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Lista capitoli: Capitolo 1: *** PROLOGO ▪ Gli applausi avrebbero fatto tremare tutto. *** Capitolo 2: *** CAPITOLO I ▪ Non sapeva fare nient'altro se non danzare. *** Capitolo 3: *** CAPITOLO II ▪ «Sono loro che portano le calzamaglie, non io.» *** Capitolo 4: *** CAPITOLO III ▪ Lo faccio per me, per il mio futuro. *** Capitolo 5: *** CAPITOLO IV ▪ Ballare assieme è peggio di amarsi. *** Capitolo 6: *** CAPITOLO V ▪ Platessa e zucchine. ***
Capitolo 1 *** PROLOGO ▪ Gli applausi avrebbero fatto tremare tutto. ***
Gli applausi avrebbero fatto tremare
tutto.
▪
PROLOGO ▪
Il
ThéâtreCroisette si
riempiva lentamente – c’erano signori e signore elegantemente vestiti, persone con
abiti più sobri e perfino alcuni bambini. Gli ottocento e più posti venivano
velocemente occupati. Le luci si sarebbero spente di lì a poco, forse dopo
qualche secondo di applausi degli spettatori impazienti.
Sua
madre stava seduta accanto a lui, la schiena rigida appoggiata contro il
velluto dei sedili rossi. L’atmosfera era frizzante e, da qualche parte dietro
di lui, una bambina chiedeva ai genitori quando avrebbe visto la sorellona
ballare.
Sapeva
che dietro le lunghe tende rosso scuro i ballerini della EcoleSuperieure de Danse
de Cannes Rosella Hightower si stavano scaldando,
oppure parlando tra loro per scaricare la loro ansia, rivedendo i passi da eseguire… l’idea del caos dietro le quinte lo elettrizzava.
Strinse leggermente i pugni sulle ginocchia e sorrise quasi senza motivo,
trattenendosi dal ridere.
«Comportati
bene, Étienne» gli mormorò la madre, toccandogli
appena la spalla in modo inquisitorio.
«Certo,
certo. Scusa» rispose, soffocando l’ennesima risatina. Raddrizzò le spalle e il
suo volto si dipinse improvvisamente di un’espressione seria.
Rimase
in silenzio per i minuti successivi al rimprovero, ormai la sala era piena e
anche i bambini erano impazienti di vedere lo spettacolo. I genitori si
sarebbero commossi e alla fine tutti si sarebbero alzati in piedi – lo avrebbe
fatto anche lui. Gli applausi avrebbero fatto tremare tutto.
Sapeva
che Reinhart avrebbe ballato dando il meglio di sé, e
nel momento dei ringraziamenti lo avrebbe cercato tra la folla, Étienne avrebbe ricambiato lo sguardo e si sarebbero visti
dopo tutti i saggi, si sarebbero abbracciati - il pensiero delle sue braccia
attorno alla propria schiena lo fece rabbrividire.
Le
luci si spensero lentamente e il buio lo avvolse, le luci sotto il palco si
accesero illuminando di bianco la prima ballerina. La musica era partita prima
che lui potesse rendersene conto.
«Spero
che Reinhart non faccia nessuna cazzata» borbottò la
madre. Lo conosceva abbastanza bene da potersi permettere quel commento,
nonostante il linguaggio poco scurrile che adottava in casi estremi, «lo
strangolo» concluse, e rivolse la sua attenzione al sissonne della danzatrice, che
per il figlio era solamente un salto.
«Sarà
bravissimo» rispose a bassa voce, sperando che l’altra non lo sentisse – lei non
sapeva ancora.
Prima che questo
ballo sia finito,
pensò, tra un’acrobazia e l’altra degli studenti, penso che sarò innamorato di te – poi si corresse: di nuovo, penso che sarò innamorato di nuovo
di te.
«La danza
è una carriera misteriosa, che rappresenta un mondo imprevedibile ed
imprendibile.
Le
qualità necessarie sono tante. Non basta soltanto il talento, è necessario
affiancare alla grande vocazione,
la
tenacia, la determinazione, la disciplina, la costanza.»
- Carla
Fracci -
WE LIVE AND BREATHE WORDS – note d’autrici.
Siamo di nuovo noi, siamo arrivate con una
seconda romantica, già.
Potete odiarci, se volete.
In realtà siamo piene di long, ma abbiamo
sentito il bisogno improvviso di raccontare a qualcuno la storia dei nostri OC
- o almeno degli "eletti" - quindi ci siamo trovate a scrivere anche
questa. Non abbiamo nulla di particolare da dire, a parte il fatto che è ambientata
in Francia, a Cannes nel 2012 e che il titolo è una frase di una canzone dei
Beatles - ovviamente tradotto, perché in inglese, parlando di francesi, ci
sapeva di bestemmia, diciamo.
Quindi eccoci qui, con questo prologo. Vi
stiamo catapultando nel mondo della danza, mondo sconosciuto anche a noi due -
ci siamo documentate molto, ma tante cose che vi diremo resteranno comunque
Licenza Poetica. Nessuna di noi studia balletto in Francia, quindi abbiamo
fatto il possibile per immergerci in questa atmosfera.
Oh, sì, ci rendiamo conto che a volte i
passi di danza possono essere sconosciuti, in tutti i casi il sissonne è questo.
Detto questo ce ne andiamo. ~
Se vi è piaciuto, come sempre: ditelo. Se vi ha fatto schifo: ditelo comunque.
Capitolo 2 *** CAPITOLO I ▪ Non sapeva fare nient'altro se non danzare. ***
Non sapeva fare nient'altro se non
danzare.
▪
CAPITOLO I ▪
Cannes, Costa
Azzurra. Settembre 2012
Il
sole splendeva, illuminando la sala numero 6 della scuola di un’aura nuova,
come a voler dire: «quest’anno sarà diverso».
Invece
di diverso non c’era nulla: JoëlleBoulogne se ne stava nel suo angolino vicino al pianista,
mentre osservava i suoi alunni prendere posto alla sbarra per scaldarsi. Era
una sequenza continua di calze nere e maglie bianche, quella monotonia la
rilassava.
Quando
finalmente tutto fu pronto per la lezione ed i suoi alunni le rivolsero uno
sguardo d’assenso, la donna prese posto nella sbarra centrale rivolta verso lo
specchio «iniziamo dai pliés»
annunciò, la voce chiara aveva qualcosa di autoritario. Si spostò la lunga
treccia nera sulla schiena e fece seguire all’elenco dei passi anche un abbozzo
dei movimenti, «demi-pliés
e stendere, demi-pliés
e stendere, – vi era una piccola variazione delle braccia –grand-pliés e tornare, port de brasavanti
e port de bras
indietro». Si girò verso i ragazzi e abbozzò un sorriso a metà tra sfida e
compiacimento, «in seconda, quarta e quinta posizione. Poi mezzapunta e in
equilibrio in quinta».
Qualcuno
sbuffò e Joëlle fece finta di niente, si allontanò
dalla sbarra e spostò lo sguardo sul pianista, «Didier»
lo chiamò, e un momento dopo la musica invase tutta la stanza. Lei se ne stava
lì: fasciata nel suo body a maniche lunghe prugna e nella gonna a portafoglio
color terra – combinazione discutibile ma non del tutto sgradevole – e
osservava i suoi ragazzi mentre
eseguivano l’esercizio. Poi, d’improvviso, qualcosa la sembrò investire come un
treno, ma nessuno si fermò. Si mise a girare tra le file di ragazzi silenziosa
e indagatrice, osservando i movimenti delle braccia e delle gambe.
«Attento
ai piedi, Adam» disse ad uno, poi fece qualche passo
squadrando un altro ballerino e mormorò un «Roberto, le dita sono troppo tese –
rilassale, santo cielo!». Si guardò attorno, qualche ruga ai lati degli occhi e
sulla fronte le colorò il viso, batté le mani e urlò: «la testa, la testa
dritta! Dovete guardare in avanti, concentratevi!».
In
un angolo un ragazzo sciolse la posizione, scrollò le spalle e riprese la
sequenza.
Non
andava affatto bene. «No, fermi – fermi», attraversò con qualche falcata l’aula
e si mise al centro della sala e fece un respiro come per calmarsi. L’atmosfera
divenne pesante quando Didier smise di suonare il
pianoforte, «spostate le sbarre, dobbiamo assolutamente
fare una cosa».
Un
lieve mormorio riempì la sala, ma qualche secondo dopo gli studenti stavano già
obbedendo agli ordini. Quando la superficie fu libera Joëlle
squadrò tutti i suoi allievi, «Reinhart, vieni al
centro» e gli indicò il pavimento davanti a lei come per mostrargli il punto
esatto in cui doveva sostare.
Il
ragazzo si scambiò un paio di occhiaie con gli altri, poi si avvicinò.
«Voialtri
allontanatevi, per favore». E fecero quello che lei aveva chiesto, una lieve
brezza entrava dalle finestre semiaperte. «Reinhart,
un grandjeté en tournant lungo la diagonale, cortesemente. Guardate
attentamente», quindi anche lei fece un passo indietro e lasciò che il suo
studente eseguisse il compito.
Quando
si fermò, Joëlle si avvicinò a lui, e così gli altri.
«Che cosa avete notato?» la domanda sembrava così ovvia che il silenzio che ne
seguì sembrò irritarla ancora di più, «cosa c’era che non andava?» tentò di
specificare.
Un
alunno azzardò, «l’arabesque finale?».
Tutti si voltarono verso di lui e questo arrossì.
«Sbagliato».
«Le
gambe non si erano aperte abbastanza?» tentò un altro.
Joëlle sembrò
inorridire, «assolutamente no!». Attese ancora qualche secondo, nessuno parlò, «Reinhart, tu hai idea di cosa hai sbagliato?» lo guardava
negli occhi, in qualche modo nelle iridi dell’insegnante c’era una richiesta di
supplica: dì qualcosa di intelligente, almeno
tu, ti prego.
«Non
credo ci fosse qualcosa di sbagliato, Madame»
e si grattò una guancia, come se fosse lievemente imbarazzato dalla situazione.
Madame era il modo in cui si faceva
chiamare dagli allievi – il che aveva qualcosa di “vecchia scuola”, ma alla
fine non risultava questo grande fastidio.
«Sbagliato!» ruggì la donna, «così non
va, non va affatto! Non potete andare
avanti in questo modo» una ciocca le sfuggì dalla treccia e subito Joëlle provvide a
nasconderla dietro l’orecchio, ornato da un piccolo orecchino a perla. Batté le
mani un paio di volte e cercò di ricomporsi, «Reinhart:
primo, secondo, terzo arabesque e poi
un arabesque croisée.
