Roar and Flames

di _Joanna_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The little Princess Lioness ***
Capitolo 2: *** The Lion in the Dark ***
Capitolo 3: *** The still Too Young Wolf ***
Capitolo 4: *** The Wolf and the Lion ***
Capitolo 5: *** The Regret, The Fury and The Choice ***
Capitolo 6: *** Everything will change ***
Capitolo 7: *** No Mercy ***
Capitolo 8: *** Started ***
Capitolo 9: *** What is the Truth ***
Capitolo 10: *** The Lord and the Octopus ***
Capitolo 11: *** The Trial ***
Capitolo 12: *** The Sentence Can Wait ***
Capitolo 13: *** Royal Lies ***
Capitolo 14: *** I am the King ***



Capitolo 1
*** The little Princess Lioness ***


Questa fan fiction è ispirata alla serie TV “Game of Thrones” della HBO. La storia e i personaggi descritti prendono spunto dai fatti presenti nella serie televisiva, e appartengono unicamente a George R. R. Martin e alla HBO. Nella fan fiction sono stati inseriti anche personaggi di mia invenzione.



 
Ah è la mia prima fan fiction, vi prego siate indulgenti







 
 
The little Princess Lioness
 
 



Naerenys


 
La neve cadeva lenta e sottile. Era la neve dell’estate, quella che si scioglieva non appena toccava terra, quella che quando si posava sui rami degli alberi, li adornava di lievi ricami, che al sole si districavano e rapidi fluivano sui tronchi come tiepide lacrime. Era la neve della vita e della speranza, quella che permetteva ai contadini di coltivare la terra nel freddo Nord, quella che concedeva loro, ormai da dieci anni, un ultimo raccolto. Ma soprattutto era la neve che segnalava ufficialmente l’ingresso nel Nord. Si diceva che dal momento in cui ci s’imbatteva in essa, trascorrevano esattamente dodici giorni. Da quel momento, di giorni, ne erano passati venti.
 
     Ogni mattina Naerenys si svegliava nell’enorme casa su ruote di sua madre, e ogni mattina malediceva sua madre per quella casa su ruote. Era la principale causa del loro incedere incredibilmente lento. Quella specie di carrozza mastodontica era fatta per i viaggi su strade rette e pianeggianti, e non per il trascurato tratto settentrionale della Strada del Re, e meno che mai per i tortuosi solchi fangosi che zigzagavano per la palude dell’Incollatura. Non riuscivano a percorrere neppure un miglio, che una delle ruote della carrozza reale s’impantanava nella fanghiglia, o rimaneva incastrata tra le rocce. Per lo meno in quei giorni a Naerenys era permesso cavalcare. Non che potesse andare dove le pareva, ma se non altro era all’aria aperta, e non rinchiusa in quella soffocante trappola dorata. Ora invece era costretta a rimanerci giorno e notte, tra scossoni e cigolii, insieme a sua madre, la regina Cersei, e ai suoi fratelli più piccoli.
     “Sei la principessa dei Sette Regni, Naerenys, e come tale devi comportarti. Non ti permetterò di varcare la soglia di Grande Inverno vestita di cuoio e sporca di polvere e fango”. Così aveva sentenziato la regina, quattro giorni prima, e così era stato. Ma non arrivavano mai, e per quanto volesse bene ai suoi fratellini, cominciava davvero a non sopportarli più.
 
     Quella giornata era iniziata come tutte le altre: la famiglia reale si era svegliata all’alba, poi tutti si erano vestiti e preparati, mentre i servi e gli scudieri smontavano le tende, spegnevano i residui dei fuochi da campo e caricavano carri e carriaggi per una nuova giornata di marcia. Il che significava che il sole era già molto alto quando finalmente erano in grado di proseguire. Suo padre, il grande re Robert si svegliava quando la casa su ruote cominciava il suo quotidiano e penoso avanzare, e barcollante ordinava che gli fosse portata una caraffa di vino rosso dorniano, e che qualcuno gli sellasse il cavallo, e che magari lo aiutasse anche con i lacci delle brache.
 
     Naerenys odiava suo padre: odiava il modo vergognoso e irrispettoso in cui si comportava, odiava i suoi eccessi, ma soprattutto odiava doverlo chiamare padre. Sì, perché era ormai ovvio ai suoi occhi che quella balena ubriacona ambulante non poteva essere suo padre. No, non era il padre di nessuno dei suoi fratelli, non era possibile. Nessuno di loro aveva mai provato affetto per Robert, a differenza dei suoi figli bastardi, né lui li aveva mai in qualche modo incoraggiati a farlo. E poi non gli somigliavano nemmeno: Robert infatti, aveva capelli e barba folti e neri come l’inchiostro, tipici della sua famiglia, i Baratheon, e che tutti i suoi numerosi bastardi avevano ereditato; loro quattro, invece, avevano morbidi riccioli biondo-dorato, come la regina, e i suoi fratelli, e tutti gli altri membri della sua nobile Casa, i Lannister. Naerenys intuiva quale potesse essere l’identità del suo vero padre: a mano a mano che il sospetto cresceva, Naerenys si sarebbe aspettata di provare un sentimento montante di sconcerto e disgusto, invece non era stato così, e questo, stranamente, non la turbava.
 
     «Non manca molto Myrcella, arriveremo prima del tramonto». La voce di sua madre distolse Naerenys dai suoi pericolosi pensieri.
«L’hai detto anche ieri, e anche il giorno prima, e quello prima ancora.» insistette la sua sorellina.
     «Se ci fossimo accontentati di un semplice padiglione…» si inserì Naerenys.
«Ora basta! Tutte e due, smettetela! Arriveremo quando arriveremo.» urlò la regina.
     «Ma io sono stanca!» continuò Myrcella.
«Sì madre siamo stanchi, e io mi annoio… Posso cavalcare anch’io come fa Joffy?» chiese Tommen, l’altro suo fratello, il più piccolo.
«No, non puoi. Joffrey è il principe ereditario, e quindi deve cavalcare con il re. Noi possiamo, e dobbiamo, restare qui, al caldo e al riparo dal sudiciume di questo maledetto Nord.»
 
     Sua madre aveva odiato fin dal principio il Nord. Quando il lord suo marito le aveva comunicato senza mezzi termini di iniziare i preparativi per il viaggio verso Grande Inverno, il capoluogo del regno più settentrionale dei sette, la regina era andata su tutte le furie. Aveva rimproverato Robert per non aver chiesto il suo parere nel merito, poi gli aveva urlato in faccia che mai e poi mai sarebbe partita per andare a fare visita a quel ghiacciolo di Stark, “se proprio ci tieni tanto, va pure ma scordati che i ragazzi ed io veniamo con te”; quando poi Robert le aveva rivelato la vera ragione del viaggio, Cercei non ci aveva visto più: avevano passato il resto della serata e gran parte della notte a discutere, o meglio sua madre discuteva mentre il re beveva. Ma alla fine di tutto quello strepitare, il mattino dopo la regina si era apprestata a dare le disposizioni necessarie per la partenza.
 
     La carrozza si arrestò bruscamente. “Sarebbe stato troppo bello”. Era tutto il giorno che la casa su ruote avanzava costante e senza intoppi. «Che cosa succede?» chiese sua madre, scostando il lembo di una delle tendine. Uno dei soldati di scorta alla carrozza reale si avvicinò «Il re ha ordinato di fermarsi, vostra grazia». Naerenys riusciva a scorgere il cielo alle spalle del soldato. “Un’ora al tramonto” valutò “Forse anche di più. Perché mai il nostro grasso sovrano vuole fermarsi? Non fa altro che berciare tutto il giorno delle mille avventure passate con Ned, e gli luccicano gli occhi al solo pensiero di rievocarle presto con lui”. La regina doveva aver avuto lo stesso pensiero perché disse «Và a vedere che cosa ha spinto il mio amato consorte a dare l’ordine  di fermare la colonna». Il giovane armigero si precipitò ad eseguire l’ordine al galoppo, o almeno è quello che intendeva fare, prima di imbattersi in ser Meryn che arrivava in quel momento. Per poco il soldato non venne disarcionato. «Mia regina» esordì «siamo a meno di mezza giornata da Grande Inverno. Il re ha dato ordine di fermarci qui e riprendere la marcia domani all’alba» “Vorrai dire il re è stato costretto a dare l’ordine, ser”. Naerenys conosceva Robert quanto bastava per sapere che se meno di mezza giornata a cavallo lo divideva dalla sua meta, lui avrebbe lanciato il cavallo al galoppo, lasciando amici e nemici nella polvere. Nel frattempo era arrivato anche suo fratello, affiancato da ser Jaime, il gemello della regina. «Aiutami a scendere ser» la regina accetta il braccio del suo dorato fratello, che l’aiutò a scendere i pochi, insidiosi, gradini della casa su ruote, in un concerto di frusciare di sottane e tintinnare di gioielli. Naerenys scese a sua volta. “Che meraviglia”. Era piacevole sgranchirsi le gambe dopo una giornata passata là sopra. L’aria era piacevolmente fredda. I leggeri fiocchi di neve si posarono mollemente sui suoi capelli, si sciolsero al contatto del viso e delle mani. Naerenys camminò tra soldati e servitori, in mezzo a tende e fuochi che andavano moltiplicandosi. Chiuse gli occhi, ascoltando i suoni, cogliendo gli odori, assaporando il gusto della neve. “L’ultimo giorno di libertà, sempre che alla fine non la spunti mia madre”.
 
     La visita agli Stark aveva due scopi. Il primo e principale era conferire a lord Eddard Stark, signore di Grande Inverno e protettore del Nord, la nomina di Primo Cavaliere del re, titolo infame volendo stare a pensarci, doppiamente se poi si dava un’occhiata alla storia: da quando lord Tywin Lannister, il padre di sua madre, aveva rassegnato le dimissioni di Primo Cavaliere del precedente re, tutti quelli che gli erano succeduti avevano inesorabilmente incontrato una fine infausta; alcuni erano stati esiliati, altri erano caduti in disgrazia, altri ancora erano stati uccisi. Quando re Robert aveva preso il potere, aveva nominato quale suo Primo Cavaliere Jon Arryn, una sorta di padre putativo per lui e per il suo grande amico Ned e benché ufficialmente lord Jon era morto di malattia, non erano in pochi a sollevare dubbi sulla sua dipartita. Per questo Naerenys non poteva fare a meno di compatire il povero Stark.
 
     Il secondo motivo invece era una proposta di matrimonio. Naerenys conosceva la triste storia di Lyanna Stark, sorella minore di lord Eddard, promessa sposa di lord Robert, rapita dal principe Rhaegar Targaryen, erede del Trono di Spade. Questo fatto aveva dato origine alla ribellione di Robert, che si era conclusa con la morte di Rhaegar, di suo padre, di sua moglie, dei suoi figli e di Lyanna. Se fosse vissuta Robert l’avrebbe sposata e ne avrebbe fatto la propria regina, e lui e Ned sarebbero stati fratelli. Evidentemente quest’ultimo desiderio non si era mai sopito, tant’è che il re aveva deciso di unire le casate dei Baratheon e degli Stark con un diverso matrimonio: Naerenys avrebbe sposato il primogenito di lord Eddard, Robb Stark, e sarebbe così diventata la lady di Grande Inverno. Sua madre però non aveva accettato di vedersi portar via la figlia, perché venisse reclusa in un freddo e grigio castello dalle mura di ghiaccio. Aveva pertanto suggerito una diversa soluzione: Joffrey sarebbe stato promesso alla seconda nata di casa Stark, Sansa. Questo significava che sarebbe stata la bella fanciulla del Nord a trasferirsi nel palazzo del suo promesso sposo, il che non era poi tanto male visto che il palazzo in questione era la Fortezza Rossa, e che il titolo che avrebbe ricevuto era quello di Regina. Ma il re non si era lasciato convincere, non perché non gli facesse piacere elevare la preziosa figlioletta del suo caro amico, ma perché temeva in un rifiuto: lord Eddard sarebbe stato di certo restio a lasciare la sicurezza del suo gelido scranno, e lady Catelyn, sua moglie, non avrebbe di certo aiutato, visto che si sarebbe vista portare via in un colpo non solo il marito, ma anche una figlia. Inoltre la dolce lupacchiotta doveva essere poco più che una bambina, molto più piccola quindi del suo eventuale futuro sposo. “Dèi fate che ci ripensi” pregò Naerenys silenziosamente. “Fate che nel momento in cui vedrà le tetre mura di Grande Inverno decida di risparmiare un simile destino a sua figlia”. Naerenys era una figlia del Sud. Era figlia del sole, del mare e del caldo. Era figlia delle corti vivaci, animate da cantastorie e giocolieri. Era figlia della capitale, delle mille e mille persone che la popolavano, provenienti da ogni angolo dei Sette Regni e dai territorio al di là del Mare Stretto. Non sarebbe mai appartenuta al freddo Nord, a Grande Inverno, con le sue mura grigie, e la sua corte ancora più fredda e grigia, né al parco degli dèi, il luogo sacro dove gli Stark veneravano ancora gli antichi dèi. “No non oserà, sa che se non accontenterà mia madre almeno questa volta, per lui sarà la fine, come quando…”.
 
     Splutch. Una morsa di gelo le artigliò il viso. Naerenys aprì di scatto gli occhi, che vennero inondati da una cascata di acqua gelata. Davanti a lei c’era suo fratello Joffrey, che quasi piangeva dal ridere. «Non è divertente Joff» ringhiò Naerenys, che subito dopo raccolse a piene mani un mucchietto di neve, lo appallottolò comprimendolo bene, e lo lanciò contro suo fratello. Lo centrò in pieno volto. E questa volta fu lei a piegarsi in due dalle risate. Richiamati dalle risa dei due giovani principi accorsero anche i due fratellini più piccoli, subito seguiti da Garth Greenfield, scudiero e cugino di ser Preston, cavaliere della Guardia reale, da Lea Waters, amica d’infanzia di Naerenys, e da altri giovani scudieri e allegre cortigiane. Andarono avanti a colpirsi, stringendo effimere alleanze, e organizzando crudeli imboscate, finché non ci fu più neve da lanciare, accorgendosi solo in quell’istante di avere tutti le guance rosse e gli abiti fradici. Il sole stava ormai tramontando. Naerenys tornò alla casa su ruote insieme ai fratelli, ridendo e punzecchiandosi a vicenda, e per la prima volta da tanto tempo sembrarono solo quattro ragazzini comuni, che tornano a casa dopo una giornata passata lungo il fiume a giocare.
 

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Capitolo 2
*** The Lion in the Dark ***


the Lionnnn

Joffrey

 

Era da poco passata la mezzanotte. Joffrey sedeva solo in un angolo buio della mastodontica casa su ruote. Non riusciva a dormire, si sentiva le viscere aggrovigliate, come se qualcuno gli avesse stretto un laccio attorno alla vita, cercando di frantumagli le costole.

 

     Dopo essere tornato alla grande carrozza reale per cambiarsi il farsetto fradicio, Joff aveva raggiunto la tavola del re, che, come ogni sera, era stata riccamente imbandita. Ma di suo padre non c’era traccia. Joff si diresse comunque in quella direzione, e prese posto alla destra dello scranno del re. Subito un servitore si avvicinò, reggendo in mano una caraffa d’acqua fresca; un secondo servo chiese se sua grazia desiderava iniziare a mangiare. “Tanto non verrà neanche questa volta” pensò, e disse «Altrimenti perché mi sarei seduto secondo te? Fa’ presto, ho fame». Il piccolo demente corse via ad eseguire l’ordine. “Dovrei mandare qualcuno a chiamarlo?” pensò “Sì Joff, fallo chiamare, e ti riderà in faccia”. Già se lo immaginava: “Il piccolo principino ha bisogno di essere imboccato?” “Povero Joff, mammina si è stancata di starti dietro?” “Ma dimmi, bagni ancora il lettino la notte?”. Che lui ricordasse, suo padre non gli aveva mai rivolto una parola gentile, e questo da sobrio. Quando si ubriacava, re Robert squarciava il sottile velo che costituiva la sua inibizione, e berciava il suo malessere a proposito dei figli: “Molle come un fico” era la definizione che usava più di frequente per descrivere il suo erede. Naturalmente quando la regina si presentava da lui infuriata il mattino dopo, suo padre negava con decisione di aver mai pronunciato una frase del genere, rimediando con il primo complimento che gli veniva abilmente suggerito da quel topo imbalsamato di Jon Arryn «Joff è tale e quale lo Sterminatore di re, diventerà un grande spadaccino» proclamava, “E per allora, spero di essere già crepato, altrimenti schiatterò dal ridere al ruggito di quel gattino” sembravano dire i suoi occhi.

No, non aveva bisogno di suo padre per quella sera, né ne aveva sentito la mancanza quella precedente, e di certo non gli sarebbe servito per quella successiva.

 

     Il servitore stava tornando in quel momento, con un piatto di densa zuppa di carote in una mano e un filetto di manzo in crosta alla birra con contorno di spinaci nell’altra. Dietro di lui Joffrey scorse un’ombra scura in avvicinamento. Era Sandor Clegane, il Mastino, lo scudo giurato del principe ereditario. Joff fu felice di vederlo; si sentiva piacevolmente al sicuro quando lo aveva attorno, molto di più di quando era con suo padre. Il ragazzotto idiota gli posò sotto il naso la zuppa fumante, ma Joffrey non aveva più fame. Afferrò una pesca dal grande cesto che era stato posto in centro alla tavola, e la lanciò al Mastino. Quello era il segnale silenzioso che avevo stabilito per dire “Per oggi è tutto”. Clegane gli era grato di questo, ne era certo. Avrebbe divorato il suo zuccherino, mentre andava in cerca di piaceri ancora più dolci. Joff aveva pensato, una o due volte, che anche per lui era ormai giunto il momento di assaporare una donna. Sapeva che se gliel’avesse ordinato, il Mastino gli avrebbe procurato una delle graziose ragazze che viaggiavano al seguito della colonna reale, e volendo, gliene avrebbe trovata anche una vergine, dopotutto chi dice di no al principe dei Sette Regni? Ma Joffrey sapeva che cosa voleva, chi voleva, e non era di una baldracca da soldati o una ragazza dei porcili. Joffrey voleva lei.

