmente sostituita da un sentimento di tristezza e spossatezza.
 
«Che stai facendo?» chiese freddamente una bassa voce maschile facendomi sobbalzare.
 
Voltandomi, vidi Fall, che mi studiava ad un paio di metri di distanza, le braccia conserte ed un espressione scettica sul viso.
 
«Nulla!» risposi di getto, senza riuscire ad impedire che la mia voce assumesse una sfumatura imbarazzata e colpevole.
 
«Stai sanguinando» constatò Fall.
 
Premetti istintivamente la mano destra sulla ferita, come a volerla nascondere. Bastò quel lieve contatto per farmi sussultare di dolore.
 
«Sul serio, cos’hai combinato?» insistette lui, mentre un sorriso affilato e interessato iniziava a stirarsi sulle sue labbra e lui si avvicinava a me.
 
«Nulla che ti riguardi» fu la mia secca ed ostinata risposta. Sapevo che difficilmente sarei riuscita a nascondere la mia fuga notturna, ma non vedevo tuttavia perché avrei dovuto dare a lui delle spiegazioni in proposito. Per quel che mi riguardava, l’unico che aveva il diritto di pretendere delle spiegazioni era Ace.
 
Rimanemmo a scrutarci faccia  a faccia per diversi istanti: io nervosa e minacciosa e lui divertito.
 
Fu Fall ad abbassare per primo lo sguardo. «E va bene» concesse, «forse posso aiutarti, nonostante il tuo caratteraccio. Ho alcune bende in camera. Aspettami lì, io prendo una cosa e arrivo.»
 
Lo studiai attentamente, sospettosa.
 
Lui rise. «Se non vuoi tanto meglio, me ne torno subito a letto» commentò con un ghigno.
 
Sbuffai infastidita. Di nuovo, mi sembrava di non avere altre alternative. «E va bene» acconsentii, voltandogli subito le spalle ed incamminandomi nella direzione della cabina condivisa da lui e Kai.
 
Arrivai davanti alla porta. Attesi per diversi minuti, tamburellando nervosamente con il piede a terra, sforzandomi di ignorare la striscia di gocce rosse che mi ero lasciata dietro e che ora stava formando una piccola pozza sulle assi di legno.
 
Pochi istanti dopo, finalmente, udii dei passi diretti nella mia direzione. Stavo già per attaccare verbalmente Fall e chiedergli perché ci avesse messo tanto quando notai che, assieme a lui, c’era Ace.
 
Ammutolii.
 
Vedendo l’espressione cupa di Ace distolsi subito lo sguardo, colpevole. Rivolsi gli occhi verso Fall, e lo fulminai con lo sguardo, serrando i denti per impedire che una serie di violenti insulti mi uscissero dalle labbra.
 
Per tutta risposta, il Lupo rispose con un sorriso candido, fece spallucce, e scomparve rapido oltre l’uscio della propria cabina. Quando mi passò a fianco, resistere alla tentazione di tirargli un pugno sul naso e cancellargli quel sorriso idiota fu davvero difficile.
 
«Vieni» disse Ace, distraendomi dai miei propositi omicidi. Il suo tono – freddo e piatto, dolorosamente freddo – mi fece totalmente dimenticare Fall e il tiro mancino che mi aveva giocato.
 
Ubbidii senza fiatare, seguendolo docilmente senza osare chiedere spiegazioni.
 
Cercavo, inutilmente, di trovare qualcosa da dire per spiegare la situazione in cui mi ero cacciata. “Aspetta, non è come sembra, posso spiegare!”, mi sarebbe piaciuto esclamare. Ma, la verità, era che invece era esattamente come sembrava, e non c’era nulla che io potessi dire per giustificare il mio comportamento.
 
Continuai tuttavia a pensarci, a pensare a qualcosa da dire per scusarmi, ad una spiegazione, ma il mio cervello sembrava non essere più in grado di mettere assieme nemmeno una sola frase di senso compiuto, e tutto ciò che percepivo, quanto più mi sforzavo di pensare, era il fastidioso fischiare e ronzare delle mie orecchie.
 
Quando sollevai gli occhi dal pavimento, mi accorsi che eravamo di fronte alla cabina di Igor. L’uomo stava in piedi sulla soglia della porta, ed aveva un aria terribilmente affaticata e stravolta.
 
Senza una parola, passandosi stancamente la mano sul viso dalla barba incolta, mi fece cenno di sedermi su un alto sgabello. Ubbidii senza fiatare. Il vecchio medico si sistemò gli occhiali sul naso e si avvicinò, arricciando la manica della mia maglia per scoprire la ferita.
 
Anche io, inspirando profondamente, trovai il coraggio di dare un occhiata al taglio. Non me ne intendevo nemmeno un po’ di ferite, ma non mi sembrava che fosse poi così brutta.
 
Igor non commentò nulla, limitandosi a tamponarla con un batuffolo di cotone imbevuto di alcol, facendomi trasalire vistosamente. Si voltò ed io lo vidi estrarre da un cassetto un lungo e sottile ago, assieme ad una piccola spagnoletta di filo candido ed un voluminoso rotolo di bende e garze. Osservai, tremando come una foglia, come sterilizzava l’ago bruciandolo sulla fiamma di un accendino. Dovevo probabilmente essere diventata bianca come il latte, ed il cuore iniziò a martellarmi fortissimo nel petto, realizzando che con quell’ago intendeva cucire la mia pelle.
 
Certo, cosa mi potevo aspettare?
 
Eppure la mia paura mi parve all’improvviso insignificante, quando i miei occhi si posarono su Ace che, a capo chino e con le mani affondate nelle tasche, se ne stava in un angolo, la schiena poggiata contro il muro, guardando fisso avanti a sé con sguardo spento.
 
Vederlo a quel modo mi mise addosso una tale tristezza, che quando Igor mi si avvicinò e mi pizzicò con l’ago per iniziare a ricucire la ferita, quasi non ci feci caso.
 
La cosa peggiore, in tutto ciò, era che sapevo che era tutta colpa mia.
 
Tutta e solo colpa mia.
 
Cosa mi era preso? Non sarei mai dovuta andare da Smoker. Non solo non avevo concluso nulla, ma avevo quasi fatto fuori uno dei suoi sottoposti e solo per un soffio non mi ero fatta riempire di proiettili e ridurre come un colabrodo.
 
Smoker aveva ragione, l’aveva sempre avuta, nel dire che non pensavo mai prima di agire.
 
Rimasi ferma, a capo chino, mentre Igor continuava a ricucire la ferita ed Ace se ne stava a fissare il nulla. Nessuno parlava, l’aria era densa e pesante, l’unico rumore udibile era il monotono ronzio che emetteva la lampada che illuminava la stanza. Avevo il braccio sinistro così intorpidito che quasi non sentivo più le dita, mentre il taglio bruciava invece da morire. Ma iniziai quasi a trovare quel dolore piacevole, per il semplice fatto che, pur sempre in minima parte, riusciva a distrarmi dai miei pensieri cupi e dai sensi di colpa.
 
Mi accorsi a malapena che Igor aveva finito di chiudere la ferita, e che ora, con movimenti esperti, mi stava fasciando la spalla.
 
«Fatto» sospirò dopo un paio di minuti con voce roca, rompendo il silenzio.
 
Ace si staccò dal muro, e senza una parola uscii dalla cabina. Io rimasi imbambolata per qualche istante, sforzandomi di capire se quel gesto significava che il pirata voleva che andassi con lui o, al contrario, che preferiva rimanere solo.
 
Guardai Igor, in cerca di aiuto, ma questo si limitò a rispondere al mio sguardo con un occhiata stanca, affranta quasi, come ad implorarmi di andarmene e lasciarlo finalmente riposare.
 
Scivolai giù dallo sgabello, notando solo in quel momento che stavo ancora tremando e che avevo le gambe molli e, sussurrato un mesto «grazie», uscii a mia volta dalla cabina, chiudendomi la porta alle spalle.
 
Ace era fermo davanti a me. Teneva i gomiti poggiati sul parapetto della nave e mi dava le spalle.
 
Inspirai profondamente facendomi coraggio.
 
Ero stata io a causare quella situazione, e sarei anche stata io a risolverla e risistemare le cose.
 
Mi avvicinai a mia volta al parapetto, a mezzo metro da lui. «Questo è tuo» esordii a bassa voce, sfilandomi il suo cappello che ancora portavo sulla schiena e porgendoglielo.
 
Ace si voltò lentamente. Non mi guardò, si limitò ad osservare il cappello con sguardo assente, come se non lo riconoscesse. Tornò a scrutare il mare.
 
«Sapevo che sarebbe successo.»
 
Aprii la bocca per ribattere, ma la richiusi senza aver detto nulla. Riflettei alcuni istanti. «…volevo solo parlargli…» sussurrai, abbassando lo sguardo.
 
Ace sembrò non udirmi nemmeno. «Non capisco però perché tu sia tornata» disse, tornando a voltarsi verso di me, e, per la prima volta quella notte, mi guardò negli occhi. Il suo sguardo mesto e spento mi spaventò.
 
Spalancai gli occhi.
…Tornare? Ma cosa stava dicendo? Era ovvio che sarei tornata!
 
«Ace, cosa stai dicendo?» domandai lentamente, mentre un dubbio si insinuava nella mia mente.
 
«Sto dicendo che non capisco perché tu sia tornata qui anziché rimanere con Smoker» rispose, confermando le mie paure che avesse completamente frainteso le mie intenzioni.
 
