Jay Hahn

di Bloomsbury
(/viewuser.php?uid=216725)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Shelter ***
Capitolo 2: *** People Help the People ***
Capitolo 3: *** Get Lucky ***
Capitolo 4: *** Youth ***
Capitolo 5: *** Green Light ***
Capitolo 6: *** Fly Me to the Moon ***
Capitolo 7: *** Delicate ***
Capitolo 8: *** I can't make you Love me ***
Capitolo 9: *** Limit to your Love ***
Capitolo 10: *** November Rain ***
Capitolo 11: *** A case of you ***
Capitolo 12: *** Hysteria ***
Capitolo 13: *** New Born ***
Capitolo 14: *** Retrograde ***
Capitolo 15: *** Lovesong ***
Capitolo 16: *** Enjoy the Ride ***
Capitolo 17: *** Where to go ***
Capitolo 18: *** The ground Beneath her Feet ***
Capitolo 19: *** Smokey Taboo ***
Capitolo 20: *** Teardrop ***
Capitolo 21: *** Sleep Paralysis ***
Capitolo 22: *** Paradise Circus ***
Capitolo 23: *** Overgrown ***
Capitolo 24: *** Hyperballad ***
Capitolo 25: *** Hearts A Mess ***
Capitolo 26: *** The Small Print ***
Capitolo 27: *** Lullaby ***
Capitolo 28: *** Final Masquerade ***
Capitolo 29: *** Volcano ***
Capitolo 30: *** Winter Prayers ***
Capitolo 31: *** Drawbar ***
Capitolo 32: *** Cheers Darlin' ***
Capitolo 33: *** You ***
Capitolo 34: *** House of the rising Sun ***
Capitolo 35: *** Together ***



Capitolo 1
*** Shelter ***


"I find shelter, in this way
Under cover, hide away
Can you hear, when I say?
I have never felt this way

Maybe I had said, something that was wrong..."
Shelter - The xx 



 
1. Shelter
 
Chiuse la porta di casa alle sue spalle, scontrandosi con il gelo del pomeriggio appena inoltrato.
Trovò rifugio nei propri segreti mischiandosi tra la folla di Londra; avvolto nel suo cappotto nero camminava incurante, sbattendo contro chiunque lo incrociasse. Gli occhi chiari si riempirono di lacrime, una morsa gli avvolse lo stomaco e la mente fino a dilaniargli la carne e le viscere. Provava dentro di sé un turbinio inarrestabile di rabbia e delusione; la prima per suo padre che gli aveva urlato in faccia mentre lui, a testa bassa, subiva le sue offese; la seconda per sua madre che era rimasta in silenzio, privandolo delle sue braccia amorevoli. Avrebbe voluto correre da lei, raggomitolarsi sulle sue gambe e piangere, per ricevere quelle agognate carezze che asciugano il pianto e guariscono l’anima, ma la sua mamma assisteva impassibile alla furia di suo marito, senza fiatare, senza posare gli occhi su suo figlio, neanche per un istante…
Stringeva i denti mentre le sue falcate diventavano sempre più ampie, trasformando il suo cammino in una disperata corsa.
Lontano da tutti.
Lontano dal mondo.
Avrebbe voluto fare un salto e tramutarsi in tante piccole gocce di pioggia, infrangersi e scomporsi per diventare parte del suo cadere. Lieve…
Le gambe iniziarono a cedergli, come se il dolore dell’anima le avesse private di ogni briciolo di energia; il passo si fece sempre più lento e leggero, fino a che si arrestò.
Sullo Strand la vita continuava a procedere incurante di ciò che gli stava accadendo: si sentì ancora più solo. Sapeva che nessuno, guardandolo, poteva immaginare il suo dolore, ma avrebbe voluto che esistesse anche solo una persona capace di accorgersi di lui.
Voltò il capo da destra a sinistra per trovare un posto dove andare ma quando i suoi occhi si posarono sull’altro lato della strada, la ricerca cessò: vide la facciata di una chiesa e si perse nell’osservare la grande finestra arcuata, indirizzando lo sguardo sull’alta torre campanaria mentre la pioggia impetuosa si scontrava con il suo viso.
Rapido, attraversò la strada e salì velocemente le scale per rifugiarsi sotto il protiro sorretto dalle colonne. Fermatosi davanti al portale in legno scuro, sbirciò timidamente dai vetri opachi e vide delle ombre solcare le luci tremolanti ed incerte delle candele. Non fu né la curiosità né l’istinto a portalo lì, ma solo una tiepida sensazione di fiducia. Varcò la soglia della chiesa dedicata alla Madonna e ne rimase colpito: la navata, illuminata dalle monofore e dal finestrone della controfacciata, appariva come un invito a rimanere e le vetrate policrome, nonostante il brutto tempo, riuscivano a risplendere, illuminando lo spazio circostante.
Avanzò adagio lungo tutto il percorso, esigendo dai suoi passi l’assoluto silenzio e l’acqua che aveva infradiciato le sue sneakers scivolò lentamente sul pavimento dando vita alle tracce imprecise del suo cammino. Con il naso all’insù esplorò lo spazio interno decorato in uno stravagante barocco; roteando lentamente su se stesso, come se stesse danzando, fissò con le labbra schiuse gli ottocenteschi lampadari in ottone sopra la sua testa, sorpreso dalla loro bellezza.
Il freddo lo intorpidì, tanto da fargli rimpiangere la temperatura esterna; nonostante ciò continuò a vagare in cerca di un calore diverso, ritrovandosi davanti all’abside nella quale era posto l’altare. Un incessante brusìo attirò la sua attenzione verso la navata laterale, dove scorse un confessionale in legno: vide una donna anziana accompagnare il tendaggio rosso cardinale con le mani, per poi alzarsi dall’inginocchiatoio; rimase immobile e silenzioso a fissare la tenda che ricopriva lo scomparto dove di solito siede il sacerdote, aspettando che egli uscisse.
Non c’era mai stata, fin dal principio, la convinzione di volersi confidare con qualcuno ma l’indugio del prete lo invitò ad avvicinarsi.
Procedette timoroso verso il posto dei penitenti contraendo il viso in una smorfia di dolore, aspettandosi un’altra delusione. Tuttavia, il desiderio di colmare il senso di desolazione fu più forte dell’insicurezza, così prese posto in ginocchio davanti la griglia di separazione, in attesa che il prete aprisse lo sportellino dal quale avrebbe ascoltato le sue confidenze più intime. Nel breve momento in cui l’esitazione stava per prendere il sopravvento, la mano del sacerdote, rugosa e macchiata dalla vecchiaia, rimosse l’unico ostacolo che si frapponeva tra le angosce di Jay e l’orecchio attento del ministro di Dio.
«Sia lodato Gesù Cristo» proruppe il prete. Jay rimase incastrato, non poteva più tirarsi indietro e, abbassando la testa, unì le mani in preghiera poggiandovi la fronte. «Sempre sia lodato.»
«Dimmi figliolo, confessami i tuoi peccati».
Jay strinse gli occhi, affondando il viso nelle mani: non si vergognava di se stesso, ma provava terrore per il rifiuto, non avrebbe retto un ulteriore abbandono, maggiormente da Dio.
«Mi perdoni padre, perché ho peccato.»
«Ti ascolto…»
«Oggi ho reso infelici i miei genitori» sibilò velocemente, togliendosi il peso più grande dal cuore.
«Gli hai mancato di rispetto?»
«Forse, non lo so. Per rispettare me stesso ho reso infelici loro.»
«Raccontami.»
«Io sono omosessuale, padre!».
Il sacerdote pose una mano sul proprio viso, per nascondersi da quella vergognosa confessione. Jay continuò a parlare intendendo quel gesto come un segno di dispiacere per lui: «Dopo anni di silenzi e di segreti, oggi, finalmente, ho confessato ai miei genitori la verità.»
«Come l’hanno presa?».
Un bagliore di speranza riaccese gli occhi del ragazzo: quella domanda pareva un segno tangibile di apertura; sentiva che sarebbe stato ascoltato. «Non bene. Sembra che abbiano dimenticato che sono comunque loro figlio.»
«Si tratta di un disordine grave!» tuonò il padre dal suo scomparto ignorando lo smarrimento del ragazzo che lo fissava cercando di cogliere la sua espressione. «L’omosessualità è un disturbo che deve essere curato con la preghiera e la conversione. Per guarire hai bisogno di compassione e di essere guidato sulla retta via».
Jay si sentì franare la terra sotto i piedi, come se l’inferno si fosse spalancato in una voragine che l’avrebbe inghiottito; non si aspettava delle felicitazioni, ma aveva ingenuamente sperato in una parola di conforto.
«Padre, che devo fare?» chiese affogando le lacrime nelle parole; sperava ancora di poter essere guidato senza necessariamente doversi sentire colpevole della sua natura.
«La castità è l’unica soluzione, quando sarai finalmente guarito potrai guardare negli occhi, senza vergogna, i tuoi poveri genitori e, prima cosa fra tutte, potrai non vergognarti agli occhi di Dio».
A Jay non importavano queste cose, non era quello il punto, non aveva mai fatto sesso con un uomo, avrebbe anche potuto rimanere casto a vita ma mai avrebbe tradito ciò che era, così rispose tra le lacrime e l’angoscia: «Io non mi sento un peccatore.»
«Il tuo è un peccato imperdonabile!» infierì il prete accostando ulteriormente il viso alla grata: «Non voglio additarti, le persone come te vanno trattate con misericordia, ma devo metterti in guardia figliolo: se tu vuoi continuare ad essere protetto da Gesù Cristo, nostro Signore, devi pentirti ed iniziare un cammino di preghiera».
Jay alzò gli occhi e in balia del tremore strinse nelle mani il velluto dal quale era ricoperto l’inginocchiatoio. Chiuse i pugni e sferrò un colpo, facendo trasalire il sacerdote. «No!» urlò roco tra le lacrime, ancora una volta l’avevano rifiutato facendolo sentire sbagliato.
Pensò, mentre colpiva ripetutamente la grata: se davvero fosse stato così sbagliato, Dio non l’avrebbe messo al mondo così com’era. Se nei bambini esiste Dio, come è scritto, c’era stato anche in lui quando, da piccolo, desiderava non essere mai nato in un corpo che non sentiva appartenergli.
Il sacerdote, spaventato, tentò di uscire dal confessionale, ma Jay lo precedette scappando via sconvolto e rabbioso.
Percorse la navata a passo spedito, raggiunto dalle urla del prete, ma un istinto irrefrenabile attirò la sua attenzione su una statua levigata in legno raffigurante Gesù della Misericordia.
Lo scrutò per pochi secondi negli occhi come se sperasse in una parola direttamente da lui. La statua non parlò, ma lo fissò con amore, quello tipico che traspare dagli occhi di quell’immagine, e sentendosi preso in giro dalla fissità di quello sguardo di legno finto e vuoto, varcò la soglia senza indugio.
Si ritrovò sulla strada allagata difronte la chiesa, disorientato e lacerato; il tempo era notevolmente peggiorato, tanto da non permettergli di vedere a pochi metri di distanza: sembrava ce l’avesse con lui. Pensò che Dio gli stesse ponendo davanti un avviso. La pioggia ed il vento apparivano impazziti tanto da ridurlo, in pochi secondi, in uno straccio bagnato senza riparo.
Voltò ancora la testa da destra a sinistra, non riusciva più ad orientarsi. Il vento lo feriva infliggendogli scudisciate violente sul volto e, ravvivandosi i capelli fradici, fece qualche passo verso il marciapiede, per allontanarsi dal centro dello Strand.
Non appena fu sul lato della strada osservò incredulo l’apocalisse che lo stava inghiottendo: le macchine accostavano inserendo le frecce d’emergenza e i passanti correvano impauriti contro il vento, per trovare riparo.
Rimase inerme sotto la pioggia, in balia della tempesta; le sue lacrime disperate si confusero tra le gocce perseveranti che gli cadevano sul volto e il suo lamento di sconforto si mescolò alle urla incessanti delle raffiche d’aria che tentavano di metterlo in ginocchio.
Era solo, avrebbe voluto che quella furia potesse ingoiarlo per permettergli di sparire dalla faccia della terra, così gridò al cielo parole sconnesse di rabbia e disperazione ma non appena vide crollare davanti a sé, piegato dalla collera del vento, un detrito indistinto estirpato da chissà quale ferraglia arrugginita, si sentì sollevare da terra: l’uomo che lo stava trascinando in salvo gli rivolgeva, contro vento, rimproveri non del tutto comprensibili e il ragazzo, stanco e snervato, si lasciò andare a quella presa, senza più lottare.

***
 
Il vento faceva tremare i vetri del bar nel quale lo sconosciuto l’aveva scaraventato senza troppa delicatezza. Pareva di assistere alla fine del mondo ma Jay non se ne preoccupò.
Camminò in mezzo alla gente che cercava un riparo dalle vetrate nel caso in cui fossero esplose e fissando i visi preoccupati dei suoi compagni di avventura si chiese perché Dio ce l’avesse anche con loro, in fondo, quell’ira sembrava riservata solo a lui.
Si sedette sul pavimento con la schiena al muro, aspettando pazientemente che tutto quel marasma finisse. Sembrava fosse l’unico a non avere paura e si raggomitolò pensoso poggiando i gomiti sulle ginocchia piegate, affondando il viso tra le braccia.
D’improvviso si ricordò dell’uomo che l’aveva salvato; non aveva memoria del suo volto, così alzò la testa sperando di scorgerlo ma fu impossibile, perché il tempo si calmò di colpo spingendo la gente ad alzarsi, ostacolandogli la visuale: pareva una folla di sopravvissuti ad un bombardamento; guardavano in alto, chi fuori dalla porta, chi poggiando il naso sulle vetrate, aspettando di constatare la loro effettiva salvezza.
In attesa che tutti sgomberassero la sala, Jay rimase fino alla fine seduto sul pavimento freddo per poi crollare su una sedia del locale che, dopo mezz’ora, ricominciò la sua attività, riempiendo l’ambiente della ridestante fragranza del caffè appena fatto. Terminate le sue deludenti ricerche, si tolse dalla mente l’idea di ringraziare il ragazzo che, seppur sgarbatamente, l’aveva salvato portandolo di peso nella caffetteria.
Stese le braccia lungo il tavolino quadrato in alluminio e, poggiandovi sopra la guancia, lasciò che i suoi occhi chiari vagassero nel locale.
Jay, con i suoi lineamenti delicati e bellissimi, sembrava un bambino abbandonato e, di fatto, lo era: considerato che, dopo quel trambusto, i suoi genitori non si erano neanche presi la briga di contattarlo per sapere dove fosse finito…
Di fatto, lo era.
Puntò lo sguardo sul menù plastificato incastrato sotto il suo braccio senza guardarlo veramente, e ricominciò a pensare, cosa che fino ad allora si era dimostrata deleteria. Vide impresso nella sua mente, come un marchio a fuoco, il viso del sacerdote che l’aveva scacciato dal paradiso dei redenti. Stranamente la cosa non gli sembrò più così dolorosa: quella tempesta l’aveva risvegliato dall’intorpidimento mentale, rendendolo capace di pensare senza interessarsi al giudizio altrui.
«Chi è senza peccato scagli la prima pietra!» bisbigliò tra sé e sé. Quelle, erano state le parole di Gesù Cristo in difesa di una prostituta.
Maria di Magdala aveva scelto di intraprendere il cammino della conversione; questo l’aveva resa degna del perdono del Signore?
Lui si era rifiutato di sentirsi un peccatore aggredendo il sacro luogo della confessione; era questo a renderlo immeritevole di grazia?
Alzò gli occhi richiamato dal televisore che passava il notiziario del pomeriggio: “È di sei feriti il bilancio di un lieve tornado a Londra. Violente raffiche di vento si sono abbattute sulla capitale inglese causando danni alle abitazioni e alle automobili parcheggiate in strada. Secondo i racconti di diversi testimoni, le raffiche, improvvise e violente, sono durate una manciata di secondi. Sul luogo sono intervenuti i servizi d'emergenza e al momento si sta procedendo alla verifica dei danni e delle situazioni più pericolose…”.
Posò nuovamente lo sguardo sul menù, spostando la sua attenzione su una macchia di cioccolato sopra il prezzo del frappè alla fragola e, rimuginando sulla notizia appena sentita, provò sollievo nel constatare che Dio, almeno per questa volta, non ce l’avesse avuta con lui.
Sorrise di se stesso, non aveva mai pensato a Dio, non se n’era mai curato; da ragazzino aveva anche avuto la certezza che non fosse mai esistito ma, nel momento del bisogno, aveva sentito la necessità di cercarlo. Visti i risultati, avrebbe fatto meglio a non cercarlo mai più.
Adesso, era veramente solo.
 
 

Spazio Autrice

Ciao a tutti!
La revisione di questa storia è appena cominciata, quindi, chi si troverà a leggerla avrà certamente la possibilità di godere di un capitolo scritto con le mani e non con i piedi :P

Bando alle ciance.
Ringrazio moltissimo tutte le persone che mi hanno seguito fino alla fine: Elsker, Aven, Ladywolf, Bijouttina, Julie, Ghost e Nahash.
Ringrazio Moloko, Oxymoros e tutti quelli che si stanno mettendo in pari. Probabilmente nessuno di loro rileggerà questa storia revisionata quindi li ringrazio due volte perché l’hanno amata nonostante gli errori ^_^
Grazie a WarHamster, Emide e tutti quelli che l’hanno seguita a pizzichi e bocconi.


Al prossimo capitolo!!!
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** People Help the People ***






 
"People help the people 
And if your homesick,
give me your hand and i'll hold it
"
People Help the People- Cherry Ghost 



 
2. People Help the People

 
Si trascinò svogliatamente verso casa, attraversando Kensington.
Era stanco e provato, aveva rimandato per tutto il giorno il suo inevitabile ritorno finché, a notte inoltrata, non poté fare a meno di accettare la realtà e farsi coraggio. Avrebbe affrontato le conseguenze, qualsiasi esse fossero. Si fermò davanti ad una casa vittoriana dai mattoni rossi – la sua – e sbirciò dalle finestre a mezza forma esagonale sperando di scorgere lo stato d’animo di chi vi abitava. Il silenzio, rotto solo dall’abbaiare dei cani in lontananza, lo tranquillizzò – anche solo per la consapevolezza di poter rimandare l’incontro con i suoi all’indomani – e si avvicinò alla porta dopo aver salito i pochi gradini che lo separavano dall’entrata; puntò velocemente gli occhi sul piccolo vaso in terracotta che era solito custodire le chiavi di casa, ma dovette scontrarsi con la cocente delusione di non trovarvi nulla.
Rimase immobile, con la mano ancora a contatto con la maniglia gelida, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel vaso vuoto che diventò una prova lampante: la sua famiglia aveva scelto di abbandonarlo definitivamente.
Se avesse avuto le forze avrebbe reagito, si sarebbe arrabbiato per via del disgusto, invece mise il broncio come solo i bambini riescono a fare. L’orgoglio, però, prese il sopravvento lottando nel suo petto: il bambino che era stato fino a quel momento doveva crescere nonostante non si sentisse ancora pronto.
Essere stato un figlio amato, vezzeggiato e curato aveva giocato un ruolo fondamentale per la sua crescita e capì che da solo non valeva niente. La sicurezza che aveva provato tra le braccia dei suoi genitori non era stata altro che una gentile concessione – mutevole e non definitiva – elargita solo a determinate condizioni, le quali Jay non aveva nessuna intenzione di rispettare, non a dispetto della sua dignità.
I suoi occhi rimasero aridi, aveva pianto troppo per quel giorno e quasi sentiva di non avere più lacrime, ma il senso di abbandono lo incatenò al pianto del cuore, che è ancora più doloroso ed inesauribile.
Sconfitto, ritornò sui suoi passi e dopo aver disceso la piccola ma faticosa scalinata si voltò ancora verso casa. La osservò attentamente spostando il ciuffo corvino dagli occhi con un piccolo ma energico movimento della testa e in quell’istante disse addio alla sua famiglia, ai suoi ricordi: scelse se stesso.
Si sentiva calmo, probabilmente era stato lo sfinimento a privarlo dell’adrenalina accumulata durante la giornata, ma ancora non poteva permettersi di cedere, doveva trovare una soluzione al problema, non avrebbe potuto dormire in strada.
Si diresse qualche metro più in là e si fermò, dopo aver svoltato l’angolo, davanti ad una villetta a schiera simile alla sua; anche questa sembrava disabitata.
Controllò l’ora sul display del cellulare e si accorse che era davvero troppo tardi per bussare, ma non esitò a chiamare l’unica persona che avrebbe potuto aiutarlo.
Attese la risposta con il cellulare stretto nella mano – era stato vittima di tanti di quei rifiuti che, irrazionalmente, si ripresentò la paura di doverne subire ancora.
Mordicchiò nervosamente il labbro inferiore per trattenere le lacrime, ma la voce dell’amico dall’altro capo del telefono ridisegnò una nuova espressione sul suo volto, cancellando il pianto che stava per rivelarsi.
«Jay, è successo qualcosa?».
Sospirò sollevato e sorrise per rassicurarlo: «Sto bene, ma ho un piccolo problema.»
«Cosa?».
Titubò per un istante, stropicciò i capelli e con essi gli occhi ormai gonfi dalla stanchezza e rispose con una risatina imbarazzata, scrollando le spalle: «Mia madre e mio padre mi hanno cacciato di casa e adesso… sono qui».
Silenzio, fruscio.
Jay rimase in ascolto dell’assenza senza avere la forza di reagire e proprio mentre stava per perdere le speranze alzò lo sguardo sulla porta e vide le iridi nere di Chaz – che si era catapultato fuori tempestivamente – illuminarsi per l’attesa.
Casa: fu questa la sensazione che lo avvolse vedendolo lì, difronte a lui, con il viso preoccupato di chi non sa cosa aspettarsi.
Rispose al sorriso con tenerezza e senza interrompere il filo diretto degli sguardi scattò al primo cenno, salendo le scale. Raggiunse la porta ed entrò, lasciandosi alle spalle la strada desolata alla quale aveva confidato ogni angoscia.
Casa di Chaz era come tutte quelle di ogni famiglia bene di Kensington – come era anche quella di Jay – e provò repulsione per quella bella finzione impacchettata a dovere.
Mentre saliva le scale seguendo l’amico che gli apriva la strada verso la sua stanza, analizzava il proprio stato d’animo: non sentiva più dolore o tristezza, era disgustato.
La sua famiglia l’aveva sempre presentato agli estranei come un bravo ragazzo, un buon figlio ed uno studente modello; cosa era cambiato? Il fatto di essere omosessuale lo rendeva così diverso?
Sarebbe stato inutile pensarci ancora; non li avrebbe mai capiti.
Entrarono nella stanza del ragazzo che, appena chiusa la porta, assicurandosi di non aver svegliato nessuno, si sedette sul letto guardando Jay in piedi davanti a sé: «Perché ti hanno sbattuto fuori?» la sua espressione era incredula, tanto che Jay riuscì a trovare il lato buffo della questione. Ridacchiò, – un po’ per nascondere la delusione, un po’ per sdrammatizzare – e rispose slacciandosi le scarpe, cercando di apparire sereno, come fosse tutto normale: «Ieri ho confessato e i miei genitori, come vedi, non l’hanno presa troppo bene».
Preso alla sprovvista, non mosse un muscolo. L’amico, con quella notizia, l’aveva gelato sul posto ma prima che egli potesse continuare il racconto, Chaz chiese balbettante: «Ma… come ti è saltato in mente?»
«Ero stanco di nascondermi» confessò serafico. Davanti a tale determinazione, l’altro non poté replicare. «Semplicemente, mi andava» concluse Jay scrollando le spalle, semplificando la cosa come se non gli importasse delle conseguenze.

***
 
Chaz voleva bene a Jay, anzi ne era innamorato. L’aveva conosciuto da bambino tramite i genitori, ma solo dopo qualche anno erano riusciti ad instaurare un buon rapporto.
Da bambino, Jay pensava di essere l’unico a provare curiosità per i ragazzi nel raggio di chilometri; avrebbe voluto parlarne con qualcuno, togliersi un peso, chiarire dei dubbi e ricevere risposte a delle domande che sentiva di non poter sbrogliare da solo, ma più si guardava intorno più si sentiva isolato e diverso.
Vedeva i suoi amici crescere ed interessarsi all’universo femminile, mentre lui, indagando nel proprio cuore, sentiva di fare la cosa opposta. Con loro era solito fingere quando, ad ogni fine allenamento, sbirciavano le ragazze intente a cambiarsi nei bagni della palestra. Jay stava indietro, mentre gli altri facevano a turno per rubare un fugace scorcio dei corpi femminili ancora non totalmente sviluppati, e aspettava pazientemente che quella farsa finisse. Prendeva posto in un angolo, seduto sul pavimento, desiderando di ritornare presto nella sua stanza e poter smettere di fingere.
Nell’intimità della sua camera era tutto più facile: navigava su internet senza avere un’idea precisa, sbirciava le foto dei suoi compagni di corso negli account di facebook trovando nei corpi seminudi messi in posa dei suoi coetanei il desiderio che era costretto a celare nella sua intimità.
Non poteva fare altro.
Così giunsero i suoi quattordici anni.
Fingeva di essere ciò che non era così bene da convincere tutti della sua eterosessualità.
Passeggiava con i suoi compagni dopo la scuola, assumendo la posa dello sbruffoncello in cerca di avventure e nel frattempo, poco per volta, costruiva intorno al cuore una fortezza fatta di omissioni e di incertezze costringendovi dentro la sua vera identità, presentando al mondo un ragazzo che non esisteva, una figura fittizia generata dall’incessante esigenza di soddisfare le richieste di chi non era a conoscenza dei suoi segreti.
Gli amici lo portavano ovunque con loro, perché Jay era come il miele per le api; tutte le ragazzine gli si avvicinavano per attaccare bottone, rapite dal viso perfetto e dagli occhi chiari che con immensa disinvoltura riuscivano a catturare qualsiasi attenzione. Non era difficile per lui abbordarle, sapeva con cosa stupirle, conosceva cosa poteva piacere ad una ragazza perché le stesse cose, inevitabilmente, conquistavano anche lui.
Stavano seduti al solito bar a chiacchierare sulla loro vita, sugli allenamenti, sulla scuola, e Jay ascoltava senza poter replicare a cuore aperto; raccontava bugie da tempo immemore, tuttavia la paura di perdere tutto quello che era riuscito a costruire negli anni era troppo più forte della stanchezza.
Chaz, al contrario, anziché raccontare frottole preferiva stare solo, senza concedersi la possibilità di fare amicizia con qualcuno. La solitudine cessò presto perché un giorno, in quello stesso bar, i suoi occhi si incontrarono con quelli di Jay che, con i gomiti poggiati sul tavolo, lo fissava con interesse.
Si guardarono per minuti e minuti, riconoscendosi, assaporandosi.
L’uno sapeva chi fosse l’altro, ma entrambi scoprirono solo in quel momento di condividere qualcosa. Jay lo scrutava pensoso e quando si accorse che il ragazzo difronte a lui ricambiava, sorrise abbassando la testa nel tentativo di nascondersi dagli altri, stringendo gli occhi che si arricciarono in un’espressione irresistibile intanto che il destinatario di quel sorriso scopriva quanto per quello stesso avrebbe sempre vissuto.
Da allora cominciarono a frequentarsi. Jay non finse più nonostante non volesse gettare in pasto al mondo i suoi fatti personali e nell’amico trovò il suo sfogo, la sua spalla, l’unico detentore dei suoi segreti. In tal senso si usarono entrambi e a forza di usarsi si scoprirono amici e Chaz, a furia di volergli bene, imparò ad amarlo in segreto.

***
 
Jay rimase in boxer e infilandosi sotto le lenzuola poté finalmente godere del calore che tanto aveva desiderato per tutto il giorno.
Chaz, che gli aveva fatto spazio accanto a sé, stava di fianco, fissando gli occhi persi nel vuoto del suo più caro amico. Avrebbe voluto dirgli qualcosa di sensato per confortarlo, ma non sapeva davvero cosa: ogni parola sarebbe stata superflua, ormai.
Quale parola può consolare un diciassettenne abbandonato dalla propria famiglia?
Così stette in silenzio, osservando le lunghe ciglia di Jay impigliarsi al ciuffo ribelle che perseverava nel rigargli il volto; scrutò la sua espressione: era triste ma piena di dignità. Sentiva di non poter fare niente di diverso da ciò che già stava facendo e stringendosi a lui lasciò che la sua pelle lo sfiorasse. Si guardarono, si intuirono ed infine si nascosero completamente sotto le lenzuola –come usavano fare spesso da quando si erano conosciuti – e accarezzandosi con dolcezza schiusero i loro segreti in quell’improvvisato rifugio, ricacciando il mondo all’esterno.
Jay sorrise brevemente, ammirando gli occhi scuri di Chaz – l’unico sguardo benevolo al quale poteva appigliarsi – ma ripensando alla difficile giornata che l’aveva calpestato, spostò l’attenzione sul cuscino lasciando che i suoi pensieri scivolassero tra i due corpi stretti.
«Jay, non pensarci più» sussurrò catturando nuovamente l’interesse del ragazzo che con un sorriso disilluso rispose bisbigliando, mentre il pianto minacciava di rompergli la voce in gola; il crollo pareva avvicinarsi. «È difficile non pensarci.»
«Lo so, lo so».
Lo cinse tra le braccia, baciandolo con dolcezza sulle labbra e per la prima volta sembrava Jay quello più fragile dei due – cosa che lo destabilizzò non poco. Il ragazzo, affondando le labbra nel petto dell’unica persona che aveva scelto di proteggerlo, sussurrò stringendosi a lui: «Grazie, Chaz.»
«Non si dice “grazie” a chi ti vuole bene».
Jay non rispose subito, ma inspirò profondamente per scrollarsi di dosso tutto il peso di quella triste giornata: «Sto bene» dichiarò debolmente, chiudendo gli occhi.
Chaz sapeva che era una bugia, eppure contraddirlo non sarebbe servito a niente. Avrebbe voluto essere la brezza fresca dopo la tempesta, quella che con un lieve soffio porta via ogni residuo di stanchezza e di affanno, ma sapeva che una brezza non sarebbe bastata a togliere il macigno che costringeva il cuore di Jay al dolore.
Un soffio sarebbe stato vano, serviva un'altra tempesta, e al momento non era ancora a conoscenza dell’esistenza di quel qualcuno che avrebbe saputo generarla.
 
 
 
 
Spazio autrice.
Secondo capitolo revisionato.
Colgo l’occasione di questo nuovo spazio autrice (revisionato anche questo :P) per ringraziare tutti quelli che mi hanno seguito fin dall’inizio: Elsker, LadyWolf, Bijouttina e Aven. In più ringrazio Julie che è stata l’ultima ad iniziare e la prima a finire :P e Nahash che mi ha fatto un  bellissimo regalo leggendo Jay tutto di filato in pochissimi giorni (forse tre O_O)
Grazie a tutti quelli che l’hanno letta prima della revisione e grazie a quelli che la stanno leggendo adesso. Il capitolo non è cambiato nella sua essenza, ma l’ho sistemato un po’, snellendolo considerevolmente, direi.
Se doveste trovare refusi mi scuso, vi giuro che ho fatto del mio meglio >_< Se mi è sfuggito ancora qualcosa chiedo venia.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Get Lucky ***





Jay terzo revisione
"And I might get lucky now and then
You win some, you might get lucky now and then
You win some"

Get Lucky- Mark Knopfler


3. Get Lucky



La luce del mattino, filtrando dalle piccole fessure delle persiane semiaperte, illuminava debolmente la stanza e i contorni indefiniti dei corpi di Chaz e Jay abbandonati nel sonno. Il primo aprì gli occhi e schiarendosi la visuale che a poco a poco diventò nitida poté vedere la schiena magra e pallida del ragazzo affianco che godeva delle ultime ore di sonno dandogli le spalle.
Sorrise, avrebbe voluto accarezzarlo o abbracciarlo, ma sapeva che non sarebbe stato il momento adatto: Jay non era lì per averlo come amante, ma solo come amico; perciò
a malincuore abbandonò l’idea di approfittare di quel momento e indossò nuovamente i panni che tanto sentiva stargli stretti.
Si mosse adagio cercando di non svegliarlo, sollevò le lenzuola per accompagnare i movimenti del corpo avvicinandosi dolcemente a quello di Jay e, infine, puntò lo sguardo oltre lui per scorgere l’ora: le cinque del mattino
troppo presto per alzarsi e troppo tardi per lasciarsi ingannare ancora dal sonno. Decise di godere di quegli ultimi istanti in silenzio.
Fissando il soffitto poté trovare lo sfondo adatto a svincolare i propri pensieri che, scontrandosi con l’odore di Jay intensificato dal calore della notte passata, prendevano sempre più i connotati del desiderio che avrebbe dovuto contrastare; non cullare né incoraggiare, ma solo seppellire. Non era quello il momento di crucciarsi per se stesso, ma il profumo che svelava la sensuale freschezza della pelle bianca e priva di imperfezioni di Jay destò le proprie consapevolezze che già da tempo fluttuavano su un filo instabile pieno di contraddizioni: Lui era nel suo letto, e nonostante lo desiderasse più di ogni altra cosa non era la voglia insoddisfatta a turbarlo, ma la sempre più viva certezza di non poter stargli vicino come avrebbe voluto davvero. Sapere che non sarebbero bastati i suoi baci o le sue carezze a consolarlo, era il peso più grande da sopportare
in silenzio. Immaginava che, presto o tardi, un altro uomo avrebbe richiesto le attenzioni che aveva segretamente cercato per sé: probabilmente non l'avrebbe mai tollerato, pertanto era giunto il momento di decidere cosa fare dei propri sentimenti e alla svelta.
Decise di non pensarci per il momento, d’altronde, tormentarsi prima del dovuto non avrebbe fatto altro che alimentare paure e dubbi, così cedette alla tentazione di abbracciarlo, tenendolo più stretto che poteva nella speranza che non si svegliasse così presto.
Fin dall'inizio si erano confessati i loro più profondi segreti, avevano condiviso qualsiasi cosa abbattendo le barriere psicologiche e fisiche: Chaz e Jay non avevano paura del contatto fisico, avevano imparato ad apprezzare
insieme la bellezza di due corpi maschili stretti l’uno all’altro; tuttavia non erano mai andati troppo oltre sebbene la curiosità di vedere e toccare per la prima volta il corpo di un uomo li avesse avvicinati più del dovuto. Ciononostante erano sempre stati pienamente consapevoli del fatto che quelle carezze non avrebbero dovuto minare in alcun modo la natura del loro rapporto. Jay dimostrò fedeltà a quel proposito, non desiderando mai nulla di più che non fosse la mera soddisfazione delle proprie curiosità, mentre Chaz non fu mai in grado di rispettare appieno l’idea iniziale: aveva riservatamente goduto delle carezze di Jay, desiderandone ancora, ancora e ancora…
Ormai erano cresciuti, erano entrambi alle porte della maggiore età, quindi - malgrado non avessero mai vissuto alcuna esperienza più approfondita - la curiosità svanì lentamente lasciando il posto alla più profonda confidenza che li univa in abbracci intensi e spontanei ma, allo stesso tempo, casti e privi di secondi fini.
Jay si mosse, intrappolato tra le braccia dell'amico: l’incosciente sonno lo stava abbandonando. Ci metteva sempre un po’ a svegliarsi e Chaz rise tra sé e sé, sapeva che avrebbe assistito ad un lungo scontro senza esclusione di colpi tra la pigrizia e il sonno che minacciava di abbandonarlo definitivamente; il ragazzo stabilì che assistere a quello spettacolo sarebbe stato deleterio - l’istinto gli avrebbe suggerito di approfittarne - così fece per alzarsi dal letto ma la mano di Jay gli serrò il polso, costringendolo ad arrestarsi: «Dove vai?» la sua voce era rotta in gola. Il dispiacere, alimentato dai sogni confusi e cupi, ancora non l’aveva totalmente abbandonato. Chaz provò compassione per la sua inaspettata fragilità: Jay era sempre stato un ragazzo enormemente sensibile, ma concreto, in grado di far coabitare - pacificamente - la forza e la delicata emotività che lo rendevano deliziosamente mutevole ma del tutto stabile ed equilibrato. I contrasti della sua essenza, i conflitti e gli ostacoli avevano forgiato una tempra salda e dura da scalfire, ma stavolta il colpo sembrava devastante.
Chaz amava la complessità di Jay, anche perché aveva imparato a conoscerla e a comprenderla. Capirlo non era mai stato difficile: in quel momento stava chiedendo disperatamente di non essere lasciato solo. «Volevo prepararti il caffè». Jay sorrise e gli fece cenno con la testa di rimettersi a letto: «È presto, stai ancora un po’ qui». Poggiò la fronte sulla spalla di Chaz che rimase immobile; quei pochi minuti di silenzio gli diedero il coraggio di affrontare il discorso: «Cosa hai intenzione di fare, Jay?»
«Riguardo a cosa?» chiese con gli occhi chiusi per non lasciare andare gli ultimi momenti di rilassatezza.
«Con i tuoi genitori. Non potrai scappare per sempre, dovrai affrontare il problema, prima o poi.»
«Lo avrei affrontato se mi avessero lasciato le chiavi di casa fuori dalla porta» disse con un pizzico di ironia. Alzò la testa per guardare Chaz negli occhi: «Io non scappo mai! Affronto sempre i problemi».
Si accorse di avergli imputato un comportamento che non era solito avere, effettivamente non era mai scappato, forse aveva omesso per quieto vivere, ma non era mai stata una sua prerogativa battere in ritirata davanti ad un problema.
«Hai ragione. Voglio solo sapere come hai intenzione di comportarti».
Jay si sedette sul letto poggiando un piede per terra, fissò un punto imprecisato davanti a sé e, arruffandosi i capelli come a voler far uscire a forza una buona idea dalla testa, rispose certo delle sue intenzioni: «Andrò al college per ritirare i risultati dell’esame e se l’avrò passato dovrò necessariamente tornare a casa per affrontare il discorso sul mio futuro. Questo sarà il pretesto per affrontare l’argomento. Appena avrò la parola, gliene dirò tante che saranno costretti a reggersi il culo con entrambe le mani».
Chaz rise, ritrovando con grande sollievo lo spirito battagliero di Jay.
L’avevano umiliato, scacciato e piegato, ma non erano riusciti a spezzarlo.
«Bravo!» esclamò Chaz con orgoglio e soddisfazione, voleva vederlo reagire.

***

Strinse il foglio nelle mani mentre i suoi occhi carezzavano il risultato dei suoi sforzi.
Aveva studiato con impegno - anche se non proprio duramente - ma aveva sperato che andasse esattamente come poté appurare venerando il risultato scritto rosso su bianco. Il voto di quel test avrebbe potuto scrivere la storia del suo futuro. Trovarsi una A sul test dell’A- Level era esattamente ciò che gli serviva per spianarsi la strada verso l’University College di Londra. «Sì!» gioì senza fare rumore. L’entusiasmo per un voto non poteva essere sbandierato ai quattro venti, anche perché, quello, era solo l’inizio di un lungo percorso che sarebbe stato sempre più faticoso: questo era quello che gli aveva insegnato suo padre. Così, mosso da un sentimento incontrollabile di ribellione nei suoi confronti, cominciò a urlare, facendo rimbombare la voce nel cortile del college. Saltava col pugno in aria come un frivolo bimbetto: lasciarsi andare all’entusiasmo non era poi così male.
«Hahn, deduco che quella sia una A» proruppe un suo collega indicando il foglio che Jay aveva nelle mani, interrompendo la sua prima e spontanea manifestazione di gioia.
«Gary! Si, lo è» rispose arrestando la sua danza: «Come è andata a te?».
Il ragazzo davanti a lui alzò gli occhi al cielo e con leggerezza, come se non fosse successo nulla di particolarmente grave, ammise candidamente: «L’ho consegnato in bianco!»
Jay rimase basito davanti alla naturalezza con la quale gli aveva spiattellato in faccia la propria sconfitta, pensò che, forse, la vita doveva essere presa proprio così: con leggerezza.
«Sono contento che tu l’abbia presa così bene» tentò di nascondere il foglio dietro la schiena, voleva evitare di ostentare i propri successi davanti ad un ragazzo che, invece, aveva fallito. «Sì, non me ne frega niente, ti dirò… sono quasi contento! Mi annoia fare sempre il perfettino». Quell’affermazione aveva tutti i connotati di una frecciata e la conferma fu lo sguardo con il quale Gary lo scrutava: sembrava quasi disgustato. Lo guardava dall’alto in basso e Jay, non sapendo cosa dire, sorrise, dicendo la prima cosa che la sua mente riuscì ad acciuffare a caso: «Essere perfettino non fa parte di te, quindi sei perfetto così come sei…».
Non sapeva se quelle parole avrebbero alleggerito l’atmosfera, ma fu l’unica cosa sincera che sentiva di poter dire senza risultare costruito: credeva davvero in ciò che aveva appena detto.
Di tutta risposta, Gary alzò ancora gli occhi al cielo, nauseato dall’ingenuo tentativo del suo interlocutore di accorciare le distanze. «Hahn, corri dai tuoi genitori, non perdere tempo con me. Saranno sicuramente fieri di te, come sempre». Si voltò, incamminandosi verso l’interno della struttura.
Jay seguì con gli occhi il cammino di Gary e il disgusto per se stesso fu tale da fargli digrignare i denti. Si chiese perché non riusciva ad arrabbiarsi, a reagire. Sebbene fosse infastidito dal comportamento di Gary, sentiva di non essere in grado di prendersela davvero con lui. Provava pietà per se stesso e per la sua incapacità di ribellarsi a ciò che non digeriva. Sentiva di essersi rammollito e tutto per colpa di quel dannato giorno in cui aveva deciso di mettersi contro suo padre.
Era stanco di lottare per farsi accettare da tutti per ciò che era, eppure doveva fare l’ultimo sforzo.
Era giunto il momento di informare i suoi genitori.
Sperò che quel risultato potesse appianare le divergenze, ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato così facile.
Uscì dal college con l’intento di tornare a casa, ma i suoi piedi si opposero, portandolo altrove.
Teneva il foglio stretto nelle mani, accartocciato su se stesso; non era più così importante, anzi era diventato solo lo specchio dei suoi pensieri: esisteva, ed era una cosa per cui essere felici, ma sarebbe potuto diventare presto un pezzo di carta straccia. Tutto dipendeva dai suoi genitori, ormai.
Cominciò a piovigginare.
Alzò gli occhi verso il cielo permettendo alle gocce di bagnargli il viso, le nuvole grigie formavano un tetto così fitto da non far scorgere neanche il più piccolo raggio di luce; sorrise col viso rivolto in alto, lasciandosi cullare, chiudendo gli occhi. Si fermò e respirò adagio, così da consentire ai polmoni di riempirsi completamente dell’aria pastosa tipica di Londra, assaporò con la lingua le gocce che gli avevano adornato le labbra e niente sembrò più così importante.
Ormai era solo, questo lo sapeva già, ma sentiva forte la sua stessa presenza.
Essere vivo, con i piedi ben piantati per terra, erano le uniche cose che gli importavano veramente; capì che era inutile affannarsi tanto, lui non era solo, aveva se stesso, consapevole del fatto che solo le scelte prese con coraggio e convinzione possono portare alla felicità più sublime.
Ricominciò a camminare e gli occhi verdi persero il loro colore, assorbendo le sfumature cupe del cielo sopra di sé. Si ritrovò nuovamente sullo Strand senza rendersene neanche conto e non appena rivide la facciata della chiesa si rivolse ad essa con rabbia: «Ancora tu, fottuta chiesa». La fissò per pochi istanti e investito da un flashback si ricordò che se solo avesse spostato lo sguardo sulla sua sinistra avrebbe potuto scorgere la salvezza. Così si voltò, ritrovando il contatto visivo con l'entrata del bar che il giorno prima l’aveva salvato e consolato.
Sorrise alla porta con dolcezza - come se si trattasse di un vecchio amico - e, cambiando direzione, si avviò verso l’entrata.
Quel bar l’aveva guarito, custodito e confortato, così arrivò alla conclusione che quel luogo, anziché la chiesa, poteva essere la sua Terra Santa, la via d’uscita da quello che sembrava un gioco al massacro tra lui e i suoi genitori.
Tra lui e Dio.
Tra lui e il mondo stesso.
Vi entrò colmo di speranza, trovandosi davanti il tipico spaccato di vita dei bar quasi dimenticati, ma non del tutto abbandonati. La fila di tavoli, disposti ordinatamente, creavano un passaggio immaginario tra l’ingresso e il fondo del locale - lo stesso che aveva occupato il giorno prima, aspettando la fine della tempesta.
Spostò gli occhi sulla sua destra, scorgendo dietro il bancone un ragazzo che, con una smorfia annoiata, riempiva di frappè le lunghe coppe di vetro. Le ragazze del personale dispensavano sorrisi ai pochi clienti affezionati, girando come mosche impazzite intorno ai tavoli, servendo pancakes e coppe gelato extralarge.
Un jukebox annoiato riempiva il locale della calda voce di Elle Fitzgerald deliziando i presenti e con le luci ammiccanti
che minacciavano puntualmente di spegnersi per sempre si imponeva con la sua illogica danza, annunciando la sua imminente morte ed il meritato congedo. Eppure, nonostante la decadenza e la scarsa cura, il locale continuava ad accogliere le poche anime che l’avevano scelto come unico bar di fiducia.
Jay si indirizzò al tavolo che aveva sorretto i propri tormenti il giorno prima e si accomodò. Si accorse di avere ancora nelle mani quel foglio e costringendosi a non guardarlo ancora lo ripose nella tasca dei jeans, cercando di non pensare più a quello che avrebbe dovuto fare di lì a poco.
Fece una panoramica generale del posto e sentì una strana sensazione: quella di essere a casa.
Il solito profumo inebriante di caffè invase il locale, facendogli desiderare ardentemente di averne una tazza tra le mani il prima possibile e, dopo poco, si avvicinò a lui una ragazza: «Ciao!»
«Ciao!»
«Cosa vuoi che ti porti?» squittì allegramente. Aveva uno sguardo dolce e rassicurante, - lo stesso che avrebbe voluto vedere negli occhi di sua madre, la stessa espressione che gli aveva negato nel momento più difficile della sua vita- scosse la testa con l’intenzione di mandare via quei pensieri e, sorridendo, rispose sfregandosi le mani: «Per adesso è prioritario, per me, bere un caffè fortissimo.»
«Bevi per dimenticare?» gli chiese scherzosamente, scribacchiando qualcosa sul block notes e Jay, poggiando i gomiti sul tavolo, accogliendo il viso tra le mani, rispose imbronciato: «Non sarebbe una cattiva idea ma… no! Bevo per darmi una svegliata».
La ragazza, inaspettatamente, gli porse la mano: «Elizabeth, puoi chiamarmi Lizzie».
Si presentò a sua volta con pacato entusiasmo: «Hahn, Jay Hahn». Lizzie rise inspiegabilmente, stuzzicando la curiosità del suo interlocutore: «Cos’è che ti fa ridere tanto?»
«Ma niente, scusa… cioè, mi fa ridere il tuo modo di presentarti, un po’ alla James Bond, e il tuo nome mi ricorda una canzone ridicolissima delle Pussycat Dolls. La conosci?»
«No!» Jay lasciò che le dita gli si insinuassero tra i capelli neri, usava ricorrere a quel gesto per togliersi dall’imbarazzo: un’abitudine irrefrenabile.
La ragazza si allontanò precisando che non c’era nulla di sbagliato nella sua presentazione e, appuntando l’ordinazione, si congedò ammiccando.
Jay seguì l’ondeggiare generoso dei fianchi di Lizzie, ma non appena lei sparì, i suoi occhi rimasero impigliati ad una presenza magnetica seduta due tavoli più lontano.
Lo sguardo fu fatale, perché Jay non aveva mai visto occhi così eloquenti.
Il ragazzo, adagiato coi gomiti sul tavolo, giocherellava con i resti abbandonati di un involucro di carta - umile sudario di una cannuccia - e sorrideva impercettibilmente, così poco da non darlo a vedere chiaramente, ma abbastanza da fargli arricciare leggermente gli occhi. Jay non riuscì a rispondere diversamente a quel contatto visivo complice e divertito, infatti si lasciò paralizzare senza tanti complimenti. Pensò che lui avesse origliato la buffa conversazione avvenuta con Lizzie, in caso contrario non si sarebbe mai spiegato quel sorriso d'intesa - quasi connivente.
Lo sconosciuto aveva la barba incolta ma ben curata 
anche da quella distanza, Jay riuscì ad immaginarne la morbidezza tra le mani. Tutto di quel ragazzo lo incuriosiva, soprattutto il colore dei suoi capelli: bianchi. La scelta stilistica sembrava un po’ azzardata, ma sicuramente faceva il suo effetto: barba incolta e scura, capelli candidi. A guardarlo meglio non c'era solo stravaganza in lui, sembrava racchiudesse in sé mondi insondabili. Sebbene la sensazione che trasmetteva fosse pregna di innumerevoli misteri, non c'era ambiguità in lui, anzi pareva così chiaro e trasparente da risultare familiare. Appariva come un eccentrico saggio sulla cima di una montagna dove nessuno avrebbe mai potuto disturbarlo: era in pace, inarrivabile ma vicino, strano ma rassicurante, affascinante ma genuino, bianco, nero ma anche grigio, poteva essere tutto e il contrario di tutto ed il turbinio inarrestabile di accezioni con le quali Jay cercava disperatamente di decifrarlo, stranamente, non suscitava alcun imbarazzo o confusione, anzi, infondeva totale calma. Di solito ciò che è criptico spaventa, stavolta rasserenava.
Abbassò gli occhi interrompendo il contatto visivo con Jay 
che, però, non riuscì a smettere di scrutarlo, chiedendosi come potesse essere possibile una cosa del genere: desiderare ardentemente un totale sconosciuto e si alzò, imponendo la propria presenza nel locale. Si avvicinò alla cassa estraendo dai jeans il portafogli senza smettere di indirizzare lo sguardo sul ragazzo che seguitava a fissarlo con aria imbambolata, scambiò due parole con il cassiere e prese l’uscita senza voltarsi.
Jay rimase inerme, come un perfetto cretino dopo un discorso troppo intelligente. Era convinto di aver visto sul suo viso, mentre usciva, un sorrisetto compiaciuto e si sentì stupido. Credeva di aver assistito ad un’apparizione celestiale, avrebbe voluto correre fuori e fermarlo, ma si sarebbe ridicolizzato.
Quel ragazzo 
che forse non avrebbe mai più rivisto l’aveva trafitto da parte a parte, il cuore non era più nel petto, era in gola e batteva così forte da fargli scoppiare la testa.
Finalmente riuscì a staccare gli occhi dalla porta e giocherellando nervosamente con le dita guardò ancora quel posto lasciato vacante. Quel tavolo, però, era ancora pieno del suo ricordo che, con incredibile prepotenza, pulsava nella mente di Jay.



Spazio autrice.
Terzo capitolo revisionato. Grazie a tutti quelli che hanno inserito la storia nelle Seguite/preferite/ricordate e a tutti quelli che mi hanno seguito fino alla fine. Alla prossima.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Youth ***






  quarto capitolo revisionato
"Young man control in your hand
Slam your fist on the table and make your demand
Take a stand fan a fire for the flame of the youth
Got the freedom to choose
You better make the right move
"

Youth- Matisyahu






4. Youth


Il passo spedito di Jay imprimeva le orme dei suoi pensieri sull’asfalto, una nuova euforia avvolgeva i suoi piedi, spingendolo ad avanzare senza arrestarsi un attimo.
Quel gioco di sguardi avvenuto con quel tipo strano al bar lo aveva incoraggiato e chissà per quale motivo, d’improvviso, ebbe l’impellenza di confrontarsi con suo padre. Più di qualsiasi cosa lo muoveva il suo rinnovato coraggio pescato dal fondo dello stomaco che ormai, stanco del dolore, aveva scelto di mutare l’oppressione in risolutezza. Non voleva più essere una vittima, odiava vestire i panni del martire. Aveva desiderato con ogni cellula del suo corpo quel ragazzo e già questo confermava ancora la natura che avrebbe dovuto sfoggiare con fierezza, senza più nascondersi o averne paura.
Chaz, seduto in cima agli scalini dell’ingresso esterno di casa sua, si beava dell’unica giornata serena che il cielo aveva concesso, rollandosi una sigaretta in pieno relax. Dopo aver leccato la superficie liscia della cartina ed essersi assicurato che la colla avesse aderito bene, alzò gli occhi e vide Jay dirigersi frettoloso verso casa. Intrappolò la sigaretta spenta tra le labbra e dopo aver richiamato la sua attenzione sorrise, incuriosito dall’espressione furente dell’amico. Jay non si voltò 
aveva altre priorità  non avrebbe permesso a niente e a nessuno di ritardare quell’incontro e rispondendo distrattamente continuò a camminare come fosse un caterpillar pronto a tutto. «Sono di fretta. Non posso. Ci vediamo dopo.»
Chaz non insistette, preferì assecondarlo, ma osservò la figura gracile e coraggiosa del suo amico più caro allontanarsi.
Posò i suoi grandi e luminosi occhi neri sull’orizzonte, quantificando mentalmente la strada che Jay stava percorrendo, contando i secondi che dividevano il ragazzo che amava dall’incontro inevitabile che glielo avrebbe restituito o a brandelli o vittorioso.
L’esito era incerto, ma la certezza che invece dimorava nel cuore di Chaz era una ed una soltanto: in qualsiasi condizione ne fosse uscito, lui ci sarebbe stato.

***

Superò l’ostacolo che il giorno prima non gli aveva permesso di tornare a casa: spalancò la porta d’ingresso e fece rumore, deciso ad imporre la sua presenza.
Ignorò qualsiasi dettaglio per non distrarsi da ciò che doveva fare ed entrando nel salotto riccamente arredato vide suo padre con il viso affondato nel giornale.
Piantò i piedi sul pavimento, con le gambe divaricate, per assorbire da quella stabilità la sicurezza che in quel momento gli serviva più di qualsiasi altra cosa e guardando con risolutezza la figura incurante di suo padre parlò senza lasciar trasparire alcuna incertezza: «Ho passato il test. Ho preso una A».
Continuò a leggere imperterrito, come se l’avvento di suo figlio fosse un elemento di disturbo da ignorare.
«È ora che io e te parliamo, papà. Da uomo a uomo…»
«Considerando ciò che hai confessato ieri, dire “da uomo a uomo”, è una presa in giro».
Jay strinse gli occhi incassando il colpo
 proseguire per poi arrivare fino in fondo era diventata un’urgenza oltre che una questione di orgoglio  così, senza lasciarsi piegare dalle facili ironie con le quali il padre aveva chiaramente intenzione di affrontare il discorso, continuò: «Papà, dobbiamo parlare del mio futuro, che ti piaccia o no.»
«Non credo di volerlo fare…»
«Adesso!» Il respiro di Jay si fece sempre più affannato, tanto da costringerlo a ruggire l’ultimo avverbio che avrebbe dovuto risvegliare il padre dall’indifferenza, ma non fu così: proseguì con ciò che stava già facendo, ignorando quello che fino a pochi giorni fa era il figlio del quale essere orgoglioso.
Jay sentiva di camminare in bilico sul filo del rasoio: dalle parole di quell’uomo dipendeva il suo destino; così scelse le sue con più attenzione, sperando di fare meno danni possibile. «Papà, credo che tu, a prescindere da ciò che pensi di me, dovresti ponderare bene quello che fai
» esitò per un istante.  «Scacciare tuo figlio non ti fa onore, né agli occhi miei né a quelli di chi ti conosce. Dimostrami che sei diverso da quello che credo». Di sorpresa scostò il giornale svelando tutta la collera e la delusione che vivificavano il suo volto.
I lineamenti marcati, normalmente addolciti dall’espressione bonaria del suo essere, erano diventati più duri del solito e la manifestazione di disappunto prese forma trasformandogli il viso in una maschera rigida priva di emozioni.
Jay si sentì morire al cospetto di quegli occhi. Non era più suo padre, lo sentiva, ormai era diventato un perfetto estraneo e di certo non uno dei più amichevoli.
«Tu parli di quello che potrebbe pensare di me la gente, tu credi di poter venire qui ed insegnarmi come ci si comporta? Sei un ragazzino viziato e senza spina dorsale, prenditi la responsabilità delle tue azioni, non puoi nasconderti ancora dietro le mie spalle…»
«Proprio perché non voglio farlo sono qui adesso, davanti a te. Non voglio giustificarmi, non lo sto neanche facendo, sto solo dicendo che mi sembra assurdo il tuo comportamento
». Si fermò d'improvviso e cercando di riprendere le fila del discorso che sentiva sfuggirgli dalla mani, non poté frenare la disperazione e l'incredulità che prese forma in una supplica lasciata in sospeso: «Papà, sono tuo figlio…»
«Mio figlio è morto il giorno stesso in cui ha tradito la natura che gli ho donato con orgoglio.»
«La natura che mi hai donato è quella che ti ho confessato…»
«È una natura che mi fa ribrezzo» urlò quelle parole con una forza tale da far indietreggiare Jay. Lo sdegno era così palpabile da poterlo mettere in ginocchio con un solo soffio, eppure lottò per non cedere, nonostante il cuore avesse vacillato.
Si sentiva sanguinare da ogni singolo organo che lo teneva in vita, avrebbe voluto piangere, ma lasciò che gli occhi serrati fermassero le lacrime che avevano appena inondato il suo sguardo. Si morse il labbro inferiore per darsi il coraggio necessario a trattenere tutto il dolore nel petto ed il padre, notando quell’impercettibile cambiamento, infierì ancora: «Vedi? Ti comporti come una donnetta. Parlare da uomo a uomo non è così facile. Vedi lacrime nei miei occhi? Io sono un uomo, sono forte, non sono come te».
Jay non si vergognava delle sue lacrime né tanto meno pensava che piangere non fosse abbastanza virile, così lasciò che cadessero, mostrando con orgoglio i segni del suo malessere senza più nasconderle. «Se pensi che le lacrime siano segno di debolezza, sei un debole tu per primo. Non piango perché mi maltratti, piango perché sono disgustato da te e dal tuo comportamento…» finì la frase accrescendo la rabbia nel tono della sua voce che, però, venne sepolta da uno scatto d'ira del suo interlocutore: «Come osi?» Lo schiaffo arrivò così inaspettato che Jay non fece in tempo a difendersi. Si ritrovò chino sul pavimento senza riuscire più a pensare. Confuso, atterrito, umiliato.
Il dolore di quello schiaffo fu così forte da lasciarlo paralizzato sul pavimento. Non sentiva più i pensieri scivolargli nella mente, ma percepiva distintamente il bruciore acuto che aveva pervaso la sua guancia.
«George, ma cosa diavolo sta succedendo?»
Apparse alla porta sua madre che non appena vide il figlio accasciato sul pavimento si arrestò, astenendosi dal soccorrerlo. I suoi occhi erano sconcertati, tuttavia non intervenne. «Scusate, vi lascio continuare…» fece per andarsene ma la sua attenzione fu catturata dal richiamo disperato di Jay.
Non l’aveva chiamata, le sue labbra non avevano emesso alcun suono, aveva solo teso leggermente la mano in sua direzione. Emma l’aveva percepito, aveva sentito il suo stesso sangue appellarsi a lei.
Quella di Jay era una richiesta di aiuto: aveva sempre potuto contare su sua madre, l’aveva sempre protetto, anche nei momenti più duri e sperava potesse essere ancora così.
La madre vide gli occhi chiari e supplicanti di suo figlio tra le ciocche scomposte dei capelli neri che, intrisi di lacrime, gli nascondevano parzialmente il volto. Quel pezzo di laguna verde le chiedeva aiuto in silenzio, disperatamente. Si rivolse a lei con così tanta angoscia da diventare assordante, quasi insostenibile, tanto che Emma non ne poté più. Non rispose al richiamo, voltò lo sguardo altrove lasciando la stanza senza proferire parola.
Lo aveva abbandonato, rifiutato definitivamente, ormai era chiaro e l’evidenza di quel fatto squarciò irrimediabilmente il cuore di Jay, condannandolo a un pianto inconsolabile e rassegnato. Si alzò lentamente e a fatica fissando il vuoto con gli occhi inanimati e spenti, avvertendo un peso greve e soffocante sulle spalle; asciugò gli occhi con le maniche della maglia ed un lamento involontario e sconsolato uscì dalle sue labbra, provocando una risatina di scherno di George che, sistemati i polsini della camicia, si avviò alla poltrona che l’aveva visto scattare rabbioso verso suo figlio.
Jay si mise dritto, cercando di conservare quel minimo di dignità che gli restava. Voleva chiudere il discorso sebbene volesse, più di tutto, scappare.
Con gli occhi fissi sul pavimento articolò le parole lentamente, senza più fingere di non provare dolore: «Cosa avete intenzione di fare con me?»
«L’unica cosa che ti darò, d’ora in poi, è un tetto sulla testa. Potrai tornare a casa, ma dimentica l’università, dimentica i privilegi che i miei soldi ti hanno assicurato fino ad oggi. Tu, ormai, non fai più parte di questa famiglia, dovrai cavartela da solo…»
«È già qualcosa.» lo interruppe, pronunciando quelle parole a fior di labbra.
Sentiva il freddo intrappolargli le vene, gli unici impulsi che gli suggerivano di essere ancora in vita erano i brividi che, ormai, avevano sopraffatto ogni recesso del suo corpo. Passò la lingua tra le labbra avvertendo il sapore metallico e rugginoso del sangue, gettò un altro fugace sguardo al padre che, nel frattempo, aveva ricominciato a leggere e si avviò verso la porta d’ingresso.
Prima di uscire scorse sua madre in cucina: pareva triste o, forse, cercava solo di crederlo; così decise di farsi bastare i tentativi che aveva appena sfoderato a vuoto, mise la mano sulla maniglia ed un flash veloce gli ricordò gli occhi di quel ragazzo che tanto l’avevano incoraggiato.
Si sentì uno stupido.
Come avrebbe potuto sperare di riuscire a vincere la delusione facendosi sostenere dallo sguardo di uno sconosciuto?

***

Camminò in direzione di Chaz che lo stava aspettando accovacciato sul ciglio della strada 
vederlo lì, in attesa di notizie, lo rincuorò. Lo fissò con gli occhi colmi di gratitudine percorrendo il tratto di strada sempre più speditamente: lui era l’unico a cui importasse realmente qualcosa.
L’amico sorrideva guardandolo avvicinarsi, ma l’espressione mutò velocemente non appena vide il viso di Jay sempre più vicino, più chiaro, sempre più leggibile. Si alzò e spalancando le braccia chiese a bassa voce 
sebbene conoscesse già la risposta: «Non è andata bene, vero?»
Jay lo raggiunse senza proferire parola e si perse nel suo abbraccio, cercando forza e conforto. Chaz lo strinse più forte che poteva, sperando di potergli placare i singhiozzi: «Ci sono io. Andiamo a casa mia, dai!»
Staccandosi improvvisamente si sforzò di sorridere, si asciugò ancora le lacrime. «Sto bene e ho anche una buona notizia per te, Chaz: non dormirò più nel tuo letto
». Nel tentativo di celare il suo reale stato d’animo rise forzatamente, non convincendo il ragazzo difronte che rispose al sorriso con amarezza. Conoscendo i genitori di Jay, non si aspettava di certo un candido: “bentornato a casa, figliolo”; ma neanche ciò che aveva davanti agli occhi. Scrutò il suo viso con attenzione volendo percepire lo stato d’animo racchiuso all’ interno dei segni lasciati sul viso, lo prese per mano per trascinarlo a casa ma l'altro non glielo permise. Si rese gelido e irremovibile.
«Che c’è, Jay?»
Seguirono istanti di silenzio in bilico tra l’incertezza ed il terrore di perderlo. In quel momento di instabile quiete, la coscienza di non poter essere all’altezza della situazione schiacciò il cuore di Chaz in una morsa fatale, inducendolo a chiedersi se sarebbe mai stato capace di proteggerlo. Temeva di non esserne in grado. Lo strattonò con dolcezza per risvegliarlo, per non dargli il tempo di far ristagnare il dolore troppo a lungo, ma il ragazzo reagì al tocco arretrando.
«Che ti prende?» chiese con dolcezza e Jay, guardandolo con furore, rispose urlando: «Sono- incazzato- nero!!!» ruggì quelle parole con tutta la rabbia che aveva in corpo, stringendo i pugni tanto da farsi male. Chaz trasalì e guardandosi intorno chiese scusa ai passanti che si erano voltati spaventati.
«Cazzo, Jay. Datti una calmata!»
«Col cazzo che mi do una calmata». Intraprese un cammino insensato, serrando i denti, inseguito da Chaz che non sapeva dove stesse andando né che intenzioni avesse, perciò sarebbe stato impossibile lasciarlo solo.
Riuscì ad affiancarlo e seguendo il ritmo del suo passo lo supplicò guardandolo in faccia: «Ho capito che sei sconvolto, ma non puoi metterti a fare il pazzo in mezzo alla strada.»
«Lasciami stare, Chaz, per favore. Sono troppo incazzato per mantenere il contegno. Guardate gente…
» urlò pericolosamente spalancando le braccia, presentandosi al mondo con rabbioso sarcasmo «Sono il figlio fallito di George Hahn, l’uomo distinto che abita alla fine della strada, e sono fro…». Chaz gli tappò la bocca prima che potesse continuare con lo spettacolo e guardando oltre si augurò di scorgere almeno un’anima che non si fosse accorta di lui. «La vuoi piantare con questa scenata? Sembri un bambino viziato».
Jay si divincolò dalla presa ponendosi di fronte a lui. «Cos’è? Anche tu ti vergogni?»
«No, cioè, dico solo che un eterosessuale non si mette a gridare: "sono un eterosessuale", come adesso stai facendo tu…»
«Giri di parole! Solo schifosissimi ed inutili giri di parole per non dire che hai paura, che ti vergogni di dire liberamente chi sei. Nessuno ti costringe a farlo ma a me... lascia fare quello che cazzo voglio».
Chaz, lasciandosi cadere le braccia lungo il corpo, rispose cercando di ridimensionare i toni: «Ok, Jay! Va bene. Capisco che tu non voglia razionalizzare, ma ormai è andata così, è inutile che ti incazzi. Non accusare me solo perché sei furioso con i tuoi. Ti sei preso la responsabilità delle tue azioni e del tuo essere, questo va più che bene, ma non puoi pretendere la stessa cosa da chi, come me, non ha voglia di buttare in pasto alla gente i propri fatti personali. La pensavi così anche tu fino a qualche tempo fa».
Jay proseguì sulla strada fermandosi di tanto in tanto, confondendo ancora di più Chaz che nel tentativo di stargli a passo si ritrovava continuamente sballottato dalla furibonda energia dell'amico sempre più adirato.
«Sai da quando non la penso più così? Da quando ho visto le uniche persone di cui mi fidavo voltarmi le spalle. Il silenzio accresce la paura e l’insoddisfazione» interruppe l’illogico percorso sedendosi su un muretto in mattoni collocato alla fine della strada. «Chaz, l’omertà porta le persone a snaturarsi, come ho fatto io, come hai fatto tu. Abbiamo passato gli anni più belli della nostra adolescenza a nasconderci e per cosa, cazzo? Per cosa? Per compiacere gli altri. E noi? Di noi se ne fregano e mentre noi ci sforziamo a rinnegare il nostro stesso essere loro si vantano della specialità dei loro figli. Ipocriti, falsi e bigotti. Babbei. Sempliciotti, omini boriosi pieni di prosopopea e merda in corpo».
Chaz fissò muto il viso di Jay senza più controbattere, non poteva più farlo: malgrado la rabbia sembrava fin troppo lucido, come non lo era mai stato e sapeva che in fondo aveva più che ragione, tuttavia non se la sentiva di sputtanarsi così come stava facendo l'altro: desiderava vivere tranquillamente, come aveva fatto fino ad allora.
Jay lo guardò ancora irritato 
non ce l’aveva affatto con lui, ma la voglia di scappare da quell’ipocrisia era troppo forte  così, senza più attendere risposte, scese dal muretto con un salto e cominciò a correre.
Chaz rimase imbambolato seguendo con gli occhi sconfortati la corsa di Jay e gli chiese tra sé e sé, corrucciando le sopracciglia, a bassa voce, quasi con tenerezza: «Ma perché? Perché corri sempre, Jay? Sempre a correre. Non ti stanchi mai».
Lo osservò dissolversi all’orizzonte e sorrise con dolcezza. Sarebbe tornato, lo sapeva. Frenò l’istinto di seguirlo, lo lasciò andare, consapevole del fatto che tutto, tra loro, sarebbe ritornato come al solito.
Le luci dei lampioni sulla strada si accesero accompagnando Jay verso un orizzonte cremisi ricco di possibilità.
Come le luci sulla strada, il suo cuore si riaccese di speranza e si sentì come se la sua anima si fosse liberata di un piccolo mucchietto di detriti gettati con noncuranza da chi più aveva amato. Corse controvento gustandosi l’aria fresca e leggera della sera, godendo di quella leggerezza d’animo inaspettata. Respirò a pieni polmoni e capì ciò che doveva fare: avrebbe rimosso pezzo per pezzo ogni peso dal suo cuore. Poco per volta, senza pretendere troppo. Avrebbe contato su di sé e sarebbe andato avanti. Sarebbe stato lui “la tempesta”.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Green Light ***






Capitolo 5
"Gatsby believed in the green light, the orgastic future
that year by year recedes before us. It eluded us then, but
that’s no matter – tomorrow we will run faster, stretch out
our arms farther… And one fine morning.
So we beat on, boats against the current, borne back
ceaselessly into the past."

Gatsby Believed in the Green Light - Craig Armstrong & Tobey Maguire







5. Green Light


«Quindi, tuo padre è un barrister?» chiese Lizzie sistemando i tovaglioli nei dispenser posizionati sul bancone, mentre Jay – adagiato su un tavolino con l’aria imbronciata – giocava con la cannuccia disfacendo gli ultimi residui di frappè lasciati nella coppa. «Sì, è un barrister della Gray’s Inn. Per questo è un grandissimo rompi coglioni!»
«Jay, hai la faccia da angioletto ma a volte ti lasci andare ad un linguaggio che non ti si addice proprio… mio caro figlio di un barrister!».Al ragazzo suonò come un’offesa quel “caro figlio di un barrister”, ma preferì non dare forma a quell’impressione. Alzò lo sguardo e tutto ciò che vide fu il tepore di un luogo non suo, ma che si rivelava in tutto il suo accogliente calore. L’ora tarda conferiva al locale un aspetto meno allegro, ma certamente più intimo. Sorrise nel sentire di essersi lasciato alle spalle un piccolo peso. Il bar sembrava differente nel suo aspetto o, forse, erano stati i suoi occhi a cambiare: ciò che prima sembravano tavolini afflitti sui quali piangere adesso parevano piccole isole pronte ad accogliere sorrisi, magari nuovi incontri. Osservò ogni particolare ed estese lo sguardo sul jukebox sfiancato dai troppi anni di servizio. «Non sarebbe ora di comprarne uno nuovo?».
Lizzie lo fissò stupita – sapeva che si stava riferendo al jukebox – e con finto sdegno lo rimproverò: «Trovo che sia un gesto riprovevole sbarazzarsi delle cose inutilizzabili che sono care al nostro cuore e, ancora peggio, se dimostrano di essere perfettamente in grado di adempiere ai propri doveri nonostante tutto. Ora, mio caro Hahn, Jay Hahn, scegli una canzone e balliamo!»
«Ma no…» protrasse quella “O” per tutto il tragitto fino al jukebox lasciandosi trascinare da una Lizzie decisa a dimostrargli l’incerta funzionalità di quel gracchiante dispensatore di musica e di intrattenimento del dopoguerra. Jay, trovandosi davanti agli occhi il gettone offertogli, rispose all’invito rassegnato, cedendo al volere della ragazza. Sbuffò stancamente per un istante e afferrò la moneta. «E va bene! Un lento, Miss?» Lizzie non nascose neanche per un istante l’entusiasmo e poggiando la testa sulla sua spalla dichiarò con tono seducente le sue reali intenzioni: «Certo che sì! Come potremmo stare stretti senza un lento?». Il giovane sorrise, lasciandosi trascinare dal neanche troppo velato corteggiamento.
«Direi: La vie en rose?» Lizzie si accostò languida per leggere il titolo che l'altro stava indicando con il dito e appoggiandosi ancora a lui acconsentì.
Il gettone venne inghiottito dalla fessura un po’ arrugginita del jukebox che rumoreggiava come se stesse per sfasciarsi in quel preciso istante, tuttavia – contro ogni pronostico – lo stridente rumore della puntina si trasformò nelle prime note inconfondibili sgorgate dalla tromba di Louis Armstrong; quindi offrì la mano alla ragazza che con una piroette si ritrovò stretta tra le sue braccia.
Un anziano, Charles, – l’unico ad essere in quel bar oltre a loro – li osservò con silenziosa malinconia, con lo sguardo aggrappato a chissà quale ricordo. Stava stretto al suo bastone, gustandosi la danza con gli occhi addolciti dal tempo.
«Balli bene, Hahn, Jay Hahn» bisbigliò, aggrappandosi alle sue spalle. Lui si lasciò trasportare dalla musica e dall’abbraccio caldo e rassicurante di Lizzie. Chiuse gli occhi conducendo il ballo senza pensare a niente finché una carezza abbastanza eloquente gli fece capire che, forse, era arrivato il momento di mettere in chiaro alcune cose. Perciò, imbarazzato, aprì gli occhi, sorrise brevemente e tentennando tra una parola e l’altra provò a spiegarle come stavano le cose. Il corteggiamento di Lizzie non gli dispiaceva ma era certo che se lei avesse saputo, le cose sarebbero state diverse. Sarebbero cambiate.
«Lizzie, io… avrei un paio di cose da dirti.»
«Lo so già che sei omosessuale».
Con uno scatto si staccò da lei: era incredulo. La fissò cercando di capire come potesse essere a conoscenza della cosa, non credeva di essere così indovinabile, così trasparente.
«Ti chiedi, come lo so?!» una sottile nota di sarcasmo sibilò nel tono di voce di Lizzie.
Jay le prese le mani e l’allontanò da sé per osservarla al meglio, corrucciò la fronte fino a fare arricciare il naso e con espressione scherzosa chiese incuriosito: «Ma, per caso, sculetto quando cammino?».
Lizzie si lasciò andare ad una fragorosa risata, eccessiva ma trascinante e così scrosciante da essere contagiosa. Dopo essersi concesso un attimo di ilarità, tornò sul punto liberandola dalla presa: «Adesso» cominciò incrociando le braccia, rivolgendosi a lei con falsa arroganza: «Spiegami come lo sai!»
«Calma, Jay Hahn! Lo so perché, esattamente come io guardavo te – presa dalle tue meravigliose labbra– tu guardavi Izaya… con la stessa mia espressione».
Divenne paonazzo come un bollitore pronto ad esplodere e lei, puntandolo con il dito, lo canzonò: «Sei un libro aperto Hahn, Jay Hahn!»
«Puoi chiamarmi Jay, non c’è bisogno di sottolineare continuamente il fatto che io mi presenti come un babbeo.» Sorrise: «Si chiama Izaya, quindi?»
Lizzie, gettandogli le braccia al collo, avvicinò le proprie labbra a quelle di Jay, saggiandone lievissimamente la morbidezza. «Già! E puoi stare tranquillo, tesoro: Izaya è qui ogni santo giorno, quindi lo rivedrai sicuramente molto presto».
Sorrise impercettibilmente accogliendo con soddisfazione la lieta notizia. Era felice, ma di fatto non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, non aveva mai avvicinato un uomo in vita sua, tanto meno uno come Izaya. I dubbi lo assalirono, costringendolo a farsi mille domande: si chiese se fosse omosessuale e si disse che una fortuna così sfacciata non poteva fare parte della sua vita, soprattutto in quel momento.
La nuvola nera e minacciosa della sfortuna, accompagnata al suo pessimismo cosmico, gli diceva che quel ragazzo non solo era etero, ma anche sposato, con dieci figli al seguito. Un uomo così non poteva essere solo e sapeva di non possedere le carte giuste per attirarlo a sé.
«Che tu sappia, lui ha una ragazza?» chiese spostando gli occhi fuori dalla porta del bar – come se stesse chiamandolo disperatamente – e lei, abbandonata sulla sua spalla, ancora intenta a dondolarsi sulle ultime note de La vie en rose, rispose con tono rilassato: «L’ho visto spesso con ragazze, ragazzi, non ti so dire in che rapporti fosse con ognuno di loro. Non so molto di lui. È una di quelle persone che ho conosciuto qui e ho continuato a frequentare qui, di conseguenza so veramente poco di lui. Non abbiamo mai parlato di cose personali, ecco»
«Quante probabilità ci sono che lui possa essere… beh…»
«Omosessuale?» lo precedette sognante – nascondeva gli occhi nell’incavo tra la spalla ed il collo di lui, respirando il suo profumo. «Una probabilità su cento se sei uno sfigato, novantanove possibilità su cento se sei uno fortunato!»
«Andiamo bene!» esclamò alzando gli occhi al cielo, cosciente del fatto che la fortuna, nell’ultimo periodo, aveva scelto di esplorare altri lidi e tutti incredibilmente lontani da lui.
La strinse tra le braccia e si accorse solo in quel momento quanto avesse desiderato farsi abbracciare da qualcuno.
Chaz l’aveva fatto, ma non era riuscito a farselo bastare. La tensione di quel momento, dopo l’incontro con suo padre, non gli aveva permesso di godere appieno delle sue attenzioni, eppure lui c’era stato. Si sentì in colpa a pensarlo inerme dietro di sé mentre scappava a gambe levate, estromettendolo da quel momento della sua vita. Pensò a lui incessantemente, a come si erano lasciati, e riflettendo sul loro rapporto cercò di tranquillizzarsi: avevano sempre litigato furiosamente per poi fare pace come se nulla fosse, quello era il caso, – avrebbero sicuramente chiarito – ciò nonostante il mancato ottimismo gli accartocciò il cuore al solo pensiero di perderlo, tuttavia rinsavì in fretta nel momento in cui Lizzie concluse una frase: «Che buon profumo hai, Hahn. È uno di quei profumi che rimangono impressi nella mente. È come una droga e invidio l’uomo che avrà la possibilità di averti, con tutto il tuo odore».
Jay sorrise della spontanea schiettezza di Lizzie e pensò che, in qualche modo, l’uomo al quale aveva dato tutto se stesso – con tutto il suo profumo – era proprio Chaz. Non credette totalmente a quello che aveva appena detto la ragazza, ma rammentò con chiarezza la bellezza e la forza innata del rapporto che era riuscito a costruire con il suo migliore amico.
Non l’avrebbe mai abbandonato per una discussione sciocca, Chaz sarebbe sempre stato presente nella sua vita, adesso lo sapeva.
Il loro legame non poteva essere disciolto nell’acqua come una stupida aspirina, era un dare e avere eterno, un equilibrio sottile ma ben saldo.
Strinse ancora Lizzie benché la musica fosse finita. I pensieri negativi volarono via, uscendo dalle vetrate di quel bar che ormai era diventato un piccolo universo sospeso nel tempo. 
  