 

     La gioiosa risata argentina di sua sorella strappò Joffrey dal suo sogno vizioso. Naerenys camminava sotto braccio alla sua migliora amica, Lea, una bastarda figlia di un qualche cavaliere e di una meretrice di Approdo del Re. Si erano conosciute durante la fase “popolana” di Naerenys. Sua sorella, infatti, a nove anni aveva deciso che era arrivato il momento di conoscere più da vicino il popolo che un giorno avrebbe governato. Perciò, si era messa a frugare in armadi e bauli,  nelle stanze della servitù, in ogni angolo della Fortezza Rossa, finché non aveva trovato quello che cercava: un vecchio abito sdrucito di lana grezza, strappato e rattoppato malamente in più punti. Una notte, mentre tutti dormivano, era uscita di nascosto dal palazzo, e si era avventurata tra i vicoli e i budelli della capitale. Il mattino seguente, le servette, trovando il letto vuoto, avevano subito dato l’allarme. Immediatamente erano partite le ricerche della principessa, mentre il Concilio Ristretto si riuniva d’urgenza per individuare una possibile causa politica del rapimento. Di quei giorni Joffrey ricordava solo di aver provato un grande senso di solitudine; i suoi fratellini erano troppo piccoli per capire quello che stava succedendo, e gli adulti non facevano altro che correre da una parte all’altra, affannati, tutti troppo impegnati per prestare ascolto alle domande di un bambino. Persino suo padre una volta tanto aveva messo da parte vino e donne per cercare di calmare la sua inconsolabile consorte. Alla fine, dopo due giorni di ricerche serrate, uno degli uomini della Guardia Cittadina l’aveva scovata, nascosta in uno squallido tugurio del Fondo delle Pulci. A condurre lì la guardia era stata una bimbetta della stessa età di sua sorella, Lea Waters appunto. Riportata alla Fortezza, alla principessa era stata data una bella strigliata, dopo di che era stata condotta alla presenza del re, che le aveva chiesto di raccontare quello che era successo. Joff non aveva assistito alla scena, ma da quel che si vociferava, pareva che Naerenys avesse risposto con un’alzata di spalle e un “volevo capire perché il Fondo delle Pulci si chiama così”; al che il sovrano si era fatto una grassa risata, aveva raccomandato alla figlia di non fare altri esperimenti e infine aveva ordinato una sana caraffa del dorato di Arbor. Il giorno seguente, Lea era stata scortata a palazzo per ricevere i ringraziamenti delle regina, la quale aveva poi acconsentito a che la ragazzina diventasse una gradita cortigiana della principessa.

 

     E ora erano lì, la principessa e la bastarda di Fondo delle Pulci. Lea stava dicendo qualcosa a proposito di Garth, il giovane scudiero che aveva partecipato con loro alla battaglia a palle di neve di quel pomeriggio. Lea lo trovava molto attraente, mentre per Naerenys il suo naso camuso lo faceva assomigliare a una scimmia. «Sei solo gelosa, Nys» le stava dicendo Lea «Perché Garth era l’unico ragazzo che non ti stava mangiando con gli occhi». «Sciocchezze» le rispose Naerenys «Sono proprio quelli che fanno finta di niente a interessarmi di più». Scoppiarono a ridere tutte e due. “Non dovresti perdere tempo con gli scudieri da poco” pensò Joffrey “Loro non meritano neanche che tu ricorda il loro nome”. Intanto le due ragazze si stavano salutando, ridendo ancora del naso dello scudiero probabilmente, o di qualche altro sciocco pettegolezzo. Naerenys si abbandonava alle storielle leggere che piacevano tanto alle ragazzine stupide, ma aveva imparato fin troppo presto che le canzoni non sono la realtà, e che difficilmente bellezza, coraggio e bontà appartengono a uno stesso individuo. “È solo preoccupata” si disse “Sa che oggi potrebbe essere la sua ultima notte di fanciulla”.

 

     Naerenys gli aveva confidato qualche giorno i prima i piani del re. “Mi prometterà all’erede di Grande Inverno” gli aveva detto. “Sarò rinchiusa in quella grigia e gelida fortezza, lontano da tutto e da tutti”. “Ma diventerai una donna importante, la lady del Protettore del Nord” le aveva risposto lui. “Diventerai come la triste sorellina di lord Stark, soltanto un ricordo, lontana dal sole, dai colori, da me” aveva pensato. “Io sono già importante!” aveva replicato lei. Poi aveva dato di speroni e aveva risalito la colonna, lasciandolo solo, con le parole mai dette ancora incatenate in fondo alla gola.

 

     «Joff che ci fai qui?» si voltò verso sua sorella. La luce della luna le illuminava il viso, bellissimo, incorniciato da una cascata di morbidi riccioli dorati che le ricadevano mollemente sulle spalle nude. E in mezzo a tutto quell’oro, si stagliavano luminosi come le stelle gemelle dell’Ovest, due grandi occhi azzurri. «Io… Niente non avevo sonno» «Nervoso per domani?» gli chiese lei sorridendo. «Perché dovrei? Non sono io quello che sta per ricevere una proposta di matrimonio» «Non si sa mai. Ti ho detto dell’alternativa proposta dalla mamma. Nostro padre non ha ancora preso una decisione definitiva, potrebbe anche appoggiare la sua idea» «Già, forse» “Dèi, vi prego, fate che sia così”. Se Joffrey fosse stato promesso alla figlia di Ned Stark, invece che il contrario, la sua futura moglie sarebbe venuta ad Approdo del Re, in qualità di protetta e cortigiana di Naerenys, fino a che entrambi non avessero raggiunto l’età per sposarsi. “E se gli dèi sono misericordiosi, lei e mia sorella diventeranno amiche, tanto che la mia regina non vorrà separarsene, e quindi sarà lei a perorare la sua causa quando mio padre organizzerà un nuovo matrimonio per Naerenys: non sarà costretta a sposare uno sconosciuto, non le sarà imposto di lasciare la sua casa”. «Mi dai una mano col vestito?» Naerenys era in piedi davanti a lui e gli voltava le spalle. Con una mano tratteneva i lunghi capelli da un lato, mentre con l’altra indicava i lacci che dovevano essere sciolti. Joffrey si alzò e cominciò ad armeggiare con nastri e cordicelle. Una volta finito, Naerenys fece scivolare il vestito a terra. Sotto era nuda. Joff si voltò di scatto, sentendo già che qualcosa si cominciava a muovere laggiù in basso. “Non va. Non dovrebbe essere così” Si ripeté per la centesima volta. Ma sua sorella sembrava non essersene accorta. Quando si girò di nuovo, la principessa aveva indossato una sottile veste di seta, ed era impegnata a raccogliere i capelli in una spessa treccia. La osservò compiere quel rituale che già molte volte le  aveva visto fare; quando finì, Naerenys alzò lo sguardo, gli sorrise, e gli augurò la buona notte. E in un attimo Joffrey si ritrovò di nuovo solo. Solo insieme alla sua colpa. Solo insieme alla sua vergogna. Solo insieme al buio della notte.

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Capitolo 3
*** The still Too Young Wolf ***


The still Too Young Wolf

Robb

  

«Sbrigatevi con quei tavoli… Attenti con quei calici… Che cosa state preparando, un banchetto o un funerale? Accendete anche le torce in fondo!…». Lady Catelyn stava impartendo istruzioni a destra e a manca; da giorni ormai Grande Inverno era in fermento per l’arrivo della famiglia reale, e lady Catelyn era quella più inquieta di tutti. Robb l’osservò aggirarsi frenetica tra i servitori, nessuno dei quali si muoveva senza un preciso scopo: tutti avevano un compito, e dovevano eseguirlo bene, non erano concessi sbagli. Infatti, se per caso uno dei servi fosse inciampato, rompendo uno dei preziosi calici che la lady sua madre aveva fatto tirare a lucido, o peggio, se una domestica maldestra avesse fatto cadere una torcia incendiando uno dei preziosi arazzi alle pareti… Robb non voleva pensarci, trovava sua madre già abbastanza terrificante. “Che cosa saranno mai poi, un re e i suoi mocciosi principini” si chiese Robb.

 

     Non appena suo padre, lord Eddard, aveva ricevuto la lettera del re che annunciava il suo effettivo ingresso nel Nord, tutti quanti nel castello erano come impazziti. Sua madre e maestro Luwin si erano immediatamente immersi nei libri contabili, per ricontrollare la prima stima del costo che la visita reale avrebbe comportato. Poi aveva passato in rassegna i magazzini con gli approvvigionamenti, assicurandosi che le cantine fossero ben fornite delle più pregiate vendemmie dell’anno. Infine aveva dedicato quasi ogni momento delle sue giornate a organizzare i preparativi.

 

     Sentì qualcosa strusciare contro la sua gamba. Allungò la mano per arruffare il pelo della sua belva: un meta-lupo, dal mantello grigio come il fumo. Era ancora un cucciolo, ma già si capiva che non era un semplice lupo, sarebbe infatti diventato più grande e più feroce dei suoi cugini. Vento Grigio, era così che l’aveva chiamato, gli leccò la mano con la sua lingua ruvida. «Andiamo bello» gli disse, e uscì fuori dalla Sala Grande, diretto al cortile degli addestramenti. Quando arrivò vide Theon Greyjoy, il protetto del lord suo padre, intento ad incoccare una freccia, l’ennesima a vedere il bersaglio, trafitto da una mezza dozzina di dardi, conficcati gli uni sugli altri nel centro esatto. «Ehi Greyjoy» lo chiamò. Il ragazzo si voltò, sogghignò, con il suo solito sorriso spavaldo, e lanciò la freccia, senza guardare. Centro perfetto. «Che te ne pare Stark?» gli gridò lui. «Non male per essere un fottuto idiota» rispose Robb.

 

     Theon aveva qualche anno in più di Robb. Era arrivato a Grande Inverno una decina di anni prima: spaesato e timoroso, nel giro di qualche giorno Greyjoy aveva dimostrato di essere un ragazzino sfacciato e impertinente; non c’era voluto molto perché lui e Robb diventassero come fratelli. Ora quel bambinetto era diventato un uomo e, a dispetto del suo atteggiamento borioso e del suo sorriso onnipresente, Robb sapeva di non avere amico più fidato di lui. Nemmeno il suo fratellastro Jon, sangue del suo sangue, era come Theon.

Jon era il figlio bastardo di Ned Stark e di chi sa quale donna. Erano circolate diverse voci sull’identità della misteriosa bellezza del Sud che aveva rubato cuore e senno a lord Stark, facendogli dimenticare la moglie e i giuramenti a lei fatti, ma ad ogni supposizione suo padre aveva risposto con un gelido silenzio. Robb non ci aveva messo troppo a capire che di quell’argomento era meglio non parlare. Così l’enigma non era stato sciolto, e questo non aveva di certo giovato a suo fratello. Jon era cresciuto con il peso di essere un bastardo, fardello per niente reso più leggero da lady Catelyn; col tempo quindi si era adattato, almeno così sembrava, ad essere uno straniero a Grande Inverno, uno straniero troppo orgoglioso per ammettere di desiderare di essere uno Stark. “E uno straniero invidioso non sarà mai di aiuto a un lord, non finché mentre parlerai non sarà te che vedrà, ma lo scanno da cui parli”.

 

     «Ehi Stark, ti si sono congelate le gambe?» Robb riprese a camminare, con il meta-lupo al fianco. In quel momento arrivava anche Jon. Dietro di lui, come un’ombra bianca, c’era il suo cucciolo, un meta-lupo albino.

Robb ricordava il giorno in cui lui e Jon li avevano trovati semisepolti nella neve, e ricordava anche l’acida battuta che Theon aveva fatto vedendo il lupo di Jon: “Lo scarto della cucciolata e il bastardo”. Tra Theon e Jon, che Robb ricordasse, non c’era mai stato altro che odio: secondo lui questo era dovuto al fatto che Jon non aveva tollerato che un altro straniero diventasse così facilmente un nuovo figlio e un nuovo fratello per gli Stark; un onorevole ospite gradito a tutti, tranne ovviamente a sua madre e alla sua sorellina Arya. E questo il suo fratellastro lo aveva di certo apprezzato.

Evidentemente però, suo fratello non aveva intenzione di allenarsi con loro quel giorno, perché lo vide deviare verso l’uomo di paglia in fondo al cortile. Robb raggiunse Theon, e insieme si misurarono nel tiro con l’arco, tra insulti scherzosi e complimenti più o meno ammirati, fino al crepuscolo.

 

     La luna, quasi piena, era sorta ormai da ore, e adesso splendeva nel cielo scuro e limpido della notte d’estate. Soffiava una leggera brezza frizzante, e di lì a poco, Robb lo sapeva, avrebbe nevicato. Si accovacciò sul sedile della finestra, ad osservare le mura della Fortezza di Grande Inverno. Da quella posizione poteva chiaramente distinguere i contorni dei merli che adornavano i possenti masti del castello, e più in fondo intuiva le forme diroccate della Prima Fortezza, ormai disabitata da anni. Solo i corvi e suo fratello Bran conoscevano quelle pietre. “Dovrei fare come lui, un giorno sarò il lord di Grande Inverno, un giorno governerò su tutto questo, è mio dovere conoscere ogni più infimo anfratto del mio castello”.

 

     Una volta, tanto tempo prima, aveva provato a scalare la Torre Spezzata, una vecchia torre in rovina ai margini della Prima Fortezza. Suo fratello Bran era accanto a lui, e gli mostrava a mano a mano che salivano i sostegni a cui appigliarsi, le fessure e le sporgenze con cui aiutarsi per salire in alto, sempre più in alto. Bran aveva poco più di sei anni, Robb quasi quattordici, eppure durante la scalata era il suo fratellino a rallentare per permettere a lui di stare al passo. Era arrivato a metà della salita, quando aveva deciso che non quello sport non faceva per lui. A terra, con gli occhi puntati in alto, c’erano Theon e Jon ad osservarli. Quella era stata forse l’unica volta in cui entrambi avevano riso di gusto nello scambiarsi battute per prendere in giro Robb.

 

     «Robb» c’era Bran ora accanto a lui «Dici che ci saranno anche i cavalieri con il re, domani?».

«Sì certo, molti cavalieri, e anche i più bravi del regno. Ci sarà la Guardia Reale con re Robert».

«Oh anche io voglio diventare un cavaliere della Guardia Reale!».

«Lo sarai, Bran. Ma tu non dovresti essere già a letto?».

«Sì ma… Il re sta arrivando, con i cavalieri e anche io sarò un cavaliere, come ser Barristan, o ser Arthur! Dici che ci sarà domani ser Barristan? Eh Robb, ci sarà?».

«Forse. Domani vedremo Bran. Ora vai a letto».

Il suo fratellino fece come gli aveva detto, uscì dalla stanza, insieme ai suoi sogni di cavaliere. Ma Robb non voleva essere un cavaliere, Robb voleva essere un re.

 

 

 

 

Allora, sono arrivata al terzo capitolo ;) Perdonatemi se mi perdo in mille descrizioni, alcune anche piuttosto ovvie, per chi conosce bene la serie, ma sto cercando di proporre una storia alternativa, e quindi scrivo scrivo scrivo. Questo capitolo devo ammetterlo l’ho scritto più per me stessa, per aiutarmi a inquadrare bene alcuni personaggi perché, se non si fosse capito, io sono per il team Lannister :D, e ho sempre trovato il personaggio di Robb Stark piuttosto noioso. Io ho assolutamente intenzione di continuare la fan fiction e spero davvero che vi stia piacendo almeno un pochino. Se avete qualcosa da dire, correzioni, appunti, critiche, non sprecatevi affatto, che io sono qui, oltre che per divertirmi, anche per imparare e ogni critica è bene accetta. J

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Capitolo 4
*** The Wolf and the Lion ***


The Wolf and the Lion

Naerenys

 

 
Fecero il loro ingresso a Grande Inverno sotto un cielo plumbeo. Le nubi, cariche di neve, oscuravano la luce e il tepore del sole. Naerenys era di pessimo umore; aveva passato la notte a rigirarsi nel letto, senza riuscire a prendere sonno, e tutto a causa di uno stupido sogno…

 

     Era stata una giornata di marcia come tante altre, se non fosse che quella era l’ultima del loro lungo viaggio verso Nord. Naerenys aveva voluto godersi ogni istante, continuando a ballare e a divertirsi anche dopo il calar del sole, per paura che, al tramonto del giorno successivo, la sua vita potesse essere ormai cambiata radicalmente.

Si era appena sdraiata sul morbido materasso di piume, che subito era scivolata in un sonno profondo e inquieto. E nelle tenebre dell’oblio, in attesa, c’era lei, la ragazza d’argento.

“Chi sei” chiede la Naerenys del sogno. “Chi sei? Che cosa vuoi da me?” Una richiesta inutile. Sa che la ragazza non le avrebbe risposto. E ora si sta avvicinando, minacciosa, prima lentamente, poi sempre più in fretta. Naerenys vorrebbe fuggire, ma non può. Sotto di sé sente qualcosa di viscido, limaccioso, qualcosa che striscia e cerca di avvolgerla. Attorno a sé sente le tenebre che si stringono, che l’assediano. L’unica fonte di luce è lei, la ragazza con i capelli d’argento, che ora è a un passo da lei. Naerenys la può vedere bene adesso; è giovane, ha circa la sua stessa età. Gli occhi violetti, come ametiste, urlano sofferenza e le labbra morbide, perfette, si stanno dischiudendo. Vuole dire qualcosa quella ragazza, ma non può; come lei è intrappolata nel sogno. Un fuoco rovente avvampa all’improvviso, incendiando la fanciulla dai capelli d’argento. E ora Naerenys vede se stessa davanti a sé. Il viso, i capelli, il suo corpo, nudo, le appare esattamente come è nella realtà. Ma poi una corrente d’aria gelida spazza via quell’immagine, riducendola piccoli frammenti, in microscopici granelli di sabbia. È questo quello che l’aspetta, Naerenys lo sa, l’oblio della morte, ignorata da tutti.

