It's elementary, Watson. The fact that I love you

di millyray
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


CAPITOLO UNO

Quando John quella mattina si svegliò ed entrò in cucina con i capelli ancora spettinati e gli occhi gonfi per il sonno, trovò Sherlock seduto al tavolo del salotto a fissare qualcosa sullo schermo del computer, l’attenzione rivolta soltanto a quello. Niente di nuovo, insomma e anzi, doveva ringraziare il cielo che non si fosse messo a strimpellare col violino che, per quanto bravo fosse a maneggiarlo, non era affatto piacevole sentirlo la mattina presto quando lui aveva fatto tardi na notte prima. Peggio ancora sarebbe stato se si fosse messo a sparare contro il muro. Almeno aveva qualcosa da fare.

“Hai comprato il latte?” gli chiese John senza nemmeno voltarsi a guardarlo, ma tutto quello che ricevette in risposta fu un mugugno poco chiaro. Tanto la risposta la ottenne da sé, aprendo il frigo e notando che non c’era il latte. Anzi, non c’era quasi niente, a parte un limone ammuffito, una scatola di carote, una bistecca e un barattolo con delle cose strane dentro sui cui evitò di indagare; sicuramente era qualche parte umana su cui Sherlock doveva fare degli esperimenti e meno ne sapeva meglio era. E ora dopo il lavoro gli toccava pure fare la spesa. Mica si aspettava che la facesse Sherlock, no, assolutamente no.
E si sarebbe pure dovuto accontentare di bere il tè senza latte. A meno che non fosse sceso giù per chiederlo alla signora Hudson, ma non ne aveva voglia.

“Fai il tè anche per me”, sentì dire dalla voce del suo coinquilino che ancora non aveva distolto gli occhi da quello che stava guardando. Sicuramente si trattava di un caso.

John sospirò rassegnato, rinunciando a qualsiasi obiezione avesse voluto porre, tanto era inutile. Finì di preparare il tè e, con due tazze in mano si diresse, verso il salotto alla postazione di lavoro di Sherlock. Ne posò una sul tavolo accanto al moro e poi si appoggiò sul bordo del suddetto sorseggiando dalla sua.

“Stai lavorando su un caso?” gli chiese, più per educazione che non per vero interesse. Era ancora troppo addormentato per concentrarsi su uno dei complicatissimi casi del detective.
Sherlock osservò il suo profilo con la coda dell’occhio, soffermandosi sulle pieghe dei pantaloni della tuta che indossava e su una piccolissima porzione di pelle che si intravedeva sul fianco sinistro perché aveva indosso una canottiera che gli stava un po’ piccola forse. C’erano solo due soluzioni piuttosto plausibili: o non aveva più canottiere pulite e della sua taglia corretta oppure aveva indossato la prima cosa che aveva trovato, senza fare caso a come gli stesse addosso. Non che gli stesse male, certo… Ma non era John che doveva studiare, piuttosto era quel caso, che richiedeva tutta la sua attenzione e concentrazione.

“Non è niente di importante”, rispose, le mani che digitavano qualcosa sulla tastiera.

“Ah no?” John si allontanò dalla scrivania per poter vedere il computer e constatare che sembrava essere il progetto di un edificio o qualcosa di simile. Che Sherlock volesse costruire una casa? Non se ne sarebbe stupito… ma no, di certo si trattava di un caso.
“D’accordo, allora io vado al lavoro”. Si diresse di nuovo verso la cucina per mettere giù la sua tazza di tè, e poi tornò nella sua stanza. Sherlock lo guardò andare via nel riflesso dello schermo.

 

Era un’altra mattinata noiosa, fin troppo noiosa. Da quando abitava con Sherlock trovava noiose molte cose e ormai niente lo divertiva abbastanza quanto una sana fuga da terroristi, assassini, psicopatici o chiunque li volesse uccidere. Cominciava a temere di star diventando come il suo coinquilino, ovvero una persona con istinti suicidi e amante del pericolo. Ma no, ce ne voleva per diventare come Sherlock. In ogni caso, non voleva diventare come lui e non perché il suo atteggiamento non gli piacesse – be’, qualche lato del suo carattere era decisamente terrificante – ma perché di Sherlock ce ne poteva essere uno solo. Era unico nel suo genere, diverso, particolare e questa era una cosa… bella. Sì, bella, per quanto certe volte fosse insopportabile. Ma di un’insopportabilità divertente.
Chissà cosa stava facendo adesso. Forse era ancora impegnato su quel caso di cui non aveva voluto dirgli niente o forse stava facendo qualche esperimento in cucina. Magari avrebbe potuto mandargli un messaggio.
Prese il cellulare dalla scrivania e rimase a fissare lo schermo. Ma no, perché avrebbe dovuto? Non erano affari suoi, qualsiasi cosa stesse facendo. Potevano stare per qualche ora senza sentirsi, giusto?
Giusto…

“John”. Sarah bussò alla porta del suo ufficio, infilando solo la testa dentro. Da quando si erano lasciati il loro rapporto era andato incrinandosi e ora si trattavano solo come dei normalissimi colleghi che si rispettano ma che non provano alcun interesse l’uno nei confronti dell’altro. “E’ arrivata la signora Turner”.

“Falla accomodare”.

Il dottore sospirò e si preparò ad un’altra solita e banalissima diagnosi.

 

Sherlock sedeva in salotto sulla sua poltrona, lo sguardo fisso in un punto che non vedeva. Cercava di mettere ordine nel suo palazzo mentale e ciò richiedeva non poca concentrazione.
Il quiz televisivo che aveva visto ieri sera in cui un signore aveva sbagliato tutte le risposte, persino le più banali… inutile, da eliminare. La signora Hudson che gli chiedeva notizie di suo fratello perché non lo vedeva da un po’… anche quello inutile. John che gli chiedeva di comprare il latte… poco rilevante perciò poteva archiviarlo. John che quella mattina molto gentilmente gli portava il tè e sempre molto gentilmente gli chiedeva informazioni su quel caso e poi la sua figura che si allontanava e… no, no, stava divagando. Però quello non era tutto da buttare. Magari avrebbe potuto conservarlo.
E ora… ora poteva concentrarsi su quel nuovo mistero affidatogli da Mycroft. Il suo caro fratello sospettava che un ramo della mafia inglese stesse spacciando droga e i suoi occhi da ragno avevano notato diverse persone muoversi attorno ad un edificio abbandonato che si trovava poco fuori Londra. Doveva innanzitutto verificare che i suoi sospetti fossero fondati e capire che interesse potesse avere la mafia nel spacciare della droga. Per questo aveva bisogno dell’aiuto di Sherlock, perché non sapeva mai risolvere  niente da solo.

Il solito vecchio Mycroft, pensò il consulente detective alzandosi di scatto dal divano.

Inizialmente era stato un po’ titubante ad accettare il caso, ma alla fine aveva deciso che poteva essere divertente. E poi aveva iniziato ad annoiarsi e una qualsiasi distrazione gli sarebbe andata bene.
Più tardi ne avrebbe anche parlato a John, sicuramente lo avrebbe trovato divertente anche il dottore e non avrebbe esitato a farsi trascinare con lui. Magari poteva telefonargli immediatamente per informarlo e dirgli di tornare a casa così potevano mettersi subito al lavoro, ma cambiò idea subito dopo; non era una buona soluzione, sicuramente lo avrebbe fatto innervosire visto che era al lavoro e che detestava essere interrotto mentre lavorava, specialmente se era qualcosa di importante. Per quanto dei pazienti con le emorroidi potessero essere importanti. Glielo ripeteva sempre, che il suo lavoro era noioso.
E poi perché doveva lavorare? Poteva bastare lo stipendio che prendeva lui come consulente detective, così poteva rimanere a casa e seguirlo nelle missioni. Era confortante averlo accanto.
Ma tanto John era cocciuto. E va be’, che cosa ci poteva fare? Era meglio mettersi a lavorare a qualche esperimento in cucina, piuttosto che scervellarsi su queste questioni senza capo né coda.

 

Quando John rientrò a casa quel tardo pomeriggio, scoprì che il suo coinquilino non era in casa. Si tolse la giacca e poggiò la borsa sul suo letto, poi gli mandò un messaggio per chiedergli che fine avesse fatto.
Si guardò un po’ attorno, costatando che c’era bisogno di mettere ordine nell’appartamento. Sherlock aveva combinato qualche esperimento, a giudicare dalla confusione che regnava sul tavolo della sala da pranzo.

Stava proprio per mettersi a sistemare, quando la Signora Hudson venne a bussargli alla porta.

“Tok, tok, John. È permesso?”

“Sì, certo, Signora Hudson!” la accolse lui, sempre col solito sorriso gentile che non poteva fare a meno di riservarle ogni volta che la vedeva. “Come sta?”

“Oh, caro, mi fanno un po’ male le giunture. Tu stai bene?”

“A parte la stanchezza, non mi lamento. Preparo del tè, le va?”

“Non rifiuto mai una buona tazza di tè”.

John corse subito in cucina a mettere il bollitore pieno d’acqua sulla fiamma del fornello. Non aveva molta voglia di chiacchierare con la Signora Hudson, però non poteva nemmeno cacciarla via. E in ogni caso un po’ di distrazione non gli avrebbe fatto male.

“Sherlock non c’è?” chiese lei, quando il dottore le ebbe messo in mano la tazza di tè caldo e lei si fu accomodata sulla poltrona solitamente occupata dal detective.

“No, è uscito prima che io tornassi. Non so dove sia andato”. In quel momento si ricordò di aver mandato un messaggio a Sherlock, perciò tirò fuori il cellulare per controllare e, notando che non aveva ricevuto risposta, faticò a non lasciar trapelare dal volto un broncio di disappunto e di delusione. La signora Hudson comunque non se ne sarebbe accorta, visto che era tutta intenta a raccontare delle sue avventure del passato col defunto marito, un’espressione estasiata e gli occhi fissi al soffitto.
Tutto quello che fece John fu annuire e sorridere quando vedeva ridere lei. In realtà non stava ascoltando neanche una parola. Era completamente distratto da altri pensieri, tra cui i motivi per cui Sherlock non gli aveva risposto. Di solito lui leggeva subito i messaggi. Se avesse saputo dove fosse andato sarebbe corso da lui. Ma non poteva nemmeno trattarsi di un caso perché altrimenti il detective gli avrebbe chiesto di raggiungerlo. Lo faceva sempre.

Fortuna che la Signora Hudson non si trattenne molto e dopo mezz’ora decise di scendere nel suo appartamento. Ringraziò John per la tazza di tè e lo lasciò coi suoi pensieri.
Il dottore allora si mise subito a riordinare, cercando di scacciare via il pensiero di Sherlock chissà dove.

C’erano dei vestiti del suo coinquilino sparsi sul divano. John prese in mano una camicia e, cercando di piegarla, se la portò al naso senza nemmeno accorgersene, inspirando il buon odore che emanava. Ma che cosa diamine stava facendo? Doveva essere molto stanco per mettersi ad annusare le camicie di Sherlock.
Mise in un cesto tutti i vestiti che trovò sparsi in giro così da poterli portare in lavanderia in un secondo momento, e andò a mettere in ordine la cucina.
A dispetto di quello che aveva pensato, non ci mise molto a sbrigare queste noiose faccende domestiche. Però non poteva neanche negare che la casa avesse bisogno di una spolverata da cima a fondo, ma decisamente non era quella l’ora in cui mettersi a farlo.

Alle sei uscì di nuovo di casa per andare a fare la spesa. Il supermercato non era molto lontano, perciò decise di andarci a piedi. Comprò tutte le cose di prima necessità, tra cui il latte, e alla fine si ritrovò nel reparto dei dolciumi. Vide, poggiate su uno scaffale in basso, alcune confezioni di caramelle Kitsy e, sapendo che a Sherlock piacevano molto, ne prese una senza neanche pensarci. Infine, con il cesto pieno di cibo, si diresse alla cassa a pagare. Per fortuna non era affollata come si era aspettato.

Quando rientrò, Sherlock non era ancora tornato. E il suo cellulare era rimasto silenzioso tutto il tempo.

 

Il detective tornò a casa verso le nove, con un’aria stanca e piuttosto tesa. John lo notò subito ma, seduto sulla sua poltrona a leggere un libro, lasciò che fosse l’altro a incominciare. Sherlock si buttò sulla poltrona che occupava sempre, col cappotto ancora adesso, e poggiò la testa sullo schienale dietro, chiudendo gli occhi.

“Dove sei stato?” gli chiese a quel punto il dottore, rendendosi conto che il suo amico non avrebbe affatto aperto bocca.

“Da Mycroft”.

Ahia.

“Per un caso?”

“Sì”.

Sherlock non era di molte parole quella sera e ciò non prospettava nulla di buono. Di solito non avrebbe esitato un attimo a raccontargli ogni minimo dettaglio del caso su cui stava lavorando.

“Interessante?”

“Potrebbe essere”.

Il moro, che per tutto quel tempo se ne era rimasto con gli occhi chiuso e il viso rivolto al soffitto, raddrizzò il capo per guardare John in viso e parve rimanere un attimo a studiarne i lineamenti. Il dottore cercò di pensare velocemente a qualcos’altro da chiedere o da dire, senza rischiare di far innervosire l’altro, ma il trillo del campanello della porta e il rumore dei passi della signora Hudson lo distrassero.

Sentì delle voci provenire dal piano di sotto e poi altri passi che si avvicinavano. L’anziana proprietaria del 221 B aprì di nuovo la porta del loro appartamento.

“C’è una persona che chiede di Sherlock”.

John si alzò immediatamente dalla poltrona per accogliere la nuova ospite, sicuro che fosse una cliente.
Gli apparve davanti agli occhi una donna abbastanza giovane, avvolta in un lungo cappotto blu scuro e un borsone a tracolla poggiato sulla spalla destra. Il volto pallido e gli occhi verde acqua esprimevano tutta la sua stanchezza.

Un momento!, pensò John. Quegli occhi erano identici a…

“Connie?!” Sherlock, dietro di lui, scattò in piedi e guardò la ragazza come se non potesse credere ai propri occhi. E probabilmente era così.

Lei allora increspò le labbra in un sorriso debole ma contento. “Ciao, fratellino”.

 

 

MILLY’S SPACE

Ed eccomi qui a devastare anche questo fandom. Milly docet.

Ok, l’ora è tarda perciò cercherò di essere breve altrimenti comincerò a sparare minchiate a raffica. Non è la prima fanfiction che pubblico e chi mi segue lo sa bene, ma è la prima fanfiction su Sherlock e devo confessare che non è da tanto che lo seguo, ma già lo adoro. Ammetto anche che mi ero promessa di non scrivere mai una fanfiction su questo telefilm perché il personaggio di Sherlock è difficile da rendere e non volevo rovinarlo. Tuttavia, mi è venuta l’idea per questa storia leggendo un’altra fanfiction e non ho potuto fare a meno di scriverla, così come non ho potuto fare a meno di pubblicarla (nonostante io abbia altre quattro fanfiction ancora da concludere).

Cos’altro devo aggiungere? Be’, è decisamente una Johnlock. Per quanto io ami Mary non posso fare a meno di shippare questi due personaggi e li vedo perfettamente bene insieme. Perfettamente bene? Mah.
Non so con quanta regolarità riuscirò ad aggiornare, considerando anche i diversi impegni che ho, ma cercherò di essere abbastanza regolare.

Detto questo direi che posso salutarvi : ) vi segnalo la mia pagina facebook dove potete vedere anche le altre storie che ho in cantiere (https://www.facebook.com/MillysSpace) e lasciatemi anche una recensione. Va bene anche se negativa.

Un bacione,
Milly.

P.S. il titolo è ispirato a una canzone dei The Cranberrie che adoro però è probabile che in seguito decida di cambiarlo.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


CAPITOLO DUE

“Cosa?!” gridò John con voce quasi isterica, spostando freneticamente lo sguardo da Sherlock alla ragazza che aveva appena varcato la soglia del loro appartamento. La signora Hudson se ne stava ferma sull’uscio, immobile come una statua, ma il suo viso esprimeva tutta la perplessità che stava provando in quel momento.

Fratellino? Davvero l’aveva chiamato fratellino?

Il detective, invece, se ne stava in piedi, a poca distanza dalla sconosciuta e la fissava… semplicemente la fissava, con le labbra serrate e gli occhi chiari aperti e vigili. O la stava studiando oppure era immerso in qualche sua elucubrazione intensa.

“Be’, non mi fai accomodare?” chiese allora la ragazza che ricambiava lo sguardo del moro senza battere ciglio, per niente intimorita o confusa, come di solito capitava agli altri quando si vedevano osservare così da Sherlock Holmes.

John, allora, si schiarì la gola e decise di prendere in mano la situazione e fare il bravo padrone di casa, visto che il suo coinquilino non sembrava assolutamente intenzionato a farlo. Nonostante quello fosse affar suo, sicuramente affar suo.

“Ehm… sì, accomodati”, le disse, indicandole il divano appoggiato al muro e spostandosi per permetterle di passare. Lei obbedì ma non ringraziò, impassibile e imperturbabile. John, quando quella strana tipa gli passò accanto, si sentì quasi raggelare dal suo sguardo freddo e scrutatore. Eppure lei non gli rivolse altro che una rapida e breve occhiata, giusto il tempo per vederlo un attimo in volto.
Appoggiò la borsa a terra e si sedette dove le era stato detto di fare, rigida e dritta con la schiena.

Soltanto allora Sherlock parve reagire: si destò dallo stato catatonico nel quale sembrava essere caduto e si sedette sulla sedia dove di solito faceva accomodare i suoi clienti, di fronte al divano e di fronte alla ragazza. Ma non disse niente. Continuò a fissarla. E lei faceva altrettanto; si era sporta in avanti con i gomiti appoggiati alle ginocchia e il mento sorretto dal dorso delle mani.

“Oh be’, vado a fare un po’ di tè”, disse a quel punto la signora Hudson, interrompendo il silenzio. Nessuno le rispose né fece intendere di averla sentita, così lei si ritirò nella sua tana. Poi il silenzio calò di nuovo. John invece andò in cucina e si appoggiò col didietro al tavolo, osservando i due e chiedendosi che cosa mai quello strano scambio di sguardi poteva significare. Che stessero comunicando mentalmente? Ma questo era impossibile… o forse no. Dopotutto si trattava di Sherlock.
No, veramente non avrebbe saputo darsi una spiegazione, purtroppo lui non era così deduttivo.

Ma dopo cinque minuti in cui non si sentì volare nemmeno una mosca, il dottore ne ebbe abbastanza. “Oh, ma insomma! Avete intenzione di continuare così per tutta la notte?”

Le labbra della ragazza si piegarono in un sorriso, lo stesso sorriso che aveva mostrato quando aveva visto Sherlock. “Il tuo amico non è molto perspicace”.
Il moro ricambiò quel sorriso, nella stessa identica maniera. “No, però potrebbe sorprenderti”.
“Non ne dubito”.
E a quel punto entrambi scoppiarono a ridere. Solo un po’ e soltanto per un po’. Non si lasciarono andare a una risata troppo sguaiata né troppo solare, come se volessero mantenere un certo contegno, però c’era… c’era una strana complicità e forse persino qualcosa di molto… molto dolce. John lo notò o almeno credette di averlo notato, per questo non se la prese nonostante stessero ridendo di lui.

“Che ci fai qui, Connie?” chiese allora Sherlock, quando il silenzio fu calato di nuovo.

“Anche io sono felice di vederti”, fu la risposta dell’altra, le labbra piegate in una smorfia sghemba che chiaramente faceva intendere che stava nascondendo qualcosa.

“E’ da molto che non vieni a Londra”, commentò il moro.

“Più di dieci anni”, confermò la ragazza, in tono indifferente. “Ho perso il conto. O forse non l’ho mai tenuto”.

Il detective ridacchiò, abbassando lo sguardo. “Quando sei tornata?”

“Il mio aereo è atterrato un’ora fa. Ho preso il taxi e sono venuta subito qui”.

“Come hai fatto a trovarmi?”

“Ho i miei metodi”. Connie socchiuse gli occhi in un’espressione malevola, ma davanti al volto confuso e sbigottito di Sherlock, sospirò e spiegò: “Ho semplicemente cercato su Google. Sei famoso”.

“Ma insomma, Sherlock! Mi vorresti spiegare?” sbottò allora John, spazientito. Possibile che il suo dannato coinquilino si fosse dimenticato di lui?

Il detective scattò in piedi, pareva effettivamente ricordarsi del dottore soltanto in quel momento, e si affiancò a lui che lo aveva raggiunto in salotto. “Connie, lui è John. John, lei è mia sorella Connie”.

“Molto piacere, John”, disse lei in tono gentile, ma senza alzarsi dal divano o porgergli la mano. Lui restò a guadarla sbigottito, come se vedesse un fantasma. “Tua… sorella?”

Sherlock lo guardò come se tutto d’un colpo si fosse rimbambito: “Sorella è il termine che indica una persona di sesso femminile…”

“So cosa diavolo è una sorella, Sherlock!” lo interruppe il dottore spazientito. A volte si chiedeva se lo stesse semplicemente prendendo in giro o se veramente il suo cervello, così intelligente e così perspicace, non riuscisse a capire certe cose elementari. “Non mi hai mai detto di avere una sorella!”

“Come? Non hai detto al tuo fidanzato di me, Sherly?”

Sherlock ormai si sentiva messo alle strette, ma non capiva il reale motivo di tutti quei sconvolgimenti. John, d’altro canto, era troppo… oh, non sapeva nemmeno lui cos’era, ma sicuramente era qualcosa di molto forte visto che non si accorse che la sorella di Sherlock lo aveva scambiato per il suo fidanzato.

Il detective era ammutolito di nuovo e certamente non era una cosa che capitava tutti i giorni, che il grande Sherlock Holmes rimanesse senza parole per ben due volte nella stessa ora.

“Be’, poco male, direi”, concluse alla fine Connie, ma parve rassegnata. “Devo chiederti un favore”, aggiunse, riportando gli occhi sul moro.

In quel momento, però, vennero interrotti dalla signora Hudson che portava un vassoio carico di tazze di tè. “Vi ho portato qualcosa da bere”.

Connie sorrise e un velo di malinconia parve attraversare i suoi occhi verde acqua, veloce come un fulmine. “Tè. Avevo scordato queste confortevoli tradizioni inglesi”.

“Oh, allora serviti, cara”, la invitò l’anziana proprietaria del 221B con un sorriso cortese.

“Grazie mille, signora…”.

“Hudson! Sono la proprietaria di questo appartamento”.

“Oh, è molto carino. Comunque, io sono Connie, la sorella di Sherlock”.

“E’ un piacere conoscerti, cara”.

“Anche per me”.

Aveva un sorriso radioso quella ragazza, pensò John, un sorriso dolce e tenero e tutto quello che aveva visto prima in lei, il velo di malinconia, il gelo negli occhi, non sembravano nemmeno appartenerle.
Era una tipa… particolare, sì. Questo era certo. Be’, dopotutto era la sorella di Sherlock. Di Sherlock e quindi anche di Mycroft. Strano che nemmeno lui l’avesse mai nominata. Ciò significava che rappresentava qualcosa di significativo per i due fratelli Holmes.

“Che cosa mi dovevi chiedere?” chiese a quel punto il detective, tornando sul punto della situazione. La ragazza, seduta a bere il suo tè al tavolo della cucina, sembrò riscuotersi improvvisamente da un sogno. “Sì, giusto”, iniziò e il suo tono questa volta era molto più indeciso. “Vorrei che mi ospitassi per qualche giorno, giusto il tempo di sistemarmi”.

Il detective restò a guardare per qualche attimo, come se stesse cercando di assimilare le sue parole.

“Mi andrà bene anche il divano”, aggiunse lei a mo’ di supplica.

“Ok”, rispose semplicemente lui, senza alcuna espressione. “John ti darà delle coperte”.

John, chiamato in causa, si voltò verso di lui e lo guardò perplesso. “Cosa? Sherlock!” Cercò di aggiungere qualcos’altro, tipo che non era gentile far dormire sua sorella su un divano scomodo, primo perché era una donna e secondo perché era l’ospite, ma non fece in tempo visto che quello se ne sparì con uno svolazzo del suo lungo cappotto.
Il dottore riportò lo sguardo sulle due donne con un sospiro.

“Ti va del tè, caro?” chiese la signora Hudson.

 

Il mattino dopo John entrò in cucina come suo solito e per poco non saltò contro il soffitto nel trovarsi di fronte una donna seduta al loro tavolo.
Ah, giusto! Connie… se n’era quasi scordato.

“Buongiorno”, la salutò trascinandosi ai fornelli.