***
 
«Non avevi detto che non avresti più dormito nel mio letto?» chiese Chaz con tono ironico, mentre Jay si rintanava tra le lenzuola calde dell’amico. Non appena trovò una posizione accettabile puntò gli occhi sul lampadario tondo che raffigurava l’abbraccio impossibile tra il sole e la luna e pensò ad una risposta che potesse essere soddisfacente, così cercò di essere sincero il più possibile.
Non fu difficile esserlo, poiché la vicinanza di Chaz lo ricostituì, tanto da conferirgli una serenità tale da infondergli il coraggio giusto per poter riprendere il discorso. Non aveva più paura della risposta che avrebbe ricevuto. «Sono qui per diversi motivi: il primo è che non mi piace come ci siamo lasciati oggi, e lo so che sei incazzato, che ce l’hai con me, ma voglio chiederti scusa.» Abbassò la testa, pronto ad incassare.
Chaz lo fissò intenerito – non credeva che i tumulti potessero alimentare tale insicurezza, soprattutto sul loro rapporto – così decise di essere paziente, e stringendolo a sé lo rassicurò: «Sai che non me la sono presa. Sarei uno stronzo se infierissi ancora, ho capito che eri scosso».
Jay spostò lo sguardo su Chaz: come al solito, era stato comprensivo e attento. Sorrise, ritrovando ancora gli occhi rassicuranti di colui che aveva invaso i suoi preoccupati pensieri. Si rese conto di essersi messo in allarme inutilmente, lui non l’avrebbe mai abbandonato.
«Quali sono gli altri motivi?». 
Titubò per un istante, insicuro sul da farsi. Sapeva che avrebbero ancora parlato dei suoi genitori e sentiva di non averne voglia. «Altri motivi!»
«Chiaro! Jay, tu puoi venire qui tutte le volte che vuoi, non farti problemi, qualsiasi sia il motivo».
Anche Lizzie gli aveva detto quelle parole e si sentì fortunato. Nella sfortuna di quegli eventi aveva trovato chi volesse prendersi cura di lui.
Chaz si distese definitivamente sul letto, spalla a spalla con il suo più caro amico e incrociando le mani dietro la nuca chiarì la sua posizione: «Io non condivido la tua scelta. Avresti potuto vivere la tua vita senza dover dire tutto ai tuoi, però ti capisco e non posso giudicarti, tuttavia credo che tu sia troppo dipendente dall’approvazione dei tuoi genitori. Hai riposto troppa fiducia nel loro giudizio, sei sempre alla ricerca del loro parere e questo ti ha spinto a fare l’errore più grande della tua vita…»
«Non rinnego niente di quello che ho fatto. Chaz, io lo rifarei. Chiamami masochista se vuoi, ma questo mi ha aiutato a capire me stesso e a vedere in modo obiettivo i miei genitori. Stai certo che non commetterò più l’errore di cercare la loro approvazione. Adesso la mia vita è davvero mia».
Chaz non seppe più cosa dire, ma avrebbe voluto trovare una spugna per cancellare i giorni passati.
Sapeva che Jay non sarebbe più andato all’università e che avrebbe abbozzato una vita disordinata e senza radici: non era questo ciò che aveva sognato per lui. Pertanto, con tono rassegnato, concluse ad alta voce i suoi pensieri: «Saresti potuto diventare qualcuno e mi rode solo a pensare che, invece, ti sei solo complicato la vita.»
«Pensa a te una volta tanto. Pensa ai tuoi sogni, alla tua vita, non pensare a me. Stai sereno, sto bene!».
Se avesse potuto gli avrebbe confessato tutto il suo amore in quell’istante.
Chaz avrebbe voluto urlargli che non è possibile pensare a se stessi quando la persona che ami vive il momento più duro della propria vita, ma scelse di tacere, spaventato dalle conseguenze che ne sarebbero scaturite. Non gli andava di dargli altre preoccupazioni, ma trattenersi stava diventando un vero massacro.
«Ho conosciuto un ragazzo, sai?».
Le parole inaspettate di Jay colpirono dritto al punto più indolenzito della sua anima. Il cuore di Chaz perse un battito, lo lasciò incollato ai sentimenti che aveva chetato con la forza per tutto quel tempo. Mille ipotesi si accavallarono nei suoi pensieri: avrebbe potuto reagire e confessare, urlargli contro quanto quella notizia l’avesse devastato o fingere di essere felice per lui.
La scelta più sensata ricadde su ciò che, più di tutto, l’avrebbe condannato a soffrire ancora: «Ah, sì?! Sono contento. Chi è?»
«Cioè, non è che l’ho conosciuto, l’ho visto e non ci ho neanche parlato. Però vorrei rivederlo.»
«Sono contento, Jay! Vedi?! C’è stato qualcosa di positivo in mezzo a tutto questo sfacelo.» Ipocrita: fu la prima parola che apparì chiara nella sua mente.
«Sarei falso se ti dicessi che c’è stato solo questo di positivo. Mi sono successe un sacco di cose belle: ho conosciuto una ragazza dolcissima, ho trovato un posto bellissimo dove andare a stare quando i miei pensieri decidono di tormentarmi, sto qui con te adesso. Queste, sono tutte cose belle».
Intenerito dal disperato bisogno di Jay di trovare qualcosa di consolante, abbandonò ogni idea di rimuginare troppo su ciò che avrebbe dovuto fare. Avrebbe confessato, ne era certo, ma non in quel momento. «Mi stupisci, come sempre! Nonostante tutto ti appigli alle piccole cose per trovare il lato positivo.»
«Sai perché mi chiamo Jay?»
«No!».
Si alzò dal letto e avvicinandosi alla libreria cercò con gli occhi un libro che aveva prestato a Chaz e che non gli aveva mai restituito.
Passò le dita sui libri leggendo mentalmente ogni titolo, e soffermandosi su uno in particolare lo estrasse per poi raggiungere di nuovo il letto.
«Mia madre amava Il grande Gatsby, nello specifico amava Fiztgerald, però era particolarmente attratta dal personaggio di Jay Gatsby per un motivo, anzi, per un concetto in particolare…».
Sfogliò il libro come se lo sapesse a memoria, infatti, il suo indice fermò lo scorrere delle pagine su ciò che cercava, e con voce pacata lesse: «E mentre meditavo sull'antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all'estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde…»
«E con questo… che cazzo vuoi dire?» Cominciò a ridergli in faccia: «Mi spiace, ma non colgo la profondità di questo estratto. Cioè, non trovo il nesso con te.»
«Lei desiderava che io potessi diventare un uomo come Jay Gatsby. Mia madre, dico. La propensione alla speranza, era l’unica cosa che incoraggiava Gatsby a combattere per raggiungere i propri obiettivi. Io ho fatto mia questa cosa, abbracciandola in pieno. Io credo nella luce verde, Chaz!»
L’amico scoppiò ancora a ridere, trovando nella solennità del suo tono di voce una comicità irresistibile. Lo tirò a sé energicamente, costringendolo a distendersi accanto a lui. Il libro cadde e Chaz, guardando il viso imbronciato davanti a sé rispose con tenerezza: «Tu sei malato di testa, però sei simpatico, dai! Mi fai sempre fare un sacco di risate.»
«E tu sei sempre il solito cretino. Comunque: può essere. Sì, può essere che sono malato di testa, ma sperare è l’unica cosa che mi resta. In tutto questo marasma, l’unica cosa che posso fare è questa, cercando di notare solo le cose belle che mi circondano. Se dessi peso solo alle cose brutte rischierei di non avere più il coraggio di sperare.»
«Siamo d’accordo.»
«Credo di potercela fare. Ad uscire illeso da questa storia, intendo. Il primo scoglio è stato superato».
Chaz squadrò Jay con dolcezza: aveva fatto di tutto in pochi giorni per cambiare la propria vita, lottando, soffrendo.
Il ragazzo che amava stava combattendo con coraggio, mentre lui si nascondeva. Nascondeva ciò che era al mondo, celava i suoi sentimenti a chi amava e presto avrebbe dovuto lasciare il passo a qualche stoico stronzo che glielo avrebbe portato via per sempre. Pensò al ragazzo del quale gli aveva parlato e sentì sobbollire il sangue nelle vene. Sarebbe stato questo o un altro, non avrebbe fatto alcuna differenza, ma presto se lo sarebbe visto portare via da qualcuno.
Non poteva più permetterlo. La rabbia e il bisogno di esplodere, lasciando che i pezzi di se stesso si frangessero su ogni cosa, diventarono più forti del giudizio, della paura, dell’insicurezza.
Le guance si colorarono e gli occhi si accesero, mostrando chiaramente un bagliore di risolutezza nel fondo del suo sguardo.
Jay percepì la sfumatura del cambiamento: «Chaz, che ti prende?». La preoccupazione per quella strana espressione lo costrinse ad afferrare le mani dell’amico che con uno scatto lo atterrò sul letto costringendolo sotto il suo peso.
Il calore accrebbe il desiderio di baciarlo, così avvicinò le sue labbra a quelle dell’altro senza sfiorarle.
Jay rimase di sasso.
Altre volte erano stati così, l’uno sull’altro, ma la percezione che ebbe di quel contatto fu del tutto diversa.
L’espressione di Chaz era diversa.
Si lasciò schiacciare da un peso che non sembrava affatto quello che conosceva. Era pressante, incalzante, travolgente.
Le punte delle dita si sfiorarono, provocandogli un brivido insolito lungo la schiena mentre il viso di Chaz, sempre più irriconoscibile, prendeva connotati del tutto diversi. Jay aveva un ragazzo sconosciuto sopra di sé, non il suo amico, il suo solito amico.
La confusione aggiunta al desiderio irrigidì ogni suo muscolo, fino a farlo diventare un fascio di nervi scoperti atto a percepire distintamente ogni cosa: il respiro affannato di colui che lo pressava, le mani incrociate con le sue, il profumo dei due corpi insieme, la pelle liscia e calda.
Lo stordimento prese il sopravvento, lasciando Jay inerme sotto al peso delle intenzioni e del cuore di quello che pareva un estraneo, però, nel momento in cui la sua resistenza pareva indebolirsi, la prepotenza di Chaz mutò, diventando più leggera e controllata: si arrese alla paura che lo rinchiuse in un limbo dove l’incertezza pareva gustarsi sadicamente il resto delle sue intenzioni gettate al vento. In un momento, in un solo istante, l’azione avventata del ragazzo si ritrovò a barcollare su un filo invisibile, in bilico tra il suo precario proposito di uscire allo scoperto e la falsa stabilità che aveva costruito in tutti quegli anni. Jay rimase fermo ad aspettare. Sentiva lottare due lati di Chaz sopra di sé, li percepiva, ma gli serviva una conferma di ciò che pensava. Sentiva desiderio, ma l’amico si staccò, ostentò un sorriso forzato e si sdraiò accanto a lui. Quella conferma non arrivò, lanciando Jay nell’incertezza. Com’era cominciato, tutto era finito: senza preavviso, senza parole. Quello che era appena successo si trasformò in pochi istanti in una specie di sogno, in uno stato di sovrappensiero.
«Jay, Jay…» cantilenò stropicciandosi gli occhi.
«Chaz?» Avrebbe voluto porgli tante domande, ma aspettò che fosse l’amico a parlare. Non avrebbe mai potuto aprire un discorso nel dubbio di essere stato ingannato da un’impressione senza fondamento.
«Tu, sei importante per me, Jay. Sei il mio migliore amico.»
«Anche tu sei importante per me…» rispose bisbigliando, con gli occhi puntati sul soffitto.
Quella frase non concretizzò le sue supposizioni, anzi rese ancora più indistinto il contorno di quell’avvenimento. I comportamenti che si susseguirono non fugarono alcun dubbio, ma portarono Jay a domandarsi se i suoi pensieri non fossero altro che lo specchio dei suoi desideri.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Fly Me to the Moon ***




Sesto capitolo
"Fill my heart with song
And let me sing for ever more
You are all I long for
All I worship and adore
In other words, please be true."

Fly Me to the Moon- Frank Sinatra








6. Fly Me to the Moon




Jay portò Chaz al suo bar di fiducia, sperando potesse diventare un posto speciale anche per lui. Era come se volesse rinchiudere nello stesso spazio tutto ciò che gli era più caro: persone, cose, sorrisi. Voleva tenere tutto stretto al petto, con tutte le sue forze, per questo sperò di poter fare conoscere e apprezzare quel piccolo mondo a Chaz che, guardandosi intorno, constatando la semplicità e l’adorabile trasandatezza di quel luogo, non poté fare altro che intenerirsi come se avesse davanti una nonnetta abbandonata. Dopo il primo impatto spostò l'attenzione su Jay, osservandolo di sottecchi per afferrare e comprendere il suo stato d’animo: era felice e cercava Lizzie con gli occhi impazienti, come un bambino davanti ad una giostra in attesa del proprio turno. I lineamenti del viso erano rilassati e gli occhi vivacizzati dalla trepida attesa, le mani si incastravano tra loro tormentandosi a vicenda: ciò che l’aveva tormentato per tutti quei giorni, rendendolo cupo e costantemente nevrotico e triste, sparì in un attimo, ed era bastato entrare nel locale perché quella magia avvenisse. Chaz capì che l’amico aveva trovato un rifugio ma ciò non lo sollevò, anzi accrebbe la gelosia che si accanì contro le mura imbiancate di quel bar da quattro soldi che insieme ad una totale sconosciuta erano riusciti, più di quanto avesse fatto lui, a rendere Jay davvero felice. Il suo letto non era più l’unico luogo nel quale il ragazzo che amava si sarebbe sentito protetto.
«Lizzie!»
«Il mio adorato Hahn».
Chaz dovette fare da spettatore ad una scena che sentiva di odiare a prescindere: la ragazza abbracciava Jay stringendolo a sé con una confidenza insopportabile, quasi invasiva, e la cosa peggiore era proprio il fatto che entrambi sembravano bearsi di quel contatto familiare ed intimo con una soddisfazione così evidente da stizzirlo.
Lizzie fu attirata dalla presenza insolita e silenziosa che li osservava furtivamente e liberando Jay dalla stretta si avvicinò a Chaz, squadrandolo. «Benvenuto.»
«Grazie».
Finiti i convenevoli si scostò da lui, si avvicinò ancora al suo amico e dopo avergli rimosso il ciuffo dagli occhi affermò con tono sicuro, dando forma alle sue supposizioni: «Quindi, questo è il tuo ragazzo». Si allontanò dirigendosi ad un tavolo vuoto e Chaz, perplesso, chiese a denti stretti: «Le hai detto che sono il tuo ragazzo?»
«Veramente, no! Le ho detto che sei il mio migliore amico. Temo si sia fatta un film» rispose candidamente, inconsapevole della delusione di Chaz che, ingenuamente, aveva sperato che Jay le avesse parlato di lui in quei termini. La cruda verità si ripresentò, facendo soccombere una vana speranza appena nata.
Si diressero entrambi al tavolo che Lizzie aveva offerto loro e Chaz, posando gli occhi su ogni singolo particolare di quel luogo, sentì di non amarlo tanto quanto Jay che, eccitato come poche volte nella vita, si accomodò accanto alla ragazza. «Lizzie, non è il mio ragazzo. Io non ho un ragazzo, ricordi?»
«Ah, già, che stupida!».
Le carezze continue di lei si imposero come un terzo incomodo, infastidendo il nuovo arrivato che se avesse potuto avrebbe dato corpo alla sua gelosia, levando le mani di quella sprovveduta dal viso di Jay.
Sperando di poter mettere fine a quel continuo scambio di tenerezze, incrociò le braccia poggiandosi allo schienale, fingendo rilassatezza e interesse. «Come si chiama questo posto?»
«Non ha un nome. Non è un gatto o un bambino, è solo un bar! Perciò, il suo nome è bar». Chaz alzò gli occhi al cielo disgustato dalla stranezza di quella donna, si chiese cosa avesse di così speciale.
Vedere Jay accaparrarsi tutte quelle coccole da una sconosciuta lo faceva impazzire, voleva essere l’unico ed il solo, come era sempre stato.
Un bambino capriccioso… sei questo, Chaz!” se lo disse più e più volte mentre assisteva inerme alle tenerezze che Lizzie donava disinteressatamente all’unico ragazzo che amava e che sentiva solo suo ma che, in realtà, non lo era affatto.
La sera prima era stato ad un passo dalla confessione, tuttavia aveva scelto di tacere per l’ennesima volta, eppure di occasioni ne aveva avute: tutte sprecate.
Avrebbe tentato ancora, non se ne sarebbe lasciato sfuggire delle altre.
Strinse i denti in attesa che quella maledetta ragazza togliesse il disturbo per potergliene parlare, per capire se l’ardito gesto della notte prima avesse acceso qualche lampadina nel cervello dell'altro.
«Jay, caro! Come è andata la prima notte a casa?»
«Non è andata in nessuno modo, Lizzie. Non ci sono mai tornato» rispose con un sorriso compiaciuto stampato in faccia.
«Ci dovrai tornare, prima o poi.»
«Perché dovrebbe tornare da chi lo rifiuta?» Chaz si intrufolò nel discorso, ponendo la domanda con stizza. Il fatto che una sconosciuta si prendesse il lusso di dare arbitrariamente dei consigli era oltremodo intollerabile per lui.
«Perché credo che la sua assenza da casa non faccia altro che rafforzare le loro stupide ragioni e così facendo alimenterà solo un silenzio sciocco e senza senso, rendendo il rifiuto ancora più facile. Lui, invece, si deve imporre! Quella è casa sua, devono capirlo e accettarlo… devono.»
«Dovrebbero, ma non lo faranno. Non conosci i suoi genitori, non sai quanto ha patito con loro…»
«Lo so, invece! L’ho visto con i miei occhi quel giorno…»
«Perché parlate come se io non ci fossi?» chiese il soggetto della discussione tentando di alleggerire i toni. Vederli battibeccarsi era surreale quanto fastidioso. Parlavano di lui in sua presenza, facendo a gara su chi ne aveva più diritto, esprimendo punti di vista non richiesti, avrebbe voluto lasciare fuori dalla porta quei discorsi, ma sembrava che i suoi amici non ne avessero alcuna intenzione. Si chiedeva perché Chaz fosse così antipatico nei confronti di Lizzie, perciò, volendo tagliare il discorso di proposito, chiese con un sorriso amaro: «Vorrei un caffè caldo. Potresti portarci due caffè, Lizzie?».
Lei lesse sul viso tirato di Jay la sua sacrosanta richiesta di tranquillità, non voleva discussioni, non voleva altri pensieri. Cedette alla silenziosa supplica sentendosi in colpa, sorrise intenerita e si alzò. «Sarà fatto, Hahn!»
Si allontanò sorridendo anche a Chaz che, imbarazzato, abbassò la testa ringraziandola.
«Perché ti sei messo a discutere con Lizzie?» lo chiese con gli occhi puntati sul tavolo, irritato e deluso. Aveva desiderato poter condividere con lui quella nuova conoscenza che tanto l’aveva sollevato. Non si sarebbe mai aspettato la nascita di una simpatia improvvisa e reciproca, ma neanche la scena di due cani rabbiosi pronti a contendersi l’osso.
Chaz accarezzò il profilo di Jay con gli occhi e pensò che, forse, disprezzava la dolcezza di Lizzie perché, al contrario della sua, era davvero disinteressata.
Desiderava l’amore di Jay, adesso ne era certo, aveva creduto di volergli stare accanto senza pretendere nulla in cambio, soffocando l’amore e accontentandosi di un sentimento a metà, tuttavia dovette ammettere la realtà pura e semplice: non riusciva più a trarre appagamento da quella claudicante e forzata condizione.
Nonostante fosse arrivato a quella conclusione, non riuscì a non raccontare l’ennesima balla: «Hai ragione. L’ho fatto solo per accertarmi che lei ci tenesse sul serio a te».
Jay destò lo sguardo esaminando i tratti del viso di Chaz con l’intento di appurare la sincerità di quella dichiarazione. La notte prima era riuscito, attraverso i suoi gesti avventati, a scorgere i propositi del tutto nuovi dell’amico. Dapprima aveva pensato fossero solo impressioni incerte ma, nondimeno, gli sguardi avevano parlato più delle parole e delle azioni: Chaz voleva di più, ne aveva il sospetto, e la pseudo scenata di poco prima non aveva fatto altro che confermarglielo. Si disse che avrebbe dovuto aspettare, attendere che il passo successivo potesse rivelarsi più deciso, voleva che l’amico dichiarasse apertamente ciò che provava. Non era certo se fosse semplice desiderio o amore, ma sapeva che Chaz nascondeva qualcosa e presto tardi avrebbe dovuto scoprirlo. Conoscendolo, se l’avesse spronato parlandogli in modo diretto l'avrebbe solo costretto a mentire ancora senza mai ammetterlo; metterlo sotto pressione non sarebbe stata la scelta giusta. Un’ombra si era imposta sulla loro amicizia e toccava a Chaz fare chiarezza. Jay, dal canto suo, sapeva già cosa rispondere e sperando che l’amico non ne uscisse irrimediabilmente ferito decise comunque di comportarsi come sempre, ribadendo la sua posizione: per lui sarebbe stato sempre e solo un amico, nulla di più. Non l’avrebbe illuso dandogli false speranze, sarebbe stato sincero, a costo di risultare crudo.
Parole inespresse rimasero legate alle labbra serrate di Chaz, facendole vibrare con incertezza. Jay rimase in silenzio, in attesa.
Il jukebox interruppe il silenzio che, ormai, sembrava pendere sulle loro teste.
Fly me to the moon riempì il vuoto, strappando un sorriso a Chaz che, tamburellando con le dita sul tavolo, ritrovò un pizzico di buon umore.
Jay sorrise con un sospiro, rilassando i muscoli della mascella e cercando il benefattore inconsapevole che aveva scelto di rompere la quiete, come se fosse pesata anche a lui.
Si voltò e lo vide.
Izaya era poggiato con un braccio al jukebox, con il viso illuminato dalle piccole luci colorate poste sui tasti della lista delle canzoni da scegliere.
Jay strabuzzò gli occhi e preso da un irragionevole imbarazzo, si voltò di nuovo di scatto, rigido come un palo di scopa aggrappato al tavolo, in balia dell’emozione.
«Che ti prende?» chiese l'amico con aria stranita.
«Niente, niente, niente…» rispose a denti stretti sperando di non farsi notare troppo.
«Allora perché sembra che tu ti stia nascondendo?»
«Cosa te lo fa credere?» chiese tentando di passare inosservato.
«Hai qualche conto in sospeso?».
Non ottenendo alcuna risposta, Chaz si voltò verso il jukebox ma non notando nulla di strano ritornò a guardare Jay.
«Izaya!?» lo chiamò Lizzie sventolando un fazzoletto come una diva del cinema, dirigendosi verso il tavolo dei due ragazzi. «Unisciti a noi. Tra poco mangeremo qualcosa insieme e costringeremo il ragazzino a prendersi una sbronza!» continuò, indicando Jay che ad occhi bassi seguiva con l’udito i passi di Izaya che si avvicinava con crescente curiosità.
Non appena lo sentì vicino, l’impazienza prese il sopravvento e senza riuscire ad evitarlo i suoi occhi si scontrarono con prepotenza con quelli del ragazzo appena arrivato che sorrise, rivelando un’espressione molto più bambinesca di quella che la sua immagine pareva ostentare.
Jay si intenerì e ricambiò, dimostrandosi entusiasta. «Ciao!» lo salutò facendosi scappare un tono un po’ troppo allegro, tanto da infastidire Chaz che, ormai, aveva intuito pienamente di chi si trattava.
«Ciao!» rispose il ragazzo, porgendogli la mano che Jay fissò per qualche secondo senza riuscire e presentarsi. Lizzie, che ormai era già seduta accanto a lui, con un calcio ben assestato sotto al tavolo lo risvegliò.
Afferratagli la mano, Jay rimase imbambolato e si accorse di canticchiare nella mente la canzone romantica di sottofondo. Dopo essersi insultato tra sé e sé, prese coscienza di ciò che stava realmente accadendo: stringeva la mano ad Izaya, e sembrava non volesse mollargliela.
Lui aveva il naso rosso, segno di un colossale raffreddore, e gli occhi, colmi di lacrime, erano arrossati e gonfi.
Finalmente divincolarono le mani dalla stretta, dando ad Izaya la possibilità di sedersi di fronte a lui. Si grattò la barba incolta per qualche secondo, fissando i caffè posti sul tavolo. Sembrava un gesto d’imbarazzo, esattamente come lo era il suo di arruffarsi i capelli e rimase stupito giacché non gli era mai sembrato che Izaya potesse essere un tipo particolarmente timido.
Sorrise teneramente, osservando ancora i movimenti pacati che il ragazzo difronte compiva e quando vide i suoi occhi spostarsi su Chaz sentì un brivido di timore lungo la schiena.
Se l’amico aveva deliberatamente maltrattato Lizzie, come minimo, avrebbe azzannato al collo il povero malcapitato.
«Piacere, Izaya!» si presentò a Chaz che, con grande sorpresa di Jay, rispose al saluto con gentilezza ed esaltazione, porgendogli la mano.
E se si fosse sbagliato? Se avesse sbagliato sul conto di Chaz?
Quella reazione sembrava del tutto cozzare con le sue conclusioni.
Tirò un sospiro di sollievo, dicendosi che avrebbe dovuto frenare la fantasia e basarsi su dati concreti.
Quello sembrava un dato concreto, appunto.
“Che ingenuo!” avrebbe pensato Chaz se solo fosse stato nella sua testa. Avrebbe voluto prenderlo a pugni in quel momento stesso, ma onde evitare di destare troppi sospetti costrinse se stesso ad una recita ben fatta.
Izaya incrociò le braccia sul tavolo e, finalmente, rivolse ancora i suoi grandi occhi scuri teneramente attorniati dalle rughe di espressione che, quasi sempre, avvolgono gli occhi di chi è abituato a sorridere, su Jay.
Si guardarono per qualche istante.
Gli occhi verdi, quasi trasparenti di uno, si mischiarono a quelli castani e luminosi dell’altro.
Occhi negli occhi, secondi e secondi, che sembravano ore, sembravano vite.
Il sorriso accennato del primo giorno ritornò ad illuminare impercettibilmente il viso di Izaya. Ancora una volta, Jay ebbe la certezza che quel sorriso fosse riferito a lui, ma non ne capiva il motivo. Era divertito? Incuriosito? Cosa voleva dire?
Considerando la sua scarsissima esperienza con gli uomini non riuscì a cogliere le sfumature intrappolate dietro a quell’espressione, poteva significare tutto o niente. La risposta alle sue domande non tardò ad arrivare: «Io ti conosco».
Quelle parole, uscite dalla bocca di Izaya, presero di sorpresa Jay.
Era certo di non averlo mai visto, eppure lui diceva il contrario. Cercò nei suoi ricordi senza trovarvi nulla e fissò ancora il ragazzo davanti a lui con sguardo interrogativo, corrucciando le sopracciglia chiedendo silenziosamente spiegazioni.
«Il giorno della tempesta. Ti ho trascinato dentro mentre tu stavi impalato sul marciapiede».
Era stato lui. Izaya l’aveva salvato e senza rendersene conto l’aveva fatto in ogni modo possibile. Grazie a lui, a quel gesto, il suo cuore era riuscito a sollevarsi da una disperazione così profonda che l’avrebbe certamente consumato se non fosse stato per quelle braccia forti. Ricordò distintamente quel giorno: l’acqua scrosciante, la strada allagata, le scarpe zuppe, i piedi freddi, le lacrime…
Quante lacrime quel giorno.
Il mondo gli aveva urlato contro il proprio disappunto ed Izaya, invece, lo aveva abbracciato e portato in salvo nel luogo più caro, nel bar dove avrebbe riposto con cura il suo cuore e avrebbe accomodato i resti della sua anima lacerata, dove avrebbe curato le proprie ferite.
«Eri chiaramente sconvolto e poi…»
«Aspettate, aspettate…» lo interruppe Chaz agitando le mani. «Com’è che io non so questa storiella?!»
«Perché non c’eri, Chaz!» puntualizzò Lizzie con una punta di vendetta nella voce, come a voler sottolineare che anche lui, nonostante si sentisse l’unico capace di stare accanto a Jay, non c’era stato in un momento così drammatico. Chaz, di proposito, non volle cogliere la sottile provocazione della ragazza e, ignorandola, immobilizzò l’amico con lo sguardo. «Raccontami, Jay!»
«Non mi va!» rispose rafforzando il diniego con un movimento della mano che voleva chiaramente comunicare la sua intenzione di volersi gettare tutto alle spalle.
«Te lo racconto io che è successo» rispose Izaya divertito, sorseggiando il suo caffè appena arrivato.
Aveva gli occhi vispi e lucidi: a Jay faceva tenerezza, a Chaz, invece, scatenava la rabbia.
«Il giorno dell’uragano, il tuo caro amico Jay ha pensato bene di farsi una piacevole passeggiata, io l’avevo già visto passare qui davanti, l’avevo già… notato…» pronunciò quell’ultima parola osservando la reazione di Jay che per un istante perse un respiro. L’aveva visto 
ridotto come uno straccio  camminare come un povero malato mentale in mezzo all’uragano.
L’aveva visto, l’aveva notato.
«…insomma, poi l’ho perso di vista, credevo si fosse messo al sicuro, invece, poco dopo me lo sono visto davanti al bar mentre io, al calduccio, sorseggiavo il mio tè. Stava fermo sul marciapiede, speravo decidesse di entrare, in molti l’avevano già fatto ma lui… no! Stava sotto la pioggia a fare chissà che, con l’aria triste. Quando ho capito che lui non si era reso conto veramente di quello che stava succedendo sono uscito in strada e l’ho trascinato dentro ma… non ci siamo mai presentati.» raccontò tutto senza spostargli gli occhi di dosso.
«Perché non mi hai detto che eri tu?» chiese Jay a bassa voce, creando un’intimità tale tra i loro sguardi da lasciare tutto il resto del mondo fuori.
«Perché non ci conoscevamo. Sembravi sconvolto, ho voluto lasciarti solo».
Si sorrisero, trasmettendosi pace e calma reciprocamente.
Izaya e Jay erano lì senza esserlo per davvero.
Tutti gli altri erano spariti, nonostante ci fossero.
Il ticchettio della pioggia sulle vetrate scandiva il tempo che sembrava essersi fermato, il vociare intorno dava loro la prova di essere in quel bar, ma nessuno dei due pareva avesse la voglia di ritornare alla realtà. Come inghiottiti da un altro universo, Izaya e Jay parlavano, si guardavano, vivevano.
«Un giorno mi dirai perché hai deciso di farti quella passeggiata!»
«Un giorno ti racconterò tutto».
Persistevano nel crogiolarsi in quella situazione sospesa tra i minuti che si susseguivano sempre più lentamente, affondando nei loro sguardi, nei gesti familiari inusualmente percepiti e non concretamente compiuti. Se avessero potuto si sarebbero sfiorati, anche solo con un dito.
«Va beh! Mi sa che vado a bere qualcosa al bancone!» esclamò Chaz seccato, rompendo quello stato di cose così irritante da costringerlo ad alzarsi con irruenza. Jay, afferrandogli inaspettatamente la mano, lo guardò dritto negli occhi chiedendogli tacitamente di non farlo, di non andarsene.
Chaz sospirò rassegnato, sentendo la pressione di quella stretta così forte da non potervisi sottrarre; rimase al tavolo alla fine, pur sapendo che avrebbe dovuto ancora assistere al corteggiamento di Izaya nei confronti di Jay senza poter fiatare. Mentire l’aveva condannato al silenzio, continuare a negare gli aveva tolto ogni diritto di poter esprimere la delusione. Se avesse agito d’impulso avrebbe lasciato scorgere una parte di sé troppo importante perché potesse essere gettata con noncuranza alla mercé dei totali sconosciuti che, in quel momento, lo osservavano incuriositi.
Decise di rimanere ancora e di temporeggiare, implorandosi di avere ancora pazienza: avrebbe parlato a Jay il prima possibile. L’arrivo di Izaya era stata la ragione scatenante, il motivo principale che l’aveva convinto ad agire; se non avesse confessato sarebbe certamente esploso in un modo e nel momento meno indicati.
Ma non era quello il momento, doveva ancora aspettare, così si sedette controvoglia ostentando una calma così pacata da risultare forzata.
I dubbi si scagliarono ancora su Jay che, però, si arrese ai repentini cambiamenti di umore dell'amico. Sospirò afflitto, ma avrebbe continuato a fare finta di niente in attesa di qualcosa che potesse chiarire i punti oscuri legati a congetture troppo vaghe per essere prese in considerazione; se c’era una verità da scoprire sarebbe toccato all'altro lo sgradevole compito di districare i nodi di quella faccenda.
Così spezzò la magia creata dall’incontro con Izaya e sperò con tutte le sue forze di sbagliarsi sul conto di Chaz, si chiese perché tutta la sua vita e chi l’abitava avevano deciso di ingarbugliarsi tutti insieme e nello stesso momento, ma si ripromise che avrebbe affrontato qualsiasi cosa mantenendo la calma. Le uniche cose ad essere davvero chiare erano l’affetto per Lizzie, l’attaccamento a Chaz e le emozioni che sentiva di provare nei confronti di quel ragazzo che, ormai, sembrava fosse entrato a pieno diritto nei suoi pensieri, sollevandolo dal continuo senso di solitudine e di affaticamento connessi all’impossibilità di poter vivere la propria vita con serenità, come aveva sempre sognato.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Delicate ***






 
"We might kiss when we are alone
When nobody's watching
We might take it home
We might make out when nobody's there
It's not that we're scared
It's just that it's Delicate."

Delicate- Damien Rice



7. Delicate

Il freddo dei primi di Novembre era sempre il più insoffribile, soprattutto per il vento tagliente che quasi costringeva i passanti a cercare indisturbati un qualsiasi luogo che potesse salvarli dall’incessante sensazione di intorpidimento che impossessava ogni cosa.
Nonostante l’abitudine di vivere in un luogo sempre e costantemente oggetto di ogni indignazione del tempo, nessun londinese riusciva realmente ad accettare passivamente il freddo che quell’anno colpì Londra senza alcuna benevolenza.
Il freddo si sopporta ma difficilmente si accetta per come è, tranne che per Izaya che viveva il ciclo ininterrotto di ogni giornata come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Raramente si lamentava di ciò che non poteva controllare e anziché compiangersi per il gelo che aveva impietosamente preso in ostaggio le sue vene, preferiva gioire del calore ritrovato per merito della fumante e rinvigorente tazza di caffè che stringeva nelle mani.
Amava lasciar perdere lo sguardo al difuori delle vetrate del bar, concentrandosi, di tanto in tanto, sulle gocce di pioggia che componevano buffi disegni aggrappati all’ampio finestrone affacciato sul tratto finale dello Strand.
Izaya poggiava i gomiti sul tavolo sostenendosi il viso con le mani, e vagabondava con i pensieri lasciandoli posare su qualsiasi cosa avesse catturato il suo interesse.
Spostava i suoi grandi occhi nocciola su ogni piccolo particolare e a volte sorrideva tra sé e sé pescando nella sua mente una delle tante immagini capaci di allietarlo.
C’era un pensiero in particolare che lo spingeva a sorridere, sempre più spesso.
Vide una goccia di pioggia scivolare lievemente sul vetro appannato e sorrise ripensando al ragazzo che aveva conosciuto neanche una settimana prima ma che si era imposto silenziosamente, senza grandi gesti o plateali richieste di attenzione.
Jay era entrato nella sua testa pacatamente, leggero come una brezza e in punta di piedi vagava tra le parole confuse generate dagli eventi della sua quotidianità.
Laddove normalmente non doveva essere contemplato, la sua figura si ripresentava di sorpresa, senza alcun preavviso. Vagava leggero tra le liste della spesa, tra il fumo di sigarette, tra i titoli di coda di un film trasmesso in seconda serata in tv.
Jay c’era sempre e persisteva.
Non era ciò che aveva detto né qualcosa in particolare che aveva fatto, era lui e soltanto lui nel suo insieme composto dalle sue peculiarità, era Jay nella sua sostanza, nel suo essere, nel suo vissuto; appariva anche quando non era presente ed era il desiderio di vederlo che costruiva la sua forma quasi palpabile.
Izaya sorseggiò il caffè nero lasciando che il calore potesse risvegliare il torpore che aveva dominato le sue dita per tutta la mattina e cercò Lizzie indaffarata con le prime faccende del preapertura.
Il ragazzo era solito recarsi al bar poco prima dell’ora di inizio delle attività, degustando il primo e debole caffè della macchinetta appena accesa. Purgarsi con l’annacquato e iniziale prodotto della caffetteria era diventato quasi un rito barbarico di iniziazione, poiché cominciare la giornata con il caffè di Lizzie era più una prova di coraggio che una reale necessità, ma l’abitudine di beneficiare delle prime ore del mattino, custodito tra le braccia amorevoli di quelle mura zeppe di poster dei musicisti dell’età del Jazz, si rivelò dura a morire, soprattutto da quando aveva svelato questo piccolo particolare a Jay.
Izaya non sapeva se avesse colto quell’informazione buttata lì, quasi per caso, durante una chiacchierata, ma attese l’arrivo di Jay consultando continuamente l’orologio, sperando non facesse troppo tardi.

“Io, di solito, sto qui al bar già delle sei del mattino. Mi piace bere il caffè da solo, ascoltare il tintinnio delle tazze e dei bicchieri appena usciti dalla lavastoviglie, aspettare che arrivi l’ora di andare a lavoro e godere del silenzio di questa sala vuota che mi permette di mettere in ordine i pensieri.” Lo disse, quella sera, senza farsi alcuna aspettativa, ma pronunciò quelle parole così lentamente da farle sembrare un invito.

Fissò ancora l’orologio, insicuro sul da farsi. Lo avrebbe aspettato ancora, fino a che il tempo a sua disposizione non fosse terminato. E quando ormai sentì di poter lasciare andare la speranza lo vide correre lungo lo Strand come la prima volta, sotto la pioggia: aspettava il momento giusto per attraversare la strada con il viso leggermente alzato e gli occhi attenti sulle auto che sfrecciavano. Sembrava un bimbo in preda all’eccitazione e un senso di gioia scivolò sul viso di Izaya, donandogli un lieve sorriso di compiacimento che lo illuminò mentre sbirciava di sottecchi l’arrivo di Jay, richiamandolo a sé con impazienza.
Il rumore del campanellino posto sulla porta lo fece trasalire, come se non si aspettasse un’entrata così irruenta e aspettò di spalle, senza voltarsi, fremendo al solo pensiero di avercelo davanti.
Sentì i suoi passi avvicinarsi lentamente; anche il suo incedere parlava di lui, lo raccontava, lo svelava.
Passi silenziosi ma decisi si susseguivano, sempre più udibili e pieni della sua presenza, finché smisero di farsi sentire.
L’impercettibile e adorabile rumore cessò e già sentiva che gli sarebbe mancato.
«Izaya.» Anche la sua voce lo definiva, anche quando pronunciava un nome che non era il proprio.
Izaya si voltò, svelando il solito sorriso in bilico tra l’imbarazzo e il compiacimento, non disse nulla ma lo invitò con lo sguardo a sedersi difronte a lui.
Tacitamente, Jay accettò l’invito e si sedette ansimante per via della corsa, mostrando i grandi occhi verdi legati a quella dannata e perenne malinconia che l’aveva da sempre contraddistinto, fin dal loro primo incontro.
Se avesse potuto gli avrebbe strappato quella tristezza dallo sguardo e l’avrebbe trasformata in qualcos’altro. Avrebbe voluto vedere tutto fuorché la tristezza, eppure, guardando meglio, quelle iridi trasparenti avevano dell’altro quella mattina.
«Sono felice che tu sia qui, Jay.»
«Lo sono anche io». Sorrise e tutto fu chiaro: c’era una pacata esaltazione nei suoi occhi, del tutto nuova. Aveva corso affannosamente lungo lo Strand per raggiungerlo, sperando di fare in tempo.
Si era alzato quella mattina dicendosi che non sarebbe dovuto andare al bar, che non avrebbe potuto compiere quel gesto sperando potesse risultare casuale 
non dopo le parole di Izaya  ma l’istinto aveva giocato sporco, facendolo svegliare prima del solito con un unico ed invadente pensiero: correre da lui con il rischio di scoprirsi troppo.
Aveva temporeggiato ammonendosi di continuo, trovandosi mille cose da fare pur di non cadere nella tentazione di riunirsi a lui, ma ogni tentativo fu vano perché, nonostante il ritardo, i suoi piedi avevano deciso di correre. Lo fece disperatamente, pregando di trovarlo ancora lì e quando, poi, lo vide di spalle, seduto da solo nel bar vuoto, il cuore aveva sbrogliato ogni dubbio dicendogli che aveva fatto la cosa giusta, contro ogni ragione e logica.
«Hai fatto troppo tardi, ragazzino. Devo andare via».
Izaya aveva osato, affondando lo sguardo nel caffè. Aveva ammesso di averlo velatamente incoraggiato a recarsi al bar e sperò che Jay potesse dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse sdrammatizzare un’affermazione che, seppur ardita, era del tutto sincera.
La risposta attesa non arrivò a parole, ma giunse ai suoi occhi con uno sguardo eloquente che esprimeva appieno ogni minima emozione. Non avevano più molto tempo, il ritardo di Jay aveva reso quel momento fuggevole, ma le percezioni di entrambi divennero sempre più acute, come se avessero deciso di funzionare al massimo delle loro possibilità per dargli modo di gustarsi reciprocamente e pienamente in un lasso di tempo troppo breve per essere vissuto con disattenzione. Il rumore della pioggia, i profumi e perfino i movimenti di ognuno sembravano avere tutto un altro gusto e significato; come quando osservi una persona che conosci in ogni minimo particolare ma che, chissà per quale motivo, ti sembra di vederla per la prima volta.
Ormai si conoscevano, avevano passato una settimana insieme a Lizzie e Chaz, ogni benedetta sera a bere, a fumare, a chiacchierare, eppure sembravano diversi, due sconosciuti che imparano a conoscersi di nuovo, perché era sempre così tra Izaya e Jay: si conoscevano per la prima volta ad ogni incontro.
Era la voglia di scoprirsi vicendevolmente che iniziava questo gioco di ricordi perduti, Jay lo vedeva e dopo averlo lasciato se ne dimenticava, scordava tutto: gli occhi, il sorriso, ogni suo tratto diventava vago, cosa che lo portava a sentirne sempre la mancanza.
Per Izaya era diverso, sebbene avesse sempre il suo ricordo marchiato nella mente, più il loro rapporto si intensificava più i suoi tratti prendevano forma distintamente, tanto da farlo mutare in continuazione, perché ogni nuovo tassello incastrato all’altro componeva ininterrottamente immagini nuove, più dettagliate e precise.
Sapevano che prima o poi sarebbe arrivato il momento di mettere fine a quella costante sensazione di déjà vu e l’unico modo era parlarsi, dichiararsi ed esprimersi liberamente in modo da impedire alla mente di cancellarsi ogni volta per protezione o per spirito di sopravvivenza. L’uno avrebbe dovuto assicurare la propria presenza all’altro, senza paura di prendere fregature.
Izaya, dal canto suo, aspettava che Jay potesse prendere in mano le redini della sua vita senza forzature, conosceva profondamente le sue difficoltà in proposito ma decise comunque di osare e di metterlo a conoscenza delle sue intenzioni. «Io voglio vederti ancora. Perché sta diventando di vitale importanza». Parole che sembravano più grandi di lui fluirono dalle sue labbra, investendo in pieno il cuore di Jay che colpito dall’imprevedibilità di quell’affermazione trascinò i porpri dubbi lontano da sè, conducendo la nitidezza dei suoi sentimenti in superficie. E come in ogni prima cotta, la sicurezza dei pensieri dell’altro porta l’infatuazione a diventare qualcosa di più e Jay, nell’ingenuità del suo acerbo amore, ricadde nella certezza di desiderarlo pienamente, cancellando ogni traccia di timore legata all’incapacità di sostenere l’ennesimo rifiuto.
«Ma noi ci vediamo ogni giorno…»
«Non mi basta». Il tono perentorio di Izaya, scaturito dal pressante desiderio di accorciare le distanze, lo fece sorridere con estremo imbarazzo.
L’incertezza data dall’inesperienza lo zittì irrimediabilmente.
Cercava parole da dire senza riuscire a trovarne una che fosse calzante e che potesse spiegare al meglio i suoi intenti.
Izaya riconobbe tra i tratti dolci e fanciulleschi di Jay la risposta alla sua provocazione e per non costringerlo ad esprimersi si alzò. «Sono in ritardo, devo scappare. Pensaci a quello che ti ho detto e se ancora non hai capito te lo ripeto in modo più diretto: tu mi piaci Hahn, Jay Hahn. Quindi, se non ti disturba la cosa, vorrei conoscerti meglio».
Il tono canzonatorio di Izaya, che evidenziava ancor di più i contorni della sua personalità che, tendenzialmente, lo portavano a sdrammatizzare qualsiasi cosa 
maggiormente in presenza di Jay  lo divertì e, contemporaneamente, lo fece sentire meglio, libero dalle oppressioni che normalmente vengono generate dalla sensazione di inadeguatezza di chi deve rispondere ad una dichiarazione così specifica.
«Ma… cioè… io non ci devo pensare. Io già so cosa rispondere, ma…»
«Non rispondere e affidati all’intuito di un uomo adulto che dovrebbe saper leggere negli occhi di chi ha davanti».
Jay alzò la testa per guardarlo dritto negli occhi e rimase piacevolmente colpito dall’espressione teneramente scherzosa di Izaya.
Come al solito, aveva reso tutto più facile, alleggerendo il suo animo.
Perché lui faceva sempre così.
Anche quando Jay giungeva al bar di cattivo umore per via dei comportamenti della sua famiglia
con Chaz accanto che lo ammoniva continuamente dicendogli cosa avrebbe dovuto fare e cosa, invece, aveva sbagliato  trovava lui pronto a ridimensionare tutto e a dargli la giusta dose di coraggio per resistere.
Ogni sorriso non dato da sua madre, ce n’erano cento di Izaya; ogni parola demolitiva di suo padre, ce n’erano mille di consolazione. Ormai era così da una settimana e sentiva che se si fosse affidato pienamente a lui sarebbe stato sempre così, per tutto il resto del tempo che c’era da vivere.
«I miei occhi ti dicono che voglio vederti ancora?»
La delicatezza con il quale Jay tentava di farsi capire senza scoprirsi troppo lo intenerì e nonostante avesse voluto prenderlo e portarlo via con sé, si fermò, quasi per paura di spezzare un’innocenza così bella. Quel ragazzino lo spiazzava, anche quando non osava parlare, capì che avrebbe dovuto trattarlo con cura, con attenzione, a tal punto da trattenere l'istinto e decidere di prenderlo per mano e condurlo verso un viaggio nuovo, un cammino che l’avrebbe portato, poco per volta, a lui.
«Se vuoi saperla tutta: i tuoi occhi dicono molto di più.» Si voltò incamminandosi verso l’uscita. «Ci vediamo più tardi, Hahn. E vedi, stavolta, di farti trovare abbastanza presto, non mi piace aspettare.»
«D’accordo!» acconsentì ridacchiando, stringendo gli occhi e mostrando il primo sorriso davvero felice dopo giorni che sembravano fossero stati anni.
La campanella sulla porta fece il resto, ricordandogli che l’incontro, ormai, era finito.
Non sarebbe tornato a breve, l’avrebbe visto la sera stessa, quindi avrebbe dovuto passare il resto della giornata senza di lui, senza poterlo sbirciare furtivamente nel suo gesto di accarezzarsi la barba con fare pensoso, senza le sue improvvise sparate buttate a caso.
Guardò incuriosito fuori dal finestrone e lo vide allontanarsi sotto la pioggia, con la sua solita calma placida, fino a che poi sparì tra la gente frettolosa, lasciando solo un enorme senso di vuoto nel petto.
Adagiò la testa sulle braccia lasciando che le stesse gli coprissero il volto, Izaya non l’aveva neanche sfiorato ma stranamente poté percepire ancora il suo profumo. Chiuse gli occhi e assaporò la fragranza fresca ma decisa dell’uomo che sentiva di amare, al quale mai avrebbe dichiarato i suoi sentimenti con leggerezza. Avrebbe pensato, ci avrebbe riflettuto, anche se sentiva già la risposta pulsargli nel petto.
Izaya, a differenza della sua presenza possente, quasi intimidatoria, era l’esatto opposto nella sua essenza, ed era proprio questo a renderlo ancora più strano e adorabile.
Nelle belle giornate amava cimentarsi in evoluzioni sullo skateboard sotto gli occhi compiaciuti dei suoi colleghi, a lavoro vestiva i panni di un praticante serio e ligio al dovere. Aveva scelto con cura lo studio legale nel quale lavorare: non troppo famoso, con un ambiente sereno al pari del suo animo, capi giovani e tolleranti; aveva pensato a tutto pur di farsi assumere senza dover modificarsi. Non era lui a doversi adattare: strana filosofia, ma certamente molto azzeccata, poiché sembrava fosse alla base del suo intero stile di vita. Per questo Izaya era un ottimista, un perenne cultore della leggerezza d’animo.
“Un immaturo!” diceva Chaz.
“Un eccentrico” rispondeva Lizzie.
“Un uomo libero” concludeva Jay.
Viveva solo ed era indipendente e, cosa strana, odiava qualsiasi mezzo di locomozione di appartenenza propria. Preferiva raggiungere ogni luogo a piedi o con i mezzi pubblici, e odiava testardamente chiunque gli dicesse che avere un’auto fosse di vitale importanza.
“Le gambe, quelle sì che sono di vitale importanza. Le auto sono solo grovigli di ferraglia inquinanti, costose e impegnative. Le auto sono il male. Mandano in paranoia la gente, per questo chi ha un auto è sempre e perennemente incazzato con il mondo”.
Qualsiasi cosa fosse, Izaya era un uomo in pace con se stesso e con tutto quello che lo circondava e se il suo carattere era così contrastante come il suo modo di apparire, allora, doveva per forza nascondere dell’altro.
Etichettare le persone è sempre troppo facile, soprattutto quando si dimostrano particolarmente aperte, ma Jay ne era certo: Izaya era molto di più di un eccentrico, immaturo e pazzo uomo libero.
Con il viso immerso nelle braccia e i pensieri inabissati sul fondale sconosciuto della complessità di Izaya, Jay pregustava il prossimo incontro, dicendosi che avrebbe fatto e detto qualcosa di più.
Gli avrebbe confessato i suoi sentimenti, dichiarando la sua intenzione di volerlo frequentare più approfonditamente.
Non c’era alcun ostacolo, perché avrebbe dovuto temporeggiare inutilmente?
La piccola campanella avvisò l’arrivo di qualcun altro e nella speranza che potesse essere proprio lui destò lo sguardo e vide due occhi grandi e scuri guardarlo con determinazione. «Jay, io ti devo parlare.»
Ogni fantasia fu calpestata dall’irruente risolutezza di Chaz che, con i muscoli irrigiditi dalla tensione, impose la sua presenza, aizzando le paure incerte e nascoste di Jay circa il destino della loro amicizia.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** I can't make you Love me ***





"I close my eyes
Then I won't see
The love you don't feel
When you're holding me
Morning will come and I'll do what's right
Just give me till then to give up this fight

And I will give up this fight"
I can’t make you Love me- Bon Iver





8. I can't make you Love me


Il freddo 
che a volte è così gelido da sembrare lava incandescente capace di divorare ogni cosa al proprio passaggio  dilagò in ogni recesso del corpo di Jay e gli occhi di Chaz, ardenti come pezzi di carbone abbandonati nel bel mezzo di un fuoco scoppiettante, trivellarono ostinatamente il suo petto, tanto da fargli affidare all’ultimo sospiro il compito di trascinare via il piccolo ma intenso ricordo dei momenti di pace appena vissuti con Izaya.
Jay non proferì parola, ma squadrò con crescente preoccupazione l’amico davanti a sé, attendendo con ansia che quest’ultimo trovasse il coraggio di spiegare ciò che aveva in mente.
Appena entrato, Chaz aveva bene in chiaro cosa dire, ma nell’attimo stesso in cui la campanella aveva rintoccato il suo ultimo avviso la sicurezza vacillò, lasciando il posto al tremore che prese possesso delle sue mani.
Si guardarono per incalcolabili minuti; il rumore della pioggia sempre più impetuosa riempì il vuoto lasciato dalle parole inespresse e il continuo vociare dei clienti appena entrati rubò l’ultimo ed incerto sprazzo di coraggio che aveva avviluppato, per pochi e brevi istanti, l’animo di Chaz. «Per quanto sia assurdo, visto l’orario, sapevo di trovarti qui. Ormai, questo sembra l’unico posto dove tu voglia stare.» Il tono di sufficienza con il quale parlò stizzì Jay che, nel frattempo, cercava Lizzie così da assicurarsi la presenza dell’unica persona che potesse attutire lo scontro dei propri sentimenti indomabili e contrastanti. Vagò con lo sguardo in attesa che il sorriso dell’amica potesse presentarsi in suo soccorso, tuttavia l’insoddisfatta ricerca cessò non appena Chaz si sedette al posto lasciato ancora caldo da Izaya.
Si fissarono per qualche secondo in silenzio, scontrandosi con fugaci sguardi di disillusione e rammarico.
«Era questo che dovevi dirmi?» chiese Jay con freddezza, rigirandosi tra le mani la tazza vuota di chi era andato via da troppo poco tempo per poterlo dimenticare.
«In verità, no. Volevo dirti altro ma credo non abbia più importanza. Ti sei visto con Izaya?»
«Già». Abbassò lo sguardo concentrandosi sui granelli di caffè adagiati sul fondo della tazza. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di capire le intenzioni di Chaz, ma l’aria di altezzosità che incombeva sul viso dell’amico modificò la disponibilità benevola con la quale aveva intenzione di accogliere le sue confidenze.
Se prima aveva intenzione di attendere con pazienza una confessione
  se sempre di questo si trattava  stavolta, il suo atteggiamento non aveva fatto altro che innervosirlo, donandogli un sentimento di apatica enfasi tale da rendere l’attesa ancora più snervante.
«Chaz, se hai da dirmi delle cose, penso sia arrivata l’ora di farlo, perché sto cominciando a stancarmi dei tuoi continui sbalzi di umore.»
«Vedo che mi tratti con la stessa pazienza che io riservo a te!» affermò ironico.
L’ironia: era un aspetto di Chaz assai fastidioso, ancor di più se travestita da vittimismo.
«C’è una differenza tra te e me: tu sai contro cosa combatti, io non lo so. Sto aspettano da giorni di capire cosa ti frulla nella testa e, onestamente, comincio a stancarmi
» confessò spossato finché un pensiero non lo rianimò ancora. Si avvicinò a lui impercettibilmente, dandogli modo di appurare la sua buona fede attraverso il proprio sguardo. «Faccio così paura? Credi che qualsiasi cosa tu abbia da dirmi possa cambiare ciò che penso di te? Ti sbagli. Io ti ho dato tempo, ho fatto in modo che tu potessi pensarci su e decidere se parlarmi o meno ma, a quanto vedo, hai deciso di portare avanti il tuo silenzio, sfogando su di me le tue frustrazioni».
Chaz si irrigidì: Jay sapeva molto di più di quello che aveva lasciato sempre intendere e lo conosceva abbastanza bene da capire che il suo atteggiamento, 
nonostante ostentasse una certa spavalderia nel rimarcare le proprie convinzioni, fosse un segno di autodifesa. Il sarcasmo di Chaz era la spada e la determinata chiusura di Jay uno scudo.
«Va bene, caro migliore amico, ti faccio contento, ma non ora. Stasera, quando saremo tutti insieme, ti dirò quello che ho da dire. Ti basta come prova di coraggio?»
«Non ti ho chiesto di provarmi il tuo coraggio. Ti ho chiesto di essere sincero».
L’ultima parola sopraggiunse come un pugno.
Gli occhi di Jay sembravano di ghiaccio ed erano puntati dritti in quelli fiammeggianti di Chaz; tuttavia il fuoco non sciolse il ghiaccio, ma si placò sotto il dominio incrollabile della fredda durezza che si palesò, per la prima volta, nell'espressione dell'amico.
«Non sono, forse, sempre stato sincero?»
«Non lo so. Dimmelo tu» sussurrò fissando le mani nervose di Chaz che si paralizzarono nell'istante in cui l'altro lo esortò a confessare i suoi scheletri nell'armadio.
Chaz si ammutolì davanti la fermezza dell’amico che sembrava non volesse cedere. Si sentì sotto esame, ancor di più nel momento in cui quest’ultimo accorciò le distanze poggiando i gomiti sul tavolo in attesa di una risposta.
Quell’atteggiamento lo fece sentire nudo e tremendamente in colpa: non era stato sincero, eppure aveva fatto l’arrogante, accusandolo di una mancanza che, in realtà, non aveva mai avuto nei suoi confronti.
«Il discorso sta prendendo una piega che non mi piace per niente» ammise imbarazzato agitandosi sulla sedia.
«A me non solo non piace, mi fa male. Non ho mai dubitato di te, ma il tuo modo di comportarti comincia a pesarmi.» Lacrime silenziose si fermarono nei suoi occhi, senza fluire. «Mi sei stato vicino sempre e non pretendo che tu lo faccia ancora, ma non sopporto quando tu dimostri di non avere fiducia in me. Parlami. Non aspettare stasera. Io ho bisogno di sapere cosa ti succede, cosa provi, cosa vuoi dirmi. Forse tu pensi che Lizzie, questo bar e persino Izaya siano diventati più importanti di te, ma ti sbagli. Tu sei ancora in cima alle mie priorità, perché sei la persona più cara che io abbia mai avuto accanto».
Il cuore di Chaz cominciò a battere così velocemente da riuscire a percepirlo distintamente: aveva creduto di averlo perso per sempre, invece c’era e batteva con una furia tale da soffocargli il respiro, le parole. Il cuore non era l’unica cosa che credeva di aver perso, con esso c’era Jay, anzi in esso c’era Jay.
Aveva finalmente afferrato il succo di tutti i suoi problemi: il silenzio, la paura, la sfiducia avevano costruito un muro di omertà così invalicabile da compromettere pericolosamente il loro stesso rapporto, e tutto questo senza neanche rendersene conto.
Aveva creduto fin troppo all’ingenuità di Jay, sottovalutando la sua arguzia.
Era un osservatore 
lo era sempre stato  e anche stavolta aveva vissuto con lui gli stessi timori, ma all’inverso, l’unica cosa che li aveva accomunati era stato il silenzio.
Entrambi avevano taciuto per paura di sbagliare, ma Chaz dovette ammettere la propria colpevolezza e riconoscere la germogliante maturità del suo migliore amico che ormai diventava sempre più adulto. I problemi, i dolori, avevano contribuito a farlo crescere ed evolvere; Jay l’aveva lasciato indietro in quel percorso e Chaz, nella stessa misura, era vittima del proprio regresso.
Si era comportato come un bambino viziato, capriccioso e ostinato e sebbene se ne fosse reso conto non aveva fatto mai nulla per mutare questo stato di cose; aveva insistito con gli atteggiamenti infantili, intestardendosi, modificando continuamente la realtà e le certezze che l’avevano tenuto legato da sempre alla figura gracile ma forte del suo più caro amico, del suo unico amore.
«Sai che c’è, Jay? Non sono in grado di poterti dire con lucidità quello che penso, non adesso. Devo mettere in ordine le idee, devo prepararmi, devo capire fin dove sono disposto a rischiare…»
«Vuoi capirlo che non sono un rischio per te?»
«Lo sei più di quanto credi, perché dalle tue parole dipenderà tutto, compresa la mia sanità mentale. Tu non puoi sapere quanto un segreto può scavare in profondità quando non viene condiviso: distorce tutto e ti fa credere cose che magari non esistono. Adesso, però, alla luce delle tue rassicurazioni, devo pensare a cosa sono disposto a perdere, a quanto posso spingermi senza farmi del male».
Jay acconsentì abbassando lo sguardo, avrebbe atteso pazientemente con la speranza di essere stato abbastanza chiaro.
Ormai era evidente: Chaz provava qualcosa, ed un misto di dispiacere e insicurezza prese posto nel suo stomaco. Poche ore prima aveva camminato a mezz’aria gustandosi una leggerezza che sentiva di aver perso da tempo immemore e poi, senza alcun preavviso, un nuovo fulmine aveva irrimediabilmente squarciato il suo cielo, rigettandolo nuovamente nella paura. Avrebbe perso Chaz, ogni cellula del suo corpo lo urlava e non avrebbe potuto fare niente per impedirlo.
Con la sfuriata di suo padre pensava di aver raggiunto il numero massimo di problemi e tormenti che normalmente si presentano nella vita di un ragazzo di appena diciotto anni e, invece, ecco presentarsi uno degli ostacoli più grandi della sua vita.
Sarebbe mai stato in grado di accettare la perdita di Chaz?
Molto probabilmente no, ma aveva scelto di affrontare la cosa accantonando l’egoismo, avrebbe pensato prima al suo amico, l’avrebbe supportato…
Chaz si alzò e con gli occhi spenti si voltò, senza neanche salutarlo.
Jay lo vide allontanarsi senza poter fare niente e si rese conto di un fatto lampante che l’avrebbe legato mani e piedi: nonostante i suoi buoni propositi, capì di essere nella tipica posizione scomoda di chi, con un gesto, può distruggere tutto, come può risollevare le sorti di una situazione incerta e instabile. Sapeva, però, che qualsiasi cosa avesse scelto di fare avrebbe inevitabilmente implicato la sofferenza di qualcuno.
Izaya, Chaz, se stesso.
Era giunto il momento di scoprire le carte, avrebbe dovuto stringere ancora i denti prima di riuscire a raggiungere la pace che tanto aveva cercato.
Sembrava di stare su un ascensore in continuo movimento. Tra alti e bassi, la sua vita aveva cominciato a prendere una piega del tutto inaspettata, ma certamente necessaria. La verità era l’unica cosa che lo aveva spinto a mettersi contro i suoi, e ancora la verità sarebbe stata l’unica motivazione a dargli il coraggio di agire con la più totale schiettezza, senza alcuna paura.
Chaz uscì senza voltarsi e Jay crollò sul tavolo, costringendo la sua fronte sulla superficie liscia che aveva visto le sue mani tormentarsi tra loro.
Il panico lo prese di sorpresa e cominciò a piangere, sempre più inconsolabilmente, stringendo i denti.
Il jukebox riempiva il locale con un’allegra melodia, mentre le lacrime di Jay scendevano copiose senza che lui potesse fare qualcosa per fermarle; sentiva di non avere più le forze di lottare e di rinunciare a qualcosa, pensava fosse finito il tempo delle rinunce, ma l’arrivo di Chaz aveva nuovamente aperto ferite non totalmente chiuse, costringendolo a doversi mettere ancora in discussione.
Lizzie, finalmente, uscì dalla cucina e nel mezzo del caos composto dai clienti affamati vide Jay col capo chino sul tavolo.
Quell’immagine la spiazzò così tanto da farla indietreggiare. L’aveva visto piangere altre volte, ma questa volta sembrava che un peso ancor più grande di quello precedente lo stesse schiacciando, così accorse lentamente per paura di innescare uno scoppio colossale. Sapeva che prima o poi sarebbe esploso e sembrava proprio quello il momento.
Arrivata davanti a lui, con la massima cautela gli si affiancò: «Hahn…» La mano di Jay si alzò e fermò il fluire di altre parole dalla bocca di Lizzie. «Sto bene.»
«Hai bisogno di qualcosa?».
Alzò il capo ed un’espressione indecifrabile investì la ragazza con un impetuosità tale da zittirla definitivamente. «Portami una vodka.»
«Sono le sette di mattina…»
«Ti prego: portami una vodka». Lizzie acconsentì senza più controbattere e guardando il posto vacante davanti a Jay capì che qualcosa di grave si era compiuta in sua assenza e chiese silenziosamente perdono sapendo che la sua presenza avrebbe giocato un ruolo fondamentale. Lei non c’era stata, l’aveva lasciato solo e nonostante gli occhi di Jay suggerissero una totale calma, Lizzie poté percepire la furia disperata che lottava sotto la pelle del piccolo uomo che aveva appena concluso una battaglia della quale lei, al momento, non ne conosceva le dinamiche.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Limit to your Love ***





Capitolo nove

"There's a limit to your care
So carelessly there
Is it truth or dare?
There's a limit to your care

There's a limit to your love
Like a waterfall in slow motion
Like a map with no ocean
There's a limit to your love."

Limit to your Love- James Blake



9. Limit to your Love


La vodka aveva fatto il giusto effetto, rendendo Jay il ritratto perfetto della leggerezza d’animo.
«Sembri molto Izaya» disse Lizzie, scoprendo le carte sul tavolo: un poker netto.
Jay sgranò gli occhi. «Ma porca miseria! Vinci da quattro mani ininterrottamente.» Scaraventò sul tavolo il suo misero tris di cinque e si lasciò consolare dall’ultimo goccetto lasciato di riserva nel bicchiere.
“Sembri molto Izaya”. Sorrise e pensò che, almeno, Izaya non aveva bisogno di bere per sentirsi leggero, ma fu fiero del suo stato mentale: seppur con un aiutino, era riuscito a vederci chiaro senza piangersi addosso.
«Un’altra partita, Hahn?»
«No! Mi rifiuto! Senti, Lizzie: se tu avessi una scala nelle mani e ti mancasse una sola carta perché questa diventi reale, cosa faresti? Rischieresti o ti terresti la semplice scala?»
«Che domanda del cazzo! Allora: se io avessi una scala, con buona probabilità potresti avercela anche tu, di conseguenza potrei rischiare di perdere o al massimo potremmo finire in pareggio… come potrei anche vincere! Insomma, Jay. Io sto!»
«In poche parole ti accontenti, non rischi.»
«Rischio solo se il piatto non è ghiotto. È questo che ci differenzia: tu perdi perché sei ingordo, io vinco perché sono coscienziosa. Se hai tanto da perdere non puoi rischiare. Comunque, giusto per essere onesta, la tua vita non è una partita a carte con una cameriera!».
Gli occhi di Jay presero il largo verso pensieri troppo più grandi di lui e il suo sguardo puntò dritto verso l’entrata dove vide apparire insieme, sorprendentemente, i due uomini che avevano occupato ogni angolo della sua mente.
Si mise dritto, attendendo il loro arrivo: “Io sono il banco. Il banco vince sempre”.
«Buonasera giocatori. Hahn, ancora speri di poter vincere?» chiese Izaya, togliendosi la sciarpa che l’aveva tenuto al riparo dal gelo della sera. I suoi occhi erano lucidi e come al solito pieni di serenità. Lo invidiò, se avesse potuto gli avrebbe chiesto disperatamente di prestargliene un po’ e quando vide Chaz fissarlo il suo cuore vacillò.
«Vado a prendere qualcosa da bere» annunciò Lizzie, cimentandosi in smorfie di incoraggiamento senza farsi scorgere dai due appena arrivati.
Izaya rivolse gli occhi verso il bicchiere vuoto di Jay e arricciando il naso chiese spiegazioni puntando il pollice verso l’oggetto del suo interesse. Effettivamente, quel bicchiere risultava alquanto strano se collocato nel contesto ordinario: non aveva mai bevuto alcolici da solo, ma quel giorno aveva deciso di concedersene più d’uno.
Jay finse di non capire e non appena Chaz prese posto difronte a lui, accanto ad Izaya, si lasciò andare ad un sospiro sperando di poter sostenere una conversazione decente.
Izaya aspettava qualcosa,
glielo si leggeva negli occhi  attendeva che Jay potesse dire o fare qualsiasi cosa in risposta alla richiesta che aveva espresso quella mattina stessa; nonostante la sua acutezza, non si accorse che negli occhi di Chaz c’era lo stesso sguardo: anche lui era in attesa, non di una risposta, ma di un momento propizio da sfruttare per porre un quesito diretto, scoprendo le sue carte. «Devo dirvi una cosa.» Lo disse così deciso da non rendersi conto di aver quasi urlato.
Lizzie accorse con il vassoio colmo di alcolici e stuzzichini e sedendosi accanto a Jay lo incalzò: «Sentiamo.»
«Non ti ho chiesto una prova di coraggio…» bisbigliò Jay, supplicandolo di non mettersi nella condizione di esporsi così, davanti a tutti.
«Mi hai chiesto di essere sincero e lo sarò» lo interruppe Chaz.
Izaya si guardò intorno chiedendosi cosa fosse accaduto in sua assenza e un lampo di consapevolezza accese i suoi grandi occhi nocciola. Aveva sempre sospettato qualcosa sui sentimenti di Chaz nei confronti di Jay, ma non credeva che sarebbe mai arrivato il momento di dovercisi scontrare direttamente. La cosa non lo dispiacque per niente e incrociando le braccia si poggiò allo schienale della sedia, accavallando le gambe. Scrutò il ragazzo accanto a sé con interesse, in attesa che quest’ultimo confessasse ciò che, in fondo, lui aveva sempre saputo.
Il cuore di Chaz cominciò a pulsare sempre più velocemente e le mani madide di sudore si poggiarono nervosamente sul tessuto ruvido dei suoi jeans cercando di trovare attraverso quel contatto il coraggio che credeva di aver perso strada facendo. Ormai era in ballo, avrebbe dovuto parlare e non appena i suoi occhi si scontrarono con quelli di Jay la sua bocca si spalancò snocciolando tutto d’un fiato ciò che per anni aveva omesso: «Insomma, Jay: ti ho sempre amato dal primo giorno e mi scuso se non sono stato sincero con te, ma speravo stupidamente che tu, col tempo, ti saresti accorto di me. Invece non è stato così e quando ho visto arrivare l’uomo barbuto al mio fianco ho cominciato a comportarmi da stronzo perché… sono geloso.»
«Ah! La cosa si fa interessante.» Il commento fuori campo di Izaya sopraggiunse al cuore di Chaz che, voltandosi, lo squadrò. La sua calma era quasi irritante, tanto da costringerlo a mettersi sulla difensiva: «Mi pare di non essermi rivolto a te».
Izaya alzò le mani in segno di scuse e con un sorrisetto sarcastico serrò le labbra, indirizzando il suo sguardo verso Jay che, a vederlo, sembrava un vecchietto di ottant’anni. Era bastata una frase per invecchiarlo nell’aspetto. Izaya sorrise sommessamente dispiacendosi per la bomba che lo aveva appena colpito in pieno viso, ammutolendolo; nonostante ciò decise di non sacrificarsi: «Non voglio appesantire la questione ulteriormente, ma è giusto che io metta in evidenza il fatto che io ho la precedenza.» Il tono canzonatorio di Izaya non sortì l’effetto solito perché, anziché alleggerire la cosa, scatenò l’ira soppressa di Chaz che per troppo tempo aveva messo a tacere la collera per non rischiare di scoprirsi troppo. Ormai aveva confessato, di conseguenza, non aveva più nulla da perdere: «Non mi piace metterla sul piano delle precedenze, ma se questo è il massimo che puoi fare 
caro signor saggio barbuto  allora dovrai metterti da parte, perché io sono nella vita di Jay da molto più tempo di te.»
«Che discorso intelligente, il vostro!» proruppe Lizzie incrociando le braccia e sbirciando di sottecchi Jay poté cogliere un sorrisetto inaspettato e del tutto inspiegabile. Sembrava un giocatore di poker in fase di bluff mentre guardava con aria distaccata i due contendenti dinanzi a lui. L’espressione svelava esattamente ciò che aveva nel cuore in quel momento: non era preoccupato né dispiaciuto per ciò che stava accadendo. Rimase in silenzio ad ascoltare i due ragazzi battibeccarsi.
Izaya,
con la sua solita calma, rispondeva prontamente alle provocazioni di Chaz mentre, quest’ultimo, scagliava continui e duri attacchi con la speranza di riuscire a metterlo in ginocchio e dimostrare a Jay la realtà dei suoi sentimenti, difendendo il loro rapporto con le unghie e con i denti.
All’ennesima battuta, Jay si destò dai suoi pensieri e richiamando l’attenzione di entrambi li fissò in silenzio per qualche secondo, con gli occhi intrisi di calma e posatezza. Poggiò i gomiti sul tavolo stendendosi impercettibilmente verso i due e dopo aver servito loro un lieve sorriso vittorioso schiuse leggermente le labbra, mordendo quello inferiore con gusto. Gli occhi si illuminarono, come presi da un’idea incredibilmente geniale: “Il banco vince sempre!”
«La mia risposta è no!”
Chaz e Izaya ammutolirono di colpo e il gelo calò nella sala, le uniche persone che sembravano immuni al freddo intenso che aveva ghiacciato perfino le parole erano Lizzie e il banco che, soddisfatti, scrutavano l’espressione dei due ragazzi stavolta accomunati dalla stessa sorpresa.
«Che significa: no?» chiese Chaz impacciato, quasi balbettante.
«Significa che se mi state chiedendo di scegliere uno dei due da frequentare, la mia risposta è la seguente: non scelgo nessuno dei due.»
«Vigliacco!» sussurrò Izaya con una risatina, in realtà era ancora più affascinato dalla sicurezza del piccolo Jay che seppur molto giovane dimostrava di avere più determinazione di tutti i presenti in sala.
Chaz, in un gesto di incredulità, si abbandonò sulla sedia fissando con gli occhi vuoti un punto a caso sul tavolo. Aveva confessato, ma ciò non aveva cambiato nulla; si risvegliò scottato dalla delusione e monocorde espresse il suo punto di vista: «Stavolta sono d’accordo col barbuto: sei un vigliacco. Mi hai puntato il dito in faccia questa mattina accusandomi di non essere stato sincero e adesso… te ne lavi le mani? Ma bravo, complimenti!»
«Ho i miei motivi. Innanzitutto sono stanco di ragionare e poi: sì! Sono un vigliacco forse, ma non voglio perdere nessuno dei due. Se dovessi scegliere adesso direi Izaya, non perché tu non mi piaccia, Chaz, ma perché io ti ho sempre visto come un amico e mi viene un tantino difficile pensarmi mano nella mano a passeggiare con te 
tralasciando il fatto che non potrei farlo liberamente dato che tu ti nascondi dalla tua stessa ombra. Ho deciso di non scegliere perché alla luce della tua confessione non mi sento pronto di prendere una decisione a cuor leggero. Ci devo pensare, devo cominciare a guardarti da un’ottica diversa. Se scelgo te rischierei di perdere Izaya e se scelgo lui, perderei te. Visto che sono un fottuto egoista: non scelgo nessuno».
Un silenzio tombale imperò per lunghi minuti finché la sonora risata di Izaya ruppe la quiete, elargendo a tutti i presenti un po’ della sua spontanea serenità d’animo 
eccetto a uno.
Jay trattenne un sorriso per non dover abbandonare la maschera di sicurezza che aveva appena indossato per sganciare la bomba e Chaz, del tutto spiazzato, si alzò sbuffando: «Dato che qui avete deciso di prenderla a ridere, vado fuori a fumarmi una sigaretta.»
«Ascolta, l’unico ad essere incazzato, qua in mezzo, dovrei essere io dato che per colpa tua e della tua tardiva dichiarazione d’amore mi hai scombinato tutto. Ma pazienza, no?!» esordì Izaya, parlando alle spalle di Chaz che si dirigeva verso l’uscita.
Jay si alzò di scatto e seguì l’amico all’esterno del locale.