 

     Si era svegliata di soprassalto, con le leggere lenzuola arrotolate intorno al collo, come se cercassero di strangolarla. Naerenys le aveva strappate via con violenza, ansimando e tremando, cercando di riacquistare il controllo. “È stato solo  un sogno Naerenys, solo uno stupidissimo sogno. Adesso calmati” Evidentemente però doveva aver urlato prima di svegliarsi, perché vide avvicinarsi sua madre, con in mano una candela. «Naerenys stai bene? Che cos’è successo?» Naerenys non aveva voglia di turbarla con un altro dei suoi incomprensibili sogni. “È lei che non voglio spaventare, o me stessa?”«Niente madre, solo un sogno» La regina sospirò. «Avevo detto a Pycelle che questa neanche pozione avrebbe funzionato».

 

     Il Gran Maestro Pycelle, consigliere e guaritore alla corte del re, nel corso degli anni, aveva già preparato una quantità incalcolabile di intrugli e pozioni, per regalare alle principessa se non dei bei sogni, almeno delle notti tranquille. Fin da piccola, infatti, Naerenys aveva sofferto di orribili incubi, che la facevano urlare e piangere nel sonno. All’inizio nessuno si era preoccupato poi molto, considerando quei sogni semplici paure infantili, che presto sarebbero passate, come succede a tutti i bambini. Ma con il passare del tempo gl’incubi non cessavano, anzi, si facevano ogni notte più terrificanti. La regina aveva dunque ordinato al Gran Maestro di preparare una qualche pozione che aiutasse la piccola principessa a dormire in pace. E così Naerenys era stata costretta a ingurgitare litri e litri di nauseanti intrugli dal sapore orribile, che prontamente vomitava, insieme alle visioni mostruose. Sua madre, disperata, stava per far chiamare alcuni stregoni dalle Isole dell’Estate, quando improvvisamente gli incubi, così come erano apparsi, erano spariti.

 

     “Ma ora sono tornati” pensò “Più spaventosi e agghiaccianti di prima”.

«Sta su dritto, Tommen, sei un principe o un sacco di rape?». La regina stava riprendendo il suo fratellino per l’ennesima volta; detestava che i suoi pargoletti non apparissero sempre al meglio. «Dèi finalmente siamo arrivati. E ora vediamo di chi sarete presto i nipoti».

Lo sportello della casa su ruote si aprì, e ser Jaime aiutò sua madre a scendere. Poi fu la volta dei suoi fratelli, per ultima fu lasciata Naerenys. “Il grande dono per il Nord” pensò amaramente.

Inginocchiati davanti sua maestà, i sette Stark se ne stavano lì, tutti in grigio, col capo chino, a rendere omaggio al re dei Sette Regni. Robert fece cenno a lord Eddard di alzarsi, lo squadrò da capo a piedi, e scoppiò in una fragorosa risata, come se davanti a lui ci fosse l’uomo più buffo del regno. “Che idiota” pensò. Anche lo Stark abbozzò un sorriso, poi i due amici si abbracciarono. Quando lord Eddard riuscì finalmente a staccarsi dalla stretta mortale del re, cominciò a presentare i membri della sua famiglia. Quando pronunciò il nome di Robb Stark, Naerenys sentì il cuore mancare un battito. L’erede di Grande Inverno era un ragazzo di sedici o diciassette anni, alto e muscoloso, con morbidi riccioli castani e profondi occhi blu. “Attraente lo è di certo”. “In fondo è il massimo in cui si possa sperare in un primo incontro”. Lord Eddard intanto era arrivato a presentare l’ultimo dei figli, un bambino di circa sei anni. Robert non perse tempo a presentare i suoi di figli, agguantò Stark e lo condusse verso l’estremità opposta del cortile dicendo «Portami da lei». E tutti quanti sapevano chi fosse lei. «Mio amato…» cercò di fermarlo sua madre, ma il re la zittì con secco cenno della mano. La regina prese per mano i figli più piccoli e si allontanò, seguendo la sfilza di servitori che già cominciavano a portare i bauli reali nelle stanze approntate per loro.

Naerenys si avvicinò a lady Catelyn, che subito la salutò, chinando il capo «Vostra grazia» esordì «Siamo lieti della vostra visita. Il viaggio è stato stancante? Se vuoi posso farti preparare un bagno, abbiamo una sorgente d’acqua calda nell’ala del castello dove sarete alloggiati». «Ti ringrazio, mia signora». Lady Stark accennò un breve, frettoloso, inchino, e si affrettò a dare gli ordini. “Fa la parte della locandiera, ma odia prostrarsi ai piedi di una ragazzina”. Decise che era giunto il momento di rivolgersi anche alla progenie di lord Stark; si mosse nella loro direzione pronta per il primo incontro con il suo futuro sposo. «Vostra grazia, siamo onorati della tua presenza.» Sansa, la figlia maggiore lord Eddard, s’inchinò davanti a lei, esibendo un timido sorriso. “Graziosa” pensò “E insipida. A Joff sarebbe piaciuta”. Stava per risponderle che se lo poteva pure tenere il suo onore, quando vide dietro alla nobile fanciulla, un ragazzo, con una massa di capelli scuri, e un volto tanto tetro quanto affascinante. «Chi è quello?» chiese, senza quasi accorgersene. Sansa si voltò, cercando di capire quale persona Naerenys intendesse con “quello”, ma fu lady Catelyn, appena ricomparsa, a risponderle «Quello, mia signora, è Jon Snow, il figlio naturale di lord Stark». Aveva parlato con tono tagliente, come se il solo pronunciare il nome di quel ragazzo fosse sufficiente a riaprire una vecchia ferita. E Naerenys capì il perché; Jon Snow non era semplicemente un bastardo, nato da una qualche meretrice durante una delle stupide avventure che spesso i giovani lord si concedono, no, era qualcosa di più. Doveva infatti avere circa la stessa età di Robb, o forse anche meno “i bastardi crescono più in fretta, si dice”, il che poteva significare una cosa sola: chiunque fosse la madre di quel ragazzo, era certamente venuta dopo lady Catelyn. “Sei fin troppo buona tesoro” Se Robert avesse sventolato uno dei suoi bastardelli a corte, era più che certo che sua madre gli avrebbe fatto tagliare la testa, a chi dei due però, Naerenys non sapeva dirlo con sicurezza.

 

“Jon Snow” Snow, neve. Un nome carico di sventura, e di potere. “Come i nomi di tutti i bastardi. Nascono dalla passione più pura, dalla follia del momento, alcuni addirittura dal dolore e dalla morte” Non era un caso che portassero nomi così banali e insieme pregni di significato.

 

     Non aveva avuto modo di parlare con il figlio illegittimo di lord Stark, né tanto meno con quelli legittimi. Aveva appena ricevuto l’acida risposta di lady Catelyn, quando i servitori erano venuti a cercarla. La regina voleva urgentemente parlare con lei. Naerenys non aveva avuto altra scelta che eseguire l’ordine.

 

    «Doppie nozze! Doppie nozze! Ti rendi conto? Ma che cosa si è messo in testa quel vecchio ubriacone?». Entrando nella stanza che era stata assegnata alla coppia reale, Naerenys udì sua madre inveire. Seduto sul sedile della finestra, ser Jaime faceva penzolare una gamba, mentre esibiva un sorrisetto al limite dell’indifferenza.

«Chi si sposa?» esordì Naerenys, conoscendo già perfettamente la risposta.

«Tu e Joffrey sposerete due dei figli di Stark! E sai chi ha suggerito questa brillante idea? Ned Stark! Non gli bastava una principessa per il suo piccolo bastardello, no, vuole vedere quella smorfiosa di sua figlia diventare regina!». Sua madre stava urlando con voce isterica il suo disappunto, incurante di chi potesse essere in ascolto. Infatti ser Jaime disse «Abbassa la voce Cersei, non sta bene parlar male dei nostri ospiti». La regina si voltò a guardare il fratello gemello, con sguardo torvo, come se volesse incenerirlo all’istante. «Vattene, Jaime» tuonò «Non sei capace di prendere le cose sul serio!». Jaime fece quanto gli era stato ordinato; uscendo dalla stanza tratteneva a sento una risata. Sua madre si lasciò cadere su una morbida poltrona di velluto grigio, con il meta lupo degli Stark ricamato sullo schienale. Malgrado il suo atteggiamento, sempre algido e distaccato, la regina ora sembrava fragile e spaurita, come se fosse stata una vergine venduta ad un bruto. Robb Stark non era poi male, quanto a sua sorella, una volta arrivata alla corte del re avrebbe presto imparato a farsi furba ed arguta; “Sarà una buona regina” decise. Avrebbe dovuto essere in preda al panico, o almeno arrabbiata, Naerenys lo sapeva, eppure si sentiva stranamente calma, come se il matrimonio fosse stato imposto a qualcun altro. Paradossalmente era più preoccupata per il fratello che per se stessa. “E mia madre è la più preoccupata di tutti”.

Sua madre seguitava a stare seduta, silenziosa e immobile, con le dita della mano che tamburellavano freneticamente sul bracciolo. Alla fine Naerenys parlò «Sarà meglio che vada a prepararmi per il banchetto» Ora che ci pensava lady Catelyn le aveva fatto preparare un bagno, “Forse è stata l’unica cosa positiva che gli Stark abbiano fatto fino ad ora”. La regina si limitò ad annuire, immersa in chissà quali pensieri, “In quali complotti”, meditando un modo regale per punire il suo nobile consorte.

 

     «Sei bellissima mia signora» Robb Stark era in piedi sulla soglia della sua stanza. Indossava un farsetto di lana grigio e una cappa, pure grigia, bordata di satin bianco, i colori degli Stark. “I miei colori” si disse Naerenys. Per quella sera la principessa aveva scelto un ricco abito di satin azzurro, in perfetta tinta con i suoi occhi, con i bordi ricamanti in fibra d’oro. Il corpetto era ornato da delicati pizzi di Myr, dorati, e tempestato di piccoli zaffiri e pietre d’acqua dolce, tagliati a forma rombi. Le maniche, a losanga, scendevano lunghe, fino a sfiorare terra, mentre la scollatura le lasciava le spalle scoperte. I capelli erano acconciati in una bionda cascata di morbidi riccioli, su cui era intrecciata la sottile fascia d’oro che portava sulla fronte. Naerenys accettò il braccio che il suo promesso sposo le offriva, “Saprà già?” si chiese. Si voltò verso il suo cavaliere, e notò che lui la stava guardando. Robb le rivolse un sorriso, timido per essere quello di un ragazzo. Naerenys incontrò i suoi occhi, di un blu intenso. Occhi tenebrosi, come il mare in tempesta. “Occhi famelici, di un uomo ambizioso”. «Mio padre mi ha spesso raccontato di quando lui e il re erano entrambi al Nido dell’Aquila» disse all’improvviso Robb «E della guerra naturalmente. Temo però, che la versione di tuo padre sia molto più pittoresca» le sorrise. “Perché parla di questo?” “Deve essere più a disagio di me”. In realtà il re non aveva mai raccontato loro niente di niente, i particolari della guerra, Naerenys li aveva appresi dalla sua septa. Tuttavia decise di non deludere il giovane. «Oh certo. Robert ci ha sempre parlato delle sue vittorie, che con il tempo diventavano sempre più mirabolanti» Robb le sorrise di nuovo. Stava per aggiungere qualcosa quando entrambi videro Joffrey e Sansa avvicinarsi, seguiti dai rispettivi fratelli. Solo la piccola Stark mancava. Sansa indossava un abito di spessa lana color indaco, bordato di pelliccia grigia. Il corpetto alto era decorato con squisiti ricami in argento, impreziositi da piccoli diamanti. I lunghi capelli ramati erano acconciati in spessi boccoli, che le scendevano lungo la schiena. Suo fratello invece indossava un farsetto porpora e una cappa nera come la notte. Si disposero in fila, pronti a fare il loro ingresso nella Sala Grande di Grande Inverno. Sua madre, in porpora e ora, arrivava in quel momento, sotto braccio a lord Stark, lady Catelyn era scortata da re Robert. Questi ultimi aprirono la processione, preceduti dal piccolo Rickon, che marciava impettito e orgoglioso. Poi venivano la regina e lord Eddard, quindi il principe ereditario e la sua promessa; quindi venne il loro turno.

 

     La Sala era effettivamente grande, ma Naerenys non poteva fare a meno di paragonarla alla vasta Sala del Trono di Spade. Tavoli a cavalletti erano stati disposti tutt’intorno alla pedana reale, dove alto si ergeva lo scranno degli Stark. Mentre procedevano, notò i molti sguardi curiosi che li seguivano. Quando raggiunsero il fondo alla sala Naerenys vide il ragazzo dai capelli scuri e il volto tetro “Jon Snow” lui la stava guardando, occhi penetranti e assenti a un tempo. Nel passargli accanto, Naerenys gli concesse un sorriso. Poi il suo cavaliere la condusse verso i loro posti d’onore. Dietro di loro, Tommen accompagnava la ritrovata Arya, Myrcella era condotta a rapidi passi da Brandon “Bran”. Poi veniva il turno dei fratelli di sua madre, ser Jaime detto “lo Sterminatore di re”, dal momento che aveva assassinato il re che aveva giurato di proteggere, alla fine della ribellione di Robert, e Tyrion, un nano che veniva chiama “il Folletto”. Raggiunta la pedana, Naerenys si ritrovò al di fianco di Joffrey. Robb invece era insieme ai suoi fratelli, ai tavoli posti leggermente più in basso rispetto ai loro. Per tutta la serata lei Joff evitarono di parlare dei rispettivi matrimoni che presto li avrebbero divisi, entrambi nervosi e in trepida attesa degli annunci ufficiali.

 

     Annunci che vennero fatti prima di dare il via alle danze. Tutti nella Sala Grande, si alzarono in piedi, applaudirono, fischiarono, batterono mani, piedi, coppe e corni, salutando gioiosamente le due future coppie e augurando loro felicità e prosperità. Poi il re, ubriaco fradicio, biascicò qualcosa ai suonatori, che rapidi impugnarono arpe e flauti. Il suo promesso sposo si avvicinò a Naerenys e le chiese di concedergli l’onore di un ballo, lo stesso fece Joffrey con Sansa.

 

     E danzarono e danzarono e danzarono tutta la notte, finché rimasero soli, stretti l’una all’altro, la principessa e il giovane dai capelli scuri e il volto tetro.

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Capitolo 5
*** The Regret, The Fury and The Choice ***


The Regret, The Fury and The Choice

Joffrey

 

 
Naerenys era lì, ad un passo da lui, così vicina e allo stesso tempo così irraggiungibile. Tra le braccia del suo nuovo promesso sposo, sua sorella si lasciava dolcemente cullare dalla melodia e dal ritmico ondeggiare dei passi. Joffrey poteva vedere Jon Snow, il bastardo di Grande Inverno, che lentamente faceva scivolare la mano lungo la schiena di Naerenys, e poi giù, indugiando sui suoi glutei. Joffrey poteva vedere i loro sguardi, che si incrociavano, pregni di una strana alchimia; poteva vedere i baci nascosti che i due si scambiavano, tra una risata e l’altra, tra una ballata e un’altra. Joffrey poteva vedere tutto questo, e Joffrey odiava tutto questo.

 

     Dopo che il re ebbe fatto i suoi annunci e gli applausi e le grida di giubilo si quietarono, ebbero inizio le danze. Come da protocollo gli ospiti di riguardo avevano l’onore di aprirle, mostrandosi in tutta la loro fulgida grazia, volteggiando leggiadri sotto gli sguardi degli altri invitati, alcuni invidiosi che quella attenzione non fosse riservata anche a loro, altri molto riconoscenti di nascondere la propria goffaggine agli occhi dei più. Pertanto toccò ai nuovi protagonisti del banchetto l’esame delle danze.

Joffrey accompagnò la sua giovane promessa, Sansa Stark, sulle soavi note di una dolce canzone romantica. Era un abile ballerino, ma quella sera diede forse la peggiore prova di sé: Joffrey non guardava la sua dama, Joffrey guardava lei. Naerenys danzava leggiadra insieme al suo futuro sposo, Jon Snow, “Jon Stark”, il quale, notò con disgusto, se la cavava piuttosto bene. Terminata la canzone, Naerenys e Jon accettarono di ballare con gli altri ospiti che intanto guadagnavano le proprie postazioni. E così Naerenys danzò con Robb Stark, con lord Eddard e con Lea Waters. Ballò con Tommen con lo scudiero Garth. Infine venne il suo turno.

Joff la prese delicatamente tra le braccia, come aveva fatto altre volte in passato, durante i numerosi banchetti durante le festività e i tornei. Era un musica allegra quella che li accompagnava, perfetta per volteggi e piroette. Lui e Naerenys danzarono per un tempo che gli parve infinito, e che quando terminò, gli sembrò essere stato così fugace, così effimero. Danzarono stretti l’uno all’altra, così vicini che Joffrey avrebbe potuto sfiorare le sue labbra con le proprie. “Avrei dovuto farlo” pensò “Così ora saprebbe che sono io quello che la ama, che è me che appartiene”. Invece non aveva avuto il coraggio di oltrepassare quel limite che si era imposto tanto tempo prima. “E ora è troppo tardi”. Naerenys aveva passato il resto della serata avvinghiata al suo bastardo, stretti in un abbraccio vigoroso ma delicato, apparentemente eterno.

 

     La gran parte degli invitati aveva lasciato la Sala, l’ultimo, Garth di Greenfield, stava guadagnando velocemente l’uscita, condotto per mano da Lea Waters. Joffrey li vide uscire, e li sentì ridacchiare ancora un po’, finché gli unici suoni rimasti furono il lento vibrare di una solitaria arpa e il sommesso mormorio dei due giovani promessi.

