Le onde

di Vale11
(/viewuser.php?uid=71265)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 4 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 26: *** 26 ***
Capitolo 27: *** 27 ***
Capitolo 28: *** epilogo ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Qualcuno aveva scelto che profumasse di mare, e non di uomo. Qualcuno gli aveva messo il mare negli occhi, e la risacca nel cuore. Che gli regalava tutto, e poi glielo portava via. Qualcuno aveva deciso che i suoi capelli fossero onde. Nere, e lucide. Qualcuno aveva deciso che fosse fatto di mare. E il mare è triste, meraviglioso e crudele. Forte. E solo. E se il mare ti chiede di non lasciarlo dormire da solo, tu cosa fai?
 
Contò fino a dieci, prima di aprire gli occhi. Faticoso, la mattina. Sempre faticoso. Sempre stato faticoso, da che ne aveva memoria.
E di memoria ne aveva, e non ne aveva.
L’isola se l’era portata via quasi tutta, la memoria di prima. Ma ormai viveva sull’isola da decenni, e quelli li ricordava tutti. Forse secoli. Forse. Chissà. La memoria di adesso, come la chiamava lei, c’era tutta. E c’era lo sconcerto di dimostrare sempre un’età indefinita fra i venti e i trent’anni. Più trenta che venti. Quando avrebbe dovuto averne come minimo qualche centinaio.
Come minimo.
Contò fino a dieci.
Faticoso. Sempre stato. Forse anche prima. Forse no. Non lo sapeva più.
Si passò una mano alla base del collo, tirandosi i capelli corti in un tentativo di autoconvincersi ad alzarsi dal letto. Come se la mano non le appartenesse, e fosse l’appendice antropomorfa di qualche sveglia malefica giunta a darle la scossa finale.
Dieci.
Sveglia.
Sveglissima.
Ciondolò fino alla finestra della sua casa. Capanna. Cosa-con-un-tetto-sopra. E all’inizio lo scambiò per un animale ferito. Poi per uno scoglio. Quando la vista decise di mettersi in moto, capì che era un uomo.

---

eccoci. a vent'anni passati da un pezzo (ma sempre più 20 che 30) a rimbambinirmi con peter pan. anzi: con il mio cattivo preferito. ecco.
credo di aver finito il libro. e il dvd. finito nel senso che a forza di rileggere e rivedere li ho quasi distrutti.
quasi.
detto ciò...basta.
detto ciò: basta.
anzi: dice, chi è sta tizia che ci mette ore a svegliarsi la mattina? lo scoprirete a breve, sempre che vi interessi.
direi.
baci.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2 ***


L’uomo che aveva scambiato per un animale prima, e per uno scoglio poi, aveva lunghi capelli neri e bagnati attaccati alla fronte e alla schiena. Mossi, e impastati di sabbia e sangue. Stava sdraiato su un fianco, quasi in posizione di difesa. Aveva gli occhi chiusi. Il braccio destro stretto al petto, uno strano marchingegno in cuoio e metallo avvolto intorno. Aveva la camicia nera a brandelli. Aveva il respiro pesante, e un tremito lo scuoteva regolarmente, quasi con cattiveria, ogni volta che cercava di buttare aria nei polmoni. Aveva una serie di strane ferite circolari e profonde che gli marcavano la spalla destra: file di denti più o meno lunghi, ma comunque aguzzi, che sembrava l’avessero quasi masticato. E aveva il braccio sinistro segnato da un lungo taglio irregolare, come se qualcosa di particolarmente affamato avesse provato a strapparglielo via. Attraverso i brani di stoffa della sua camicia si intravedeva il colore di qualche tatuaggio. Le dita della mano sinistra si contraevano ritmicamente seguendo i battiti del cuore, si chinò d’istinto per fermarle, appoggiando una delle sue mani sulla sua. L’altra sulla tempia, scoprendo nuove escoriazioni più leggere. Una ferita sulla fronte, un occhio leggermente cerchiato di nero, il sopracciglio dell’altro attraversato da un taglio netto. Il labbro inferiore spaccato, appena un po’ a sinistra rispetto al centro. Si chiese con che razza di bestia avesse avuto a che fare quell’uomo per ridursi così, e perché il suo sangue avesse quello strano colore, quasi malsano.
Strinse la sua mano fra le sue, più piccole.
“Calmo. Fermati. Sei vivo. Ci sei.”
Gli passò un braccio dietro le spalle per spostarlo al coperto. Era così freddo. Si rese conto che l’ammasso di metallo e cuoio gli serviva per tenere un uncino fissato al polso destro, dove avrebbe dovuto esserci una mano.
Lei conosceva quell’uomo. O meglio. Lei sapeva chi fosse quell’uomo. Non poteva dire di conoscerlo. Per come lei intendeva il verbo conoscere, immaginava che nessuno potesse dire di conoscerlo. Ne sapeva qualcosa, e quel qualcosa rendeva un ossimoro la sua condizione contingente. Un uomo orgoglioso, vendicativo e crudele, questo dicevano le sirene. Un uomo solo, come il mare. E come il mare, altrettanto ammaliante. Pericoloso. E interessante.
Ma, viste le sue condizioni, se ne sarebbe preoccupata dopo.
Si rese conto del suo respiro accelerato dopo pochi passi, e delle rughe di dolore che si erano formate sul suo viso quando l’aveva spostato. Situazione pessima. Disastrosa. Quando avevano raggiunto la soglia di casa, il suo ospite aveva spalancato gli occhi si era lasciato sfuggire dalle labbra uno strano lamento. Come quello di una belva ferita. Non aveva mai visto degli occhi così.
 
Tutto si poteva dire, tranne che tempo prima, parecchio tempo prima, non si fosse organizzata a dovere. Viveva a metà strada fra la foresta e la spiaggia, sotto una fonte d’acqua. La pendenza l’aveva aiutata a scavare il canale che le portava l’acqua  davanti casa, senza obbligarla a viaggi continui e faticosi in giro per il bosco. Ringraziò mentalmente l’accorgimento di anni prima. Secoli prima. Di una vita prima. Le sarebbe venuto l’esaurimento nervoso, altrimenti. Mise a bollire un paiolo d’acqua per l’ennesima volta. Finì di pulire e disinfettare il braccio del suo ospite prima di ricucirlo, sterilizzò l’ago sul fuoco, con l’alcool.
Lo sapeva che aveva un nome.
James Hook.
Lo conosceva pure.
Ma si rifiutava di usarlo finchè lui non glielo avesse permesso. Sono cose importanti, i nomi. Accozzi di lettere con un certo potere dietro, in un certo senso. Ed essere relativamente famosi, come l’uomo di cui si stava occupando ora, era quasi una maledizione. Perché tutti avrebbero saputo il tuo nome, ma tu non avresti saputo il loro. Non era una situazione in cui lei avrebbe voluto trovarsi. Tutti avrebbero creduto di conoscerti, mentre magari nessuno era in grado di poterlo fare.
Anche lei aveva un nome. Ma lo teneva nascosto bene. Significava molto, quel nome, e nulla di positivo. Lo conosceva chi la conosceva, e tanto bastava. Quel ragazzino volante lo conosceva, e al villaggio indiano lo conoscevano. Ma non tutti. Non tutti. La tribù di bambini che seguiva Pan invece non aveva la benché minima idea di come si chiamasse, ne le fate.
Le sirene si. Tutte le sirene si. Ne avevano diritto, da quando si era tagliata i capelli.
Gli pulì di nuovo il braccio prima di fasciarlo, passando con l’alcool su tutta la lunghezza della ferita. Lo vide stringere gli occhi senza aprirli. Non li aveva più rivisti da quando, entrando in casa, li aveva spalancati per mezzo secondo. Poi era crollato di nuovo, e non poteva non pensare che gli fosse andata bene così. Stare sveglio per tutto il tempo delle medicazioni non gli sarebbe piaciuto. Con tutti i buchi che aveva in corpo, non sarebbe piaciuto a nessuno.
Gli spostò una ciocca di capelli scappata dalla coda che gli aveva fatto poco prima con un laccio di cuoio. Capelli ribelli. In lui nemmeno quelli parevano domabili. Appoggiò la stoffa imbevuta d’alcool sul taglio e lo vide stringere di nuovo gli occhi, in una manifestazione inconscia di fastidio.
“Lo so che non ti stai divertendo, ma ho quasi finito”
Si sedette sul letto, iniziando a disinfettare il taglio sul sopracciglio. Era diverso dagli altri, sembrava fatto con un’arma da taglio, non con qualcosa di seghettato e irregolare. Spostò lo sguardo sull’ammasso di cuoio e metallo che di solito portava addosso, appoggiato sul tavolo in mezzo alla stanza.
Quella era un’arma da taglio. E sembrava anche ben affilata. L’uncino era sporco di sangue, ma se fosse suo o di qualcun altro, o qualcos’altro, non avrebbe saputo dirlo.
Scosse la testa, continuando a cercare di convincere quei riccioli neri a stare dove dovevano stare, e non dove volevano stare. Impossibile. Indomabili, di nuovo. Come gli occhi che aveva visto per pochi centesimi di secondo solo poche ore prima. Le dispiaceva non poterli rivedere anche in quel momento, aveva la sensazione che in compagnia di quell’uomo una persona avrebbe potuto vedere il mare ogni volta che voleva, solo guardandolo negli occhi.
E il mare è pericoloso e inaffidabile, triste e crudele, immenso e profondo. Non era da tutti avere il mare negli occhi.
Aspettò di sentire il suo respiro regolarizzarsi e di aver ricontrollato tutte le fasciature
Spalla braccio e schiena
 prima di addormentarsi con la testa sul cuscino sul quale riposavano onde di riccioli neri.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 4 ***


Quando smise di tossire, si rese conto che non aveva il suo uncino addosso. Ovvio, se l’aveva medicato. Non poteva averlo fatto con quella giungla di cuoio a creare problemi. Frugò la stanza con gli occhi alla ricerca della sua assicurazione sulla vita, e della sua maledizione.
La donna coi capelli corti sembrò accorgersene.
“Cerchi quello?”
La vide indicare il tavolo con la mano. La sua arma più fedele lo guardava, appoggiata sul piano di legno. Spostò di nuovo lo sguardo verso gli occhi verdi della donna. Ci pensò un po’. Era la prima volta che non era infastidito, sentendosi dare del tu fin da subito.
Annuì.
 
Lo vide guardarla, pensando chissà cosa, prima di annuire di nuovo. Stando attento alla spalla ferita, questa volta. “E’ da risistemare. Qualsiasi cosa tu abbia fatto non l’ha ridotto bene”. La guardò ad occhi spalancati, inclinando la testa di lato. Aveva finto di non sapere niente. Le avrebbe raccontato qualcosa lui in seguito, se avesse voluto.
Mai dare poco peso alle parole. Ne troppo peso ai racconti di Peter Pan, riportati dalle sirene. E in effetti, non credere a quei racconti significava ripartire da zero. In un certo senso, non ne sapeva niente. O poco più.
 
Che non ne sapesse niente sul serio?
Gli pareva strano. Su un’isola piccola come quella, le notizie volavano piuttosto veloci. Ne fu da un lato sconfortato, perché avrebbe significato una probabile futura spiegazione da parte sua. Quando sarebbe riuscito a spiccicare parola senza strozzarsi. Presto, immaginava.
Dall’altro sollevato, perché quella strana ragazza ancora non gli aveva chiesto niente. Forse era uno di quei rari esseri umani che aspettano che sia tu ad aver voglia di comunicare qualcosa.
Rari davvero.
Avrebbe voluto sapere da quanto tempo era li, dov’era, e con chi aveva la fortuna di cercare di comunicare, ma lo spiacevole inconveniente del quasi annegamento gli creava qualche problema. Poi si accorse che non c’erano altri letti nella stanza.
Dove aveva dormito lei?
 
Si accorse che stava per dirle qualcosa quando aprì bocca e la richiuse subito, ricordandosi del problema. Non voleva sicuramente ricominciare a tossire, non sarebbe stato piacevole. Lo vide guardarsi intorno, poi si batté un dito sulle labbra e parlò.
 
Sperò che riuscisse a leggere il labiale. Si sentiva un idiota a stare li, boccheggiando come un pesce.
 
Spero tu non abbia dovuto dormire per terra a causa mia.
Separò le parole con un po’ di difficoltà, ma riuscì a capire quello che voleva dirle al primo tentativo. Gli disse che aveva dormito seduta a terra, con la testa sul cuscino. Lo vide aggottare le sopracciglia e scuotere leggermente la testa, per quello che ferite e punti gli consentivano.
“Cosa c’è che non va?”
Gli occhi fatti d’acqua di mare non si staccarono dal suo viso, mentre articolava parole senza suono.
Cattive maniere da parte mia. Non dovresti dormire a terra.
Gli sorrise, cercando di non scoppiargli a ridere in faccia.
“Vedi altri letti? Ti assicuro che dormire come ho dormito io non è affatto scomodo”
 
Lo sapeva, ormai non contava più le volte che si era addormentato sulla scrivania. Dopo aver fatto fuori più di una bottiglia, solitamente. Quella era una questione di principio, però. Strinse le labbra e distolse lo sguardo, poi sillabò di nuovo qualcosa.
Sei una donna. Dovresti stare più comoda.
 
Lo guardò sorpresa. Non era la prima volta che qualcuno le riservava certe attenzioni dovute alla sua appartenenza alla parte femminile del mondo, ma era la prima volta che qualcuno lo faceva senza mai averla vista prima. Scosse la testa.
“Hai bisogno di un letto più di me”
Lo vide sorridere di nuovo, col sorriso sghembo che gli apparteneva, e cercare di spostarsi di lato. La fulminò con un’occhiata gelida quando cercò di impedirglielo.
 
Non senza sforzo ne senza una certa dose di sani epiteti poco educati ripetuti più volte nella sua mente, riuscì a spostarsi nella metà del letto più vicina al muro. Rabbrividì sentendo il lenzuolo freddo sulla pelle, e si fermò per riprendere fiato. Aveva fatto quaranta centimetri, ed era già distrutto. Forse la rissa col coccodrillo l’aveva ridotto peggio di quanto pensasse. Si voltò verso di lei ed indicò la parte di letto libera con un cenno della testa.
Prego.
“Non se ne parla”
La guardò come se avesse detto qualcosa di assurdo, tirò di nuovo su un sopracciglio e aspettò spiegazioni. Se pensava che avesse voluto farle qualcosa, in quelle condizioni, probabilmente aveva dei problemi. Non che l’avrebbe fatto, in ogni caso. Non era decisamente il suo stile. Affatto.
“Se mentre dormo mi muovo e sbatto contro di te? Voglio dire, se tocco le ferite di sicuro non ti faccio un favore. Ti sveglieresti, e invece hai bisogno di dormire”
Lo sguardo che le riservò fu quello che riservava alla sua ciurma quando qualcuno diceva qualcosa di particolarmente stupido. Tutto quello che ottenne come risposta, però, fu un mezzo sorriso da parte della diretta interessata. A quel punto, però, era curioso di valutare coi suoi occhi l’entità del danno.
 
Lo vide muovere il braccio sinistro e portarselo davanti agli occhi, valutare l’estensione della ferita e provare a muovere le dita della mano. Strinse le labbra più volte, probabilmente perché i punti tiravano, ma sospirò di sollievo quando riuscì a muoverle tutte e cinque. Nessun nervo danneggiato, e nessun tendine. Una vera fortuna. Spostò la mano sulla spalla fasciata, facendo scivolare il lenzuolo e scoprendo il moncherino della mano destra. Lo coprì subito, lanciandole un’occhiata.
Lo guardò incuriosita.
“Cosa c’è?”
Sembrò tranquillizzato dalla mancanza di reazioni di orrore e continuò l’esplorazione tattile della spalla, quando ebbe finito la guardò di nuovo, battendo la mano sulla porzione libera di letto.
Prego.
“Non è il caso”
Annuì.
“Perché?”
L’uomo si guardò intorno.
Ho freddo.
In effetti vedeva che aveva la pelle d’oca anche dal suo posto vicino al letto, ma decise di non cedere.
“Posso accendere un fuoco, se vuoi”
Le venne quasi da ridere, quando lo vide voltarsi dall’altra parte alzando gli occhi al soffitto, sillabando la parola stressante.
 
“E sia”
Sentì le coperte spostarsi, e il tepore dovuto ad un’altra persona vicina sostituire il freddo che sentiva da quando si era svegliato.
O meglio.
Da quando era finito in acqua.
Si sdraiò accanto a lui senza toccarlo, mettendogli una mano sulla fronte.
“Hai ancora freddo?”
Annuì ad occhi chiusi.
“Hai la febbre”
Annuì di nuovo.
La sento.
La mano della ragazza andò a cercare la sua. La sentì bollente contro la sua pelle gelata.
“Allora è vero che hai freddo”
Girò la testa verso di lei per quel poco che ci riusciva, alzando il sopracciglio sano per l’ennesima volta.
Sembrò che la scritta: ti pareva uno scherzo? Gli passasse dagli occhi.
 
Eccoli, gli occhi col mare dentro. Non era un caso se il mare aveva deciso di abitare dentro di lui. Era impossibile che lo fosse. Aveva il mare negli occhi, e la risacca nel cuore. E anche adesso che era riuscito ad addormentarsi e che poteva vederlo da vicino, si rese conto che nei suoi occhi le onde continuavano a ballare.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 3 ***


Le sirene le avevano raccontato che James Hook era morto. Era stato inghiottito intero dal coccodrillo che lo seguiva da una vita. Fine. Sparito. Nessuno l’aveva più visto. Nessuno l’avrebbe più visto.
Riassumendo, quindi, solo lei sapeva che il capitano del Jolly Roger fosse vivo. Avrebbe voluto avvertire i pirati rimasti sulla nave, se la nave fosse rimasta dov’era sempre stata. Peter Pan l’aveva usata per riportare a casa una buona serie di ragazzini. Ma ne sarebbero arrivati altri. Ne arrivavano sempre altri.
Tipico di Peter Pan, prendere tutto come un gioco.
Immaginava che i pirati avrebbero ripreso possesso della nave, una volta tornata sull’isola. E che in quel momento se ne stessero vicini alla spiaggia ad aspettare. Che altro avrebbero dovuto fare?
Inghiottito intero.
Quelle ferite non sembravano quelle di qualcuno che è stato letteralmente mangiato vivo. Sembrava che avesse lottato per un bel po’ con quel bestione squamoso. Chissà se quella specie di drago acquatico era vivo. E dov’era.
Non aveva detto alle sirene che il suo ospite era vivo. Non le sembrava ancora il caso. Non voleva che una notizia del genere arrivasse alle orecchie di Peter Pan.
Niente di personale, solo che non era il momento adatto per giocare, quello.
Rientrò in casa appoggiando i gomiti al letto, quell’uomo non si era ancora svegliato dal giorno prima. Aveva la febbre, ma la temperatura rimaneva sotto controllo.
Non che la cosa non la preoccupasse. Aveva pensato di rivolgersi agli indiani, ma questo avrebbe significato rivelare l’identità del suo ospite, e sarebbe stato un problema. Allungò una mano verso il fazzoletto umido che gli aveva messo sulla fronte, lo bagnò di nuovo, lo rimise al suo posto.
Decisamente, non le sembrava il momento adatto per giocare.
Affatto.
 
Quando sei sotto una buona dose di metri d’acqua il peso che ti senti addosso è impensabile. Impossibile da spiegare. Impossibile spiegare che cosa si sente quando i tuoi polmoni cercano di riportarti disperatamente su, e qualcosa di mostruoso cerca di portarti giù. Trascinandoti per una spalla.
Il processo inverso che fa un pesce attaccato all’amo.
Non è una bella sensazione.
Nemmeno sentire i polmoni che si riempiono d’acqua è una bella sensazione. Fa male.
Ti uccide, quasi.
E laggiù è davvero freddo.
E ci sono file di denti che ti guardano come a salutarti, mentre ti si chiudono su un braccio e iniziano a girare per staccartelo. E occhi gialli che diventano enormi quando pianti un pezzo di ferro appuntito dove capita, e lo senti entrare. Chissà dove. Grazie Pan, se non fosse stato per quest’appendice metallica avrei avuto problemi.
Certo.
Ma i denti non ci sono più. Il tuo sangue nemmeno. E tu neppure.
E fa freddo.
 
Lo guardò stringere le palpebre senza aprirle, di nuovo. Brutti sogni, forse. Mal di testa. Fastidio. Il dolore delle ferite. Poteva avere centinaia di motivi, e tutti giustificati. E lei non aveva la certezza di conoscerne nemmeno uno. Si sedette in terra, davanti al letto, e lo guardò dormire.
E in ogni caso, quelle ferite non erano quelle di qualcuno non ha nemmeno provato a salvarsi, come dicevano le sirene.
Erano le ferite di qualcuno che ci aveva provato eccome. Quindi quel qualcuno voleva vivere. Da questo si deduce che doveva vivere.
 
Tornare su in quello stato era stata una tortura. Buttare aria nei polmoni un’altra. C’era acqua la dentro, la sentiva. Pessima, pessima situazione. Usò i pochi secondi che gli rimanevano per controllare che la bestia non fosse ancora li intorno.
Pochi secondi.
Sentì qualcosa di morbido sotto le mani, si trascinò sulla battigia.
Poi più niente. Solo l’acqua nei polmoni che gli impediva di respirare come voleva, e il bruciare del sale nella carne viva. Faceva male, e faceva freddo.
Fu il freddo a svegliarlo.
 
La prima cosa che riuscì a fare fu tossire, sentendo i polmoni bruciare e la gola protestare vivacemente per quell’attività forzata.
La seconda cosa che riuscì a fare fu spaventare a morte la persona che aveva vicino. Cercò di metterla a fuoco, ma era troppo buio. Non sapeva dov’era, non sapeva con chi era, non sapeva in che stato era. Cercò di stare immobile, cercando di capirci qualcosa.
Ricominciò a tossire.
Al Diavolo.
Tremò. Aveva freddo. Di nuovo.
 
Si era svegliata di colpo quando l’aveva sentito tossire, e si era avvicinata subito senza toccarlo. Non voleva spaventarlo, e non voleva conseguenze. Non era un ragazzino sprovveduto quello che aveva in casa, aveva più di un morto sulla coscienza. Stranamente però l’idea non la disturbava. Un residuo della sua vita precedente. La coscienza vacante per certe cose. E amen.
Si fermò a pochi centimetri dalla sponda del letto. Poteva vedere i suoi occhi, ma non il loro colore.
Peccato.
“Posso avvicinarmi?”
 
Una donna.
Considerò le probabilità, e concluse che se l’avesse voluto morto, sarebbe già stato morto. E invece era vivo. E in ogni caso, qualcuno che vuole farti fuori non ti chiede se può avvicinarsi. Annuì. Il dolore gli arrivò addosso come una fucilata.
 
Lo vide stringere gli occhi senza sputare una mezza sillaba, poi capì. L’adrenalina scende, il dolore sale. E sicuramente non doveva essere una sensazione piacevole quella di riacquisire coscienza del proprio corpo, se il proprio corpo è ridotto in quello stato.
 
Respira. Respira. Respira. O per lo meno provaci.
Tossì, di nuovo.
Per lo meno, un po’d’aria sarebbe passata.
Faceva male, e faceva freddo.
Sentì il rumore di una lampada ad olio che veniva accesa, ed una mano sulla fronte. Chiuse gli occhi e li riaprì, infastidito dalla luce, cercando di abituarsi. La vide.
Aveva i capelli rossi. Corti. E strani occhi verdi.
Mai visti occhi così.
 
Eccolo, l’uomo col mare negli occhi. Lo guardò mentre la guardava, incerta sul fatto che riuscisse effettivamente a vederla. Immaginò di si. Tenne la mano sulla sua fronte, sembrava che l’avesse calmato in qualche modo.
“Fai piano, non sei esattamente in piena forma”
Quando fece per risponderle, la voce non uscì. Iniziò a tossire di nuovo. Gli passò una mano fra i capelli d’istinto, non sapendo come fare per aiutarlo.
“Non parlare ancora, sei quasi annegato”
Lo vide calmarsi, provare a respirare, riuscirci. Aprì gli occhi e li fissò nei suoi. Alzò un sopracciglio, quello non diviso a metà da una linea netta di sangue. Quello circondato dall’alone violaceo di un livido. E si lasciò scappare un mezzo sorriso leggero, bloccato dal labbro spaccato, prima di riprendere a tossire.
Era un chiaro: Ah si? Non ci avevo fatto caso.
Gli sorrise di rimando, passandogli una mano fra i capelli mentre tossiva, in un tentativo di calmarlo piuttosto vano. Quell’uomo le stava già simpatico. Per ora.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5 ***


Aveva temuto di svegliarlo muovendosi. Aveva sempre avuto il sonno agitato. Spizzichi e bocconi di immagini le passavano per la testa, e non sempre risultava piacevole. Quasi mai. Ma lui la batteva. Lui la batteva egregiamente.
 
Denti, e sangue. Un colpo alla tempia che l’aveva fatto vacillare, poi il morso alla spalla destra.
 
Tirò su la testa per osservarlo meglio. Dire che aveva il sonno agitato era un eufemismo. Stringeva gli occhi, muoveva la testa in un modo che se fosse stato sveglio gli sarebbe risultato doloroso, visti punti e ferite. Cercò di svegliarlo prima che peggiorasse la sua situazione.
 
Ci aveva messo un po’, per reagire. Quelle tre parole che gli rimbalzavano in testa l’avevano quasi fermato. Quelle tre parole. Assestò un colpo alla bestia, ma fu intercettato. Sentì i denti chiudersi intorno al braccio sinistro.
Se non fosse stato sott’acqua avrebbe urlato. E i suoi polmoni già lo facevano.
 
Gli tolse i capelli dalla fronte, quelli sfuggiti di nuovo al laccio di cuoio che li costringeva in un unico, spesso, fascio di riccioli neri. Ci rimise il fazzoletto umido che aveva ripreso a passargli sul viso quando si era accorta che si agitava in quel modo, temendo che la febbre salisse. Sperando di svegliarlo. Niente. Gli prese il viso fra le mani.
“Fermo. Va tutto bene. Stai fermo.”
 
Quando aprì la bocca per respirare, in un primordiale riflesso condizionato, sentì l’acqua invadergli i polmoni. Chiuse gli occhi mentre sentiva il coccodrillo iniziare a girare su se stesso, cercando di portare il suo braccio con sé.
Non sapeva se era quello che gli faceva più male, o i polmoni che protestavano per l’invasione.
 
Aprì le dita a ventaglio, attenta a non appoggiarsi alle ferite coi gomiti, cercando di tenerlo fermo. Se non riusciva a svegliarlo, avrebbe almeno cercato di impedirgli di farsi del male. Anche se non volontariamente.
 
Aveva attaccato alla cieca, con gli occhi chiusi, il dolore ai polmoni si confondeva con tutti gli altri. Alzò l’uncino per difendersi, tagliandosi un  sopracciglio. Era solo un dolore in più. E laggiù faceva freddo.
 
Lo sentì iniziare a respirare più velocemente, prese a passargli una mano fra i riccioli neri, cercando di svegliarlo quasi disperatamente.
 
Gli era sembrato un miracolo, quando aveva sentito l’uncino entrare nella carne dell’animale. Non sapeva come. Non sapeva dove. Aveva solo sentito la presa allentarsi, e aveva colpito di nuovo. Prima di scalciare come un disperato in direzione della superficie, cercando aria.
 
Continuò a passargli una mano fra i capelli per diversi minuti, l’altra ferma sulla sua guancia per continuare a tenerlo fermo.
“E’ un sogno, non è niente. Svegliati.”
Gli tirò su il lenzuolo quando lo fece cadere, muovendosi. Si appoggiò col gomito al materasso, tenendogli su le coperte con una mano, e il viso fermo con l’altra.
“Svegliati, fammi il favore. Non è niente.”
 
Il mare non gli era mai sembrato così immenso. Enorme, nella sua mancanza di angoli riparati e possibilità di guardarsi le spalle. Iniziò a spostarsi verso la riva per forza d’inerzia. O volontà di sopravvivere. Non lo sapeva più. Rimase solo il mare. E le onde.
 
Lo sentì rilassarsi quasi impercettibilmente, ma mantenne la presa. Quando finalmente smise di agitarsi capì che probabilmente il peggio era passato. Non poté ritirare la mano dalla sua guancia, però. Il viso dell’uomo ci era appoggiato contro, e non voleva svegliarlo. Non ora che sembrava più tranquillo.
 
Era quasi al sicuro, quando si sentì di nuovo tirare sotto. Non fece nemmeno in tempo a prendere aria, che vide file di denti sfiorargli il fianco sinistro. Il sale nelle ferite bruciava da impazzire.
Ma gli ricordo che era ancora vivo. Quasi sicuramente solo. Forse anche vecchio. Ma non defunto.
 
L’uomo sussultò sotto la sua mano, strinse nuovamente la presa sul suo fianco, continuando a tenerlo coperto. Non poteva dire che fosse freddo, ma di notte era tutto fuorché caldo. E non voleva che la febbre aumentasse.
 
La coda dell’animale lo colpì in volto come una frustata, sentì l’occhio destro perdere sensibilità per qualche istante. Se fosse sopravvissuto, un occhio nero non gliel’avrebbe tolto nessuno. I denti della bestia affondarono nuovamente nella carne della spalla, guidate dall’odore del sangue. Del suo sangue. Per la seconda volta.
 
Entrò quasi nel panico, quando lo sentì ricominciare a muoversi, forse più violentemente di prima. Incastrò le dita della mano destra fra i riccioli neri, il pollice sulla tempia dell’uomo nel tentativo di calmarlo.
“Calmati. È un sogno. Svegliati. Svegliati!”
 
Quella volta urlò davvero, anche se il suono si disperse in acqua. Si spinse oltre la superficie scalciando, sentendo il fondale sabbioso sotto i piedi. C’era quasi. Pochi metri e si sarebbe salvato. Peccato che quel residuato di dinosauro non estinto non la pensasse allo stesso modo.
Sentì il sangue salirgli alle tempie, la sua vista diventare rossa. Affondò il metallo nella carne della bestia, di nuovo. Di nuovo non sapeva dove, ma la presa sulla sua spalla scomparve immediatamente. E si rese conto di avergli reciso la gola. Praticamente per caso. Era vivo per caso. Piuttosto eloquente.
Poi c’era stato l’arrivo sulla spiaggia. E due occhi verdi erano stati la prima cosa che aveva visto, dopo che era svenuto. Due occhi verdi così strani. Mai visti occhi così.
 
Sospirò di sollievo quando lo vide aprire gli occhi di scatto, fissandoli nei suoi. Ci volle un poco più di un secondo perché la tempesta che li agitava si calmasse, e al suo posto tornassero le onde. Placide. Che, come tutti i mari, nascondevano qualcosa di prezioso, che non doveva essere visto. Che non voleva essere visto. Poco più di un secondo le era bastato per accorgersi che quel sogno l’aveva scosso, e non poco.
“E’ finito.”
 
