Amare è per sempre

di kk549210
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In un bel giardin di rose ***
Capitolo 2: *** Uno strano incontro ***
Capitolo 3: *** I Difensori ***
Capitolo 4: *** Sposami... ***
Capitolo 5: *** Gelosa? ***
Capitolo 6: *** Visita reale ***
Capitolo 7: *** Servizio silenzioso ***
Capitolo 8: *** Viva gli sposi ***
Capitolo 9: *** Felicità ***
Capitolo 10: *** Lo schianto ***
Capitolo 11: *** Il dolore dei ricordi ***
Capitolo 12: *** Una vera amica? ***
Capitolo 13: *** Rimorsi ***
Capitolo 14: *** La terapia ***
Capitolo 15: *** T.A.D. ***
Capitolo 16: *** Ri-nascita ***
Capitolo 17: *** Il ritorno ***
Capitolo 18: *** Boomerang ***
Capitolo 19: *** Dall'Australia con amore ***
Capitolo 20: *** Nessun rimpianto ***
Capitolo 21: *** Non temere, Sarah! ***
Capitolo 22: *** Amare è per sempre ***



Capitolo 1
*** In un bel giardin di rose ***


AMARE E’ PER SEMPRE


Disclaimers: I personaggi e il marchio JAG non mi appartengono. Questa fanfiction è stata scritta senza nessuno scopo di lucro.


NdA: E’ un racconto What if?/AU che mi frulla in testa da un po’ di tempo, complici anche le letture sul sito internazionale, che mi testimoniano e confermano sempre più che la passione per JAG e l’inventiva personale non hanno confini. Vedrete quindi Harm e Mac muoversi in situazioni già note, pur a partire da presupposti un po’ diversi dall’ordinario. Buona lettura e grazie per l’attenzione.


-Capitano, perché non è venuto nessuno della sua famiglia alla cerimonia? – fece l’ammiraglio, mentre si allontanavano dalla Casa Bianca attraverso un piacevolissimo giardino di rose bianche.
-Tutti impegnati in altre faccende – rispose Harm con un sorriso molto soddisfatto, accarezzandosi sul petto la decorazione appena ricevuta – Comunque, mi  sembra che la First Lady abbia fatto egregiamente gli onori di casa!
-Eh, già – sottolineò ridacchiando il tenente Roberts – non capita tutti i giorni di essere baciato dalla bella signora Clinton!
- Tenente, si permetterà queste battute quando sarà ammiraglio! – disse bruscamente Chegwidden.
- A una stella o a due stelle? – chiese Bud che, preso dall’euforia della giornata festiva, voleva proseguire sul tono scherzoso.
-Capitano – proseguì l’ammiraglio ignorandolo bellamente– il tenente Roberts è entrato a tutti gli effetti nello staff del JAG.
-Ne sono veramente contento! – replicò Rabb – Un altro pivello da mettere sotto… – proseguì dando un’amichevole pacca al tenente.
-Inoltre, il tenente Austin, prima del suo trasferimento, ha raccomandato particolarmente un nuovo elemento, il maggiore MacKenzie… Sarà la sua nuova collega. Ah, eccola laggiù.
In fondo al giardino, sul lato di Pennsylvania Avenue, una giovane donna con l’uniforme dei Marine sembrava in attesa.  I tre ufficiali di Marina si avvicinarono e l’ammiraglio fece le presentazioni.
-Capitano di corvetta Harmon Rabb jr, il maggiore Sarah MacKenzie…
Sarah ‘Mac’ MacKenzie rimase in cuor suo interdetta. Aveva sentito dire che il capitano Rabb era un bell’uomo, ma ora, vedendolo dal vivo, doveva ammettere che era davvero notevole. Si sentiva a dir poco mancare le ginocchia. Il suo nuovo collega era  alto, prestante, con il cappello calcato sulla fronte a sottolineare uno sguardo a dir poco penetrante. Un sogno in uniforme blu. L’elisir d’amore. Il cuore le batteva forte. Ma si trattenne e si mostrò impassibile e fiera. Il duro addestramento dei Marine l’aveva formata  a non  palesare mai le proprie emozioni, anzi a dominarle e vincerle. E un fulmineo sguardo alle mani del fascinoso ufficiale con le ali d’oro confermò ciò che qualcuno già le aveva detto e la dissuase ancor di più dal mostrare il suo nuovo sentire. A destra spiccava l’anello dell’Accademia, mentre all’anulare sinistro brillava uno spesso cerchietto d’oro.
Rabb rimase per un attimo sospeso. Guardò la sua nuova collega in viso. Non era possibile! Diane era morta da quasi un anno… e la Mackenzie sembrava la sua fotocopia.
- Mac – fece la donna porgendogli la mano, ulteriormente turbata e anche lusingata dall’estatica esitazione del suo nuovo collega.
- Harm – rispose lui, quasi rassicurato dal fatto che almeno la voce fosse diversa. Così gli sarebbe sembrato un po’ meno di lavorare col fantasma di Diane, la sua ragazza dei tempi dell’Accademia, che era stata barbaramente uccisa nel porto di Norfolk.
- Vi conoscete già? – chiese l’ammiraglio.
- Sì – replicò Harm.
- No – fu la secca risposta di Mac.
-Mi scusi, signore. Devo averla scambiata per una mia vecchia conoscenza

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Capitolo 2
*** Uno strano incontro ***


Il tenente Harmon Rabb jr era molto soddisfatto, quel pomeriggio. Aveva consegnato l’ultima stesura della tesi al suo relatore. Ancora un mese e avrebbe conseguito la laurea in Giurisprudenza. Non era il suo sogno di bambino, ma si sentiva fiero di se stesso. L’Esame di Stato, e poi avrebbe cominciato il suo nuovo incarico come avvocato alla procura militare. Il JAG, come si diceva nel gergo della Marina. Dopo l’appontaggio fallito in cui era rimasto ucciso il suo RIO, Harm aveva vissuto mesi di dura riabilitazione fisica e di terribile prostrazione psicologica. Ma poi, riorientato dai suoi superiori a un percorso alternativo, agli studi all’Università di Georgetown, aveva sentito nascere in sé una nuova spinta. La legge lo appassionava, e forse quella sarebbe stata la sua nuova strada. Un modo diverso di servire la bandiera a stelle e strisce, visto che la sua carriera di aviatore navale era stata stroncata da una inesorabile diagnosi di cecità notturna.
Ora ci voleva solo un buon caffè per concludere quella giornata così fausta. Nero, forte e dolcissimo. Afferrato il prezioso e caldissimo nettare, scorse un posto vuoto a un tavolino poco discosto dal bancone.
“Oggi ho proprio vinto alla lotteria” pensò, mentre sul viso gli si dipingeva un luminosissimo sorriso. Quello stesso sorriso a cui, dicevano i suoi amici e compagni, nessuna donna era mai riuscita a resistere. Soprattutto quando, come quel pomeriggio, indossava la sua uniforme bianca con le fulgenti ali d’oro appuntate sul petto.
Al tavolo della caffetteria da lui adocchiato sedeva una giovane dottoressa. O almeno così sembrava, visto che portava il camice bianco, sbottonato su un grazioso abitino. Forse era una specializzanda, visto che dimostrava più o meno la sua stessa età.
“Da una così, mi farei rianimare molto volentieri” pensò molto maliziosamente e si avvicinò per sedersi.
-Scusa, è libero? – le chiese, scostando già la sedia.
-Sì, si può accomodare – rispose lei con accento straniero, senza nemmeno guardarlo. La rivista che stava leggendo sembrava assorbire completamente la sua attenzione
Dall’accento poteva sembrare spagnola o comunque latina. Una donna con cui prendere fuoco ad ogni occasione propizia. Come con Maria Helena Carmelita Moreno Gutierrez, quella graziosa hostess della Iberia  con cui amava trascorrere ore molto spassose per entrambi.  Il tenente Rabb si concentrò a guardarla. Era proprio un bel bocconcino. Un ricco davanzale, giustamente abbondante. Una rigogliosa capigliatura castano ramata. “Peccato per quella treccia da collegiale, ma si può sempre sciogliere”. Avrebbe solo voluto che alzasse la testa per vedere di che colore avesse gli occhi.
-Sei spagnola? – le chiese incuriosito, cercando di attaccare bottone.“Che par di palle!” pensò lei “Non sanno chiedere altro… come se in Europa ci fosse solo la Spagna! E poi che vuole questo qui?”. Alzò la testa e si trovò davanti un giovane ufficiale di Marina, di trent’anni circa. Bello sì, ma con un sorriso a metà strada tra il perfetto ebete e il troppo sicuro di sé.
-No – rispose secca. Era stanca della pesante giornata davanti al microscopio e non le andava proprio di essere disturbata. Soprattutto da uno che sembrava  l’orribile surrogato della peggior cinematografia statunitense del decennio precedente, da “Ufficiale e gentiluomo” a “Top Gun”.
- Messicana? – insistette lui.
- No. Sono italiana, anche se non mi sembra proprio che questo la riguardi – ribatté la dottoressa abbastanza irritata, guardandolo fisso negli occhi. “Ah, mi ero dimenticata “Codice d’onore”… ha recitato pure in quello” pensò, scorgendo un codice posato sul tavolino, su cui l’importuno marinaio tamburellava le dita.
Harm mise i suoi occhi in quelli della ragazza. Due bellissimi occhi castano verdi. Molto più intriganti di quanto potesse desiderare.
-Non c’è bisogno di darmi del lei. Non sono vecchio. Ho poco più di trent’anni – fece lui con un sorriso invitante.
-Non mi piacciono gli sconosciuti che abbordano le ragazze nei bar –  la specializzanda cercò di zittirlo e giocò la sua segreta carta di antiseduzione. Tirò fuori dal taschino del camice un vistoso paio di occhiali rossi e se li calcò sul naso. “Vattene, seduttore da quattro soldi! La quattrocchi ti saluta… Vai a cercare da qualche altra parte la tua coniglietta”.
-Se è per questo, io mi chiamo Harmon Rabb jr. Harm, per gli amici! – rispose Rabb con un sorriso fintamente timido, tendendole la mano. “Carini quegli occhialetti… Ha carattere, la ragazza!”
“Uffa, la mania degli americani di riciclare i nomi! Non esagerano certo in originalità” pensò lei.
- E per i nemici?
-Rabb… tenente… rompiscatole… E tu, come ti chiami?
L’italiana si sciolse a un sorriso e gli strinse la mano. In fondo, non costava nulla dirgli il suo nome. Sperava sì di ottenere un assegno di ricerca al termine della specialità e di rimanere a Washington o comunque negli USA, ma nella grande America le probabilità di rincontrare quel bellimbusto in uniforme erano pari a zero.
-Livia. Livia Vannucci.
-Livia? Fantastico! Come la moglie dell’imperatore Augusto.
“Questo sa anche la storia romana? Strano per uno yankee…”
-Eh già…
-Io sto per laurearmi in legge… e tu? Medicina?  
-Sì, sto quasi finendo la specialità…
-Da una bella dottoressa come te mi farei volentieri stendere sul lettino… - disse lui scrutandola con uno sguardo molto intenso.
-Non te lo consiglio… mi specializzo in oncologia – fece lei. Aveva abbattuto il Top Gun con un autentico missile terra-aria.  Tra poco lui si sarebbe di certo esibito in una serie di eclatanti gesti apotropaici. Livia conosceva il soprannome con cui lei e i suoi colleghi venivano etichettati alla clinica universitaria. Li chiamavano “medici della morte”. Ma lei voleva che i malati un tempo incurabili avessero la speranza di guarire. Era per quello che intendeva dedicarsi alla ricerca sulle leucemie. Lui però la spiazzò completamente.
-Sei coraggiosa, complimenti. Non  è facile affrontare la morte – le disse con tono serio e sincero.
-Scusami, ora devo andare – fece lei con un sorriso di circostanza, alzandosi di scatto.
-Mi piacerebbe rivederti.
-Chissà… - disse Livia per levarselo di torno, mentre lui scribacchiava un numero di telefono su un foglietto e glielo porgeva – Per ora, marinaio… non perdere tempo a guardarmi il didietro. Ho il culo secco! 

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Capitolo 3
*** I Difensori ***


Il colonnello Matthew O’Hara, uno dei pochi marine ritornati dal Vietnam con una decorazione sul petto e non sulla bara, ora era di nuovo alla ribalta. E nel modo più eclatante che si potesse immaginare. A capo di un oscuro gruppo rivoluzionario che si attribuiva la pomposa etichetta di “Difensori”, aveva rubato la Costituzione e ora lanciava proclami da tribuno, in una trasmissione pirata sulla ZNN.
Nell’ufficio di Chegwidden, appena una mezzora dopo la cerimonia alla Casa Bianca, era piombato l’assistente speciale del sottosegretario del Dipartimento di Stato. Tale Clayton Webb, un tipo arrogante dalla capigliatura vagamente untuosa. Rabb, MacKenzie e Roberts dovevano partire subito per l’Arizona, luogo identificato dall’FBI come covo di O’Hara e dei suoi, per collaborare alle indagini. L’aereo sarebbe decollato di lì a un’ora.
-Solo un’ora per fare i bagagli, accidenti! – esclamò Harm precipitandosi nell’ascensore.
-57 minuti – puntualizzò Mac – Noi marine abbiamo sempre una sacca pronta nel bagagliaio dell’auto. Voi della Marina, no?
-No. Io devo passare assolutamente da casa. In auto io tengo le mie mazze da golf… e qualche giocattolo di gomma…
“Giocattoli di gomma? Mmm… Di certo non una bambola gonfiabile…” pensò lei con malizia “… mi sembra che tu non ne abbia affatto bisogno!”    
 