“’Giorno”, ricambiò lei senza guardarlo, troppo impegnata a mettersi lo smalto sulle unghie. Il dottore si preparò la colazione e si voltò a osservare la ragazza; l’altra sera non aveva avuto modo di vederla bene, dato che indossava il cappotto, ma ora poteva notare che aveva un fisico snello e atletico. Sicuramente si teneva in forma. Il seno non era molto grande però era ben fatto, così come i fianchi e le gambe lunghe. Il volto pallido, poi, aveva degli zigomi piuttosto pronunciati, ma non le stavano male, e su di esso spiccavano due occhi identici a quelli di Sherlock. Tutto in lei ricordava Sherlock e John avrebbe potuto scommettere che anche i suoi capelli, ora raccolti in uno chignon in cima alla testa, avevano gli stessi boccoli del fratello. Somigliava a lui più di quanto Sherlock non somigliasse a Mycroft. Ed era molto bella.
C’erano solo un paio di cose che la differenziavano dal detective: le braccia piene di tatuaggi – John non avrebbe proprio saputo dire quanti e quali tipi di animali e creature mitologiche ci fossero disegnate – e il piercing sul naso. Il che faceva dedurre che era una persona differente da Sherlock. Sorrise tra sé e sé per questa deduzione; abitare col consulente detective migliore del mondo portava anche i suoi frutti.

“Lo sai che non è gentile fissare la gente?” La sua voce gli raggiunse le orecchie come una stilettata e per poco non si strozzò con il tè. “S – scusa”.

“Non ti preoccupare. Mi piace quando la gente mi fissa”. Connie non aveva ancora tolto gli occhi dalle sue unghie che ora stava accuratamente passando con la lima; sembrava che fosse un’operazione di vitale importanza. “Dai, fammi compagnia”, gli disse poi, indicandogli la sedia di fronte a sé.

John obbedì senza protestare, portandosi dietro la sua tazza di tè. “Vuoi del tè?”

“Oh no, grazie. Stanotte mi sono alzata due volte per pisciare”. Soffiò sulle unghie per spazzare via la polvere e dispiegò le dita di fronte a sé per ammirare il proprio capolavoro. Aveva fatto un bel lavoro, ammise John tra sé e sé, e ci aveva disegnato dei ghirigori piuttosto elaborati. Infine portò lo sguardo su di lui e rimase a scrutarlo per qualche secondo. “Scusa, mi potresti ripetere il tuo nome?”

Ecco, quella domanda non se l’aspettava. Tuttavia il dottore rispose, anche se con voce un po’ roca: “John, John Watson”.

“Bene, John Watson. Scusa, ma non sono brava a ricordarmi i nomi comuni”.

“Anche Connie è un nome comune”, le fece notare l’uomo.

“Sì, ma Connie sta per Constance”.

Be’, certo: Mycroft, Sherlock e Constance. I loro genitori dovevano essersi sbizzarriti nella scelta dei nomi.

“E’ un bel nome, Constance”.

“A me non piace”. La ragazza sembro notare un piccolo dettaglio sull’unghia dell’indice che non le piaceva perché aprì di nuovo la boccetta dello smalto e intinse il pennello.

“E sei più piccola di Sherlock, Connie?”

“Sì, ma solo di un paio di anni”.

John non l’avrebbe mai detto, sembrava molto più giovane.  Ma dopotutto, nemmeno Sherlock mostrava più di quei trent’anni che aveva.

“E tu che lavoro fai, John?” chiese lei a quel punto, guardando il dottore di sottecchi.

“Sono un medico”.

“Capisco. Be’, certo, mio fratello sa scegliere bene”, commentò, ma sembrò parlare più a sé stessa che non a lui. “E da quanto tempo state insieme?”

L’uomo la guardò confuso. “Come, scusa?”

Lei sospirò quasi esasperata. “Da quanto tu e Sherlock state insieme?”

“Io e lui non… non stiamo insieme. Viviamo insieme, ma siamo solo amici”.

“Oh, quindi, non fate sesso?”

Decisamente quella era la sorella di Sherlock, nessuno poteva averla scambiata nella culla. Fare domande di quel genere senza provare il minimo imbarazzo doveva essere un vizio di famiglia.

“No”.

“Ah, peccato”.

John ora avrebbe voluto chiederle che cosa intendeva con quell’ultima esclamazione, ma preferì tenere la bocca chiusa e lanciarle un’occhiata indagatrice senza che lei se ne accorgesse. A Sherlock di solito non faceva mai troppe domande e cercava di non indagare mai sulle sue elucubrazioni, perciò con Connie doveva essere lo stesso.
Avrebbe però voluto restare a chiacchierare con lei ancora per un po’ e magari farle domande sul fratello, ma era tardi e lui doveva andare al lavoro.

 

Quando John abbandonò l’appartamento e lei rimase da sola – Sherlock se n’era andato prima che lei si alzasse e lo aveva sentito benissimo che si defilava fuori dalla porta – Connie si abbandonò contro la sedia e tirò un sospiro. Sentiva una strana pesantezza all’altezza dello stomaco e non era affatto dovuto a qualcosa che aveva mangiato, ne era certa.
Non si era aspettata quel benvenuto da parte del fratello, si era aspettata piuttosto… a dire la verità non sapeva nemmeno lei che cosa si fosse aspettata. Di certo no baci e abbracci, non era da Sherlock, certo, però… non si aspettava nemmeno quella freddezza. No, decisamente no. Dopo tutti quegli anni che non si vedevano, poi. Se la sarebbe aspettata di più da parte di Mycroft, lo doveva confessare, con lui il rapporto è sempre stato un po’ teso, ma con Sherlock…

Sentì le sue viscere e il suo stomaco agitarsi dentro di lei e fu costretta ad alzarsi di scatto e a correre in bagno per vomitare nella tazza del water quel poco che aveva mangiato a colazione.

Connie, sei una stupida, si disse.

 

 

MILLY’S SPACE

Di solito non sono così veloce ad aggiornare, però visto che ora ho un po’ di tempo ho deciso di concederlo un po’ a questa fanfiction a cui tengo molto.
Qui si scopre qualcosa di più su questa Connie, spero che come personaggio vi piaccia. Ovviamente lei appartiene a me, tutti gli altri invece sono di quel genio di Arthur Conan Doyle : )
Volevo specificare una cosa che l’altra volta mi sono dimenticata: questa storia è ambientata dopo la seconda stagione, però non tiene conto di quello che è successo nella terza.

Ecco, penso sia tutto. Presto posterò delle foto di Connie sulla mia pagina facebook, così vi fate un’idea di come dovrebbe essere ; ) perciò venitemi a trovare anche lì.

Un bacione grande grande e notte a tutti.

Milly.

ERULE: grazie per la recensione, sono contenta che il primo capitolo ti sia piaciuto. Spero continuerai a seguire. Un bacione, M.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


CAPITOLO TRE

 Mycroft guardò il fratello con un'espressione impassibile e imperturbabile, eppure dal suo volto traspariva tutta la sorpresa che stava provando in quel momento; sorpresa mista a un certo scetticismo.

 "Tornata? Come tornata?"

 Sherlock sospirò; ma perché la gente faceva domande stupide?

 "È tornata", ripeté infine, puntando gli occhi sul bordo della scrivania del fratello.

"Ne sai il motivo?"

Il consulente detective rialzo lo sguardo sull'uomo che aveva di fronte e con un semplice sguardo cercò di comunicargli quello che pensava. Com'era abbastanza prevedibile Mycroft non recepì il messaggio.

"Non lo so".

 Il maggiore alzò gli occhi al cielo e, anche se fu un gesto impercettibile, Sherlock se ne accorse ma non disse nulla.

"Non glielo hai chiesto?"

"Certo che no", rispose come fosse la cosa più ovvia del mondo ma dallo sguardo del fratello capi che per lui non era cosi. Perciò aggiunse: "Nostra sorella è appena tornata a Londra dopo ben dieci anni. Scusami se non le ho fatto il terzo grado".

Il terzo grado? Da quando Sherlock si preoccupava di fare il terzo grado a qualcuno? Pensò Mycroft. Questo non era mai stato un problema per lui.

"Be' io te l'ho detto", concluse il detective alzandosi in piedi. Non vedeva l'ora di uscire da quel posto. "Ora posso andare".

Il fratello decise che era inutile insistere. "E con il caso come procede?"

Il più giovane attese un attimo prima di rispondere. "Ci sto lavorando". Raggiunse la porta in poche rapide falcate e vide il fratello muoversi per raggiungerlo. Ma Sherlock lo blocco lì dov'era: "Conosco la strada".

Quando il fratello abbandonò il suo ufficio, Mycroft si accascio sulla sua sedia girevole e si passò le mani sul viso con aria stanca. Nonostante non avesse fatto niente quella mattina si sentiva spossato. E come se non bastasse aveva una bruttissima sensazione.  Già il fatto che Sherlock fosse venuto a trovarlo era di per sé strano visto che non lo faceva mai e ora veniva pure a sapere che Connie era tornata a Londra. Non sarebbe venuto fuori nulla di buono, ne era certo.

Doveva saperne di più.

 

John salutò i due simpaticissimi vecchietti che avevano occupato il suo studio per quasi un’ora e tirò un sospiro di sollievo. Aveva seriamente temuto che non se ne sarebbero più andati; il signore aveva dei normalissimi problemi alla prostata, ma sua moglie non aveva fatto altro che tartassarlo di domande, dubbi e preoccupazioni, mettendo quasi in dubbio la sua carriera di medico militare. Detestava quel tipo di persone, erano così asfissianti e… noiosi. Sì, noiosi era la parola giusta. Oddio, si stava Sherlockizzando!

Aveva bisogno di un caffè, uno forte.
Uscì dal suo ufficio, salutò Sarah e raggiunse la macchinetta  nella salta d’attesa. Per fortuna non c’era nessuno, così non gli toccò nemmeno fare la fila.
Inserì le monete nella fessura e schiacciò un paio di numeri, poi aspettò che il suo caffè si preparasse.
Finché aspettava, la sua mente cominciò a vagare per conto suo, destreggiandosi tra i vari pensieri incasinati che lo stavano assillando dalla sera precedente e il tutto chiaramente riguardava Sherlock… Sherlock e Connie a voler essere precisi. Perché il detective non gli aveva parlato di sua sorella, perché non gliel’aveva nemmeno accennata? Invece, come al solito, era venuto a scoprirlo così, come se si trattasse semplicemente del suo piatto preferito.
Doveva confessarlo, si era sentito ferito, molto. Sapeva che c’erano molte cose che Sherlock non gli aveva detto del suo passato e John lo rispettava, davvero, capiva benissimo che alcune cose potevano risvegliare in lui sofferenze e ricordi spiacevoli, però pensava che avesse iniziato a fidarsi e che le cose importanti, come l’avere una sorella, si potessero anche raccontare. E la cosa peggiore era che sicuramente era l’unico a non averlo mai saputo. Era un po’ come quando non gli aveva detto di essere vivo, mentre c’erano almeno una trentina di persone che lo sapevano. No, anzi, questa volta era peggio perché almeno, nell’altra occasione, l’aveva fatto per un motivo valido, o comunque un motivo che poteva accettare. Ma adesso…

La macchinetta emise un suono lungo indicandogli che il suo caffè era pronto.
Meglio se si rimetteva al lavoro o sarebbe veramente andato fuori di testa.

 

Quando Mycroft salì nell’appartamento di John e Sherlock, rimase piuttosto sbigottito di fronte a quello che si trovò davanti: Connie, in pantaloni di pigiama e reggiseno, si dimenava per tutta la stanza, cantando a squarciagola una canzone che lui non conosceva. Ma anche se l’avesse già sentita, di certo non l’avrebbe riconosciuta; la ragazza non era propriamente intonata. Anzi, sembrava più il gracchiare di un corvo. Tuttavia non tentò di fermarla, ma rimase sulla soglia a guardarla.

Quando lei si girò verso la porta e lo vide lì, si bloccò di colpo, nella posizione in cui era, piuttosto scomoda e ridicola, e si tolse immediatamente le cuffie dell’i-pod dalle orecchie.

“Myky!” esclamò Connie, sorpresa di trovarlo lì.
“Constance”, salutò lui con voce inespressiva. Continuava a fissarla però, come se avesse di fronte una pazza scappata dal manicomio.

Lei sospirò: “Uff, lo sai che odio il mio nome”.

“Però ti chiami così”.

“Sei noioso”.

La ragazza poggiò sul tavolo del salotto il suo i-pod e andò in cucina a prendersi da bere. Mycroft la seguì, rimanendole comunque a debita distanza, quasi la temesse. Oppure era solo la solita reazione esagerata che assumeva quando si trovava con qualcuno che non conosceva.

“Come mai sei qui, Connie?”
Lei svuotò il bicchiere e lo poggiò sul tavolo, non curandosi di non farlo sbattere. “Anche io sono contenta di vederti, fratellone”.

Ecco, non era cambiata affatto; aveva ancora quel fastidioso e snervante modo di cambiare argomento quando quello di cui si stava parlando non le piaceva.
“Sono serio”.
“Anche io lo sono!” Questa volta la ragazza gli aveva puntato addosso i suoi occhi chiari, sostenendo il suo sguardo, orgogliosa e prepotente. “Dico solo che potresti mostrare almeno un minimo di contentezza nel vedermi. Sono tua sorella”.

Mycroft sospirò e distolse per un attimo lo sguardo. “Hai ragione. Sono contento di vederti”.

Lei si morse il labbro inferiore e ritornò in salotto, buttandosi sulla poltrona di Sherlock. “Lo so che non è vero, ma farò finta di crederci”.

Rimasero in silenzio per un po’, Connie a osservare il fratello con fare indifferente e lui a guardarsi attorno per evitare il suo sguardo.

“Allora mi dici come mai sei qui?”

La ragazza sbuffò gonfiando le guance e si sedette a gambe incrociate. “Non posso semplicemente venire a trovare la mia famiglia”.

Lui le lanciò un’occhiataccia come per dirle che non ci cascava.

“Perché pensi che debba avere altri scopi?”

“Perché tu li hai sempre”.

“Hai così poca stima di me?” L’espressione ferita della sorella gli parve sincera e l’uomo si sentì leggermente in colpa per averla trattata così. Si sedette sulla poltrona di fronte a lei e cercò di sorriderle teneramente, ma lui non era in grado di sorridere teneramente, anzi, non era proprio in grado di sorridere, perciò quello che ne uscì fu una cosa piuttosto inquietante. Ma Connie decise di non farci caso e apprezzò il gesto. “Sei invecchiato, Mycroft”, notò.

“Anche tu”, le rispose. Però non era vero; il tempo non sembrava averla segnata e non aveva nessuna ruga in volto. Era rimasta bella ed esuberante come la ricordava. Era rimasta uguale in tutto, forse.

 

Quando John quella sera tornò a casa, trovò Connie dalla signora Hudson; le due donne sedevano al tavolo rotondo davanti a una tazza di tè per ciascuna e sembravano divertirsi molto per qualcosa, a giudicare dalle risate che si sentivano persino nell’ingresso.

“Oh, ciao, John!” lo salutò l’anziana donna, rivolgendogli un largo sorriso. “Vuoi unirti a noi?”

Lui le guardò dalla soglia della porta, inarcando le sopracciglia.

“Connie mi stava raccontando di quando lei e Sherlock erano bambini”, spiegò la signora Hudson intuendo la sua muta domanda.

“Davvero?” chiese lui interessato.
“Sì. Sapevi che Sherlock ha tentato di rubare le mele dall’albero del vicino e quello lo aveva seguito brandendo un bastone per tutto il vicinato?” fece la donna, emozionata come una bimba il giorno di natale. Adorava sentire quelle storie.

“Sherlock diceva che voleva fare un esperimento”, aggiunse Connie. “Ma quell’uomo era matto, tutti i bambini ne avevano paura e persino qualche adulto”.

John avrebbe ascoltato volentieri quelle storie, ma si sentiva piuttosto stanco e voleva solo farsi una doccia rilassante. Perciò salutò le due donne e andò al piano di sopra, dove trovò Sherlock intento a qualche esperimento in cucina.

“Ciao, Sherlock”, lo salutò buttando la giacca sulla poltrona. Il detective gli rispose con un debole mugugno, troppo concentrato sul suo lavoro.

“Vado a fare la doccia”, lo informò il dottore dirigendosi in bagno.

“John!” lo chiamò l’altro, puntandogli gli occhi sulla schiena. “Le hai comprate tu le caramelle Kitsy?”

“Sì”.

“Perché?”

John lo osservò perplesso non capendo il motivo di quella domanda. “Perché so che ti piacciono”.

“Ah, ok”, rispose semplicemente il moro, tornando poi sulle sue boccette da chimico e l’altro capì che l’interrogatorio era finito. Mah, Sherlock era proprio strano. E lui si era persino scordato di aver comprato quelle caramelle.

John finalmente poté entrare nella doccia e lasciar scorrere l’acqua sul proprio corpo, cercando di liberare la testa da ogni pensiero. Era da un po’ che lui e Sherlock non si trovavano immischiati in qualche caso e cominciava a pesargli tutta quella monotonia. Be’, eccetto per Connie.

Ad un tratto sentì la porta del bagno aprirsi e vide qualcuno entrare. Per un attimo temette che fosse Connie, ma poi riconobbe, attraverso il vetro opaco della tenda, la siluette e la statura alta del suo coinquilino e si rilassò. Ma in ogni caso era coperto e di certo nessuno avrebbe potuto vederlo dall’altra parte.

Sherlock, silenziosamente, si chinò per prendere qualcosa da sotto il lavello e rimase lì per un po’, cercando di trovare quello che gli serviva.
E allora, senza che lui riuscisse in qualche modo a fermarla, la mente del dottore iniziò ad andarsene per conto suo, spogliando il detective con lo sguardo, immaginandolo nudo sotto la doccia. Magari insieme a lui.

Ma che gli saltava in testa?

Sherlock finalmente uscì dal bagno e John tirò un sospiro di sollievo. Ormai però il guaio era fatto e il suo amichetto lì sotto ne era la prova.

 

 

MILLY’S SPACE

 

Wow! Non l’avrei mai detto ma sono riuscita ad aggiornare di nuovo ^^ due sere di fila. È che questa fanfiction mi ispira proprio e spero ispiri anche voi. Lo so che ora è un po’ troppo tranquilla e che non succede nulla ma non preoccupatevi, presto ci saranno delle succulente novità.

Intanto, ditemi cosa ne pensate, se vi piace o se secondo voi dovrei rinunciare.

E fatemi una visita anche sulla mia pagina face: (https://www.facebook.com/MillysSpace)

 

Bacioni, M.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


CAPITOLO QUATTRO

“Sherlooooock! Sherlooooock! Sheeeeeeeeerly!”

“Per favore, smettila di urlare! Stai svegliando tutta Baker Street!”

“Allora accontentami”.

Il detective si voltò verso Connie e la guardò come se fosse appena caduta dal cielo. Sbatté due volte le palpebre e aprì la bocca per dire qualcosa, ma non gli uscì niente. Allora la richiuse.

“Hai dimenticato come si parla, fratellino?”

“Stavo cercando di ricordare per quale inutile motivo tu mi stessi chiamando a voce così alta”.

La ragazza sospirò frustrata; possibile che Sherlock dovesse sempre essere così… così dannatamente frustrante, ecco.

“Ti avevo chiesto dei soldi”, gli ricordò lei.

“Soldi?”

“Sì, soldi. Per fare shopping”.

“Shopping?”

“E’ quando una persona va in giro per negozi a comprare qualcosa che…”.

“Sì, sì, so cosa vuol dire fare shopping. Perché dovresti fare shopping?”

“Perché ho bisogno di vestiti”.

“Ma non ne hai già?”

“Sono vecchi”.

“Puoi usare i miei”.

Connie si buttò sul divano coprendosi il volto con le mani. A volte sospettava che il fratello facesse apposta ad essere così ottuso. Insomma, un uomo intelligente e con tutto quel spirito di osservazione non poteva non capire certe cose che persino un fungo avrebbe capito.

“D’accordo, tieni”, le disse infine il detective, allungandole alcune banconote da cinquanta. La ragazza le prese in mano e rimase sorpresa di fronte a tutti quei soldi. “Così tanti? Sei sicuro?” gli chiese.

“Li vuoi o no?” gridò lui, spazientito.

“Sì, sì, sì!” rispose la ragazza saltando dal divano e afferrando la sua borsetta. “Grazie, fratellino”, lo salutò, dirigendosi verso la porta con la giacca infilata a metà.

Proprio quando lei usciva John, invece, rientrava. “Dove sta andando?” chiese al coinquilino, in piedi vicino al caminetto.

“A fare… shopping”, biasciò il moro pronunciando l’ultima parola come fosse una parolaccia.

“Oh, perché non l’hai accompagnata?”

“Perché avrei dovuto?” Sherlock si girò verso l’amico e rimase a osservarlo come se gli avesse appena chiesto di risolvere un’equazione particolarmente difficile.

“Perché è tua sorella e… niente lascia perdere”. John sapeva che era inutile fare certi ragionamenti con il detective, perciò era meglio se ci rinunciava fin da subito, avrebbe risparmiato fiato e un bel po’ di nervi. “Piuttosto, cosa vuoi mangiare?”

 

Connie stava girando da circa un’ora per il centro di Londra senza successo. Era stata sia da Harrods sia a Covent Garden, ma non aveva trovato niente che le piacesse. Forse a Picadilly avrebbe avuto più successo.
Lungo la strada però si era comprata una ciambella e ora la stava mangiando con gusto. Ogni volta che sentiva profumo di cibo o vedeva qualcosa di buono non riusciva a resistere e il suo stomaco la avvertiva di avere fame, benché magari avesse già mangiato mezz’ora prima. Be’, era normale nel suo stato delle cose, giusto? Ed era per lo stesso motivo che ora stava cercando dei vestiti nuovi; ne aveva già diversi in borsa e non aveva un bisogno urgente di fare shopping, però presto le sue camicette attillate e i suoi jeans stretti non le sarebbero più andati bene. Doveva comprare qualcosa di più largo.
A questo pensiero sentì una morsa stringerle lo stomaco. Non aveva ancora detto niente a Sherlock e Mycroft e si chiedeva come avrebbe fatto.

Finì di mangiare la sua ciambella e si leccò lo zucchero dalle dita. Poi si fermò di fronte alla vetrina di un negozio un po’ vintage. Forse faceva al caso suo, sembrava avere vestiti parecchio colorati. La ragazza entrò dentro, seguita dallo squillante trillo del campanello alla porta. La commessa, una ragazza bassa e minuta ma dal viso molto dolce, le sorrise cordiale e le chiese se poteva aiutarla. Connie declinò l’offerta, dicendo che prima avrebbe guardato un po’ quello che c’era.

Trovò una maglietta rosa primaverile con qualche volant e le sembrò abbastanza larga. Era molto bella, giusto il genere di cose che indossava lei. Chissà, magari sarebbe piaciuta anche a Sherlock; gli erano sempre piaciute le sue magliette strampalate, soprattutto quelle con delle scritte significative.
Ma Sherlock era cambiato, non era più lo stesso, non era più il suo Sherlock. Quel Sherlock era… era un Sherlock freddo, indifferente. Forse aveva chiuso il suo cuore dentro una scatola, come il personaggio di una fiaba che avevano letto da piccoli.
Ce l’avrebbe fatta a farlo tornare come prima? Sperava di sì perché se no…

 

Sherlock, John e Connie scesero dal taxi che li aveva accompagnati fino a un edificio abbandonato che probabilmente prima era stato una fabbrica.
Appena aveva ricevuto la telefonata da Lestrad che gli diceva di venire subito lì, il consulente detective non aveva esitato un attimo, trascinandosi dietro John, come sempre. Purtroppo per lui in quel momento stava rincasando pure Connie che non lo aveva affatto ascoltato quando le diceva di restare a casa e li aveva seguiti.

“Che cosa succede?” chiese John quando si trovò di fronte al detective investigativo.

“Abbiamo trovato il cadavere di un ragazzo…”, iniziò questi, ma fu subito distratto dalla visione di Connie che gli si avvicinava e si accostava accanto al medico completamente a suo agio.

“Oh, lei è Connie, la sorella di Sherlock”, presentò John, indicando la ragazza. “Connie, lui è Greg Lestrade”.

“Piacere”, disse la ragazza sorridendo.

“La sorella di Sherlock?”

John rimase sorpreso dello sbigottimento di Lestrade, ma al tempo stesso anche sollevato perché ciò significava che non era l’unico a non saperne niente.

“Oh, dobbiamo ricominciare con questa pantomima?” chiese lei alzando gli occhi al cielo.

“Dov’è questo corpo?” fece Sherlock, sbucato al loro fianco senza farsi sentire.

Il detective si voltò verso di lui e sembrò fulminarlo con lo sguardo. “Tu hai una sorella?!”

Sherlock inclinò il capo e inarcò le sopracciglia. “Sì, è lei. Ora, dov’è questo corpo”.