Intendeva il sogno, e lui lo sapeva. Ma non era un sogno, quanto un ricordo. E i ricordi non sono come i sogni, che si dimenticano appena svegli. Ti restano attaccati e non se ne vanno. E se non ci stai attento, ti portano giù con sé. Chiuse gli occhi, sentendo la presenza rassicurante delle sue mani. Una sulla guancia, l’altra sul fianco. Si trovò di nuovo a riflettere che per la prima volta essere toccato in quel modo, quasi a proteggerlo, non gli dava fastidio. Annuì, non fidandosi ancora della sua voce.
 
L’uomo che aveva accolto la stupiva sempre di più. Le era stato descritto come crudele, al limite del sadico. Un assassino guidato dalla vendetta, seppur con modi signorili. Ma un assassino resta un assassino, anche se ben educato. E invece quello che aveva davanti agli occhi era molto più umano di quello che credeva di sapere, forse anche a causa del sogno, della febbre o delle ferite. Un punto in più per la sua teoria. Non si conosce mai nessuno, fino in fondo. Mai. Lo vide chiudere gli occhi e voltare il viso verso la sua mano, sempre ferma sulla sua guancia, forse inconsciamente. Annuì. Gli risistemò addosso coperta e lenzuolo.
“Riesci a dormire?”
 
Aprì gli occhi e la guardò di nuovo, incerto se annuire solamente o provare a spiccicare qualche sillaba. Quando la gola sembrò rispondergli positivamente, deglutì. Provarci non gli sarebbe costato nulla.
“Credo di si”
Non era la sua voce, quello che gli uscì di bocca era un sibilo roco, irriconoscibile. Ma si accontentò. La vide sorridere.
 
“Ma guarda, qui c’è qualcuno che parla”. Il suo sorriso si allargò, vedendo l’espressione offesa che si era dipinta sul viso dell’uomo col mare negli occhi, ed aumentò sentendo la sua risposta. Il tono piccato evidente anche nel sibilo rauco che gli uscì di bocca.
“E’ un’abilità che mi è mancata solo nelle ultime ore.”
“Lo so”
Annuì, togliendogli i capelli dagli occhi.
“Dormi ora, credo tu ne abbia bisogno”
 
Annuì, cercando di sistemarsi più comodamente senza scomodare spalla e braccio. Un’impresa più ardua del previsto. Chiuse gli occhi, quasi sperando che le mani che l’avevano tenuto fermo mentre sognava, restassero dov’erano. Una sulla sua guancia, l’altra sul fianco. Non l’avrebbe dato a vedere. Mai. Ma era un essere umano. E a volte anche un essere umano come lui aveva bisogno di sapere che c’era. Che non era del tutto solo, per lo meno fisicamente, soprattutto dopo aver rischiato di morire due volte nel giro di poche ore. Sentì sollevarsi dalle spalle un peso che non sapeva di avere, quando si rese conto che le mani della donna coi capelli rossi erano rimaste dov’erano.
 
Aspettò che si addormentasse prima di staccare la mano dal suo viso, ma lascò la sinistra sul suo fianco, con le coperte strette fra le dita. L’avrebbe aiutata a tenerlo al caldo e, col braccio appoggiato sul suo addome, avrebbe potuto controllarne il respiro. Si addormentò, sentendo il mare respirare accanto a lei.

----

VaVa_95: Oilà, grazie! Sono lusingata, e felice di sapere che ti spia piaciuta. Questo capitolo te lo dedico, quindi. In ogni caso, la storia arriverà a termine regolarmente, le cose lasciate a metà mi turbano. Temevo di essere l'unica ad essere fissata con Peter Pan anche dopo aver doppiato il traguardo dei10 anni. Devo dire che mi sento sollevata :D
Un bacio.
Vale

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 6 ***


Quando si vegliò, lo fece sentendo un peso leggero all’altezza dell’ombelico. Un dolore pulsante alla spalla destra, grazie all’anima nera dei suoi sogni maledetti. E un discreto mal di testa, dovuto probabilmente al sonno non esattamente tranquillo. O alla febbre. Niente coccodrilli, al secondo giro, ma non era solo il dinosauro malriuscito che lo disturbava, di notte. Aveva un vasto catalogo da cui scegliere, e da cui avrebbe preferito non scegliere mai, se avesse potuto. Il condizionale era di rigore. Si spaventò di non essere disturbato dal fatto che quella ragazza, quella donna coi capelli rossi, stesse dormendo praticamente abbracciandolo e tenendogli su le coperte. Si spaventò perché, per la prima volta, si fidava istintivamente di qualcuno mai visto prima. Un evento da commemorare.
Però il peso sulle spalle, quello che aveva scoperto solo la notte prima si avere, non era ancora tornato.
Si riaddormentò. Ma quando si svegliò scoprì di essere solo.
 
Peter Pan non era ancora tornato, l’inverno non se ne era ancora andato e il suo lavoro in quel modo risultava molto più piacevole. Dette un’occhiata veloce alla fornace, controllò la temperatura e sorrise soddisfatta. Aveva fatto un buon lavoro. E di nuovo, la sua coscienza tornò vacante. Quando lavorava si dimenticava che ciò a cui restituiva la vita l’avrebbe rubata a qualcun altro. Ma non c’era niente da fare. Amava quel lavoro. Era il lavoro di suo padre, e lei aveva imparato bene. Temprò il risultato di una mattinata di lavoro, e si spostò alla mola per affilarlo.
 
Dopo la quarta volta che provava ad alzarsi e ricrollava sul letto, riuscì a reggersi sulle gambe e fare qualche passo. Prima di doversi appoggiare alla parete di legno con la schiena, maledicendo le ferite sulla spalla a contatto del muro.
Non è stata una gran bella idea.
Ma era curioso, da la fuori veniva una luce non indifferente.
 
Si prese un accidente quando vide l’ombra di un uomo delinearsi sulle piante davanti a lei, ma il secondo pensiero fu quello che formulò a voce alta.
“Cosa ci fai in piedi?”
 
Lo chiese voltandosi verso di lui con una tale velocità che rimase spiazzato. Quegli occhi verdi così strani fissi nei suoi. Aveva l’abitudine di guardarlo negli occhi, ed era una cosa che non faceva mai nessuno. Per paura. Forse era per quello che si fidava di lei, perché non aveva paura di lui. E quindi non aveva interesse a nuocergli, per lo meno per ora.
Gli aveva salvato la vita, se non l’avesse trovato sulla spiaggia sarebbe morto. E sarebbe sicuramente morto anche se l’avesse trovato, e avesse deciso di lasciarlo dov’era. E invece l’aveva salvato. Senza chiedere nulla in cambio. Non era sicuramente qualcosa a cui fosse abituato, continuava ad aspettarsi una fregatura, da qualche parte.
Anche se una parte di lui gli rimproverava quella mancanza di fiducia. E pure quella era qualcosa a cui non era abituato.
L’aveva salvato pur sapendo chi fosse, perché ricordava perfettamente che l’uncino gli era attaccato addosso. E su quell’isola solo lui andava in giro con un arma attaccata al polso destro. Non sapeva bene cosa pensare. Gli sorrise. Stette zitto, cadendo a sedere contro un albero. Senza mai smettere di fissarla. Una ragazza coi capelli rossi, corti. Gli occhi verdi. Vestita praticamente da uomo, in piedi accanto a una fornace da fabbro.
 
Le veniva da ridere, le sembrava di sentire il ronzio del suo cervello dal suo posto vicino alla fornace. La guardava talmente confuso e curioso che le risultava impossibile rimanere seria. Gli sorrise, salvo correre accanto a lui quando cadde a sedere contro il tronco di un albero. Faceva ancora abbastanza fresco, e quel pazzo era uscito senza camicia, con la febbre e ridotto a un colabrodo. Gli appoggiò una mano sulla fronte, sospirò.
“Tutti ti descrivono come molto intelligente, devo ricredermi?”
 
Quella ragazza non smetteva di stupirlo. Anzi. Era lui che non smetteva di stupire se stesso. Avrebbe ucciso chiunque altro avesse osato dirgli una cosa del genere, ma lei no. Non avrebbe potuto toccarla nemmeno volendo.
 
“Hai la febbre, sei vivo per miracolo. Avanti, torniamo dentro”
Gli passò un braccio dietro la schiena, scusandosi quando si accorse che il contatto con la spalla ferita non gli faceva piacere. Si rese conto che non aveva ancora spiccicato parola. Si appoggiò una mano sulla gola, poi la appoggiò sulla sua.
“Ce la fai? A parlare, dico”
 
Si sentì la gola secca. Ecco cos’era, la totale, spaventosa, completa spontaneità di quella ragazza sconosciuta lo destabilizzava. Viveva circondato da persone che facevano di tutto, di tutto, per non avere contatti con lui. Ed ecco che quella ragazza, che nemmeno conosceva, gli parlava da pari, lo toccava, addirittura, con una naturalezza disarmante. E questo era destabilizzante, ma piacevole. In un modo a lui sconosciuto, ma piacevole. Continuò a tacere, completamente nel pallone, con la sua mano ancora sul collo.
E adesso?
 
Gli sorrise, scuotendo la testa.
“Riesci ad alzarti? Ti porto dentro?”
Lo vide guardarsi intorno.
“Cosa stavi facendo?”
La voce era ancora arrochita, ma era già più sua.
 
La vide illuminarsi, soddisfatta. Forse dalla domanda, forse perché aveva parlato. Forse chissà perché.
“Hai una bella voce”
Spalancò gli occhi, anche se il sopracciglio tagliato protesto vivacemente. Soppresse l’imprecazione, dipingendosi sul viso il suo sorriso storto, tirando su solo un angolo della bocca.
Era raro che si concedesse un sorriso completo. Forse, in effetti, non era mai successo. O se ne era dimenticato.
“Perché non hai ancora sentito quella vera, dammi tempo”
Gli sorrise di nuovo, divertita.
“Tutto quello che ti serve, allora. Confido che tu riesca a stupirmi”
“Sarà esaudita, signora. Cosa stavi facendo?”
 
“Oh si, giusto”
Si passò una mano alla base del collo.
“Facciamo così. Ti porto dentro, tu ti stendi, ti pulisco le ferite e te lo spiego”
Gli appoggiò una mano sul fianco, aiutandolo a rimettersi in piedi.
“Avanti, qua fuori fa freddo. E tu non sei in piena forma”
“Lo so. Ho una domanda”
Si fermò a guardarlo, aspettando che continuasse.
 
“Chi sei? Immagino che tu sappia chi sono, ma io non so chi tu sia”
La vide annuire, seria. Tenere dentro aria, e poi buttarla fuori tutta insieme.
“Ti porto dentro, ti stendi, ti pulisco le ferite e ti spiego cosa stavo facendo. E parliamo. Vuoi?”
Annuì.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 7 ***


Un piccolo appunto: per la storia di James Hook ho preso spunto dal libro di Hart "Capt. Hook, the adventures of a notorious youth", che da noi in Italia, purtroppo, non è uscito. Me lo sono ordinato su Amazon e me lo sono letto in inglese. Ebbene si, sono fissata. Ad ogni modo, non è un libro per bambini: è cinico, crudele e disincantato anzichennò.
E' un ottimo libro, oso consigliarvelo.
Nel caso ve lo steste chiedendo, anche quando parlo uso queste parole. Immaginatevi le facce della gente che mi sta a sentire. Epiche. "Ma che cosa sta dicendo?"
Ed ora, a noi!


--------------

Brutte ferite, non aveva potuto ricucirle tutte. Quella sul braccio era quasi regolare. Quasi. Quindi il lavoro di ago e filo era stato possibile. Ma la spalla no, le ferite erano talmente irregolari da poter essere classificate come sbrani, e quindi niente punti. E questo poteva creare problemi, oltre che sicuri fastidi al proprietario della spalla stessa, e una guarigione probabilmente più lenta. Aveva potuto ricucire solo il taglio che l’aveva impressionata più di tutti, quello che andava dalla scapola destra fin sotto lo sterno. Fortunatamente era relativamente superficiale, altrimenti sarebbe risultato fatale.
Lavorò ai nodi delle bende, maledicendosi per averli fatti così stretti. In ogni caso, quell’uomo avrebbe avuto un buon numero di cicatrici da aggiungere alla sua già corposa collezione. Il pezzo più pregiato e più crudele, sicuramente, era il polso destro. La pelle di quell’uomo somigliava quasi a una ragnatela, ma immaginava che comandare una nave pirata avesse i suoi effetti collaterali.
Liberò il braccio sinistro dalle bende, continuando a rimuginare sul fatto che se fosse stato possibile leggere la storia delle persone attraverso le cicatrici, quell’uomo sarebbe stato un libro aperto. E invece no: era un diario sigillato a suon di lucchetti. Uniche finestre in quella lastra d’ardesia erano gli occhi, che parlavano col linguaggio del mare.
C’erano tempeste e calma forzata la dentro, quando il loro proprietario li obbligava ad adeguarsi all’impassibilità della sua figura. Uno specchio che ti impediva di guardare attraverso. Salvo gli occhi, certo, che a volte parlavano troppo e lo fregavano. E che
Oddio
Non avevano mai smesso di fissarla da almeno dieci minuti. Non se ne era accorta fino a quel momento.
Gli sorrise.
“Si?”
 
Non riusciva a darle un contesto, mentre la guardava sciogliere le bende che coprivano il suo braccio sinistro. Ci aveva pensato, eppure niente. Sapeva che l’isola poteva raccogliere persone che venivano da luoghi e tempi completamente diversi, ma lei sfuggiva a qualsiasi categorizzazione. L’accento non era inglese, anche se la lingua era quella. Poteva sembrare irlandese, ma alcune consonanti erano così indurite da sembrare di cartavetra. E il gaelico è una lingua morbida, non ruvida come quella che ogni tanto le usciva di bocca.
Il suo modo di comportarsi, poi, era un mistero. Non era raffinato, al limite dello snob, come quello delle grandi dame. Non era nemmeno esageratamente sfacciato come quello delle prostitute. E neanche ingenuo, tanto da risultare irritante, come quello delle ragazzine.
Anche perché lei non gli sembrava davvero una ragazzina.
Era libera. Semplicemente libera e spontanea come aveva voglia di essere.
Poteva dimostrare 27 anni, forse 30. Ma forse anche 25. Grazie all’isola che confondeva le idee.
Se non avesse avuto un sopracciglio spaccato, che gli limitava i movimenti del viso, probabilmente la sua espressione sarebbe stata così perplessa da risultare comica. C’era da ridere, a pensare di dover ringraziare un coccodrillo per avergli evitato di fare una figura ridicola.
Sapeva come trattare le ferite, scoperta fatta grazie all’esperienza diretta, e sapeva anche come lavorare il ferro. Cosa stesse facendo quella mattina, per lui era ancora un mistero. Si rese conto che doveva averla fissata per tutto il tempo quando se ne accorse anche lei.
“Si?”
Gli sorrise. Lui le rispose col suo, di sorriso. Quello storto, che non permetteva mai ai due angoli della bocca di tirarsi su simultaneamente. La sua anima pirata prese il sopravvento.
“Ho una proposta. Un patto. Chiamalo come vuoi”
 
Lo guardò piegando la testa di lato, come fanno gli animali per ascoltare meglio. Si limitò a tirare su un sopracciglio e ad annuire, voltandosi per prendere bende pulite e alcool. Un patto con un pirata poteva essere anche pericoloso, ma si esimeva da qualsiasi giudizio prima di sentire cosa aveva da dirle. Si sedette di fianco a lui, col suo braccio appoggiato sulle ginocchia.
“Spiegami”
 
Fece una smorfia ma non emise un suono quando l’alcool entrò in contatto con la carne viva della ferita, riguadagnando subito la sua compostezza.
“Una domanda a testa. Volendo, è possibile non rispondere. Ma solo se strettamente necessario”
Il suo sorriso sghembo gli affiorò nuovamente sulle labbra. La vide alzare tutte e due le sopracciglia, stupita, mentre gli teneva il polso in grembo.
“Oh, è questo? Credevo peggio”
 
Si stupì ancora di più quando lo sentì ridere. Era una risata bassa, quasi sinistra, probabilmente efficacissima nell’irritare i nemici. In ogni caso, non le fece quell’effetto. Forse perché, per ora, non aveva nessun motivo di vederlo come un nemico. Soppresse la tentazione di appoggiargli una mano sull’addome, da dove la risata sembrava provenire, per verificare se fosse davvero lui a ridere o uno strano demone nascosto nelle vicinanze. La guardò, gli occhi improvvisamente vivi.
“Vedo che la mia reputazione mi precede”
 
Sentì una delle sue mani stringersi intorno al suo polso, mentre l’altra appoggiava il panno imbevuto d’alcool e si allungava verso le bende. Sospirò di sollievo. Almeno una delle ferite era a posto, per quel giorno. Non l’aveva dimostrato, ma la medicazione non era affatto piacevole. Era allenato, però. E orgoglioso. Resisteva perfettamente. Lo stupì quando gli tolse i capelli dagli occhi, chiedendogli di alzare la testa per poterli assicurare di nuovo alla coda larga che gli aveva fatto il giorno prima. Ma lo stupì ancora di più quando gli disse mi dispiace, iniziando a fasciargli il braccio.
Le dispiace?
“E di cosa?”
“Di averti giudicato così velocemente”
Eccola, la terza ondata di stupore. Decise di salvare la situazione in qualche modo, sorridendo ferino.
“Ti assicuro che la mia reputazione è duramente guadagnata, e assolutamente ben meritata”
“No, non tutta. Ne sono quasi sicura. Forse sei meglio di quello che pare. Vogliamo iniziare il tuo gioco, adesso?”
Quarta ondata di stupore. Preso in pieno, e atterrato. Rischiò di sorridere con due angoli della bocca invece che con uno solo, ma si riprese in tempo e la indicò con un cenno della testa.
“Prima le signore”
Lo stupì di nuovo, quando si accorse che la prima domanda non fu affatto semplice come credeva.
“Posso sapere il tuo nome completo, ed avere il permesso di usarlo?”
Se a rispondere fosse stato qualcun altro, sarebbe stato uno scherzo. Non per lui.
 
“James Matthew Hook. Chiamami come preferisci.”
La risposta era completa, ma il tono di voce era strano. Come il suo cognome. Hook.
“Hook è il tuo vero cognome?”
“Tu che ne dici? In ogni caso, questa è un’altra domanda”
Ghignò, per la prima volta le parve pericoloso. Poi sembrò calmarsi, assottigliando lo sguardo sul soffitto mentre lo aiutava a sedersi per sciogliere le bende intorno alla spalla, spostandogli i capelli sulla spalla sinistra.
“Comunque no. Non è il mio cognome. Gli errori di percorso, i figli bastardi, non se lo meritano un cognome. O così pare. E quel cognome nemmeno lo vorrei”
 
La risposta gli scappò di bocca come la risacca, impossibile da trattenere. Lo disse con un astio ed una soddisfazione tale da farsi salire l’acido in bocca, pensando a con quanta forza aveva rinnegato l’unico genitore che aveva conosciuto, quando non aveva ancora vent’anni. Atto di per se inutile, visto che suo padre non l’aveva mai riconosciuto.
“Capisco”
“No, non credo”
Si voltò verso di lei così velocemente da perdere l’equilibrio, ma riuscì a mantenersi seduto. La vide fissarlo, pensando evidentemente a qualcosa.
“Come preferisci che ti chiami? Come ti chiamano le persone?”
Si sentì la bocca secca.
“Non per nome. Mai. Capitano, di solito”
 
Gli sorrise, gettando via le bende sporche di sangue.
“Non posso chiamarti così, non sono un pirata dei tuoi. Posso chiamarti James?”
Lo vide scuotere la testa.
“Mio padre mi chiamava James, ne farei volentieri a meno. Avevo un amico. Mi chiamava Jas. Fai quel che vuoi del mio soprannome”
Jas. Aveva un suono interessante, e scivolava bene sulla lingua.
“Mi piace, penso che potrei anche usarlo. E ti sta bene. È affilato”
Si sedette dietro di lui a gambe incrociate, la spalla appoggiata al centro della schiena del pirata. Era una posizione comoda: aveva via libera per medicare le ferite sul retro della spalla e lo aiutava a stare seduto.
 
Strinse i denti quando l’alcool toccò la carne viva, questo era molto peggio del braccio. Sentì il braccio della donna farsi strada intorno alla sua vita, avvicinandolo alle sue gambe.
“Scusami, ma non riesco a medicarti se non stai fermo. Ti dispiace?”
Strinse il braccio sul suo addome per enfatizzare la domanda. Le rispose scuotendo la testa, non fidandosi della voce. Non era una persona qualsiasi, era pur sempre il capitano di una nave pirata, e piuttosto che dimostrare di stare soffrendo si sarebbe mozzato la lingua.
Il braccio della ragazza intorno alla vita, però , non lo disturbava sul serio. Non aveva alcun secondo fine, altrimenti se ne sarebbe accorto, ed in effetti il contatto con l’alcool non lo aiutava a stare immobile. Trovava, anzi, quella posizione abbastanza comoda: se fosse stato capace di rilassarsi anche solo per pochi minuti si sarebbe appoggiato volentieri alla sua spalla con la schiena. Ma non ne era capace. Forse non ne era mai stato capace, da che ne aveva memoria.
“Scusami, di nuovo. Non mi piace l’idea di farti male. Anche se d’altra parte, se non ti medico è un problema”
Il resto della frase della donna si perse in un borbottio, mentre continuava a tamponargli la spalla che aveva fatto da aperitivo al coccodrillo.
“Non è colpa tua. Non sei verde, non hai le zanne, non sei un rettile. Va bene così”
Trattenne il fiato mordendosi la lingua, poi convinse la sua voce a restare stabile.
“Tocca a me, adesso. Posso sapere il tuo nome, ed aspirare ad usarlo?”
La sentì immobilizzarsi, il panno alzato a mezz’aria.
“Il mio nome è la conclusione della mia storia. Se vuoi conoscerlo devo raccontartela. Se hai tempo. E se vuoi.”
 
Lo vide buttare la testa all’indietro, appoggiandola brevemente sulla sua spalla. I capelli gli scivolarono di nuovo sulla schiena, scomposti. Capelli ribelli, che avrebbero avuto bisogno di una sciacquata. Gliel’avrebbe proposto.
La guardò con un ghigno divertito, nonostante fosse ancora evidentemente provato dall’incontro subacqueo col coccodrillo e dalle sue conseguenze.
“Dimmi, credi che abbia molto altro da fare?”
Trasformò il ghigno nel suo sorriso sghembo, portatore di tempeste sul mare.
“Ti ascolto. Se vuoi.”

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 8 ***


La sua infanzia puzzava di cenere. Anche la sua adolescenza puzzava di cenere. Di bruciato. E di morti. Ci aveva messo del tempo, quando era arrivata sull’isola, prima di riuscire ad accendere un fuoco senza doverlo fissare senza perderlo mai d’occhio, per paura che le fiamme si espandessero a tutta la casa. Adesso lo guardava scoppiettare allegro per tenere al caldo il suo ospite. Ci aveva messo anni per poterlo considerare anche allegro e utile, e non più solo pericoloso.
“Sono nata nel Wurttemberg, vicino a Stoccarda. Credo che ora si chiami Germania, quindi sono nata in Germania, si?”
Annodò le fasce sulla spalla, strette, per bloccare il sangue. Gli chiese scusa quando lo sentì sibilare, per il dolore o per il fastidio.
 
Già la sua prima frase era strana.
Credo che ora si chiami Germania.
Ora quando?
Si stese di nuovo sul letto senza mai smettere di fissarla. Si era alzata, aveva buttato le bende insanguinate nel fuoco e si era seduta sulla sponda del letto fissando la parete di legno che aveva davanti come se non la vedesse.
“Quando sono nata io la guerra non era ancora iniziata, anche se le prime avvisaglie già c’erano. Credo di essere nata nei primi anni del 1600, ma non ho mai saputo bene quando. Mio padre era un armaiolo, mia madre lo aiutava, e noi eravamo sette o otto fratelli. Non mi ricordo perfettamente.”
La vide appoggiarsi l’indice destro sul labbro inferiore e aggrottare le sopracciglia, come se dovesse effettivamente scavar e a fondo per tirare fuori qualcosa. Guardava il soffitto talmente assorta che anche lui spostò lo sguardo in alto. Magari c’era qualcosa da vedere.
Non c’era niente, solo altro legno.
Tornò a guardarla, la vide scuotere le spalle e voltarsi di nuovo verso di lui. Quei capelli rossi sembravano fiamme, col fuoco dietro. Uno spirito del fuoco, ecco cosa sembrava. Uno spirito del fuoco seduto vicino ad un uomo fatto di mare. Uno splendido ossimoro.
“Il metallo mi è sempre piaciuto, sai? Me la cavo bene”
Gli sorrise soddisfatta, spostando la testa verso la fornace che aveva fuori.
“L’ho notato, stamattina. Che stavi facendo?”
Gli sorrise di nuovo, divertita.
“Fammi finire di rispondere alla tua prima domanda. Poi toccherà a me, e quando avrai risposto potrai chiedermi quello che vuoi”
Fregato.
Soffocò una risata e dovette riconoscere che quella ragazza era tanto sveglia quanto furba. Era stata sicuramente una conoscenza degna di essere fatta. Alzò un sopracciglio e attese che ricominciasse a parlare, interessato alla storia.
“Quando avevo quindici anni, iniziò la guerra. Mi ricordo che mio padre obbligava noi figlie femmine a stare sempre chiuse in casa, per paura che qualche soldato passasse e…lo sai, insomma. Mia madre continuò ad aiutarlo in bottega, ma si ammalò. C’era la peste. I monatti la portarono via. Io ero la ragazza più grande presi il suo posto, al lavoro con mio padre. I miei fratelli erano o al fronte, o scappati per non doverci andare. Mio fratello maggiore era un mercenario, sai. Poi entrò nella Eiserne Wache di Wallenstein, la sua guardia speciale. Vuol dire Guardia di ferro. Era un onore immenso, e portò con sé anche il più piccolo. Wallenstein era uno dei massimi generali, in quel periodo. Erano cinque maschi, non so quanti ne sono tornati indietro. Sto dicendo troppi nomi assurdi, mh?”
 
Si era accorto che la stava guardando stranito, ma non completamente perso. Lo vide scuotere la testa. Vide Jas Hook scuotere la testa. Aveva il suo permesso adesso, poteva chiamarlo per nome.
“No, non troppo. L’ho studiata questa storia, ad Eaton, prima di essere cacciato. La chiamano la guerra dei trent’anni. Ma non conosco tutti questi particolari”
Gli sorrise, scuotendo la testa.
“Eaton. Sei un inglese fatto e finito”
Jas Hook ghignò.
“Lo sarei, signorina, se dopo solo un anno non fossi finito in mare. Ma non stavamo parlando di questo, se non mi sbaglio”
Non sbagliava. Lo guardò di nuovo, e annuì. Gli occhi di quell’uomo adesso erano pozzi d’acqua marina, pronti ad assorbire qualsiasi nozione lei gli avesse porto. Seppur pirata, la sua sete di conoscenza lasciava stupiti. E pareva avere un gran bagaglio culturale alle spalle, bagaglio che probabilmente si era costruito da solo.
“No, non stiamo parlando di questo. La causa della guerra erano gli scontri fra principi elettori protestanti e cattolici, lo sai. Era un’ottima scusa per derubarsi a vicenda, e far fuori la gente”
 
Quella ragazza gli somigliava. Se ne rese conto in pochi secondi quando vide con quanto odio sputava le parole. Era esattamente quello che faceva lui, spesso e volentieri. L’odio lo bruciava talmente spesso da fargli temere che l’avrebbe consumato, prima o poi. E non si trattava solo di Pan. Oh no. Era tutto così complesso. Molto più complesso.
“Con la guerra fra cattolici e protestanti arrivarono i domenicani, da sempre rivali dei gesuiti. C’erano sempre stati, ma in quel periodo l’inquisizione funzionava a pieno ritmo, e i domenicani erano professionisti dell’inquisizione. Vedersi davanti uno di quei tizi con i loro scapolari bianchi ti toglieva la voglia di respirare. Lo sai cos’è l’inquisizione, si?”
Lo fissò ad occhi spalancati, non attese nemmeno che finisse di parlare prima di riprendere una spiegazione di cui lui, in tutta onestà, non aveva bisogno.
“Sono dei pazzi, convinti che la loro fede giustifichi tutto ciò che fanno. Bruciano villaggi interi, torturano la gente per fargli ammettere cose talmente assurde che mi facevano ridere. Stregoneria, sai. Eresia. Roghi nelle piazze, per strada. Fosse piene di gente che bruciava viva. Tutto nel nome di dio. Fidati, se il loro dio li avesse visti, probabilmente avrebbe bruciato vivi loro. E io avrei bevuto l’acqua del secchio invece che usarla per spegnere il fuoco. Ma a quanto pare, il loro dio era distratto.”
Era fuoco, quella donna. Di nuovo. Uno spirito del fuoco decisamente fuori controllo.
“Mio padre fu ammazzato in bottega da un branco di mercenari, senza motivo. Me lo ammazzarono davanti. Mi risparmiarono, ma non ti illuminerò su quello che successe. Diciamo che mio padre aveva ragione su quello che succedeva quando un gruppo di mercenari incontrava una donna, ecco. Poi mi portarono con loro, perché avevano bisogno di un fabbricante d’armi. Meglio di così.”
Rischiò di strozzarsi, per la tranquillità con cui l’aveva detto.
 
Lo vide spalancare gli occhi, trattenendo rumorosamente l’aria in gola.
“Che c’è, non sei un pirata? Non credo che queste cose siano una novità, no?”
Seppe di aver detto la cosa sbagliata appena finita la frase. Quando la guardò negli occhi riuscì davvero a farle paura. Non erano più onde placide quelle, ma cavalloni di parecchi metri. Che rivelavano il fondale marino, con le tonnellate d’acqua che spostavano.
 