 
 
Il capitano Rabb non si fidava granché della sua nuova partner. E come primo caso da condurre insieme a lei, ne era capitato proprio uno inimmaginabilmente complesso. Quando si parlava di O’Hara, la MacKenzie sembrava sempre sulla difensiva, come se avesse qualcosa da nascondere. E ora, con la scusa di andare a interrogare da sola il generale Pike, si stava recando nella direzione opposta. Harm scese di gran carriera dall’elicottero dell’FBI e le fece sputare il rospo.
-Il colonnello O’Hara… è mio zio – confessò lei.
Rabb allora usò tutte le sue arti persuasive – minacce comprese - per convincerla a portarlo da lui. Era evidente ad entrambi la necessità di andare sotto copertura. Non c’era da fidarsi di Webb, che di sicuro li stava tenendo sotto controllo, quindi dovevano cambiare auto lungo la strada. E allo zio, Mac avrebbe raccontato di essere in vacanza con il fidanzato.
- Non prendere gusto a questa sceneggiata, maggiore – disse lui con un sorriso, mentre caricava i bagagli sul furgone che avevano noleggiato.
“Sarebbe troppo bello se fosse vero” pensò Mac. Senza uniforme, in semplici calzoncini e canottiera come un trentenne qualunque, con i bicipiti scolpiti e guizzanti, il capitano Rabb rappresentava la materia di cui sono fatti i sogni femminili. Lei ne spiò i movimenti, approfittando del buio che già era calato e che la celava nella sua complice coltre, e si sentì rimescolare il sangue, soprattutto nel momento in cui lui, per dare maggiore credibilità alla loro recita, si sfilò la fede e la ripose in una tasca laterale della sua sacca.
- Un tipo tenace, il tuo colonnello. Come te… sei cresciuta con lui?
- Non impicciarti dei fatti miei. Non ti conosco.
- Nemmeno io ti conosco - Harm sorrise.
- Tu con quel tuo sorriso ottieni sempre tutto?
-Non proprio… - asserì lui, ripensando a come era andata con Livia.
Nel giro di un’ora arrivarono in vista di Red Rock Mesa. Un luogo desolatamente triste dove solo i serpenti possono sopravvivere.  
- Un posto irraggiungibile. E’ troppo buio per darci all’arrampicata sportiva e non ho preso su il kit dell’ultraleggero fai da te. Dovremo fare delle segnalazioni perché vengano a prenderci. Ma sei proprio sicura che tuo zio e i suoi siano lassù?
- Sì. Quand’ero una ragazza, ci accampavamo qui in cerca di orme di dinosauro e per disintossicarci.
- Era un alcolista?
- Lo ero io,  – ammise gravemente Mac - ma non bevo più da quando avevo 19 anni.
Harm intuì che di quella donna si sarebbe potuto fidare. Nessuno tira fuori volentieri dall’armadio i propri scheletri, soprattutto davanti a una persona semisconosciuta con cui dovrà lavorare.
- Visto che mi hai rivelato un fatto così intimo senza che te lo chiedessi, voglio giocare anch’io a carte scoperte. Ti sarai accorta che stamattina, quando siamo stati presentati, ti ho guardato in modo strano.
- Sì, sembrava che tu avessi visto un fantasma, o qualcosa del genere.
- In effetti. Sei identica a Diane Shonke, una ragazza che frequentavo ai tempi dell’Accademia. Solo la voce e il modo di fare sono completamente diversi.
- Ah, allora ho una gemella – disse lei con tono di scherzo. “E una chance.” pensò “Le vecchie fiamme fanno sempre un certo effetto”.
- Avevi. È stata trovata uccisa nel porto di Norfolk. Otto mesi fa. Me lo ricordo bene perché in quello stesso giorno è nata la mia bambina. Uno strano intreccio di vita e di morte.

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Capitolo 4
*** Sposami... ***


Harm fece atterrare brillantemente lo Stearman in una radura erbosa e aiutò Livia a scendere dal velivolo.
-Un ottimo modo per festeggiare! -  esclamò lei, ancora entusiasta del volo semiacrobatico in cui il suo indefesso corteggiatore ormai semestrale l’aveva condotta. Ma un pensiero un tantino maligno le balenò nella mente “Chissà con quante altre avrà usato questo trucco”.
-Sono felicissimo che ti abbiano dato l’assegno di ricerca. Altri tre anni a Washington, almeno… - disse lui, mentre si accomodavano a sedere sull’erba vicino a Sarah.
-È fantastico. In Italia la ricerca medica non esiste quasi. Mi dispiace aver lasciato la mia terra e i miei affetti, ma la ricerca è tutta la mia vita…
-Tutta tutta? – chiese Harm inarcando le sopracciglia.
-Diciamo un buon novantanove per cento… - scherzò lei.
-E a me lasci l’uno per cento? – fece lui con un’aria sconsolata.
-No, ho anche altre cose a cui pensare… e poi tu sei troppo grande e grosso per quel cantuccino. – lo stuzzicò lei – Ma sei bellissimo…
Era veramente fantastico, senza quella solita uniforme che non le garbava granché. La semplicità del suo abbigliamento, in jeans e scarpe da ginnastica, lo rendeva, per così dire, più schietto e naturale. Lo guardò per un istante negli occhi, allora calmi e profondi come il cielo che avevano appena solcato. Poi chiuse i suoi, verdi e tempestosi, e lo baciò con grande trasporto. Harm si abbandonò con gioia a quel piacere così profondo e inusitato. Era la prima volta da quando si frequentavano – e lui aveva sudato sette camicie per riacchiapparla e convincerla ad uscire – che lei prendeva l’iniziativa, o almeno in maniera così ardente e ardita. A quel punto la sua antica natura di predatore si fece risentire prepotentemente. E nella sua testa un gigantesco semaforo verde si accese. Anzi, un’autentica foresta di semafori verdi. L’autorizzazione a procedere. Le infilò una mano sotto la felpa e cercò di stenderla sul prato. Ma lei si divincolò proteiforme e lo respinse.
- Semaforo rosso! Non è così che dite voi in Marina?
Harm rise amaramente, staccandosi a malincuore da quella che considerava ormai a tutti gli effetti la sua ragazza. Non capiva molto di quel suo comportamento, ma voleva rispettarla e assecondarla. Lei non era come tutte le altre.  
-Sposami, Livia… - le sussurrò assumendo un tono molto serio.
-È questo che dici alle donne che vuoi portarti a letto, per convincerle?
-No, le altre ci stavano e basta. Senza troppi trucchetti da pilota o giochi di parole da avvocato.
-Modesto, non c’è che dire.
-Dico sul serio… – le disse guardandola dritta negli occhi, con il pomo d’Adamo che gli andava su e giù per l’emozione – con le altre ragazze mi interessava solo divertirmi. Con te è tutta un’altra cosa. Non sei la belloccia di turno che vuole farsi un giro con il Top Gun…
-Oggi sei proprio in vena di complimenti… - disse lei corrugando la fronte.
-Scusami…  – Harm si sentiva impacciatissimo, peggio che al suo primo dibattimento in aula – Ma lasciami finire, per favore.
Lei si morse la sua linguaccia per lasciarlo parlare. Era contenta di essersi dovuta ricredere rispetto alla prima impressione: Harm non era il soldato fanfarone che le era sembrato d’istinto, ma un giovane uomo sensibile e dai  saldi valori. In quei sei mesi, lei aveva cominciato a digerire un po’ di più anche l’uniforme della Marina dietro la quale lui – Livia ne era ben cosciente – nascondeva tante sue ombre e fragilità. Non ultima, l’ignota sorte di suo padre, un capitolo doloroso che lui non voleva quasi mai aprire.
-Sei una donna meravigliosa. Non ho conosciuto nessuna che mi potesse tenere testa come fai tu. Né un passo avanti, né uno indietro. Tu sei pari a me… Siamo diversissimi. Veniamo addirittura da due continenti diversi. Ma io sento che nessuna mi può ricolmare di gioia come fai tu, farmi sentire così vivo e completo – si avvicinò di più a lei e le accarezzò i capelli. Livia gli lesse negli occhi una vibrante passione, un sentimento profondo e sincero. Non poteva più mentire a se stessa. Anche lei lo amava, ma temeva ancora che il loro fosse solo un fuoco fatuo. – Desidero con tutto il cuore donarti tutto quello che sono, mettere la mia vita vicino alla tua.  E, se vorrai anche tu, avere dei bambini bellissimi come te. Mi vuoi sposare, Livia?
-È un passo importante. Non so cosa dire…  
-Dimmi di sì. Credi al destino?
-No, sai bene che credo che ciascuno sia artefice del proprio destino.
-E allora agisci! Non rinunciare a essere felice. Io ti amo.
-Anch’io ti amo, Harm. Ma ti prego, non mettermi fretta. E anche tu, pensaci bene. Io ho un autentico carattere di merda.

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Capitolo 5
*** Gelosa? ***


-Hai fatto come al solito il supereroe… non potevi farne proprio a meno? – Livia commentò l’indagine conclusasi il giorno prima e in particolare il fatto che Harm si fosse letteralmente attaccato all’elicottero dei Difensori mentre si alzava già in volo.
-Guarda che l’ho fatto per la Costituzione. È anche la tua, da quando siamo sposati.
-Per tua norma e regola, mio caro azzeccagarbugli, io ho la doppia cittadinanza. Quindi se voglio, ti mollo e me ne torno in Italia… anzi se non la pianti subito, vado a fare la valigia! – scherzò lei - Che storia è, mettersi a fare il ragazzotto esibizionista in mutande e canottiera davanti alla CIA, all’FBI… e poi tu saresti un ufficiale? Bah, se la pace nel mondo, come la chiamate voi, dipende da soggetti come te… io mi difendo con le mie nude mani! – si aprì la camicia e si scoprì il seno per allattare la bambina.
-Ma lo sai che se ti agiti così ti va via il latte?
-Questa poppata serale è più uno sfizio che alimentazione. E Miss Vampirella, qui,  ha otto mesi. Se non te ne sei accorto, ha già messo i denti. Se continuo per questa strada, prima o poi mi strapperà i capezzoli a morsi.
Harm sorrise, cercando di stornare dalla mente la terribile prospettiva. Si avvicinò a lei e la baciò in fronte. Era contento che sua moglie si fosse rimessa dall’influenza. Si era sentito molto in colpa per essere partito su due piedi per l’Arizona e averla lasciata sola. Le mise un braccio sulla spalla e con l’altra mano accarezzò la piccola Julia. Il loro bellissimo fiorellino. Sarebbe voluto rimanere così per il resto della sera, ma doveva lavorare alla difesa del colonnello O’Hara. E non da solo.
Come a suggellare il suo pensiero, suonò il campanello.
-Aspetti qualcuno? Devi  fare lo straordinario anche stasera?
Harm annuì.
-E’ quel ragazzo simpatico con cui sei rientrato ieri sera… quel tuo collega? Com’è  che si chiama?
- Bud… No, Livia. Non è Bud.
Si alzò e andò ad aprire. Livia non si mosse dal divano. Tra le sue braccia, la bimba continuava a succhiare soddisfatta. E lei non aveva la minima intenzione di spostarsi. “L’allattamento è la pratica più naturale del mondo. Se qualcuno si scandalizza delle mie poppe, è un problema suo”.
 
 
 
 
Sarah MacKenzie entrò così in casa Rabb. Era un po’ intimidita nel varcare la soglia del piccolo mondo intimo di lui. Quello che condivideva con sua moglie e con la loro figlioletta. “E’ lei quella che si sollazza con i giocattoli di gomma, allora” pensò, con una punta di disillusione. Ma si celò come al solito dietro alla ruvida corteccia da marine. In fondo, non era lì né per fare una visita turistica né per intrattenere relazioni  sociali indesiderate. Doveva solo studiare con il capitano la miglior strategia per evitare di far marcire lo zio Matt dietro le sbarre. Il padrone di casa la accolse con un sorriso gentile. Era bellissimo, con un semplice maglione nero e un paio di jeans. In un angolo del soggiorno, Mac scorse una figura femminile seduta sul divano.
- Livia, questo è il maggiore Sarah MacKenzie. La mia nuova collega di cui ti ho detto.
- Salve, maggiore. Mi scusi se non mi alzo, ma da più di un anno non ho più l’esclusiva del mio corpo.
- Piacere, signora. Non si preoccupi – rispose Mac stupita dai modi molto spicci della giovane madre.
- Cara, noi andiamo nello studio, così non ti diamo fastidio. 
 
 

- C’ è l’attenuante dell’ammissione del reato e della restituzione dell’oggetto rubato. Articolo 282, comma 12b. A questo proposito, ho trovato la sentenza Stati Uniti contro Mallory, 1992.
- L’ho già controllata. Robetta. Quello era un marinaio di seconda classe che si era fregato quattro casse di aragoste dalla dispensa ufficiali. A meno che non fossero d’oro, non penso che valessero quanto il documento originale della Costituzione. Ma tu che vuoi fare? Vuoi giocare alla piccola Perry Mason o vuoi salvare tuo zio dall’ergastolo? Attacco armato a proprietà governativa, fruizione non autorizzata delle frequenze televisive, oltraggio al Presidente…
- La conosco a memoria la lista dei capi d’accusa… hai qualche brillante idea o hai solo paura di perdere e di deturparti la pagella immacolata, superRabb? – lo stuzzicò lei.    
  Un leggero bussare alla porta dello studio. Harm si alzò per dare la buonanotte alle sue bambole.
- Buonanotte, tesorino – fece baciando Julia sulla testolina ricca di capelli.
- È crollata come una pera cotta. Non fare tardi, caro. Io lavorerò un po’ all’articolo. Arrivederci, Sarah. E’ stato un piacere conoscerla.
- Arrivederci, signora. Piacere mio. – replicò Mac.
- Livia, la prego – rispose lei.
Harm sorrise. Sua moglie, accorciando deliberatamente le distanze, aveva già marcato il territorio.
E in un solo sguardo, le due donne si erano già studiate a fondo. Alla seconda occhiata, potendola osservare ben bene a figura intera, Mac era rimasta molto stupita, per non dire delusa dalla signora Rabb, su cui non aveva avuto il coraggio di chiedere in giro per paura di destare sospetti. Si aspettava che quel  fascinoso protomaschio fosse sposato con una modella coscialunga o quantomeno con una bionda da togliere il fiato. Ma quella donna non arrivava nemmeno a un metro e settanta e portava addirittura gli occhiali, a coprire un paio di occhietti smorti e di colore molto comune. Al di là di una innata eleganza – era vestita davvero con gusto – e di un corpo apparentemente molto tonico nonostante la recente maternità, sembrava non dare grande valore alle apparenze. Portava un paio di ballerine rasoterra. “Non fa proprio nulla per sembrare meno bassa di quello che è”.  E i suoi capelli, di un anonimo color topo, erano raccolti in uno chignon mezzo sfatto. “Ecco perché lui non la bacia nemmeno per augurarle la buonanotte. Ha tutta l’aria della pantofolaia irrancidita”.
 