E ricordati che sei un ballerino» si
allontanò di qualche passo dall’alunno, aggiungendo sottovoce «o almeno è
quello che vorresti essere» – ma non c’era cattiveria nel commento, solo una
vaga speranza che si rendesse conto dei suoi sbagli.
Alla
conclusione dell’esercizio – eseguito con la massima concentrazione, questo
dovette concederglielo – tutti gli occhi erano puntati sulla figura rigida
della Madame, ansiosi di un commento.
«Allora, di questi cosa mi dite?» chiese, i piedi della donna avevano assunto
naturalmente la terza posizione,
residui di anni al Balletto di Monte-Carlo.
Nessuno
rispose.
«Sapete
cosa c’è?» Joëlle si avvicinò alla sedia dove aveva
riposto la propria borsa, da questa estrasse un paio di pantaloni di tuta e se
li infilò addosso, sciogliendo poi il nodo che teneva legata attorno alla
propria vita la gonnella semitrasparente, la ficcò malamente nella sacca e mise
questa sulla propria spalla, «la lezione è finita. Io vado a trovare un modo
per rimediare a questo guaio. E’ inammissibile che torniate dalla pausa estiva
in questo modo. Siete miei alunni, diamine, non ragazzetti trovati per strada
che muovono i fianchi e dicono di saper ballare». C’era un’evidente nota di disgusto
nella sua voce verso qualcosa che nessuno seppe spiegarsi, ma ormai la loro
insegnante era diventata un mistero a trecentosessanta gradi: tanti dubbi e
niente certezze. Né su cosa volesse, né su cosa le piacesse e a momenti né su
chi fosse realmente.
Fece
per andarsene e, quando raggiunse la porta, uno studente – il Roberto di prima,
con il suo pessimo accento italiano – la bloccò. «Madame…» sembrava evidentemente
intimidito dal suo portamento con le spalle dritte e l’andamento fiero, ma continuò
ad esporre la sua richiesta, «possiamo almeno sapere cosa non andava? Reinhart è stato perfetto».
Un
lieve brusio: la domanda aveva effettivamente senso.
«Vuoi
sapere cosa non andava?» l’insegnante si girò verso gli alunni, la treccia le
era ricaduta su una spalla e il ciuffo intrappolato dietro il padiglione
auricolare era ritornato ribelle a contornarle la tempia, «era un palo, e lo
siete tutti, dannazione. Non potete
aspettare che la gente sia felice se fate un arabesque che sembra voi che vi svegliate e stiracchiate la
mattina. Loro cercano perfezione.
Vogliono movimenti leggiadri, eleganti, un bel sorriso e sapere che dietro
quelle due ore di spettacolo c’è del lavoro, del sudore e del sangue».
«Ci
sta dicendo che non abbiamo passione?» a parlare fu sempre Roberto, il quale
sembrava abbastanza colpito dal discorso – come se non avesse senso.
«Proprio
così: siete così fissati con la tecnica che non andate oltre. Avete il problema
contrario di quei stupidi film americani sulla danza, la maggior parte
disgustosi» e con uno sbuffo si girò, «a domani. E preparatevi, vi farò pentire
di essere venuti qua a studiare danza».
E
per spezzare la tensione Didier suonò una ninna nanna
al pianoforte, facendo ridacchiare tutti.
Reinhart sospirò
sfilandosi la maglia bianca, recuperando l'asciugamano e infilandosi nello
spogliatoio, assieme ai suoi compagni.
Il
sottofondo di borbottii e commenti, non molto gradevoli, riempiva le quattro
mura dove avevano lasciato i borsoni, rovinando già dal primo giorno quella
solita atmosfera piuttosto gioviale che si veniva a creare fra gli allievi.
«Reinhart, cosa c'è che non va nel tuo grandjeté en tournant?» lo
ammonì scherzando il suo compagno di stanza, Brice –
un francese un po' suonato, ma dopo anni trascorsi in sua compagnia aveva
imparato a sopportarlo. «Nessuno lo sa? Oh, che delusione!» continuò imitando
malamente la voce dell'insegnante.
«Fanculo, Brice. Non c'era niente
di sbagliato in quel dannato coso» rispose Rain (lo
chiamavano così, per abbreviare), sfilandosi la calzamaglia nera, «quella ha
solo un gran bisogno di scopare, e sfoga la sua frustrazione su di noi» spiegò
passandosi l'asciugamano fra i capelli, «non è divorziata? Sarà per quello…».
«Tu
non dovresti parlare: sei il suo preferito! Non fa altro che ripetere "Reinhart, hai dei piedi bellissimi!" o "Adam, stai dritto con quella schiena! Reinhart,
tu invece sei perfetto! Oh, Reinhart quanto vorrei
darti delle lezioni privat–"».
«Piantala,
Brice» lo interrupe lui, lanciandogli l'asciugamano
sulla faccia, spostandosi verso la parte dello spogliatoio in cui erano
presenti le docce – avevano un'altra lezione poco dopo, e quella conclusa in largo
anticipo gli aveva lasciato il tempo di darsi una sciacquata.
S'infilò
sotto il getto dell'acqua tiepida passandosi le dita fra le ciocche biondo
cenere, abbandonandosi alla semplice ed intensa monotonia che aveva preso il
possesso della sua vita. Era a Cannes da quando aveva nove anni, e oramai si
sentiva più francese ché islandese – certo, la sua famiglia gli mancava, ma con
il tempo ci aveva fatto l'abitudine, così come si era adattato al resto: era il
pegno da dover pagare per poter diventare un ballerino.
«Cosa
abbiamo, adesso?» gli chiese l'amico, raggiungendolo alle docce.
«Pas de deux, a
quanto pare. Il lunedì sarà una tortura se non cambiano le lezioni» rispose
mentre si insaponava i capelli per la prima volta in quella giornata – ce ne
sarebbero state altre quattro o cinque, oramai sapeva anche questo. Dopotutto
non potevano presentarsi alla lezione successiva sudati e sporchi, non con il
regime instaurato nell'Accademia.
«Secondo
te domani ci farà veramente pentire dell'errore introvabile ed inesistente del
tuo grandjeté en tournant? Per non parlare che abbiamo sbagliato anche i
suoi tanto cari pliés.
E addirittura i banalissimi arabesque!»
domandò Brice, tentando di instaurare una conversazione,
sebbene Rain non gli sembrasse dell'umore adatto,
quella mattina. Non erano mai andati tanto d'accordo, il loro era un rapporto
di amore ed odio, e forse anche di interesse. Si sopportavano per necessità, ma
nulla di più.
«Probabilmente
sì, ma chi se ne frega» borbottò rimuovendo la schiuma dalla testa, scivolando
subito dopo fuori dall'acqua per andare a recuperare un asciugamano pulito.
Alla fine non gli importava davvero: era lì per ballare, e se tutto fosse
andato bene quello sarebbe stato l'ultimo anno in quella scuola. Una compagnia
lo avrebbe notato e preso con sé e lui avrebbe coronato il suo sogno.
«Dici
così perché tu sei intoccabile, per lei almeno» si lamentò l’altro, facendolo
irritare ancora di più di quanto già non lo fosse.
Non
era vero che era intoccabile, come non era vero che era il preferito di quella
megera che li seguiva dal loro arrivo lì: era esattamente come tutti gli altri,
se non in una situazione peggiore dato che la sua famiglia faticava a pagare le
rette annuali.
Ma
su una cosa Brice aveva ragione: Joëlle
avrebbe trovato il modo di distruggerli e umiliarli, aveva imparato anche
questo.
La
luce soffusa disegnava strane ombre sul parquet chiaro mentre la sua immagine
allo specchio volteggiava per la sala, ripetendo un'infinità di volte quel
dannatissimo gran jeté
en tournant. Voleva capire cosa non andasse, se
davvero era la passione a mancargli, ma quanto più si ostinava a riprodurre
quei passi, tanto meno comprendeva dove stesse il problema. Sospirò chinandosi
un po' in avanti, passando le dita fra i capelli sudati – gli sarebbe servita
una doccia in più, quella volta.
Quel
"non avete passione" gli risuonava nella testa con la stessa
intensità della deflagrazione di un proiettile sparato in una cattedrale:
tuonava, rimbombava, e da un lato gli faceva anche male. Se non aveva passione,
se era quella che gli mancava, allora tanto valeva che qualcuno si fosse preso
la briga di dirglielo prima, quando ancora era bambino e non aveva speso
l'infanzia e l'adolescenza in un luogo così lontano da casa.
Magari
era incazzata e se l'è semplicemente presa con noi, si ritrovò a
pensare tentando di giustificarsi, di auto convincersi che il problema non era
lui, e che non aveva sbagliato quel maledetto passo. Magari era davvero così.
Scattò
guardando il suo riflesso nella specchiera, ricordando con un sorriso che era
in quei riverberi che si era visto crescere – ogni anno era sempre un po' più
grande, un po' meno bambino e più uomo: un po' più ballerino.
Viveva
per quello, oramai. Non sapeva fare nient'altro se non danzare, e il pensiero
di fallire gli faceva venire voglia di urlare. Fissò gli occhi castani –
ereditati dalla madre inglese – sulla sua figura, poi serrò le palpebre e fece
un respiro profondo, ripetendo per l'ennesima volta l'esercizio.
Continuò
così per minuti, forse ore, e quando il sonno incominciò a farsi sentire si
lasciò andare sul pavimento, cercando di recuperare il fiato perso.
Non
era vero che non aveva passione: lo sentiva dalla musica che ogni tanto gli
risuonava nelle orecchie, dai passi sconclusionati che ogni tanto abbozzava
involontariamente, reggendosi a qualche corrimano.
Non
era vero: lui era un ballerino, e non sarebbe mai stato nient'altro.
«Per
arrivare in cima dovrai trovare una cosa che… non
imparerai a lezione»
«Che
cosa?» «Ecco… la passione, il fuoco!» «Il fuoco?»
«Vuoi
diventare il ragazzo che ha la folla ai suoi piedi?»
«Sì, lo
voglio. Ma… come faccio a diventarlo?»
«Devi
andare oltre: trova la persona speciale, oppure la cosa che ti emoziona davvero»
– Cooper & Tommy, Center Stage 2: Turn It Up
–
WE LIVE AND BREATHE WORDS – note
d’autrici.
Abbiamo aggiornato prestissimo, ma non
sarà sempre così, purtroppo.
Non abbiamo nulla di particolare da dire,
riguardo a questo capitolo.
Per i passi di danza ci siamo documentate
in giro, e in più la saggia Iysse ci ha aiutate, e la ringraziamo molto per questo. C'è
comunque molta Licenza Poetica, noi non abbiamo studiato danza a Cannes, quindi
ci siamo fatte un'infarinatura generale sull'Accademia e le lezioni, ma - per
esempio - non sappiamo se facciano o meno la doccia nei bagni comuni, per
dirvi.