“Per tua informazione, non ho mai toccato una donna. Non così. E non lo farei mai. Sono stato abbastanza chiaro?”
Ci aveva provato, a dirlo gentilmente, ma non ci era riuscito. Quella frase gli era uscita con così tanta forza da bruciargli la gola, anche letteralmente. Iniziò a tossire, maledicendo allegramente la sua impulsività, i coccodrilli, i ragazzini volanti e l’acqua di mare che se ne va dove non dovrebbe assolutamente andarsene. Fu tentato di scacciare malamente la mano della donna quando la sentì sulla spalla sana, probabilmente cercando di tenerlo fermo per farlo respirare meglio, ma la sua, di mano, era troppo occupata a tenere su il lenzuolo. Non voleva far vedere il suo polso destro, la mano che mancava.
Sapeva che lei l’aveva sicuramente già vista, ma mostrare quella mancanza non gli faceva certo piacere.
Sentì una mano fra i capelli pochi secondi dopo, mentre cercava di prendere fiato. E una parola ripetuta quasi allo sfinimento.
Scusami.
Da non credere, James Hook che rimaneva così colpito da un’offerta di scuse. Non sarebbe riuscito a farle del male neppure volendolo. Doveva essere perché gli aveva salvato la vita. Doveva essere per quello. Eppure si ritrovò a pensare che non ci fosse nulla di più tranquillizzante delle mani di quello strano folletto infuocato fra i riccioli. Riuscì a raddrizzarsi quel tanto che bastava per far entrare e uscire aria dai polmoni in modo più fluido e le lanciò un’occhiata.
Era preoccupata.
Gli dispiacque, quasi.
“Hai ragione, non dovevo dirlo. Non ti conosco. Ti porgo le mie scuse”
Continuò a fissarla ancora per un po’, era venuta a sedersi più vicina a lui adesso. Quando fu certo che i polmoni stessero facendo il loro lavoro, annuì.
“Scuse accettate. Continua. Se vuoi.”
“Credo di essere rimasta con quella squadra di mercenari per cinque anni. Forse sei. Facevo armi, ero brava. Sono diventata ancora più brava, e ho imparato a combattere e a difendermi. Dai nemici e dai miei stessi compagni. Ne abbiamo già parlato no? Avevo un problema però. Avevo la vista. Sai di cosa sto parlando?”
Certo che lo sapeva. Tutti su quell’isola avevano la vista, anche se le persone del mondo esterno che ne godevano erano poche. Era la capacità di vedere l’invisibile, quel Piccolo Popolo che viveva a metà fra la superficie e qualche altra dimensione. Le sorrise, quasi.
“Sei una rarità, anche se qui tutti vedono tutto”
“Io una rarità, senti chi parla”
 
Sorrise, era una vita che non scherzava con qualcuno. Anche se il suo interlocutore al momento era un capitano di una nave pirata. Non si lamentava affatto, anzi. Era una compagnia più che piacevole.
“Essere una donna, in un periodo del genere, era un problema. Per certa gente, tutte le donne erano streghe da bruciare. I domenicani, ti ricordi? Quel branco di imbecilli. I guerrieri della fede.”
Incrociò le braccia sul petto.
 
Strinse le braccia così forte da fargli temere che si sarebbe rotta le costole da sola. Non disse nulla, aspettando che continuasse. La vide prendere fiato.
“Figurati quindi cosa successe quando un prete domenicano scoprì che l’armaiolo della compagnia era una donna. Coi capelli corti. Vestita da uomo. Che sapeva combattere. Che si ubriacava. E che fece l’errore madornale di farneticare qualcosa sulle fate che vedeva in un momento di pura follia alcoolica. Dal  falò al rogo il passo era breve, che ne dici?”
Si sollevò la camicia sulla pancia rivelando segni di ustioni che coprivano le cicatrici più vecchie.
“Sempre simpatici, quei domenicani”
 
Gli occhi color acqua di mare si spalancarono di nuovo, fissando quei segni sopra il suo ombelico. Gettò subito giù la stoffa, coprendoli.
“Mi stai dicendo che ti hanno messa al rogo?”
“Molto deduttivo, Jas Hook.”
“Jas”
 
Dovette riprendersi dalla sorpresa da solo, sia da quella delle cicatrici, che da quella della parola che gli era appena scappata di bocca. Da quello che voleva dire.
“Chiamami Jas. Niente Hook. Solo Jas.”
Lo guardò, prima di sorridergli di nuovo.
“Come vuoi, Jas. In ogni caso, come ti dicevo, il passo dal falò al rigo fu breve. A quel prete ci volle poco per convincere tutti che ero una strega, un’eretica e che quelle come me devono bruciare. Ma prima dette l’autorizzazione ai miei aguzzini di divertirsi con me. Sai cosa intendo, di nuovo. Non gli andò altrettanto bene quella volta: loro fecero quello che volevano, alla fine, ma uno di loro si trovò senza un occhio. Figurati.”
Lo disse con un ghigno talmente pericoloso da affascinarlo. Chiunque altro si sarebbe allontanato, forse, ma non lui. Quella donna lo incuriosiva. E forse non solo.
“Quando mi legarono al palo e dettero fuoco alla legna credetti di essere arrivata alla fine, sul serio. Pensai che sarei morta li, per mano di un pazzo invasato. Non ho mai provato così tanta rabbia in vita mia come in quel momento, e forse fu proprio per quello che le fate mi portarono via.”
 
Intrecciò distrattamente le dita fra i riccioli del pirata, ricucendo pezzi di ricordi.
“Credo di essere svenuta a causa del fumo, e quando mi sono ripresa ero qui. Credo di essere qui da prima di te, ma se non voglio essere vista so rendermi quasi invisibile”
Di nuovo il ghigno ferino che le era scappato di bocca prima. Lo vide sorridere, come sempre con un solo angolo della bocca.
“Non hai risposto alla mia domanda”
 
“Lo so”
Liberò la mano dai suoi capelli, guardandolo con un’espressione di rimprovero talmente comica da strappargli un’altra risata delle sue, di quelle profonde e irritanti per tutti. Ma forse non per lei. Forse.
“Dovresti lavarla, questa massa di riccioli”
Annuì, mezzo sprofondato nel cuscino.
“Lo farò, ma mi devi una risposta”
“Mi hanno dato un nome, quando sono nata, ma non me lo ricordo. Ricordo solo quello con cui quel prete mi chiamava, prima di darmi fuoco. Lilith, come la madre di tutte le streghe. Ha un bel suono, no? Mi piacque. Sapere che era un nome che quella gente disprezzava me lo fece amare ancora di più. Ti piace?”
La guardò, indeciso su cosa rispondere. Decise per un compromesso.
“Non mi dispiace, in effetti. Posso farti una proposta?”
“Questo dipenderà dalla proposta stessa, capitano”
Lo vide cercare di sedersi, prima di rinunciare con una smorfia a metà fra il dolore e l’esasperazione. Si vede che essere costretto alla quasi immobilità lo stancava. Gli sistemò un cuscino dietro la schiena per aiutarlo, aspettando che continuasse a parlare.
“Posso proporti un nome nuovo? Non credo che portarti dietro qualcosa che ti ricorda roghi, torture e preti poco piacevoli possa renderti felice. E in ogni caso, tu hai il privilegio di potermi chiamare come nessun’altro mi chiama, vorresti accordarmi lo stesso favore?”
A quel punto, fu lei quella che spalancò gli occhi, poi scoppiò a ridere.
“Tu sei un pirata tutto particolare, Jas. D’accordo, ci sto, fai come vuoi. Hai già qualche idea?”
Lo vide sorridere sornione, prima di alzare gli occhi al soffitto.
“Dammi tempo, la creatività è un processo che non ha bisogno di fretta”
Gli passò una mano fra i riccioli, scoppiando a ridere di nuovo.
“Va bene capitano. Mentre ci pensi, che ne dici se ti aiuto con questi capelli? Potrebbero farci un nido le iguane se non li lavi al più presto”
Jas Hook le sorrise, forse tirando su tutti e due gli angoli della bocca. C’era sempre un sorriso nascosto, la dentro. Non sapeva perché, ma si ripromise di trovarlo.
“Come desidera, ma belle.”

---

oddio, capitolo stralungo.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** 9 ***


Vederlo vicino all’acqua era come assistere a una comunione: l’aveva aiutato a sciogliere i nodi e a sedersi su una sedia, gambe miracolosamente illese allungate e incrociate. Si era resa conto di quanto quell’uomo fosse fatto di mare solo quando gli aveva rovesciato sui capelli la prima mandata di acqua tiepida, scaldata sul fuoco.
Senza preavviso.
Aveva riso, quando l’aveva visto quasi saltare sulla sedia.
“Scusami. Non volevo spaventarti”
Le aveva sorriso a metà, occhi chiusi per non farci entrare l’acqua, che scivolava giù dai riccioli come se fosse nata li. Una cascata di capelli neri.
“Sei la prima donna che riesce a farmi prendere un colpo”
“Senza volerlo”
“Concesso”
Ci era voluto un po’ per riuscire a risistemare quella criniera, ma il risultato era più che soddisfacente e faceva mostra di sé sulla testa del suo ospite.
James Matthew Hook.
James.
Jas.
L’uomo fatto di mare, con onde nere fra i capelli.
 
“Fai tutto un altro effetto coi capelli puliti”
Aprì gli occhi, sentendo il sorriso nella voce della donna. Lilith, per ora. In attesa che un nome adatto a lei gli venisse in mente.
Continuò a soppesare le varie possibilità tenendo lo sguardo fisso sul soffitto, le gambe sempre stese davanti a sé, il collo appoggiato allo schienale della sedia e un telo piegato fra la spalla e il legno per non dover premere la ferita contro la spalliera. Il polso destro nascosto sotto l’avambraccio sinistro per nascondere il moncherino. Ci mise un po’ per connettere, e un altro po’ per capire cosa gli aveva detto. Si voltò verso di lei lentamente, per non provocare dolori alle ferite e fitte alla testa. Tirò su un sopracciglio.
“Che effetto faccio?”
Gli sorrise di nuovo.
“Jas, è il mio turno con le domande”
Fregato. Di nuovo.
Annuì, facendo forza sulla mano sinistra e sulle caviglie per sedersi decentemente, non osando fare leva sulla spalla. Il taglio sul braccio sinistro era molto più sopportabile del disastro che aveva combinato il suo migliore amico squamoso solo a pochi centimetri dal suo collo. E c’era sempre la febbre, a ricordargli di non potersi muovere troppo, e quella fastidiosa sensazione di non riuscire mai ad avere abbastanza aria nei polmoni.
Era un inconveniente che i marinai conoscevano bene: pneumonia. Infezione delle vie respiratorie dovuta all’acqua entrata nei polmoni. Passava da sola. Tutto passa prima o poi. Ma finchè c’è, da un gran fastidio. Il solo insieme di movimenti necessari a tirarsi su, cosa che avrebbe fatto senza pensare, lo lasciò col fiatone.
Lei parve accorgersene.
“Preferisci tornare a letto?”
“No. No, sul serio. Ho bisogno di stare un po’ in posizione verticale”
Gli sorrise, di nuovo. Fu talmente tentato di ricambiare che rischiò di tirare su tutti e due gli angoli della bocca. Ma ne tirò su solamente uno.
 
Sorrise a metà, come faceva sempre. L’altro mezzo sorriso nascosto da qualche parte. Prima o poi l’avrebbe trovato, se l’era ripromesso.
“Hai un modo strano di sorridere. O di non sorridere, a seconda dei punti di vista”
“E’ la tua domanda?”
“No”
Scosse la testa.
“E’ un’osservazione”
Lo vide annuire di nuovo, mettendosi una mano sugli occhi.
“Stai bene?”
“E’ solo mal di testa”
“Dovresti stenderti, hai la febbre”
Lo vide ghignare, labbra rosse tese sotto occhi color del mare coperti dalle dita. Riusciva a tirare su tutti e due gli angoli della bocca solo in quel caso.
 
James Hook non era abituato così. Erano passati anni. Secoli. Una vita infinita dall’ultima volta che qualcuno si era preoccupato seriamente per lui. Il suo primo amico, se non l’unico che avesse mai avuto. Poi aveva conosciuto Smee, ma non era la stessa cosa. Roger. Jolly Roger, che gli aveva ispirato il nome per la sua nave. E ora anche lui non c’era. Non c’era più da anni. Strinse le palpebre, conscio di non poter essere visto.
Non sapeva come reagire quando Lilith si preoccupava per lui, quindi, e preferiva svicolare.
“Dovresti stenderti”
Ghignò. Svicolò.
“Preferisco di no”
“Come preferisci”
Tenne gli occhi chiusi aspettando la domanda, da quando avevano cominciato a giocare aveva scoperto che parlare con le gli veniva facile. Non solo. Gli faceva bene. Ma invece della domanda sentì il rumore della sua sedia che si spostava, acqua che sciabordava e i suoi passi che gli si avvicinavano. Aprì gli occhi, temendo che gli arrivasse un’altra secchiata d’acqua in testa senza preavviso, e sentì la mano di Lilith sulla sua prima che potesse spostarla da solo. Si irrigidì, come tutte le volte che veniva toccato da qualcuno, ma riuscì a calmarsi subito dopo.
Evidentemente, quella ragazza…donna coi capelli rossi se ne rese conto.
“Non mordo, capitano”
Piccato. Non c’era altro modo di descrivere il suo tono di voce. Lasciò che gli spostasse la mano.
“Lo so. Hai ragione, ti devo delle scuse”
La vide sorridere, di nuovo. Ma questo era un sorriso quasi pericoloso.
“Potrei risponderti che accetterò le tue scuse solo se tu accetterai di metterti a letto, ma ricattare le persone non è il mio passatempo preferito”
“Sono fortunato allora”
La premiò col suo mezzo sorriso e chiuse gli occhi mentre lei gli appoggiava un fazzoletto umido sulla fronte.
“Va meglio così?”
“Si. Ti ringrazio”
Fece per alzare il braccio e reggere il fazzoletto da solo, ma lei gli bloccò la mano dov’era.
“Stai fermo. Puoi prendere in giro tutti, ma non me. È meglio se non muovi troppo quella ferita se non vuoi che ci metta di più per guarire, ci penso io a tenere il fazzoletto su”
Fu tentato di risponderle male come faceva tutte le volte che qualcuno gli dava ordini, ma quando aprì gli occhi per farlo se la trovò a pochi centimetri dal viso. Non riuscì a spiccicare parola.
Era bella, non ci aveva fatto caso prima. Non bella nel senso comune del termine, di una bellezza particolare. Selvatica. Assolutamente non ricercata. Naturale, in sintesi.
Distolse lo sguardo prima che lei si potesse accorgere che la stava fissando, lo spostò sulla parete di fronte.
 
Sospirò, più tranquilla. Quell’uomo aveva davvero la testa dura. Jas aveva davvero la testa dura. Era un concentrato di orgoglio su due gambe, avrebbe avuto bisogno di riposo assoluto e si ostinava a non cedere. Non sapeva se ammirarlo o dargli una botta in testa.
“Tocca a te”
“Scusa?”
Lo guardò, presa di sorpresa. Ghignò, furbo.
“Hai detto prima che era il tuo turno con le domande, sto aspettando”
“Oh, ottimo”
Lo vide stringersi l’avambraccio destro con la mano sinistra, dovette resistere all’impulso di dirgli di stare fermo. Sarebbe stato fiato sprecato. La fissò, aspettando.
“Com’è che sei diventato un pirata, Jas?”
“Ti piace così tanto il mio soprannome?”
“Perché?”
Lo guardò aggrottando le sopracciglia.
“Lo usi spesso”
“Oh. Si. Suona bene. È adatto. Non cercare di non rispondere”
Fregato. E tre.
“Sei terribile”
Gli sorrise, tamponandogli la fronte con l’acqua fredda.
“Lo so”
 
Com’è che sei diventato un pirata?
“Perché era l’unica scelta possibile”
Vide Lilith fissarlo interrogativa, aspettando il seguito.
“In Inghilterra, se amavi il mare avevi due possibilità: la marina del regno, o imbarcarsi su una nave mercantile. In ogni caso, si tratta di dover obbedire ad ordini altrui. Non è per me. Ho provato, e non è per me. Non vivo in mare per convenienza o interessi o non saprei bene cosa. Vivo in mare per vivere in mare, perché non c’è altro posto, se così possiamo definirlo, dove potrei riuscire a vivere se non la mia nave.”
“Cosa vuol dire che hai provato?”
Chiuse gli occhi, cedendo al mal di testa e salutando con piacere il buio.
“Sono figlio di un nobile inglese. Anzi. Sono il figlio bastardo di un nobile inglese. Mi pare di avertelo già detto. Un altolocato errore di percorso, a cui non può essere riconosciuto un cognome, ma a cui non può essere negata una buona istruzione”
Prese il suo silenzio come un invito a continuare.
“Dopo il primo anno a Eton mi resi conto che non potevo stare li. Adoravo studiare, adoro tuttora leggere, ma non potevo stare li. Da quel posto escono le future generazioni di avvocati, politici e chi più ne ha più ne metta. Io volevo solo un orizzonte da rincorrere che non arrivasse mai, con la soddisfazione di seguirlo per tutta la vita. Temo di non riuscire a spiegarmi meglio.” Tirò su un angolo della bocca in un sorriso ironico.
“Gli studenti di Eton erano, perdonami, limitati. Tranne uno. Roger Davies. Era l’unico amico che avevo, lo chiamavo Jolly Roger.”
“Come la tua nave”
Annuì, gli occhi ancora chiusi.
“Come la mia nave”
“Era lui che ti chiamava Jas allora?”
“Era lui che mi chiamava Jas”
“Continua”
 
Gli tenne il fazzoletto sulla fronte seduta accanto a lui, studiandolo mentre parlava ad occhi chiusi. Era magro, coi muscoli che ci si aspetta da chi guida una nave pirata. Non esageratamente evidenti, ma si notavano ogni volta che si muoveva. Le gambe erano lunghe, e ben tornite. Ma la cosa che la lasciava a bocca aperta tutte le volte erano i suoi occhi. Di un blu talmente profondo da poter ospitare il mare intero. Ringraziò che li tenesse chiusi quando si rese conto che lo stava fissando piuttosto sfacciatamente, e che lui era senza camicia a causa dei denti del coccodrillo che l’avevano distrutta.
Non che le dispiacesse particolarmente, ma si appuntò di cucirgli qualcosa appena ne avesse avuto il tempo. Anche solo per evitare che la febbre salisse. Cercò di decidere in fretta se informarlo o meno del fatto che Peter Pan se n’era andato a Londra con la sua nave. Rimandò quando lo sentì ricominciare a parlare.
“Dopo un anno mi sono reso conto che Eton mi piaceva, ma io non piacevo a Eton, se escludiamo qualche professore. Figli di nobili, di notabili, di politici, non volevano avere molto a che fare con un figlio di nessuno, anche se si trattava di un nessuno piuttosto importante”
“Te ne sei andato per questo?”
Jas Hook scoppiò a ridere, una risata divertita, totalmente diversa da quelle che gli aveva sentito fare fino a quel momento.
“Ti sembro il tipo che se ne va perché non piace agli altri, ma belle?”
Dovette convenire che in effetti non le sembrava qual tipo di persona.
“Ho sempre avuto un carattere peculiare, se posso dirlo. Tendente allo scontro, raramente al negoziato, soprattutto sulle questioni di principio. Ho sempre portato i capelli molto lunghi, troppo per gli standard di quella scuola. E mi sono sempre rifiutato di riconoscere autorità a chi non se la meritava, a personaggi come la maggior parte degli studenti più grandi o dei capicasa. L’autorità va ottenuta guadagnandosi il rispetto, non avanzando con gli anni. Puoi immaginarti cosa vuol dire tutto questo.”
Scoppiò a ridere di nuovo, ricordandosi chissà cosa. Avrebbe voluto essere in quella scuola con lui, se avesse potuto. Cosa di cui dubitava, perchè le donne non erano sicuramente ammesse. Ma avrebbe voluto esserci, anche solo per vedere cos’aveva combinato che lo divertisse così tanto. Era sicura che, ad averlo conosciuto con la stessa età, avrebbe adorato il ragazzino coi capelli lunghi che era stato. Gli sorrise, pur sapendo che ad occhi chiusi non poteva vederla.
“Non riconoscere l’autorità di chi è abituato ad averla per diritto di nascita era disastroso, ad Eton. Significava complicarsi la vita, e complicarla ai tuoi amici. Al tuo amico, perché ne avevo uno soltanto. Significava prendere frustate un giorno si e l’altro anche, e non sto esagerando. E significava venire additato da tutti come James Matthew il Bastardo. Il mutante, a causa del colore del mio sangue. Non è esattamente normale, se ci hai fatto caso. Non è una malattia, è così da sempre, ma tant’è. Ma soprattutto significava trarre enorme soddisfazione da ogni offesa che arrivava, sapendo che avrei tratto una soddisfazione ancora più grande nel momento in cui avrei potuto vendicarmi. Intellettualmente o meno. Era l’unico modo che avevo trovato per resistere senza strozzare qualcuno, e mi piaceva. Da questo puoi dedurre che non me ne andai perché non piacevo agli altri studenti. Me ne andai perché volevo andarmene. E Jolly Roger venne con me.”
Lilith bagnò di nuovo il fazzoletto, glielo passò sulla fronte. Continuò ad ascoltare.
 
Strinse le palpebre di nuovo, lottando col mal di testa. Ripensare a quei momenti gli faceva piacere, ma sapeva che sarebbe arrivato il capitolo di cui non voleva mai parlare. Era sempre li, dietro l’angolo, in agguato nella sua testa. Buttò la testa all’indietro, appoggiando il collo allo schienale della sedia. Stendersi ora gli avrebbe fatto piacere, ma il suo orgoglio glielo impediva. Il suo orgoglio era un problema. Gliene aveva creati molti. Ma non sarebbe stato lui, senza.
“Scappammo, e ci imbarcammo in un mercantile. Non avevamo ancora vent’anni. Ne avevamo sedici, o diciassette. Il capitano di quella nave era uno di quelli che hanno autorità senza essersela guadagnata, un vero e proprio despota, abituato a risolvere tutto con la frusta. Un elemento ricorrente, la frusta, nei miei primi vent’anni.”
Abbozzò un sorriso, lei non l’aveva ancora interrotto. Aveva ragione, era uno di quei rari esseri umani che sanno ascoltare.
“Un giorno il capitano si rese conto che dalle provviste mancavano alcune razioni. Per i viaggi in mare, soprattutto quelli lunghi, cibo e acqua vengono razionati per tutti. Capita spesso però che ai capitani tocchi sempre una parte maggiore. Quello che mancava in realtà non mancava affatto, era stato razionato in parti uguali da qualcuno, senza tener conto del suo cosiddetto rango. Era un totale incapace, non sarebbe riuscito a governare una nave nemmeno se fosse stata dentro una bottiglia. Ma quello scherzo non gli piacque, metteva in pericolo il suo prestigio maledetto. Radunò sul ponte tutti i marinai e disse che se il colpevole non fosse saltato fuori, avrebbe gettato fuoribordo un marinaio scelto a sorte. Scelse Jolly Roger. E io confessai.”
“Sei stato tu?”
Rise di nuovo, soddisfatto.
“Chi altri credi che potesse essere così incosciente da sfidare il capitano sulla sua stessa nave?”
 
“Nessuno. Solo tu”
Lo vide zittirsi. Prima si stava prendendo in giro da solo, prendendosi gioco della sua incoscienza da giovane. Incoscienza che aveva mantenuto. Ora la guardava stupito.
 
Era il modo in cui l’aveva detto. C’era stima in quelle tre parole. Si sentì la bocca secca, di nuovo.
 
“E poi? Che successe?”
Lo vide riscuotersi, annuì.
“Lo sai cos’è un giro di chiglia?”
“Faccio armi, non sono un marinaio”
“Un giro di chiglia è una punizione creata dagli olandesi e usata anche dagli inglesi, anche se non rientra ufficialmente nei codici di navigazione  – chiuse di nuovo gli occhi – consiste nel legare il marinaio insubordinato a una cima che dal parapetto su un lato della nave arrivava dall’altro lato passando sotto la chiglia. Pulivi la pancia della nave con la schiena, in pratica. Ovviamente nudo dalla cintola in su. Potevi morire per le ferite, visto che sullo scafo ci sono schegge, escrescenze e quant’altro, o annegato, ed erano i tuoi compagni a dover tirare la cima che ti avrebbe fatto fare il tuo giro di chiglia”
Lilith lo guardò spalancando gli occhi.
“E i tuoi compagni hanno tirato quella cima?”
“Glielo chiesi io”
 
La vide spalancare gli occhi ancora di più, se possibile. Occhi verdi. Mai visti occhi così.
“Glielo hai chiesto tu?”
Annuì, continuando a raccontare.
“Loro non volevano, erano d’accordo con me sul fatto che un razionamento iniquo non fosse giusto, ma lui teneva la pistola alla tempia di Jolly Roger, e minacciava di sparargli se non avessi fatto il giro di chiglia. Non so se l’avrebbe fatto, ma preferii non rischiare. Forse se ci fosse stato qualcun altro al posto di Roger avrei rischiato, ma non per lui. Lasciai che mi legassero, che mi tagliassero la camicia e feci il giro. Credo che sia durato pochi minuti, ma mi sembrarono anni. I miei compagni cercarono di fare il più in fretta possibile per non farmi annegare, ma così facendo mi distrussero la schiena. La sfregai contro la chiglia così violentemente da perdere sensibilità dopo pochi metri, ma quelli mi bastarono. Vedevo solo acqua insanguinata intorno. E quando il girò finì ero vivo. Non so come, ma ero vivo. E riuscii a stare in piedi davanti al capitano mentre gli altri marinai si avvicinavano per slegarmi.”
Ghignò, di un ghigno quasi animale. Scosse la testa. Riccioli neri che tagliavano l’aria.
“Non gli piacque. Affatto. Avrebbe voluto vedermi crollare sul ponte, usarmi come esempio per tutti, ma non poteva se resistevo. Ordinò che facessi un altro giro.”
Aprì gli occhi, la vide corrugare la fronte e passargli di nuovo il fazzoletto umido sul viso. Avrebbe scommesso che se si fosse trovata su quella nave avrebbe passato il capitano da parte a parte con una delle sue armi, senza tante storie. Il dolore alla testa dovuto alla luce, però, lo convinse a buttare di nuovo giù le palpebre.
“Non lo feci mai. Jolly Roger gli strappò la pistola dalle mani e gli sparò. Un colpo a bruciapelo in piena fronte, morto sul colpo. Ho parecchie ragioni per pensare che mi abbia salvato la vita, non credo avrei resistito ad un altro giro. Ci ammutinammo, in breve, nostromo compreso. Io crollai effettivamente sul ponte poco dopo aver visto Jolly ammazzare quell’idiota, solo Roger si prese cura delle ferite, gli atri avevano paura del colore del mio sangue.”
“In un modo o nell’altro, riesci a turbare le persone anche da svenuto”
Annuì, ghignando di nuovo.
“E’ una prerogativa a cui tengo parecchio”
“Quando mi ripresi Jolly mi disse che avevano deciso di eleggermi capitano. Eravamo pirati ormai, ci eravamo ammutinati, e non si tornava indietro. Avevamo fatto fuori il capitano, in Inghilterra ci aspettava la forca. Sulle navi pirata il capitano lo eleggono tutti, dal nostromo all’ultimo mozzo, e può essere destituito se non si dimostra degno. Rimasi spiazzato quando me lo disse, risposi che avrebbe dovuto farlo lui, che aveva ammazzato l’effettivo capitano. Nulla, erano irremovibili. Non riuscii a camminare per giorni, e dovetti dormire sulla pancia per settimane. L’aria salmastra era una specie di tortura aggiuntiva, fra l’altro. Sulla schiena ho ancora dei segni piuttosto interessanti.”
“Sei diventato capitano di una nave pirata a nemmeno vent’anni?”
“Cosi pare, ma belle”
 
Lo guardò, a metà fra lo stupore e l’ammirazione. Annuì.
“Sei una sorpresa continua, Jas. E poi mi dicevi che la rarità sono io”
“Perché è così, oserei dire”
Lilith lo fissò senza rispondere, preferendo continuare a indagare sulla questione.
“E in tutto questo tempo non sei mai stato destituito?”
Jas scosse la testa, mortalmente serio.
“Mai”
“Devi essere un capitano apprezzabile”
Lo vide stringere le labbra, fissando il pavimento.
“La miscela giusta di timore e rispetto, credo”
“James, posso farti una domanda? È una di quelle a cui puoi non rispondere”
Voltò la testa dalla sua parte, aspettandosi il peggio.
“Dimmi”
“Dov’è Jolly Roger, Jas? Perchè la tua nave si chiama come lui?”
 
Fu come se i venti che lo animavano si placassero di colpo. La guardò per qualche secondo, prima di chiudere gli occhi e stringere di nuovo le labbra, fino a trasformarle in una sottile linea rossa.
Dov’è Jolly Roger, Jas?
È morto, ed è colpa tua. E lo sai perfettamente. Non sei riuscito a trattenerlo, e lui è morto, ed è colpa tua.
Eccolo, il capitolo a cui non voleva pensare.
Sentì una mano di Lilith sul collo, ad accarezzargli i capelli sulla nuca. Stranamente non si ritrasse, non si irrigidì. Restò semplicemente immobile.
“Scusami, non avrei dovuto chiedere”
Non le diede il tempo di concludere la frase. Sputò quelle tre parole come veleno.
“E’ morto. Tifone.”
La mano di Lilith si bloccò, poi sentì le dita allargarsi fino a coprire tutta la larghezza del suo collo. Sembrava il gesto di una persona indecisa sull’opportunità di abbracciarti o meno. Non si mosse. Non gli sarebbe dispiaciuto, forse. Non ci era abituato, doveva pensarci.
 
Si pentì di averlo chiesto subito dopo averlo fatto. Era immobile, fermo. Sembrava quasi non respirare. Sembrava la corda di un arco troppo teso. Aveva l’aspetto di chi si costringe all’immobilità per non esplodere. Polvere nera al posto del cuore, insieme alla risacca. Fu tentata di abbracciarlo. Terribilmente. Ma temette che non avrebbe gradito.
Bagnò di nuovo il fazzoletto, glielo rimise sulla fronte. Alcune gocce caddero scivolandogli sul viso, gliele asciugò col dorso della mano e gli passò il braccio dietro le spalle, attenta alle ferite.
“Avanti, hai bisogno di sdraiarti”
Non oppose resistenza quando lo guidò verso il letto, teneva lo sguardo fisso davanti a sé, ma sembrava non vedesse niente di quello che lo circondava. Chissà a cosa pensava. Niente di allegro, pareva.
“Vuoi che ti prepari qualcosa? Hai fame?”
Si preoccupò quando le disse che no, non aveva fame.
“Dovresti mangiare qualcosa”
“Domani”
“Va bene. Domani”
Si sedette accanto a lui, prendendo a passargli le dita fra i riccioli. Era strano come fosse già abituata alla sua presenza, come se fosse stato li da sempre. Non le piaceva vederlo così.
“Jas, mi dispiace”
Lo vide scuotere la testa.
“Non è niente”
“Certo. Ovviamente.”
Gli sistemò di nuovo il fazzoletto umido sulla fronte, lo vide chiudere gli occhi, respirando con un po’ di difficoltà.
“Dormi, James. Ce la fai?”
Spalancò gli occhi, fissandoli nei suoi. Blu oltremare fisso nel suo verde. Gli rispose annuendo,togliendogli i capelli dalla fronte e accavallando le gambe.
“Non vado da nessuna parte”
Non smise mai di accarezzargli i capelli, ora che erano puliti doveva riconoscere che erano davvero belli. Neri, e lucidi. Continuò finchè non sentì che il suo respiro non era più laborioso, ed era diventato regolare.