Voleva andarsene, doveva andarsene, ma il solo pensiero di lasciare Naerenys gli mozzava il respiro, il pensiero di quello che lui avrebbe potuto farle, e che voleva farle, Joff glielo leggeva negli occhi, lo riempiva di un furore cieco. “Sono suo fratello, il suo piccolo dolce fratellino, l’unico uomo che sarà mai in grado di amarla, l’unico uomo che saprà proteggerla, l’unico uomo che lei potrà mai desiderare”. Si era ripetuto questa frase decine, centinaia di volte, mormorandola tra i denti, sussurrandola nel buio, come una preghiera segreta che solo gli dèi avrebbero potuto sentire.

Ma ora la verità era davanti lui.

Naerenys stava per sposare un altro, Naerenys desiderava un altro.

 

 

 

Catelyn

 

 
«… e pertanto dichiaro legittimo il figlio di lord Eddard Stark, Jon, affinché egli possa …».

Catelyn non aveva ascoltato altro. Non le interessava ascoltare altro. Re Robert aveva dichiarato Jon Snow uno Stark. Jon Snow, il figlio di una qualche puttana, il figlio di una qualche lady, il figlio di quella donna, ora era posto alla pari di tutti i suoi fratelli di sangue puro, i legittimi figli di lord Eddard Stark, “I miei figli”. Quale demone si era impossessato di Ned? E anche del re! “Ha forse posto questa come condizione per accettare la nomina a Primo Cavaliere?”E perché dare la figlia del re in sposa a quello che fino a qualche istante prima era solo un bastardo? “Perché non a Robb?”

 

     Quando il re aveva preannunciato la sua visita al Nord, Catelyn aveva subito intuito che quella del sovrano non era una semplice vacanza in villeggiatura, come spesso soleva fare. E quando la famiglia reale era finalmente giunta a Grande Inverno, la sola vista dei giovani principi le aveva fatto percepire l’eventualità di un matrimonio.

Le sue preghiere erano andate a favore dell’unione tra Sansa e il principe Joffrey. “La mia piccola sarà regina” ricordava di aver pensato. Un pensiero sciocco, nato dal desiderio incessante di una madre di vedere i propri figli elevarsi e prosperare. “Un desiderio esaudito, ma dèi, a quale prezzo”. Ora Jon Snow il bastardo era uno Stark, e avrebbe sposato una principessa, partito ben più adatto all’erede di Grande Inverno. “Anche se forse gli è stato risparmiato un matrimonio infelice con una donna glaciale” Perché questo era Naerenys Baratheon: una ragazza mortalmente glaciale, e non del tipo che si dice delle donne del Nord.

Durate il banchetto, Catelyn l’aveva osservata. La bella principessina del sud era freddamente cortese, ma sempre pronta a lanciare crudeli frecciate a chiunque, e questo non era l’aspetto peggiore. Catelyn l’aveva vista esibire sorrisi smaglianti, rivolgere occhiate ammiccanti a quel cavaliere o quell’altro, parlare amabilmente con coppieri e servitori e rievocare con falsa reticenza, le frequenti visite agli abitanti di Approdo del re, che deliziava con elargizioni di alimenti e divertimenti gratuiti. Ma dietro quei sorrisi, dietro quella maschera di calore e amabilità, Catelyn sapeva che si nascondeva un’anima dura, glaciale e crudele; simile, se non peggiore di quella della regina, Cersei Lannister, che Catelyn riteneva mandante, se non addirittura direttamente responsabile, di quello che ormai era chiaro essere, l’omicidio di Jon Arryn.

 

     “È il destino che merita un bastardo” decise “Quello di avere una serpe in famiglia”. Se fosse stato furbo sarebbe anche potuto diventare complice della moglie, ma Jon Snow era un bastardo di tutt’altra natura rispetto a Daemon Blackfyre e ai suoi figli. Molto probabilmente Naerenys l’avrebbe eliminato una volta che non le fosse più stato di alcuna utilità.

 

     «Lyanna» mormorò all’improvviso nel sonno il lord suo marito «Sì, io… te lo prometto». Catelyn si avvicinò a lui, sussurrandogli parole dolci all’orecchio, mentre lo cingeva con le braccia, come già altre notti aveva fatto. “Ora non potrò più” pensò, stringendolo ancora di più a sé, prima di scivolare anch’essa nel sonno.

 

 

 

 

Robert

 

 

Sedeva solo, nel mezzo del grande letto a baldacchino che gli Stark avevano approntato per la coppia reale. Cersei, come sempre, si era alzata prima dell’alba, lasciandolo solo a smaltire l’ennesima sbronza. Non che lui ne sentisse la mancanza, ma trovava ingiusto che proprio lui, il re, al risveglio non potesse trovare sua moglie accanto a sé, invece di un morbido cuscino ancora pregno del suo profumo.

Avrebbe invece voluto stringere uno dei suoi seni, e dolcemente prepararla per sé. Poi riempirla di teneri baci, finché non si fosse svegliata, e a quel punto, lasciare che lei lo guidasse dentro di sé. O semplicemente guardarla dormire, finché da sola non avesse aperto i suoi magnifici occhi grigi, rivolgendogli un sorriso assonnato.

«Gli dèi sono ingiusti!» bofonchiò, sentendo il vomito premere per eruttargli dalla bocca. Non sarebbe stata la prima volta che si vomitava addosso, ma decise di inghiottire quella fastidiosa sensazione.

Al posto del rigoglioso seno che avrebbe voluto strizzare, Robert si accorse di stringere ancora in mano la caraffa che si era portato dietro dal banchetto. Sollevò la testa e risucchiò le ultime gocce rimaste. Poi lasciò cadere la brocca ormai inutile, mandandola a disintegrarsi sul pavimento.

«VINO!» urlò. Un momento dopo uno dei servitori entrò trafelato nella stanza, chiedendo che cosa sua maestà desiderasse. «Te l’ho detto un attimo fa, razza di idiota. Vino maledetto te! Portami del vino!». Il servo si girò e corse via, tanto in fretta che quasi andò a sbattere contro lo stipite della porta.

“Maledetto te” pensò ancora “E stramaledetto me che ho fatto la scelta sbagliata”. Il vecchio cieco gli aveva offerto una e una sola opportunità, e lui l’aveva gettata via con la leggerezza di un ragazzo di diciotto anni che crede che bastino due mazze per conquistare il mondo.

 

     Il sole era al suo zenit, quando Robert decise di essere abbastanza ubriaco per affrontare sua moglie. Non si era fatto troppe illusioni, Cersei avrebbe preteso di conoscere la ragione del cambiamento dei suoi piani, e lui sapeva già che la sua risposta non le sarebbe piaciuta.

Entrò nella Sala Piccola di Grande Inverno, una sorta di precedente della Sala Piccola della Fortezza Rossa; solo che quest’ultima aveva le dimensioni di quella che lì veniva chiamata Sala Grande.

Il locale era stato assegnato ad uso e consumo della famiglia reale e dei fratelli della regina. In quel momento però c’erano solo Cersei e i figli più piccoli. Robert andò a sedersi accanto a Tommen, che in quel momento si stava lamentando delle barbabietole che aveva nel piatto. Afferrò una coppa e fece cenno a uno dei coppieri di fare quello per cui era pagato. Quando questa fu piena, ne fece una lunga, ampia, sorsata, poi si asciugò i residui sulla manica del farsetto, il tutto nel silenzio più assoluto. «Se non ti piacciono, lasciale pure» disse al figlio, accorgendosi troppo tardi di aver quasi ringhiato la frase. Tommen lo guardò, poi rivolse il suo sguardo alla madre, in cerca di aiuto; Cersei annuì e fece cenno a Myrcella di andare con il fratello. Seguirono svariati minuti in cui nessuno dei due proferì parola; era il gioco preferito di sua moglie, vedere chi di loro non riusciva a tollerare quella situazione.

Come sempre era Robert, e anche questa volta non sarebbe stata diversa, perciò disse «Lo so che cosa vuoi sapere: perché il bastardo».

Silenzio.

«Che vuoi ti dica Cersei? Che era la scelta migliore? Che non è stata una mia idea?».

Silenzio.

«Sono stato io; a Ned ho offerto Joffrey per Sansa, e Naerenys per Robb, ma ho aggiunto che quel ragazzo, Snow, era un bravo ragazzo, poteva meritare un riconoscimento, perché non la legittimazione? E una principessa come risarcimento. Due bastardi si troveranno bene assieme».

Questa volta Cersei reagì. «Naerenys non è affatto una bastarda! È sangue del tuo sangue Robert!»

«Non dal giorno in cui TU le hai dato quel nome».

 

     Ricordava ancora quello che aveva provato quando, di ritorno dalla caccia, aveva saputo quale fantastico nome la sua bellissima regina aveva scelto per la loro primogenita: un nome Targaryen.

Pycelle aveva convinto Cersei che se il primo figlio del nuovo re fosse stato chiamato come uno dei re o delle regine Targaryen, questo avrebbe significato molto per i lord che avevano combattuto fino all’ultimo con il drago, e inoltre avrebbe fatto tacere per sempre tutte le assurde dicerie sull’odio cieco che Robert provava per tutti i membri della vecchia dinastia regnante. “Io non odio i Targaryen, Pycelle” aveva detto al vecchio sapiente “Ma quando morirò sarò felice di trovarmi nel più profondo degli Inferi insieme a Rhaegar e alla sua genia, per continuare ad ucciderli in eterno”.

Ma ormai il danno era fatto.

A quella piccola cosina rosa sembrava piacere il nome che era stato scelto per lei: Naerenys, in omaggio alla famosa regina Naerys e alla piccola Rhaenys, la figlia di Rhaegar uccisa dai Lannister durante il saccheggio di Approdo del re.

Robert aveva cercato di ignorare l’odioso nome della piccola, ma senza successo. Con il passare degli anni Naerenys gli era divenuta sempre più un’estranea, molto più degli altri fratelli; un giorno poi era venuto a sapere degli strani sogni che faceva… E i Targaryen, sapeva, si vantavano spesso di possedere arcani ed oscuri poteri, residui dell’antica Valyria. “Solo una coincidenza” continuava a ripetersi, con sempre minor convinzione. Col passare degli anni però, aveva finito per considerare la figlia una di loro.

 

«Vuoi dare tua figlia in sposa a un bastardo solo perché detesti il suo nome che ricorda quello dei Targaryen?» sibilò Cersei, riportandolo al presente.

«Non solo per questo! Ho deciso quello che ritenevo più giusto, Sno… Stark andrà bene per lei. E ora non voglio più parlarne». Si alzò bruscamente dalla sedia, rovesciando gran parte del contenuto della coppa sul farsetto e sul tavolo, ma era troppo confuso, troppo arrabbiato per farci caso. Uscì dalla Sala, ignorando le proteste e gli insulti di Cercei, diretto nelle sue stanze. Aveva chiesto a Oddvar, uno dei suoi scudieri, di procurargli un po’ di carne fresca. E vino. Tanto vino, per annegare l’amarezza di quei giorni, per cancellare dalla mente, almeno per qualche ora, gli occhi di bianchi quel vecchio cieco che vedevano.

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Capitolo 6
*** Everything will change ***


Everything will change

Joffrey

 

 
«… e il cavaliere si avvicinò piano alla bellissima principessa, che se ne stava, sola e tr… Oh vostra grazia!» la vecchia septa in grigio scattò in piedi, chinando il capo, «Siamo così onorate della tua presenza» disse, gettando occhiate a Sansa Stark, anche lei in piedi col capo chino.

«Ci stava raccontando la storia del cavaliere e della principessa» disse concitata sua sorella Myrcella, venendogli incontro «Oh Joff sai che è una storia successa davvero e che parla della nostra famiglia? Ser Vernon si era innamorato della principessa Rhaelle, la mamma del papà di nostro padre!». Quella storia avrebbe potuto parlare di qualunque cosa, ma Joffrey non si era recato nella stanza del ricamo per sentire qualche favoletta per bambine, Joffrey voleva lei. In quella stanza c’erano, oltre alla septa, altre quattro ragazze: Myrcella, Sansa e sua sorella e una ragazzina che non aveva mai visto. Ma non lei. Stava per andarsene, ma capì che non poteva farlo, doveva essere andato lì per una ragione, e non voleva che loro sapessero che quella ragione era Naerenys: “Nessuno dovrà mai sapere” si era detto alla fine del banchetto dove sua sorella era stata promessa al non-più-bastardo Snow.

Alzò lo sguardo, nella speranza che un’illuminazione lo colpisse; e così fu: vide Sansa, che nel frattempo si era nuovamente seduta, gli occhi fissi sul pavimento, le mani intrecciate in grembo, incapaci di reggere gli aghi del ricamo. «Sansa, mia signora» esordì. La ragazza del Nord alzò lo sguardo, eccitata e spaventata, un lieve rossore che le colorava le guance “Naerenys non arrossisce mai” pensò amaramente, ma disse «Mi faresti l’onore di camminare con me?». Sansa aprì la bocca, ma la stanza rimase silenziosa. Alla fine disse «Io… Ne sarei molto onorata mio signore, ma… il ricamo…» Guardò la septa, che compiaciuta le rispose «Potrà aspettare, vai pure Sansa».

“E ora?” Joffrey non aveva intenzione di perdere tempo con quella ragazzina, non alla vigilia delle nozze.

 

     Re Robert aveva deciso che almeno uno dei matrimoni si sarebbe dovuto celebrare il prima possibile. La scelta era ovviamente ricaduta sulla coppia più vecchia, più pronta e meno importante.

“Non dovrebbe essere così” si era detto, quando lord Stark aveva annunciato la lieta notizia nel cortile degli addestramenti, “Naerenys merita di sposare un uomo migliore, nel Grande Tempio di Baelor, con un’enorme folla ruggente ad accoglierla e uno sfarzoso banchetto per festeggiarla” Invece Naerenys avrebbe sposato un ex bastardo, in un misero tempietto, circondata da poche persone quasi totalmente estranee che avrebbero riempito a stento la Sala che in un quel luogo tetro veniva definita Grande.

 

     Quella mattina perciò suo padre, lord Stark, Robb e due dozzine di uomini tra cavalieri, scudieri e semplici armigeri, avevano lasciato Grande Inverno per andare a una battuta di caccia. Alci enormi erano state avvistate nella Foresta del Lupo, e le loro grandi corna sarebbero state un dono di nozze perfetto. Anche Joffrey sarebbe dovuto andare con loro, il solo pensiero di uccidere qualcosa, qualsiasi cosa, e fingere che fosse quel bastardo, era sufficiente a farlo eccitare. Ma sua madre aveva insistito perché lui rimanesse al castello e parlasse con Naerenys; aveva infatti notato che loro due da dopo quel banchetto, non si erano più rivolti la parola.

 

     «Dunque domani tua sorella sposerà il mio fratellastro» Sansa gli camminava affianco, sottobraccio, rivolgendogli di tanto in tanto qualche timido sorriso «Sarà un cerimonia bellissima» “E come?” «Ne sono certo mia signora» le sorrise «Ma devo pregarti di non essere come al banchetto in nostro onore o farai sfigurare la sposa» Sansa arrossì lievemente, scostandosi una ciocca che le era ricaduta sul viso.

«Mio signore» disse dopo un po’ «La storia che ci stava narrando septa Mordane poco fa, parla davvero dei nonni del re tuo padre, come ha detto la principessa» “Oh no ti prego, ancora?!” «Mi dispiace, mia lady, ma non conosco la storia». Era stato freddo, Joffrey lo sapeva. Così disse «Però mi piacerebbe sentirla, mia signora, ti va di raccontarmela?» «Oh mio signore io… è una storia per bambine, non credo…» «Beh ha a che fare con la mia famiglia no?» «Io… Come desideri mio signore. La storia parla di una giovane principessa, che deve sposare un uomo che suo padre il re ha scelto per lei da quando era ancora in fasce. Ma la principessa è innamorata di un altro, il figlio di un lord a cui non ha mai rivelato i suoi sentimenti. Così la notte prima delle nozze scappa dal palazzo reale per correre da lui; lungo la strada, però, cambia idea e comincia a vagare per i boschi. È quasi l’alba quando si ferma, stanca e infreddolita, vicino alla riva di un fiume. Ad un certo punto ode dei rumori, crede che si tratti di qualche animale feroce, o di briganti, ma lei non prova neanche a scappare, da tanto è triste e spaventata. Dai cespugli finalmente emerge qualcosa, ma non è una fiera, né un fuorilegge: è un giovane alto e bellissimo, con lunghi capelli scuri e grandi occhi blu. Anche lui è in fuga da un destino che non vuole, la sua amata andrà in sposa a un altro e lei non ha neppure mai conosciuto quello che lui provava per lei. Proprio in quel momento l’uno si accorge dell’identità dell’altra. Entrambi vorrebbero dirsi quello che non si sono mai detti, ma alla fine il giovane lord trova il coraggio e si confessa. I due innamorati sono al settimo cielo e decidono di tornare al palazzo del re e lo implorano di benedire la loro unione nonostante tutto. Alla fine dopo varie prove di valore e promesse, il sovrano acconsente al matrimonio». Joffrey  rimase in silenzio, perso tra quei boschi mai esistiti, ad ascoltare quelle parole mai pronunciate “Le mie parole”. Sansa notò la sua reazione e si affrettò a dire «Lo so mio signore, è una storia sciocca, adatta a delle bambine». «È una bella storia, mia signora, adatta agli avi di un re». Sansa sorrise, sollevata, e per un istante, un singolo breve istante, Joffrey intravide del calore in quel sorriso timido, in quegli schivi occhi azzurri, un calore che forse con il tempo avrebbe imparato ad amare, che forse un giorno sarebbe stato essenziale come l’aria. Ma fu un battito di ciglia, e Joffrey insieme alla polvere cancellò dagli occhi ogni immagine di felicità. La ragazza che aveva davanti, lui non l’avrebbe mai amata. Mai.