 Spazio autrice:
Rieccomi! So che avevo detto che avrei aggiornato prima l'altra storia, ma... in questo momento non sono dell'umore adatto, e ho preferito proseguire qui.
Che dire? Mikami ha voluto ricordare a tutti (a me soprattutto) che oltre che ringhiare contro la gente che non le piace e mettere il muso, sa ancora tirare fuori gli artigli - in tutti i sensi! In realtà lo scontro con Tashigi non  era
affatto previsto, neanche tanto così, ma poi la storia ha preso questa piega, mi è piaciuta, e non ho fatto altro che assecondarla.
Inoltre, preparatevi (ma forse sono più io che devo prepararmi) psicologicamente al prossimo capitolo: tirerò fuori -salvo imprevisti- il lato oscuro di Ace. I problemi con l'ammettere che Roger è suo padre, la sua insicurezza, quell'orribile vizio che ha di sostenere di non essere degno di vivere e che non sarebbe dovuto nascere, e tutte quelle robe lì. So già che mi si spezzerà il cuore!
Detto questo vi saluto, e inizio, appunto, a preparami psicologicamente per  ciò che mi aspetta.
Ah, quasi dimenticavo! Credo che non si sia mai capito bene fino in fondo l'attaccamento di Mikami nei confronti di Smoker, e che anzi a tratti possa addirittura sembrare che Miki sia un po' innamorata del nostro marine preferito (vi assicuro di no, non temete), quindi credo che nel prossimo aggiornamento troverete finalment e una volta per tutte anche la loro storia, come si sono conosciuti e perchè lei gli è così legata. Non so in realtà perchè io non l'abbia scritto prima, visto che era una della pochissime cose che nella mia testa incasinata era invece chiara e limpida sin dal primo capitolo della storia precedente! Bè, meglio tardi che mai :)
Un bacio a tutte! :)

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Capitolo 14
*** So fragile on the inside ***


So fragile on the inside

La ragazzina non fece quasi in tempo ad andarsene sbattendo la porta, che sulla mia nave scoppiò in pochi istanti il putiferio.
 
Avrei voluto che il suo andarsene e l’inizio del baccano fossero stati soltanto una mera coincidenza, ma non ero tanto ingenuo da sperarci. Emisi un ringhio minaccioso, mentre mi facevo più scuro in volto. La rabbia è sempre un sentimento pericoloso, ma quando è qualcuno di estremamente avventato come Mikami ad essere arrabbiato… allora sì, che è assicurato un maledettissimo disastro.
 
Uscii rapido sul ponte, ringhiando, sbuffando fumo e masticando imprecazioni.
 
 L’avevo saputo fin dal primo istante, da quando si era presentata di punto in bianco nella mia cabina, che non ne sarebbe mai potuto uscire nulla di buono.
 
…lei e quegli stupidi sentimentalismi! Da quando ne era diventata così ossessionata?
 
Non sarebbe dovuta venire, avrebbe dovuto continuare a stare con quel suo dannato pirata e entrambi, sia lei che il moccioso, avrebbero dovuto rimanermi fuori dai piedi. Soltanto questo.
 
Ma chiaramente, sarebbe stato chiedere troppo.
 
Non c’era proprio niente che le fosse rimasto in testa di tutto quello che le avevo insegnato? Sangue freddo, autocontrollo, calma, raziocinio…tutto tempo, lavoro e fatica sprecato.
 
Un drappello di marine era riunito sul ponte, mentre altri uomini stavano scendendo a terra, con i fucili imbracciati e le katana sfoderate. «Che diavolo sta succedendo?» tuonai, parandomi minacciosamente davanti ad uno dei soldati.
 
«Commodoro Smoker!» sussultò il marine, mettendosi nervosamente sull’attenti. «Il Sergente maggiore Tashigi è ferito! Stiamo scendendo a terra per inseguire quella tigre e-
 
Il ringhio basso e irato che proruppe dalle mie labbra, mentre serravo con violenza i denti attorno ai sigari, unito al cipiglio estremamente minaccioso e torvo che dovetti assumere, fece sbiancare il soldato, che si azzittì all’istante.
 
Dannazione!
 
Avevo capito fin da subito che quel baccano era opera della ragazzina, ma avevo almeno voluto sperare che non fosse stata tanto stupida e avventata da attaccare uno dei miei.
 
Mi diressi a grandi falcate verso il punto in cui erano riuniti i soldati che, vedendomi, si scansarono rapidamente e senza bisogno che io dicessi una sola parola.
 
Davanti ai miei occhi comparve Tashigi. Aveva l’aria stravolta, ed era sostenuta da due uomini che, uno per fianco, la sorreggevano tenendola per la vita. Da entrambe le braccia gocciolava abbondante sangue scarlatto, che si era già raccolto a formare due vistose e dense pozze ai suoi piedi.
 
Non mi fu difficile indovinare la causa di quelle ferite nelle unghie e nei denti di Mikami.
 
Vedendomi, Tashigi mi rivolse uno sguardo mesto e sofferente. «…ho visto quella ragazza che si aggirava per la nave, e l’ho fermata prima che fuggisse… Non potevo sapere che era-
 
Impassibile, la feci tacere con un cenno della mano, e diedi disposizioni perché venisse portata in infermeria.
 
«E voi, lasciate perdere» ringhiai secco, rivolto agli uomini che ancora stavano sbarcando per mettersi all’inseguimento di Mikami.
 
Forse loro si illudevano di poterla raggiungere, ma io la conoscevo abbastanza bene da sapere quanto fosse veloce, e da rendermi conto che, anche a causa dell’oscurità, non sarebbero riusciti a trovarla.
 
Alcuni marine, a quell’ordine, mi rivolsero uno sguardo perplesso e confuso, ma mi bastò una sola gelida occhiata perché tutti ubbidissero all’istante.
 
Scrutai l’oscurità, mentre i soldati tornavano a bordo, ancora agitati dall’intrusione audace ed inaspettata della ragazza.
 
Ero furioso.
 
Quella ragazzina non mi lasciava scelta.
 
Se fino ad allora avevo pensato di chiudere un occhio sul fatto che fosse diventata un pirata e – diversamente da quanto le avevo detto – non mi era mai passata per la testa nemmeno per un instante l’idea di arrestarla soltanto per pirateria e diserzione, ora le cose erano radicalmente cambiate.
 
Quello che mi faceva più infuriare era che sapevo che lei aveva scelto di combattere contro Tashigi. Ero stato io ad insegnarle praticamente tutto ciò che sapeva in fatto di combattimento, e sapevo molto bene che, se trovatasi davanti a Tashigi, avesse voluto evitare lo scontro, avrebbe potuto farlo senza problemi: se si fosse messa a correre, la marine non sarebbe mai riuscita a tenerle dietro.
 
Invece aveva deliberatamente scelto di attaccare e combattere.
 
Mi era bastata una sola occhiata alla quantità di sangue che sgorgava dalle ferite di Tashigi per rendermi conto che quelle erano ferite inflitte con la deliberata intenzione di fare del male, molto male, e non per auto difesa. Del resto, glielo avevo insegnato io: quando combatti un avversario che impugna una spada, colpisci i polsi o le braccia e fai in modo che non riesca più a tenere in mano la sua arma.
 
Allora dopotutto qualcosa delle mie lezioni le era rimasta. Non che la cosa contribuisse minimamente a migliorare il mio umore.
 
Mi fece anzi ancor più rabbia constatare l’ uso che aveva fatto di quell’insegnamento mentre, nonostante tutto gli anni che avevamo passato insieme, non c’era mai stata una volta in cui avesse pensato prima di agire, nonostante i miei rimproveri e i miei ammonimenti.
 
Inspirai una lunga boccata di fumo dai sigari, imponendomi l’autocontrollo che non ero mai riuscito ad insegnare a Mikami.
 
Quella dannata ragazzina non mi lasciava proprio scelta.
 
*
 
Era stato tutto inutile: sembrava che nemmeno lo scontro con Smoker, la corsa su per la valle e poi in mezzo al bosco e fino alla nave con Robert a peso morto e tutto il resto fossero riusciti a stancarmi abbastanza da riuscire a regalarmi un sonno tranquillo e ristoratore.
 
Incubi, di nuovo.
 
Quella notte, avevo sognato di trovarmi in un enorme radura brulla, con la terra umida e smossa, rivoltata come quando nei campi passa l’aratro. Non c’era traccia di vegetazione, né erba né tantomeno piante, fatta eccezione per l’intrico di fitti e minacciosi alberi che crescevano, come una barriera impenetrabile, al limitare della radura stessa. Erano grigi alberi lunghi e smilzi dai sottili rami ossuti, con rade chiome dalle foglie secche, di un verde sgradevole che tendeva anch’esso al grigio.
 
Nell’aria aleggiava uno sgradevole odore pungente, acre e penetrante. Era un odore familiare, anche se non mi era riuscito, sul momento, di riconoscerlo.
 
Non c’era nulla, assolutamente nulla.
 
Nel sogno mi ero guardato un po’ attorno, spaesato, senza capire dove mi trovassi e perchè. Mi ero avvicinato guardingo agli alberi rinsecchiti, sperando di trovare qualcosa che potesse suggerire il motivo della mia presenza in quel luogo, ma senza successo.
 
Poi, quando ero tornato a voltarmi verso il centro della radura, avevo con mio grande stupore notato che, dal nulla, era comparso un massiccio tavolo di scura pietra grezza, lungo almeno due metri.
 
Mi ci ero avvicinato, con l’ingenuità tipica dei sogni.
 
Solo allora, avevo notato due lumini gialli baluginare diabolici da sotto il tavolo: gli occhi del gatto, quel gatto. Stranamente, quella visione non mi aveva causato alcuna paura, e anzi mi aveva lasciato del tutto indifferente.
 