---

stralungo pure questo!
peto veniam, è che ho finito di scriverlo alle 2 del mattino, tornata dal lavoro.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** 9 ***


Lilith aspettò che si fosse addormentato per muoversi. Non l’avrebbe lasciato da solo a cercare il sonno, glielo aveva promesso. Almeno quello. Si alzò dal letto dedicandogli un’occhiata prima di mettersi a cercare ciò di cui aveva bisogno. Vestiti, e una torcia. Sarebbe stata un’occhiata veloce, non fosse che rimase letteralmente incantata a guardare il suo viso mentre dormiva. Pareva sereno per una volta, sonno senza sogni, forse. O senza sogni pessimi. La linea che gli attraversava la fronte era scomparsa, sembrava quasi rilassato, se un simile aggettivo era possibile da attribuire a Jas Hook. Dormiva sdraiato di lato, con la spalla sana a contatto col materasso, il braccio ferito piegato e appoggiato vicino alla testa. Il livido intorno all’occhio reso visibile dai capelli legati dietro la nuca. Ma quello che la bloccò fu la sua bocca. Dormiva con le labbra leggermente aperte. Rimase a fissarlo fin troppo a lungo, poi scosse la testa. Non andava bene, legarsi troppo. Le avrebbe impedito di vedere le porte, e non poteva permetterselo. C’era qualcosa di troppo importante dall’altra parte.
Lilith si passò una mano fra i capelli, ricontrollando che dormisse abbastanza profondamente. Era un rischio, andarsene ora. Lo sapeva. Rischiava di svegliarsi e di non trovarla. Di sentirsi male, e lei non sarebbe stata li. O chissà cosa. Ma non poteva esimersi. Non voleva esimersi. Sperò che non si svegliasse, e raggiunse la porta. Uscì.
Si avviò per la foresta senza accendere la torcia che aveva con sé, sapendo perfettamente dove andare e come muoversi. Cosa cercare, e soprattutto dove. La strana magia dell’isola, quella che legava il capitano a quel posto senza tempo, non funzionava su di lei. Le impediva di invecchiare, ma non la intrappolava. Ciò che bloccava le persone su quel lembo di terra magica erano le emozioni. Più forti erano, e più difficile sarebbe stato lasciare l’isola, anche temporaneamente. Non emozioni qualsiasi, lo sapeva. Quando c’era qualcosa di estremamente potente che ti legava all’isola, eri finito. Non potevi più lasciarla, a meno che non riuscissi a slegarti. Nel caso di James Hook, era probabilmente vendetta, anche se immaginava ci fosse anche qualcos’altro che non aveva ancora scoperto. Finchè non avesse rinunciato all’idea di far fuori Peter Pan, il suo destino sarebbe stato legato all’isola, e Lilith temeva che se anche avesse avuto successo nel suo obiettivo, ci sarebbe rimasto comunque incastrato. Non gli sarebbe rimasto nient’altro per cui vivere, e l’isola se lo sarebbe tenuto. Bloccato li per l’eternità. Non lo invidiava.
Le emozioni troppo forti per qualcosa che apparteneva all’isola, ti facevano diventare parte dell’isola stessa, e l’isola non ti avrebbe lasciato andare facilmente. Lei, al contrario, provava emozioni fortissime per qualcosa che se ne stava fuori dai suoi confini. Qualcosa che lei stessa aveva mandato fuori dai suoi confini, pochi anni prima. E che andava a trovare quando ci riusciva. Si concentrò su quello che stava cercando, e lo trovò pochi metri più avanti. Un punto di buio più nero della notte che la circondava, senza fondo ne inizio. Era una delle porte, che permettevano il passaggio dall’altra parte. Si aprivano ogni volta che Peter Pan lasciava l’isola o vi rientrava, come effetti collaterali delle falle nella barriera magica dell’isola dovute alle scorribande di Peter sulla terra. Le aveva scoperte per caso pochi anni prima. E poi le aveva usate per mettere in salvo ciò che di più prezioso aveva al mondo. Finchè fosse riuscita a non provare emozioni verso qualcosa che apparteneva all’isola, le avrebbe ritrovate, ma si rese conto che i contorni di quel varco fatto di buio erano meno netti delle altre volte. Se ne chiese il motivo, mentre lo attraversava senza ripensamenti.
 
La strada dove si ritrovò era fortunatamente deserta, altrimenti avrebbe dovuto spiegare ai passanti come mai una donna, vestita in quel modo assurdamente fuori tempo, era apparsa dal nulla. Era per questo che attraversava i confini solo di notte, per incontrare meno persone possibili. Rimase sconvolta come sempre dall’odore diverso che aveva quel mondo rispetto al suo. La foresta non c’era, era circondata da materiale grigio che aveva imparato chiamarsi asfalto, e da case enormi che i terrestri del periodo chiamavano palazzi. La cosa positiva delle porte però, era che si aprivano sempre vicine al luogo dove voleva arrivare. Un vecchio palazzo in mattoni rossi vicino ai giardini di Kensington, a Londra. Si avviò verso la seconda finestra a partire da sinistra, al primo piano, felice di vedere la luce accesa. Bussò con le nocche della mano destra, e attese.
Attese finchè non vide apparire un viso coi capelli rossi come il suo, gli occhi azzurri come quelli del padre. Che era anche suo padre.
“Schwester!”
Sorella.
Lilith sorrise al ragazzino col viso attaccato al vetro, aspettando che aprisse la finestra per salutarlo come meritava.
“Parla in inglese, Hansi. Sai che devi impararlo”
“Ma è così noioso, Schwester. Almeno con te non posso parlare come parlavamo sempre?”
“No, Hansi. No.”
Vide il ragazzino, suo fratello, aprire la finestra. Nessuno sull’isola sapeva che aveva un fratello, ne che l’aveva mandato a vivere a Londra, nell’anno domini duemila qualcosa. Non sapeva con precisione che anno fosse, li. A volte lo chiedeva a Hansi, ma poi se ne scordava regolarmente. Lo aveva portato fuori perché voleva che crescesse, studiasse, e vivesse. Che non rimanesse bloccato sull’isola, come lei. Era troppo vecchia per adattarsi a un mondo così diverso, lo sapeva. Ma Hansi aveva solo sei anni quando ce l’aveva portato, dopo secoli che non cresceva, e si era adattato perfettamente. Lo aveva portato davanti a quella che chiamavano casa-famiglia. Il nome le era piaciuto. Era stato terribile separarsi da lui, ma costringerlo a rimanere bloccato sull’isola sarebbe stato ancor più crudele. Li cresceva, studiava, aveva degli amici. Sull’isola aveva lei, la capanna e gli alberi. Non voleva che diventasse un bambino sperduto. Non voleva che si dimenticasse tutto. Quando si era svegliata sull’isola la prima volta si era resa conto che le fate avevano portato Hansi con lei, forse sentendo la sua preoccupazione per lui. Era un particolare che aveva omesso, quando aveva raccontato chi era a James Hook. Aveva anche omesso di dirgli che Hansi esisteva, quando lei già era stata portata via dai mercenari. A Jas Hook. AJas. Hansi era al sicuro a Londra, tanto più che lo andava a trovare ogni volta che poteva. Adesso aveva dodici anni, forse? Undici?
“Come va, Hansi? Stai studiando come devi? Sai che tuo padre lo vorrebbe”
Lilith vide il bambino sorridere soddisfatto, prima di raccontarle dei suoi voti e di cosa faceva coi suoi amici. I primi tempi si rifiutava di aprire la finestra, convinto che lei lo avesse abbandonato li volontariamente. Poi aveva smesso, e aveva accettato la cosa. Come un ragazzino di poco più di dieci anni può accettarla.
“Non mi porti con te questa volta, Schwester?”
“No, Hansi. Non posso.”
“Ma perché?”
“E’ pericoloso, lo sai”
“E’ successo qualcosa di interessante sull’isola?”
Oh, si. Sto ospitando il capitano dei pirati ferito, Hansi. In questo momento sta dormendo a casa mia. Con le labbra semiaperte, e i capelli raccolti, e…
No. Non era il caso.
“Non esattamente, tutto normale. Cosa vuoi che succeda li?”
Lilith si sforzò di sorridere, mentre l’immagine di James Hook addormentato si delineava sempre più vivida nella sua mente. Era pericoloso. Lo sapeva. Poteva essere un impedimento per le sue visite a Hansi, affezionarsi a lui. Ma non poteva farci niente. Vide Hansi voltare la testa di scatto verso la porta della sua stanza, poi voltarsi di nuovo verso di lei.
“Arriva qualcuno, Schwester”
Ma Lilith era già sparita, rientrata nel buio da cui era venuta. I primi tempi Hansi ci rimaneva male, quando la vedeva sparire così. Ormai, invece, ci si era abituato.
 
Lilith si lanciò correndo verso il varco, sperando che non l’avesse vista nessuno. Si rese conto di quanto la porta fosse molto più riconoscibile, ora. I contorni più netti. Pericolo. Segnale di pericolo. Significava che il suo desiderio di tornare sull’isola era più forte di quello di lasciarla. Significava che qualcosa la stava richiamando indietro. Qualcuno. Doveva essere la preoccupazione per Jas. Doveva essere quello.
Che altro?
Scosse la testa, rispuntando nella foresta vicino a casa sua, si diresse subito in quella direzione per controllare se Jas si fosse svegliato. Aprì la porta il più silenziosamente possibile, e accese la lampada ad olio.
Dormiva, coi capelli raccolti sulla nuca, il braccio ferito piegato vicino alla testa e le labbra semiaperte. La spalla sana appoggiata al materasso. Doveva essersi mosso, anche se pareva che fosse rimasto nella posizione in cui l’aveva lasciato, perché il lenzuolo era scivolato lasciandogli le spalle scoperte. Lilith si sedette accanto a lui, togliendosi le scarpe e infilandosi a letto, tirando su il lenzuolo per proteggerlo dal freddo che aveva lasciato entrare con lei, aprendo la porta. Appoggiò la fronte alla sua schiena, rendendosi conto che forse non era stata la preoccupazione a farla tornare così in fretta, ma quelle labbra addormentate e semiaperte che aveva visto prima di andarsene, e il fatto di non volerlo lasciare solo. E questo poteva essere un pericolo, e un problema. Eppure, la voglia di passargli un braccio intorno al fianco ed abbracciarlo anche per pochi secondi restava talmente forte da spaventarla.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** 11 ***


Non gli era mai successo. O forse si, ma se ne era dimenticato. Era la prima volta che sentiva la mancanza fisica di qualcuno, e il freddo dato non solo dalla febbre, ma dalla sua effettiva lontananza. Era un pensiero che lo disturbava e lo faceva sentire meglio al tempo stesso. Odiava sentirsi quasi dipendente da qualcuno, ma quella sensazione era dovuta al fatto che quel qualcuno, evidentemente, esisteva. E lui si stava abituando a non essere più del tutto solo, forse. A poter considerare qualcuno alla pari. E anche questo era oggetto di dibattimento interno su positivo\negativo. Era un lusso che non si era mai permesso, perchè avrebbe reso instabile la sua totale indipendenza.
Ma tutto quell’arrovellarsi non poteva cancellare il fatto che quando l’aveva sentita uscire si era sentito inspiegabilmente solo.
Ora, non ci prendiamo in giro. James Matthew Hook non aveva mai avuto il sonno pesante. Mai. Non aveva mai potuto permetterselo. Era quindi inutile pensare che non si fosse svegliato quando Lilith se n’era andata, pur con tutte le cautele che aveva preso per non destarlo. Inutili.
Era abituato a dormire con un occhio solo, aveva dovuto imparare. Ed era un pirata, ed era se stesso, e come tale era abituato a fingere e dissimulare. Aveva finto di dormire, ed era rimasto immobile anche quando ormai l’aveva sentita uscire. Non aveva mosso un muscolo per tutto il tempo, cercando di mantenere il calore che gli fornivano le coperte, ritrovandosi a dover riconoscere che non era quello il calore che cercava. Si chiese di sfuggita dove stesse andando, per poi ricordare a se stesso che non aveva nessun diritto di farsi queste domande. Di farsi gli affari suoi. La conosceva da pochissimo, era suo ospite, e non aveva diritto di interferire con la sua vita. anche se avrebbe voluto non essere considerato un invasore, un estraneo, per una volta. Avrebbe voluto essere qualcosa di più di una parentesi, una spalla maciullata e qualche chiacchierata piacevole.
Non osò muoversi, spaventato dal freddo. Quel freddo che lo perseguitava da quando era caduto in acqua, rischiando di morire due volte nel giro di poco tempo. Quel freddo che gli si era attaccato alle ossa così affettuosamente che aveva deciso di non lasciarlo più solo. Avvicinò le ginocchia al petto, stringendosi l’avambraccio destro con la mano, cercando calore. Sentì il lenzuolo scivolare ma non lo raccolse, preferendo stare immobile.
Non andava. Non andava affatto. Non era abituato così, non era abituato a cercare, a desiderare il contatto con qualcuno. E questo lo faceva sentire terribilmente vulnerabile, debole. E solo, almeno in quel momento.
Si tese, ancor più immobile, quando sentì la porta aprirsi di nuovo. Resistette all’impulso di stringere di nuovo la mano sull’avambraccio quando, insieme a Lilith, entrò nella stanza una folata di vento gelido. Non sapeva quanto tempo era passato, potevano essere ore quanto minuti, ed era rimasto sempre immobile. Continuò a farlo.
Sentì la donna togliersi gli stivali, appoggiare qualcosa sul tavolo –una torcia, forse? – e sedersi sul letto. Tenne gli occhi chiusi, mantenendo il respiro regolare per non far capire che non stava dormendo, e la sentì sdraiarsi accanto a lui. Sentì che tirava di nuovo su il lenzuolo a coprirgli le spalle.
Smise di respirare quando sentì la sua fronte appoggiata alla schiena. Era fredda, certo. Ma non si irrigidì sicuramente per quello.  
Sentì i capelli di Lilith lasciare la pelle della sua schiena, si obbligò a restare immobile. Di nuovo.
Fregato, per l’ennesima volta.
“Scusami, ti ho svegliato?”
 
Fissò lo spesso fascio di riccioli mentre scuoteva la testa. Destra-sinistra, aveva davvero dei capelli lunghissimi.
“E’ pericoloso girare per la foresta da sola, di notte”
C’era un sorriso nella sua voce.
Sorrise alla sua schiena, alle bende che la avvolgevano, e al sorriso nella sua voce.
“Preoccupato per me?”
“Mi pare il minimo richiesto dall’educazione, anche se non mi sembri il tipo che ha bisogno di protezione”
“Anche perché c’è chi dice che il maggior pericolo su quest’isola sei tu, Jas Hook”
Lilith ascoltò il silenzio che l’uomo usò come risposta. Era strano parlare con una schiena. Quando quel silenzio si dilungò per troppo tempo, si puntellò su un gomito. Almeno gli occhi, almeno quelli voleva vederli.
 
Chiuse gli occhi, quando Lilith gli fece notare ciò che sapeva già. Ovvero che su quell’isola l’elemento effettivamente più pericoloso era lui. Ghignò, pensando che il suo soggiorno in quella casa forniva alla donna una sicurezza in più: lui era un antifurto naturale. Quale ladro sarebbe andato a rubare nella casa dove si trovava il re dei pirati? Solo un pazzo. E quale persona qualunque, umana, con un minimo di desiderio di socievolezza si sarebbe accompagnata al re dei pirati?
Solo un pazzo.
Il ghignò sparì di colpo. Cercò di riassettare il cervello sulla lunghezza d’onda che aveva sempre avuto.
Nessuno ha bisogno di te, quindi tu non hai bisogno di nessuno. Convinciti, James Matthew Hook.
Certo, fosse facile.
 
Si mosse d’istinto, sollevandosi sul gomito per poterlo guardare in viso, aspettandosi di incontrare gli occhi col mare dentro. Non fu così, il loro padrone li teneva nascosti sotto le palpebre, sul viso un’espressione a metà fra la stanchezza e qualcosa di simile alla rassegnazione. Gli tolse un ciuffo ribelle dalla fronte, spostandoglielo sulla schiena, e gli appoggiò una mano sulla fronte.
“Hai ancora la febbre”
Il suo ospite non aprì gli occhi, gettando fuori tutta l’aria che aveva faticosamente raccolto nei polmoni.
“Non è una novità, ma belle”
Gli passò una mano sul braccio sinistro, le dita a controllare quanto la fasciatura fosse ben fatta. Annuì soddisfatta finchè non notò la pelle d’oca del suo ospite.
“E hai ancora freddo”
Ecco, adesso aveva quasi la scusa per poter fare quello che voleva fare prima. E aveva un buon motivo per farlo. Il suo ospite stava praticamente morendo di freddo. Non era buona educazione lasciarlo in quello stato. No?
 
“E hai ancora freddo”
Da giorni. Sempre.
Annuì, tenendo sempre gli occhi chiusi. Sapeva quanto riuscivano a tradirlo, quando li apriva. Parlavano per lui, anche quando voleva stare zitto. Li spalancò suo malgrado quando sentì il braccio di Lilith intorno al fianco, il tepore di un’altra persona vicino a lui. Il panico, quasi. Fece per allontanarsi, ma sentì la presa di Lilith farsi più ferma.
“Non fare storie, la febbre non ti scende se non stai al caldo. Ho finito le coperte e questo è l’unico modo, chiaro? Accendere un fuoco mentre dormiamo è troppo pericoloso. Quindi stai fermo e vedi di dormire, o per guarire ci metterai il quadruplo”
Lasciò che la pallida imitazione di quello che avrebbe dovuto essere un sorriso gli plasmasse le labbra, sicuro di non essere visto. Non aveva più freddo, e non sentiva più addosso quella solitudine disumana che lo stava stritolando fino a pochi minuti prima. Rilassò le spalle, permettendosi di riposare.
“Ubbidisco, ma belle”
 
C’era di nuovo un sorriso nella sua voce, nascosto da qualche parte. Stava facendo un gioco pericoloso, lo sapeva. Rischiava di non essere più in grado di raggiungere suo fratello dall’altra parte, se si legava troppo a quell’uomo.
Domani, però.
Ci avrebbe pensato domani. Forse.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** 12 ***


Non va. Non va per niente.
Si era spaventato a morte quando si era svegliato e si era reso conto che non dormiva da solo. O meglio. Che dormiva con qualcuno che aderiva alla sua schiena come uno stampo. Dopo aver rischiato di fare un salto di cinquanta centimetri, che gli sarebbe risultato sicuramente doloroso, si rese conto che calmandosi quella presenza non lo disturbava affatto. Ne aveva sentito la mancanza, in tutto quel tempo. E non c’è niente di peggio della nostalgia verso qualcosa che non hai mai avuto. Avrebbe dovuto rinunciarci, prima o poi. Lo sapeva.
Quale persona qualunque, umana, con un minimo di desiderio di socievolezza si sarebbe accompagnata al re dei pirati?
Solo un pazzo.
Non ne aveva incontrati molti, di pazzi. Quasi nessuno. O nessuno, direttamente. Era una media che rasentava l’assoluto e, se da una parte lo rassicurava, dall’altra lo gettava nella miseria più nera quando smetteva di fingere che gli andasse bene così. Ergo, per questa crudele legge statistica, sapeva con certezza che quella compagnia non sarebbe durata affatto, e che presto sarebbe tornato ad essere James Hook, il capitano della Jolly Roger, terrore dei sette mari, unico uomo che Barbecue temeva e compagnia bella. Ogni tanto rischiava di farsi ridere da solo, ma in realtà andava orgoglioso di tutta quella sfilza di aggettivi. Per non parlare della loro comodità. Pubblicità gratuita, signori.
In ogni caso, non andava. Erano anni. Secoli. Una vita praticamente immortale che cercava di evitare di legarsi a qualcuno, perché sapeva che il distacco l’avrebbe ucciso. E sapeva che ci sarebbe stato il distacco. C’era sempre il distacco, per colpa sua o meno, ma c’era sempre. E dopo anni di distacchi, aveva deciso che basta, non aveva intenzione di sopportarne altri. Soprattutto dopo quello che era successo a Jolly Roger.
E quella si, era colpa sua.
E di nessun altro.
Ma non riusciva a convincersi a doversi scostare dall’abbraccio di quella donna coi capelli corti e con quegli occhi verdi così strani che aveva accettato la sua proposta di darle un nuovo nome. Ne sentiva il bisogno come un morto di sete cerca l’acqua. Come un essere umano cerca il contatto di un altro, nel normale avvicendamento del Mondo. E non andava. Non andava per niente.
Quasi come se avesse potuto leggere nel suo cervello come in un libro, Lilith rafforzò la presa sul suo fianco, appoggiando di nuovo la fronte alla sua schiena.
Sospirò. Non andava. No. Ma non poteva sicuramente dire che la situazione gli dispiacesse.
“Com’è che sei finito qui, Jas?”
Jas Hook dovette sopprimere un ghigno, e la voglia di ridere.
“Ma non stavi dormendo, tu?”
 
Lilith sorrise, il viso ancora affondato nella sua schiena.
“Non sei l’unico qui che sa fingere bene”
“L’ho notato”
Sorrise di nuovo, quando notò come la schiena dell’uomo vibrasse ogni volta che parlava.
“Se vogliamo giocare con le domande, però, è il mio turno”
Sbuffò, combattendo la curiosità.
“Hai ragione. Cosa vuoi sapere?”
 
Quando sentì Lilith sbuffare, soffiando aria sulla sua schiena, si ritrovò a dover sopprimere brividi affatto spiacevoli lungo tutta la colonna vertebrale.
Voglio sapere come ti viene in mente di farmi certi scherzi.
No, non era una domanda da fare. Ma una curiosità gli era rimasta.
“Cosa stavi facendo l’altra mattina?”
“L’altra mattina quando?”
“Quando lavoravi alla fornace”
“Oh, quello!”
Jas Hook non poté vedere il sorriso soddisfatto che si era disegnato sul viso di Lilith, e fu un peccato, perchè gli sarebbe piaciuto enormemente. Sentì il suo braccio scivolargli via dal fianco e nel giro di pochi secondi Lilith era in piedi, si era diretta verso la porta, era uscita ed era rientrata tenendo in mando qualcosa dall’aria familiare. Gli sorrise di nuovo, felice.
 
Non c’era niente che la rendesse più contenta della consapevolezza di un lavoro ben fatto. Per lui.
Si. Insomma. Quello.
Si sedette accanto all’uomo fatto di mare, attenta a non dare scossoni al letto per via delle sue ferite, e gli mostrò il risultato del suo lavoro mattutino.
“Ti ho risistemato l’uncino, e tutto l’arnese che usi per tenerlo addosso. La pelle ha retto, ma l’ho comunque coperta con della stoffa per rinforzarla. E anche perché così non ti darà più fastidio quando lo usi. Ti restano i segni addosso, ci avevi fatto caso?”
Lo sguardo azzurro che le regalò fu impagabile. Lo vide deglutire a vuoto, con gli occhi spalancati, fissando l’arma che splendeva alla luce del mattino. Affilata come non mai.
“Io…ti ringrazio. Ti ripagherò, appena sarò di nuovo alla mia nave”
Lo zittì scuotendo la testa, decisa. Cercando di non pensare a quanto quel quando sarò alla mia nave le avesse dato fastidio. Ma andava bene così, era meglio così.
“Se avessi voluto qualcosa, te l’avrei chiesto subito. Non voglio niente, la soddisfazione di poter fare il mio lavoro di nuovo è già abbastanza. Ripagami con un nome nuovo, Jas Hook. Ma impegnati, perché lo voglio bello”
Appoggiò l’uncino sul letto, lasciando che lo studiasse con gli occhi. Dopo averlo fissato per qualche istante spostò lo sguardo su di lei, occhi fatti di mare così profondo da affogarci dentro.
“Mi pare il minimo, ma belle. Qual’era la tua domanda?”
 
Lilith sorrise, prima di alzarsi di nuovo e tornare a sedersi con in mano un cesto di frutta.
“Dopo. Ieri hai promesso che avresti mangiato qualcosa”
“Ho promesso? È una cosa che non faccio mai”
Tirò su un sopracciglio puntellandosi sul gomito sinistro, fissando la mela che Lilith gli aveva piazzato davanti agli occhi.
“Promesso, acconsentito. Come vuoi. Mangia.”
“D’accordo, ma belle. Ma sappi che per me la parola promettere ha un significato terribilmente serio”
La vide fissarlo, a metà fra la curiosità e la concentrazione.
“Devo dedurne che ho trovato qualcuno che sa dare alle parole il giusto peso?”
“Evidentemente”
Sorrise come un lupo, la mela a metà della sua strada verso la bocca.
“Mi piace, Jas Hook. Sapere che parlo con qualcuno che sa bene quello che dice rende la conversazione sicuramente migliore. Ti rifarò la mia domanda, ma adesso mangia. Ne hai bisogno, hai la febbre.”
Sentì la mano fresca di Lilith farsi strada fra i riccioli, fino ad arrivare alla sua fronte. Ghignò, perfetto esempio di sorriso piratesco, chiudendo gli occhi. Era strano come riuscisse a farlo rilassare solo toccandolo.
Promesso

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** 13 ***


Quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa del morto.
Le onde. Onde così alte da far paura alla nave. Alle navi, perché erano due. Il Victory inglese, tre alberi della regina, e il tre alberi pirata. Il “Silver”. Non un gran nome, certo. Ma meglio di un pugno nei denti. Barbecue ne sarebbe andato fiero. Se fossero riusciti a staccare il tre alberi della marina inglese e a tornare interi in qualche porto, certo. E pioveva. Dio, come pioveva. Fra acqua sopra e acqua sotto, Jas Hook rischiava di scambiare mare per cielo e cielo per mare. Ma non aveva mai staccato gli occhi dal Victory, non lo faceva mai. C’era qualcosa che gli impediva di smettere di fissare gli uomini che voleva ammazzare.
Yo ho ho, e una bottiglia di rum.
 
Lilith controllò che dormisse, di nuovo. Era la seconda volta che lo lasciava da solo, di notte, e per quanto fosse migliorato non si sentiva comunque tranquilla. Ma c’era Hansi, di la. C’era suo fratello. Chiuse la porta della capanna il più silenziosamente possibile, lanciandogli un’ultima occhiata. Dormiva ancora. Per ora, tutto bene.
 
Jolly Roger era in piedi accanto a lui, quando il tifone li prese in pieno, separando le due navi che si combattevano da ore. Si sentì sbalzare contro l’albero maestro, vide solo rosso per qualche secondo. Quando riuscì a rimettersi in piedi corse verso Roger, sbalzato fuori bordo, si reggeva ad una cima come un disperato. Afferrò la corda, e iniziò a tirare. Cercando di riportarlo su.
Dio, com’erano alte quelle onde. Era come cercare di riportare su qualcosa che non ci doveva essere riportato. Qualcuno che apparteneva già al mare. Ma non l’avrebbe permesso. Non con Jolly Roger attaccato dall’altra parte della cima.
 
La porta. Non trovava la porta. Eppure solo pochi giorni prima era li, dov’era sempre stata. Brutto segno. Pessimo segno. Spense la torcia, cercando meglio il rettangolo di buio più scuro del buio.
 
Tiralo su, Jas Hook. Tiralo su. Fanno male le braccia, fa male tutto, le ferite della battaglia non ti fanno certo un favore. Ma tiralo su, Jas Hook. O non te lo perdonerai mai. E le onde. Le onde. A pochi metri da te ce n’è una mostruosa, Jas Hook. E non te ne sei accorto.
 
Eccola. I bordi sfilacciati come quelli di una vecchia toppa. Rami di buio più scuro del buio che si perdevano nella foresta.
Non va bene. Non va bene per niente. Doveva fare qualcosa. Si decise a passare dall’altra parte, temendo che la porta sparisse. Prima che la porta sparisse. Quando si ritrovò nella Londra del duemila qualcosa e si voltò a guardarla la vide in modo talmente chiaro che si spaventò. L’isola se la stava prendendo. E lei glielo stava lasciando fare. Perché c’era lui. C’era Jas. Si obbligò a spostarsi verso l’alloggio di suo fratello prima di cambiare idea.
 
L’onda. Mai vista un’onda così. James Hook se la sentì venire addosso senza vederla, gli occhi fissi su Jolly Roger che risaliva con difficoltà. Il muro d’acqua lo colpì così violentemente da rischiare di stappargli la cima dalle mani, ma la tenne stretta avvolgendosela al polso, rischiando di romperselo. Ma non avrebbe mollato. Mai. Non era il tipo. E non poteva. Assolutamente.
 
La finestra di Hansi era ancora illuminata quando Lilith arrivò, bussando con le nocche al vetro. Il viso di suo fratello la ricompensò delle preoccupazioni.
“Schwester!”
Non poteva permettersi di non rivederlo. Non poteva lasciare che la porta per arrivare da lui sparisse. Doveva fare qualcosa, certo. Ma non riusciva a convincersi a farlo. Si costrinse a sorridere.
“Ciao, Hansi. Come stai?”
 
Il ritorno dell’onda lo prese di sorpresa, si sentì mancare il ponte sotto i piedi e perse terreno, andando a sbattere con le ginocchia contro il parapetto. Pessima situazione. Fra la nebbia dell’acqua e della stanchezza riuscì a vedere il tre alberi della marina inglese che si riavvicinava, parallelo. Pronto alla bordata.
Non pessima, peggiore. Strinse la corda con la mano, aiutandosi con l’altra per tirare, prima di sentire la tensione allentarsi ed accorgersi che Smee era dietro di lui, e lo stava aiutando a riportare Jolly Roger a bordo. Puntellò gli stivali contro il parapetto, cercando di salvare Roger prima di ritrovarsi a portata di tiro dei cannoni del Victory. Il Silver rollava violentemente, Jas rischiò di perdere l’equilibrio più di una volta. Ma lo mantenne. Quello sotto i suoi piedi era il mare. E lui era fatto di mare. Non si sarebbe fatto sbilanciare da se stesso.
 
Hansi stava bene. La scuola era una noia. Con gli amici si divertiva. Voleva tornare sull’isola, Lilith non sapeva spiegarsi come mai, visto che li per lui non c’era praticamente niente da fare. In realtà, voleva tornare sull’isola con lei. Ma non era il caso. Doveva crescere, doveva vivere, e non doveva assolutamente sapere che James Hook fosse suo ospite. Il solo pensiero del capitano pirata le fece nascere un nodo alla gola.
E se si era svegliato? Se aveva bisogno di lei? Almeno quanto lei ne aveva di lui?
 
Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto.
Troppo tardi, erano a portata piena. Una bordata, e li avrebbero affondati. Ordinò al timoniere di defilarsi, cercando una curva  a90 gradi attuabile solo se ancorati. Ordinò che l’ancora fosse gettata in mare, sperando di fare in tempo.
Sulla cassa del morto.
 