Per il momento vi lasciamo il volto
di Rain – anche se lo trovate là in alto, nel
bellissimo banner.
E niente, il resto si vedrà. ~ Diamo la
linea al telegiornale.
Capitolo 3 *** CAPITOLO II ▪ «Sono loro che portano le calzamaglie, non io.» ***
Note
introduttive; leggere
con diligenza.
Abbiamo
deciso in comune accordo – più o meno, in realtà, ma sono dettagli (non
ditelo a yingsu) – di inserire queste note introduttive
per spiegarvi che, essendo i pg ballerini e non potendo
descrivere appieno i balletti ecc., è possibile che troviate degli apici vicino
alle parole con dei link, i quali vi porteranno a link di youtube
o immagini/gif raffiguranti gli esercizi che stanno facendo in quel momento.
Forse
saranno antiestetici, ma è tutto per facilitarvi l’immaginazione, in qualche
modo. ;)
Perdonateci
papavero
radioattivo.
«Sono loro che portano le calzamaglie, non io.»
▪
CAPITOLO II ▪
Étienne Arthur Lambert
fissò l’entrata della EcoleSuperieure de Danse de Cannes Rosella Hightower
fiancheggiata dagli alberi. Da fuori non sembrava affatto una scuola – più un
club privato o la casa di qualche miliardario.
Sospirò
tirandosi su la zip della felpa verde e infilando le mani in tasca, percorrendo
quella passerella bianca e regolare. Due ragazze vestite in tuta camminavano
nel senso opposto al suo – gli sguardi dei tre si incrociarono e le due
studentesse ridacchiarono, lui sbuffò e aumentò il passo.
Davanti
all’entrata di una delle aule – la numero sei, constatò dal cartello appeso
alla porta – JoëlleBoulogne
lo attendeva avvolta nel suo body blu scuro, il copri-spalle
nero e dei pantaloni morbidi. Il viso maturo e lievemente truccato era
attraversato da qualche ruga sulla fronte, lo chignon liberava i lineamenti dai
capelli.
«Sei
in ritardo» fu l’unica cosa che gli disse, aveva la braccia incrociate e per
terra, vicino ai suoi piedi, stavano la sua borsa e un lettore CD.
«Lo
so» rispose semplicemente, cercando di grattarsi la testa sotto il berretto
nero. Gli occhi cercarono di sbirciare nella porta socchiusa – ma non videro
nulla.
«Perché
tra tutti ho scelto te, dimmelo» era
evidentemente esasperata, Étienne non seppe dire se
fosse per quello che gli aveva raccontato al telefono o per lui. Probabilmente
per entrambe le cose.
«Perché
sono il migliore» c’era un tono di finta superbia nella sua voce, «e l’unico
che conoscevi a cui rivolgerti» ridacchiò appena – poi sorrise e, prima che lei
potesse ribattere proferì un «andiamo?». Le indicò con il mento la porta oltre
la sua spalla, e poi si abbassò a raccoglierle la borsa e il lettore musicale –
tanto glielo avrebbe fatto fare comunque.
Un
paio di secondi di silenzio, poi finalmente la signora Boulogne
sembrò ricomporsi, si voltò, strinse la mano intorno al pomello e spalancò la
porta.
La
calma scesa nella sala era agghiacciante: i ballerini guardavano Étienne, ed Étienne guardava la
schiena della donna che aveva richiesto la sua presenza in quella lezione –
così come nelle prossime. Riusciva ad avvertire gli occhi degli studenti su di
sé e la cosa lo irritava ed imbarazzava un po’, ma decise che alla fine non
c’era nulla di cui vergognarsi. Sono loro
che portano le calzamaglie, non io – si consolò, promettendosi di guardarli
tutti in volto: non avrebbe retto l’impatto delle loro gambe fasciate da quei così. Probabilmente si sarebbe messo a
ridere e basta.
Brice fece un pliés alla sbarra
mal riuscito con l’intento di chinarsi su Reinhart,
seduto per terra, «hai visto il biondino?» commentò con un piccolo sorriso
sulle labbra, quando Reinhart si girò verso di lui
l’altro indicò il nuovo arrivato con il mento, «la felpa verde, Rain».
«Sì,
ho capito, non indicare le persone senza motivo, Brice»
rispose l’altro, allungandosi in avanti con le gambe divaricate in un esercizio
di riscaldamento, «qual è il problema, pensi sia tinto e la cosa ti disturba?».
Il
tono vagamente acido dell’amico gli fece aggrottare le sopraciglia, ma non ci
badò più di tanto. Si alzò e gli tese una mano per aiutarlo a tirarsi su,
«trovo che sia davvero carino» mormorò vicino al suo orecchio, «tutto qui».
Joëlle batté le mani
due volte, interrompendo i vari vociferare degli alunni, con entrambe le mani
fece segno ai ragazzi di avvicinarsi – Étienne ebbe
l’impressione di soffocare. «Ragazzi, dopo l’ultima lezione ho dovuto prendere
dei provvedimenti. Abbastanza drastici, devo dire» e lo sguardo si spostò verso
il più giovane, intento a fissarsi le scarpe con indifferenza. Una risatina
spezzò il silenzio che si era venuto a creare, poi l’insegnante continuò,
«motivo per cui ho dovuto chiedere alla Signora Paola Cantalupo, che tutti voi
conoscete, il permesso di soggiorno a Étienne Arthur
Lambert».
Sentendo
il proprio nome, il ragazzo si trovò costretto ad alzare lo sguardo. Sorrise
come sorrideva agli amici e alzò una mano in segno di saluto, «Étienne andrà benissimo».
«Vi
aiuterà con il vostro problema» concluse Joëlle,
aspettò qualche secondo per poi chiedere un: «avete domande?».
Immancabilmente,
Brice alzò la mano, «come ci aiuteresti, scusa? Non
sembri uno che balla classica…».
Seemslegit.
Étienneridacchinò, estraendo dalla tasca un iPod per andare a collegarlo alle
casse, «infatti non ballo, almeno non quello che ballate voi». Il silenzio calò in sala e Joëlle
fece segno ai ragazzi di allontanarsi. Il nuovo arrivato trafficò qualche
momento con l’aggeggio, poi una musica si diffuse in tutta la sala, facendo
storcere il naso al pianista, che non si mosse. La canzone non partì
dall’inizio – e Sexy Ladies
riempì la stanza, Brice guardò sorridente ma
sconcertato Rain ed entrambi si misero a guardare
quello che ormai era definitivamente l’intruso.
Aveva
iniziando muovendosi piano, sposando il peso da un piede all’altro. Sorrideva
appena, ma non a loro: a sé stesso. Evidentemente era felice di quello che
stava per fare.
Non era classica.
Era
street dance, eppure sembrava qualcosa di
bellissimo: i movimenti di Étienne non facevano
rumore, si spostava di poco – senza salti o acrobazie varie, lasciava che la
musica gli scorresse dentro e guidasse i suoi movimenti. Il suo viso – talvolta
concentrato, talvolta sorridente – non cercava approvazione dagli altri
ragazzi, né dall’insegnante. Sembrava avesse scritto in faccia un «posso farlo
bene, posso farlo anche meglio», e cercava di raggiungere quella perfezione
mentre con le labbra sillabava le parole di Timberlake.
Sexy, sexy, sexy. Walk that body, talk that body…
Un
fischio di approvazione arrivò dal fondo della sala ed Étienne
ampliò per un attimo il proprio sorriso,
come
se fosse felice del consenso altrui. Guardandosi intorno, Reinhart
poteva vedere qualche viso sconcertato – quasi offeso. La musica prese una
piega strumentale ed il ragazzo smise di ballare lentamente: dondolava a destra
e a sinistra, le ginocchia piegate e il busto leggermente in avanti, muoveva le
mani… e sembrava che lo guardasse, che lo guardasse
davvero: gli sbirciasse l’anima per dirgli “tu puoi farlo, puoi ballare”.
Forse
era solo una sua impressione, puro egocentrismo e nient’altro.
La
canzone successiva iniziava con una tromba, gli ricordava una canzone sentita
in radio – il proprietario dell’iPod corse a spegnerla.
«E
questo a cosa dovrebbe servirci, Madame?»
domandò uno di loro – uno di quelli che non avevano apprezzato il gesto, «noi
non balliamo in quel modo», il tono
era aspro, quasi tagliente.
La
cosa sembrò colpire Étienne, «io ballo, voi vi
muovete con un’asta di legno… al posto della colonna
vertebrale». Probabilmente voleva dire qualcos’altro, ma era stato bloccato
dalla presenza della Madame,
sicuramente. Tuttavia non sembrava pensarlo sul serio, ma il suo commento fece
diventare rosso il volto dell’interlocutore, che non ribatté.
Joëlle rimase in
silenzio durante il breve scambio di battute, poi i rumori delle sue scarpe da
ballo riempirono la stanza e la sua figura si affiancò a quella di Étienne, le mani erano riunite in una leggera stretta.
«Come avete potuto vedere, Lambert balla street dance, qualcosa di molto diverso dalla danza che siete soliti
praticare, ma hanno una cosa in comune: la passione. Spero che abbiate
osservato i suoi piedi, le braccia… i suoi movimenti.
Il modo in cui erano tutti perfettamente in armonia tra di loro. La canzone ed
i passi sono di certo discutibili, ma questa breve dimostrazione ha molto più
sentimento di quando ballate voi».
La
predica sembrava essersi fermata, Brice si avvicinò
all’orecchio di Rain, mormorando una citazione del
giorno precedente: «Siete miei alunni, diamine,
non ragazzetti trovati per strada che muovono i fianchi e dicono di saper
ballare».
«Qualche
problema, Brice?» domandò Joëlle.
Un sorrisetto furbo colorò il viso di Étienne e Rain trattenne una risata, abbassando il volto e fissandosi
le scarpette per non farsi vedere divertito dalla situazione.
L’interessato
al rimprovero boccheggiò qualche secondo, poi si affrettò a rispondere con un
«assolutamente no, Madame!».
«Meglio
così» ribatté l’altra, poi riprese il discorso, «rimarrà con noi finché non
sarete in grado di fare le cose decentemente, e spero che riusciate a
migliorare per il saggio. Per oggi, tuttavia, si limiterà ad assistere alla
lezione, così potrà constatare lui stesso la situazione tragica in cui vi siete
cacciati». Batté le mani tre volte, stavolta, e quello fu il segno che la
lezione dovette riprendere. A gruppi spostarono le sbarre ed Étienne si accomodò per terra, seduto in un angolo, ad
alternare l’attenzione tra i ballerini e il suo cellulare.
Le
note de “Il valzer dei fiocchi di neve”
risuonavano oramai nell’aula da qualche ora – aveva deciso di prenotarla quella
mattina, dopo gli ennesimi rimproveri della Madame.