 

     Continuarono a camminare muti e distanti. Un silenzio gravava su di loro, un silenzio che doveva essere spezzato; e Sansa stava per dire qualcosa quando lui la vide.

Bellissima come sempre, Naerenys stava scendendo le scale della biblioteca, accompagnata da, da qualcuno che non importava, perché non appena lui la vide, tutti i suoi buoni propositi andarono in frantumi, si sciolsero come neve al sole, ruscellandogli via tra le dita. Le parole mai dette tornarono ad affiorargli alle labbra e il terribile, doloroso impulso tornò a pervaderlo. Joffrey voleva andare da lei, prenderla tra le braccia e baciarla, lì, davanti a tutti, davanti alla sua promessa sposa, a sua madre, a chiunque avesse occhi per vedere. Joffrey voleva, ma non poteva, non più. E poi lei lo vide. I loro sguardi si incrociarono, e Joffrey sentì il proprio cuore perdere un battito. Immobile, incapace di muoversi, di parlare, di respirare, Joffrey restava in attesa. In attesa che succedesse quello che tanto aveva sognato, che accedesse quello che la sua mente riteneva impossibile, ma che la sua anima continuava ad agognare. Fu un attimo. Un fugace attimo, e lei non c’era più, inghiottita dalla tenebra di ciò che è irrealizzabile, celata per sempre dal ricordo di ciò che sarebbe potuto essere. “Non questa volta” un grido, forte ed impetuoso, gli rimbombò in testa e lo spronò a camminare, e poi a correre, veloce, sempre più veloce, per raggiungerla. L’afferrò per una spalla «Joff!» Naerenys si voltò di scatto, spaventata da quel tocco improvviso, quasi aggressivo «Nys devo parlarti» le disse, e con la mano che ancora artigliava il braccio di lei, la condusse via, lontano, dove nessuno che avesse occhi per vedere potesse guardare.

 

     Rimasero a lì a fissarsi, inorriditi e compiaciuti, sconvolti ed eccitati. «Ti rendi conto di quello che hai fatto?» disse lei, la bocca distorta dal disgusto, gli occhi accesi dalla crudele follia che li aveva spinti a tanto. «Che abbiamo fatto» la corresse lui. «Ma ora è tardi per tonare indietro, possiamo solo andare avanti». «Sei impazzito Joff? Niente potrà mai cambiare, io sposerò Jon» «NO! Non lo farai! Non dopo questo!» urlò, e col braccio indicò in basso, oltre il parapetto. Naerenys si avvicinò, come per accertarsi che non si era trattato solo di una visione. Forse ora cominciava a pensare che quello che avevano fatto non era così divertente. Forse ora sperava di vedere qualcos’altro, qualcosa di diverso dal piccolo corpo di Brandon Stark, che giaceva immobile e freddo ai piedi della torre.

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Capitolo 7
*** No Mercy ***


No Mercy

Naerenys

 

 Erano passati tre giorni da quando Bran Stark era tragicamente precipitato dalla Torre Spezzata, ereditandone nome e destino: anche Bran era spezzato. Ora giaceva inerme nella sua stanza, vegliato amorevolmente dalla madre, assistito attentamente da maestro Luwin; ogni uomo, donna e bambino a Gra nde Inverno, pregava per lui. O almeno quasi.

 

     «Credi che morirà?» le aveva chiesto suo fratello, dopo che Robert aveva annunciato alla famiglia che il piccolo cucciolo Stark continuava a lottare per vivere «Non lo so Joff, ma non possiamo permetterci di scoprirlo». Bran doveva morire, questo lo sapevano entrambi. Ma un conto è gettare un bambino nel vuoto, spinti dal terrore del momento, un altro è andare nella sua stanza e freddamente tagliargli la gola. «Non preoccuparti Joff, ci penserò io» Risolse alla fine. Qualcosa doveva essere fatta, ma era compito di Naerenys. “L’ho spinto giù io” ricordò.

 

     Joff l’aveva condotta lì per dirle qualcosa di importante. Una volta arrivati le aveva lasciato il braccio, la stoffa lacerata, la candida pelle macchiata di rosso, sotto il quale già si intravedeva il viola e il nero dei lividi. Naerenys era stupefatta più che spaventata, Joffrey non si era mai comportato così, men che meno con lei. Alla fine, visto che lui non parlava, era stata lei a rompere il silenzio «Joff che cosa succede?» aveva chiesto, ma lui aveva continuato a restare muto. «Joff?» riprese dopo un po’, avvicinando la mano per scuoterlo. Ma a metà del movimento lui le aveva artigliato il braccio, Naerenys aveva soffocato un gemito di dolore. Adesso cominciava ad essere spaventata.

«Tu non puoi sposare quel bastardo» disse finalmente suo fratello, continuando a trattenerla per il braccio. Questa volta fu Naerenys a non trovare nulla da dire.

«Non puoi, hai capito?» ripeté lui. Naerenys ritrovò la voce e chiese «Perché?».

«Perché tu… tu appartieni già a qualcun altro… tu… tu sei mia» lo disse, e le strattonò ancora di più il braccio, cercando di attirarla a sé.

Naerenys dischiuse le labbra, le parole che aveva in mente incapaci di raggiungere le sue labbra. E allora fu Joffrey a riempire quel vuoto che si era creato. Fu un bacio lungo ed intenso, o forse fu solo un breve istante. Naerenys sapeva che era sbagliato, Naerenys sapeva che cosa quello poteva significare, di nuovo, per il futuro della sua famiglia, Naerenys sapeva tutto questo e cercò di allontanarlo. Ma lui la teneva stretta tra le sue braccia forti, comprimendola. E poi lui li vide. Un’ombra aveva oscurato la luce del sole, doveva essere l’ombra di un gigante pensò per un assurdo momento. Ma poi vide meglio, e capì che chi l’aveva proiettata non era che un bambino, e non un bambino qualsiasi. Anche Joff l’aveva visto, ora aveva la mano sull’elsa della sua spada, pronto a sguainarla. Naerenys poteva già vedere il freddo bagliore dell’acciaio, quando si mosse: in un attimo raggiunse la finestra e con entrambe le mani fece pressione sul petto di Brandon Stark. E Bran volò via, oltre la finestra, oltre il parapetto, oltre l’aria. Bran volò in orizzontale, prima di cominciare la sua tremenda caduta verticale verso il basso. Il vento le scompigliava i capelli mentre osservava l’inevitabile. Si chiese come fosse possibile avere tanto tempo per ammirare una vita che precipitava giù negli Inferi, eppure non poter fare nulla per evitarlo.

 

     “Non l’avrei comunque fatto” si disse “Io volevo che morisse”. Ma invece il piccolo curioso continuava a rimanere testardamente in vita, e questo Naerenys non l’avrebbe permesso.

«Nys» si annunciò Jon entrando «Volevi vedermi mia signora?». Jon e lei avrebbero dovuto sposarsi due giorni prima, ma quello che era successo aveva ovviamente fatto saltare tutti i piani.

I tavoli erano ancora disposti ordinatamente nella Sala Grande, gli addobbi ancora coloravano le grigie mura del castello, mentre nei magazzini i servitori si affrettavano a mettere sotto sale le pietanze che avrebbero dovuto essere cucinate quel giorno.

Naerenys si voltò a guardarlo, il suo sguardo che si perdeva nei suoi misteriosi occhi grigi, e scivolava lungo i cupi e perfetti lineamenti del suo volto.

«Sposiamoci» disse.

Jon rimase fermo a fissarla, incapace di comprendere appieno il significato di quella singola parola. Poi un grande sorriso si allargò sul suo bel volto e la raggiunse, inginocchiandosi davanti a lei, prendendole dolcemente una mano tra le sue «Oh si Naerenys, non c’è cosa che mi renderebbe più felice» disse, cominciando a baciarle teneramente le dita «Ma» disse alla fine «Non ce lo permetteranno mai, non ora…» «Faranno come vorremo noi» lo rassicurò, affondando le mani nei suoi folti capelli scuri. «Nessuno potrà impedircelo» gli sussurrò avvicinando la bocca al suo orecchio; lui allora le accarezzò il viso, fermandosi sulle sue labbra, che lentamente si dischiusero, pronte per assaporare il gusto di quelle di Jon.

    

     Si sposarono nel Parco degli dèi. Niente templi, niente septon, solo un bianco albero e una faccia muta ad osservarli. Robert la scortò fino ai piedi del grande albero-diga, consegnandola al suo sposo. Jon le sorrise, poi cominciò a recitare i giuramenti. Lo stesso fece lei. Poi Jon si avvicinò a lei, sciogliendo il nodo che tratteneva il mantello nero e oro dei Baratheon, lasciandolo scivolare a terra; Robb porse al fratello il mantello con il meta-lupo grigio di casa Stark, che Jon posò delicatamente sulle sue spalle, fermandosi poi a baciarla dolcemente. Naerenys era felice, ma poteva percepire la furia montante di Joffrey. Naerenys era felice  ma sapeva già che cosa sarebbe accaduto dopo; dopo il banchetto, dopo la consumazione, dopo la partenza del re e della sua famiglia. Sarebbe successo quello che lei aveva accuratamente pianificato, e sapeva che non le sarebbe stata concessa alcuna clemenza se avesse fallito.


      Catelyn raggiunse trafelata la stanza di Bran Stark. Lei non l’aveva lasciato neppure durante le nozze, ma ora, ora se n’era andata, allarmata dalle grida disumane che erano riecheggiate nella notte, l’aria ammorbata dall’odore acre del fumo.

Mezzo giro di scale più in basso, una guardia se ne stava accasciata sulla sua lancia, la punta rossa e gocciolante che usciva dalla sua schiena. E Catelyn sapeva che cosa questo significava. Ora la sua mano tremante era appoggiata alla porta della camera, ma lei non aveva la forza per aprirla, troppo spaventata, troppo inorridita da quello che avrebbe potuto trovare al di là. Ma lo fece, una tremolante, leggera, spinta e quella cigolante si aprì lentamente verso l’interno, rivelando il suo sinistro tesoro. Bran era ancora immobile nel suo letto, e per un attimo, un folle attimo Catelyn pensò che fosse tutto normale, che il suo bambino stesse ancora dormendo. Ma poi notò con orrore che le pellicce marroni ora si erano fatte più scure, pregne del sangue che non la smetteva di sgorgare da, da dove? Quindi lo vide, il frastagliato e purpureo squarcio nella gola di suo figlio, del suo piccolo innocente bambino. Catelyn cadde in ginocchio, si accasciò a terra, troppo devastata per urlare, troppo viva per lasciarsi andare, troppo accecata dal dolore lancinante che la stava divorando per accorgersi dell’ombra oscura che la stava osservando.

 

     Naerenys, con la daga gocciolante del sangue di Brandon Stark stretta in pugno, si allontanò dal luogo dell’omicidio, seguita dal meta-lupo senza nome del bambino. Ora era una Stark, e nessuno di quei meta-lupi le avrebbe mai fatto del male.

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Capitolo 8
*** Started ***


Jon

 

La sentì agitarsi nel letto, com’era accaduto molte altre notti. Ma sapeva che non poteva fare niente. Naerenys si svegliava nel buio, sudata e spaventata, ma aveva sempre rifiutato il conforto che Jon avrebbe potuto offrirle. Si alzava, gettando violentemente le coperte da un lato, trincerata nel suo silenzio, con il terrore negli occhi, ma mai, neppure una volta, gli aveva permesso di raggiungerla. Il mattino Naerenys era tornata nella loro camera, vestita e lavata, con un sorriso dolcissimo ad illuminarle il viso, e Jon non se la sentiva proprio di chiedere, di rovinare quella magia che era un nuovo giorno insieme.

 

     Ma quella notte era diverso. Jon non l’avrebbe lasciata sola, non più. Loro erano marito e moglie, avevano giurato di condividere ogni cosa, e quindi lui avrebbe preteso di sapere, e lei non avrebbe potuto più sottrarsi.

Si girò sul fianco e con una mano le accarezzò i morbidi capelli, mentre l’altra si insinuava sotto le coperte, sotto la veste di lei, fino a sfiorare i suoi seni, il suo ventre, le sue cosce.

L’accarezzava, mentre aspettava che quel tenero gesto strappasse Naerenys dai suoi incubi. Aspettò di vedere i suoi bellissimi occhi aprirsi prima di parlarle.

«Che cosa hai sognato?» le chiese alla fine. «Io… Non me lo ricordo» rispose lei, la voce ancora leggermente impastata, gli occhi, ora perfettamente aperti, lucidi dal sonno “O dalle lacrime”. «Dimmelo» le ordinò, forse con troppa durezza, ma era così che si doveva fare con lei.

Jon aveva imparato a conoscerla in quelle settimane, ma soprattutto aveva imparato ad amarla.  Come previsto infatti, Naerenys si voltò verso di lui, le lacrime che le rigavano il bel volto, il petto scosso dai singhiozzi che ora si susseguivano uno dopo l’altro, impedendole di parlare. Jon l’abbracciò, la tenne stretta a sé finché non sentì che si stava calmando. La baciò sulla fronte, sul naso e sulle labbra. Aspettò che fosse lei ad aprire la bocca, a sciogliersi in uno dei quei baci che tra loro erano sempre troppo pochi. In attimo Naerenys fu sopra di lui, le loro bocche ancora incollate, le loro mani sempre intrecciate. Naerenys lo condusse dentro di lei. Una spinta, due, e Naerenys cominciò ad affondare le unghie nella pelle delle sue spalle, della sua schiena, mordendogli il petto per evitare di urlare. Jon la prese da davanti e da dietro, e poi ancora da davanti, lasciando a volte che fosse lei sola a dargli piacere. Si amarono per tutta la notte che parve infinita, ma, all’improvviso, un lama di luce squarciò le tenebre della loro stanza. Ed entrambi furono come folgorati dal ricordo della domanda rimasta in sospeso. Naerenys si alzò, cercando la veste che era finita chissà dove, come una puttana che deve correre via prima che la moglie del suo padrone ritorni. Jon le afferrò il polso, attirandola dolcemente a sé. Lei si lasciò cadere di nuovo sul letto, appoggiando la fronte sulla sua.

«A me puoi dire tutto lo sai» le sussurrò. Passò un istante che parve eterno prima che anche lei dicesse qualcosa «Ho visto tuo fratello morire» rispose infine con tono piatto.

Jon non capiva il perché, ma quella semplice frase gli aveva raggelato il sangue nelle vene. Quello di Naerenys non era un semplice sogno, lo sentiva, anche se non c’era alcuna ragione per crederlo.

«L’ho visto morire Jon» disse di nuovo, questa volta però la voce era incrinata dal dolore «Ero io ad ucciderlo!» aggiunse infine, soffocando le parole contro il suo petto. Jon l’abbracciò, cercando di fermare le lacrime che ora avevano ripreso a scorrere.

E rimasero così, finché Robb non fece irruzione nella loro stanza.

 

 

  

Eddard

 

Bran era morto. Bran, suo figlio, era morto. No, non era morto, era stato assassinato. Ucciso mentre giaceva inerme nel suo letto, dopo essere caduto per la prima volta in tutta la sua breve vita. La sua esistenza era stata stroncata da una mano amica, dalla mano di una zia, dalla mano che lui, Eddard Stark, aveva posto tra quelle del suo figlio illegittimo.

Ora entrambi erano stati confinati nelle loro stanze a Grande Inverno, in attesa del processo, mentre lord Tywin e suo figlio stavano rapidamente radunando le truppe per attaccare il Nord.

Ned non riusciva a credere che si fosse arrivati a questo.

 

     Quando la notizia della morte di Bran e del sospetto coinvolgimento della principessa e del di lei marito aveva raggiunto Approdo del Re, Robert gli aveva semplicemente ordinato di rilasciarla, e di far si che fosse ricondotta ad Approdo del re, dove forse sarebbe stato aperto un processo. Il re sembrava non prendere la cosa troppo sul serio, come se non credesse alle parole di Robb, o peggio, come se la notizia non fosse di troppa importanza.

Era stato questo a provocare l’ira di Ned, che, dopo un’animata discussione con il sovrano, aveva lasciato la Sala del Concilio Ristretto senza la spilla del rango di Primo Cavaliere appuntata al petto.

 

     “Non avrei mai dovuto accettare” si ripeté Ned per la milionesima volta “Non sarei mai dovuto venire in questa maledetta città”.

Ned era venuto ad Approdo del Re con l’intento di far luce sulla morte di Jon Arryn, e per proteggere il suo amico aveva anche dovuto accettare le sue proposte di matrimonio.

“Un re non accetta che gli si dica di no” così aveva spiegato le sue ragioni a Cat, che però non si era lasciata convincere.

“E aveva ragione”. Il prezzo di quella scelta era stato un altro, Ned lo sapeva. Ora suo figlio era morto, e tutta la sua famiglia, no, tutti i Sette Regni erano in pericolo.

 

     Un dolore lancinante gli risalì lungo la gamba, dal suo polpaccio che sembrava essere in fiamme. Lo Sterminatore di re, il gemello della regina, ne era il responsabile.

 

     Quando Ned aveva lasciato la Sala del Concilio Ristretto, aveva dato disposizione ai suoi uomini di cominciare a prepararsi per la partenza. Quello che gli aveva detto Robert lo aveva fatto infuriare, ma ora che si era calmato tutto ciò che voleva era raggiungere Cat: voleva consolarla per la morte del loro bambino, voleva porre fine a quell’assurdità. Bran era morto, e chiunque fosse il suo assassino ormai a Ned non importava più. Non cercava la vendetta, tutto quello che desiderava era che le stanze di Grande Inverno fossero di nuovo riempite dalle risate di nuovi figli.

 

     Ma lord Baelish si era recato da lui, chiedendo udienza: a suo dire aveva informazioni sulla morte di Jon Arryn.