“Hansi, parla inglese. Te l’ho già detto, devi imparare”
“Se lo imparto, poi mi porti con te?”
“Se quando sarai adulto vorrai tornare, non te lo impedirò”
“Quand’è adulto, Schwester?”
Lilith fissò il viso del fratello, così simile a quello di suo fratello maggiore. E a quello di suo padre. Lei no, somigliava alla madre. Un viso più sottile e spigoloso, elfico quasi.
“Ancora no, Hansi. Ancora no”
 
La bordata. Dio, la bordata. E le onde maledette. Una cannonata del Victory centrò il parapetto in pieno, a pochi metri da lui. Si sentì sbalzare in avanti, verso il mare aperto, prima che Smee si lanciasse verso di lui afferrandolo per il cinturone, pregando perché reggesse. Una seconda bordata li fece sbattere violentemente contro il ponte. James Hook credette di morire, quando vide esplodere il ponte davanti a lui. Quando si sarebbe svegliato, si sarebbe reso conto che in realtà era saltata solo un’altra parte del parapetto, largamente al di sopra della linea di galleggiamento. Ma intanto aveva battuto la testa così forte. E le onde. Le bordate. E l’albero maestro, la sopra, com’è che gira su se stesso? È la nave? O sono io? Cercò disperatamente di trattenere la cima prima di svenire.
 
Lilith si diresse correndo verso il vicolo dove la porta l’attendeva, i bordi così nitidi da sembrare fatta davvero di legno. Quello che desiderava di più si trovava sull’isola, non più li. Rischiava di perdere Hansi. Doveva fare qualcosa, anche se forse era già troppo tardi. Tornò nel suo mondo quasi correndo, rendendosi conto che la porta l’aveva scaricata letteralmente sulla soglia di casa. Entrò, prestando meno attenzione a non fare rumore. Non ce ne sarebbe stato bisogno comunque.
 
Quando si svegliò, era in un posto mai visto. La nave era arenata, piegata su un lato, a poche decine di metri da un’isola sconosciuta e singolarmente colorata. Si appoggiò ai gomiti, cercando di alzarsi, ma Smee lo spinse delicatamente sul ponte.
“Siete ferito, capitano. Non muovetevi, ci penso io.”
Si rese conto di avere la gamba destra immobilizzata da uno scheletro di legno, forse era rotta. Forse. Anche se ancora non la sentiva. Quando Smee gli prese il polso per controllarlo dovette sopprimere un mezzo gemito di dolore. Si morse la lingua.
“Perdonatemi, capitano. Avete un polso rotto, stringete i denti, vedrò di risistemarlo”
Il polso. La cima, le bordate, la tempesta, le onde. Le onde, Dio, che onde. La cima. Il polso. Jolly Roger.
“Smee, dov’è Roger?” La sua stessa voce gli arrivò attraverso la nebbia. Quando Smee non gli rispose alzò lo sguardo verso l’irlandese. L’unica risposta che ebbe fu un no con la testa da parte di uno dei suoi uomini migliori, che cercava di rattopparlo come meglio poteva.
Si morse di nuovo la lingua per non urlare, mentre Smee spingeva l’osso rotto al suo posto. Ma l’aveva perso. Aveva mollato la cima, l’aveva lasciato morire. Aveva perso Jolly Roger, il suo primo ed unico amico. Era morto, ed era colpa sua. E di nessun altro. Per la prima volta da anni ebbe voglia di piangere, ma non lo fece. Preferì seppellire tutto nei polmoni, e nella bottiglia a cui si attaccò la sera stessa, bloccato a letto dalla gamba rotta che gli impediva anche una semplice esplorazione di quell’isola assurda. Smee dovette intervenire in piena notte, quando cercò di alzarsi per raggiungere il ponte,ubriaco fradicio,  rischiando di peggiorare la situazione della sua gamba. Lo bloccò sulla soglia della cabina, spingendolo a letto contro la sua volontà. James Hook, in larghezza, era la metà di Smee. Letteralmente. Lo staccava di parecchi centimetri in altezza, ma in quel caso quella sua caratteristica serviva solo a fargli perdere l’equilibrio più facilmente. Smee riuscì con poche difficoltà a riportarlo in cabina senza ulteriori effetti collaterali, e controllò che non si muovesse per il resto della nottata. Il giorno dopo James Hook si ritrovò con quello che, al momento, era ciò che aveva di più simile a un nuovo amico, e Smee si ritrovò con quello che somigliava al suo primo amico. Jas non parlò più di Jolly Roger, ma chiamò così la nave. E smise di dare confidenza a tutti, con qualche rara eccezione per il marinaio irlandese. Che prese l’abitudine di dormire fuori dalla sua cabina ogni volta che si accorgeva che il numero di bottiglie piene che il capitano si portava in cabina era decisamente superiore al dovuto.
 
Lilith si fiondò accanto al letto quando lo vide sedersi di scatto, guardarsi intorno febbrilmente e ricrollare a letto con la mano stretta sulla spalla ferita.
“Jas! Stai bene?”
La guardò come se non la riconoscesse.
 
Non sapeva perché, ma invece che risponderle aveva aperto bocca e aveva iniziato a raccontarle tutto. Della battaglia, del tifone, delle cannonate. Di Jolly Roger. Era la prima volta che riusciva a parlare di lui con qualcuno, e si rese conto di averne bisogno mentre lo faceva. Le parole gli uscivano di bocca senza che se ne rendesse conto, come un fiume scappato dalla diga. Aveva paura di perdere il controllo su se stesso mentre raccontava, mentre ammetteva la sua colpa. Non era riuscito a salvare Jolly Roger, aveva mollato la cima. Aveva condannato il suo unico amico a morte certa. Perché aveva mollato quella maledetta cima. Ebbe voglia di mettersi a urlare quando Lilith gli disse che non era colpa sua. Smee glielo aveva già detto centinaia di volte, ma lui non ci aveva creduto. Mai.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** 14 ***


“Guardami bene, James Matthew Hook, perché non credo che avrò voglia di ripetermi di nuovo. Non è colpa tua. Non può esserlo. E non puoi continuare a darti la responsabilità di quello che è successo. Chiaro?” Lilith gli aveva preso il viso fra le mani, non ci era abituato. Non era abituato nemmeno ad avere una persona così decisa ad ascoltarlo da finire col fargli una parte non indifferente, in realtà. Solo una persona l’aveva fatto prima. Si chiamava Roger Davies, e se l’era mangiato il mare. Per colpa sua, perché era colpa sua. Checché ne dicessero, Roger era morto per colpa sua. Si voltò di lato assottigliando gli occhi, le onde che iniziavano a formarsi nei loro abissi marini, strappandosi dalla presa di Lilith.
“Certo”
 
Lilith ebbe voglia di prenderlo a schiaffi, ma si fermò pochi secondi prima di farlo. Non era il caso. Gli passò una mano dietro la nuca, costringendolo a voltarsi di nuovo verso di lei. Faceva di tutto pur di non guardarla, e le parve strano. Un uomo che non aveva mai sfuggito lo sguardo di nessuno, fino a quel momento, che non riusciva a guardarla negli occhi.
“James, guardami.”
Si spaventò, quando lo fece. Mai vista tanta rabbia negli occhi di qualcuno. Mai vista tanta rabbia rivolta contro se stesso, negli occhi di qualcuno.
Mai visti occhi così.
 
James Hook non era nuovo alla sensazione di avere lo stomaco annodato. Solo che di solito quando si sentiva così riusciva a restare da solo, in qualche modo. In quel momento la cosa gli risultava letteralmente impossibile. In ogni caso, quando si sentiva così si dava all’alcool in modo assolutamente letale. Altra cosa che gli risultava letteralmente impossibile. Si maledisse in autonomia, serrando la mandibola, percependo tutti i dolori delle ferite nel suo corpo tirato. Non ci poteva fare niente, non riusciva a rilassarsi. E quando Lilith gli chiese di guardarla non poté fare a meno di lasciar parlare gli occhi, visto che a parole, in quei casi, non era esattamente un maestro.
Era un lasciami stare quasi disperato, in fin dei conti. Che Lilith non accolse. Si sedette sul letto, sembrò pensare a qualcosa e allungò le braccia verso di lui. Parallele, ai lati della sua testa. La fissò perplesso, cercando di capire le sue intenzioni, la bocca dello stomaco ancora chiusa. “Posso sapere cosa stai facendo?”
 
Lilith lo guardò, aspettando che facesse qualcosa, le braccia ancora sollevate.
“Posso sapere cosa stai facendo?”
Lo fissò, prima di scuotere la testa e rispondere. Quel gesto per lei era così familiare che non aveva pensato che Jas probabilmente non lo avrebbe conosciuto. Lo faceva sempre con Hansi, da quando aveva iniziato a crescere e a dire che certe dimostrazioni di affetto erano roba da bambini. Le venne da ridere a pensare quanto una frase del genere potesse suonare assurda, in bocca a un ragazzino.
“Ti sto chiedendo il permesso, James Hook”
La guardò, sempre più scettico, le sopracciglia aggrottate.
“Per favore, non chiamarmi così”
Lo disse talmente piano che lo sentì quasi per caso.
 
Era rimasto a guardarla, con quelle braccia alzate che lo circondavano. Gli sorrise.
“Ti chiedo scusa”
Continuò a fissarla senza capire.
“Mi stai chiedendo il permesso di fare cosa?”
Lilith si strinse nelle spalle, continuando a tenere le braccia parallele. Jas Hook buttò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni, sulla strada buona per un attacco di nervi. Era già teso di suo, giocare non era quello che voleva in quel momento.
“Come faccio a darti il permesso di fare qualcosa se non so cosa vuoi fare?”
“Dovrai fidarti”
Lo lasciò di sasso, tirò fuori una risposta a viva forza, facendosi quasi violenza.
“Sono tuo ospite, questa è casa tua. Non devi chiedermi il permesso di fare qualcosa”
Non seppe se preoccuparsi o no quando la vide sorridergli.
 
“L’hai detto tu, non io”
Gli sorrise, allacciandogli le braccia dietro la schiena e infilandogli la mano sinistra fra i capelli, incastrandola fra i riccioli. Lo sentì irrigidirsi ancora di più, se possibile.
Schwester, non abbracciarmi, non sono più un bambino!
Rischiò di mettersi a ridere. Da quella volta, aveva inventato quel gesto. Serviva a chiedere a suo fratello il permesso di abbracciarlo.
“Rilassati, Jas. Sei tu che mi hai dato il permesso”
 
Non le rispose, ancora troppo teso per farlo. Diviso in due fra la tentazione di lasciarsi abbracciare e l’intenzione di spingerla via. Restò fermo, immobile, finchè Lilith non se ne rese conto. Lo guardò preoccupata.
“Jas? Stai bene? Sono le ferite?”
No, non sono le ferite. Sei tu.
Ringraziò che non ci fossero specchi in giro. Non avrebbe voluto vedere la sua faccia in quel momento. Assolutamente no.
 
James Matthew Hook la stava fissando come se avesse visto un fantasma. Senza rendersene conto si allontanò, gli tolse i capelli dagli occhi.
“Se il contatto umano ti fa questo effetto, mi viene da chiedermi come hai vissuto fino ad adesso”
Ghignò, fissandola negli occhi, fingendo di non sentire la mancanza della sua vicinanza.
“Non vuoi saperlo, fidati”
“E se mi interessasse?”
Il ghigno del suo ospite si allargò, se possibile.
“Ho vissuto come qualcuno che reagisce così quando viene toccato”
“Terribilmente sibillino”
“Fidati, tu non sai quanto”
“Non è necessario che tu reagisca così, te l’hanno mai detto?”
Jas la guardò di nuovo, indeciso su cosa rispondere.
“Non dopo che mi hanno abbracciato, no. Considerando che non è il mio hobby, mi capita di rado”
Lilith lo fissò stranita.
“Possiamo ripetere l’esperimento, se vuoi. Vediamo cosa succede”
Rimase ferma, immobile, quando James Hook allungò un braccio verso di lei, la mano sinistra alzata.
“Ti pregherei di non farlo, per favore”
“James”
“Non mi chiamare così”
“Jas”
Le sorrise, con un angolo della bocca.
“Già meglio”
Lilith non riusciva a decidere se prenderlo a schiaffi, di nuovo.
“Sei strano, James Hook. Non si capisce mai cosa ti passa per la testa”
Forse la guardò con un mezzo sorriso, forse no. Forse, in ogni caso, non ci capiva niente.
“E’ un’ottima autodifesa, ma belle”
“Come vuoi, James Hook”
 
Si zittì immediatamente quando si accorse che lo stava abbracciando di nuovo.
“Lilith, per favore”
“Sta zitto, James Hook. Non ti sto abbracciando, ho sonno. Tu sei comodo, e ti uso come cuscino”
Perse l’equilibrio quando si sentì spingere verso il materasso, affondò i riccioli nel cuscino.
“Non è una scusa che regge, non so se te l’hanno detto”
“Zitto, James Hook. Ho sonno.”
“Ti prego di non chiamarmi così”
“Come vuoi. Zitto, Jas Hook. Ho sonno. Oh, Jas, una cosa”
La risposta che le arrivò fu un sospiro prossimo all’esasperazione.
“Il tuo cuscino umano aspetta la rivelazione”
 
Ci penso qualche secondo, prima di aprire bocca. Giocò coi riccioli neri che ricadevano sul materasso.
“Non è colpa tua, Jas. Sul serio. Niente brutti sogni stanotte.”
Si sentì stringere un po’ di più, di una frazione infinitesimale.
 
La strinse di più, senza rendersene conto. Chiuse gli occhi.
“Buonanotte. Se lo dici tu”.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** 15 ***


Quando si svegliò, le sembrò di essersi addormentata in spiaggia. L’odore di mare era così forte intorno a lei che ci mise un po’ per rendersi conto di essere nel suo letto, sotto la sua coperta, praticamente sdraiata sul suo ospite. Ospite che continuava a dormire, apparentemente tranquillo e ignaro dell’imbarazzo della padrona di casa.
Mia l’idea del cuscino umano, mie le conseguenze.
Dopo il profumo di mare, la seconda cosa che notò fu il calore. Il fuoco era spento. Jas aveva ancora la febbre, ma non così alta da giustificare un simile calore in casa. Gettò un’occhiata verso la porta. Da sotto la soglia entrava il sole.
Sorrise, rendendosi conto che probabilmente Peter Pan era tornato, portandosi dietro sole, caldo eccetera. Regalò una nuova occhiata al capitano pirata che dormiva accanto a lei, senza sapere che la sua nave, probabilmente, era tornata a casa. Se tutto andava bene, senza nemmeno sapere che se ne fosse mai andata. Non sentiva davvero il desiderio di dirglielo. Resistette all’impulso di spostargli i capelli dalla fronte e si alzò, infilandosi gli stivali e uscendo, dirigendosi verso la spiaggia.
Quello che vide le piacque davvero. La Jolly Roger era una nave magnifica, davvero ben tenuta, e gli uomini di Jas ne stavano riprendendo possesso avvicinandosi con le scialuppe e guadagnando il ponte. Evidentemente, il ragazzino volante aveva deciso che quella nave non rientrava nei suoi interessi e l’aveva lasciata a chi di dovere. Oppure l’avevano convinto ad andarsene.
Difficile, comunque. Convincere Peter Pan a fare qualcosa che non voleva fare era cosa rara, se non impossibile. Si fermò a raccogliere un po’ di frutta sulla strada di casa, la appoggiò sul tavolo di legno e si sedette sul letto, gli occhi fissi sulla forma addormentata di James Hook.
Lei avrebbe voluto che quel pirata potesse restare con lei. Ed avrebbe voluto poter restare con lui. Ma non poteva, se non voleva veder sparire l’unica possibilità di tenersi vicino l’ultimo membro ancora vivo della sua famiglia. Lo vide aggrottare le sopracciglia, forse turbato da qualche sogno, forse per riflesso involontario, forse chissà perché. Cercò di tranquillizzarlo passandogli il dorso della mano sinistra sulla fronte.
Funzionò. O così pareva.
 
Stava sognando, evidentemente. Se gli avessero chiesto cosa, però, non avrebbe saputo rispondere. Erano flash continui di immagini, voci, in un rimescolio incessante di onde e spuma marina. Rischiava di farsi venire mal di testa anche dormendo, doveva essere una sua abilità tutta particolare. Non sapeva quando, però, ma aveva sentito una presenza esterna vicina, rassicurante, e le immagini si erano fermate. Se ne erano andate. E ora, tutto quello che vedeva erano le onde del mare, in quel momento del giorno in cui l’orizzonte si mangia il sole e l’acqua diventa più calda dell’aria. L’ora blu.
 
Sorrise quando si accorse che, effettivamente, dormiva molto più tranquillo. Gli passò il pollice sulle labbra, attenta a non svegliarlo.
Solo una volta, che male potrà fare?
Ritirò la mano di scatto, quando si accorse di due pozze talmente celesti da fare male che la fissavano. Spalancate.
Non riuscì a fare altro che uscirsene con un Perdonami, ti ho svegliato? Che suonò falso persino a lei.
 
Non riusciva a smettere di fissarla, nemmeno impegnandosi. Ci doveva essere qualcosa, nel suo cervello, che aveva fatto crack e gli aveva bloccato momentaneamente l’abilità di distogliere lo sguardo. Sentiva ancora sulle labbra la pressione leggera delle sue dita e, con tutto l’impegno del Mondo, non riusciva davvero ad elaborare la sensazione. Non era niente di spinto o indecente, ma gli era sembrato terribilmente più eccitante di qualsiasi altro tocco femminile avesse mai ricevuto. Si rese conto che probabilmente non sbatteva le palpebre da un minuto buono, quando si accorse che gli aveva fatto una domanda. Per l’attenzione che aveva prestato, avrebbe benissimo potuto chiedergli credi che i macachi sappiano pescare?
E lui, rintronato com’era in qual momento, le avrebbe risposto dicendole ma certo. In uno splendido dialogo fra esseri senzienti resi sordi da quel quasi terrore. Si forzò, per aprire bocca.
“Scusami?”
Lilith deglutì, senza il coraggio di guardarlo negli occhi.
“Ti ho chiesto se ti ho svegliato. Mi dispiacerebbe, dormivi tranquillo per una volta”
Oh, se l’aveva svegliato. Bella domanda. L’aveva svegliato? Forse no.
“No. No, non credo. Mi stavo già svegliando, direi”
Gli sorrise, quasi.
“Meno male, mi sarebbe dispiaciuto”
 
Lo guardò sbattere le palpebre, per la prima volta in un minuto buono, prima di rendersi conto del sole che inondava la stanza. Si sedette con un po’ di fatica, buttò giù le gambe dal letto, cercò i suoi stivali.
“Pan è tornato?”
Non era la sua voce, quella a cui era abituata. Sembrava più la voce di qualcuno che cerca di far nascere una conversazione spinto dal terrore di quello che poteva succedere nel silenzio.
“Direi di si, pare che sia tornato il caldo”
Lo vide alzarsi, non perfettamente stabile, desiderando aiutarlo a raggiungere la porta ma temendo il contatto fisico. Eppure la sera prima l’aveva praticamente spinto a letto a viva forza.
Non andava, non andava per niente. Tirò un sospiro di sollievo quando si accorse che, mentre si stava perdendo in voli pindarici ed elucubrazioni, Jas aveva raggiunto la soglia di casa e si godeva il tepore del sole con il suo mezzo sorriso sghembo. Lo raggiunse, spaventata dall’idea che potesse cadere se si fosse sforzato troppo.
 
Resistette all’impulso di saltare sul posto quando sentì il braccio di Lilith intorno al fianco per aiutarlo a stare in piedi.
“Era ora che quel ragazzino volante tornasse, il freddo iniziava a darmi ai nervi”
La guardò, ancora intimorito e incastrato fra la possibilità di sorridere con mezza bocca o evitare.
“Non ti facevo un tipo così freddoloso”
La vide stringersi nelle spalle.
“Non lo sono, è che il freddo dopo un po’ diventa monotono”
Annuì, perplesso.
“Certo, come se il caldo non lo fosse, qui”
Lilith iniziò a disegnare figure circolari sulla pelle nuda della sua schiena, forse inconsciamente, forse no. Fatto sta che sentì nascere brividi affatto spiacevoli lungo tutta la colonna vertebrale, cui si aggiunsero quelli dovuti alla febbre, alla nausea e alla debolezza regalatagli da quel simpatico disturbo che si portava dietro da quando si era bevuto mezzo mare. Pneumonia, una maledizione. Si portò una mano sugli occhi, temendo di non riuscire a stare in piedi ancora a lungo, e sentì la presa di Lilith farsi più salda.
“Stai bene? Hai bisogno di sdraiarti?”
Scosse la testa, spedendo riccioli neri a tagliare l’aria intorno a lui.
“Ora mi passa. Sto bene, adesso mi passa”
Sentì Lilith cambiare posizione, appoggiandogli una mano sul fianco e l’altra sull’addome, pronta a fermare una possibile caduta.
 
Lo osservò respirare affannosamente per un po’, perso fra una mano piazzata sugli occhi e la pelle d’oca che lo assaliva a ondate. Era ancora debole, ma il fatto che riuscisse a stare fuori dal letto per così tanto tempo la faceva ben sperare per un recupero veloce. Quando si rese conto che le sue ginocchia non l’avrebbero retto si spostò davanti a lui, pronta a recuperarlo se fosse caduto, e dovette essere veloce nel mettere subito in pratica i suoi propositi quando, effettivamente, Jas rischiò un atterraggio poco morbido sulla terra battuta che le faceva da pavimento. Lo sorresse, una mano sotto il braccio destro e l’altra sulla schiena, cercando di farlo stare in piedi.
“Meno male che ti stava passando, Jas. Chissà cosa sarebbe successo altrimenti”
Gli mise una mano sulla nuca quando lo sentì appoggiare la fronte sulla sua spalla.
“Riesci a stare in piedi?”
 
Mugugnò qualcosa di poco comprensibile, che nel suo mondo momentaneamente nebbioso avrebbe dovuto suonare come un ci sto provando, mentre in realtà era uscito più come un mugolio sconnesso. Tirò su la testa dalla spalla di Lilith e si ritrovò due occhi sorprendentemente verdi a pochi centimetri da suoi. Il che significava che, a pochi centimetri dalla sua bocca, c’era quella di qualcun altro. Altra. Che lo fissava a occhi spalancati. Non seppe se fu per colpa sua, o per colpa di Lilith, ma i centimetri di aria che li separavano si azzerarono di colpo e, Dio, quella donna sapeva di vento, cenere e scintille.
 
Sale, acqua salmastra e pioggia. Tutto insieme dava un’idea niente male dell’effettivo odore di James Matthew Hook. Lilith si godette quel contatto finchè qualcosa, nel suo cervello, sembrò incrinarsi. Urlando cretina, cosa credi di fare?
Piantò i palmi delle mani sul petto del pirata, spingendolo via. Lo fissò ad occhi spalancati.
“Devi andartene, Jas.”
Non gli diede il tempo di rispondere, prima che potesse aprire bocca si era già voltata ed era scappata correndo nella foresta.
 
James Hook era rimasto immobile, stupito di non essere finito a terra dopo la spinta di Lilith. Forse si stava davvero riprendendo. Forse. Lasciò che il suo cervello seguisse quella linea di pensiero per non ammettere che si, aveva la bocca secca. Arida. E che c’era qualcosa, nella sua cassa toracica, che protestava vivacemente per non aver seguito la sua ospite nel bosco. E anche per quel devi andartene Jas. Un qualcosa che aveva sempre finto di non esserci. Maledetto qualcosa, che decideva di svegliarsi tutto insieme.
Frugò in giro per la casa per trovare qualcosa con cui scrivere.
 
Le porte. Quelle maledette porte le erano scappate di mano. Non ce n’era più nemmeno una, nessun passaggio per il duemila qualcosa, nessuna scappatoia per vedere suo fratello. E adesso, nemmeno più Jas che la aspettava a casa, per un millesimo di secondo pensò di mandare tutto al diavolo e inseguirlo. Sarebbe salito sulla sua nave, dove altro poteva andarsene?
Ma non poteva. Doveva dimenticarsene, altrimenti le porte non si sarebbero mai più riaperte. L’isola se la sarebbe presa davvero e non l’avrebbe più lasciata andare.
Anche se, in realtà, il suo desiderio più grande era quello di potersi svegliare di nuovo accanto a quell’uomo così strano che valeva tutto il suo tempo.
Quando rientrò, dopo ore perse a cercare un varco per uscire da quell’isola assurda senza trovarlo, rientrò in casa. Jas se n’era andato, gentiluomo come sempre, portando con se il suo uncino e lasciandole un messaggio scritto col carbone sulle assi di legno del tavolo.
“Spero che il tuo nuovo nome ti piaccia, Saoirse”

---

Allora: Saoirse si legge Ser-Sha ed è gaelico. Detto ciò, mi scuso per il ritardo criminale, ma ho un lavoro nuovo. Nel senso che si è aggiunto a quelli vecchi. Potete immaginare il tempo che mi rimane per fare quello che mi va di fare.
Tipo punto. Tipo.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** 16 ***


Smee sapeva che un buon pirata, per dirsi tale, doveva evitare di affezionarsi troppo a qualcuno o a qualcosa. Era una vita nomade, o per lo meno lo era finchè non si erano trovati su quell’isola assurda, e in una vita nomade l’affetto ha la pura funzione di ancora. Frena. Ma Smee, da buon essere umano qual’era non aveva potuto evitare di affezionarsi a James Hook, quell’uomo strano che tendeva a non dare confidenza a nessuno se non, raramente, a lui. Era un ragazzino quando era salito sulla nave mercantile e l’aveva trasformata in un vascello pirata. Un egregio vascello pirata, sissignori. Gli aveva anche perdonato l’unico errore che gli avesse mai visto commettere. Non era consentito mettere i propri desideri davanti ai bisogni di tutta la ciurma, che tu fossi mozzo o capitano. Si ricordava ancora di quando Van Der Graaf, uno dei capitani pirata più rinomati del periodo, aveva fatto fuori il suo nostromo perché non aveva gettato a mare una schiava di cui si era innamorato e suo figlio dopo che gli era stato ordinato di liberare la stiva. La nave aveva bisogno di velocità, e gli schiavi sottocoperta la rallentavano. Certo, Smee capiva che era un comportamento poco umano, ma il nostromo aveva anteposto i suoi desideri al bisogno della ciurma, ed era stato punito. Con una morte lenta. Van Der Graaf aveva parecchia fantasia per queste cose. James Hook aveva rischiato la nave intera per cercare di salvare Jolly Roger, ma gliel’aveva perdonata. Era riuscito a governare la nave cercando di salvare l’amico, non era cosa da tutti. E poi, a dirla tutta, Smee non aveva mai visto tanta disperazione e determinazione degli occhi di qualcuno, finchè non aveva conosciuto un James Hook che non aveva ancora iniziato a farsi la barba.
Viste le premesse, quindi, Smee era impossibilitato a non voler bene a quell’uomo fatto di mare, scostante e solitario finchè non offriva una finestra a cui affacciarsi, che offriva al vecchio pirata irlandese uno scorcio di quello che il suo capitano doveva effettivamente provare. Non aveva mai visto onde così alte come quelle che si agitavano in quegli occhi talmente azzurri da essere inquietanti.
Le stesse premesse, in ogni caso, erano il motivo per cui quando aveva visto James Hook in piedi sulla spiaggia davanti alla Jolly Roger non aveva potuto esimersi da stamparsi sulla faccia un sorriso tale che Cookson, il cuoco, gli aveva detto che la faccia gli si sarebbe aperta a metà.
Dopo due settimane dal rientro di James Hook sulla Jolly Roger, Smee non l’aveva ancora visto sorridere una volta. Ghignare si, ridere sotto i baffi, pure. Ma sorridere no, quello mai. Aveva provato a intavolare una seppur minima conversazione mentre gli cambiava le medicazioni, ma non c’era stato verso di strappargli ua sillaba su chi l’aveva salvato e medicato, su cos’era successo e quant’altro. Un nuovo mistero di James Hook inarrivabile per chiunque.
 
James Hook era appoggiato al parapetto della sua nave con il gomito destro, l’uncino nuovamente scintillante –un nuovo mistero per il povero Smee-, accarezzava il legno chiaro con la mano sinistra, incurante delle schegge. L’acqua di mare non faceva bene al legno, ma la Jolly Roger aveva dimostrato di saper resistere egregiamente. Non era raro vederlo fissare la foresta, alla ricerca di chissà cosa. Lui cercava un filo di fumo, una qualche traccia della presenza di Lilith la dentro. Di Saoirse. Chissà se il nome le era piaciuto. In ogni caso, a quel punto, non l’avrebbe saputo mai.
Peccato, capitano. Un vero peccato. Ma le statistiche, alla fine, vincono sempre. Maledetto sia chi ha detto che la matematica non è un’opinione. Crudele sicurezza scientifica.
 
Lilith aveva cercato le porte per tutta la notte. Anzi, Saoirse. Le piaceva quel nome, le piaceva chi glielo aveva regalato. Ed era questo che la teneva bloccata su quella spiaggia maledetta, senza riuscire a raggiungere Hansi in alcun modo. Ogni volta che lasciava che i suoi pensieri vagassero verso un certo pirata con gli occhi fatti di mare sentiva suo fratello scivolare sempre più lontano.
Ma non poteva farci niente, e forse non voleva farlo.
Aveva praticamente smesso di dormire da due settimane. La notte cercava le porte, il giorno fissava il mare ad occhi spalancati, nascosta nella sua foresta, osservando la sua nave da lontano. Senza farsi vedere. Sapendo che quello che faceva di giorno non aiutava per ciò che cercava di fare di notte. Era un fuoco ingabbiato, un folletto che si dibatteva talmente forse fra dovere e volere, e volere una cosa e volerne un’altra, che si faceva venire acido in bocca da sola. Nave e mare erano sempre così simili, nella stessa posizione, che si stupì non poco quando si rese conto che la Jolly Roger stava alzando la bandiera nera. E che il suo capitano era salito in coperta, diretto a poppa, come attratto da un nemico invisibile.
Vele bianche all’orizzonte.
 
L’aveva vista arrivare prima della sua vedetta, ma non aveva detto niente a quel ragazzino per non terrorizzarlo troppo. Faceva quell’effetto a tutti, anche se spesso non era voluto. Si strinse nelle spalle stringendo i denti per la ferita non ancora rimarginata, portandosi al viso il cannocchiale.
Vele in vista. Bandiera inglese. Un tre alberi di sua maestà britannica.
Con scritto Victory sopra.
Te lo ricordi, Jas?
Il mare, le onde, il polso, la cima, l’albero maestro che gira. Il Victory inglese. E Jolly Roger che finiva inghiottito dalle onde.
Poteva essere un caso, una nave con lo stesso nome. Ma il puzzo di sangue che gli era salito su per il naso diceva il contrario.
Quando si girò verso Smee per ordinargli di esporre la bandiera nera, aveva gli occhi rossi.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** 17 ***


Quella nave, la Victory, non aveva fatto niente di ciò che Jas Hook si era aspettato. Non aveva risposto alla minaccia insita nella bandiera nera della jolly Roger, si era semplicemente defilata andando a rifugiarsi in un'insenatura fuori portata del due alberi pirata. E fuori dalla visuale del suo capitano, che mai come in momenti simili odiava le sorprese. Era quel Victory, ne era più che certo. Aveva riconosciuto il nome, lo scafo, persino il colore del legno gli era rimasto impresso negli occhi mentre cercava di capire cosa avessero in mente quei soldati di una Sua Maestà Britannica di secoli fa. Lasciarli fare i loro comodi era un'eventualità troppo folle perché potesse passare anche solo dall'anticamera del cervello della ciurma. Molti di loro c'erano quando il Victory e la Jolly Roger, allora il Silver, si erano dati battaglia. E se lo ricordavano bene. Molto bene. Senza contare che uno scontro navale con tutti i crismi era un diversivo piacevole alla continua caccia a Pan. Il comportamento del Victory però li aveva delusi. Niente scontro diretto, nessuna risposta a teschio, tibie e clessidra issati in bella vista a ricordare che, una volta adocchiata quella bandiera, il tempo che rimaneva da vivere sarebbe scivolato via come la sabbia. Veloce e Inesorabile. Era la bandiera che i Fratelli della Costa avevano scelto, ognuno con le sue sacrosante varianti, ma a nulla era servita contro l'indifferenza del Victory, ormeggiato chissà dove vicino a loro.