Lestrade rimase a boccheggiare spostando lo sguardo da John a Sherlock, ma alla fine decise di accontentare il moro. “Di qua”. Lo accompagnò dentro l’edificio, su per delle scale di ferro fino a un corridoio col soffitto retto da delle colonne quadrate. Verso il fondo giaceva scomposto il cadavere di un giovane di quasi trent’anni, fisico magro e capelli corti.

Il consulente gli si chinò affianco e lo guardò senza toccarlo. Poco dopo venne raggiunto da John e Connie. L’uomo si affiancò all’amico e prese ad analizzare il corpo. In quel momento sopraggiunse anche Sally col solto cipiglio accigliato.

“A prima vista sembra essere andato in overdose”, li informò Lestrade. “Ma quelli della scientifica dicono che è…”.

“Stato strangolato”, concluse John per lui indicando i segni sul collo che indicavano una strangolatura. “C’è della sporcizia sotto le unghie perciò deve aver lottato”.

“Lo mandiamo da Molly”, disse Greg. “Comunque abbiamo trovato questo nelle sue tasche”.

Sherlock allungò una mano verso il sacchetto che gli stava porgendo il detective contenente delle piccole pillole color rosa.

“E’ droga”.

“Grazie, Sally, ci arrivavo anche da solo”.

Connie, che per tutto quel tempo se n’era rimasta in disparte appoggiata ad una colonna, lanciò una strana occhiata di sottecchi al fratello ma nessuno parve accorgersene. Be’, eccetto Sherlock che solo per qualche istante ricambiò il suo sguardo, reggendo la droga tra le mani.

“Conclusioni, Sherlock?” chiese Lestrade, le mani sui fianchi, in attesa che l’altro lo illuminasse con le sue brillanti deduzioni.

“Oh, ma possibile che  debba sempre dirtelo io?”

E anche delle sue offese gratuite.

“Di certo non è stata una rissa provocata dalla droga, l’omicidio era volontario. L’aggressore doveva essere più forte di lui altrimenti tutta quella sostanza nel corpo avrebbe permesso alla vittima di difendersi. Ha lottato, il che ci fa dedurre che non è morto sul colpo. Be’, è stato soffocato, probabilmente con una corda, visti i segni sul collo”. Sherlock bloccò la sua arringa durante la quale aveva continuato a camminare su e giù per il corridoio. “A prima vista sembra un classico caso di omicidio, forse per qualche vendetta o…”. Il detective improvvisamente smise di camminare e, con lo sguardo fisso di fronte a sé, esalò quasi impercettibilmente. “O forse sapeva qualcosa che non doveva sapere”. Si voltò di scatto verso gli altri presenti e puntò l’indice contro il corpo. “Portatelo da Molly”.

Sherlock si precipitò fuori dall’edificio e gli altri furono costretti a seguirlo quasi di corsa.

“Ti serve altro, Greg?” chiese John, più per cortesia che altro.

“No, è tutto”. Lestrade si voltò verso Connie, intenta a guardare gli altri poliziotti che si aggiravano sulla scena del crimine. “E’ stato un piacere conoscerti, Connie”.

“Oh!” esclamò lei con una certa sorpresa negli occhi. “Anche per me…”.

“Greg”.

“Greg”.

Sherlock in quel momento fece fermare un taxi e i suoi accompagnatori capirono che era il momento di andarsene. Quando Connie si allontanò dietro a John e il fratello, Lestrade rimase per un po’ a guardarla con una strana espressione sulle labbra.

“Ehi!” lo riscosse Sally poggiandogli una mano sulla spalla.

Dentro il taxi, invece, i tre occupanti erano piombati in silenzio: John non sapeva che dire, Sherlock era immerso nei suoi pensieri e Connie digitava qualcosa al cellulare.
All’improvviso il silenzio venne interrotto dal telefono di Sherlock che aveva emesso due squilli prolungati. Il consulente lo estrasse dalla tasca e lesse il messaggio.

Da Connie: quindi mi hai completamente bannata dalla tua vita?”

 

Molly Hooper, impegnata a esaminare il corpo che le era stato spedito quel giorno, quello del ragazzo trovato morto nella fabbrica abbandonata, lanciava ogni tanto occhiate alla sorella di Sherlock. Sorella di Sherlock. Non aveva idea che ne avesse una, non l’aveva mai nemmeno nominata. Perché? Be’, le stranezze del moro erano tante, ma di solito non nascondeva di avere un parente, specialmente se era così vicino.

Connie, invece, si era accorta che quella dottoressa la stava puntando e resistere alla tentazione di urlarle di smetterla era piuttosto difficile.
Ma perché tutti facevano così? E, soprattutto, perché Sherlock non aveva detto a nessuno di lei? Nessuno sapeva della sua esistenza. Questo era… faceva male. Ecco. Soprattutto dopo tutto quello che loro due aveva passato insieme, sapere che per lui lei non significava niente era peggio… peggio che non avere un posto dove dormire.
Perché? Le veniva da chiedergli soltanto questo, ma sicuramente non le avrebbe risposto. Non le aveva risposto nemmeno a quel messaggio. Se solo avesse potuto leggergli nella mente come faceva con tutti gli altri. Tutti gli altri erano un libro aperto per lei, ma lui non lo era mai stato. E pensare che Sherlock era l’unica persona che veramente contava per lei.   

“Sherlock?” lo chiamò, allungandosi sul lungo tavolo al quale era seduta.

“Hmm?” mugugnò lui senza spostare gli occhi dal microscopio su cui stava analizzando qualcosa.

“Dimmi che mi vuoi bene”.

 

 

MILLY’S SPACE

Non credevo che avrei aggiornato oggi visto che di pomeriggio non avevo molta ispirazione. Ma come ai migliori scrittori, le idee vengono di sera ^^ e quindi eccomi qui, dopo una puntata di “Braccialetti Rossi”, ad aggiornare questa storia per voi.

Fatemi sapere che ne pensate e se volete ditemi pure le idee che vi siete fatti leggendo.

Kiss kiss.

M.

MONKEY_D_ALICE: ehi : ) sono contenta che la storia ti piaccia, spero continuerai a seguirla. Siamo solo agli inizi ma ho già delle belle ideuzze in mente ^^ fatti sentire ancora. Un bacione, Milly.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


CAPITOLO CINQUE

Maledizione! Ma doveva proprio essere così sfigata? Non solo aveva perso l’autobus, ma aveva pure dimenticato l’ombrello a casa. Una cosa che assolutamente non le era mancata di Londra era il tempo. Il cielo era stato coperto da nuvole per tutto il giorno, ma non si era certo aspettata che si mettesse a diluviare in così poco tempo, come se fossero in amazzonia. E lei era bagnata fradicia perché, nel tempo che aveva impiegato a fare una rapida corsa fino alla fermata dell’autobus più vicina, la pioggia le era entrata persino nelle mutande. Ed ora aveva solo voglia  di imprecare. Era pure tardi, era stanca, aveva fame e si trovava in una strada completamente deserta. Ma la pioggia non aveva certo intenzione di smettere, così come un taxi non sembrava intenzionato a venire a soccorrerla. Aveva persino chiamato suo fratello al cellulare perché la venisse a prendere, ma com’era ovvio non le aveva risposto. Sicuramente era impegnato a fare qualcosa di più importante e per lui tutto era più importante della sua famiglia, giusto?
Maledizione anche a lui!

Connie si sedette sulla panchina sotto alla tettoia della fermata e si strinse nel cappotto. Chiuse gli occhi per un attimo prendendo un grosso respiro. Doveva restare calma. Non serviva a niente agitarsi. Sicuramente ora sarebbe passato un altro autobus o comunque avrebbe smesso di piovere presto. Questi acquazzoni non duravano mai a lungo.

Ma passarono altri dieci minuti e ancora niente era cambiato rispetto alla situazione precedente e lei stava per farsi prendere dal panico nuovamente.
Tirò fuori il cellulare per chiamare ancora una volta suo fratello, quando vide una bella macchina metallizzata accostarsi al marciapiede. Non era decisamente un autobus, ma non era nemmeno un taxi. E quello che ne stava scendendo fuori non somigliava per niente a suo fratello. Ecco, magari era qualcuno che la voleva rapire. Ci mancava solo questa! O forse no. Assottigliò gli occhi per distinguere meglio la figura che si avvicinava perché con il buio e la pioggia fitta faticava a riconoscerla. Le era familiare e per un attimo pensò che si trattasse di John, ma questo era più alto e aveva dei lineamenti più marcati.

“Ciao”, la salutò lui non appena la raggiunse sotto la tettoia chiudendo l’ombrello. Un’improvvisa lampadina si accese nella mente della ragazza. Era quell’amico di Sherlock che aveva conosciuto sulla scena del crimine.

“Connie, giusto?”

“Sì, esatto”, rispose lei con un sorriso. Poi storse la bocca in una smorfia dispiaciuta.

“Greg”, le ricordò l’uomo intuendo il suo problema. “Greg Lestrade”.

“Oh sì!” Doveva fare qualcosa per risolvere quel problema della dimenticanza dei nomi troppo comuni. “Scusami, sono…”.

“Non fa niente”, le sorrise Greg dolcemente. Poi con lo sguardo percorse tutte le direzioni, come a controllare che non ci fosse nessuno. “Hai… hai bisogno di aiuto? Che ci fai qui… da sola?”

Lei ridacchiò leggermente imbarazzata. O forse più sentendosi stupida. “Ero andata a fare un giro e… il temporale mi ha colta, non ho l’ombrello e ho perso l’autobus. Non ci sono nemmeno dei taxi e mio fratello non risponde”.

“Tipico di lui”.

“Sì, ma sono sua sorella e…”, Connie sospirò frustrata. “Va be’, lasciamo perdere. In poche parole, non so come tornare a casa”. Lo guardò con un sorriso imbarazzato e scrollò le spalle.

“Posso… posso accompagnarti io”, si offrì il detective senza distogliere gli occhi da quelli della ragazza di fronte a lui.

“Sei gentile, ma non vorrei disturbarti”.

“Ma figurati! Non è un disturbo. E poi sono di passaggio”. Non era affatto vero, lui abitava da tutt’altra parte. Però lei era lì da sola, sotto un acquazzone, al freddo. Non poteva mica lasciarla lì. E poi era… era la sorella di Sherlock.

“Questo sarebbe davvero magnifico. Ma sei sicuro?”

“Assolutamente sì. Dai, vieni!”

Connie non se lo fece ripetere un’altra volta e, al riparo sotto l’ombrello di Greg, corse con lui fino alla sua macchina, salendo sul lato del passeggero.

“Baker Street, giusto?” le chiese lui mettendo in moto.

“Sì”.

Il detective si immise nelle strade della città senza andare troppo veloce, anche se con tutta quella pioggia pochi avevano avuto il coraggio di uscire. Teneva lo sguardo fisso sulla strada, ma ogni tanto lanciava qualche occhiata alla ragazza seduta accanto a lui. Connie di aspetto somigliava molto a Sherlock, ma di carattere era completamente diversa, si poteva vedere fin da subito. Era diversa anche da Mycroft. Era più… più normale, forse, più umana. A volte, osservando i due fratelli Holmes, per qualche fugace attimo gli era passato per la mente che potessero essere due robot o degli alieni. Ma con lei non era così. Era sicuro che lei fosse al cento per cento umana. Di questo ne era certo, anche se non la conosceva così bene.

Connie, invece, fissava la strada di fronte a sé anche se in verità non la vedeva. Era immersa nei suoi pensieri, come le capitava piuttosto spesso. Il torpore dell’auto, la tranquillità e il rumore ticchettante della  pioggia che batteva contro i finestrini erano confortevoli e rassicuranti. Non vedeva l’ora di stendersi sul divano e mangiare qualcosa. Sperava che John e Sherlock non avessero ancora cenato.

“Allora, com’è che Sherlock non mi ha mai parlato di sua sorella?” sbottò ad un tratto Greg, ponendo la domanda in tono quasi disinteressato. In realtà la risposta gli interessava eccome, ma non voleva apparire troppo invadente, né rischiare di dire qualcosa di sbagliato.

Connie piegò le labbra in un debole sorriso, ma in realtà non vi erano nessuna allegria né divertimento; c’erano piuttosto una strana tristezza e una certa malinconia.

“Non saprei. Sherlock non ama parlare molto di sé e dei suoi affari”, rispose senza guardarlo.

“Non hai tutti i torti. E poi, io e lui non siamo così in confidenza”.

“Ma sei suo amico”. Improvvisamente aveva girato la testa verso di lui per osservarlo nella debole luce dell’abitacolo.

“Non siamo amici. Almeno, lui non mi considera suo amico”.

“Pff!” soffiò lei, voltando il capo verso il finestrino. “Nemmeno lui sa quello che prova. Sherlock e i sentimenti hanno sempre viaggiato su due rotaie diverse”.

“Perché? Lui ha dei sentimenti?” scherzò Greg mentre rallentava per svoltare in un incrocio.

Connie però parve prenderlo sul serio perché rispose in tono grave. “Ceto che li ha. Solo che non li vuole usare”. Ma la frase non sembrava averla indirizzata tanto all’uomo, quanto più a sé stessa.

Lestrade parcheggiò vicinò al marciapiede e spense l’auto. La ragazza si voltò a guardarlo confusa.

“Sei arrivata”, le fece notare. Lei vide la porta col numero 221B e sbatté le palpebre sorpresa. Non se n’era affatto accorta.

“Oh, be’, allora…”, iniziò senza sapere esattamente che dire. Non voleva risultare troppo banale e non voleva lasciarlo così, però non era certa che Sherlock avrebbe voluto che salisse da loro. “Grazie per il passaggio”, concluse infine optando per il solito cliché.

“Figurati”.

La ragazza girò il busto per aprire la portiera e uscire, quando qualcosa la frenò. Non poteva lasciare Greg così e non voleva nemmeno che lui serbasse di lei un ricordo così banale e scontato. E poi… e poi aveva bisogno di parlare con qualcuno.

“Greg?” chiamò, voltandosi dall’altra parte e incontrando i suoi occhi scuri che la guardavano.

“Sì?”

L’uomo poté leggere dell’incertezza nello sguardo chiaro di Connie, un’incertezza che in Sherlock non aveva mai trovato, ma anche dolore. Ecco qual era la differenza tra lei e i suoi fratelli: lei aveva dei sentimenti o comunque li mostrava.

“Sono incinta”, sbottò infine. “Sono incinta e non so come dirlo a Sherlock e Mycroft”.

Nell’auto calò il silenzio tutto d’un colpo. Il detective era sorpreso per quella confessione, ma soprattutto non aveva idea di che cosa dirle. Che cosa si aspettava? Che la consolasse e l’abbracciasse? Che le desse un consiglio? Non era bravo in nessuna delle due cose. Be’, forse abbracciarla non sarebbe stato male, ma qualcosa gli diceva che non era quello che lei voleva.

“Cazzo!” fu l’unica cosa gli uscì, ma se ne pentì subito. Connie però non sembrava essersela presa. “Già”.

“C’è… c’è qualcosa che posso fare?” le chiese e dovette confessare a se stesso che quella frase gli era uscita dal cuore e che sinceramente avrebbe voluto fare qualcosa per aiutarla.

“Non credo. Te l’ho detto perché avevo bisogno di dirlo a qualcuno e vorrei che tu non dicessi niente a Sherlock o a Mycroft”.

“No, non dirò niente. Te lo prometto”.

“Grazie. Ora posso andare”. La ragazza si girò di nuovo per andarsene, ma Lestrade la prese per un braccio e la bloccò.

“Connie…”, iniziò, improvvisamente incerto delle sue parole. “Se… se hai bisogno di qualcosa chiamami”. E le porse il suo biglietto da visita. “Qui c’è anche il mio numero di telefono. Qualunque cosa… a qualunque ora”.

Lei gli sorrise dolcemente. “Grazie. Sei gentile. Mio fratello se li sa scegliere bene gli amici”.

Stava per risponderle che lui non era amico di Sherlock, ma ci ripensò e alla fine la lasciò andare. La osservò correre sotto la pioggia fino alla porta di casa e non distolse lo sguardo nemmeno dopo che fu sparita dentro l’appartamento. Rimase lì ancora per un po’, poi rientrò di nuovo nel traffico.
Quella ragazza gli piaceva. Era particolare, non come Sherlock o Mycroft, ma particolare a modo suo. Ed era anche carina e sicuramente intelligente.
Ma appunto, era la sorella di Sherlock e Mycroft. E poi era incinta. Il suo intuito da investigatore gli diceva che doveva essere tornata a Londra proprio per questo. Chissà chi era il padre. Sicuramente qualcuno che non aveva voluto quel bambino. Un bastardo.
Doveva averne passate tante, Connie, lo poteva leggere nei suoi occhi e in tutti quei sorrisi finti privi di qualsiasi allegria.
Sperava di incontrarla di nuovo e sperava con tutto il cuore che lei lo chiamasse.

 

John continuava a rigirarsi nel letto senza alcuna voglia di dormire. Erano quasi le due di notte e lui non aveva ancora chiuso occhio. In quel momento gli ci voleva una di quelle avventure con Sherlock, una fuga notturna da qualche malfattore o un qualsiasi caso che gli tenesse lontano tutti quei pensieri.

Non aveva fatto altro che pensare a Sherlock, al lavoro, al supermercato, in taxi e persino quando era con lui. Lo aveva osservato, guardato, studiato e non ce la faceva più. Davvero, sentiva che sarebbe scoppiato.
Non pensava di poter provare una cosa simile per lui. Erano migliori amici, coinquilini, tutto qui.

O era quello che tu ti sei sempre imposto di pensare, John?

Aveva sempre pensato che Sherlock fosse un uomo attraente, con quegli zigomi, quei capelli e quegli occhi, con buon gusto nel vestire ed estremamente intelligente, ma chi altri non l’aveva pensato?
Da dove gli venivano tutte quelle fantasie? Ma non era solo questo. Non era solo attrazione sessuale… ogni tanto si scopriva a come sarebbe stato stare fra le sue braccia, accarezzarlo, coccolarlo, baciarlo e…
A volte il cuore gli batteva forte quando lo vedeva e  sentiva una strana sensazione pervaderlo tutto. Una bella sensazione.

E poi, quando l’aveva creduto morto era morto anche qualcosa dentro di lui. E quando aveva scoperto che invece era vivo, qualcosa era improvvisamente rinato. E sentiva che se l’avesse perso di nuovo non si sarebbe più ripreso.

Si passò le mani sulla faccia e si girò su un fianco. Ma che diamine gli stava succedendo? Lui non era gay e non aveva mai provato attrazione verso gli uomini. Ma verso Sherlock sì, fin da quando l’aveva conosciuto aveva provato qualcosa per lui, ma l’aveva sempre attribuito alla ammirazione che provava nei suoi confronti e a quella sorta di invidia per il suo essere sempre così impeccabile.

Non poteva provare queste cose per Connie? Lei era una ragazza ed era carina… ma soprattutto sarebbe stato più facile, con lei.

Da quanto, poi, non usciva con qualcuna? Troppo… forse era proprio per questo che sentiva queste sensazioni per Sherlock.
Bene, allora domani si sarebbe rimesso sulla pista.  

 

 

MILLY’S SPACE

Sarò breve visto che è tardi.
Ebbene, si è scoperto il segreto di Connie, ma immagino che qualcuno di voi l’avesse già intuito. Ma le sorprese non finiscono qui ^^

Purtroppo noto che non mi lasciate delle recensioni, il che mi dispiace. Potete anche dire che non vi piace o darmi consigli, quello che volete : )  accetto tutto (be’, quasi).
Be’, detto questo, vi ricordo solo di venirmi a trovare sulla mia pagina facebook così potete vedere le altre storie che ho pubblicato e a breve ci metterò le foto di Connie.

Un bacione,
M.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


CAPITOLO SEI

“Ma possibile che non ti abbia detto niente?”

“Che cosa avrebbe dovuto dirmi?”

“Be’, perché è qui, per esempio”.

Sherlock cercò di non lasciar trapelare tutta la frustrazione che stava provando in quel momento e faticò a trattenersi dal sbattere la testa contro il muro. Ma perché Mycroft doveva essere così frustrante? E, soprattutto, così insistente?

“Me l’hai già chiesto un centinaio di volte”, gli fece notare il detective, appoggiato con i gomiti sul camino, lo sguardo fisso sul suo teschio.

“Tu non me lo vuoi dire”.

“Non so perché sia tornata”.

“Tu che non sai qualcosa?” abbaiò Mycroft con un sorrisetto sardonico. “Da quando?”

Il fratello, allora, si voltò di scatto verso di lui e lo fulminò con lo sguardo. “Ma perché ti ostini? Magari è tornata perché voleva tornare”.

“Lei non fa niente senza un motivo!” L’unica cosa che tratteneva il fratello maggiore dall’urlare erano le buone maniere. E perché non gli andava che tutti in Baker Street sapessero dei loro affari. In quel momento sopraggiunse anche John che, da quando i due Holmes si erano messi a litigare, aveva fatto in tempo a farsi la doccia e cambiarsi.

“Lo dici tu questo? Non sei mai stato buono nelle intuizioni”.

“Lo dico perché la conosco”.

“Ne sei sicuro?”

Mycroft si zittì di colpo, non tanto per le parole del fratello ma per lo sguardo che gli aveva lanciato. Aveva assottigliato gli occhi, come se lo volesse minacciare o come se cercasse di fargli capire che nascondeva qualcosa. Il che era più probabile, ormai aveva capito che c’era qualcosa che non gli diceva.

“Lei non è una brava persona”.

“Non lo sono nemmeno io”.

“Lo sai di cosa parlo”.

“No, non lo so. E nemmeno tu lo sai. Non sai un bel niente, Mycroft”.

Sherlock si buttò sulla sua poltrona e fissò lo sguardo di fronte a sé per far capire all’altro che voleva essere lasciato in pace.

“Cerca di scoprire perché Constance è qui”, concluse infine Mycroft voltandosi verso la porta per andare via. Ma qualcosa lo lasciò completamente paralizzato lì sul posto. “Connie!” esclamò, gli occhi spalancati. “Da quanto sei qui?”

“Da un po’”, rispose lei con voce ferma e in tono duro. La sua espressione lasciava chiaramente intendere che non era rimasta del tutto indifferente, sembrava per lo più arrabbiata, ma il corpo avvolto nel lungo cappotto era scosso da alcuni tremiti.

“Hai sentito?”

“Ho sentito quello che bastava, Mycroft”.

“Meglio che me ne vada”.

“Sì, vattene. Scappa, l’hai sempre fatto bene”. Lo disse in modo tagliente, ma non lo urlò. Il che rese la frase ancora più terribile.
Mycroft raggiunse la porta d’ingresso in poche falcate e le passò accanto senza guardarla. Lei invece lo squadrò da cima a fondo coi suoi occhi di ghiaccio.
John corse dietro all’uomo prima che questi se ne andasse.

“Mycroft, aspetta!” lo richiamò quando era già in strada. L’altro si voltò a guardarlo piuttosto stizzito. "Perché ce l’hai con lei? E’ tua sorella”.

Holmes roteò gli occhi da una parte all’altra poi riportò lo sguardo sul dottore. “Non intrometterti in affari che non ti riguardano”.

John avrebbe voluto rispondergli che quelli erano affari che lo riguardavano, visto che ormai faceva parte della vita di Sherlock, ma Mycroft sparì dentro la sua auto che si immise nel traffico. Ma in ogni caso sarebbe stato fiato sprecato.
Perciò tornò di sopra dove trovò l’amico ancora seduto sulla poltrona e lo sguardo perso nel vuoto. Connie invece non c’era.

“Dov’è andata?” chiese al moro.

“Dalla Signora Hudson”, rispose lui come se fosse la cosa più normale del mondo e lei frequentasse abitualmente la Signora Hudson.

“Dalla Signora Hudson? Dovresti parlarle tu!”

“Alla Signora Hudson?” Sherlock alzò gli occhi su di lui, confuso.

“No, a tua sorella!” rispose John, aggiungendoci un idiota, mentalmente. “Dovresti consolarla”.

Il detective sembrò soppesare le sue parole con certo interesse, poi si alzò e uscì anche lui dall’appartamento.

 

“Immagino che vogliate parlare”, disse la Signora Hudson quando vide Sherlock fare capolino dalla porta. “Vi lascio soli”. L’anziana abbandonò la sua cucina e uscendo scambiò uno sguardo d’intesa con Sherlock che ricambiò sorridendo. Poi lui si sedette al posto della sua padrona di casa, accanto a Connie che stringeva tra le mani una tazza di tè caldo.
Restarono per qualche tempo in silenzio, ognuno che evitava accuratamente lo sguardo dell’altro, anche se ogni tanto si guardavano di sottecchi.

“Mycroft è stupido”, sbottò infine Sherlock interrompendo il silenzio.

“Questo lo avevamo capito già da piccoli”.

Il detective pensò che forse doveva dire qualcosa di un po’ più confortante, ma proprio non gli veniva in mente niente. Lui non era bravo in quelle cose. Perché non poteva pensarci John?  

“Non devi dargli ascolto”.