 
 
Verso le dieci e mezzo, quando salì in camera, Harm trovò  la moglie che scriveva al portatile. Aveva già messo il pigiama e doveva essersi spazzolata a lungo i capelli perché erano davvero luminosi e sembravano morbidissimi anche solo alla vista. Il suo profilo etrusco brillava alla lucetta azzurrognola dello schermo. “Il profilo della Befana” diceva sempre lei, riferendosi a una vecchina di una antica leggenda italiana, brutta ma buona. Si inginocchiò vicino a lei, affondò le mani in quel profondissimo e voluttuoso oceano di rame e la baciò dietro l’orecchio.
- Lasciami finire questa frase, o sono persa…
- Allora perdiamoci insieme – disse lui con voce cavernosa, gemendo per fare la parodia di un attore da filmetto a luci rosse.
Livia voleva mettersi a ridere, ma non voleva dover ricominciare da capo il paragrafo. Finì rapidamente il suo lavoro, nonostante le piacevoli distrazioni che suo marito stava tramando alle sue spalle. Spense il pc e si girò verso Harm.
- Quando cresci, brutto dispettoso?
Il marito inarcò le sopracciglia come per risponderle “Mai, bella mia”. Lei aveva due anni meno di lui, ma era sempre stata più matura e riflessiva. Da quando era diventata mamma poi, aveva acquisito una sagacia e una concretezza ancora più solide e radicate.
- Che gran pezzo di marine ti hanno dato come collega!
- Allora l’hai studiata bene – “Certo”. Uno sguardo di lei, eloquente più di mille parole - Gelosa? – le chiese, pur sapendo che lei non lo era. Così come non amava le effusioni in pubblico, o comunque davanti ad estranei.
- Ne ho motivo, Harm?
- No, amore mio. Dormi tranquilla, stanotte e tutte le notti della tua vita. Anche quando sarò fuori in missione con la MacKenzie.
- Sai chi dobbiamo invitare a cena, una di queste sere? Quel Bud di ieri sera. E’ un gran bel tipo.
- Guarda che io invece posso diventare più geloso di Otello. Da quando in qua ti piacciono le ciambelle? – scherzò lui alludendo alla forma non proprio longilinea del tenente Roberts.
- Ciambelle? Quali ciambelle? Io non sento niente… e guarda che ho il tocco clinico! – e infilò una mano sotto il maglione del marito, apprezzando la parete tesa e muscolosa del suo addome.  

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Capitolo 6
*** Visita reale ***


-Guarda un po’, c’è tuo marito in copertina! – disse la dottoressa  Subramani afferrando dal bancone un tabloid scandalistico – “La principessa e l’ufficiale”…La dottoressa Vannucci si era già seduta al tavolo della mensa e rimestava con la forchetta nel suo cous cous alle verdure. Scosse la testa. Quel nuovo, inaspettato incarico piombato tra capo e collo al capitano Rabb stava suscitando davvero un po’ troppo clamore.
- Harm è arrabbiato nero. Una montagna di pratiche arretrate e lui deve fare il babysitter a una ragazzetta dal sangue blu. Quella Alexandra è ingestibile! È sotto tiro e continua a scappare da tutte le parti. Sarà per il gusto di farsi acchiappare e di essere portata via di peso…
-  Cosa ci vuoi fare? Il fascino della divisa!  Soprattutto addosso a tuo marito… – esclamò Maryamma divertita.
- Il bello è che la principessina ha diciannove anni. Figurati, l’età degli ormoni parecchio a palla – sorrise Livia - Harm ha detto che in più di una occasione ha cercato di baciarlo… Non ne può più di starle appresso notte e giorno. Non vede proprio l’ora che se ne vada. Questa sera c’è l’ultimo appuntamento ufficiale, il ballo della NATO al Willard Hotel.  Un’autentica scocciatura, ma gli tocca. E mi ha chiesto di accompagnarlo…
- Come sostegno morale o come sfollagente?
- Non ne ho punto voglia, Mary. Tutti quegli ufficiali in uniforme di gala… per non parlare dei politici, sai che pizza. E poi Harm dovrà stare con gli occhi e le orecchie aperte. C’è ancora rischio di un attentato, se viene annunciata l’entrata della Romania nella NATO. Una seratina amena, insomma…
- Dai, mettiti quel vestito rosso che avevi alla serata per la raccolta fondi… altro che ballo della NATO! Il ballo del testosterone! – rise Maryamma.
- Sì, ma che par di palle. Anche i tacchi mi toccano! Sai che li odio…
- Vai tranquilla, Livia… non hai quelle Jimmy Choo fa-vo-lo-se?  Sarà il capitano Rabb a dover tirare a lucido le  sue medaglie per non sfigurare vicino a te! – disse entusiasta l’amica biologa. 
 
 
- Harm, per te sarà anche come ballare con tua sorella, ma fa almeno finta di divertirti – disse il maggiore MacKenzie, fiera di ballare quasi in esclusiva con l’ufficiale più ammirato dell’intero salone.
- Mac, io non ti vedo come una sorella… - Rabb sorrise.
- Uhm… non mi dire!
- Ah, te lo dico, invece! Sono figlio unico… per me è pressoché impossibile concepire l’idea di “sorella”. Ho delle cugine, però…
- Ah… e per te cosa sarei allora, una cugina? – lei voleva andare in fondo alla questione. Anche se rischiava di rimetterci un pezzo di cuore.
- No.  – rispose lui con tono scherzoso. A Mac tremavano le vene e i polsi – Sei un’amica. E una collega davvero coi fiocchi. Non so come faremmo al JAG senza la tua preziosa presenza.
Quelle parole di Harm, molto gentili e lusinghiere se udite da un orecchio neutro, risuonarono in lei come un’autentica staffilata. E dire che per quella serata non si era risparmiata né nell’acquisto oculato dell’abito, nero con una sola spallina trasversale, né nella minuziosa cura del trucco e dell’acconciatura. Voleva calamitare i suoi sguardi di ammirazione. E non solo. Soprattutto dopo che lui si era lanciato sulla pista con lei, subito dopo aver parcheggiato la moglie al braccio del vecchio Chegwidden. La scialba signora Rabb faceva una discreta figura, quella sera. Dopotutto, quale donna, prima di un appuntamento così elegante, non passa dal parrucchiere, dopo un intenso pomeriggio di shopping?
“Devo tenere gli occhi bene aperti. L’attentatore di sicuro salterà fuori da uno di quei palchetti. Me lo sento. Ho fatto bene a mettermi a ballare con Mac. Così possiamo controllare la sala insieme, senza distrazioni e  senza dare nell’occhio”.
 
 
 
Nell’ufficio dell’ammiraglio Chegwidden, il re di Romania appuntò sul petto del capitano Rabb la medaglia al Valor Militare e lo baciò su entrambe le guance. Rabb era stato davvero eroico durante la serata di gala, individuando e mettendo fulmineamente al tappeto un pericoloso killer. Anche a costo di arrampicarsi felino su un palchetto del salone e di macchiarsi l’uniforme candida con il sangue dello spietato delinquente. E ora era stato anche invitato come rappresentante legale nella delegazione americana che sarebbe andata sul Mar Nero per regolare formalmente il trattato. Durante la cerimonia, semplice ma solenne,  rimasero impassibili tutti. O quasi. Livia si sentiva fuori dal suo elemento, in mezzo a tutte quelle alte uniformi e ai completi blu degli agenti CIA, e allora esorcizzava il disagio con la sua incrollabile ironia. Era proprio buffo vedere quel ragazzone californiano di suo marito sbaciucchiato in pubblico da un anziano sovrano. Ma nell’est europeo usava così. Un po’ come ai funerali o alle feste di famiglia a Soffiano o al Girone.
- Bud, hai visto il capitano Rabb? – chiese Mac, mentre nell’open space del JAG erano in corso i festeggiamenti e lo champagne scorreva a profusione. L’eroe del giorno era sparito senza che lei avesse modo di fargli i complimenti di persona.
- Sarà in balcone, probabilmente.
A godersi il sigaro della vittoria? No, Harm non fumava mai.  Anche se più di una volta aveva rischiato di offendere qualche pezzo grosso, rifiutando un profumato Montecristo o un pregiato Cohiba. Non poteva fare altrimenti, visto che sua moglie era un medico. Avendola vista alla luce del giorno, Mac dovette ammettere che quella nana occhialuta aveva gli occhi molto vispi. E verdi. Verde rospo. Come quello gigante che dovette ingoiare, impanato e fritto, quando li vide di spalle, appoggiati alla ringhiera del balcone dell’ammiraglio, mentre chiacchieravano allegri e si tenevano la mano. Lui, bianco e statuario nella sua alta uniforme. Lei, impeccabile e distinta nel suo abitino nero, con i capelli sparsi al vento primaverile.
- Sai che il mitico AJ è stato sposato con un’italiana? Di Caserta, per la precisione… – stava dicendo lei.
- Non me l’ha mai detto – osservò Harm.
- Non gliel’hai mai chiesto – rise Livia.
- Dovresti entrare nella CIA. Riesci sempre a scoprire tutto…
- Allora adesso ti svelo il segreto di Pulcinella: Bud ha trovato la ragazza!
- Sì, Harriet…
- Sono proprio una bellissima coppia!
Mac vide che Harm si avvicinava all’orecchio della moglie e le sussurrava qualcosa di impercettibile, a cui lei sorrideva con uno sguardo molto luminoso.
Lui la fissò intensamente, con un sorriso estasiato. Poi chiuse gli occhi e si incollò alla sua sposa nel bacio più appassionato.   

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Capitolo 7
*** Servizio silenzioso ***


La radiosveglia sul comodino si mise a cantare. Le cinque e mezzo. Peraltro, la musica era pessima. Di quelle cacofonicamente commerciali che fanno venire voglia di cacciare la testa sotto il cuscino e di non dare più udienza a nessuno per una intera settimana. O anche per dieci giorni buoni, per stare dalla parte del sicuro. “Nooo!” gridò Harm nella sua testa. Livia si mise seduta sul letto e si stiracchiò. Suo marito per tutta risposta si rigirò dall’altra parte e finse di dormire ancora. Per quella nuova missione non voleva proprio partire. L’ammiraglio Chegwidden voleva spedire lui e Mac a indagare sul Watertown, un sottomarino che al momento si trovava sotto il Mar Glaciale Artico, in prossimità del Polo Nord. Non era il pensiero delle solenni craniate che avrebbe preso su quella scatoletta di sardine della classe Los Angeles, ma il motivo per cui l’ammiraglio vi segregava proprio loro due. E non Mattoni e Roberts. O Mac e la Imes. O qualsiasi altro assortimento di avvocati in divisa che non fossero Rabb e MacKenzie insieme. Da un bel po’ Mac era scontrosa e tesa e lo provocava in continuazione. Harm per un po’ aveva sopportato. Poi aveva cominciato a risponderle male. E in aula, le udienze sembravano sempre più delle esercitazioni di artiglieria pesante. Nell’ultimo caso, in cui erano associati nella difesa, lei aveva avuto persino la sfrontata incoscienza di obiettare a una sua domanda. Ma era patente il motivo di tutto quell’astio prima represso e poi esploso tutto in una volta. Anche se lei si illudeva di riuscire a nasconderlo dietro una pretesa parvenza di dura imperturbabilità. “Mac è una amica. Ma se si aspetta qualcosa di più, penso che rimarrà delusa”. E dire che Harm sperava ancora che le cose tra lei e quell’avvocato ricco e belloccio, Dalton, andassero in porto. A questo punto era addirittura arrivato a desiderare che lei lasciasse il JAG per la professione privata, scelta verso cui lo spasimante in Porsche la pressava in continuazione.  Ora Chegwidden ordinava tra le righe una risoluzione coatta del problema che era sorto tra le sue due punte di diamante. Una full immersion in tutti i sensi.
- Amore, svegliati… Tra un’ora devi prendere l’aereo – disse lei bussandogli a una spalla.   
- Non mi sento bene. Sono tutto rotto… - rispose lui facendo finta di essere raffreddato.
- Tirati su che ti visito – propose Livia alzandosi dal letto e andando a prendere la borsa.
Harm, molto di malavoglia,  si mise a sedere sul letto e lei lo auscultò.
- I polmoni sono liberi. Apri la bocca! La laringe è rosa e le tonsille sono perfette.
- Ma io mi sento male! – brontolò lui.
- Le parotidi non hanno nulla di anomalo – osservò tastandogli le ghiandole.
- Mi sento la febbre…
- Non ce l’hai.
- Sì, mi sento caldo.
- Trentacinque e otto. – lo smentì la moglie prendendogli la temperatura dall’orecchio – Poco ci manca che ti trasformi in un animale a sangue freddo…  dai, striscia fuori dal letto e non fare storie!
Era deluso dalla diagnosi ma, ancora una volta, ammirava sua moglie. La medicina era proprio la sua seconda pelle. Quando lo visitava era fredda e distaccata. Toccava il suo corpo come se fosse quello di una qualunque altra persona. E la prova del nove era che lui non provava alcuna eccitazione sotto quel tocco.  
- Fammi un certificato per il lavoro, sono stanco!
- Sai benissimo che i certificati dei familiari non sono validi… la tua malattia si chiama “poca voglia”. Sei come mio fratello quando non voleva andare a fare la versione di greco!
- Qualunque cosa sia la versione, è molto meglio che andare su un sottomarino…
- Mica soffri di claustrofobia. E anche se Mac ne soffrisse, sai già come regolarti. Come quella volta con Meg. Ora, giù dal letto! E quando torni dal Polo Nord, ti faccio il lavaggio auricolare. Con l’otoscopio, ho visto due grossi tappi di cerume. 
 