 

Hansi aveva aspettato sua sorella, come sempre, ma non era mai tornata. Era quasi un mese che non si faceva viva, e non era normale. Era preoccupato, certo. Ma era anche curioso. Sapeva che sua sorella era forte. Che se la cavava sempre. Erano pensieri infantili lineari come la certezza che lo spingevano più a voler sapere che a preoccuparsi. E poi, forse sapeva dove si trovava sua sorella. Su quell'isola dove voleva tornare da anni, e che non riusciva mai a raggiungere. Magari a quel giro gli sarebbe andata bene.

 

Saoirse si issò a forza di braccia sul ramo più basso di un albero, prima di usarlo come base per continuare a salire. Aveva scelto bene la pianta, in un punto in cui poteva godere della vista di entrambi i lati dell'isola: la Jolly Roger di Jas da una parte e la nave mai vista prima dall'altra. Vele bianche, e la bandiera pareva inglese. Gli uomini la sopra erano tutti vestiti uguali e si muovevano in modo organizzato, preparando scialuppe da calare in mare per raggiungere la terraferma. Sperava solo con combinassero disastri coi nativi, sapeva quanto non amassero gli uomini bianchi. La Jolly Roger, al contrario, era l'immagine dell'iperattività. Vele scure, tibie e teschio dipinti su velaccio, bassa gabbia e gabbia volante, persone di ogni tipo e colore affaccendate in qualche compito, sotto la supervisione di un vecchio pirata un po' troppo pingue e di un capitano col mare negli occhi. Si concesse uno sguardo più lungo tutto dedicato a Jas. Tanto, evidentemente, le porte si erano chiuse anche per lei.

 

James Hook lanciò un'ultima occhiata alla sua nave prima di comunicare la sua decisione a Smee. Ci aveva pensato, e più ci rimuginava meno gli sembrava probabile che il Victory fosse li in gita di piacere. E se anche lo fosse stato, in ogni caso, poco sarebbe cambiato. Lo avrebbe tirato giù con tutti i villeggianti. Era da quando Saoirse gli aveva detto di andarsene che provava il desiderio bruciante di distruggere qualcosa. Quale occasione migliore.

"Smee, tu e Sparky con me. Coockson alla nave. Se succede qualcosa che non deve succedere, fagli sapere che pretenderò la sua testa."

Smee si affrettò a diffondere gli ordini, non invidiando affatto la fiducia, per altro ben riposta, che il suo capitano aveva nelle abilità di controllo di Coockson. Si bloccò a metà del ponte.

"Dove andiamo, capitano?"

Il sorriso da lupo che James Hook gli rivolse gli fece venir voglia di restare sulla nave a far compagnia a Cookson.

"Esplorazione Smee. Controlla la polvere da sparo."

Sicuro come l'Inferno. Quando James Matthews Hook sorrideva a canini scoperti, ghignava a canini scoperti, la polvere da sparo era davvero da controllare.

 

Hansi sorrise, consapevole di avercela fatta. Era uscito dalla finestra dalla quale ogni tanto era entrata sua sorella, si era calato sul marciapiede, era scappato correndo verso la strada fino a inoltrarsi nel vicolo da dove sua stella maggiore arrivava ogni volta. Ed ora era li, fermo davanti a un muro di mattoni che metteva un punto fermo su una strada chiusa, desiderando intensamente di poter vedere la sorella e l'isola, ma non sapendo come fare. Poi la vide. Un rettangolo di buio più scuro del buio, messo li a posta per lui.

 

------

 

 

RITARDO VERGOGNOSO! Lo so. Me ne scuso.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** 18 ***


Prima di aprire gli occhi, Hansi annusò l'aria. Proust aveva ragione nel dire che odori e sapori sono capaci di far riaffiorare qualsiasi ricordo o sensazione, ma Hansi non sapeva chi fosse Proust, e non se ne fece un problema. Era ara di casa, quella. Profumava di alberi, terriccio, mare ed altri fattori non immediatamente identificabili ma fondamentali per l'equazione. Quando si decise ad aprire gli occhi, si rese conto di essere davvero dove voleva essere.

 

Il Victory non era ancora in vista, ma lo sarebbe stata a breve. James Hook aveva piantato gli occhi sul fondale marino da quando la scialuppa si era allontanata dalla nave, troncando sul nascere ogni tentativo di conversazione del povero Smee, che si era seduto vicino a Starky con l'intenzione di comunicare almeno con lui. Niente da fare, l'eloquenza di Starky era pari a quella di una statua. Vita dura, quella del pirata socievole.

 

Hansi seguì le tracce dei ricordi, fino a portarsi sulla spiaggia che sapeva essere vicino alla capanna di sua sorella. Era una vita, una vita, che non rivedeva il mare. Certo, li avevano portati sul Mare del Nord inglese, ma non c'era assolutamente paragone. Quel mare era freddo, ventoso, grigio. Questo era blu. Di tanti blu diversi, ma blu. Cosa che Hansi, nel suo essere ancora infantile in una buona percentuale, giudicava positivo. Ci sarà stato un motivo se in tutti i quadri il mare era raffigurato con quel colore, no? Non facendosi problemi di riflessi ne di lunghezza d'onda dei raggi solari, si avviò verso la capanna. O, per lo meno, verso la sua direzione generale. Senza rendersi conto della nave dalle vele bianche che si avvicinava, lasciando scendere una scialuppa dalla fiancata sinistra. 

 

Gli occhi di Jas Hook erano blu. Come il mare che vedeva Hansi. Saoirse guardò la scialuppa pirata avvicinarsi alla riva e aspettò che attraccasse, prima di correre a chiudersi in casa. Non voleva ancora incontrarlo. O forse si. Ma non in quel momento. Decisamente no. Non quando fissava il mare con una rabbia tale da poterlo dividere in due.

 

James Hook aveva fatto legare la scialuppa a qualche metro di distanza dalla riva, per risparmiare la fatica di doverla spingere in mare al ritorno e assicurarsi una via di fuga abbastanza veloce in caso di bisogno, ed era saltato in mare tenendo le pistole bene in alto per non far bagnare la polvere da sparo. Sarebbe stato inutile trasformarle in aggeggi inservibili, per non dire stupido. Si erano fermati in una caletta non troppo lontana dalla nave della Regina inglese per non essere avvistati immediatamente, preferendo avvicinarsi tagliando dalla foresta, restando fuori portata di occhi umani non abituati a tutto quel verde. 

 

Saoirse sbattè la porta della sua capanna con così tanta violenza che temette di averla scardinata. Poco male, per un fabbro, ma una bella scocciatura da risolvere comunque. Si gettò di malagrazia sul letto, decisa ad entrare in letargo per, come minimo, i sei mesi a venire.

 

Quando James Hook si affacciò dal tronco che usava per proteggersi dai cannocchiali nemici credete di avere le traveggole. Il Victory era sempre li, ancorato dove l'aveva lasciato. Una scialuppa si stava muovendo per raggiungere la spiaggia, forse per fare rifornimento d'acqua, cibo o sapeva un accidente cosa. E sulla spiaggia, di spalle alla nave e, pareva, ignara di tutto stava in piedi una figura umana inconsueta.

Era magra, minuta. 

E aveva i capelli rossi.

Scattò in avanti prima che Smee e Starky potessero fare qualcosa, mandando a farsi benedire copertura, precauzione e tutto quello che comportava spiare una nave nemica armata di tutto punto.

Ma quella figura gli era tanto sembrata una donna di sua conoscenza che non avrebbe mai potuto lasciare in mano a un branco di soldati inglesi.

Ghignò quando si rese conto che, nell'immaginazione collettiva, un branco di soldati inglesi erano sicuramente da preferirsi a un branco di pirati multietnici come i suoi. Con un solo distinguo. Lui era il capitano.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** 19 ***


In tutta onestà, accadde tutto piuttosto velocemente.

Ci volle poco più di mezzo secondo per registrare il fatto che quella figurina con la testa rossa non fosse Saoirse. Un bambino, mai visto prima. Un bimbo sperduto? Difficile. E aveva addosso dei vestiti talmente assurdi che fu tentato di piantarsi a metà corsa per studiarli. Pantaloni celesti? Che sciocchezza. Credeva forse di essere un soldato, quel ragazzino?

Soldati

La seconda cosa che riuscì a registrare fu che un buon numero di soldataglia inglese stava approdando sulla spiaggia. Spiaggia in mezzo alla quale si trovava pure lui, piantato sulla sabbia come un cretino, con davanti un ragazzino che non sapeva più se fissare il capitano pirata o i soldati che arrivavano alle sue spalle. O la nave dalle grosse vele bianche che galleggiava placida al largo, con la sicurezza di chi sa che non può essere colpito e si prepara a un lauto banchetto. O a una simpatica sparatoria, in ogni caso. Controllò le pistole. Asciutte. Due colpi contro…

Quanti erano?

Una trentina di soldati.

Ottimo.

Con i suoi compagni arrivava a sei colpi. Forse avrebbe potuto chiedere alla soldataglia di Sua Maestà Britannica di incolonnarsi in sei file da cinque per vedere se con una pistolettata a testa fossero riusciti a farli fuori tutti, ma poteva già immaginare la risposta.

Situazione poco simpatica, gli ricordò il suo cervello.

 

Hansi passò dall'estasi del ritorno al panico del non-capisco-cosa-sta-succedendo nel giro di pochi secondi. Se prima si stava beando del profumo di alberi, mare, spuma marina e compagnia bella, adesso sentiva chiaramente di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Probabilmente circondato dalla gente sbagliata. Quel pirata che aveva davanti somigliava pericolosamente al capitano della Jolly Roger. Oh, se la ricordava. Quale bambino sano di mente avrebbe mai potuto scordarsi di James Hook, capitano della nave pirata dell'Isola che non c'è?

Era la gente che aveva alle spalle, che non sapeva identificare. Sembravano i soldatini che aveva visto ad Harrod's, a Londra, quando ce li avevano portati tutti insieme.

 

Smee si appostò con Starky dietro il tronco di un grosso albero e gettò un'occhiata alla spiaggia. Scena poco rassicurante, poco ma sicuro. 

Fra James Hook e i soldati inglesi c'era un ragazzino, che pareva essere il motivo della corsa suicida del suo capitano. Anche se dalla sua faccia, ora, traspariva più sconcerto che sicurezza. Il mistero numero N di Jas Hook. Scambiò uno sguardo col compagno, prima di controllare la carica delle sue due pistole.

 

Da quel momento in avanti le cose accelerarono considerevolmente, se possibile. Forse allertati dai movimenti fra gli alberi, forse dall'improvvisa apparizione del pirata, o forse chissà per quale altro imponderabile motivo, gli inglesi presero la mira sulla camicia bianca di James Hook e disciplinatamente, da bravi inglesi, aprirono il fuoco. Prima di gettarsi sul ragazzino per proteggerlo, l'unico pensiero che attraversò il cervello di Jas Hook fu che gli inglesi fanno tutto con metodo. Ammazzare compreso. Probabilmente lui era nato in Inghilterra per sbaglio, visto l'ammontare di istinto che infilava in tutto ciò che faceva.

 

Hansi si trovò schiacciato fra la sabbia e il petto del capitano pirata, senza possibilità concreta di respirare adeguatamente, sentendo i sibili delle pallottole a pochi centimetri dalla sua testa. Quando tutto quel casino cessò, si sentì tirare in piedi a viva forza e spingere fra gli alberi da un James Hook frenetico che, per qualche motivo, aveva deciso che la sua vita fosse degna di salvezza.

 

Smee porse il braccio al suo capitano coprendone la ritirata con un colpo che, miracolosamente o meno, centrò precisamente il petto del più vicino degli inseguitori. Gli altri inglesi si fermarono per qualche istante, dando al piccolo drappello di pirati un minimo di vantaggio. Si sentì tirare per la manica. Si voltò, vedendo il ragazzino indicare con una mano un viottolo nella foresta.

"Mia sorella vive da quella parte, possiamo rifugiarci da lei"

Mai in tutta la sua vita aveva visto gli occhi di James Hook spalancarsi in quel modo.

 

"Tua sorella, ragazzino?"

"Si. Ha una capanna nella foresta, lavora il ferro. Possiamo andare da lei"

Il tempo subì un'ulteriore accelerata.

 

Starky spinse Hansi dietro un albero e fece fuoco, sentendo i soldati avvicinarsi pericolosamente, nello stesso momento in cui Smee si rendeva conto che sulla camicia bianca del suo capitano si stava allargando una grossa chiazza di sangue all'altezza del fianco destro.

Brutta storia. Pessima.

Jas Hook appoggiò la schiena a un albero, prendendo la mira. Fece fuori un paio di soldati prima di rendersi conto che le pistole avevano fatto il loro dovere, e non l'avrebbero più aiutato. Le ficcò con rabbia nella cintura, cercando di prendere fiato.

"Quanto dista la capanna, ragazzino?"

 

Ecco perché da lontano l'aveva scambiato per Saoirse. Era suo fratello. Ma pensa tu, il destino è davvero un gran figlio di puttana. 

"Non è lontana, correndo ci arriveremo in pochi minuti"

"Correndo, ragazzino? Potrebbe essere un problema"

Spostò la mano dal fianco, la ritirò completamente macchiata di rosso. Nello stesso istante in cui Smee spingeva a terra la testa di Hansi per proteggerlo dai proiettili che avevano iniziato a grandinare su di loro.

"Sai correre, ragazzino?"

 

Hansi alzò gli occhi sul pirata, quanto la mano di Smee glielo permetteva. Annuì con la convinzione che possono avere solo i bambini.

"Vado veloce"

"bene, ragazzino. Com'è che ti chiami?"

"Hansi, signore"

Vide Jas Hook sopprimere una risata davanti al suo accenno di cameratismo militaresco.

"Ecco cosa farai, Hansi. Tu corri e portati dietro questi due, io copro la ritirata"

La mando di Smee si sollevò immediatamente dalla sua testa.

 

"Capitano, è un suicidio!"

"Smee, non è un suicidio. E' un ordine"

Con suo grande stupore, Jas Hook vide Smee fissarlo negli occhi.

"Non c'è nessun'asse da percorrere qui, signore. Mi rifiuto di lasciarla indietro a farsi ammazzare"

 

Gli occhi di James Hook potevano far paura, spesso e volentieri. Quel momento faceva parte degli spesso e volentieri sopracitati. "Smee, tu obbedirai, e seguirai questo ragazzino fino alla baracca di sua sorella. E lo farai adesso, o giuro sulla mia testaccia che ti ritroverai appeso a un albero senza riuscire nemmeno a chiederti come ci sei finito".

Smee strinse a se il ragazzino.

"Tornerò a prenderla, quando avrò visto dov'è la baracca."  

Perplesso, vide Jas Hook accennare un mezzo sorriso.

"Sei sempre stato il tipo dell'ottimista, tu. Fai un po' come ti pare. Adesso vedete di muovervi"

 

Vide i tre scattare nella foresta mentre sguainava la spada, preparandosi ad agire come diversivo. Uscì allo scoperto prendendo gli inglesi di sorpresa, riuscendo a farne fuori tre prima di ricevere un colpo alla nuca col calcio di un fucile.

Diversivo breve, ma intenso.

 

Smee e Starky avevano il fiatone, dopo aver seguito Hansi nella foresta per una decina di minuti a una velocità folle. Quando il ragazzino si precipitò dentro la capanna li accolse la vista di una ragazza coi capelli rossi, intenta a lucidare un coltello con un panno di pelle.

"Hansi? Che ci fai qui, Hansi? E chi è questa gente?"

Smee si tolse rispettosamente il cappello, Hansi sorrise suo malgrado. Era impossibile non adorare Smee.

"Smee e Starky, signorina. Della ciurma del capitano James Hook. Siamo stati attaccati, e vostro fratello ci ha portati qui da lei per un riparo"

Saoirse annuì, stringendo a se suo fratello.

"Dov'è il capitano?"

Smee fissò il pavimento.

"E' rimasto indietro a coprire la fuga"

 

Saoirse sentì tutti i muscoli irrigidirsi, terrorizzata. Gli era sicuramente successo qualcosa.

"Io sono Saoirse, restate pure quanto volete. Vado a cercarlo"

Smee la fermò per un braccio, indicando a Starky di proteggere la capanna con un cenno.

"Con tutto il rispetto, signorina, vengo con lei. E' il mio capitano, e lei è disarmata"

Saoirse sorrise, gettandogliuna spada e prendendo una sciabola con se.

"Questo lo dici tu"

 

Lo spettacolo che si presentò agli occhi di Smee e Saoirse fu tutt'altro che edificante. Una ventina di soldati stava trascinando sulla scialuppa il capitano della Jolly Roger coi polsi legati dietro la schiena. Precauzione inutile, considerando che era svenuto, ma indicava la paura che quell'uomo sapeva incutere. Saoirse strinse l'elsa della sciabola quando vide quanto sangue stava perdendo.

"Dobbiamo aspettare per liberarlo, signorina. Sono troppi, complicheremmo le cose"

Annuì, a metà fra la rabbia pura e il terrore.

"Il vostro nome, il capitano c'entra qualcosa?"

"perché me lo chiedi?"

Il vecchio pirata sorrise.

"E' gaelico, la mia lingua. E significa Libertà. Solo a lui poteva venire in mente una cosa del genere"

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** 20 ***


Il suo primo pensiero fu, in realtà, piuttosto stupido.

Devo chiedere a Smee un elenco dei rifornimenti.

Pan doveva essere di umore particolarmente buono, a giudicare dal caldo, e la nave beccheggiava tranquilla fino all'esasperazione nell'eterna bonaccia dell'isola. Una cosa, però, lo infastidiva. Non riusciva a muovere le mani, ne ad alzarsi dalla sedia su cui si era addormentato . Lui, e la sua maledetta abitudine di leggere fino a cavarsi gli occhi. Quando un brivido di freddo gli attraversò la schiena, si chiese se Smee non fosse entrato ad aprire le finestre. Il mal di testa esplosivo che gli spaccava il cervello in due lo indusse a chiedersi quanto avesse bevuto la sera prima, e soprattutto cosa. Quando aprì gli occhi, un dolore accecante lo obbligò a chiuderli di nuovo. E ora sentiva anche il fianco. Era il dolore di una fucilata. E il caldo, non c'era. Faceva un freddo assassino in quella stiva maledetta. Ed era lui, a bruciare di febbre.

 

Saoirse era indecisa su una sola cosa, aveva una scelta difficile. Non sapeva se essere più terrorizzata per il fatto che Hansi se ne fosse tornato sull'isola di sua spontanea iniziativa, o per quello che poteva succedere a Jas. Che era già successo a Jas. Impose ad Hansi di tacere in modo piuttosto brusco, dopo che le ebbe chiesto per l'ennesima volta di poter partecipare all'attacco alla nave inglese.

"Quell'uomo mi ha salvato la vita, Schwester! Se lo andate a prendere, voglio venire anch'io!"

Guardò sospirando Smee, che le rispose con un sorriso divertito. Tanto era l'amore per suo fratello che si era dimenticata quanto fosse stressante averlo fra i piedi, a volte.

"Non scherzare, Hansi. Non possiamo permetterci di attaccare una nave come quella in tre. Smee e Starky dovranno tornare alla Jolly Roger e chiedere rinforzi, o dovremo cercare di entrare nella nave e portarlo via senza essere visti. Sperando che non ci siano inglesi armati qui intorno. In ogni caso, tu resti qui".

Mentre osservava il broncio plateale di quel ragazzino coi capelli come i suoi, Saoirse si sere conto che la prima opzione avrebbe richiesto tempo. Troppo tempo. E che loro non ne avevano. Jas stava già perdendo litri di sangue quando l'aveva visto portare via dagli inglesi, senza esagerazione alcuna. Se gli inglesi non l'avessero medicato sarebbe morto. Storse istintivamente le labbra quando l'idea che la ferita avesse potuto essere fatale di per se le attraversò il cervello. Non lo era, sicuramente. Non doveva. Non poteva. Se volevano riprendersi James Hook, ad ogni modo, dovevano tentare le due strade insieme.

"Smee, dobbiamo dividerci".

Il vecchio pirata la guardò, prima perplesso, poi leggermente più convinto.

"Effettivamente non esiste una cosa più impossibile di un'altra".

 

Il suo cervello si premurò di fargli notare come la situazione non fosse delle migliori, anche se tale definizione rasentava la più nera ovvietà. Aveva seri dubbi che la ferita alla testa fosse stata medicata a dovere, o che la sensazione appiccicosa che gli comunicava il fianco non fosse generosamente elargita da una buona dose di sangue rappreso. Aveva fame, condita con l'ossimorica impressione che se avesse osato ficcarsi qualcosa in bocca l'avrebbe vomitata subito. Non era esattamente in forma smagliante, per usare un gentile eufemismo, e non si accorse del tizio imparruccato in piedi davanti a lui finché non palesò la sua presenza tirandogli indietro la testa, usando come appiglio la coda di riccioli neri che gli copriva le spalle. La ferita alla nuca non gradì, dedicandogli una nuova dose di dolore al limite dell'agonia. 

"Mi piace pensare che lei si ricordi di me, capitano"

Tutto ciò che gli uscì di bocca fu un grugnito inarticolato. Non sarebbe riuscito a parlare nemmeno se l'avesse voluto, me se ci fosse riuscito gli avrebbe sputato in faccia un purtroppo, seguito da una ben fornita sfilza di epiteti ben poco gentili. Il tipo con la parrucca bianca, improponibile ora che ci faceva caso, sembrava essersi particolarmente affezionato ai suoi capelli, tanto salda era la sua presa sui riccioli. Jas Hook lo fissò, dedicandogli un'occhiata che avrebbe putto far piangere una vipera. La parrucca semovente che aveva davanti si limitò a sorridere, orribilmente affabile. 

"Sto ancora aspettando la grazia di una risposta, capitano"

"Come dimenticarla, signore. Il pomeriggio più esaltante della mia vita, finché il mio nostromo non è finito in acqua e il mio albero maestro non è finito sulla mia gamba. Divertente. Assolutamente indimenticabile. Pessima mira, i vostri cannonieri. Se posso permettermi." 

Il tizio puzzava di cipria. Puzzava davvero. Jas si chiese quali fossero gli effettivi vantaggi di comandare una nave regolare, se lo scotto era darsene in giro conciato come un idiota. Aspettò che quell'uomo si staccasse dal suo già abusato cuoio capelluto e si decidesse ad arrivargli davanti. Madre Natura non era stata particolarmente genti e con lui, ma anche il servo di Sua Maestà si era impegnato per rovinarsi la faccia. Calcolò che gli arrivasse si e no alle spalle e che, vista la sua mole, sarebbe stato più facile saltarlo che girargli intorno. Si chiese come avesse fatto a sviluppare certe proporzioni sferiche facendo vita di mare, ma si ricordò appena in tempo che era di un ufficiale di Sua Maestà Britannica che stava parlando. Non che tutti si lasciassero andare in quel modo, la maggior parte erano una vera e propria spenna nel fianco, ma poi c'erano i nobili, e quelli erano altra roba. La loro conoscenza della vita di mare era pari alla loro bravura in cucina. Esseri dannosi e inutili, sprechi di spazio e materia prima. Sorrise. Era da un po' che non provava un simile disprezzo per qualcuno. Gliene fu quasi grato.

"Ho una domanda, capitano. Posso osare?"

Gli regalò n sorriso da lupo, sarcasmo evidente nel suo sorriso e in quegli occhi talmente blu da fare male. Proseguì quando l'altro annuì.

"Cosa sperate di ottenere, da me? I pirati non sotterrano davvero i tesori, sa?"

Il sorriso amabile che si vide rivolgere fu tale da ripulirgli quel sorriso strafottente dalla faccia.

" Da lei? Assolutamente niente, capitano. Ma sa come funziona con la marina inglese. Quando troviamo un pirata, abbiamo la strana abitudine di toglierlo di mezzo. E' istinto, capisce?"

Jas lo fissò, indeciso sul da farsi. Oh, se lo sapeva. Aveva affondato più di una nave britannica. Sorrise, quando si rese conto che la parrucca semovente che parlava con lui era finita lungo distesa sulle assi della stiva, e che il suo tallone destro si trovava proprio dove prima c'era il suo stomaco.

"Mi perdoni, signore. Uno spasmo involontario. Il dolore, capisce"

Morire per morire, tanto valeva prendersi qualche soddisfazione. E il divertimento nel vedere quella sfera imparruccata alzarsi e scappare dalla stanza reggendosi in testa i riccioli finti fu assoluto, mentre lo sentiva urlare, con una voce talmente stridula da essere ridicola, che la sua morte sarebbe stata indimenticabile.

A quel punto, non ne dubitava più.

 

Saoirse sentiva la testa scoppiare. Aveva spedito Starky a chiamare rinforzi, e lei e Smee stavano cercando di capre da quale lato sarebbe stato meglio cercare di entrare nella nave, sperando che il resto dei pirati arrivasse in tempo se qualcosa fosse andato storto. Hansi dormiva, finalmente muto e lontano dal pericolo per un po', e lei non sapeva più che pesci prendere. Smee era un marinaio esperto, ma in quanto all'azione, il maestro era Jas. E Jas era chiuso la dentro.

"Quante probabilità di trovarlo vivo abbiamo, Smee?"

Il vecchio pirata non le rispose subito, preferendo fissare gli alberi oltre la porta.

"Dovremmo averne alcune"

"Dovremmo?"

"Dobbiamo"

Annuì, comprendendo pienamente quello che passava per la testa al pirata. 

"Allora sarà meglio muoversi, finchè Hansi dorme"

 

Sulla nave, c'era una variabile impazzita che nessuno si era preso la briga di calcolare. Un uomo steso sulla sua branda si piazzò le mani sugli occhi, con solo voglia di urlare addosso. E prese ad elaborare un piano che poteva funzionare. Doveva funzionare.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** 21 ***


In tutta onestà, se avesse sbagliato momento sarebbe stato un uomo morto. Il che, forse, avrebbe costituito un'efficace novità nella sua non-vita centenaria di marinaio regolare per sbaglio agli ordini di un deficiente imparruccato. Non era il momento giusto per indulgere in certe novità, però. 

La guardia esce, cinque minuti, cambio di guardia.

Cinque minuti irripetibili che non poteva permettersi di sprecare, se voleva riuscire a fare ciò che doveva fare. Voleva fare.

In ogni caso. La guardia uscì.

Quattro minuti e cinquantanove secondi.

Quattro minuti e cinquantotto secondi.

"Miller, torna pure in coperta. Prendo io il tuo turno, ordini del capitano."

Quattro minuti e cinquantasette secondi.

Quattro minuti e cinquantasei secondi.

"Non ti invidio, con l'umido che c'è. Grazie della bella notizia, in ogni caso"

Guardò Miller allontanarsi.

Quattro minuti e cinquantacinque secondi.

Entrò nella stiva, fingendo di non avere la fretta indiavolata che aveva.

 

Jas Hook non l'avrebbe mai detto, ma aspettare di farsi ammazzare era noioso. Si era aspettato di essere nervoso, magari anche leggermente fuori di testa, e invece no. Si annoiava. 

Certo, era un lusso che si concedeva da appena trenta minuti. I quaranta precedenti li aveva passati con un marinaio col quoziente intellettivo di un cetriolo marino che continuava a chiedergli dov'era il tesoro. Doveva ammettere che ridere dopo aver preso uno di quei pugni gli era riuscito difficile, ma Dio! Com'è che la gente credeva ancora in quelle idiozie? Non si sotterra un tesoro, si divide equamente. Era inutile sotterrare casse piene d'oro, non crescono alberi di monete. Sarebbe stato botanicamente interessante, ma biologicamente impossibile. Si morse la lingua quando si regalò una simpatica fitta al fianco, generosamente elargita dalla ferita da pallettoni che si portava dietro. Non era stata pulita, medicata, fasciata. Stava li, sanguinava ogni tanto, e faceva un male d'inferno. Infetta? Forse. Febbre alta? Decisamente si. Conclusione.

Decisamente infetta. 

Brutta situazione.

Se anche fosse riuscito a liberarsi dalle funi, cosa che gli riusciva difficile con la poca forza fisica che gli era rimasta, avrebbe dovuto correre fuori,  possibilmente sgozzando la guardia, gettarsi in mare sperando che il ponte fosse libero e nuotare fino a riva. Piuttosto lontana. 

Nelle sue condizioni, era un'impresa ardua. In ogni caso.

Toh.

Aveva le mani libere. La mano libera. Credevano davvero che legargli i polsi gli avrebbe impedito di usare l'uncino sulle corde?

Illusi.

 

Saoirse e Smee si avvicinarono alla spiaggia il più silenziosamente possibile, cercando di confondersi col fogliame in uno stato di paranoia quasi assassina. Hansi dormiva, Saoirse l'aveva chiuso in casa. Sarebbe stato duro da sopportare, dopo, ma era necessità pura. Starky era partito correndo verso la Jolly Roger a cercare rinforzi.

E loro due fissavano quella nave immensa, al largo. 

Troppo lontana per arrivarci a nuoto, e usare una barca li avrebbe resi troppo visibili.

Aspettare che una nuvola si piazzasse sulla luna era l'unica speranza di avvicinarsi, magari usando  come appiglio le assi che Smee aveva staccato dal tetto della fornace.

 

Tre minuti e otto secondi.

Tre minuti e sette secondi.

Si infilò nella stiva il più silenziosamente possibile, tirando fuori la spada dal fodero.

Tre minuti e sei secondi

Si avvicinò al pirata, cercando con gli occhi i nodi delle funi. Difficile, al buio.

Tre minuti e cinque secondi.

Tre minuti e quattro secondi.

Tre minuti e tre secondi.

tre minuti e due sec…

Una mano sulla schiena e il collo intrappolato nell'incavo di un gomito, puzzo di sangue e respiro affannoso sulla nuca. Sorrise.

"Felice di vederti in piedi, Jas"

 

Gran figlio di puttana, il destino. Era la seconda volta che lo pensava. Ma questa volta non sapeva se esserne felice, sentirsi sollevato o spaventarsi a morte.

Non ci aveva mai creduto, ai fantasmi.

Mai.

Stupidate da marinai creduloni.

Eppure quello che aveva davanti doveva esserlo. Lo aveva visto andare giù, ingoiato dalle onde.