“Ho smesso di farlo da molto tempo”.

Ok, non stava funzionando.

In quel momento, però, Connie poggiò una mano sulla sua e fissò i suoi occhi in quelli del fratello, identici ai suoi. “Non devi preoccuparti per me, Sherly”.

Sherlock si morse il labbro inferiore, sentendo una strana e poco piacevole sensazione afferrargli lo stomaco. “Devo invece. Tu l’hai…”.

“Non importa”, lo interruppe la ragazza con un sorriso rassicurante. “Non importa. E in ogni caso Mycroft ha ragione”.

Il detective inclinò il capo confuso.

“C’è un motivo se sono qui”, ammise infine Connie con un sospiro. Ormai era arrivato il tempo di rivelarlo. “Aspetto un bambino”.

Sherlock sbatté le palpebre un paio di volte cercando di assimilare le sue parole. Poi strinse più forte la mano della sorella tra le sue, senza rendersene conto.

“Oh”.

“Già. Pensavo lo avresti capito”.

Capire? Perché avrebbe dovuto capirlo? Quando Connie voleva, sapeva nascondere bene le cose, persino a lui. E comunque non si era impegnato a capire come mai lei fosse tornata a Londra, né se ci fosse qualcosa di diverso in lei. In tutti i sensi. Non come aveva fatto Mycroft, almeno.

“John! Smettila di origliare, ti ho sentito!” gridò a quel punto, rivolto alla porta. John, con l’espressione tipica di un bambino quando viene colto con le mani nella nutella prima di cena, uscì fuori dal suo nascondiglio e sorrise mesto. Connie scoppiò a ridere, forse più per la sua espressione che per altro.

“Raccogli quella faccia da cucciolo maltrattato e vai a ordinare la cena. Ho voglia di cinese. E anche il pargolo che sta dentro a mia sorella”.

Il dottore non se lo fece ripetere due volte e scattò come una molla.

La ragazza intanto si asciugava le lacrime per le risate. “John è una bella persona”.

“Sì, è vero”.

“Ti piace?”

“Sì”.

Connie gli sorrise e lui ricambiò, ma non intuì che nel suo sorriso c’era molto di più di quello che lei volesse fargli intendere. Aveva capito quello che il fratello nascondeva persino a se stesso. In fondo, il suo fratellino era ancora recuperabile.

“Sherly?”

“Sì?”

“Dimmi che mi vuoi bene”.

Sherlock guardò l’orologio a cucù appeso al muro senza in realtà vederlo, e poi si alzò in piedi. “Andiamo a mangiare”.

 

“Dove sei stata dopo che hai lasciato Londra?” chiese John, mettendo in bocca un po’ di riso. Lui, Sherlock e Connie erano seduti attorno al tavolo della cucina e mangiavano la cena ordinata dal dottore chiacchierando del più e del meno.

“In giro”, rispose la ragazza. “In Francia, in Italia, in Germania, ma soprattutto negli Stati Uniti, a New York”.

“Pff, l’America, terra del consumo e del cibo confezionato”, commentò il consulente detective.

“Il cibo inglese non è tanto meglio”, gli fece notare la sorella.

“Almeno noi non siamo grassi come gli americani”.

“No, ma gli americani sono più virili”, ridacchiò lei maliziosa. “O almeno quello con cui uscivo io lo era. Per l’appunto mi ha messo incinta”.

E a quel punto calò il silenzio, nemmeno una mosca si sentiva ronzare.

“Chi era?” chiese Sherlock.

“Uno stronzo. Gli piaceva scopare per lo più, bere e guardare il football. Però era passionale”. Lo sguardo di Connie sembrò perdersi da qualche parte, lontano, in ricordi piacevoli ma anche dolorosi. “Sapeva come farmi ridere e divertire, mi emozionava. E aveva un modo di vedere le cose che mi piaceva”.

Ti somigliava, Sherlock, da questo punto di vista.

“Ma era uno stronzo”.

“Sì, era uno stronzo. Mi ha lasciata dopo che ha scoperto che sono incinta”.

 

Mycroft correva sul suo tapirullan quando vide il cellulare illuminarsi. Scese dal macchinario e lo afferrò dal tavolo, scoprendo che era un messaggio.

Sherlock: Connie è incinta.

L’uomo assottigliò le labbra e rispose velocemente. “Lo sapevo, che nascondeva qualcosa”.

Sherlock: Resta il fatto che tu non sai niente di lei.

Capiva perché Sherlock si ostinasse a volerla difendere tanto; aveva sperato che in quegli anni se la fosse dimenticata, che quella strana… cosa che provava per lei fosse andata via. E invece, scopriva che non era così. E forse non lo era mai stato.
Avrebbe dovuto fare qualcosa, adesso.

 

 

MILLY’S SPACE

Salve.

Aggiorno di nuovo. Volevo farlo prima di partire per la Spagna e spero di trovare qualche recensione al mio ritorno. Vi lascio anche il link per la mia pagina facebook (https://www.facebook.com/MillysSpace?ref=hl)  perché adesso metto le foto di Connie.
Un bacione,

M.

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


CAPITOLO SETTE

Quando John Watson rientrò nel 221B quella sera trovò Sherlock e Connie seduti sul divano, al buio, di fronte alla tv che discutevano su un programma che stavano trasmettendo sulla BBC.

“Secondo me è stata la moglie”, disse la ragazza in tono deciso.

“No”, la contraddisse Sherlock.

“No?”

“No. È troppo banale e poi il vicino di casa ha tutti i motivi per ucciderlo”.

“Oh, fratellino quanto sei ingenuo! Questi stupidi programmi televisivi sono il massimo della banalità”.

Il dottore, passando in cucina, lanciò un’occhiata al televisore e vide che stavano guardando quel nuovo programma che avevano iniziato a trasmettere da poco in cui veniva inscenato un omicidio con diversi indagati e il pubblico da casa doveva cercare di capire chi era stato. Una cosa divertente, Sherlock aveva passato diverse serate guardandolo.

“John, facci il tè”, urlò Sherlock senza togliere gli occhi dallo schermo. L’uomo era convinto che  non si fossero nemmeno accorti del suo arrivo, tuttavia non era così e in un certo senso gli fece piacere che Sherlock se ne fosse accorto, anche se la sua mente era concentrata su altro. Così si mise a fargli il tè esattamente come piaceva a lui, con due zollette di zucchero e un po’ di latte.
Quando lo ebbe servito sia a lui che a Connie, il detective gli indicò il posto accanto a lui sul divano e gli disse di sedersi.
John si accomodò e soffiò sulla propria tazza di tè caldo, poi rimase a guardare il profilo di Sherlock. Era seduto come sedeva al solito, ma meno composto e più rilassato e aveva una spalla appoggiata a quella della sorella, il che era strano perché di solito evitava contatti con le persone, a meno che non fosse necessario.

Rimasero a guardare il programma finché non fu conculso, scoprendo alla fine che Sherlock aveva avuto ragione, ma John non si concentrò molto sulla televisione. Era più preso dal detective e ogni tanto aveva avuto la tentazione di poggiargli una mano sulla gamba o di abbandonare la testa sulla sua spalla, ma aveva sempre resistito.
Almeno finché non lo trovò addormentato col capo poggiato sullo schienale. Connie aveva acceso la luce ed era andata a lavarsi i denti in bagno. John era rimasto ad osservare il coinquilino per un po’, beandosi dell’espressione che aveva mentre dormiva. Quella era la prima volta che lo vedeva dormire e doveva ammettere che era una visione che non si sarebbe mai scordato. E anzi, prese il cellulare dalla tasca e gli scattò una foto. Poi si sedette sul bordo accanto a lui e gli accarezzò i riccioli molto delicatamente perché non si svegliasse. Tuttavia Sherlock aveva un sonno leggerissimo e subito cominciò a muoversi.

John spostò velocemente la mano e lo osservò stiracchiarsi. Sherlock sbatté un paio di volte le palpebre e rimase a guardare l’altro con occhi assonnati. Era la scena più tenera che il dottore avesse mai visto e cercò di memorizzarla in ogni più piccolo dettaglio perché sicuramente non gli sarebbe più ricapitato.

“Mi sono addormentato?” chiese il consulente con voce impastata.

“Sì”.

“Oh”.

“Perché non vai a dormire?”

“Sì, lo farò”. Sherlock si alzò lentamente e con passo strascicato arrivò fino alla soglia del salotto. Poi si girò di nuovo verso John e, col capo inclinato da un lato, gli chiese: “Vieni a rimboccarmi le coperte?” sparendo prima che l’altro potesse dire qualcosa. John rimase a guardare il punto da cui l’altro era sparito pensando che sì, gli avrebbe rimboccato le coperte e anzi, se gliel’avesse chiesto avrebbe anche dormito accanto a lui tenendolo stretto tra le braccia.

 

La sera dopo, visto che era sabato, Connie, John, Lestrade, Anderson, Sally e Molly si erano ritrovati in un pub a bere e a chiacchierare del più e del meno. Erano seduti attorno a un tavolino dove la musica arrivava leggermente più attutita mentre tutte le altre persone attorno a loro erano impegnate a ballare.

“Dai, raccontaci qualcosa su Sherlock”, esclamò ad un certo punto Sally guardando in direzione di Connie. E subito gli altri ammutolirono, l’attenzione tutta rivolta a lei.

“Non mi piace raccontare i fatti di mio fratello”, disse lei però, lasciandoli tutti un po’ delusi. “E poi lui è sempre molto riservato”.

“Questo sì, ma com’era da bambino?” chiese Lestrade finendo la sua birra.

“Be’…”, iniziò la ragazza esitando. “Era un bambino un po’ complicato”.

“Perché? Adesso non lo è?” scherzò Anderson ma nessuno rise e, anzi, Connie gli lanciò un’occhiata storta.

“Avevamo un bel rapporto io e lui. Ci capivamo, ci confidavamo…”, lo sguardo della ragazza si perse a fissare una macchia sul tavolo e un improvviso velo di malinconia sembrava esserle sceso davanti. “Era… bello. I nostri genitori non erano molto presenti così dovevamo contare l’uno sull’altro”.

“E Mycroft?” chiese John, ora molto curioso di sapere com’era l’infanzia del suo migliore amico.

“Mycroft era… era il classico figlio prediletto, quello che faceva sempre le cose come dovevano essere fatte e che non sbagliava mai niente. Era duro, serio, distaccato”. 

“Oh”.

“La nostra infanzia non è stata molto bella e l’adolescenza ancora meno. Almeno per me e Sherlock”.

“Mi… mi dispiace”, sussurrò Molly facendosi udire appena. Ma Connie riuscì a sentirla bene lo stesso e le sorrise dolcemente. “Non importa. Ora non è più così. Ora siamo entrambi felici e abbiamo tutto ciò che ci serve”.

La ragazza cercò di smorzare la tensione che si era venuta a creare ma gli altri difficilmente si sarebbero dimenticati di queste parole. Forse per questo Sherlock era così com’era, complicato, indifferente e sociopatico.
E John avrebbe voluto saperne di più.

“Molly?” chiamò ad un tratto Connie. “Ti va di venire a ballare?” La ragazza accettò volentieri e si diresse con la mora verso la pista da ballo.

“Sally, andiamo anche noi?” chiese Anderson porgendo una mano alla ragazza seduta accanto a lui. “D’accordo”.

John e Greg si ritrovarono soli seduti al tavolo, il silenzio sceso di colpo. “Per quanto io possa conoscerlo, Sherlock per me rimarrà sempre un mistero”.

“Già”.

In quel momento videro sbucare la chioma riccioluta e il lungo cappotto di Sherlock che si sedette accanto a loro sulla sedia lasciata libera da Molly.

“Sherlock!” esclamò John sorpreso. “Che ci fai qui?”

“Dove sono i tizi mascherati che hanno sbarrato il locale minacciando di uccidere tutti?” chiese il detective guardandosi attorno con fare schifato.

“Quali tizi?”

“Di che stai parlando?”

Sherlock aprì la bocca come per dire qualcosa ma rimase semplicemente a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Connie gli aveva mandato un messaggio dicendogli che il locale era stato preso d’assalto da dei pazzi assassini e lui si era precipitato lì. Ma a quanto pareva era solo una scusa per farlo venire in quel posto puzzolente e pieno di persone. E infatti, ballando insieme a Molly tra la moltitudine di persone, la sorella lo guardava con un sorrisetto beffardo salutandolo con la mano.

“Non importa”, concluse il moro allungando la mano verso la birra di John e trangugiando l’ultimo sorso senza neanche chiedergli il permesso. “Avete trovato chi ha ucciso quel ragazzo?” chiese rivolto a Lestrade.

“Ci stiamo lavorando. Sotto le unghie della vittima ci sono delle tracce di pelle che forse appartengono all’assassino. Molly le deve analizzare e poi lo scopriremo”.

“L’ho sempre detto che voi siete lenti a fare il vostro lavoro e che perdete un sacco di tempo”, commentò Sherlock in tono impassibile. Ma né John né Greg lo rimbeccarono, ormai abituati alle sue offese, soprattutto quest’ultimo.

 

“Ti va se andiamo a mangiare qualcosa? Sto morendo di fame”, chiese Connie in tono vivace affiancandosi a John che l’aspettava sul marciapiede di fronte al Bart’s. La ragazza doveva fare un’ecografia al bambino e John aveva deciso di accompagnarla al posto di Sherlock visto che, il detective, aveva detto di avere una cosa importante da fare. A Mycroft non aveva nemmeno osato chiederlo.

“D’accordo. Ti va la cucina italiana?”

“Sì, perché no?”

Camminando con passo tranquillo, si diressero lungo il marciapiede costeggiando l’ospedale e passando poi accanto a un negozio di antiquariato. Durante la passeggiata rimasero in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri, mentre Connie lanciava occhiate alle vetrine, ogni tanto.

Quando finalmente giunsero da Angelo, il dottore aprì la porta alla ragazza trovando subito due posti appartati per sedersi.

“John! Lei è la tua nuova conquista?” esclamò il proprietario non appena lo vide, avvicinandosi al loro tavolo con il blocco delle prenotazioni.
John gli sorrise imbarazzato. “Veramente lei non è la mia… ragazza. È la sorella di Sherlock”.

Angelo guardò la ragazza per qualche secondo, poi le sorrise amabilmente. “Incantato di conoscerla, Milady”, fece l’uomo con fare teatrale. “Non sapevo che il signor Holmes avesse una sorella. Soprattutto così bella”.

Connie ridacchiò divertita. “Lei è troppo gentile. Se continua così potrei cadere accidentalmente tra le sue braccia”, disse con fare civettuolo e uno sguardo malizioso.

“No, meglio di no. Altrimenti poi chi lo sente quell’altro. Che cosa prendete?”

I due ospiti ordinarono il loro pranzo e poi si rilassarono sulle proprie sedie. “E’ una bella giornata oggi”, commentò John guardando attraverso la vetrina. Non aveva voglia di passare altro tempo in silenzio, ma non sapeva nemmeno di cosa avrebbe potuto parlare. O meglio, lo sapeva ma non poteva introdurre quell’argomento come nulla fosse.

“Sì, ottima per fare una passeggiata”, confermò Connie.

John improvvisamente si voltò verso di lei e, torturando un tovagliolo, le chiese. “Cosa hai intenzione di fare adesso? Col bambino, intendo?”

La ragazza sembrò rimanere piuttosto sorpresa di quella domanda, almeno per qualche momento. “Non… non lo so. È mio figlio e non voglio darlo via. Immagino che mi dovrò trovare un lavoro e un posto dove abitare. Non posso restare sempre da voi”.

“Per me non c’è problema. E nemmeno per Sherlock. Solo che il divano non è così comodo”.

“Sto bene sul divano. Ma non voglio gravare te e mio fratello della presenza di un bambino”.

John abbassò lo sguardo sul proprio piatto vuoto, pensieroso. Non gli dava fastidio che Connie vivesse con loro, gli piaceva ed era una brava persona. Solo che gli mancava un po’ quell’intimità che aveva con Sherlock, quel loro confabulare insieme sui casi bevendo il tè ognuno sulle proprie poltrone. Adesso, invece, ogni volta che tornava a casa, doveva aspettarsi di trovare una seconda persona che magari avrebbe preso il suo posto. E oltretutto gli pareva che Sherlock fosse diventato ancora più misterioso e cupo di quanto non lo fosse prima. La presenza della sorella non gli era del tutto indifferente.

“Comunque…”, sospirò il dottore. “Se hai bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, io ci sono. E anche Sherlock”.

“Lo so”, gli sorrise Connie. “Lo so. Ma dimmi una cosa”.

“Cosa?”

“Da quanto tempo conosci mio fratello?”

“Da circa quattro anni?”

“Ed è sempre stato così?”

“Così come?” Non capiva dove la ragazza volesse andare a parare, ma intuiva che voleva chiedergli qualcosa di serio.

“Be’, così come è”.

John parve pensarci un attimo. “Direi di sì. Sherlock è sempre stato Sherlock. Un sociopatico iperattivo”.

Sul viso di Connie passò una smorfia fugace. “No, non è così. Sta dando un’idea sbagliata di sé”.

L’uomo aggrottò le sopracciglia confuso. “E com’era da giovane?”

“Era…”, di nuovo un velo di malinconia coprì gli occhi della ragazza. “Era il ragazzo più fragile che avessi conosciuto, sensibile, un po’ arrogante, ma… speciale. Sì, Sherlock è sempre stato speciale e chissà perché tutti sembravano averne paura”.

Forse un giorno avrebbe convinto Connie a raccontargli tutta la storia o forse l’avrebbe fatto Sherlock stesso. Stava di fatto che ne sarebbe venuto a conoscenza perché sapeva che nella giovinezza del detective c’era qualcosa… qualcosa di fondamentale, qualcosa che aveva cambiato tutto.

“E dimmi un’altra cosa, John”.

“Cosa?”

“Sei innamorato di mio fratello?”

 

 

MILLY’S SPACE

Hola a todos : ) confesso che non sono molto soddisfatta di questo capitolo, ma non volevo farvi attendere troppo e oltretutto credo di non avere modi migliori per scriverlo. In ogni caso, me lo direte voi. Ho in mente un sacco di idee, ma devo trovare la maniera adatta per metterle insieme e, soprattutto, mi devo ricordare di non affrettare le cose ^^ almeno tra John e Sherlock.

Spero mi lascerete qualche recensione, per me sono molto importanti.

Un bacione,
M.

MONKEY_D_ALYCE: ehi, mi fa piacere che lo scorso capitolo ti sia piaciuto : ) cosa mi dici di questo. Comunque sì, Connie è incinta ed il primo che l’ha saputo è stato Lestrade. Vorrà dire qualcosa? Mah ^^ e Sherlock è più tenero di quello che si pensa xD
Un bacione, Milly.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


CAPITOLO OTTO

Quando Connie rientrò a casa quel pomeriggio, trovò Sherlock e John seduti sulle loro poltrone, come al solito, e una donna che lei non aveva mai visto accomodata su una sgangherata sedia di legno di fronte ai due uomini. Sembrava piuttosto sconvolta, cercava di trattenere le lacrime con un fazzolettino di cotone in mano. Di aspetto era piuttosto insignificante, era una di quelle donne di cui ti scordi appena smetti di guardarla, e parlava, o meglio, singhiozzava, di un cane dalmata a cui lei voleva bene come ad un figlio.
Sherlock non la stava guardando e pareva che non la stesse nemmeno ascoltando. John sembrava essere nella stessa situazione; aveva un braccio appoggiato al bracciolo della poltrona e con la mano si reggeva la testa. fissava la donna, ma sembrava non vederla.

Connie si diresse quatta quatta verso la cucina e rimase ad osservare la scena. Nessuno si voltò verso di lei, il che le fece dedurre di non essere stata notata o quantomeno di non aver attirato l’interesse. Meglio così, voleva godersi lo spettacolo e capire che cosa esattamente stesse succedendo.

Ad un tratto la sconosciuta tirò un singhiozzo decisamente più lungo e più fastidioso degli altri, il che fece spazientire parecchio Sherlock che si riscosse tutto d’un colpo ed esclamò: “Non mi interessa! Il prossimo!”

L’espressione che assunse la donna era forse la più comica che Connie avesse mai potuto vedere e sarebbe scoppiata a ridere se non avesse espresso così tanta drammaticità. Era rimasta a fissare il detective con la bocca spalancata e le mani a mezz’aria.
Con qualche scusa molto gentile e dispiaciuta, John riuscì a mandarla via facendo accomodare subito dopo un altro ospite, un uomo sulla trentina ma già calvo in cima alla testa ed evidenti problemi di alitosi.

“Cinque anni fa la mia fidanzata è morta”, iniziò l’uomo non appena si fu seduto sulla sedia ed ebbe ricevuto tutta l’attenzione dei due. “Tutti dicono che si sia trattato di suicidio ma io non ci credo. La mia Betty non l’avrebbe mai fatto. È vero, aveva qualche problema di fiducia e piangeva spesso ma non si sarebbe mai suicidata. Qualcuno l’ha uccisa, ne sono sicuro, ma la polizia non ha voluto indagare”.

“Forse si è uccisa per non dover sopportare il suo alito”, commentò Sherlock sottovoce e solo John riuscì ad udirlo.

“Come?” chiese l’uomo che l’aveva sentito borbottare.

“Niente, niente. Vada avanti”.

“Betty è stata uccisa”, ripeté l’altro cercando di mostrare un’espressione convinta. Poi non aggiunse altro e Sherlock rimase ad osservarlo aspettandosi che parlasse ancora. “Quindi?” gli intimò.

“Betty, la mia Betty è stata uccisa”.

“Sì, questo lo ha già detto”.

L’uomo abbassò il capo, imbarazzato.

“Che cosa glielo fa credere, che sia stata uccisa?” chiese John a quel punto.

“Ecco… niente di concreto a dire il vero. Solo il mio sesto senso”.

“Il suo sesto senso?” ripeté Sherlock quasi istericamente. Poi prese un grosso sospiro e cercò di calmarsi. “Per caso la sua fidanzata andava da un analista?”

“Sì, ma…”.

“E prendeva degli antidepressivi?”

“Sì, ma…”.

“Allora si è trattato di un suicidio. Mi dispiace. Il caso è chiuso”.

“Ma…”.

Sherlock mostrò all’uomo il palmo aperto della sua mano e con uno scatto la chiuse a pugno, al che l’altro ammutolì di colpo.
John lo accompagnò alla porta e rientrò di nuovo, ma questa volta da solo.

“Non ci sono altri clienti, Sherlock”.

“Maledizione!” esclamò il detective alzandosi dalla poltrona. “Possibile che non accada niente di interessante? Che me ne faccio di cani scomparsi e fidanzate suicide? Mi annoio!” Si buttò sul divano e rimase a fissare il soffitto.

Il dottore raggiunse Connie in cucina e si versò il tè ormai freddo in una tazza. “Che cosa succede?” chiese la ragazza. “Chi era tutta quella gente?”

“Possibili clienti. Ma ora non più. Mettiamo degli annunci su internet e a volte la gente gli chiede se può risolvere qualche crimine a cui sono andati incontro e che non si sono mai risolti. Ma i più vengono solo per incontrare Sherlock”.

“Capisco…”, annuì la ragazza mettendo enfasi sulla parola.

Raramente però capitava che, tra i clienti che venivano nel loro appartamento, riuscissero a trovare qualche caso interessante. E adesso la situazione si faceva preoccupante perché era da un po’ che Sherlock non si trovava con qualcosa di interessante tra le mani e John temeva che si sarebbe messo a sparare al muro per la noia, o magari a qualcos’altro.

“E tu?” gli chiese ad un tratto Connie, guardandolo con un’espressione che sembrava intenderla lunga.

“Io cosa?”

“Incontrare Sherlock?” disse a voce bassa.

“Di che stai parlando?”

“Lo sai benissimo”. La ragazza lo guardò maliziosa e l’uomo voltò immediatamente il capo. Preferiva evitare quel discorso, non sapeva quanto fosse buono che proprio la sorella dell’uomo di cui era innamorato sapesse questa cosa.

“Vado a farmi una doccia”, concluse John, lasciando la tazza nel lavello e dirigendosi in bagno.

Connie sospirò e andò dal fratello, sedendosi accanto a lui sul divano.

“Ti piace John?” gli chiese ad un tratto, col tono più innocente possibile. Voleva farla passare come una domanda casuale, ma stava parlando con Sherlock, colui che deduceva sempre tutto. Infatti il fratello aprì gli occhi e la guardò perplesso. “Perché mi chiedi questo?”

“Così, tanto per parlare”.

Il detective attese un attimo prima di rispondere. “Sì, mi piace”.

“Ti piace… quanto?”