«Reinhart, dove diamine hai la testa?» gli aveva
detto, per poi proseguire con i suoi soliti insulti decisamente velati, ma che
lasciavano comunque intendere il significato reale di quelle parole. Era
diventato bravo a leggere fra le righe, e con lei non era poi tanto complicato
comprendere dove volesse andare a parare. Avrebbe voluto capire quale fosse il
suo problema – e se effettivamente ce ne fosse uno –, ma per quanto si
guardasse allo specchio non riusciva a trovare nulla che non andasse.
Ripensò
all’esibizione del ragazzo, di quell’Étienne che –
sebbene avesse cercato di ignorare – forse lo aveva colpito più di quanto
avesse voluto realmente. Si mosse piano, a tempo con la musica, lasciando che
fosse quella a guidarlo e non la solita voce arrogante dell’insegnante. Ballò e
basta, cercando di concentrarsi sui suoi piedi e sulle braccia, di mantenere il
controllo del suo corpo come gli era stato insegnato, quando una voce lo
interruppe, costringendolo a rivolgere lo sguardo e l’attenzione verso la
porta.
«Secondo
me dovresti tendere di più la gamba, quando fai quel…coso» commentò, e Rain
rimase stupito nel vedere la figura di Étienne
poggiata allo stipite della porta, come se nulla fosse – che diavolo ci fa qua?
«Non
sapevo che t’intendessi di classica» gli rispose secco, andando ad abbassare il
volume dello stereo – quando parli del lupo…
«Infatti
non me ne intendo» ridacchiò l’altro, avvicinandosi al lettore musicale «e
comunque non devi tenderla di più, poi sembri un palo» aggiunse con un sorriso
che lasciò Rain piuttosto sconcertato.
«Non
so ballare come te, mi dispiace» ribatté forse un po’ acido, dopotutto non gli
piaceva sentirsi dare del palo, anche se doveva ammettere che Brice non aveva tutti i torti: era carino, il biondo.
«Anche
a me dispiace» borbottò, e Rain non seppe dire con
certezza se fosse sincero – probabilmente
mi sta prendendo per il culo, il simpaticone. In ogni caso decise di non
farci caso: spense del tutto la musica, rinunciando a concludere quell’atto
masochistico che era solito ripetere spesso – forse troppo –, causa dei suoi
piedi sempre più doloranti, ma che almeno gli suggerivano che stava lavorando.
«Comunque
parlavo sul serio, sembri un palo se ti muovi così» riprese l’altro, chinandosi
a recuperare l’iPod
che aveva dimenticato lì quella mattina, «non capisco perché non ti sciogli un
po’…».
Rain ridacchiò,
allontanandosi e raccogliendo l’asciugamano che aveva poggiato ad una delle sbarre.
«Faccio solo quello che mi hanno insegnato, non so cosa sia passato in mente a
quella donna ultimamente, ma sono quasi sicuro che sta entrando in menopausa»
tagliò corto, cercando di dissimulare il problema.
«Sarà…» si limitò a dire Étienne,
stringendosi un poco nelle spalle prima di avviarsi verso la porta, «comunque tu e gli altri dovreste uscire più spesso, avete iniziato
da due giorni e avete già l'aria di quelli che non ne possono più».
Rain scosse il capo
con fare esasperato, e poi trovò il coraggio di fermarlo prima che uscisse,
prima che la domanda prodotta dalla sua testa restassesolo una frase sospesa nel limbo del nulla. «Étienne…» lo chiamò con quel suo accento che – nonostante
gli anni passati a Cannes – lasciava comunque trasparire le sue origini
straniere. «Come faccio?» – a
sciogliermi, a ballare davvero. Ma il suo orgoglio gli impedì di aggiungere
quei complementi: lui sapeva ballare, non poteva sopportare l’idea di non
saperlo fare, non riusciva nemmeno a concepirla.
Lo
guardò bloccarsi davanti all’uscita, la mano sullo stipite mentre si girava a
guardarlo, ancora con quel sorriso che lo aveva lasciato disarmato anche a
lezione. «Dimentica tutto il resto, dimenticalodavvero» gli disse, esitando ancora
sulla porta.
«Questo
è il momento del film in cui l’allievo incapace chiede allo sconosciuto di
insegnargli come fare…» scherzò Rain,
ma forse una parte di lui gridava davvero aiuto, conscia che effettivamente un
problema c’era, e che non stava nei passi eseguiti alla perfezione, ma in
qualcosa che lui – osservando il riflesso della specchiera – non poteva e non
riusciva a vedere.
«Ed è il momento in cui l'allievo incapace gli da ascolto» gli
diede corda Étienne infilando la mano in tasca,
estraendone l’iPod,
«puoi cambiare musica? se devo insegnarti vorrei farlo a modo mio…» disse, e Rain si
maledisse all’istante, sicuro che tutto quello non lo avrebbe portato da
nessuna parte.
«Quando
aiutate qualcuno non accontentatevi di risolvere i suoi problemi immediati.
Dategli
anche i mezzi per risolvere i suoi problemi da solo.»
– TenzinGyatso (Dalai
Lama), I consigli del cuore –
WE LIVE
AND BREATHE WORDS – note d’autrici.
Siamo tornate, qual gaudio! – non mentite,
lo sappiamo che non c’è gaudio.
Finalmente siamo riuscite a presentare
anche Étienne, l’altro protagonista
di questa storia a quattro mani che – lo confessiamo – sta avendo molto più
seguito di quanto noi ci aspettassimo. E vi ringraziamo per questo, davvero. Ci
state dando un sacco di feedback positivi, e noi possiamo esserne solo felici!
In più ci sono arrivati anche degli mp che
domandavano per l’aggiornamento, quindi vi diciamo da subito che potete trovare
le date nel nostro account, ma che – nel bene o nel male – più o meno dovremmo
aggiornare una volta ogni due settimane, più che altro per via degli impegni
universitari e scolastici. Perdonateci, ma il dovere chiama anche noi.
E
ora passiamo alle cose che (forse) interessano davvero: vi lasciamo
innanzitutto il volto di Étienne, ma potete trovarlo
anche lui nel banner là in alto!Étienne Arthur Lambert.
E
vi lasciamo anche “Il valzer dei fiocchi di neve”,
nel caso qualcuno fosse curioso di ascoltarlo. Ignorate il balletto ♥
In
più vi diciamo che il “quando parli del lupo…” di Rain è un modo di
dire tipicamente francese, sarebbe “quand on parleduloup…”,
nonché corrispondente italiano de “parli
del diavolo e spuntano le corna” – per intenderci, insomma. Paola Cantalupo è la direttrice
artistica della scuola, ci siamo permesse di citarla(?).
Eeh, niente. Dovremmo aver concluso
qui. ~
Vi
ringraziamo davvero di cuore per tutto, sperando di non deludervi.
Capitolo 4 *** CAPITOLO III ▪ Lo faccio per me, per il mio futuro. ***
Lo faccio per me, per il mio futuro.
▪
CAPITOLO III ▪
Il
silenzio regnava sovrano: l’iPod si era spento, seguito da qualche imprecazione di Étienne che, non vedendo nemmeno un briciolo di
miglioramento da parte di Reinhart, dovette inventarsi
qualcosa. Si guardò attorno, cercando l’ispirazione adatta e, quando pensò di
averla trovata, si avvicinò al proprio zaino che aveva abbandonato in un
angolo, lo aprì e prese la prima cosa che li capitò sotto tiro: una pallina da
tennis. Ritornò da un Rain apparentemente confuso e
scocciato, si chinò a mettere per terra l’oggetto e poi, tirandosi in piedi,
sorrise – «raccoglila» gli ordinò, facendo un passo indietro.
Vide
il ballerino abbassare lo sguardo sulla palla gialla consumata, poi spostare
l’attenzione su di lui, e ancora per terra, «e vuoi che abbai mentre lo
faccio?» domandò ironico, anche se di ironia ce n’era ben poca.
Étienne sorrise,
incrociando le braccia al petto, «no, anche in silenzio», slacciò gli arti e
gli fece segno con la mano verso la pallina, «eddai,
raccoglila!» lo esortò poi, sembrava troppo entusiasta per star scherzando,
oppure stava davvero giocando e si divertiva a prendere in giro Rain.
Passo
qualche secondo prima che il ballerino sospirasse, abbassando il busso e divaricando
naturalmente le gambe rigorosamente tese – per raggiungere l’oggetto sul
pavimento. Lo afferrò e lanciò al legittimo proprietario, rimettendosi dritto,
«contento?». Non sono il tuo cane,
pensò – sperando per Étienne che dietro alla sua
richiesta ci fosse una didattica sensata… altrimenti
lo avrebbe preso a pugni.
«Uhm»
iniziò, infilando una mano in tasca e tenendo la pallina da tennis con l’altra.
Giocava a fare il serio, da una parte, ma dall’altra era seriamente
intenzionato ad aiutarlo; beh, come fai a non essere disponibile verso una
persona che per raccogliere qualcosa da terra preferisce fare una spaccata
piuttosto che flettere le ginocchia? La situazione era assurda, divertente e
vagamente interessante. «Non sono per niente contento, Rain»
borbottò, socchiudendo gli occhi – ok,
forse stava giocando un po’ troppo, «non ho mai visto nessuno raccogliere
una pallina da terra in quel modo. Sei troppo teso, amico» convenne infine,
ritornando allo zaino per riporre la pallina al suo posto.
Il
biondo si riprese la felpa, infilandosela addosso e tirando la zip fino a metà
del busto, mostrando ancora una parte della maglia nera.
«Dove
vai?» chiese l’altro, guardandolo con qualcosa che a Étienne
parve disperazione, ma probabilmente era il suo sguardo – o lo sguardo di
qualcuno che veniva scaricato di sana pianta senza aspettarselo. Si era concentrato troppo sul fatto che non
sa piegarsi per raccogliere qualcosa da terra per accorgersi che me ne stavo
andando, fantastico.
«A
casa, sai, abito lì» ribatté quasi con sarcasmo, infilandosi la borsa a
tracolla e sorridendogli. «Ci vediamo a lezione, Reinhart»,
si chiamava così, no? Ricordava il soprannome, lo aveva sentito da qualche
compagno e da lui stesso, quando si erano presentati qualche minuto prima di quella
situazione.
«Ed
io che pensavo vivessi sotto un ponte, a quanto pare no» borbottò a voce
abbastanza alta per farsi sentire, alzò lo sguardo verso di lui: negli occhi
c’era dipinta quell’espressione di chi continuava a sentirsi smarrito. «E per
la storia della pallina, dell'abbaiare e il resto?».
«Ti
ho già detto qual è il tuo problema: sei teso! Come se avessi ingoiato un palo,
hai presente?» si appoggiò allo stipite della porta, il freddo della sera di
settembre entrò nell’aula come una boccata d’aria fresca.