Lo aveva visto sul serio?

No.

Quello che aveva visto era stata una cannonata che gli aveva fatto la barba, tanto vicina gli era passata, un albero maestro crollato, un polso e una gamba rotti e troppe bottiglie di vino schifoso. Quelle le aveva viste, e come.

Ma Jolly Roger che andava sotto no, non l'aveva visto.

Era possibile, in teoria, che quindi fosse vivo. E considerato che lui ai fantasmi non ci credeva, doveva essere vivo. Altrimenti quello che vedeva sarebbe stata un'allucinazione dovuta alla febbre, o il suo fratello gemello.

Alla febbre poteva credere, al gemello meno.

Riuscì a sputare un sei vero? prima che gli cedessero le gambe.

 

Pessimo tempismo per svenire, Jas.

E pessimo tempismo per resuscitare.

Roger Davies non aveva creduto ai suoi occhi, quando aveva visto Jas Hook venire trascinato a bordo, sanguinante e legato come un animale.

Jas sconfitto era semplicemente qualcosa che esulava dalla sua comprensione. Non esisteva, non poteva essere. Non lui, non quel ragazzino che rifiutava di obbedire se gli ordini erano al di sotto di quella che lui definiva soglia di minima intelligenza, non l'uomo che era rimasto in piedi dopo un giro di chiglia. Non lui, insomma. Non Jas.

Affettivamente parlando, il suo Jas Hook. Il suo quasi fratello. Vederlo in quello stato gli era risultato intollerabile. E aveva rischiato seriamente di crollare quando il suo pirata preferito gli aveva chiesto sei vero?

Non aveva dubitato un mezzo secondo delle sue intenzioni, si era fidato ciecamente. Non gli aveva chiesto cosa ci faceva li, vestito da marinaio regolare, nella stiva della nave che aveva quasi affondato il Silver.

Si era fidato, e Roger si sarebbe sicuramente quasi messo a piangere dal sollievo, salvo dover correre a prenderlo al volo per evitargli una collisione col pavimento.

Aveva la testa dura, lo sapeva. Dura e rumorosa su quelle assi scricchiolanti, che avrebbero richiamato mezzo equipaggio. Non era il caso, meglio evitare.

Riuscì a caricarsi il suo ex capitano, attuale migliore amico e, magari, futuro compagno di bisbocce sulle spalle, agganciando con la mano destra la lanterna ad olio che pendeva dal soffitto, spenta.

L'avevano lasciato al buio tutto il tempo, non l'avevano medicato. Apparentemente, era arrivato poco prima di una pubblica esecuzione sul ponte. Impiccagione, di solito. Anche se la legge obbligava a curare il futuro morto prima di farlo diventare morto sul serio, chi la seguiva? Santo qualcosa, in un mondo sconosciuto e in una realtà atemporale, a chi fregava qualcosa? Al capitano sembrava piacere quel metodo, comunque. Impiccagione. Brutta morte.

Strinse un polso di Jas quando si rese conto che stavano raggiungendo il ponte. Se avesse visto arrivare qualcuno non avrebbe saputo come giustificarsi.

E aveva perso il conto dei secondi, maledizione a lui.

Cercò di raggiungere le scialuppe, chinandosi dietro ogni ostacolo visivo che poteva frapporsi fra lui e Jas e qualche collega scartavetra anime.

Quando raggiunse la scialuppa, si rese conto che aveva praticamente smesso di respirare. Da un po'.

Tagliò le cime che legavano la scialuppa al ponte dopo avervi sistemato Jas il più comodamente possibile, cosa più impossibile che altro, e fissato la lanterna ad olio accanto ai remi.

Si gettò in mare quando vide l'imbarcazione stabilizzarsi sull'acqua.

 

Saoirse e Smee si bloccarono quando videro la luce di una lanterna accendersi sul mare, a distanza di sicurezza dalla grossa nave inglese. Tornarono correndo nella boscaglia, lasciando cadere le assi di legno a pochi centimetri dai loro piedi, cercando di capire cos'è che si stava avvicinando.

Non si sarebbero mai aspettati di vedersi apparire davanti James Hook, in pessima forma, sorretto da quello che Smee scambiò per un fantasma.

Per l'ennesima volta.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** 22 ***


Era una nebbia di un caldo soffocante, rossa e aggressiva. Benvoluta da un lato, perché attutiva il dolore. Negativa, perché non lo lasciava pensare. In ogni caso, quella roba rossa che gli si era piantata nel cervello attutiva il dolore, non lo faceva sparire. Come un'anestesia fatta male. 
Eppure il suo corpo non reagiva affatto agli stimoli esterni. Visto da fuori, probabilmente sarebbe sembrato immobile. La sua tempesta era tutta interna, ma la sentiva. Oh, se la sentiva. Con lui, non esisteva la calma prima della tempesta, c'era la tempesta e basta. E a volte, lo convinceva a smettere di respirare. Come fosse normale, vivere in apnea. 

Hansi stava per piantare una grana non indifferente quando sentì la porta aprirsi, pronto a lamentarsi per essere stato escluso dall'operazione di salvataggio di James Hook. Gli morì la voce in gola quando vide Smee e la sorella rientrare con uno sconosciuto che si trascinava dietro la forma incosciente del pirata, con la gamba destra dei pantaloni già fradicia di sangue. Non aveva mai ubbidito così velocemente a un ordine diretto come quando Saoirse gli urlò di uscire e prendere un bel po' d'acqua, accendere un fuoco e farla bollire.

Saoirse e Roger Davies avevano le braccia sporche di sangue fino al gomito. E ne usciva ancora. Meno, ma ne usciva ancora. E non doveva uscirne ancora. Il sangue era fatto per stare dentro i suoi vasi, i suoi tubi, i suoi sentieri fatti di carne, e sangue, e altre cose che non aveva intenzione di farsi venire in mente. Eppure usciva, più lento, ma usciva. Figurarsi se il sangue altrui lo avrebbe ascoltato.
Ripassò la parola in latino. Sanguis, sanguinis.
Detto sanguis, sanguinis usciva dalla ferita sul fianco di Jas insieme a tutto quello che un'infezione del genere comportava. Figurarsi se lo stava ad ascoltare. James non lo stava mai a sentire, faceva tutto di testa sua e si cacciava nei guai. A scuola era così. Sul Silver era così. E anche adesso era così. Mentre Roger ripeteva nella sua testa un mantra di non azzardarti a morirmi fra le mani, aveva paura che gli scivolasse via. 
Grande, grandissima, insopportabile testa di cavolo.
La fortuna, in tutto l disastro che si stava sparpagliando ai suoi piedi, era che Roger avesse svolto il compito di medico di bordo sul Silver prima, e sul Victory poi, unico motivo per cui i soldati della regina lo avevano lasciato vivere e infilato a forza nei loro ranghi dopo averlo ripescato. E ripescare era il verbo giusto, visto che l'avevano letteralmente tirato su con una cima, e trattato letteralmente come un pesce finchè non avevano scoperto che era medico di bordo, seppur autodidatta, e lo avevano piazzato davanti ai libri di anatomia del vecchio medico, morto durante la battaglia col Silver. Visto che l'hai ammazzato pure tu, vedi di riempire il buco. Ora li ringraziava, i militari del Victory. Sapeva cosa stava facendo solo grazie a loro. Ed aveva gli strumenti per farlo grazie a loro, se li era portati dietro quando un uccellino aveva detto al suo cervello che, conoscendo Jas, gli avrebbero fatto comodo. E aveva avuto ragione: Jas era, per usare un simpatico eufemismo, in serio pericolo di vita. Febbre alta, incoscienza, respiro affaticato erano sintomi chiari di un'infezione, e un bel numero di soldati inglesi che danno la caccia a un uomo ridotto in quello stato erano un sintomo chiaro di una sentenza di morte piantata sulla testa del capitano pirata come un chiodo nel muro.
"Il nome"
Roger alzò la testa dal fianco di Jas, guardando quella donna strana che sembrava conoscere così bene il suo pirata preferito.
"Scusami?"
"Il nome. Il tuo. Com'è che ti chiami?"
"Davies. Roger."
La vide annuire, mentre bagnava strisce di stoffa da stendere sulla fronte e il collo di Jas.
Abbassare la temperatura. E' fondamentale abbassare la temperatura.
"Sei tu Jolly Roger, quindi"
Fece di si con la testa, tornando a versare disinfettante sulla ferita. Non una bella occupazione, non un bello spettacolo.
"E tu?"
"Saoirse"
"Gaelico. Bel nome. Ti sta bene."
Saoirse si chinò di nuovo verso l'acqua, ne spostò un secchio più vicino ai piedi di Roger, tornò a cercare stoffa pulita.
"Devo ringraziare Jas, è un regalo tutto suo"
Paradossalmente, Roger si trovò a ghignare. Saoirse. Libertà. A un nome del genere, poteva pensarci solo lui.

Se ne accorse, quando Roger iniziò a rimuovergli il piombo dal fianco. Se ne accorse eccome. Avrebbe voluto dirgli di smetterla, drogami stendimi o per lo meno rendimi incapace di capire cosa sta succedendo, ma non riusciva a usare quel meraviglioso strumento detto bocca che Madre Natura gli aveva gentilmente fornito dalla nascita, e che al momento si rivelava impossibilitata a svolgere il proprio compito. Se lo sorbì tutto, l'armeggiare di Jolly Roger dentro il suo fianco, senza riuscire neanche ad aprire gli occhi. Infilato a forza in quella specie di coma senziente in cui era scivolato appena Roger l'aveva fatto stendere nella scialuppa. Esperienza affatto divertente. Da non ripetere, se possibile.

Saoirse fissava il viso di Jas come se avesse avuto paura di vederlo sparire da un momento all'altro. E il rischio c'era, lo sapeva. Bastava rendersi conto di quanto fosse frenetico il lavoro di Roger, e di quanto fosse diventato laborioso il respiro del pirata steso sul letto. Stava pronta con l'alcool e  lo rovesciava sul fianco di Jas ogni volta che il sangue diventava troppo perché Roger potesse vedere cosa stesse facendo. 

Smee teneva ferme le spalle del suo capitano, che ogni tanto scattavano in spasmi probabilmente involontari, e guardava fuori dalla finestra ogni pochi secondi sperando di veder arrivare le vele dipinte della Jolly Roger, col loro teschi ghignante che, paradossalmente, gli metteva addosso un'allegria feroce che pochi credevano possedesse. Niente, fino a quel momento. Si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che il Victory aprisse bocca, e vomitasse fuori tutta la sua soldataglia. O palle di cannone, magari, se fossero riusciti a localizzare la capanna. Aveva il forte sospetto che avrebbero fatto partire una bordata a caso, pur di farli fuori tutti. Passò di nuovo nell'acqua fredda o straccio che Saoirse aveva piazzato sulla fronte di James Hook, cercando di convincere la febbre a prendersi una vacanza. Era uno strano pirata, Smee. Gentile al massimo delle possibilità che uno della sua risma, e professione, potesse permettersi di essere. E assolutamente affezionato al suo capitano, con quell'attaccamento che si prova verso qualcuno che, non sembrerebbe mai, ma ha bisogno di protezione. O meglio: di qualcuno che gli dica sei umano, ci hai mai fatto caso? Ma senza esagerare. Un Jas Hook troppo umano avrebbe perso ogni attrattiva, e sarebbe stato meno divertente da seguire in qualche assurda impresa quasi suicida, come quella in cui si era giusto imbarcato. Ma le conseguenze di solito non erano quelle. Di solito, Jas Hook non finiva piantato in un letto, febbricitante e mezzo dissanguato. La sola idea fece salire brividi di terrore puro dalle mani del vecchio pirata, su fino agli avambracci e al cervello. Li controllò, però, ringraziando Hansi quando gli fornì acqua pulita per rinfrescare lo straccio piazzato sulla fronte di quell'uomo così particolare che governava la sua nave. Polvere nera al posto del cuore, e risacca negli occhi. A volte, non lo invidiava affatto.

Roger aveva appena finito di fasciare il fianco di Jas, quando si vide attraversare da un paio di occhi che non vedeva da un po'. Azzurri, talmente azzurri da far paura. Sempre stato così, Jas. Faceva paura alla gente anche senza dire una parola, mezzo morto, sdraiato su un letto non suo e sudato fradicio. Incredibile, il potere che quel paio d'occhi si portava o dietro. Certo, al momento l'intimidazione era l'ultimo dei suoi pensieri. Er evidentemente stanco. Distrutto. Dalla perdita di sangue o dal dolore della ferita, o da tutte e due, probabilmente. Ma gli occhi, sempre i soliti. Sorrise.
"Salve capitano, è da un po' che non ci facciamo una bevuta"

Saoirse gli tosse i capelli dagli occhi con un'attenzione che sorpassava ogni limite umano. Lo trattava come fosse fragile,di vetro, e la cosa lo metteva a disagio. Non che non ce ne fosse bisogno, si sentiva come qualcuno a cui avevano sparato, e poi lasciato i proiettili a marcirgli dentro. Il che era esattamente ciò che era successo, in effetti.
Tirò su un angolo della bocca, regalando il suo sorriso storto a Roger, prima di guardare Saoirse.
"Ammettilo, che ti piace spogliarmi"
Saoirse lo fissò con un sopracciglio alzato.
"Oh si, certo. Non farei altro"
Smee e Roger, evidentemente, si erano persi qualcosa.

"Stai bene?"
Jas era sveglio da dieci minuti, e non sembrava sul punto di svenire di nuovo. Roger la prese come una novità positiva, dopo tutto il sangue che aveva perso.
"Questa è una domanda idiota"
Se il sarcasmo funzionava ancora, non poteva essere in punto di morte.
"Non rompere, e rispondimi"
Jas sembrò rimuginare per un momento, prima di elencare una lista di sintomi più o meno comprensibili.
"Sto benissimo. Mi sento la febbre, si? Si. Credo di si. Ho fame, ma ho l'impressione che quello che butto giù abbia la capacità di tornare su all'istante. Il mio fianco destro sta praticamente prendendo fuoco"
Si fermò per prendere fiato, Saoirse lo fissò preoccupata. le fece cenno di stare tranquilla. C'era stato di peggio.
"Dov'ero? Ah. Ho un mal di testa che potrebbe stendermi, non fosse che sono già steso, e ho l'impressione di avere dei seri problemi di equilibrio. Il tuo capitano mi ha gentilmente scalpato mezza testa solo per farmi accondiscendere la sua augusta presenza, e avevo già la testa aperta di mio. Non era necessario."

Jas chiuse gli occhi, lasciandosi letteralmente ingoiare dal materasso. Era un bugiardo di ottima fattura. Stava cento volte peggio di quanto aveva ammesso di stare. E bravo, ottima recitazione. 
"Non è l mio capitano, lo sai."
Si costrinse ad aprire gli occhi, per poi trovarsi costretto a stringere di nuovo le palpebre quando Saoirse finì di legargli le bende intorno alla nuca. Faceva male. Situazione insopportabile. Sembrò passare un po', però, quando il suo folletto preferito glifi sedette accanto, iniziando a passargli le dita fra i capelli. Avrebbe voluto dirle che non era necessario, che erano sporchi e assolutamente antigienici, ma non gli uscì dalla bocca proprio niente. Era rilassante, e gli piaceva averla vicina di nuovo. 
Pericolo, disse il suo cervello.
Fottiti, cervello fu la sua signorile risposta. Poi si ricordò di dovere una risposta anche a Roger.
"Se non è il tuo capitano, che cos'è?"
"un ingaggio temporaneo. Avevo una strana voglia di vivere."
Il ghigno nella voce di Jolly Roger gli fece venire voglia di sorridere. Gli era mancato. Parecchio.
"Posso considerarla di nuovo parte della mia nave, signor Davies?"
"Direi di si, capitano. Non aspiro ad altro"
A quel punto, ghignava apertamente. Smise, quando si rese conto che, da fuori, qualcuno stava gentilmente sparando nella loro direzione.
Idioti, sprecano colpi.
Convinse il suo corpo a sedersi, allungandosi verso pistole e uncino appoggiati sul tavolo.

---

ritardo vergognoso. sigh.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** 23 ***


Se non fosse che gli aveva appena salvato la vita, Roger Davies l'avrebbe ammazzato. Ma avrebbe significato buttare via ore di lavoro, quindi non ne valeva la pena. In ogni caso, resta il fatto che quando jolly Roger vide jas Hook cercare di alzarsi dal letto per prendere pistola e uncino rischiò seriamente un esaurimento nervoso. Smee lo riconobbe davvero solo allora, mentre urlava dietro al suo capitano che era un idiota, un pazzo, un incosciente e altri aggettivi tanto descrittivi quanto poco lusinghieri.
Solo Jolly Roger poteva offendere James Hook in quel modo e sperare di uscirne vivo, con un ghigno ferale come unica risposta e il moltiplicarsi degli sforzi per fare esattamente quello che Roger non voleva facesse.
Nessuno aveva calcolato Hansi, però. E nessuno aveva calcolato Saoirse.

"Tu. Tu sei un idiota"
Lo vide rimanere immobile, prima di girarsi verso di lei. Si aspettava un come scusa? vagamente minaccioso, ma tutto quello che ebbe fu uno sguardo incerto.

Dio, l'aveva già cambiato così tanto?
James Hook rischiò seriamente una sincope. Tutte le offese di Roger non l'avevano nemmeno scalfito, e bastava un tu sei un idiota scappato dalla bocca di quel folletto coi capelli rossi per fermarlo in quel modo?
"Ha ragione, sai"
Ecco, ci mancava solo il ragazzino coi pantaloni strani. Tale sorella, tale fratello.
Quello che non cambiava, però, era la febbre. E l'equilibrio che se n'era andato pochi secondi prima, e il fianco sul punto di esplodere insieme alla testa, e il sangue che sentiva scivolare giù lungo la gamba sinistra e sul collo. Era sempre stato freddo, Jas hook, anche se non era nuovo a attacchi di rabbia e follia lucida che gli permettevano di essere quello che era: l'unico uomo di cui barbecue avesse avuto paura eccetera. Aveva il suo istinto, e lo seguiva come una belva a caccia, ma se era vivo lo doveva alla sua freddezza di fondo, a quegli scogli che aveva dentro che impedivano al mare che teneva nel cervello di portargli via tutto con la risacca. Se ne rese conto solo quando Saoirse gli diede dell'idiota, che sarebbe stato un peso, e in pericolo, la fuori. Non riusciva neppure a mettere un piede davanti all'altro, figuriamoci correre, nascondersi, usare le armi e far fuori qualcuno per il sano gusto di farlo.
Non funzionava, non così. Non era da lui.

"Restiamo di retroguardia, capitano, così possiamo anche proteggere il ragazzo mentre aspettiamo che la Jolly Roger arrivi".
Smee non era una punta, e lo sappiamo. Smee era un pirata irlandese di una certa età, bravissimo col coltello e nemmeno troppo sveglio, ma leggeva la gente come se avesse avuto davanti una biblioteca. Certo, se avesse mai imparato a leggere, ma quelli erano dettagli. Sapeva che Jas Hook  non poteva accettare di essere lasciato indietro senza reagire, così aveva creato una scappatoia perfetta. Tutto pur di non lasciare che si ammazzasse così, non sarebbe stato giusto. Non sarebbe stato degno.
Quindi aveva proposto la retroguardia, sapendo che avrebbe dovuto comunque legare James Hook a un palo per evitare che schizzasse fuori dopo qualche minuto, pronto a far saltare qualche testa.

Saoirse e Roger si aggrapparono a quella proposta con le unghie e con i denti, pur di farlo restare al coperto. Hansi strepitò qualcosa di molto simile a un non ho bisogno di protezione prima che una gomitata di Saoirse lo zittisse. Si rassegnò a fare la parte del pacco postale.
Jas Hook scoccò a Smee un'occhiata che valeva un omicidio. Uno dei suoi uomini più fidati e meno svegli lo aveva incastrato in un modo che non avrebbe mai sospettato. Doveva dargli più credito, da quel momento in avanti. Stava per minacciarli di morte se non fossero tornati vivi, ma si rese conto della stupidaggine insita e della mancanza di nesso logico. Lasciò perdere.
Avrebbe voluto prendere Saoirse e impedirle di uscire, sul serio. non voleva che finisse in mezzo a polvere da sparo, proiettili volanti e soldati che non vedevano una donna da secoli.
Non voleva.
Ma lei era libera come il suo nome, obbligarla a stare al coperto mentre tutti loro se ne andavano avrebbe significato perderla.
Ma poi, l'ho mai avuta?
Il rumore dei proiettili, la fuori, gli spiegò gentilmente che non era il momento per farsi domande simili. Fece solo in tempo a vedere Saoirse uscire prima che la porta si chiudesse.
A quel punto, tutto quello che doveva fare era ricaricare la pistola. E convincere un ragazzino iperattivo che no, non poteva averne una anche lui.
"Una finestra a testa, Smee. Possibilmente, non farti sparare in testa".
Aveva appena finito di dirlo, quando l'inferno li prese in pieno.

inferno, quella era la parola giusta. Non nel senso biblico del termine. Odiava il senso biblico del termine. non c'era nessun concetto punitivo qui, solo piombo che volava come se avesse un'anima propria. Poi il poco tempo che serviva ai soldati per ricaricare, e l'inferno ripartiva da capo. Guardò Roger, appoggiato con la schiena ad un albero di poco più largo di lui che gli faceva da scudo, e ne ammirò la calma. Chissà quante volte si era trovato in quella situazione. Sicuramente più spesso di lei. E aveva usato una pistola più spesso di lei, poco ma sicuro. Non erano come le spade. Con la spada, se qualcosa non andava potevi dare la colpa solo al tuo braccio. Una pistola aveva così tanti marchingegni nello stomaco che qualsiasi cosa poteva andare storta in ogni momento. E hai voglia a dare la colpa al braccio, in quel caso. Non c'entrava niente un braccio, se un coso di quelli si inceppava.

Sembrava fosse scesa la nebbia, sulla foresta. Fumo acre, che ti fa lacrimare e ti chiude la gola. Quante volte l'aveva sentito, sul mare. Centinaia. Forse migliaia. I tronchi degli alberi spuntavano quando il vento riusciva a spostare un po' di quella cappa, ma solo per poco, e rimanevano accennati come fantasmi immobili. 
Brutta situazione, sarebbe stato difficile vedere se qualcuno si fosse avvicinato. Finchè non vedeva nessuno, però, significava che Saoirse e Roger facevano il loro.
E che quindi erano vivi.

Era stata una scelta suicida, quella di uscire. Avrebbero dovuto asserragliarsi in casa e difendersi da li, adesso anche solo fare i pochi metri che la separavano dalla porta pareva impossibile con tutto il caos che le girava intorno. Proiettili volavano ovunque, sparati da uomini che probabilmente pensavano di avere davanti l'equipaggio intero di una nave pirata, e non solo quattro adulti, di cui uno gravemente ferito, e un ragazzino. Per lo meno, il dispiegamento di forze sembrava spingere in quella direzione.
Non vedeva niente, non respirava neppure. Ogni volta che l'aria le entrava nel naso, le scendeva giù polvere da sparo in gola. Era talmente occupata a respirare che non si accorse delle ombre che si avvicinavano fra il fumo.

Le armi stavano zitte troppo a lungo. Non era normale. Brutto segno. Quando sentì i passi, Jas Hook fissò la nebbia artificiale con ancor più attenzione. Non era facile. La concentrazione gli scappava via fra le dita insieme al sangue che aveva perso e, ora che ci pensava, non credeva che sarebbe stato facile rimettersi in piedi dopo essersi inginocchiato davanti alla finestra per sparare. L'adrenalina l'aveva tenuto su, prima, ma si rese conto che non poteva più farci affidamento. Stava crollando, e non poteva permetterselo.  Solo allora capì che quel capitano, quel nobile che gli aveva riaperto lo scalpo, proprio idiota non era. Sudò freddo, quasi in preda al panico. 

Smee ricaricò e rimase in attesa, coi sensi allenati a captare qualsiasi rumore anche in mezzo al caos. Si rese conto troppo tardi degli occhi di James Hook che rischiavano di chiudersi, di quanto le mani gli tremassero o del fatto che pareva davvero una lotta, per lui, alzarsi in piedi.
Non si mosse, però. Se cedeva, erano morti entrambi.
Ma non l'avrebbe fatto, il giorno in cui James Hook avesse mollato doveva ancora arrivare.
Lo vide spalancare gli occhi poco dopo, fissando fuori dalla finestra con rinnovata attenzione, biascicando qualche imprecazione in dialetto portuale stretto.

Erano fregati, lo sapeva. Quel capitano, quel bastardo maledetto aveva ordinato di sparare a caso, senza risparmiare colpi, per creare qual polverone. E impedire loro di vedere quello che stava per succedere. E ci era riuscito benissimo. Non vedevano a un palmo dal loro naso. Ma avevano le orecchie, quello si. 
O meglio.
Loro due, le avevano. Roger e Saoirse erano stati circondati dal caos per così tanto tempo che aveva seri dubbi sulle loro capacità uditive del momento. Ma erano in greco di morire. E la fuori era pieno di gente in grado di ammazzarli.
E loro non li avrebbero sentiti. 

Saoirse non si accorse delle mani desolato che aveva alle spalle finchè non le si chiusero sul collo. Non l'aveva sentito arrivare, aveva le orecchie che fischiavano, e non vedeva praticamente niente. Una trappola perfetta. Vide Roger lanciarsi di corsa verso di lei, ma non sarebbe arrivato in tempo. E rischiava di farsi ammazzare, anche se la nebbia che copriva i soldati poteva coprire anche lui.
Ma il problema non si poneva. Cercò di staccare le mani dell'uomo dal suo collo senza riuscirsi, portandosi via una bella percentuale della pelle delle sue mani sotto le unghie.
Niente.
I polmoni cercavano aria ormai in preda alla disperazione e, forse erano allucinazioni dovute alla mancanza di ossigeno, ma le sembrò che dalla capanna arrivasse rumore di passi. Parecchi passi. Jas e Smee erano in due, tutto quel rumore non era giustificato.
Lo sparo che sentì lo era, però.

--
singori, non so come scusarmi. questa storia era praticamente PARCHEGGIATA.
Ora è ripartia, e veleggia con gioia verso la fine.
ed era anche ora, direi.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** 24 ***


Se glielo avessero chiesto, avrebbe potuto solo rispondere che la testa di quel soldato era esplosa.

Giuro. Giuro è esplosa. E c'è un teschio sul mare, e l'aria è pesante, acre, e non respiro. Sono in un campo di battaglia , mio fratello è nella Eiserne Wache. Si chiama Klaus. Lo conoscete? Klaus. 

E sento il sangue del soldato morto sulla faccia, ma non voglio che mi entri in bocca quindi stringo le labbra, stringo gli occhi, e quando li riapro c'è fumo, tanto fumo, e una massa di riccioli neri che mi arriva addosso. E due occhi. Di quelli col mare dentro.

Jas.

James Hook non aveva mai fatto mistero della sua abilità con le pistole. Polvere da sparo nel cuore, con la risacca. Forse era per quello che aveva una mira così buona. Centrò la testa del soldato inglese proprio mentre quel cane stava per ammazzare Saoirse. La sua Saoirse.  In quel momento, i suoi occhi diventarono rossi.

Jas. Jas era arrivato, era vivo oddiooddioèvivo, era li, le aveva salvato la vita. E Hansi? Dov'è Hansi?  Cercò di alzarsi, ma Jas dovette sorreggerla per qualche istante prima che le ginocchia si decidessero a collaborare. Poi si voltò, e vide un teschio galleggiare sul mare. 

Quando l'aveva visto arrivare, aveva rischiato di saltare dalla finestra a far saltare il cervello a tutti. Tutti. E' che non si aspettava che Starky riuscisse a fare un colpo del genere. Ciurma divisa, una parte sulla Jolly Roger a controllare il mare, l'altra alle spalle della capanna a chiudere il cerchio con gli inglesi dentro. E Dio, la maestosità della sua nave non era da mettere in discussione, quando veleggiava così, con il suo teschio ghignante dipinto sulle vele. Mollò una pistola scarica ad Hansi, ordinandogli di stare al coperto e difendere la casa. Spugna lo guardò storto. Come se avesse appena scoperto la vena di psicologia inversa insita in James Matthew Hook. Quando riuscì a fingere che il fianco non sanguinasse-bruciasse-cercasse in tutti i modo di farlo smettere scappò dalla porta d'ingresso come se fosse stato tutto ciò che desiderava fare da ore, cosa fra l'altro esatta, e andò a sbattere con gli occhi in un cane in divisa che stringeva le mani al collo di Saoirse.

Non ci fece nemmeno caso, quando gli sparò in testa.

E saoirse era li, a labbra strette, che vaneggiava in una lingua assurda, tutta punte e consonanti che doveva essere tedesco, di Klaus che era suo fratello, che era nella Eiserne Wache. Lo conosceva? Poi aprì gli occhi, se lo trovò davanti e si zittì. Vacillò per mettersi in piedi. E quando ci riuscì gli si gettò al collo con talmente tanta convizione che rischiò di mandarlo lungo disteso sopra Jolly Roger, che gli stava urlando dietro qualcosa di molto simile a un idiota morirai dissanguato, cercando di sovrastare il rumore della battaglia.

Starky l'aveva vista giusta. Dividere la ciurma poteva essere pericoloso, ma i pro superavano i contro e, in ogni caso, la nave inglese era talmente vicina alla costa che non si sarebbero sicuramente accorti dei quanto fosse in realtà esiguo il numero di pirati a bordo della Jolly Roger. No?

Per ora, pareva andare bene. 

Aveva tirato un sospiro di sollievo non indifferente, vedendo il capitano ancora vivo e in piedi sulle gambe. Certo, con un bel buco in un fianco, ma meglio che niente no? Era uno che sapeva accontentarsi, Starky, e vedere Jas Hook vivo era più che soddisfacente. Trovarsi Jolly Roger di nuovo davanti, però, lo fece reagire come tutti. Come uno che aveva visto un fantasma. Orami anche Roger aveva smesso di farci caso.

 

In realtà, anche se il vantaggio tattico andava ai pirati, insieme a quello della sorpresa, gli inglesi reagirono piuttosto velocemente. Non per niente erano soldati addestrati e in possesso di un'interessante disciplina. Ma avevano un problema. Non avevano Jas Hook. Soprattutto, non avevano un Jas Hook cui uno di loro aveva appena tentato di uccidere l'unico essere umano che gli avesse fatto distogliere gli occhi dal mare per più di cinque minuti esatti. E questo lo rendeva pericoloso. Voi inglesi non sapete quanto.

 

Saoirse lo vide scattare in avanti, con uno strano luccichio cremisi negli occhi, puntando la pistola ancora carica fra gli occhi di un inglese a pochi metri da lui. Sparò senza nemmeno pensarci,  con un ghigno che sembrava dire uno di meno. Non le era mai sembrato più pericoloso e spaventoso come in quel momento.