L’uomo si mise a sedere si scatto e reclinò il capo osservando la sorella. “Mi piace. E’ mio amico. Non ho voglia di rispondere a domande inutili”. Non hai voglia di rispondere a domande compromettenti, Sherlock. La verità era che sì, John gli piaceva, ma non sapeva come, né quanto. O meglio, non voleva saperlo. Era un pensiero che cercava di evitare il più possibile, ma risultava sempre più difficile farlo, specialmente quando John gli stava d’attorno. Eppure voleva sempre averlo attorno. Se ne era reso conto già da un po’, da quella sua finta morte, quando l’aveva dovuto lasciare. Prima si era abituato alla sua presenza, era diventato normale, quotidiano, una di quelle cose che lo rassicuravano. Ma poi… poi qualcosa era cambiato… e….

Il suo cellulare squillò. Era un messaggio di Lestrade: “Stiamo interrogando l’uomo che ha ucciso quel ragazzo. Non vuole parlare. Nasconde qualcosa”.

Il detective alzò lo sguardo sulla sorella. “Vieni con me?”

 

A Sherlock non piaceva stare chiuso negli uffici investigativi di Scotland Yard, non tanto per la presenza di tutte quelle persone che considerava inutili o stupide, quanto più perché gli parevano angusti e mal arieggiati. Non che soffrisse di claustrofobia, ma era solo una sensazione psicologica poco piacevole.
  Perciò ora, mentre parlava con Lestrade, non vedeva l’ora di andarsene da lì e non cercava nemmeno di evitare di farlo capire. Passeggiava avanti e indietro per la stanza e lanciava occhiate alla porta ogni trenta secondi.

“Avete risolto il vostro caso. Non riesco a vedere il motivo per cui io dovrei stare qui”.

Greg sbuffò appoggiandosi contro lo schienale della sedia. “Certo, l’omicidio è stato chiaramente un incidente, ma…”.

“Ma tu credi che ci sia dell’altro”, concluse Sherlock per lui. Il detective investigativo allargò le braccia facendogli capire che aveva indovinato. In quel momento Sally Donovan entrò nella stanza portando una tazza di carta piena di tè che pose davanti al viso di Connie, seduta alla scrivania di Lestrade.

“E hai bisogno del mio aiuto, come sempre”, aggiunse il moro con un sorrisetto tronfio.

“Il geniaccio ha parlato”, commentò Sally acida. “Non capisco perché continui a rivolgerti a lui”, sospirò in direzione del suo capo.

“Donovan, torna a leccare il culo ad Anderson. Nessuno ha chiesto la tua opinione”.

Sally lo guardò sconvolta e aprì bocca per ribattere, ma venne interrotta da Connie che lo rimbrottò: “Non essere scortese, Sherlock!”

“Ha iniziato lei”, si difese il fratello in tono quasi infantile.

“La vogliamo smettere con questi giochetti?” si intromise Lestrade prima che la ragazza avesse il tempo di dire altro. “Mettiamoci a lavorare piuttosto”.

Sherlock allora si parò di fronte al detective, a qualche passo di distanza dalla scrivania e, con il tono più autoritario che gli uscì e uno sguardo glaciale, pronunciò: “Fammi parlare con il tizio che avete preso”.

 

“Non capisco come tu abbia fatto a sopravvivere tutto quel tempo con Sherlock”, sbottò Donovan mentre lei, Connie e Lestrade aspettavano fuori dalla stanza degli interrogatori che Sherlock finisse di parlare con l’uomo che era stato arrestato quella mattina. “Non dirmi che da piccolo era uguale”.

Connie ridacchiò divertita. “No, non era così”.

“Ah, meno male. Ma che trauma ha subito per diventare uno psicopatico?” La domanda di Sally era retorica e ironica, ma la mora abbassò lo sguardo e cercò di non far trapelare quello che stava pensando, ovvero che una risposta a quella domanda in verità c’era, ben chiara e precisa. Ma la detective non era certo la persona giusta a cui raccontarla.

“Comunque, con Mycroft e lui non ci si annoiava mai. Era sempre una competizione tra loro”.

“Povera signora Holmes”.

Calò il silenzio per qualche minuto, interrotto soltanto dal ronzio del riscaldamento e dal vocio che proveniva dalla stanza affianco.

“Senti, Connie…”, iniziò a un certo punto Greg, avvicinandosi alla ragazza e abbassando la voce. “Non è che… sì, insomma… mi chiedevo se ogni tanto, quando hai tempo, ti andrebbe di bere qualcosa. Dico così, tanto per passare il tempo”.

Connie restò a guardare il detective per qualche attimo, poi gli sorrise teneramente. “Sì, perché no? Tanto non ho niente da fare”.

“Davvero?” L’espressione di Lestrade mostrava una certa sorpresa e forse anche un pochino di sollievo.

“Sì. Ti lascio il mio numero, così mi chiami, se vuoi”. La ragazza tirò fuori dalla borsa un foglio di carta e una penna e si mise a scrivere. Sally lanciò loro un’occhiata, ma era parecchio distante per udire di cosa stessero parlando. “Ma dimmi una cosa…”, continuò Connie, consegnando il foglietto all’uomo. “E’ un caso difficile, questo?”

“Non… non saprei. Abbastanza. Ma non posso parlarne con te, mi spiace, sono informazioni riservate”.

“Oh, certo, certo. Non volevo intromettermi. Solo…”. La ragazza restò a fissare un punto di fronte a sé, come incantata, poi sorrise di nuovo al detective. “No, niente. Lascia perdere”.  

“C’è qualcosa che ti preoccupa?”

“No, non è niente”. Greg avrebbe voluto investigare di più, ma in quel momento Sherlock uscì dalla stanza con un’espressione di pura soddisfazione.

“Allora, che ti ha detto?” chiese Sally.

“Tasso”.

“Tasso? Cosa vuol dire?”

“Non lo so”.

 

Connie, seduta sul sedile posteriore di un taxi assieme al fratello, controllò l’ora sul cellulare e lo ripose in borsa. Poi si avvicinò di più a Sherlock e gli appoggiò la testa sulla spalla.

“Sherly?” chiamò.

“Hmm?”

“Sei sicuro di voler lavorare su questo caso? È pericoloso”.

“Ho lavorato su casi più pericolosi”, le ricordò il detective, gli occhi chiusi e la mente concentrata.

“Sì, ma… qui c’è di mezzo la droga”.

Sherlock capiva la preoccupazione della sorella, ma era assolutamente infondata. Non sarebbe successo niente, non più, glielo aveva promesso. Non poteva deluderla. E non poteva nemmeno farsi sfuggire un caso così. Si prospettava qualcosa di difficile, di esaltante, forse persino meglio del caso Moriarty.

“Non ti preoccupare, sorellina”.

E allora Connie si rilassò. Sì, ora poteva stare tranquilla, perché glielo aveva detto Sherlock. Ma soprattutto perché l’aveva chiamata sorellina.

 

 

MILLY’S SPACE

Buonasera… finalmente riesco ad aggiornare qualcosa. Purtroppo la scuola mi porta via un sacco di tempo ed è difficile destreggiarsi tra le varie cose. Spero non avervi fatti arrabbiare troppo.
Ancora non siamo arrivati al clou della storia, ma non preoccupatevi, ci sarà e si scopriranno un sacco di scheletri nell’armadio ^^.

Voi però, nel frattempo, lasciatemi qualche commento che mi fa sempre piacere.

Un bacione,

M.

MONKEY_D_ALYCE: eh, Sherlock è bravo a dedurre l’esterno delle persone, ma quando si parla di sentimenti… mah, chissà ^^ vedremo. Sono contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto. Fammi sapere cosa pensi di questo. Baci…

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


CAPITOLO NOVE

Connie compiva gli anni quel giorno e così, alla sera, aveva deciso di dare una piccola festicciola invitando le poche persone che aveva conosciuto nella sua breve permanenza a Londra. La signora Hudson aveva cucinato una torta e alcuni pasticcini e ora si trovava nell’appartamento che aveva affittato a Sherlock e John insieme a Molly, Lestrade e Sally Donovan. Avevano appena finito di mangiare la pizza e chiacchieravano amabilmente del più e del meno. Gli unici che, però, mancavano all’appello erano Sherlock e Mycroft, il primo sparito, come suo solito, chissà dove e l’altro perché, come ormai era chiaro a tutti, non voleva avere troppi contatti con la ragazza. La signora Hudson trovava davvero ignobile da parte loro non presentarsi al compleanno della sorella e già si era preparata un bel discorsetto da fare ad entrambi quando li avesse visti. Connie invece non sembrava essersela presa tanto.

“E’ ora di mangiare la torta”, disse ad un certo punto la proprietaria della casa, alzandosi scattante dalla sedia.

“Non dovremmo aspettare Sherlock?” fece John, pulendosi la bocca con un fazzoletto. Gli dispiace che l’amico non ci fosse, avrebbe reso la serata più divertente. Gli dispiaceva ammetterlo, ma si divertiva a volte a sentirlo offendere.

“Tanto non verrà”, gli rispose Sally con una smorfia.

“Be’, si sta perdendo una festa magnifica”, aggiunse la signora Hudson, poggiando il suo capolavoro sul tavolo. Al vedere la torta, tutti i presenti si leccarono i baffi, persino il bambino in grembo a Connie che ancora non aveva iniziato a notarsi.

Proprio in quel momento, come se li avesse sentito, Sherlock spalancò la porta e fece il suo ingresso entrando come un’ombra scura e minacciosa. Si girò verso la cucina e inclinò il capo perplesso al vedere tutta quella gente.

“Alla buon’ora!” esclamò Lestrade, guardando il moro dall’alto in basso. Il consulente detective poggiò il lungo cappotto sulla poltrona e si accomodò al tavolo sull’unica sedia libera, quella che avevano tenuto per lui.

La signora Hudson aveva appena finito di mettere le candeline sulla torta, trent’uno per la precisione, e ora John l’aiutava ad accenderle.

“Dove sei stato, Sher?” chiese Connie osservando attentamente il fratello e notando che aveva gli occhi leggermente rossi.

“In giro”, rispose lui laconico, evitando il suo sguardo. “Avevo delle faccende da sbrigare”.

“Così importanti da saltare il compleanno di tua sorella?” lo rimbrottò la signora Hudson. Al che il moro mugugnò qualcosa di incomprensibile.

“Forza, Connie, esprimi un desiderio!” esclamò Molly eccitata. Connie decise di lasciare perdere il fratello per quella sera e puntò gli occhi sulla torta illuminata da tutte quelle candele. Per qualche secondo piombò il silenzio nell’appartamento, poi la ragazza gonfiò le guance e soffiò con tutto il fiato che aveva, spegnendo le candeline in un colpo solo. Gli invitati applaudirono e qualcuno scattò le foto.
E poi, naturalmente, ci fu il taglio della torta e tutti i presenti se ne servirono una bella fetta, facendo i dovuti complimenti alla cuoca.

“Perché non giochiamo a obbligo o verità?” propose la festeggiata, mandando giù l’ultimo boccone di torta. “Così vi conosco un po’ meglio”.

“E’ dal liceo che non faccio questo gioco”, disse Sally improvvisamente illuminatasi.

“Io mi astengo”, disse Sherlock, le braccia incrociate sul petto.

“Oh, avanti fratellino! Ti piaceva questo gioco da piccoli. Facevi sempre domande imbarazzanti a Mycroft”.

“Sì, ma Mycroft non c’è, quindi non mi diverto”.

“Ci divertiamo lo stesso”.

“Credo che mi asterrò anche io”, disse la signora Hudson. “Sono troppo vecchia per questo gioco”.

“Non dica sciocchezze, Signora Hudson”, la contraddisse Connie eccitata come una bambina. “Forza, iniziamo!” Percorse con lo sguardo tutti i presenti al tavolo due volte finché non si fermò su Molly. Questa, accorgendosene, tremò leggermente. Anche lei conosceva bene questo gioco e sapeva per esperienza che portava sempre a situazioni poco piacevoli. “Molly. Qual è il tuo film preferito?”

La ragazza sembrò rimanere un attimo perplessa a quella domanda, ma alla fine sospirò sollevata. Quella era una domanda a cui poteva rispondere facilmente. “Direi… Love Story”.

“Oh, troppo melenso”, fu il commento di Sherlock. “E inutile”.

“Io invece lo trovo un bel film”, gli rispose John, guardandolo un po’ storto.

“Ah sì?” Il detective pareva stranito.

“Sì. Intenso”.

“Se lo dici tu”.

“E qual è il tuo film preferito, Sherlock?” chiese allora Molly, interrompendo quello scambio di battute. L’uomo parve pensarci un po’. “Non credo di averne uno. I film sono inutili”.

I presenti sospirarono rassegnati. “Qualcuno faccia una domanda imbarazzante a Sherlock!” disse allora Sally che non vedeva l’ora di prendere in giro il collega e magari vendicarsi di tutte le volte che lo faceva lui.

“Io non rispondo a nessuna domanda”.

“Posso dire io una cosa imbarazzante su Sherlock”, esclamò allora Connie, ridacchiando già. Il fratello, dal canto suo, alzava gli occhi al cielo, ma non gli andava di rovinare l’entusiasmo della sorella.

“Spara!”

Connie ammutolì di colpo creando l’effetto dell’attesa. Poi sbottò: “In quarta liceo Sherlock è stato bocciato”.

Questa volta ad ammutolire furono tutti gli altri, rimasti a fissare la ragazza come se improvvisamente le fossero spuntate due teste. Poi, come un sol uomo, scoppiarono  a ridere. “Nooo! Non è vero”.

“E’ vero, invece!”

“Ma come?! Non eri un genio?” Adesso gli sguardi erano puntati tutti su Sherlock.

“Sì, ma gli insegnanti lo odiavano”, rispose Connie per lui. “Li contraddiceva sempre e diceva che erano stupidi”.

“Insomma, non eri tanto diverso da come sei adesso”, fece notare Greg.

Le labbra di Sherlock si piegarono in una smorfia infastidita ma non disse niente. Sembrava essere di poche parole quella sera stranamente e ancora non aveva offeso nessuno. In un’altra occasione forse qualcuno se ne sarebbe anche accorto, ma erano tutti brilli ed eccitati per farlo.
Improvvisamente, però, il detective si alzò facendo scricchiolare la sedia contro il pavimento e, poggiate le mani sul tavolo, si protese verso Connie puntando i propri occhi chiari in quelli di lei. Allora la ragazza si rese conto di aver appena provocato un drago che dorme.

“Perché non rispondi tu a qualche domanda?” ringhiò l’uomo. “Che cosa sei venuta a fare qui? Perché sei tornata? Cosa vuoi da me? E perché non te ne vai?”

Gli altri presenti restarono gelati sul posto, quasi paralizzati.

“Io non ti voglio qui e non ti vuole nemmeno Mycroft. Tornatene a New York o dovunque to voglia andare, è meglio. Stavo bene senza di te e posso continuare benissimo!”

Dopo di che calò il silenzio. Sherlock si ritirò e tornò a sedersi, come un attore che ha finito di recitare la propria parte e ora si riposava, tranquillo. John, Molly, Sally, Lestrade e la signora Hudson scorrevano con lo sguardo da uno all’altro, sconvolti e confusi. Volevano dire tante cose ma non sapevano da che parte iniziare.
Connie, dal canto suo, sembrava altrettanto scioccata. Era abituata alle provocazioni del fratello, aveva capito che la sua presenza lì non era tanto gradita, però non si aspettava che arrivasse a questo punto.

Si alzò lentamente dalla sedia e, guardando il fratello come fosse un insetto schifoso, sputò in tono gelido: “Se volevi vendicarti ci sei riuscito”. Poi, senza guardare nessuno, uscì dalla porta senza neanche prendere la giacca.

Soltanto allora gli invitati presero a muoversi e a guardarsi attorno imbarazzati, senza sapere che fare. Anche Greg si alzò dalla sedia e decise di seguire Connie. Molly si mordeva il labbro e Sally guardava il detective con espressione delusa e contrariata.

“Sherlock”, sospirò la signora Hudson, ma anche lei stavolta era rimasta senza parole.

Sherlock, invece, decise che era ora di levare le tende e velocemente andò vero la sua stanza, senza dare spiegazioni a nessuno.

 

“Stai bene?”

Connie, seduta sull’ultimo gradino davanti alla porta d’ingresso, con la coda dell’occhio vide Greg sedersi accanto a lei. Era venuto a consolarla? Non aveva bisogno di essere consolata, non avrebbe certo pianto. Però le faceva comunque piacere che le tenesse compagnia.

“Sì. Direi di sì”, sospirò la ragazza, fissando una macchia sul tappeto.

“Non ascoltarlo. Sherlock è uno stronzo e davvero non so come fai a sopportarlo. Non merita una sorella come te. È perfido e non ha rispetto. Non ha sentimenti”.

“Non è vero”, lo contraddisse Connie con voce debole, senza voltarsi a guardarlo. “Non è vero”, ripeté. “Non è perfido. Vi sbagliate tutti su di lui, non è come mostra di essere”.

Ma come faceva quella ragazza ad essere così… buona o forse ingenua? Lo perdonava sempre, infine e l’avrebbe fatto anche questa volta. Eppure Sherlock non se lo meritava, non questa volta. Ma magari aveva ragione lei, forse c’era qualcosa che gli altri non vedevano.

“Forse però dovrei stargli lontana un po’”, aggiunse dopo un po’, malinconica.

“Be’”, iniziò allora il detective. “Se ti va puoi… puoi venire da me. Ho una stanza degli ospiti. Sempre se ti va, eh”.

Solo allora Connie si voltò verso Greg, sorridendogli dolce. “Va bene. Lasciami prendere le mie cose”.

 

“Sherlock?” chiamò John entrando cautamente nella stanza dell’amico. Lo trovò seduto sul bordo del letto, le spalle che davano alla porta, la luce spenta e la stanza illuminata solo dalla debole luce del lampione fuori.
Il dottore gli si avvicinò cautamente, come se temesse di scatenare di nuovo la sua ira.

“Perché hai detto quelle cose? E’ tua sorella e…”. John non sapeva esattamente che dire. Sherlock era stato cattivo, certo, ma… voleva provare a capire anche lui, prima di saltare a conclusioni affrettate, ma era sicuro che il detective non gli avrebbe detto niente. Era sempre stato un mistero e da quando era arrivata Connie il mistero si era infittito ancora di più e questo gli dava sui nervi. Soprattutto ora che aveva capito di essere innamorato di un uomo che di certo non lo ricambiava.

Si sedette sul letto anche lui, a poca distanza dall’altro. Poi si protese per vederlo meglio in viso e sentì come uno schianto nel proprio petto. Sherlock aveva un’espressione tormentata, la più tormentata che gli fosse mai capitato di vedere sul viso di qualcuno, un’espressione capace di intristire anche la persona meno sensibile.

“Sherlock”, pronunciò il suo nome come a volerlo assaggiare. Gli pose una mano sul braccio per fargli sentire la sua presenza e si avvicinò un po’ di più.
E in quel momento, proprio in quel momento, il detective si voltò verso di lui e, approfittando del fatto che era decisamente più alto, lo travolse buttandolo di schiena sul letto. Poi, reggendosi sulle mani, si chinò su di lui e poggiò le proprie labbra su quelle di John. Questi si trovò ad accogliere la sua lingua prepotente senza quasi potersi opporre e, in realtà, neanche avrebbe voluto. Ma per un attimo pensò di star sognando. Non poteva essere che Sherlock lo stava baciando, era assurdo… e perché lo baciava?
Eppure era lì. Sentiva il suo fiato che sapeva di sigaretta, il suo buon odore e quei capelli… quei capelli in cui aveva affondato la mano erano così soffici e…

“Scusa”, soffiò il detective a pochi centimetri dalle sue labbra. John non si era nemmeno accorto che si erano staccati. “Vattene”.

E l’ultima cosa che John vide prima di lasciare l’amico nella sua solitudine, furono i suoi chiarissimi occhi tormentati, cerchiati da profonde occhiaie rossastre.  

 

 

MILLY’S SPACE

Ed ecco finalmente una svolta tra John e Sherlock. Che dite? Non è peccato se lasciate recensioni, eh, non vi mangio.
Ho bisogno di sapere se vi piace o no, altrimenti è inutile continuare.

Un bacione a tutti,

M.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


CAPITOLO DIECI

Quando Connie uscì dall’ascensore, impegnata com’era a guardare il cellulare, non si accorse di star andando a sbattere contro John, che proprio in quel momento era sbucato davanti a lei, senza notarla nemmeno lui.
Finirono fianco contro fianco e per il contraccolpo rimasero qualche attimo a boccheggiare sorpresi.

“John!” esclamò la ragazza spalancando gli occhi chiari, sorpresa stranamente di trovare lì il dottore.

“Connie”, fece l’uomo restando più composto. “Che ci fai qui? E’ successo qualcosa?”

“Niente, ho solo fatto una visita”.

“Il bambino sta bene?” l’espressione allarmata dell’uomo fece piacere alla ragazza, ma lei cercò subito di rassicurarlo stampandosi sulle labbra il sorriso più allegro che le potesse venire. “Sì, stiamo bene tutti e due. Stanotte ho avuto dei leggeri crampi, ma il medico ha detto che è tutto a posto. E’ solo un po’ di stress”.

John parve subito dispiaciuto. La tirò in disparte, accanto a una pianta, perché non venissero travolti dai medici e dai pazienti che passavano. “Oh, mi spiace. C’è qualcosa che posso fare?”

Connie aprì la bocca per dire qualcosa, ma all’ultimo ci ripensò. Dopotutto, era John. A lui poteva chiederlo. “Come sta Sherlock?”

È incorreggibile, pensò il dottore. E’ incinta, non ha un lavoro né una casa ma pensa solo al fratello.  Non sapeva come gli fosse venuto quel pensiero ma lo pensava e pensava anche che fosse una cosa… meravigliosa. Perché il legame che c’era tra lei e Sherlock era qualcosa che… qualcosa che lui non era mai riuscito ad avere con sua sorella e forse nessun altro fratello. E gli faceva un po’ invidia, ma gli faceva anche piacere perché c’era qualcuno in grado di capire e di aiutare il suo amico. Perché questo era chiaro, era chiaro che Sherlock prima o poi avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo conoscesse meglio di quanto si conosceva lui.
Forse sarebbe stato lui, ma… sarebbe stato troppo bello. Non sperava così tanto, gli bastava soltanto sapere di avere ancora un pezzettino nel mondo di Sherlock, nel suo palazzo mentale, se lo sarebbe fatto bastare. Ma ormai sembrava star scomparendo anche quello.

“Sta… sta bene”.

La ragazza inarcò un sopracciglio guardandolo storto. Aveva notato la sua esitazione.

“E’ solo un po’ nervoso. Tutto qua”.

La verità è che mi evita. Ma questo non glielo disse. Avrebbe significato ammettere qualcosa che faceva male pure a lui. Dopo quel bacio Sherlock aveva iniziato ad evitarlo, a uscire più spesso, a chiamarlo sempre di meno ed evitava persino di guardarlo negli occhi, di parlargli se non quando era indispensabile.
Quel poco che erano riusciti a costruire si era incrinato e aveva paura, paura di perderlo totalmente. E la cosa che gli dava ancora più fastidio era che con Sherlock era difficile, se non persino impossibile, comunicare in maniera normale, guardarsi dritto in faccia e dirsi tutto. Ma forse non era soltanto colpa del detective, forse era anche sua, perché non aveva il coraggio di prendere veramente in mano la situazione. L’aveva rifuggita anche lui.

“Sicuro? Sono preoccupata”.

“Perché non torni? Secondo me non è arrabbiato con te, solo…”, rifletté, in cerca delle parole giuste. “Gli è passata. Sai com’è fatto”.

“E’ meglio di no”, rispose Connie con un debole sorriso. “Lasciamo passare ancora un po’ di tempo. Anzi, forse non sarei nemmeno dovuta tornare. Aveva ragione lui, io non ho più niente a che fare con questo posto o con lui. Non so cosa avessi sperato di ottenere”.
Abbassò lo sguardo evitando anche lei lo sguardo dell’amico. Ma si vedeva che soffriva, che quello che aveva appena detto la turbava. Poteva somigliare al fratello quanto voleva, ma non era brava a nascondere le sue emozioni come lui.

“Non è vero”, la contraddisse John in tono deciso. “Ha bisogno di te solo che non lo ammetterà mai. Ti vuole bene. E’ solo complicato”.

“Sì, Sherlock è molto complicato”. La ragazza si incantò a fissare un punto in distanza, mentre il dottore rimase a tormentarsi le mani non sapendo che altro aggiungere sull’argomento. Così decise che era meglio cambiarlo. “Ti trovi bene con Greg?”

“Sì, certo. Ma se ho intenzione di rimanere qui mi dovrò cercare un lavoro”.

“Spero che tu rimanga”.

Si sorrisero entrambi, come due complici. “Sai, John, dovresti dirglielo”.

John  la guardò con espressione confusa. “Dire che cosa a chi?”

“A Sherlock che sei innamorato di lui”, gli rispose lei come fosse la cosa più ovvia del mondo. Questa volta fu il turno dell’uomo abbassare lo sguardo. Non ne era tanto convinto, avrebbe potuto rovinare le cose ancora di più. “E a quale scopo? Lui non prova lo stesso per me”.