***

La sigaretta appena accesa fu l’unica cosa in grado di consolare Chaz: il primo tiro lo salvò da un singhiozzo che stava per presentarsi involontariamente a tagliare l’aria silenziosa intorno, il secondo, dopo l’arrivo di Jay, lo strappò dal pericolo di dire qualcosa di troppo affrettato.
Jay lo fissò senza proferire parola, sapeva di avergli imboccato a forza un boccone troppo amaro da mandare giù, ma allo stesso tempo non poté rimproverarsi nulla poiché aveva agito nella più totale onestà, ammettendo i suoi sentimenti, confessando la sua incapacità di scegliere per via della paura, eppure si sentì comunque in colpa nei confronti dell’amico che in quello stesso momento tentava di soffocare con tutte le sue forze la delusione.
Aveva dichiarato il suo amore esponendo il suo animo con trasparenza e di tutta risposta non solo aveva ricevuto un rifiuto, ma anche le prese in giro di Izaya.
«Chaz…»
«Stai zitto. Non parlare. Hai detto già abbastanza.»
«Non avrei voluto farlo in quel modo, ma mi hai messo nella condizione di rispondere apertamente davanti a tutti, non potevo fare altrimenti. Il fatto è che Izaya, questa stessa mattina, mi ha chiesto…»
«Non mi interessa cosa ti ha chiesto Izaya. Io so solo che gli hai permesso di prendersi gioco di me e dei miei sentimenti. Potevi dirmi quelle stesse cose in privato…»
«Lo capisci che non me ne hai dato modo?» urlò Jay in preda al panico.
Come volevasi dimostrare, era accaduto esattamente ciò che temeva: con le sue parole aveva ferito il suo più caro amico facendo sì che il significato delle sue stesse parole venisse inteso in malo modo.
Ciò che aveva colto Chaz dal discorso di Jay non fu l’apertura di una possibilità da poter sfruttare, ma un rifiuto amaro con annessi gli scherni superficiali del suo più acerrimo nemico.
Iniziò un cantico di sbuffi e imprecazioni a fior di labbra, cosa che intenerì Jay che avvicinandosi lentamente 
come se si trovasse davanti ad un cane rabbioso che da un momento all’altro avrebbe potuto attaccarlo  afferrò la sigaretta di Chaz traendo a sé l’amico che, colto di sorpresa, non poté divincolarsi in alcun modo dalla stretta salda e decisa del ragazzo che amava e che l’aveva rifiutato pochi minuti prima.
Rimasero in silenzio, stretti l’uno all’altro, scambiandosi sospiri fin troppo familiari da ignorare. L’abbraccio di Jay era casa, era sicurezza, fermezza, era amore, e le lacrime di Chaz erano dolore, sofferenza pura.
«Cazzo, Io ti amo, Jay. Da così tanto tempo che non ricordo neanche più come si vive senza amarti.».
L’onestà di quelle parole colpirono così duramente Jay da farlo trasalire; per la prima volta, la franchezza prese il posto dei silenzi costringendolo a guardare in faccia una realtà mai neanche sospettata ma che, espressa con coraggio, condita di lacrime e disperazione, suonava come un laccio stretto intorno al cuore che solo in quel momento poté sentire chiaramente. Quel legame esisteva, ma solo dopo che Chaz ebbe strattonato quella corda fu in grado di sentirne la presa e la robustezza e si accorse che, in realtà, quella stessa corda c’era sempre stata.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** November Rain ***





  decimo
"...And it's hard to hold a candle
In the cold November rain

We've been through this such a long long time
Just tryin' to kill the pain."

Guns N' Roses-November Rain



10. November Rain


La sveglia suonò imperterrita per quasi mezz’ora fino a che la mano assonnata di Jay non le diede il colpo di grazia scaraventandola giù dal comodino.
Gli avvenimenti accaduti qualche giorno prima, la confessione sparata a brucia pelo da Chaz e la disarmante ironia di Izaya non avevano fatto altro che confonderlo, alimentando esponenzialmente i suoi dubbi.
Puntò i grandi occhi verdi verso la finestra e si maledisse di non averla chiusa la sera prima. La luce lo accecò, spingendolo ad intrufolarsi nel caldo abbraccio delle coperte.

Dopo l’ennesima serata vissuta con imbarazzo per via dell’irrequietezza di Chaz e i continui goffi tentativi di Lizzie di far ritornare tutto alla normalità, appena ritornato a casa, aveva aperto la finestra per poi sedersi sul davanzale con le gambe penzoloni, lasciando che queste ciondolassero nel vuoto accompagnando il fluire dei suoi pensieri sconnessi. Aveva osservato l’orizzonte scorgendo i colori tipici dell’alba appena iniziata e il silenzio delle prime ore del mattino gli aveva dato modo di riflettere: sebbene si sentisse tremendamente in colpa per aver fatto soffrire Chaz, sapeva di aver fatto la cosa giusta. Chiunque gli avrebbe dato dell’egoista e forse un po’ era anche vero, tuttavia non avrebbe mai preso con leggerezza il suo cuore, i propri sentimenti, tantomeno quelli di Chaz.
Le parole dell’amico riecheggiarono nella sua mente, riproponendosi ad ogni sospiro lasciato all’aria, ad ogni tiro di sigaretta.
Cazzo, io ti amo Jay. Da così tanto tempo che non ricordo neanche più come si vive senza amarti”.
Ogni volta che sentiva ripetersi quelle parole la voglia di sparire avvolgeva ogni porzione del suo animo.
Si chiese se davvero non se ne fosse mai accorto e dopo minuti e minuti di riflessioni, di ricordi, la risposta arrivò chiara come il sole appena sorto: l'aveva sempre saputo.
La paura di perderlo lo aveva reso vittima delle sue stesse ammonizioni e dovette ammettere, a malincuore, un fatto che diventò lampante solo in quell’istante: aveva sapientemente rimosso e sotterrato ogni vago sospetto, con la speranza che non si ripresentasse. Aveva accusato Chaz di non essere stato sincero ma il peso della colpa attribuitagli sarebbe dovuto essere equamente ripartito perché, tanto quanto le omissioni, anche la sua ignavia nel cogliere i deboli segnali aveva contribuito ad accrescere la distanza e ad accumulare le falsità che avevano corrotto il loro rapporto. Quella finestra aperta fu l’altare sul quale aveva sviscerato la propria coscienza, ma nel momento del suo risveglio fu la ragione che lo spinse ad alzarsi colmo di preoccupazione e nervosismo.

Fissò il soffitto della sua camera per pochi istanti cercando un gancio invisibile al quale appigliarsi e dopo qualche minuto poggiò i piedi sul pavimento, deciso ad affrontare anche quella giornata con coraggio. La vita di Jay, da quel fatidico giorno, era diventata una giostra continua di emozioni, negative e positive; il solo alzarsi dal letto e attraversare le stanze di quella che non era più casa sua richiedeva una dose di eroismo non indifferente, ma dopo aver appurato il fatto che nella vita 
nella sua vita  ogni cosa doveva essere necessariamente vissuta senza cedere alla voglia di sparire, si levò con fiducia dirigendosi poi al piano di sotto.
Scese le scale adagio concentrandosi sulle risate sommesse dei componenti della sua famiglia riuniti per la colazione e quando fu abbastanza vicino si arrestò davanti alla porta chiusa ascoltando le voci di chi sentiva ancora di amare, e sorrise, riconoscendo nella familiarità di quei discorsi ordinari momenti della sua vita neanche troppo lontani.
Aprì la porta.
L’odore del caffè lo investì tanto da svegliarlo completamente e scrutando i visi di suo padre e suo fratello minore un nodo nello stomaco lo costrinse ad una smorfia di amarezza.
Vide suo padre con un’espressione che non ricordava neanche più di aver mai visto e scorgendo nella profondità del suo sguardo una complice intimità condivisa con suo fratello minore, la nostalgia lo soffocò. Un valzer continuo di flash lo riportò in quella stessa cucina,
solo a qualche mese prima, quando con suo padre usava confrontarsi alla pari su ogni tipo di argomento; attimi di sublime felicità si trasformarono in un ritratto cupo e indelebile, e la felicità passata originata dalla soddisfazione che ogni figlio prova quando viene seriamente considerato dal proprio genitore si dissolse, come i contorni sfumati di un disegno piegato dall’avanzare del tempo.
Era troppo tardi per scappare e senza alcuna ragione il sorriso di Izaya si presentò nella sua mente. Pareva rammentargli, con voce pacata e gentile, le mille rassicurazioni che soleva ripetergli ogniqualvolta lo trovava particolarmente provato o assorto. “Non sei tu che devi adattarti a loro. Tu sei così come sei e devi importi perché meriti rispetto anche solo per il coraggio che hai dimostrato, e se non gli starà bene, allora, fagli vedere che sei sereno nonostante tutto. Non hai bisogno di loro.” Concetto semplice e diretto, apparentemente infantile, ma sacrosanto.
«Buongiorno a tutti».
I visi dei presenti si contrassero e Joseph, suo fratello, fu l’unico a rivolgergli un indolente saluto in risposta.
Da suo padre e sua madre neanche una parola.
Tentò disperatamente di ignorare quel silenzio dicendosi che avrebbe dovuto sfoggiare tutto il suo orgoglio a testa alta, si avvicinò ostentando sicurezza e afferrò una fetta di pane tostato, intrappolandola tra i denti.
I suoi occhi erano più luminosi del solito e i capelli scompigliati gli donavano un’espressione ancora più infantile 
cosa che normalmente avrebbe intenerito sua madre che, con dolci carezze, avrebbe intrecciato le proprie dita alle ciocche scomposte dei capelli del suo bambino per ravvivare la cresta ribelle che già in precedenza aveva disapprovato, ma che aveva scelto di accettare per quieto vivere. Jay guardò prima suo fratello; poi suo padre e sua madre: sembravano estranei. Avevano smesso di parlare e sorridere solo perché il loro vergognoso figlio era entrato a disturbare la tranquilla quotidianità che avevano deciso di vivere senza di lui.
Joseph, insperabilmente, riprese a parlare come non aveva mai fatto prima ed il padre, fiero dell’improvvisa e forbita favella del figlio, sorrise, rispondendo con interesse alle sue argomentazioni.
Con l’assenza di Jay, il piccolo Joseph poté godere delle attenzioni che prima erano state di suo fratello e con grande soddisfazione esibì la nuova posizione guadagnata in famiglia, come se si trattasse di una promozione di lavoro. Figli di serie A e figli di serie B; suo padre aveva sempre ragionato così e declassando senza tanta fatica il maggiore dei suoi figli aveva riposto ogni speranza sul minore, augurandosi che questi non lo deludesse.
Jay stava impalato, spettatore di quella vita familiare che un tempo era stata anche sua; avrebbe voluto intervenire nella conversazione ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato il caso. Posò gli occhi sul tavolo e si accorse che non gli era stato riservato un posto. Dove normalmente avrebbe trovato la sua tazza c’era il cestino del pane e delle marmellate: la madre aveva usato il suo posto per posizionare le cose necessarie a tutti. Evidentemente, la sua presenza non era necessaria tanto quanto una marmellata di fragole.
Mise il broncio 
come quando era bambino e guardò sua madre che con incredibile calma e disinvoltura versava il caffè per i suoi uomini, ignorando totalmente la presenza di suo figlio.
All’ennesimo schiaffo morale e ai successivi evidenti segnali di insofferenza da parte dei genitori, Jay gettò il pane nella pattumiera e senza indugio si allontanò sommessamente dalla cucina.
Quel piccolo spaccato di vita stracciò l’ultimo brandello di speranza; Jay divenne un mendicante di attenzioni estraneo alla sua stessa vita, il membro inutile di un quadro familiare imperfetto nella sostanza ma del tutto pianificato perché risultasse senza macchia all’apparenza. L’istinto di fare le valige e scappare si scontrò con l’impossibilità pratica di mettere in atto i suoi propositi. Non ci sarebbe stato alcun posto dove andare senza procurare peso a qualcuno, avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche e prendere in mano la sua vita 
l’avrebbe fatto  anche se non sapeva esattamente da dove iniziare.
Arrivato in camera si lasciò andare al primo vero sospiro della giornata e fece spallucce tentando di ridimensionare ciò che aveva appena vissuto, ma gli occhi si riempirono di lacrime ed il mento tremante prese il posto del menefreghismo che aveva tentato in tutti i modi di dimostrare a se stesso, e crollò in un silenzioso pianto, pregando disperatamente i suoi occhi di smetterla. Avrebbe voluto essere solido abbastanza da non sentire il peso di ciò che aveva visto, ma la sua giovane età non gli aveva ancora permesso di accumulare abbastanza forza da riuscire a sostenere un tale colpo. Odiò la sua debolezza in ogni modo, strinse i denti e levò lo sguardo dal pavimento asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. Si alzò di scatto, afferrando il cellulare abbandonato sul letto: avrebbe chiamato Lizzie, avrebbe parlato con lei del più e del meno; ma non appena posò gli occhi sul display vide la data di quel nuovo giorno appena iniziato pessimamente.
Undici Novembre: il giorno del suo diciottesimo compleanno.

***

Izaya arrivò al locale stropicciandosi le mani intorpidite dal freddo e suoi occhi si posarono sulla figura accartocciata di Jay, accovacciato sulla sedia come un bambino in punizione. Lo squadrò per qualche istante percependo immediatamente il suo stato d’animo. Si piazzò un sorriso solare sulla faccia cercando di apparire il più sereno possibile. I tentavi di Jay di sviare ogni sospetto circa il suo reale umore, fingendo tranquillità, non raggirarono il ragazzo che con passo sempre più cauto si avvicinava a lui cercando, nel frattempo, l’unica che potesse essere a conoscenza del malessere che in quel momento stava corrodendo inesorabilmente l’animo del più piccolo. Non riuscì a scorgere Lizzie 
indaffarata in chissà quale faccenda  così dovette accettare il fatto di misurarsi con una sofferenza sconosciuta, forse anche più grande di quello che poteva immaginare, approcciandosi ad essa con inconsapevolezza. Non gli avrebbe mai chiesto informazioni direttamente solo per soddisfare una sua curiosità, sapeva di conoscere anche solo in minima parte la ragione di quegli occhi gonfi e provati dalle lacrime.
Se avesse potuto seguire l’istinto l’avrebbe raggiunto e abbracciato, ma il rispetto che provava nei suoi confronti,
soprattutto dopo la sua richiesta di essere lasciato in pace a riflettere senza dover prendere delle decisioni affrettate  non gli permise di valicare un limite inviolabile che lui stesso aveva posto tra loro.
«Ciao, Jay. Sei un raggio di sole oggi.»
«Anche tu non sei male. Ti mantieni sempre bene, nonostante l’età».
Izaya si sedette difronte a lui incrociando le mani sul tavolo e analizzò ancora il suo volto: c’era qualcosa di più della semplice e consueta malinconia, tuttavia non si azzardò a chiedere nulla, continuò a punzecchiarlo per risollevarlo. «Dov’è il simpaticone del gruppo? Non mi pare di vederlo.»
«Izaya… non fare il cretino! Sai che si offende.»
«Non mi pare di vederlo nei paraggi e non credo che abbia messo cimici nel locale.»
«No. Ma quando inizi da subito a prenderti gioco di lui poi ci prendi gusto e continui per tutta la serata.»
«Dimora ancora nel mio cuore la speranza di vederlo felice con un ragazzo che non sia tu» recitò sentitamente, premendosi le mani al petto.
«Izaya…»
«Che ho detto di male? Senti, Jay, Chaz non mi sta affatto antipatico, anzi lo apprezzo; soprattutto dopo quella delicata e commovente dichiarazione d’amore, ma se permetti prego perché lui possa essere felice altrove.»
«Ti vedo particolarmente combattivo oggi, temevo avessi ceduto le armi.»
«Non posso cedere le armi. Io ti voglio.» La determinazione negli occhi di Izaya fece scivolare il cuore di Jay in ogni angolo del suo corpo, colorandogli le guance di rosso, costringendolo ad abbassare la testa.
«La tua reazione mi suggerisce cose che le tue labbra non osano pronunciare, piccolo Jay.»
«E la tua sicurezza mi dice che sarebbe ora di chiamare Lizzie».
Izaya seguì la traiettoria dello sguardo di Jay per poterlo catturare e farlo suo. Voleva dargli prova della determinazione con la quale aveva tutte le intenzioni di conquistarlo per poi avere tutto il diritto di proteggerlo a modo proprio. Il desiderio impellente di prendersi cura di lui era misterioso quanto coinvolgente e, di fatto, non capì mai perché Jay fosse diventato così importante, ma più il tempo passava più sentiva che quel ragazzino gli avrebbe cambiato la vita, l’avrebbe reso felice.
«Scusa, Izaya» la voce squillante di Lizzie tagliò di netto l’atmosfera che i due erano riusciti a costruirsi intorno. «Vieni un attimo ad aiutarmi con questi scatoloni?»
«Arrivo, donna. Le mie forti e possenti braccia sono pronte a tutto.» Si alzò sgranchendosi le dita delle mani, si avvicinò a Jay con tenerezza e prima di andare gli passò delicatamente il dito sul viso: dalla tempia, all’angolo delle labbra; percorse i lineamenti delicati e stanchi di Jay con un solo dito, per poi frenare quel bramoso vagare nel pugno della sua stessa mano. Se si poteva chiamare contatto fisico quello era stato il primo e se anche solo un dito di Izaya aveva la capacità di rendere vittima dei brividi la sua pelle, Jay non osò immaginare cosa avrebbe potuto provocare il resto della mano. La leggerezza di un dito aveva rimpiazzato la pesantezza dei suoi pensieri, la delicatezza di un cenno non del tutto voluto, non pianificato ma figlio di uno slancio irrefrenabile, aveva aperto la strada verso altre possibilità che necessitavano solo di essere colte, se solo non fosse stato così complicato.
Se solo non ci fosse stata in gioco la felicità di troppe persone.
Izaya si allontanò da lui sentendone già la mancanza, raggiunse Lizzie con l’intenzione di prenderla un po’ in giro come al solito, ma non trovando alcun scatolone da dover trasportare capì che le intenzioni della ragazza erano altre.
Come un rapinatore lesto e forte, Lizzie cinse il polso di Izaya trascinandolo nel punto più nascosto del locale. «Ascoltami bene: oggi è il compleanno di Jay, compie diciotto anni. Dobbiamo fare qualcosa.»
«Non c’era bisogno di portarmi in questo luogo angusto e puzzolente.»
«Non è il momento di scherzare…»
«Lizzie» la interruppe, cambiando totalmente sguardo e tono di voce. «I genitori lo hanno ignorato!?» La ragazza abbassò lo sguardo lasciando al dispiacere dei suoi occhi il compito di dare una risposta.
Izaya acconsentì sospirando e fece per andarsene, ma Lizzie lo trattenne ancora: «Non dirgli che te l’ho detto».
La fissò per un breve istante scorgendo la pena che l’aveva aggredita per tutto il tempo prima del suo arrivo e provò tenerezza per quella donna bella e sola che aveva scelto di prendersi cura di un ragazzo sconosciuto ma che, inspiegabilmente, era entrato nel suo cuore. Capì che i legami nascono e si fondono senza essere necessariamente preventivati dalla natura o rafforzati dal tanto tempo trascorso insieme. Lizzie era divenuta una casa per Jay, se ne rese conto in quell’istante, quella donna così materna senza essere mamma aveva scelto di prendersi la responsabilità di una vita abbandonata da chi avrebbe dovuto prendersene cura.
Izaya sorrise, scegliendo in quel preciso momento di diventare la roccia sul quale tutti avrebbero costruito il loro legame.
Si allontanò e raggiunse Jay spalancando le braccia. «Diciotto anni. Jay è diventato un uomo.»
«Izaya, Cristo! Ti avevo chiesto di non dire niente» uscì allo scoperto Lizzie urlando il suo disappunto.
Jay guardò la scena perplesso, non capendo fino in fondo le dinamiche di quel piccolo ma divertente spettacolo.
«Lizzie, non potevo non dirlo. Sono felice. Finalmente potrò averlo senza risultare un molestatore di minorenni» rispose gongolando, sedendosi di nuovo difronte a Jay. Gli afferrò le mani accarezzandogliele dolcemente e con eccitazione nello sguardo spiattellò d’improvviso i suoi programmi: «Dai, piccolo Jay, chiama Chaz. Stasera porterò voi bambini nel luogo della perdizione, a festeggiare».




Angolo Autrice.
Ciao! Ringrazio tutti quelli che hanno letto per intero la storie e tutti quelli che stanno ancora leggendo. Voglio ringraziare chi mi ha supportato capitolo dopo capitolo e chi mi ha seguita silenziosamente.
Grazie, quindi, a coloro che hanno insierito la storia nelle seguite/preferite/ricordate e aggiungo un grazie caloroso a SNappy.
Un abbraccio.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** A case of you ***


undicesimo capitolo
"You're in my blood like holy wine
You taste so bitter and so sweet
Oh I could drink a case of you, darling
And I would still be on my feet

I would still be on my feet"
A case of You- James Blake




11. A case of you


Il gran carnevale al quale Jay sentiva di assistere consisteva in una enorme scatola riempita dalle più buffe ed esilaranti scene mai neanche lontanamente immaginate.
Il mondo gay 
quello che sarebbe dovuto diventare il suo, nel quale sguazzare senza l’ombra di alcun imbarazzo  era proprio lì, davanti ai suoi occhi.
Le piccole ali d'angelo ben fissate sulle schiene degli spogliarellisti dell’Escape parevano così stonate da risultare buffe sui corpi depilati dei ragazzi che, sculettando, mostravano fieramente la lussuriosa mercanzia a tutti i presenti dispensando baci e occhiate a chi si soffermava adorante sotto i cubi trasparenti sui quali si ergevano i lunghi tubi d’acciaio da lap dance che, come colonne di un tempio, sostenevano il soffitto di quel dubbio luogo mistico.
Gemiti, urli, musica e scontri non casuali facevano da sfondo agli animi festosi che senza alcun pudore fuoriuscivano dalle espressioni erotiche e divertite degli astanti i quali, ai margini del locale, osservavano come cani da caccia le possibili prede che riempivano la pista da ballo, e ruotando i bicchieri pieni di alcool che tintinnavano percossi dai cubetti di ghiaccio richiamavano l’attenzione dei disattenti che, presi dall’euforia, passavano oltre nel tentativo di raggiungere il pasto ghiotto al centro della sala.
C’erano i lascivi, gli egocentrici, gli uomini adulti in cerca di qualche giovane ragazzo da portare a letto e poi, c’era Jay.
Schiacciato sulla poltrona in pelle all’interno del privè osservava ogni piccolo particolare, indeciso se seguire l’istinto e scappare o rimanere, cercando il più possibile di integrarsi tra quella gente. Guardava pensieroso la calca ebbra che come un’unica falange saltava e ballava a tempo di musica seguendo il flusso ininterrotto delle vibrazioni dei bassi che parevano far tremare anche l’anima stessa.
Un sorso di vodka, un altro e un altro ancora, scandivano il susseguirsi inarrestabile dei suoi pensieri che 
come sempre, del resto  avevano bisogno di essere accompagnati da quel pizzico di leggerezza dato dall’alcool per poter librarsi nell’aria con incoscienza, privati delle catene razionali che lo avrebbero spinto ad alzarsi per rifugiarsi altrove, magari, in un posto più tranquillo.
Cose che per il resto dei presenti apparivano eccitanti, divertenti e dilettevoli, per Jay erano l’essenza stessa della tristezza: come se il mondo gay si fosse chiuso tutto in una stessa bolla per non dover vivere all’esterno, bisognosi di unirsi tutti insieme per sfogare l’omosessualità che nella vita reale, al difuori di quelle mura, erano costretti a contenere sotto la propria pelle.
La considerazione ignobile che aveva Jay di quel posto non coincideva con l’idea di chi lo accompagnava: Lizzie ballava distrattamente seduta sul divano difronte a lui; avrebbe voluto scuoterla per dirle di svegliarsi e di cercare di comprendere l’infelicità celata dall’apparente divertimento, ma sapeva che se l’avesse fatto l’avrebbero guardato tutti come se stesse blaterando cose incomprensibili.
Chaz, invece, appariva totalmente in armonia con quella specie di ecosistema ricreato artificialmente per i poveri animali gay.
Animali: era esattamente questa l’impressione che Jay ebbe per tutto il tempo, come se avesse davanti dei fenomeni da circo intenti a mostrarsi in numeri studiati al fine di rendersi abbastanza gay da poter coincidere con l’immagine stereotipata dell’omosessuale.
«Che tristezza!» lo sussurrò quasi, sperando che nessuno avesse sentito.
Difatti nessuno pareva averlo notato, tranne Izaya. «Cos’è che ti fa tristezza?»
«Sono tutti gay!»
«Siamo nel locale gay più famoso di Soho, Jay. Sarebbe strano se non ci fossero.»
«Come se esistessero locali per etero».
Il viso di Izaya diventò serio, aveva compreso perfettamente il pensiero di Jay, non sarebbero servite altre parole e scrutò il viso fanciullesco di quel giovane e saggio uomo che pareva soffrire alla sola vista di quella che percepiva come una gabbia. «Capisco che vuoi dire, ma non è così negativo. Sono solo ragazzi che si divertono.»
«Ho confessato a mio padre chi sono per poi dovermi chiudere nelle mura di un merdoso locale per quelli come me».
Izaya sorrise teneramente avvertendo la rabbia, l’insofferenza e il disagio che avevano animato le parole sfrontate di quel novellino fin troppo provato dagli eventi per poter prendere le cose con la sua stessa leggerezza.
Posò gli occhi su Chaz sperando di poter trovare qualcosa da dire per stuzzicarlo e farlo arrabbiare, tanto per trovare un diversivo. L’espressione del ragazzo era tesa e seria ed Izaya, trovando il cavillo giusto, iniziò a solleticargli le corde della permalosità: «Dai, Chaz! Non avere sempre questa faccia da funerale. Quasi non ti riconosco più.» Appena finita la frase chiese segretamente perdono al ragazzo, scusandosi tra sé e sé per il trattamento che aveva scelto di riservargli; ormai sembrava una vittima sacrificale: ogniqualvolta aveva bisogno di alleggerire l’atmosfera usava la suscettibilità di Chaz come antidoto.
L’amo era stato gettato e, come previsto, il ragazzo non tardò ad abboccare: «Mi viene difficile avere altre espressioni in tua compagnia.»
«Mi stai dicendo che ne hai altre? Stento a crederci».
L’attenzione di Jay, a quel punto, si proiettò interamente sul viso dell’amico e come sperato da Izaya quell’apparente attacco ebbe gli effetti auspicati. «Chaz ha molte facce, quella che preferisco non è questa, ma quando ha il broncio è comunque il mio Chaz.» La frase di Jay, nella sua semplicità, scatenò un duplice effetto: devastante per uno, benefico per l’altro.
Izaya si morse le labbra e sentì di provare per la prima volta nella sua vita la morsa vigorosa e demolente della gelosia. Si maledisse per aver servito a Chaz, su un piatto d’argento, una soddisfazione così grande, ma deciso a procedere con la sua condotta continuò a provocarlo: «Si vede che sei abituato, Jay. Ogni tanto gradirei vedere quel bel visino acceso da un bel sorriso.»
«Non uso dare le perle ai porci» sibilò l'esca, ritornando al mittente le sue provocazioni.
«Ma che cazzo avete? Sembrate due zitelle» protestò Jay ammonendo con lo sguardo Izaya che, scioccamente 
forse anche in modo un po’ infantile  si beò di quel rimprovero riconoscendo in quelle parole una vena d’intimità che solo chi ama riesce ad apprezzare.
Lizzie, che nel frattempo aveva continuato a dondolarsi sul divano accompagnata dalla musica, raddrizzò la schiena fissando tutti con severità: «Siamo qui per divertirci, non cominciate a litigare. Oggi è il compleanno di Jay.» Succhiò il cocktail dalla cannuccia, spostò l’attenzione su Chaz e buttò lì in mezzo una domanda a caso con il proposito di cambiare discorso: «Sei venuto altre volte qui o è la prima volta?»
«Sì, ci sono venuto, due o tre volte, forse».
Jay sgranò gli occhi incredulo: non conosceva quel piccolo particolare della vita di Chaz e spostando energicamente il bicchiere sul tavolo 
– facendone cadere un po' del contenuto  si chinò in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Tu sei un traditore.»
«No. Sono solo più bravo di te a farmi i fatti miei. Non ho bisogno di informare il mondo delle mie tendenze né sono costretto a dire ciò che faccio nelle mie serate libere.» La risposta di Chaz 
nella sua schiettezza stizzì Izaya, tanto da sconvolgere la compostezza del suo animo; se avesse potuto dire tutto quello che gli passava per la mente avrebbe certamente alzato un bel polverone, ciononostante il desiderio di rispondergli per le rime non coincideva affatto con l’ambizione di regalare a Jay una serata diversa e tranquilla.
Portarlo all’Escape non era mai stata 
fin dall’inizio  un’idea basata solo sulla semplice e superficiale speranza di fargli passare qualche ora senza pensieri, anzi affondava le proprie radici in un terreno molto più profondo: voleva eludere la possibilità di far abituare Jay al bar.
Se verosimilmente il locale di Lizzie era l’unico luogo nel quale Jay sentiva di stare a casa, Izaya sapeva che con buone probabilità sarebbe potuto diventare un posto come tanti 
poiché l’abitudine porta ogni essere umano all’assuefazione e tutto quello che percepiamo come speciale diventa ordinario in un battito di ciglia.
Aveva scelto di cambiare ambiente per non permettere agli affanni del ragazzo di sedimentarsi nell’unico suo rifugio, intaccando l’incorruttibilità di quelle umili mura imbiancate. Il jukebox, i tavoli, il bancone avevano ancora molto da fare e se avessero perso la loro magia Jay avrebbe perso per sempre il loro sostegno.
Con la risposta di Chaz ancora impressa nella mente, Jay afferrò il bicchiere come se si trattasse di uno scudo, si alzò di scatto e si allontanò dagli amici con passo deciso, dirigendosi verso la pista.
«Ma, dove vai?» urlò Chaz piegandosi in sua direzione con l’intento di alzarsi, ma nulla poté fare contro la stretta di Izaya che lo tratteneva saldamente dal polso: «Lascialo andare».
Jay si fece spazio tra la folla, colpito frequentemente dai corpi danzanti che convergevano sempre più massicciamente al centro della pista. Era quello il suo obiettivo: si sarebbe comportato come ogni gay presente in quel locale, ostentando sicurezza e audacia.
Arrivato al centro si fermò, piantando i piedi sul pavimento come se una forza invisibile l’avesse incatenato in quell’esatto punto; stringeva il bicchiere fissando persone imprecisate davanti a sé.
L’odore persistente di sudore e il calore provocato dall’euforia dei movimenti altrui sapeva di sesso. Il sesso era la vena pulsante e principale che dava vita all’Escape, ai corpi seminudi della gente intorno a lui. Gente: non erano nulla di più, nulla di meno. Estranei accalcati che si scambiavano effusioni appassionate e fuori luogo, e parevano non curarsi dell’unico alieno che li fissava incredulo e confuso; avrebbe dovuto mescolarsi a loro e sentirli familiari, avrebbe dovuto ballare e permettere a qualcuno di toccarlo, magari. Il corpo inviolato di Jay sapeva di unicità in mezzo alla calca: una luce bianca avvolta da mille colori.
«Sei solo?» Una voce estranea richiamò la sua attenzione.
Non riuscì a connettere subito, lo squadrò disordinatamente per qualche secondo di troppo, senza proferire parola.
«Ti ho chiesto se sei solo!»
«Mi vedi con qualcuno?» chiese ironico.
Il ragazzo sorrise e avvicinandosi languido all’orecchio di Jay parlò senza alzare troppo la voce: «Posso offrirti qualcosa?»
«Non credo tu abbia qualcosa da offrirmi. Non cerco niente, stavo facendo una passeggiata».
L’improvvisa risata affilata e acuta del ragazzo
– contro ogni previsione lo divertì, tanto che il suo viso si rilassò, producendo una smorfia quasi simile ad un sorriso di intesa.
«Sorridi, ragazzo. Non ti trattenere. Sei qui per divertirti, no?»
«Il problema è che io non mi sto divertendo per niente».
Un gruppo di ragazzi presi della danza coinvolsero Jay come vittima di una mareggiata, trascinandolo ai margini della pista; si divincolò in tempo, prima di ritrovarsi nuovamente fagocitato da quel delirio.
Si arruffò i capelli come era solito fare in momenti di difficoltà e dirigendosi con passo lento e incerto verso il bar tentò di sbirciare nel privè. Non riuscì a localizzare i suoi amici, così decise di prendersi qualche altro minuto di solitudine prendendo posto su uno sgabello davanti al bancone, poggiando i gomiti su di esso.
Fissava un punto davanti a sé perdendo lo sguardo tra le bottiglie allineate, reggendosi la testa tra le mani.
Il broncio ridisegnò i suoi tratti, offrendo all’uomo che lo scrutava a poca distanza uno spettacolo curioso ed estremamente divertente. «Ti va di bere qualcosa con me?»
Jay alzò il sopracciglio senza voltare del tutto lo sguardo, come se volesse non dare a nessuno la soddisfazione di avere la sua totale attenzione.
«Sto già bevendo» rispose poggiando le labbra roventi sul bordo del bicchiere, ritrovando un sottile conforto nel contatto con il ghiaccio.
«Vedo. Ma vorrei offrirti ancora qualcosa.» L’uomo appariva distinto, maturo, di bell’aspetto e con un’accuratezza nei modi quasi ipnotica. Sorrideva impercettibilmente accompagnando le parole che pronunciava con gesti eleganti e attraenti. Nonostante fosse riuscito a stuzzicare l’interesse del ragazzo non riuscì, allo stesso modo, a togliersi l’etichetta dello sconosciuto da evitare 
perché era esattamente così che lo vedeva Jay: un estraneo elegante, distinto, ma pur sempre un estraneo da tenere lontano.
«Non sei di molte parole, ragazzo.»
«Abitualmente non parlo con chi non conosco.»
«Sei diffidente, ho capito!» esclamò, prendendo posto accanto a lui. «Voglio solo bere qualcosa con te, non ci sto provando.»
«Vai a raccontarlo a qualcun altro» lo canzonò con sarcasmo.
L’uomo rise di gusto, stuzzicato dal modo diretto con il quale Jay provava a levarselo di torno, ma più lo respingeva più si sentiva attratto. Raramente aveva incassato dei rifiuti ma quella volta sentiva di aver ricevuto il più attraente della sua vita.
Jay non lo guardava, stava con le labbra attaccate al bicchiere fissando le mensole in cristallo del bar. Le ciglia lunghe curvate verso l’alto svelavano occhi di ghiaccio così intensi da emergere nel buio della sala: occhi irresistibili e sguardo fanciullesco, incurante, sfrontato.
«Io sono Bradley, puoi chiamarmi Brad» si presentò porgendogli la mano. Il ragazzo la fissò come se si trattasse di un serpente a sonagli e indugiando per qualche istante l’afferrò velocemente. «Hah… Jay, mi chiamo Jay.»
«Ho la sensazione che tu ti sia presentato con un nome falso» disse Brad, corrucciando la fronte.
«No, affatto. Il mio nome è Jay.» Bevve ancora un altro sorso, sperando capitasse qualcosa che fosse in grado di mettere fine alla conversazione.
Brad era attraente ed educato 
se l’avesse conosciuto altrove avrebbe avuto un’impressione di lui molto più piacevole  ma le luci dell’Escape trasformavano l'immagine di chiunque, li facevano sembrare felini pronti all'attacco..
Le sue rassicurazioni non servirono a molto perché il suo modo elegante di placcarlo aveva qualcosa di poco raccomandabile, così Jay si voltò dando le spalle al bancone; cercava con gli occhi qualcuno.
Cercava Izaya.
«Sei un novellino, vero?»
«No, vengo spesso qui…»
«Non è vero!» esclamò ridendo, come un giocatore eccitato da uno scacco matto inequivocabile.
Jay tentò disperatamente di apparire naturale, come se quel luogo gli appartenesse e, soprattutto, come se fosse perfettamente in grado di gestire un tentato approccio. Quell’uomo lo metteva in soggezione benché i suoi modi fossero gentili. Il fondo dei suoi occhi celava qualcosa di poco rassicurante.
«Sei un pesce fuor d’acqua, Jay. Se vuoi ti porto in un posto più tranquillo».
La mano di Brad si azzardò verso il braccio di Jay ma prima che potesse afferrarlo un’altra mano sopraggiunse sicura, ostacolando il contatto tra i due. «Il ragazzo è con me». La voce di Izaya rombò in salvezza di Jay che, senza nascondere l’entusiasmo per il suo arrivo, sorrise felice.
Brad, dopo aver appurato la veridicità di quelle parole, alzò le mani in segno di resa. Guardò per l’ultima volta il viso di Jay e a malincuore dovette cedere e rinunciare: «Ci rivedremo.»
«Sicuro, Brad!» rispose con altezzosità, forte della presenza di Izaya.
Non appena l’uomo si fu allontanato, Jay dovette scontrarsi con una situazione ben peggiore. «Perché stai facendo lo stupido?»
«Izaya, cos’è? Sei geloso?»
«Non è per gelosia che ti sto parlando. Ti abbiamo aspettato nel privè almeno un’ora, che cazzo di fine hai fatto?»
«Ho ballato, ho chiacchierato, ho bevuto qualcosa. Ho fatto quello che fa qualsiasi altro ragazzo» rispose arrogante, consapevole della sua stessa falsità.
Forse, era proprio una reazione che cercava. Aveva mollato tutti nel bel mezzo della serata con la speranza che qualcuno, di sua spontanea volontà, venisse a cercarlo, e proprio mentre la situazione stava per diventare ingestibile era apparso Izaya: l’unico in grado di proteggerlo.
«Muoviti, usciamo». Il più grande lo afferrò dalla maglia trascinandolo fuori dal locale. Non l’aveva mai visto particolarmente adirato, ma questa volta sembrava avvolto da un’incalzante ed energica nube nera.
Jay rise tra sé e sé trascinato dalla forza vigorosa del ragazzo che lo stava portando in salvo per l’ennesima volta.

***

«Ti ho lasciato andare via senza oppormi ma, cazzo, Jay! Un’ora. Sei sparito per un’ora senza degnarti di farti vedere un secondo». Il freddo accompagnava le parole di Izaya producendo candite e pompose nuvole di fumo che a contatto con il fiato caldo del ragazzo si libravano nell’aria fredda di una notte singolare che pareva sospesa nel tempo, come se lo scorrere delle lancette si fosse fermato o, forse, era la vicinanza di Izaya a rendere tutto così eternamente immobile.
Jay rimase in silenzio adorante, amando ogni sprazzo di fumo, ogni parola pronunciata da colui che l’aveva cercato, afferrato e portato via. Ormai non ascoltava neanche più le sue proteste, ma scrutava idolatrante ogni piccolo particolare: le labbra rosse accalorate dalla rabbia, le mani grandi e forti che si muovevano trascinate dalla veemenza delle sue parole, gli occhi lucidi e fiammeggianti.
«Mi stai ascoltando?»
«No, cioè, sì. Ti sto ascoltando».
Izaya alzò gli occhi al cielo abbandonandosi rassegnato su un motorino parcheggiato accanto a lui. Jay si avvicinò lentamente e per la prima volta sentì l’impulso irrefrenabile di sfiorarlo, di accarezzarlo, di rassicurarlo. Poggiò la mano pallida e gelida sul viso deciso e accaldato del ragazzo difronte a lui che, al solo contatto, alzò gli occhi stupito: la prima carezza, il primo vero contatto fisico palese e non fugace.
Jay sorrise a quegli occhi increduli con tenerezza matura e consapevole. «Io ho scelto.»
Quella dichiarazione investì Izaya così forte da zittirlo definitivamente; dal suo canto, Jay sapeva che procrastinare non sarebbe servito più a niente. Il suo posto era tra le braccia di Izaya e sapeva che se mai qualcuno avesse osato portarglielo via l’avrebbe privato dell’unico uomo che sentiva di amare.
La decisione si palesò chiara ed evidente, emergendo tra le mille preoccupazioni e arrovellamenti
invero, la certezza di desiderarlo c’era sempre stata, ma gli eventi avevano nascosto ogni cosa, costringendolo a chiedersi quale fosse la risposta giusta alle sue domande.
«Tu ne sei certo, Jay?» pronunciò le parole adagio, con la paura di alimentare ipotetiche incertezze.
«Se l’amore è fiducia, rispetto, possesso e voglia di prendersi cura di qualcun altro perché senti che nel mondo non esiste altro ruolo per te, allora sì, sono sicuro. Perché mi sono irrimediabilmente e profondamente innamorato di te.»
«Oh! Cazzo!». Fu l’unica cosa che riuscì a dire, tanto che Jay rise di lui senza preoccuparsi troppo di ferirlo.
Izaya aveva vissuto quei giorni con la certezza di non avere alcuna possibilità: l’indissolubilità del rapporto di Chaz e Jay l’aveva convinto che non ci sarebbero state speranze, credeva di non poter competere, 
sebbene non si trattasse di una vera e propria competizione. Non per lui, almeno  ma era sempre stato certo del fatto che Chaz fosse troppo importante per Jay.
Izaya aveva ceduto le armi da un pezzo, anche se aveva tentato di non darlo a vedere. «Spero che tu non abbia scelto cogliendo un bigliettino a caso da una scatola…»
«Mi offendo se dici così».
Izaya lo trasse a sé allargando le gambe per accoglierlo, mentre, seduto ancora sul motorino, cercava di rimanere lucido per non lasciarsi andare troppo alle illusioni, e dopo aver poggiato il mento sulla sua spalla chiuse gli occhi, respirando ogni istante di quel momento impagabile. Jay gli cinse la schiena e sorrise teneramente sentendolo abbandonato su di sé, 
sembrava più piccolo e docile  così chiuse a sua volta gli occhi, e immobili, stretti l’uno all’altro, assaporarono il loro silenzio fatto di sospiri di sollievo.
Jay non l’avrebbe più dimenticato, ormai era suo, lo sentiva scorrere nelle vene e la costante sensazione di conoscerlo da sempre si fece più vivida, come se quell’abbraccio l’avesse risvegliato da un sonno durato una vita.
La barba incolta di Izaya sfiorò la pelle liscia e pallida di Jay, con movimenti delicati e calmi cercava le sue labbra, accarezzando con il viso ogni centimetro del tragitto che restava da percorrere per raggiungere ciò che più desiderava.
Non appena le bocche furono abbastanza vicine da potersi assaporare, il sorriso accennato di Izaya sciolse ogni esitazione accogliendo il timido tentativo di Jay tra le sue labbra, catturando il suo fiato, fino a prenderne possesso completamente.
Il bacio così tanto atteso ebbe luogo in una fredda serata di Novembre, mentre i corpi accalorati dall’emozione e dal desiderio infiammavano ogni piccolo spazio delle loro anime che, unite eternamente da quel contatto intimo e soffice, compresero il luogo nel quale avrebbero dovuto adagiarsi per sempre: l’una nella vita dell’altra.
In quel preciso attimo due vite diventarono una e il resto del mondo, i problemi, i tormenti e le attese si trasformarono in piccoli e lontani puntini insignificanti nella vastità incontaminata dei sentimenti finalmente ammessi, accettati e svincolati da qualsiasi paura che per troppo tempo avevano inibito ogni possibilità di risalita e di unione.
Solo in quell’istante, Jay si sentì libero; nonostante si stesse legando a qualcuno degustò il sapore della libertà attraverso le labbra dell’uomo che amava e che l’avrebbe protetto, amato e curato. Per sempre.



Angolo Autrice:
Ma ciao miei giovani guerrieri (?)
Ho aggiornato tardi, losoloso, però spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo.
Jay ha scelto ed è pronto ad affrontare le conseguenze. Voi siete pronti?
Voglio ringraziare Elsker, Ladywolf, Aven, Bijou, Julie, Nahash, Ghost e SNappy.
Se dimentico qualcuno siete liberissimi di menarmi a sangue.
Grazie a Castelli di Rabbia, ad evuzzola, a michyceli e a Moloko.
Grazie a tutti.
Al prossimo capitolo.
Un abbraccio.
Bloom

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Hysteria ***




dodicesimo capitolo
"It's holding me, morphing me
And forcing me to strive
To be endlessly cold within
And dreaming I'm alive."

Hysteria- Muse




12. Hysteria


Svegliarsi, fare colazione, andare al college, fare una passeggiata per rilassarsi: come una automa, Chaz aveva vissuto i giorni a seguire cercando il più possibile di staccare i suoi pensieri dalle cose che più gli facevano male, nascondendosi nei gesti più ordinari.
La serata all’Escape era finita nel peggiore dei modi perché, uscendo, aveva visto Jay aggrappato alle spalle di Izaya, e se prima aveva avuto dei dubbi questi vennero totalmente soppiantati da una conferma a voce affilata come la lama di un coltello: “Io e Izaya stiamo insieme.”
Queste furono le parole di Jay quando, tornando a casa, accorgendosi dello strano mutismo di Chaz, aveva scelto di mettere a conoscenza l’amico delle novità che avrebbero cambiato le loro vite. Non proferì parola quella sera e Jay neanche lo pretese, ma vegliò su suoi passi quando, arrivati vicino casa, dovette lasciarlo andare ignaro di cosa gli passasse per la testa.
In realtà, Chaz provava disprezzo per l’uomo che gli aveva portato via l’unico pezzetto di realtà al quale poteva aggrapparsi, perché Jay, oltre ad essere un amico e l’unico suo vero amore, era l’anello di congiunzione tra se stesso e i suoi segreti. Era l’unico a sapere chi era veramente e aveva la meravigliosa capacità di farlo sentire bene perché, nonostante tutto, non l’aveva mai giudicato per le sue scelte.
Chaz aveva preferito condurre la sua vita come un rifugiato, in perenne contrasto con la sua stessa personalità, desideroso di trovare un mondo parallelo nel quale nascondersi senza necessariamente esporsi. Pura utopia la sua, poiché non esiste un mondo nel quale si può vivere evitando di fare i conti con se stessi, di conseguenza si nascondeva e a furia di fingere quasi si convinceva di essere realmente la persona che lasciava scorgere agli altri, tuttavia c'era Jay a fargli da specchio ed era l'unica persona che gli aveva permesso di guardarsi per ciò che era senza nascondersi e quello specchio, adesso, era andato in frantumi portandosi via il suo riflesso, per sempre.
Il susseguirsi dei giorni si cibarono a poco a poco della sua pazienza, dei suoi sentimenti, della sua anima stessa senza che Chaz potesse fare nulla per contrastarli. La sua attenzione veniva intenzionalmente spostata su altro per non dover accettare passivamente la delusione, per non essere vittima del suo stesso dolore. Il menefreghismo imperò nel suo animo e si allargò a macchia d’olio su ogni cosa. Continuava a recarsi al bar incontrando quelli che non riuscivano a diventare i suoi amici sebbene in passato si fosse sforzato a giudicarli come tali, invero erano solo amici di Jay, non suoi, eppure seguitava ad andare come se volesse farseli venire a nausea, in modo che fosse risultato più semplice farli sparire dalla propria vita senza rimpianti.
Faceva da spettatore non pretendendo da se stesso grandi sforzi per avere rapporti con qualcuno di loro.
Jay stava diventando un estraneo 
era Chaz stesso che lottava per renderlo tale  e non volendosi rassegnare all'evidenza cercava il più possibile di comportarsi normalmente sperando che l'amico potesse confessargli ciò che pensava, ma Chaz, ormai, non apprezzava niente di quello scenario, neanche i suoi tentativi goffi di distaccarsi da Izaya in sua presenza, lui li vedeva come comportamenti ipocriti e meschini.
Jay era un ipocrita e un meschino.
Si chiese più e più volte il perché continuava ad onorare quella gente della sua presenza e la risposta non era l’amore per colui che aveva scelto di non essere più suo, il motivo era un altro e lo capì a breve: l’unico suo scopo era quello di rendergli la vita un inferno.
Sapeva che Jay non avrebbe mai mollato la presa e Chaz stabilì che con la sua stessa presenza muta e disapprovante avrebbe torturato chi l’aveva costretto a soffrire, avrebbe giocato l’ultima carta a suo vantaggio: avrebbe fatto leva sui sentimenti di Jay per farlo crollare e far finire per sempre il ridicolo rapporto che l’aveva unito ad Izaya. La loro storia d'amore, seppur nata spontaneamente, pareva comunque ostacolata da faccende in sospeso che nessuno, compresa Lizzie, riusciva a chiarire nel modo più naturale possibile.
Per non ferire Chaz e per non accrescere ulteriormente le paure di Jay di perderlo, l’omertà regnò sovrana impedendo a tutti di comportarsi serenamente.
Ognuno di loro camminava sui carboni ardenti, tacendo e sperando di non fare o dire quel qualcosa di sbagliato che avrebbe fatto sbriciolare l’equilibrio sottile che il silenzio di Chaz e il senso di colpa di Jay avevano prodotto.
L’unico ad avere la reale consapevolezza delle sue intenzioni era proprio Chaz,
che comprendendo appieno la situazione, la utilizzava a suo vantaggio imponendosi come intralcio al giusto e naturale corso degli eventi.
Osservava con gli occhi affilati e lo sguardo fintamente assente lo scorrere dei giorni, arricchiti dai discorsi vaghi e infecondi che facevano da padroni.
Affrontare discorsi inutili era un modo per evitare di dover sostenere un silenzio ancora più pesante e Izaya, consapevole del fatto che, prima o poi, tutta quella farsa sarebbe finita, attendeva. In verità, aspettava che Chaz sbottasse perché sapeva che un giorno o l’altro l’avrebbe fatto.

***

Dicembre.
Per molti anni fu il suo mese preferito.
Natale, le feste, i preparativi. Quel dannato mese conteneva in sé tutto ciò che Jay amava perché ogni piccola cosa veniva racchiusa, a sua volta, da un qualcosa di molto più grande: la sua famiglia.
Il suo primo mese di Dicembre senza sua madre, suo padre e suo fratello.
Il suo primo mese di Dicembre con Izaya e con Lizzie.
Chaz era il suo unico punto interrogativo.
Se avesse voluto pensare egoisticamente l’avrebbe ancora trattenuto a sé, con le unghie e con i denti, ma sentiva di fargli male come non aveva mai fatto e vedere le sue stesse mani sporcate dal dolore di Chaz, lo straziava più di qualsiasi cosa.
Aveva perso tutto, eppure sentiva di non essere pronto a perdere anche il suo migliore amico.
I pensieri lo tormentarono incastrandosi fra loro, formando un groviglio incomprensibile di ragionamenti inadoperabili e del tutto inefficaci, l’unica certezza, in mezzo a quel nodo soffocante di dubbi e paure, era Izaya che comprendendo perfettamente le difficoltà nelle quali Jay annaspava lo aveva preso per mano, un giorno, e gli aveva parlato.
L’aveva afferrato una mattina qualunque 
Jay non ricordava esattamente che giorno fosse, sapeva solo che era uno dei tanti che l’aveva reso prigioniero dei suoi stessi sensi di colpa – e trascinato nel bagno del locale spogliandolo dei vestiti bagnati dalla pioggia, aveva cercato di convincerlo a ritornare sui suoi passi.
Aveva acceso l’asciugamani elettrico per permettere al getto di aria calda di privare la maglietta zuppa di Jay dell’ultima goccia di pioggia.
“Sai cosa penso, Jay?” Aveva urlato per farsi sentire, cercando di sovrastare il frastuono dell’apparecchio. “Penso che stai mancando di rispetto a te stesso. Non a me, non a Chaz, ma solo a te stesso!”.
Jay aveva corrucciato la fronte cercando di capire il significato delle sue parole.
“Voglio dire che comportandoti in questo modo stai solo assecondando il volere degli altri. Chaz è un viziato ed io sono uguale a lui. Siamo entrati nella tua vita come uragani prendendoci quello che volevamo senza alcun tatto. Tu hai dato il tuo affetto a Chaz per tutti questi anni e lui ha deciso di disporne come meglio credeva, senza metterti al corrente dei suoi reali sentimenti. Io sono entrato nella tua vita e ti ho costretto a considerarmi, approfittando della tua fragilità. Non era il momento giusto per te. Avresti dovuto mettere ordine nella tua vita…”. L’asciugamani si era spento d'improvviso facendo udire le ultime parole con più forza ed Izaya, arrestandosi, aveva pigiato il bottone per avviarlo di nuovo con l'intento di inondare ancora il piccolo locale di quel frastuono, come se fosse fondamentale avere quel baccano come sottofondo. "Dicevo: devi prenderti i tuoi tempi e ti prego di comportarti con entrambi come ti senti. Non devi farci piacere. Diventa davvero egoista, pensa a te e non assecondare più nessuno. Concentrati a salvare il salvabile con la tua famiglia, metti da parte il resto.”.
Jay si era soffermato, più che sulle parole, sul motivo che spingeva Izaya a parlare e ad affrontare quel discorso con quel fracasso.
Aveva visto le mani di lui prendersi cura della sua maglietta fradicia, le parole prendersi cura della sua anima, ciò che invece si prendeva cura di Izaya era proprio quel rumore assordante che copriva in parte le sue parole, ma quasi del tutto il tono della sua voce. L’aveva ascoltato attentamente: la voce era incerta, rotta dalla rabbia e dal dispiacere, in contrasto con il contenuto del discorso che lo esortava a prendersi cura di sé, senza interessarsi a chi gli complicava la vita.
Le labbra di Izaya snocciolavano frasi per il bene di Jay, non di certo per il proprio, e quel rumore serviva a questo, a nascondere i suoi sentimenti lasciando spazio al razionale sgorgare delle sue parole.
Jay, con uno scatto, si era aggrappato a lui interrompendolo, l’aveva tenuto stretto a sé come se avesse avuto paura di lasciarlo andare via. Lo aveva cinto forte al petto con tutto l’amore che riusciva a sentire. “Tu sei speciale, Izaya!”
“No che non lo sono…”.
Jay aveva udito rassegnazione nella sua voce, come se si fosse arreso al fatto che se avesse continuato a tenerlo legato a sé avrebbe dovuto combattere per sempre contro la presenza costante di Chaz. Si sarebbe messo da parte, era disposto ad aspettare. “Io dico che tu devi prenderti ancora del tempo…”
“Izaya, io ho scelto te ed ho imparato che l’amore non è una parola. L’amore racchiude gesti, intenzioni, cure. Dire ti amo è facile se poi si scappa. Dire ti amo e rimanere: quello è difficile e tu sei rimasto sempre. Non ti sei imposto, mi hai solo fatto sapere cosa provi senza pretendere niente in cambio, dimostrandomi continuamente che tieni a me. Anche adesso, ti vedo lì a prenderti cura di me, ad asciugare la maglietta per non farmi prendere un accidenti e nel frattempo mi parli di cosa dovrei fare per me stesso, mentre la tua voce trema perché le parole che vorresti dirmi sono altre.”
“L’amore non è un sentimento egoista. Se ami qualcuno lo vuoi vedere felice e tu, adesso, non lo sei. Temo che tu sia stato fin troppo tempestivo.”
Jay aveva accarezzato il suo viso 
era diventato piccolo nonostante la sua grandezza  scorgendo nei suoi occhi scuri tutto l’amore che non aveva ricevuto da nessun altro.
“Adesso fai parte della mia vita, e scordatelo, io non ti mollo.”

In quell’attimo avevano suggellato un patto inscindibile e sebbene Izaya avesse tentato di far ritornare tutto alla normalità, consigliandogli di riflettere ancora come se nulla fosse successo, la determinazione di Jay l’aveva zittito confermandogli la sua sacrosanta scelta di volerlo amare liberamente.
Chaz avrebbe dovuto accettarlo e mettersi l’anima in pace, così decise di affrontarlo non appena lo vide entrare nel bar con la solita e pungente aria di sufficienza.
Il ragazzo, appena entrato, fece una veloce panoramica della sala e vedendo Jay insolitamente seduto su un tavolo prese posto altrove, lontano da lui, come a voler sottolineare il distacco incolmabile che li aveva resi estranei.
Chaz era lì, a pochi passi da lui, eppure sembrava così irraggiungibile, così assente.
Era arrivata l’ora di chiarire.
Una luce di risolutezza accese le pupille grigie di Jay che avevano assorbito in profondità il colore freddo del suo stesso stato d’animo. Con un balzo toccò il suolo, accorciando le distanze a poco a poco, misurando con cura il tragitto, sondando attentamente i suoi pensieri per poter estrapolare dall’intricato nodo delle sue riflessioni le parole giuste da dire.
Come di consueto, si ritrovò a pensare ad Izaya e sorrise tra sé e sé perché il ragazzo che stava imparando ad amare c’era sempre e, immancabilmente, si ripresentava nei momenti più difficili.
Il solo pensarlo facilitava le sue stesse azioni, avercelo nella mente ridimensionava tutto: Izaya era diventato indispensabile e questo, ormai, era un dato di fatto.
Prese posto accanto a lui esaminando ogni tratto del suo volto tirato e inespressivo, non sembrava neanche più il solito Chaz, ma negli occhi vi era un evidente conflitto che difficilmente sarebbe sgorgato dalle sue labbra in modo spontaneo.
«Mi spieghi che ti passa per la testa?»
Chaz inarcò le sopracciglia deponendo lo sguardo sulle mani intrecciate di Jay 
non aveva neanche il coraggio di guardarlo negli occhi, come se avesse paura di svelare prematuramente un sentimento negativo che sapeva di non dover scatenare in quel momento. Ciò che pensava doveva essere tenuto al caldo, in attesa di svelarlo nel momento giusto, nell’attimo preciso in cui avrebbe potuto devastare Jay per ripagarlo con la sua stessa moneta.
«Sono stanco! Non mi passa niente per la testa. Mi divido tra college, famiglia e amici, non spreco il mio tempo a girare a zonzo senza una meta.» La frecciata scoccata malamente non urtò il freddo impassibile che Jay aveva posto come barriera, non avrebbe permesso alle battutacce di contaminare il punto focale del discorso: voleva sapere. Così passò oltre, puntando gli occhi sulle vetrate per cercare nella frenetica confusione dei passanti un motivo in più per distrarsi e riprendere da dove aveva lasciato. «Mi spiace se sei stanco. Perché non sei rimasto a casa a riposare?»
«Mi stai cacciando? Non mi vuoi qui? Se non ti sta bene, tolgo il disturbo.»
Non fece in tempo ad alzarsi perché Jay, con mano ferma, lo trattenne dalla manica del giubbotto, incastrandolo tra le sue domande e la volontà di andare via.
Se fosse riuscito ad uscire dal bar avrebbe certamente dato luogo alla scena che sperava di mettere in atto da tempo, sarebbe uscito per sempre dalla vita di Jay dicendo a se stesso che era stato l’amico stesso a rifiutarlo, ma non poté chiudere il discorso da vincitore perché la mano salda dell'amico lo aveva in pugno.
«Siediti» intimò a denti stretti, con il capo chino.
Jay era fermezza, severità, tenacia. Chaz poté assodarne la forza attraverso la presa decisa e stabile, non poté sfuggirgli, a meno che non se ne fosse sottratto con la forza.
Si sedette docile e arrendevole, senza parlare. “Ti accontento, bastardo!”
«Riformulo la domanda, premettendo che non è mia intenzione cacciarti, voglio solo capire. Perché non mi dici quello che pensi e continui a venire qui, tutti i santi giorni, quando si vede da lontano un miglio che vorresti essere altrove?»
«Speravi che io facessi i salti di gioia per la tua scelta? Pretendi che io mi congratuli?»
«Affatto. Se tu mi avessi preso a pugni sarebbe stato meglio. Mi tratti con indifferenza e, forse, me lo merito. Ma tu, te lo meriti?»
Chaz rise a quella domanda, suscitando in Jay una sorta di disgusto.
La risata sguaiata, ironica e a momenti disumana dell’amico lo spinse a chiedersi se fosse stato davvero il momento giusto di affrontare l’argomento.
Non sembrava più lui, non era più il suo Chaz e sapere che era stato lui stesso a renderlo così impietoso e feroce lo devastava ma, allo stesso tempo, gli rendeva sempre più nitida la ragione della sua scelta.
Izaya era calma, pacatezza, leggerezza.
Chaz era instabilità, istinto, rabbia.
Era inadeguato.
Se avesse affidato il suo amore e la sua vita ad uno come lui quasi certamente si sarebbe ritrovato solo, perché con lui non condivideva alcuna aspirazione di una vita migliore.
Chaz viveva nelle bugie e senza neanche rendersene conto ci sguazzava continuamente, anche in quel momento lo stava facendo poiché celava agli occhi di Jay la realtà dei propri sentimenti. L’avrebbe sempre fatto perché, di fatto, era un codardo.
«Sei un vile». La risata cessò nel momento esatto in cui l’accusa di Jay trovò il suo termine in un sospiro afflitto.
«Come hai detto?»
«Sei un vile» sottolineò con maggiore forza la sua critica, spingendo l’acceleratore sulla rabbia repressa dell’amico che, senza remore, si alzò di scatto afferrandolo dalla maglietta, trascinandolo a ridosso del muro del locale dopo averlo fatto scontrare violentemente coi tavoli e le sedie che caddero sul pavimento, sparpagliandosi intorno a loro.
Jay si ritrovò costretto al muro con gli occhi serrati per scacciare il dolore provocato dagli urti e dopo averli aperti vide la collera inaudita di Chaz che prendeva forma nelle sue iridi, nella sua presa, nelle labbra deformate dal rancore.
«Tu osi chiamare me vile?» ruggì così forte da alterare il suo stesso timbro vocale. A stento si sarebbe riconosciuto e ormai, preso dall’ira che per troppo tempo aveva messo a tacere, si scagliò ancora contro Jay pressandolo al muro con più veemenza. «Io sarei il vile. Lo dice quello che è passato sui cadaveri pur di fare quello che cazzo voleva. Sei felice, adesso? Hai detto a tutti che sei un finocchio e ogni santa sera venivi a casa mia a giudicarmi dall’alto della tua onestà intellettuale, pretendendo conforto e ragione mentre io, innamorato disperatamente di te, subivo le tue scelte. Hai rovinato tutto, anche la mia vita, per il tuo egoismo. Hai scelto alle mie spalle un uomo ridicolo che conosci appena, mettendo da parte il tuo migliore amico, la persona più importante della tua vita a detta tua. Mi hai umiliato e hai permesso a quegli stronzi dei tuoi amici di farlo. Mi hai mollato nel bel mezzo della tua tempesta, hai scelto me come vittima da sacrificare per metterti in salvo. Te ne sei fregato dei miei sentimenti dal primo giorno in cui te l’ho confessato. Che cazzo di colpa avevo io? Ci avevo visto giusto. Ecco perché non dicevo la verità, ecco perché non ti ho mai confessato quanto ti amavo: perché sapevo che tu mi avresti calpestato.»
«Pensi questo di me?» Le labbra di Jay tremarono a quella domanda, le lacrime inondarono il suo sguardo e la mani, inermi, si lasciarono cadere lungo il corpo, incapaci di reagire.
«Penso questo e molto altro di te.»
E quella era la fine.
Jay lo sentiva nelle vene e già da qualche tempo era riuscito ad avvertire il sapore del compimento, dell’epilogo della loro storia. L’aveva sentito nel timore che troppo spesso aveva martoriato la sua mente riempiendolo di dubbi.
In quell’istante piccolo ed eterno, ogni certezza si sbriciolò adagiandosi sui suoi palmi, sfuggendo via dalle sue dita, lasciandolo a mani vuote.
Aveva davanti gli occhi di un estraneo, lo sguardo odioso di chi ti vuole vedere soffrire e distruggerti, l’espressione rabbiosa di suo padre, quella stessa che urlava tacitamente un disgusto profondo e un duro disprezzo, ma stavolta quello non era suo padre, era il suo migliore amico, l’unico del quale si sarebbe sempre fidato.
«Mi odi.»
«Sì. Ti odio.»
«Non era una domanda. Se mi odi, vattene. Se domani mi odierai ancora, non tornare. Se continuerai ad odiarmi, fallo per sempre ma sappi che, se mai tornerai, io sarò pronto ad amarti, amico mio, perché non ho smesso e mai lo farò.»
Le mani di Chaz allentarono la presa e Jay, dignitoso come non mai, si mise dritto aspettando una risposta, sperando disperatamente che quella scenata fosse stata solo una reazione istintiva alimentata dai troppi giorni di silenzio. Ma non fu così, perché Chaz ritornò a ridacchiare fissandolo isterico. «Il solito cavaliere buono senza macchia e senza paura. Mister Perfezione. Colui che ha amato, ama e lo farà sempre. Tu sei solo un egoista, Jay. Tu dici di amare le persone solo perché vuoi raccogliere amore per te stesso, ma sappi, caro amico, che se l’amore non è sincero né reale, ciò che ritorna è polvere. Eccoti, di rimando, la polvere che hai seminato».
E così, accasciandosi sull'unica sedia nelle vicinanze, vide il suo unico amico andare via.
Subì l’addio senza contestare e lasciò andare Chaz astenendosi da ogni protesta.
Strinse i pugni mentre l’affanno gli opprimeva il petto e con l’insicurezza dei bambini negati seguì i movimenti dell’amico che, con risentimento, spalancò la porta facendo rintoccare il campanello con forza, per poi sparire in strada.
Nessuno avrebbe colmato il vuoto che le sue ultime parole avevano lasciato.
Eccoti, di rimando, la polvere che hai seminato.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** New Born ***




"The love for what you hide
The bitterness inside
Is growing like the new born
When you've seen, seen
Too much, too young, young
Soulless is everywhere

Hopeless time to roam
The distance to your home

Fades away to nowhere."

New Born- Muse



13. New Born



Stare senza Jay, per i primi momenti, non era stato poi così difficile.
La rabbia per ciò che era successo durò per giorni, quindi la nostalgia era stata sepolta sotto un cumulo di macerie causate dall’ultima sfuriata che aveva reciso di netto il legame che li aveva uniti da sempre.
Le giornate passarono, dapprima, molto velocemente, poi il rimpianto prese il sopravvento appesantendo ogni cosa. Anche solo uscire di casa e puntare gli occhi sulla strada che l'avrebbe portato da lui risultava doloroso.
Non avrebbe mai più percorso quel tragitto per raggiungerlo 
soprattutto per vergogna  e sebbene Jay fosse stato dignitosamente accondiscendente durante la discussione, Chaz era perfettamente consapevole di averlo squarciato da parte a parte, lo aveva giudicato con rabbia e, ancora peggio, aveva sporcato ciò che c'era stato mettendo in dubbio il loro rapporto, non solo i suoi comportamenti di quell’ultimo periodo. Gli aveva rinfacciato ogni cosa, compreso il proprio sostegno, negando con forza ogni sentimento che li aveva uniti fino a quel momento.
Se fosse andato da lui non sarebbe stato più credibile.
Chaz non l'avrebbe mai odiato e nonostante ce la stesse mettendo tutta per dimenticarlo ne sentiva la mancanza.
Sarebbe arrivato presto il Natale e si chiese se le sue intenzioni fossero davvero quelle che aveva dichiarato con arroganza davanti agli occhi in lacrime del suo migliore amico.
Camminava avvolto da una sensazione costante di malinconia e dal continuo senso di colpa per averlo sbattuto al muro, urlandogli contro parole sudicie con il fine di ferirlo a morte. Non le pensava quelle cose e sapeva di non essere mai stato nella posizione di poterlo giudicare, eppure lo aveva fatto e non si sarebbe mai perdonato.
Arrivato alla fine della strada si sedette sul muretto dove era solito fermarsi con Jay per l’ultima sigaretta prima di tornare a casa e non appena la fiamma sfiorò i filamenti di tabacco, lo scoppiettio lo riportò a ricordi neanche troppo lontani.
La prima sigaretta della loro vita l’avevano condivisa, scandendo i passaggi da mano a mano con colpetti di tosse sommessi che rimarcavano la loro inesperienza.
Sorrise rievocando quel ricordo che, seppur piccolo e apparentemente senza alcuna importanza, racchiudeva un mondo di cose, un’amicizia intera.
Chaz e Jay avevano condiviso tutto dal primo momento, ogni esperienza, dalla più insignificante alla più importante, e prendere coscienza del fatto che non avrebbero mai più potuto farlo fu insostenibile, perché Jay era insostituibile. Ormai, abbandonato dall’ira, quella conclusione si fece sempre più nitida ponendolo davanti ad una certezza che fino a qualche giorno fa non avrebbe mai ammesso: Jay era davvero tutta la sua vita.
Per anni aveva dato per scontato la sua presenza, sminuendone l’importanza. In realtà, quel ragazzo era stato tutto, più di qualsiasi altro amico e a volte anche più della sua stessa famiglia, non avrebbe mai permesso a se stesso e ad un momento di follia di cambiare questo dato di fatto.
Si accorse di star correndo solo dopo qualche metro. Aveva abbandonato quel muretto mosso dal puro istinto e non appena vide le scale della metro ci si fiondò senza pensarci, conoscendo già la sua destinazione.
Avrebbe fatto l’ultimo e disperato tentativo di riprenderselo, cercando il più possibile di mettere a tacere l’orgoglio e la vergogna. Sarebbe ritornato in quel bar e avrebbe lottato per riaverlo.

***

«È inutile che lo cerchi. Jay non è qui» rispose Lizzie alla tacita domanda che Chaz le aveva rivolto.
Solo con la sua presenza aveva chiesto di lui, ignorando Izaya che, chino sul cellulare, sembrava non lo avesse neanche notato.
«Sai quando viene? Posso aspettarlo qui?»
«Se vuoi aspettarlo qui, accomodati». La freddezza di Lizzie non fece altro che accrescere il disagio di Chaz che, già dal momento in cui aveva fatto capolino nel bar, aveva percorso il tragitto fino a lei con enorme difficoltà.
Si accomodò qualche tavolo più lontano, cercando di mimetizzarsi con l’ambiente senza neanche ordinare qualcosa da consumare nell’attesa.
Fissò la vetrata sperando di scorgere Jay, ma un colpo secco richiamò i suoi occhi verso Izaya che si era alzato adirato, facendo sbattere la sedia al muro dietro di lui.
«Cazzo, non risponde. Vado a cercarlo». Prima che potesse compiere ulteriori passi verso l’uscita, la ragazza lo frenò di scatto ponendosi davanti a lui, sbarrandogli la strada. «Non sai dove cercarlo. Anche io sono preoccupata, ma potrebbe essere ovunque. Aspettarlo qui è la cosa più ragionevole».
Un senso di panico prese le gambe di Chaz che, istintivamente, si alzò dirigendosi verso loro. «Che succede?»
«Non ti riguarda!» rispose Lizzie con fermezza.
Il ragazzo abbassò la testa, d’altronde, non aveva più alcun diritto su di lui, se ne era lavato le mani nel momento stesso in cui l’aveva lasciato solo nel bar.
«Non troviamo Jay. Stamattina ci siamo sentiti, mi aveva chiesto di vederci qui al bar, ma ho dovuto rimandare per una questione di lavoro. Ci siamo dati appuntamento qui tre ore fa e non è mai arrivato, non risponde al telefono.» Il tono della voce di Izaya arrivò all’orecchio di Chaz come un pugno: era preoccupato e rassegnato. Jay lo aveva chiamato quella mattina chiedendo di lui, aveva percepito qualcosa di strano nella sua voce, ma aveva scelto di prenderlo sottogamba senza indagare oltre.
Izaya sembrava non volesse dare peso ai trascorsi tra Chaz e Jay proprio perché, in quel momento, c’era in ballo qualcosa di molto più importante di una bega tra ragazzini, quindi lo coinvolse nel discorso sperando avesse delle informazioni su di lui.
Lizzie scosse il capo come a voler levarsi dalla mente un brutto presentimento e cercando di assecondare i propositi di Izaya, fissò Chaz con preoccupazione. «Tu sai dove potrebbe essersi cacciato?»
«Non lo so.» Il dispiacere e la preoccupazione ingurgitò in un sol boccone la voce del ragazzo che rispose confuso e sottovoce, come se l’inquietudine gli avesse cancellato i ricordi, confondendolo inesorabilmente. Non sapeva dove potesse essere o, forse, non riusciva a trovare la lucidità giusta per poterci pensare a fondo.
La tensione che aleggiava nel locale enfatizzava maggiormente l’assenza di Jay portando i presenti a pensare qualsiasi cosa.
La chiamata di quella mattina prendeva sempre più i connotati di una richiesta d’aiuto, ma nessuno immaginava da cosa volesse essere salvato.
«Dobbiamo andare a cercarlo» insistette Izaya, ignorando categoricamente i consigli di Lizzie che, afflitta, si abbandonò sulla sedia accettando passivamente la decisione del ragazzo.
Se avesse aspettato il suo arrivo senza fare niente sarebbe impazzito. Izaya, infatti, cominciava a dare segni di impazienza e Chaz, alimentato dalla sua risolutezza, strinse i pugni permettendo alla mente intorpidita dalla paura di riflettere, mettendo in moto il cervello.
Lui poteva trovarlo.
«Credo che potremmo andare a cercarlo a casa sua, per prima cosa. Una volta accertata la sua assenza potremmo provare altrove».
Izaya, senza farselo dire due volte, raggiunse la porta con passo deciso e Chaz, ancora incerto, lo bloccò: «Che diremo ai suoi?». L'altro si voltò e i suoi occhi parlarono più delle parole. Era arrabbiato con se stesso per aver preso alla leggera Jay ed era ancora più adirato con i genitori di lui perché, quasi certamente, erano stati la causa dei suoi ultimi problemi.
«Cosa gli diremo? Esattamente quello che si meritano. Avrei dovuto farlo già da tempo.»