Fino ad allora Ned aveva trovato solo lo scudiero di Jon, che era poi morto nel torneo in suo onore prima ancora che lui potesse parlarci, uno dei bastardi di Robert e un vecchio, noiosissimo libro. Non era stato in grado di proteggere suo figlio per trovare una risposta a quella domanda; non poteva permettere che il suo viaggio si rivelasse tanto inutile.

 

     L’aveva seguito, dunque, finché non avevano raggiunto un bordello, dove una giovane meretrice affermava che la creaturina attaccata al suo seno era la figlia di Robert. A colpirlo, ricordava, erano stati i capelli: erano folti e neri, nonostante appartenessero a una neonata, in stridente contrasto con i soffici boccoli rossi della madre.

 

     Stava ancora ragionando su ciò che aveva appena visto, quando ser Jaime lo aveva circondato con i suoi armati Lannister, intimandogli di ordinare a lady Stark di liberare la nipote. Ned si era giurato di acconsentire a una simile richiesta, qualora gli fosse stata ripresentata, ma in quel momento tutto l’odio, tutta la rabbia, che aveva provato nelle ultime ore lo costrinsero a sguainare la spada.

Il resto era stato sangue e dolore.

 

     “Avrei dovuto accettare” si disse “Ho perso un figlio, ma ora rischio di perdere anche quelli che sono ancora in vita”. Robert era andato a caccia, promettendogli che avrebbero ridiscusso la questione al suo ritorno. Nel frattempo Ned avrebbe dovuto accertarsi che Naerenys fosse trattata con tutti i riguardi concessi a una donna del suo rango. Una decisione che aveva lasciato Ned quasi soddisfatto, ma poi aveva visto gli occhi della regina.

Cersei era una madre, ed era una Lannister. Né lui né le sue figlie sarebbero stati al sicuro finché Naerenys continuava ad essere ostaggio a Grande Inverno.

 

     “Dèi datemi la forza di lottare per ciò che è giusto” pregava in silenzio, mentre gli occhi purpurei  dei suoi dèi lo fissavano. “Il porpora è il colore dei Lannister” pensò “Che anche gli dèi si stiano prendendo gioco di me?”

Un’altra immagine lo colpì, terrificante eppure bellissima. Osservò le lacrime di resina che sembravano più rosse, come il sangue di Bran, il legno più pallido, come il cadavere del suo bambino. Sorrise. Un sorriso amaro. “Ora Bran è con loro, Bran è qui, e vedrà con questi occhi la nostra vendetta”.

Promesse fatte ai suoi dèi, affidate al vento del Nord, che non poteva raggiungere il torrido Sud, ma per un momento Ned immaginò di essere inginocchiato davanti al suo albero del cuore, e il sussurro delle foglie rosse gli parve la dolce voce di Cat.

 

     «Volevi vedermi Stark?» si annunciò la regina.

Ned le aveva fatto recapitare un messaggio: “Vieni nel Parco degli dèi al tramonto” era quello che diceva, “Se vuoi che i tuoi figli vivano” era quello che le parole non dicevano.   

 

  

 

Robb

 

Lo tumularono nel sepolcro accanto a quello dello zio omonimo. Tutti gli abitanti di Grande Inverno e dei villaggi vicini erano venuti lì per porgere l’ultimo saluto al piccolo Stark. Robb li aveva accolti, ringraziandoli per il loro affetto, nel nome della lady sua madre e del piccolo Rickon. Nessuno dei due infatti si era presentato alla cerimonia.

Lady Catelyn, distrutta dal dolore, dormiva nelle sue stanze, avvinta in un sonno senza sogni. Rickon invece si era trincerato nel silenzio; inavvicinabile per chiunque, evitava la luce e le persone come un selvaggio animale notturno.

 

     E Jon? Robb non credeva possibile che il suo fratellastro, che aveva sempre voluto bene a Bran e a tutti loro come se fossero veri fratelli di sangue puro, potesse essersi reso complice di un simile delitto, nemmeno per la sua sposa.

Eppure Jon aveva continuato a difenderla, e questo per sua madre era stato sufficiente. Aveva invocato l’ascia del boia, benché a Grande Inverno non ci fosse mai stato un boia.

Il compromesso era stato il confino in comune nelle loro stanze.

 

     Robb però continuava a pensare che ci fosse qualcosa che non andava in quella storia. È vero, la daga insanguinata era stata trovata nei locali di Jon e Naerenys, nascosta sotto un’asse del pavimento, e una delle guardie giurava di aver visto la principessa lasciare le sue stanze durante la notte, ma questo non era abbastanza. Non aveva alcun senso. Perché uccidere un bambino innocente, già in bilico tra la vita e la morte? Una distorta idea di misericordia? E Jon sarebbe stato tanto folle, tanto crudele, da proteggerla, se non fosse assolutamente convinto della sua innocenza?

Persino Theon, che lo aveva sempre odiato, trovava il suo comportamento sospetto.

 

     Ma ora era tempo di prendere una decisione. Lord Tywin stava radunando il suo esercito e presto avrebbe marciato verso Nord.

 

     “Nessun esercito ha mai superato il Moat Cailin attaccando da Sud” ricordò. Ma era il caso di correre il rischio? “Dobbiamo essere sicuri della loro colpevolezza” decise. Ma come fare? Robb era solo un ragazzo, suo padre era lontano centinaia di leghe e sua madre, beh, sua madre non poteva aiutarlo; lady Catelyn non era né lucida né obbiettiva…

Qualcuno bussò alla porta.

Robb alzò lo sguardo e vide la risposta alla sua domanda. Maestro Luwin, il volto scavato dalle sofferenze delle ultime ore, fece il suo ingresso, reggendo a due mani un pezzo di pergamena, come se le parole che vi erano impresse lo rendessero infinitamente pesante.

“Qualcosa non va” pensò per la seconda volta in pochi giorni.

«Robb, mio signore, ci sono gravi sviluppi».

 

 ***

 Nel buio della sua stanza Naerenys era sveglia. Nel giro di pochi giorni la sua vita era totalmente cambiata. E la cosa più sconvolgente era che quello che lei aveva visto solo in sogno improvvisamente si era concretamente realizzato. Non riusciva a capacitarsi di come questo fosse stato possibile.

Jon accanto a lei, dormiva. Naerenys poteva sentire il suo respiro regolare, che in qualche modo, le dava conforto. Era contenta che almeno lui fosse riuscito a trovare un po’ di riposo, lui, che contro ogni logica aveva scelto di crederle, di difenderla, proteggendola come aveva giurato al cospetto dei suoi dèi.

Si infilò meglio sotto le coperte, appoggiando la testa sul petto di lui, lasciandosi cullare dal ritmico alzarsi e abbassarsi del suo addome. Naerenys non avrebbe dormito, neanche quella notte, perché sapeva che se avesse ceduto, l’incubo sarebbe ricominciato.

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Capitolo 9
*** What is the Truth ***


What is the Truth

Eddard

 

 “Riflettici”. Così lord Varys si era congedato qualche istante prima, lasciandolo solo, immerso nella tenebra della sua cella.

Ma lord Eddard non aveva bisogno di riflettere, la sua decisione l’aveva presa molto tempo prima.

 

     Qualche notte addietro aveva affrontato la regina nel parco degli dèi. Le aveva offerto una possibilità di scelta, ma Cersei si era limitata a ridergli in faccia, vomitandogli addosso il suo disprezzo e giurando che lui, Ned Stark, non avrebbe mai potuto vincerla.

“E gli dèi sanno se non è stato così”.

 

     Quando il re era tornato dalla caccia, Ned aveva creduto di non aver mai udito notizia migliore. Il re era tornato ed era vivo.

Dalla conversazione con Cersei, Ned non aveva quasi chiuso occhio, temendo che a fare ritorno dalla caccia sarebbe stato solo il cadavere di Robert. Invece non era stato così.

Ned aveva subito chiesto di essere ricevuto dal sovrano; doveva dirgli la verità, per quanto bruciante essa potesse essere.

Lungo il tragitto aveva pregato gli dèi di concedere un po’ di saggezza a Cersei. Una volta che lui avesse varcato quella soglia, alla regina non sarebbe rimasto troppo tempo per lasciare Approdo del Re insieme ai suoi figli.

 

     Ma quando era entrato, l’atmosfera che aveva percepito all’interno gli aveva fatto salire un nodo alla gola.

Re Robert era seduto al suo tavolo, attorno al quale erano riuniti tutti i membri del Concilio Ristretto, regina inclusa.

«Che succede?» aveva chiesto. La regina aveva sogghignato compiaciuta, mentre il re e il resto dei presenti era rimasto in tetro silenzio. Alla fine lord Baelish aveva fatto per prendere la parola, ma il sovrano l’aveva zittito con un brusco cenno della mano. Lord Varys era stato il più rapido a cogliere: con un soffice fruscio di pantofole si era dileguato, subito seguito da lord Baelish e, più lentamente, dal Gran Maestro Pycelle. L’unica a rimanere era stata Cersei. Ned l’aveva ignorata, e aveva ripresentato la domanda. Quella volta era stata la regina a rispondere «E lo chiedi pure, Stark?» aveva strillato «Varys ci ha detto tutto del tuo infame tradimento! Pagherai per quello che tu e» «Taci femmina!» aveva tuonato Robert. La regina gli aveva rivolto uno sguardo glaciale, ma, memore dell’ultimo regale schiaffo ricevuto dal suo nobile marito, non aveva replicato. Aveva quindi raccolto le sue gonne e aveva lasciato la stanza, a testa alta, con l’orgoglio ferito.

«Che cos’è questa storia Ned?» finalmente il re, il suo amico di sempre, suo fratello, gli aveva rivolto la parola «Perché dici che i miei amati figli non sono il frutto dei miei lombi?».

Ned non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. A quale genere di perverso gioco stava giocando Cersei? Non c’era modo di scoprirlo, perciò tutto quello aveva potuto dire era stata la verità. «Perché è così, Robert. Nessuno dei figli di Cersei è tuo». Il re lo aveva guardato, come se volesse chiedergli aiuto, come se volesse fargli capire che anche lui voleva disperatamente credere a quelle parole. Tuttavia tutto quello che aveva risposto era stato «Credi che Cersei abbia avuto fornicato con quattro uomini diversi? Che abbia messo al mondo i miei eredi con quattro bifolchi qualunque?» Il tono era sprezzante, ma non come avrebbe dovuto essere: un’altra domanda era celata tra quelle parole, un’altra richiesta era soffocata dallo scetticismo.

Era un sospetto il suo? O quello che Robert cercava era una conferma?

«Veramente sono più che certo che li abbia generati con un solo uomo» aveva risposto Ned freddamente.

«Ah sì? E con chi? Lo Sterminatore di re mi dirai!». Il re aveva battuto il pugno sul tavolo, facendo traballare le coppe e gli altri oggetti che vi erano appoggiati. Rosso in faccia Robert non aveva parlato.

Ned avrebbe dovuto dire qualcosa, lo sapeva, ma era troppo difficile continuare, vedere un uomo grande e forte come lui venire dilaniato dal dolore del tradimento.

“Ma di chi?” si era chiesto “A chi sceglierà di credere? All’amico che mai gli ha mentito o alla moglie che non gli ha mai detto la verità?”. Per qualche ignaro motivo, Ned sentiva di non poter essere certo della risposta.

Dopo un lungo silenzio, Robert aveva detto «Perché?». Una domanda così semplice, eppure così complicata. Che risposta si aspettava? Che cosa Ned avrebbe potuto dire per addolcire un boccone tanto amaro?

«Perché mi fai questo Ned?» aveva ripreso il re «Proprio tu, che ti ho amato come un fratello, perché? Non ti basta che il mio matrimonio sia una mera facciata, non ti basta che i miei figli mi detestino, non ti basta che ogni notte sogno di salvarla, e ad ogni alba mi ritrovi a stringere in mano un pugno di polvere? Non ti basta questo?». Robert si era alzato, scaraventando il tavolo a terra, coppe e caraffe che si schiantavano sul pavimento, annaffiandolo di vino. Fremeva il re, di rabbia, di odio, di delusione. Era quello il sentimento che più l’aveva colpito, la delusione, così insolita da vedere in un uomo come lui. Ned non aveva risposto neanche a quello. Forse era giusto così, forse la verità non sempre era meglio di una dolce menzogna, forse… Ma quella non era una menzogna dolce, non lo era mai stata. Robert non amava sua moglie, non amava i suoi figli, e ora uno di essi era accusato di un crimine orrendo. Perché avrebbe dovuto battersi per una ragazza che odiava e che non era neppure sangue del suo sangue?

«È la verità Robert. Loro non sono figli tuoi, e tu questo lo sai, lo hai sempre saputo, non è così?» il sovrano era rimasto in silenzio. «Robert» aveva ripreso Ned dopo un po’, cercando una breccia nella dura scorza del suo amico «Pensaci, se Naerenys fosse tua figlia avrebbe mai commesso un atto simile? Se nel profondo tu sentissi davvero che è tua figlia, non saresti andato tu stesso a riprenderla, con tutto il tuo esercito? Se loro…».

«Ora basta Ned!» aveva tuonato il re, la furia negli occhi, la saliva che gli spillava dalla bocca mentre urlava «Ti avevo avvertito, maledetto te! Avevano ragione loro! Cersei, Varys, tutti quanti, dicevano il vero! È questa la tua vendetta per il tuo Bran, non è così?! Vuoi farmi credere che i figli che mia moglie mi ha dato non sono miei, vuoi che impazzisca dalla furia e dall’odio, che faccia come feci con Rhaegar, ma che questa volta non mi riprenda! Vuoi quella maledetta sedia di ferro vero? L’abbiamo conquistata insieme, noi due, ora credi che sia arrivato il momento che accolga anche le tue, di chiappe?!». Per un attimo Ned aveva dimenticato la stampella e il dolore lancinante alla gamba. Aveva dimenticato Bran e aveva dimenticato Cat. In quel momento c’erano stati soltanto Robert e la sua cieca rabbia. Per un istante Ned aveva creduto che l’amico di una vita l’avrebbe ucciso lì, all’istante. Invece aveva chiamato a gran voce le guardie, perché trascinassero il traditore nelle celle oscure.

 

     Ed ora era lì che si trovava. Solo, nell’umida cella nera, lord Eddard Stark aspettava di sapere quale sarebbe stato il suo destino.

Varys gliel’aveva anticipato. “Morirai, e con te moriranno le tue figlie, e anche tuo figlio, sceso in guerra senza esperienza contro il grande leone. Gli Stark verranno annientati, e poi sarà la volta di tutti gli altri. Chiedi perdono al tuo re, invoca la sua clemenza e ordina a tuo figlio di deporre le armi, e voi tutti vivrete”.

Una scelta dannatamente facile per qualsiasi uomo, ma non per lui.

Avrebbe accettato di riconoscere sé stesso come traditore, consentendo alle persone che amava di continuare a vivere? O non avrebbe tradito il suo onore, sacrificandosi per ciò che riteneva giusto, trascinando con sé il sangue del suo sangue?

Era una scelta dannatamente facile, ma non per Eddard Stark di Grande Inverno.

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Capitolo 10
*** The Lord and the Octopus ***


The Lord and the Octopus

Robb

 

 Erano rimasti chiusi in quella stanza per l’intera notte, ma quando l’alba li colse non avevano risolto niente.

Robb si girò a guardare Theon, gli occhi chiusi e la testa appoggiata al suo braccio. Gli scostò dolcemente alcuni riccioli dal volto, rivelando i lineamenti perfetti che lui tanto amava.

 

     Quando maestro Luwin si era presentato, tetro in viso, stringendo la lettera da Approdo del Re, Robb aveva temuto che il suo peggior incubo fosse divenuto realtà: suo padre e le sue sorelle si trovano nella capitale e lui aveva fatto imprigionare la figlia del re, pertanto ci sarebbe stato da aspettarsi una mossa simile del re, o meglio, della regina. Invece si era trattato di qualcosa di molto più grave: il lord suo padre era stato arrestato per tradimento, e da quello che aveva letto, l’accusa a Naerenys non era il motivo.

Aveva perciò fatto chiamare Theon, e loro tre insieme si erano messi a discutere su quale fosse la risposta migliore da dare. Theon insisteva sulla necessità di rispondere alla minaccia armata dei Lannister con una dichiarazione di guerra, il maestro propendeva invece per una risoluzione più pacifica, che consisteva in uno scambio di ostaggi e in promesse e giuramenti di fedeltà.

Alla fine Robb aveva deciso di rimandare la decisione al mattino dopo, così Luwin era uscito dalla stanza, lasciandolo solo con Theon. Lui ce l’aveva messa tutta per distrarlo dalle preoccupazioni degli ultimi giorni, ma Robb era rimasto con la mente dolorosamente legata alla realtà.

 

     La luce del giorno investì Theon, che lentamente cominciava a svegliarsi. Robb attese pazientemente il risveglio dell’amico, eccitato, indugiava sul suo viso, gli occhi, la bocca, le guance, ancora rilassati e avvolti nella dolcezza del sonno. «Robb» mormorò infine Theon, la voce ancora impastata dal sonno. Sollevò una mano, accarezzando i contorni del suo viso, come per accertarsi  che lui fosse reale, lì reale e presente. «Ti stavo sognando lo sai?» disse «Eravamo a letto e tu avevi una corona in testa. Io ti chiamavo “maestà” e tu mi dicevi che almeno lì non volevi essere che “mio”» sorrise, con il suo solito sorriso che voleva dire cento cose. «Non è vero» rispose Robb «Te lo sei inventato ora» «Sì» ammise  «Ma se avessi sognato qualcosa, avrei sognato questo».