C’era
una certa tensione che abbracciava tutta la colonna vertebrale di Reinhart, qualcosa che gli impediva di essere tranquillo
nonostante avesse compreso il suo problema – ma come diavolo faceva a
risolverlo? Sospirò esasperato, lo sguardo sui propri piedi nascondeva la
tensione, contò fino a tre per calmarsi – o quantomeno sembrarlo – e poi
ritornò a discutere con Étienne. Si sentiva un idiota
ad aggrapparsi così insistentemente ad una persona, ma alla fine non era colpa
sua: era il biondino che sarebbe
rimasto con loro per “aiutarli”, e lui ne stava solo approfittando. Era tutto
legittimo e onesto – ma vagamente imbarazzante e scocciante. Non avrebbe
sopportato l’idea di non saper ballare.
«E
ora che me lo hai detto? Lo risolvo raccogliendo una pallina?» sbottò tutto
d’un tratto, rimanendo al proprio posto. Gli occhi castani si scontrarono con
quelli azzurri dell’altro – bramando una risposta concreta che non c’entrasse con il prendere qualcosa da terra.
Étienne ridacchiò, ma
in un modo così spontaneo che Rain non si sentì
offeso, «che ne dici di parlarne fuori di qui? Secondo me è questo posto che ti
rende così intrattabile…». Si accorse di aver usato
un aggettivo poco adatto alla situazione, ma ormai era troppo tardi.
«Non
sono intrattabile».
«Certo,
scusa» minimizzò, agitando la mano, «sabato avete lezione, no? Che ne dici se
ti porto a vedere come si balla davvero, Rain? L’ho
detto anche oggi che avete bisogno di uscire!» c’era sincerità nella sua voce,
qualcosa che dava la sicurezza all’altro che Étienne
non gli avrebbe dato buca. «Prendere o lasciare» aggiunse poi, arricciando le
labbra.
Reinhart non rispose
subito: sto diventando un cane, uno
stupido cane. L’idea che lo “portasse fuori” lo faceva sentire proprio come
un animale domestico – considerando poi quella specie di esercizio. Beh, non
aveva tutti i torti. Ci pensò un attimo, considerando tutte le variabili e
constatando infine che, gira e rigira, non c’era nulla di male. Lo faccio per me, si disse, cercando di
auto convincersi, per il mio futuro.
«Va bene, ma se non rientro ad un certo orario mi chiudono fuori, lo sai,
vero?» domandò retorico – e dopo quella lo avrebbe lasciato andare.
«Lo
so, tanto il posto non è molto lontano… credo» e
sorrise, lasciando che una scarica di adrenalina riscaldasse il corpo di Reinhart – si sarebbe pentito di essersi affidato alle mani
di quel tipo, lo sapeva. «Allora ci
vediamo sabato, Rain» fece un segno con la mano e
sparì nella sera dietro l’uscio.
L’altro
non disse più nulla. Sistemò l’aula e tornò in camera.
Si
aspettava di trovare Brice già avvolto dalle coperte,
stretto nell’abbraccio di Morfeo, ma al suo rientro l’amico era ancora sveglio
e – con uno sbadiglio – lo accolse con il fare di un investigatore privato: «Si
può sapere dove cazzo sei stato?» gli chiese, e Rain
si strinse nelle spalle, prendendosi la libertà di non rispondere.
Avrebbe
voluto sbattergli in faccia il fatto che sarebbe uscito con il biondino che gli
piaceva tanto, ma non gli parve il caso – stronzo
sì, ma non fino a questo punto. Non era un appuntamento. «Ero a ballare, Brì» – lo chiamò con quello stupido soprannome che gli dava
sui nervi, sedendosi poi sul materasso: non voleva parlare di Étienne, più che altro perché sapeva che Brice lo avrebbe inondato di domande imbecilli, a cui
sarebbero seguite frecciatine altrettanto idiote. Non avrebbe sopportato di
sentirlo farneticare di eventuali attrazioni fisiche e sessuali che non
c’erano, quindi si spogliò senza troppe cerimonie, deciso a farsi una doccia
prima di infilarsi sotto le coperte.
«Certo
che sei uno stronzo, potevi dirmelo» ribatté l’altro, accingendosi ad andare a
letto. «Sarei venuto anche io, invece di restare qui a leggere…»
spostò gli occhi sul libro che stringeva fra le dita, per poi riportarli sul
suo compagno di stanza con fare accusatorio, «… questo coso!» concluse
sbrigativo, poggiando poi il tomo sul comodino, accanto alla finestra.
Rain non disse
niente, si limitò a tirargli il cuscino addosso, dirigendosi poi verso il
piccolo bagno che condividevano – così come l’intera stanza. Era come un
matrimonio forzato, ma dopo un po’ ci si faceva l’abitudine: io rispetto i tuoi spazi e tu i miei, e
vedrai che nessuno si farà del male – era stato questo il tacito accordo
che avevano stretto, e ad entrambi stava bene così.
«Il
giorno in cui ti vedrò sorridere degli arcobaleni coloreranno il cielo, e poco
dopo arriverà la fine del mondo!» affermò Brice,
impossessandosi ufficialmente del guanciale – lo stesso che Rain
avevo usato come arma.
«Lascia
che ti dica una cosa, Brice: sei peggio di mia madre,
e ti assicuro che lei è davvero insopportabile» gli rispose recuperando un
asciugamano pulito – questa è una
violazione di spazio vitale.
«Come
fai a dire che è insopportabile se la vedi solo alle festività comandate?»
domandò retorico l’altro, con il chiaro obbiettivo di farlo irritare e basta,
ma fu preso in contro piede dalla risata pressoché immotivata dell’amico.
«Touché… ma
vederla alle festività mi basta, te lo assicuro» ribatté, prima di entrare nel
bagno e aprire l’acqua della doccia.
«Per
oggi siamo a posto così, la lezione è finita!» commentò la Madame, congedando gli alunni e salvando Rain
da ulteriori commenti di Brice su quel biondino che – volente o nolente –
sarebbe diventata una costante di quelle lezioni. Non che la sua presenza lo
infastidisse: erano gli apprezzamenti di Brice che lo
irritavano.
Lasciò
che gli altri recuperassero le loro cose e si spostassero negli spogliatoi e,
mentre la Madame raccoglieva la sua
borsa, si avvicinò ad Étienne, intento a giocare con
una delle sue collane.
Voleva
chiedergli conferma per quella sera, e poi mettersi d’accordo sull’orario e il
punto d’incontro, ma appena aprì bocca, appena le sue labbra proferirono un «Ehy…», la voce dell’insegnante lo interruppe: «Étienne, prendi la borsa, per favore» disse.
La
donna catturò l’attenzione del suo interlocutore che, prettamente, le rispose «lasciala
lì, mamma. Adesso la prendo io».
Mamma. L’ha
chiamata mamma?
– la testa di Rain fece cortocircuito per qualche
secondo, cercando di metabolizzare la situazione. «JoëlleBoulogne
è tua madre?» gli chiese incredulo e palesemente sconcertato, «potevi dirmi che
era tua madre!».
Étienne lo guardò, le
mani sui fianchi e il sorriso stampato sul volto, lo stesso che gli arricciava
le labbra la sera in cui gli aveva chiesto di raccogliere quella stupida
pallina, «non mi hai chiesto chi fosse mia madre» rispose semplicemente.
Uno
dei tanti insulti della Madame gli
tornò alla mente: quel lunedì, quando se l’era presa con i suoi arabesque, aveva detto qualcosa in
merito ai ragazzetti di strada che muovevano i fianchi – ora si spiegano molte cose, pensò.
«Non
sapevo che avesse un figlio…» si limitò a dire, quasi
avesse voluto giustificarsi. «Comunque volevo chiederti a che ora ci troviamo
stasera, dato che martedì sei sparito» continuò, riportando il discorso al
punto focale, così da poter raggiungere gli altri il più in fretta possibile –
aveva un’altra lezione, dopo.
Il
ragazzo davanti a lui sorrise, trattenendo a stento una risata. «Pensa che è
anche stata sposata, una volta… poi ha divorziato»
commentò, come se la separazione dei
suoi genitori non lo ferisse o riguardasse in alcun modo, cercando poi di
tornare vagamente serio. «Ci vediamo qui fuori alle nove, va bene?» gli
rispose, chinandosi a recuperare la borsa di sua madre, «così hai anche il
tempo di digerire la tua deliziosa
insalata scondita» aggiunse poi, prendendo il borsone a tracolla.
Da cane a mucca,
insomma
– Rain si sforzò di ignorare l’ennesima presa per il
culo e cercò di sorridere, «ceniamo presto, come i frati, e poi facciamo
autoflagellazione, quindi non c’è pericolo che non digerisca» ribatté acido, «a
stasera, allora» concluse poi, sbrigativo, incamminandosi verso gli spogliatoi.
«Si
impara con la pratica. Che si tratti di imparare a danzare facendo esperienza
di ballo,
oppure
imparare a vivere facendo esperienze di vita, il principio non cambia.»
– Martha Graham –
WE
LIVE AND BREATHE WORDS – note d’autrici.
Puntuali, e questa cosa ci rende onore,
insomma.
Prima di tutto vogliamo spiegarvi il perché
di questo problema di Rain. L’idea è venuta da yingsu che ha
gentilmente illustrato il problema del “certe cose ti rimangono”, ovvero:
quando faceva ginnastica artistica le dicevano di tenere le gambe tese, e ora
che non la fa più, continua a tenerle in questo modo. E’ facile individuare
anche alcuni ballerini – o quantomeno quelli che lo sono stati – che continuano
ad avere una postura eretta, la schiena drittissima e il collo alto.
Insomma, hanno detto a Rain
di essere teso come una corda di violino, ma il povero ha preso troppo sul
serio il tutto – così come gli altri – e non riesce a capire che dovrebbe
smollarsi, o forse lo capisce ma non sa come fare.
Per questo esiste Étienne
che, come scritto qui, è figlio dell’insegnante. Speriamo che non fosse tutto
troppo evidente e che il “colpo di scena” vi abbia stupito un po’ XD ♥
Per oggi è tutto, speriamo che abbiate
gradito il capitolo e che la storia non vi stia deludendo~
Capitolo 5 *** CAPITOLO IV ▪ Ballare assieme è peggio di amarsi. ***
Ballare assieme è peggio di amarsi.
▪
CAPITOLO IV ▪
Il
sole era tramontato da poco sul mare, tingendo il cielo d’arancione prima di
lasciare il suo posto ad una piccola luna, oscurata dalle luci dei locali e
delle discoteche.