***

I passi decisi di Izaya presagivano l’inizio di una tempesta che, molto probabilmente, Chaz non sarebbe mai stato in grado di innescare.
Lo seguiva come un’ombra incerta sulla strada che li avrebbe portati verso un incontro risolutivo e certamente non privo di sorprese.
Le spalle di Izaya sembravano più imponenti del solito, come se si stesse caricando di una fermezza che Chaz non avrebbe mai sostenuto sulle proprie. Più si avvicinava l’obiettivo da raggiungere, più il ragazzo sentiva le gambe cedergli, se avesse seguito quell’uomo si sarebbe definitivamente scoperto e i genitori di Jay avrebbero potuto pensare di tutto.
Per un attimo si arrestò seguendo con lo sguardo l’incedere sicuro dell'uomo davanti a sé che, indecifrabile, accorciava le distanze con audacia, tanto da far immaginare con nitidezza l’impatto che sarebbe avvenuto a breve.
Si chiese se per Jay ne valesse la pena.
Richiamò l’attenzione di Izaya che, ormai, stava di qualche passo lontano da lui.
Non appena si voltò poté percepire l’insicurezza di Chaz e capì che le perplessità del ragazzo non avrebbero portato nulla di buono né per lui né per Jay, così non si fece trattenere lungamente e lo lasciò indietro avvicinandosi, da solo, alla porta di casa Hahn.
Chaz l’aveva piantato in asso, ma nonostante ciò non riuscì a prendersela con lui.
La sua giovane età lo giustificava e quasi poté intravedere un se stesso lontano anni luce da quello che era diventato col tempo.
I ragazzini, il più delle volte, tendono ad essere egoisti, lui stesso lo era stato, ma adesso,
da adulto, da uomo  non poteva più permetterselo, perché la stessa indole ribelle che l’aveva mosso da ragazzino scalpitava sotto le sue suole, spingendolo ad affrontare quella famiglia così ipocrita da lasciare interdetto ogni uomo di buon senso. Lui lo era diventato e se prima aveva accettato la situazione sperando potessero ammorbidirsi, stavolta l’impellenza di affrontarli era diventata incontenibile.
La rabbia, più di tutto, animava la sua foga.
L’amore per Jay lo spingeva a reagire e ad opporsi.
La preoccupazione gli infondeva sicurezza.
Prima che potesse realizzare con lucidità aveva già suonato il campanello, aspettando con impazienza che qualcuno di quell’indegna famiglia si presentasse alla porta, alimentando l’odio che già da tempo covava nei loro confronti.
Ciò che vide lo colse impreparato perché due occhi verdi, limpidi come una quieta laguna, si mostrarono con disarmante pacatezza.
Le labbra di Emma, schiuse dalla sorpresa di trovarsi difronte ad una figura particolare ed eccentrica perciò
così lontana da lei, pronunciarono parole affettate e gentili come si confaceva ad una donna adulta di quel calibro.
Dopo aver superato il primo momento di stordimento dovuto alla sorpresa, i ricordi di Izaya lo riportarono a quel ragazzino così somigliante a quella donna che, incomprensibilmente, nonostante la similarità, si discostava interamente dalla creatura che aveva concepito. Due persone così simili, eppure così discordanti nell’essenza, combattevano nei suoi pensieri e, per un attimo, vacillò chiedendosi se il comportamento che aveva scelto di adottare sarebbe stato davvero quello più consono.
«Jay è qui?» chiese gentilmente ma con decisione.
Lo sguardo di Emma mutò come vivificato da un’incontenibile biasimo, divenne severo, inflessibile, facendo soccombere quel minimo di amabilità che aveva lasciato scorgere inizialmente.
L'uomo, cogliendo il cambiamento così repentino, ebbe la conferma di ciò che aveva sempre pensato di lei: era una donna ipocrita e debole, vittima dell’apparenza, dell’etichetta, una donna che aveva costruito un’immagine ben precisa ma che, in realtà, divergeva con ciò che era veramente. Jay rappresentava, per lei, la mano che avrebbe stracciato con violenza lo stereotipo eretto a sostegno della sua facciata di cartone finta e patinata.
«Jay non è qui» rispose con fare altezzoso.
Quella donna racchiudeva tutto ciò che Izaya odiava a morte, così bloccò con mano ferma la porta che lei, senza alcuna delicatezza, stava per chiudere lasciando fuori l’ennesimo e insidioso insetto che avrebbe sconvolto la sua tranquilla e morigerata esistenza.
«Signora, non è qui o semplicemente non si è curata di accertarsene?»
Emma sapeva di avere davanti un uomo e non un ragazzino da poter contrastare con facilità, eppure non si arrese e con più convinzione tentò di chiudere la porta. «Non so chi è lei e non sono tenuta a risponderle.»
Izaya, senza usare più alcuna gentilezza, spalancò la porta per dimostrarle che non era di certo la sua resistenza ad ostacolargli l’ingresso. Benché l’entrata fosse sgombra da qualsiasi ostacolo non entrò, ma attese che Emma potesse convincersi del fatto che mai se ne sarebbe andato senza una risposta precisa.
«Sto cercando Jay da più di tre ore. Voglio solo sapere se è qui.» Gli occhi di Izaya non lasciarono scampo alla donna, così la sua sicurezza si sgretolò sotto gli occhi scuri che la fissavano disapprovanti.
Si ravvivò i capelli per darsi un contegno e approfittando della sua posizione di vantaggio
rispose con fare minaccioso d’altronde si trovava nella sua dimora e avrebbe potuto giocare la carta della padrona di casa disturbata da una visita inaspettata e infelice. «Le ho già risposto alla domanda. Jay non è in casa e, come spesso accade, non mi ha fatto sapere nulla dei suoi spostamenti. Ora, la prego, se ne vada prima che chiami la polizia».
Emma non sapeva chi fosse Izaya, come non conosceva quanto quel tipo di atteggiamenti potessero infierire sui nervi scoperti del ragazzo. La supponenza di quella donna non lo intimidì affatto e non convinto della risposta salì i gradini che gli rimanevano per varcare la soglia.
La donna, spaventata, si retrasse urlando frasi di rimprovero e panico. Lui, di contro, spalancò la porta e fece ingresso nella casa, percorrendo il corridoio che dava alle scale inseguito da Emma che tentava, per quanto le fosse possibile, di ostacolarlo: «Ma si rende conto? Chi è lei? Come si permette di entrare a casa mia? Se ci fosse stato George…»
Izaya si voltò accostando il viso a quello di Emma e con tono canzonatorio la provocò: «Suo marito non c’è? Che peccato! Avrei tanto voluto confrontarmi con lui. Sarebbe stato interessante vedere chi dei due è più uomo». Continuò per la sua strada, salendo i primi gradini.
«Ecco! Tutto chiaro adesso. Lei è uno degli amici di mio figlio. Lei è come mio figlio.»
Il tono della voce di Emma inchiodò i piedi del suo interlocutore che, senza voltarsi, rispose lentamente, senza alzare la voce: «Non osi offendermi e, soprattutto, non si azzardi a fregiarsi ancora una volta del titolo di madre quando si parla di Jay. Lei non è una madre, lei è una persona vergognosa e viziata e mi chiedo ancora come sia stato possibile che una donna indegna come lei abbia potuto portare in grembo un ragazzo dignitoso come Jay.» Continuò a salire le scale percependo lo sgomento alle sue spalle. Non se ne preoccupò, qualsiasi cosa avesse fatto o detto non l’avrebbe fermato.
Non appena giunse al piano di sopra rallentò il passo, scorgendo in ogni piccolo particolare la natura falsa di quella famiglia.
Le foto di famiglia, sfoggiate su una consolle antica in legno, tradivano un’inquietante mancanza di un componente. In nessuna foto compariva Jay e finalmente, con grande dolore, poté capire a fondo l’inferno nel quale stava vivendo, ormai da troppo tempo, il ragazzo che amava.
La famiglia non voleva abbandonarlo, voleva coartare i suoi desideri.
Capì al volo le dinamiche con il quale avevano scelto di risolvere il problema “Jay”.
Facendogli mancare ogni cosa 
l’affetto, gli agi, le sue stesse radici  speravano di  farlo rinsavire così da costringerlo a ritornare sui suoi passi.
Sentì una morsa nello stomaco nel momento esatto in cui comprese il sottile ricatto al quale lo avevano sottoposto e senza più tentennare aprì ogni porta sperando di trovarlo.
Capì subito quale fosse la stanza di Jay e un brivido di paura lo sorprese nel momento esatto in cui appurò la sua assenza.
Non era neanche lì.
Avrebbe voluto soffermarsi su altri particolari, ma gli occhi si posarono sul letto sfatto che nascondeva tra le sue pieghe il cellulare abbandonato di Jay.
Si avvicinò tempestivamente, afferrandolo.
Cercò di trovare qualsiasi indizio utile che gli avrebbe suggerito qualcosa, così visualizzò la sua ultima chiamata e vide il proprio numero. Era stata l’ultima persona che aveva cercato di contattare e un colpo cupo al centro del petto lo costrinse a stringere nelle mani quell’unico piccolo oggetto che avrebbe potuto dargli una minima speranza. Esaminò gli ultimi dati con impazienza e la ricerca giunse al termine non appena trovò l’ultimo sito internet consultato. Sperò che quella fosse stata la sua destinazione e cacciando il cellulare nella tasca dei jeans si guardò intorno ancora un attimo. Libri, vestiti, videogiochi, computer: lì c’era il piccolo mondo di Jay custodito in una stanza sola.
Corrugò la fronte chiedendosi se lui meritasse davvero di rimanere chiuso e nascosto in una camera, senza sentirsi libero di poter vivere nel resto della casa tra le risate e la leggerezza che ogni ragazzo della sua età ha il diritto di avere.
Si avvicinò alla scrivania e prese velocemente lo zaino sulla sedia. Freneticamente raccolse tutto quello che c’era da raccogliere e senza alcuna cura, per la fretta, lo riempì di vestiti, qualche libro e altre piccole cose.
Chiuse con decisione la zip racchiudendo oggetti e speranze.
Scese le scale di fretta ignorando Emma che parlava al telefono, fece per uscire ma lei lo bloccò, chiudendo la porta davanti a lui. «Mi ascolti bene, non la passerà liscia. Ho già messo al corrente mio marito dell’accaduto e farà il possibile per trovarla e fargliela pagare.» Infastidita dall’espressione tendente al riso di Izaya 
che la fissava come se fosse l’essere più ridicolo al mondo  abbassò lo sguardo per ritrovare un briciolo di calma, ma non appena si accorse dello zaino alzò gli occhi di scatto, incredula: «Cosa ha preso?»
«Jay non tornerà mai più in questa casa. Sono i suoi bagagli» rispose monocorde, pronto a farsi carico di ogni responsabilità.
«Ma che diritto ha di venire a casa mia, scombussolare tutto come il peggiore degli animali e portare via Jay? Chi è lei?»
Izaya, in un gesto di stizza, scosse il capo, rassegnato davanti a tale imbecillità ed estraendo il suo biglietto da visita glielo porse: «Izaya Hayes. Sono avvocato presso lo studio Carver & Carter LLP, dica a suo marito di farmi visita.»
«Cosa vuole da Jay?»
«Voglio che viva. Lei, cosa vuole da Jay? Vuole vederlo sopprimere la sua identità, rovinare la sua esistenza, vuole vederlo infelice? Se ha un briciolo di affetto per quel ragazzo lo lasci andare senza fare altre storie. Le sconsiglio di alzare polveroni perché è questa merda di famiglia ad avere segreti da nascondere, non io e neanche Jay. Buona giornata.» Ruggì quelle ultime parole con estremo rancore per poi scostarla dalla porta e uscire.
Si fermò di spalle per un breve istante e sospirando alzò gli occhi verso la strada, scorgendo l’immagine vaga e non reale di Jay che camminava su quella via, verso casa sua. Non era mai più stato felice, anzi l’aveva conosciuto come un ragazzo disperato e rifiutato dalla sua famiglia ed ora era arrivato il momento di cambiare le cose.
Si voltò ancora verso Emma che lo scrutava in silenzio come presa in ostaggio da un turbinio di riflessioni, e quasi con tono benevolo la onorò del suo più sentito augurio: «Spero che lei possa vivere altri cento anni senza mai dimenticarsi di avere un figlio che lei stessa ha messo al mondo e negato. Le auguro di arrivare ai suoi ultimi anni di vita in salute e saggezza così da rendersi conto del male che ha fatto quando, ormai, sarà troppo tardi per rimediare».
Si allontanò speditamente 
non avrebbe mai più dedicato altre parole a quella donna  e con passo rapido e deciso si avvicinò a Chaz che lo aspettava lontano abbastanza da non farsi scorgere.
Lei, rassegnata, lo lasciò andare senza ostacolarlo.
Rimase immobile davanti alla porta per qualche minuto; era consapevole del fatto di non essere stata una buona madre per Jay, ma non si sentiva affatto in colpa perché ogni sua azione era stata dettata dal disperato desiderio di proteggere suo figlio da una vita immorale. Accostarsi alla disapprovazione di suo marito fu la cosa più naturale del mondo per lei. George aveva dimostrato, più di una volta, di non accettare gli omosessuali, motivandone le ragioni e come uomo di gran giudizio e di elevata cultura Emma lo ascoltava, convenendo con lui su ogni punto.
Loro figlio non poteva essere un omosessuale, uno dei tanti personaggi frivoli in cerca di sesso, ma Jay sembrava non voler cedere, quindi, a malincuore, lasciò che Izaya glielo portasse via per sempre, dicendosi che quella sarebbe stata la soluzione giusta.
Jay avrebbe vissuto la sua vita lontano da loro senza metterli in una condizione di imbarazzo e questo non era altro che un motivo di sollievo.
Suo figlio gli mancava, ma quel maledetto giorno l’aveva definitivamente perso e la sua presenza a casa non era altro che la proiezione falsata del suo bambino che, ormai, viveva solo nei suoi ricordi perché, nella realtà, quel figlio non esisteva più.

***

«Dove stiamo andando?» chiedeva Chaz cercando di tenere il passo.
Non sapeva cosa fosse successo e nonostante morisse dalla voglia di saperlo preferì dedicarsi alla ricerca di Jay.
«È a Bloomsbury. Lo troveremo lì».
Gli occhi di Chaz si posarono sullo zaino che Izaya portava aggrappato alla sua spalla e una morsa allo stomaco provocò ogni possibile deduzione.
Era arrivato il momento di dire per sempre addio a Jay, sempre se fossero riusciti a trovarlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Retrograde ***



"I’ll wait
So show me why you’re strong
Ignore everybody else
We’re alone now
I’ll wait [...]
We’re alone now
Suddenly I’m hit
Is this darkness of the dawn?
When your friends are gone
When your friends won’t come
So show me where you fit."

Retrograde- James Blake




14. Retrograde


“La felicità e la pace del cuore nascono dalla coscienza di fare ciò che riteniamo giusto e doveroso, non dal fare ciò che gli altri dicono e fanno.”

Fissando la scultura accovacciata al centro di Tavistock Square, Jay sentì ripetersi nella sua mente quella piccola manciata di parole che, nella loro semplicità, esprimevano ciò per cui pensava fosse sempre stato giusto lottare.
Quelle parole le aveva lette da qualche parte neanche troppo tempo fa e vedere la statua di Mahatma Gandhi, con gli occhi chiusi e le gambe incrociate, lo aveva indotto a pescare tra i suoi ricordi una frase che, all’epoca, quando l’aveva scovata tra le numerose pagine internet aperte a caso, non era riuscita a rivelarsi in tutta la sua saggezza come avrebbe meritato.
La sua mente era cambiata e si sentiva estremamente più vecchio, forse anche più saggio, tanto che quella frase riuscì solo in quel momento ad esprimersi totalmente tra le increspature del suo animo sgualcito che, ormai, erano diventate più dure e forti, incredibilmente sue.
Sebbene sentisse di aver fatto di tutto per comportarsi secondo la propria coscienza, ancora non aveva beneficiato della promessa della felicità.
La pace del cuore tardava ad arrivare nonostante avesse lottato per imporsi per ciò che era; sentiva di non essersi tradito né nei sentimenti né nella sua natura, eppure, ancora, non si sentiva libero.
Gli occhi chiusi e il viso marchiato dalle rughe di Gandhi,
incredibilmente umani benché si trattasse di una scultura, riuscivano a trasmettere una sensazione di pace e rilassatezza, tuttavia non permisero al ragazzo di mutare l’inquietudine in qualcosa di più incoraggiante.
Il freddo lo aveva intorpidito su quella panchina sotto gli arbusti spogli piegati dal gelo dell’inverno, eppure non aveva alcuna intenzione di abbandonare quella silenziosa piazza di Bloomsbury, lontana pochi passi dalla facoltà che avrebbe dovuto frequentare quell’anno stesso.
Un sogno lontano, quello.
Frequentare l’University College e diventare uno studente di legge in una delle università più prestigiose di Londra: un sogno realizzabile ma negato, una vita normale senza esigenze assurde, eppure così difficile da poter pretendere.
Sentiva come se ogni cosa gli fosse scivolata dalle mani senza controllo; un attimo prima stringeva la sua vita 
con tutti i suoi progetti e speranze  e un attimo dopo: il nulla. Non avrebbe mai creduto sarebbe bastata una frase per cancellare ogni certezza. Pensò a ciò che era stato e sorrise quando immaginò  in un momento di fervida fantasia  un se stesso del futuro correre verso quel Jay del passato alle prese con un'esistenza serena priva di dubbi sulla propria famiglia per avvertirlo di quello che sarebbe accaduto; il Jay del passato rideva incredulo, lo immaginava così  totalmente certo del suo futuro, dei suoi genitori e della sua stessa vita, invece, la realtà era un’altra e in pochi giorni aveva dovuto dire addio a quel ragazzo spensierato e pieno di sogni.
I suo occhi si posarono sull’albero di ciliegio grigio e triste dall’altro lato del parco e poté immedesimarsi in esso facilmente, perché si sentiva esattamente così: povero, misero, privo di colori e di vita; potenzialmente meraviglioso, ma del tutto brullo, nudo, svuotato.
Affondò il viso nella lunga sciarpa carta da zucchero che gli fasciava morbidamente il collo e ritrovò un leggero tepore attraverso il suo stesso fiato caldo e rassegnato. Rimase immobile, con gli occhi chiusi, abbandonato sulla panchina, immerso nel caldo abbraccio della sciarpa che per un attimo riuscì a far cessare i pensieri.
Quella mattina aveva cercato Izaya dopo l’ennesima ingiustizia spiattellata dritta in faccia.
Joseph avrebbe compiuto sedici anni e avrebbero organizzato una grande festa, sarebbe stato felice per lui se la madre non gli avesse chiesto di non tornare a casa per quella sera. «Non reciteremo la parte della famiglia perfetta e non saprei come giustificare un eventuale comportamento distaccato nei tuoi confronti. Ti chiedo, quindi, di non presentarti alla festa, sapremo come motivare la tua assenza più facilmente».
Aveva annuito con garbo e, come di consueto, era ritornato nella sua stanza con la coda tra le gambe ed un immenso dolore nel petto. Il vuoto, però, nonostante avesse cercato in ogni modo di contrastarlo, riuscì ad inghiottirlo piano, piano e ad ogni secondo si cibava di un pezzetto di lui senza alcuna pietà, logorando il suo animo, cibandosi della sua amarezza, bevendo dalle sue lacrime, rifocillandosi con la sua delusione.
Intorno aveva terra bruciata, ma una luce oltre quella terra riusciva a raggiungerlo: Izaya e Lizzie.
Chaz l’aveva abbandonato e anche se ci fosse stato non avrebbe potuto fare affidamento su di lui, qualcosa si era irrimediabilmente rotto.
Aveva chiamato Lizzie senza alcuna risposta, aveva cercato Izaya che, però, lo aveva liquidato velocemente. Capì che avrebbe dovuto contare solo su se stesso e sulle sue forze, così uscì di corsa, si sarebbe fatto gli affari propri una volta per tutte senza fare affidamento su nessuno, rendendosi irreperibile. In molti lo avevano chiamato egoista, almeno, questa volta, si sarebbe fatto giudicare malamente per santa ragione.
“Sii egoista!” gli aveva detto Izaya, e la massima espressione del suo egoismo si palesò nella volontà di sparire per qualche ora, senza essere disturbato.
La solitudine gli avrebbe dato modo di riflettere e di capire cosa, per lui, fosse davvero importante, senza lasciarsi plagiare dalla presenza delle persone che lo avevano aiutato ma che, senza rendersene conto, gli avevano scombussolato la vita più di quanto credevano.

***

Endsleigh Street, nonostante la giornata di sole, riusciva ad essere sempre un po’ troppo seriosa ed Izaya, percorrendo la lunga strada verso la facoltà di legge, posò gli occhi su ogni edificio cercando di scorgere, da qualche parte, la figura assorta e gracile di Jay.
Aveva studiato in quella facoltà da ragazzo e conosceva perfettamente ogni angolo di quel quartiere e sapeva che se Jay era ancora lì, l’avrebbe certamente scovato.
«Ma chi te l’ha detto che è qui?» chiese Chaz d’improvviso, rivolgendogli la sua prima parola dopo incalcolabile tempo di mutismo.
«Il sito della facoltà di legge, Chaz, è stato l’ultimo che ha visitato e se lo conosco bene è venuto qui per prendere informazioni: Jay vuole riavere una vita normale, vuole andare all’università.»
«E come crede di fare?»
«Come fanno i tre quarti degli studenti non figli di papà» rispose con un pizzico di ironia sveltendo il passo mentre Chaz, sempre più stordito, faceva l’opposto, accrescendo le distanze da lui che, come un segugio, posava gli occhi su ogni muretto o scalinata. Uno strano ottimismo lo rese fiducioso e non appena si ritrovò davanti la facoltà la fissò per qualche minuto. La squadrò dal basso verso l’alto, come se potesse riuscire a scorgere, sbirciando dalle finestre, la presenza di Jay. In un certo senso fu così perché, senza un motivo preciso, capì che quello non era il posto dove cercarlo.
Si mosse d’improvviso cogliendo di sorpresa Chaz che, ormai, lo seguiva in silenzio senza chiedere spiegazioni, consapevole del fatto che Izaya sarebbe stato l’unico in grado di trovarlo. Percorse la lunga strada verso Tavistock Square stringendo sempre più impetuosamente le fasce dello zaino aggrappate alla spalla; aveva raccolto la roba di Jay senza alcuna cura, più che altro, aveva cercato il più possibile di portare via da quella casa le cose appartenute a lui, senza una reale logica, solo assecondando l’istinto irrefrenabile di recidere ogni legame con quella famiglia.
Sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare e non appena vide una figura avvicinarsi davanti a lui, avvolta da un montgomery grigio che sembrava più uno scudo che un cappotto, affrettò il passo alzando la mano per richiamare la sua attenzione. «Jay!»
Il ragazzo si fermò 
era troppo lontano per riuscire a cogliergli lo sguardo  e dopo pochi istanti si voltò, tornando indietro. Izaya alzò il sopracciglio chiedendosi il perché Jay avesse scelto di voltargli le spalle e guardando Chaz con fare interrogativo cercò di capire con lui le ragioni che lo spingevano ad allontanarsi. Chaz, perplesso, fece spallucce e puntando nuovamente gli occhi sulla figura silenziosa che, lentamente, si allontanava da loro, disse incerto: «Dovremmo seguirlo, credo».
Izaya cominciò a camminare verso Jay che, sempre più speditamente, si allontanava; quell’inseguimento prese i connotati di qualcosa di enormemente buffo e sorridendo cercò di richiamare la sua attenzione: «Jay, fermati! È tutto il giorno che ti cerchiamo.»
«Andatevene. Voglio stare per cavoli miei» gridò, tagliando l’aria con il braccio, cercando di intimidirli. Quel gesto infantile intenerì Izaya, spingendolo ad avvicinarsi con più convinzione. «Devo parlarti, fermati.»
«Andatevene! Non mi rompete l’anima, per favore. Sto bene!» rispose, strizzando gli occhi per darsi forza mentre il gelo, che dava forma al suo respiro sempre più agitato, colorava di rosso il viso pallido vivacizzato dall’espressione seccata, come se quei due avessero invaso un momento di solitudine troppo importante per essere interrotto così violentemente.
Izaya non si lasciò intimidire dall’irruenza del ragazzo che, anzi, appariva come un bambino capriccioso da dover proteggere. Riuscì a raggiungerlo e non appena si ritrovò a fianco a lui, afferrandolo saldamente per la vita, lo bloccò innescando una rabbia incontrollata e del tutto inaspettata. «Ma mi hai preso per un cazzo di bambolotto? Ti ho chiesto di andartene.»
Gli occhi furiosi di Jay agganciarono quelli divertiti di Izaya che, incrociando le braccia, si impose con finto rimprovero: «Ti cerchiamo da ore e tu, come il peggiore degli stronzi, non ti sei neanche degnato di portare con te il cellulare.»
«Non sono tenuto a farlo. Voglio stare da solo, mi sono stufato di pensare a voi.»
«Io sono il tuo ragazzo…»
«Sì, sei il mio fottuto ragazzo e quando servi non ci sei!» Jay ricominciò a camminare ed Izaya, placato da quella sfuriata istintiva che dimostrava quanto in Jay esistesse ancora quel pizzico di immaturità tipica dei ragazzini, sorrise del fatto che non solo sembrava non essersi accorto di Chaz, ma neanche della loro stessa presenza a Bloomsbury; pareva non essersi chiesto il come erano riusciti a trovarlo. Il più grande, con fare altezzoso, alzò la voce per farsi sentire: «Va bene, come vuoi! Non ti dirò, quindi, il perché ho uno zaino pieno delle tue cose sulla spalla». Un colpo al cuore fermò Jay sulla strada verso il niente che stava per raggiungere, si voltò lentamente e come se gli occhi gli si fossero aperti in quell’istante, vide Chaz accanto a Izaya che, con aria altezzosa, stringeva la fascia dello zaino tentando di metterlo in bella mostra il più possibile. Gli occhi del ragazzino imbronciato si spalancarono dallo stupore e dopo essersi avvicinato al proprio ragazzo afferrò la sacca, rovistando all’interno.
Si fermò d’improvviso, arrestando la ricerca, lasciò cadere lo zaino a terra e nervosamente portò indietro i capelli, cercando di pensare ad una spiegazione plausibile che fosse il più lontana possibile dalle sue ipotesi, per non illudersi. Prima che potesse lasciar soccombere la speranza sotto cumuli di spiegazioni vaghe, Izaya gli afferrò le mano e chinandosi leggermente verso di lui lo fissò attentamente negli occhi. Il sussurro che investì Jay fu più impetuoso di un urlo: «Sei libero».
Stordito e con gli occhi spauriti fissò Chaz che, leggermente scostato dalla scena, assisteva col broncio. Spostò lo sguardo da lui capendo che non avrebbe mai potuto trovare appoggio, conforto o spiegazioni nei suoi occhi e ristabilendo il contatto visivo con Izaya chiese sottovoce, con le labbra tremanti: «Cosa significa?»
Il più grande, avvertendo l’agitazione dell'altro, tentò di infondergli, con la sua stessa voce, pacatezza e sicurezza. «Significa che tu verrai a stare da me. Non dovrai tornare a casa tua. Mai più.»
«Ma come…» fermò il fluire delle sue parole così come le lacrime che si incastrarono tra le folte ciglia nere che contornavano due occhi così trasparenti da sembrare due piccoli vetri attraverso i quali, con facilità, si sarebbe potuto guardare all’interno.
In quel momento, Jay sembrava proprio l’espressione corporea di un’anima sola e fragile che, finalmente, stava per ritrovare una casa al quale fare ritorno liberamente e con serenità.
«Mi prenderò cura di te, te lo giuro.»
Le braccia di Izaya lo cinsero così forte da non permettergli di dubitare. Era tutto vero e non solo le parole gliene davano conferma, anche il viso intristito e malinconico di Chaz che, disarmato, assisteva al “salvataggio”. Certamente era felice che qualcuno potesse essere in grado di proteggerlo ma, nello stesso tempo, provava rabbia per quella situazione. Era ritornato indietro per riprenderselo, tuttavia quello stato di cose così intricato e così grande rispetto le proprie capacità, lo costrinsero a prendere atto del fatto che mai, in nessun contesto e in nessun caso, sarebbe stato in grado di sostituire Izaya.
Si allontanò silenziosamente dai due, e prima che potesse andare via la mano di Jay lo fermò serrandogli il braccio. «Sei ritornato?»
«No! Sto andando via…»
«Chaz…» supplicò.
Il vento gelido si fece sentire più pesantemente sulla pelle ed un brivido percorse la schiena di Chaz che, senza voltarsi, salutò tacitamente Jay, divincolandosi dalla presa. Continuò ad allontanarsi seguito dallo sguardo impotente dell’amico che avrebbe voluto fermarlo, ma sapeva che sarebbe stato tutto inutile perché Chaz, definitivamente, aveva bruciato ogni possibilità di ricostruire il loro rapporto.
«Se te ne vai adesso, se davvero hai intenzione di sparire così… non tornare mai più». Avrebbe sentito la sua mancanza, ma intuì che non sarebbe mai più stato in grado di riallacciare i rapporti se fosse ritornato nuovamente sui suoi passi. La delusione lo aveva totalmente disincantato e il dolore di averlo perso lo aveva reso più fragile, se fosse ritornato per andarsene un’altra volta non avrebbe più retto.
«Non ti preoccupare, Jay. Ti dico addio. Sparisco dalla tua vita e tu, per favore, sparisci dalla mia».
Come portato via dal vento, Chaz percorse la strada da dove era venuto e, ancora una volta, una nuova possibilità di ritornare sui suoi passi si ripresentò trovando come messaggero l’uomo che aveva portato via l’unico amore della sua vita. «Eri ritornato. Perché te ne stai andando ancora?» Izaya l’aveva raggiunto e consapevole del fatto che le parole di Jay sarebbero state le sue ultime, scelse di fare un altro tentativo prima che il distacco potesse diventare davvero incolmabile.
«È finito da un pezzo il tempo della nostra amicizia. Adesso è giusto che ognuno si faccia una propria vita. Io non sopporto più questa situazione e prima di arrivare ad odiarlo, preferisco sparire. Voglio avere un buon ricordo di lui».
Continuò a camminare e nient’altro, a parte la sua coscienza, avrebbe potuto fermarlo e ciò si fece ancora più concreto con il suo definitivo dileguamento.
Svoltò versò la metropolitana rendendosi invisibile agli occhi dei due ragazzi che, in bilico tra la felicità di aver sistemato le cose e il dispiacere di non poterlo fermare, fissavano l’angolo dietro il quale era sparito per sempre l’unico vero amico di Jay.





Angolo autrice.
Ciao Bimbi belliiii!!!
Eccolo il nuovo capitolo. Dite addio a Chaz, perché non ritornerà per la gioia di Ladywolf XD
Ringrazio Bijouttina, Babbo Aven e Fly with me. Poi Nahash e SNappy.
Spero che la storia vi stia piacendo anche perché stiamo entrando nel vivo.
Fatemi sapere che ne pensate.
Mi odiate?
Chaz se n'è andato e non ritorna più.
Mi odiate? Fatemi sapere.
Bacini a tutti e scusate se vaneggio ma, come al solito, aggiorno sempre tardissimo ed il mio cervello, al momento, sta dormendo.
Al prossimo capitolo.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Lovesong ***



  quindicesimo capitolo
"Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am home again
Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am whole again
Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am young again
Whenever I'm alone with you
You make me feel like I am fun again

However far away
I will always love you
However long I stay
I will always love you."

Lovesong- The Cure



15. Lovesong


Lo zaino, ad ogni passo, intonava un tintinnio così impercettibile da riuscire ad essere ipnotico. In quella sacca c’erano le cose di Jay ma la cosa più cara era fuori, e camminava davanti a lui.
Dopo aver visto andare via Chaz, una sensazione di freddo lo aveva intorpidito tanto da lasciarlo intontito al centro della strada, con gli occhi assenti e vuoti.
La stanchezza stava portandosi via ogni piccolo pezzo fino al momento in cui Izaya, risvegliandolo dal torpore con un semplice cenno della mano davanti ai suoi occhi, riuscì a ristabilire il contatto tra Jay e la realtà che pareva così difficile da accettare da fargli desiderare, per un attimo, di scappare ancora.
Non appena quella mano interruppe i suoi pensieri, come un’ombra vaga ma prepotente, il presente non sembrò più così difficile da vivere e accettare perché la figura che lo rappresentava era proprio lì, accanto a lui.
Izaya era il suo presente e il suo futuro.
«Andiamo al bar?» aveva chiesto con tono leggero e delicato, come se stesse rivolgendosi ad un bambino «Lizzie ti sta aspettando. Era preoccupata per te.»
Il ragazzo lo fissò in silenzio ed ebbe la sensazione distinta di vederlo per le prima volta, come se prima di allora il pensiero di Chaz non gli avesse permesso di percepire consciamente i tratti decisi che componevano i lineamenti dell’uomo che amava. Come se lo avesse sempre visto attraverso un vetro appannato.
Izaya attendeva pazientemente che Jay si risvegliasse da quello stato comatoso senza sapere che, in realtà, il risveglio era già avvenuto perché dopo tanto tempo, finalmente, stava riuscendo a ricollegare i pezzi della sua vita appena vissuta.
L’esistenza di Jay, quella vera, era iniziata poco tempo fa e l’abbandono di Chaz era diventato l’evento traumatico più chiarificatore mai vissuto.
Chaz era stato un amico, un compagno, ma anche l’unico capace di tenerlo in connessione con la sua vecchia vita, ostacolandogli la possibilità di ricominciare da zero, di ricominciare da Izaya. Così lo fissò in silenzio studiando ogni suo particolare, come fosse stata la prima volta.
Gli occhi del suo uomo erano la cosa più bella e rasserenante mai vista e solo in quell’istante se ne rese davvero conto. Spostò lo sguardo sullo zaino e capì ciò che era accaduto: l'uomo che amava lo aveva portato via da quella casa, dalla sua famiglia, definitivamente. Non gli importava di accertarsi delle dinamiche, ormai era tutto chiaro ed istintivamente afferrò il giubbotto del ragazzo davanti a sé che lo guardava con cautela, sperando di aver fatto la cosa giusta.
Rimase fermo, aggrappato al suo giaccone con la testa bassa, senza fiatare; stringeva quel lembo di stoffa con forza come se stesse cercando in ogni modo di appigliarsi a lui, senza lasciarselo scappare.
Chaz se n’era andato, Izaya era lì e aspettava.
Jay aveva dei dubbi, galleggiavano nelle sue iridi trasparenti come detriti di un naufragio, e prima di poter concedersi la possibilità di esultare ed essere felice, senza guardarlo, cercò di chiarire ciò che più di tutto lo frenava dall’abbracciarlo con tutte le sue forze. «Lo fai perché mi ami o perché vuoi salvarmi?»
«Faccio, cosa?»
«Voglio capire se ti ha mosso la coscienza o l’amore. Cioè, tu vuoi davvero vivere con me perché mi ami o tra qualche tempo ti renderai conto di aver fatto il passo più lungo della gamba e mi dirai di tornarmene da dove sono venuto? Perché se è così, io torno a casa adesso».
Izaya cominciò a camminare in direzione della metro costringendolo a mollare la presa. Camminava lentamente davanti a lui, a Jay non rimaneva che seguirlo in silenzio.
«Io non sono così contorto
» rispose, finalmente, il più grande. «E ancora meno capisco la gente contorta. Io sono come mi vedi e sono ciò che faccio, non ciò che dico. Se vuoi avere spiegazioni, le avrai, ma mi piacerebbe che tu capissi che i fatti, non le parole, dimostrano chi sono e cosa sento.» Senza voltarsi, Izaya aveva cercato a suo modo di rispondere alle domande di Jay che, a poco a poco, divennero inutili e superflue. «Se avessi voluto salvarti l’avrei fatto tempo fa» continuò. «Ci sono stati momenti in cui avrei voluto fare ciò che ho fatto oggi, ma mi sono fermato perché mi rendevo conto che l’amore, più di ogni altra cosa, ti avrebbe fatto bene e non semplicemente l’atto pratico di portarti via di lì. Io provo per te qualcosa di così enorme da non potertelo neanche spiegare, dire che ti amo mi sembra addirittura riduttivo, per questo preferisco spiegarti che tutto questo non è un istinto scatenato dalla compassione, non sono un buon samaritano, ma è voglia di averti tutto per me, per come sei e non per come ti riducono gli altri. Anzi, prendilo come un gesto egoistico: voglio conoscere il Jay che fino ad oggi non ho mai conosciuto. Voglio vivere il mio Jay nella nostra casa.»
«Ma non ti puoi fermare? Davvero vuoi dirmi queste cose senza guardarmi in faccia?» chiese con il cuore in gola e la felicità nelle mani che tremavano dalla voglia di afferrarlo e stringerlo.
Dopo aver dato vita ad un sospiro afflitto, Izaya prese a borbottare parole incomprensibili che si fermarono non appena si voltò: «Sei contorto, ragazzino. Prima ti lamenti perché non ti spiego le cose, poi ti lamenti perché non ti guardo in faccia, tra poco ti lamenterai perché c’è il sole e avrei dovuto farti questa meravigliosa ed encomiabile dichiarazione d’amore sotto la pioggia scrosciante. Jay, sii più leggero. Non essere così cervellotico. Io sono qui, le tue cose anche, stiamo andando da Lizzie e stasera andremo a casa nostra. Dai! Uno sputo e una stretta di mano. Fidati!».
Risparmiandosi lo sputo tese la mano per afferrare quella di Jay e con il sorriso negli occhi attendeva che quest’ultimo si convincesse delle sue parole.
Comprese la sua diffidenza, d’altronde chi diceva di amarlo lo aveva deliberatamente tradito, perché avrebbe dovuto fidarsi di lui? L’insicurezza dei sentimenti altrui l'avevano reso sospettoso e Izaya scelse di prendersi la responsabilità di aiutarlo ad avere ancora fiducia nella vita, come qualsiasi altro ragazzo di diciotto anni.
Jay non attese altre parole né strinse la sua mano, ma gli si lanciò contro stringendolo a sé così prepotentemente da sentire la stanchezza scaricarsi nel suolo e la forza scorrergli nelle vene, come durante un risveglio dopo mille anni di sonno.
«Fanculo a mia madre, a mio padre; fanculo a Chaz e fanculo al mondo. Io ti amo e mi fido di te. Lo giuro, mi fido!» urlò con gli occhi stretti in un momento di sfogo e liberazione, abbracciato al suo uomo.
Izaya sorrise, alzando gli occhi al cielo con ironia. «Era ora!»
Sollevando il viso di Jay lo squadrò per qualche istante e non appena riuscì a scorgere un bagliore di speranza e felicità capì che quella maledetta malinconia che aveva odiato, finalmente, aveva abbandonato i suoi occhi, restituendogli l’agognata pace che da sempre aveva sperato per lui.

***

Lizzie, stupendoli, non si comportò come avevano immaginato perché, anziché prenderlo a schiaffi per lo spavento, lo aveva tenuto stretto a sé come se davvero avesse temuto per la sua vita. «Ero convinta ti fossi suicidato!»
Izaya e Jay, seduti difronte a lei, ridevano a crepapelle a causa del racconto tragico dei retroscena vissuti privatamente dalla sventurata Lizzie che, irragionevolmente, aveva lasciato che la sua lugubre fantasia ricostruisse una storia drammatica degna di Shakespeare.
«Ma sei seria? Non mi sarei mai suicidato.»
«Per quanto mi riguarda sei capace di tutto, Hahn! Non fare la faccia d’angelo, ti ho conosciuto depresso, ti ho frequentato depresso e avresti potuto fare una fine tragica. Sarebbe stata verosimile come cosa» rispose piccata, infastidita dalle risate che avevano guarnito la sua puntuale, e personale, esposizione dei fatti.
«Ordinare i tuoi caffè è certamente un tentato suicidio, quindi sì: è verosimile come racconto. Jay tendenzialmente ama farsi del male» rispose Izaya dopo aver sorseggiato la bevanda scura che sapeva di acqua calda sporca dal vago aroma di caffè.
«Fai meno il cretino, tu!» lo rimproverò Lizzie, frustandolo lievemente con il canovaccio che portava sempre con sé come un inseparabile amico. «Però, devo ammettere che ti sei comportato egregiamente. Finalmente hai detto ad Emma ciò che meritava.»
«Non mi è sembrato si sia lasciata colpire più di tanto. La sua unica preoccupazione era che un finocchio si fosse introdotto dentro il tempio immacolato di casa sua».
Jay ascoltava i discorsi di Izaya e Lizzie come se non stessero parlando di sua madre, ma di una donna qualsiasi della quale non conosceva nulla.
Si accorse di essersi liberato di un peso solo nel momento in cui sentì quei racconti così lontani da lui da non potergli più appartenere.
Se era questa la leggerezza raccontata sempre da Izaya, allora, ci era arrivato anche lui; la leggerezza di vivere onestamente senza curarsi del giudizio degli altri, di esprimersi senza aspirare all’accettazione altrui.
Se le persone che dicevano di amarlo avevano preteso da lui il silenzio, e quindi il conseguente rinnegamento di se stesso, allora potevano sparire dalla sua vita; Jay non avrebbe avuto alcun rimpianto nei loro confronti.
«Ma che se ne andasse a farsi fottere. Quando tornerò a prendere le mie cose gliene dirò quattro anche io, se mi metterà nella condizione di farlo» disse con stizza.
Più sentiva di riuscire a parlarne con distacco, meno percepiva il peso delle sue scelte. Parlare della sua famiglia, di Chaz e di ciò che era successo in quei termini lo faceva sentire così distante da spingerlo ad apprezzare la propria solitudine nel mondo; non in senso negativo, ma nel modo più bello.
Lui era padrone della sua vita, era un individuo distaccato dagli altri.
Viveva e si muoveva nel mondo come un essere vivente unico e solo, gli altri rappresentavano altri individui soli come lui che, accostandosi all’altro, plasmavano rapporti in grado di arricchire o meno l’esistenza di ognuno.
Da essere unico era libero, ormai, di decidere chi sarebbe stato degno del suo affetto. La cernita era appena iniziata e Izaya e Lizzie sembravano gli unici due esseri capaci di abbellire e rendere preziosa la sua vita: adesso sapeva a chi donare la sua unicità senza sentirsi costretto a diventare uno dei tanti, uguale a tanti altri.
«Izaya ha già preso le tue cose, no? Perché ci devi tornare?»
Una risata scrosciante di Jay riempì la sala e i cuori dei due presenti che lo fissavano increduli. Vederlo ridere in modo così spontaneo era una piacevole novità ed Izaya, capendo il motivo della sua risata, abbassò la testa nascondendo il viso con il menù plastificato.
«Vedi, Lizzie? È riuscito a prendere le uniche cose inutili presenti nella mia stanza.»
«Ho preso le prime cose che mi sono trovato davanti. Ero talmente incazzato che ho evitato di fare una scelta accurata. Lo zaino è simbolico» rispose certo delle sue ragioni, fissando gli occhi di Jay che apparivano finalmente sereni, senza alcuna ombra di affanno.
Jay era libero ed Izaya riusciva a sentire gli effetti di questa meravigliosa novità sulla propria pelle; qualcosa era davvero cambiata. Non era stato solo il fatto di averlo estirpato con la forza dalla sua famiglia, non era perché sarebbero tornati a breve in quella che sarebbe stata la loro casa, era la consapevolezza di essere, la coscienza di se stesso a rendere Jay diverso, appagato, soddisfatto, senza rimpianti.
Izaya percepì la nuova coscienza di Jay così prepotentemente da vederlo, addirittura, in un modo diverso. Non c’era più un ragazzo indifeso da proteggere, ma solo un uomo da amare e sebbene gli anni fossero troppo pochi, il suo animo conteneva l’esperienza pienamente vissuta di una persona capace di afferrare la propria vita e condurla in piena consapevolezza e saggezza.
Era arrivato il momento in cui Izaya e Jay avrebbero potuto viversi senza ripensamenti e ostacoli.
«Credo sia arrivato il momento di portare lo zaino a casa nostra» azzardò Izaya, cogliendolo di sorpresa. Sebbene sapesse di non dover più ritornare a casa sua, ancora non aveva realizzato il fatto di avere un luogo al quale avrebbe potuto fare ritorno in compagnia dell’uomo che sentiva di amare.
Donò la sua vita a quell’uomo con fiducia, come non aveva mai fatto prima, e sorridendo a Lizzie, che nel frattempo li fissava emozionata come la più svenevole delle romantiche, si alzò afferrando le fasce del “simbolo della sua nuova indipendenza”, posando gli occhi su Izaya con prepotenza, come se volesse farlo suo con un solo sguardo. «Allora, torniamo a casa. A casa nostra».
Izaya sorrise e lanciandogli le chiavi di casa si alzò, per poi avvicinarsi a lui e cingergli le spalle. Lo condusse verso la porta del locale, salutando Lizzie, iniziando un rito che sarebbe diventato presto un’abitudine.
Jay stringeva nelle mani le chiavi che avrebbero spalancato le porte della loro nuova vita insieme e godendo della presa prepotente dell’uomo che amava già pregustava gli attimi di estrema bellezza che avrebbero vissuto insieme tra le mura che, presto, sarebbero diventate di entrambi.





Angolo autrice.
Ciao! Come al solito aggiorno tardissimo ma, finalmente, ce l'ho fatta!
Mi scuso per eventuali errori ma questo capitolo è stato un parto plurigemellare, non perché parlare di Izaya e Jay sia difficile, ma perché non essendo bravissima a scrivere capitoli romantici, ho avuto difficoltà a riuscire ad esprimere al meglio i sentimenti e le emozioni di entrambi. Spero di essere stata brava, nonostante la mia inettitudine.
Jay e Izaya iniziano la loro storia e da qui si apre una nuova "epoca" della storia di Jay.
Voglio ringraziare le magnifiche sei tanto tanto, Bijouttina la combattiva che non saprà più con chi prendersela e babbo Aven.
Voglio ringraziare le nuove zie che si stanno mettendo in pari e tutte le persone che hanno inserito la storia di Jay tra le preferite/seguite/ricordate. Grazie di tutto.
Voglio dedicare questo capitolo a Ladywolf, Elsker, Aven e Bijouttina.
Siete i miei amori, spero di non deludervi davvero.
Grazie a Class of 13che ha letto i primi capitoli tutti d'un fiato e ringrazio, anche, chi non recensisce.
Già solo il fatto che seguite e amate la storia mi basta!
Poi, voglio ringraziare enormemente Ghost che mi ha inviato un bellissimo messaggio privato scrivendomi quanto sia affezionata a Jay.
Grazie mia cara, il tuo messaggio mi ha riempita di gioia!
Vi adoro tutti e sono terribilmente sensibile ultimamente, quindi, mi commuovo facilmente T_T
Che altro dire? Solo grazie e grazie ancora.
Un abbraccio enorme..

Ecco qui il Book Trailer della storia ^_^ Jay Hahn- La storia Book trailer
Grazie a Nahash e SNeppy. Bacini a voi.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Enjoy the Ride ***


"If you close the door to your house 
Don't let anybody in 
It's a room that's full of nothing 
All that underneath your skin 
Face against the window 
You can't watch it fade to grey 
And you'll never catch the fickle wind 
If you choose to stay."

Morcheeba - Enjoy The Ride feat. Judie Tzuke 


 


16. Enjoy the Ride
 
 
«Non smette mai di piovere.»
Avvolto nel plaid, con le guance rosse per via della febbre e gli occhi assonnati, Jay osservava la pioggia dalla finestra del suo appartamento a Soho, annusando, di tanto in tanto, l’odore dolciastro dell’ultima crostata di Lizzie fatta apposta per lui.
La pioggia aveva bussato alla finestra per giorni ma il senso di tristezza che, solitamente, aveva la capacità di infondergli, non era mai entrata in quel piccolo appartamento condiviso con Izaya perché la felicità che aveva accompagnato ogni giornata aveva impregnato anche i muri di ogni stanza.
Accovacciato sul divano, aspettava il ritorno del suo uomo, del suo compagno e nonostante Lizzie fosse sempre e costantemente al suo fianco, la mancanza di Izaya era più forte di qualsiasi altra emozione.
«Jay, piccolo, io vado. Tra poco arriva Izaya e senti, canaglia: non aprire le finestre. Si gela! Ed ogni volta ti trovo addormentato, con la febbre a quaranta ed un tornado in casa.»
Lizzie sembrava una mamma e l’artefice di tanta cura era proprio Izaya che aveva espressamente ordinato alla ragazza di recarsi nell’appartamento, prima di aprire il locale, per dare un’occhiata a Jay che già da dieci giorni aveva sotterrato ogni mobile di fazzolettini sapientemente imbrattati dal suo perenne raffreddore.
«Va bene! Faccio il bravo. Lizzie, voglio ringraziarti…»
«Non continuare, non farlo. Potrei ucciderti!» lo minacciò, indossando il cappellino bianco di lana che la faceva sembrare ancora più sbarazzina di quanto già apparisse «Dì ad Izaya che ho cambiato le lenzuola e che ogni tanto potrebbe farlo lui. Ogni volta mi imbatto in qualche vostra porcheria.»
«Di che genere di porcherie stai parlando?» chiese Jay divertito, con l’intenzione di stuzzicarla.
L’argomento sesso non era mai stato un tabù tra loro e proprio perché Izaya era stata la sua prima esperienza, Lizzie aveva sempre approfondito l’argomento, sincerandosi del fatto che fosse tutto abbastanza bello e sereno per Jay. Voleva conoscere tutto, tranne i particolari troppo crudi e Jay, per farle un dispetto, iniziava proprio da quelli.
«Le persone che fanno sesso lasciano segnacci in giro, sappilo.» sottolineò Lizzie, stringendo i fianchi tra le mani.
«Ah! Ti riferisci a quelle porcherie? Ovviamente, se due persone si strofinano, si abbracciano, si toccano, si baciano…»
«Smettila. Non voglio più ascoltare!» scappò da quel discorso così velocemente che Jay non ebbe il tempo di finire e dopo averla canzonata per bene, la fissò con tenerezza, riconoscendo in quella donna l’unica figura femminile degna di essere considerata «Sei carina oggi. Dove stai andando?»
La fermò alla porta con quella domanda e lei, imbarazzata, si voltò, cercando in ogni modo di nascondere il rossore che aveva colorato le sue guance «Dove vado di solito a quest’ora!»
«Un tipo belloccio, alto e barbuto mi ha detto che al locale sta venendo sempre più spesso un tizio di nome Robert. Sono esatte queste informazioni?» chiese sardonico, dondolandosi sul divano come una bimbetta impicciona.
«Certo che Izaya si fa i fattacci suoi!» esclamò infastidita, colta con la mani nel sacco.
«Izaya mi dice tutto e non vedo perché io non debba sapere. Volevi tenermelo nascosto?»
«Ma che dici? Non ne parlo perché è presto. Per adesso è solo un cliente gentile e simpatico, dovrei darti informazioni su ogni cliente che si siede ai tavoli?»
«Se il cliente sembra particolarmente interessato a te, sì!»
«Ci stiamo conoscendo, Jay. Nulla di più.»
Per non rovinarle il momento idilliaco del primo corteggiamento, Jay mollò la presa, consapevole del fatto che certi dettagli vanno lasciati ai diretti interessati, per non infrangere quella magia che solo l’intimità può preservare.
«D’accordo! Ne parleremo quando vorrai tu.»
Si arrese, alzando le mani e Lizzie, intenerita dal dolce desistere di Jay, gli concesse un particolare che sapeva sarebbe stato in buone mani «Mi piace molto e spero che possa evolversi positivamente.»
Jay sorrise, fissandola con dolcezza. Anche lui sperava in qualcosa di straordinario per lei, se lo meritava più di chiunque altro e la luce negli occhi di Lizzie lo riempì di ottimismo. Poteva diventare davvero qualcosa di speciale.
Senza aggiungere altro, la ragazza abbandonò l’appartamento, lasciando Jay da solo.
Si stese sul divano, coprendosi il viso con entrambe le braccia.
Privarsi della vista l’aveva sempre aiutato a pensare ed un senso di impazienza lo percosse al centro dello stomaco.
Lizzie era andata via e la mancanza di Izaya si faceva sempre più insistente e la febbre ricoprì di brividi ogni millimetro della sua pelle.
Inspirò profondamente, supplicandosi di avere pazienza.
L’appartamento piccolo, ma ben arredato, ormai, era diventata a tutti gli effetti la sua casa, ma senza Izaya, quella stessa casa, non sembrava così familiare.
Era passato un mese da quando aveva lasciato per sempre la sua famiglia, eppure persisteva, nitidamente, il ricordo dei giorni passati sotto quel tetto.
Nel momento stesso in cui aveva varcato la soglia del suo nuovo appartamento, si accorse che ciò che tutti, comunemente, chiamano casa non è fatta di muri, di mobili, di oggetti, ma di persone.
La sua casa era Izaya e sebbene avesse fatto sua ogni stanza, riempiendola, anche, delle sue cose, amando l’accostamento curioso degli oggetti appartenuti ad Izaya con i suoi, quel luogo riusciva a diventare davvero suo solo nel momento in cui il suo uomo faceva ingresso, lasciando le scarpe in giro per il soggiorno, indossando la felpa rovinata, della quale non si sarebbe mai separato, che usava solo a casa.
Quelle piccole cose, le abitudini, le sfaccettature del tutto inedite prima della loro convivenza, erano diventate parte della sua vita; Izaya era la sua vita.
Si rimproverò per il suo romanticismo, ma più cercava di comportarsi da uomo, più le emozioni gli si aggrovigliavano nello stomaco, rendendolo un adolescente innamorato alle prime armi.
Alle prime armi lo era, invero, ed Izaya era stato il suo primo ed unico uomo, ma i sentimenti che provava non erano solo il frutto della sua inesperienza; era sicuro e convinto di aver trovato la persona giusta, quella che si incontra una volta nella vita e che in molti lasciano scappare perché troppo smaliziati per credere alla fortuna gratuita, quella che non esige qualcosa in cambio.
Jay era stato fortunato ed il sorriso che aveva perennemente preso posto sul suo viso ne era la prova.
Sentiva la felicità solleticare ogni corda del suo essere; un senso continuo di presentimenti positivi facevano vibrare il suo animo, tanto da renderlo costantemente allegro e iperattivo. La stanchezza, quella del cuore, non aveva più bussato alla sua porta e se mai l’avesse fatto, Izaya l’avrebbe respinta a calci con la sua sola presenza.
Sorrise pensando e ripensando a lui.
Riuscì anche a giustificarsi del fatto di non essere stato in grado di riconoscerlo da subito, di capire immediatamente che quell’uomo sarebbe stato l’unico che avrebbe mai amato; fino a qualche tempo fa si sarebbe rimproverato di tale mancanza di lucidità ma, adesso, aveva fatto pace con se stesso, con la vita, con le persone, non sentiva neanche più rabbia nei confronti dei suoi, di Chaz. Era libero.
La vaporosa leggerezza dei suoi pensieri riuscì a diventare parte del suo modo di vedere le cose ed era stato proprio Izaya ad insegnarglielo.
Continuare a vivere indipendentemente dal giudizio altrui l’aveva prosciolto da ogni obbligo, non doveva dare spiegazioni a nessuno, se non a se stesso e con enorme facilità aveva fatto sua questa intoccabile filosofia.
Vivere per se stessi non era poi così difficile e Jay aveva scelto di vivere per due e, fortunatamente, aveva trovato l’unico essere al mondo che meritasse pienamente la sua considerazione, la sua vita.
La febbre e il rumore scrosciante dei suoi pensieri distolsero l’attenzione dalla porta che, con delicatezza, era stata aperta.
Izaya, come era solito fare da qualche giorno, tornava a casa senza fare baccano, per non disturbare il sonno di Jay.
La febbre lo aveva trasformato in un vecchio ghiro ed ogni volta, al suo ritorno, se lo ritrovava riverso sul divano, in posizioni degne di un contorsionista ma, quel pomeriggio, sembrava avesse scelto di riposare in modo più accettabile.
Si avvicinò lentamente, afferrando una fetta di crostata gentilmente preparata da Lizzie e, con delicatezza, si accomodò accanto a Jay, fissandolo con il suo solito sorriso accennato.
«Guarda che sono sveglio. Ti vedo che mi stai fissando con l’aria da stronzo. In che modo barbaro avresti voluto svegliarmi, stavolta?»
Izaya, colto di sorpresa, si lasciò andare ad una risata: «Non lo so. Ci stavo pensando. Mi hai battuto sul tempo.»
«Ti stavo aspettando.»
Izaya, rimuovendo i cuscini che ostacolavano l’avvicinamento, prese Jay dal braccio e, sollevandolo, lasciò che si accoccolasse sulle sue gambe, come un neonato, stringendolo a sé.
Stare in silenzio, con il viso affondato nell’incavo del collo di Izaya, era il momento che preferiva.
Annusava il suo profumo come se volesse inglobarlo dentro di sé e sorrideva, rapito dalla pace che, ormai, da tempo incalcolabile, regnava nella sua vita.
La sensazione che aveva di Izaya era inspiegabile e, soprattutto, mai vissuta prima di allora.
Lo sentiva nitidamente; percepiva ogni cosa di lui con forza.
La vitalità, l’energia, la sua presenza, il profumo, il respiro, il battito del cuore.
Anche adesso, sentiva distintamente la scrocchiante dipartita della crostata di Lizzie tra i suoi denti, i movimenti della mascella decisa e irsuta, le mani calde che lo stringevano e accarezzavano le sue gambe con l’intento di placare i brividi causati dalla febbre.
«Sei sudato. Sta scendendo la febbre.» sussurrò Izaya, baciando i ciuffi bagnati che rigavano il volto pallido di Jay.
«Sta passando.»
Izaya sfiorò ogni millimetro del viso di Jay con le labbra.
Baciò i suoi occhi, le guance scarne, le labbra screpolate che, per mezzo della sua bocca, riacquistarono colore e morbidezza.
Il calore dei suoi baci avevano il potere di rimetterlo in sesto e di rilassargli l’animo che, fino a quel momento, aveva subito le percosse dell’impazienza.
La pioggia che ticchettava fuori dalla finestra, la goccia persistente del rubinetto della cucina, il ticchettio delle mille sveglie in casa che Izaya usava impostare, tutte insieme, alle sette di mattina per destarsi, rendendo il risveglio una parata di suoni acuti e assordanti, il silenzio della loro casa; erano tutte cose diventate care, sue, di entrambi.
Jay viveva avvertendo tutto quello che lo circondava a trecentosessanta gradi, come se ogni sua percezione fosse stata tarata per raccogliere limpidamente ogni impulso e vibrazione.
Jay esisteva, come Izaya, completamente, senza tralasciare niente.
E godeva di ogni minima cosa come se fosse stata l’ultima volta.
«Hai fame?» chiese Izaya, aggiungendo a quella lista infinita di vibrazioni, ronzii e rumori, il timbro caldo e rassicurante della sua voce.
«No. Ho sonno.» rispose, strofinandosi gli occhi sul petto robusto di lui, saggiandone il calore.
Attese la risposta per qualche minuto, finché, alzando la testa, si accorse che anche lui, evidentemente, ne aveva. Dormiva, con la testa poggiata alla sua, respirando profondamente, tradito dalla stanchezza e dalla impagabile sensazione di sentirsi finalmente a casa.
Jay fissò sorridente le ciglia lunghe che racchiudevano, senza farle scorgere, le pupille scure e brillanti che aveva atteso di vedere per tutta la giornata.
Aveva bramato i suoi occhi, i suoi sguardi e anche se in quel momento non ne poté beneficiare, si accorse di poter possedere, finalmente, tutto il resto.
Così si abbandonò sul petto che sussultava dolcemente ad ogni respiro e approfittò di quel momento di pace per godere appieno del suo uomo che, sotto di lui, reggendolo sulle sue gambe, dormiva profondamente come una roccia stanca.
La pioggia non li avrebbe mai più sfiorati.
La tempesta era sopraggiunta e, dolcemente, era andata via, lasciando gli strascichi più belli, la calma e la pace che per mesi aveva desiderato per sé, per entrambi.





Angolo Autrice.
Ciao! Scusate il ritardo ma gli impegni di lavoro mi hanno totalmente assorbita, ma non ho dimenticato di aggiornare! Assolutamente no.
Spero vi piacciano questi capitoli un po' zuccherosi, mi scuso coi malati di diabete, ma è necessario spiegare il rapporto che lega e legherà ancora più profondamente Izaya e Jay.
Spero di essere riuscita a spiegare quei piccoli particolari che per me sono molto importanti.
Le sensazioni che, soprattutto Jay, prova.
Detto questo, ringrazio le mie meravigliose sei e dedico questo capitolo a Bijouttina.
Ringrazio Babbo Aven che è sempre presente, la dolcissima Maia Scott, DarkViolet, la mia amata Emide che si sta mettendo in pari e Mrs Burro, in particolar modo, per avermi lasciato sei recensioni di fila, scrivendomi continuamente cose meravigliose. Spero davvero di non deludere te e tutti quelli che ripongono fiducia in me.
Ringrazio chi ha inserito la storia nelle seguite/preferite/ricordate.
Vorrei nominare tutti i lettori silenziosi che mi seguono, ma non vorrei farvi torto. Se siete silenziose è perché volete continuare ad esserlo. Quindi, taccio.
Grazie infinitamente per l'appoggio e spero di riuscire a continuare più velocemente questa storia.
Un abbraccio a tutti.
Bloomsbury


 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Where to go ***




 



17. Where to go
 
 
 
Se gli anni non fossero stati conosciuti come ingannevoli veicoli del tempo Jay non si sarebbe mai accorto del loro passaggio inesorabile.
Erano passati, eppure non ne aveva sentito il peso.
Aveva chiuso gli occhi una sera qualunque, due anni prima, e li aveva riaperti, come vittima di un bellissimo sogno, senza sentire la stanchezza delle stagioni che avevano macinato ore, giorni e istanti vissuti senza alcuna preoccupazione.
Aveva in mente immagini ordinarie di una vita straordinaria che avevano scandito lo scorrere della sua nuova esistenza accanto a chi amava.
Non avrebbe mai creduto che la vita potesse essere vissuta con tale semplicità e bellezza nello stesso tempo.
Il suo orologio non era formato da lancette indicanti secondi e minuti, ma di immagini, come foto, che ritraevano momenti che comunamente si sarebbero potuti definire “soliti”.
Per Jay non c’era niente di solito o di scontato e i fiori di ciliegio sbocciati a Tavistock Square parevano più un miracolo che un processo di sviluppo naturale; la fioritura non era altro che l’ennesimo segno che il tempo, effettivamente, era passato.
Chiuse il libro sul quale aveva studiato per i suoi prossimi esami, non poteva sacrificare quel pomeriggio di sole sui libri, e chiuse gli occhi, poggiando la testa sullo schienale della panchina che l’aveva visto ripassare nervosamente leggi, casi e deposizioni, e inspirò lentamente, percependo il profumo dell’estate che, finalmente, era alla porte.
Tutto sembrava andare per il meglio e, stranamente, non aveva nessun tipo di strano presentimento che gli suggerisse che le cose belle non sono fatte per durare a lungo; non aveva dubbi: quel benessere sarebbe durato per sempre.
Per questo la serenità d’animo non lo abbandonava, neanche dopo uno stupido litigio con Izaya o una giornata nera all’università.
Tutto andava a gonfie vele.
Lizzie, che ormai viveva a dieci metri da terra con il suo nuovo ragazzo con il quale, presto, avrebbe convissuto, aveva concesso a Jay la possibilità di lavorare al bar per guadagnarsi qualche soldo, cosa che lo rese enormemente felice dato che la sua prima preoccupazione, da quando aveva occupato casa di Izaya, era proprio il fatto che quest’ultimo non gli avrebbe mai permesso di spendere un centesimo per il mantenimento della casa.
Quantomeno avrebbe badato alle sue spese personali senza sentirsi un peso per Izaya che, però, era contento del fatto che Jay avesse una sua indipendenza: “Perché, diciamocelo, quella persona squisita di tuo padre, prima che tu gli dicessi di essere malato, ti ha cresciuto nello zucchero filato. È ora che tu impari a vivere come le persone normali.”
L’ironia di Izaya, tagliente come un rasoio, gli aveva dato la spinta giusta per iniziare da zero ed imparare a vivere senza doversi affidare necessariamente a qualcuno.
La strada per la completa indipendenza sarebbe stata lunga, ma la volontà era l’ultima a mancare e Jay, felice di essere stato considerato al pari di un ragazzo normale e non di un principino ripudiato, si era rimboccato le maniche, riconoscendo, però, l’importanza della presenza di Lizzie che, con ogni mezzo, aveva fatto di tutto per aiutarlo.
Aprì leggermente gli occhi cristallini lasciando che la luce filtrata dagli alberi lo ferisse tanto da dargli una mossa, costringendolo ad alzarsi di scatto, strofinandosi le palpebre assonnate.
Prese le sue cose e si incamminò verso la metro che l’avrebbe portato al bar dove, certamente, avrebbe trovato tutti ad aspettarlo.
La sua nuova famiglia.

***
 
Il bar era sempre più vuoto e sempre più simile ad un appartamento che ad un locale pubblico, cosa che pareva non dispiacere nessuno.
In molti se n’erano andati ed il jukebox, dopo l’ennesima canzone riprodotta stancamente, aveva deciso, una sera, di morire definitivamente.
A nulla erano servite le percosse di Izaya e le parole dolci di Lizzie che gli chiedevano disperatamente di non abbandonarla; quel jukebox aveva scelto: sarebbe diventato un piacevole ricordo e nulla più.
La decadenza dell’arredamento e dei poster ingialliti, però, non avevano affatto un aspetto triste, anzi, il bar pareva invecchiare con loro e, a poco a poco, solo per loro.
Robert, dopo aver superato i primi momenti di diffidenza e di gelosia di Jay, era diventato a tutti gli effetti un componente della famiglia.
Il giorno in cui il nuovo arrivato fece ingresso nella vita di Lizzie, si presentò ad Izaya come se non lo conoscesse, in realtà la sua presenza e la conseguente conoscenza con quella che sarebbe diventata la sua ragazza non era stata per nulla casuale poiché si scoprì, dopo qualche giorno, che Robert ed Izaya erano colleghi e che quest’ultimo aveva combinato il tutto per farli incontrare, per cui, l’incontro non era stato fortuito, cosa che infastidì Lizzie che aveva creduto nella magica forza del destino.
“Non puoi arrabbiarti per una cosa del genere, Lizzie. Cerca di essere un tantino più pratica e meno romantica. Destino o no, il risultato non cambia. Tu e Robert siete felici, che vuoi di più?” aveva sbottato Izaya, una sera, semplificando la cosa.
“Tu e Jay vi siete conosciuti perché il destino l’ha voluto. Perché io non posso avere una cosa romantica come la vostra?”
“No! L’abitudine di Izaya di guardare il culo ai ragazzini li ha fatti conoscere, non il destino.” concluse Robert, scatenando una risata del tutto fuori luogo di Izaya che, supportato dalle risatine sommesse di Jay, riuscì a ridimensionare la cosa e a calmare Lizzie che, avvilita, si lasciò cadere sulla sedia.
Da quel giorno le cose non erano più cambiate.
Ognuno aveva trovato il proprio posto nella vita dell’altro e Jay, nonostante non avesse alcun dubbio del fatto che le cose non avrebbero potuto fare altro che migliorare, a volte, nel silenzio dei propri pensieri, sperava che anche per Chaz, ovunque si trovasse, potesse essere così.
Delle volte lo immaginava tornare, magari con qualcuno, felice come non era mai stato.
Non lo cercò più, deciso a rispettare le sue scelte, anche se, spesso, ne sentiva la mancanza.
Segretamente sognava per lui una vita piena e completa come la propria e l’ottimismo che, ormai, era diventato parte di sé da tempo, gli suggeriva che, certamente, anche Chaz aveva trovato qualcuno al quale donare la sua vita.
Questo pensiero lo aveva aiutato a non cercarlo, credendo che più gli sarebbe stato lontano e più avrebbe fatto il suo bene, come Chaz aveva chiesto.
Arrivato al locale, vide Lizzie indaffarata con i pochi clienti e in fondo, al solito tavolo, c’era Izaya, immerso nella lettura del suo testo preferito: gli appunti universitari di Jay sui sistemi giuridici comparati.
«Una lettura diversa, vedo.» esordì Jay, dopo avergli scompigliato la barba ed essersi seduto difronte a lui.
«I tuoi appunti sono oro per me. Da quando vai all’università riesco, anche, a lavorare meglio.»
«Come dice il professor Tucker: “un buon avvocato non smette mai di studiare”.»
«Parole sante! Non avevi detto che saresti stato tutto il giorno in biblioteca?» chiese Izaya, sorseggiando il suo caffè annacquato.
«Sì, l’avevo detto, ma ho cambiato idea. Il sole non me lo permette, mi fa venire voglia di non fare niente e poi mi mancavi.» disse quelle ultime parole distrattamente, come se volesse far passare inosservato il loro peso.
Izaya sorrise, lasciando intravedere, tra i folti baffi, denti perfettamente allineati.
«Penso che dovrei tagliarti la barba.» disse Jay, convinto del fatto che se l’avesse fatto avrebbe potuto godere appieno di un sorriso solare che desiderava poter vedere nella sua interezza.
Il malcapitato si coprì il viso con le mani, pronto a difendere una delle cose più care della sua vita: «Dovrai passare sul mio cadavere. La barba è mia e ci faccio quello che voglio.»
«Scendiamo a compromessi: io ti lascio la barba, ma ti levi la tinta argento dai capelli, voglio un uomo con dei capelli normali!»
«Stai tentando di cambiarmi? Non va per niente bene, Hahn.» rispose, mettendosi sulla difensiva.
«Non voglio cambiare te, voglio cambiare il colore dei tuoi capelli. Non posso pensare di non averti mai visto al naturale.»
Il discorso si protrasse per minuti e minuti finché, all’arrivo di Robert, Lizzie interruppe la discussione senza alcun garbo e sedendosi tra loro, esordì con prepotenza: «Mentre voi litigate su argomenti intellettuali come la fame nel mondo ed il riscaldamento globale, io ho da darvi una notizia.»
Robert, con aria stanca e stravolta come se fosse passato attraverso un uragano, sfilò la cravatta dal colletto della sua camicia e sedendosi accanto a Lizzie, la fissò con attenzione.
Sapeva cosa avrebbe detto e Jay, scrutandolo, capì che la notizia che li stava per investire non sarebbe stata per nulla semplice da digerire.
Robert, difronte a Lizzie, affondò i suoi occhi neri in quelli di lei, deciso a darle forza e annuendo leggermente per incoraggiarla la incitò a continuare.
Izaya e Jay, come se fossero l’uno lo specchio dell’altro, poggiarono entrambi i gomiti sul tavolo, pronti ad incassare qualsiasi colpo.
Nonostante Lizzie non avesse mai espresso l’importanza di quella notizia, erano riusciti a percepire, attraverso i suoi silenzi, che ciò che stavano per sentire avrebbe certamente cambiato qualcosa.
«Il bar chiude.»
Il tonfo che sentì Jay nel cuore fu più assordante di qualsiasi altra cosa e, istintivamente, si voltò a guardare il jukebox spento, il primo ad essersene “andato”.
«Ma come?» chiese Jay, incapace di accettare di doversi separare da quei tavoli.
«Sì, purtroppo. Il proprietario che, come si era capito, non ha mai dato molta importanza a questo bar, ha deciso che, ormai, tenerlo aperto non serve a niente. Non ha intenzione di spendere neanche una sterlina per rimetterlo a nuovo. Ha già altri locali in giro per Londra e crede che questo sia solo un peso per le sue finanze.»
«Possiamo rilevarlo se lui non lo vuole più.» tentò Izaya, fissando negli occhi Lizzie che, più di chiunque altro, stava perdendo un pezzo della sua vita.
Più che per se stesso, era tremendamente in pena per lei che, per anni, aveva dato la sua vita per portare avanti un locale dimenticato dal suo stesso proprietario.
Difatti, ogni piccola cosa presente in quella stanza apparteneva proprio a lei.
Una volta assunta aveva cercato il più possibile di abbellirlo, di renderlo accogliente; con Izaya e Jay stesso avevano, a loro spese, ridipinto i muri e acquistato cianfrusaglie per camuffare un po’ la trasandatezza nel quale riversava.
Alzando lo sguardo, Lizzie riusciva ancora a vedere Izaya, appeso su una scala, intento a scambiarsi animate opinioni con Jay sul colore da stendere sulle pareti.
Anche per loro era diventata una casa, qualcosa di loro che, con immenso affetto, avrebbero curato e difeso con ogni mezzo ma, purtroppo, ciò che era diventato visceralmente di loro appartenenza, in realtà non lo era e dovettero ammette di avere meno voce in capitolo di quanto avessero sperato.
Avrebbero fatto di tutto per tenere in vita il locale, come se si trattasse di un amico stanco, ma l’ultima parola l’aveva chi davvero ne era il proprietario e loro, inermi, avrebbero dovuto accettare senza poter avanzare alcun diritto.
«Non è nostro e non potrebbe esserlo, non è in vendita. Il proprietario ha già trovato un acquirente che ha intenzione di farci tutt’altro.» rispose Robert.
Aveva già lavorato sulla cosa, parlando con il diretto interessato, cercando di trovare una soluzione soddisfacente ma le trattative, ormai, erano già state avviate da tempo, all’insaputa dei suoi dipendenti.
«Ma lui non può buttare Lizzie in mezzo ad una strada senza assicurarsi che lei venga assunta dal prossimo proprietario.»
«Sì che può, Izaya. Può farlo perché il nuovo possessore non rileva il locale. Semplicemente, il vecchio ha chiuso l’attività, vendendo le mura a chi le userà per altro. Per i diritti di Lizzie si può fare qualcosa e, infatti, per quanto riguarda lei non c’è da preoccuparsi ma il locale chiuderà. A prescindere.»
Il locale, la loro casa, il loro punto di ritrovo, il bar che aveva salvato Jay facendogli incontrare chi avrebbe amato per il resto della sua vita, avrebbe chiuso i battenti e, quasi, non poté crederci.
Per Jay significava l’ennesimo distacco da qualcosa che amava.
Prima la sua casa, poi il suo migliore amico e ancora, seppur inutile agli occhi di chiunque, il bar che lo aveva accolto, liberato e sostenuto nei momenti più dolorosi della sua vita.
Il nodo nella gola che aveva catturato le parole, si sciolse poco a poco e le lacrime di Lizzie, combattute, scelsero di rimanere nei suoi occhi, senza rigarle il volto: «Forza, ragazzi! Pazienza! Non è questo locale che ci tiene uniti. Certo! Ha avuto il merito di farci incontrare e di farci vivere i momenti più intensi della nostra vita, ma noi ci siamo ancora, no? Non c’è nulla per cui disperarsi.» si alzò posizionando i palmi delle mani sul tavolo e accarezzando dolcemente il viso inespressivo di Jay, sorrise: «organizzeremo una gran festa di addio!»
«Che bello! Saremo io, Jay, tu, Robert e Juky. Una festa col botto!» rispose Izaya ironico, indicando il vecchio jukebox dietro le sue spalle.
«Certo che lo sarà. Berremo come un tempo, ci divertiremo, taglieremo la tua barba e porteremo i tuoi capelli ad una colorazione accettabile. Stai certo che queste mura non si dimenticheranno di noi.»
Le risatine di scherno di Robert e la positività forzata di Lizzie, riuscirono a rendere la questione meno pesante e Jay, dopo aver subìto minuti e minuti di silenzio e riflessione sulla propria pelle, sorrise rassegnato: «Se solo ne avessi il potere, cambierei le cose, ma non posso.»
Il tono della sua voce fece scattare in Izaya il solito senso di protezione che l’aveva spinto, da sempre, a ridimensionare le cose, a renderle leggere abbastanza da farle digerire con più semplicità: «Hahn, stai tranquillo. Come dici sempre tu: “sono le persone a fare una casa”. Per questo locale vale la stessa cosa. Significherà che occuperemo l’appartamento di Robert per bere e giocare a poker. Porteremo anche Juky con noi.»
«Nonostante io dica sempre che sei un’idiota, stavolta non posso fare altro che darti ragione. Chiudiamo il locale e, dopo la festa, ci daremo ad atti di sciacallaggio belli e buoni. Prenderemo tutto quello che ci appartiene. Daremo alle nostre case un aspetto decisamente vintage.» concluse Robert, concedendosi, per la prima volta, la possibilità di sentirsi davvero parte di quella piccola e nuova famiglia.
Arruffò la cresta di Jay, il più piccolo di loro, quello che pareva il più fragile ma che, in verità, ne aveva solo i connotati.
Jay era uscito indenne da ogni tempesta, nonostante la giovane età era riuscito a rifarsi una vita e sebbene sembrasse il più provato di tutti da quella notizia, qualcosa gli diceva che, come era già successo, sarebbe stato quello più forte.
Lizzie aveva finto ottimismo ma, nel retro del locale, aveva dato sfogo al suo dispiacere proprio con Robert; Izaya, come di consueto, nascondeva il rammarico dietro all’apparente superficialità mentre Jay, diversamente da tutti gli altri, dimostrava ciò che sentiva senza nascondersi ma, sorprendentemente, era davvero l’unico a riuscire ad affrontare le cose con grazia e forza.
Quel locale, quel pezzo di vita, sarebbe rimasto un ricordo e lentamente, sempre meno dolorosamente, si sarebbe allontanato dai loro pensieri, sostituito da qualcos’altro.
Lo spirito di sopravvivenza è l’istinto più forte per qualsiasi uomo e Jay era colui che ne conservava più di chiunque.
Robert rimase a lungo a studiarli, ad osservare ognuno di loro.
Izaya, Lizzie e Jay avevano imparato a contare l’uno sull’altro e sapeva che non sarebbe stata la chiusura di quel bar a dividerli.
«Ragazzi, come stabilito, stasera ripuliremo Izaya e, con lui, il locale.» dichiarò spiccia Lizzie, con una punta di sarcasmo.
«Acconsento.» rispose Jay, fissando il suo uomo che li sfidava con spavalderia: «Dovrete prima riuscire a prendermi».