Quella volta, l’animale non aveva parlato, si era limitato a lanciarmi un lungo sguardo maligno ed io, come ipnotizzato, avevo afferrato un badile, comparso chissà quando e da chissà dove, che era stato adagiato sul tavolo.
 
Mi ero voltato, con l’attrezzo in mano, e lo avevo conficcato con vigore nella terra, facendo forza con il piede perché penetrasse a fondo nel terriccio. Smossa la prima zolla, l’avevo lanciata di lato con un gesto meccanico, ed altrettanto meccanicamente ero di nuovo tornato a piantare nella terra la punta affilata e robusta della pala, per smuovere una seconda e poi una terza zolla.
 
Ci erano voluti alcuni istanti prima di poter capire il motivo per cui, all’improvviso, come se avessi obbedito all’ordine di qualcuno, mi ero messo a scavare con così tanta insistenza, ma poi la consapevolezza di ciò che stavo facendo – arrivando da non so dove – si era abbattuta su di me con la stessa forza di un fiume in piena: stavo scavando una fossa da morto.
 
E non era nemmeno una tomba qualsiasi: era la mia tomba.
 
Ero stato preso dal panico ed avevo iniziato a urlare, strepitare e gridare, ma non era servito a nulla.
 
Non avevo potuto smettere.
 
Non ero riuscito a ribellarmi alla forza invisibile che mi imponeva di scavare la mia stessa fossa.
 
In fine, arrendendomi, avevo persino iniziando a piangere, ma nemmeno questo aveva avuto il benché minimo effetto.
 
Finchè non mi ero svegliato di soprassalto, ansimante e sudato, con ancora una voce che ripeteva istericamente nella mia testa “E’ la mia tomba! Mi sto scavando la fossa da solo! La mia fossa! Lamiafossa! Lamiafossa!”.
 
Mi ci erano voluti diversi istanti per rendermi conto che quello era stato soltanto un incubo, l’ennesimo incubo, e che non mi trovavo realmente in una radura brulla con un badile in mano ma che, semplicemente, ero seduto sul mio letto, con le lenzuola aggrovigliate attorno al corpo e strette tra le mani.
 
Raggiunta finalmente la consapevolezza che mi si era trattato solo di un brutto sogno, mi ero lasciato ricadere pesantemente sul cuscino, asciugandomi il sudore dalla fronte con il dorso della mano, mentre il mio respiro lentamente si regolarizzava. Trovai addirittura piacevole sentire il dolore dei lividi, che mi aiutò a tornare alla realtà.
 
«Tutto bene?»
 
Sobbalzai mettendomi nuovamente a sedere con un rapido movimento, allerta.
 
Poi, alzando lo sguardo in direzione di quella voce, vidi che a parlare era stato soltanto Kai, che sporgeva verso di me la testa dalla branda sopra la mia.
 
Tornai a sdraiarmi tirando un sospiro di sollievo. Per un attimo, avevo irrazionalmente pensato che fosse stato quel dannatissimo felino a parlare, appostato da qualche parte in qualche angolo buio.
 
«Sì» esalai stancamente, massaggiandomi le tempie con una mano. «Ti ho svegliato io?»
 
Lo vidi annuire nelle penombra. «Ti agitavi un bel po’» confermò.
 
«Scusa» bofonchiai, girandomi su un fianco e dandogli le spalle. Tuttavia, continuai a sentirmi puntati addosso gli occhi di Kai.
 
«Se c’è qualcosa di cui vuoi parlare…»
 
«No.» tagliai corto senza tanti complimenti. Mi sforzai di ignorare il suo sguardo insistente e, sistemandomi più comodamente sul materasso, feci forza su me stesso per convincermi a chiudere gli occhi e prendere nuovamente sonno.
 
Bastarono tuttavia un paio di minuti soltanto per farmi rinunciare all’impresa.
 
Non appena chiudevo gli occhi, mi rivedevo in quella radura desolata intento a lavorare di badile, e mi sembrava persino di sentire nuovamente quell’odore acidulo e forte, quasi come se mi si fosse appiccicato addosso nel sogno e lì fosse rimasto anche quando mi ero svegliato.
 
«Vado a prendere una boccata d’aria» annunciai bruscamente, e senza attendere una risposta mi alzai dal letto e uscii dalla porta, scalzo e a dorso nudo.
 
Era già da una mezz’ora che camminavo svogliatamente avanti e indietro per il ponte principale, godendomi la brezza fresca e il profumo rassicurante del mare, quando vidi un ombra scivolare a qualche metro da me. Smisi di bighellonare e mi feci attento.
 
Avvicinandomi silenziosamente, scorsi una figura minuta, che si muoveva nella penombra, goffa e impacciata.
 
… che qualche marine avesse alla fine localizzato la nave?
 
Rimasi sbalordito quando, dopo aver osservato quella figura  per un altro paio di minuti, vi riconobbi Mikami.
 
«Che stai facendo?» chiesi stranito, palesando la mia presenza.
 
Mikami trasalì, lasciandosi sfuggire un suono simile ad un singhiozzo spaventato. «Nulla!» si affrettò poi a rispondere con voce acuta, quasi stridula, riconoscendomi.
 
La sua reazione suscitò il mio interesse, che crebbe in modo esponenziale quando notai che, oltre ad aggirarsi furtivamente per la nave in piena notte, era anche ferita, come testimoniava la vistosa scia rossastra che si lasciava dietro. «Stai sanguinando» dissi quindi, sempre più perplesso. «Sul serio, cos’hai combinato?» domandai nuovamente visto che Mikami non accennava a spiccar parola, senza riuscire ad impedire che un sogghigno interessato comparisse sulle mie labbra.
 
Qualunque cosa stesse accadendo, una cosa mi era chiara: avevo beccato Mikami con le mani nel vasetto della marmellata.
 
Ora, tutto stava nel capire cosa ci facesse lei, sola e ferita, a quell’ora sul ponte, e perché la cosa la mettesse tanto in agitazione.
 
«Nulla che ti riguardi» sbottò la ragazza, rifilandomi uno sguardo indispettito e minaccioso.
 
Da lei non mi sarei aspettato nessun altra reazione, perciò non mi stupii nemmeno un po’ di fronte al suo tono duro e allo sguardo torvo.
 
Notai soltanto in quel momento che, la porta davanti alla quale era ferma, era quella dell’infermeria. Non mi fu difficile indovinare che le sue intenzioni fossero di sgraffignare delle bende o qualcosa di simile per medicare la ferita che aveva alla spalla. Peccato solo che in infermeria ci fosse ancora Robert. E anche il vecchio medico con tutta probabilità era ancora là dentro. E dal momento che era chiaro che Mikami stesse facendo – o avesse fatto – qualcosa che invece si sarebbe dovuta ben guardare dal fare, era palese che non si azzardasse ad entrare per paura di essere vista da loro.
 
Un presentimento sgradevole mi suggerì che, qualunque bravata lei avesse fatto, ci sarebbe costato dell’altro tempo prezioso. Ed io di tempo non ne avevo. Ne avevamo già perso anche troppo grazie all’ostinazione di Ace nell’affrontare il marine che si era poi scoperto essere Garp, non potevo permettere che anche qualcos’altro andasse storto.
 
C’era una sola cosa da fare per cercare di limitare i danni, qualunque cosa Mikami avesse combinato.
 
Sorrisi. «E va bene, forse posso aiutarti, nonostante il tuo caratteraccio. Ho alcune bende in camera. Aspettami lì, io prendo una cosa e arrivo.»
 
La ragazza mi scoccò un’occhiata ancora più torva delle precedenti, studiandomi sospettosa.
 
Mi sfuggii una risata. «Se non vuoi tanto meglio, me ne torno subito a letto» dissi subito con un sogghigno, facendo già per andarmene.
 
«E va bene» borbottò lei nel giro di un paio di secondi, voltandomi subito le spalle e scomparendo rapida nella semioscurità. Proprio ciò che mi sarei aspettato da lei.
 
Anche io mi voltai, e m’incamminai velocemente verso la cabina di Ace.
 
Bussai.
 
Attesi qualche istante, senza ottenere risposta. Bussai di nuovo, con maggior vigore, reprimendo uno sbuffo infastidito. Di nuovo nulla. Tesi l’orecchio: dalla cabina proveniva un lieve russare.
 
Scossi la testa scocciato. Faceva quasi rabbia: Portgas D. Ace, potenzialmente, con il frutto del diavolo che si ritrovava, sarebbe tranquillamente potuto diventare uno degli uomini in assoluto più forte al mondo. E invece cosa faceva? Passava il suo tempo a mangiare, russare, e correre dietro a quella ragazzina scontrosa.
 
L’avessi avuto io il frutto foco-foco…
 
Scacciai quei pensieri, ed entrai comunque nella cabina. Il pirata dormiva della grossa, a pancia in giù con il viso affondato nel cuscino e le braccia spalancate ad occupare tutto il letto.
 
«Ace» chiamai a mezza voce, con fermezza, senza ottenere però alcuna reazione.
 
Repressi il fortissimo impulso che provavo di svegliarlo con una secchiata d’acqua gelida, ripetendomi che di problemi, una volta che avesse scoperto cosa combinava Mikami alle sue spalle – perché era chiaro che fosse Ace quello da cui non voleva farsi scoprire, anche se ancora non riuscivo a capire cosa avesse combinato – ne avrebbe probabilmente avuti più che a sufficienza.
 
Alla fine, per svegliarlo, presi a scuoterlo per una spalla, prima piano poi sempre più forte finchè, finalmente, quello aprì gli occhi.
 