 
 
Come volevasi dimostrare. Il caso era difficile: un’ escherichia coli di eziologia molto oscura. E Mac era intrattabile. Quasi al limite del dispettoso. Rideva persino quando lui sbatteva la testa negli stretti passaggi di quel suppostone d’acciaio. A un certo punto dell’indagine, mentre erano soli in un corridoio, Harm decise di prendere il toro per le corna.
- Tra noi due, continua ad esserci molta tensione, Mac. Cerchiamo di evitare di avere scontri diretti finché siamo sul Watertown, uhm? Può darsi che i nostri rapporti migliorino.
- Farò del mio meglio – rispose lei un po’ stizzosa.
- Brava. Io sarò più sensibile e tu… - le diede un colpetto sulla spalla – cerca di esserlo un po’ meno.
- Se sarai più sensibile, non avrò bisogno di esserlo meno – puntualizzò Mac con sarcasmo.
- Ho capito, continua a modo tuo…
- La tua teoria sulla follia claustrofobica non mi convince… Se per caso ti sbagli, finirà che a bordo nessuno ci rivolgerà più la parola.
- Potrai sempre parlare con me – fece lui allontanandosi.  
- Uhm, atroce condanna…
Harm tornò sui suoi passi.
- Mac, i nostri attriti non sono dovuti a semplici divergenze d’opinione. Tu non riesci a sopportarmi.
- E tu non hai fiducia in me.
Si fissarono per un attimo senza parlare.
- Come siamo arrivati a questo punto?
- Vuoi una risposta? – chiese lei sospirando – Siamo stati troppo insieme ultimamente…
- E perciò, era inevitabile?
- Non lo so, ma credo che faremmo bene a parlarne. Potrebbero esserci motivi inconsci.
- Forse stai esagerando… il nostro, non è un matrimonio…
Mac se ne andò indispettita.
“Begli occhioni color caffè, smettila di farmi il filo! Non ho la minima intenzione di buttare all’aria la mia famiglia e la mia carriera per te! Mettitelo bene in testa!” pensò lui. Ma non ebbe il coraggio di dirglielo in faccia.
 
 
 
Il capo Hodge, l’infermiere di bordo, era un autentico pazzo dall’eccellente curriculum di guaritore prodigioso. Sindrome di Munchausen per procura. Aveva avvelenato mezzo equipaggio con un potente emetico. Smascherato da Rabb, gli aveva immobilizzato la laringe con un sedativo e lo aveva minacciato di fargli una tracheotomia, poi aveva mezzo accecato Mac con dell’ammoniaca.
Nella sala macchine, tra il vapore acqueo dei tubi, era infuriata una lotta furiosa. Alla fine, sia l’infermiere squilibrato che Mac giacevano privi di sensi sul pavimento. Harm, anch’egli piuttosto malconcio, si rialzò in piedi e corse a rianimare la sua collega. Lei si riprese rapidamente. La tirò su, le diede dei colpetti sulla schiena e abbracciandola le accarezzò la fronte. Mac ricambiò la carezza. Harm fu molto sollevato: le voleva bene. Loro due erano amici.      
  

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Capitolo 8
*** Viva gli sposi ***


-Harriet, sei stata carinissima a pensare a me come damigella d’onore. Ma preferisco restare dietro le quinte… soprattutto per via di tua madre. Non oso pensare che razza di abito-meringa potrebbe propormi! – davanti a una buona tazza di tè, Livia vuotò il sacco.
- Se è per questo, non ti devi preoccupare… Puoi metterti quello che vuoi. Pensa che mamma ti ha persino copiato dei vestiti.
- Harriet… il vero motivo è un altro. È Mac la tua migliore amica. Dovresti chiederlo a lei!
- Anche se Harm è il testimone di Bud?
- Certo. Qual è il problema? In Italia  le coppie di testimoni sono le più assortite: marito e moglie, fratello e sorella, due uomini o due donne, a volte persone che nemmeno si conoscono…
- Sai, non vorrei essere pettegola o sfacciata… ma mi sembra che Mac sia, per così dire…
- … dai, Harriet! Sputa il rospo!
- … mi sembra che Mac sia attratta da tuo marito – disse Harriet con un’aria quasi terrorizzata.
- Hai scoperto l’acqua calda, cara mia. Io me ne sono accorta la prima volta che l’ho vista… Mi dispiace per lei. Così butta via gli anni migliori, quando invece potrebbe trovare l’amore della sua vita. Ha già fatto scappare quel Dalton… Oppure potrebbe divertirsi saltando da un letto all’altro, se le va questo genere di vita…
- Ma non sei preoccupata neanche un po’?
- Finché la cosa è a senso unico…
- Ma come fai?
- Se dovessi essere gelosa per tutte le donne che guardano Harm… Non è questione di saggezza, ma di istinto di autoconservazione!
- Beata te… C’è una dell’Archivio Centrale che fa gli occhi dolci a Bud. Come la odio!  Piuttosto, ci sarai venerdì al mio addio al nubilato?
- Scusami anche per quello, ma di vedere degli omarelli vestiti da poliziotto o da marinaio che si spogliano, non mi va proprio… mi fa un po’ “casalinga disperata”. A proposito, devo passare in tintoria a ritirare l’alta uniforme di Harm. 
 
 
Dal gabbione dei detenuti take away della prigione del Distretto di Columbia, il promesso sposo Roberts,  Rabb e Chegwidden sentirono un rumore di passi e una voce femminile piuttosto concitata.
- Ecco, io sono la moglie di quello lì – disse la donna avvicinandosi all’area di detenzione e indicando Harm come se fosse un  pollo dentro la stia.
- Livia, amore! – disse lui.
- Dai, vieni… andiamo a casa… – fece lei con un’aria molto seccata. Era davvero avvilente dover essere svegliata all’alba di un giorno festivo dal proprio marito arrestato per rissa in uno strip club – Grazie mille, agente! Buona giornata e buon lavoro! – disse al vecchio poliziotto di piantone, che era stato così gentile da tenerle d’occhio Julia nel passeggino.  A quell’ora era impensabile chiamare la babysitter. Ma per fortuna la bimba si era riaddormentata. Non  era certo edificante vedere il proprio padre, un procuratore militare per giunta, uscire di galera con l’aria abbacchiata  di un cane bastonato.
“Se diventa lesbica, si risparmierà queste figure barbine… Le donne non sono mai tanto stupide!” pensò spingendo fuori  il passeggino, mentre Harm la seguiva a testa bassa, senza il coraggio di fiatare.
Sulla porta incrociarono Mac, evidentemente nel ruolo di salvatrice degli altri due compagni di merende.
“Tutti tuoi, mia cara. Se Harm mi avesse fatto un numero del genere, l’avrei lasciato sull’altare ad aspettarmi a vuoto. Con buona pace di padre Edward. Spero proprio che Harriet dia una bella lavata di capo a Bud. Non è questo il modo migliore per iniziare una vita a due”.
 
 
 
-Signori ufficiali, estrarre le spade! Presentat-arm! Incrociare! – disse il capitano Rabb guidando il tradizionale rituale dell’arco di spade all’uscita dalla chiesa – Rendiamo onore alla prima apparizione in pubblico del tenente Bud Roberts e della deliziosa signora Roberts!
I neosposi passarono radiosi e trepidanti sotto le spade, tra i flash del fotografo e gli applausi degli invitati.
- In bocca al lupo! – esclamò Harm dando un malizioso colpo di taglio sul didietro di Harriet, che scoppiò a ridere – Spade nel fodero! Signori, attenti! In libertà!
“Il solito grullo! ” Livia commentò nella sua testa l’ultima goliardata di suo marito, che la raggiunse sollecito e prese dalle sue braccia Julia.
- Vieni, amore… andiamo a salutare gli sposi! – disse prendendo per mano la moglie – Ehi, piccola, ti va di baciare la sposa? –  chiese alla figlioletta.
- Tì – rispose entusiasta la bimba, stringendo forte il collo del suo papà. 

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Capitolo 9
*** Felicità ***


 
-Sono felicissima per te, cara…  – disse Livia al colmo della gioia - non so però se potrò passarti le cose di Julia - e qui abbassò la voce, per confidarle un dolcissimo segreto - Io e Harm stiamo provando ad avere un altro bambino. Sai, lui non lo dice, ma vorrebbe tanto un maschio…
- Che bello! Sarebbe fantastico se partorissimo insieme – Harriet la abbracciò.
- Purtroppo no… io devo ancora aspettare – rispose la moglie di Harm. Ma sentiva in cuor suo che il nuovo, piccolo Rabb sarebbe arrivato prestissimo. 
 

Quello era veramente un periodo sereno per Harm. Una serie trionfale, quasi inarrestabile di vittorie in aula. Il suo intuito investigativo e la sua rigogliosa facondia sembravano scaturire da una vena inestinguibile. Girava addirittura la voce, fin troppo ottimistica a dire il vero, che ci fosse per lui sentore di promozione. Anche con Mac la situazione si era alleggerita. I loro rapporti erano molto distesi, tanto che lui, durante i pranzi che consumavano insieme al JAG, la derideva molto spesso per la sua insana passione per il cibo spazzatura. Lei, per tutta risposta, lo aveva soprannominato mangiacarrube. La loro amicizia si era fatta profonda e schietta. E una grande novità aveva rivoluzionato in meglio la sua vita: a seguito di una visita oculistica di controllo, Harm aveva scoperto di non soffrire di cecità notturna, come gli era stato diagnosticato sette anni prima, ma di avere semplicemente delle cicatrici sulle retine, rimuovibili con un semplice intervento al laser. Sua moglie lo aveva incoraggiato in quella direzione, sia come medico, sia perché era cosciente che la più grande passione di Harm era volare. Ma lui era rimasto al JAG, nonostante potesse tornare allo stato di volo attivo: amava lottare per la verità e per la giustizia e non aveva molto senso, a trentacinque anni, tornare in servizio su una portaerei, al comando di qualche sbarbatello. Non solo perché questo sarebbe stato un autentico suicidio sul versante professionale, ma soprattutto perché una scelta così sconsiderata e irresponsabile  lo avrebbe costretto a staccarsi da ciò che amava di più. C’era infatti una autentica e luminosa letizia che inondava il suo cuore, più di qualsiasi successo professionale o sociale, un sogno che assorbiva tutte le sue energie: una felicità nuova che crescesse dentro Livia. Un bellissimo fratellino per Julia. Harm sperava di poter ricevere al più presto quel dono. Il più bello e sacro che ci si può aspettare nella vita.
Quel pomeriggio, l’udienza si prefigurava come una passeggiata. Avrebbe potuto vincere anche con i noduli alle corde vocali. Il primo capo Schettino, responsabile dello spaccio della base di Andrews, era accusato di falso in bilancio. Le prove a suo carico erano schiaccianti. Mac e Bud non avevano armi per salvarlo dal congedo con disonore e dal carcere. Pregustava già la serata imminente e la cenetta che sarebbe andato a preparare di lì a poco, appena acclamato ancora una volta come Cesare Augusto del JAG.  Livia era andata a Baltimora,  per tenere una relazione a un congresso, e lui voleva accoglierla al suo ritorno nella dolce intimità della loro casa.
- Tenente Ginsberg, lei svolge attività di revisore fiscale nel comprensorio della Virginia da due anni? – chiese alzandosi in piedi, e giocherellando con l’ultimo bottone della giacca come era suo solito. Quell’ultimo controinterrogatorio era la mossa del cavallo.
- Sì, signore – rispose l’ufficiale. Una cinquantenne robusta dal viso rubizzo e gioviale.
- Ma lei ha una esperienza ventennale in questo campo?
- Sì, signore. Laurea in economia nel 1975. Iscrizione all’albo dei fiscalisti nel 1978.
- Come giudica la tenuta dei libri contabili della base di Andrews?
- Obiezione, Vostro Onore! – esclamò il maggiore Mackenzie  - Chiede alla teste di esprimere un’opinione personale.
- Obiezione accolta – osservò il giudice, il capitano di vascello Amy Helfman.
- Riformulo la domanda – disse Rabb.
In quel momento, la porta dell’aula si aprì. Entrò AJ Chegwidden, con un’aria molto seria.
- Tenente, a seguito dell’esame da lei condotto sui libri contabili della base, ha riscontrato irregolarità?
- Vostro Onore, mi scuso per l’interruzione, ma devo conferire con il capitano Rabb. È una questione che ha la priorità assoluta – dichiarò l’ammiraglio.
Harm si girò con un’aria molto stupita. Che ci faceva lì il vecchio Seal? Se era per dargli man forte con nuove prove, non ne aveva bisogno. Se invece voleva mettergli il bastone tra le ruote… bè, gliel’avrebbe fatto ingoiare per il lungo. La Helfam diede il suo consenso con un cenno del capo e Chegwidden bisbigliò qualcosa all’orecchio del suo subalterno, posandogli al contempo una mano sulla spalla, con un fare che nessuno al JAG aveva mai visto. Harm scappò fuori dall’aula senza dire una parola.
Bud e Mac si guardarono stupefatti. L’ammiraglio si avvicinò al banco del giudice e le parlò a voce così bassa che nemmeno dal tavolo degli avvocati si riuscì a percepire nulla.
- L’udienza è sospesa fino a data da definirsi! – sentenziò il capitano Helfam, battendo il suo martelletto. Poi si ritirò con un viso molto tirato.
Nella storia del JAG, stando a quanto tramandavano gli annali e le memorie ufficiose da corridoio, non era mai successo nulla del genere. Bud e Mac continuavano ad essere letteralmente interdetti. Ma nessuno dei due aveva il coraggio di avvicinare il capo per chiedergli delucidazioni. 