Angolo autrice.
Ciao a tutti! Perdonatemi per il ritardo e anche se ho fatto qualche errore ma il tempo è poco anche per scrivere. Vi ringrazio per l'affetto e per la spinta che mi date ad andare avanti.
Non mi dilungo molto, sono stanchissima T_T
Ringrazio le magnifiche sei, Babbo Aven, Bijouttina e tutti coloro che non mi fanno mai mancare un commento. Amo le vostre considerazioni, il vostro sostegno e le shippate varie XD (sono troppo trasgry e pervy con questi verbi moderni. *coniuga il verbo shippare ad alta voce*). Ringrazio Nebulas che mi ha espresso in una sua recensione il suo punto di vista che ho apprezzato moltissimo e tutti quelli che mi seguono.
Ringrazio chi ha messo la storia nelle Preferite/Ricordate/Seguite.
Se dimentico qualcuno cazziatemi per favore! :P
Un abbraccio.
Bloomsbury

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** The ground Beneath her Feet ***




"Let me love you, let me rescue you
Let me bring you where two roads meet
O come back above
Where there is only love
Only love..."

The ground beneath her feet- U2 

 



18. The ground Beneath her Feet
 
 
Pioggia.
Ancora la pioggia.
Aperti gli occhi, si sedette nel letto a fissare la finestra.
Era una domenica mattina di Luglio e la luce color ambra mitigata dalle nubi estive donava agli occhi di Jay un colore vivace ma opaco.
La sensazione con la quale si era svegliato era perfettamente in linea con il morale cangiante del temporale che, a quell’ora e con quella strana luce, appariva così ambiguo da lasciare addosso un senso di precarietà tale da metterlo in agitazione.
Il temporale estivo, con la sua imprevedibilità, riusciva sempre a determinare lo stato d’animo di Jay che, ancora immobile, seguiva attentamente i cambiamenti continui del vento che lasciava vibrare i vetri ad ogni folata.
Ancora assorto, non aveva notato che, nel frattempo, Izaya aveva aperto gli occhi e lo scrutava attentamente, sorridendo, come se stesse ringraziando un dio invisibile, portato dalla pioggia, della sua presenza.
Sfiorava con gli occhi la pelle bianca del suo più grande amore seduto al centro del letto che pensava a chissà cosa e, di colpo, divenne serio.
Conosceva bene quella posizione.
Jay stava accovacciato, con le ginocchia al petto e il viso adagiato sulle braccia che cingevano le sue stesse gambe, come a voler cercare un calore che gli mancava.
Adagio, fece avanzare la sua mano sul letto, fino a raggiungerlo.
Le lenzuola ancora accaldate dai loro corpi che solo qualche ora prima si erano uniti, avvolgevano le linee spigolose ma sempre più adulte di un ragazzo che, ormai, aveva compiuto venti anni e che, agli occhi del più maturo dei due, appariva come l’essere più bello mai posseduto.
Izaya, nei suoi trentatré anni di età, aveva avuto diverse avventure ma nessuna aveva avuto la capacità di durare nel tempo con l’intensità invariata che, solitamente, si vive solo nei primi mesi.
Amava Jay e ne sentiva sempre di più la necessità, come se averlo accanto fosse di vitale importanza.
Ognuna di quelle riflessioni lo fece sobbalzare dal desiderio di intrappolarlo ancora tra le sue braccia.
Lo afferrò, cogliendolo di sorpresa.
«Sei sveglio.» non fece in tempo a rendersi conto della presa che si ritrovò sotto Izaya che lo guardava disperatamente, come se volesse farlo suo ancora più in profondità.
«Oggi hai degli occhi irresistibili. Sembrano un deserto di diamanti.»
Dopo i primi secondi di perplessità, Jay cominciò a ridere, divertito dall’improvvisa carica romantica e passionale di quella frase espressa istintivamente, senza alcun pudore.
«Quando vuoi riesci a dire delle cose così romantiche da spiazzarmi.»
«Capita una volta all’anno. Goditi questo momento perché non accadrà mai più…» rispose intervallando le parole con un bacio e non appena ebbe finito di assaggiare le labbra calde e accoglienti del suo compagno, si sollevò sulle braccia, per guardarlo meglio: «Ti mancano certe dolcezze?»
«Le dolcezze, come le chiami tu, sono molto soggettive. Mi piacciono quelle che mi concedi ogni giorno tra una battuta ed un’altra. Non mi servono sdolcinatezze, amo le tue piccole attenzioni camuffate da ramanzine o da frecciate.»
Passando le dita tra i capelli, finalmente, castani di Izaya, poté avvicinarlo abbastanza da lasciarsi baciare ancora.
Avvertire il peso del suo corpo addosso lo faceva sentire protetto, desiderato e amato, niente avrebbe cambiato il loro rapporto ed ogni giorno di più pareva averne conferma.
Il bar era stato chiuso da un mese ed Izaya aveva fatto di tutto per non fargliene sentire la mancanza.
Aveva invitato ogni settimana Lizzie e Robert a casa, organizzando partite a poker e serate tranquille a bere, a guardare film, cosa che intenerì enormemente Jay.
Sapeva che la vita da coppietta non faceva per Izaya che, prima di conoscerlo, aveva sempre vissuto alla giornata, dedicandosi alle sue passioni, al lavoro, ai viaggi.
Eppure, per non togliere a Jay la serenità di una vita tranquilla, aveva cercato in tutti i modi di non fargli mancare quelle tipiche serate tra amici, sotto le coperte a guardare la tv, a mangiare schifezze.
Guardò gli occhi neri del suo uomo che, più di se stesso, lo amava.
Aveva pensato a lungo a cosa provava per se stesso: Jay non si amava ancora, ma riusciva ad accettarsi per ciò che era grazie al suo uomo che aveva la straordinaria capacità di fargli notare i motivi che avrebbero dovuto spingerlo ad amarsi un po’ di più.
«È esattamente questo l’amore.»
«Cosa?» chiese a bassa voce, abbandonandosi su di lui.
«Tu. Tu ed io.»
«Adesso sei tu il romantico, Jay.»
«È tutta colpa tua, quindi: taci! Hai iniziato tu.»
Lo serrò tra le sue braccia, poggiando la guancia sui capelli impregnati di quel profumo così riconoscibile da confonderlo con il suo stesso.
Se avesse saputo che il futuro sarebbe stato così perfetto avrebbe sprecato meno lacrime in passato.
La perfezione, il suo futuro era lui, era Izaya.

***
 
«Ecco l’ultimo pacco!» sbiascicò Jay, sedendosi sullo stesso che aveva trascinato per il corridoio dell’appartamento di Lizzie.
La sera della gran festa di addio, Robert, preso dagli effluvi dell’alcool, aveva chiesto a Lizzie di sposarlo.
Inizialmente, tutti avevano creduto che quella dichiarazione esternata così a brucia pelo fosse solo il prodotto di qualche bicchiere ti troppo, ma il tempo e la convinzione del ragazzo avevano dimostrato il contrario.
I due futuri sposi, ormai, stavano insieme da quasi due anni ed il matrimonio non era altro che la conseguenza naturale del loro rapporto.
Robert e Lizzie, però, non erano riusciti ad aspettare di diventare marito e moglie perché, ancor prima di chiederle di sposarlo, l’aveva messa incinta e Lizzie, con la tipica e quasi impercettibile pancetta di una futura mamma, aveva stabilito che si sarebbero sposati solo dopo aver avuto il bambino.
La culla che Jay aveva portato di peso nell’appartamento aveva suscitato non poche polemiche perché, nonostante ancora non sapessero il sesso, Lizzie aveva stabilito che sarebbe stato maschio e la culla, rigorosamente azzurra, era diventata oggetto di mille diatribe.
«Sarà una bambina, me lo sento. E tu rimarrai col culo per terra! Hai comprato un sacco di cose azzurre. Dovrai cambiare tutto!» sentenziò Jay, rigirandosi un orsetto di pezza azzurro tra le mani.
«E chi sei tu per dirlo?» chiese disturbata ma interrotta da una fitta al basso ventre che la costrinse a sedersi.
«Quando ti farà sapere il dottore il perché di questi dolori? Non è presto? Dovresti avere solo nausee.»
«Sì, Jay. Ricordo la tua gravidanza, effettivamente. Avevi solo nausee i primi mesi.»
«Non scherzare. Sono serio. Non è normale!»
«Ti ringrazio per il sostegno morale, Hahn.» rispose infastidita, reggendosi la zona più dolorosa: «Mi farà sapere oggi pomeriggio. Tu vai tranquillo. Grazie per la culla, piccolo.»
Jay, accovacciandosi davanti a Lizzie, la fissò con tenerezza, accarezzandole il viso.
«Io vado a casa a studiare. Se hai bisogno di me, chiamami, correrò da te.»
Aveva gli occhi rassicuranti Jay, ed un viso così adulto, adesso, da risultare protettivo.
Lizzie guardò con orgoglio il ragazzo che aveva conosciuto due anni prima e che era diventato grande; non solo di età, ma di animo, di cuore.
Il ricordo dell’adolescente abbandonato e provato dalla vita non esisteva più, negli occhi di Jay non vi era ombra di quel ragazzo e Lizzie, totalmente rapita da quello sguardo, non riuscì a trattenersi.
Lo abbracciò senza vergognarsene.
Stranamente, nonostante l’infinito affetto, non erano soliti scambiarsi tenerezze, ma l’istinto di aggrapparsi a lui, ad una delle persone più care della sua vita, fu più forte del solito distacco che abitualmente usavano ostentare.
Il calore di quell’abbraccio vezzeggiò entrambi, tanto da confermare nuovamente un attaccamento che, con il tempo, era diventato sempre più vigoroso e certo.
Staccandosi da lei, sorrise brevemente e chiedendole di avvertirlo delle novità, uscì dall’appartamento, incamminandosi verso casa.
Afferrò il cellulare e non appena la voce di Izaya rispose, un sorriso si piazzò sul suo viso, illuminandolo: «Hey! Quando torni?»
«Tra un paio d’ore. Perché?»
«Perché io sto tornando a casa a prendere qualche libro per studiare. Vado a stare da Lizzie finché non torna Robert e volevo sapere i tuoi orari, giusto per regolarmi.»
«Cosa c’entro io con Lizzie e Robert?»
«Idiota!» inveì in mezzo alla strada: «L’auto che hai sotto il culo è di Robert, no? Non devi passare a prenderlo quando torni? Voglio sapere a che ora riporti quell’uomo a casa da sua moglie!»
La risata di Izaya fece sorridere Jay che, rassegnato della sbadataggine del suo uomo, continuò in tono confidenziale: «Sono preoccupato per Lizzie. Stiamo aspettando i risultati di alcuni esami, spero sia andato tutto bene.»
«Andrà tutto bene. Stai sereno! Allora: io sono in viaggio. Ho finito mezz’ora fa l’incontro con il cliente, sono sulla strada del ritorno e volevo farti una sorpresa, per questo tentennavo… idiota!» precisò, restituendogli scherzosamente l’offesa.
«Bene! Fammi sapere quando arrivi da Robert.»
«D’accordo. A dopo.»

***
 
Non appena fu di ritorno da casa sua, Jay si ritrovò davanti al viso di Lizzie totalmente stravolto.
La ragazza aveva aperto la porta e lo sguardo che lo aveva investito fu più eloquente di qualsiasi parola.
«Non ti aspettavo.»
«Ho preferito ritornare per farti compagnia. Ho preso i libri e…» dovette fermarsi, poiché lo sguardo di Lizzie, imbambolato, pareva non avere più alcuna connessione con la realtà: «Cosa ti prende? Sembri stravolta. Ti ha chiamata il dottore?»
«Sì.» quella risposta lapidaria fece mancare la terra sotto i piedi al ragazzo che, ormai, stanco di rimanere fuori dalla porta, entrò speditamente: «Cosa ti ha detto?» lo chiese con attenzione, come se si trovasse su di un campo minato.
Sentiva che qualcosa era andato storto, ma per non agitare Lizzie preferì non dare forma ai suoi presentimenti.
La ragazza, accarezzandosi il ventre, proteggendo il suo bambino tra le mani come ogni madre fa istintivamente, si sedette sul divano, chiedendo a Jay, con un gesto della mano, di fare altrettanto.
Si ritrovarono l’uno davanti all’altro, in silenzio.
Lei sembrava totalmente in balia dell’impotenza e lui, sempre più impaziente, si dondolava sul divano, come se l’attesa l’avesse animato di una vitalità cupa ma inarrestabile.
«Allora? Che notizie hai?»
Una lacrima, contro ogni forzatura da parte di Lizzie, solcò le sue guance, illuminando gli occhi della ragazza di una lucentezza straziante.
«Il bambino sta bene. I dolori al basso ventre non sono nulla di grave, il dottore dice che spesso accade, invece, nei primi mesi di gravidanza. Come sono arrivati, andranno via, ma…»
Sollevato dalla notizia ma, nello stesso tempo, in allarme per la sospensione quasi infinita di Lizzie, Jay la scrutò attentamente, cercando di capire cosa potesse spingerla a tentennare così a lungo.
Non fece in tempo a chiederle di continuare perché le sue parole, demolenti e inaspettate, ferirono a morte il cuore di Jay che rimase immobile, incapace di sentire qualsiasi altra sensazione diversa dal dolore che aveva preso possesso del suo stomaco, sbriciolando sotto i suoi piedi ogni gioia, ogni speranza.
Le parole di Lizzie riecheggiarono continuamente nella testa di Jay, facendolo sentire sempre meno presente, come se qualcosa l’avesse privato dell’anima stessa, facendolo sentire in bilico tra la vita e la morte. Le parole ovattate di Lizzie si riproposero come una cantilena e Jay capì, in quel momento, che quelle parole sarebbero rimaste per sempre marchiate a fuoco nella sua anima.
Izaya è morto.
E niente avrebbe riportato in vita Jay che, ormai, come Izaya, non esisteva più.




Angolo autrice.
Ringrazio tutti e chiamatemi scema, ma sono troppo dispiaciuta per scrivere qualcosa di più complesso.
Grazie. Solo questo.
Bloomsbury

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Smokey Taboo ***




 
"It's true I get depressed in fancy hotel rooms
Undressed with nothing to flaunt but my loneliness
Thinking of the night song of your hair
Premature as evening falls
It calls to me
Interrupted by the sirens in the street

Some days you're like an anchor on my heart
They say that stolen water tastes sweet."

Smokey Taboo- CocoRosie 

 
 




19. Smokey Taboo
 
Aveva perso da un pezzo la voglia di correre, nonostante l’avesse fatto per buona parte della sua vita.
Correre lo aveva sempre aiutato a liberarsi dei pesi, dei macigni, stavolta non c’era corsa o vento che potesse sollevarlo.
Ogni passo era un enorme sasso che lo ancorava al terreno.
Vide il cielo terso sopra la sua testa e solo allora si accorse che era sera.
Le stelle, brillanti, si prendevano gioco di lui che sfidava la brezza leggera e l’ilarità degli animi eccitati dal bel tempo che, finalmente, era sopraggiunto dopo mesi di pioggia.
Con il vestito nero e la cravatta sciolta sul petto sembrava uno sposo scappato dalla sua stessa cerimonia di nozze, in realtà aveva perso la strada mentre, da Soho, si dirigeva alla funzione funebre al quale, senza intenzione, era mancato.
Accese l’ennesima sigaretta, l’ultima che aveva, e continuò a riempire il suo spazio nel mondo sui marciapiedi brulicanti del quartiere del divertimento.
Le risate dei giovani fuori dai locali non lo riportarono sulla terra perché Jay non le udiva neanche; camminava avvolto in una nube ovattata nel quale si era perso da quando aveva ricevuto la notizia.
Le voci arrivavano alle sue orecchie come entità lontane, troppo lontane da lui.
La vita, ormai, era per gli altri, non per lui, tanto che quelle stesse risa divertite gli apparivano estranee, come se fossero suoni sconosciuti prodotti da esseri diversi da lui.
Esseri dotati di vita, di eternità.
Con noncuranza passeggiava, senza alcuna espressione sul viso.
Non appariva triste né angosciato. Era vuoto.
I suoi occhi lo erano, come i suoi passi, il suo viso.
Fumava senza accorgersene, avanzava senza rendersene conto, schivava i passanti senza averne coscienza.
L’aria calda pareva più fredda, le gambe più pesanti ed un brivido lo riportò alla sua prima estate con colui che aveva perso.
Ricordava di aver camminato per quelle stesse strade con chi non viveva più tra quelle anime.
Non appena l’immagine distinta e prepotente di Izaya si presentò, su quella via, supportata dai suoi ricordi, scosse la testa, cercando di scacciarla con la stessa violenza con la quale la morte glielo aveva tolto dalle braccia.
Sebbene avesse fatto di tutto per non pensarlo, costringendo la mente all’intorpidimento, lui ritornava, di tanto in tanto, a farsi ricordare, a torturarlo.
La prima estate con lui, la prima passeggiata mano nella mano vissuta con libertà, nella quale entrambi si erano imposti come amanti, senza chiudersi nei bar per quelli come loro, senza paura di farsi vedere.
Ancora ricordava fin troppo bene quella prima sera d’estate, il tintinnio dei braccialetti del suo uomo, la sensazione pressante dei suoi anelli tra le dita mentre stringeva la sua mano, le ironie divertenti con il quale era solito condire ogni azione o incontro.
Jay aveva imparato a vivere con la sua stessa leggerezza.
Il suo uomo era riuscito a togliere i macigni e a fargli scoprire dei lati del suo stesso carattere che non credeva neanche di possedere.
Jay sapeva divertirsi e l’aveva scoperto con lui; sapeva ridere, fare battutacce fuori luogo e vivere immensamente.
Lui glielo aveva insegnato.
Costrinse quei ricordi all’oblio per l’ennesima volta, scaraventando la sigaretta lontana da lui, quella sigaretta di tabacco che sapeva di lui, che profumava dei suoi baci.
Il cellulare squillò nella sua tasca per qualche secondo di troppo, non lo aveva sentito, non ricordava neanche più di avere qualcuno che potesse cercarlo su quell’apparecchio e quando vide il nome di Lizzie, rispose monocorde, rimanendo stupito di avere ancora la forza di parlare.
«Dimmi.»
«Dove sei?»
Si guardò intorno per orientarsi come se non si fosse neanche mai accorto di essere stato trascinato lì dalle sue stesse gambe: «A Soho.»
«Ricordi dove saresti dovuto essere oggi pomeriggio?»
«Sì, lo so. Stavo per arrivare ma poi… mi sono perso, cioè, ero sovrappensiero e non sono sceso alla fermata giusta e poi, ho fatto un giro, ho provato a ritornare indietro e…»
«Jay, non fa niente. Non eri costretto a venire.»
La telefonata sarebbe potuta terminare in quel momento perché Jay, ormai, aveva già scollegato il cervello dalla realtà.
Rimasero in silenzio per qualche minuto.
Lizzie cercava disperatamente parole e Jay… non cercava più niente da un pezzo.
«Piccolo. Vieni a dormire da me e Robert stanotte?»
«Ma no, tranquilla. Torno a casa.»
«Hai mangiato?»
«Sì.»
Quando Lizzie si rese conto che la conversazione era già chiusa, decise di mollare la presa.
Non sarebbe servito fare da mamma, come aveva sempre fatto; Jay era un uomo anche se, stavolta, era distrutto.
«Torna a casa presto, però. Hai bisogno di riposare.»
«Sì, lo farò. Buonanotte.»
Combattuta se terminare la chiamata o fare un ultimo tentativo di riportarlo alla realtà, rimase in silenzio ancora per un po’ finché, a brucia pelo, una domanda la ferì in pieno cuore: «Lizzie, è stata una bella funzione? Era degna di lui?»
Perché ti fai del male con queste domande?”
Avrebbe voluto chiederglielo ma decise di tacere e di rispondere con tono rilassato, come se quella stessa domanda non l’avesse colpita: «Molto bella. Molto da lui. C’erano suoi colleghi, alcuni hanno lasciato il loro skate» sorrise dolcemente al solo pensiero «c’era suo zio, quello di Dover e mi ha detto che la madre non sa niente. Ha provato a dirglielo ma non capisce…»
«Non lo capirà mai ed è meglio così. Andrò a trovarla in clinica presto. Mi prendo io cura di lei adesso che…»
…Izaya non c’è più.
Aveva fatto di tutto per non dire o pensare il suo nome, ma al primo momento in cui aveva abbassato la guardia gli era venuto naturale.
Si maledisse, perché dire o anche solo pensare il suo nome faceva male.
Izaya.
Un nome così pieno di una personalità non l’aveva mai sentito.
Come se quel nome potesse appartenere solo a quel ragazzo eccentrico, ricco di un’energia così innata da rompere muri di disagi, da schiacciare falsità e odiosi pregiudizi sotto le suole delle sue scarpe, da ristabilire le vite e le felicità altrui con la sola semplicità del vivere sereno.
Si accorse di piangere solo perché, istintivamente, aveva passato la mano sugli occhi stanchi e, stupendosi di se stesso che, fino a quel momento, non lo aveva mai fatto, spalancò gli occhi, fissando il palmo della sua mano inumidito dalle lacrime, meravigliandosi del fatto di essere ancora in grado di piangere.
Non credeva di poter avere ancora la capacità di provare emozioni.
Si sentiva così vuoto da percepire la vacuità delle sue emozioni più di qualsiasi altra cosa.
«Buonanotte, Lizzie.»
«Notte, Jay.»
Rimase immobile con il cellulare nelle mani, con i piedi ben piantati sull’asfalto, in ricerca di una stabilità e prima che se ne potesse accorgere, già camminava senza sapere la destinazione.

***
 
L’Escape, come al solito, aveva quello stesso odore e chi vi andava aveva le stesse identiche intenzioni percepite il primo giorno.
Il sesso era l’alveare e i ragazzi le api danzanti, Jay, invece, non era niente.
Il niente è il nulla e Jay era quel nessuno fatto di nulla del quale chiunque avrebbe fatto a meno.
Il moralista depresso che aveva fatto ingresso in un luogo di divertimento nel quale tutti esibivano una felicità ed un’allegria fin troppo ostentata per essere reale.
All’Escape si fingeva di essere felici se non lo eri per davvero e Jay, al contrario, non mostrava nulla.
Si sedette impassibile al bancone ordinando una vodka liscia, senza curarsi della gente, della musica, del fracasso, della felicità che si consumava dietro alle sue spalle, mentre il suo nulla consumava gli ultimi sprazzi di vita che erano scesi, pocanzi, dai suoi occhi.
Sovrappensiero, bevve la vodka e incatenando gli occhi alla mensola in cristallo davanti a sé continuò a vivere come uno straniero nel mondo, come se nulla della vita normale gli appartenesse.
Senza motivo spostò lo sguardo verso un gruppo di ragazzi poco più lontani.
Erano seduti, come lui, al bancone e gravitavano come piccoli pianeti ubriachi intorno ad un uomo di bell’aspetto che, con i suoi polsini perfettamente inamidati, gesticolava pacatamente, raccontando chissà cosa al gruppo di geishe adoranti intorno a lui che ridevano falsamente ad ogni fine frase.
Si chiese cosa avesse quell’uomo di così attraente.
Certamente era affascinante, ma aveva quella tipica aura da antipatico senza speranza.
Rammentò che, effettivamente, il resto del mondo, normalmente, si sente attratto dagli uomini come quelli.
I bastardi, i cattivi.
Jay aveva scoperto di essere un’amante dei buoni, dei genuini, dei signori.
Izaya lo era ed era ancora più speciale proprio perché, nonostante la sua indole del tutto positiva, aveva gli atteggiamenti affilati degli ironici, di quelli che: «prendono per il culo il mondo.» terminò i suoi pensieri con una frase detta a bassa voce.
“Izaya è un dandy dei giorni nostri. Sicuramente impopolare per chi ama farsi pippe mentali ma irresistibilmente adorabile con il suo atteggiamento che sembra dire: non me ne frega un cazzo di niente. I tipi come Izaya prendono per il culo il mondo.”
Aveva detto Lizzie durante un brindisi, la sera del trentatreesimo compleanno di Izaya.
Lui, ovviamente, aveva risposto che sarebbe stata la perfetta descrizione da inserire nella sua biografia su Wikipedia, Jay, invece, ci aveva riflettuto sul serio ed era arrivato alla conclusione che tipi come lui ne nascevano uno ogni vent’anni e che, quindi, avrebbe fatto di tutto per non perderlo.
Guardando quell’uomo capì di aver avuto nelle mani qualcosa di davvero inusuale, quella pietra preziosa rara ed introvabile che solo chi non la cerca, la trova.
Si disse che, forse, i suoi pensieri erano un po’ di parte e rimase basito dal fatto che l’aveva pensato come se fosse ancora vivo, a casa ad aspettarlo.
Distolse i suoi pensieri da Izaya velocemente, tanto da fargli cambiare espressione, lo fece in modo così repentino da attirare l’attenzione di quell’uomo al bancone che, di sottecchi, l’aveva fissato per tutto il tempo.
Prima che Jay se ne potesse accorgere, l’uomo si era avvicinato, esibendo un sorriso lascivo che al ragazzo parve una nota stonata nel mezzo delle sue riflessioni.
Come se quello sguardo seducente e sicuro di sé avesse sporcato e offeso l’immagine dell’unico uomo che avrebbe, per sempre, meritato le sue attenzioni.
«Jay, buonasera. Non pensavo di rivederti.» esordì il tipo, spalancando le braccia avidamente, come se fosse in procinto di abbracciare un cumulo di oro.
Jay, istintivamente, si scostò, non dandogli modo di farlo avvicinare: «Ci conosciamo?»
«Ma certo che sì. Ormai è passato un po’, capisco se non ricordi. Sono Brad. Abbiamo avuto il piacere di conoscerci qualche anno fa, proprio qui.»
«Forse, il piacere è stato solo il tuo dato che io non mi ricordo affatto di te.»
Brad rise attratto dalla solita indole ribelle che non gli aveva permesso, nonostante il tempo passato, di dimenticarsi di quel faccino delicato ma sfrontato del ragazzo che sentiva di poter far suo con un battito di ciglia, nonostante i rifiuti.
Di ragazzini ne aveva avuti molti e tanti altri lo aspettavano poco più in là, ma il giovane Jay, un po’ cresciuto rispetto all’ultima volta, aveva ancora il sapore della conquista selvaggia, quella che a fatica si porta a termine ma che poi, alla fine, da le soddisfazioni più sublimi.
«Non sei cambiato per niente e, questa, è una cosa che mi fa davvero molto piacere.» concluse la frase incastrando i suoi occhi azzurri in quelli di Jay che, senza abbassare lo sguardo, prendeva sempre più coscienza di quanto quell’uomo non gli piacesse.
Si rese conto di essersi recato in un luogo che gli apparteneva ancora meno della prima volta e stizzito si alzò dallo sgabello, abbandonando il bicchiere sul bancone: «Se non ti dispiace, io vado.»
«Perché scappi?» chiese con un sorrisetto sardonico.
«Non scappo. Vado a casa, semplicemente.»
Non appena finì la frase si accorse del suo contenuto.
Doveva tornare a casa, in quella casa che non aveva più niente da vivere.
Un dolore acuto nello stomaco lo costrinse a stringere gli occhi e a piegarsi, come vittima di un pugno mortale e senza rendersene conto, scappò letteralmente da quel locale, ritrovandosi fuori, vittima del fiatone e del panico.
Come se si fosse risvegliato in quell’esatto momento, si guardò intorno; avrebbe voluto piangere, arrabbiarsi, prendere a pugni il mondo, urlare.
Non lo fece, ma si incamminò nuovamente, lasciandosi quel locale, quelle vite alle spalle.

***
 
Erano le quattro del mattino e Lizzie, svegliata da un gran fracasso, si alzò dal letto, raggiungendo la porta.
Aprì, lasciando la catena ancora agganciata e gli occhi verdi in lacrime di Jay la ferirono così brutalmente da farla trasalire.
Lo fece entrare e abbracciandolo, disse singhiozzando: «Sono felice che tu sia qui.»
Jay, stretto a lei, in realtà, non stava piangendo, ma combatteva contro se stesso, contro i suoi ricordi, contro il dolore.
Strinse i denti, afferrando tra le sue dita la camicia da notte di Lizzie che con fragili e sincere carezze cercava di sorreggerlo.
Se avesse potuto, avrebbe cancellato tutto; sarebbe tornata indietro nel tempo e avrebbe risparmiato a Jay l’ennesimo dolore, ma sapeva che era impossibile.
Per la prima volta si sentì davvero inutile e prendendo il viso di lui tra le mani, lo guardò negli occhi con amore, come se volesse infondergli forza: «Dormi qui, piccolo mio?»
Nonostante fosse più alto di lei, sembrava così piccolo e fragile da farle credere che avrebbe potuto prenderlo in braccio e portarlo a letto con sé, ma si sbagliava. Era grande, fin troppo. Non era solo l’altezza a renderlo grande, era lo sguardo a fare a pugni con l’impressione inziale che dava.
Pareva un bambino, ma negli occhi c’era un dolore così consapevole e maturo da farlo sembrare un anziano di cento anni e Lizzie, addolorata dal fatto che lui, ormai, avesse smesso di essere un ventenne, lo condusse nel soggiorno, dove lo avrebbe ospitato per tutto il tempo che gli serviva.


 
«Robert dorme? Sicuro che non gli dia fastidio?» chiese, stendendosi sul divano che Lizzie aveva preparato per lui.
«Se dovesse dargli fastidio lo cacceremo di casa, tranquillo.»
Jay sorrise, consapevole del fatto che Lizzie sarebbe stata capace di farlo per davvero.
Fece per andarsene ma non appena arrivò alla porta, dove avrebbe dovuto spegnere la luce, si voltò e guardando Jay steso sul divano, solo e indecifrabile, sentì le minacce delle lacrime.
Per due anni lo aveva visto sempre con Izaya, felice come non era mai stato e adesso era solo, a chiedere rifugio, come una volta; per quanto la storia si sarebbe ripetuta?
La vita di Jay era ancora appesa ad un filo.
La prima volta, nonostante Izaya avesse avuto un ruolo fondamentale per la sua risalita, era stato in grado di lottare; stavolta, non ne avrebbe avuto le forze e Lizzie ne ebbe conferma solo guardandolo negli occhi.
Sembrava morto, senza più volontà, senza voglia di reagire.
Pregò che questo stato cambiasse e che il suo Jay potesse ritrovare la forza, ma dopo averlo salutato con un bacio al volo e aver spento la luce, non ne fu più così sicura.





Angolo Autrice.
Sera! Aggiorno molto velocemente e non vi nego che sono depressa. Ogni riga che scrivo è una pugnalata al cuore perché, è giusto che voi sappiate, non ve lo avevo mai detto, Izaya è stato, decisamente, il mio personaggio più amato.
Certamente ha... ehm... aveva il carattere che ho sempre desiderato avere e mi sono molto affezionata a lui.
Izaya era l'unico, in tutta la mia storia, ad avere alcune cose in comune con la mia vita reale.
La sua età, la sua morte, sono tutte legate a qualcuno di caro che non c'è più.
Basta con i piagnistei!
Non vi anticipo niente, sappiate che da adesso in poi, la storia prenderà una piega difficile da digerire, perché non si tratterà più di un adolescente che ha a che fare con delle scelte difficili ma, comunque, molto facili da gestire.
Avremo a che fare con la morte e le sue conseguenze. Vedremo un cambiamento di Jay che non so se concepirete.
Si era già visto precedentemente, Jay non è un tipo molto semplice, è dotato di tante sfumature che, d'ora in poi, saranno difficili da gestire per me e difficili da comprendere per voi.
Grazie di tutto.
Voglio ringraziare le solite e bellissime magnifiche sei, grazie a babbo Aven e la combattiva Bijou che ci sono sempre. Ringrazio DarkViolet, Mrs Burro, Nebulas e poi la fantastica Emide e la splendida SorellaGrimm che si è messa in pari in due giorni soltanto. Grazie per le recensioni, tesoro. Mi sono ammazzata dal ridere. Arrivata a questo punto vedrai che "il fattone Iza" come lo chiami tu, non c'è più. Spero ti abbia lasciato un buon ricordo.
Ringrazio Classof13 che proprio oggi ha espresso il suo "amore" nei confronti del nostro Izaya e Malaria che ha fatto una bellissima scenata di gelosia che mi ha fatto molto gongolare. Grazie a Moloko che ha pianto per una notte per l'ultimo capitolo.
Tutto ciò che voglio è regalarvi una storia, ma più di tutto, voglio regalarvi personaggi che per voi siano persone, amici.
Grazie di tutto.
Bloomsbury

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Teardrop ***


"Night, night after day
Black flowers blossom
Fearless on my breath
Black flowers blossom
Fearless on my breath

Teardrop on the fire
Fearless on my..."

Teardrop- Massive Attack 


 
 



20. Teardrop
 
 
Poco per volta avrebbe sentito meno dolore.
Ogni secondo passato sarebbe stato come un piccolissimo passo verso la guarigione, così gli avevano detto.
Erano passate tre settimane dalla morte di Izaya e tutto quello che Jay era riuscito a fare non coincideva affatto con ciò che in molti gli avevano prospettato.
Di fatto, nessuno riusciva a capire cosa gli passasse per la testa perché, apparentemente, viveva come qualsiasi comune mortale sulla terra; ciò che risiedeva sotto la sua pelle era un mistero per tutti.
Già dal primo giorno, dopo l’arrivo a casa di Lizzie, Jay sembrava normale, come se non fosse successo nulla.
Certamente, i suoi sorrisi aperti e solari erano diventati un ricordo, ma l’apparente normalità riusciva a mettere nel sacco chiunque.
Ogni sera, dopo aver cenato, il divano del salotto di Lizzie si riempiva della presenza di Jay che, davanti alla tv, guardava attento ogni tipo di programma gli venisse propinato, commentando con Robert ogni stranezza tipica di certe emittenti televisive.
Era diventato un appassionato di X Factor.
A Robert pareva un modo inusuale per distrarsi, ma comunque efficace. Lizzie, invece, lo osservava sospettosa, come se cercasse di carpire da ogni movimento il suo reale stato d’animo.
Sebbene il ragazzo riuscisse ad aggirare ogni discorso con naturalezza, ciò che più era evidente agli occhi della ragazza era il palese tentativo di dimenticarsi di ciò che era accaduto, rifugiandosi nei gesti ordinari che in sé non racchiudevano alcun significato o ricordo.
Jay non si era rintanato al buio in una stanza, non aveva pianto inconsolabilmente su qualche fotografia, non aveva parlato di lui come se fosse di vitale importanza.
Una bomba ad orologeria stava consumando inesorabilmente il suo tempo prima di esplodere e l’unica a percepirne distintamente il ticchettio era proprio Lizzie.
«Che ne pensi degli One Direction, Jay? È una band giovane.» chiese Robert sorseggiando una birra, tenendo ben saldo il collo della bottiglia.
Jay, schiacciato pancia sotto sul divano, fissando il televisore, rispose stancamente: «Cacca.»
«Potresti argomentare un po’ di più?»
«Cacca e basta.»
«Non ti piacciono, ho capito. Ma mi piacerebbe sapere il perché.»
«Esiste un uomo al quale piace la cacca?»
«Evidentemente, sì. A me non dispiacciono questi One Direction.»
«Ognuno ha i suoi gusti. Ciò che ci differenzia in fatto di musica è che io ne capisco e tu no.»
«Però, da bravo intellettualoide, guardi X Factor.»
«Non c’è niente di meglio da fare.»
«Certo che c’è: esci, vai a farti un giro, studia, vai all’università.» esordì Lizzie intenta a sparecchiare la tavola.
«Serve concentrazione per certe cose. Adesso non ce l’ho.»
Spazientita dalle risposte formulate apaticamente, la ragazza alzò gli occhi al cielo, rintanandosi nella cucina da dove, dopo poco, uscì con una crostata di mele, ostentando un sorriso fin troppo studiato per sembrare naturale.
Aveva scelto di osare, con la paura di commettere un errore.
«Chi vuole un pezzo di crostata? L’ho fatta come piaceva ad Izaya.» accentuò un nome che per ben tre settimane non aveva mai marchiato le bocche di nessuno dei presenti.
Robert, colto di sorpresa, spostò l’attenzione su Jay, attendendo una reazione.
Aveva compreso le intenzioni di Lizzie e non aspettava altro che quel tentativo sortisse gli effetti auspicati.
«No, grazie. Non mi va».
Risposta secca.
Un sospiro afflitto tagliò l’aria pesante che, in un sol colpo, aveva avvolto il soggiorno nel quale, poco prima, si respirava un’abbozzata serenità.
La ragazza si lasciò cadere sul divano e, ignorando la sconfitta, tagliò a spicchi la crostata della discordia, per poi darne un pezzo al suo uomo.
Il vociare della tv, il rumore delle auto fuori, la brezza leggera che, ad intervalli regolari, sfiorava le tende sollevandole, per poi lasciarle ricadere morbidamente sul davanzale della finestra erano le uniche cose udibili poiché un silenzio incessante aveva bloccato il tempo, fermato le parole, immobilizzato i cuori.
La guancia di Jay, formicolante per la pressione impressa sui cuscini del divano, si sollevò sfiorata dai capelli arruffati e mai pettinati in venti giorni.
Si accomodò sul divano con le gambe divaricate e fissando Lizzie con aria rassegnata raccolse le forze per alzarsi.
Non appena fu in piedi, le vertigini gli annebbiarono gradualmente la vista, suggerendogli che era arrivata davvero l’ora di alzarsi da quel divano che, per giorni, era stato il suo letto, oltre che l’unico posto dove avesse sostato.
Si diresse al bagno senza pronunciare parola, chiudendo silenziosamente la porta dietro di sé.
Lizzie rimase inerme per qualche secondo, per poi puntare gli occhi su Robert «Pensi che io abbia sbagliato?»
Il bontempone, gustando la crostata paciosamente come se nulla fosse, minimizzò:
«No! Non hai detto nulla di male. Hai solo detto un nome. Che sarà mai un nome?»
«Robert» lo richiamò alzando gli occhi al cielo «Non ho detto un nome a caso. Lo capisci che in tutti questi giorni non abbiamo mai parlato di lui? Quando è morta mia nonna Ilse non abbiamo fatto altro che parlare di lei per ore, in famiglia. “Ilse di qua, Ilse di là”. Jay, dopo aver riconosciuto il cadavere…»
«Cadavere: che brutta parola.»
«Che ti piaccia o no, Izaya era un cadavere e Jay l’ha visto, capisci? È corso in ospedale e per tutto il tragitto biascicava: “Non è vero, non è vero. Non ci credo”. Sai cosa deve essere stato per lui vedere l’uomo che amava su una lastra di un merdoso obitorio?»
«Per fortuna non era messo male. Anche io l’ho visto. Aveva una grossa protuberanza sulla fronte, ma sembrava addormentato. Un po’ pallido, sì, ma era intatto.»
Lizzie, in quell’istante, avrebbe picchiato selvaggiamente Robert se Jay non fosse stato in casa.
«Come fai ad essere così cinico?»
«Non sono cinico. Sto solo completando le tue riflessioni, sto aggiungendo particolari, non sto minimizzando ciò che ha vissuto Jay.»
«Lo stai facendo.» concluse Lizzie, totalmente disarmata dal brutale realismo del suo uomo.
Finita la crostata, Robert si avvicinò a lei seduta difronte e, dopo averle afferrato le mani, la guardò comprensivo.
Sorrise brevemente, accarezzando il grembo nel quale cresceva suo figlio e si arrese.
«Izaya era mio amico. Il dolore è così forte che, a volte, faccio prima a non pensarci. So che se ci penserei troppo potrei arrabbiarmi e pensare che questa vita sia fatta solo di pura ingiustizia. Quando, invece, guardo te, che custodisci nostro figlio, mi rendo conto che, purtroppo, siamo mortali. Si nasce, si vive, si muore e a Jay serve il tempo di capirlo. Deve avere davanti agli occhi un miracolo, come ce l’ho adesso io, e accorgersene. Al momento, di miracoli ce ne sono ben pochi nella sua vita. Aveva riposto nelle mani di Izaya tutta la sua esistenza e adesso l’ha perso. Dagli tempo.»
«Spero solo di essergli d’aiuto.»
«Lo aiuti come puoi, non crucciarti.»
Prima che Lizzie potesse rispondere, il rumore della porta del bagno la frenò.
Ciò che vide la fece ben sperare.
«Esco. Vado a farmi un giro. Vi serve qualcosa?» chiese un Jay perfettamente sbarbato e vestito.
La ragazza lo fissò imbambolata, come se avesse davanti una bella copia, ma fittizia, del Jay originale che aveva imparato ad amare.
«No. Non ci serve niente.»
«Bene. Non so a che ora torno, prendo le chiavi. Non inserite il passetto.» recitò meccanicamente, mentre si avvicinava alla porta di casa con estrema fretta.
Non appena la aprì, salutò distrattamente, senza voltarsi, lasciando Lizzie e Robert muti, incerti se interpretare quell’improvvisa resurrezione come una cosa positiva o come un modo, ancora diverso, di scappare.

***
 
Non credeva sarebbe tornato così presto, eppure, il rumoreggiare nel salotto non lasciava alcun dubbio: Jay era ritornato a casa.
Lizzie spostò l’attenzione sulla sveglia, scostando il braccio di Robert che, addormentato, le cingeva la vita.
Si incamminò lungo il corridoio per raggiungere l’unico che, per ore, aveva occupato i suoi pensieri.
Desiderava vederlo, accertarsi che tutto andasse bene e scorgendo la sagoma sottile e asciutta di Jay intento a spogliarsi per la notte, liberandosi dei jeans dei quali aveva dimenticato la consistenza a contatto con la pelle, si fermò di scatto. Tuttavia, non tornò indietro, ma seguì con lo sguardo ogni suo movimento, aspettando di vederlo adagiarsi sul divano, finalmente al sicuro. In realtà, non fece ciò che Lizzie si aspettava perché, anziché stendersi per concedersi un po’ di riposo, si sedette sul pavimento poggiando i gomiti sulle ginocchia, con gli occhi persi nell’oscurità di quella stanza.
Il buio non fu più un mistero per Lizzie perché, adesso, riusciva a vederlo meglio e anche se faticava a distinguere i lineamenti del suo viso, poté capire che gli occhi di Jay stavano piangendo.
Percepì quelle lacrime come un miracolo, d’altronde non ne aveva ancora mai versate, ed indecisa se avvicinarsi o meno rimase impalata dietro al muro in attesa di un consiglio valido dal suo stesso giudizio.
Ciò che prima era stata una semplice intuizione si tramutò in certezza: Jay stava davvero piangendo e così silenziosamente da fare male.
Non riuscì a resistere oltre, così si avvicinò a lui che, contro ogni aspettativa, non si fermò, ma cominciò a farlo sempre più forte e sempre più inconsolabilmente.
Tutto ciò che poté fare Lizzie era stargli accanto, accomodarsi accanto a lui cingendogli le spalle.
Sebbene fosse difficile resistere al dolore che provava per lui, il sollievo alleggerì il suo cuore.
Ciò che doveva fare consisteva nel consolarlo, non avrebbe potuto fare altro e sperò di esserne in grado, anche se flebilmente.
«Bravo, Jay.» sospirò, togliendosi il peso che per giorni le aveva mozzato il respiro.
Lo accarezzò stringendogli le mani, asciugandogli le lacrime ogni volta che ne scorgeva una particolarmente grande da poter essere assorbita.
«Bravo? Non sono così bravo se non riesco neanche a mettere piede fuori casa per più di due ore. Lizzie, quello stronzo non era capace neanche di guidare una fottuta auto.» ringhiò sommessamente, tastandosi le lacrime che gli imperlavano il viso, come se volesse modificarne il contenuto.
Se avesse potuto le avrebbe riempite di rabbia e di rancore così da riuscire a trovare un motivo per continuare a vivere.
«No, per questo non l’aveva. Spiegami un po’ dove sei stato.»
Tra le lacrime una risata prese forma.
Una risata amara e di scherno per se stesso.
«Vuoi saperlo davvero?» chiese guardandola negli occhi.
«Se ti va di dirmelo…»
«Qui fuori, sul pianerottolo. Praticamente non sono uscito» scoppiò a ridere, asciugandosi le lacrime.
Lizzie non poté fare a meno di ridere a sua volta «Sei un impiastro, Hahn.»
«Sono davvero un coglione irrecuperabile.» biascicò, sfumando il tono della voce sulle ultime sillabe «Lizzie, il tuo bambino… non chiamarlo Izaya sperando di fare una cosa che potrebbe farmi piacere. Se lo facessi mi rovineresti la vita.»
«Se lo facessi non rovinerei solo la tua, ma anche quella della creatura. È una femmina.»
«Quando lo hai saputo?» chiese stupito.
Dopo aver ricevuto la notizia, mesi fa, aveva promesso a Lizzie che l’avrebbe supportata, accompagnata ad ogni visita e aiutata in qualsiasi circostanza, invece, non l’aveva fatto.
Si rese conto di essersi perso tante di quelle cose da sentirsi un completo buono a nulla e nel contempo capì di aver vissuto quell’ultimo mese come un automa senza accorgersi di lei, di Lizzie, l’unica che ancora stava cercando in ogni modo di prendersi cura di lui.
«Non è certo, sono ancora delle ipotesi ma, come avevi previsto, sarà femmina e mi tocca cambiare tutto. Avevo preso anche lo spazzolino da denti di Iron Man. Temo preferisca qualcosa di più femminile.»
«Credo sia l’ultimo problema lo spazzolino da denti. Apprezzo la tua lungimiranza, ma mi sembra un tantino eccessiva.» concluse abbassando gli occhi sul pavimento.
Aveva disperatamente fatto appello a tutte le sue forze per intraprendere un discorso che fosse diverso da quello che l’aveva torturato in quelle ultime ore da solo, in attesa di chissà cosa seduto sui gradini poco sotto il pianerottolo dell’appartamento.
Si era allontanato da casa neanche quattro metri, nonostante ne avesse avute le buone intenzioni.
Finito il pacchetto di sigarette era ritornato indietro sconfitto, per poi ritrovarsi su quel divano, in compagnia dell’unica donna che sentiva di amare e che, sebbene provasse in tutti i modi di consolarlo, stavolta, non riusciva a farlo, soprattutto perché Lizzie, impensierita, aveva compreso che per salvare Jay avrebbe dovuto trovare un modo per svegliarlo e costringerlo a guardare in faccia la realtà.
Lui, però, aveva scelto di rifiutarsi e di fingere di dimenticare.
Sapeva che il prossimo passo sarebbe stato ritornare a casa, raccogliere le cose di Izaya e ricominciare una nuova vita.
Avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche, somatizzare il colpo ed essere abbastanza forte per vivere dentro quella casa che aveva condiviso con lui; avrebbe dovuto studiare e trovare un lavoro per pagare le spese, ma con quale cuore? Con quale testa?
Si sentì schiacciare sotto un peso impossibile da sorreggere da solo.
Sapeva di essere riuscito ad uscire da momenti realmente difficili, ma solo grazie ad Izaya, non per merito di se stesso.
Lui aveva solo aggiunto determinazione, Izaya tutto il resto, cominciando dalle cose pratiche.
«Onestamente, Lizzie: credi che io sia forte?»
«Hai dimostrato di esserlo più di una volta.»
«Tutta facciata. Sai perché ho detto ai miei la verità? Non per orgoglio, non per coraggio, ma solo perché ero abbastanza ingenuo da credere che mi avrebbero capito e supportato. Ero stanco di nascondermi, di portare il peso dei miei segreti solo sulle mie spalle, desideravo parlarne con mia madre, avevo bisogno di loro e mi ero illuso di essere amato per ciò che ero, ma non è stato così.» si fermò per prendere fiato; di fatto, stava sviscerando la verità sul suo conto, strappandosi dal viso la sua ultima maschera. «Quando ho conosciuto Izaya mi sono aggrappato a lui. Mi chiedeva continuamente di concedergli la possibilità di prendersi cura di me, ed io, ragazzino senza arte né parte, ‘cresciuto nello zucchero filato’ come diceva lui, ho semplicemente accettato permettendogli di costruire la mia vita da zero con le sue mani. In questi due anni con Izaya ho imparato un sacco di cose, non sapevo neanche rifare un letto, l’unica cosa che non ho imparato è vivere. Sono sicuro di me, quando dico la mia sono sempre certo di dire ciò che ci si aspetta da un ragazzo sveglio, straparlo di vita, di concetti astratti con un’esattezza ragguardevole ma, alla fin fine, sono solo parole. A parte amarlo, non mi ha insegnato niente sulla vita. Non gliene faccio una colpa, la morte è arrivata troppo velocemente senza darmi il tempo di costruirmi una vita al di fuori di casa nostra, da solo, senza il suo supporto. Dopo tutti i casini credevo di aver raggiunto una maturità ed una forza tale da permettermi di rialzarmi ad ogni scossone, invece mi ritrovo qui a non riuscire neanche a pronunciare il suo nome senza stare male. Chiunque direbbe che ne ho viste e superate tante, ma quante volte un uomo può rialzarsi? Quante ferite può sorreggere un corpo senza morire? Io credo di essere arrivato al mio limite…»
«Non è così!» lo interruppe Lizzie, prendendogli il viso nelle mani, fissandolo negli occhi con determinazione «Tu sei più forte di quel che credi. Io capisco il tuo discorso e da un certo punto di vista hai anche ragione, ma non sei solo. Ci sono io, c’è Robert…»
«Non so come dirti che non mi basta.» rispose, sottraendosi alla stretta «Tu e Robert siete stati di vitale importanza, ma non so come spiegarti come mi sento…» si fermò brevemente, stringendo gli occhi e cercando di trovare le parole giuste «Mi sento morto. Come se non provassi niente di diverso dal dolore e mi conosco abbastanza per dire che quando qualcosa mi fa troppo male tendo ad allontanarla. È come se crescesse in me una sorta di menefreghismo nei confronti di me stesso, come se non mi interessasse della fine che farò. Accetto passivamente ciò che mi accade senza più impegnarmi a fare i conti con me stesso. Ecco: non voglio più fare i conti con la mia coscienza, con la mia sofferenza e, di conseguenza, con la mia vita, con le mie scelte. Sono un… un invertebrato, ecco.»
«Più te ne convinci e più sarà così.»
«È già così. Però, ho un favore da chiederti: accompagnami a casa domani, aiutami a liberarmi delle sue cose.»
«Liberarti delle sue cose?!»
«Voglio dare via tutto, non voglio avere niente di suo tra i piedi…»
«Te ne pentirai, Jay.»
«Come potrei pentirmi di non averlo fatto, se non lo faccio.»





Angolo Autrice.
Ciao! Aggiorno dopo più di un mese e spero di farlo più velocemente in futuro. Ho avuto un blocco pazzesco dopo gli ultimi capitoli e spero di non averne scritto, adesso, uno deludente.
Detto questo, voglio precisare che non ho nulla contro i One Direction. Non li ascolto e basta, ovviamente neanche Jay li ascolta.
Voglio ringraziare Bijouttina, Ladywolf, Babbo Aven ed Elsker. Poi Ghost, Malaria, Mrs. Burro. Voglio ringraziare, anche, chi si è messo in pari con la storia con una velocità davvero pazzesca, Sorella Grimm prima di tutti, perché l'adoro, non ci posso fare niente. Risponderò presto alle recensioni. Purtroppo il blocco l'ho avuto in ogni cosa :(. Ringrazio InMidnight che è stata davvero un tesoro. Ha cercato in tutti i modi di incoraggiarmi. Ringrazio Hime che ha iniziato la storia.
Ringrazio tutti quelli che hanno messo la storia nelle preferite, ricordate e seguite.
Il mio angolo autrice, oggi, è particolarmente orribile, quindi taglio corto :P
Grazie di tutto il supporto che mi date.
Ah!!!!! Come dimenticare Moloko? Un ringraziamento calorosissimo va a lei perché è stupenda e basta.
Poi, dimenticavo, dedico questo capitolo ad InMidnight perché ho perso una scommessa XD
Se dimentico qualcuno o qualcosa, chiedo perdono.
Un abbraccio.
Bloom.

p.s. chi volesse iscriversi al gruppo dedicato a questa storia, l'indirizzo è nella pagina autore.
Grazie ancora.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Sleep Paralysis ***


 

"I got this feeling that we're dead
I got this feeling that we're dead
And there's nothing more

Across the sea
We're both fixed in a dream
There's an island just like this
A person just like me."

Sleep Paralysis- Gabriel Bruce 

 

 



21. Sleep Paralysis
 
Le finestre spalancate e le scatole ricolme di oggetti accatastati avrebbero potuto dare un’impressione di vita, di partenza, di qualcosa di positivo come un’esistenza che riprende d’accapo, ma le apparenze ingannano e, spesso, i cumuli di ricordi messi insieme in una scatola non sono segno di un nuovo viaggio.
La televisione accesa sempre sullo stesso canale si imponeva come sottofondo, così da ricreare una normalità che, ormai, non esisteva più da tempo.
Lizzie e Jay avevano sgomberato casa ad una velocità indegna, indegna per Izaya.
Ogniqualvolta la ragazza tentasse di convincerlo a conservare qualcosa o a riconsiderare l’idea di rimettere tutto dov’era, il ragazzo afferrava l’oggetto in questione e senza alcuna cura lo scaraventava in uno dei tanti scatoloni, senza assicurarsi che rimanesse intatto.
Ad ogni tonfo, a poco a poco, il cuore di Lizzie si spezzava e sempre meno riusciva a comprendere il comportamento di Jay. I vestiti di Izaya, gli oggetti personali, i documenti di lavoro, i suoi DVD e CD parevano non avere più alcun significato, soprattutto per la leggerezza con la quale riusciva a disfarsi di tutto senza lasciar trapelare alcun sentimento.
La tazza di Slenderman raccattata a tradimento quella volta che Izaya, senza portafogli, aveva deciso di andare comunque a fare spese ai mercatini: «Buttala! Non me ne faccio niente».
La macchina fotografica vintage, cimelio di famiglia: «Quella, tra le cose da regalare».
La sciarpa da un metro e mezzo con la quale Izaya legava Jay al palo della luce fuori dal locale dopo l’ennesima battuta acida espressa per puro divertimento: «Falla sparire!».
E così, ogni piccola cosa trovava la sua disfatta sul fondo di un asettico contenitore che, riempiendosi, svuotava inesorabilmente il cuore di Jay di ogni ricordo.
L’appartamento, in poche ore, pareva non aver mai accolto in sé la vita di quel ragazzo morto tragicamente e sotterrato sotto ammucchi di oggetti eliminati con estrema freddezza.
Lizzie se n’era andata, dopo aver letto ad alta voce un biglietto della padrona di casa lasciato sotto la porta dell’appartamento: “Mi spiace per quello che è successo. Izaya era un bravo ragazzo, spero che tu possa trovare la forza di andare avanti. In questo momento mi vergogno davvero molto a darti questo genere di comunicazione, ma: non è stato pagato l’affitto del mese passato e a breve sarai in ritardo di due mensilità. Ti chiedo di farmi sapere che cosa hai intenzione di fare, se andare via o continuare a vivere qui. Fatti vedere presto. Rose.”
Jay aveva ascoltato il contenuto del biglietto riassettando il soggiorno, senza curarsi più di tanto di quelli che, presto, sarebbero diventati problemi pratici da dover affrontare seriamente.
Lizzie si era offerta per un prestito, ma messa a tacere dall’imperturbabile distacco di Jay, era andata via stordita e sconvolta, come se avesse assistito in diretta allo smembramento di un uomo ancora in vita; una linea sottile divideva Jay e il ricordo di Izaya: chi fosse la vittima di tale ferocia non era ancora chiaro nella sua mente.
Il farsi male con le proprie mani era un atto mai sperimentato e se per qualcuno era proprio questo ciò che stava facendo, per Jay era solo un modo in più per costringere i suoi ricordi ad assopirsi, nulla di più.

***
 
Aveva fatto i conti per tutto il giorno con il dolore e, prontamente, era riuscito a metterlo a tacere ma giunta la notte, come risvegliato da un sonno profondissimo, si accorse di essere solo, avvolto dalle lenzuola che li aveva visti scambiarsi tenere carezze e ruvidi incontri, accompagnati sempre dalla bugiarda sensazione che il tempo, almeno per Izaya e Jay, si sarebbe fermato in quel preciso momento di pura felicità.
Si strofinò gli occhi stanchi e provati dalle crudeli ore di veglia che l’avevano costretto a rigirarsi nel letto e, scattando improvvisamente come una molla, fu in piedi e già in cammino verso l’armadio a muro del corridoio.
Puntò gli occhi verso la maniglia in legno e, prima che potesse realizzare, ormai la stringeva nella mano, attendendo quel riconoscibilissimo “clack” della chiusura a calamita che gli suggeriva di averla aperta.
Spalancò la porta dell’armadio con titubanza, impaurito per ciò che avrebbe trovato all’interno.
L’oscurità lo aiutò a non riconoscere subito ciò che stava cercando così da ritardare una reazione istintiva che l’avrebbe costretto, con la coda tra le gambe, a chiudere la porta e retrarsi. Si abituò velocemente al buio e lo sguardo trovò subito la scatola degli attrezzi appartenuta ad Izaya ma che, in realtà, nascondeva foto che non aveva mai esposto in casa. Non vi era alcun segreto in quelle istantanee, ma aveva, da sempre, amato tenere per sé i momenti felici con la sua famiglia, con i suoi amici, con il suo amore.
Jay le ricordava, le aveva viste insieme a lui e, sedendosi sul pavimento del salotto, accese la piantana, permettendo alla luce di rendere chiare quelle facce che già conosceva.


 
“Quella è mia madre” disse Izaya afferrando una foto. Sorrideva guardandola e Jay, sdraiato accanto a lui, spostò l’attenzione da una immagine all’altra, concentrandosi su quella che aveva messo al mondo l’uomo che amava.
“Cosa dovrei fare per ringraziare questa donna?”
“In che senso?”
“Ti ha messo al mondo”.
Una risata fece scendere un’ombra sul viso di Jay che, fino a quel momento, aveva sorriso: “Sei il solito stronzo. Dico cose romantiche e tu ridi.”
“Non ti è mai venuto in mente che, il mio, possa essere imbarazzo?”
“Non mi è mai venuto in mente perché è la cosa più lontana dalla realtà che tu possa fare: ridere per imbarazzo. Tu fai altre cose, tipo: fare battute idiote.”
“Questo è vero. Comunque, dicevo: questa è mia madre. In realtà non ho mai conosciuto la mia vera madre, lei mi ha adottato.”
“Sul serio?” chiese stupito. Si accorse di sapere ancora troppo poco di lui, così lo fissò con attenzione, sperando che continuasse a raccontarsi.
“Emily e Charles. Due genitori meravigliosi troppo grandi per adottare un neonato. Hanno scelto me, un quindicenne decisamente vivace. Non ho storie strappalacrime da raccontare sulla mia infanzia. Sono stato sempre felice, non mi è mai mancato niente e loro mi hanno sempre sostenuto in ogni mia scelta. Un giorno, qualche tempo dopo il mio arrivo, quasi tre anni, Charles si è ammalato di tumore allo stomaco e in pochi mesi è morto. Emily ha sofferto così tanto da spegnersi un po’, ma mai per me. Per me era sempre luminosa e splendente. Aveva quarantatre anni quando Charles l’ha abbandonata e lei mi ha tirato su da sola, fino a che, cinque anni fa si è ammalata di Alzheimer e adesso non sono altro che il lattaio per lei”.
Nonostante la storia avesse un epilogo alquanto triste, Izaya aveva raccontato tutto con un sorriso sul viso, guardando la foto con tenerezza.
“Adesso dov’è Emily?”
“In un centro specializzato. Il mio lavoro non mi ha mai consentito di prendermene cura qui a casa mia. Lavoro per troppe ore fuori casa, ma vado a trovarla quasi ogni giorno.”
“Perché non me l’hai mai detto?”
“Adesso te l’ho detto e sappi, caro Jay: ti ci porterò presto. Io sono il tizio del latte, tu potresti diventare un suo amico di infanzia”.


 
Guardò con malinconia la foto di Emily, ricordando il loro primo incontro.
Izaya non era altro che un semplice lattaio, Jay, invece, era diventato un suo vecchio amore.
Sorrise amaramente ma, in un attimo, la freddezza si impossessò dei suoi lineamenti, cancellando ogni traccia di sentimento.
Lasciò cadere l’immagine di Emily sulle altre foto cosparse sul pavimento, sfilò una sigaretta dal pacchetto e l’accese, aspirando profondamente il primo tiro.
Poggiò la testa sulla seduta del divano e fissò il soffitto come se fosse un cielo stellato, perso nei suoi pensieri.
Lo sguardo indecifrabile e i tiri di sigaretta calmi e regolari rimescolarono nella sua mente le impressioni di quei momenti di vita vissuta, veicoli di ricordi e, alzando la testa lentamente, inchiodò nel cuore l’idea che aveva appena formulato dentro di sé: prese le foto tutte insieme e si diresse al bagno con una calma maniacale ed inumana, continuò ad aspirare il fumo come se stesse prendendo boccate d’aria ristabilizzanti; senza esitazioni gettò le foto nella vasca da bagno, li cosparse di alcool e, poco dopo, quella sigaretta diede vita al fuoco che avrebbe inghiottito ogni sorriso, ogni rievocazione.
Assistette fino alla fine alla disfatta dei suoi stessi sentimenti che bruciarono inesorabilmente davanti ai suoi occhi inespressivi e assenti.
Izaya bruciava e percorreva all’indietro la strada che aveva vissuto negli ultimi anni della sua vita.
Sparì lui, sparì il bar, sparirono anche Lizzie, Robert e Chaz.
Con quelle foto ridotte in cenere svanì un pezzo di vita che, a forza, ricacciò nell’oblio della sua mente costretta all’impassibilità.
Si vestì velocemente e, incurante del pungente odore di fumo che aveva invaso casa, uscì con l’ennesima sigaretta tra le labbra senza sapere cosa ne sarebbe stato di lui.
Senza sapere cosa avrebbe fatto di se stesso.





Angolo Autrice.
Sono produttiva in questi giorni e confesso di aver pensato di non aggiornare. La storia è in revisione e volevo finire prima di pubblicare nuovi capitoli, ma poi ho pensato che non è giusto lasciarvi appesi per più di un mese, il tempo necessario a terminare la revisione.
Quindi, ecco il nuovo capitolo, spero vi piaccia.
La storia comincia a prendere dei connotati decisamente più oscuri, i buoni sentimenti non sono sempre facili da portare avanti soprattutto quando succede qualcosa, nella vita, che ci fa stare male.
Jay ha scelto di abbandonare ciò che è stato, di mettere da parte la sua fragilità.
Molti di noi, certamente, abbiamo vissuto momenti della vita che ci hanno indurito e che ci hanno portato allo stremo. Abbiamo detto basta al dolore ma, a volte, non è la soluzione giusta.
Voglio ringraziare LadyWolf che, in qualche modo, ha collaborato alla stesura di questo capitolo. Come? Mi ha fatto conoscere questa canzone che mi ha ispirato moltissimo, la canzone che da' il nome al titolo. Ringrazio Babbo Aven, DarkViolet, Moloko, Oxymoros Schìma, Aniasolary, Nahash, Emide, Elsker, Mrs Burro, Ghost, Malaria e dedico questo capitolo a Bijouttina che oggi compie gli anni.
Ringrazio chi ha inserito la storia nelle seguite/preferite/Ricordate.
Se dimentico qualcuno, come al solito, chiedo scusa.
Bloomsbury

 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Paradise Circus ***



"It’s unfortunate that when we feel a storm
we can roll ourselves over ’cause we’re uncomfortable
oh where the devil makes us sin
but we like it when we’re spinning in his grip."

Paradise Circus- Massive Attack 

 





22. Paradise Circus
 
 
Recarsi all’Escape durante le serate tranquille sarebbe potuta diventare una buona abitudine se non fosse stato per quell’uomo che, ad ogni incontro, cercava di attirare l’attenzione in ogni modo.
«Ci rivediamo, Jay!» lo salutò con la sua solita aria da Jolly mentre il ragazzo, con i gomiti poggiati al bancone del bar, sperava di non farsi notare.
Purtroppo, ogni tentativo di rendersi invisibile fu vano perché Brad, con poche mosse, gli era già accanto, dopo essersi liberato dei ragazzini adoranti che aveva intorno. «Non mi saluti?»
Dopo aver bevuto l’ultimo sorso di vodka, Jay sospirò afflitto, indeciso se parlare ancora con la solita schiettezza o accontentarlo per levarselo di torno con poche e gentili parole. Lo squadrò per qualche secondo con aria di sufficienza e non appena i suoi occhi si posarono sui gemelli di madreperla ordinatamente fissati sui polsini della camicia, l’approccio che avrebbe dovuto adottare nei confronti di quell’uomo fu chiaro: «Brad, non so più come farti capire che la tua compagnia mi secca, la tua presenza mi ripugna e che i tuoi rozzissimi gemelli mi danno il voltastomaco.»
E dopo, l’unica cosa udibile fu la musica.
Jay non abbassò lo sguardo, voleva scrollarselo di dosso e sapeva che palesare il disgusto nei suoi confronti poteva dare i frutti sperati.
Brad era un vanitoso e se altre volte aveva finto di non cogliere il messaggio per il puro gusto della conquista, adesso, non poteva ignorarlo, l’aveva certamente punto sul vivo. Almeno, così credeva Jay.
La risata partì sommessa, per poi crescere gradualmente.
Il viso di Brad si rilassò e le mani giunte si sciolsero per poi posarsi sulle spalle del ragazzo. «Ho capito il concetto. Ma vorrei comunque offrirti da bere. Vorrei farti capire che non sono come mi vedi, come mi presento al pubblico.»
«Ma a me non interessa come sei. Voglio solo che mi lasci in pace e che continui a sollazzarti con le bestioline che ti corrono dietro» replicò freddamente, fissandolo; non comprendeva quanto i suoi tentativi di intimidirlo sortissero l’effetto contrario.
Brad era a caccia e l’unico a non essere caduto in trappola era proprio Jay.
Come poteva lasciarsi scappare un bocconcino così succulento e difficile da acciuffare?
Ormai era diventata una questione di principio, una sfida.
«Sediamoci nel privè. Alzati da questo benedetto sgabello e vieni a rilassarti. Hai del tempo da perdere, ti si legge negli occhi, non hai nulla da fare e nessun posto al quale fare ritorno. Almeno passa il tempo a chiacchierare con me.»
Jay scrollò le spalle arrendevole e, prendendo il bicchiere dal bancone, si alzò puntandogli il dito contro: «Ti faccio contento. Ma sappi che questa sarà la prima ed ultima volta, altrimenti, mi costringi a non venire più qui.»
Spalancò le braccia per fargli strada: «Prego, precedimi».
Jay non credeva di essere riuscito a convincerlo, ma scelse di accontentarlo ugualmente.

***
 
«…quindi, dopo quell’affare andato in porto, ho comprato una lussuosissima BMW con gli interni in pelle color champagne, acquistato un meraviglioso attico a Notting Hill e ho detto vaffanculo al mondo e a tutti quelli che, per invidia, hanno cercato di remarmi contro. Queste sono soddisfazioni. Vero, Jay?»
«Sì, sì. Una grandissima soddisfazione.» rispose annoiato, sorseggiando l’ultimo goccio di vodka, indirizzando gli occhi altrove senza prestare troppa attenzione ai suoi racconti fatti di successi, di ricchezza e di mere soddisfazioni professionali.
La conversazione pareva finita e Brad, agitando la gamba accavallata, lo squadrò per qualche istante, ammettendo di non essere riuscito ad attirare pienamente la sua attenzione.
Era arrivato il momento di giocarsi la carta della conversazione altruista: «Vivi da solo?»
«Sì!»
«In quale zona, se posso sapere?» chiese fingendo disinteresse, cogliendo dalla coppetta in vetro una manciata di arachidi.
Jay lo guardò in tralice, sospettoso.
«Oh Dio, Jay! Si chiama conversazione informale. Sono domande che si pongono per il puro gusto di parlare di qualcosa. Preferisci che ti chieda del tempo?»
«Vivo a Soho.» ribatté interrompendolo.
«Sei di qui, quindi. Ottimo posto per vivere, Soho. Di cosa ti occupi?»
«Studio legge…» sapeva che da lì sarebbero cominciate una serie infinita di domande, così tagliò corto: «Non lavoro, non mi mantengono i miei genitori e sto cercando un’occupazione.»
«Potrei aiutarti, ormai siamo amici!»
«Non siamo neanche una cosa lontanamente simile a due amici, Brad. Sono qui per farti contento e gradirei che tu non mi faccia altre domande a riguardo.»
«D’accordo. Va bene. Quel tizio con il quale ti accompagnavi la prima volta che ci siamo conosciuti?»
Il giorno del suo diciottesimo compleanno pareva così lontano da non aver più sfiorato la sua mente, l’unica cosa degna di essere ricordata era il primo bacio di Izaya, ma era anche la prima cosa da dover dimenticare. «È una domanda, la tua? Se è una domanda non la capisco.»
«Non fare il puntiglioso, non ti annoi ad essere sempre così rigido? Sciogliti, ragazzo. Ti verranno le rughe a breve. John, porta un’altra vodka liscia e uno scotch.» dispose senza chiamarlo in causa, fermando il cameriere con un gesto elegante e attraente della mano.
«Io avevo intenzione di andare via.»
«Tu rimani ancora un po’ qui con me.» asserì, posizionando con fermezza la mano sul ginocchio di Jay che si immobilizzò sul divanetto, come se qualcosa lo stesse trattenendo. Forse era stata la risolutezza di Brad o la paura della solitudine che avrebbe ritrovato a casa.
«D’accordo. Resto ancora un po’.»
«Bene.» disse accennando un sorriso.
Non c’era trionfo nei suoi occhi, come Jay avrebbe immaginato, ma un senso di sollievo inusuale, come se Brad desiderasse ancora la sua compagnia e come se, anche lui, non avesse un posto al quale fare ritorno.
Una volta, conoscendo Izaya, si era detto che mai avrebbe giudicato un uomo dalle apparenze, eppure lo stava facendo, tradendo una delle tante cose che aveva imparato per merito suo. «In fondo, non sei così molesto. Ti ho giudicato male.»
«Mi fa piacere sentirtelo dire!» dichiarò con appagata gentilezza.
«Non montarti la testa, però.»
«Lungi da me. Voglio solo farti capire che non cerco niente, solo un po’ di compagnia.»
«Non mi pare che tu ne abbia poca. Hai uno stuolo di ragazzini, anche più giovani di me, in attesa delle tue attenzioni.»
«Mi girano intorno solo perché ho una bella macchina e un bel appartamento. Non è certamente una cosa che fa piacere. Per una volta vorrei una compagnia disinteressata al mio conto in banca. Tu sembri il tipo giusto…»
«Giusto per cosa?»
«Giusto per me, non giusto per il sedile della mia auto. Facciamo un patto:» esordì d’improvviso, accorciando le distanze, intento a ricreare un’intimità che fino ad allora non c’era mai stata «Tu non mi tratterai più male ed io non ti seccherò più; ma promettimi che non mi allontanerai solo per l’idea che ti sei fatto di me.»
L’espressione del ragazzo suggeriva che la risposta sarebbe stata negativa, ma prima che Brad potesse pregarlo ancora, il responso arrivò a brucia pelo: «Andata!» gli porse la mano con convinzione, cambiando totalmente espressione. Negli occhi del più giovane non c’era più disgusto e insofferenza, c’era interesse.
«Andata!» ribatté l’altro, afferrandogli la mano.
 