 

Jas Hook vedeva rosso. Era come se sulla foresta fosse scesa una pioggia di rabbia che gli offuscava il cervello, facendogli dimenticare che aveva un buco in un fianco e due pistole cariche con un colpo solo. Anzi, nemmeno una pistola. Una spada, e un uncino al posto della mano destra. Sicuramente, ne avrebbe fatto buon uso.

 

Tom era la mascotte, su quella nave. Un ragazzino di sedici anni arruolato poco prima di finire su quell'isola di matti, con bambini volanti, indiani e fatine. Li per li, era sicuro che eternità non fosse proprio quello che gli avevano detto, quando aveva chiesto per quanto tempo avrebbero avrebbero veleggiato vicino alla Jamaica. Ma poi si era accorto che la cosa non gli dispiaceva. C'erano momenti come quello, in cui il loro capitano pareva risorgere da un qualche buco infernale, coperto di sangue, fuliggine e circondato dal fumo, con uno sguardo che avrebbe fatto scappare una vipera. Momenti di attacchi quasi suicidi, folli, fattibili solo se ti chiami Jas Hook e hai deciso che il mare è tuo padre, e il mare è un dio, quindi potresti essere immortale anche tu no? Solo ogni tanto. Lavorare per uno che ogni tanto è un dio concede in minimo di invulnerabilità? Tom ci sperava, ma ogni tanto si scordava di aver paura di crepare quando si gettava a capofitto in battaglia dietro al suo capitano, con la ciurma tutto intorno, urlando come un ossesso. Si, forse quei momenti ne valevano la pena.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** 25 ***


Lei lo capì li, che lui viveva per quei cinque secondi in cui ancora non è successo niente, e ti aspetti tutto senza pensarci. Potrebbe arrivarti una pallottola, potrebbero aprirti la testa, ma non ci pensi. Quello che fai è urlare,e quando hai finito di urlare sta già succedendo tutto, e ti senti i polmoni pieni d'aria che deve uscire, urli di nuovo e ridi. 
in quei cinque secondi, i suoi occhi diventavano rossi.

Starky prego, pregò seriamente che il capitano approvasse il suo piano. Aveva lasciato la nave al resto della ciurma con gli ordini precisi di fingere di essere il doppio di quanti fossero in realtà, urlare come indemoniati, cannoneggiare il Victory distraendolo e arrivare a terra con le piroghe se la battaglia fosse giunta ad uno stallo. Il fatto che potessero rimetterci tutti le penne se qualcosa andava storto non gli era indifferente, ma cos'avrebbe potuto fare? Era la prima cosa che gli era venuta in mente e, al momento, pareva funzionare. I marinai del Victory erano voltati verso la Roger, e il pericolo di vedersi arrivare una palla di cannone sulla testa sembrava momentaneamente scongiurato. Avrebbe voluto vedere le facce dei marinai inglesi quando il vascello pirata alzò la bandiera rossa, la Jolie rouge, accanto alla bandiera nera con teschi e tibia. Pavillon nomme Sansquartier: bandiera della lotta senza quartiere, la tiravano su solo quando non volevano fare prigionieri. Nemmeno uno.
Gli squali avrebbero cenato bene, quella sera.

Jas Hook si voltò per mezzo secondo quando sentì partire le prime bordate e riconobbe la voce di Long Tom da lontano, mezzo secondo che sarebbe bastato a un inglese per fargli entrare la baionetta fra le costole, non fosse stato per Roger che gli piantò una pallottola in fronte prima che ci riuscisse. Prese fiato, fissando il suo medico di bordo e regalandogli un ghigno che Roger sapeva esprimere gratitudine, soddisfazione di essere ancora vivo e qualcosa di simile a andiamo-a-sbuzzarne-un-po'-insieme-ti-va? Infilò le pistole nei nastri colorati che teneva sulla schiena e se le gettò sulle spalle, sfilando la spada dal fodero e mettendo l'uncino in bella mostra. Cinque dita, certo. Ma due lame al posto di una a volte tornavano comode.

Saoirse si divideva fra controllare che la porta della capanna che proteggeva Hansi da quell'inferno fosse chiusa e dissuadere poco gentilmente chiunque osasse avvicinarsi, cosa che comprendeva l'utilizzo di una spada, un pugnale e l'aiuto di Smee, incredibile a dirsi piuttosto abile col pugnale a lama corta. Sapeva che se Hansi ci fosse riuscito sarebbe saltato fuori con tutte le migliori intenzioni del mondo, che lo avrebbero portato sicuramente ad occupare una fossa scavata in spiaggia, cosa che voleva assolutamente evitare. Non aveva accettato che suo fratello non venisse rispedito a Londra solo per vederselo ammazzare sotto gli occhi. 
Ma era preoccupata per Jas, inutile nasconderlo: era in piena furia omicida, certo, ma il buco nel fianco e la febbre c'erano ancora. Tutto quello che poteva fare, però, era cercarlo con gli occhi ogni volta che una pausa nella lotta con gli inglesi glielo permetteva, sperando di non vederlo mai in posizione orizzontale. Trapassò un soldato fra stomaco e costato prima che lui potesse fare lo stesso con lei, lo scrollò dalla lama e si rese conto che stava sillabando qualcosa.
"Sei una donna"
Si trattenne a stento da sputargli in faccia un complimenti per il senso di osservazione.
Non stava bene, offendere i morti.

Roger corse dietro a Jas nella nebbia della polvere da sparo, scansando fendenti, parandone qualcuno e affibbiandone altri, gettando sempre un occhio alla schiena del suo capitano. Sapeva di non doversi preoccupare: finchè era così non sarebbe caduto. Quando partiva in quel modo si fermava solo quando aveva finito il lavoro. O se lo avessero fatto fuori. Per quello continuava a tenergli gli occhi puntati addosso: democratica e libertaria quanto vuoi, la vita a bordo della Roger, ma quella nave non sarebbe stata la stessa senza James Matthew Hook. Doveva tenerlo d'occhio, voleva tenerlo d'occhio e quindi l'avrebbe tenuto d'occhio fino alla fine della battaglia. Cercò di fare mente locale.
Gli inglesi avevano sempre dalla loro il vantaggio numerico, ma le perdite che i pirati stavano infliggendo loro iniziavano a farsi sentire, la Roger aveva distratto il Victory quel tanto che bastava per impedire alla marina inglese di far piovere palle di cannone fra gli alberi e, probabilmente, il suo ex capitano tanto nobile quando inutile era ancora sulla nave. La strategia dei soldati era troppo buona perchè fosse sua, sicuramente era farina del sacco de quartiermastro. Ergo, il signor Cordingly era li intorno. Era bravo, glielo doveva.
La strategia pirata pareva funzionare: stringere in un cerchio gli inglesi era stata una buona idea. Se i soldati avevano più armi e munizioni, i pirati avevano dalla loro determinazione e ferocia senza regole;  dove gli inglesi avanzavano con la forza, la ciurma di Jas Hook sopperiva con l'astuzia, dove il Victory eccelleva in armamenti, la Roger aveva dalla sua la bandiera rossa. 

Jas Hook vedeva la fine della battaglia, per lo meno la fine della battaglia a terra. Gli inglesi erano notevolmente diminuiti, e pareva si preparassero a tornare sulla loro nave. Nave che, al momento, era troppo presa in uno scontro con la Roger per far caso alle poche scialuppe che tentavano di avvicinarsi: i rampini del vascello pirata sembravano attaccati al parapetto della nave di sua maestà con la colla, e pareva che le due navi stessero trattando qualcosa. Solitamente i pirati invitavano il capitano nemico a bordo, discutevano la resa, saccheggiavano e festa finita. In quel caso, però, non avrebbe messo la mano sul fuoco su una possibile esecuzione estemporanea della parrucca semovente, o su un eventuale ferimento della stessa. Aveva portato via il capitano alla sua nave, era qualcosa che la sua ciurma non avrebbe perdonato facilmente.
E poi, quell'uomo era un incapace.
E gli incapaci, in mare, erano più pericolosi dei marinai esperti.
Se l'avessero fatto fuori avrebbero fatto un favore ai marinai del Victory, poco ma sicuro.
Un colpo alle spalle gli rovinò ulteriormente schiena e camicia, ricordandogli che la battaglia sarebbe continuata fino all'ultimo uomo. Quando si voltò, si rese conto che quello che aveva davanti non era un soldato a caso.
Aveva i gradi, aveva una parrucca improponibile, anche se meno cretina di quella portata dal suo capitano, aveva una spada degna di nota e pareva maneggiarla con destrezza. Sorrise inchinandosi, portando avanti la spada e spostando indietro il piede sinistro.

Il signor Cordingly non era nuovo alle battaglie, non era nuovo ai pirati e non era nuovo a dover fare il lavoro del capitano. Il suo attaccamento alla bandiera e alla disciplina era tutto ciò che gli aveva impedito di strozzare quell'uomo inutile più di una volta. Aveva imparato a stimare alcuni dei suoi nemici naturali, come riteneva che i pirati fossero, accettando che non tutti fossero zotici rozzi come credeva fossero all'accademia militare, riconoscendone la cultura e l'audacia, per non parlare della bravura nel governare navi e ciurme spesso talmente indisciplinate da fargli venire i brividi. Serviva un gran carisma, poco ma sicuro, e l'uomo in piedi davanti a lui pareva averne da vendere. Si rese conto a malapena che il rumore intorno a loro si era tanto affievolito da essere quasi cessato, che le navi avevano spesso di sparare bordate
Il capitano si è arreso, e i pirati hanno deciso che la preda e buona e non vogliono danneggiarla ulteriormente. Fine dell'analisi.
e che la maggior parte dei sopravvissuti erano assiepati attorno ai due duellanti come se aspettassero che uno di loro cadesse per decretare la fine della battaglia.
L'idea che ormai il Victory fosse perso e che non ci fosse poi molto per cui lottare non lo sfiorò nemmeno: aveva l'Inghilterra e San Giorgio, la sua bandiera gli imponeva di duellare con James Matthew Hook.
E poi, aveva una voglia disperata di farlo.

Jas Hook sapeva riconoscere un uomo valido quando lo vedeva. Certo, non significava che quel tipo gli suscitasse simpatie alcune, anzi. Sembrava troppo attaccato alla disciplina per potergli rimanere simpatico, ma sicuramente il duello avrebbe avuto senso. Si inchinò di nuovo, toccando la punta della lama avversaria con la sua. Sapendo perfettamente che era una mancanza di rispetto che non sarebbe stata presa tanto alla leggera. Sorrise. E vide il suo avversario annuire ed attaccare.
La bella. Chi segna, vince tutto. Per lo meno a terra.

--

la vale e il ritardo infinito

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** 26 ***


Non l'aveva giudicato male:  Cordingly era un combattente con tutti i crismi, e al momento James Hook non si sentiva esattamente in grado di sopravvivere a un combattimento con tutti i crismi ma, d'altra parte, chi era lui per resistere a un'occasione del genere? Un duello così gli mancava da un'eternità. Forse era Natale, e nessuno l'aveva avvertito.

Saoirse aveva già visto quella scena: Hansi a prendere l'acqua talmente tante volte da aver scavato un solco fra la fonte e la capanna, Smee con le mani ficcate nei riccioli del suo capitano, Roger a dare ordini con le mani sporche del sangue di qualcun altro e lei che non sapeva se avere un attacco di panico o ubbidire. Aveva optato per la seconda possibilità: le era sembrata più funzionale.

Cordingly si era addirittura inchinato. Buone maniere, aveva pensato Jas Hook. Roba rara, da quelle parti. E si era inchinato anche lui, ignorando i vari "che cosa credi di fare" che Roger gli urlava dietro ormai da un po'. La mischia si era subito aperta per lasciare spazio ai duellanti: due matti che rischiano la vita quando la battaglia è già stata decisa sul mare? Meglio che essere a teatro, poco ma sicuro. E poi, lo spettacolo era gratuito.

Roger gettò via l'ennesimo tampone zuppo di sangue e chiese di nuovo a Saoirse di pulire la ferita per permettergli di vederci qualcosa, tenendo distrattamente conto della velocità con cui usciva il sangue. Quanto ce n'era ancora dentro le vene del suo capitano? E quanto ancora poteva uscirne prima che…Saoirse gli mollò una gomitata quando lo vide bloccarsi.

Il duello era iniziato da poco, e James Hook sentiva già che accettare la sfida non era stata una delle cose più sensate che avesse mai fatto. Ma divertenti si, oh si. Cordingly era un signor spadaccino, e a lui era mancato un duello come si deve. Il buco nel fianco però non aiutava, e anche la testa scorticata dava il suo sincero aiuto alla voglia di svenire che si portava appresso da quando i soldati di Sua Maestà Britannica avevano attaccato, ore prima. Rispose alle prime schermaglie esplorative come meglio poté, studiando l'avversario con cura maniacale poi, quando l'occasione gli parve propizia, tentò un affondo. Cordingly lo parò senza problemi, senza smettere di fissarlo per un secondo. Jas hook ghignò ferino sotto le onde di riccioli neri. 

Hansi era preoccupato: sua sorella era spaventata, quindi anche lui era spaventato. Smee era terrorizzato, e la cosa non aiutava. L'unico ancora abbastanza freddo da essere completamente operativo era Roger, ma vederlo sporco di sangue fino al gomito non lo rendeva certo tranquillizzante. La cosa peggiore da vedere, però, restava il viso di James Hook, il capitano pirata che aveva popolato i suoi incubi di bambino senza nemmeno il bisogno di farsi vedere: quale ragazzino non sarebbe stato terrorizzato da un uomo la cui mano era stata sostituita da un arma con cui, si diceva, aveva ucciso centinaia di persone? E la storia del bagliore rosso negli occhi era vera, lo aveva visto succedere quando James Hook aveva salvato sua sorella. Smee e il capitano gli avevano ordinato di restare in casa, ma figuriamoci se aveva ubbidito: pur sentendosi in colpa per aver lasciato sua sorella a difendere una capanna vuota si era lanciato fuori alla prima occasione, tenendosi nascosto e lontano dalle pallottole, e aveva visto il viso del pirata trasformarsi in una maschera di rabbia spaventosa quando si era reso conto che un soldato stava strangolando sua sorella. Vederlo ora, quel viso, faceva tutta un'altra impressione: gli occhi chiusi, le labbra semiaperte e sporche di sangue, il respiro regolare e appesantito e la totale, paralizzante immobilità della sua figura erano terribili da vedere. James Hook era nato per attaccare, correre, comandare. Distruggere, spesso, e a volte proteggere. Non per essere condannato a un'assenza di movimento che sembrava destinata ad essere perenne. Hansi non aveva mai visto nessuno morire, prima. E non voleva che succedesse mai. Soprattutto, non riusciva a immaginare la morte del capitano James Hook, il re dei pirati, comandante della Jolly Roger.

Dopo il suo affondo il gioco si era fatto pesante: Cordingly era passato all'attacco, dimostrando di possedere sia una buona tecnica che un eccellente gioco di gambe. Se in una situazione normale Jas Hook l'avrebbe riconosciuto come un nemico decisamente abile, le sue ferite lo costringevano a definirlo un nemico quasi imbattibile. Scommise sul quasi con la forza della disperazione, costringendo il suo corpo a eseguire una piroetta che lo portasse fuori dalla lama avversaria. Ma era stanco. Troppo stanco. E i suoi piedi non gli erano mai sembrati tanto pesanti. Tentò un allungo, cui Cordingly rispose con una parata e un colpo alla spalla sinistra che lo fece cadere all'indietro di un discreto numero di passi. Si alzò senza sapere come ci fosse riuscito, si asciugò il sudore che ormai gli pungeva gli occhi, e si fissò la mano che teneva la spada. Una possibilità c'era. Basata sulla forza che ormai sentiva di non avere più. E sulla distanza a cui Cordingly l'aveva fatto cadere.

Smee sentiva le mani tremare. Non era raro vedere il suo capitano ferito, ma ferito in quel modo era nuova. Per la prima volta, sentì avvicinarsi la possibilità di vederlo morire sul serio. Niente coccodrilli, niente ragazzini volanti, una classica morte violenta causata dalle ferite riportate in battaglia. Al colpo in testa e alla ferita al fianco si erano aggiunte quelle causate dai soldati inglesi, lo sfregio alla spalla di Cordingly, i colpi ricevuti in combattimento. Non sanguinavano, ma erano tali da far pensare a qualcosa di rotto o, per lo meno, di incrinato. Si gettò sulle spalle del capitano per tenerlo fermo quando lo sentì iniziare a tossire, senza il coraggio di pensare alle conseguenze.

James Hook non scherzava quando aveva deciso di puntare tutto su un colpo solo. Tutta la poca forza che aveva concentrata in un Flèche che, se fosse andato a segno, gli avrebbe permesso di mandare Cordingly al creatore. In caso contrario, sarebbe andato lui ai piani bassi del paradiso, a salutare un certo Lucifero. Quello che non mise in conto fu l'effetto sorpresa che una cosa del genere poteva avere, e la quantità di forza piuttosto notevole che aveva ancora nascosta dentro, da qualche parte. Sentì la spada penetrare sotto le costole dell'avversario per quasi tutta la lunghezza della lama e capì di aver miracolosamente vinto il duello. Un'altra cosa che non aveva messo in conto fu a velocità con cui tutto diventò nero pochi secondi dopo. 

Era inutile. Più cercava di fermare il sangue, più quello continuava a uscire da qualche altra parte. Una battaglia contro il tempo, e contro un nemico che non sapeva come battere. Il mondo era pieno di storie in cui la gente beffava la morte. Avrebbe voluto ricordarsene almeno una. Magari gli avrebbe dato un'idea. Roger chiese a Saoirse di versare alcool sulla spalla del capitano pirata prima di fasciarla il più stretta possibile, ma non erano le ferite che lo spaventavano: era la febbre, era la pelle fredda e scivolosa, bagnata dal sudore, era l'infezione che si stava portando via il suo capitano mangiandolo da dentro. Visto nell'insieme, era un misto terrificante di ingredienti letali. si girò in tempo per vedere Saoirse fissare Jas, prendergli le mani e cercare di svegliarlo.

James Hook non sentiva più niente. Aveva cercato con tutte le sue forze di restare a galla, di non permettere alle onde di tenerlo sotto. Aveva sentito le mani di qualcuno fra i riccioli, e il peso di due braccia tenerlo fermo quando l'aria gli si era inceppata in gola facendolo tossire. Aveva sentito due mani più piccole delle sue cercare di svegliarlo, e una voce che aveva classificato istintivamente come quella di Roger minacciarlo di morte se fosse morto. Se ce l'avesse fatta avrebbe riso. 

Da qualche parte, a Londra, una piccola narratrice di storie di si svegliò da un sogno orribile, in cui il capitano James Hook moriva a causa di ferite che non sapeva come fossero state inflitte. Non era Wendy Darling, certo che no, ma da che mondo è mondo le favole esistono perchè i bambini le immaginano. Quello che la nostra narratrice sapeva era che il coccodrillo, evidentemente, non era riuscito a mangiarsi il capitano e che nel sogno c'era sangue. Tantissimo sangue, tutto di James Hook, sulle mani di Smee e di due persone che non conosceva, ma che sembravano terrorizzate. C'era anche un bambino della sua età. L'unico bambino del Mondo a cui la morte di James Hook sembrasse un avvenimento orribile. Lo fece per quel bambino forse, o per quella ragazza coi capelli rossi, o per Smee. Il caro Smee, che tutti i bambini adoravano e che lui si sforzava di evitare riuscendoci piuttosto malamente. O per quell'uomo coi capelli legati alla nuca e lo sguardo di chi non si sarebbe mai perdonato un errore. O per Peter, che senza James Hook non sarebbe potuto essere Peter Pan. O per se stessa, perchè nonostante tutto non avrebbe mai potuto separarsi dal capitano pirata. Una storia non è una storia senza un cattivo eccellente, e lei immaginò di continuare a tessere vita per lui, come le tre signore del destino fanno da sempre.

In un altro mondo, James Hook aprì gli occhi. E non fu affatto piacevole.

---

la vale, e il ritardo immenso

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** 27 ***


Quando, nei giorni successivi, chiedevano Roger da dove era sbucato quel naso rotto tutti si sentivano sempre rispondere che glielo avevano fatto durante la battaglia. Era credibile, no? Un pugno, un colpo in genere, e il naso si rompe: alla fine, è robina fragile. Nessuno si ricordava di averlo visto col naso rotto, però. E nessuno si piegava come mai, ogni volta che sentiva Roger rispondere, il capitano Jas Hook dovesse nascondersi per non ridere.

 

Il dolore che lo assalì appena sveglio fu tale da farlo schizzare seduto, per poi ritornare a stendersi a letto come un elastico troppo teso. La cosa che non si aspettava è che Saoirse scoppiasse a ridere, seguita a ruota da Hansi e Spugna. Ne si aspettava che Roger iniziasse a sputare fuori ogni bestemmia che conosceva, allontanandosi per qualche istante prima di tornare al suo capezzale. Quando decise di rischiare un'emicrania martellante pur di vedere cosa stava succedendo, si accorse che Jolly Roger aveva il viso imbrattato di sangue troppo fresco perchè fosse dovuto a una ferita riportata in battaglia. Pur essendo più morto che vivo, dovette riconoscere al proprio cervello una certa prontezza quando gli suggerì che, ebbene si, pareva proprio che gli avesse rotto il naso con una testata. Forse fu quello il motivo del trattamento piuttosto rude delle sue ferite da parte del suo ritrovato medico di bordo.

Per giorni non riuscì ad alzarsi dal letto, fiaccato più dalla febbre che dalle ferite, passò circa una settimana prima che riuscisse a rivederla.

 

Saoirse aveva conosciuto gente testarda, ma quel pirata li batteva tutti. Dopo solo due giorni di riposo era già convinto di potersi alzare per conto suo. A nulla valsero i tentativi di tenerlo a letto, alla fine decise di lasciare che tentasse di alzarsi, per poi ritrovarsi ad osservare il pavimento della sua capanna da una nuova angolazione e lasciarlo li dieci minuti buoni prima di decidersi ad aiutarlo a stendersi di nuovo. I dieci minuti più divertenti della sua vita. Roger era tornato sulla Jolly Roger (Dio, che impressione stare su una nave che portava il suo nome!) e faceva la spola fra i feriti della ciurma e il capitan.: avrebbero voluto spostarlo nella sua cabina, ma le sue ferite erano troppo serie per correre il rischio. Jas ovviamente non era di quell'avviso e aveva cercato di alzarsi dal letto di continuo finchè, in effetti, il metodo Saoirse non ebbe la meglio anche sulla sua testardaggine. 

 

Quello che voleva, in realtà, non era andarsene in giro per la spiaggia a prendere il sole: voleva vedere la sua nave, la Jolly Roger. Voleva accertarsi che non avesse subito troppi danni, che l'albero maestro fosse dove l'aveva lasciato, che la bandiera nera fosse ancora dove doveva essere, che stesse bene, in sintesi. Riferirsi alla sua nave come a un essere umano non era una novità, né lo stupiva: la Jolly Rogers non era una nave, era una possibilità. La possibilità di restare, e quella di andare dove voleva. La possibilità di un orizzonte infinito da dividere in due con le onde di riflusso. Tutto racchiuso in uno scafo di legno e la forza delle sue mani, e di quelle della ciurma. Non deve stupire, quindi, che jas Hook volesse vedere coi suoi occhi la sua nave, la sua possibilità. 

Ci riuscì quasi una settimana dopo aver spaccato il naso a Roger: Saoirse entrò in casa e lo trovò con le mani arpionate alla finestra, ancora poco saldo sulle gambe ma con gli occhi incollati al mare e alla Roger che beccheggiava tranquilla nell'acqua azzurra. Il Victory le stava accanto, ormai sconfitto e docile. Appena l'aveva visto in piedi era subito scattata per farlo tornare a letto, ma quando vide i suoi occhi decise di uscire, trovare Roger e organizzare al più presto il ritorno del capitano alla sua nave.

 

Hansi era al settimo cielo. Nessuno gli aveva detto di tornare a Londra, nessuno gli dava ordini eppure i pirati si fidavano di lui e gli chiedevamo di sbrigare piccole commissioni per conto della ciurma. Se prima ne aveva avuto paura, adesso ne era affascinato: quella gente che poteva uccidere senza battere ciglio era composta da musicisti, medici, marinai espertissimi. C'era anche un tipo, un italiano, che disegnava meglio dei pittori che gli facevano studiare a scuola. E poi c'era il mare, c'era Saoirse e c'era Jas. Inutile negarlo: Hansi si era affezionato al pirata come un bambino si affeziona al fratello maggiore incosciente che ha sempre ammirato. Avrebbe giurato di averlo visto trasalire quando, per sbaglio, l'aveva chiamato zio.

 

Panico. Quello che passò nelle vene di Jas Hook quando Hansi l'aveva chiamato zio fu una vera e propria ondata di panico. Poi, essendo una persona di una certa educazione e decisamente avvezzo ai colpi di testa, decise di trovare il modo di dargli ragione.

 

Quando glielo chiese erano sulla spiaggia, e Saoirse non sapeva se dire di si, gettarlo in acqua o dargli una botta in testa.  Quando poi gli spiegò che in realtà l'idea gliela aveva data Hansi, pensò seriamente di rispedirlo a Londra e lasciarlo li. In realtà, si decise a dire di si solo quando Jas le spiegò che i matrimoni dei pirati duravano tre anni, e si potevano rinnovare solo se la coppia era d'accordo, ghignando come un lupo. Quando gli fece gentilmente notare che lei di preti non ne voleva sapere,  lui le fece gentilmente notare che neppure lui era tipo da preti e che comunque non ne avevano a disposizione: un capitano poteva sposarli, ecco quello che serviva.

"E che farai, Jas? Ci sposerai tu? Sarebbe ridicolo"

Le aveva sorriso di nuovo, con un angolo solo della bocca. 

"Laggiù c'è ua nave in più, ma belle. Credo che un capitano le farebbe comodo. Vogliamo informare la ciurma che ci sono delle votazioni da fare?"

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** epilogo ***


Di solito ci sono due modi di far finire una storia: far andare le cose come dovrebbero andare, o farle andare in modo diverso. Nel nostro caso, le cose andarono come volevano andare, e facendo questo ci fregarono con un certo stile. Ma andiamo con ordine.


Le votazioni furono, paradossalmente, quasi ordinate: non c'era un modo preciso per votare, sulle navi pirata, non c'erano codici che descrivessero se la preferenza andasse data a alzata di mano, per acclamazione o scrivendo il nome su un foglietto. Di solito, la possibilità del foglietto veniva evitata per evidente mancanza di carta, ma abbondante presenza di analfabetismo. La Jolly Roger restò saldamente nelle sapienti mani di Jas Hook, terrore dei mari, unico uomo che Barbanera abbia mai temuto eccetera eccetera: quell'uomo era il mare, e chi meglio del mare poteva capitanare una nave? La scelta non fu difficile. Scegliere il capitano del Silver, invece, fu più problematico: per le prime tre votazioni i voti furono così confusi e segmentati da far pensare che ci sarebbe voluta un'eternità per assegnare alla nave un capitano, e la cosa problematica era che, a tutti gli effetti, l'eternità era una cosa a portata di mano. Ma chi vuole spenderla alzando le mani per sempre? E' un'idea ridicola. Questo problema portò alla scelta di quattro candidati principali, fra cui, erano certi, si nascondeva il capitano che la ex nave della regina attendeva ormai da settimane. Cookson si trovò nella rosa dei candidati, assieme a Cecco, marinaio italiano di una certa fama nefasta, un Jolly Roger più nolente che volente e uno Smee in bilico fra lo stupore, l'esuberanza e il terrore più nero. Come il marinaio irlandese fosse finito nella rosa dei candidati non è un mistero: lo votarono perchè, sul fondo del barile, era davvero capace di mandare avanti una nave. Essere buoni non è esattamente come essere stupidi, e il pugnale che portava regolarmente legato alla vita lo dimostrava. Fu così che, mentre Jas, Hansi e Saoirse stavano appollaiati sul castello della Roger, sul Silver si contavano le mani alzate e si minacciava di tagliarne una a chi votava due volte, finchè non fu deciso di far mettere tutti in fila e far fare un passo indietro a chi aveva già espresso la sua preferenza. Non fu un processo troppo macchinoso, ma l'evoluzione ha bisogno dei suoi tempi. Era quasi sera quando finalmente il timone del Silver si trovò qualcuno alla guida, ritrovandosi fra le mani terrorizzate ma comunque capaci di un certo signor Smee. Capitano, da quel giorno in poi.


Quando glielo chiese, Roger spiegò a Jas che restare ai suoi ordini era quello che voleva, concludendo il discorso con un più che sensato vista la tua propensione a farti aprire buchi in pancia ci vuole qualcuno che te li chiuda. Jas pensò di obiettare che magari anche sul Silver c'era gente che si sarebbe aperta buchi in pancia, in futuro, ma decise di tenersi per se il commento, il medico di bordo e anche il primo amico che avesse mai avuto, visto che il secondo avrebbe dormito  su altri legni, da quel momento in poi. Smee capitano gli faceva un certo effetto: certo, era l'ultima persona che si sarebbe mai aspettato di trovare al comando di una nave, ma a pensarci bene anche la prima. Era così, Smee: ispirava sentimenti contrastanti. In tutta onestà, e volte non sapevi se abbracciarlo o sparargli. L'equipaggio si divise equamente fra i due vascelli, facendo entrare nei ranghi anche i soldati che desideravano farlo, e lasciando ben poco margine di scelta agli altri. C'erano squali da sfamare, in quel mare, e chi erano loro per negare ai pesci una cenetta come si deve in un giorno di festa?


La festa si tenne la sera, dopo che un impacciato capitano Smee presiedette allo scambio di voti fra un collega e un fabbro mezzo matto che vedeva le fate, ed era capace di dividerti in due senza pensarci mezza volta. Come unione non fu male, e il dna che promettevano di condividere prometteva già di essere letale: Hansi, nel caso in cui qualcuno decidesse di nascere, si sarebbe trovato con una bella grana al posto di un nipote. O una nipote. Quando Jas Hook lo chiamò capitano, Smee rischiò un collasso dovuto a una troppa affluenza di sangue al cervello. Non svenne, ma in compenso diventò color aragosta per i quarantacinque minuti successivi. Hansi regalò a Jas e Saoirse alcuni dei suoi libri, che una porta gli aveva permesso di recuperare con comodo dalla sua camerata poco prima della cerimonia, Roger regalò la promessa di non staccare la testa a Jas la prima volta che avesse provato ad ammazzarsi, e a Saoirse la promessa che l'avrebbe lasciato fare a lei, ma il regalo più grande, e più strano, al capitano James Hook arrivò proprio dal suo nuovo collega: accanto alla Jolly Roger, adesso, veleggiava un veliero che si chiamava King Jas.

---

ommioddio non ci si crede. è finita. l'ho iniziata anni fa, e ora è finita. cacchio. no, ok.
GRAZIE. sul serio, grazie a tutti coloro che hanno sopportato i miei ritardi biblici e i miei periodi di iperattività. peter pan è di tutti, ergo questa storia è anche vostra. e di jas. e di saoirse, che altrimenti mi stacca la testa.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=651116