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Capitolo 10
*** Lo schianto ***


Un terribile incidente sulla MD 295, a poche miglia da Washington. L’impatto con un camion che aveva cambiato corsia all’ultimo momento, senza segnalarlo, aveva trasformato l’auto del professor Muller in un ammasso scomposto  di lamiere. Il mentore della dottoressa Vannucci era morto sul colpo, lasciando orfani due bei ragazzi poco più che adolescenti.  Livia, in gravissime condizioni, era stata trasportata in elicottero all’ospedale.
 
Harm la vegliò per tutta la notte nel freddo reparto di rianimazione. Nell’ostinazione, nella speranza, nella preghiera. Nell’oblio completo di tutto il mondo al di fuori di quella piccola stanza in penombra, dove il confine tra la vita e la morte si misurava con il soffietto del respiratore e con il suono sempre più flebile del monitor cardiaco e dell’elettroencefalogramma.
A mezzogiorno, un medico si presentò per comunicargli la triste verità. Era subentrata la morte cerebrale.
Livia era iscritta al registro federale dei donatori di organi. La firma di Harm era una pura formalità. Come un automa, prese dalle mani del rianimatore il foglio di autorizzazione all’espianto e lo firmò.
 
Poi uscì nel corridoio, si gettò tra le braccia di sua madre e pianse un oceano di lacrime. 

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Capitolo 11
*** Il dolore dei ricordi ***


Harm non riusciva a discernere realtà e sogno. Stava forse vivendo un brutto incubo, da cui le carezze così dolci e eccitanti della moglie lo avrebbero ridestato? Oppure la sua vita con Livia era stata tutta un’illusione, un piacevolissimo sogno svanito all’alba, che lasciava dietro a sé solo la sensazione dolceamara della sua evanescenza? Nella notte buia del dolore, le memorie del passato giungevano come lampi subitanei, che lo rischiaravano per accecarlo ancor più.
Le grandi felicità di quegli ultimi quattro anni. Quando aveva accettato di sposarlo e lui le aveva messo al dito l’anello di nonna Sarah. Il loro matrimonio, intimo e privo di qualsiasi pompa militare, con abiti semplici. Livia detestava le uniformi.  “Voi americani non avete mai conosciuto la guerra per davvero”. Non come suo nonno, ragazzo del ’99, o i suoi zii, partigiani sull’Appennino. La gioia sorprendente della luna di miele. Conoscere la sua terra e scoprire lei, nella sua intimità e passionalità più carnale. Stare abbracciati a guardare il tramonto dal Forte di Belvedere. E la prima poppata di Julia, una piccola rosellina candida, a cui sognavano di aggiungerne altre.        
Ma anche il dolore, conosciuto e portato insieme. Come quando la porta del passato si era chiusa inequivocabilmente e con questa la speranza di rivedere suo padre vivo, poiché quei resti ritrovati in una fossa comune in Siberia erano davvero di Harmon Rabb sr. Il DNA non mentiva. Livia era stata per lui la roccia della sua vita, lo scoglio sicuro a cui aggrapparsi nel naufragio della disillusione e di quel vuoto altrimenti  inaccettabile.    
Riaffioravano insieme i frammenti della quotidianità, intrecciata di semplicità, successi e fatiche, piccole incomprensioni, condivisione.  “Quando cresci?”, gli chiedeva lei quando ne combinava qualcuna delle sue. Ora purtroppo era cresciuto. Tutto in una volta.
Aveva perduto tutto. 

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Capitolo 12
*** Una vera amica? ***


Seguendo il consiglio di sua madre, Harm era tornato al lavoro. Soprattutto per ridare un ordine alle sue giornate e non essere travolto in continuazione dai ricordi del passato felice, coltelli affilatissimi in mano al dolore.  Anche per non turbare la bambina con un cambiamento di vita troppo evidente. Aveva infatti il terrore che Julia respirasse l’alito mefitico della sua sofferenza. Si sforzava di essere il più possibile sereno quando era con lei. E di farle accettare quella perdita, perché non credesse di essere stata abbandonata perché era cattiva o aveva fatto troppi capricci. Ma spiegare a una piccola di poco più di due anni che la sua mammina è andata in cielo è la cosa più straziante del mondo.
Chegwidden, per fargli riprendere il contatto con la realtà,  gli affidava per il momento cause di piccola entità e soprattutto in ambito locale. Trasferte da mattina a sera, per così dire. E dire che il SecNav, che non aveva mai avuto simpatia per Rabb e che in quell’occasione non si stava dimostrando affatto sensibile, aveva suggerito al capo del JAG di relegare il povero vedovo in archivio o nell’area amministrativa, per evitare che facesse dei danni. Ma l’ammiraglio era stato irremovibile. Voleva che il capitano rimontasse in sella, gradualmente, ma che lo facesse. Era un avvocato e strappargli il suo lavoro, umiliarlo con la crudele pietà, equivaleva a distruggerlo completamente. AJ sapeva cosa significasse perdere la persona amata. Nel suo caso era stata una giudice che lui aveva frequentato solo per pochi mesi. Ad Harm era stata strappata via all’improvviso la donna con cui aveva condiviso tutto per più di tre anni. Tutti i suoi sogni di vita erano stati falciati via dalla morte. In quel momento, il rischio che il mostro terribile della depressione si portasse via anche lui era troppo alto per perdere tempo a preoccuparsi dell’immagine della Marina.
Quel pomeriggio, Harm finì presto di lavorare. Aveva avuto solo il caso di un guardiamarina che era finito fuori strada con lo scooter, creando il panico tra gli avventori di un chiosco di cucina thai. L’accusa era di guida in stato di ebrezza, ma la linea difensiva era già costruita: l’incauto sottufficiale aveva una brutta afta in bocca e beveva propoli glicolica come se fosse acqua. E così il capitano Rabb, con il permesso del suo superiore, ritornò presto a casa.
 
 
Sul divano, cercava di concentrarsi nella lettura di alcune carte processuali, sforzandosi di non pensare troppo alle sue ferite ancora così fresche. Era passato poco meno di un mese e gli sembrava ancora che Livia dovesse ritornare a casa da un momento all’altro. Si sentiva come sospeso.
Suonarono alla porta. Julia a quell’ora era già nel mondo dei sogni, dopo che lui l’aveva fatta sguazzare a lungo con i suoi pesciolini durante il bagnetto. Harm sperò che la piccola non si svegliasse. Per ogni evenienza, teneva sempre con sé il baby monitor per vegliare sul suo sonno da qualunque parte della casa.
Era Mac.
- Ho pensato che questi appunti ti potessero essere utili  - gli disse.
- Grazie, accomodati – rispose Harm debolmente.  
Rimasero a parlare del più e del meno per circa un’oretta. Lui era quasi sollevato nel sentire qualche chiacchiera leggera, anche se non era molto di compagnia. A un certo punto, dal baby monitor sentì il pianto di sua figlia. Salì nella cameretta e rimase a lungo a consolarla, tenendola in braccio. Avrebbe voluto che qualcuno consolasse lui allo stesso modo, ma non era più un bambino.
Mac lo aspettava nel corridoio. Harm, sfinito, cercò di abbozzarle un mesto sorriso di ringraziamento. Entrò nella sua camera e si sedette sul letto con la testa tra le mani. Lei, silenziosa, gli si mise accanto. Lui scoppiò in lacrime. Non doveva vergognarsi di mostrarsi nella sofferenza alla fidata Mac. Sentiva un bisogno lancinante di essere consolato. E si abbandonò tra le braccia della sua amica. Ma a un certo punto le carezze diventarono tutt’altro che amichevoli.  

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Capitolo 13
*** Rimorsi ***


Harm si risvegliò, solo e sfinito. Era troppo presto per alzarsi e troppo tardi per riaddormentarsi tanto da riprendere le energie. “Queste gocce ormai mi fanno l’effetto dell’acqua fresca”. Rigirandosi tra le lenzuola per trovare una posizione più rilassante, si accorse di essere nudo. Solo allora, nella confusione dei suoi pensieri angosciosi, si illuminarono nella sua mente bagliori di quello che era successo.
Sentì crescere in sé un tormento insostenibile. Un macigno gli si era piantato nel petto. Aveva tradito Livia. E ora era diventato una bestia, un animale dominato solo dagli ormoni e dalla bruta irrazionalità. Non più quell’uomo che qualche anno prima aveva saputo vivere l’astinenza dalla sua donna, per poter poi godere con lei della pienezza dell’unione coniugale. Si sentiva sporco, insudiciato dalle sue azioni inconsulte. Si alzò e con un gesto rabbioso disfò il letto, strappando via le lenzuola e gettandole a terra in un mucchio. Poi aprì il getto della doccia, per lavare via da sé l’odore di quell’altra. Anche se nessun lavacro avrebbe mai potuto liberarlo dal senso di colpa che ora regnava incontrastato nella sua coscienza.
Se non poteva chiedere perdono a Livia, poteva cercare di farlo almeno con Mac. In quel modo aveva guastato la loro amicizia. Aveva assolutamente bisogno di chiarirsi con lei, o sarebbe stato impossibile andare avanti.
 
 
 
Mac era furibonda con lui, ma ancor più con sé stessa. Aveva avuto quello che aveva tanto desiderato, fin da quella prima notte in Arizona. Ma non aveva avuto lui. Sentiva ancora in bocca il retrogusto amaro dei suoi baci e conservava sulla pelle il suo odore. I baci e le carezze di un uomo spossato e affranto, segno della disperazione, non del desiderio né tantomeno dell’amore.
Doveva andare via, lontano da Washington.  Non voleva più guardarlo in viso. Né ci sarebbe riuscita, senza tradirsi in qualche modo. Non poteva buttare all’aria la sua carriera e la sua vita per una notte sbagliata.      
 
 

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Capitolo 14
*** La terapia ***


Harm cercava faticosamente di risalire la china, anche con l’aiuto del capitano di corvetta Jordan Parker, una giovane ma competente psichiatra in servizio all’ospedale navale di Bethesda.
Dopo la morte di Livia e soprattutto a seguito di quel terribile scivolone con Mac, era entrato nel tunnel della depressione. Continuava a portare avanti il suo lavoro e ad occuparsi della piccola Julia, con tenerezza raddoppiata per colmare il vuoto che la perdita della madre aveva lasciato in lei, ma si trascurava e aveva perso molto peso. L’ammiraglio Chegwidden era davvero in pensiero per lui e gli aveva ordinato di andare in psicoterapia. Le sedute settimanali stavano dando promettenti risultati, grazie anche alla distanza di Mac, che si era autoesiliata su una portaerei nell’Oceano Indiano senza dare spiegazioni né volergli più rivolgere la parola dopo quella notte, sebbene lui l’avesse ripetutamente cercata. Evitare tensioni inutili lo aiutava infatti nel percorso terapeutico: la Parker diceva sempre che il quadro si ricomponeva con più cura e solidità se si maneggiavano pochi pezzi alla volta. Harm aveva cominciato a fidarsi di quel medico: gli aveva rifiutato la strada più semplice, quella degli psicofarmaci, e con delicata fermezza lo aiutava a scavare tra le pieghe della sua psiche, nuove e vecchie.
Intanto si avvicinava la data del parto di Harriet. Dopo la disgrazia, Harm si era legato sempre più a lei e a Bud e, pur nel marasma delle angosce che ancora lo tormentavano, dal buco nero che aveva sbarrato il suo cammino, amava rivolgere alla sua amica delle piccole attenzioni premurose, quasi da fratello maggiore, ogni volta che se ne presentava l’occasione. I Roberts, dal canto loro, non mancavano di sostenerlo con tutto il loro affetto ed erano sollevati nel vederlo riprendere stabilità un po’ alla volta. Ma avrebbero pagato tutto l’oro del mondo per vedere rispuntare sul suo volto quel sorriso che prima sembrava intramontabile.     
Una mattina di inizio maggio, il capitano Rabb entrò nello studio di Chegwidden per ricevere i nuovi ordini. L’ammiraglio gli aveva già comunicato il pomeriggio prima, telefonicamente, che si trattava di una missione fuori sede. Aveva avuto questa delicatezza, per consentirgli di organizzare la sua vita familiare, ma non gli aveva esposto i dettagli. Harriet e Bud si sarebbero presi cura di Julia, che li amava come due zii.
-Riposo, capitano! Sulla Coral Sea si è verificato un incidente di volo.
La Coral Sea. La portaerei su cui stava prestando servizio Mac, sempre che non fosse sbarcata per qualche missione straordinaria a terra.
-Ci sono vittime, signore?
-No, per fortuna. Solo un pilota e un RIO con fratture multiple. Il responsabile del ponte di volo, il tenente Mark Edmond, è accusato di negligenza in servizio e  di lesioni colpose. Lei dovrà indagare sull’accaduto ed assumerne la difesa nell’udienza preliminare che si svolgerà in loco, molto probabilmente.
-E a chi va l’accusa? – chiese Rabb, pur conoscendo già la risposta.
-Al maggiore MacKenzie. Nel caso in cui il comandante nella nave chieda che l’udienza si svolga al JAG, vedremo chi sarà libero al momento. C’è qualche problema a questo proposito, capitano?
-No, signore. Agli ordini, signore! – fece lui mettendosi sull’attenti.
In realtà un problema c’era. Un macigno, e bello grosso. Un nodo gordiano che Harm intendeva sciogliere. Erano sei mesi che non vedeva Mac ed era ora di affrontare la questione. La terapia lo stava aiutando a leggersi dentro con maggior chiarezza e ad affrontare con più calma le situazioni critiche. In fondo, non avrebbe potuto aspettare in eterno. Prima o poi si sarebbe dovuto ritrovare faccia a faccia con lei.