Nello sguardo di Jay c’era fiducia,
in quello di Brad vittoria.
“Preso!”




Angolo Autrice.
Preparate le mazze chiodate, donne!
Sì, mi riferisco a Bijouttina e LadyWolf, che ringrazio sempre con tanto aMMore :P
Voglio ringraziare, come al solito, Babbo Aven che mi riempie di complimenti e che è sempre presente, spero di non deluderti T_T
Ringrazio DarkViolet92 che mi ha cazziata perché nei ringraziamenti l'ho chiamata solo DarkViolet scordandomi del 92 :P
Ringrazio Oxymoros Schima che vuole prendersi... ehm... vuole prendersi cura di Jay ad ogni capitolo.
Ringrazio Julie che ancora sta indietro ma quando si metterà in pari vedrà che non l'ho mai dimenticata. Come potrei dimenticarmi di lei??
Ringrazio la Shore che adesso è in vacanza e che adoro infinitamente.
Ringrazio la mia Emide che mi è sparita causa scrittura compulsiva (vai così XD).
Ringrazio WarHamster.
Ringrazio Moloko che mi ha detto che avrebbe qualcosa da dire e che sono curiosa di sapere.
Grazie a tutte quelle che sono indietro XD
Grazie a chi ha messo la storia nei preferiti/seguiti/ ricordati. Sappiate che vi ringrazierei una per una ma non so se vi fa piacere, quindi mi astengo!
Grazie ad Elsker, Mrs. Burro e Ghost che so che ci sono sempre.
Se dimentico qualcuno, datemi in pasto a Brad.
Un abbraccio.
Bloom

p.s. spero che il capitolo vi piaccia.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Overgrown ***


"I don't wanna be a star
But a stone on the shore
Long door, frame the wall
When everything's overgrown
...

Time passes in the constant state."

Overgrown- James Blake 

 





23. Overgrown
 
 
Per primo percepì il profumo di dolci caldo e accogliente e, per secondo, il dolore acuto tra le gambe accompagnato al calore madido delle lenzuola in corrispondenza dei glutei.
Tutte quelle sensazioni non erano nuove, aveva già conosciuto i dolori tipici del sesso, ma non per mano di qualcuno diverso da Izaya.
Tastò il posto lasciato vacante accanto a lui, sperando di essere solo come percepiva e, infatti: non c’era nessuno.
Senza aprirli posò il braccio sugli occhi per negarsi la vista di qualcosa che sapeva, a prescindere, di non poter sopportare.
Ciò che più gli faceva male era il fatto di essersi dato così facilmente ad un uomo che non conosceva mentre il ricordo di Izaya era ancora lì, stampato a forza nella sua mente.
Aveva cercato in ogni modo di dimenticarlo, ma era ancora presente, più di quanto avesse mai immaginato.
Il viso del suo uomo, gelido e immobile, si mostrò nei suoi ricordi: aveva un livido sulla fronte gonfia e pallida e la barba incrostata dal sangue scuro sgorgato dalle labbra violacee.
Sobbalzò come se quel ricordo l’avesse schiaffeggiato e si sedette al centro del letto da dove, infine, vide la stanza sconosciuta nel quale aveva sospirato di un piacere colpevole e vuoto.
Il letto, sopraelevato rispetto al pavimento, imperava nella stanza lussuosa illuminata dai finestroni che davano su una terrazza riccamente arredata.
La piscina esterna, colpita dai primi raggi del sole, era vuota e, per un attimo, avrebbe voluto affogarcisi dentro.
Si alzò dal letto, percorrendo la stanza in cerca del bagno, passando accanto al tavolo imbandito per la colazione. Passò oltre, dopo avergli gettato un’occhiata di disgusto e si diresse alla doccia in marmo, cinta dal vetro bagnato, probabilmente, da Brad che pareva non esserci.
Un dolore acuto alla schiena lo fece rabbrividire e, guardando i polsi segnati dalla stretta poderosa di quell’uomo che aveva spinto dentro di lui con bramosia e ferocia, si irrigidì; si girò su stesso per ritornare sui suoi passi e, preso dall’impazienza, ritornò nella stanza, raccogliendo dal pavimento i suoi vestiti.
Si vestì velocemente, lamentandosi, di tanto in tanto, dei dolori cosparsi per tutto il corpo.
Chiusi i bottoni dei jeans che sembravano più stretti e fastidiosi del solito, prese il resto dei suoi oggetti personali inusualmente disposti sul tavolo: non ricordava di aver messo lì né il cellulare né il portafogli, ma la fretta di scappare lo indusse a non curarsene.
Si avvicinò alla porta di ingresso e scrutò il suo riflesso al grande specchio accanto alla porta: un morso evidente al labbro inferiore lo costrinse a portasi le mani alla bocca mentre, con la lingua, cercava di portare via il residuo ferruginoso di sangue.

***
 
Londra sfilava davanti ai suoi occhi assenti mentre, di ritorno a casa, si abbandonava al finestrino dell’autobus. Nonostante gli urti e gli scossoni gli facessero male, i pensieri spenti riuscivano a lenire ogni dolore fisico, acutizzando, però, il malessere che si cibava della sua anima.
Le numerose telefonate di Lizzie rimasero senza risposta per tutto il viaggio finché, arrivato all’appartamento, si ritrovò a dover dare spiegazioni alla ragazza che, preoccupata, era già fuori dalla porta di casa in attesa: «Che cazzo di fine hai fatto? Ho provato a chiamarti tutta la mattina. Dove sei stato?»
Entrato in casa, lanciò le chiavi sulla penisola in legno della cucina, ignorandola.
«Sto parlando con te.»
Jay bevve in un solo sorso un bicchierone d’acqua, fingendo di non sentirla.
«Sono stata in pensiero per te e tu, coglione che non sei altro, ti prendi anche il lusso di ignorarmi?»
Il ragazzo, stanco e lacerato, non lasciò intravedere il suo reale stato d’animo e per fare in modo che la farsa risultasse ancora più convincente, ostentando spavalderia, sospirò seccato, chiudendosi nel bagno, lasciando fuori Lizzie.
L’acqua scorse copiosa nella vasca, trascinando i residui di cenere lasciati a sedimentarsi e le parole di Lizzie vennero soffocate dal rumore scrosciante, aiutando Jay a chiudersi maggiormente nel mutismo.
La ragazza, fuori di sé, cominciò a bussare insistentemente, costringendo Jay ad uscire e a mettere in atto una scena che avrebbe voluto evitare.
Uscì fuori dal bagno così rapidamente da lasciare Lizzie interdetta davanti agli occhi rabbiosi dell’amico: «Che cazzo di problema hai? Che spiegazioni vuoi? Anzi: che spiegazioni ti devo?»
La fissò minacciosamente dall’alto al basso, avvicinandosi a lei con rabbia.
«Tu non mi devi nessuna spiegazione, ma è assurdo che tu non risponda alle domande che ti pongo. Non vuoi dirmi dove sei stato? D’accordo.» si allontanò da lui, cercando di sottrarsi a quella vicinanza forzata che pesava come un macigno. «L’importante è che tu stia bene. Non mi importa altro.»
«Mi vedi. Sto bene! E adesso puoi finirla di urlare e di rompere le scatole. Non hai niente di meglio da fare, oggi? Tornatene a casa da tuo marito, non sono un bambino da accudire. Ho ventuno anni, so badare a me stesso.»
«Vedo. Lo vedo benissimo» rispose avvilita e sull’orlo del pianto.
Non erano lacrime di collera a minacciare il suo sguardo, ma di delusione e di rammarico.
Rimasero in silenzio per qualche istante e solo il respiro affannato di Jay rompeva la tensione quieta che li avvolgeva.
La ragazza si voltò e, avvicinandosi alla porta di ingresso, si forzò a parlare con calma nonostante percepisse le parole rompersi in gola: «Io vado. Se hai bisogno di me sai dove trovarmi».
Non arrivò alcuna risposta, così andò via dall’appartamento senza voltarsi a guardarlo.


 
Dopo aver fatto una doccia che, però, si dimostrò inutile poiché non fece altro che fargli notare segni in più che avrebbe piacevolmente ignorato, si sedette a fatica sul water, accendendo una sigaretta pescata dal pacchetto preso dai jeans adagiati sul pavimento. Dopo il primo tiro cercò di portare lontano da sé pensieri che non avrebbe mai retto se avesse permesso al vecchio Jay, debole e fragile, di prendere il sopravvento. Scompigliò i capelli bagnati per privarli dell’acqua in eccesso e allungando il collo longilineo e pallido, prese una boccata d’aria con l’intento di calmare il cuore affaticato dai battiti accelerati dall’irrequietezza. Così si costrinse nuovamente all’indifferenza, la stessa che gli aveva permesso di allontanare Izaya dal suo cuore.
Strinse gli occhi per togliersi dalla mente l’immagine ignobile di Brad che, senza alcuna delicatezza, l’aveva preso con la forza senza chiedersi per un attimo se a lui piacesse quel trattamento da piccola bestia inerme costretta a subire senza poter prendere il sopravvento.
Aprì gli occhi, resi ancora più chiari dal riflesso dell’acqua nella vasca lambita dalla luce della tarda mattinata, e non appena indirizzò lo sguardo sul pavimento, un’idea sfiorò la sua mente: intrappolò la sigaretta tra le labbra e raccolse freneticamente i jeans, cercando la tasca nella quale avrebbe trovato il portafogli. Aveva trovato i suoi oggetti personali sul tavolo dell’appartamento di Brad senza che lui ce li avesse messi, così, non appena aprì il portafogli, capì il perché: duecento sterline, certamente non sue, riempivano la tasca riservata alle banconote.
Le fissò incredulo per secondi incalcolabili «Bastardo, figlio di puttana!»
Avrebbe voluto scaraventarli nel water e tirare lo sciacquone, ma sarebbe stato troppo istintivo, se l’avesse fatto non avrebbe goduto nel vederli sparire.
Dopo un primo momento di confusione, condito dai movimenti rabbiosi e incerti delle mani, una risata di scherno vivificò il suo volto e, tenendo le banconote strette davanti ai suoi occhi, gli diede fuoco lentamente con la sigaretta appena accesa: «Fottuto stronzo. Non mi servono i tuoi soldi. Sei la feccia più schifosa che io abbia incontrato nella vita. I tuoi sporchi soldi, Brad, stanno bruciando. Pensavi di avermi comprato ma ti sbagli.»
Prima che potessero prendere fuoco totalmente, li gettò nel water, fissandoli con disgusto.
Se l’atto di bruciare ogni cosa poteva essere la strada per alleviare ogni dolore, allora, avrebbe dato fuoco a qualsiasi cosa con soddisfazione.
Avrebbe ridotto in cenere anche i suoi stessi sentimenti, la sua umanità, la dolcezza che l’aveva da sempre contraddistinto.
Avrebbe raso al suolo ogni cosa sotto l’impietosa mano del suo cinismo.




Angolo Autrice.
Ciao!
Aggiorno alla svelta e ne sono molto felice.
Voglio ringraziare tutti quanti, come al solito, siete diventanti tutti indispensabili. Il fatto che voi amiate questa storia e me lo dimostriate continuamente mi riempie il cuore di gioia. Quindi, ringrazio Babbo Aven, Bijouttina, LadyWolf e Ghost.
Inoltre, voglio ringraziare la piccola Elsker, DarkViolet92, Oxymoros e tutti quelli che continuano a seguire la storia.
Grazie a chi lo fa in silenzio, a chi lo fa con le mazze chiodate sempre in mano, chi lo fa scrivendomi su fb o sugli MP.
Grazie a tutti.
Non voglio seccare con sti spazi autrice pieni di ringraziamenti, quindi vi dico solo che la vostra presenza è sempre un motivo in più che mi spinge ad andare avanti.
Spero che questa storia arrivi alla fine entro fino Luglio ma visto che mi gufo da sola, sto zitta.
Un abbraccio grande.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Hyperballad ***


"It's real early morning
no-one is awake
i'm back at my cliff
still throwing things off
i listen to the sounds they make
on their way down
i follow with my eyes 'til they crash
imagine what my body would sound like
slamming against those rocks

and when it lands
will my eyes
be closed or open?"

Hyperballad- Björk 

 
 


24. Hyperballad
 
 
I dolori nel fisico scemarono lentamente, ma il disappunto continuò a farlo sentire abbastanza vivo da permettergli di affrontare la prima notte da solo.
Si era addormentato covando rancore e così facendo aveva messo a tacere il cuore, nel quale Izaya soffocava travolto dalla voluttuosa coltre di indifferenza che avrebbe fatto soccombere ogni ricordo.
Aveva dormito senza riposo, braccato dagli incubi, ma era riuscito comunque a chiudere occhio.
Il cellulare suonò all’impazzata per tutta la mattina e Jay, disturbato dall’ennesimo squillo, lo afferrò sull’orlo della nevrosi. «Chi è?»
«Cerco Jay Hahn.»
«Sono io, Jay Hahn!»
«Buongiorno. Sono Brad».
Il silenzio che seguì fu la risposta che si aspettava.
Sapeva che presto sarebbe uscito da quella conversazione non ancora avviata ricoperto di insulti.
Aveva sbirciato nei documenti di Jay per sapere chi fosse, aveva rubato il numero di telefono senza ricevere alcun consenso e aveva deliberatamente acquistato la notte passata con duecento sterline.
«Ciao, mi fa piacere sentirti!»
Stavolta fu proprio Brad a rimanere senza parole. Jay lo aveva preso di sorpresa, di nuovo. «Anche a me fa piacere. Come va?» chiese per tastare il terreno e cercare di capire cosa passasse per la testa del ragazzo.
«Tutto bene. Volevo chiamarti ma non avevo il tuo numero, sono felice che tu abbia deciso di annotare il mio.»
«Sei arrabbiato?» domandò con la massima attenzione, sperando di non attirarsi le ire del giovane che, più di una volta, gli aveva intimato di stargli alla larga.
«Affatto, anzi: ti volevo ringraziare per le duecento sterline; non sapendo come fare, avevo intenzione di venire stasera all’Escape e, magari, ritornare insieme nel tuo appartamento».
Erano passate quasi ventiquattro ore dal loro ultimo incontro e Brad capì quanto potesse fare la differenza un giorno passato senza pressioni.
Jay, certamente, aveva avuto modo di riflettere su di lui e fu il ragazzo stesso a dargliene conferma: «Ammetto che in un primo momento di stizza ho preso i tuoi soldi e li ho bruciati, ma poi mi sono reso conto che tu hai solo cercato di darmi una mano. Io ti avevo parlato, al bar, dei miei problemi finanziari e tu hai voluto renderti utile, mi dispiace se li ho bruciati. Vorrei rimediare.»
«I soldi erano tuoi, te li sei guadagnati. Potevi farci quello che volevi, mi spiace solo che tu abbia deciso di disfartene quando avresti potuto usarli per cose più impellenti.»
«Già!» Jay rimase in ascolto per qualche istante, stringendo nella mano il nuovo biglietto della padrona di casa, recapitato da sotto la porta, che gli intimava di farsi vedere il prima possibile.
Aspettava che Brad lo invitasse nel suo appartamento per poter mettere fine ai suoi problemi. E infatti: «Che ne dici se ci vediamo a casa mia per cena? Ti piace la cucina giapponese?»
«Sì, mi piace.»
«Bene! Allora, ci vediamo per le otto qui da me. Così potremmo chiacchierare un po’ e, chissà, far rinascere quelle duecento sterline dalle ceneri. Potrebbero diventare anche trecento, trecentocinquanta, quattrocento… tutto dipende da te.»
«D’accordo. A stasera, allora.»
«A stasera, piccolo. Aspetta!» Brad lo fermò prima che potesse riattaccare «Volevo dirti che sono stato bene l’altra notte. Spero la cosa sia reciproca.»
«Certo che lo è. Stanotte potremmo ripeterci…»
«Oh, sì! Sarebbe fantastico.» concluse con soddisfazione. Prima di terminare la conversazione, però, cambiò tono di voce con il fine di rilassare gli animi ed indirizzarli verso un approccio più intimo: «Mi manca la tua pelle…»
«Rimandiamo i commenti sulla mia pelle a stasera. A dopo, Brad.» tagliò corto.
«A dopo, bellezza».
Nonostante Jay l’avesse sorpreso, arrivò alla conclusione che quel ragazzo non fosse poi così diverso da tanti altri.
Alcuni ragazzini dell’Escape offrivano il proprio corpo per soldi da sempre e Brad, sebbene non gli servisse pagare per adescare, preferiva di gran lunga farlo, poiché pagare significa possedere. E chi possiede ha il potere di disporre della vita degli altri senza discussioni.

***
 
Arrivato all’ultimo piano del palazzo, stringendo nelle mani una bottiglia di vino trovata in casa, si diresse verso l’appartamento di Brad.
La mattina in cui era scappato non aveva fatto caso al lusso traboccante che impreziosiva ogni particolare del condominio. Anche solo gli stucchi rifiniti a mano del soffitto parevano urlare il proprio valore per tutto il tragitto.
Era cresciuto nel lusso, eppure aveva totalmente dimenticato i tempi in cui camminava per gli uffici della Gray’s Inn, sedendosi alla possente scrivania in legno scuro di suo padre, giocando a fare l’avvocato.
Ravvivò i capelli, dandosi un’occhiata alla vetrata del corridoio e, sistemata la T-shirt neanche troppo elegante per l’occasione, suonò al campanello.
L’attesa non fu lunga, gli occhi azzurri di Brad fecero capolino, colpendo Jay in pieno viso, costringendolo a balbettare un saluto impacciato.
«Entra, sei il benvenuto!» lo accolse calorosamente, afferrando la bottiglia per poi porla al centro del tavolo apparecchiato per la cena.
Strofinandosi le mani, fissandolo con occhi trionfanti, Brad gli fece segno di avvicinarsi cercando di mettere a tacere l’imbarazzo che percepiva provenire dal giovane uomo che aveva bramato con tutte le sue forze.
Ciò che, però, rendeva Jay impacciato, non era imbarazzo, ma attesa.
«Perché non ti avvicini, piccolo? Aspettando la cena potremmo accomodarci sul divano e sorseggiare un buon champagne».
Non se lo fece dire due volte e, infatti, avvicinandosi al tizio fatto di prosopopea e di sorrisetti trionfanti, la sua espressione cambiò e in pochi attimi Brad fu sul pavimento, steso con un pugno, prima che potesse accorgersene.
«Ti ho fatto male, Brad? Scusa, sono inciampato alla rozzissima jacuzzi al centro del tuo salotto.» lo sbeffeggiò massaggiandosi il pugno con il quale aveva messo fine al sorriso che sentiva di odiare dal profondo del suo stomaco.
Dopo essersi ripreso dal colpo inaspettato, l’uomo si sedette sul pavimento, tastandosi il viso con stupore.
Era bastato un destro ben assestato per fargli crollare tutta l’infrastruttura della sua finta ed ostentata raffinatezza: «Ma che cazzo fai? Che ti prende?»
«Te l’ho detto, non l’ho fatto apposta.» rispose sedendosi sul divano, sorseggiando lo champagne dalla bottiglia.
Il malcapitato si mise in piedi, scrutando con incredulità il ragazzo che, con estrema soddisfazione, lo fissava esibendo una certa sgarbatezza nei modi.
Permaneva, stravaccato sul divano, a gustarsi la scena, cercando il più possibile di ostentare la propria estraneità al fatto appena accaduto.
Brad fingeva di essere un elegante uomo d’affari, Jay, al contrario, giocava a fare il ragazzino dei bassifondi, celando ciò che in realtà era sempre stato: un ragazzo ricco caduto in miseria.
«Tu sei un farabutto, un delinquente. Tornatene nella tua topaia di Soho e non farti rivedere.» gridò con disprezzo, premendo la mano sulle labbra sanguinanti.
«Ma come? Abbiamo già finito? Credevo volessi far rinascere dalle ceneri quelle duecento sterline o, magari, trecento, quattrocento… avevi detto che sarebbe dipeso da me. Pensavo di aver fatto del mio meglio per guadagnarmeli.» ironizzò con falsa delusione.
«Sai cosa sei, Jay Hahn? Un piccolo stronzo che gioca a fare l’innocente. Sei stato tu, di tua spontanea volontà, a venire a letto con me. Mi hai chiesto tu di invitarti qui, se avessi avuto qualcosa in contrario mi avresti detto al telefono di non farmi più rivedere. Invece sei qui a stuzzicarmi, a farmi…»
«Avevo già notato le tue tendenze manesche a letto, ma se leggi questo “piccolo colpo” che ti ho dato come un corteggiamento sei più preoccupante di quel che credevo.»
«Sei un poveraccio.» bofonchiò Brad digrignando i denti.
«È una mera questione di prospettive, vecchio mio. Dal mio canto, il poveraccio sei tu.» concluse mutando la sua espressione; stavolta rese chiaro il suo disgusto, squadrandolo dalla testa ai piedi «Dico sul serio, Brad. Volevi comprarmi? Volevi assicurarti altre due o tre scopate pensando che mi sarei piegato al tuo volere per soldi? Mi hai portato in questo nauseante appartamento sperando che io mi lasciassi abbagliare da cotanto sfarzo, credendo di potermi comprare con l’esibizione della tua ricchezza, ma ti sei tradito. A letto sei uno dei più nauseabondi animali e il giochetto dei soldi non ha fatto altro che palesare cosa sei veramente: un viscido poveraccio che crede che con i soldi si possa comprare tutto. Cosa c’è, Brad? Hai fatto soldi in così poco tempo da credere che con quelli tu possa comprare anche le persone? Non sei abituato ad essere ricco, non sei nato in questo sfarzo, ti atteggi ad uomo facoltoso per trovare il tuo posto nel mondo e, fermami se sbaglio, compri i corpi dei ragazzini per bearti del tuo potere e poter dirti, guardandoti allo specchio: “Non c’è niente che io non possa avere”. Se non è così, allora, ci sono delle cose che non mi spiego. Perché pagare un ragazzo per una notte quando sai benissimo che puoi trovarlo senza comprare il suo corpo?»
Brad rimase in silenzio per tutto il tempo, lo lasciò finire senza interromperlo.
Scrollò il capo con un’espressione annoiata, come se non riuscisse a scorgere i tratti del suo essere nelle parole appena udite.
Non avrebbe dovuto dare alcuna spiegazione, ma decise di contrattaccare, non per ferirlo, ma per raggiungere comunque i suoi scopi: «Credi quello che vuoi di me ma, se permetti, vorrei esporti i miei pensieri. Vuoi sapere cosa vedo io quando ti guardo?» prima di iniziare a demolirlo poco a poco, si sedette sulla poltrona. Fissò il pavimento per un breve istante come se cercasse di raccogliere delle idee che già aveva elaborato in precedenza e dopo aver fatto un lungo sospiro, incrociando le mani, cominciò a spiattellargli tutte le parole che sapeva l’avrebbero messo al tappeto: «Vedo un ragazzo triste e solo, senza arte né parte; un ragazzo bello ed intelligente ma senza alcun futuro. Vedo un tipo sveglio e agguerrito, ma privo di ogni entusiasmo. Un ragazzo freddo e scostante che ha deciso di voler vivere la propria vita senza l’aiuto di nessuno, né morale né pratico. Sei triste, Jay. Sei patetico, lamentoso e arrogante.» proseguì nel giudicarlo, mentre Jay, dirigendo gli occhi verso il basso, si riempiva di frustrazione. Era evidente che il ragazzo si stesse piegando sempre di più, ma Brad, non contento, continuò a torturarlo mettendo in pratica il suo ultimo tentativo di irretirlo: «Non ti ho dato quei soldi per comprarti, ma per darti una possibilità. È vero, sono un uomo che ha raggiunto una posizione in pochissimo tempo ma mi sono fatto con le mie mani e voglio aiutarti. Il sesso è un’atra cosa, nessuno ti costringe, ma ho pensato che prenderti sotto la mia ala, farti conoscere un nuovo mondo, un nuovo stile di vita, potesse risvegliarti dal torpore che ti sta risucchiando. Tu mi piaci molto e contavo su di te; contavo sul fatto che, insieme, avremmo potuto fare delle grandi cose. Pagarti una prestazione sessuale non significa comprare il tuo corpo, voglio darti l’opportunità di rimettere insieme la tua vita. Tu sarai mio tanto quanto io sarò tuo e finché non troverai un lavoro io vorrò solo darti una mano. Possiamo non fare sesso, se vuoi, ma dammi l’opportunità di aiutarti.».
Jay aveva già affidato il suo futuro ad un altro uomo ma in modo del tutto diverso.
Con amore e stima si era dato completamente ad Izaya, non per raggiungere una soddisfazione personale né un futuro di successi, ma per condividere la sua vita con un uomo che ammirava con tutto se stesso.
Quel periodo della sua vita, però, si era concluso tragicamente lasciandogli nelle mani solo dolore e sabbia. Con Izaya aveva costruito un amore, un rapporto, ma non la sua vita.
Consegnarsi a Brad, sperando che lui potesse raccogliere quella sabbia e trasformarla in qualcosa, sarebbe stato impensabile.
Per Brad non c’era amore, né ammirazione né fiducia, ma quegli occhi azzurri del tutto inaffidabili che lo scrutavano con pazienza avevano qualcosa che lo induceva a mettere in dubbio le sue stesse idee.
Nello sguardo di Brad c’era determinazione, quella stessa che aveva permeato le iridi scure di Izaya quando, con lo zaino di Jay sulle spalle, lo aveva preso per mano per portarlo in quella che sarebbe stata la loro casa, la loro nuova vita.
Quei pensieri confusi trovarono il loro sbocco nella lacrime quiete che gli rigarono il volto, dipingendo sul viso di Brad un sorriso che sapeva di compimento, di successo; l’uomo, però, cercò di non darlo a vedere e, avvicinandosi a Jay, affondò la lama: «Hai un’alternativa che possa salvarti?»
Jay strinse i pugni, non voleva arrendersi né ammettere di essere così debole ma, pensandoci a fondo, sapeva di non avere ancora le forze di combattere «C’è sempre un’alternativa» mentì. Se c’era, ancora non l’aveva trovata.
«Al momento hai solo bisogno di far tacere la rabbia, la delusione, la tristezza. Per trovare le soluzioni c’è sempre tempo, ma devi trovare un sistema per far passare quel tempo nel modo più indolore possibile. Io posso aiutarti.» azzardò senza sapere di cosa stesse parlando.
Stava giocando, stava tirando ad indovinare e l’espressione assente difronte a lui gli suggerì di essere sulla strada giusta. «Non essere sempre così diffidente. Ammetto di non essere un soggetto così affidabile a primo acchito, ma credimi: posso aiutarti.»
«Me lo ripeti di continuo e ancora non afferro cosa intendi.» disse con la voce rotta in gola.
«Sei come un’anima in pena, devi trovare pace e serenità ed i problemi pratici ti stanno condannando a rimanere fermo, non ti evolvi, questo perché non stai pensando a te. Io ti sto offrendo tempo. Il tempo di pensare, di riflettere, di trovare il modo di agire. Affidati a me, mi prenderò cura dei tuoi problemi, mi farò carico delle tue spese e non è solo una questione di soldi, me li restituirai quando avrai trovato la tua serenità ma in cambio dovrai darmi qualcosa…»
«Cosa vuoi?»
«Niente di che, solo te stesso. Stai con me, frequentami, dammi una possibilità e non te ne pentirai. Permettimi di metterti in salvo, qui con me.»
“Solo te stesso”. Se avesse dato valore a se stesso, Jay avrebbe sicuramente avuto qualcosa da ridire. Non ebbe nulla in contrario.





Angolo Autrice.
Ecco un nuovo aggiornamento. Aspetto di sapere cosa pensate di questo nuovo risvolto della storia che, come ho già detto altre volte, forse può essere un po' difficile da digerire o comprendere. Sono felice che ci sia stato qualcuno che già, prima della pubblicazione di questo capitolo, abbia compreso le dinamiche psicologiche che hanno spinto Jay a questo punto.
Ringrazio Ghost infinitamente per la sua attentissima lettura e la sua capacità di comprendere appieno ciò che scrivo. Grazie a Babbo Aven che si pone le giuste domande, cercando il più possibile di entrare nella mente di Jay. Grazie a Bijouttina che, più chiunque altro, vive questa storia profondamente, commuovendosi, incavolandosi e provando in prima persona la vasta gamma di emozioni e sentimenti che voglio trasmettere. Tu mi fai capire che, in qualche modo, riesco a trasmettere le tanti sfaccettature che compongono il carattere e la psicologia di Jay. Ringrazio LadyWolf il mio teSssoro, DarkViolet92, Ally_M che ha iniziato la storia da pochi giorni ma che ha già compreso perfettamente. Grazie a Oxymoros che legge con tanta passione e mi fa presente ciò che pensa by chat  in tempo reale:P Ringrazio tutte quelle che stanno indietro e che a poco a poco si stanno mettendo in pari: Julie, la Shore, Moloko... e se dimentico qualcuno indicatemi con il dito senza pietà.
Grazie a chi ha inserito la storia nelle seguite/ricordate/preferite.
Grazie a tutti davvero.
Un abbraccio.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Hearts A Mess ***




 
"Your heart's a mess
You won't admit to it
It makes no sense
But I'm desperate to connect
And you can't live like this."

Hearts a Mess- Gotye 


 
 


25. Hearts A Mess
 
 
Gli occhi di Izaya, quella mattina, avevano qualcosa di diverso, come se avessero visto un segreto, qualcosa che non era dato vedere a nessuno. Jay sondò il suo sguardo per qualche istante prima di lasciarlo andare. Lo abbracciava reggendosi dalle sue spalle, sfiorando con le dita dei piedi il pavimento mentre l’altro gli cingeva la vita, sollevandolo leggermente.
«Tornerai presto?»
«Prima di quanto credi.» rispose Izaya, baciandogli la spalla «Robert mi ha prestato la sua auto, ci metterò meno del solito.»
«Maledetto il giorno in cui hai accettato di seguire quel caso. Ogni settimana ti portano via da me.» protestò stringendolo di più, fino a mozzargli il fiato.
«Jay, mi stai soffocando.» ansimò Izaya, cercando di fargli allentare la presa.
«Scusa. Vai, non ti tratterrò!» promise senza mettere in pratica la sua parola.
Continuò a stringerlo sempre più forte, fino a far ridere Izaya, intrappolato nelle sue braccia «Ti stai contraddicendo. Non puoi dire: Vai! E poi non mi lasci andare.»
«Vai, vai, vai…» urlò Jay legandolo di più a sé, stringendo gli occhi più forte che poteva.
«Vuoi che usi la forza?» chiese accarezzandogli i capelli mentre il viso del ragazzo, affondato nella spalla di Izaya, sorrideva della sua stessa mancanza di forza d’animo.
«Tu non saresti mai in grado di usare la forza con me.»
«Ne sei certo?» non si diede neanche il tempo di finire la frase che già aveva letteralmente lanciato il corpo esile di Jay sul divano, facendolo ridere tra le proteste: «Sei un animale!»
Izaya, dopo essersi avvicinato a lui, stando attento a non farsi imprigionare di nuovo, lo baciò teneramente solleticandogli il viso con la barba folta «Torno presto.»
«Ok.» mormorò.
 
Non era mai tornato.
 



Jay fissò indeciso i vestitini da bambina che aveva nelle mani, aggrottando le sopracciglia perplesso.
Nina, la figlia di Lizzie e Robert, avrebbe compiuto il suo primo anno di età quella sera e, dopo due mesi, l’avrebbe rivista.
Da quando era nata l’aveva vista solo cinque volte contro i trecentosessantacinque giorni che aveva immaginato il giorno in cui Lizzie aveva annunciato a tutti di essere incinta.
Quel giorno aveva vagato con i pensieri, aveva sognato di poter diventare il suo punto di riferimento, il suo zio preferito ma, in tutti quei sogni, non si era mai immaginato senza Izaya.
Per togliersi quel pensiero dalla testa, finalmente scelse il vestito bianco adornato da piccole violette dipinte a mano, non era sicuro della decisione presa, ma avrebbe scelto qualsiasi cosa pur di sbrigarsi e togliersi da quella situazione.
Jay aveva smesso di andare all’università come aveva interrotto quasi totalmente il rapporto con Lizzie e Robert. Non aveva mai parlato con loro di Brad né del suo nuovo stile di vita.
Agli occhi di molti poteva sembrare un semplice arrivista e approfittatore che viveva con i soldi di un uomo ricco e ingenuo, per altri era semplicemente una puttana.
Inizialmente aveva accettato un aiuto senza assicurare il suo corpo a Brad, poi il rapporto diventò sempre più complesso, fino a che Jay non divenne altro che una delle tante proprietà di quell’uomo.
Brad, dal canto suo, credeva di aver instaurato un reale rapporto di coppia, tralasciando il particolare che spesso, senza alcun consenso, si prendeva il lusso di decidere della vita di Jay facendogli perdere ogni possibile occasione lavorativa trovando scuse e argomentazioni del tutto giustificate, anche se supportate da una buona dose di informazioni sbagliate e falsità.
Avevano raggiunto un equilibrio, secondo Brad.
Lui pagava qualsiasi spesa, facendogli anche dei regali e Jay non faceva altro che accontentarlo, non senza protestare.
 
«Scordatelo. Non ti porto al compleanno di Nina.» decise categoricamente mentre ripiegava il vestitino per poi riporlo nella busta firmata.
«Ma dai. Stiamo insieme, Jay. Dovrai presentarmi a loro prima o poi» contestò Brad seduto al centro del letto sfatto che odorava ancora dei loro corpi.
«Ancora ti illudi di essere il mio fidanzato? Io sono il tuo giocattolino e tu lo stronzo che si diverte a giocarci.» disse con freddezza, mentre sceglieva i vestiti da mettere per la festa tra le camicie firmate, i vestiti pregiati e i tessuti ricchi di alta sartoria.
Sceglieva con cura il suo vestiario, trattava con riguardo gli oggetti che lo tenevano in ostaggio, esaminava attentamente le cose con le quali era stato comprato.
«Non essere così cinico. Se dici così sembra quasi che tu stia con me solo per i soldi.»
«Non c’è un motivo diverso, attualmente. Tu mi assicuri il benessere ed io ti accontento, ma non ti illudere: ti sto solo usando per poi mollarti senza pietà una volta trovato un modo per mettere in ordine la mia vita.» disse con distacco, abbottonando una delle tante camicie cucite su misura da un prestigioso sarto di Savile Row.
Brad, dopo aver terminato la solita risatina sommessa, lo raggiunse trascinandosi sul letto per poi afferrarlo dalla mano per avvicinarlo.
Jay lasciò fare senza protestare.
«Quando smetterai di rifiutarmi?» chiese l’uomo cingendolo tra le braccia, insinuando le mani sotto la camicia ancora sbottonata.
«Quando smetterò di essere così mediocre.»
«Allora: mai!» sussurrò baciandogli le labbra inermi «Ti sei affidato a me proprio perché lo sei. Hai solo me, Jay. Tu non sei niente, non sei nessuno, sei un ragazzino squallido e mi fai quasi pena, per questo ho deciso di prendermi cura di te.»
«Sai perché ti odio, Brad?» chiese avvolgendogli le spalle con le braccia «Perché hai sempre ragione» concluse baciandolo avidamente come se volesse tappargli la bocca prima che potesse infierire.
Come era arrivato a quel punto non lo sapeva neanche lui, l’unica cosa chiara era che, ormai, si era lasciato manipolare cadendo in un circolo vizioso dal quale difficilmente sarebbe uscito.
Stare con Brad significava accontentarlo e concedergli il lusso di fare tutto quello che lui voleva, in cambio avrebbe avuto il tempo di riprendersi, di trovare il modo di ricominciare da zero, di tenere la casa che era stata di Izaya.
Se nei primi tempi aveva categoricamente rifiutato di diventare l’oggetto sessuale di Brad in cambio di soldi, adesso lo era in piena regola.
Si era messo nelle mani di uomo che, lentamente, senza neanche farsene accorgere, aveva preso possesso della sua vita, condizionandolo, manovrandolo e la cosa che, più di tutto, accresceva la frustrazione del ragazzo era proprio il fatto che se ne fosse reso conto, e aveva lasciato fare senza opporsi.

***
 
«Dì grazie a zio Jay!» esclamò Lizzie, reggendo sulle gambe la piccola che, con occhi perplessi, scrutava il ragazzo seduto difronte a lei.
«Non sembra contenta, forse avrebbe preferito un giocattolo.» asserì Jay, soffiando il fumo dell’ultimo tiro di sigaretta.
«Certo che è contenta! Non lo vedi il suo sguardo colmo di giubilo?» ironizzò Robert poggiato alla porta della cucina mentre osservava in disparte la scena.
Jay rise, mentre Lizzie cercava in ogni modo di giustificare il comportamento sarcastico di Robert.
«Lizzie, tranquilla. Non mi sono offeso. Le ho preso un vestitino perché i giochi non piacciono a me, senza pensare che, invece, avrebbero sicuramente fatto piacere a lei.»
«È un bellissimo vestito.» a quel punto Robert decise di collaborare e di togliersi dal viso l’espressione beffarda che aveva avuto per tutta la cena.
Mentre Nina stendeva le braccia per aggrapparsi a Jay, l’atmosfera si cristallizzò.
Forse tutti in quella stanza pensarono a come sarebbe stato se ci fosse stato ancora Izaya; molto probabilmente avrebbe adorato quella bambina, conoscendolo.
Non appena aveva saputo che sarebbe nata, un sorriso gli aveva illuminato la faccia tanto da attirarsi ogni tipo di battuta. Robert aveva detto che, in fondo, anche Izaya possedeva un cuore tenero, Lizzie l’aveva additato, dicendogli che sarebbe stata ora di togliersi dal viso l’espressione da strafottente in favore di qualcosa di più dolce ed amichevole; Jay, invece, lo aveva adorato, riconoscendo quell’amore che lui comprendeva meglio di chiunque altro. Un amore che solo in pochi avevano avuto il privilegio di conoscere interamente.
Ma Izaya non c’era e gli occhi allegri di Nina erano gli unici a non avere alcuna ombra di nostalgia o dolore.
Jay rimirò la pelle candida e profumata di quel piccolo miracolo posato senza alcun peso sulle sue gambe e sorrise debolmente, indeciso se quella vista così dolce e spensierata facesse più male che bene.
Sospirò impercettibilmente, stanco di non riuscire a trovare conforto in niente e, come al solito, si rese gelido, tanto che la bambina si voltò nuovamente verso sua madre, chiedendole con gli occhi di poter ritornare da lei.
Guardando con distacco la scena del ricongiungimento tra figlia e mamma che non ricordava neanche più di aver vissuto in prima persona da bambino, si poggiò svogliatamente allo schienale del divano, accendendosi un’altra sigaretta.
«Di cosa ti occupi di preciso, Jay?» chiese a bruciapelo Robert, osservando le iniziali del ragazzo ricamate a metà busto sulla camicia.
«Lavoro per un agente di commercio. Diciamo che sto imparando qualcosa da lui.»
«Ottimo! Quindi ti sei rimesso in pista!» esclamò Robert nascondendo una punta di dubbio.
«Più o meno.»
Il fatto che Jay avesse sussurrato le ultime parole senza troppa convinzione, sviando lo sguardo pur di sfuggire ad ulteriori domande, avvalorò di poco le impressioni che Robert aveva formulato dentro di sé.
Il Jay che aveva davanti non era quello che aveva conosciuto anni fa, lo sapeva bene; in quel mese in cui l’aveva ospitato a casa sua dopo la morte di Izaya aveva imparato a interpretarlo e a decifrare ogni sua sfumatura.
Il ragazzo che aveva davanti era ormai un uomo e certamente la morte del suo compagno lo aveva reso ancora più adulto, ma i tentativi di rendersi criptico in qualche modo fallirono, perché Robert sentiva che c’era qualcosa che non andava ma, conoscendolo, sapeva che se avesse chiesto in modo troppo diretto avrebbe solo ottenuto risposte evasive e, certamente, un conseguente congedo che avrebbe avuto in pieno il sapore di un’autentica fuga.
Rimasero in silenzio ancora un po’, concentrandosi su Nina che a poco a poco, stretta alla sua nuova bambola, chiuse gli occhi per poi adagiarsi lentamente sul seno della madre.
Lizzie, dopo averle dato un bacio sulla fronte, accarezzandole le gote rosse e paffute, si alzò stringendo la bambina: «La porto a letto. Jay, vieni con me?»
La guardò smarrito, incerto sulla riposta da darle, ma dopo pochi secondi si alzò senza parlare, solo accennando un sorriso, e la seguì nella stanza accanto dove una luce fioca color ambra sfiorava i contorni di ogni cosa, compresi i loro corpi.
Guardò con curiosità i gesti dolci e materni che Lizzie compiva silenziosamente, curando con amore la sua bambina e si ricordò di quando, quella stessa donna, l’aveva accolto nel suo bar, trattandolo come fosse suo figlio, con una dolcezza che non ricordava di aver mai visto neanche negli occhi di sua madre.
Un frammento di ricordo squarciò per un attimo il ghiaccio che aveva permesso di rafforzarsi intorno al suo cuore, ma fece di tutto pur di non cedere.
Chiuse la porta della stanza alle sue spalle dopo aver fatto uscire Lizzie e raccogliendo i piatti sul tavolo e gli ultimi resti della cena, cercò Robert senza successo.
La cosa lo rincuorò, perché ormai vedeva Robert come un nemico dal quale doversi difendere.
Aveva timore di lui, provava imbarazzo ogni volta che i suoi occhi indagatori cercavano di capire, di afferrare qualsiasi particolare che potesse svelargli il perché di tante cose, prima cosa fra tutte: la scomparsa quasi totale di Jay dalla loro vita.
«Pensavo fosse una festa. Come mai eravamo solo noi?» chiese il ragazzo affiancandosi a Lizzie intenta a sciacquare i piatti in cucina.
«La festa sarà domani al parco giochi. La mia vicina ha due gemelli dell’età di Nina e ha organizzato questa piccola festa per bambini. Saremo mamme e tanti marmocchi chiassosi. Ho voluto organizzare questa cena di compleanno per invitarti. Per farti vedere la bambina.»
«Hai avuto… un pensiero gentile.» rispose sfiorato da quel piccolo senso di colpa che, normalmente, metteva a tacere ogni volta che non rispondeva alle chiamate di Lizzie.
«Non posso pensare che la mia bambina cresca senza conoscerti.» infierì ancora la ragazza, provocando un sospiro afflitto di Jay che, allontanandosi da lei, cercò forzatamente di trovare qualsiasi altra cosa sul quale spostare l’attenzione.
Vide il vecchio jukebox all’angolo e si voltò verso Lizzie, indicandolo ma, prima che potesse parlare, si ritrovò davanti gli occhi in lacrime della ragazza che, in silenzio, lo scrutava alle sue spalle.
Jay estese il suo sguardo altrove pur di non guardarla, tamburellando le dita sul tavolo, mordendosi le labbra per non permettere alle prima parole di uscire incautamente.
«Tu mi manchi.» mormorò lei, pregando di sentire una risposta rassicurante, tipica del suo vecchio amico.
«Non ne hai ragione. Sono qui.» minimizzò avvicinandosi alla finestra, dandole le spalle.
«Capisco che molte cose siano cambiate e che, quindi, il nostro rapporto non possa essere più come quello di una volta ma… sei tu ad essere cambiato. Una volta avresti fatto i salti mortali pur di rimanermi accanto, pur di far parte della vita della bambina, adesso sei distante. Non sorridi più, non mi guardi più con tenerezza. Ricordo ancora quando ebbi minacce d’aborto, tu mi stesti accanto, mettendo da parte i tuoi impegni, prendendoti cura di me. Adesso sei un groviglio di sentimenti incomprensibili e non mi permetti di avvicinarmi a te. Io ti ho amato, Jay. Ti ho amato come amica, ti ho amato come madre e ti amo ancora ma non so più cosa devo fare. Speravo che questa serata potesse essere…»
«Non si possono raccogliere e mettere insieme cocci di un qualcosa che si è rotto.»
«Ma tra noi non si è mai rotto niente…»
«Io sì. Io mi sono fatto in mille pezzi. E sto cercando di rimetterli insieme ma devo farlo da solo.» rispose monocorde.
«Perché non mi guardi quando parli? Da cosa vuoi nasconderti?» chiese avvicinandosi a lui, posandogli una mano sulle spalle che, puntualmente, si scrollò di dosso allontanandosi. «Non mi permetti neanche di toccarti.» affermò sicura, con la mano ancora sospesa a mezz’aria, impossibilitata a posarsi dove avrebbe voluto.
Con i gomiti poggiati al davanzale, Jay guardava distrattamente i passanti in strada, desiderando di mischiarsi a loro. Si sentiva come un leone in gabbia; se avesse avuto la certezza di non ferire Lizzie sarebbe scappato da quella casa, dalle domande, dalle pressioni. Scelse di rimanere, lei meritava qualche spiegazione in più, nonostante non potesse dargliene delle dettagliate: «Sono cambiato, sono diverso.» sussurrò stanco, come se stesse prendendo coscienza della cosa solo in quel momento. A forza di rendersi totalmente indifferente a se stesso aveva quasi dimenticato chi era stato in passato, ma Lizzie non l’aveva dimenticato, così si accostò al muro in silenzio, in attesa di spiegazioni.
«Quando mi chiami non mi nego perché non sei importante o perché io non provi dei sentimenti per te. Tu sei e sarai per sempre l’unica donna che io abbia mai amato, a mio modo. Ma sono diverso e…» si fermò per un istante e si voltò, dando finalmente le spalle alla finestra e non a lei «Lizzie, il mio cambiamento è così insopportabile anche per me che non mi sento più di meritare la tua presenza. Sono così patetico e disgustoso da sentirmi completamente fuori luogo quando sto con te. Una volta ero un ragazzo capace di godere delle tue risate, dei tuoi abbracci, adesso quelle stesse cose mi fanno sentire vuoto dentro.» concluse digrignando i denti, combattuto tra l’indignazione e la resa.
«Non posso più correre dietro la tua ombra, non perché io non lo voglia, ma perché desidero davvero riuscire a trovare un modo per tirarti fuori dal grigiore nel quale ti sei chiuso; correrti dietro non è la soluzione. Ciò che posso fare è dirti che io sono sempre Lizzie, sempre la solita e che ci tengo a te.» riuscì a sfiorargli il mento senza essere respinta e con dolcezza gli spostò la ciocca di capelli che aveva avuto per tutto il tempo davanti agli occhi e azzardò: «Vorrei che tutto potesse ritornare come una volta.».
Rimasero a guardarsi occhi negli occhi in silenzio mentre Lizzie gli stringeva il viso, costringendolo a non spostare lo sguardo da lei.
Voleva svegliarlo, convincerlo che avrebbero potuto ricostruire ciò che la morte di Izaya aveva distrutto, così sorrise impercettibilmente per incoraggiarlo e per fargli capire che non era solo, non lo era mai stato.
Lo scatto repentino di Jay, però, fece crollare ogni speranza: ancora una volta si era sottratto alle sue mani, alle sue parole; Lizzie sentì di non essere davvero più in grado di consolarlo.
 «Non lo capisci che non è possibile? Ormai siamo due persone con due vite diverse, con esigenze agli antipodi e poi… come si può tornare ad essere come una volta adesso che Izaya non c’è più? Come puoi pretendere questo da me?» chiese senza l’ombra di una lacrima, ma solo con enorme rabbia negli occhi.
«Non lo so. Non ti sto dicendo che dobbiamo farlo, ti sto chiedendo di provarci…»
«Non posso.» la interruppe categorico, tagliando l’aria con un gesto della mano per poi ricominciare a parlare come un fiume in piena, ma colmo di rassegnazione: «La morte di Izaya non è l’unica ragione. Il fatto che lui sia morto ha dato solo il via ad un qualcosa che non riesco più a fermare. Mi sento così indifferente nei confronti di tutto e di tutti, nei confronti di me stesso. Non riesco più a sentire niente, io vorrei provare qualcosa ma non sento niente.» rimarcò con malessere, come se quel niente lo stesse consumando dentro. «Non c’è sorriso, non c’è abbraccio che io riesca a vedere e ad apprezzare. Non esiste persona che riesca a farmi sentire felice solo perché c’è. Non mi importa più di niente e il non riuscire a spiegarlo mi fa chiudere ancora di più in me, perché io lo spiego ma tutti rispondono: “È impossibile. Nessuno riesce a diventare così insensibile, sono solo le circostanze!”. No, cazzo!» urlò, stavolta con lo sguardo colmo di lacrime di rabbia. Si costrinse nuovamente all’aridità, davanti ad una Lizzie travolta dalle sue parole impietose. Jay si asciugò le lacrime come fossero qualcosa dal quale doversi liberare in fretta e, concludendo il suo sfogo, si arrese: «Ad un certo punto ho deciso che mi faceva tutto troppo male e qualcosa in me è scattato: non ho provato più dolore, ma ho sacrificato tutto il resto. C’è una piccola parte di me, del vecchio Jay, che ogni tanto esce fuori ma non è abbastanza forte per imporsi ed io non ho nessuna intenzione di permetterglielo. Se continuare a sopravvivere significa perdere gli amici, l’umanità e i ricordi allora rinuncio a tutto. Voglio sopravvivere, vivere non mi interessa, non fa più per me. Ma tranquilla: Sto bene!».
Se il silenzio avesse avuto un peso probabilmente Lizzie e Jay sarebbero rimasti schiacciati a morte. Non c’era più nulla da dire…
 
Era uscito di casa in silenzio dopo averla baciata sulle labbra, come era solito fare. Non si dissero “addio”, ma mollarono entrambi la presa. Si arresero, nessuno riuscì a convincere l’altro e per non dover pentirsi di aver forzato la mano chiusero il discorso.

***
 
Jay non provava più niente: non sentiva traboccare il cuore di felicità alla sola vista della bambina, non si sentiva più leggero con il sorriso di Lizzie, non riusciva a rassicurarsi con la presenza di Robert e non provava più dolore.
L’unico sentimento che riusciva a farlo sentire ancora in vita era la rabbia, ed il solo capace di scatenargliela era Brad.




Angolo Autrice.
Ciao! Questo capitolo è un po' più lunghetto rispetto agli ultimi postati, questo perché era importante chiarire i rapporti che ormai si sono instaurati tra Jay e il resto dei personaggi. Nel prossimo capitolo ci sarà un risvolto particolare e dal prossimo ancora... (minispoiler)... qualcuno si rifarà vivo. Dai, già so a chi sta pensando, non fate i finti tonti. Per le fan sfegatate di un tizio in particolare il capitolo 27 sarà importante :P
Voglio ringraziare tutti quelli che mi leggono e mi commentano. Bijouttina che nello scorso capitolo ha tirato fuori le unghie alle grande, Babbo Aven che amo per il suo buon cuore che, a volte, gli fa vedere le cose migliori di quello che sono, Elsker che mi scrive sempre cose che mi fanno commuovere, Ghost che amo enormamente, Ally_M che sta all'inizio, quindi, finché vede questo angolo autrice magari sono già morta (:O vi immaginate se schiatto prima di finire la storia?? O_O).
Ringrazio Ladywolf la mia dorata fonte di risate, ispirazione e un sacco di altre cose, Emide mia che mi manca T_T, Moloko che legge e lo so, Oxymoros che legge e lo so, Mrs Burro che legge e lo so e tutti quelli che leggono ed io lo so.
Ringrazio WarHamster che è meravigliosa e punto.
Grazie a DarkViolet92 per le sue recensioni che sembrano tanto riflessioni.
Grazie a tutti quelli che leggono in silenzio e quindi tutti quelli che hanno messo la storia nelle Preferite/Ricordate/Seguite.
Grazie di cuore a tutti.
Bloomsbury

p.s. questo capitolo è stato scritto con amore, ma quanta sofferenza -.- Quindi mi scuso se ci dovessero essere refusi.

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** The Small Print ***





"Take, take all you need
And i'll compensate your greed
With broken hearts 
Sell i'll sell your memories
For 15 pounds per year
But just the good days

Say, it'll make you insane
And it's bending the truth
You're to blame
For all the life that you'll lose and you watch this space
But i'm going all the way
And be my slave to the grave
I'm the priest God never paid."

The Small Print- Muse 

 
 


26. The Small Print
 
“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c'è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.”
Haruki Murakami
 
 
Odiava le feste.
Nello specifico odiava le persone che vi incontrava.
Per giorni Brad aveva cercato di convincerlo a presenziare, finché ci era riuscito, o meglio, lo aveva costretto velatamente.
Dopo essersi vestito elegante per il grande evento al quale avrebbero partecipato, a detta di Brad, alcune delle personalità di spicco del business londinese, si fissò allo specchio per qualche istante e dopo mesi aveva veramente guardato il suo riflesso.
Non gli era più interessato conoscere il proprio aspetto; non pensava fosse importante sapere se era bello, brutto, ordinato, elegante: ormai il suo specchio era Brad, anzi, la sua espressione.
Quella sera lo aveva guardato estasiato e soddisfatto.
 
«Truccati.» gli “consigliò” mentre il ragazzo abbottonava i polsini.
«Mi hai preso per uno spaventapasseri?» chiese senza neanche guardarlo.
Brad si avvicinò, ponendosi alle sue spalle; lo afferrò dalla vita trascinandolo verso di sé dalla cinta, per poi poggiarsi con il mento sulla spalla del ragazzo. Squadrò il loro riflesso allo specchio e con estremo compiacimento sorrise: amava ciò che vedeva.
Senza distogliere lo sguardo gli morse il collo, godendo del contatto visivo. Dopo avergli passato la lingua sulla pelle lasciò che i bollenti spiriti si calmassero: «Truccati.»
«Non uso farlo, non ho l’occorrente.».
Lo liberò di colpo per dirigersi in bagno; ne uscì con ciò che serviva.
 

Jay pensò che quella pretesa fosse solo un'altra delle sue tante fantasie erotiche; tesi avvalorata dagli sguardi accaldati e ammiccanti che spesso gli aveva lanciato durante il viaggio in macchina.
Abbandonato sullo schienale dell’auto, Jay fissava la strada cercando di capire dove questa fantomatica festa privata avrebbe avuto luogo.
Vide riflessi al finestrino i suoi occhi contornati dalla matita nera che, con linee marcate, faceva risaltare il colore chiaro delle sue iridi: disgustoso.

***
 
Arrivarono nei pressi di Kensington e dopo aver percorso Holland Park Avenue si fermarono davanti ad uno dei tanti lussuosi condomini del quartiere.
Scese dall’auto guardando in direzione dell’attico ben visibile per via delle ampie vetrate che fungevano da pareti. Tutto l’attico dava spettacolo di sé, riuscendo ad illuminare con le sue luci finanche la strada: «Un’umile dimora. Il proprietario sarà felice di dire al mondo quanto è figa la sua casa.» disse ironicamente, schiacciando al suolo la sigaretta appena accesa e che Brad gli aveva strappato prontamente dalle labbra prima che potesse fare il primo tiro: «Fai meno il sarcastico, Jay. Ti farò conoscere la gente che conta».

***
 
Non fu la ricchezza ostentata a sconvolgerlo, neanche il sontuoso salone pieno di gente ben vestita, ma il fatto che ogni uomo si accompagnasse ad un ragazzino, pressappoco della sua età, con gli occhi truccati di nero. Ognuno era la copia dell’altro. «Che cazzo di festa è questa?» balbettò indietreggiando, vittima di un inspiegabile paura che lo costringeva a spostare convulsamente lo sguardo da un paio di occhi all’altro, sempre più velocemente, rivedendo se stesso in ognuno di essi.
«Calmati. Non ho intenzione di venderti o di cederti o qualsiasi altra cosa tu stia pensando. Non ti divido con nessuno.» sibilò Brad servendogli un sorriso di scherno.
«Non è questo il punto.» precisò deglutendo a fatica «Mi hai marchiato?»
«Ma come ti viene in mente?» l’uomo rise divertito, bloccando Jay sul posto con la mano, stringendogli la spalla «Hai una fervida fantasia, piccolo.»
«Non mi fare questo. Tutto, ma questo no.» pregò guardandolo, stavolta, supplichevole.
«Non essere ridicolo. Non ti accadrà niente, non esagerare. È una festa privata tranquillissima. È solo un modo per passare una serata liberamente. Condividiamo i nostri segreti in questo appartamento, tu sei il mio “segreto” e tutti i ragazzi che vedi sono i “segreti” altrui. Invece di impaurirti e pensare chissà che cosa, conosci qualcuno e divertiti!»
«Qualsiasi cosa sia, mi fa schifo.»
«Come ogni cosa che mi riguarda, Jay.» concluse Brad con pacata irritazione, stampandosi in viso un sorriso di circostanza per poi lasciare il ragazzo in mezzo alla stanza raggiungendo uno dei tanti uomini cartolina fatti di apparenze ma, anche, di “segreti” marchiati di trucco nero sulle palpebre.
Strinse gli occhi per allontanare da sé l’agitazione e il disgusto e si allontanò dal salone, raggiungendo le scale che portavano al piano di sotto dell’appartamento: il piano più nascosto, quello senza vetrate.
Camminò incerto, mischiandosi tra quella gente. Odiava far parte di quella calca, ma ormai ci era dentro con tutte le scarpe.
Vide le coppe di champagne abbandonate su un grande tavolo moderno in laminato e cercò senza successo una bottiglia ancora piena: avrebbe bevuto, così per passare la serata con più serenità. Senza alcun motivo posò gli occhi su un ampio divano illuminato da un curioso lampadario moderno che scendeva a pioggia dall’alto e dirigendosi in quella direzione, si accorse delle persone sedute. Non ci aveva fatto caso inizialmente, ma su quel divano c’erano uomini occupati a chiacchierare distintamente, fumando sigarette; qualcuno abbracciava il proprio “segreto” muto e silenzioso e proprio mentre il suo sguardo venne catturato da due occhi neri e vuoti di uno di questi, la sua attenzione, in automatico, si spostò sull’elegante signore accanto a lui.
Lo stupore non gli fece accettare subito ciò che vide e si arrestò sconvolto. Lo shock superò di gran lunga la rabbia, perciò rimase impalato, muto, inchiodando con gli occhi suo padre.
George Hahn beveva champagne serenamente, chiacchierando in modo amichevole e del tutto informale mentre, con un braccio, cingeva avidamente le spalle di un ragazzino silenzioso e assorto.
Per minuti interminabili lottò con il suo cervello che, d’istinto, non riusciva a collocare suo padre in un posto neanche lontanamente paragonabile a quello in cui in realtà si trovava ma, poi, quell’immagine divenne una certezza.
L’incontro di sguardi avvenne irreparabilmente e George, inespressivo, non distolse gli occhi da lui neanche per un istante; apparentemente non sembrava stupito, ma il cuore in realtà aveva perso un battito. Si alzò, scusandosi con i suoi interlocutori dell’improvviso congedo e, rivolgendo un cenno a Jay, sparì dalla sala.
Prima con incertezza, poi con impazienza, lo seguì lungo un corridoio che separava la zona giorno dalla zona notte e non appena si trovò nell’ufficio privato, privo di illuminazione, del padrone di casa, la luce si accese e la porta si chiuse alle sue spalle.
«Cosa ci fai qui?».
La voce di suo padre era sempre la stessa: severa, impostata, dura.
Per un attimo gli parve di essere ritornato indietro, a quel giorno in cui quello stesso uomo lo aveva schiacciato senza esclusione di colpi.
Pensò alla serie infinita di circostanze che si vennero a creare dopo quel fatto e si accorse che ne era passato di tempo; si rese conto di non essere più quello di una volta. Si voltò, trovandosi davanti l’espressione arrogante che si aspettava, ma non si fece intimorire, anzi, lo imitò alla perfezione di rimando: «Cosa ci fai tu, qui!?»
«Non credo di doverti dare spiegazioni.» rispose inarcando le sopracciglia, con aria di superiorità.
«Beh! Neanche io.» concluse con un sorrisetto sarcastico, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni, appoggiandosi con le gambe incrociate alla scrivania. Nonostante il cuore battesse all’impazzata rimase calmo e irremovibile, fissandolo con aria di sfida.
«Io mi trovo qui perché conosco molti di quelli presenti. Mi hanno invitato, ma non ho niente a che fare con lo stile di vita di questa gente.» spiegò fingendosi estraneo.
«Vallo a raccontare a qualcun altro, George. Ti ho visto mentre abbracciavi quel ragazzo come fosse di tua proprietà.»
«Anche fosse, non credo tu possa giudicarmi, non sei proprio nella posizione visto il trucco che porti. Sembri una prostituta…»
«E tu un ricco pervertito. Non so chi è peggio.» lo interruppe senza andare per il sottile.
Seguirono momenti di impaccio in equilibrio tra l’intenzione di attaccarsi ancora e la voglia di scappare, ma George, con ironia, optò per la scelta meno saggia: «Quindi, il ragazzo coraggioso che è venuto a prenderti a casa e che io, sfortunatamente, non ho avuto il piacere di conoscere, alla fine ti ha ridotto ad una puttanella d’alto bordo.». Prima che potesse concludere la provocazione, si ritrovò gli occhi di Jay pericolosamente troppo vicini. Con uno scatto si era staccato dalla scrivania per raggiungerlo e sfidarlo: «Ti conviene tacere.» gridò puntandogli il dito in faccia «Quell’uomo non fa più parte della mia vita. Chi mi ha messo in questa situazione è uno come te.»
«Ti costringe, figliolo?» chiese con falsa preoccupazione «Pensavo che i ragazzini come te si vendessero spontaneamente.»
«Nessuno mi costringe…»
«Bene! Allora sono due le cose: o quel ragazzo con il quale non stai più ti ha ridotto in miseria o sei semplicemente un ipocrita arrivista. Mi aspettavo avresti trovato un’occupazione decente arrivato a questa età, invece fai la prostituta.» lo giudicò con estrema leggerezza.
«Sai cosa ho sempre ammirato in te? Sei un barrister anche nella vita privata, riesci ad attaccarti ad ogni cavillo pur di averla vinta, ma con me non attacca.» lo provocò per poi accusarlo: «Puoi offendermi quanto vuoi, ma una cosa è certa: hai umiliato, offeso e abbandonato tuo figlio di diciassette anni. Mi hai rovinato la vita e ho creduto per anni che tu fossi uno sporco omofobo incapace di ragionare e poi, alla fine, vengo a scoprire che invece non sei altro che un omosessuale represso che ha sposato una donna che, certamente, ha scopato per anni controvoglia e nel frattempo andava a caccia di giovani gay pagando il loro silenzio. Dio, quanto mi fai schifo!» esclamò alla fine digrignando i denti. La rabbia, fomentata dai ricordi che lentamente risalirono tutti in superficie, ridisegnò le linee del suo viso, rendendolo duro e spietato.
Izaya era stato in grado di cancellare i momenti di dolore causati dai suoi genitori, lo aveva reso felice ma rivedere suo padre aveva risvegliato il diciassettenne distrutto e mortificato che era stato, fortificato, però, dagli eventi amari che avevano costellato il resto della sua vita fino a quel giorno.
«Io conosco l’ambiente e avevo paura che tu potessi cadere in situazioni del genere. Per questo avrei preferito più un figlio malato che gay.». L’ultima frase farcita di ipocrisia e di dilagante ignoranza stizzì Jay che, però, non si lasciò perdere l’occasione di sferrare l’ennesimo colpo: «Certo! Quindi per farmi del bene hai preferito sbattermi fuori casa: sei un genio, cazzo!» ironizzò schioccando le dita e annuendo.
«Non ti ho mai sbattuto fuori casa, te ne sei andato tu.»
«Se non me ne fossi andato probabilmente avrei fatto una fine peggiore, sarei diventato come te: un omosessuale represso pieno di rancore e rabbia. Io credo, invece, che tu avessi solo la fottutissima paura che io potessi scoprirti mentre ti scopavi i culi dei quattordicenni.»
«Non parlarmi così, non ti permetto di rivolgerti a me in questo modo.» lo minacciò, puntandogli il dito contro. Era così adirato da riuscire a mutare completamente l’aspetto del suo volto; se avesse potuto l’avrebbe ucciso pur di tappargli la bocca.
Gli occhi intrisi di odio di George si scontrarono contro quelli freddi di Jay che, preso da una calma quasi disumana, si lasciò andare ad una risata provocatoria: «Paparino, hai rinunciato ai tuoi diritti di padre da un po’. Non sei nella posizione di dirmi quello che devo o non devo fare. Io so solo una cosa, però: non sono più quello che ero. Se da bambino avessi saputo tutto ciò, probabilmente ne sarei rimasto scioccato, oggi, invece, mi stupisco di me stesso perché non solo non mi sento meravigliato, ma ho quasi voglia di andare a trovare mia madre.»
«Non minacciarmi, Jay. Non metterti contro di me, ne pagherai le conseguenze.» sussurrò tremante dalle collera.
«Sai una cosa, George?» si avvicinò al suo orecchio per poi sussurragli: «Non me ne frega un cazzo. Se vuoi uccidermi mi fai solo un favore.».
Uscì dalla stanza prima che il padre potesse rispondere e non appena giunse nel salone principale vide Brad con aria trionfante scrutarlo tra la folla.
Inizialmente non capì cosa volesse significare quello sguardo, ma poi la cosa divenne fin troppo chiara: Brad sapeva che alla festa ci sarebbe stato suo padre.
Non appena questa idea lambì la sua mente, ebbe la conferma di quanto fosse meschino. Quell’uomo era un mostro e sapeva di lui più di quello che aveva sempre lasciato intendere; Jay capì quanto potesse essere pericolosamente macchinoso solo dall’espressione divertita che aveva sul volto.
Li aveva fatti incontrare volutamente a quella festa specifica, dove avrebbe potuto marchiarlo così da far capire al padre ciò che in realtà era diventato suo figlio, solo per il gusto di complicargli la vita, ferirlo a morte e, magari, metterlo ancora di più nelle condizioni di aver bisogno di lui.
Ma le sue aspettative furono tradite perché Jay, con un cenno della mano, lo invitò fuori a parlare.

***
 
Lo raggiunse con cautela, togliendosi dalle labbra il sorriso che pocanzi aveva lasciato scorgere senza nasconderlo.
Jay lo aspettava appoggiato all’auto, intento a fumare una sigaretta: sembrava calmo, paurosamente controllato.
Il ragazzo che aveva difronte lo inquietava a volte: riusciva ad essere così influenzabile eppure tremendamente enigmatico.
Non sapeva cosa aspettarsi ma in quel momento colse un sentimento che fino ad allora non si era mai palesato. Nella foga di possederlo e giocare bene le sue carte non aveva mai pensato all’eventualità che, a lungo andare, avrebbe potuto affezionarsi seriamente a lui.
«Dimmi.» lo affiancò. Stavolta era Brad quello incerto e il fatto che Jay fosse in strada quieto e apparentemente impassibile lo impaurì; più che lui, la cosa che maggiormente lo spaventava era ammettere di provare qualcosa, tanto da capovolgere i ruoli e renderlo l’unica vittima del rapporto che con tanto affanno aveva instaurato.
Jay si voltò, manifestando apertamente il suo irremovibile sangue freddo; una strana luce gli riempiva gli occhi verdi. Le labbra rosse, infuocate dalla conversazione con suo padre, si mossero lentamente per formulare le parole che Brad aveva appena scoperto di temere: «Sparisci dalla mia vita.».
Era categorico, sicuro e terribilmente disperato; non di una disperazione angosciata, ma terribilmente disinteressata.
Jay non aveva più paura, aveva accettato il suo cambiamento: ormai era vuoto, privo di qualsiasi sentimento, non era neanche più irritato: era morto con Izaya.
«Sapevo che ci sarebbe stato tuo padre, per questo ti ho portato qui. Volevo aiutarti a prenderti un’ultima soddisfazione.»
«Bugiardo.» lo accusò senza alcun rancore «Non mi importano le tue ragioni, anche perché sei così abituato a mentire che ormai non te ne rendi neanche più conto. Non sono arrabbiato con te, voglio solo liberarmi di te.».
«Jay…» lo stava perdendo e solo Dio poteva immaginare quanto tutto questo gli facesse male. «Non te ne andare.» lo implorò con la voce rotta in gola. I suoi giochi stavano crollando, ciò che aveva costruito era finito sotto i piedi di Jay che, implacabile, calpestava ogni cosa.
«Non farti vedere mai più.» concluse spegnendo la sigaretta sull’asfalto.
Si voltò, staccandosi dall’auto, e cominciò a camminare, ad allontanarsi sicuro da quella casa e da quei due luridi uomini che gli avevano rovinato la vita.
Brad, di colpo, perse ogni contegno e gli corse dietro per poi afferrarlo dalla giacca: «Non te ne puoi andare. Tu non puoi lasciarmi.».
Jay si divincolò, voltandosi verso di lui senza neanche fermarsi: «Sparisci.» sussurrò.
Brad lo lasciò andare, immobilizzato dagli occhi trasparenti e freddi che lui stesso aveva valorizzato pesantemente. Il trucco ormai era sfatto, in ogni senso.
«Va bene, vaffanculo!» urlò furioso, scuotendo le mani senza alcuna logica: «Volevo aiutarti. Mi stai abbandonando, Jay. Mi stai lasciando?».
Non ricevette risposta e non appena si accorse che urlare non sarebbe servito a niente smise di farlo, continuando a scrutare la figura sicura e fiera dell’unico ragazzo che avesse mai desiderato fino alle viscere sparire all’orizzonte senza mai voltarsi.




Angolo Autrice.
Rieccomi. Spero che questo capitolo vi sia paiciuto e aspetto con ansia i vostri commenti. *è curiosa*
Non ho molto da dire, solo che sto scrivendo tanto e sono felice perché sto riuscendo a completare una storia che anche se ho pubblicato pochi mesi fa c'ho sul groppo da un anno.
Scrivere di Jay non è un peso e mi mancherà quando sarà finito, spero mancherà anche a voi, ma ultimare la storia è diventata una questione di principio U_U
Voglio ringraziare Bijouttina che so che farà i salti di gioia (ma non cantare vittoria troppo presto), Babbo Aven con il quale riesco perfettamente a scambiarmi opinioni su questa storia con totale schiettezza, LadyWolf che sa come finisce :P, Elsker che è sempre la mia piccolina adorata e che riesce sempre a stupirsi ad ogni capitolo e che mi ha consigliato questa citazione che ho scelto di inserire all'inizio di questo capitolo, DarkViolet92 che c'è sempre, Ghost che è una delle prime a sapere come finisce ma legge lo stesso con amore, Julie che proprio adesso è ai capitoli idilliaci di Izaya e ancora non sa che è morto e quando ci arriverà mi ucciderà (ho distrutto la sua ship) e poi voglio ringraziare chi è ancora all'inizio ma che arriverà alla fine, chi è sparito ma so che ritornerà: Mrs Burro, Fox, Ita, Nahash, SorellaGrimm e se dimentico qualcuno uccidetemi, e tutti quelli che leggono silenziosamente o che mi fanno sapere in altro modo cosa ne pensano: Oxymoros ad esempio :P
Ringrazio Moloko che legge e ogni tanto mi minaccia dicendomi: "ho delle cose da dire" e mi fa aspettare facendomi tremare le chiappette.
Grazie a WarHamster che mi sta dando una grande mano d'aiuto a sistemare la storia. Stiamo ancora ai primi capitoli ma presto correggeremo tutti gli scempi che ho lasciato per strada.
Grazie a tutti quelli che hanno inserito la storia nei Preferiti/Ricordati/Seguiti.
A presto.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Lullaby ***





“On candystripe legs the spiderman comes
Softly through the shadow of the blissfully dead
Looking for the victim shivering in bed
Searching out fear in the gathering gloom
Suddenly!
A movement in the corner of the room!
And there is nothing I can do
When I realise with fright that
The spiderman is having me for dinner tonight!”