Sbattè le palpebre un paio di volte, scrutandomi con aria trasognata. Si mise seduto, passandosi una mano tra i capelli ed esibendosi in un enorme sbadiglio, continuando ad osservarmi perplesso, ma per nulla preoccupato da quella situazione insolita.
 
Gli scoccai una fredda occhiata. «Credo che ci sia qualcosa che tu debba vedere.»
 
Anche quella frase, sembrò non mettere affatto in allarme il pirata. «Adesso? Non possiamo aspettare domattina? Ho sonno» e via un altro sbadiglio.
 
«Adesso» confermai.
 
Ace continuò a non dar segni di volersi alzare, e mi fissava anzi con un espressione tra l’offeso e l’imbronciato che sembrava dire “altri cinque minuti!”.
 
«Dove credi che sia Mikami?» domandai, sforzandomi di mantenere la calma di fronte al suo atteggiamento infantile.
 
Finalmente, quella frase ebbe su di lui l’effetto sperato.
 
Spalancò gli occhi e ogni residuo di sonnolenza scivolò via dal suo viso mentre, improvvisamente allarmato, si guardava attorno, voltando la testa ora a destra e ora a sinistra. Infine, il suo sguardo irrequieto tornò a posarsi su di me, e fu il mio turno di stupirmi quando vi lessi dentro una muta minaccia.
 
Arretrai istintivamente di un passo. «A qualunque cosa tu stia pensando, io non centro» ci tenni subito a precisare. Vero che non ero un vigliacco, ma affrontare Pugno di Fuoco disarmato non era decisamente sulla mia lista delle cose da fare.
 
«Dov’è?»
 
«Qui fuori» risposi sostenendo il suo sguardo, indicando l’uscio della cabina. «Non ho idea di cosa sia successo, mi ci sono imbattuto poco fa. Era sul ponte, con una ferita alla spalla.» Mentre parlavo, osservai attentamente la sua reazione, sperando che mi aiutasse a capire cosa stesse accadendo.
 
Ace perse subito la sua aria minacciosa e balzò in piedi, un espressione preoccupata dipinta in volto. Fece per precipitarsi fuori dalla cabina, ma si immobilizzò di colpo, divenendo all’improvviso scuro in viso e stranamente serio.
 
Continuai ad osservarlo. Ancora non capivo cosa stesse accadendo – e ciò mi infastidiva parecchio –  ma pareva che, dal modo in cui la sua espressione era rapidamente mutata, Ace lo avesse invece compreso.
 
Uscimmo assieme dalla stanza.
 
Il pirata era stranamente silenzioso ed irrequieto, ma non era la sua solita irrequietezza da bambino che ha in corpo troppe energie e non sa come adoperarle, era piuttosto un irrequietezza ansiosa e carica di agitazione, che male si addiceva al suo carattere infantile e solare.
 
Non disse più una parola e, quando arrivammo davanti a Mikami, divenne ancora più torvo.
 
Da parte sua Mikami era sbiancata ed era rimasta con la bocca aperta, come se fosse stata sul punto di dire qualcosa ma poi fosse ammutolita di colpo.
 
Solo in quel momento notai un vistoso cappello arancione poggiato sulla sua schiena, che prima ero certo non avesse avuto. Non era il cappello con cui era ritratto, nei manifesti con le taglie che la Marina aveva affisso in giro, Ace?
 
Fui distratto dalle mie riflessioni dallo sguardo glaciale che mi scoccò Mikami, divenuta livida di rabbia in viso.
 
Sebbene in realtà stessi ancora cercando di capire cosa stesse accadendo e, in tutta quella situazione, non trovassi proprio nulla di divertente, mi sentii in dovere di rispondere a quello sguardo con un ampio sorriso provocatorio.
 
Dopotutto era inutile che se la prendesse con me, era lei quella che era andata in cerca di guai, qualunque cosa avesse combinato. Voleva prendersela con me per non pensare al guaio che probabilmente aveva combinato? Che facesse pure, a me non importava minimamente.
 
Le passai accanto, continuando ad esibire quel sorriso quasi di sfida, infilandomi nella mia cabina e chiudendomi la porta alle spalle.
 
Rimasi fermo immobile, appoggiato all’uscio, tendendo le orecchie, sperando di capire finalmente cosa stesse succedendo. Ma tutto ciò che sentii fu per un breve istante la voce di Ace, e poi i passi pesanti di entrambi che si allontanavano.
 
Sospirai, arrendendomi all’evidenza che non sarei riuscito a capire, almeno per quel momento, cosa stesse bollendo in pentola.
 
Mi andai a sedere sul mio letto.
 
«E’ successo qualcosa?»
 
Sobbalzai nuovamente, all’improvviso suono della voce di Kai. «Ma sei ancora sveglio?!» imprecai, infastidito.
 
Sospirai ancora. «Sì, ma non sono riuscito a capire cosa» sussurrai, passandomi stancamente una mano sul viso.
 
La stanza era troppo buia perché potessi distinguere l’espressione di Kai, ma non faticai molto ad indovinare l’espressione perplessa che doveva essersi dipinta sul suo viso. «Ti spiego domani quel poco che ho capito, adesso mi è miracolosamente venuto sonno» dissi, anticipando una sua possibile domanda.
 
«Ho capito…» mormorò Kai, e senza dire altro la sua testa sparì oltre l’orlo della branda.
 
«Quanto odio non avere il controllo della situazione…» borbottami tra me e me scocciato,  sdraiandomi nel letto e sistemando le lenzuola.
 
*
 
«Sto dicendo che non capisco perché tu sia tornata qui anziché rimanere con Smoker» rispose Ace, confermando le mie paure che avesse completamente frainteso le mie intenzioni.
 
«Io non avrei mai potuto fare una cosa del genere! Tu… tu credi davvero che fossero queste le mie intenzioni?!» gridai, spaventata da ciò che Ace aveva detto e, contemporaneamente, ferita: ma davvero credeva che sarei stata capace di andarmene a quel modo? Davvero aveva così poca fiducia in me?
 
Il suo sguardo spento e nero come il catrame fu l’unica risposta che ottenni.
 
Sì.
 
A quanto pareva sì, pensava davvero che avrei potuto andarmene in quel modo.
 
Non seppi dire se quella scoperta mi fece più arrabbiare o disperare, perché entrambi questi sentimenti mi sopraffecero con una forza devastante.
 
Ora sì che mi era venuta voglia di andarmene, il più lontano possibile. Sia da lui che da Smoker.
 
«Perché?» fu l’unica cosa che mi venne da chiedere, con la voce che tremava per la rabbia e la tristezza.
 
Il tono che usai sembrò scuoterlo, e nonostante tutto mi sentii sollevata vedendo che, finalmente, una scintilla di interesse era tornata ad accendere i suoi occhi. Ma si spense subito. «Dopotutto, avrei dovuto aspettarmelo» sussurrò, così piano che non potei nemmeno essere certa che fossero realmente quelle le parole che aveva pronunciato.
 
«Smettila!» gridai, non riuscendo più ad impedire che le lacrime iniziassero a rigarmi le guance e che la mia voce si incrinasse e si spezzasse, suonando acuta e stridula e strozzata.
 
Perché continuava a dire quelle cose?! Possibile che avesse sempre dubitato a quel modo di me? Eppure, io mi ero totalmente fidata di lui! Era ingiusto, era crudele che continuasse a parlare così!
 
«Smettila! Io non… Io non sono così! Smettila di incolparmi!»
 
A quella frase Ace fissò subito i suoi occhi nei miei, ed io mi stupii di vedergli in volto un espressione confusa e stordita. «Non ti sto incolpando! …lo so benissimo che è tutta colpa mia» aggiunse, lanciandomi uno sguardo così triste che mi spezzò il cuore.
 
Fu il mio turno di sentirmi confusa, al punto che smisi all’istante di singhiozzare.
 
Rimasi in silenzio, sforzandomi inutilmente di capire la situazione in cui mi ero cacciata. Continuavo ad osservare Ace e non capivo, ma la sua espressione – le labbra serrate con gli angoli piegati verso il basso, le sopracciglia aggrottate, gli occhi lucidi e tristi – era così rassegnata e addolorata che prima che potessi evitarlo, ripresi a piangere senza ritegno.
 
«Tu non sai chi è mio padre, vero?» domandò in un sussurro mesto.
 
Scossi la testa senza guardarlo, tenendo gli occhi serrati, premendomi istintivamente una mano sulla bocca come a cercare di zittire quei singhiozzi incontrollati.
 
Mi sentivo sempre più confusa, avrei solo voluto che Ace parlasse chiaramente, anziché mettersi a raccontarmi di suo padre. Ma chi se ne fregava di suo padre! Io volevo solo sapere cosa stava cercando di dire!
 
Avevo ancora gli occhi serrati e continuavo a singhiozzare e piangere rumorosamente, quindi non potei accorgermi di come Ace avesse tratto un profondo respiro per farsi coraggio, e non vidi nemmeno l’espressione tetra, allo stesso tempo furiosa e rassegnata, con cui diceva: «Mio padre è Gol D. Roger.»
 
Mi ci vollero alcuni secondi per capire cosa aveva detto.
 
Gol D. Roger.
 
Gol D. Roger.
 
Gol D. Roger era il padre di Ace.
 
*
 
Trovai, alla fine, il coraggio di confessarglielo. «Mio padre è Gol D. Roger.»
 
Trattenni il fiato, preparandomi alla reazione di Mikami.
 
Per alcuni istanti non successe assolutamente nulla.
 