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Capitolo 15
*** T.A.D. ***


Nella sala mensa ufficiali della Coral Sea, Mac aveva appena terminato di interrogare il tenente Edmond.
- Il colloquio è finito, tenente. Può andare!
- Con rispetto parlando, signora, lei mi sembra ostile.
- Non c’è niente di personale.
- A me non sembra. Ma come faccio a difendermi da queste accuse che lei muove contro di me?
- Questa è una domanda che deve fare al suo avvocato.
- E il suo avvocato le risponde che cercherà tutte le prove esistenti per scagionarla, tenente – disse  Harm, quasi comparendo dal nulla.
Mac rimase interdetta, senza saper proprio dove guardare. Aveva sperato con tutte le sue energie mentali che Chegwidden mandasse Bud, o Mattoni. O qualsiasi altro ufficiale del JAG, ma non Harm, che la travolse subito con la sua irrefrenabile e sicura parlantina. Quell’uomo era sempre il migliore.
- Mac, l’F-14 che ha subito l’incidente era già molto usurato e aveva affrontato una serie di appontaggi molto duri.  La responsabilità dell’accaduto può essere attribuita non a errore umano, ma a guasto tecnico. Danni strutturali al velivolo. O difetti acquisiti dalla strumentazione di bordo proprio per il prolungato uso dell’apparecchio in condizioni limite. Pertanto, prima di procedere contro il mio cliente, bisogna avere in mano solidi elementi accusatori.
Mac era parecchio contrariata di essere messa così alle strette. Si sentiva già sconfitta in partenza. Soprattutto dopo che l’ammiraglio aveva inviato proprio lui, un pilota, ad indagare su un incidente di volo.
- E da dove ti viene tanta sicurezza, Harm? – meglio rispondergli con il “tu”, visto che anche lui l’aveva usato. Aveva fatto proprio come se niente fosse. Tipico degli uomini.
- Dalla lettura del rapporto tecnico – asserì lui, mostrando un fascicolo – e dalle registrazioni delle attività di ponte. Riuscirò comunque ad avere dati più precisi e accurati nel corso delle indagini. Sono qui proprio per questo. Sempre che tu me lo lasci fare. Per quanto riguarda la colpevolezza del mio cliente, sarai tu a dover provare che io sono in errore.
Edmond li guardò stupito. Aveva la netta impressione che tra quei due non corresse affatto buon sangue.
- Buona fortuna – fece lei congedandosi. Ne aveva avuto già abbastanza. 
 
 


Più tardi, Mac stava lavorando al computer nella sua cabina.
- Posso entrare? – chiese Harm affacciandosi sulla porta lasciata aperta.
Mac si girò e lo guardò con una espressione a metà tra l’offeso e il disperato.
-Ci mancherebbe.
L’aria le sembrava mancare, con quell’essere gigantesco piazzato dentro quello spazio così angusto. Lo osservò con maggiore attenzione. Prima era stata distratta dal caso. Sembrava molto diverso dall’Harm che conosceva e che, accidenti a lei, le aveva fatto perdere la testa quasi tre anni prima. Appariva smagrito, con il viso segnato dalla stanchezza e gli occhi spenti. Si era anche fatto crescere i capelli in uno strano ciuffo che gli ricadeva sulla fronte. Un omaggio alla memoria di Livia, che proprio di quel ciuffo ribelle si era innamorata.
- Mac, dobbiamo parlare – esordì lui con tono pacato.
- Certo, sei tanto bravo in questo. Me l’hai dimostrato poco meno di due ore fa in sala mensa. Mi hai praticamente fatto fare la figura dell’avvocatina alla sua prima causa. E ora non ho bisogno di ripetizioni private a domicilio – ribatté lei con una massiccia dose di veleno. Avrebbe voluto iniettargli in corpo tutto quello che aveva accumulato in quei mesi.
- Mac, – ripeté lui con dolcezza – non sono qui per il caso. Dobbiamo chiarire le cose tra noi. Pensavo che avresti richiamato, almeno una volta. Sei mesi sono lunghi. Perché sei scappata in quel modo?
.- Mi vuoi parlare solo perché ti senti in colpa! – Mac alzò il tono.
- Perché mi vuoi aggredire? Dai, Mac. Si può parlare civilmente… – fece lui, cercando di mantenere la calma. Doveva controllarsi il più possibile. Uno sbalzo d’umore eccessivo avrebbe potuto mandare in fumo mesi interi di terapia. “Sì,  mi sono sentito in colpa, per tanto tempo. Ma in quel letto non c’ero solo io”.
- E tu, perché ti sei approfittato di me?
“Non sono mai stato né uno stupratore né uno che costringe le donne… e tu non sei certo una ragazzina inesperta…” pensò lui.
- Non mi sembra che le cose siano andate così. Ognuno di noi ha la sua parte di responsabilità. Io ammetto di avere sbagliato, e ti chiedo scusa se ti ho ferito…
- Le lacrime del coccodrillo. Prima azzanna la preda, si pente – Mac era sempre più stizzita.
“Chi ha azzannato chi? Appena Livia è morta, hai usato la tua amicizia per infilarti nel mio letto” Harm si pentì di aver fatto un pensiero così limpido, ma così brutalmente vero.
- Mac, arrabbiandoci peggioriamo solo la situazione. Mi dispiace che tu ne soffra ancora. Non avrei mai voluto farti del male, soprattutto in questo modo… ti chiedo perdono. Visto che il passato non si può cancellare…
Almeno non aveva condito il suo bel discorso –“Da prete o da strizzacervelli?”- con quel suo solito sorriso a trentadue denti. Sarebbe stato davvero insopportabile. Mac si sentì mancare l’aria. Uscì dalla cabina senza dire una parola.
Harm rimase per un po’ in piedi a pensare. Lui ce l’aveva messa tutta. Ora stava a Mac fare la sua parte. Forse il tempo avrebbe aggiustato le cose. In quel momento, lui non aveva energie da sprecare per cercare di comunicare con una persona che gli sbatteva in faccia la porta. Doveva prima di tutto finire di mettere a posto la sua vita. Lo doveva a se stesso. A sua figlia e alle persone che gli volevano veramente bene. Uscì fuori. Il caposquadra aerea gli aveva garantito di fargli fare un paio di appontaggi prima di cena. Così avrebbe potuto tenere aggiornato il suo stato di volo. In fondo, Chegwidden non gli aveva fatto un dispetto a mandarlo lì. Nessun dispetto, ne era certo.    

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Capitolo 16
*** Ri-nascita ***


Quella mattina, al JAG, andava tutto storto. Primo fra tutti, l’ascensore. Anzi, quello non andava proprio. Ed Harm si trovò coinvolto in una situazione a dir poco tragicomica. Rimanere bloccato dentro quella scatoletta per mezz’ora. E in compagnia del capitano più simpatico di tutta la Marina australiana, per giunta. Un ufficiale in prestito al JAG da un mese circa. “Quando Liza Minnelli cantava  Life is a cabaret, forse si riferiva a situazioni del cavolo come questa. Ti piombano addosso quando meno te l’aspetti” pensò. Ma con quello lì a distanza ravvicinata, non si poteva nemmeno pensare in santa pace. 
- Certo che quella bionda che era l’altro giorno nel suo ufficio… è una gran bella gnocca! – esordì il capitano Brumby, che non aveva mai letto il vocabolario sotto il lemma “sensibilità”. O forse aveva qualcosa di personale proprio contro di lui.
- Sì… - rispose Rabb  per pura cortesia, sperando che l’importuno collega la smettesse con le sue chiacchiere da bar di infima categoria. Quando l’aveva visto per la prima volta, nell’ufficio dell’ammiraglio, se lo era immediatamente immaginato mentre rotolava sotto il bancone di qualche fumoso e buio pub, pieno fino agli occhi di birra o di whisky.
- Ma è una sua amica o una cliente? Ho visto che è capitano di corvetta… e dottoressa per giunta – insistette quello. Harm ebbe l’impressione che stesse pure sbavando. “Ma questo non si fa mai una bella crostatina di  fatti suoi?”
- È la mia psicoterapeuta – rispose con un sospiro.
- Fantastico… quanto vorrei stendermi sul suo lettino – commentò Brumby. Il tatto di quell’uomo era sotto lo zero.
- Sa, io ne avrei fatto volentieri a meno.
Per fortuna le porte dell’ascensore si aprirono. Harm sentiva già un groppo alla gola. Congedatosi spicciamente dal canguro, proseguì la sua discesa per le scale. Anche Harriet aveva avuto la stessa idea ed era piegata a metà, incapace di muoversi. Era iniziato il travaglio. Lui la aiutò a rialzarsi e la sorresse mentre scendevano. Il posto più tranquillo dove aspettare l’ambulanza era l’ufficio del capo, che quella mattina per giunta era fuori. Non si sarebbe comunque arrabbiato, o almeno così sperava Harm in cuor suo. In fondo, era per una buona causa.
- Signore, il dottore ha detto che il tenente Sims ha saltato del tutto la prima fase del travaglio ed è passata alla seconda – riportò il sottufficiale Tiner, incaricato di consultare il ginecologo e di chiamare un’ambulanza.
- Harriet, sei sempre la solita… vuoi strafare! Stenditi qui – disse Harm accomodandola su dei cuscini che aveva steso in terra e coprendole le gambe con un telo – A questo punto, se non arriva subito l’ambulanza, dobbiamo far nascere qui il tuo bambino…
- Serve una mano? – Il capitano Brumby entrò con quella sua solita faccia da schiaffi. Si avvicinò alla partoriente e le diede un buffetto sulla guancia.
- Ha pratica di ostetricia lei? – chiese timidamente Tiner – Mia nonna ha fatto nascere più di duemila bambini, ma lavorava in ospedale. Sa com’è, io non ho mai visto nulla.
“Nemmeno una donna” pensò sarcasticamente l’australiano.
- Vedi, caro ragazzo. In campagna, in Australia… ho assistito a molti parti. Una volta, in otto ore ne ho fatti nascere dieci. Anche uno con due teste – la Sims lo guardò con aria sconvolta -… malformazione più comune nelle pecore che negli umani però…
- Che schifo! – gridò Harriet, mentre una nuova, fortissima contrazione si faceva sentire – Aahhhhh!  
- Si accomodi fuori, pecoraio con i piedi al posto della testa! – gli intimò Harm.
- Sembra che tocchi a lei, capitano Rabb. Lei è l’unico qui che abbia visto nascere un bambino – osservò Tiner che aveva una voglia matta di scappare a nascondersi.
Era vero. Harm vide passare davanti ai suoi occhi, come in un lampo, la nascita di Julia. Ma non provò tristezza, sentì solo nascere in sé una grande energia. Lo slancio forte di aiutare la sua cara Harriet in quel passaggio così dolce e faticoso della sua esistenza. Proprio quello che avrebbe fatto Livia se fosse stata lì con loro.  
- Coraggio Harriet, vedo già la testa – disse il capitano – Il tuo bambino è biondo come te.
- Ma dove si è messo Bud? Aaahhh! – gridò la puerpera spazientita, non sapendo che suo marito era rimasto bloccato nell’ascensore e che ora ne stava scalando il vano per non perdersi la nascita del suo primogenito.
- Ma cosa sta succedendo qua? – chiese l’ammiraglio, che rientrava solo allora da una riunione al Pentagono. Tiner bofonchiò qualche parola sconnessa, poi se la diede a gambe.
- Se vuole, le cedo il comando… - propose Harm.
- No, capitano. Come comandante delle operazioni  se la sta cavando egregiamente – rispose AJ.
- Buud, dove sei? – gridò la Sims.
- Eccomi! – gridò il tenente Roberts entrando tutto trafelato e inginocchiandosi al capezzale della moglie.
- Una spinta più forte, Harriet! – fece Rabb.
- Non ce la faccio!
- E’ un ordine, tenente! – le intimò l’ammiraglio, stringendole con forza la mano.
Harm fece un cenno del capo a Bud. Era giunta l’ora di essere pratici. Il tenente Roberts appoggiò un asciugamano sulla spalla del suo amico e superiore. Il bambino stava uscendo. Harm lo prese e lo avvolse dolcemente, mentre guidava l’emozionatissimo papà nell’operazione del taglio del cordone. Poi accoccolò il piccolo in braccio alla neomamma.
- Harriet, ti presento AJ! – le disse, con un sorriso che gli arrivava a dir poco fino alle orecchie.
- Avete un bambino stupendo, complimenti ragazzi! – aggiunse commosso e soddisfatto il vecchio AJ.
- Benvenuto nel club! – disse Harm, elargendo un altro sorrisone e una pacca sulla spalla al neopadre.
Nello studio dell’ammiraglio, l’atmosfera era letteralmente euforica. Anche perché una nuova luce era ritornata a splendere. Sul volto del capitano Rabb era rispuntato il suo meraviglioso sorriso.
 
 
 
I paramedici spinsero verso l’ambulanza la barella con Harriet e il neonato.
- Aspettate! Quelli sono mia moglie e mio figlio! – gridò Bud uscendo goffamente di corsa dal JAG.
Sotto la verandina d’ingresso, Chegwidden e Rabb sorridevano divertiti e compiaciuti. L’ammiraglio ruppe per primo il silenzio.
- Capitano… - esordì e poi, con tono più lieve - Harm, accetti un consiglio paterno. Non si chiuda in se stesso. E non rinunci a vivere. Lei ha  un cuore troppo grande per passare il resto della sua vita da solo.