Rain s’infilò la
felpa azzurra, cercando di ignorare Brice – seduto
sul letto – intento a blaterare qualcosa sul fatto che non capiva perché non
uscisse con loro, quella sera.
«La
verità è che hai un appuntamento e non me lo vuoi dire…»
borbottò infilandosi le scarpe, mentre Rain sospirava
per la centesima volta. Era tentato di dargli corda e di mentire, qualcosa come
“Sì, esco con il biondo che ti piace tanto”, ma si limitò a proferire un
«piantala di rompere i coglioni: non è un appuntamento!» – ed effettivamente
non lo era. O forse no? In qualsiasi
caso ferirlo era l’ultima cosa che voleva fare, anche se – ad essere del tutto
sinceri – trovava abbastanza improbabile il fatto che Brice
si fosse preso uno sbandata per un ragazzo con cui non aveva mai nemmeno
parlato – neppure sa se è gay, quel
pirla.
«Va
bene, come vuoi» ribatté Brice, alzandosi dal
materasso, «ma rimani comunque uno stronzo che non esce in compagnia» continuò,
lasciando poi la stanza senza aggiungere altro.
La
porta blu scura dell’Access si aprì
senza far rumore, mentre la musica – un remix abbastanza riuscito di Follow the Leader trapanava le orecchie a
tutti i presenti. Erano quasi le dieci di sera, il locale aveva aperto da
mezz’ora scarsa e, nonostante avesse vita giovane, sembrava godesse di una fama
tutta sua.
«Lavoro
qui» gli urlò all’orecchio Étienne, tenendogli la
manica della felpa per non perderlo tra la folla che entrava e usciva dal
posto. Lo tirò vicino a sé, accompagnandolo poi al bar in un lato della grande
sala illuminata di viola. Sorrise come se fosse un po’ in imbarazzo – chiunque lo sarebbe, portando un ballerino
classico in una discoteca.
E
prima che entrambi potessero dire qualcosa, una voce squillante e profonda si
fece strada a gomitate tra le persone. «Tyen!»
chiamò, e poco dopo una ragazza dalla pelle scura e i capelli ricci, tenuti
legati in uno chignon, si palesò vicino ai due – indossava un top rosso scuro
che lasciava ben poco all’immaginazione e i jeans a vita alta delineavano
perfettamente le curve delle gambe. Passò un braccio attorno a quello
dell’altro e gli sorrise, «non pensavo saresti venuto, è il tuo giorno libero…».
È la sua
fidanzata,
pensò con una nota di amarezza Rain, esasperandosi
ancora di più per il suo pensiero:ma che diavolo mi prende? Se ha una
fidanzata meglio per lui, no? Di certo non mi dispiace, pff!
L’unico che ci rimarrà di merda sarà Brice…in
realtà, e una piccola parte di lui lo sapeva, quello che ci sarebbe rimasto di
sasso sarebbe stato lui, ma scaricare le proprie disgrazie sugli altri gli
sembrava una buona tecnica per ammortizzare eventuali delusioni.
«Rain, questa è Vivienne» gli
disse Étienne, interrompendo il flusso di pensieri
dell’altro. Indicava l’amica di colore che intanto si dondolava a ritmo di
musica. I makeyouloseyourcabeza, Colombia…
«balliamo assieme, ogni tanto» confessò poi, liberando la ragazza dalla stretta
attorno alla spalla mentre questa faceva una giravolta.
Fantastico! pensò l’altro,
smascherandosi sempre di più – annuì sorridendo mentre nella sua testa il
pensiero di Étienne che ballava con quella certa Vivienne esplodeva in mille scintille, facendo prendere
fuoco ai suoi poveri neuroni – già alquanto provati dal continuo tunztunz del
remix. «Ballate bene?» si limitò a chiedere – chiedendosi per quanto ancora la
ragazza avrebbe fatto compagnia. E meno
male che doveva mostrarmi cosa significa “ballare”.
«Benissimo!»
intervenne lei d’un tratto, Reinhart si irrigidì sul
posto, «glielo facciamo vedere?» chiese poi, stringendo ancora il braccio
all’amico.
No. No, no e no.
«Sì!»
acconsentì l’altro, andando esattamente dalla parte opposta ai pensieri del
ballerino, «dopotutto…» mormorò, per quanto si possa
mormorare in una discoteca, «siamo qui per questo, no?» sorrise a Rain in un modo così contagioso che l’altro non poté fare
altro che ricambiare. «Chi c’è a fare il DJ, Vivy?»
le chiese, chinandosi leggermente sul suo orecchio.
«Jules!»
rispose.
Il
volto del biondo si dipinse di sorpresa, un’espressione piacevole su quel suo
viso magro e sereno. Rain, invece, sembrava ancora
confuso e leggermente turbato. «Vieni» gli disse, stringendogli di nuovo la
felpa e trascinandolo tra la folla, facendosi guidare da Tyen
e, a sua volta, da Vivienne.
Abbandonarono
Reinhart davanti alla pista e, mentreÉtienne andò a
parlare con questo fantomatico Jules, la ragazza fece sgombrare la pista,
lanciando pure un occhiolino al ballerino che, inebetito e ancora più confuso
dalla situazione, si limitò a sorriderle passandosi una mano tra i capelli.
Poi
Vivienne si mise al centro della pista, proprio davanti
a lui: assunse una cerca posa con un braccio sul fianco e l’altro lasciato
cadere, la gambe leggermente piegate e quella destra si appoggiava al pavimento
sulla punta del piede. *
La
musica cambiò, le luci si abbassarono mentre i sussurri di Michael Jackson
invadevano il tutto, vibrando sulla pelle di tutti – incantando i presenti. The way she came into the place, I knew right then and there. Therewassomethingdifferentaboutthis girl.
Étienne apparse dietro l’altra come un’ombra, un tonfo – facente parte della
melodia – accompagnò un brusco ma gradevole cambio di posizione: Vivienne aprì le braccia come a formare una diagonale,
dietro di lei il ragazzo fece lo stesso movimento – dalla posizione di Rain si vedeva una croce perfetta.
E incominciarono dei movimenti leggeri, che senza
toccarsi sembravano carezze. Erano le mani che si muovevano, i piedi, le spalle
e persino le dita che, da sole, con un semplice gesto, trasmettevano un’energia
tale da far sembrare tutti gli sforzi fatti da Reinhart
nella scuola quasi inutili e ridicoli. Aveva ragione, lui, a pensare che il
fatto che ballassero assieme fosse peggio dell’amarsi: era una sintonia
speciale, come se il sincronizzare i gesti di uno con quelli dell’altra
richiedesse un’energia condivisa da entrambi. E non si guardavano – rimanevano
seri a fissare il nulla, come in un sogno ad occhi aperti.
Saltarono, cadendo a terra come richiedeva la
coreografia, accompagnati dal rumore del vetro che si rompeva. Il pubblico
scoppiò in un boato di complimenti, applaudendo e urlando, trascinando Rain in quell’euforia contagiosa. Étienne
si alzò, aiutando Vivienne a fare altrettanto. Jules
fece partire Can’t HoldUs, il singolo di un rapper uscito l’anno prima,
remixandolo a dovere – lo stesso partito per caso dall’iPod del ragazzo quando si era
fatto vedere per la prima volta alla classe della Madame. La folla si sparse sulla pista e il biondo ritornò dal
ballerino.
«Vivy è andata via, aveva
delle amiche che la aspettavano» lo informò, passandosi una mano sui capelli
scompigliati, sorrideva come se danzare sulle note di Dangerouslo avesse purificato, «allora, come ti è sembrato?».
Rain non rispose subito – si limitò a guardarlo un po’ inebetito, alzando poi
gli occhi come per cercare le parole. Étienne lo
invitò a sedersi e rimasero a parlare fino a quando, come riemerso da una dolce
apnea, Reinhart non si accorse dell’orario
inaccettabile.
«Mi chiuderanno fuori e sarà la fine!» esclamò,
lasciando la birra ormai vuota sul tavolo e infilandosi la felpa.
Si salutarono velocemente con la promessa di
rivedersi quel lunedì, a lezione, e quando Rain
arrivò al dormitorio il custode stava chiudendo la portineria – appena in tempo, si disse, tirando un
sospiro di sollievo.
Quando entrò in camera, Brice
stava già dormendo.
Rain si paralizzò davanti all’insegna del locale, costringendo Régine –
attaccata al suo braccio – a fermarsi di colpo con lui. «Volete davvero entrare
qui?» domandò, sperando che almeno la ragazza – sua compagna nel pas de deux – gli
desse corda, convincendo Brice ad andare altrove.
«Perché no? Ha aperto da poco, dicono che è un bel
posto!» affermò convinta la ballerina, deludendo le sue aspettative – di tutti i posti che esistevano proprio l’Access, bene. Non che qualcosa in particolare
lo infastidisse, ma ricordava l’ultima volta in cui ci era stato, due settimane
prima, e ricordava anche che Étienne lavorava lì:
l’ultima cosa che voleva era incontrarlo con Brice in
mezzo ai piedi, soprattutto ora che si erano visti quasi tutti i giorni per la
questione del “devi scioglierti, amico”.
«Eddai, Rain! Non lamentarti, per una volta» borbottò ancora la
ragazza, tirandolo per il braccio oltre la porta – troppo tardi! Si lasciò guidare fino al bar, tenendo la rossa
saldamente per il braccio mentre Brice li precedeva,
facendosi strada fra la folla. Non osava guardarsi attorno, tanto meno dietro
al bancone: prima avrebbero finito, meglio sarebbe stato. Lasciò che Brice ordinasse da bere, e poi andarono a sedersi, mentre
Régine ondeggiava a tempo di musica sui tacchi altissimi, rischiando di
rovesciarsi il drink addosso – non sarebbe stata la prima volta, dopotutto.
«Finalmente siamo usciti tutti e tre: io con i miei
maschioni» ridacchiò, poggiando il capo sulla spalla di Rain,
«Anche se domani mattina abbiamo lezione presto ed io arriverò in ritardo…» borbottò pensierosa, come se per una frazione di
secondo l’idea di essere uscita le fosse sembrata sbagliata, «ma non me ne
frega un cazzo!» affermò poi, tornando a bere il suo drink.
«A te non frega mai un cazzo di niente, Régine»
replicò Brice con un sorriso, ed effettivamente era
vero: sembrava stare su un altro pianeta, perennemente fra le nuvole. Era una
razza a parte, svampita ed esaltata, ma incredibilmente dolce. La serata
trascorse tranquilla: Régine ballava; Brice beveva e
anche Rain, dopo i primi dieci minuti, aveva trovato
uno sprazzo di stabilità. Tutto proseguì per il meglio e, quando venne il
momento di andare a recuperare Régine sulla pista da ballo, la voce di Brice gli trapanò l’orecchio, più di quanto avesse fatto la
musica fin’ora: «Rain, guarda dov’è!» gli disse, ma
il punto non era tanto il “dove”, ma il “con chi”. Alzò gli occhi nel punto in
cui Brice stava indicando, e lì, dietro la console
del DJ – con il DJ – c’era Régine, intenta a ballare come se non ci fosse un
domani. Rimasero un attimo basiti entrambi, mentre Rain
cercava di metabolizzare il fatto che aveva passato la serata ad evitare il
bar, quando il suo unico vero problema era sempre stato là, dove la ragazza si
stava muovendo – probabilmente ubriaca – , dove Étienne
metteva i dischi. Étienne. Sì.