Poi, lentamente, smise di singhiozzare ed aprì gli occhi, guardandomi. Mi sembrò quasi di sentire il mio cuore smettere di battere. Forse avrebbe iniziato a piangere ancora più forte, forse se ne sarebbe andata senza aggiungere una parola, o forse – probabilmente – si sarebbe infuriata... certamente, non mi avrebbe più visto allo stesso modo.
 
Ed effettivamente, dopo la mia confessione, mi guardò con occhi diversi.
 
Ma rimasi completamente spiazzato nel constatare che nei suoi occhi arrossati dal pianto non c’era né disprezzo nè repulsione e nemmeno odio, rabbia, delusione e tutta quell’ampia gamma di sentimenti negativi e sprezzanti a cui ero abituato e che mi ero aspettato.
 
C’era… ammirazione?
 
Rimanemmo a fissarci a lungo senza dire nulla – io sospettoso e incredulo, lei incredula quanto me ma con gli occhi che brillavano di interesse.
 
«Tu… sai chi è Gol D. Roger, vero?» mi sentii costretto a domandare ad un certo punto. Come poteva rimanere così calma, dopo aver saputo di chi era il sangue che scorreva nelle mie vene? L’unica soluzione, era che non si fosse resa davvero conto di cosa le avevo appena rivelato.
 
«Certo che lo so!» esclamò, ed ora ogni traccia di rabbia e tristezza era scomparsa dalla sua voce. Sembrava che l’unico sentimento che la animasse ora fosse un profondo e vivace interesse. «Tu… sei il figlio del Re dei pirati!»
 
«Esattamente» confermai cupo.
 
Mikami si asciugò rapidamente gli occhi con il dorso della mano, continuando a studiarmi attentamente come se mi vedesse per la prima volta.
 
Iniziai a sentirmi a disagio.
 
«Forse allora non ti rendi conto. Sono il figlio di Gol D. Roger, nelle mie vene scorre il suo sangue di demonio. Per metà, io sono lui» dissi con un sussurro, con la voce che tremava dell’odio che provavo verso quell’uomo.
 
A quella frase, Mikami sembrò finalmente rendersi conto della portata di ciò che le avevo confessato, perché sussulto e si fece improvvisamente seria e attenta.
 
«Tu non sei lui…» disse piano.
 
«Per metà lo sono» ripetei. «E metà è più che sufficiente per rendermi un demonio.»
 
Mikami sembrava divenire di istante in istante sempre più preoccupata e ansiosa. Ora sì, che iniziava a capire.
 
«Non lo sei affatto» insistette, ma il suo tono nervoso non suonò molto convincente.
 
«Non c’è bisogno che tu finga. Sapevo che prima o poi sarebbe successo, che te ne saresti voluta andare. E’ stato anche per questo che non ti ho detto prima chi fosse il mio vero padre, ma non mi illudevo realmente che bastasse tacertelo per fare in modo che tu non capissi chi fossi realmente.»
 
«Ma io lo so benissimo chi sei realmente, e sicuramente non sei un mostro, né un demonio né nulla di simile, indipendentemente da chi sia tuo padre» disse lentamente lei, studiandomi con attenzione.
 
Le mie labbra si torsero un in una smorfia. Allora, ancora non capiva.
 
«Sono figlio di un demonio e sono un mostro a mia volta, io non sarei mai dovuto nascere.»
 
«Ace ma co-
 
«Se io non fossi nato, mia madre sarebbe ancora viva. Se mio padre non l’avesse conosciuta, o se poi non la avesse abbandonata, lei sarebbe ancora viva. Cosa ti dicevo? Siamo uguali, due mostri, io e lui» dissi a fatica tra i denti serrati, stringendo tra le dita con forza il legno del parapetto.
 
Mikami sussultò nuovamente, intimorita. Ma ancora non sembrò decidersi ad andarsene. «Non dovresti parlare in questo modo…» disse in un sussurro, preoccupata.
 
«Perché no? E’ la verità. Soltanto la verità, la verità su come sarebbero dovute andare le cose. Mia madre ha dato la vita, per una persona inutile come me. Non è giusto. Non sarei dovuto nascere.»
 
«Smettila! Sono certa che lei non vorrebbe sentirti parlare così e-
 
«Cosa ne vuoi sapere tu?» esplosi, esasperato, lanciandole una minacciosa occhiata infuocata. Perché non si limitava ad andarsene subito e basta come avevano fatto tutti, anziché protrarre a quel modo il momento in cui sarebbe sparita dalla mia vita?
 
Mikami sobbalzò, ma non desistette. «Lo so perché ti voglio bene! E se soffro io, a sentirti dire queste cose, posso solo immaginare come soffrirebbe lei!» esclamò a sua volta, sostenendo con i suoi occhi di ghiaccio i miei.
 
Fui io a tentennare.
 
«Mikmai, lei è morta. Non credo possa soffrire più di quanto abbia già sofferto» dissi dopo alcuni istanti, tornando ad incupirmi.
 
Non me l’aspettavo minimamente ed ero totalmente impreparato: vidi la sua mano scattare verso di me ma non mi mossi.
 
La forza dello schiaffo che colpì con un rumore secco la mia guancia mi fece voltare il viso.
 
Ripresomi dallo stupore tornai a girarmi, puntando i miei occhi in quelli di Mikami, risentito ed arrabbiato.
 
Ma la mia rabbia impallidì quando si trovò davanti al suo sguardo furibondo e feroce, così minaccioso che mi ricordò Smoker. Tacqui, con la guancia in fiamme e la pelle che pizzicava e bruciava.
 
«L’hai detto tu stesso, lei ha dato la sua vita per te, e nonostante questo tu continuo a dare alla tua vita così poco valore?» ringhiò irata.
 
Per la prima volta da quando conoscevo Mikami non riuscii a reggere il confronto con il suo sguardo, e fui costretto ad abbassare gli occhi.
 
«Se vuoi odiare tuo padre sei libero di farlo, ma non provare mai più a dire che sei un mostro e che non sei degno di vivere. E, a proposito: nelle tue vene scorre anche il sangue di tua madre, nel caso tu te ne fossi scordato.»
 
Non mi venne in mente nulla con cui ribattere.
 
Rimasi immobile, rigido, con il capo chino, ancora arrabbiato, ma iniziando davvero a vergognarmi di ciò che avevo detto poco prima.

Passarono diversi minuti di perfetto silenzio.
 
Sussultai, sentendo le braccia di Mikami avvolgermi le spalle e la sua fronte poggiare sul mio petto.
 
Nel mio sguardo c’erano ancora diffidenza e rabbia, ma quando lei si alzò in punta di piedi per sussurrarmi piano all’orecchio «Davvero, non parlare più così, ti prego», anche quei sentimenti si dissolsero rapidamente.
 
Sospirai, iniziando a rilassarmi, affondando il viso nei suoi capelli lunghi e morbidi. Ricambiai con trasporto l’abbraccio. Mi sentivo stanco e spossato ma, decisamente, più sereno.
 
Mikami mi passò un braccio attorno al collo, posando le labbra in un lieve bacio sulla guancia che ancora pizzicava per lo schiaffo.
 
«Non ho mai pensato di andarmene» disse poi in tono greve, scostando il viso dal mio e fissandomi seria, dritta negli occhi.
 
«Davvero?»
 
«Davvero. Ma forse, ora tocca a me spiegarti un paio di cose…» disse con un sospiro stanco, abbassando lo sguardo.
 
Spazio autrice:
Non vi aspettavate che aggiornassi così presto, eh? In realtà, nemmeno io.
Il merito della mia velocità va, oltre al fatto che mi sono finalmente levata dalle palle l'esame di chimica organica (nel senso che l'ho dato, e in attesa di sapere se l'ho passato o meno mi prendo una pausa dallo studio), al fatto che questo è stato sì un capitolo impegnativo, ma anche interessante da scrivere: non ci sono molte possibilità di tirare in ballo il lato oscuro di Ace, generalmente.
E a proposito di questo, spero di essere stata convincente, perchè vi devo confessare che in tutta sincerità l'odio di Ace per Roger non l'ho mai capito fino in fondo e, visto che parlandone con alcune di voi o cercando in giro su forum e siti specializzati è venuto fuori che quest'odio rimane incompreso da tutti, ho provato ad interpretarlo nel modo che mi sembrava più credibile...
So che avevo detto che ci sarebbe stato anche il chiarimento del rapporto tra Smoky e MIki, ma come avrete capito è stato rimandato al prossimo capitolo perchè ho voluto sviluppare alcune scene che inizialmente non avevo previstoe che alcune di voi mi hanno proposto nelle recensioni: la reazione di Ace quando Fall lo chiama per portarlo da Mikami come diceva Sherry e la scena con Smoker che suggeriva Michiko. Io ogni tanto tendo a seguire la mia scaletta per completare la trama con il paraocchi, se ci sono scene che vi piacerebbe leggere sentitevi pure libere di farmelo presente! ^W^
Quindi vi ringrazio per i consigli, e ringrazio anche tre 88 e Yellow Canadair: non so cosa farei senza voi quattro ragazze fedelissime! <3
Bene, sono abbastanza soddisfatta, posso andare a letto tranquilla :)
Un bacione a tutte! :*

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Capitolo 15
*** Just give me something to get rid of him ***


Just give me something to get rid of him

Mikami sciolse l’abbraccio e si scostò da me. Teneva il viso chino e fissava con ostinazione le assi del ponte, con un espressione seria e solenne che mi mise addosso uno spiacevole presentimento.
 
Ricordavo che la prima volta che ero riuscito a strapparle qualche parola su Smoker, lei mi aveva detto di vedere il marine allo stesso modo in cui io vedevo Barbabianca.
 