 

     Era stato uno degli argomenti di cui avevano parlato durante la notte. Mentre Robb si lasciava spogliare dalle sue mani esperte, Theon gli aveva confidato il suo desiderio: sconfiggere i Lannister ed entrare trionfante ad Approdo del Re, scacciare via quel grassone del re e strappagli la corona dalla sua grossa testa. Per un momento Robb si era immaginato come sarebbe potuto essere sentirsi chiamare “Re”, come si sarebbe sentito una volta assiso sul Trono, ci aveva provato, ma poi Theon aveva slacciato anche l’ultima cordicella delle brache, lasciandogliele scivolare fino a terra. Poi aveva preso in bocca la sua virilità, già eretta, e allora Robb non aveva sentito nient’altro, non aveva immaginato nient’altro, non aveva desiderato nient’altro.

 

     «Lo sai che saresti magnifico come re?» riprese Theon «Non c’è nessuno più capace te e poi tu avresti me».

«Non potrei mai Theon» Robb lo guardò, perdendosi nei suoi grandi occhi marroni, chiedendosi come fosse possibile che a volte fosse Theon a sembrare il più ingenuo «Mio padre è già accusato di tradimento e mia sorella è promessa al principe ereditario. E Joffrey ha un fratello, due sorelle e due zii, con quale diritto pretenderei di rivendicare il trono?».

«Dipende, di che trono stiamo parlando?» Robb lo fissò senza capire, osservando come quel sorriso che voleva dire sempre troppe cose, lentamente andava ad allargarsi sul suo bel viso «Di quello dei draghi o di quello dei tuoi avi?». Ora il sorriso di Theon era completo, i denti bianchi che scintillavano tra le sue morbide labbra, gli occhi scuri illuminati da una strana luce, traboccavano ambizione.

E Robb finalmente comprese che cosa il suo amico intendeva, e si sentì irrimediabilmente stupido e imbarazzato per non essere stato capace di cogliere prima. Era sempre così; Theon era più grande, era più esperto, più furbo, Robb invece era ancora un ragazzino che puzzava d’estate, come diceva sempre la vecchia Nan, la balia di tutti i figli di Grande Inverno da quelli che sembravano essere secoli. Robb era giovane, Robb non conosceva ancora migliaia di aspetti del mondo, ma era Robb il futuro lord, e ora la persona che più contava per lui voleva che fosse re.

«Sarebbe… grandioso» disse alla fine. Theon aveva ragione, Robb era nato per essere re, lo aveva sempre saputo.

«Al re allora» esclamò Theon, innalzando un’immaginaria coppa, poi lo spinse con la schiena contro la fredda pietra del pavimento, liberando entrambi dalla coperta di lana. Gli salì sopra, afferrando la sua virilità. In un attimo, con movimenti esperti, quella fu eretta. Robb affondò le mani tra i suoi capelli, avvicinando il suo volto al proprio. Aprì la bocca, accogliendo la sua lingua, attorcigliandola con la propria, gustando il sapore della sua saliva, desiderando nient’atro che la bellezza di Theon e quel momento durassero in eterno. Si baciarono e si baciarono finché esausti e senza fiato si concessero un momento di pausa. Theon lo baciò in bocca, sul collo, sul petto, gli morse un orecchio, un capezzolo; Robb restava fermo, sempre troppo agitato per rispondere al suo amore, totalmente circondato dalle sue attenzioni, Robb restava fermo, estasiato dai suoi gesti. Poi Theon lo fece girare e fece per farlo piegare in avanti, ma questa volta Robb lo fermò. Voleva che Robb diventasse re? Allora doveva lasciare che fosse lui, per una volta, a dettare le regole del gioco. Theon lo guardò compiaciuto, gli occhi che mandavano lampi di eccitazione; appoggiò la fronte al muro e lo aspettò. E Robb venne.

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Capitolo 11
*** The Trial ***


The Trial

Naerenys

 

 Era appena giunta l’alba quando vennero a prenderli. Il sole era nascosto da pesanti nuvole bianche, che rovesciavano il loro candido contenuto sulla terra del Nord. Naerenys spalancò le imposte e assaporò l’aria fredda della mattino. Non sapeva quando ne avrebbe riavuta la possibilità. Guardò in basso, dove la luce del giorno non era ancora arrivata. Decine e decine di uomini affollavano il cortile della fortezza di Grande Inverno, reggendo questo o quello stendardo, esibendo decine di emblemi che nell’aria grigia e immota, se ne stavano afflosciati sulle loro aste, apparendo niente di più che stracci cinerei, tutti uguali.

 

     Avevano cominciato ad arrivare ormai da giorni; un flusso continuo di cavalieri, lancieri, armigeri, carichi di armi e provviste, ma, soprattutto, di vendetta.

Robb aveva chiamato a raccolta i vessilli di guerra, e la sua richiesta era stata prontamente ascoltata da tutti i lord del Nord. Volevano marciare a Sud, Naerenys lo sapeva, per liberare Ned Stark e le sue figlie, ma nell’attesa che tutti fossero pronti a partire, un processo di certo non avrebbe guastato.

 

     “Giudicata da un concilio di ignoranti barbari del Nord, che vivono della luce riflessa degli Stark e nemmeno se ne accorgono. Come andrà mai a finire?”. A Naerenys veniva quasi da ridere.

Il rumore dell’incessante battere alla porta la distrasse dai suoi pensieri. Quattro grossi armigeri barbuti entrarono nella stanza, due di loro reggevano una torcia ciascuno, gli altri invece impugnavano due grosse catene “Le nostre manette”.

«Mia signora» una delle guardie le fece tintinnare le catene davanti alla faccia, in un gesto si scherno. Naerenys tuttavia non aveva intenzione di dare soddisfazione a un essere del genere. No, le parole le sarebbero servite tra poco, doveva risparmiare il suo veleno e il suo fiato per qualcun altro.

Si fece agganciare le manette ai polsi. Erano fredde e pesanti, con i bordi frastagliati e arrugginiti che al primo movimento minacciavano di lasciare tracce purpuree sulla sua candida pelle.

Anche Jon seguì il suo esempio, ingoiando bile, ignorando le manifeste ingiurie che gli venivano rivolte.

«Vogliamo andare?» Sulla soglia era comparso Theon Greyjoy, accompagnato dal suo eterno sorrisetto. La guardia fece come per spingerla, ma Theon la bloccò con un gesto «Ruff ci penso io alla nostra principessa» Poi fece un passo verso di lei, e la prese sottobraccio «Permetti, mia signora?» Naerenys si limitò a guardarlo, cominciando a camminare. Theon lo prese come un sì, e procedette al suo fianco. Davanti a loro uno degli uomini con la torcia li precedeva, illuminando i gradini ancora immersi nel buio della notte. Dietro, a una certa distanza, veniva Jon, stretto tra i due carcerieri; a chiudere la fila c’era il secondo uomo con la torcia.

«Ci saranno lord Bolton, lord Umber e lord Karstark, oltre a Robb, a giudicarvi. E a parte Bolton che pare avere una predilezione per i bastardi, gli altri hanno già deciso il destino del tuo consorte. Fossi in te, darei la colpa a lui. Nessuno a parte lady Catelyn pensa davvero che una dolce creatura come te possa fare del male a un bambino, quanto a…».

«Ti ringrazio per i tuoi consigli, mio signore, ma sia Jon che io siamo innocenti, e tanto dichiarerò alla corte. Quanto a quello che crede lady Stark, beh, credo che sia la meno ingenua tra voi».

«Forse è così, principessa» sorrise «Ma Snow morirà, questo è sicuro. Canta la canzone che tutti vogliono sentire, versa qualche lacrima, e ti lasceranno andare. Potrei offrirmi io di riaccompagnarti ad Approdo del re, negoziare per conto di Robb la scarcerazione di Ned Stark. Chissà magari tuo padre mi sarà tanto riconoscente da offrirmi la tua mano. Non credere, non sono affatto schizzinoso, raccoglierò gli amabili avanzi del bastardo e ti farò dimenticare il terribile incubo che è stato il vostro breve matrimonio». Ora gli occhi di Theon brillavano di una luce sinistra, il sogghigno, vagamente malefico, che metteva in mostra la sua perfetta dentatura. Era affascinante, questo Naerenys non poteva negarlo, ma era anche irrimediabilmente troppo sicuro di sé, una caratteristica che trovava eccitante, ma che lo avrebbe presto reso enormemente prevedibile. «Tu corri troppo, Greyjoy. E pretendi troppo. Ho un marito, e intendo tenermelo. Ma se quello che dici è vero, allora stai pur certo che tutto quello che otterrai da mio padre sarà il titolo di cavaliere e la licenza di tornare a casa, la tua vera casa, e nulla di più. A meno che non sia io a chiederlo». Ora era Naerenys a sorridere. Non si fidava di Theon, ma la sua ambizione costituiva un buon perno su cui fare pressione, e lei sapeva che doveva tenere tutte le porte aperte nel caso il processo avesse preso un piega amara.

Uscirono nella fredda mattina del Nord, i fiocchi di neve che pigramente andavano a posarsi sui suoi capelli e sul mantello. Voleva chiedere il perché di quell’orario, così strano per dare l’avvio ad un processo, ma si rispose che doveva trattarsi di una tradizione del Nord, “O forse pensano che se siamo mezzo addormentati confesseremo più velocemente”; dopotutto le popolazioni del più settentrionale dei Sette Regni erano note per l’osservanza di alcuni particolari rituali occulti, recessi di leggi mai realmente dimenticate.

In quel momento si accorse che anche Jon era uscito dalla torre. La barba di tre giorni, già quasi completamente bianca, e l’obbligata andatura un po’ strascicata, lo facevano apparire un vecchio. “Il mio prode cavaliere” si disse. Lo amava, se ne era accorta da molto tempo ormai, e sapeva che anche lui provava lo stesso; sapeva che lui avrebbe sfidato anche mille uomini per salvarla, ma questa era una battaglia che Jon non poteva combattere. Spettava a Naerenys proteggerlo questa volta.

 

     Camminarono per quella che parve un’eternità. Cavalieri e scudieri che si facevano da parte per farli passare, alcuni la indicavano, confabulando con il vicino, ridacchiando a volte, altri le rivolgevano sguardi di ogni tipo, derisione, odio, disprezzo, altri ancora si limitavano a fissarla in silenzio, con un’espressione indecifrabile dipinta sul volto, altri, invece, si voltavano dall’altra parte, come se solo guardarla bastasse a macchiarsi della sua stessa, infame, colpa.

Finalmente giunsero dalla parte opposta del cortile, davanti alle pesanti porte della Sala Grande. Spalancate, come le fauci ruggenti di un drago, mostravano ciò che c’era al di là, emanando un calore rosso e ingannevolmente piacevole, foriero dell’opprimente caldana che li avrebbe inglobati una volta che le porte si fossero richiuse alle loro spalle.

Altri occhi, altri sguardi, come quelli che li avevano osservati danzare quella notte di tanto tempo prima, che li avevo benedetti con le loro grida di giubilo, ora li scrutavano mentre avanzavano in profondità nella sala, maledicendoli con i loro silenzi. Theon la condusse fin davanti al banco della giuria, un altro sorriso, un inchino, e scomparve, inghiottito dalla moltitudine di facce lugubri che l’assediavano da ogni parte. Non si fidava di Theon Greyjoy, ma avrebbe dato qualsiasi cosa perché lui rimanesse lì con lei, unico volto non nemico nella palude di coloro che la odiavano. Ma Naerenys era una leonessa, considerata una cerva e vestita da lupa, che di notte sognava i draghi. Quattro fiere e feroci bestie che non avevano bisogno di una piovra, che non potevano avere paura di un gigante, un uomo e un sole freddo e bianco. Percorse gli ultimi metri a testa alta, raggiungendo Jon al banco degli imputati. Quando gli fu affianco, lui la prese dolcemente per mano. «Le tue mani…» bisbigliò Jon, con la voce leggermente venata dalla sofferenza. Guardò in basso, e solo allora provò un forte fitta a entrambi i polsi. Le catene avevano scavato profondi solchi nella carne morbida delle sua braccia. Ora il sangue ruscellava tra le sue dita, mischiandosi con i fiocchi di neve sciolti, gocciolando a terra, riprendendo improvvisamente il flusso che si era arrestato poco prima, nel gelo della notte. Il dolore arrivò subito dopo. Un male sordo, pulsante. Naerenys lo ignorò, non avrebbe ceduto ai loro miseri tentativi di farla crollare. Sorrise al suo sposo, rassicurandolo. Forse Jon stava per dire qualcosa, ma la voce possente di uno dei giurati riempì la sala. Era un uomo gigantesco, barbuto e imponente. Grande Jon Umber, nessuno dubbio. Accanto a lui sedeva un uomo alto e snello, leggermente calvo, con sottili labbra pallide e occhi che avrebbero fatto gelare il sangue nelle vene persino a Balerion il Terrore Nero. Alla sua destra c’era Robb Stark, e accanto a lui un uomo alto e robusto, inquietantemente simile a suo nonno, benché avesse una massa di lunghi capelli grigio bianchi che andavano a confondersi con la barba, anch’essa lunga e del medesimo colore. Rickard Karstark, intuì Naerenys. Quindi quello alla sinistra di Robb doveva essere il lord sanguisuga, come veniva chiamato Roose Bolton.

Proprio in quel momento Grande Jon aveva finito di ruggire, e fu Robb a prendere la parola. «Principessa Naerenys Baratheon, sei accusata di aver assassinato mio fratello, Brandon Stark. Come ti proclami?» “O dèi, aiutatemi” «Innocente, mio signore». Un brusio generale percorse la Sala, ma durò meno di un battito del cuore. Robb riprese a parlare, rivolgendo la stessa domanda a Jon, che replicò con la medesima risposta che aveva dato Naerenys.

«Molto bene» sentenziò, quindi girando la testa, disse «Ser Rodrik, vorresti ricordare a tutti noi quali prove sono state trovate a sostegno dell’accusa?». L’anziano cavaliere, più famoso per i suo baffi che per le sue gesta, fece un passo avanti. Tra le mani reggeva un panno di canapa. Appoggiò il fagotto sul tavolo predisposto, poi lo srotolò, rivelandone il contenuto: una daga, di acciaio di Valyria, con l’impugnatura di osso di drago. La lama era ancora incrostata di sangue, del sangue di Brandon Stark.

Ser Rodrik sollevo la daga, esponendola alla vista dei lord giurati e di tutti i presenti nella Sala. Quindi declamò «Questa daga è stata trovata nelle stanze di Jon Stark e di sua moglie». Questa volta il mormorio fu più acceso e durò più a lungo. «Abbiamo ragione di credere che sia questa l’arma che ha ucciso il piccolo figlio di lord Eddard. E abbiamo ragione di credere che siano stati loro» disse, indicandoli «Anche se, personalmente, non ne comprendo il motivo» concluse, abbassando lo sguardo.

“Molto teatrale, degno della corte del Sud” pensò Naerenys.

Poi fu la volta di una guardia che affermò, giurando sugli dèi, sia antichi che nuovi, di aver visto la principessa lasciare le proprie stanze per dirigersi nella torre dove era situata la camera del piccolo Bran. Ovviamente lui aveva pensato che vi si stesse recando unicamente per unire le proprie preghiere a quelle di lady Catelyn.

Un altro soldato disse invece che quando era scoppiato l’incendio lui stesso si era recato alla torre, per avvertire lady Catelyn, che però si era già allontanata, e giurò di aver visto qualcuno nascosto dietro alla porta. Anche lui naturalmente non aveva dato peso alla cosa, troppo preoccupato per l’incendio da sospettare che un assassino fosse in agguato.

Fu poi ser Rodrik ad intervenire nuovamente, ricordando alcune particolari frasi della principessa, che sembrava cercare in tutti i modi di restare da sola con Bran. «Si offriva spesso di assolvere lei stessa ai bisogni di Bran, dandogli da bere, o raccontandogli delle storie, permettendo cosi alla lady di riposare».

Era vero, l’aveva fatto, ma solo perché così si era raccomandata sua madre, ma grazie agli dèi lady Catelyn non ne aveva mai voluto sapere di lasciare il figlio.

“Le prove non sono schiaccianti” si disse “Anzi non significano nulla”. A parte le testimonianze delle guardie, tutto il resto si era rivelato null’altro che la pura verità, manipolata e reinterpretata, ma l’onore, non poteva spingere gli Stark oltre. “Ma lady Catelyn non è una Stark, non più di  quanto lo sia io”.

E lady Catelyn era soprattutto una madre.

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Capitolo 12
*** The Sentence Can Wait ***


The Sentence can Wait

Jon

 

 
Era stato un delirio. Il processo, le testimonianze, tutto assurdo.

Jon vi aveva assistito quasi passivamente, lasciando che per tutto il giorno guardie, stallieri, cavalieri, ogni fottutissimo abitante di Grande Inverno dichiarasse quello che aveva visto, sentito o immaginato.

Per tutto il tempo era stato certo che lady Stark non avesse in mano nulla di concreto contro di loro, nulla che potesse incriminarli, nulla che potesse danneggiarli.

Ma poco prima del tramonto qualcosa era cambiato.

 

     Uno dei cavalieri Lannister, lasciato al servizio di Naerenys, aveva affermato di averlo visto uscire quella notte. E anche la principessa, che gli aveva ordinato di seguirla. Arrivati alla torre, aveva continuato il cavaliere, aveva visto la guardia uccisa, ma non aveva fatto domande. Una volta giunti davanti alla stanza di Bran, Naerenys gli aveva detto montare la guardia, e di non lasciar entrare nessuno senza il suo permesso. Poi aveva aperto la porta ed era entrata nella camera. Poco dopo, ne era riuscita. Non aveva visto quello che c’era all’interno. Poi avevano fatto il percorso a ritroso e ritornati negli appartamenti della principessa, lei gli aveva fatto giurare di dire a chiunque l’avesse chiesto, che né lei né il marito avevano mai lasciato le loro stanze.

Nei giorni successivi il rimorso era cresciuto in lui, ma aveva fatto un giuramento alla sua signora. Ma ora memore del più alto voto fatto agli dèi, aveva deciso di confessare ciò che aveva visto, e che, suo malgrado, aveva contribuito a realizzare.