In effetti lui aveva detto che lavorava lì, ma non
cosa faceva con precisione. Sospirò tirando la manica della felpa all’amico,
chinandosi vicino al suo orecchio, «vado a recuperarla e torno!» affermò,
cercando di sovrastare con il tono della voce la musica troppo alta. Si fece
largo fra la gente seguito da Brice che, forse perché
c’era il suo biondino, forse perché
non aveva capito una parola di quello che gli aveva detto, lo seguì a ruota.
Quando la raggiunse la prese per i fianchi,
portandosela vicino, «Régine, dobbiamo andare!» dichiarò categorico, cercando
di convincerla ad uscire da lì, ma lei lo guardò corrucciando le sopracciglia,
borbottando qualcosa di molto simile ad un «non voglio venire».
Rain sospirò esasperato, prendendola di peso mentre si lamentava: era sempre
la solita storia, lei faceva così e poi rischiavano di fare tardi per un pelo.
«Muoviti, su. Domani mattina mi ringrazierai…» le
disse, ma prima che riuscisse a portarla via il suo sguardo incrociò quello del
ragazzo che stava cercando di evitare – o forse ignorare, non lo sapeva nemmeno
lui – per tutta la sera. Lo vide sorridere e alzare la mano in segno di saluto,
mentre lui cercava di sollevare Régine dal pavimento sul quale si era lasciata
scivolare. Non disse nulla, si limitò a ricambiare con un sorrisino sghembo, e
poi si caricò Régine in braccio, uscendo dal locale.
Erano arrivati con qualche minuto di anticipo, per
loro fortuna. Avevano riaccompagnato Régine fino alla sua stanza, e poi
l’avevano lasciate nella mani della sua compagna – oramai avvezza allo stato in
cui lei si ripresentava almeno una volta a settimana – , e poi se n’erano
tornati in stanza con un imbarazzante silenzio a fare da sfondo.
Ed ora erano lì, nei due letti, cercando di
addormentarsi e far riposare le orecchie martoriate dall’incessante martellare
della musica. «Da quando siete così amici?» domandò d’un tratto Brice, facendo crollare quel manto di calma e tensione che
si era venuto a creare.
Rain non si girò nemmeno a guardarlo, rimase con gli occhi chiusi, steso sul
fianco, facendo semplicemente il finto tonto, «chi?» chiese, come se non avesse
capito chi fosse il soggetto della conversazione.
«Tu e il biondino…Étienne» gli rispose l’amico, il tono della voce a metà fra
l’irritato e il nervoso – sapeva sarebbe successo prima o poi, ma meglio poi
che prima.
«Ci vediamo ogni tanto…»
spiegò Rain, sistemandosi le coperte, «e adesso
dormi, che è tardissimo» tagliò corto, cercando di distoglierlo da quel dialogo
che non voleva fare.
«Certo…» borbottò Brice, rigirandosi sul materasso per dargli le spalle,
facendo sospirare Rain – era bravo in quello, era una
delle poche cose che sapeva fare.
«Non gli piacciono i ragazzi, e adesso smettila e
dormi» ribatté piuttosto irritato, ma alla fine era la verità, o almeno, era
quello che gli era sembrato nelle tre settimane in cui avevano parlato.
Seguì un attimo di silenzio che fece sperare a Rain di aver messo finalmente un punto a quella
chiacchierata notturna, ma non durò molto, il tempo che Brice
assimilasse il tutto e tornasse alla carica: «te l’ha detto lui?» gli chiese,
il tono della voce più calmo.
«No, ma secondo me è così» ammise, cercando di
trovare la posizione giusta per dormire.
«Sei un coglione…»
brontolò, tirandosi le lenzuola fino al naso, «dimmi almeno se è simpatico,
perché che è carino lo vedo da solo e mi basta» continuò, cercando di
mascherare l’evidente rabbia che la situazione gli aveva fatto nascere.
Dopotutto Rain era sempre stato primo in tutto, e
anche quando non era primo stava comunque un passo avanti a lui: era una cosa
che non riusciva a sopportare, e che mai avrebbe imparato a digerire.
«Non è il tuo tipo, e adesso possiamo dormire?»
domandò retorico, premendosi il cuscino sulla faccia.
Brice scoppiò in una risatina pressoché isterica, «ma immagino che sia il tuo
tipo, giusto?» ribatté acido, rigirandosi di nuovo sotto le coperte. «Ti
detesto, davvero. Sei uno stronzo…» continuò a
lamentarsi, tentato ad alzarsi e provare a soffocarlo con il cuscino, «se te lo
scopi almeno fammelo sapere, te ne sarei davvero grato!» affermò ironico,
aspettandosi una qualche risposta da Rain che,
purtroppo per lui, non arrivò.
«Mi sono
innamorata della danza perché è l’unica arte che si avvicina all’amore.
Si fa con
il corpo, l’anima e il cuore, almeno nei casi migliori.»
– VittoriaOttolenghi –
WE
LIVE AND BREATHE WORDS – note d’autrici.
Siamo arrivate puntuali nel weekend,
sebbene ci siano stati piccolo intoppi di malanni e cose del genere.
Insomma, siamo qui, e speriamo che nonostante
i tagli che siamo state costrette a fare vi sia tutto chiaro, altrimenti
chiedete pure. Rain e Tyen
si conosco da tre settimane, oramai. Si sono visti quasi tutte le sere, perché
alla fine Étienne gli sta dando una mano, e lo sta facendo in modo contiguo, ma a noi non
sembrava il caso di propinarvi cinquanta capitoli tutti così, eh. Insomma, vi
abbiamo alleggerito il carico, ecco.
Intanto vi diciamo che l’Access esiste davvero, è davvero a Cannes, e se cercate su Google
lo trovate, sì. Mentre, questi sono Brice e Régine,
se qualcuno volesse vedere i loro musini, ecco: Brice. Régine.
Il resto… non lo so, sono malaticcia
e voglio bermi un latte e cacao fresco, quindi facciamo che vi indico(?), se
non lo avete trovato, il link del ballo nel testo: cercatelo bene, chi cerca
trova! E per il resto vi lasciamo il remix di Follow
the Leader e di Can’t HoldUs – se qualcuno volesse
ascoltarli. Vi diciamo anche che noi non siamo persone da discoteca, quindi è
tutta Licenza Poetica, insomma.
Ecco, finito! Speriamo vi sia piaciuto, e vi
ringraziamo ancora molto per le recensioni e il seguito. ~
Capitolo 6 *** CAPITOLO V ▪ Platessa e zucchine. ***
Platessa e zucchine.
▪
CAPITOLO V ▪
Rain punzecchiò con
la forchetta il filetto di platessa che aveva nel piatto, riducendolo
letteralmente in poltiglia.
Non
gli piaceva un granché il pesce, ma non poteva permettersi di non bilanciare la
dieta, e così lo mangiava comunque – controvoglia, ma lo faceva lo stesso. Il
trucco era mischiarlo con le zucchine, così da confonderne il sapore e riuscire
comunque a pulire il piatto senza vomitare, e, dal momento che amava le
zucchine, quella gli era sempre parsa la soluzione più logica. Mischiò il tutto
premendo con la posata, alzando poi lo sguardo verso l’espressione schifata di Étienne, intento a mangiare la sua insalata di
pollo.
«Che c’è?» gli chiese, conscio che l’intruglio
che aveva prodotto nel piatto aveva un aspetto disgustoso e un sapore che
sfiorava l’accettabilità.
«Ammiravo il tuo odio verso quel povero pesce…» ammise, tornando poi a concentrarsi sulla sua insalata,
come se niente fosse.
E’ stato carino, però. Poteva mangiarsi qualcosa di decente,
e invece si è preso solo l’insalata. Non sapeva se
effettivamente lo avesse fatto per compassione, o perché semplicemente gli
andava così, ma in qualsiasi caso gli aveva risparmiato la sofferenza di
osservarlo mentre mangiava una pizza, per esempio. «Non mi piace il pesce e
basta» spiegò, portandosi poi un boccone di quella poltiglia alle labbra, «se
lo mangio così sa di zucchine» aggiunse poi, dopo aver deglutito – fa cagare comunque, in realtà! Ma non
era rilevante, alla fine.
«E allora perché lo mangi?» gli chiese l’altro,
osservando di nuovo la purea di platessa. Sembra
vomito, lo so – Rain avrebbe voluto dirglielo, ma
il solo pensiero lo nauseava: sto
mangiando una cosa che sembra vomito, che bello!
«È complicato, ma devo mangiarlo, così come mangio
tutto il resto» rispose, ingoiando poi un altro boccone. Alla fine aveva
imparato a gestire la sua dieta nel corso degli anni, e a mangiare tutto, anche
le cose che al suo palato risultavano cattive.
«Come mia madre… ho
presente» commentò Étienne, abbandonando la forchetta nel piatto. «Comunque siete
pazzi, io non ce la farei mai» confessò con un sorriso, portandosi poi il
bicchiere alle labbra. Non era la prima volta che Rain
lo vedeva increspare le labbra così, e non era nemmeno la prima volta in cui
aveva pensato che, quando sorrideva, era uno spettacolo fantastico. Ma che cazzo faccio?
«Bisogna solo farci l’abitudine…»
si affrettò a rispondere, scacciando quei pensieri molesti che lo mettevano a
disagio – mi sto comportando come Brice, si disse, mangiando un altro boccone. Ma poi gli
venne in mente che Brice non si sarebbe limitato ai
pensieri, e che in realtà non era ancora caduto così in basso.
«Domani hai lezione?» – la domanda gli arrivò
lontana, come una voce troppo distante che lo guidava, trascinandolo di nuovo
alla realtà, davanti a quel piatto di sbobba verdastra. Cosa?
«Sì, domani è giovedì» rispose prontamente, sperando
che il suo cervello avesse recepito il giusto messaggio, «perché?» chiese,
cercando di capire dove volesse andare a parare.
Étienne si strinse nelle spalle, sfoggiando un altro di quei sorrisi
che lo disarmavano, «Volevo chiederti se volevi venireall’Access,
ma domani hai lezione, quindi immagino che la risposta sia no» disse, e un
pensiero malsano si fece strada nella testa di Rain –
stiamo flirtando? Non era la prima
volta che si poneva quella domanda, ma dal momento che la sua mente era
annebbiata da quell’attrazione fisica che si ostinava a rinnegare, tanto valeva
ripudiare anche quella stupida idea.