Tuttavia, non mi era mai riuscito bene di capire cosa ci fosse esattamente tra di loro, anche perché le poche volte in cui li avevo visti assieme – due in tutto, quando Smoker mi aveva sconfitto e quando avevo visto lui e Mikami parlare in quella locanda nell’isola coperta di neve – mi era parso chiaro che lui la mettesse parecchio in soggezione, addirittura che quasi le facesse paura: niente che mi ricordasse ciò che provavo io quando ero assieme al Babbo.
 
E poi, mentre io avrei potuto parlare di Barbabianca continuamente e con chiunque, lei non accennava mai a Smoker, nemmeno per sbaglio.
 
Non riuscivo proprio a capire cosa ci potesse essere tra di loro capace di legarli così profondamente.
 
Mikami si lasciò sfuggire un sospiro rumoroso, quasi sofferente, e la sua espressione si fece ancora più scura. «Non capisco perché per me sia così difficile parlarne…» disse con un filo di voce, più a se stessa che a me.
 
Suppongo che da parte mia sarebbe stato gentile rassicurarla sul fatto che, se non se la sentiva, non era obbligata a parlarne, ma la verità è che ormai sentivo davvero il bisogno di sapere cosa le impedisse di voltare definitivamente e una volta per tutte le spalle a Smoker.
 
«Lui…» esordì, ma si interruppe nuovamente. «Oh, non so nemmeno da che parte iniziare» guaì con un sospiro tremulo, sfregando nervosamente i piedi sul ponte.
 
Attesi pazientemente.
 
«Quando ero piccola… cioè, piccola…. Avevo una decina di anni…» si azzittì ancora, e si voltò verso di me investendomi con uno sguardo languido e supplicante.
 
Deglutii, a disagio, chiedendomi se non fosse, dopotutto, il caso di dirle davvero che non l’avrei costretta a parlarne se non se la sentiva. «Se non vuoi…» iniziai a dire, costringendomi a reprimere la curiosità «non sei obbligata a raccontarmelo.»
 
Mi osservò in silenzio per un attimo, come soppesando le mie parole. Era evidente che la possibilità di fuga che le offrivo dalla situazione scomoda in cui si era cacciata la allettasse.
 
«No, no, te lo devo» disse infine con l’ennesimo sospiro, scuotendo la testa.
 
Fui sollevato di sentire quella risposta, e le rivolsi un lieve sorriso di incoraggiamento.
 
«Mio padre è morto quando ero piccola – cioè, molto piccola, quasi non ho ricordi di lui – e sono cresciuta con mia madre. Lei aveva una locanda, in un piccolo paese, vicino al mare…» Fece una pausa. Si sedette sul ponte, con le gambe rannicchiate contro il corpo e la schiena contro il parapetto.
 
Mi sedetti anche io, la mia spalla contro la sua e le gambe lunghe distese.
 
Inspirò profondamente. «Le cose alla locanda non andavano troppo bene. Non è che i clienti scarseggiassero o altro, il problema era che molti di loro non erano esattamente… come dire… persone rispettabili. Essendo vicini alla costa, molti erano pirati.»
 
Drizzai le orecchie, credendo finalmente di iniziare a capire da dove derivasse almeno parte dell’odio di Mikami verso i pirati ed il suo attaccamento nei confronti della Marina.
 
«Non intendo con questo dire che fossero persone cattive per il semplice fatto di essere i pirati, intendo dire che molti di loro non erano pirati come te, come Marco o come Satch, ma erano uomini rozzi, violenti e senza scrupoli. Quando venivano alla locanda mia madre non aveva mai il coraggio di negare loro una stanza, e quando poi non pagavano il vitto, l’alloggio o entrambi, lei non aveva mai il coraggio di protestare. Non dico che avrebbe dovuto imbracciare un fucile e minacciarli, non fraintendermi, ma dico che avrebbe dovuto fare comunque qualcosa. Denunciare quei pirati alla marina, chiudere la locanda quando vedeva le loro navi attraccare al porto… Qualunque cosa sarebbe andata bene. Ma lei continuava a non fare nulla. Era – è – una di quelle persone che preferiscono lamentarsi anziché fare qualcosa per risolvere i proprio problemi.»
 
Sospirò di nuovo. «Io lavoravo nella locanda, servivo ai tavoli e risistemavo le stanze quando i clienti se ne andavano, e vedere il modo in cui si faceva trattare mia madre mi riempiva di rabbia. Ricordo ancora quella volta in cui ho cercato di convincerla a parlarne ad alcuni marine di passaggio: non saprei dirti se allora fosse più infuriata o spaventata. Le cose andarono avanti così per… beh, per diversi anni.»
 
«Poi una mattina, mentre stavo passeggiando sulla spiaggia, ho trovato una cosa. Il sole era sorto da poco, e guardandomi intorno ho visto che non c’era nessuno. Mi sono chinata e ho afferrato quello strano oggetto. Puoi facilmente immaginare cosa fosse: un frutto del diavolo.»
 
A quel ricordo un live sorriso le increspò le labbra. «In realtà allora non sapevo bene cosa fosse. Aveva un aspetto curioso – bianco con delle bizzarre striature nere. Non avevo mai visto niente di simile, ma stando alla locanda avevo sentito raccontare un infinità di storie sui frutti del diavolo, anche se tutto ciò che sapevo era che potevano avere le forme più comuni come quelle più strane e bizzarre, e che conferivano a chi li mangiava i poteri più disparati. Così, quando ho trovato quel frutto strano, ho deciso senza pensarci due volte di mangiarlo: nella migliore delle ipotesi, si sarebbe rivelato essere realmente un frutto del diavolo. Nella peggiore… beh, sarebbe stato un frutto qualsiasi, magari velenoso, e ci avrei rimesso la pelle. »
 
Il sorriso esagerato e noncurante che mi rivolse pronunciando l’ultima frase mi diede i brividi. Aprii la bocca per ribattere, ma lei mi precedette e riprese subito a raccontare.
 
«Quindi decisi che il gioco valeva la candela, e mangiai il frutto. All’inizio non accadde nulla: mi sentivo in tutto e per tutto uguale a come ero prima, e ne rimasi fortemente delusa. Mi resi conto che qualcosa in me era cambiato quando, quel giorno stesso, si ripetè davanti ai miei occhi la solita, familiare scena: una coppia di pirati che rifiutavano di pagare la stanza nella quale avevano alloggiato, e mia madre che come sempre chinava il capo e rimaneva zitta. Mi arrabbiai, e prima ancora che mi rendessi conto di ciò che stava accadendo, mi ero trasformata in una tigre ed ero saltata alla gola di uno dei due.»
 
Ridacchiò, compiaciuta. «Quei due pirati se la cavarono, non benissimo ma se la cavarono, e non si fecero mai più vedere alla locanda. A me andò un po’ meno bene.»
 
Ringhiò, mentre tornava a rabbuiarsi. «Non riportai ferite profonde, appena qualche graffio, ma mia madre si spaventò a morte. E non perché avrei potuto farmi male: iniziò ad aver paura di me.»
 
Fece una pausa. Il suo sguardo, gelido e furioso allo stesso tempo, era fisso sul ponte.
 
«Non starò a raccontarti la litigata che seguì la mia scaramuccia con quei due pirati, ti dirò solo che si concluse quando mia madre, furibonda, mi fece promettere che non avrei mai più usato il potere del frutto del diavolo. Promisi, certo che promisi: non ce la facevo più a discutere. Ma nello stesso istante in cui glielo promettevo, avevo già deciso che quella sarebbe stata una promessa che avrei infranto. Ero furiosa. Come poteva mia madre essere arrabbiata con me? Con il frutto felis-felis avrei potuto risistemare le cose, costringere gli avventori della locanda a rigare dritto. Ma lei non ne voleva sapere.»
 
Sospirò. «Ad ogni modo, come ho già detto, non mantenni la promessa. Mi ci vollero svariarti mesi prima di riuscire ad imparare a controllare il potere che derivava dal frutto del diavolo, ma alla fine ce la feci.»
 
«Per un po’ di tempo, le cose alla locanda andarono meglio: nessuno, oltre mia madre, sapeva che ero stata io a conciare per le feste i due pirati, ma la lezione che avevo dato loro servì comunque d’esempio agli altri clienti, che per un po’ rigarono dritto. Poi, le cose ripresero gradualmente a peggiorare. Finchè una sera, non resistetti più. C’era un gruppetto di uomini – ladruncoli, più che veri e propri pirati – che aveva preso l’abitudine di recarsi ogni sera nella nostra locanda, bevendo e mangiando fino a notte inoltrata. Quando mia madre presentò loro il conto, questi rifiutarono di pagare, e minacciarono di dare fuoco alla locanda se lei li avesse denunciati alla marina. Chiaramente, mia madre giurò che non avrebbe detto nulla a nessuno ed essi, ridendo, presero la porta e se ne andarono. Io avevo assistito a tutta la scena, e decisi che non potevo più lasciare correre. Mi sentivo forte: loro erano in sei, sette forse, ma io ero certa che, ora che avevo imparato ad usare il mio frutto del diavolo, non avrei avuto problemi a sistemarli. Così, senza farmi vedere da mia madre, sgattaiolai a mia volta fuori dalla locanda e li seguii.»
 
Sul suo viso era nuovamente comparso qualcosa di simile a un sorriso, anche se, più che farla apparire felice, la faceva apparire ancora più abbattuta che se fosse rimasta seria.
 