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Capitolo 17
*** Il ritorno ***


Dopo mesi sulla portaerei, Mac era rientrata in servizio al quartier generale del JAG. Sulla sua divisa grigio verde, spiccavano i nuovi gradi di colonnello. Harm non aveva ancora avuto occasione di farle i complimenti di persona e, soprattutto, di parlarle. Ora si sentiva molto più forte e sereno e anche il peso di quella loro notte  si era molto alleggerito in lui. Quel pomeriggio stesso ci sarebbe stato il battesimo di AJ Roberts e loro due, come amici più cari dei genitori, dovevano fare da padrino e madrina. Era proprio venuto il momento di pacificare i loro rapporti o, almeno, di provarci. Vedendola sola e intenta alla sua scrivania, diede un colpetto alla porta aperta per annunciarsi.
-Avanti! – disse lei senza nemmeno  alzare gli occhi dai documenti che stava leggendo.
-Complimenti, colonnello! Scusa  se non ne ho ancora avuto l’occasione.
A sentire la sua voce, Mac sentì un brivido lungo la schiena. Alzò gli occhi e gli rivolse un timido sorriso.
-Grazie!
Harm si avvicinò alla scrivania. Era molto più in forma dell’ultima volta che lo aveva visto ed aveva un’espressione del viso molto aperta e rilassata. Si era tagliato di nuovo i capelli corti come piacevano a lei. E continuava a farle volare la fantasia, come sulle ali dorate che lui portava sulla candida divisa estiva.
- Sai, Mac. Ho preso al piccolo AJ un trenino elettrico – disse per rompere il ghiaccio – anche se penso che per il momento ci giocherà Bud.
A questo punto sfoderò un sorriso molto luminoso. Quel sorriso a molte stelle che le faceva tremare le ginocchia. Per fortuna era seduta.
-Io gli regalo un carillon per la culla. Uno di quelli con le api e l’alveare.
-Un’ottima idea…
-Allora, ci vediamo oggi pomeriggio in chiesa.
-Certo. – Harm fece per congedarsi, ma poi cambiò idea e tornò sui suoi passi – Mac…
-Sì? – chiese lei con tono di voce che celava a fatica la speranza.
- Tra poche ore avremo un figlioccio in comune. È un impegno importante. Sarebbe bello se riuscissimo ad andare d’accordo, di nuovo.
-Sì – rispose Mac con un nodo alla gola.
- Amici? – chiese lui tendendole la mano
- Amici! – fece lei stringendogliela con calore. Era sempre meglio avere quell’uomo meraviglioso come amico, che non averlo per niente. 
 
 
 
 
Alcuni mesi dopo il ritorno di Mac, il capitano Brumby fu richiamato dalla sua Marina per gestire una complessa situazione a Timor Est. Harm ne fu molto sollevato, non solo perché tra lui e l’australiano proprio non ingranava, ma soprattutto per il fatto che la sua presenza aveva  un po’ sconvolto le tradizionali dinamiche del JAG. Con Bud si comportava come un amicone di lungo corso e anche Harriet stravedeva per lui, nonostante i suoi modi da duro e il suo ghigno spavaldo. Ma era Mac quella che più aveva subito il fascino di quel domatore di coccodrilli. Mic la assediava con battute piccanti e doppi sensi, la invitava spesso a pranzo e ancor più di frequente a cena. E lei sembrava stare al gioco con grande piacere.
- È stato bello lavorare insieme a lei – disse Harm congedandosi dal collega. Una frase di circostanza ipocrita fino al midollo.
- Dica pure che è più bello vedermi partire… - replicò il capitano della Reale Marina con la sua brutale schiettezza. Harm non replicò, ma si limitò a sorridere. – Ho la sensazione che ci rivedremo presto.
“Io mi auguro proprio di no” pensò Rabb. 

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Capitolo 18
*** Boomerang ***


-Papà, starai via tanto?  – chiese Julia, mentre suo padre le infilava un secondo maglione. A Washington la temperatura era polare e nevicava già da dieci giorni di fila. Harm non voleva che la sua bambina si buscasse un malanno.
- Spero di sbrigarmela presto, tesoretto bello. Non ho potuto dire di no: l’ammiraglio me l’ha ordinato.
Avrebbe fatto volentieri a meno di andare in Australia, sebbene là il clima fosse decisamente più piacevole. Il fatto che l’infausta profezia del capitano Brumby si fosse avverata – “Quello è come un boomerang”, pensava - lo irritava parecchio, ma l’ammiraglio era stato irremovibile. Ad occuparsi di quel caso controverso, l’omicidio di un marinaio americano avvenuto nel porto di Sydney nel 1972, dovevano essere proprio lui e il tenente Roberts.
-Ma è vero che dove vai ci sono i canguri?- La piccolina era piena di curiosità.
-Sì, amore. Come quelli del libro che guardavamo l’altra sera. Quando torno, te ne porto uno bellissimo di peluche.
- Io li voglio vedere davvero… portami con te, papà! – insistette Julia, attaccandosi ai galloni della manica.
- Ma io vado in una città. Lì non ci sono i canguri… E poi lo sai che non posso portarti! Starai da Harriet, non sei contenta?
- Uhm… Harriet è tanto buona, ma AJ è un maialino… -  La bambina mise su il broncio – E non gioca con me!
- È solo piccolo, Julia. Aspetta un po’ e vedrai quante ne combinerete, insieme!  
 
 
Appena messo piede a Sydney, la situazione si era rivelata più intricata che mai. Il presunto omicida, ritenuto dagli inquirenti il marinaio Jan Densmore, era in realtà il sottufficiale Kevin Lee, in forza al cacciatorpediniere Chicago, cioè la presunta vittima, che aveva scambiato la divisa e le piastrine con il morto e si era nascosto per ben ventotto anni sotto una terza, falsa identità. L’esame delle impronte digitali lo aveva confermato. E anche il corpo sepolto a Nashville risultava essere quello dell’australiano Densmore. Il quadro completamente ribaltato apriva una complessa questione giurisdizionale sul luogo di celebrazione del processo. Ma l’ammiraglio Chegwidden, sentito il presidente della Corte suprema australiana, aveva convenuto che fosse più semplice che la causa si discutesse in Australia. A Brumby sarebbe andata l’accusa, a Rabb la difesa. Harm non riusciva proprio a tollerarlo, ma doveva compiere il proprio dovere. Lee, anche se non era un omicida, era pur sempre un disertore della guerra del Vietnam. E lui provava disgusto per quell’uomo, al pensiero di Harmon Rabb sr, che invece, abbattuto nell’adempimento dei suoi doveri, aveva trovato la morte dopo una lunga prigionia. Ma forse era più il fatto che dall’altra parte ci fosse l’urticante capitano della Reale Marina a renderlo così inquieto sotto il cielo della calda estate australiana. Non solo non aveva smesso i suoi modi da duro con il ghigno sardonico e continuava a fare l’amicone con Bud, ma tra poco quello lì avrebbe avuto tutto l’agio di fare il galletto con la sua amica Mac. Il colonnello MacKenzie, infatti, si era offerta volontaria per accompagnare le spoglie di Densmore in Australia. Una buona scusa per scappare dalla morsa del gelo americano e crogiolarsi al sole – Harm lo sospettava – in compagnia del suo corteggiatore in braghe corte e calzettoni bianchi.
 
 
-Io non riesco proprio a capire da che parte stia la moglie di Lee.  – disse Harm commentando il caso, mentre si trovavano sul ponte del battello – In fondo, anche se parlano la stessa lingua, quale uomo è in grado di capire una donna?
-Ah, lo so che ti stai riferendo a me. – ribatté Mac con aria divertita – Vuoi sapere perché sono andata in spiaggia con Mic?
-Forse… - commentò lui laconico. Non riusciva proprio a digerire Brumby. E l’antipatia era ampiamente ricambiata. In quei giorni, complice anche la grande animosità creata dal confronto in aula, erano stati più volte sul punto di mettersi le mani addosso. Ma Bud, con il suo fare pacato e sensibile, facendo leva sull’amicizia che lo legava ad entrambi, aveva diplomaticamente evitato il peggio – Questa baia è bellissima… - aggiunse poi, cercando di stornare l’attenzione sullo spettacolo suggestivo della baia di Sydney, intensamente blu per cielo e mare che si confondevano insieme, accarezzati dalle luci della città.
-Sì, è fantastica… ma non cambiare argomento. È stato per via del topless?
-Perché, eri in topless? – Harm fece finta di non capire. Non gli andava di infilarsi in un vicolo cieco.
-Harmon Rabb, non sarai mica un bacchettone! – esclamò lei sgranando gli occhi per canzonarlo e stuzzicarlo insieme.
-Bacchettone io? Figuriamoci! – E con un sorriso ripensò a Livia, che sulla spiaggia dimenticava proprio a cosa servisse il reggiseno. E quando le era possibile, faceva addirittura a meno del costume – Per me ti puoi mettere come vuoi!
-Allora è stato perché l’ho fatto mentre ero in compagnia di Mic…
“Mac, perché non mi lasci un po’ in pace? Se ti piace quello zoticone, perché mi devi tormentare con queste domande cretine?” disse tra sé e  alzando il capo si accorse che stavano passando sotto il suggestivo Sydney Harbour Bridge. Pensò di deviare di nuovo la conversazione sulle bellezze paesaggistiche, per evitare di ritrovarsi intrappolato di nuovo in qualche imbarazzante cul de sac.
- Per Capodanno, su questo ponte hanno scritto “Eternità” – disse a titolo puramente informativo, rammentandosi di una notizia che aveva letto sul giornale.
 -   Ed è quanto dobbiamo aspettare noi? – disse Mac, avvicinandosi a lui e lanciandogli uno sguardo languido e supplichevole con i suoi grandi occhi scuri.
- Mac…
- Non siamo al JAG, non siamo neanche sullo stesso continente…
- Il luogo non cambia le cose.
- Molti uomini non sarebbero d’accordo con te.
- Lo so… il fatto è che non ce la faccio ancora.
- E’ una cosa che hai solo con me?
- No, è una faccenda più complicata. Un problema mio… sono ancora bloccato – disse Harm. Era meglio essere schietto fino in fondo. Di incomprensioni e problemi tra loro ce n’erano stati fin troppi. E lui non voleva guastare la loro amicizia che si stava rinsaldando di nuovo.
Mac lo guardò intensamente e sospirò. Ma nel profondo del suo cuore sapeva che da un uomo che continuava a portare la fede  non poteva aspettarsi troppo. Almeno, non ancora.
 
 
Ripartendo dall’Australia, Harm si era autoconvinto di non riuscire più a capire l’universo femminile. O forse, era proprio Mac che era venuta al mondo senza libretto per le istruzioni. Appena due sere prima, lei si era presentata al loro appuntamento a cena con un abbigliamento molto provocante e sul battello gli aveva fatto esplicitamente capire che lo voleva ancora. E ora, all’aeroporto, si sbaciucchiava con l’australiano e sfoggiava al dito un diamante di inequivocabile significato. “E’ alla mano destra, in segno d’amicizia” si era giustificata. Excusatio non petita, accusatio manifesta.

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Capitolo 19
*** Dall'Australia con amore ***


-Cosa si fa oggi? Il convegno del pettegolezzo? Oppure si è riunito il club dell’uncinetto? – esclamò Harm, entrando con un sorriso nell’area uffici del JAG.
Era come al solito in ritardo, ma nessuno sembrava fare caso a lui. Si avvicinò incuriosito alla scrivania del tenente Sims, doveva ferveva un intenso chiacchiericcio femminile: di sicuro Harriet aveva scoperto qualche notizia particolarmente sugosa e l’aveva appena condivisa con quel gineceo in divisa. Le allegre comari fecero largo, accogliendo nel crocchio il loro ufficiale preferito.
-Il colonnello si è fidanzata! – stava gridando Harriet con l’entusiasmo di una baccante invasata, mostrando a tutte quante la mano sinistra della sua migliore amica, al cui anulare brillava un bel diamantone.
Quello di Mic Brumby. Il sorriso del capitano Rabb si ridimensionò notevolmente.
- Complimenti – disse con tono neutro alla sua migliore amica – E ora, signore, tornate al lavoro! La ricreazione è finita. 
 

Dopo l’anello infilato al dito giusto, non tardò ad arrivare il fidanzato in carne ed ossa. Per lei aveva lasciato la Marina e l’Australia, entrando a far parte di uno studio legale privato a Washington. Questo gesto aveva convinto definitivamente Mac che quell’uomo facesse sul serio, con lei.
Una manciata di mesi e il matrimonio era alle porte. Tutti al JAG erano entusiasti e facevano a gara per scegliere i regali più belli dalla lista di nozze. Bud aveva addirittura accettato di buon grado di fare da testimone a Brumby. Solo Harm non si sentiva tanto in vena di festeggiare. Anzi, era proprio seccato e non sapeva perché. O meglio, ne era  fin troppo cosciente. La psicoterapia era finita, ma conservava intatta la  stima e la gratitudine per il capitano Parker. E una volta in cui era andato a salutarla, lei era riuscita a fargli ammettere dove stava realmente il suo cuore.