Lullaby- The Cure 


 
 


27. Lullaby
 
Ci sarebbe andato.
Per ripicca o forse per prendersi una soddisfazione, aveva deciso di andare a casa di sua madre e dirle tutto.
Sarebbe entrato e una volta lì, davanti a lei, le avrebbe spiattellato in faccia ogni cosa. Gli avrebbe raccontato di suo padre, di se stesso, di tutti gli anni che aveva vissuto senza il suo appoggio; le avrebbe parlato di Izaya e di quanto lo avesse amato e avrebbe urlato tutto il suo odio per il destino che glielo aveva portato via e se lei avesse cercato, anche solo con uno sguardo, di sminuirlo o ignorarlo, avrebbe spaccato ogni cosa accusandola, scagliandole addosso tutto il suo disprezzo.
Il motivo che lo spingeva ad agire era sconosciuto anche a lui stesso, ma la voglia di urlare e di sfogarsi lo aveva reso prigioniero. Doveva tirare fuori la rabbia che sentiva crescere sempre di più.
Aveva voltato le spalle a Brad con freddezza eppure la collera aveva cominciato a montargli nello stomaco senza spiegazioni.
Riconobbe in ogni piccola cosa il quartiere nel quale era nato e cresciuto; camminò sempre più deciso, superando il muretto sul quale aveva scritto di suo pugno tutte le battute divertenti da ricordare che aveva condiviso con Chaz, calpestando la sgommata che aveva lasciato con la sua bici da bambino quando, sul marciapiede, non aveva calibrato abbastanza bene la velocità mentre suo padre lo rimproverava impaurito.
Si lasciò alle spalle ogni cosa, tranne una.
«Jay!».
Si fermò.
Niente l’avrebbe fermato, ne era certo, tranne lui.
Vide la sua sagoma avvinarsi con incertezza ma poté riconoscere perfettamente la sua andatura nonostante non fosse ancora chiara la sua immagine.
Non lo raggiunse, ma attese il suo arrivo sentendo scalciare qualcosa dentro. Dopo mesi provava qualcosa di diverso dal rancore.
Era vicino.
Non solo lo vedeva, ma riusciva a percepirlo con una forza tale da fargli perdere il fiato. Erano passati quasi quattro anni, eppure, Chaz sembrava sempre lo stesso: gli occhi neri senza alcuna ombra, le labbra ben delineate con un pizzico di sorriso imbarazzato. Occhi neri nel quale si era perso per minuti e minuti neanche troppo tempo fa.
«Come stai?» chiese Chaz stando a debita distanza, come se avesse paura di valicare un confine ormai troppo netto.
«Sto bene.» lo fissò con cautela e incredulo; temeva di avere davanti un fantasma.
«Come al solito: è sempre la prima risposta che dai.» ironizzò con una punta di nostalgia, per poi avvicinarsi un po’ di più verso quel ragazzo così diverso nell’aspetto, nello sguardo, eppure così uguale nelle risposte e probabilmente nell’essenza: «Sono infinitamente felice di vederti, Jay.».
Una volta lo avrebbe certamente abbracciato, avrebbe corso verso di lui e l’avrebbe stretto con tutta la forza che aveva in corpo, adesso lo fissava incerto.
Cercava parole da dire, cose da fare per manifestargli ciò che sentiva dentro, ma rimase immobile.
«Sei ritornato a casa, alla fine?» chiese Chaz, convinto che fosse lì perché ci abitava.
Jay si ricompose e disgustato solo dall’idea, rispose categorico: «No. Non ci sarei mai ritornato.»
«Cosa ci fai qui, allora?» perseverò senza notare l’agitazione e l’insofferenza che pian piano prendevano possesso del corpo del suo vecchio amico.
Anni fa l’aveva lasciato lacerato, ma in procinto di rifarsi una vita; lo ritrovava consumato, disfatto, come il trucco che portava sugli occhi. Con un pizzico di soddisfazione pensò che Izaya l’avesse deluso, preferì non ostentare apertamente tale pensiero. Non era felice del fatto che Jay fosse triste ma che Izaya avesse sbagliato tutto.
«Non c’è più, Chaz. Izaya non c’è più. È morto un anno e mezzo fa.»
«Ah…» mormorò con un nodo in gola.
Capì che, in qualche modo, Jay avesse immaginato i suoi pensieri e così aveva preferito precisare prima ancora di sentirsi fare delle domande scomode, ciò lo fece stare male: era stato l’autore di tanta indelicatezza, si sentì come se avesse infierito direttamente sul corpo di Jay, percuotendolo crudelmente: «Mi dispiace.»
«Tranquillo, sono le cose della vita.» minimizzò senza credere neanche un secondo a ciò che stava dicendo.
«Sono cose che fanno male.» concluse Chaz fissandolo.
Lo guardò bene e si accorse di quanto quel ragazzo avesse occupato ogni singolo giorno sebbene l’avesse estromesso dalla sua vita.
Jay non si era mosso di una virgola, non si era avvicinato a lui come non si era scomposto. Ogni parola pronunciata dalla sua bocca pareva un pugno gelido in pieno stomaco ma la sua postura non era mai cambiata: stava dritto sulla gamba sinistra, con le spalle rigide e la testa leggermente rivolta altrove, come se stesse sempre sul punto di andarsene. Ogni tanto postava lo sguardo da lui e si inumidiva le labbra come se volesse fermare parole imprudenti.
Jay era bello e dignitoso tanto da metterlo in soggezione; Chaz non si vergognò di ciò che pensava perché dopo tanto tempo, nonostante i cambiamenti, ancora subiva il suo fascino, sentendosi sempre più attratto da quegli occhi limpidi che, diversamente dal solito, avevano qualcosa di più che lo rendeva incantevole, insostenibile.
«Mi dispiace per quello che è successo.» asserì con sicurezza sperando che Jay non riuscisse a leggere ancora nel suo cuore. Il dispiacere esisteva, ma avercelo davanti era la cosa più importante.
«Lo so che ti dispiace, ma…» si fermò, mordendosi le labbra per frenare sul nascere il sorrisetto divertito provocato dalle sue deduzioni perché, come al solito, aveva colto i pensieri dell’amico. Cambiò discorso: «Che hai fatto in questi anni?» chiese rilassandosi, incrociando le braccia.
«Niente di che. Mi sono iscritto all’University of Bath.»
«Bath!» esclamò inarcando le sopracciglia e annuendo in segno di approvazione. «E per il resto? Come stanno i tuoi?»
«Non ci sono al momento, sono in viaggio, torneranno tra un paio di giorni.» rispose imbarazzato, dondolandosi per non apparire impacciato; teneva le mani nelle tasche dei jeans per evitare che Jay potesse accorgersi del tremore: l’emozione cominciava a farsi sentire.
«Sono felice di averti visto, Chaz. Stammi bene…» si congedò con un’espressione compiaciuta e sorniona, servendogli un breve sorriso. Si voltò ma, prima che potesse fare il primo passo, l’altro ragazzo lo dissuase dal compierne altri: «Aspetta!».
Jay indirizzò ancora lo sguardo verso di lui e attese.
Passarono minuti interminabili di silenzio, quei tipici attimi che a contarli con l’orologio restano reali minuti ma che a misurarli con la sensazione che lasciano addosso sembrano manciate di eternità tutte concentrate in un istante.
Chaz esitava, così Jay non aspettò più: si avvicinò sicuro ma senza alcuna irruenza e gli afferrò il viso tra le mani per poi affondare la lingua tra le sue labbra, gustandole, mordendole mentre sfiorava con il pollice l’angolo della bocca per sentire attraverso il tatto stesso la sensuale ed avida lotta.
Sebbene si trovassero in strada Chaz non protestò, ma si lasciò accarezzare bramosamente e spingere piano piano verso casa sua.
Jay continuava a baciarlo insaziabile come se avesse trattenuto per anni un istinto che, prima o poi, sarebbe esploso e non appena furono abbastanza vicini al cancello si staccò da lui, lo afferrò per la mano e senza chiedere, senza pensare, si introdusse nel giardino dell’amico portandoselo dietro con prepotenza. Non voleva fermarsi per nessuna ragione al mondo, non erano più amici, non avevano più niente da perdere entrambi, così non gli diede il tempo neanche di negarsi qualora Chaz avesse voluto.

***
 
Le sue mani grandi lo stringevano con vigore e dolcezza, la sua pelle vibrava al solo contatto con le labbra dell’altro e la mente si liberava da ogni pensiero per lasciare spazio all’unica cosa che importasse davvero: “Io ti amo, Jay.”. Lo sussurrava a fior di labbra ogni volta che si ritrovava sul suo piccolo ragazzo, mentre si spingeva sempre più dentro di lui. Si muovevano insieme per sentirsi, per consumarsi, per afferrarsi, per godere di ogni impercettibile sfumatura. Jay annusava, percepiva ed indovinava ogni desiderio e così anche l’altro che, con smaniosa nostalgia, si appropriava di ogni suo respiro, intrappolandolo tra le labbra per poi portarlo ad infrangersi sulla bocca di chi l’aveva appena generato. Non c’era niente oltre il loro odore, oltre il loro desiderio, oltre il loro amore. “Ti amo anche io, Izaya”.
 
Scosse la testa per togliersi quel ricordo dalla mente mentre sfiorava con la lingua il disegno perfetto e carnoso delle labbra di Chaz; seguiva con le labbra ogni curva del suo corpo, da capo a piedi, per poi concludere il viaggio nel punto più desiderato, tenendogli le braccia immobilizzate all’altezza del petto, stringendogli i polsi in una mano.
Chaz era stordito, compiaciuto, incredulo. Felice.
I respiri affannati riempirono la stanza in penombra, alimentando l’impazienza; l’attesa divenne insostenibile in balia dei baci di Jay: «Sei qui, con me.» sussurrò Chaz divaricando le gambe per accorciare le distanze ancora un po’ e permettere a Jay di farlo suo con tutto il desiderio che avevano collezionato in quei minuti fatti di intenzioni, di promesse.
Si mosse adagio sul corpo accaldato che si concedeva apertamente a lui, e saggiando con la punta delle dita il calore intriso di piacere, lo fece suo con impulso strappandogli un lamento.

Sentiva la barba folta di Izaya contro la propria spalla quando lui lo ghermiva, voltava la testa per guardarlo di tanto in tanto mentre lo stringeva dentro di sé, per cogliere la smorfia di piacere che non si sarebbe perso per nulla al mondo: Izaya strizzava gli occhi e si mordeva le labbra mentre si muoveva stringendogli i fianchi, accompagnando i loro movimenti unificati e perfettamente simbiotici. C’era dolcezza e frenesia, amore e sesso, felicità e divertimento.
C’era Izaya.

Jay si mosse più aggressivamente per distogliere la mente, strinse gli occhi senza mai guardare Chaz. Si ammonì per questo e li riaprì per vedere la faccia di chi aveva sotto di sé mentre, con le ginocchia piantate al letto, infieriva senza riguardo nelle viscere dell’altro.
Sapeva con chi era e non l’avrebbe mai dimenticato, ma i ricordi lo torturarono fino a strappargli le lacrime che poi lasciò cadere con rabbia, stringendo i denti, nel momento in cui raggiunse l’apice, invadendo di piacere ogni recesso.
Si lasciò cadere supino sul letto, liberando dalla presa Chaz che, per tutto il tempo, non si era minimamente accorto della presenza di quei ricordi tra loro, non sapeva di essere una scappatoia neanche troppo efficace; sorrise appagato mentre scrutava il solito lampadario che simboleggiava l’abbraccio impossibile tra il sole e la luna e pensò che, per un volta, in realtà era accaduto, era stato possibile. Jay, invece, fissava il vuoto.

“Non mi lascerai mai, vero?”

“Non potrei mai lasciarti.”





Angolo Autrice
Coff Coff!
Ero un po' in crisi perché, effettivamente, non sapevo di essere capace di scrivere scene un po' più... insomma, avete capito.
Spero di essere stat efficace ma non volgare.
Voglio chiedere perdono stavolta a Babbo Aven. Forse questa scena non è stata il massimo per te XD ma doveva esserci perché, come hai potuto vedere, non è una mera descrizione di una notte di sesso, è una serie di cose. Quindi ti chiedo perdono: non lo faccio più :(
Voglio dedicare questo capitolo ad Oxymoros perché sì e anche a Julie. A Julie perché in questi due giorni mi ha fatto un regalo: ha deciso di portare avanti una crociata per mettersi in pari e mi ha riempita di recensioni stupende che non dimenticherò mai. Le sue reazioni mi hanno colpita molto e spero di non averla depressa troppo (sì, ha scoperto che Izaya è morto ): ).
Voglio ringraziare la splendida Bijouttina, LadyWolf e DarkViolet92 (grazie anche a te ma... spoilerizzi un sacco nelle recensioni T_T).
Ringrazio un sacchissimo dal profondo del mio cuore Elsker perché, non solo si è messa in pari, ma ha scritto delle recensioni cariche di amore per Jay ed è una consolazione per lui (per lui sul serio :P)... anche per me!
Grazie a tutti quelli che hanno inserito la storia nelle Preferite/Ricordate/Seguite.
Se qualcun altro volesse lasciare un commentino ne sarei davvero felice ^_^
Un abbraccio.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Final Masquerade ***


"Tearing me apart with
words you wouldn't say
And suddenly tomorrow's
a moment washed away
'Cause I don't have a reason
and you don't have the time
But we both keep on waiting for
something we won't find."

Final Masquerade- Linkin Park 


 
 



28. Final Masquerade
 
 
Lo aveva usato inizialmente. Forse per scaricare la rabbia o semplicemente perché gli serviva qualcuno di affidabile che l’avrebbe sfiorato con amore.
Jay si sentiva sporco e Brad aveva lasciato le sue impronte su di lui.
Aveva permesso ad un uomo incapace di provare emozioni di toccarlo e di abusare della sua inadeguatezza. Quando faceva sesso con Brad non aveva niente a cui pensare, a parte il disgusto che gli lasciava addosso; cosa funzionale al suo reale scopo: dimenticare Izaya.
Chaz lo aveva sfiorato, baciato e accolto dentro di sé senza usarlo, aveva goduto nel vederlo sciogliersi nel suo piacere. Avevano fatto l’amore tutta la notte, fino alla mattina e, lentamente, Jay era riuscito ad abituarsi a lui; a poco a poco aveva messo da parte il ricordo di Izaya e aveva finalmente visto e percepito l’emozione di quell’atto d’amore così trasparente da indurlo a pensare di aver sbagliato veramente tutto.
Se si fosse dato il tempo di riprendersi, senza donarsi a Brad solo per autodistruggersi pur di non sentire la nostalgia dei sentimenti con il quale Izaya usava invaderlo, molto probabilmente, con il tempo, avrebbe trovato qualcuno come Chaz a leccare le sue ferite.
Accanto a lui c’era un ragazzo che l’aveva sempre amato e si chiese se davvero meritasse quell’amore, se fosse all’altezza di beneficiarne alla luce di ciò che era diventato.
Aprì gli occhi accecato dal sole e solo allora si accorse che Chaz non era più nel letto.
Si lasciò andare ad un sospiro, avvertendo il loro odore non totalmente consumato dalle ore passate.
Si sedette sul letto, stropicciandosi gli occhi stanchi e dopo qualche secondo si alzò e si diresse, ancora nudo, verso la scrivania sul quale aveva studiato per anni in compagnia del suo unico amico.
Alcune cose non erano mai cambiate: i post-it con le citazioni più belle delle canzoni, i volantini di tutte le feste alle quali erano andati insieme, la cornice nella quale c’era sempre stata una loro foto insieme, seduti sul solito muretto; l’afferrò e si accorse che quella foto non c’era più.
Al suo posto c’era un’immagine di una ragazza sorridente, con lunghi capelli neri ed un sorriso aperto e solare.
Contrasse la fronte nel tentativo di capire chi potesse essere e pensò che se avesse cercato altrove l’avrebbe scoperto.
Depose velocemente la foto dov’era come se scottasse e guardandosi intorno nervosamente udì la voce di Chaz fuori dalla stanza: parlava a bassa voce in modo da non farsi sentire.
Jay aprì la porta e sbirciò lungo il corridoio dove vide l’amico seduto sul pavimento, impegnato in una telefonata. Per i primi momenti non riuscì a sentire le parole né a capire il discorso, ma qualcosa di inequivocabile lo stordì tanto da costringerlo ad entrare nuovamente nella stanza, chiudendo la porta senza fare rumore: «Julia, sì amore, ti chiamo dopo. Tranquilla!».
Una volta dentro, Jay cominciò a camminare avanti e indietro per tutta la stanza, scompigliandosi i capelli, tormentandosi le labbra, stropicciandosi gli occhi come se volesse convincersi di aver inteso male ciò che, invece, era chiarissimo.
Dopo poco Chaz ritornò in camera; non si aspettava di trovarlo sveglio né in piedi e imbarazzato della sua nudità così apertamente ostentata, prese da terra i pantaloni del ragazzo per poi lanciarglieli contro con un sorriso: «Vestiti!»
«Ti imbarazza vedermi nudo?» chiese Jay ancora stordito.
«No, è che…»
«Sono l’unico uomo che hai visto nudo.» stabilì con sicurezza.
Chaz rimase per qualche secondo in silenzio, senza sapere cosa avrebbe potuto rispondere.
«Non sei abituato a vedere un uomo nudo perché stai con una donna, Chaz.» lo accusò con delusione e con una calma tale da renderlo incapace di rispondere con prontezza. «Ti sei frenato, hai soffocato ciò che sei, giochi a fare l’eterosessuale felice con una vita perfetta accanto ad una fidanzata inconsapevole. Ti stai prendendo gioco di lei, di te stesso. Ti sei preso gioco di me.» continuò monocorde fissandolo con insistenza negli occhi.
«Non è così semplice…»
«È più chiaro di quel che credi.»
«Chi sei tu per giudicarmi?» chiese Chaz inaspettatamente, rivolgendogli lo sguardo con disprezzo.
Jay raccolse i resti del suo vestiario da terra e senza dire altro cominciò a vestirsi.
«Non sono omosessuale. Pensavo di esserlo in passato ma mi piacciono le donne…»
«Mettiti d’accordo con il tuo cazzo, allora. Fai discorsi così infantili da farmi venire i brividi: “mi piace la fichetta, i pisellini mi fanno schifo.”» lo scimmiottò senza remore, dandogli le spalle mentre, con infinita calma, indossava i pantaloni.
«Non ci vediamo da quattro anni, cosa vuoi saperne di me?»
«Di te niente, ma sono abbastanza grande ormai da capire come vanno le cose.» lo disse con quella tipica rassegnazione dei disillusi. Lo guardò per qualche istante aspettando un’amissione a cuore aperto, ma quando vide che Chaz insisteva nelle sue illogiche convinzioni lo raggiunse d’un tratto, spingendolo verso il muro. Lo costrinse alla parete, toccandogli l’inguine con veemenza, insinuando le mani nei pantaloni: «Non ti piace? Dimmi che ti fa schifo ed io me ne andrò senza giudicarti.» gli chiese avvicinandosi a lui, sfiorandogli le labbra con le sue. Chaz rimase inerme, incapace di opporsi. Sentiva il respiro caldo di lui addosso, le mani sempre più avide, la bocca carnosa e morbida sulla sua e non appena la reazione a quel tocco si fece ovvia, Jay lo liberò di colpo, lasciandolo con un palmo di naso. «La risposta mi sembra chiara.» concluse raccogliendo la maglietta da terra.
«Sei diventato un fottuto stronzo.»
«E tu un gay represso, come uno di mia conoscenza.» lo additò con ironia, riferendosi a suo padre.
«Non hai pensato minimamente alla possibilità che le mie reazioni con te siano del tutto esclusive? Io sono stato confuso in passato, Jay… ti ho amato. Ti incontro di nuovo dopo anni, dopo aver sofferto per te e mi sono sentito spiazzato. Non andrei mai con nessun uomo al di fuori di te.»
«Non è così. Sono l’unico uomo con cui hai condiviso la tua reale natura e non appena sei sparito dalla mia vita hai perso l’unica cosa che ti tenesse con i piedi per terra. Eri deluso, amareggiato, avevi paura di confessare e hai trovato la via più facile non appena una ragazza ha dimostrato interesse nei tuoi confronti.»
«Cosa ti fa credere che sia andata davvero così?»
«Dimmi che ho torto.» lo intimò intrappolandolo nel suo sguardo categorico e deciso.
«Hai torto.» rispose con titubanza, negando.
«Bugiardo!» esclamò con un sorriso sarcastico stampato in faccia.
Era duro ma, ancora, non sapeva bene se intenerirsi di tanta insicurezza o indignarsi per la traboccante codardia.
Si sedette sul letto, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
Prima di sparire ancora dalla vita di Chaz avrebbe fatto qualcosa per aiutarlo: «È vero, sono diventato uno stronzo, ma ci tengo a te. Ti ho sempre pensato e ti ho immaginato libero e felice chissà dove, in compagnia di un uomo che meritasse il tuo amore e che ti amasse come sono stato amato anche io: senza paure, senza segreti.» disse con il sorriso di Izaya stampato nella sua mente; un sorriso così pieno da fare male. «Voglio il meglio per te e non so come dartelo, quindi mi limito a dirti l’ultima cosa: non avere paura. Essere omosessuale non è un delitto, non uccidi nessuno ad ammetterlo, anzi, uccidi te stesso se non lo fai. È un tuo diritto essere felice ed è un tuo dovere fare in modo di esserlo. Qualcuno sarà scontento, altri ti giudicheranno male ma tu hai il diritto di guardarti allo specchio e riconoscerti, se non lo farai avrai davanti sempre e solo il riflesso di un estraneo.» il suo tono di voce era rassegnato anche se consapevole e solenne.
«Cosa vedi tu, quando ti guardi allo specchio?» azzardò Chaz, incuriosito dalla trasformazione di Jay che, ormai, era più che palese.
«Uno che ha giocato male le sue carte, peggio di come lo hai fatto tu. Ma ho una cosa in più di te: so chi sono.».
Un relitto accasciato sul fondo del mare.
Si alzò e raggiunse la porta senza guardarlo.
«Sparirai dalla mia vita, Jay?»
«È solo uno sviluppo naturale delle cose, non prenderla a male.» minimizzò sparendo dietro la porta, lasciando Chaz a lottare da solo contro i suoi demoni. Se la prima volta l’aveva lasciato andare con qualche rimorso, stavolta, Jay sentiva di non poter fare nulla di più e capì che se non era in grado di pensare a se stesso non sarebbe mai stato capace di prendersi cura anche di lui.

***
 
Tutti avevano un segreto da proteggere, anche Jay ne aveva uno.
L’aveva difeso da Brad, da se stesso, se n’era preso cura in silenzio e l’aveva coltivato amorevolmente senza lasciarselo intaccare dall’efferatezza dei suoi gesti e dalla sua sporca vita.
Le pettinava i capelli ogni volta che andava, a lei piaceva; stava seduto sullo schienale della poltroncina rosa cipria dove lei trascorreva i tre quarti della giornata.
Emily si lasciava sfiorare i capelli ciocca dopo ciocca, anche se non aveva idea di chi fosse il ragazzo che la stava mettendo in ordine.
«Che cosa hai fatto oggi, Emy?» chiese Jay con dolcezza, guardando fuori dalla finestra della stanza arredata in modo spartano ma accogliente.
«Ho pensato.»
«A qualcosa di bello?»
«Ai fiori di loto.» rispose con un sorriso consapevole ma gli occhi persi nei suoi pensieri.
«Sono belli i fiori di loto.»
«Qualche giorno fa, Charles mi ha regalato una bellissima stampa cinese con un fiore di loto dipinto.» disse soltanto, senza modificare il tono di voce incerto, simile a quello dei bambini che non sanno ancora parlare e che cercano le parole per rendere l’idea di un pensiero troppo complesso per le loro capacità. «Sai cosa significa il fiore di loto?»
«No, non lo so. Dimmelo tu.»
«Significa: rinascita.» spiegò pacatamente. «Si dice che gli uomini primitivi, stupiti dal risorgere del fiore dal fondo dei corsi d’acqua inariditi dalla mancanza di pioggia, lo considerarono simbolo dell’immortalità e della resurrezione. Il Loto è capace di nascere e crescere dal fango rimanendo sempre candido e puro, dalle tenebre oscure riemerge alla luce e rimette ordine nel caos.».
Jay pensò ad Izaya senza un preciso motivo e si accorse che cominciava a ricordarlo davvero troppo spesso e, sorprendentemente, non faceva più così male. Gli faceva bene o, forse, era proprio Emily a farlo stare bene.
La madre del suo unico amore aveva perso ogni ricordo e Jay non seppe cosa potesse essere migliore: perdere i ricordi o morire lentamente per la smania di soffocarli.
«John.» lo chiamò come era solita fare.
Izaya se n’era preso cura arrendendosi al fatto di essere diventato un estraneo, Jay avrebbe fatto la stessa cosa: l’avrebbe accudita diventando semplicemente John.
«Dimmi, Emy.»
«Non so, ma… c’è qualcosa che mi manca. Mi sento triste. Forse perché Charles non è qui.»
O forse perché, anche se non lo ricordi, Izaya non è più qui.
«Può essere. Anche io mi sento triste per gli stessi motivi. Ti manca l’uomo che ami, anche a me manca la persona che amo.»
«Dopo di me hai trovato qualcuno da amare?»
«Sì. Dopo che mi hai lasciato per Charles ho trovato qualcuno.»
«E dov’è adesso?».
Nonostante l’assecondasse in ogni cosa, fingendosi un suo vecchio amore, nascondendogli il fatto che Charles fosse morto da anni e che, quindi, non esisteva più, desiderava parlargli di Izaya. Non l’aveva più fatto con nessuno.
«Adesso non c’è più. Io amavo un uomo straordinario che mi ha dato tutto; si chiamava Izaya, e perdendo lui ho perso me stesso, è come se non fossi adatto a questo mondo. Ho continuato a vivere convinto che non esistesse più un amore degno di essere vissuto e ho fatto troppi errori, tante scelte sbagliate e adesso non sono più niente. Non sono neanche più un uomo capace di provare sentimenti.».
Emily pianse silenziosamente come se tra quelle parole esistesse qualcosa che li univa.
In realtà condivideva davvero tutto: aveva perso suo figlio senza averne coscienza e anche lei aveva perso l’amore della sua vita; poteva comprenderlo appieno nonostante non se ne rendesse conto lucidamente. «Sono convinta che tu sia come un bellissimo fiore di loto. Se pensi che ci sia una persona degna di essere amata, amala. Non sentirti come se non fossi in grado di provare qualcosa perché ogni uomo, anche il più cattivo, cerca l’amore. È un bisogno, una necessità fisiologica; non chiudere le porte, tu puoi rinascere anche da un corso d’acqua inaridito e bruciato dal sole».




Angolo autrice.
Ciao! Ringrazio tanto tanto Elsker alla quale dedico questo capitolo. Babbo Aven e Bijouttina alla quale dovrò regalare un camion di fazzoletti. Ringrazio Julie e Sorella Grimm per le crociate per mettersi in pari e Oxymoros per la sua luuuuuunghissima e bellissima recensione. Ringrazio DarkViolet dicendole grazie per avermi scritto una recensione priva di spoiler XD. Ringrazio Hime per avermi regalato un numero tondo, Emide per avermi sostenuta e WarHamster per avermi dato il suo punto di vista sull'incipit che, finalmente, ho partorito. Grazie a tutti quelli che leggono questa storia e che l'amano. Grazie a Ghost e a Mrs Burro. Grazie a tutti quelli che si stanno mettendo in pari e a chi ha iniziato da poco. Grazie di tutto tesori *oggi è romantica*.
Grazie a chi ha messo la storia nelle seguite/preferite/ricordate.
Un abbraccio.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Volcano ***


"Don't hold yourself like that
cause You'll hurt your knees
well I kissed your mouth, and back
But that's all I need
Don't build your world around 
Volcanoes melt you down

And What I am to you is not real
What I am to you, you do not need
What I am to you is not what you mean to me
You give me miles and miles of mountains
And I'll ask for the sea."

Volcano- Damien Rice 


 
 


29. Volcano
 
 
Brad l’aveva distratto per molto tempo dalla sua vita, infatti, rassettando la camera da letto del suo appartamento si rese conto di non averla mai lasciata, neanche per una notte.
Aveva dormito a casa di Brad innumerevoli volte, ma era sempre ritornato senza sentire il peso dell’assenza di Izaya, stavolta lo sentiva: sparita la fonte principale delle sue distrazioni, il ricordo dell’uomo che amava ritornò pienamente.
A volte si sentiva coccolato, altre avrebbe voluto scappare ma mai si sarebbe distaccato da quella casa, nonostante facesse male. Avrebbe fatto di tutto pur di tenerla ed era arrivata l’ora di mettere in ordine la sua vita.
Si accoccolò sul divano, sorseggiando una tazza di tè caldo davanti alla tv. Aveva cenato da solo evitando di pensare troppo, aveva fatto la doccia distogliendo l’attenzione da ogni piccola cosa: viveva distrattamente pur di reggere la nostalgia che stava sempre in agguato, pronta ad assalirlo.
I colpi vigorosi ed insistenti alla porta di casa lo risvegliarono dal pericoloso stato di sovrappensiero che lo aveva reso un inconsapevole prigioniero; aveva abbassato le difese e lo aveva pensato ancora, senza accorgersene.
Si alzò dal divano ancora stordito, sorpreso dalla capacità dei ricordi di insinuarsi riuscendo a non farsi percepire e aprì la porta.
«Devo parlarti.» esordì Brad senza, però, riuscire a finire la frase perché Jay, già alla prima parola, gli aveva chiuso la porta in faccia.
Strinse i denti per non far caso all’umiliazione e ricominciò imperterrito a richiamare la sua attenzione, bussando sempre più impetuosamente: «Ti devo parlare, Jay. Non me ne andrò di qui finché non avremo parlato.»
«Vattene. Non aprirei neanche se arrivasse un terremoto, preferirei morire sotto le macerie.».
La voce di Jay, al di là della porta, giunse pacata, annoiata ma categorica. Brad capì che non c’era molto altro da fare, se non essere sincero per la prima volta nella sua vita: «Non aprirmi, ma devo dirti delle cose.» si fermò per un istante, vergognandosi di ciò che stava facendo. Pensò fosse patetico lanciarsi in una dichiarazione d’amore fuori dalla porta di qualcuno, ma era l’unica sua possibilità e avrebbe dovuto giocarsela al meglio.
«So di aver commesso degli errori e di essere stato meschino, ma sappi che tutto ciò che ho fatto, all’inizio, era per interesse nei tuoi confronti, poi per amore, forse. Non so! L’unico mio scopo era quello di tenerti con me. So che sono un uomo inamabile e ho sempre creduto che servisse metterti all’angolo per costringerti a provare qualcosa per me. Volevo diventare l’unico sul quale tu potessi contare e ho messo in pratica ciò che ho imparato in questi anni, senza rendermi conto che tu sei diverso da tutti gli altri. Non meritavi ciò che ti ho fatto; tu meriti la parte più sincera di me, non quella che fa calcoli pur di…» dovette fermarsi perché Jay aprì la porta d’improvviso.
Rimase incredulo e non appena vide gli occhi del ragazzo capì quanto gli era mancato. Soffocò un lamento di infinito dispiacere per ciò che aveva fatto: era sincero.
«Non ho aperto la porta perché mi hai convinto, ma perché odio queste scene patetiche sul pianerottolo di casa mia. Puoi continuare il tuo monologo dentro.» concluse scostandosi dall’uscio, invitandolo ad entrare.
Brad varcò la soglia incerto, guardandosi intorno, sentendosi un estraneo e, in qualche modo, lo era davvero.
Jay chiuse la porta e sedendosi sul divano dal quale si era alzato contro voglia prese la tazza di tè e lo fissò: «Parla!»
Imbarazzato, cercò una posizione che potesse proteggerlo dalla freddezza del ragazzo, così scelse di sedersi sulla poltrona difronte a lui, poggiando i gomiti sulle ginocchia.
«Dicevo… non lo so che stavo dicendo. Il punto è che mi dispiace. Mi sono accorto di aver sbagliato con te e vorrei dimostrarti che anche io posso cambiare. Posso cambiare per te, Jay.» promise con le lacrime agli occhi.
Di fatto era pentito, ma i suoi trascorsi lo rendevano il più brillante tra gli attori; non lo convinse pienamente. Così, posando la tazza di tè sul tavolo per darsi il tempo di pensare, lo squadrò per qualche istante per capire se davvero credesse in ciò che stava dicendo.
«Sai cosa penso? Questa tua presa di coscienza ti fa onore e credo che tu possa avere le capacità di costruirti un futuro diverso, certamente più edificante, ma lontano da me. Quando ti ho detto che con me avevi chiuso ero sincero, ero convinto… sono convinto.»
«Ma hai sentito cosa ho detto?» chiese svilito: «Io ti amo. Sono qui per dirti che voglio cambiare e voglio farlo con te. Sei stato tu ad innescare questa cosa e adesso non puoi abbandonarmi, devi aiutarmi a diventare un uomo migliore…»
«Mi hai preso per uno psicanalista?» chiese fulminandolo con gli occhi.
«Ti prego di non fare l’ironico.»
«Perché dovrei essere così gentile con te? Non mi pare che tu abbia mai rispettato una mia esigenza.»
«Dici di provare disgusto nei miei confronti e poi ti riduci come me?» domandò con calma dopo essere stato travolto dallo straripante sarcasmo di Jay. «Se tu fossi diverso da me non mi tratteresti così. Ti sto chiedendo di aiutarmi. So che non lo merito ma non ripagarmi con la stessa moneta, sarebbe molto più vendicativo, da parte tua, se mi trattassi con compassione, con generosità. Innanzitutto capirei ancor meglio la differenza che intercorre tra te e me.»
«Sei bravo con le parole, come sempre.» si complimentò a fior di labbra.
«Sono sempre stato bravo con le parole, con i fatti sono un disastro ma vorrei imparare a parlare meno e a fare qualcosa di più… per chi amo.».
Il ragazzo sospirò stancamente: non credeva ad una sola parola; ma i suoi occhi si persero di nuovo e senza consapevolezza diede voce ai suoi pensieri con aria malinconica: «Conoscevo uno che era l’esatto opposto. Parlava poco, il più delle volte diceva stronzate per puro gusto, per divertirsi, ma poi prendeva la mia vita e la rendeva migliore. Con i fatti non con le parole. Tu mi chiedi di fare quello che quest’uomo ha fatto con me ma c’è qualcosa che manca: l’amore. Io non ti amo, Brad. E non ti amerò mai perché…» si fermò stringendo i denti, come se il dolore stesse prendendo sempre più piede dentro le sue vene, ma poi quello stesso dolore fu un balsamo che lo guarì dalla convinzione di non aver più nessun sentimento nel suo cuore: «Non ti amerò mai perché il mio amore è già riposto in mani sicure. Io amo disperatamente, incondizionatamente un altro uomo. Non c’è posto per te.».
Quelle parole furono una liberazione. Non se lo sarebbe mai aspettato, ma ammettere di non essere totalmente privo di sentimenti lo fece sentire forte: non provava più niente, ma amava ancora Izaya con tutta la sua anima, non poté fare nulla per frenarsi.
«Non sapevo stessi con un altro.» disse manifestando tutta la sua delusione, abbassando la testa sconfitto.
«Non ho detto che sto con qualcuno. Ho detto che amo un altro uomo, è diverso.»
«Ma quest’uomo non ti vuole?»
«Quest’uomo mi vorrà in eterno, ormai. Come lo vorrò io… è morto.» concluse con un tono di voce assai strano: nonostante il contenuto delle sue parole fosse devastante, la voce era sollevata, come se avesse raggiunto una dolce rassegnazione nel quale si sarebbe cullato per il resto della sua vita.
Brad lo guardò attonito, confuso da quella rivelazione sciorinata a brucia pelo con arrendevole delicatezza, quasi disarmante e così dolorosa da togliergli le parole di bocca.
Tutto avrebbe pensato, tranne che il demone ricalcitrante che viveva sotto la pelle di Jay fosse il frutto di una mancanza così devastante. Aveva avuto tra le mani un uomo demolito dalla perdita e perfino lui riuscì a pentirsi di tutto quello che gli aveva fatto.
Jay riuscì a percepire i sensi di colpa di Brad investirlo con una forza sorprendente e rimase colpito dal suo sguardo smarrito, relegato al pavimento, che non trovava più il coraggio di destarsi e ristabilire il contatto visivo con lui.
“Non sentirti come se non fossi in grado di provare qualcosa perché ogni uomo, anche il più cattivo, cerca l’amore. È un bisogno, una necessità fisiologica; non chiudere le porte, tu puoi rinascere anche da un corso d’acqua inaridito e bruciato dal sole.”.
Non si diede molte spiegazioni sul perché, proprio in quel momento, le parole di Emily si fecero sentire forte e chiaro nei suoi pensieri e nonostante fosse in sintonia con lei su molte cose, su una era in totale disaccordo: non sarebbe mai rinato per amore, le sue porte erano sbarrate; se per ogni vita ci fosse stato un limite massimo di amore da provare, lui l’aveva raggiunto e superato con Izaya; le sue capacità di amare si erano consumate con la sua morte.
«Jay.» lo chiamò trovando finalmente il coraggio di guardarlo: «Torniamo insieme, ti prometto che cambieranno le cose. Sarò sincero e chiaro con te, ti aiuterò sul serio a sistemare la tua vita ma tu, ti prego, aiutami a sistemare la mia. Io ti amo.».
Quel sentimento così apertamente dichiarato suonò stonato detto da lui, ma per il resto non aveva nulla da obbiettare.
L’aveva odiato con tutte le sue forze, ma dovette farsi carico di una parte delle responsabilità circa la loro storia: se l’avesse trattato con meno astio e avesse cercato di rimetterlo in riga anziché lasciarsi affogare dalle sue pretese, probabilmente, sarebbero riusciti davvero a salvarsi vicendevolmente, trascinandosi in salvo.
«Parlami del tuo uomo, raccontami la tua storia. Voglio conoscerti davvero, ho bisogno di sapere.» chiese Brad con aria contrita.
Se non fosse stata la propria debolezza a convincerlo, non gliel’avrebbe mai raccontata.
Si sentiva così stanco di lottare contro ciò che provava che, d’un tratto, invitato da Brad, depose le armi e si lasciò andare poco per volta.
Aveva bruciato tutte le sue foto, tranne una: la prima.
Non la mostrò a Brad, provava per quell’immagine una gelosia inspiegabile tanto da costringerlo a difenderla dagli occhi di chiunque, compresi i propri, ma decise di fargli conoscere Izaya attraverso le sue parole, cominciando proprio dalla parte più bella della sua storia, quella della loro prima fotografia insieme affacciati al balcone della loro casa.
All’inizio fu titubante, come se non si fidasse a lasciare nelle mani di Brad confessioni così preziose, ma il bisogno di sfogarsi e di raccontarsi come non aveva più fatto lo convinse a fidarsi e raccontò tutta la sua storia.
Raccontò tutto di Izaya.




Angolo autrice.
Stavolta sarò brevissima.
Non vi nominerò uno per uno come sempre, vi ringrazierò tutti in egual modo perché, con questo capitolo siamo a -5 capitoli alla fine della storia.
Chi più presente, chi meno, siete stati comunque tutti importanti.
In cinque capitoli succederanno moltissime cose, compreso l'arrivo di un nuovo personaggio :P
Non odiatemi, ma non vi posso lasciare senza darvi un'altra piccola botta *_*
A presto!!!

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Winter Prayers ***




 


30. Winter Prayers
 
 
Come un corso d’acqua in piena lasciò scorrere le sue memorie, infrangendo gli argini, e Brad, seduto sulla riva di quel fiume di ricordi, ascoltò in silenzio ogni cosa sperando di non essere arrivato troppo tardi.
Aveva ascoltato la storia di un Jay diverso e che gli eventi avevano mutato in una versione decisamente più anaffettiva e distaccata: avrebbe voluto conoscere il vecchio ragazzo che solo le parole avevano ricostruito in quelle ore. Capì di essere stato anche lui la causa di tanta insofferenza nei confronti della vita e volle fare qualcosa per rimediare; innanzitutto fece attenzione a carpire da ogni parola il giusto significato, poi si lasciò andare alle sue reazioni, le più sincere. Parlarono tutta la notte di Izaya e di cosa la vita aveva riservato a Jay prima e dopo la sua morte. Brad lo accarezzò, lo consolò per ore, lo sostenne con tutto l’amore di cui era capace e solo allora, quando fu chiaro che quell’uomo si fosse realmente reso conto di quanto male aveva fatto, Jay si affidò alle sue mani.
Fecero l’amore, per la prima volta, con una tenerezza che gradualmente riuscì ad accomodare ogni ferita aperta. Non lo guarì del tutto ma lo fece sentire meno solo e lacerato. Brad aveva apertamente dichiarato il suo più profondo amore, chiedendo perdono e offrendosi come spalla: voleva aiutarlo e prendersi cura di lui, stavolta per davvero.
 
Si svegliò sentendosi più leggero e il fatto che Brad l’avesse toccato non suscitò alcun disgusto e, soprattutto, non pensò mai di voler scappare come invece aveva fatto dal primo giorno in cui gli aveva messo le mani addosso.
Si alzò con una vaga sensazione di serenità e sorrise pensando a quanto la vita potesse mettere in atto giochi davvero strani ed incomprensibili. Fino al giorno prima aveva odiato Brad con ogni cellula del suo corpo ed erano bastate poche ore per scoprire un uomo diverso, dedito all’ascolto, alla comprensione.
Udì rumori inconfondibili in cucina e capì che Brad stava preparando la colazione; una morsa allo stomaco lo incatenò al letto poiché provò la distinta sensazione che Izaya fosse ancora vivo. Non era più abituato a sentire rumori in casa ma cercò disperatamente di infilarsi in testa che quello in cucina non era il suo uomo, il suo amore.
«Buongiorno.» lo salutò imbarazzato una volta raggiunto e Brad, sorridente e stranamente a suo agio, lo omaggiò del suo sorriso più aperto: «Buongiorno a te, piccolo.».
Ancora non riusciva ad accettare di essere il suo “piccolo”, ma evitò di darlo a vedere troppo. «Come mai prepari la colazione?» chiese sedendosi sullo sgabello in prossimità della penisola.
«Tra poco vado a lavoro e non volevo svegliarti, così avevo pensato di lasciarti qualcosa di pronto.». Piazzò davanti a Jay un piatto con una colazione assai carbonizzata ma lo ringraziò ugualmente.
È il pensiero quello che conta.
«Sono stato bene con te, stanotte.» disse Brad con tono gentile. Dopo aver percepito una sorta di fastidio nei riguardi di tale esternazione, preferì cambiare discorso: «Puoi venire a cena a casa mia se vuoi. Immagino quanto possa essere doloroso per te stare in questa casa e, soprattutto, con un altro uomo.».
Brad artefice di tanta delicatezza sembrava più uno scherzo.
«D’accordo.»
«Dì la verità! Izaya era in grado di prepararti una colazione del genere?» chiese con una leggerezza tale da infastidirlo.
Per quasi due anni il nome di Izaya non era mai stato pronunciato con così tanta superficialità e provò rabbia nei confronti di Brad che osava tirarlo in ballo per sciocchezze del genere: «Lui faceva molto di meglio, ma ti chiedo di evitare di tirarlo fuori per cose così futili o anche solo per fare stupide battute.» fu lapidario.
«Credo che continuare a dargli questa importanza sia deleterio, Jay. Non voglio affatto deprezzarlo ma è morto, non c’è più e conoscendo il tipo…»
«Tu non sai niente di lui. “Conoscendo il tipo” un corno!» lo rimproverò.
«Mi hai parlato di lui per ore e ad ogni parola ho sentito il peso del confronto. Certamente era un bravo ragazzo ma temo che tu l’abbia idealizzato troppo.»
«Ma come cazzo ti permetti a dire certe cose?» sbottò alzandosi dallo sgabello: «Non provare neanche per un attimo a metterti a confronto, non hai neanche un mignolo degno di Izaya. Se avesse conosciuto uno come te l’avrebbe messo al tappeto dopo un nano secondo.» continuò avvicinandosi a lui, accrescendo il volume della sua voce che, sempre più adirata, lo mise all’angolo: «Quelli come te per sentirsi migliori tendono a distruggere ogni cosa buona intorno. È facile per una merda mettersi a confronto con la merda, riduci ogni cosa in niente pur di sentirti superiore. Izaya è una spanna sopra te…» non riuscì a finire lo sproloquio perché Brad sentendosi sotto pressione lo costrinse a tacere, piazzandogli uno schiaffo in pieno viso.
Dopo un primo momento di smarrimento il ragazzo lo fissò con odio, reggendosi la guancia dolorante: «Questa me la paghi.»
«Smettila di fare il bambino viziato. Se ci fosse stato qui Izaya…»
«Izaya non c’è e non nominarlo, cazzo!» urlò con le lacrime agli occhi.
Brad, fomentato dalla sua stessa frustrazione, prese Jay dal colletto della T-shirt e lo trascinò con forza fino al salotto per poi spingerlo a terra: «Hai detto bene, Jay: Izaya non c’è. Sei tu che ti ostini a rievocarlo ogni volta facendo sproloqui di mezz’ora sulle sue elevate doti morali. Parli al presente, lo difendi come se ne avesse bisogno ed io mi sono stancato. Se vuoi che io cambi veramente, se davvero, come mi hai promesso, vuoi aiutarmi ad essere migliore devi cambiare atteggiamento. Azzera ciò che c’è stato prima di questa notte una volta per tutte e guardami per come sono adesso. E smettila di provare rancore nei miei confronti, abbassa la voce quando parli con me.» lo intimò sovrastandolo.
Jay rimase inerme sul pavimento, fissando il vuoto: aveva esagerato.
L’argomento Izaya aveva letteralmente annullato ogni sua capacità di giudizio, si era adirato per niente e capì di aver sbagliato ancora. Si era ripromesso di non giudicare più così duramente Brad, ma l’aveva fatto.
«Hai… ragione.» ammise con vergogna, placando l’ira che ad ogni respiro si trasformò in senso di colpa: «Non meriti questo. Ti chiedo di perdonarmi.»
«Non posso risponderti adesso. Sono troppo incazzato e sì, Jay: sono ferito!» ammise per la prima volta.
Con estrema fretta indossò la camicia mentre Jay si alzava dal pavimento, afferrò la giacca e senza parlare uscì di casa, lasciandolo solo e macchiato dalla colpa.

***
 
Era un mercoledì come tanti, tranquillo e senza grandi programmi da mettere in pratica. La serata, stranamente priva di nuvole, continuava a procedere senza alcun affanno, ma sotto lo stesso cielo si consumano eventi diametralmente opposti e nonostante la calma di quel mercoledì, una ragazza sola si avvicinava all’Escape bar con aria imbronciata e a momenti incerta. Era vestita elegante, effettivamente sembrava adatta a quel luogo, ma nei suoi grandi occhi neri non vi era nulla di appropriato: nessuno scintillio d’impazienza tipico di chi era lì per divertirsi.
Mise piede nel locale trovando un ambiente particolarmente sereno e guardando la locandina che preannunciava la festa imminente del sabato e l’esibizione di Lulù, la drag queen più famosa di Soho, sospirò afflitta: le sarebbe certamente servita una serata come quella per dimenticare.
Fece una veloce panoramica del luogo e pensò di essere nel posto più giusto.
Thomas, il suo ragazzo, l’aveva lasciata in tronco costringendola ad uscire dall’auto; il suo ragazzo l’aveva abbandonata a Soho, di notte, senza più interessarsi a lei.
Inizialmente pensò che fosse stato solo un gesto di stizza e l’aveva aspettato nello stesso punto per quasi mezz’ora, ma non vedendolo tornare si era rassegnata.
Guardò le coppiette scambiarsi tenere effusioni sui divanetti illuminati da una fioca luce blu e decise di andare verso il bar. Forse avrebbe bevuto facendo una chiacchierata con il barista sperando fosse un tipo affabile ma non appena la sua attenzione fu catturata da altro, i suoi progetti cambiarono.
Vide un ragazzo con l’aria imbronciata, seduto su uno sgabello, intento a bere una vodka. Aveva un’aria strana, quasi malinconica, sembrava fosse costantemente sul punto di piangere; guardava davanti a sé, dando le spalle al resto, come se vedesse chissà cosa tra le bottiglie allineate sulla mensola in cristallo del bar.
La ragazza lo squadrò per minuti trovando nei suoi occhi qualcosa di irresistibile e di sorprendentemente genuino: appariva come un essere puro incastrato in un contesto del tutto inadatto. Cercò di mettere a tacere quei pensieri così smielati e si avvicinò a lui adagio sperando di poterci parlare.
Sedutasi allo sgabello accanto a lui, inizialmente fece finta di niente incoraggiata dalla disattenzione del ragazzo che, con le labbra arrossate attaccate al bicchiere, persisteva nell’ignorare ciò che gli stava intorno.
Passò al setaccio ogni minimo dettaglio di lui: i bracciali ai polsi, l’anello raffigurante una carpa koi al pollice, i jeans stretti sulle cosce che terminavano a sigaretta, incastrati nelle sneakers nere con la cerniera al lato: era giovane e ogni dettaglio glielo suggeriva.
Lei aveva ventotto anni e lui sembrava un diciannovenne ma la cosa che più di tutto la colpiva era quel meraviglioso sguardo che indossava come fosse un indumento.
Guardò più di una volta il punto che rapiva l’attenzione di quel ragazzo non trovandoci niente di interessante, vedeva solo bottiglie di liquori.
«Scusa!» richiamò la sua attenzione.
Il giovane voltò lo sguardo verso di lei, senza muovere la testa. Lasciò solo all’occhio destro il compito di fissarla attraverso quel ciuffo che si ostinava a sfiorargli le ciglia nere e lunghe; rimase in silenzio, si limitò a scrutarla con le labbra porpora attaccate al suo bicchiere.
«Sono Beatrix…»
«Come La Sposa!» esclamò lui, interrompendo la sua presentazione.
Beatix non capì esattamente cosa volesse dirle e lo guardò come inebetita per qualche minuto. Il ragazzo non si scompose più di tanto e non ricevendo alcuna risposta puntò nuovamente il suo sguardo verso quel mondo immaginario che aveva il privilegio di vedere solo lui. Sentendosi frustrata dal fatto che ci fosse qualcosa di più interessante di lei, smise di parlare.
«Che ci fa una ragazza etero qui?» le rivolse finalmente la parola, facendola sobbalzare sulla sedia come una bambina alle prime armi.
Anche lei si fece la stessa domanda: Cosa ci fa un ragazzo etero qui?
La risposta fu ovvia: non era un ragazzo etero ed ecco spiegato tanto disinteresse.
«Ero triste, non sapevo dove andare e mi sono infilata nel primo locale che mi sono vista davanti! Diciamo che passavo di qua con la macchina e, d’un tratto, mi sono ritrovata fuori, contro la mia volontà.»
«Il tuo ragazzo ti ha mollata? Non fa sul serio, tranquilla!» disse con certezza.
Cosa lo rendesse così sicuro non fu chiaro, così glielo chiese direttamente: «Come puoi saperlo?».
Lui si voltò, per la prima volta, completamente, esibendo uno sguardo del tutto nuovo, non più triste, era sicuro di sé.
«Se avesse fatto sul serio non ti avrebbe lasciata davanti ad un locale per omosessuali.»
«Non capisco che vuoi dire.»
«È noto che una donna per consolarsi tende a cercare nuove avventure. Qui sarebbe impossibile.» affermò lui con convinzione.
«Non tutte le donne!» rispose infastidita ma, prima che potesse continuare, il ragazzo si avvicinò a lei con fare ammiccante, provocatorio, cosa che la imbarazzò tanto da costringerla a spostare gli occhi da lui.
«Visto?» concluse divertito.
«Cosa ti fa credere che io ci stessi provando con te?»
«Intuito femminile.»
«Sei un uomo!»
«Certo! Ma sono un uomo dotato di intuito femminile. Per questo penso che gli omosessuali siano evoluti: hanno i pregi di entrambi i sessi.» desunse con scherzosa supponenza.
Beatrix non trovò molto altro da dire, anche perché in qualche modo credeva che lui avesse ragione e, poco dopo, si ritrovò davanti il suo sorriso solare, mentre le porgeva la mano: «Mi chiamo Jay. Jay Hahn.»
Lei l’afferrò senza accorgersi che, nel frattempo, l’attenzione di Jay si era già spostata altrove.
Stringendogli ancora la mano si voltò per vedere chi fosse il destinatario di quello sguardo e scorse un uomo ben vestito all’entrata.
Jay inchiodò quell’uomo e Beatrix poté intravedere nei suoi occhi un misto di malizia e rassegnazione.
«Perdonami, Sposa. È stato un piacere conoscerti.» si congedò senza darle modo né tempo di replicare.
Lo ammirò allontanarsi tra la folla e sbirciò l’incontro tra i due con curiosità. Li vide abbracciarsi come due innamorati, osservando il contatto tra i due che diventava sempre più intimo e una sorta di delusione mista ad amarezza la pervase.
Vide “l’uomo ben vestito” toccare la pelle di Jay sotto la camicia e, poco dopo, come era arrivato, se ne andò portandoselo dietro docilmente.
Così Beatrix si voltò verso il bar e si ritrovò a guardare lo stesso punto che pocanzi aveva attratto così tanto il ragazzo che aveva appena conosciuto e in quel momento vide la stessa cosa che, probabilmente, anche Jay aveva visto per tutto il tempo: i propri pensieri materializzarsi come sogni.




Angolo Autrice.
Insisto nello scrivere angoli autrice brevi. Non perché non voglio ringraziarvi, ma perché mancano quattro capitoli alla fine di Jay e vorrei ringraziarvi tutti, per bene, nell'ultimo capitolo.
Vi ringrazio tanto per il sostegno, per le recensioni e un bacio a tutti quelli che hanno inserito la storia nelle Seguite/Preferite/Ricordate.
Spero vi sia piaciuto questo capitolo.
Al prossimo.
Un abbraccio.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Drawbar ***


 



31. Drawbar
 
 
Izaya era arrabbiato come non si era mai visto: stava in silenzio con i denti serrati davanti alla tv, tralasciando il resto.
Jay cercava di stargli distante pur di non rimanere vittima dell’esplosione che presto o tardi sarebbe avvenuta; stava relegato in cucina a preparare qualsiasi tipo di pietanza pur di perdere tempo e assicurare al proprio uomo il giusto periodo di mutismo che servisse a placarlo.
All’Escape avevano conosciuto Lee, un ragazzo omosessuale pieno di interessi e che aveva vissuto per buona parte della sua vita le stesse disavventure di Jay, per questo il ragazzo ne era rimasto affascinato e colpito. Avevano parlato per ore nel privè tagliando Izaya fuori dalla conversazione.
Lee aveva due occhi neri profondi e magnetici e parlava pacatamente, gesticolando di tanto in tanto per rafforzare qualche concetto o semplicemente perché amava ipnotizzare il proprio interlocutore: Jay ne era rimasto ammaliato.
Izaya, dopo aver sopportato un’ora di discorsi dai quali era stato sapientemente escluso, era uscito dal locale per una sigaretta e non era più tornato.
Jay si accorse della sua assenza dopo qualche tempo e l’aveva cercato con gli occhi impazienti senza successo. Mise il broncio, lamentandosi con Lee di essere stato mollato in tronco dal suo uomo; ovviamente, il moro lo aveva rassicurato dicendogli che l’avrebbe accompagnato a casa lui stesso dato che Izaya se n’era andato.
Una volta fuori lo videro seduto dall’altra parte della strada, in attesa, con una sigaretta intrappolata tra le labbra. Jay rimase pietrificato dagli occhi fiammeggianti del suo ragazzo che, in realtà, l’aveva aspettato fuori per tutto il tempo per non dover sorbirsi l’incontenibile entusiasmo di quella irritante conversazione.
Izaya si alzò, lanciando la sigaretta lontano da sé con una forza tale da far comprendere perfettamente la quantità di rabbia che aveva covato in quelle ore di attesa e prese Jay per un polso trascinandolo con sé, senza salutare, senza parlare; lo trascinò e basta, tenendolo accanto.
Aveva taciuto per tutto il viaggio fino a casa e una volta lì aveva proseguito nell’ignorarlo. A momenti era temibile, a volte spassoso soprattutto quando Jay gli rivolgeva la parola trovandosi in risposta uno sguardo fulmineo e nient’altro.
«Izaya, ne parliamo?» azzardò uscendo finalmente dalla cucina, pensando che il distacco fosse stato sufficiente.
Non ricevette alcuna risposta, così si era seduto sul tavolino difronte a lui, per catturare completamente la sua attenzione: «Mi dispiace se ho perso così tanto tempo con Lee senza darti retta, ma quel ragazzo mi somiglia così tanto che non ne ho potuto fare a meno. Volevo conoscere la sua vita…»
«Non mi pare di non avertelo permesso e non ti sto chiedendo di giustificarti.» rispose monocorde, voltando lo sguardo altrove.
«Sei geloso?» chiese con un sorriso beffardo stampato in faccia.
«No!» affermò di fretta, alzando leggermente il mento con fierezza.
«Mi stai facendo una scenata di gelosia? Anzi: La tua prima scenata di gelosia?» insistette addolcito dall’adorabile manifestazione d’orgoglio del suo uomo.
«Non ti dirò mai cosa devi o non devi fare, la vita è la tua anche se stai con me. Se a te faceva piacere parlare con Coso e sbattergli le ciglia in continuazione, sei stato libero di farlo e lo sarai sempre.»
«Sì chiama Lee, non Coso.» puntualizzò con un sorriso sarcastico: amava anche le sue scenate. «Non devi arrabbiarti. Anche se sei adorabile quando ti arrabbi, diventi il doppio della tua normale stazza e allarghi le narici come un toro.» lo canzonò non riuscendo ad affogare una risata scrosciante che lo costrinse a reggersi il ventre.
«Sai che sei irritante?» lo accusò guardandolo in tralice.
«Scusa, non ci posso fare niente. Ti amo così tanto che non riesco a vederti come un omaccione incazzato, ti vedo come un bimbo offeso.»
«Non sono un fottuto bambino.»
«Sì che lo sei…» lo agguantò dal braccio con forza per trarlo a sé senza contare che Izaya era almeno tre volte più grosso e si ritrovò a tirare senza alcun successo: non l’aveva smosso di un centimetro. «Dai, Izaya!!!» cantilenò per convincerlo.
«Piantala!» lo intimò con lo stesso tono di voce.
Prima che Jay potesse rispondere, il ragazzo lo trascinò verso di sé, facendolo accomodare sulle sue gambe: «In questo momento ti odio profondamente ma sappi che mai, in tutta la vita che verrà, ti priverò di qualcosa. Tu sarai sempre libero di fare quello che hai voglia, potrai rimanere affascinato da chi vuoi, potrai parlare liberamente con chi desideri ignorandomi come hai fatto oggi, ma promettimi che questo…» concluse indicandogli con il palmo della mano il petto, all’altezza del cuore: «Sarà sempre mio.»
«Te lo prometto.» garantì commosso.
«Bene!» chiuse gli occhi, come se si fosse levato un peso dal cuore: «Adesso, però… puoi andartene a fare in culo!» se lo levò dalle gambe, scaraventandolo sul divano lontano da lui.
Jay rise e sentì di amarlo ancora di più, proprio perché gli riusciva estremamente naturale.
Fu sempre difficile spiegare quanto, nel loro rapporto, la libertà germogliasse dall’indipendenza individuale a prescindere dal legame. Tutti gli altri avevano sempre fatto fatica a capire il concetto, dicendo che un rapporto di coppia non può mai, in nessun caso, assicurare la libertà totale, ma con Izaya era diverso perché riusciva ad essere autonomo nonostante fosse completamente unito a lui. Ed era proprio questo a renderli speciali.
 
Brad lo portò a casa propria, senza proferire parola durante tutto il viaggio.
Lo aveva portato via dall’Escape dicendogli che il litigio di quel mattino non aveva più alcun valore: lo aveva perdonato malgrado si sentisse ancora ferito.
Dopo aver puntualizzato la sua posizione ed aver ricevuto le scuse, era rimasto in silenzio fino a casa. Entrò nell’appartamento senza accendere le luci e, una volta dentro, Jay vide la jacuzzi piena d’acqua adornata da petali di rose rosse.
Non si sentì felice né sorpreso.
Voleva veramente dare un’altra possibilità a Brad ma quella scena non scatenò l’effetto che l’uomo aveva auspicato: rimase immobile guardando le bolle d’acqua dell’idromassaggio infrangersi al bordo e pensò di non avere nessuna voglia di fare un bagno romantico con lui.
Si risvegliò dai suoi pensieri non appena Brad cominciò a spogliarlo, baciandogli il collo. Si era ripromesso di non respingerlo, così lo lasciò fare cercando di reprimere ogni istinto che gli suggeriva di non farsi toccare.
«Ti amo, Jay.» sospirò tra un bacio e l’altro, godendo della pelle liscia e candida del suo piccolo ragazzo che, con gli occhi assenti, guardava fuori dal finestrone pensando ad altro, senza lasciarsi coinvolgere troppo dai baci e dalle carezze. Se avesse prestato attenzione a ciò che stava accadendo avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di levarsi le mani di Brad da dosso, ma non sarebbe stato corretto poiché l’uomo lo sfiorava con dolcezza e passione; con amore. E lui aveva promesso di accantonare il passato.
«Tu sei mio e di nessun altro. Mi appartieni e guai a chi ti tocca.» disse mordendogli il labbro e poco dopo lo privò di tutti i vestiti per poi adagiarlo nella vasca nel quale avrebbe continuato a possederlo.
Jay gli apparteneva. L’aveva comprato neanche troppo tempo fa.

***
 
Si svegliò la mattina dopo senza aprire gli occhi, se avesse potuto scegliere non li avrebbe mai aperti ma l’impazienza di andare via lo costrinse ad alzarsi ugualmente e realizzò che nulla era cambiato.
Brad non c’era e il biglietto sul tavolo parlava chiaro: “Ti ho lasciato trecento sterline sul tavolo. Divertiti oggi, ne hai tutto il diritto. Non è un pagamento, è un ringraziamento ed un modo per farti svagare un po’. Ti amo. Brad”.
Rassegnato prese quei soldi e li fissò assente: anche se Brad aveva scelto di cambiare, ancora voleva averlo, voleva assicurarsi di non lasciarselo scappare e Jay cadde ancora nella sua trappola.




Angolo Autrice.
Scusate, ho barato. Adesso siamo a -4. Non volevo prendervi per i fondelli ma ho scritto un capitolo enormemente lungo e ho dovuto dividerlo. Perdonatemi. Domani pubblico il prossimo che è praticamente pronto.
Un bacino a tutti e corro a scrivere!!
Grazie *_* Vi amo tutti.
Di più ai miei amori, però U_U
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Cheers Darlin' ***


"I die when he comes around
To take you home
I'm too shy
I should have kissed you when we were alone."

Cheers Darlin’- Damien Rice 


 
 



32. Cheers Darlin’
 
 
Thomas non chiamò più, segno che Jay si sbagliava, aveva fatto sul serio, e Beatrix non si prese neanche più il disturbo di cercarlo. Pensò che un uomo capace di lasciare una ragazza in mezzo alla strada sbattendola fuori dall’auto non meritasse alcun riguardo, ma la solitudine la ingurgitò in un solo boccone e la tristezza si fece più dura da sopportare.
Prese il pc accedendo al suo account facebook e si accorse che Thomas l’aveva già cancellata, modificando il suo stato da “Fidanzato” a “Single”. Non rimase stupita, quel gesto era palesemente da lui e consultando la propria bacheca si accorse che già dal mattino in molti l’avevano cercata, inondandola di messaggi e di promesse di appoggio. Di tutta risposta, anziché apprezzare, andò sulle impostazioni del suo account e cliccò su “disattiva il mio account”. Facebook, che sembrava fosse l’unico a tenerci, le dava un’altra possibilità. Esitò per qualche istante finché, decisa a porre fine a tutta quell’ipocrisia, flaggò tutte le impostazioni del caso e posizionando la freccia del mouse su “Conferma”, inserì la sua password per convalidare la propria identità e comparì la scritta che aspettava già da molti click:
 
Il tuo account è stato disattivato
Per riattivare il tuo account, accedi con l’e-mail e la password che usavi in precedenza. Sarai in grado di usare il sito come prima.
Speriamo che tornerai a trovarci presto.

 
Così mise fine a tutto, si chiamò fuori da quel mondo. Ogni suo ricordo, foto e stato svanirono in quell’istante pronti a ritornare a galla non appena avesse voluto. Facebook, più di Thomas, aveva tentato fino alla fine di tenerla con sé e si accorse di quanto le persone potessero essere così vili e incapaci di provare reale attaccamento a qualcuno, così come un semplice social network. L’amore disinteressato non sarebbe mai più esistito, ne era certa.

***
 
Uscì nel fine settimana, dopo giornate di solitudine a casa, tra una dormita, una sbornia solitaria e vecchi film: ritornò all’Escape.
Sull’autobus che la portava a Soho i suoi pensieri non fecero altro che prenderla in giro. Si disse continuamente che la scelta di ritornare a Soho fosse del tutto casuale: “perché lì ci si diverte. È il quartiere della vita notturna a luci rosse” si ripeteva.
Pensò che anche lei meritava di svagarsi e trovare qualcuno con cui passare qualche ora in totale leggerezza. Non appena finì di formulare il pensiero, le parole di Jay ritornarono a galla: “È noto che una donna, per consolarsi, tende a cercare nuove avventure...
Sì sentì decisamente patetica, ma scelse di non curarsene: voleva godersi una serata diversa poiché, ormai, non esisteva più per nessuno. Era sola.

 
Arrivò all’Escape vestita di tutto punto, sfoggiando un vestitino sfizioso color argento abbinato ai suoi inseparabili anfibi e si avviò al bancone negando a se stessa di cercarlo, ma il cuore le svelò la verità battendo all’impazzata per lui, per Jay, seduto al bancone esattamente come la prima volta.
Si sentì felice come poche volte nella vita e si avvicinò a passo spedito per evitare che qualcuno occupasse il posto accanto.
«Le donne abbandonate tendono a consolarsi con il primo che capita, eh? Secondo te perché, allora, vengo qui e mi siedo vicino a te senza cercare quello che potrebbe consolarmi?» esordì sorridente.
«Perché non tutte le donne fanno così, me lo hai detto tu!» rispose con le labbra al bicchiere e lo sguardo fisso alle bottiglie davanti a sé.
Fu felice di essere stata in grado, almeno con lui, di aver messo in chiaro che non era come tante altre e annuì soddisfatta: «Impari in fretta i concetti!». Jay diede vita al sorrisetto sarcastico più bello che lei avesse mai visto e per togliersi dall’impiccio di dover spiegare il perché del suo sguardo trasognato, chiese senza tanti giri di parole: «Quel ragazzo dell’altra sera, quello che hai baciato, è il tuo ragazzo?»
Jay strizzò gli occhi come per cercare nei suoi ricordi di chi potesse parlare e poggiando il bicchiere sul bancone rispose voltandosi verso di lei: «Ma chi, Brad? Il biondino?”
«Sì, sì! Proprio quello!» confermò sorniona.
«Ma no…» si affrettò a precisare: «Non è affatto il mio ragazzo, è… come dire: un mio vecchio cliente!»
«Cliente?!» replicò perplessa: «Tu, abitualmente, ti avvinghi in quel modo ai tuoi clienti?»
«Se mi pagano bene, sì!» rispose ironico, lasciando Beatrix di stucco. Ancora non aveva compreso cosa volesse dirle ed il tono limpido e trasparente di Jay la mise maggiormente fuori strada.
«Ma tu di cosa ti occupi, esattamente?».
Jay, accennando ancora quel sorriso irresistibile, la scimmiottò divertito: «La Sposa è una ficcanaso!»
«Non sono una ficcanaso!!! Se permetti vorrei capire cosa intendi. E poi, perché mi chiami La Sposa?» disse di getto, non riuscendo a contenere la curiosità. Lui si voltò guardandola negli occhi, tentando di comprendere fino in fondo che tipo di persona potesse essere; chiaramente stava cercando di capire se Beatrix fosse la persona giusta con la quale avrebbe potuto parlare senza mezzi termini e scorgendo in lei, evidentemente, qualcosa di rassicurante, rispose rassegnato: «Ho venduto il mio corpo per soldi a quell’uomo una volta e ho paura di esserci ricaduto di nuovo. Sono di sua proprietà.».
Beatrix sentì le parole mozzarsi in gola e rimase in silenzio per qualche minuto. Jay non aveva smesso un attimo di fissarla e, senza capirne il motivo, vide un’incontenibile tristezza sgorgarle dagli occhi. Rimase stupito dalla reazione inaspettata di quella che, per lui, era ancora una sconosciuta.
Si guardarono per un po’ senza sapere cosa dirsi e quando lei si accorse di averlo impensierito, si asciugò le lacrime. «Scusa Jay!»
«Figurati.» le sorrise con estrema dolcezza, tanto da farla commuovere ulteriormente. La ragazza non riuscì a fermarsi, così si lascio andare, infine, ad un pianto quieto ma inarrestabile. Jay non disse nulla per tutto il tempo, guardò le lacrime fluire senza fare nulla per fermarle, come se quelle stesse riuscissero a purificarlo. Beatrix stava sfogando tutto il pianto che lui stesso non era mai riuscito a tirare fuori per anni. Quando lei, di punto in bianco, si accorse di essere un po’ fuori luogo, si arrestò di nuovo, balbettando sotto voce: «Scusami.»
«Non ti scusare, non hai fatto niente!» rispose con tono rincuorante, accarezzandole il viso per poi prenderle le mani: «Io sto bene!».
Sebbene cercasse di rassicurarla il suo viso manifestava una tale malinconia da farle male; avrebbe voluto chiedergli il perché si donasse con così tanta rassegnazione ad un uomo incapace di averlo solo con l’amore. Lui, per lei, sembrava un angelo caduto in un mondo che non gli apparteneva, un mondo talmente duro e brutale che non sarebbe mai stato in grado di gestire. Nonostante sembrasse sicuro di sé aveva nel cuore una fragilità tale da poterlo spezzare in mille pezzi anche solo con un soffio; decise di non lasciarlo indietro come avevano fatto tutti, si sarebbe presa cura di lui perché lo meritava, il suo sguardo glielo suggeriva: era assente, arrendevole, incapace di sfogare alcun affanno malgrado il cuore ne fosse pieno; come se avesse imprigionato dentro di sé un dolore troppo grande da esibire perché sarebbe stato devastante una volta esploso. Era umiliato, amareggiato, deluso e ferito, eppure faceva di tutto pur di non darlo a vedere, tranne che in quel momento. Darsi a quell’uomo ne faceva una vittima, ma di se stesso. Era vittima e carnefice, era l’autore del suo stesso declino e Beatrix decise che sarebbe stata lei a salvarlo perché lui non meritava questo. Si chiese come fosse possibile rimanere così colpita da un ragazzo che conosceva a stento, ma qualcosa le diceva che, forse, il destino li aveva fatti incontrare in un periodo propizio per entrambi. Non avrebbe voltato le spalle al destino e sebbene avesse sempre cercato, nel corso della sua vita, di privarsi del suo lato più romantico e sensibile, Jay era riuscito a tirarglielo fuori tutto quanto, con una forza indescrivibile. L’avrebbe preso per mano e portato lontano, nascondendolo da tutti quelli che l’avevano sporcato ma, al contrario, fu lui che l’afferrò e facendosi spazio nel locale, corse fuori.
 
Non appena furono all’esterno dell’Escape non smise di correre. Teneva stretta la mano di lei come se avesse il terrore di perderla; Beatrix non conosceva la destinazione ma ebbe la sensazione che lui desiderasse semplicemente sparire, portandosela dietro.
Passarono davanti a qualsiasi cosa con noncuranza; si lasciarono alle spalle l’Apollo Theatre, tagliando Shaftersbury Avenue per dirigersi verso Coventry Street. Una strada lunga e sempre dritta incoraggiò Jay a correre più velocemente, schivando ogni ostacolo.
Come risvegliata da un sogno, Beatrix cominciò a guardarsi intorno e a chiedersi lucidamente dove la stesse portando ma qualcosa la frenò dal chiederglielo.
Nell’impeto della corsa non aveva mai fatto caso a lui. Aveva esaminato con attenzione la strada, la gente, ma non aveva mai guardato Jay che correva affannosamente davanti a lei: stava piangendo così forte da paralizzarle le parole in gola. Non gli avrebbe chiesto dove stavano andando, si sarebbe lasciata trascinare con fiducia da lui nonostante non fosse abituata né a correre né a seguire un totale sconosciuto in giro per le strade di Londra. Jay invece sapeva correre, l’aveva sempre fatto e Beatrix non seppe mai che quella fu la prima volta dopo la morte di Izaya.
Arrivati a Coventry Street, dopo aver corso per minuti e minuti, il ragazzo si infilò di corsa in un autobus che stava per chiudere le porte, tenendola ancora per mano, e si lasciò cadere su un sedile vuoto per riprendere fiato.
Osservò Jay seduto a capo chino difronte a lei, con gli occhi persi nel vuoto e quando scorse un impercettibile movimento delle labbra senza che queste emettessero alcun suono, si avvicinò, inginocchiandosi davanti a lui. Gli sfiorò teneramente le mani per richiamare la sua attenzione: «Che hai detto?»
Rimase per qualche secondo in attesa di ricevere una risposta e prima che potesse incalzarlo, poté sentire un flebile ma disarmante: «Grazie!».
Non c’era altro da dire, così lo abbracciò forte, tenendolo stretto.
Quella fu la prima volta in cui Jay si sentì finalmente vivo. Libero di piangere e di sentirsi un autentico schifo senza nasconderlo a se stesso.

***
 
Arrivarono a casa di lui, non troppo distante da Soho Square, e la prima cosa che Beatrix riuscì a percepire, dopo qualche momento di osservazione, fu l’assenza di qualcuno o qualcosa.
L’appartamento ero piccolo, impersonale ma ben curato; in quella casa vivevano ricordi e lacrime intrappolati nei muri, ne aveva la certezza. Malgrado fosse ordinato e pulito non c’erano foto né oggetti personali; c’era il necessario per vivere, ma nulla di indispensabile per la cura dell’anima, tranne i libri.
Mentre Jay lanciava le chiavi sul tavolo, togliendosi la giacca, Beatrix osservò assorta il soggiorno cercando disperatamente qualcosa che smontasse la sensazione che la stava torturando. Cercava un gatto o anche solo qualche vestito messo alla rinfusa, una foto, un videogioco, un souvenir. Non c’era niente.
Finalmente, Jay attirò la sua attenzione: «Fai un caffè?» le chiese sparendo dentro una stanza.
Quella richiesta così diretta, alla mano, la sollevò: forse Jay era semplicemente un maniaco dell’ordine, anche se non sembrava il tipo.
Entrò in cucina e mille pensieri discordanti iniziarono ad assalirla.
Si fece mille domande per tutto il tempo, occupata a preparare il caffè e capì, mentre posava le tazze piene sul tavolino del soggiorno, che se non gliele avesse poste direttamente non avrebbe mai potuto indovinare nulla di lui.
Beatrix era sempre stata una ragazza estremamente riflessiva e, il più delle volte, incline alle fantasticherie. Raramente chiedeva qualcosa per non risultare indelicata, ma faceva di tutto pur di capire senza dover parlare. Osservava la vita degli altri sperando di afferrare dai dettagli ciò che le interessava: con Jay sarebbe stato impossibile. Lui era criptico, poco propenso al dialogo sebbene le avesse già raccontato qualcosa di lui. Lo aveva fatto, però, perché lei aveva chiesto qualcosa e non per pura voglia di aprirsi.
Lo trovò già steso sul divano, intento a cercare un canale interessante alla tv.
«Ecco il caffè!» annunciò con voce squillante. Jay strizzò gli occhi, quel tono di voce gli ricordava Lizzie.
«Ti ho portato una maglietta. Mettiti comoda!» la invitò porgendole una T-shirt invecchiata dal largo uso.
«Grazie!» l’afferrò pensando che quello fosse un gesto davvero gentile.
Jay era impenetrabile ma garbato nei modi, si vendeva ad un uomo ma era capace di azioni cortesi e del tutto disinteressate, amava la solitudine ma l’aveva invitata a casa sua: era tutto e il contrario di tutto.
«Figurati, è solo una maglietta vecchia e neanche troppo degna di esistere ancora.» rispose attento al televisore che passava l’ennesima replica di Ramsay’s Kitchen Nightmares su Channel 4. «Non trovi che Gordon Ramsay sia un figo?»
«Già!» rispose lei guardando distrattamente lo schermo della tv.
Beatrix si spogliò davanti a lui senza farsi troppi problemi, come fosse normale, e quella sensazione di casa e di normalità fu talmente forte da emozionarla; non aveva mai agito con così tanta naturalezza davanti a qualcuno, ma con Jay sembrava tutto così facile; anche fidarsi ciecamente.
Dopo essersi cambiata si stese accanto a lui e guardarono la tv in silenzio, ma l’impazienza di sapere e di conoscerlo demolì ogni inibizione. «Jay…»
«Dimmi!» rispose debolmente, con gli occhi chiusi e la testa pggiata su quella di lei.
Era rilassato, il suo respiro era calmo e si pentì di aver anche solo pensato di porgli altre domande dopo il pianto inconsolato al quale aveva assistito in strada.
Finalmente appariva sereno.
«Niente…».
Avrebbe voluto parlare, chiedergli tante cose, raccontargli di sé, ma sembrava non servisse più; in qualche modo sapevano già tutto l’uno dell’altra senza dirsi nulla, vissero quel momento immersi nel silenzio che, ormai, parlava per loro.