«Nella mia mente, avevo già progettato tutta la scena: mi sarei presentata davanti a loro come ragazza, in modo che potessero capire chi avevano davanti, e quindi gli avrei dato un ultimatum, intimandogli di tornare da mia madre, scusarsi, e saldare il debito non indifferente che avevano con lei. Immaginai che avrebbero riso di me, e non mi avrebbero dato ascolto. A quel punto, mi sarei trasformata, e come un lampo sarei balzata addosso all’uomo che mi era più vicino, e allo stesso modo avrei poi battuto anche tutti gli altri. Non volevo ucciderli: volevo che andassero in giro per il paese terrorizzati a mostrare le ferite che gli avevo inferto e volevo che dicessero che ero stata io, la figlia della proprietaria della locanda, a conciarli a quel modo. Mi ero convinta che, se avessero imparato a temermi, le cose alla locanda sarebbero rapidamente migliorate, e che mi madre avrebbe finalmente smesso di lamentarsi.»
 
Fece una smorfia. «Sai» disse, senza guardarmi negli occhi «”lamentarsi” non è il verbo adatto, non rende l’idea di quello che intendo dire. Mia madre non faceva altro che piangersi addosso, dire che la sua vita era orribile, che era stanca di come andavano le cose, che voleva lasciare tutto e andarsene in un posto lontano.»
 
Mi lanciò un breve sguardo fugace, e un sorriso triste le si disegnò in volto. «Se ti stai chiedendo come faccio a sapere tutte queste cose, la risposta è semplice: era lei stessa a dirmele. Si suppone che siano gli adulti quelli forti, quelli che sopportano e che ti consolano, ma nel nostro caso è sempre stato il contrario. Ero io che mi imponevo di resistere e di cercare un modo per far funzionare le cose. Lei preferiva piangere e lamentarsi.»
 
Si bloccò, con la bocca aperta, come se fosse indecisa se dire o meno quello che le stava passando per la testa. Dopo alcuni secondi, si decise a parlare. «Anche io ero infelice. Molto infelice, ma non glielo facevo pesare. Sarebbe stata solo peggio se si fosse resa conto di quanto io, in gran parte per causa sua, fossi infelice. Tutto ciò che potevo fare per lei era sorriderle e cercare di consolarla, e non lasciarle capire quanto vivere con lei mi facesse male. Lei, invece, non si faceva problemi a dirmi che le sarebbe piaciuto andarsene e lasciarsi tutti alle spalle. Me compresa.»
 
Il tono in cui, faticosamente, aggiunse quelle ultime due parole, mi raggelò il sangue nelle vene. «Mikami i-
 
«Poi, quando ho mangiato il frutto, mi sono resa conto che potevo fare di più per lei» riprese velocemente, interrompendomi. Sembrava decisa a  non ascoltarmi e ad impedirmi di parlare. Chiusi la bocca e rimasi in silenzio, cedendo al suo volere. «Mi sono resa conto che, se avessi sistemato ciò che rendeva difficile la nostra vita alla locanda, lei non avrebbe potuto che esserne felice, e magari avrebbe smesso di dire tutte quelle cose orribili.»
 
Gli occhi di Mikami, ancora fissi sul pontile, erano distanti e malinconici, colmi di tristezza. Sbattè rapidamente le palpebre, come a voler scacciare quei ricordi lontani, e riprese le fila del racconto.
 
«Quindi, come dicevo, seguii quegli uomini. Andò tutto come avevo previsto: quando gli intimai di tornare da mia madre risero, e quando mi trasformai e piombai addosso al loro capo erano così stupiti e frastornati che non reagirono. Ma da lì in poi le cose peggiorarono rapidamente. Quando lasciai il primo uomo, a terra e sanguinante, per gettarmi sul successivo, loro si erano già ripresi dalla sorpresa, e mi aspettavano con i pugnali sguainati. Io ero totalmente impreparata ad affrontare una battaglia del genere: mi ero illusa che sarebbero bastate la mia forza e velocità di tigre per avere la meglio su quegli uomini. Stupidamente, non avevo pensato che erano malviventi, abituati alle risse, e molto più abili di me in combattimento. Forza e velocità mi furono utili nell’atterrare i primi due uomini, ma poi si scatenò il caos più totale. Tutti gli uomini mi attaccarono contemporaneamente, ed io non capii più nulla. Inizialmente mi preoccupai di schivare i corti ma affilati coltelli che si facevano rapidamente passare da una mano all’altra, ma mi resi ben presto conto che non ne ero in grado: per ogni colpo che riuscivo a schivare, me ne venivano inflitti due. Tentai la fuga: ma mi avevano circondata, e non riuscii a rompere l’accerchiamento. Andai nel panico più totale. Non riuscendo a difendermi e nemmeno a fuggire, mi lanciai a testa bassa all’attacco, senza un briciolo di criterio, azzannando e affondando gli artigli in qualunque cosa mi capitasse sotto tiro. Continuai a lottare perché non volevo arrendermi, ma in realtà mi ero già rassegnata all’idea che non ne sarei uscita viva.»
 
Il suo sguardo era freddo e distante, quasi come se ciò che stava raccontando non la coinvolgesse o riguardasse minimamente.
 
«Comunque, dopo un po’ che andavamo avanti a quel modo, successe… qualcosa, e fummo tutti sbalzati in aria. Io ero esausta e debole, non credo nemmeno che mi presi il disturbo di rialzarmi. Aprii gli occhi quando udii qualcuno avvicinarsi a me: era Smoker. Solo che, vedendolo così chino su di me, con quella sua aria torva e minacciosa e quel suo continuo ringhiare, mi spaventai, e senza pensarci due volte gli rifilai una zampata che gli stracciò la manica della giacca e lo colpii all’avambraccio facendolo sanguinare.»
 
L’ombra di un sorriso comparve sul viso di Mikami. «Imprecò e ringhiò a denti stretti ma non mi colpì a sua volta, forse perché nel frattempo avevo ripreso l’aspetto di una quindicenne, o forse perché non dovevo essere messa molto bene.»
 
Sospirò, senza che quel lieve sorriso sparisse dal suo viso. «I miei ricordi del resto della sera sono parecchio confusi. Passai diversi giorni tra i marine, chiusa in infermeria e bloccata a letto. Smoker venne spesso a farmi visita, ma non parlammo quasi mai. Non mi chiese mai nulla di cosa fosse successo quella sera né mi rimproverò per averlo attaccato e, quando mi fui ripresa a sufficienza dalle ferite, mi lasciò tornare da mia madre… lei era furiosa» disse, mentre il sorriso perdeva la sua sfumatura delicata per assumerne una amareggiata ed aggressiva.
 
«Non sapeva dove fossi stata in quei giorni, ma aveva subito pensato che fossi stata coinvolta nella rissa di cui tutti parlavano. Nessuno sapeva esattamente cosa fosse successo – visto che i membri della banda che erano sopravvissuti erano stati arrestati – ma lei aveva indovinato, e vedermi tornare a casa dopo vari giorni ammaccata e zoppicante, ricucita alla bell’e meglio, le aveva dato la conferma di cui aveva bisogno. Discutemmo ancora, in modo anche più aspro e violento della prima volta.»
 
Socchiuse gli occhi e mi lanciò uno sguardo torvo. «Non chiedermi di raccontarti quella discussione.»
 
Feci subito cenno di non con la testa, e lasciai che proseguisse.
 
«Ti basti sapere, che quella fu l’ultima volta che misi piede in quella maledetta locanda. Me ne andai, subito, senza pensarci due volte né voltarmi indietro, promettendo a me stessa che qualunque cosa sarebbe successa non sarei mai diventata come lei. Tornai da Smoker, e gli dissi che volevo arruolarmi. Mi aspettavo che protestasse, che mi dicesse che ero troppo giovane, troppo debole, che era una decisione troppo affrettata e cose del genere… Invece si limitò a guardami storto e chiedermi se ne ero sicura. Mi basto dire “sì”, e lui accettò di prendermi con sé.»
 
Sospirò. «Il resto è facile da indovinare. Mi ha insegnato a combattere, a perfezionare il controllo che avevo sul frutto del diavolo, la disciplina, l’obbedienza, la giustizia…. Ed io ho sempre obbedito e l’ho sempre seguito ovunque. Lui non sfogava mai le sue ansie su di me, ne mi confidava i suoi problemi supplicandomi di risolverli. Anzi, lui non sembrava aver mai paura di niente, non si lamentava mai ed affrontava tutte le situazioni di petto.»
 
Nonostante tenesse il viso chino, un debole sorriso le ammorbidiva le labbra, fino a poco prima tirate in una linea rigida, e nei suoi occhi vidi brillare l’ammirazione che provava per il marine. Non potei impedirmi di provare una punta di gelosia nei confronti di quell’uomo.
 
«Smoker aveva sempre l’aspetto di chi sa di avere il mondo in pugno, esattamente come mia madre pareva sempre essere sul punto di farsi schiacciare, invece, dal peso del mondo. Erano – sono – uno l’opposto dell’altra, e tutto ciò che volevo era diventare come Smoker ed essere tanto più diversa possibile da mia madre.»
 
Fece una lunga pausa, ed io mi chiesi se avesse terminato il suo racconto o se ci fosse ancora altro di cui voleva parlare.
 
«Ma in realtà, ora tutto questo non è più importante» disse infine con fare sbrigativo, gli occhi cupi e torvi come un cielo temporalesco.
 
Rimasi in silenzio.
 
«Non è più importante perché stanotte gli ho parlato, e ho capito che a lui non importa. E se a lui non importa, non importa nulla nemmeno a me, allora.»
 