«Ti fai le domande e ti rispondi da solo?» gli
domandò ironico, cercando di ripulire il piatto in fretta, «se dico di sì?»
aggiunse con un sorrisino che, inevitabilmente, ne fece sbocciare un altro
sulle labbra di Étienne.
«Se dici di sì ci vediamo alle dieci qua sotto,
se invece devi andare a dormire alle sei del pomeriggio, ci vediamo Lunedì a
lezione» spiegò poggiando la schiena alla sedia, stirando i muscoli delle
braccia.
Régine ridacchiò rotolandosi sul materasso,
osservando Rain estrarre una maglia dall’anta
dell’armadio che era costretto a condividere con Brice.
«Chi è il fortunato che si beccherà tutto questo ben di Dio, stasera?» domandò
passandosi le dita fra i capelli ramati, legandoli poi in quello che – con
molta fantasia – sarebbe potuto sembrare uno chignon. Vide il suo compagno di
ballo irrigidirsi appena, e poi infilarsi la maglietta stringendosi nelle
spalle: «uno…» si limitò a risponderle, dandole la
schiena.
«Uno figo?» ribatté subito
lei, senza perdere neanche per un secondo quel sorriso che le colorava il viso.
«Perché se è sexy e gay potrei incazzarmi parecchio» scherzò poggiando la testa
sul cuscino – non voleva metterlo in imbarazzo, solo sapere, ammesso che lui le
concedesse questo privilegio. Dopotutto Rain era
sempre stato molto introverso, riguardo alle sue emozioni, come se non
conoscesse altro modo per esprimersi al di fuori della danza.
«È un bel ragazzo, ma non è gay, e non è un
appuntamento» le rispose, accantonando quel suo solito tono acido che usava
spesso con Brice. Avevano un rapporto di reciproco
rispetto, loro due. Si erano sempre trovati in sintonia, ed era anche per
questo che ballavano assieme, che lei si fidava ciecamente di lui. Era come
amarsi: come se le loro anime facessero l’amore ogni volta che iniziava la
musica.
«Ma lui ti piace, e ci stai male…»
mormorò lei, facendogli intuire che – per quanto lui tentasse di nasconderlo –
si capiva dal tono della sua voce, dalla postura del suo corpo, e dai suoi
occhi – soprattutto dai suoi occhi. «Non me ne vuoi parlare un po’?» aggiunse
poi, sapendo di aver centrato in pieno la ferita sanguinate che stava provando
a celare dietro il suo solito menefreghismo. Fa tanto il duro, ma è fragile come un cristallo – e lei lo sapeva
bene, fin troppo.
Attese una risposta che tardò ad arrivare,
probabilmente perché lui stava ancora tentando di lenire il dolore che lei
aveva riesumato, portato a galla, dove anche lui poteva vederlo e sentirlo
chiaramente.
«Non c’è niente da dire, è così e basta» le disse,
sforzandosi di sorridere, chinandosi poi a lasciarle un bacio sulla fronte. «E
adesso vado, altrimenti faccio tardi…» tagliò corto,
scappando per l’ennesima volta dalle sue emozioni.
Le luci al neon del locale gli davano alla testa,
esattamente quanto i pantaloni troppo aderenti che Étienneaveva deciso di indossare quella sera. Si era ripetuto più volte che,
continuando a fissargli il sedere e le gambe fasciate nei jeans, non avrebbe
assolutamente risolto nulla, e tanto meno avrebbe conservato una parvenza
d’integrità mentale. Ma era come una calamita e lo sguardo continuava a cadere
involontariamente lì.
Avevano trascorso parte della serata a parlare, o
meglio, a tentare di chiacchierare sopra la musica troppo alta, fino a quando Étienne non gli
aveva proposto di ballare, offerta che lui aveva rifiutato senza nemmeno
pensarci sopra due volte. Mi ha fatto
vedere qualche passo, ma non è il mio genere e basta, si era detto mentre
lo osservava raggiungere il DJ che metteva i dischi quella sera. Questione di
qualche minuto, il tempo che altri tre ragazzi sgombrassero la pista, e poi la
musica partì con due finte. *
La
maniera in cui il suo corpo si muoveva, ogni volta, lo lasciava senza fiato,
come se tutta l’aria sparisse, risucchiata dai gesti delle sue mani, dei suoi
fianchi, del suo fisico che si spostava nello spazio, a ritmo con le note di
quella canzone. Era come una tempesta che arrivava e cancellava tutto,
distruggendo le sue autoconvinzioni, radendo al suolo ogni suo “no”, ogni
pensiero razionale che si imponeva. C’era solo Étienne, solo lui e la musica. Niente aveva più
senso o importanza, e mentre lo guardava ballare, mentre il suo corpo si
muoveva parlando, sussurrandogli cose che fino ad ora si era sentito dire solo
nella sua immaginazione, la consapevolezza lo assalì di colpo.
Prima che questo ballo sia finito, si disse, penso che
mi sarò innamorato di te.
E poi la musica finì, riportando l’ossigeno ai
suoi polmoni, trascinandosi via il pensiero che forse non aveva capito nulla di
quel ragazzo biondo che continuava a fargli saltare i nervi, a mandargli in
tilt il sistema nervoso.
Lo guardò tornare da lui con il sorriso stampato
sulle labbra, lo stesso che lo aveva fatto impazzire durante l’ora di pranzo –
quello che lo distruggeva ogni volta, che lo aveva rapito dal primo istante in
cui l’aveva visto.
Perché era un sorriso fantastico e solare,
contagioso, e ogni volta che lo osservava mentre arricciava le labbra non
poteva fare a meno di ricambiare, senza forzarsi. Non lo sapeva se era stato
quello a farlo innamorare, se era stato l’ultimo ballo che aveva fatto, oppure
se era una cosa che andava avanti da tempo, da quando si era conosciuti. Non lo
sapeva e non voleva saperlo, perché Étienne per lui
era come un intricato rompicapo da cui non riusciva a venire fuori – a cui non
voleva trovare una soluzione.
L’aria fresca della notte gli accarezzò il viso,
facendolo rabbrividire. Si era sforzato di fingere che non fosse successo
nulla, che quello che provava era solo una piccola ferita che si era già
rimarginata, lasciando il posto ad una cicatrice che si sarebbe sbiadita con il
tempo. Era questo il problema che aveva sempre avuto: essere omosessuale lo
frenava in tutto, soprattutto quando si trattava di ragazzi.
Aveva dato dell’idiota a Brice
perché non sapeva se Étienne fosse o meno dell’altra sponda,
ed ora lui aveva fatto lo stesso, se non di peggio – perché mi devo sempre mettere in queste situazioni del cazzo?
Socchiuse gli occhi lasciando che la brezza leggera gli sfiorasse la pelle del
volto, riempiendogli le narici, portando l’ossigeno ai suoi muscoli stanchi,
fiacchi per via delle lezioni che era costretto a sopportare tutti i giorni.
Riusciva a vedere con la coda dell’occhio Étienne, in piedi sul muretto che costeggiava il lungo
mare, mentre come un equilibrista camminava sul cemento con un piede davanti
all’altro. Sapeva che faceva parkour, che era uno di quelli che si divertiva a
fracassarsi le ossa saltando da un palazzo all’altro, quindi per lui non era
difficile fare una cosa del genere, no? Ma non riuscì nemmeno a concludere il
cerchio del pensiero che, dal nulla, il ragazzo perse l’equilibrio mettendo un
piede in fallo e lui, istintivamente, gli afferrò il braccio, riportandolo
saldamente con i piedi sul terreno.
Successe tutto nella frazione di qualche secondo,
tempo che la sua mano gli circondasse il bicipite e lo tirasse verso di sé,
lontano dal muretto. Il tempo di uno sguardo, di un respiro che per un attimo
gli sembrò tanto vicino da mischiarsi con il suo. Il tempo di un «grazie»
mormorato con quello che gli sembrava imbarazzo, e poi sentì l’improvviso
impulso di poggiare le labbra sulle sue, di baciarlo senza un perché, senza
sapere se questo avrebbe mandato in frantumi tutto quanto, o se avesse messo le
basi per la risoluzione di quel rebus che da un mese tentava di risolvere. E lo
fece senza pensarci, lo fece e basta, stringendoselo contro quel tanto che
bastava, senza costringerlo troppo. Lo fece per una frazione di secondo, mentre
il battito del cuore gli rimbombava forte nelle orecchie, a tempo con una delle
canzoni troppo alte che arrivava da uno dei locali.
Lo fece, e quando le loro labbra si separarono,
quando lo sguardo celeste di Étienne incrociò il suo
facendolo vibrare appena per quella che forse era paura, o forse semplice e
irrefrenabile necessità di averne ancora, di averne di più, si sentì morire. Che cazzo ho fatto?
«Scus―» fu l’unica cosa che riuscì a biasciare, prima
che Étienne lo zittisse con un bacio, accontentando
quella sua tacita richiesta, radendo al suolo ogni suo “no”, ogni
pensiero razionale che si imponeva.
«Danzare è come parlare in silenzio.
È dire molte cose, senza dire una parola.»
–Yuri
Buenaventura–
WE
LIVE AND BREATHE WORDS – note d’autrici.
Vi chiediamo scusa per il leggero ritardo,
ma siamo soggette al cosiddetto “Blocco da quinto capitolo” – soprattutto se è
un capitolo come questo. Chiediamo anche perdono per l’introspezione pesante e
la quasi completa assenza di dialoghi, ma volevamo che entraste nella testa di Rain, che capiste fino in fondo il tutto, però con i suoi
occhi, non con quelli di Étienne.
Per il resto non credo ci sia molto da dire, loro
si conoscono da un mese, quindi era anche ora che Rain
si decidesse a fare qualcosa, a mio parere. E nulla, si vedrà. Non vi
anticipiamo niente, ovviamente.
Speriamo come sempre che abbiate trovate il link
del ballo dentro al testo, e ci teniamo a farvi sapere che noi consideriamo Étienne il tipo con le scarpe
rosse: cercatelo, e lo troverete!
Per quanto riguarda la dieta dei ballerini, vi
giuriamo che in un capitolo prossimo approfondiremo la cosa per bene, spiegando
tutto. Fidatevi di noi, insomma.
Nulla… speriamo come sempre che sia tutto chiaro, e che questa
storia continui a piacervi.
Volevamo lasciarvi il gruppo che gestiamo su Facebook con altre admin, dove si
spammano le storie e si parla un po’. A panda piace fare le
bolle d’Assenzio. Se volete unirvi a noi. ~