Jay l’abbracciò per la prima volta quella notte e lei provò per lui un affetto mai sperimentato. Si adagiò sul suo petto caldo per ascoltargli il battito del cuore ed inspirò profondamente il suo profumo fino a farlo penetrare nell’anima per non dimenticarlo più, e si addormentarono così, l’uno stretto all’altra, riposando dopo tanto tempo nella pace più sublime.




Angolo Autrice.
Mi vergogno terribilmente, ma ho scritto un capitolo così sdolcinato che m'è venuto il diabete. Jay è il solito, Beatrix è una romanticona e, santo iddio, ho creato una sensibilona da 10+++.
Con questo siamo a -3 e so già cosa state pensando... sappiate che siete fuori strada XD
Voglio ringraziare Bijouttina, Babbo Aven, Lady Wolf ed Elsker.
Ringrazio anche tutti gli altri con tanto ammore.
La storia di Jay finisce... chissà se vi mancherà anche solo un po'.
Grazie a tutti quelli che hanno messo le storie nelle preferite/Ricordate/seguite.
Un abbraccio.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** You ***


"If you must wait,
Wait for them here in my arms as I shake
If you must weep,
Do it right here in my bed as I sleep
If you must mourn, my love
Mourn with the moon and the stars up above
If you must mourn,
Don't do it alone."

You- Keaton Henson 

 




33. You
 
Se n’era andato.
Beatrix si svegliò sola la mattina dopo, Jay non c’era ma le aveva lasciato la colazione sul tavolo e la tv accesa per non farla sentire sola.
Si massaggiò gli occhi feriti dalla luce del sole che entrava prepotente dalla finestra e si mise a sedere, ancora accaldata dalla coperta che il ragazzo le aveva avvolto con più cura addosso. Fissò la tv per qualche minuto ascoltando il notiziario e si accorse che non era propriamente mattina: aveva dormito per quasi undici ore e così profondamente da non aver neanche sentito Jay uscire. Ravvivò i lunghi capelli neri inclini al disordine, soprattutto dopo aver dormito, e poggiò i gomiti sulle ginocchia unite, reggendosi il mento per pensare a cosa avrebbe dovuto fare. Jay era stato gentile con lei ma, probabilmente, era arrivata l’ora di togliere il disturbo.
Prese il cellulare dalla borsetta e trovò due chiamate perse di sua madre: almeno lei l’aveva cercata.
La richiamò: «Mamma…» alzò gli occhi al cielo, sorbendosi una ramanzina: «Perdonami, lo so che sono sparita, ma ho avuto delle cose da fare. Tutto bene lì a casa?» chiese senza reale interesse.
I genitori, immigrati indiani, vivevano in una piccola cittadina del Kent; Beatrix era nata in Inghilterra ed aveva sempre sognato di trasferirsi nella City finché un giorno, durante una vacanza a Londra, riuscì a trovare un impiego part-time. Colse la palla al balzo, andando via da Aylesford con grande disapprovazione dei suoi.
Fosse stato per loro, all’età di sedici anni sarebbe dovuta tornare in India per sposare un tizio che non conosceva neanche, ma la sua caparbietà l’aveva premiata: ormai viveva a Londra da circa dieci anni e i genitori si erano finalmente arresi alle sue scelte.
Mentre chiacchierava con sua madre per tranquillizzarla notò una chiave e un biglietto incastrato sotto la tazza di caffè che Jay le aveva lasciato.
“Sono andato a sbrigare delle cose, non tornerò prima di stasera. Tu puoi rimanere se vuoi, fa’ come se fossi a casa tua. Jay.”.
Sorrise felice, avrebbe fatto qualcosa nell’attesa.
Strinse le chiavi di casa e salutando frettolosamente sua madre interruppe la chiamata. Innumerevoli progetti per la serata si accumularono nella sua mente e anche se avesse fatto la figura della gentile massaia in attesa del ritorno del marito avrebbe comunque preparato la cena per Jay; lo avrebbe coccolato e viziato come nessuno aveva fatto.
«Come nessuno avrà mai fatto, per lui.» si ripeté a fior di labbra, e non ne fu più così sicura.
Conosceva poco Jay, ciò che pensava di lui poteva non essere del tutto vero.
La casa era vuota, probabilmente non aveva mai ospitato nessuno diverso da lui, ma darlo per scontato sarebbe stato ingenuo, così sperò che a Jay facesse piacere la sua intenzione di accoglierlo in un vero ambiente familiare, con una donna capace di prendersene cura, e dopo essersi preparata uscì di fretta per recarsi a casa sua, prendere qualche vestito comodo per poi andare a fare la spesa.
Acquistò bacchette d’incenso, qualche fiore per rendere l’appartamento più confortevole e una sveglia perché, stranamente, in casa non ce n’era neanche una.
 
«Izaya, perché sei fissato con le sveglie?» urlò Jay in preda ad un attacco isterico dopo aver udito il suono dell’ennesimo orologio seminato per casa.
«Una sveglia sola non sarà mai capace di svegliarmi» rispose alzando la voce per farsi sentire dal suo ragazzo ancora nel letto, mettendo fine all’ultimo trillo del buongiorno che aveva invaso il bagno.
«Un giorno le butterò tutte.»
«Dovrai passare sul mio cadavere!».

***
 
Era andato da Brad perché l’aveva cercato, fosse stato per lui non si sarebbe mai recato spontaneamente a casa sua, ma l’uomo aveva insistito.
Brad non si capacitava del fatto che Jay fosse sparito, soprattutto dopo aver stabilito insieme come avrebbero dovuto improntare il loro nuovo rapporto.
Aveva preso i suoi soldi e se n’era andato, senza farsi più sentire.
Trovò quel gesto abietto ed egoista e non avrebbe mai accettato un simile comportamento.
Avevano parlato molto e Jay, per tutto il tempo, aveva cercato di spiegargli che non sarebbe stato così semplice riuscire a vederlo diversamente, come un fidanzato buono e generoso. Gli spiegò che in passato si era sentito come un giocattolo e che sarebbe servito qualche altro mese prima di riuscire a togliersi quella sensazione da dosso; aveva ammesso di aver preso quei soldi per rassegnazione, perché ormai si era arreso al fatto di essere messo al pari di una prostituta, di una proprietà.
A Brad non andò giù tanta arrendevolezza e diffidenza nei suoi confronti, poiché stava cercando in tutti i modi di cambiare e di diventare per Jay un buon compagno.
Non riuscivano a capirsi, ad avere pazienza l’un l’altro e quando la comprensione è nulla da entrambe le parti, succede che uno dei due pecca di prepotenza, sovrastando l’altro.

***
 
Arrivò a casa verso sera; non ricordava neanche più di aver lasciato Beatrix nel suo appartamento. Aprì la porta e, immediatamente, un profumo intenso lo stupì.
Si ricordò di Izaya quando, nei giorni liberi, amava coccolarlo preparandogli manicaretti, ma se l’artefice di quello sfizioso profumo fosse stato davvero Izaya non si sarebbe ritrovato a sentire il dolore acuto che gli invadeva le guance.
Se lui fosse stato ancora vivo, non sarebbe mai caduto sotto le grinfie di Brad.
Beatrix raggiunse la porta sentendo il rumore della chiave nella toppa e quando vide la faccia tumefatta di Jay il sorriso le si paralizzò.
«Cosa ti è successo?» chiese spaventata, con le mani alla bocca dallo stupore.
«Sto bene.» il filo di voce ammaccato diceva il contrario.
«Sei sicuro?»
«Sì, non è niente.» rispose entrando in casa zoppicando.
Beatrix non riuscì a dire altro ma lo scrutò con attenzione e ciò che vedeva fece più male di qualsiasi altra cosa: Jay aveva la T-shirt strappata sulla spalla marchiata da un livido rosso, quasi violaceo, e il sangue, ormai rappreso, gli ricopriva le labbra e il naso segnato dalle percosse. Gli occhi rigonfi non permettevano di cogliere la sua espressione e lei, d’istinto, gli si mise davanti per sostenerlo.
«Mi fai passare, per favore?» la implorò privo di forze, con voce tremolante.
Beatrix si scostò e scrutando le spalle ricurve e fiacche di Jay poté intravedere ciò che esisteva davvero sotto la sua pelle: era l’anima a bruciare, a fare male, non il livido sul viso né la schiena piegata dai colpi; l’umiliazione che provava era infinitamente più grande di qualsiasi ferita aperta e sanguinante.
Si mise da parte, lasciandolo solo. Capì che non era stata una semplice scazzottata, lui era stato privato di qualcosa, lo sentiva nettamente: qualcuno gli aveva rubato un pezzo importante e l’aveva ridotto in cenere.
Era un Jay incompleto quello che aveva davanti, ma qualcosa le disse che stava sbagliando ancora, forse qualcuno l’aveva solo spogliato della sua maschera e quello che vedeva adesso era il vero Jay.
Il ragazzo si diresse verso la stanza da letto a passi lenti e mozzati dalla vergogna, non era più se stesso, non aveva reagito; si era lasciato picchiare e violentare senza combattere, ormai era stanco di nascondersi e aveva permesso a Brad di abusare della sua stanchezza.
Aveva sempre finto di essere un battagliero capace di tenere testa a chiunque, stavolta non riuscì a mentire e si lasciò prosciugare, fino a farsi svuotare a suon di pugni e calci. Brad aveva perso le staffe, d’altronde era stanco anche lui di lottare contro un ragazzo incapace di comportarsi in modo coerente; pensava questo, dandosi tutte le colpe, mentre si privava dei pantaloni intrisi di sangue asciutto.
Beatrix entrò nella stanza e lo aiutò a spogliarsi.
Lui ripeteva di continuo che stava bene, accennando un sorriso, ma tutto quell’ottimismo non la rassicurò neanche per un attimo poiché avevo imparato a sue spese, in passato, che quando si cerca di convincere qualcuno mascherando la realtà palese non si vuole fare altro che nascondere, agli occhi degli altri, ciò che è veramente importante, tuttavia in quel momento non era rilevante sapere se stesse bene, ma era prioritario, per lei, capire chi l’avesse ridotto in quel modo e perché.
Lo aiutò a stendersi sul letto ancora in ordine e mai usato per quella notte; non gli chiese nulla, voleva dargli i suoi tempi senza pressarlo, ma una rabbia incontenibile si fece strada in lei e pensò che se avesse avuto davanti chi l’aveva ridotto in quello stato l’avrebbe fatto a pezzi con le sue stesse mani.
Lo lasciò solo nella stanza per preparargli un bagno caldo e non appena udì il cellulare di Jay squillare spense l’acqua della vasca per ascoltare la conversazione.
Lui parlava con un filo di voce tremante, era ancora scosso e debole, così Beatrix accese di nuovo l’acqua e si diresse verso di lui per ascoltare la conversazione: era certa fosse il suo aggressore dall’altro capo del telefono.
«Sì, non ti preoccupare. Sì, sì… non è successo niente, non mi hai fatto niente, sto bene!».
Beatrix odiò quel suo “sto bene” come nient’altro nella sua esistenza e cominciò ad urlare in preda alla rabbia più nera: «Non stai bene per niente…» prese il telefono dalle mani di Jay, stringendolo tanto da farsi male: «Non sta affatto bene!!! Ti avverto, brutto depravato e pazzo che non sei altro, giuro che se ti becco ti faccio una faccia come un pallone. Giuro! Non ti avvicinare più a lui.» riattaccò ansimando.
Jay era allibito, la fissò come un cucciolo impaurito, ma la ragazza decise di non farsi intenerire e ritornò nel bagno come se nulla fosse successo.
Poco dopo, la raggiunse con aria spaesata ed imbarazzata: si vergognava ed era certo di non averla ingannata con le sue parole rassicuranti. Stava male nel corpo e nell’anima e sapeva che non l’avrebbe mai potuta convincere del contrario.
«Spogliati! Il bagno è pronto.».
Jay, togliendo l’accappatoio, cercando di nascondere i lividi ed i graffi che aveva addosso, si bagnò gradualmente saggiando con le dita dei piedi il calore dell’acqua che, a poco a poco, una volta essersi immerso completamente, si tinse lievemente di rosso. Alla vista di quel sangue Beatrix chiuse gli occhi cercando di placare la rabbia e si inginocchiò sul pavimento, accarezzandogli dolcemente la mano aggrappata al bordo della vasca per cancellare con l’amore tutto il dolore che aveva addosso, senza riuscire, però, a lavare via l’umiliazione che avviluppava la sua anima.
Gli sciacquò con cura il viso che, lentamente, si riappropriò dei suoi delicati e puliti lineamenti; accarezzò i suoi capelli che si inzupparono, dando vita a tiepide e gentili gocce che, scendendo lungo il collo e le spalle, restituirono sollievo alla sua pelle. Con dolci e generose carezze, Beatrix liberò la sua schiena dalle ferite e si accorse che la pelle di Jay non era più abituata alla dolcezza; così tentò di estinguere il dispiacere e la sofferenza sporgendosi un po’ verso di lui, dandogli un bacio sugli occhi, svegliandoli dalla fissità data dalle sue memorie. Sorrise nel tentativo di rassicurarlo e lui rispose, a sua volta, con una lieve e sgualcita manifestazione di gratitudine che gli illuminò impercettibilmente le iridi che, ormai, avevano quasi totalmente preso il colore dell’acqua. Beatrix soffocò un lamento di dolore: occhi così belli e trasparenti ma pregni di un dolore così lancinante non ne aveva mai visti, e per alleggerire l’atmosfera lo schizzò con un po’ d’acqua sul viso, giocando con lui come fosse bambino. Ottenne l’effetto desiderato: una piccola e fiacca risata riempì i pochi metri quadrati del bagno; Jay rideva di cuore, sinceramente, seppur a fatica.
Non si diedero un tempo preciso per scambiarsi tenerezze e cure, fecero tutto con una calma quasi ipnotica tanto da rilassarsi abbastanza da mettersi a letto con un peso in meno. Finì asciugandogli il corpo ed i capelli con movimenti lenti e delicati per non fargli del male e lo accompagnò a letto dopo avergli cambiato le lenzuola per farlo dormire nel profumo che rasserena, nella freschezza che consola e lenisce le ferite.
Si stese, infine, accanto a lui, continuando a regalargli attente carezze sul viso.
«Sto be…» non riuscì a finire poiché lei lo zittì con un solo sguardo.
Jay rise ma Beatrix decise, a malincuore, di privarlo anche di quell’ultima risata; doveva sapere: «Perché?»
«Cosa?»
«Perché ti sei venduto a quell’uomo?».
Il ragazzo abbassò lo sguardo come se qualcuno gli stesse suggerendo che era arrivata l’ora di parlarne e voltandosi verso il cassetto del comodino raccolse l’unica foto che gli era rimasta del suo unico vero amore.
Beatrix la guardò dispiaciuta; non sapeva chi fosse quell’uomo nella foto, ma capì che non esisteva più perché, se fosse ancora esistito, ci sarebbe stato lui accanto a Jay.
«Questo è Izaya.»
«Chi è?».
Jay liberò di colpo tutta la malinconia che aveva tenuto imprigionata nel fondo dei suoi occhi e la riversò tutta nel tono della sua voce, nelle mani deboli che cominciarono a stringere le lenzuola: «È l’uomo che amo.».
Per paura di chiedere troppo, Beatrix titubò per un istante ma capì che se voleva salvare Jay avrebbe dovuto ferirlo anche con le domande: «Dov’è, adesso, Izaya?»
«È morto e questa è una delle poche cose che mi sono rimaste di lui.»
«Per questo ti sei venduto a quell’uomo?» chiese asciugando la piccola lacrima aggrappata alle ciglia del ragazzo.
«Mi sono venduto per soldi, per debolezza, per incapacità di reagire, per mancanza di lucidità…»
«Quando stavi con Izaya ti vendevi?».
Jay distolse lo sguardo come se volesse nascondersi dalla foto e dagli occhi del suo uomo che fissava l’obiettivo, che sembrava lo guardasse: «No, quando stavo con lui no. Ho iniziato dopo la sua morte.» si fermò per poi lasciarsi andare sinceramente per la prima volta, raccontando la storia per intero, dall’inizio. «Quando ho conosciuto Izaya non avevo niente. Ero figlio di una famiglia piuttosto agiata che, dopo aver scoperto le mie “tendenze”, mi ha dimenticato. Vivevo ancora in casa mia ma come un fantasma, senza farmi notare troppo. Né mia madre né mio padre hanno avuto più considerazione di me. Sembrava di vivere in un girone dell’inferno, dove vedi la tua famiglia proseguire felice senza di te, lasciandoti indietro. Un giorno sono andato a bere qualcosa in un bar, avrei voluto cancellare tutto e tutti come si fa con i profili di facebook: con un tasto…” Beatrix sorrise, avevano avuto lo stesso pensiero, ma lo lasciò continuare perché aveva compreso che, in quel momento, Jay non stava facendo altro che raccontare a se stesso ciò che gli aveva rovinato la vita. «Ma non fu così. Cercavo di pensare ad altro ma non ci riuscivo e più ricordavo, più avrei voluto morire, e proprio mentre stavo per perdere ogni speranza di risalita ho visto Izaya seduto al tavolo di un bar da solo, che mi fissava. Lo notai subito… da lì cominciarono una serie di corteggiamenti neanche troppo velati, ho deluso un amico per lui e, te la faccio breve, ci siamo incontrati ripetutamente in quel bar fino a che ci siamo innamorati.» sorrise, era arrivato alla parte più bella della sua storia. «Izaya è entrato a far parte della mia vita come una tempesta e mi ha salvato in ogni modo possibile, mi ha preso con sé liberandomi letteralmente da quella prigione fatta di indifferenza, di silenzi e delusioni. Ho passato i momenti più belli della mia vita con lui. Non andavamo sempre d’accordo, io ho il mio caratterino e lui aveva il suo, siamo stati insieme due anni solo che, poi, alcune divisioni non si possono cancellare: la sua morte ci ha divisi per sempre.».
Finalmente le sue lacrime cominciarono a sgorgare mischiate alla sofferenza e Beatrix gli strinse la mano per dargli coraggio; la cosa funzionò perché ricominciò a raccontarle il resto: «Quando è morto ho vissuto come uno zombie per mesi e mesi, per cancellare il dolore mi dimostravo indifferente a me stesso e ai miei sentimenti e ho proseguito la mia vita facendo di tutto pur di non pensarlo, senza riflettere troppo sul passato. Sapevo di seppellire un ricordo che basta un filo di vento o una corrente di risacca per farla ritornare in superficie, ma mi ostinavo a farlo senza affrontare veramente la sua morte; così un giorno ho incontrato quell’uomo all’Escape: non mi piaceva, non mi è mai piaciuto, ma mi sono lasciato raggirare. Non voglio giustificarmi, ma mi sono lasciato ingannare da lui e dalla mia incapacità di far fronte al dolore, ai problemi pratici che si accumulavano e non sapevo come risolvere.» si perse nei suoi pensieri e, subito dopo, continuò frettolosamente: «Mi ha portato a casa sua, abbiamo fatto sesso e la mattina dopo mi ha pagato con duecento sterline… ho iniziato così ad accettare di essere il suo giocattolo.»
«Posso capire perché ci sei caduto, si può dire che tu non fossi completamente in te, ma perché hai continuato? Sei un ragazzo che può avere tutto dalla vita, perché hai scelto di continuare?»
«Beatrix, quando ti accorgi che non sei più capace di provare niente e che la tua vita consiste di solitudine e affitti da pagare, allora, anteponi i soldi e qualsiasi cosa non ti faccia pensare a te stesso. Alla fine, a suo modo, Brad mi ama.»
«Credi che quello sia amore?»
«Una strana forma di amore. Mi tratta bene se evito di farlo impazzire con i miei comportamenti incoerenti: una volta dico , altre volte dico no, poi gli chiedo di sparire dalla mia vita e successivamente lo accolgo di nuovo.»
«Jay, lui ti compra con i soldi, non è amore! Crede che tu sia di sua proprietà perché ti ha comprato, la tua vita gli appartiene; pensa di avere il diritto di poter disporre di te come vuole, tanto da picchiarti e trattarti come un giocattolo, da pretendere da te qualsiasi cosa e se ti rifiuti crede di potersi avvalere della facoltà di farti del male senza conseguenze perché tanto, poi, il giocattolino Jay dice: Sto bene!».
Jay abbassò lo sguardo, sapeva di essere entrato in un circolo senza fine ma, ormai, se n’era fatto una ragione, ci aveva fatto l’abitudine.
«Beatrix, perché hai pianto quando te l’ho detto?».
Il cuore le si fermò. Avrebbe potuto dire di tutto, ma l’unica realtà, che non avrebbe mai ammesso, era che dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lui, l’aveva amato. «Perché tu non hai idea di cosa sei, Jay. Appena ti ho visto ho pensato fossi il più bel ragazzo al mondo: la tua luce mi ha accecata e, chiamami sentimentale, ma penso che tu sia di un altro pianeta, la più bella persona che io abbia mai visto. Insomma Jay: credo che tu ti veda meno importante e speciale di quello che sei.» concluse con convinzione, provocando una risata scrosciante di Jay: «Forse sei tu che mi vedi migliore di quello che sono.»
«No. Io sono convinta che tu provi una disistima tale da credere che la vita non abbia più importanza, ti vendi perché non dai più valore a te stesso, pensi che non ti costi nulla venderti perché tu ti ritieni un nulla, questo perché Izaya, per te, era tutto. Per questo ho pianto, Jay. Perché non riuscivo a capacitarmi del fatto che un ragazzo così speciale, con quegli occhi sinceri e trasparenti, potesse svalutarsi così tanto per i soldi. Adesso so che non sono stati i soldi a muoverti, ma tu devi prendere coscienza di ciò che sei, devi rivedere la tua scala di valori ed è indiscutibile che al primo posto devi mettere te stesso… sopra a tutto! L’uomo della tua vita non c’è più ma tu esisti, vivi, il tuo cuore batte. Tu meriti di vivere e di ritrovare la fiducia, l’amore, le persone importanti, te stesso. Ti prego, fallo.» lo pregò piangendo, sentendo spezzarsi il cuore nel petto ad ogni parola. Desiderava fortemente ciò che diceva, voleva vederlo reagire e combattere per la sua vita, liberarsi di tutto il marcio del quale si era circondato.
Per la prima volta, Jay avvertì veramente il suo cuore scalciare nel petto, Beatrix era stata in grado di farglielo sentire ancora, ma non per rabbia o per dolore, sentì l’amore.
Beatrix non capì quali sentimenti avessero scatenato la reazione di Jay che cominciò a piangere così dolorosamente e apertamente che sembrava si potesse toccargli l’anima con un respiro. «Mi manca, mi manca come l'aria che respiro. Mi manca il suo abbraccio, il suo calore. Beatrix, a me manca Izaya» ruggì disperatamente tra le lacrime, stringendo la maglietta di lei che, inerme, assisteva alla manifestazione di un dolore più insostenibile di ciò che credeva. In quel pianto vide un ragazzo fragile e solo che non chiedeva altro di essere amato ancora, come aveva fatto Izaya; vide un ragazzo lacerato dal dolore della perdita, che aveva perso prima la sua famiglia, poi l’unico uomo che avesse mai veramente amato; vide un ragazzo smarrito al quale un uomo meschino e putrido aveva fatto credere che il suo valore potesse essere acquistato con il denaro, vide un ragazzo che non si perdonava per la sua incapacità di essere forte, per la sua debolezza nell’accettare il distacco, la perdita e l’abbandono. Beatrix l’abbracciò sciogliendosi in lacrime, sperando di poter allontanare dal cuore di Jay il dispiacere, la disillusione e il disprezzo per questa vita che l’aveva lasciato solo, in balìa degli eventi e dei suoi stessi errori.
Pensò che tutti quelli che l’avevano lasciato solo, compresi i suoi genitori, si fossero comportati come lei stessa aveva fatto con il suo account facebook: lo avevano cancellato dalla propria vita come una piccola foto vicina ad un nome, cestinando ogni suo sogno, ogni ricordo, ogni sentimento.
Ma Jay non era un contatto di facebook, lui era una persona, un ragazzo, un uomo capace di provare sentimenti talmente profondi e travolgenti da non riuscire ad accettare di essere lasciato indietro. Jay era stato rifiutato, ripudiato dal mondo, dalla vita delle persone, da Dio stesso.
Così lo abbracciò più forte, poggiandolo sul cuore, con la speranza che si sarebbe addormentato con la chiara sensazione che qualcuno, in questo maledetto mondo, non l’avrebbe mai abbandonato.
Si addormentò dopo ore di lacrime e di frasi sconnesse, ferito nella carne e nello spirito e Beatrix, a poco a poco, si assopì con lui, avvicinandolo a sé come solo una donna innamorata può stringere la persona più preziosa della sua vita.




Angolo Autrice.
Ciao miei cari, siamo a meno due e non immaginate quanta tristezza ho adesso. Sì, perché in realtà nel mio pc Jay è finito da un pezzo. Adesso mi tocca condividerlo con voi. Voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno sostenuto sempre e puntualmente e mi scuso per la lunghezza di questo capitolo. Forse, per renderlo meno enorme, avrei dovuto dividerlo, ma a furia di dividere capitoli troppo lunghi 'sta fine mi sta diventando più lunga di una divina commedia.
Spero davvero di non deludervi.
Grazie a chi ha inserito la storia nelle seguite/preferite/ricordate.
Aspetto vostri pareri.
Bacini sparsi.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** House of the rising Sun ***


"There is a house in New Orleans 
They call the Rising Sun 
And it's been the ruin of many a poor boy 
And God, I know I'm one."

House of the rising Sun- The Animals 


 






34. House of the rising Sun
 
La mattina dopo, Beatrix non lo ritrovò a letto e si alzò lentamente, impaurita da ciò che sarebbe successo. Aveva paura che si ripetesse la storia del giorno prima e nel panico non notò subito il biglietto sul comodino. Lo guardò per un po’ dopo essersi accorta della sua presenza e lo agguantò d’improvviso come se volesse cogliersi di sorpresa lei stessa. Lo strinse prima di leggerlo: “Tornerò presto. Voglio ringraziarti per essermi stata vicino, per aver pianto per me e con me, per avermi dato la forza e il coraggio di andare avanti, accettare la morte di Izaya, anche se la strada è ancora lunga, e chiudere con Brad. Andrò a parlare con lui e lotterò per riprendermi la mia vita, la mia dignità. Grazie e a presto, aspettami lì. P.S. La colazione è in cucina, il mio numero di cellulare è segnato sul post-it attaccato al frigo. Jay.”.
Urlò di gioia senza riuscire a contenersi e dirigendosi di corsa in cucina gettò un fugace sguardo al salotto; ciò che vide la commosse, infatti si fermò per ammirarla ancora un po’: la foto era sul tavolino tondo accanto al divano, erano belli e sorridenti, due innamorati, e Beatrix soffiò un bacio in loro direzione ringraziando Izaya per averla messa sulla strada di Jay. Sicuramente era stato lui.

***
 
Se gli avessero chiesto di immaginare chi avrebbe potuto incontrare per caso, strada facendo, avrebbe pensato a chiunque, tranne che a suo fratello Joseph.
Sceso alla fermata Notting Hill Gate per andare a casa di Brad, lo vide conversare rumorosamente con un suo amico.
Ormai era un ragazzo adulto e rimase sorpreso dalla somiglianza: avevano gli stessi lineamenti; Joseph, ormai, aveva vent’anni e sicuramente era uno studente vincente, era certo che suo padre gli avesse dato tutti gli strumenti per esserlo.
Scelse di non avvicinarsi e di tirar dritto, ma dovette fermarsi a causa di un nodo in gola che l’aveva reso inerme.
«Jay, sei tu?». Si sentì chiamare alle spalle e con enorme imbarazzo si voltò.
Gli occhi di Joseph, grandi e limpidi, lo fissavano con stupore misto a malinconia: «Non posso crederci, sei tu davvero» sussurrò incredulo.
«Joseph, mi fa piacere vederti» rispose fingendo calma. Non era più capace di simulare serenità: si vergognava, soprattutto per la differenza di esperienze che avevano vissuto. Jay stava andando a chiudere un rapporto illecito a pagamento con il viso ancora provato dagli schiaffi, Joseph sembrava un principino vestito con cura e con la pelle incorrotta, pura, priva di ogni imperfezione. Nonostante si passassero pochi anni, il maggiore dei due sembrava un vecchio consumato.
«Cosa ti è successo? Sembra che tu abbia preso un treno in faccia!» esclamò tra il serio e lo scherzoso.
«Una scazzottata, le ho prese alla grande.»
«Si vede.». Non si avvicinarono né si abbracciarono, ma una forza invisibile li teneva legati occhi negli occhi.
«Stai bene, Joe?»
«Sì. Ho dormito a casa di un amico qui, a Notting Hill, stavo per andare a casa per poi correre all’università.»
«Vai all’University College?»
«Sì. Dove saresti dovuto andare anche tu…» concluse senza alcuna espressione di trionfo. Fino a qualche tempo fa avrebbe provato soddisfazione nel sentirsi migliore di Jay, il figlio prediletto, adesso era dispiaciuto del fatto che il padre avesse privato suo fratello del futuro che meritava.
«Sono sinceramente contento» manifestò un’autentica soddisfazione: era fiero di lui.
«Sai, Jay? Abbiamo parlato molto con mamma e non si dà pace per quello che è successo. Ci siamo chiesti dove tu potessi essere e, sono sicuro che sarebbe d’accordo con me, ci farebbe piacere frequentarti di nuovo, come una volta.».
Aveva quasi rimosso sua madre, la prima donna al mondo che avesse amato, quella per la quale avrebbe fatto di tutto pur di renderla fiera e felice.
La mamma che l’aveva cresciuto con amore, che gli aveva dato quel nome come buon auspicio, insegnandogli ad amare e a rispettare se stesso; che l’aveva ripudiato affianco a suo padre. Non sentì più rabbia, si sforzò a cercarla nel centro del suo cuore ma non c’era, così alzò gli occhi verso Joseph, sorridendo con tenerezza: «Farebbe piacere anche a me.»
«Ottimo! Non vedo l’ora di dirlo alla mamma» gioì senza fare troppo rumore, come loro padre aveva insegnato ad entrambi. «Vuoi che te la saluti?»
«Sì. Dille che verrò presto a trovarla. Adesso vai, perderai un altro viaggio e il tuo amico si incazzerà» lo incitò, per poi salutarlo con un sorriso. Lo seguì con gli occhi con affetto finché non sparì completamente, portato via dalla metro. Si sentì purificato e più forte; c’era ancora qualcuno della sua vecchia famiglia ad amarlo. Salì le scale con più convinzione di prima: era diventato ancora più importante rompere con Brad e riprendersi la sua vita. Se voleva rinascere, avrebbe dovuto rimuovere da ogni recesso della sua anima anche il più piccolo frammento di rabbia. Voleva perdonare se stesso, sua madre e avrebbe voluto correre da Lizzie e abbracciarla forte, bere una birra con Robert e riempire di baci la piccola Nina che non avrebbe mai più abbandonato.
Camminò sempre più velocemente e con risolutezza, avrebbe spazzato via Brad dalla sua vita facendo pace con il mondo e avrebbe fatto conoscere Beatrix a Lizzie: le due donne che l’avevano aiutato e amato; ognuna a modo proprio. La prima era come una specie di anima gemella, la seconda una mamma piena di amore e di attenzioni. Le avrebbe tenute strette nel cuore per sempre.

***
 
Bussò alla porta più e più volte finché, finalmente, Brad comparì: aveva gli occhi segnati dalla stanchezza, come se non avesse dormito per tutta la notte.
Appena vide Jay, lo afferrò da un braccio traendolo a sé dopo aver chiuso la porta. Provò ad abbracciarlo per farsi perdonare e per fargli sentire tutto il suo pentimento e dispiacere, ma il ragazzo non glielo permise.
L’uomo desistette senza opporsi e con le lacrime agli occhi chiese perdono: «Mi dispiace. Quello che ti ho fatto è ingiustificabile, adesso sei arrabbiato e ti capisco. Non riesco a guardarti le ferite che hai sulla faccia sapendo di avertele provocate io. È che ho bisogno di te, e quando ti sento distante divento pazzo, non posso accettare di perderti.»
«Brad, frena il monologo, ho l’impressione di sapere già cosa vuoi dirmi e posso assicurarti che non serve più spiegarsi.» Si fermò, scrutando gli occhi stravolti di Brad. «Posso sedermi? Parliamo con calma?»
«Ma certo!» Gli fece strada verso il divano che l’aveva visto ingoiare notti e notti di amarezze, di dolore e rabbia sotto il peso del corpo del suo aguzzino.
Strinse gli occhi per dimenticare, non voleva rivolgersi a lui con ironia né con freddezza, e ancor meno voleva fomentare una rabbia inutile che non gli avrebbe permesso di essere lucido e sufficientemente categorico da chiudere definitivamente.
Si accomodò, infine, abbastanza vicino a lui. Sospirò pesantemente, levandosi l’ennesimo peso dal cuore; quella ritrovata leggerezza d’animo lo aiutò ad essere diretto ma dolce: «Deve finire tra me e te. Definitivamente.»
«Ma perché?» chiese rassegnato e con la voce implorante. «È perché ti ho picchiato, vero? Non succederà mai più, dammi un’altra possibilità.»
«Non si tratta di darti altre possibilità. Magari tra qualche tempo potremmo rivederci come due amici, ma non voglio più, in nessun modo, stare con te. Voglio la mia libertà.» Lo fissò con un’espressione risoluta e gelida. Non aveva mai provato niente per Brad, a parte la rabbia e una volta esaurita quella era rimasto il vuoto. Gli faceva tenerezza a momenti, ma non sarebbe mai stato in grado di salvarlo, non ne aveva le forze. Jay e Brad erano stati come due pezzi di una stessa nave divisa e squarciata da uno scoglio in alto mare: entrambi avevano bisogno di aiuto, di essere salvati, e continuando a stare attaccati non avevano fatto altro che colare a picco insieme, legati e disperati.
«Non posso accettarlo. Tu mi avevi promesso che ce l’avresti messa tutta» urlò l’uomo, stringendo i denti e i pugni per la frustrazione.
«Ti ho promesso che ci avrei provato. Mi dispiace: non ci sono riuscito.»
«È così difficile stare con me?» chiese come un bambino smarrito.
«Non sei una persona semplice, come non lo sono io; sono sicuro che puoi migliorare ma devi fare come sto facendo io: devi cancellare ogni cosa malsana dalla tua vita e concentrarti su te stesso.»
«Quindi, per te, sono una cosa malsana da cancellare!» ripeté guardandolo con astio.
«Non sei tu ad essere malsano, è la vita che conduci ad esserlo. Voglio che sparisci dalla mia vita, sono certo che potremmo trarre vantaggio entrambi da questa situazione. Continuare così non serve a me come non serve a te.». Jay era calmo e paziente, stavolta per davvero. Altre volte aveva provato ad intavolare discorsi del genere, ma per la prima volta riusciva a porglielo in modo totalmente equilibrato, pacato, tranquillo e davvero sicuro.
«E se io non volessi?» chiese accavallando le gambe, dandosi un tono da uomo d’affari come se stesse negoziando.
«Potrai morirmi dietro per il resto della tua vita senza avere mai più l’occasione di avere nessun tipo di rapporto con me. Che preferisci?».
«Il tuo è un ricatto e non posso accettarlo.»
«Ma ti rendi conto di quello che dici?» urlò spazientito dalla totale incapacità di Brad di ragionare. «Lo capisci che non ti sto chiedendo il permesso di lasciarmi andare? Non sono tuo. Ti sto dando solo la possibilità di chiudere in modo pacifico e senza scenate.»
«Non accetto le tue condizioni. Sparire dalla tua vita mi è totalmente impossibile dato che ti amo, brutto stronzo!» lo offese, alla fine, risentito e certo della sua posizione.
Jay rimase in silenzio, vagando con gli occhi in cerca di una soluzione, ma non appena capì che un uomo capace di comprarlo, ostinandosi a tenerlo legato a sé a quelle condizioni, non potesse essere in grado di ragionare, optò per le maniere forti: «D’accordo. È il tuo punto di vista e lo rispetto, io ho il mio e dal mio canto non posso fare altro che dirti addio senza pretendere che tu capisca.».
Si alzò per poi dirigersi verso l’uscita ma l’uomo non glielo permise.
In pochi secondi gli fu addosso, come l’ultima volta, e sbattendolo a terra con violenza gli urlò contro con il viso contratto dalla delusione: «Nessuno ti ha detto che potevi andare via, io non ho finito.»
«Io sì!» ringhiò senza riuscire, però, a sostenere lo sguardo perché Brad lo aveva schiaffeggiato in viso con una brutalità tale da fargli colpire la testa al pavimento.
Dopo i primi momenti di confusione per il trauma fu tutto più chiaro: l’uomo era in mezzo alle sue gambe e gli sbottonava i jeans. Fu così veloce da riuscire a non farsi percepire subito.
Jay non avrebbe ceduto, non gli avrebbe permesso ancora di abusare di lui, non era più il ragazzo distrutto dalla sua stessa incapacità di reagire, così iniziò a scalciare violentemente, cercando di afferrare qualcosa di utile da usare contro di lui per intimarlo a fermarsi.
Ma Brad era forte e le ferite che gli aveva inflitto il giorno prima furono decisive, quei dolori non gli permisero di ribellarsi con tutte le sue forze.
Lo afferrò dalle gambe trascinandolo verso di sé e dopo averlo schiaffeggiato ancora per farlo tacere, riuscì ad abbassargli i jeans fino alle ginocchia e lo agguantò dai capelli per sbattergli il viso in terra in modo da immobilizzarlo a suo favore, con la schiena rivolta a lui. Lo costrinse al pavimento mentre il ragazzo lottava per non farsi usare ancora. Ebbe paura, una dirompente e terrificante paura. Finalmente si era risvegliato dallo stato catatonico nel quale era caduto da mesi, adesso poteva sentire davvero cosa stava succedendo; un tempo avrebbe chiuso gli occhi e si sarebbe abbandonato come un corpo morto, sperando che Brad godesse al più presto; stavolta era vivo e capace di percepire ogni cosa, compresa la voglia di salvarsi.
Con un colpo di reni cerò di divincolarsi dalla presa.
Ce la fece.
Strisciò fino al divano nella speranza di riuscire a trovare un appiglio su cui fare leva per alzarsi.
Non ce la fece.
Brad gli era ancora addosso e stavolta lo picchiò in pieno viso con la cinta dei pantaloni e così impetuosamente da fargli sputare sangue fino a soffocarsi.
Un altro colpo sulla testa con la fibbia e il sangue cominciò a fluire copioso sul viso di Jay, sporcando il pavimento.
Non avrebbe mollato per nulla al mondo sebbene fosse piegato dalle percosse, si sarebbe messo al sicuro, bastava allungare ancora un po’ la mano per afferrare qualcosa che potesse aiutarlo a difendersi.
Mani torbide e infette lo toccarono provocandogli un forte senso di nausea; voleva scappare dal vortice oscuro nel quale si era cacciato con le sue stesse mani, lottò contrò di lui affogando lamenti continui sulla superfice liscia del pavimento. Non avrebbe pregato Dio né implorato il suo vessatore per assicurarsi la salvezza, non c’era tempo e non c’era più fiducia.
Prima che potesse accorgersene, Brad penetrò in lui con una ferocia tale da strappargli un grido di dolore. A fatica riuscì a possederlo, lacerandolo. «Tu sei mio, Jay. Non ti lascio andare, non prima di averti fatto il mio ultimo regalo.».
Si mosse dentro di lui infliggendogli colpi talmente profondi da farlo piangere.
Jay urlò tanto da infastidirlo e spingerlo a compiere un gesto così violento da zittirlo: afferrò ancora i capelli corvini del ragazzo, sbattendogli con forza la faccia sul pavimento.
Jay strinse gli occhi dal dolore, strozzando un gemito perso nella concentrazione ormai catturata dagli spasmi, e le lacrime si mischiarono al sangue, insudiciandogli i capelli. Aprì gli occhi ormai gonfi di pianto e disperazione e vide i suoi stessi denti rotti immersi in una pozza di sangue. «Cosa c’è, non fai più lo spavaldo?» chiese Brad con il timbro della voce modificato dallo squarcio incolmabile che aveva separato la ragione dalla mancanza totale di lucidità. La follia pura lo rese schiavo, privandolo di ogni ragionevolezza, posando un velo oscuro sui suoi occhi furenti, sottraendogli impietosamente l’ultimo barlume di umanità. Jay annaspò freneticamente per non soccombere e fece appello all’ultimo briciolo di forza che gli rimaneva; così, sgusciando da sotto la presa aggressiva del suo carnefice, stese la mano per prendere l’unico oggetto che l’avrebbe salvato, annegando nei suoi stessi rantolii angosciati e i ringhi invasati dell’uomo alle sue spalle.
Saliva e sangue si mischiarono sulla sua lingua e si sentì più vivo che mai.
Strisciò scalciando per accrescere la distanza da Brad e aggrapparsi all’ultimo filo sgualcito di speranza, e fissò il luccichio del posacenere di cristallo che pareva pesante come un macigno, irraggiungibile al pari della luna. Gridò collerico per darsi la forza di muoversi ancora, si sarebbe affidato al suo irriducibile coraggio per riprendersi la sua libertà. Sentiva di potercela fare, non gli avrebbe permesso di distruggerlo ancora e rispedirlo nell’oblio, avrebbe rivisto la luce del sole, per Beatrix che gli aveva permesso di aprire gli occhi, per Lizzie che l’aveva custodito e protetto, per suo fratello, per sua madre. Per se stesso. Per Izaya.




Angolo Autrice.
Ciao! Dico solo -1 e vi ringrazio!
Alla fine vi ringrazierò tutti per bene, come meritate. Sappiate che ho già scritto l'ultimo capitolo e lo sto riguardando, ho scritto anche il mio ultimo angolo autrice e sappiate che dovrete sorbirvi una pagina e mezzo di ringraziamenti ^_^
Vi adoro.
Bloomsbury

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Together ***



"Together, to be
Together and be..."

Together- The XX 


 




35. Together
 
Era sfumato.
Jay era sfuggito dalle sue braccia lasciandolo solo e se ne accorse non perché non lo sentiva più sotto di sé, ma perché uomini armati erano entrati in casa sua sfondando la porta. Inizialmente non si rese conto di ciò che stava accadendo, ormai i suoni sembravano ovattati e confusi; e non era più mattina, fuori non c’era più il sole. L’appartamento era avvolto dal buio come lo erano i suoi occhi; non si sentiva più le mani, così le fissò dirigendo il palmo verso l’alto: erano sporche, e tra le dita c’erano sottili fili di capelli corvini aggrovigliati e impigliati al sangue asciutto.
«Si metta in piedi lentamente» ordinò il poliziotto dietro di lui puntandogli una pistola alla schiena; scandì le parole con precisione data la totale incapacità di Brad di comprendere ciò che gli veniva detto. «Stia con le mani in alto, senza voltarsi.».
Si mise in piedi sulle sue gambe tremanti e qualcuno accese la luce.
Lo vide finalmente. Non se n’era mai andato, in realtà c’era sempre stato: dormiva in posizione fetale. Era piccolo e gracile e aveva la testa adagiata sul pavimento, immerso in una pozza di sangue. I capelli, disordinati, gli nascondevano parzialmente il viso senza ostacolare, però, la visuale completa.
Le palpebre erano gonfie e violacee ma Brad riuscì a vedere il delicato squarcio verde acqua delle sue iridi. Dormiva, o forse no.
Un agente si mise davanti a Brad, chinandosi su Jay, pressò le dita sul suo collo per accertarsi che fosse ancora vivo, ma non servì ascoltare i battiti assenti per capirlo, bastava guardargli gli occhi semiaperti privi di luce e di vita. L’agente strinse i denti per il dispiacere, accovacciato davanti al corpo di quel piccolo e giovane ragazzo del quale non era rimasto nulla di riconoscibile. Si capiva che fosse giovane dai resti dei suoi vestiti strappati, dal fisico secco e spigoloso tipico degli uomini che si affacciano alla maturità, ma nulla, a parte quei particolari, suggeriva i suoi anni: del suo viso non era rimasto niente che fosse rivelante e i lineamenti erano diventati un’accozzaglia di sangue, lividi, gonfiori e nient’altro, nonostante ciò sembrava dormisse, reggendosi le ginocchia contro il petto come un bambino, immerso nel fluido vermiglio e denso della sua vita, ormai persa.
«Lo hai posizionato tu in questo modo?» chiese l’agente dandosi forza. Ne aveva viste tante nella sua carriera, ma questa volta la scena era insostenibile: sangue ovunque e al centro di tutto un ragazzo sfigurato, rannicchiato e solo che, ad un certo punto, si era arreso non riuscendo a trovare un modo per mettersi in salvo.
Brad non rispose alla domanda e l’agente che lo teneva sotto controllo, reggendogli le manette, recitò finalmente i suoi diritti portandolo via.
Aveva il diritto di tacere, così tacque.

***
 
 
“Condannato all’ergastolo Bradley Cox, l’assassino del giovane omosessuale Jay Hahn, ventitré anni. Dalla sentenza del giudice Bower si evince il motivo che ha spinto i dodici membri della giuria a condannarlo per omicidio di primo grado compiuto con particolare crudeltà. Il ragazzo è stato trovato sei ore dopo l’omicidio nell’appartamento di Cox, completamente sfigurato e martoriato. La sentenza parla chiaro: Cox ha dato il via alla mattanza lucidamente, senza premeditazione ma con una crudeltà tale da mettere d’accordo tutti i membri della giuria per la condanna di primo grado. Ha stuprato, ucciso il ragazzo, inferito sul suo corpo e abusato del cadavere fino all’irruzione della polizia nel suo appartamento a seguito di diverse chiamate da parte dei vicini insospettiti dalle terribili urla e dal silenzio ambiguo che ne è seguito. Gli avvocati difensori hanno più volte tentato di alleggerire la sua posizione presentando un quadro psichiatrico alquanto ricco. Cox era affetto da disturbo bipolare e prendeva regolarmente farmaci da più di sedici anni. La giuria, però, ha stabilito che il disturbo non sia stato il motivo scatenante dell’aggressione. Il giovane Hahn, secondo le testimonianze, aveva da tempo intrecciato un rapporto illecito con l’accusato che acquistava prestazioni sessuali in cambio di soldi. Il ragazzo sarebbe andato a casa di Cox per mettere fine alla storia, ritrovandosi travolto dall’incontenibile diniego dell’uomo. Cox è stato accusato, anche, di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. L’uomo non si è mai dimostrato estraneo ai fatti ma gli è stato negato il patteggiamento. Dopo un anno e mezzo, finalmente, Jay Hahn ha avuto giustizia e potrà riposare in pace, amato da tutti coloro che hanno appreso dai giornali e da internet la sua storia. Il ragazzo è diventato un simbolo per tutti quelli che lottano contro l’omofobia ed il bigottismo che spinge i genitori a ripudiare i propri figli, costringendoli a finire nelle mani delle persone sbagliate; è il simbolo che urla il proprio dolore per la vita che gli è stata tolta e negata da chi l’aveva generato…”.
«Spegni questa radio, Beatrix» sbuffò Lizzie poggiando il gomito al finestrino della macchina.
«Ma l’hai sentita alla fine quanto è stata romantica? Può una giornalista essere così sentimentale?» chiese Beatrix perplessa mentre guidava per raggiungere il cimitero.
Erano passati quasi due anni ma il dolore continuava ad esistere nei corpi e nell’anima di entrambe, eppure, quello stesso dolore le aveva unite. Avevano combattuto insieme perché fosse resa giustizia a Jay, avevano presenziato ad ogni udienza, ingoiando testimonianze, foto insostenibili e ricostruzioni del delitto così atroci da rimanere impresse nelle loro menti. A volte, quei racconti, si sostituivano al ricordo che avevano di Jay: anziché ricordarlo vivo e bellissimo lo vedevano privo di vita nelle mani del suo aguzzino, ricordando le foto che Robert, grazie al suo lavoro, era riuscito a recuperare. Quando Lizzie venne a sapere dal telegiornale cosa era successo, rimase imbambolata per minuti infiniti, incapace di accettare la realtà e, poche ore dopo, si era recata in ospedale dove aveva lottato per vedere il corpo del suo amato amico. Pianse disperatamente mentre la polizia la ostacolava perché, per il mondo, lei non era nessuno per Jay.
Il ragazzo non fu mai visto da nessuno poiché suo padre, nonostante fosse un barrister, non si era preoccupato di trovare qualcuno che potesse prendersi cura del caso. Robert si era recato a casa Hahn e grazie ad Emma si era preso la responsabilità di Jay, era diventato l’avvocato che avrebbe messo dietro le sbarre chi gli aveva tolto il sorriso per sempre.
Un anno e mezzo di battaglie legali nelle quali Beatrix aveva testimoniato, essendo stata l’unica a conoscere nei dettagli il rapporto tra Jay e Brad.
Aveva raccontato tutta la storia, presentando come prova l’ultimo biglietto che il ragazzo le aveva lasciato e pianse inconsolabilmente sul banco dei testimoni per non essersi svegliata in tempo, quella mattina. Se avesse saputo le intenzioni di Jay l’avrebbe fermato o accompagnato perché di quell’uomo non si fidava, soprattutto dopo aver visto in che stato era tornato la sera prima.
«Hai visto? Hanno organizzato un ridicolissimo Flash mob per festeggiare la sentenza. Per me non c’è niente da festeggiare, neanche questo me lo riporterà indietro» disse Lizzie, fissando assente la strada percorsa in auto.
«In molti hanno seguito la storia di Jay. Ci sono forum zeppi di gente che ne parla. Sono rimasti tutti colpiti da quello che è successo, soprattutto gli omosessuali. Hai visto che l’associazione Omosex Free ha creato una raccolta fondi per aprire uno sportello che sosterrà gli omosessuali minorenni abbandonati dalla famiglia?»
«Lo sportello di Jay. Non lo tollero» borbottò senza guardarla.
 Beatrix rise dell’incapacità della sua amica di accettare che Jay fosse diventato un po’ di tutti: «Tu sei gelosa! Volevi avercelo tutto per te» la scimmiottò sapendo, però, quale fosse il vero problema di Lizzie.
«Non è questo il punto, lo sai. Odio che se ne parli così tanto. La sua morte riempie ore e ore di talk show televisivi che soddisfano la sete di cronaca nera della gente. Si lanciano tutti in facili moralismi sul bigottismo della società moderna, alcuni si prendono anche il lusso di parlare di lui senza conoscerlo, ipotizzando altre relazioni a pagamento, mettendo in dubbio l’innocenza di Jay. Queste cose mi fanno rabbia. Ci sbattono la sua faccia ad ogni ora del giorno in tv e non si rendono conto quanto questo faccia male a chi l’ha conosciuto e amato. A te non disturbano queste cose?» chiese alla fine, dopo essersi sfogata.
Beatrix sospirò afflitta: anche lei odiava le stesse cose e a differenza di Lizzie era anche gelosa, perché Jay apparteneva a chi l’aveva amato, non a chi se n’era appassionato solo perché la foto che girava ritraeva un bel ragazzo al quale un mostro aveva stroncato l’esistenza. «Fa male. Tutto questo fa malissimo. È come se la sua morte accadesse di nuovo, ad ogni ora della giornata, in ogni momento in cui qualcuno pronuncia il suo nome. Lo capisco, Lizzie, ma non possiamo fare niente.».
Si chiusero nel mutismo, ognuna con i propri dolori e sensi di colpa.
Entrambe non erano state in grado di proteggerlo e salvarlo e Lizzie, in particolare, odiava se stessa per averlo assecondato quando le aveva chiesto di non preoccuparsi per lui. Aveva scoperto particolari della sua vita attraverso i racconti di Beatrix e i dibattiti in tribunale, era stata all'oscuro di tutto e non si diede mai pace per questo.

***
 
Camminarono nel vialetto del cimitero, seguendo il percorso che li avrebbe portati da lui.
Avanzarono con un’espressione vaga, come se si trovassero lì per caso, per non favorire l’istinto di fuggire poiché quello, per entrambe, era l’unico posto nel quale Jay non avrebbe dovuto esserci.
Videro qualcuno davanti alla tomba, mentre si avvicinavano adagio; accelerarono il passo per allontanare un altro dei mille curiosi che giungevano alla sua lapide in un macabro pellegrinaggio. Più si avvicinavano, più Lizzie riconobbe i lineamenti di quel ragazzo e una tristezza incontenibile le riempì il cuore. Non l’aveva più visto e ammise di averlo odiato in passato, ma rivederlo riportò a galla ricordi bellissimi del passato che aveva vissuto accanto al suo più caro amico.
Chaz si voltò. Non fu sorpreso di rivederla dopo così tanto tempo, anche perché l’infinito dolore non gli permetteva di stupirsi più di nulla.
«Ciao» lo salutò lei, senza neanche avvicinarsi a lui. Diresse subito lo sguardo sulla lapide bianca che contrastava con il colore della terra: qualche filo d’erba era finalmente cresciuto intorno al marmo. La terra era stata rivoltata e scavata per introdurre il corpo di Jay: solo il pensiero la devastava. Desiderava rivederlo con tutta l’anima, ma sapeva che sarebbe stato impossibile, così cercò di non pensarci e borbottò contro i biglietti, i regali e i fiori che gli “ammiratori” avevano lasciato occupando per intero la superficie del marmo: «Maledetti. Hanno sporcato tutto. Manco fosse Jimi Hendrix.»
«È diventato come una rock star.»
«Non mi piace per niente» rispose a Chaz con i denti stretti mentre spostava un peluche posto malamente davanti la foto. Lo vide sorridente e una morsa le cinse lo stomaco; in quella foto c’era Izaya, anche se era tagliato fuori. Quel sorriso felice e quegli occhi grandi e luccicanti esistevano per merito di Izaya e nessuno, a parte lei, l’avrebbe saputo.
Alle sue spalle, Beatrix e Chaz si parlarono. Il ragazzo non riuscì a presentarsi come un amico di Jay, in fondo, l’aveva abbandonato anni addietro, ma la ragazza poté capire dal suo sguardo distrutto e perso che era stato certamente qualcuno di importante.
Stettero in silenzio con le mani incrociate a fissare quella tomba muta che aveva preso il posto di una vita. Nessuno dei tre sapeva cosa avrebbero potuto dirsi e Lizzie, abbassando lo sguardo, notò una fede all’anulare della mano sinistra di Chaz: «Ti sei sposato?».
Chaz ingurgitò a fatica, ma rispose di getto come se ciò che stava per dire fosse del tutto normale: «Sì. Pochi mesi fa.»
«E con chi?»
«Non la conosci, si chiama Julia.».
Lizzie spalancò gli occhi incredula. Certamente si era persa qualche passaggio della vita di Chaz e, onestamente, non se ne dispiacque, ma saperlo al sicuro con una donna quando Jay, con coraggio, aveva combattuto fino a morire per imporsi, la fece rabbrividire per l’incapacità totale di Chaz di avere coraggio. «Se sei felice sono felice per te, ma sappi che sei fortunato: se Jay fosse stato ancora vivo, probabilmente, ti avrebbe attaccato al muro a suon di schiaffi per farti risvegliare.».
Il ragazzo sbiascicò qualcosa senza farsi sentire e poi, dopo un secondo di indugio, snocciolò la verità: «Veramente, sapeva che ero fidanzato con una donna, non sarebbe rimasto stupito della mia scelta, mi conosceva troppo bene: sono sempre stato un codardo.» si accusò sussurrando e fissando la foto dell’uomo che aveva amato e che aveva cercato, malgrado la delusione, di convincerlo a ritrovare se stesso. Quella mattina, dopo aver fatto l’amore con lui, quelle parole lo colpirono con una forza tale da convincerlo ad uscire allo scoperto, tuttavia il coraggio venne meno e continuò a protrarre quella farsa all’infinito, fino a sposare una donna che non avrebbe mai veramente amato.
Lizzie lo consolò a suo modo, poggiandogli una mano sulla spalla in segno di comprensione, ma il ricordo del Jay combattente di soli diciassette anni che, nel suo vecchio bar, aveva disperatamente cercato di non tradirsi, la colpì ancor di più.
Non aveva mai pensato al suo coraggio; lo aveva sempre consolato per il dispiacere che lo ingoiava ogni volta che i suoi mancavano di una carezza o di una parola di conforto, ma non si era mai soffermata sul fatto che Jay avrebbe potuto scegliere di tirarsi indietro e fingere di essere ciò che non era: non l’aveva mai fatto; e solo in quell’istante si accorse che non era mai stata una cosa così scontata.
«Vado via» disse Chaz a bassa voce. Si inginocchiò davanti la foto fissandola dolorosamente; ancora non riusciva ad accettarlo, forse non ce l’avrebbe mai fatta. Chiuse gli occhi e baciandosi la punta delle dita inviò quel bacio a Jay, accarezzandogli il volto che, ormai, era solo un’immagine di ciò che era stato.
Ti amerò per sempre.
Si alzò velocemente e se ne andò senza neanche salutare, per non crollare, per non piangere disperatamente per l’ennesima volta in pochi giorni. Le due ragazze non lo fermarono, ma seguirono con lo sguardo il suo tragitto verso l’uscita dal cimitero: sembrava un bambino sfinito sul quale gravava il peso del mondo; camminava incurvato e distratto, simulando una calma vera quanto l’amore per sua moglie e Lizzie avrebbe voluto non fare con lui lo stesso errore che aveva fatto con Jay.
Chaz sarebbe tornato a casa e avrebbe trovato una donna alla quale non avrebbe mai potuto dire: “Sono distrutto. L’uomo che amo è stato massacrato”, era davvero questo ciò che meritava?
Per egoismo o forse per autodifesa, Lizzie non lo seguì, ma avrebbe cercato di fare qualcosa per lui, ma non sapeva ancora cosa.
«Quel ragazzo non è Jay. Non cercare un sostituto, non usarlo per mettere a tacere la tua sofferenza, Liz. Quel ragazzo ha già abbastanza problemi, non gli serve qualcuno che lo utilizzi come ripulente dei propri sensi di colpa. Se vuoi aiutarlo, fallo per lui, non perché senti che con Jay hai fallito.» Beatrix fu più diretta di quanto Lizzie si sarebbe mai aspettata e quella chiarezza, quasi crudele, la colse impreparata. La sua nuova amica l’aveva compresa prima ancora che lei potesse accorgersi dei suoi stessi pensieri. Pianse per la vergogna, ma più di tutto per la consapevolezza di non essere riuscita, nonostante gli anni passati, a perdonarsi per ciò che non aveva fatto.
Beatrix non avrebbe mai voluto farla piangere, anche perché non aveva fatto altro per quasi due anni; riconosceva in lei la forza di una madre ma, anche, il suo inesprimibile dolore. Jay era stato tanto per Lizzie, forse troppo; importante senz’altro, ma non solo: le aveva insegnato molte più cose lui che una vita intera, senza mai erigersi a maestro di vita nonostante lo fosse stato con i suoi errori, con la sua forza, il suo coraggio. Jay aveva sempre creduto di non essere nessuno e probabilmente era vero; chiunque è nessuno per tutti e qualcuno per certi altri e Jay era quel classico nessuno che con la sua morte faceva sentire il mondo un posto più vuoto. Questa era l’impressione che aveva sempre avuto Lizzie; anche se le persone intorno a lei continuavano a vivere la propria vita, lei sentiva un impercettibile senso di vuoto aleggiare tra i passanti, forse lo pretendeva in un certo senso o semplicemente aveva trovato un modo per sentirsi meno sola mentre condivideva il suo dolore con il mondo ignaro. In molti avevano pianto la morte di Jay, ma così era stato per tutti quelli che avevano trovato la morte per mano di un assassino; più in là qualche altra vittima avrebbe preso il suo posto nei ricordi della gente, tranne che nei suoi e in quelli di chi l’aveva amato.
Beatrix colse dalla lapide dei bigliettini e li lesse in silenzio solo per se stessa: ognuna di quelle parole scritte dipingevano Jay come una vittima indifesa, la cosa la infastidì meno di quel che pensava perché, se non altro, c’era amore in quelle lettere. C’era chi l’amava anche se non l’aveva mai conosciuto e anche se credeva fosse una cosa sciocca ed infantile prese comunque un foglio ed una penna dalla borsa e incominciò a scrivere.
Lizzie la guardava nel frattempo, senza chiedersi cosa stesse facendo sebbene fosse strano, ma la lasciò fare senza interromperla. Beatrix l’aveva sempre lasciata libera di commettere ogni stranezza: dall’urlare in macchina come una disperata per sfogarsi del dolore che era costretta a celare a casa propria per non far preoccupare Nina e Robert, agli inviti nelle sale giochi al London Trocadero per ammazzare senza pietà zombie invasori del mondo; avevano riso e pianto insieme, da ubriache e da sobrie, di fatto, avevano fatto le pazze per le vie di Londra sentendo la presenza di Jay ad ogni passo; in quei momenti avrebbero voluto avercelo con loro: si sarebbero divertiti come dei bambini. Questo, in particolare, faceva soffrire entrambe perché, anziché cercare di aiutarlo con parole di amore e di conforto, avrebbero anche potuto prenderlo di peso, una sera, e portarlo a divertirsi in modo sano; forse, così, la mancanza di Izaya si sarebbe fatta sentire meno e non avrebbe mai conosciuto Brad chissà dove.
Beatrix si alzò e lasciò quel biglietto sulla superficie di marmo gelida.
Sorrise fissando Lizzie: «Andiamo?».
Si incamminarono verso l’uscita insieme, reggendosi reciprocamente come fossero ubriache, ridendo a bassa voce di ogni sciocchezza, strada facendo, per scrollarsi di dosso la tristezza.
Tutti sapevano chi fosse Beatrix Darsha, era la supertestimone e conosceva bene Jay.
Le sue parole sarebbero state legittime per tutti.
 
Voglio parlarvi di Hahn, Jay Hahn.
Era un ragazzo di ventitré anni con un futuro brillante davanti, un ragazzo fragile ma coraggioso che, nonostante il suo incontenibile dolore, aveva scelto di proseguire con la sua vita, magari sbagliando, ma imparando dai propri errori. In molti l’hanno giudicato o giustificato, ma sia i giudizi che le giustificazioni nascondono la vera natura delle cose e delle persone.
La vera natura di Jay era audace, fiera, a volte spericolata, ma mai impotente.
Non era una vittima. Lui ha combattuto fino alla fine per salvarsi, non è stato fermo ad aspettare di morire, ha lottato fino a che non c’è stato più nulla da fare.
Jay aveva intrapreso un cammino sbagliato, talmente tanto sbagliato da fargli incontrare una persona capace di amarlo nel modo più malato possibile.
Nel giorno in cui Jay aveva deciso di perdonarsi di tutti gli errori e di tutte le sue debolezze, ponendo fine al prolungarsi insano dei suoi errori, un uomo che diceva di amarlo lo ha ucciso, colpendolo in volto e sulla testa ripetutamente fino a sfigurarlo; per gelosia, per amore dice lui, sicuramente per follia, ma una cosa certamente posso affermare: quello che meritava Jay Hahn non era quel tipo di amore malato, ossessivo, a pagamento; ma un amore disinteressato, che non richiede nulla in cambio.
Adesso non so che fine abbia fatto Jay, ma sono certa che è felice dov’è, perché ha vissuto sempre con un solo ed unico pensiero: Izaya, l’uomo che ha sempre amato.
Spero sia con lui adesso, da qualche parte, lontano da questo mondo putrido che, come ho sempre pensato, non gli è mai appartenuto.
 
Beatrix Darsha


 



Questo è il mio ultimo angolo autrice. Vi prego! Non spoilerate nelle recensioni T_T

La storia è finita e non avete idea di quanto io sia triste. Triste perché ho concluso una storia alla quale ho dedicato energie, amore, depressioni, serate a buttarmi giù per entrare nello stato d’animo giusto. Tutte queste cose mi hanno colmata. Jay abita ancora nel mio cuore e spero anche nel vostro. Come ho detto mille volte, non era una semplice storia che volevo lasciarvi, ma degli amici, dei punti di vista, delle emozioni e se sono riuscita nel mio intento allora sappiate che ogni qualvolta sentirete il nome di Jay da qualche parte vi verrà in mente e magari vi mancherà. Tipo, siete in macchina e vi capita di sentire Radio DeeJAY, leggerete il Grande Gatsby, ascolterete una canzone di JAY-z, vi imbatterete nelle repliche su Sky del JAY Leno Show, scriverete un messaggio di testo e cliccherete la lettera J… ok! Faccio meno la stupida :P È che voglio alleggerire un po’ la tristezza.

Ciò che più mi ha riempita di gioia in questo viaggio sono state le vostre recensioni piene di affetto, di passione, di amore, DI SPOILER!!! XD Jay è al primo posto delle storie più popolari nella sezione Drammatico per la più alta media di parole nelle recensioni; questo non è grazie a me, ma grazie a voi e al vostro sostegno. Si dice che se qualcuno ha voglia di spendere del tempo per lasciare quei papiri significa che la storia, in qualche modo, l’ha colpita e travolta. Con qualcuno di voi è stato certamente così e la cosa mi rende felice da morire.

Passiamo ai doverosissimi ringraziamenti:

Grazie a Babbo Aven che è l’unico ometto che mi ha seguita. Lo ringrazio enormemente per tanti motivi: il primo è che si è dovuto sorbire un paio di scenette poco simpatiche tra uomini XD il secondo è che mi è stato vicino sempre senza mai scrivermi semplicemente dei commenti sterili fatti di complimenti. Ha cercato di sprovarmi ed io ho sprovato lui XD Ogni volta diceva: immagino che succederà questo o quello; e poi, alla fine, non c’azzeccava mai :P Questo non è perché lui non sia abbastanza perspicace, ma perché se una storia è scritta dai personaggi e non da una narratrice non può andare come tutti si aspettano. Le persone sono imprevedibili così come gli eventi che si susseguono. La vita è imprevedibile. Quindi, se ho colto di sorpresa il Babbo Aven più di una volta, significa che questa storia non era poi così prevedibile come in molti, fermandosi ai primi capitoli, avevano detto; questo mi inorgoglisce.

Ringrazio Elsker e non ho parole per farlo. Lei mi ha appoggiata costantemente, scrivendomi lunghissime recensioni cariche di riflessioni così profonde ed esatte da farmi piangere. Non piango spesso, Elsker mi fa piangere. Non sono solo complimenti i suoi (anche se mi carica da morire XD) ma sono trattati di psicologia belli e buoni :P La cosa che maggiormente mi ha fatto attaccare come una cozza allo scoglio ad Elsker è il fatto che lei, nelle recensioni, mi ha scritto più di una volta cose come: mi hai insegnato a vedere le cose; mi hai insegnato ad apprezzare amori diversi e non solo romantici; mi hai insegnato ad amare le piccole cose. Ecco, non sono mai stata capace di insegnare niente, sono un cumolo di difetti mischiata ad altri difetti, ma se qualcuno come lei mi dice che con questa storia ho insegnato qualcosa mi sento decisamente meno vuota. Grazie.

Ringrazio LadyWolf e Bijouttina. Perché le ringrazio insieme? Perché, seppur con rapporti diversi, mi hanno sostenuta allo stesso modo. LadyWolf è un’amica di quelle affidabili, gentili, sempre pronte a sostenerti. Ha letto Jay Hahn la OS e nonostante questo ha seguito anche la long; lei ha sempre saputo come sarebbe andata a finire (e vi posso assicurare che non è facile seguire una storia della quale conoscete già l’epilogo) ma ha continuato a leggere, disperandosi ogni qualvolta leggeva il nome Izaya sapendo che non ci sarebbe più stato, arrabbiandosi quando leggeva il nome Brad sapendo che avrebbe ucciso Jay. LadyWolf è stata fondamentale ed insostituibile e l’adorerò per sempre.

Bijouttina, invece, l’ho conosciuta per caso. Ha aperto la mia storia attratta da chissà cosa dato che, al tempo, non esisteva incipit né trama; c’era, ma faceva abbastanza schifo :P

Lei ha iniziato a leggermi e non ha mai smesso. Pubblicavo e SBAM, neanche due ore dopo, mi ritrovavo la recensione di Bijou. Al massimo leggeva il giorno dopo scrivendomi: “Devo leggerla prima o dopo la colazione?” dato che sapeva che molti capitoli le avrebbero rivoltato lo stomaco XD Ha letto della morte di Izaya dopo aver fatto colazione e sono stata responsabile dei suoi crampi allo stomaco :P Come sono stata responsabile dei mille fazzolettini che le ho fatto sprecare. LadyWolf e Bijouttina, infine, fanno parte dell’armata mazza chiodata for Chaz. Lo odiavano entrambe allo stesso modo, lo hanno chiamato in tutti i modi: stupido, nullità, Coso XD Sono le uniche due che mi hanno fatto fare delle grasse risate.

Ringrazio DarkViolet per le sue recensioni costanti ma di una riga soltanto, dove scriveva, per sommi capi, il riassunto del capitolo. Questo non è certamente meno soddisfacente per me, perché seppur con un riassuntino di due righe mi faceva capire che c’era, che leggeva e che qualche evento in particolare l’aveva colpita. L’unica volta in cui ho letto una recensione più articolata è stato quando è morto Izaya; ha scritto: NOOOOOOOOOOOOO… lungo come n’apocalisse XD

Abbiamo anche avuto uno scambio di opinioni perché tendeva a spoilerare tutta la trama in due righe e non c’è cosa più facile che leggere i risvolti di una storia sintetizzati in due righe: George Hahn, padre di Jay Hahn, omosessuale represso, è stato beccato dal figlio mentre stava ad una festa con un ragazzino. XD Sembrava “Kmer figlio di Pdorr della dinastia di Starr” mi sono ammazzata dalle risate XD

Ringrazio Julie che in pochi giorni ha letto 33 capitoli, mica una cosa da niente. Ha parlato quasi sempre direttamente con Jay nelle sue recensioni e la cosa, devo confessare, fa un effetto bellissimo. Perché sembra che esista davvero, sembra sia reale. Mi si è depressa un sacco di volte ma, d’altronde, sapeva con chi aveva a che fare dato che mi chiamava sadica continuamente XD Julie è una ragazza particolarissima. Scherza di continuo, a volte sembra vaneggi, ma nel suo modo di approcciarsi alle persone e alle storie c’è una sensibilità sconvolgente. Anche lei, nonostante sia sempre allegra, vive di delusioni e di amarezze e si capisce da ciò che scrive, da come comprende ciò che legge. Tutti viviamo di dolori, ma lei lo fa con un sorriso stampato in faccia, forse per nascondersi o per esorcizzare le cose. È molto simile a Jay in questo, perché entrambi mascherano qualcosa: Jay con l’indifferenza, lei con il sorriso. Grazie di tutto Julie.

Ringrazio Sorella Grimm, la “Shore” per me. Grazie perché ad ogni momento libero mi ha letta lasciandomi le recensioni più epiche mai lette. Mi sono divertita un sacco a leggere i nomignoli che ha affibbiato ai miei personaggi tipo: Iza il fattone, BradschifoachiliBrad. L’unico che ha graziato è stato Chaz. Sì Bijou e Ila, la Shore era una fan di Coso. Uccidetela! XD Sappi che mi sono fatta una raccolta delle tue esilaranti uscite. Grazie per il sostegno nonostante gli impegni.

Grazie a Moloko Vellocet che c’è ma non si vede sempre. Lei ha seguito la storia in silenzio e non so, ad oggi, se temerla o meno. Certo è che aspetto trepidante il suo responso su questa storia. Moloko è un’autrice che stimo e anche una persona con la quale, sorprendentemente, vado molto d’accordo. Sarà che siamo due persone molto dirette e siamo, anche, due belle babbione in quel di efp. Mi piace sapere cosa pensa perché lei legge con gli occhi di una donna adulta, di una mamma, di una scrittrice piena di talento, matura e intelligente. Non è che gli altri non lo sono, ma sarà che con lei mi trovo in sintonia per via della nostra boccuccia di rose XD Grazie anche a te, caVa.

Ringrazio Ghost perché, anche se non c’è stata sempre, ogni tanto è ricomparsa, rinnovando continuamente il suo affetto per Jay. Anche lei l’ha conosciuto con la OS e lo ha AMATO veramente. L’ho sentito. L’ha compreso e giustificato sempre, anche in momenti in cui il suo comportamento ero più che discutibile.

Ringrazio Oxymoros che mi ha sostenuta molto nell’ultimo periodo e che mi ha regalato una cosa meravigliosa: una poesia per Jay. Questo non è solo un regalo, è qualcosa di più. La ringrazio, anche, per la sua manciata di recensioni chilometriche che mi hanno davvero lusingata.

Ringrazio Le Sparite ma che mi hanno, comunque, dato molto con le loro recensioni:

Amartema, Daisy Pearl, Fly_With_Me, Ita rb, malaria, Mrs Burro, Nahash, Fox.

Ringrazio chi mi ha scritto, anche solo un paio di volte, ma che mi ha fatto sapere che c’è anche se legge in silenzio: Castelli di Rabbia, Class of 13, Nebulas, Maia Scott.

Grazie a chi, invece, ha appena iniziato a leggere la mia storia. Ognuna di loro mi ha lasciato bellissime recensioni T_T Ally, Aniasolary, Hime.

Ringrazio anche chi mi ha buttato giù, scrivendomi recensioni critiche (non parlo di bandierine) motivandomi a fare meglio. Grazie a chi, invece, mi ha lasciato recensioni senza alcun senso XD Tipo: chi millantava di aver già capito tutto dal primo capitolo, tacciando la mia storia per un racconto poco originale.

Infine, ringrazio la mia Emide che c’è sempre nella mia vita e che mi sostiene, pompandomi continuamente e considerandomi la sua autrice preferita. La sua presenza è come una boccata di aria fresca per me. (Bijou, LadyWolf, anche lei è una fan di Coso).

Ringrazio WarHamster che è il mio primo tentativo fallito di avere una beta XD

L’avevo assunta perché volevo aggiornare e scivolare a qualcun altro il compito di revisionare i capitoli precedenti, ma poi mi sono detta che tanto mancava poco per finire e, quindi, avrei potuto farlo da sola. La ringrazio perché, nonostante il brevissimo sodalizio, sono riuscita, grazie ai nostri scambi di opinione, a fare chiarezza su molti aspetti e poi, una che mi scrive cose come: “tu invece sei un irish coffee a Tokio. Perché hai colori un po' elettronici nipponici, uno stile cremoso e corposo con retrogusto di whisky e una punta di surrealismo (magari non voluto) abilmente mescolata alla realtà pura e semplice.” Come si può non amarla?? XD

Ringrazio tutti quelli che hanno inserito la storia nelle seguite/preferite/ricordate e soprattutto tutti quelli che, una volta finito di leggere il racconto, decideranno di non volerlo perdere inserendolo nei Preferiti forevah.

Grazie a chi mi ha inserito negli autori preferiti.

Se ho dimenticato qualcuno siete liberi di odiarmi.

Spero davvero di avervi regalato una storia che vi abbia fatto provare emozioni.

Alla prossima storia… se mai ne scriverò un’altra.

Grazie a tutti, davvero e grazie a Lizzie, Beatrix, Chaz, Robert, Nina, BradschifoachiliBrad, George, Emma, Joseph, Emily, il sacerdote stronzo, il barista mai visto dell’Escape, la drag queen Lulù che non s’è mai vista anche lei, Lee e juky il jukebox.

E grazie con tutto il cuore a Jay e a Izaya che mi hanno fatto provare le emozioni più belle che io abbia mai sentito.

Bloomsbury
 

Fine

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2381200