La ascoltai con attenzione, ma senza riuscire ad afferrare fino in fondo il senso di quello che stava dicendo.
 
«Non so proprio cosa ci sono andata a fare da Smoker. Non so cosa sperassi di ottenere, perciò non chiedermelo. Sono stata stupida.» riprese, continuando ad evitare il mio sguardo, con voce bassa e fredda. «Però non è stato del tutto inutile, almeno ora so che lui ha smesso di interessarsi a me nel momento esatto in cui io ho smesso di essere il suo cagnolino obbediente. Almeno adesso ho un buon motivo per smettere a mia volta di interessarmi a lui. Sarà molto più facile essere un pirata da adesso in avanti.»
 
Avevo sempre creduto che, quando finalmente le avessi sentito dire che aveva definitivamente chiuso con Smoker e la Marina, ne sarei stato sollevato, che sarei stato felice di aver finalmente la certezza che non avrebbe deciso di tornare ad essere un marine da un giorno all'altro, ma dopo averle sentito raccontare quelle cose, non riuscii a provare nemmeno una punta di sollievo.
 
Forse, dipendeva anche dal fatto che sapevo che non le sarebbe bastato dire “Basta, ora non voglio più interessarmi a lui” per smettere di voler bene a quell’uomo, e che quindi le sue non erano altro che parole. Anche se lei non sembrava rendersene conto.
 
«In più, andandomene, ho avuto la brillante idea di attaccare il suo nuovo cagnolino, la mia sostituta. Me ne sono andata prima che lui se ne accorgesse, ma ho come la netta impressione che scoprire cosa le ho fatto non gli abbia fatto particolarmente piacere» continuò Mikami, con pungente sarcasmo, lasciandosi sfuggire una risatina nervosa.
 
A quel punto alzò lo sguardo su di me, tornando seria. I suoi occhi erano duri e freddi. «In realtà non ci avrei pensato due volte ad ucciderla, se non fossero arrivati gli altri marine con i fucili spianati. Sarebbe senza alcun dubbio morta nel modo peggiore che mi fosse venuto in mente.»
 
Ebbi la netta impressione, confermata dal suo sguardo, quasi di sfida, che stesse cercando di provocarmi, anche se non ne capivo il motivo. Sembrava aspettarsi una reazione ben precisa da parte mia, quasi come se non attendesse altro che io la rimproverassi per il comportamento tenuto, mi scandalizzassi e le facessi la ramanzina, o forse che mi spaventassi per quella dichiarazione e me ne andassi. Non avevo alcuna intenzione di reagire in uno qualsiasi di quei tre modi, perciò me ne rimasi muto ed impassibile, senza lasciare trapelare alcuna emozione.
 
In realtà non dovetti sforzami molto, un po’ perché dubitavo avrebbe realmente avuto il coraggio – o forse la cattiveria – di uccidere il nuovo sottoposto di Smoker e un po’ perché, se anche ne fosse stata veramente capace, non avrei trovato comunque la cosa così eclatante. Certo, un comportamento simile sarebbe stato insolito per Mikami, ma dopotutto, cosa c’era di così incredibile in un pirata che attaccava e uccideva un marine? Assolutamente nulla.
 
Tuttavia la mia scelta di non mostrarmi impressionato sembrò rivelarsi la decisione sbagliata.
 
Lo sguardo di Mikami si fece ancora più scuro, e da come contrasse la mandibola non mi fu difficile immaginare che stesse serrando rabbiosamente i denti.
 
Sostenni il suo sguardo finchè non fu lei ad abbassare gli occhi, con un basso ringhio frustrato.
 
Chinai anche io il capo, ripensando a tutto ciò che mi aveva raccontato. Mi sentivo dispiaciuto, terribilmente dispiaciuto, sia per ciò che era successo tra Mikami e sua madre, sia per ciò che era accaduto con Smoker. Avrei voluto dire qualcosa per rassicurarla, per consolarla, ma mi resi subito conto che qualunque cosa avessi detto sarebbe apparsa banale e fuori luogo. Che senso avrebbe avuto dirle “mi dispiace”? Sarebbe solo servito a farla infuriare.
 
Dopo alcuni minuti, in cui entrambi rimanemmi in perfetto silenzio, allungai il braccio e le circondai le spalle, tirandomela vicino con delicatezza. Non si oppose ma chinò il volto contro il mio petto, senza guardarmi negli occhi.
 
«Comunque sono felice che tu me lo abbia raccontato» sussurrai.
 
Passarono altri istanti di silenzio, poi Mikami lasciò andare un lungo sospirò e si strinse contro di me, rilassandosi. «Anche io. Non l’avevo mai detto a nessuno.»
 
«Capisco che Smoker sia stato quanto di più vicino avevi ad una famiglia per diversi anni» iniziai con voce bassa e calma. E capivo davvero: anche io avevo provato sentimenti simili nei confronti della prima ciurma che avevo avuto, i Pirati di Picche. «ma ora non sei più sola. Ci sono il Babbo, Marco, Satch, Vista, e tutti gli altri. E ci sono io.»
 
Alzò lentamente il viso verso di me. Aveva gli occhi lucidi. «Sì, lo so, ma Smoker… è stato lui che mi ha tirata fuori da quella situazione.»
 
Non potevo dire di non capirla, perché – ora finalmente riuscivo davvero a rendermene conto – ciò che provava nei confronti di Smoker era realmente simile, se non uguale, a ciò che provavo io per Barbabianca.
Eppure la sua riluttanza, nonostante le parole di poco prima, a chiudere per sempre con il marine ed accettare il fatto che ora fossimo noi la sua unica famiglia, mi rendeva ugualmente inquieto.
 
«Lo so, e non posso fare nulla per cambiarlo. Però posso dirti che, anche se quella volta io non c’ero, ci sono adesso, e che non me ne andrò.» Inspirai profondamente, sforzandomi di imprimermi sulle labbra un sorriso rassicurante. «Se vuoi tornare da Smoker, non sarò io a fermarti. Ma ricordati che qui hai una famiglia, e se decidi di rimanere io e gli altri ci assicureremo che non ti capiti più nulla di simile.»
 
«Smettila, ti ho già detto che non voglio andare da nessuna parte» rispose in un bisbiglio, con un sorriso un po’ tremulo. «Mi dispiace solo per Smoker. E per come mi sono comportata con lui questa notte» aggiunse, con un sospiro mesto.
 
Mi rilassai, lasciando che uno spontaneo sorriso rilassato facesse capolino sul mio viso. «Si, l’avevi già detto, ma ora mi sei sembrata più convinta» risposi ridacchiando.
 
Sciolsi l’abbraccio e mi rimisi in piedi, stiracchiandomi con un sonoro sbadiglio. Anche Mikami si alzò, con una smorfia di dolore quando fece leva sulla spalla ferita.
 
«Quella te la sei fatta con il sottoposto di Smoker?» domandai, indicando la morbida fasciatura che le avvolgeva la spalla.
 
«Già. E’ una donna armata di katana, con un discutibilissimo senso dello stile, cieca come una talpa» sbuffò Mikami, assumendo un lieve broncio.
 
Risi, trattenendomi dal farle notare che, per quanto cieca e poco alla moda, fosse stata comunque abbastanza in gamba da ferirla. E da non farsi uccidere da lei.
 
Sbadigliai nuovamente. «Non ho idea di che ore siano, ma sto morendo di sonno» biascicai, sfregandomi gli occhi. «Torniamo a letto.»
 
Mikami annuì, sbadigliando a sua volta. «A proposito, te lo vuoi riprendere sì o no?» chiese, tornando a porgermi il mio vecchio e fedele cappello arancione.
 
Lo agguantai rapidamente senza farmelo ripetere due volte. «Certo che lo rivoglio. Te l’ha ridato il Vecchio? Carino, da parte sua. Ah, caro vecchio capello, come mi sei mancato…» sussurrai accarezzando amorevolmente la falda ammaccata e un po’ sbiadita, dirigendomi verso il mio altrettanto amato letto con Mikami, al mio fianco, che ridacchiava divertita.

Spazio autrice:
Scusate, per l'ennesima volta, il ritardo. Tra esami e parenti sono stata un po' indaffarata, e a doverla dire tutta questo capitolo mi metteva una certa ansia, non so perchè ma ogni volta che mi mettevo davanti al pc e arrivavo al punto in cui Miki avrebbe dovuto iniziare a raccontare mi veniva una sorta di blocco e non riuscivo a spiccicare parola.... ho fatto un po' come fa lei, che apre la bocca per parlare ma poi non dice niente e prende tempo, compatitemi.
Ma alla fine ce l'ho fatta, è stato sofferto ma ci sono arrivata in fondo.
Allora, impressioni generali? Vi aspettavate qualcosa di simile o di totalmetne diverso?
Ace in questo capitolo è stranamente silenzioso, ma se si fosse messo ad interrompere Mikami ogni 3x2 come suo solito non saremmo andati a finire da nessuna parte, quindi per stavolta si è dovuto un po' sacrificare...
Col prossimo capitolo si riprende il mare! Ed io dovrò riorganizzarmi un po' le idee, perchè ci stiamo avvicinando alla parte più importante della storia e devo stare attenta a non fare stupidi errori - tipo perdere pezzi di trama di qua e di là XD Lasciatemi perdere, davvero, sono un po' stanca XD
A presto allora! :*
P.S.:C'è una questione che mi tormenta da diversi giorni: preferite le storie/i libri scritti in prima o terza persona? Chiaramente non ho intenzione di cambiare stile così, a metà storia, è solo una curiosità, anche per sapermi regolare con le prossime cose che scriverò - se mai lo farò XD

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