“Sono sicura che questo non è vero. Anche lui ti ama”.

“Lui mi ama?” Non avrebbe mai pensato di sentire le parole amare e Sherlock nella stessa frase. Si sarebbe aspettato un “anche lui ci tiene a te”, o “anche lui ti vuole bene”. Ma amare era forte. E come facesse Connie ad esserne così sicura era un mistero. O forse glielo diceva perché le faceva troppa pena.

“Certo! E se facessi un po’ più di attenzione te ne accorgeresti”.

Già, forse, peccato che ora come ora era un po’ difficile. Era passata quasi una settimana e ancora non avevano parlato di quel bacio. Ma John era sicuro che per il detective non era significato niente; non era nemmeno in sé quando glielo aveva dato.
Evitò anche di dire a Connie che da un paio di giorni aveva iniziato a frequentare un’altra persona, un’infermiera che, da quando le aveva chiesto di uscire, non faceva che lanciargli occhiatine ogni volta che gli passava davanti. E a volte lo faceva apposta, a passargli davanti. Ma la cosa peggiore era che per lei non provava niente. Certo, era carina, aveva anche senso dell’umorismo, ma… non era Sherlock. Che poi, per carità, non usciva con lei solo per far ingelosire l’amico, non era mica una teenager in piena crisi ormonale, voleva solo… non sapeva nemmeno lui che cosa voleva. Sfogarsi? Autoconvincersi di qualcosa di cui nemmeno lui era più convinto? Disinnamorarsi di Sherlock? Impossibile… ma com’era successo tutto questo? E quando era iniziato? Se glielo avessero detto tempo fa ci avrebbe riso sopra per giorni. Il bello, poi, era che non era nemmeno gay. Era solo Sherlocksessuale come una volta gli aveva fatto notare Connie. Non si trattava di tutti gli uomini, si trattava solo di uno.

Ma basta, doveva scacciare tutti quei pensieri o non sarebbe più riuscito a pensare ad altro. Con la scusa di avere tanti pazienti da visitare, che poi tanto scusa non era, John salutò Connie e corse nel suo studio, sorridendo imbarazzato alla sua nuova conquista quando la vide appoggiata al bancone della caposala. Era provocante, con quei capelli biondi e quelle curve. Ma non era Sherlock.

Forse avrebbe potuto chiedere qualcos’altro a Connie. Peccato che anche lei avesse la tendenza a lasciare sempre le cose in sospeso, a non concludere mai i propri discorsi, come in uno di quei film in cui devi cercare di capire le cose da solo e scoprire solo al finale se hai indovinato oppure no.
Lei, Mycroft e Sherlock. Ma cosa aveva quella famiglia? Il morbo del mistero?

 

Connie finì di preparare la tavola e infine appoggiò i due cartocci colmi di cibo cinese in mezzo al tavolo. Aveva persino acceso due candele per creare un’atmosfera romantica. Non aveva l’idea esatta del perché, le andava di farlo. Sperava di distrarsi un po’ e di scacciare i brutti pensieri.

Quando Greg rientrò dal bagno rimase piuttosto sbigottito nel vedere tutto quello.

“Wow! A cosa lo devo?”

“E’ per ringraziarti dell’ospitalità e del fatto che sei mio amico nonostante sia poco tempo che ci conosciamo”.

“Figurati!” All’uomo non venne nient’altro da dire e rimase come un baccalà fermo sulla soglia. Era sorpreso, sì, ma in modo positivo.
Connie allora gli scostò la sedia e gli fece cenno di accomodarsi. Greg non se lo fece ripetere due volte. “Ci siamo scambiati i ruoli?”

“E che c’è di male?” Anche lei si accoccolò sulla sua, prendendo le bacchette e mettendo gli involtini di riso nel piatto. “Com’è andata la giornata?” gli chiese poi, come una brava mogliettina che cena col marito.
E nonostante l’intimità inaspettata, entrambi si sentivano a proprio agio.

“Bene. Niente di che”.

“Nessun omicidio su cui indagare?”

“Per fortuna no”.

“Per sfortuna di mio fratello”.

“A proposito, l’hai visto?”

Lo sguardo della ragazza si fece più cupo.  Meno male che voleva pensare ad altro “No”.

“E Mycroft? Con lui hai parlato?”

Ecco, di male in peggio. Sperava solo che Lestrade non la volesse mettere di cattivo umore. “No. Nemmeno lui mi vuole parlare”.

Greg sapeva che forse non era il caso e che non erano affari suoi, tuttavia doveva chiederlo: “Ma cos’è successo tra te e Mycroft? Perché ce l’ha tanto con te?”

Connie lasciò ciondolare le bacchette tra le dita e rimase a fissare il proprio piatto vuoto. Che cos’era successo tra lei e Mycroft? Già… era una bella domanda. Di fatto tra lei e Mycroft non era successo niente. Era quello che era successo tra lei e Sherlock.

“Tanti anni fa…”, iniziò, senza guardare l’amico. “è successo che…”. No, non era il caso. “Senti, ti dispiace se te lo racconto in un altro momento? Mi…”.

“D’accordo”, la interruppe l’uomo. “Non voglio farti pressione. Quando ne avrai voglia, se vorrai, mi puoi dire quello che vuoi”.

La ragazza gli sorrise teneramente. “Grazie”.

“Figurati”.

Aveva cominciato a rivalutare molte cose, Greg, in quei pochi giorni che aveva passato con Connie. Aveva cominciato a rivalutare il comportamento di Sherlock, persino, perché capiva, dal suo legame con la sorella, che c’era qualcosa di più, qualcosa che andava ben aldilà dell’atteggiamento distante e superbo del detective.
Forse qualcosa che lo avrebbe spaventato. O sconvolto. O chissà.

Osservò la ragazza portare alla bocca il proprio cibo, quando si accorse che si era sporcata leggermente con la salsa. La sua mano reagì prima che potesse farlo il cervello. Afferrò una salvietta e le pulì il punto in cui si era sporcata. Lei restò a guardarla confusa e sbigottita.
Poi lui le passò il pollice sul labbro morbido, molto delicatamente, come se stesse toccando un oggetto molto fragile.
Il suo cervello aveva perso ogni cognizione.

“Greg?” sussurrò lei, gli occhi azzurri in quelli dell’uomo.

“Hmm?” mormorò lui, godendo della sua voce e delle  sue labbra che pronunciavano il suo nome.

“Sono incinta”:

“Questo lo so”.

Lo sapeva, ma questo non gli impedì di avvicinarsi a lei e di baciarla. E a lei non impedì di ricambiare, quel bacio.

 

“Sherlock, vado a fare la spesa. Ti serve qualcosa?” chiese John, avvicinandosi all’amico steso sulla poltrona. Aveva gli occhi chiusi ma era chiaro che non dormiva. Pensava, probabilmente.

“Abbiamo finito il latte”, gli rispose.

“D’accordo”.

Il dottore fece per allontanarsi, ma un mugolio dell’altro lo fece tornare sui suoi passi. “Come?”

“Come si chiama?”

John inarcò un sopracciglio. “Chi?”

“La ragazza che frequenti”.

“Come…”. Rinunciò a concludere la frase. Era Sherlock, scopriva sempre tutto. Probabilmente aveva letto i suoi messaggi.

“Hai un odore diverso. Sei stato con lei”.

Ok, forse non aveva letto i suoi messaggi. Ma avrebbe di gran lunga preferito che l’avesse scoperto così. E invece era stato il suo odore… il suo maledettissimo profumo di Chanel. E Sherlock se n’era accorto. Questo significava che Sherlock sapeva com’era il suo odore senza quello forte e quasi nauseante di lei.
Perché lo faceva impazzire così? Perché desiderava soltanto buttarglisi addosso e abbracciarlo, stringerlo forte a sé?
Gli sembrava così ferito, Sherlock. Non c’era nessuna vena derisoria nella sua voce quando gli aveva posto quella domanda, né di scherno o di disapprovazione. Solo… accettazione. Una triste e malinconica accettazione. E tanta stanchezza.

“Si chiama Cindy. E sì, sono stato con lei”. Riuscì ad abbandonare l’appartamento prima che il suo corpo facesse qualcosa di completamente stupido.

Ma avrei preferito stare con te.

 

 

MILLY’ SPACE

Wow, ho scritto questo capitolo praticamente di getto, in poco più di un’ora e spero sia venuta una cosa decente. È un po’ particolare, lo so, forse diverso dai precedenti, ma ho cercato di metterci passione. Spero sia riuscito ^^
Non pensavo nemmeno che avrei aggiornato questa sera ma le vostre recensioni mi hanno convinta a farlo.
Allora è vero che vi devo minacciare per ottenere qualche commento ^^ ahaha.
Va be’, spero commenterete anche questo.

Un bacione,
Milly.

P.S. ma cosa ne pensate della coppia Greg/Connie? Potrebbe funzionare? Io ho delle ideuzze in mente per loro, ma ditemi un po’ voi se ne vale la pena.

MONKEY_D_ALICE: eh, è bravo chi capisce Sherlock. Ma noi lo amiamo lo stesso ^^ ahaha XD eh, vediamo che succederà più avanti. Grazie della recensione, a presto. M

GINALEXY: eccoti accontentata. Ma ancora molti nodi devono venire al pettine. Continua a seguire. Un bacione, M.

AMAYAFOX91: nemmeno a me piacciono le storie raccontate da personaggi interni, quindi nelle mie non ne dovresti trovare. A meno che non faccia proprio qualche eccezione ^^ Mycroft è un personaggio che piace anche a me ed effettivamente forse sono stata un po’ cattiva e affrettata a renderlo quasi un antagonista. Ma non ti preoccupare, si rifarà. Mi dispiace per gli errori di battitura, ma ho sono pigra e non ho voglia di rileggere i capitoli ^^
P.S. spero di riuscire ad aggiornare presto anche “Human love…”, ma non prometto niente perché il lavoro è ancora in cantiere e ci sono ancora un sacco di cose da scrivere. MI fa piacere però sapere che mi segui anche qui.
Baci, M.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


CAPITOLO UNDICI

John quella mattina si svegliò col suono del violino di Sherlock che, proveniente dal piano di sotto, accarezzò le sue orecchie in maniera piuttosto… piacevole. Adorava quando Sherlock suonava il violino, non solo ascoltarlo, ma persino guardarlo. In quei momenti il suo viso e tutto il suo corpo sembravano come… accendersi. Emanavano una tale passione che era impossibile non venirne trascinati. In quei momenti Sherlock mostrava il suo vero io, quello che di solito nascondeva dietro la corazza indistruttibile che si era costruito. Perché c’era un vero Sherlock, di questo John ne era sicuro. C’era un Sherlock che il detective non voleva mostrare ma che prima o poi sarebbe venuto fuori. Almeno lo sperava.

Scalciò via le coperte e si alzò dal letto. Si stropicciò gli occhi e mugugnò con voce roca. Più invecchiava e più faceva fatica ad alzarsi presto. Chissà come diamine faceva Sherlock ad andare sempre a letto a orari indecenti e a svegliarsi la mattina fresco come una rosa. O soffriva di qualche strana malattia che gli permetteva di dormire poco oppure prendeva qualche pozione magica.
Con passo pesante scese le scale trovando il coinquilino in piedi di fronte alla finestra, perso a guardare il grigio panorama londinese. Aveva appoggiato il violino sul tavolino del salotto, ma teneva la bacchetta ancora in mano.
John restò per un po’ a guardarlo. Gli piaceva la forma del suo corpo, la sua siluette. Era… era così elegante, così modellata. Sembrava quasi che qualcuno lo avesse scolpito.

No, John, smettila con questi pensieri. È meglio che te la fai passare questa cotta o sarà peggio per te.

“Non volevo svegliarti. Mi dispiace, John”, sentì dire dalla voce di Sherlock, bassa e calma. Il dottore rimase piuttosto basito e gli ci volle qualche secondo per assimilare la frase. Sherlock che chiedeva scusa? Da quando? No, quello non era Sherlock… o forse lo era. Mah, chi poteva dirlo con quell’uomo?

“Non ti preoccupare. Tanto mi dovevo alzare”, rispose John andando in cucina e mettendosi a fare il tè.

Sherlock rimase fermo dov’era, senza spostarsi di un millimetro. Doveva esserci qualcosa di veramente interessante fuori dalla finestra. O forse era semplicemente immerso nel suo palazzo mentale.

Una volta finito di preparare il tè, John versò il liquido ancora fumante in due tazze e ne portò una a Sherlock. Questi la prese senza però guardare l’amico.
Aveva qualcosa che non andava quella mattina, questo era chiaro. Ma se voleva scoprirlo, doveva indagare cautamente. A volte parlare o trattare con Sherlock era più difficile che farlo con un bambino.

Il dottore prese la sua tazza e si sedette sulla sua poltrona, aprendo il giornale di quella mattina. Ma continuò a tenere un occhio sull’amico, senza porre attenzione a quello che stava leggendo.
Sherlock allora decise che ne aveva abbastanza del panorama esterno e si girò per riporre il violino nella sua custodia. Poi sorseggiò ancora un po’ del suo tè e tirò fuori il cellulare, digitando velocemente. John, da dietro il giornale, lo osservava attentamente.

“Ti ha scritto Lestrade? C’è un nuovo caso?” chiese il medico cercando di non apparire troppo interessato.

“No, non è Lestrade. E no, non ho nessun caso”.

“Ok”. Provò a lasciar perdere il discorso, sperando che il detective stesso gli avrebbe detto qualcos’altro, ma quello sembrava essere concentrato nel messaggio che stava scrivendo.

“Sherlock?”

“Hmm?”

“Stai bene?”

Soltanto allora il detective si decise ad alzare lo sguardo sull’amico. Uno sguardo che John avrebbe preferito non vedere, non sul moro. I suoi occhi sembravano così… così malinconici, come se stesse soffrendo per qualcosa. Ma cosa? E poi pareva così stanco, così giù. E… era una sua impressione o quelle sotto gli occhi erano delle occhiaie?
Molto probabilmente, se non si fosse deciso a dormire come una persona normale, si sarebbe ammalato.

“Sì, sto bene”.

Quella era proprio la risposta che, paradossalmente, non voleva sentire. Perché era chiaro che Sherlock non stava bene e se lo avesse ammesso o se ne avesse voluto parlare sarebbe stato meglio. Ma lui ovviamente non ne aveva la minima intenzione.

“Sei sicuro?” cercò di insistere John.

“Sì”, fu la risposta secca dell’amico. Eccolo lì, il solito Sherlock: freddo, distaccato, impassibile. Aveva di nuovo messo su la sua maschera impenetrabile, la sua maschera da duro, da sociopatico. Si alzò di scatto, mise via il cellulare e afferrò il capotto e la sciarpa.

“Dove vai?” fece John a quel punto, mostrandosi un po’ contrariato.

“Esco”.

“Vuoi che venga con te?”

“No. Vado solo… a fare delle cose”. E prima che il dottore potesse dire o fare qualcosa, quello se ne scomparve fuori dalla porta. John rimase a osservare il corridoio d’ingresso come uno stoccafisso. E rimase così finché non vide la Signora Hudson comparire dal punto nel quale il detective era scappato poco prima. “Dove andava così di fretta?” chiese la donna in tono gentile.

“Vorrei tanto saperlo”.

 

Sherlock camminava velocemente per le strade di Londra, cercando di evitare le persone il più possibile. Aveva tirato su più che aveva potuto il colletto del cappotto e teneva lo sguardo fisso per terra, le mani strette a pugno in tasca e il pensiero rivolto soltanto alla sua meta.
No, in realtà no. Aveva la testa piena di pensieri.
C’era John, intanto, che sicuramente si era accorto che qualcosa non andava in lui quella mattina. Non andava già da un po’ e nemmeno lui capiva che cosa fosse andato storto. O forse lo capiva, solo che non lo voleva ammettere. Come aveva fatto a ricaderci? Pensava… pensava che fosse tutto finito, che avrebbe potuto ricominciare da capo, una nuova vita, che avrebbe potuto dimenticare tutto quanto era successo prima.
John, il buon John. Che cosa avrebbe fatto? Che cosa avrebbe detto? Non lo voleva deludere, non John. John era la sua ancora in tutto quel caos eppure lui non aveva fatto in tempo a lanciarla. O meglio, a prenderla.
Sicuramente sarebbe stato deluso da lui. Così come Connie. Connie… non sarebbe mai dovuta tornare. Però non aveva un altro posto dove stare, non aveva un lavoro, né una casa e ora aveva pure un bambino da crescere da sola. E quello era colpa sua, sicuramente colpa sua, sempre colpa di Sherlock. Le aveva rovinato la vita perché ovviamente non gli era bastato rovinarsi la sua.
E poi c’era Lestrade e c’era la Signora Hudson e c’era Mycroft e tutto il resto. La sua vita era un gran casino e questo solo per colpa sua. Perché, a dispetto della sua enorme intelligenza, aveva agito da idiota. Sempre, fin da quando era giovane.

Cercò di riscuotersi da tutti quei pensieri, svoltando in una piccola via secondaria tra due vecchi palazzi dai muri scrostati.
Lì, seduto su un cartone, con un paio di jeans sdruciti e mezzo nascosto dal cappuccio della felpa, c’era l’uomo che stava cercando.

“Allora, ce l’hai?” gli chiese il detective in tono glaciale.

“Sempre così diretto”, rispose l’altro che non poteva avere più di trent’anni, anche se la barba sfatta lo faceva apparire più vecchio. Si guardò un po’ attorno, poi sospirò. “Non qui. Seguimi”. Si alzò dal suo giaciglio e rientrò nella strada principale. Sherlock lo lasciò precederlo e poi lo seguì standogli a mezzo metro di distanza. Il giovane lo portò in una palazzina in costruzione, sotto ad una tettoia. Diede di nuovo un’occhiata attorno a sé, con fare circospetto.

“E’ questa”, disse, porgendogli qualcosa che teneva nascosto nel pugno. Sherlock allungò la mano e si fece passare l’oggetto. Restò a guardarlo per un po’, come per assicurarsi che fosse quello che voleva. Poi lo infilò in tasca e dall'altra estrasse un bel po’ di banconote, allungandole al tipo.

“E’ tutto?” chiese lo sconosciuto.

“Sì”.

“Mi fido”.

“Sì”.

Il detective cominciò ad allontanarsi.

“Ci rivediamo presto?” gli gridò l’altro da dietro, ma non ottenne alcuna risposta.

 

Era al lavoro solo da un paio di ore e già cominciava ad essere stanco. Fortuna che c’era la pausa e che i pazienti quel giorno non erano tanti.
Decise di andare a trovare Molly, magari scambiare due chiacchiere con lei lo avrebbe tirato un po’ su di morale. Varcò la porta del laboratorio e vide l’amica seduta davanti al computer e Connie vicino al tavolo che osservava un microscopio.

“Oh ciao, John”, salutò quest’ultima.

“Ciao, Connie. Che ci fai qui?”

“Mi annoiavo, così sono venuta a trovare Molly”.

“John, Sherlock non è con te?” chiese Molly, alzandosi dalla sedia.

“No. È uscito stamattina”.

“E dov’è andato?” fece la mora, ora improvvisamente allarmata.

“Non lo so. Non me l’ha detto”.

“Oh”.

Connie abbassò lo sguardo, osservando una macchia sul tavolo.

“Perché non lo chiami?”

“Gli ho mandato un messaggio, ma non mi risponde”. La ragazza tirò fuori il cellulare controllando gli ultimi messaggi in arrivo, ma niente. Poi rilesse quello che aveva mandato lei: dimmi che mi vuoi bene. perché io te ne voglio. Ma nessuna risposta, ovviamente. E ora aveva ben due fratelli che non le volevano più parlare. In che razza di famiglia era finita?

“E Mycroft?”

“Lasciamo perdere Mycroft”.

“Che cos’è successo tra te e Mycroft perché lui non voglia più parlarti?” domandò Molly, rimettendosi il camicie bianco.

Connie sospirò. “Tra me e lui non è successo niente”.

“Ah no?”

“E’ per quello che è successo tra me e Sherlock”. Ora aveva decisamente attirato l’attenzione degli altri due. “E che cosa è successo?” Adesso finalmente avrebbero scoperto qualche segreto della famiglia Holmes.

“In realtà niente”, la ragazza continuava a tormentare un pezzo di filo che teneva tra le mani. Quel segreto sicuramente la metteva a disagio. “E’ solo che Mycroft credeva… credeva che tra me e Sherlock ci fosse qualcosa… sì, insomma, qualcosa di più di una semplice relazione tra fratello e sorella”. Connie alzò lo sguardo sugli altri due solo per vedere le loro espressioni sconvolte e le bocche spalancate. “Credeva che noi due… facessimo… sesso”. Fece una pausa aspettandosi che gli altri due commentassero. E invece non uscì un lamento né un commento. Così lei continuò. “Ovviamente non era vero. O meglio… sì, una volta Sherlock mi ha baciata, ma solo perché mi trovavo lì e lui non era in sé e stava male. Mycroft casualmente ci ha visti e da quel momento ha iniziato a farsi strane idee. Io e Sherlock eravamo molto intimi, ma non abbiamo mai fatto… quelle cose. Ci aiutavamo, ci confidavamo, stavamo spesso in compagnia, ma nulla di più”.

“Gliel’avete mai spiegato?” esclamò a quel punto John, davvero, davvero incredulo.

“Certo, ma lui non ci credeva. E poi sono successe molte altre cose e la situazione si è aggravata e… sì, insomma. Ormai non ha più importanza. È storia vecchia”.

“Non mi sembra storia vecchia se Mycroft non ti parla”.

Connie si allontanò dal tavolo e afferrò la sua borsa appesa a un attaccapanni. “No, ragazzi, guardate… lasciate perdere. Fate finta che non vi abbia detto niente, d’accordo?” E, senza attendere risposta, abbandonò la stanza.

John si voltò verso Molly, incredula tanto quanto lui. “Tu l’avresti mai detto?” Lei negò con la testa. “No, assolutamente no”.

 

John continuava ad andare su e giù per il salotto, preoccupato e ansioso. Aveva continuato a controllare il cellulare per l’intera giornata, sperando di ricevere qualche messaggio da Sherlock che gli chiedeva di venire a indagare con lui su qualche caso, come capitava molto spesso. E invece niente. L’unica che gli aveva scritto era Cindy e solo per dirgli che si masturbava pensando a lui. La cosa lo aveva disgustato più che averlo eccitato.

Era quasi mezzanotte e Sherlock non era ancora tornato. Certo, era normalissimo che se ne stesse fuori anche fino a tardi, ma non senza mai tornare a casa e soprattutto non senza farsi mai sentire. E come se non bastasse fuori pioveva. Anzi, diluviava.
Forse gli era successo qualcosa. Forse era stato rapito o magari era rimasto ferito, trascinato in un angolo e picchiato e nessuno lo aveva trovato e…

No, no. Smettila di pensare a queste cose, John. Vedrai che starà bene.

Improvvisamente sentì sbattere la porta d’ingresso e dei passi che si avvicinavano. La porta venne aperta e sulla soglia comparvero Connie e Lestrade.

“Non è ancora tornato?”

“No”.

“Cazzo!”

“Quand’è stata l’ultima volta che l’hai visto?” chiese Greg, vistosamente preoccupato anche lui.

“Questa mattina, quando mi sono alzato”.

I tre rimasero per qualche attimo in silenzio, pensando a come affrontare meglio la situazione.

“D’accordo. Vado a cercarlo”, annunciò Lestrade allora, guardando Connie. Lei annuì semplicemente e l’uomo se ne andò velocemente.

“Pensiamo a dove potrebbe essere”, sospirò Connie, sedendosi sul divano. Stava cercando di non farsi prendere dal panico, ma la verità era che aveva una bruttissima sensazione e avrebbe soltanto voluto mettersi a piangere. “Conosci dei posti che frequenta abitualmente?”

“Non credo ce ne siano. Il St. Bart’s di solito, ma non credo sia là a quest’ora”. John si portò le mani sul viso, cercando di calmarsi. Solo in quel momento si accorgeva quanto in realtà poco sapesse dell’uomo che amava.

Passarono un quarto d’ora a pensare ai posti in cui poteva essere e a scriverli a Greg per messaggio. Ad un certo punto, però, sentirono dei passi nell’ingresso. Pensarono si trattasse della Signora Hudson, ma quando la porta venne aperta videro una figura alta e scura stagliata in controluce. Subito dopo capirono che era Sherlock. Era spettinato, bagnato fradicio di pioggia e… stanco. No, non  sembrava solo stanco…

“Sherlock?” lo chiamò Connie quando il fratello si fu buttato sulla sua poltrona. “Oh mio Dio!” esclamò la ragazza, osservando l’aspetto completamente sfatto dell’uomo e gli occhi rossi. “Tu sei completamente fatto”.