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Capitolo 20
*** Nessun rimpianto ***


LIVIA VANNUCCI RABB 1965-1998
 
Harm accarezzò la lapide in pietra grigia e staccò alcune foglie appassite dal piccolo roseto rosso. Davanti ai suoi occhi balenò il sorriso luminoso e a volte dolcemente beffardo di sua moglie. Sentì scendergli nel cuore nostalgia, ma anche dolcezza e gratitudine. Livia aveva preso per mano un ragazzo tormentato e superficiale e ne aveva fatto un uomo maturo e consapevole. Con il suo amore e anche con la sua morte. Gli aveva insegnato ad amare, nel senso pieno della parola.
-Ciao, Amore mio! – sussurrò con tenerezza.
Anche lui, come sua madre, poteva avere una seconda possibilità. Doveva solo evitare di essere così sciocco da farsela scappare. Mac stava per sposare l’ornitorinco. Quella sera Chegwidden avrebbe aperto la sua casa per una festa in onore dei due fidanzati. E lui sperava di trovare una occasione per parlarle. Un tentativo in extremis. Non era certo il tipo da struggersi dietro una donna sposata o, peggio ancora, da divenirne l’uomo di riserva.
 
 
Nella residenza dell’ammiraglio, l’atmosfera era molto animata. Bud era tirato a lucido, perché sapeva che in quella stessa serata avrebbe dovuto conferire a sua moglie i nuovi gradi. “Non esagerare con i vol au vent!” gli accennò Harm con un paterno sorriso di rimprovero. Tra Tiner e Galindez c’era la solita rivalità da galletti del pollaio JAG, soprattutto perché il tenebroso marine si era presentato in compagnia di una rossa dalle forme molto procaci. “Jason, sta’ in guardia! Se Victor è soprannominato Gunny, ci sarà un motivo!” pensò scherzando. L’augusto AJ era un perfetto anfitrione, cordiale e temperatamente solenne nel suo ruolo. Ma gli occhi di Harm non volevano più distrazioni e si misero a seguire senza pace la bellissima Mac, conturbante e irraggiungibile, come quella Marilyn dal vestitino svolazzante che teneva alla parete in Accademia. Ad un certo punto la vide uscire sul portico. Era quella l’occasione che tanto aspettava. Si congedò con una scusa da Mattoni, che cercava di impastoiarlo con i soliti discorsi di lavoro, e la raggiunse.
Mac era di spalle e stava armeggiando nella borsetta.
-Non avrai mica iniziato a fumare… – esordì lui con tono scherzoso.
Lei si girò di soprassalto, sentendo la sua voce così calda e allo stesso tempo serena.
-Il solito salutista. – rispose, cercando di mantenersi calma, anche se sentiva la pelle d'oca. Non certo per l’aria fredda di quella serata – No, non ti preoccupare. Ma perché ti è venuta un’idea così balzana?
-Il matrimonio è un passo importante. Può creare ansia e panico. Fossi in te non mi stupirei. Sai, io non immaginavo di trovarmi a festeggiare il tuo fidanzamento…  
-Cosa ti aspettavi, che rimanessi single a vita?
-Certo che no. Sono solo sorpreso per l’uomo che hai scelto.
Harm si sedette sulla panchina con un’aria rassegnata. Mac gli si mise accanto.
-Che cos’ha che non va Mic?
-Ha la sensibilità di un gorilla, ad esempio… – disse Harm con un sorriso.
-Ehi, un po’ di rispetto! Stai parlando dell’uomo con cui ho deciso di trascorrere il resto della vita.
-Se va bene a te, va bene anche a me.
-Mi sembra che tu non la pensi proprio così…
-Va bè, Brumby non è il massimo… ma il problema non è lui, è che hai fatto troppo in fretta.
-In fretta? Tu non ne hai mai voluto sapere di me… come quella sera sul traghetto a Sydney.
-Non era mica la crociera sul Titanic. Non finiva il mondo! – rispose lui alzandosi in piedi e allontanandosi di qualche passo.
-Perché ti sei tirato indietro? – chiese Mac avvicinandosi. Aveva avanzato una domanda così diretta perché lui le stava voltando le spalle.
- Lo sai che era complicato… un sacco di cose – fece Harm girandosi a guardarla dritta negli occhi.
-Avevi paura di una relazione tra colleghi? Il problema è che tu sei molto bravo a scappare… -
-Parla la buona… -  osservò lui con un dolce tono di rimprovero.
Il viso di Sarah si rabbuiò, al ricordo del male che gli aveva fatto. Harm le accarezzò con delicatezza la guancia con il dorso delle dita.
-Non ti preoccupare, Mac. Il passato è passato. Io mi sono perdonato e tu devi fare lo stesso.
Rimasero per alcuni istanti a guardarsi negli occhi, senza dire una parola. Lui si sentiva il cuore battere all’impazzata e sperava che anche quello di lei corresse alla stessa velocità. Per un secondo Mac ebbe la fugace impressione che lui volesse baciarla.
-Non stavo scappando, te lo assicuro. Dovevo ancora trovare un vero equilibrio nella mia vita. E anche la nostra amicizia doveva rinascere su basi solide. Ma tu ami davvero Mic?
Le rivolse questa domanda con un tono di supplica, accompagnando le parole con uno sguardo altrettanto eloquente. Lei si sentì spiazzata.
-E tu, amavi Livia quando l’hai sposata?
-Certo, da morire. Ma questo ora non c’entra.
-È meglio che torni dentro – disse per sottrarsi all’impasse. Lui la trattenne per un braccio.
-Lo ami?
-Non sono domande da fare.
-Mac…
-Cosa?
-Stai dimenticando la tua borsetta.
-Grazie… - disse lei. Le loro mani si sfiorarono per un attimo infinito – Devo tornare dentro, non vorrei che Mic si preoccupasse…
-Sì – osservò lui con rammarico – Ehi, ma è freddo – Si sfilò la giacca e gliela mise sulle spalle nude – Scusa.
-Non ti devi scusare.
-Ti ho fatto una domanda inopportuna.
-Che cosa vuoi che ci sia tra me e lui? Lo sto per sposare…
Harm sospirò profondamente, portandosi le mani al volto. Solo in quel momento lei notò che non portava più la fede.
   Perché non riesci a essere felice per me?
-Ma io lo sono. Non capisco solo perché ti sei buttata a pesce tra le sue braccia.
-Tu mi hai respinto…
-Ti avevo detto solo che non ero pronto.
-Fino a quando? – chiese lei con uno sguardo ansioso.
-Allora non lo sapevo. – rispose Harm con la voce un po’ tremante. Poi riprese più sicurezza – Sai, una volta Mic disse che al JAG eravamo tutti un po’ innamorati di te… se lo dicesse ora, non avrebbe del tutto torto.
-Sul fatto che anche l’ammiraglio è un po’ innamorato di me? Uhm… interessante– Mac la mise sullo scherzo per non tradire l’emozione profonda che la scuoteva tutta.
-No, sul fatto che c’è qualcuno che è innamorato di te – disse lui deglutendo.
-Chi? – lo interrogò lei, impaziente.
Harm non rispose, continuando a guardarla dritta negli occhi, con il pomo d’Adamo che gli andava su e giù per il tremore estatico.
-Chi? – insistette Mac, accostando il viso a quello di lui.
“Vuoi una dichiarazione in piena regola?” pensò Harm. Sfiorò dolcemente le labbra della donna di cui, a dispetto di tutto, si era profondamente innamorato. Lei non si sottrasse. Allora lui chiuse i suoi grandi occhi cerulei e la baciò con grande trasporto. Con quell’eloquenza che valeva più di mille parole.     

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Capitolo 21
*** Non temere, Sarah! ***


 -Julia! Ti ho detto mille volte di non andare ad aprire – disse Harm con tono preoccupato, correndo alla porta subito dietro di lei. Quella piccola peste era una gran curiosona e lui  temeva sempre che si cacciasse in qualche brutto guaio. La cronaca nera era piena di orribili notizie di bambini vittime di pedofili, rapiti da delinquenti senza scrupoli o uccisi e sepolti in qualche scantinato.
-Ma papà, è Mac – si giustificò con un sorriso la bambina, mostrando al padre l’ospite inattesa che stava sulla soglia. Aveva già compiuto i cinque anni e voleva fare la piccola padrona di casa.
-Mac, accomodati – disse Harm facendogli cenno con un sorriso.
-Vuoi vedere la mia nuova casetta delle bambole? – chiese Julia prendendola per mano – Me l’ha mandata nonno Virgilio dall’Italia.
-Ora non posso, cara. Devo parlare con il tuo papà. La guardiamo insieme un’altra volta, OK?
-Va bene – ammise la piccola mettendosi in punta di piedi per ricevere un bacino e allontanandosi poi soddisfatta, per darsi ai suoi giochi.
-Se n’è andato, Harm. O meglio, ha detto che vuole una pausa di riflessione… – esordì Mac sedendosi sul divano. Il suo migliore amico le prese la mano e la guardò intensamente – ma si sa bene cosa intendete voi uomini quando dite così. È finita.
-Sarà un po’ confuso. Forse si sarà reso conto anche lui di aver accelerato un po’ troppo le cose. Dai, tutto si aggiusta… - disse lui, mentendole spudoratamente. In cuor suo era felice della rottura. Voleva dire che il bacio sotto il portico dell’ammiraglio aveva sortito l’effetto desiderato.
Mac si avvicinò a lui, per abbandonarsi a un abbraccio. Harm la strinse forte, con mille emozioni che gli scoppiettavano in cuore. Fino a qualche tempo prima non avrebbe nemmeno immaginato di poterle provarle di nuovo, vicino a una donna. Era stato dopo quella serata sul traghetto a Sydney che i suoi occhi e il suo cuore avevano cominciato timidamente a riaprirsi. E proprio per lei.
Squillò il telefono. “Che seccatura!” pensò lui, smettendo a malincuore di accarezzare i capelli della sua amica. O meglio, di quella che in cuor suo desiderava che fosse la sua donna.
-Rabb… E’ per te – disse porgendo il telefono a Mac. “Per me?” fece lei con un’espressione di stupore.
Lo sapevo che ti avrei trovato lì. Sempre a farti consolare da quel bamboccio di Rabb. Ho chiuso con lo studio. Sto ripartendo per l’Australia. Mi hanno ripreso in Marina – la voce di Brumby era secca e irritata. La comunicazione si chiuse bruscamente.
-Devo andare. Vuole tornare in Australia. Lo devo raggiungere. Devo spiegargli. Lui non capisce quello che c’è tra noi – disse Mac.
-E tu, lo capisci? – le chiese lui guardandola fissa.
Lei si sentiva come disarmata davanti a quegli occhi, quindi scappò via senza rispondere.
-Papà, che cosa ha fatto Mac? Era tanto strana… - chiese la piccola, incuriosita dalla scena che si era appena svolta nel soggiorno di casa.
Julia era una bambina molto perspicace. Non era certo incredibile, visto chi erano i suoi genitori. Era sembrata tutta concentrata nella storia della famiglia delle sue bambole, ma in realtà aveva le orecchie ben appuntite per captare quello che stava succedendo nella sua famiglia.
-Nulla di che… Ha solo litigato con il fidanzato – rispose Harm per minimizzare.
-Bè, se questo qua non le va, perché non lo cambia? – propose candidamente la piccola.
“Cavolo, sto crescendo una libertina e non me ne sono mai accorto. Ed è mille volte più scaltrita di Harmon Rabb jr prima maniera”.       
-Ah sì… e perché dovrebbe cambiarlo? – fece il padre, stando al gioco. Voleva sentire se la sua piccola donna aveva la battuta pronta. Se da lui aveva ereditato il sorriso da seduttrice, da sua madre aveva preso la schiettezza e la lingua tagliente.
-Così se ne piglia uno più bello! – Julia era proprio soddisfatta della sua ingenua etica amorosa. Harm sgranò gli occhi. Ma il vero fulmine doveva ancora colpirlo – Te! – esclamò. E stampò un sonoro bacio in faccia al suo babbo. 
 
 
Mac era sconvolta. Era corsa all’aeroporto Dulles giusto in tempo per vedere Mic che partiva. L’aveva chiamato a gran voce, ma lui non si era neppure girato a salutarla per l’ultima volta.
E ora lei era a pezzi. Si era persino messo a piovere a dirotto e così era fradicia. Nella foga del momento non era riuscita a ritrovare subito l’auto nel parcheggio esterno del terminal. Aveva come perso l’orientamento e il senso del tempo. Guidava verso la città in lacrime, con la testa e il cuore confusi da un coacervo intricato di pensieri, emozioni, sensazioni. Non voleva tornare a casa, in quell’appartamentino dai colori caldi e dall’atmosfera tanto gelida.
 
 

-Così non rischierai di buscarti un brutto raffreddore – disse Harm avvolgendola in una calda coperta e porgendole una tazza di caffè bollente. Mac era comparsa sulla soglia all’improvviso, inzuppata come un pulcino indifeso, proprio mentre lui stava per andare a dormire – Mi dispiace per la tuta… lo so, è gigante! Ma ho pensato che i vestitini di Julia ti stessero ancora peggio… - soggiunse con un sorriso molto accattivante.
Anche lei sorrise. Harm le si sedette vicino e le accarezzò la testa, baciandola dolcemente sulla fronte.
-Non temere, Sarah – e abbracciandola pensò felice che presto l’anello di nonna Sarah sarebbe uscito di nuovo dal cassetto. 

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Capitolo 22
*** Amare è per sempre ***


Harm stava finendo di aiutare Julia a prepararsi per la scuola. Anche se ora c’era una donna in casa, continuava lo stesso a pettinare la sua bambina. Girò l’elastico per fissare la bella treccia castana. Morbida e lucente come quella di Livia.  
Appena pronta, lei prese il suo zainetto e  scese giù in cucina.
-Quando nasce il fratellino? – chiese mettendo la manina sul pancione della sua nuova mamma.
-Ancora un po’ e lo vedrai, tesoro – le rispose Sarah dandole un bacio sulla fronte.
I suoi occhietti azzurri brillarono di gioia, e nel suo sorriso si aprì una finestrella.
 
 
 
 
 
NdA: Grazie di cuore a chi ha seguito, letto e recensito il vorticoso divenire di questo AU / What if?. Grazie ai lettori silenziosi ed eloquenti, appassionati o critici,  presenti e futuri.   

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