 

 

MILLY’S SPACE

Salve. Mi scuso per non aver aggiornato prima, ma con gli esami che incombono è stato piuttosto difficile. Mi sono concessa una pausa dai libri oggi, ma finché non finiscono gli esami mi sa che non mi risentirete.
I’m so sorry.

Non mi trattengo molto visto che è tardissimo. Spero vi sia piaciuto il capitolo e vi prego, recensiteeeeeeeeeeeee!!!!

Baci,
M.

MONKEY_D_ALICE: bene, mi fa piacere che la storia ti piaccia. Ecco qui un piccolo segreto di Connie e Sherlock ^^ che e pensi? Un bacio a te, Milly.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


CAPITOLO DODICI

“Dio mio, Sherlock. Che cos’hai preso?!” gridò Connie a pochi centimetri dalla faccia del fratello. “Che cos’hai preso?” Rimase a guardarlo negli occhi annebbiati, aspettando una risposta e, non ottenendola, si rivolse a John che se n’era rimasto leggermente in disparte, sconvolto e confuso. Aveva capito che cosa Sherlock avesse fatto ma non riusciva a crederci.

“Controllagli le tasche!” ordinò la ragazza all’amico, spostandosi dalla poltrona su cui era mezzo steso il detective.
John non se lo fece ripetere due volte e sfilò il cappotto al moro senza che questi opponesse alcuna resistenza. Frugò prima in una tasca, trovandola completamente vuota, poi l’altra e… tirò fuori un piccolo sacchettino trasparente, di plastica, pieno di una polvere bianca che… John spalancò gli occhi, il cuore che ora batteva all’impazzata.
Lo mostrò a Connie che però non restò particolarmente sorpresa. Abbassò lo sguardo sul fratello lanciandogli un’occhiata che trasmetteva diverse emozioni: delusione, rabbia, preoccupazione, frustrazione…

“Cos’altro hai preso?” gli chiese, questa volta in tono più tranquillo. “Che cos’altro hai preso?” Si inginocchiò di fronte a lui, le mani appoggiate sui braccioli della poltrona. Sherlock aprì gli occhi e li puntò nei suoi. Ma quello che vide in essi le fece quasi male. “Ok, allora… io ti nomino alcune droghe e tu mi fai un cenno con la testa per dirmi se le hai prese oppure no, d’accordo?”

Sherlock non rispose e nemmeno diede segno di aver capito. Restò semplicemente a guardarla come un bimbo spaurito.
Connie iniziò lo stesso. “Quella cocaina che avevi in tasca, l’hai presa?”

Sherlock lentamente annuì.

“Hai preso delle pillole?”

Sherlock annuì di nuovo.

“La marijuana l’hai fumata?”

Sherlock annuì una terza volta.

“E l’eroina?”

Il detective annuì ancora.

Connie sospirò. Si rialzò in piedi passandosi una mano tra i capelli. John teneva la fronte appoggiata alla finestra, gli occhi fissi in un punto che in realtà non vedeva. Com’era possibile? Com’era potuto succedere tutto quello? Non aveva notato comportamenti strani nell’amico in quegli ultimi giorni, forse era solo un po’ più distratto e schivo, ma nulla di più.
E invece… come diamine aveva fatto a non accorgersene?

“John?” lo chiamò Connie gentilmente. “Chiama Greg e digli di tornare. Io aiuto Sherlock a farsi un bagno. È fradicio e sporco”.

“D’accordo”, rispose il dottore, mentre la ragazza aiutava il fratello ad alzarsi. Non era molto stabile e faceva fatica a reggersi, così la sorella lo dovette sostenere finché non arrivarono in bagno. Strano però che non avesse opposto alcuna resistenza nemmeno stavolta.

John afferrò il suo cellulare e mandò un messaggio a Greg dicendogli di raggiungerli in Baker Street.
A un certo punto si sentì bussare alla porta. Di certo non era Lestrade, non poteva aver fatto così presto. E infatti, non appena l’uomo aprì la porta, si trovò la Signora Hudson in vestaglia con sguardo preoccupato.

“Che cosa sta succedendo qui? Che cos’era tutto quel chiasso?” chiese la donna, notando subito l’espressione sconvolta di John.

“Mi scusi se l’abbiamo svegliata”.

“Oh, non ha importanza. Ma è successo qualcosa?”

“No!” rispose il dottore un po’ troppo frettolosamente e l’anziana signora si insospettì ancora di più. “Cioè... uno dei soliti pasticci di Sherlock. Tutto qua. Niente di… grave”. L’uomo le sorrise per mettere più enfasi alle sue parole e tranquillizzarla. Non ricordava di aver mai sorriso in modo così falso e più che un sorriso, gli pareva che sulla sua faccia fosse dipinta una smorfia. La verità era che non gli andava di spiegare, di dire che cos’era successo. Persino lui doveva ancora digerire quella situazione e già doverla spiegare a Lestrade sarebbe stato troppo.

“Sei sicuro?”

“Sì”.

“D’accordo, allora ci vediamo domani”.

John ringraziò il cielo che la Signora Hudson non avesse voluto insistere di più, forse era troppo stanca per farlo, ma non aspettò nemmeno che scendesse la prima rampa di scale per di sbattere la porta dell’appartamento.
Ed ecco che dieci minuti dopo, forse persino meno, la dovette aprire di nuovo perché Lestrade era tornato.

“Allora? Cos’è successo?” chiese subito l’uomo, togliendosi la giacca di pelle bagnata dalla pioggia. Ancora non aveva smesso di diluviare.

“Siediti”, gli disse John, accomodandosi anche lui sulla sua poltrona. Greg si sedette sul divano quasi inconsciamente, cercando di prepararsi per la brutta notizia che avrebbe ricevuto. Perché era certo che avrebbe ricevuto una brutta notizia, la faccia di John non diceva altro. Quest’ultimo seduto di fronte all’amico, incrociò le mani sulle ginocchia. “A quanto pare…”, iniziò senza sapere come dargli la notizia. “A quanto pare Sherlock ha… ha fatto uso di droga”.
Il detective spalancò gli occhi proprio come aveva fatto lui poco prima.
“Guarda”, aggiunse il dottore, passandogli il sacchetto di cocaina che avevano trovato nel cappotto di Sherlock. “L’ho trovato nelle sue tasche”.
Lestrade prese il sacchetto, lo aprì e annusò da lontano la polvere bianca. Ma non c’era bisogno di controllare, era perfettamente chiaro di che cosa si trattasse. Il detective posò la droga sul tavolo e si pulì i palmi sulle ginocchia.

“Adesso dov’è?”

“In bagno con Connie. Era fradicio quando è tornato qui”.

Greg sospirò e si alzò in piedi andando fino in cucina. Qui si appoggiò sul tavolo da pranzo, le braccia incrociate sul petto. Sembrava che stesse cercando di controllarsi per non lasciar trapelare troppe emozioni dal viso, ma si vedeva chiaramente che anche lui era preoccupato.

“Sapevo che aveva avuto dei problemi con la droga precedentemente, ma… pensavo lo avesse superato”, mormorò l’uomo a bassa voce, quasi come se non volesse che qualcun altro udisse le sue parole, anche se lì c’erano solo lui e John.

 

Sherlock era seduto al centro del letto, in penombra, quando John entrò nella sua stanza per cercare una coperta in più nell’armadio. Il detective aveva ancora i capelli bagnati, ma questa volta non per l’acqua della pioggia bensì per quella della doccia. Indossava solo i pantaloni di una tuta e una maglietta a maniche corte, ma sembrava molto più sveglio e cosciente di prima.

“Non capisco perché tu l’abbia fatto”, sbottò John dirigendosi subito all’armadio. Aprì la prima anta quasi con violenza e si mise a scorrere con lo sguardo tra le varie camicie dell’amico. “Davvero non lo capisco. Sei sempre così cocciuto, ostinato, pensi di saper fare tutto da solo. Ma sai, a volte dovresti avere il coraggio di chiedere aiuto. Ci sono un sacco di persone che ti vogliono bene, che ci tengono a te. Non puoi semplicemente mandare a puttane tutto, fare l’egoista e comportarti come se non ti importasse. Se hai bisogno di aiuto lo chiedi”. John si girò di scatto verso Sherlock che non si era mosso di un millimetro, la testa rivolta verso il basso, le gambe incrociate e le mani che tormentavano un piede. Il dottore fu pervaso da un senso di tenerezza; gli ricordava un bambino che era appena stato scoperto ad aver detto una bugia bella grossa.
Rimase a guardarlo per un po’, insospettito dagli scatti involontari della sua schiena. Era strano che Sherlock non lo stesse guardando, di solito era sempre capace di sostenere gli sguardi.

“Sherlock?” lo chiamò, questa volta in tono più dolce. Si avvicinò al letto e poi vi salì sopra. “Sherlock?” ripeté, non ricevendo alcuna risposta. Cercò di guardarlo in viso, ma l’amico abbassò ancora di più il capo e un ciuffetto dei capelli ricci gli cadde davanti agli occhi. Allora John gli mise un dito sotto il mento e lo costrinse a girarsi verso di lui. Si scontrò con due occhi grigi resi ancora più chiari dalle lacrime che li inondavano e che scivolavano copiose lungo le sue guance, infrangendosi sul lenzuolo. “Oh, Sherlock”, sospirò John sbigottito e sconvolto. Allora lo attirò verso di sé lasciando che affondasse il viso nell’incavo del suo collo. Lo strinse forte, cullandolo tra le proprie braccia. L’amico ricambiò l’abbraccio  aggrappandosi alla maglietta dell’altro e si lasciò andare. John non disse niente, lo lasciò solo sfogare.

Dopo un po’, cercando una posizione più comoda, il dottore si stese di schiena sul letto trascinando Sherlock con sé che ancora si teneva aggrappato alla sua maglietta e non aveva smesso di versare lacrime.
Fu proprio così che li trovò Connie, entrando nella stanza. John poté leggere dello sbigottimento sul suo volto non appena li vide. Dietro di lei c’era anche Greg che rimase sulla soglia quando lei si sedette accanto ai due sul letto.
La ragazza passò una mano tra i capelli umidi del fratello, in una carezza amorevole e poi lanciò un’occhiata a John chiedendogli spiegazioni. Il dottore semplicemente scrollò le spalle senza sapere che dirle.

“Ti… ti dispiace se io e Greg restiamo qui a dormire?” chiese a bassa voce.

“No, no, fate pure. Potete prendere la mia stanza. Io resto con lui”.

“D’accordo”. Connie si alzò e raggiunse Lestrade alla porta. “Chiama se hai bisogno di qualcosa”.

“Buonanotte, ragazzi”.

John rimase da solo con Sherlock. Il detective non si era ancora addormentato, il dottore sentiva il suo respiro caldo contro la propria spalla e il suo corpo tremante spingersi contro quello dell’amico. Nel frattempo, fuori la pioggia continuava a cadere e le gocce battevano contro la finestra creando una sorta di ritmo musicale. Sembrava quasi che il cielo avesse deciso di fare compagnia a Sherlock quella notte e che stesse piangendo con lui, come a voler condividere il dolore.
Era così tremendamente romantico e poetico e… doloroso.

John afferrò un lembo delle coperte e le rovesciò sopra il proprio corpo e quello dell’amico, ormai dimentico della coperta che stava cercando. Si sarebbero tenuti al caldo da soli.
Non era certo di quanto avrebbe dormito quella notte, tuttavia era meglio almeno tentare. In un’altra situazione avrebbe gioito nel trovarsi abbracciato all’uomo che amava, ma non così, non con Sherlock in quelle condizioni.
In ogni caso, quella notte non l’avrebbe affatto dimenticata.

 

 

MILLY’S SPACE

Hola a todos!!

Lo so, il capitolo è più breve del solito, ma considerando che sono stata rapida ad aggiornare, potete anche perdonarmi ^^

Che dire? Temo che in questo capitolo Sherlock sia un po’ OOC ma questa scena ce l’avevo in mente da un po’ e avrei avuto i rimorsi di coscienza se non l’avessi messa. Lo trovo tenerissimo e voi?
Dai, ditemi qualcosa. Non abbiate timore di recensire e di dire la vostra opinione, non vi mangio mica. Non sono Sherlock xD al massimo mando Moriarty a uccidervi. Ahaha, no scherzo.

Un bacione a tutti e ricordatevi di passare sulla mia pagina facebook, Milly’s Space.

Ciaoooo.

MONKEY_D_ALYCE: spero tu non abbia rotto il computer questa volta ^^ comunque ce ne saranno tanti altri di segreti che verranno fuori, forse già nel prossimo capitolo. Ammetto che Mycroft qui non si è fatto molte belle figure, ma non preoccuparti, prima o poi si rifarà.
Un strasuperbacione anche a te.
Milly.

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici ***


CAPITOLO TREDICI

John si svegliò dopo uno strano sogno. Non era sulla guerra in Afghanistan questa volta, era su qualcos’altro. C’era Sherlock nel suo sogno e succedeva qualcosa di spiacevole, di brutto, ma si dimenticò quasi tutto non appena aprì gli occhi. E forse era meglio così.
Gli ci volle qualche secondo per riprendere completamente coscienza e quando lo fece si accorse che qualcosa pesava sul suo corpo. Abbassò lo sguardo e si scontrò subito coi neri ricci dell’amico che gli solleticavano il mento.
Non ricordava quando si era addormentato esattamente, sapeva solo di non aver chiuso occhio finché Sherlock non si era completamente rilassato contro il suo corpo facendogli capire di aver esaurito tutte le lacrime a sua disposizione per quella notte. E poi erano rimasti in quella posizione fino a quella mattina, John disteso sulla schiena e il detective con la testa poggiata sul suo petto e una mano sul suo fianco, lì dove gli aveva stretto la maglietta.

Il dottore gli affondò una mano nei capelli e prese ad accarezzarlo dolcemente. In fondo era questo che gli serviva, no? Un po’ di conforto, di rassicurazione… di coccole. Se voleva dargli una dimostrazione di essere umano, be’, ci era riuscito alla grande. John non se la sarebbe più scordata quella notte, non solo per le lacrime di Sherlock, ma anche per la sensazione di impotenza che aveva provato, e di dolore, di…

Basta, John, alzati da ‘sto letto e fai qualcosa di concreto per aiutare Sherlock.

Cercò di scivolare da sotto il corpo dell’amico senza svegliarlo. Quest’ultimo doveva essere veramente stanco perché non sembrò aver sentito niente, dormiva della grossa. O forse faceva finta. In ogni caso era meglio lasciarlo riposare, chissà da quanto tempo non si faceva un sonno decente.

Prima di alzarsi dal letto, poggiò una mano sulla fronte di Sherlock constatando che era piuttosto calda. Dopo la pioggia di ieri sera era abbastanza normale che si fosse preso la febbre. Allora afferrò le coperte e lo rimboccò come avrebbe fatto con un bambino.
Poi scese al piano di sotto, incontrando Connie e Greg in salotto; nessuno dei due sembrava aver dormito granché.

“Ciao, John”, salutò la ragazza seduta sul divano. “Ti va del caffè?” chiese facendo per alzarsi, ma John la bloccò sul posto. “No, lascia. Faccio io”.

“Come sta Sherlock?” fece lei allora, senza perdere tempo.

John si versò del tè caldo in una tazza e si voltò per guardare Connie. “Sta dormendo. Credo abbia un po’ di febbre”.

La ragazza annuì, ma non sembrava molto attenta alle parole dell’amico. “Non l’ho mai visto così”, sospirò, gli occhi puntati per terra. “Non l’ho mai visto piangere così, nemmeno quando era piccolo”.

Greg, che per tutto quel tempo se n’era rimasto in piedi vicino alla finestra, si sedette accanto a Connie e l’abbracciò per le spalle, cercando di confortarla. E lei sembrò gradire perché si rilassò subito contro il suo petto.

“Non appena si sarà svegliato cercherò tutta la droga che tiene in casa e gliela farò buttare via”, decise lei e il tono serio non ammetteva repliche. Non che gli altri due avessero qualcosa da dire. John si sedette sulla sua poltrona e strinse forte la tazza che teneva fra le mani, non curandosi del fatto che scottava. “Sono un idiota!” pronunciò senza guardare nessuno dei presenti. “Me ne sarei dovuto accorgere prima”.

“John, non è colpa tua”, cercò di rassicurarlo Connie, gli occhi puntati su di lui.

“Invece sì. È il mio coinquilino, il mio migliore amico ed è la persona…”. Si interruppe all’improvviso. Non voleva dire quello che stava per dire, non davanti a Greg. Non era ancora pronto. “Me ne sarei dovuto accorgere. Viviamo insieme e io…”.

“Sherlock è bravo a nascondere le cose quando vuole. Nessuno se n’era accorto”.

“Sì, ma se me ne fossi accorto prima non sarebbe arrivato a questo punto”.

Non se la sarebbe mai perdonata una cosa del genere. Non era solo il suo migliore amico, era anche la persona che amava e se ne sarebbe dovuto accorgere fin da subito, che in Sherlock qualcosa non andava. E invece lui era stato troppo occupato a pensare a se stesso e ai suoi sentimenti, al fatto che Sherlock lo evitasse perché non lo volesse avere più attorno per colpa di quel bacio, perché lo volesse allontanare perché lui non provava le stesse cose.
E invece tutto quello non c’entrava niente.

“Ascoltate!” esclamò Connie tutto d’un tratto, saltando in piedi come punta da una vespa. “Non dobbiamo farne una tragedia, non fa bene né a noi né a Sherlock. Non ha ancora superato il limite, non come prima, quindi si può ancora recuperare. E noi lo aiuteremo, d’accordo?” Fece un sorriso ai due uomini guardandoli speranzosa e loro non potevano far altro che essere contagiati dalla sua tenacia. In fondo, non aveva tutti i torti.

“Certo, tesoro”, acconsentì Greg, alzandosi anche lui e sistemandosi la camicia. “Io però ora dovrei andare al lavoro. Ce la fate voi due da soli?”

“Sì, vai pure”.

“Chiamami se hai bisogno di qualcosa”.

“D’accordo”.

Lestrade si avvicinò alla ragazza e le diede un rapido bacio sulle labbra. Poi afferrò la sua giacca e uscì dall’appartamento.
Connie allora si diresse a passo spedito verso la cucina e aprì il rubinetto del lavello per lavare le tazze e i piatti che erano rimasti ancora dall’altra sera.

“Devo chiamare Mycroft e dirgli quello che è successo”.

“Vuoi che lo faccia io?”

“No, gli manderò un messaggio. Gli dirò di venire qui così glielo dico in faccia. Sono proprio curiosa di vedere la sua espressione”.

John non poté fare a meno di notare una certa nota ironica nell’ultima parte della frase. Forse questa sarebbe stata la volta buona per capire che cosa non andasse tra i due. Non poteva solo trattarsi di quel bacio che si erano scambiati per sbaglio Sherlock e Connie.

“D’accordo. Io vado a vedere se Sherlock si è svegliato”.

“Portagli una tazza di tè”.

 

Quando John entrò nella stanza di Sherlock, trovò il detective ancora addormentato, questa volta sdraiato sulla schiena, i capelli scuri sparsi sul cuscino. Era piuttosto pallido, tanto che quasi si poteva confondere con le lenzuola, se non fosse stato per i capelli.

Poggiò la tazza di tè fumante sul comodino e si sedette sul bordo del letto, rimanendo a guardarlo. Gli piaceva guardarlo dormire, non sembrava più lui. E in quel momento pareva così piccolo e indifeso.

Dopo poco, però, lo vide aprire gli occhi, lentamente, come se stesse cercando di abituarsi alla debole luce che entrava dalle finestre. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di inquadrare il viso di John.

“Ciao”, lo salutò questi. “Come ti senti?”

Sherlock lo guardò leggermente confuso, poi si portò un braccio alla fronte e richiuse di nuovo gli occhi. “Ho mal di testa”.

“Hai la febbre. Ti porto delle pastiglie”, poggiò le mani sul letto per aiutarsi ad alzarsi, quando ci ripensò. “O forse è meglio di no”.
Il detective inclinò il capo come incuriosito.

“Ti ho portato del tè. E dovrei misurarti la febbre. E dovrei anche…”.

“Sei arrabbiato con me?” lo interruppe il moro guardandolo con quei suoi penetranti occhi azzurri. John rimase leggermente basito. “Arrabbiato con te? No”.

“Allora sei deluso. Il che forse è peggio. O forse no. Non lo so”.

“Sherlock, ma che stai dicendo? Non sono né arrabbiato né deluso. Sono solo preoccupato e spaventato perché tu ora hai un problema, come qualsiasi altro essere umano, ed è perfettamente normale. Non c’è niente di cui vergognarsi. Ti aiuterò… ti aiuteremo”.

Il detective si mise seduto di scatto, le mani poggiate sul letto perché lo sostenessero. “Perché sei sempre così, John? Perché… perché mi giustifichi sempre? Avrei preferito che ti fossi arrabbiato e che mi avessi gridato contro. Non puoi sempre essere dalla mia parte, non puoi…”.

John aveva ascoltato quelle parole rimanendo impassibile, nonostante il tono decisamente contrariato dell’amico. Capiva perfettamente la reazione di Sherlock. Ma al detective ancora non era chiara una cosa: che era ora di smetterla di avere paura.

Avvicinò il proprio viso a quello dell’amico, così vicino che avrebbe potuto baciarlo, e fissò i propri occhi in quelli dell’altro. “Sherlock, tu sei il mio migliore amico e io…”.

“E tu?”

Io ti amo.

“… ti voglio bene. Quindi, non mi interessa che cosa farai, ti aiuterò. Sempre”.

Sherlock aprì bocca per aggiungere qualcos’altro, ma venne interrotto dall’arrivo di Connie che restò perplessa per qualche attimo nel vederli così… intimi.

“Scusate, ho interrotto qualcosa?”

 

Era tutta la mattina che la più piccola della famiglia Holmes cercava di mettersi in contatto col fratello maggiore; gli aveva mandato una decina di messaggi, chiamato almeno cinque volte, ma quello si ostinava a non rispondere.
Sperava solo che non lo stesse facendo perché non voleva parlare con lei. Ma se così fosse stato, lo avrebbe preso a pugni fino a staccargli tutti i denti. Non poteva ignorarla, gli aveva scritto in maiuscolo che c’era un problema e che si trattava di Sherlock. Mycroft sarebbe accorso, per forza.

Aveva chiamato persino Molly, pregandola di venire e di aiutarli e la ragazza si era precipitata da loro arrivando in Baker Street in venti minuti. E solo perché aveva un lavoro urgente da finire, altrimenti sarebbe arrivata prima.

John era di nuovo in stanza con Sherlock quando la patologa bussò alla porta. Il detective era rimasto a letto praticamente tutto il tempo, troppo spossato per alzarsi a causa della febbre e del mal di testa.
Era mezzo addormentato persino quando il dottore gli legò un laccio emostatico attorno al braccio per fargli un prelievo di sangue. Infilò l’ago nella vene, trovandola un po’ dura, ma il moro non reagì. Doveva esserci abituato.
Riempì qualche provetta, poi estrasse l’ago e gli attaccò un cerotto. Stava per rimettergli il braccio sotto le coperte quando qualcosa attirò la sua attenzione: c’erano delle cicatrici bianche sul polso di Sherlock. Sembravano essere piuttosto vecchie, ma erano chiaramente delle cicatrici. Ed erano presenti su entrambi i polsi.
Non le aveva mai notate perché il detective portava sempre le maniche lunghe o i guanti. A questo punto un atroce dubbio lo assalì.

Scese al piano di sotto dove consegnò le provette a Molly, raccomandandole di fare in fretta nell’analizzarle.

“Non ti preoccupare, John, farò prima che posso. Piuttosto, come sta Sherlock?”

“Non molto bene. Ma si riprenderà”. John cercò di sorridere rassicurante all’amica, ma non credette di esserci riuscito granché.

Il campanello della porta suonò di nuovo e Connie si precipitò sperando che fosse Mycroft. Invece era solo Lestrade, seguito dalla Signora Hudson, la quale era rimasta piuttosto scioccata nello scoprire che Sherlock aveva fatto uso di droghe.

Mycroft arrivò finalmente nel tardo pomeriggio, impeccabile come sempre, con l’immancabile ombrello appeso al braccio e quella faccia che alla sorella faceva sempre venire voglia di prenderlo a sberle.

“Ero bloccato ad una riunione importante”, disse come scusa, piuttosto incuriosito nel vedere l’appartamento pieno di tutta quella gente. “Che è successo?”

“Già, il lavoro è più importante della tua dannata famiglia”, lo riprese Connie, incrociando le braccia al petto e guardandolo di sbieco.

Mycroft sembrò fare appello a tutto il suo autocontrollo per non dire o fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. “Non girarci troppo attorno, Constance e dimmi cos’è successo”.

Connie attese per un po’ prima di rispondere, guardando il fratello dritto in viso: “Nostro fratello ha ripreso a drogarsi”.

 

 

MILLY’S SPACE

Lo so, Mycroft non sta facendo una bella presentazione. Ma si rifarà, lo prometto. È solo che mi è uscito così, non posso farci niente ^^

Vi ho fatto attendere troppo, scusate, ma avevo gli esami da finire. E ora sono libera come l’aria XD

Bene, è molto tardi, quindi non mi dilungo troppo.
Ma vi prego, lasciatemi una recensione, please :3

Ah, prima di andare volevo chiedervi una cosa: avevo pensato di pubblicare dei Missing Moments su questa fanfic per raccontare qualche episodio dell’infanzia e dell’adolescenza di Sherlock. Vi piacerebbe? Vi avverto già che sarà molto angst ^^

Fatemi sapere.
Un bacio,
M.

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici ***


CAPITOLO QUATTORDICI

Mycroft osservava la sorella, impassibile. I suoi occhi non mostravano alcuna espressione, le sue labbra non si piegarono in nessuna smorfia, nessun muscolo si mosse. Non sembrava nemmeno che stesse respirando. Tutti nell’appartamento tacevano, non una mosca volava.

Connie si avvicinò lentamente al fratello e piegò il capo all’indietro per osservarlo meglio. Oh, l’espressione di Mycroft era cambiata eccome! Da quella superficie fredda e disinteressata che era solito mostrare, faceva capolino il Mycroft giovane che si preoccupava per le sorti del fratellino.

“Da quanto?”

“Un mese”.

L’uomo strinse le mani a pugno come se cercasse di trattenere qualcosa. “Gli hai fatto qualcosa?”

Connie sbatté le ciglia, la bocca semiaperta in un’espressione incredula e contrariata. “Ah, certo, ora è colpa mia?! E’ sempre colpa mia”. Si avvicinò al fratello tutta infervorata; sembrava in procinto di dargli un pugno. Invece si limitò a puntargli un indice contro e a colpirlo sul petto. “Non fai altro che prendertela con me. È colpa mia per qualsiasi cosa brutta gli succeda. È colpa mia se è così sociopatico, se è strano, se si droga, se non mangia abbastanza, se i bulli a scuola gli infilavano la testa nel cesso, se si è fatto bocciare. Ed è colpa mia pure se ha tentato il suicidio tagliandosi le vene, giusto?!”

La ragazza si zittì e Mycroft l’afferrò per i polsi. Tutti nella stanza ora erano sconvolti.

“Oh, Santo cielo!” esclamò la signora Hudson accasciandosi su una sedia e facendosi aria con un fazzoletto. Molly invece scambiò un’occhiata con John. Questi aveva appena sentito confermare il suo sospetto quando aveva visto quelle cicatrici sui polsi di Sherlock. Ma come aveva fatto a non notarli prima? Già, certo, perché Sherlock indossava sempre le maniche lunghe e i guanti per non farli notare. Ma non era una scusante. Diceva di amarlo e non era nemmeno in grado di notare queste cose?

Stupido, stupido, John, sei una testa di cazzo!

“Che cosa pensi di fare ora, Mycroft?” chiese Connie, gli occhi che sembravano perforare il fratello.

“Quello che ho fatto l’ultima volta”.

La ragazza ridacchiò isterica. “Metterlo in un centro di disintossicazione? Sherlock non accetterà mai e lo sai”.

“E tu che proponi di fare?”

In quel momento si sentì un rumore provenire dal corridoio. Tutti si voltarono in quella direzione, scorgendo un ombra scura allontanarsi.

“Sherlock!” gridò Connie allarmata. Ma Sherlock non tornò indietro. “Visto cos’hai fatto?!” rimproverò il fratello, tornando a rivolgere l’attenzione a lui. Restò a fissarlo duramente negli occhi, indecisa su cosa dirgli; alla fine, decise di lasciar perdere. Si voltò verso John e sospirò. “Vieni con me”.  Poi, girandosi verso Mycroft: “E tu resta qui!” Nessuno osò contraddirla in quel momento, nemmeno il fratello maggiore.

Connie e John raggiunsero la stanza di Sherlock, trovando l’uomo fermo di fronte alla finestra con la schiena rivolta alla porta. La ragazza gli si avvicinò cautamente, come se non volesse spaventarlo; il dottore invece rimase un po’ più indietro, come se fosse in attesa di un ordine.
Si agitavano diverse sensazioni dentro di lui, alle quali non riusciva a dare un ordine né un nome. Sapeva solo che non erano affatto piacevoli.
Forse, riflettendoci bene, la sensazione che più dominava sulle altre era la rabbia, rabbia nei propri confronti, rabbia per non aver capito che cosa stesse succedendo a Sherlock in quei giorni, per non averlo ascoltato come doveva, per non essergli stato più vicino. Insomma, abitare nello stesso appartamento non significava per forza essere intimi e sapere tutto del proprio coinquilino. Ma c’era anche un certo senso di impotenza che lo tormentava perché non aveva idea di che cosa fare per aiutare Sherlock e, cosa peggiore, non era certo se ne sarebbe stato in grado. Sicuramente Connie aveva molto più potere di lui, era sua sorella e ci era già passata.

Sei invidioso, John?

No.

Sicuro?

“Sherly?” Sentì la voce di Connie, cauta e preoccupata. “Stai bene?”

Le rispose il silenzio; Sherlock non disse niente e non diede segno di averla sentita. Si limitò a rimanere a fissare il panorama fuori dalla finestra.

“Non dovevi sentire quello che…”.

“Non voglio andare via”.

“Cosa?!”

“Non mandarmi via.  Non voglio andare in quel… quel posto”. Quando il detective si voltò verso la sorella, John si sentì sprofondare nel vedere quegli occhi così sofferenti e quell’espressione abbattuta.

“Oh, tesoro. Nessuno ti manderà da nessuna parte. Te ne starai qui, con me e John. Non dare ascolto a Mycroft!” Connie si sollevò sulle punte e strinse il fratello in un abbraccio. Questi non si ritrasse ma si lasciò andare contro di lei, le braccia lasciate pendere sui fianchi. Attraverso la spalla della ragazza, lanciò un’occhiata a John che, appoggiato contro l’armadio, lo guardava con un piccolo sorriso rassicurante. Non voleva fargli capire di essere in pena per lui perché sapeva che a Sherlock non piaceva, ma non era molto bravo a nascondere i suoi sentimenti, non come il detective, almeno.

“Adesso riposati. A Mycroft ci penso io. L’ho sempre fatto”.

John e Connie uscirono dalla stanza, lasciando Sherlock da solo, ma prima di tornare in salotto, la ragazza si fermò in corridoio, guardando il dottore gravemente. “Fagli un prelievo e poi faremo analizzare la provetta a Molly. È meglio che non si sappia troppo in giro, ok?” sussurrò all’amico per non farsi sentire dal fratello. Benché la porta fosse chiusa, sapeva che quando Sherlock voleva, poteva sentire tutto. “Dovremo tenerlo sotto controllo in questi giorni. Io non ho intenzione di metterlo in un centro di disintossicazione”.

“Nemmeno io”, rispose John, annuendo. “Non ti preoccupare, ce la farà”. Era d’accordo con Connie: per quanto fosse un medico e sapesse comunque che i centri di disintossicazione aiutavano, non gli andava di lasciare Sherlock in uno di quelli. Insomma, Sherlock non era una persona qualsiasi e quindi non era nemmeno un drogato qualsiasi. E poi, c’era anche il suo lato egoistico a impedirgli di fare una cosa del genere.

In quel momento i due sentirono qualcuno tossicchiare dietro di loro e si voltarono contemporaneamente. Mycroft li guardava col solito cipiglio altezzoso. “Constance, dobbiamo parlare di questo fatto. Non credo sia una buona idea…”.

“Sta’ zitto! Non mi interessa che cosa credi tu. Mi occuperò io di Sherlock e se provi a portarlo via da me e John giuro che chiedo a Greg di arrestarti!” Connie era in procinto di mettere le mani addosso al fratello, quando un improvviso trillare la bloccò. Mycroft estrasse il cellulare dalla tasca e lesse il messaggio che aveva appena ricevuto. Poi alzò lo sguardo sulla sorella e storse la bocca. “Ora devo andare. Ma dobbiamo continuare questo discorso. Ci rivedremo presto”.

La ragazza alzò gli occhi al cielo e osservò il fratello andare via. Non aveva intenzione di fermarlo e sperava di non doverlo rivedere troppo presto.
Quando sentì che la porta d’ingresso si chiudeva, tornò in salotto insieme a John che aveva appena estratto un po’ di sangue dal braccio di Sherlock per consegnarlo a Molly per farglielo esaminare. La ragazza sembrava piuttosto turbata, così come la Signora Hudson, che correva di qua e di là per la cucina, lavando tazze e pulendo tutti i ripiani che trovava, di modo da tenersi occupata. John riuscì a farla calmare e la convinse ad andare a riposarsi, assicurandole che Sherlock non avrebbe tentato di tagliarsi di nuovo le vene e nemmeno di impiccarsi o qualsiasi altra cosa che poteva mettere fine alla sua vita.
Anche Molly alla fine se ne andò, facendosi promettere che l’avrebbero tenuta aggiornata sulle condizioni di Sherlock.

“Che ne dite se ordiniamo delle pizze per cena?” chiese a un certo punto Connie, una volta che in casa furono rimasti solo lei, John e Lestrade. “Ho parecchia fame”, aggiunse, massaggiandosi la pancia.

“Per me va bene”, rispose Greg e John annuì.

 

Finirono di mangiare la pizza parlando del più e del meno, senza nominare Mycroft, la droga o qualsiasi altra cosa che potesse rovinare l’atmosfera. Greg parlò di un caso piuttosto semplice che stava seguendo, al che Sherlock si distrasse e poté unirsi alla conversazione. Sia Connie che John furono però molto felici di vederlo mangiare finalmente come si deve.

Mentre Connie e Lestrade buttavano via i cartoni della pizza e mettevano via le posate, Sherlock si alzò da tavola per salire in camera sua.
La ragazza allora lanciò un’occhiata a John che, senza aver bisogno di ulteriori spiegazioni, lo seguì senza farsi notare. Quando lo raggiunse, lo trovò che rovistava nell’armadio.

“Non serve che mi controlli. Non sto sniffando cocaina, volevo solo cambiarmi la maglietta”, gli arrivò la voce calma e profonda dell’amico.

“Non volevo controllarti”, mentì John, ma capì subito che era inutile negare l’evidenza, specialmente davanti a un consulente detective così intelligente e perspicace. “E’ solo che sono preoccupato”.

“Non serve nemmeno che ti preoccupi”.

“Non posso farne a meno, Sherlock”.

Il moro si tolse la maglietta rimanendo a petto nudo davanti a John che non poté evitare di farci cadere l’occhio. Ma da quando era diventato così gay? Maledetto il karma!
Sherlock si sedette sul letto con lo sguardo basso. “Scusa, John”.

“Per cosa?”

“Per essermi drogato. E per aver pianto sulla tua maglietta”.

John sorrise e si sedette accanto a lui, poggiandogli una mano sulla coscia. “Tutti commettono degli errori e sei ancora in tempo per tornare indietro. E per quanto riguarda la mia maglietta… be’, ti lascerò piangerci sopra tutte le volte che vorrai”.
Sherlock ridacchiò, alzando gli occhi sull’amico e fermandosi a osservarlo. Poi sussurrò: “Scusami anche per questo”.

John spalancò gli occhi quando si trovò le labbra del detective premute contro le sue, sorpreso e incredulo. Perché, perché Sherlock era sempre così dannatamente… così come? Imprevedibile?
Il dottore ricambiò il bacio, affondando la mano nei capelli del moro, lasciandosi andare a quel bacio dolce ma intenso.
Si staccarono solo perché dovevano riprendere fiato.

 “Sappi che tu non mi devi mai chiedere scusa”, sospirò John contro l’orecchio di Sherlock, senza poter evitare di sorridere come un ebete. “Tantomeno se mi baci così”.

“Allora posso baciarti di nuovo?”

“Tutte le volte che vuoi”.

“Solo se stanotte resti a dormire con me”.

 

Connie stava lavando i bicchieri quando sentì Greg sfiorarle un braccio e appoggiarsi al lavello accanto a lei. Si limitò a rimanere in silenzio, però.

“Che c’è che ti tormenta?” gli chiese lei

Lestrade inarcò un sopracciglio, maledicendo la sua ragazza che si accorgeva sempre di tutto. Dopotutto, bastava vedere con chi era imparentata.

“Stavo solo pensando a Sherlock”.

“Non ti preoccupare. Si riprenderà”.

“Questo lo so. È solo che…”.

Connie richiuse il rubinetto e lanciò un’occhiata incuriosita al suo fidanzato. D’accordo che era intelligente e perspicace, ma non fino a questo punto. “Solo che cosa, Greg?”

“Non avrei dovuto farlo lavorare a quel caso, quello della droga, intendo. Scommetto che è da allora che ha iniziato”.

La ragazza sbatté le ciglia e lasciò cadere lo straccio. “Tesoro, ma che dici? Non importa quando ha iniziato, di sicuro non c’entri tu”.

“Sì, però io…”.

“Greg, non è colpa tua. Smettila!”  Si protese per dargli un bacio veloce sulle labbra e spettinargli i capelli. “E in ogni caso non è questo che conta”.

L’uomo le sorrise e la strinse a sé. Certo, lui non poteva saperne niente, non sapeva molto del passato di Sherlock e di certo non si immaginava che avrebbe ripreso a drogarsi, ma comunque non poteva fare a meno di sentirsi un po’ in colpa. In fondo, lui per primo ha lanciato il sasso.
Ma ormai il danno era fatto e dare la colpa a qualcuno non avrebbe aiutato nessuno.

 

 

MILLY’S SPACE

Ok, giuro che io non odio Mycroft, anzi, lo amo. È solo che qui è venuto un po’ così. Ma non preoccupatevi che si rifarà. Ma da quant’è che lo ripeto?? Boh.

Scusate il ritardo nell’aggiornamento ma sono veramente a corto di ispirazione e nemmeno questo capitolo mi convince troppo ma non volevo continuare a rimandare. Temo di aver fatto Sherlock un po’ OOC. Pazienza.

Prima di chiudere volevo linkarvi una Oneshot di Torchwood che ho pubblicato proprio ieri, nel caso seguiate la serie mi piacerebbe che le deste un’occhiata http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2801209&i=1
e andate a visitare la mia pagina facebook https://www.facebook.com/MillysSpace

E ricordatevi anche di lasciare una recensione.

Baci,
M

P.S. ho intenzione di pubblicare una raccolta di Missing Moments tratta da questa storia, ma non so ancora quando.

ALICE_D_MONKEY: Sherlock è troppo puccio solo che non lo vuole ammettere . Ti prego, non prendertela con Mycroft, è solo che lui non capisce… ^^
Alla prossima, un Bacione. Milly

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici ***


CAPITOLO QUINDICI

Quando Sherlock si risvegliò quella mattina, la prima cosa che fece fu controllare se John fosse ancora lì. E nello scoprire che la parte del letto accanto a lui era vuota e fredda si rattristò immediatamente. Era da diverso tempo che agognava di svegliarsi stretto al suo corpo caldo e sperava di essere accontentato una volta tanto, almeno quando stava male, come quel giorno che sentiva la testa girare.
Chissà dov’era andato!

Con molta calma mise i piedi giù dal letto e si sedette sul bordo, cercando di trovare le forze per alzarsi; una volta riuscitoci, dovette aspettare un altro po’ perché la stanza smettesse di girare. Poi si incamminò verso l’uscita, appoggiandosi a tutti i mobili che trovava a portata di mano per non rischiare di cadere.
Le scale furono un’impresa più ardua, ma riuscì a gestire anche quelle e finalmente si trascinò fino alla cucina. I suoi occhi andarono subito alla ricerca di John ma nemmeno lì c’era alcuna traccia di lui. C’era solo Connie che stava preparando del tè.
Sherlock dovette schiarirsi la gola per farsi notare da lei.

“Sherl!” esclamò la sorella non appena lo vide. “Ti sei già alzato! Vieni, siediti!”

Il moro non se lo fece ripetere due volte e si accomodò sulla sedia più vicina. Soltanto in quel momento, però, notò un paio di bustine trasparenti sul tavolo e le riconobbe immediatamente. In una era contenuta una polverina bianca e nell’altra c’erano un paio di pillole molto piccole.

“Le ho trovate tra le tue cose”, spiegò Connie, notando lo sguardo del fratello.

“E John dov’è?” chiese Sherlock, spostando gli occhi da un’altra parte.

“E’ andato a fare la spesa. Tornerà presto”. Connie tornò ai fornelli e versò del tè in una tazza, per poi metterla davanti al fratello insieme a una scatola di biscotti. “Tieni, mangia qualcosa”.

“Non ho fame”.

“Lo so, ma devi mangiare lo stesso”.

Sherlock cominciava ad essere un po’ irritato dal tono amorevole e zuccheroso che sua sorella stava usando con lui, trattandolo come un bambino piccolo.
E aveva bisogno di John. Aveva un disperato e forte desiderio di avere John lì con lui, anche solo per essere consapevole della sua presenza.
Tuttavia si sforzò di mangiare un paio di biscotti e di svuotare la tazza. Poi Connie lo trascinò in bagno perché voleva che fosse lui a svuotare quella droga giù per lo scarico.
Le mani del detective tremavano mentre svolgeva quella mansione, ma doveva farlo, sapeva anche lui che doveva farlo. Era giusto così. Aveva superato il limite.
La sorella lo aiutò quando fece fatica ad aprire una delle bustine.
La polverina bianca scivolava davanti ai suoi occhi dritta nell’acqua del water e soltanto in quel momento Sherlock si accorse di quanto era stato stupido e pericoloso. Aveva commesso di nuovo lo stesso sbaglio, era tornata indietro, era tornato in quel passato che aveva cercato di rifuggire con tutte le sue forze.
Che cosa avrebbero pensato di lui gli altri? Che cosa avrebbe pensato John?

“Hai qualcos’altro?” la voce di Connie gli arrivò alle orecchie come un tuono che percuote una notte silenziosa e l’uomo si riscosse dai suoi pensieri tutto d’un colpo. “Sherlock, hai altro che dobbiamo buttare?”

“No”.

“Sei sicuro?”

“Sì. Puoi controllare”.

“No. Mi fido”.

La ragazza abbassò il coperchio della tazza e mando giù lo scarico. Il detective vi si sedette sopra e alzò lo sguardo alla sorella. “Stanotte ho baciato John”.

Connie si sedette sul bordo della vasca e guardò Sherlock come se le avesse appena detto che aveva fatto un viaggio sulla luna.
“Davvero?”

“Sì”.

“E lui ha ricambiato?”

“Sì”.

La ragazza all’improvviso batté le mani e spalancò la bocca in un sorriso a trentadue denti. “Oh mio Dio, ma è fantastico!”
Sherlock inarcò un sopracciglio; in momenti come quello dubitava che fosse veramente sua sorella. Ma allo stesso tempo non poteva fare a meno di esserne divertito.

“Be’, dopotutto non mi stupisco. John è pazzo di te”.

“Cosa?”

“Certo! Come fai a non essertene accorto? Eppure sei un detective eccezionale”.

Sherlock scrollò le spalle. Non è che non se ne fosse accorto, era solo che non aveva voluto illudersi. Aveva fatto caso ad alcuni segnali mandatigli da John, che fossero voluti o meno, ma non aveva voluto crederci. Aveva etichettato questi piccoli dettagli come inganni della sua mente, nulla di più. Ma ora era felice di essersi sbagliato.
Almeno qualcosa nella sua vita sembrava andare nel modo giusto.

 

John rientrò in casa mentre Connie stava riordinando la cucina. La ragazza lo accolse con un sorriso entusiasta, al che il dottore rimase un po’ perplesso ma non fece alcuna domanda. Probabilmente era qualche ormone da donna incinta.

“Sherlock è di sopra”, gli disse. “Metto io a posto la spesa”.

John appoggiò i sacchetti sul tavolo e corse su per le scale, dritto in camera di Sherlock. Lì trovò l’uomo intento a osservare degli spartiti, col violino ancora appoggiato dentro la custodia.

“Ciao”.

“Ciao”.

“Sei tornato”.

“Sì”.

John, fermo ancora sulla soglia, esitava a entrare, maledicendosi per non aver preparato un discorso. Gli sarebbe stato molto utile perché un quel momento non aveva la più pallida idea di che cosa dire, o meglio, sembrava che tutte le parole gli si fossero incastrate in gola. E così stava facendo la figura del pesce lesso. Come suo solito…

Allora cominciò a schiarirsi la gola.

“John, dobbiamo parlare”.

Di nuovo, il biondo rimase senza parole, a fissare Sherlock come un baccalà.

“Per quel bacio, io…”.

“Aspetta!” lo interruppe il dottore, ponendo una mano aperta davanti a sé per dare più enfasi alle sue parole. “Aspetta”. Abbassò lo sguardo. Non ce la faceva a guardarlo negli occhi, tutto quello era nuovo per lui. “Qualsiasi cosa tu stia per dire aspetta perché se aspetto io poi non ce la farò a dirti quello… quello che voglio dirti”. Alzò lo sguardo solo per vedere l’espressione di Sherlock, il quale lo guardava incuriosito ma in attesa delle sue parole. John esalò un sospiro e continuò: “Io… io provo qualcosa, per te. Non so esattamente cosa sia o forse ancora non lo voglio ammettere, ma… so che tengo a te più di quanto si possa tenere a un semplice migliore amico e so che… voglio che il nostro rapporto sia più di una semplice amicizia…”. All’improvviso, senza avere il tempo di concludere, si trovò le labbra di Sherlock premute contro le proprie e le sue braccia che lo stringevano, come per impedirgli di allontanarsi. Non che John lo avrebbe fatto.  

“Anche io voglio qualcosa di più”.

 

Mycroft entrò nell’appartamento con l’ombrello appeso al braccio e l’elegante completo leggermente bagnato.

“Myc”, lo salutò Connie cordialmente ma con una punta di freddezza nella voce.

“Ciao, Connie. Dov’è Sherlock?”

“E’ in camera con John”.

Fratello e sorella si stavano fronteggiando nel centro del salotto, come l’altra sera, però con meno ostilità.

“Senti, Myc, non ho voglia di litigare con te. Ma non voglio nemmeno mettere Sherlock in un centro di disintossicazione. Gli ho fatto buttare via tutta la droga. Ti posso assicurare che io e John possiamo gestire la cosa”.

“Lo so che potete farlo. Nemmeno io voglio chiuderlo in uno di quei posti”.

Connie lo guardò sconcertata. “Che cosa?”

“Ho reagito molto male l’altra sera. Ti chiedo scusa”.

Mycroft che chiedeva scusa? Questa se la sarebbe dovuta appuntare.

“Quindi…”.

“Quindi faremo a modo tuo. Ovviamente, sappiate tu e John che anche io voglio aiutare Sherlock. E non ho intenzione di essere messo da parte”.

“Certo. Assolutamente”. La ragazza sorrise contenta e pure Mycroft non poté fare a meno  di piegare le labbra in un debole sorriso che parve più una smorfia che un vero sorriso.

 

John, seduto sul letto, teneva il portatile aperto sul grembo. Sherlock, sdraiato accanto a lui, col dito gli disegnava dei ghirigori sul braccio.

“Allora, cosa dicono i tuoi fan?”

“La maggior parte sono persone che chiedono di risolvere dei casi per loro. Oh, e c’è una bambina che vorrebbe tu le risolvessi il mistero dell’omicidio del suo cavallo zoppo. I suoi genitori dicono che è stato morso da un serpente velenoso, ma lei pensa che lo abbiano ucciso loro perché era zoppo”.

“Probabilmente è così”, concluse il detective, portando le braccia dietro la testa.

John chiuse il computer, lo poggiò a terra e si strinse addosso a Sherlock.
Era tutto così perfetto.
Tutto.

 

 

MILLY’S SPACE

Ciao a tutti,

sarete contenti di sapere che non sono morta? ^^ *apre l’ombrello di Mycroft in caso di lancio di pomodori*

Dopo tutto questo tempo finalmente mi sono decisa ad aggiornare la fanfiction. Il ritardo non è stata una cosa voluta, semplicemente mi sono mancati il tempo e l’ispirazione.
Spero vi ricordiate ancora di questa storia.

Va be’, non voglio perdermi in inutili ciance che tra un po’ devo uscire e non mi sono ancora preparata.

Vi ricordo di visitare la mia pagina fb, Milly’s Space, e di lasciarmi qualche recensione, anche per urlarmi contro XD

Un bacione,

M.  

MONKEY_D_ALYCE: ciao, carissima!! Anche io voglio un Sherlock da coccolare… e invece è solo John ad avere questa fortuna ^^ be’, siamo felici per lui. Yeeeah! Spero di risentirti, un abbraccio. Milly.

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