 

     “Assurdo” pensò. Che lady Catelyn lo odiasse, questo lo sapeva, ma che si fosse spinta a corrompere un cavaliere, infangando il proprio onore e quello della propria Casa, gli sembrava troppo. Ma chiunque fosse il responsabile, una sola cosa era certa: lui e Naerenys erano condannati. Robb si era riservato il diritto di emettere la sentenza il mattino successivo, ma non c’erano dubbi sul fatto che all’alba loro sarebbero stati due morti che camminano. “C’è sempre il processo per duello” rifletté. Era un ottimo spadaccino, in grado di competere contro qualunque avversario abile presente nel castello. E come se ciò non fosse sufficiente, Naerenys avrebbe anche potuto invocare il diritto di scegliere un proprio campione, magari suo zio, lo Sterminatore di re, contro il quale nessuno avrebbe avuto la men che minima possibilità. Avevano ancora molte alternative, la morte non era poi così imminente.

Si voltò verso Naerenys, che sedeva silenziosa accanto alla finestra. Era tesa e, forse, anche spaventata. Jon si avvicinò. Voleva tranquillizzarla, magari condividendo con lei le sue ultime riflessioni. Ma non ne ebbe il tempo. Un rumore di passi li fece voltare entrambi verso la porta.

“È ancora notte fonda” pensò “Non possono già essere qui”. Ma poi ricordò che la sentenza non era ancora stata emessa. “Stupido, stupido ragazzino codardo” si disse, cercando di fermare il suo cuore che aveva cominciato a battere impazzito.

La porta si aprì di schianto, e un’enorme figura ne coprì tutto il vano. Era gigantesca e la lanterna che reggeva in mano emanava una luce tanto lugubre e fioca, da rendere un’impresa impossibile riconoscere i lineamenti di quell’immane e grottesca creatura. Jon e Naerenys balzarono in piedi. Un passo, poi un altro, e il gigante entrò nel raggio d’azione del lume della stanza.

«Hodor?» mormorò Jon stupefatto.

«Hodor» concordò il gigante buono.  

Che ci faceva lì Hodor? Non aveva senso. Jon si avvicinò al ragazzo di stalla. Lo guardò, incapace di articolare una domanda che comunque l’omone non avrebbe compreso, o a cui non avrebbe saputo rispondere. Fu Hodor ad agire quindi: indicò la porta, poi afferrò per un braccio Naerenys, che aveva seguito Jon, portandosi al suo fianco, e li incitò a seguirlo. Jon non capiva, nemmeno Naerenys capiva, ma lei lo seguì, più perché era trascinata che per sua scelta. Jon fece lo stesso. Scesero le scale e poi, rasente i muri, attraversarono il cortile.

Le sentinelle sui muri non diedero l’allarme, le guardie sembravano essere sparite.

Corsero per tenere il passo del gigante, finché non si fermarono, vicino a una posterla nelle mura interne.

Hodor estrasse una chiave, minuscola nelle sue enormi mani. La girò nella toppa, tolse il chiavistello e l’aprì. Naerenys era davanti a lui, indecisa su come procedere. Si voltò verso di lui, gli occhi azzurri, due pozze nere nel buio della notte. Lo guardò e decise. Varcò la piccola porta, seguita chissà come dall’omone. Anche questa volta Jon non poté far altro che imitarli.

Una stretta asse di legno giaceva sulla sponda del fossato. Hodor la prese, facendola scivolare da un lato, strisciando e sollevando, finché quella non fu in posizione. Non era propriamente un asse, si rese conto Jon. Era qualcosa, ricavato da un tronco, un immane tronco, tagliato alla bella e meglio. Piena di sporgenze e protuberanze, la superficie della rozza asse era totalmente irregolare. E stretta. Fu quello il dettaglio che lo preoccupò maggiormente. Quella specie di trave di fortuna era spessa quasi tre piedi ma era larga a mala pena uno. “E qui si conclude la geniale idea della fuga” pensò. Solo in quel momento si rendeva veramente conto di quello che avevano fatto. Anche Naerenys fu folgorata dal medesimo pensiero. Si avvicinò a lui e disse «Che cosa facciamo Jon?». Una domanda semplice, a cui però era impossibile rispondere. Se avessero attraversato, sempre che fossero sopravvissuti, dove sarebbero andati. E se li avessero presi? La fuga era un’ammissione di colpa dopo tutto, quindi che ne avrebbero fatto di loro? Mille domande si affollavano nella sua mente, ma Jon si impose di riflettere. “Lo stai facendo per lei Jon” si disse “Lei è innocente,e tu hai giurato di proteggerla, sempre e a qualsiasi costo”. Ma qual era il modo? Lanciarsi in una fuga suicida o aspettare il verdetto di Robb? “Lei ha una famiglia pronta a difenderla, lei è la figlia del re, qualcuno interverrà, lei… Ha un esercito a poche leghe da qui!” La rivelazione lo folgorò all’istante, improvvisa. «Andiamo» le disse, sicuro. Ora lo era. Ora sapeva cosa fare. La prese per mano e la condusse sull’orlo del baratro. Naerenys mise un piede sull’asse. «Non guardare mai giù, va sempre avanti; io sono dietro di te». Era spaventata, Jon lo sapeva, ma lei disse «Non preoccuparti per me, sono una leonessa». E lo era. Avanzò, un passo dopo l’altro. Jon contò fino a dieci, poi la seguì. Fu la camminata più lunga della sua vita. Quando arrivo dall’altra parte, la terra ferma lo colpì all’improvviso. Aveva chiuso gli occhi all’impatto, e quando li riaprì Naerenys gli stava sorridendo. «Te l’avevo detto che sarebbe stato facile» le disse. Naerenys lo guardò con espressione scettica, ma poi lui l’attirò a sé e la baciò.

«Hodor!». Qualche istante dopo il gigante buono richiamò la loro attenzione. Aveva aperto anche la seconda porta, a una decina di metri da dove si trovavano loro. Lo raggiunsero e questa volta varcarono la soglia senza esitazioni.

Dall’altra parte, la Foresta del Lupo li stava aspettando.

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Capitolo 13
*** Royal Lies ***


Royal Lies

Robert

 

«Molto bene mio principe!» l’esclamazione di Aron Santagar, maestro d’armi della Fortezza Rossa, fu accompagnata da uno spropositato scrosciare di applausi, quasi che Joffrey avesse disarcionato lo Sterminatore di re. No, il suo biondo e introverso figlio aveva semplicemente spezzato la lancia contro lo scudo della quintana, e nemmeno con molta destrezza, visto che il sacco di contrappeso era passato a nemmeno un centimetro dalla testa del ragazzo, che aveva schivato il colpo con una sgraziata contorsione. Ma erano passati anni dall’ultima volta che Robert aveva impugnato una lancia, e, per quel che ricordava, forse anche lui si era esibito in simili orrori.

Cavalieri e signorotti si stavano ancora complimentando con il giovane principe quando lui lo vide. L’espressione di Joffrey, prima allegra e superba, si tramutò istantaneamente in una rigida, granitica, maschera d’indifferenza. Voltò la testa in direzione del maestro darmi e disse «Per oggi mi sono allenato abbastanza».

Forse Santagar stava per replicare, ma poi anche lui vide il re, perciò si limitò a chinare il capo in segno di congedo e diede ordine ai suoi sottoposti di raccogliere i resti della lancia e di rimettere a posto armi e armature.

Robert guardò suo figlio andarsene. Era alto, forte e con un buon addestramento prometteva di diventare un buon soldato; aveva tutto ciò che si potesse desiderare da un figlio, eppure Robert non capiva perché quando lo guardava non provava niente. Era così anche per i suoi fratelli: nessuno dei quattro figli che aveva avuto da Cersei gli aveva mai fatto sentire qualcosa di diverso dall’indifferenza più assoluta.

Forse perché non provava il minimo sentimento per la donna con cui li aveva concepiti. Ma lo stesso si poteva dire delle giovani lady, delle puttane, delle figlie di locandiere e stallieri con cui aveva generato i suoi bastardi.

Forse era perché quando era stato con una loro, almeno per un’ora, non era esistito nient’altro nel mondo che la loro coppia di bei seni e il loro delizioso tesoro.

Forse perché con Cersei era più difficile fingere di stringere tra la braccia Lyanna.

O forse, era qualcos’altro…

 

     Erano passati troppi giorni perché Robert fosse in grado di contarli. In alcuni momenti gli pareva di avere appena dato l’ordine di incarcerare Ned, in altri gli sembrava che fosse accaduto anni prima, in altri ancora cercava di convincersi che si era trattato solo di un assurdo incubo.

Aveva chiesto perdono alla sua dea per questo, ma la voragine che aveva preso il posto del suo cuore sembrava farsi più profonda ogni giorno che passava.

Tutto quello che desiderava era far liberare Ned e rimandarlo a casa, dimenticare tutto, ma non era possibile, nemmeno per lui che era il re. Cersei non gliel’avrebbe mai perdonato, e Cersei era una Lannister. E i Lannister avevano già tradito un re.

 

    Era appena tornato dalla caccia, quando Varys si era silenziosamente presentato nelle stanze reali per discutere una questione urgente. Renly gli aveva suggerito di riceverlo; il suo perfetto fratellino sosteneva che ascoltare i propri consiglieri era un dovere sacrosanto di ogni buon re. Robert aveva acconsentito, urlando a quell’idiota del suo scudiero di versargli da bere. Il ragazzo, tremante, aveva afferrato l’otre e, attentamente, ne aveva versato gli ultimi sorsi in una coppa.

 

     E aveva ben ragione di essere accorto: dopo alcuni giorni di caccia infruttuosa, Robert aveva deciso che un goccio del suo vino preferito gli avrebbe tirato su il morale, così aveva ordinato al biondo scudiero di andarglielo a prendere, ma quello, da stupido Lannister qual era, era inciampato, mandando l’otre a schiantarsi su di un massiccio tronco macchiato dal lichene. Il ragazzo si era gettato ai suoi piedi, spaventato e mortificato; quando Robert l’aveva spedito a prenderne dell’altro, il giovane era sull’orlo delle lacrime.

 

     Quella volta però il ragazzo non aveva commesso errori, e, dopo avergli porto la coppa, si era velocemente dileguato.

In quel momento Varys aveva fatto il suo ingresso profumato. Si era accomodato e pragmaticamente era subito arrivato al punto: i suoi uccelletti avevano sentito Ned Stark complottare ai danni della corona. Era dunque passato a descrivere i particolari del tradimento, uno più orribile dell’altro: Ned voleva la corona, voleva le teste degli eredi di Robert e voleva che fosse il re stesso a pretenderle.

Robert non poteva credere a quelle parole, non voleva. Non era possibile che Ned stesse complottando ai suoi danni, non era nella sua natura. E quella mostruosa menzogna sui suoi figli… Robert voleva mandare via tutti quanti. Parlare con Ned, guardarlo negli occhi, solo così avrebbe compreso la verità che si celava in quelle parole velenose, sempre che di verità ce ne fosse.

Ma i suoi fidati consiglieri non gli avevano dato il tempo di agire: Renly era uscito dalla camera, per avvertire gli altri membri del Concilio; quanto a Varys, gli aveva domandato se voleva che anche la regina venisse informata dell’accaduto. Cersei era l’ultima persona che Robert avrebbe voluto attorno a sé in quel momento, beh in qualsiasi momento, tuttavia un pensiero insistente continuava a girargli impazzito nella mente: e se fosse stata Cersei a mettere in giro quelle voci? Se fosse quella la vendetta per le sue puttane, i suoi eccessi, per non aver mai smesso di desiderare che ci fosse Lyanna al suo posto?

Robert aveva acconsentito e, una volta solo, si era sentito incredibilmente impotente. Era una sensazione che spesso aveva provato, attanagliato com’era da quella moltitudine di idioti, ipocriti ed inetti, ma mai l’aveva percepita in modo tanto doloroso. Robert era un guerriero, non un politico, il suo posto era il campo di battaglia, non la corte. Robert era abituato a risolvere ogni questione vagamente importante con mazza ferrata e vino, ma quella situazione era lungi dall’essere risolvibile con qualche battuta di spirito, quanto alla guerra, Robert era stufo di combattere per coloro che amava, di sfracellare il nemico, di arrossare la terra con il loro sangue, era stufo di distruggere vite e intere dinastie, per poi perdere ciò che più contava.

 

     E così, quando Cersei si era presentata al suo cospetto, Robert l’aveva fissata in silenzio. Era bellissima, forse più di Lyanna. I morbidi boccoli dorati le ricadevano sulle spalle, bianche e lisce come la seta che l’avvolgeva il giorno del loro matrimonio, quando per un istante entrambi erano stati felici di appartenere l’uno all’altra. Ma era stato un breve, fugace, attimo, che si era dissolto non appena i raggi caldi del sole avevano inondato il marmoreo piazzale antistante il Grande Tempio di Baelor.

“È vero quello che dice Varys?”. Cersei aveva rotto il silenzio che ormai era divenuto componente caratteristica del loro matrimonio.

“Lo chiedo a te” aveva ribattuto lui, osservando attentamente la reazione della moglie. Ma Cersei si era limitata a fissarlo impassibile, sbattendo elegantemente le ciglia un paio di volte.

Poi aveva risposto “Credi che sia stata io? Mi giudichi stupida e crudele a tal punto?”.

“Perché no? Dopotutto non mi sembra che tra te e Ned sia mai corso buon sangue, per non parlare della vicenda di Grande Inverno e di quella dello Sterminatore di re!”.  Robert si era alzato in piedi, i pugno stretti, gli occhi puntati su di lei. Era bella, era perfetta, e Robert non poteva fare a meno di odiarla, come se fosse stata lei a voler occupare il posto che spettava a Lyanna.

Ancora una volta Cersei lo guardò a lungo prima di rispondere. “Farò finta di non aver sentito le tue allusioni mio signore. È vero non mi piace Stark, ma accusarlo di tradimento manderebbe a monte il matrimonio di Joff, se non peggio. Non metterei mai in pericolo quelle bambine, a prescindere da quello che possa pensare del padre”. Detto ciò, gli aveva voltato le spalle, in un turbinio d’oro e di sera, e aveva lasciato la stanza.

“Forse non è stata lei”. Aveva pensato alla fine. Cersei era una madre dopotutto e Sansa era divenuta come una figlia per lei. Che Ned potesse davvero aver cospirato ai suoi danni? O forse era qualcun altro il responsabile di quella macchinazione? Mille domande a cui una sola persona avrebbe potuto dare una risposta: Ned.

 

     E quella risposta l’aveva avuta: Ned, per una qualche oscura ragione l’aveva tradito, aveva infangato l’onore di sua moglie, aveva insultato i suoi figli!

Vendetta per il suo bambino, era questa la spiegazione che Robert si era dato. Naerenys aveva ucciso Bran e Ned avrebbe ucciso lei e i suoi fratelli.

Ma Ned non era uomo da compiere simili atti; forse poteva odiare l’assassina di suo figlio al tal punto da volerla morta, ma anche i suoi fratelli, degli innocenti bambini della stessa età di quello che aveva perduto?

E se anche fosse, Ned l’avrebbe fatto con le sue stesse mani, mai avrebbe messo in atto un complotto così sordido.

Eppure lui stesso l’aveva ammesso, giurato addirittura. Non aveva fatto che ripetere quell’assurdità giorno dopo giorno, senza mai smentirsi.

“Devono avergli mentito”. Era infine questa la conclusione a cui era arrivato. Qualcuno l’aveva raggirato e Ned, provato dalla morte del figlio, non aveva potuto far altro che credergli.

Dopotutto lui e Robert erano come fratelli, forse Ned pensava di fargli un favore dichiarando che l’assassina del suo Bran non era sangue del suo sangue.

Ma ormai non c’era più tempo per i se e per i ma. Robb, il primogenito di Ned, aveva chiamato a raccolta i vessilli di guerra e lord Tywin era già da giorni in marcia verso Nord.

E ora un altro funesto evento si abbattuto su di loro: Naerenys e il bastardo di Ned erano sfuggiti alla prigionia.

Per questo Robert l’aveva mandato a prendere; voleva offrire al suo amico di sempre un’ultima opportunità prima del disastro.

 

     Arrivato finalmente ai suoi appartamenti, Robert si preparò mentalmente a un bel bagno caldo. Doveva restare sobrio e non era certamente il caso di accogliere Ned con una rigogliosa contadinotta seduta sulle ginocchia. Un bagno, era tutto quello che poteva concedersi.

E che gli fu negato. Fece il suo ingresso nella stanza e vide che c’era qualcuno ad aspettarlo. Suo fratello era in piedi accanto al tavolo, con una pergamena accartocciata tra le dita.

«Che ci fai qui?» esordì bruscamente Robert.

«Oh nulla, fratello caro, ti stavo aspettando» disse Renly, la voce allegra tradita dall’agitazione. Spiegò il pezzo di pergamena che stringeva in mano.

Robert si avvicinò, finché non lo raggiunse. Era la lettera arrivata da Grande Inverno, nella quale una delle tante spie di Varys annunciava l’evasione della principessa.

Robert spostò lo sguardo sul fratello, senza capire.

«Che intendi fare?» chiese infine Renly «So che consideri Stark un fratello, più di me e Stannis, ma spero che tu non abbia intenzione di lasciarlo andare».

Era vero, Robert non amava i suoi veri fratelli. In comune non avevano altro che il cognome, ma inspiegabilmente quel ragazzino inesperto di Renly aveva compreso le sue intenzioni. Erano davvero così evidenti?

Passarono alcuni secondi in cui nessuno parlò. Renly aveva capito e non concordava, ma non c’erano ragioni per mentirgli.

«Invece è proprio quello che intendo fare».

«Ma non puoi!» sbottò Renly «Non puoi permettere che non paghi alcun prezzo per le sue menzogne. È tradimento il suo, l’hai forse dimenticato? Tornerà a casa, con i suoi titoli e i suoi onori intatti? E che mi dici del figlio? Sta radunando le truppe, è tradimento anche il suo e…»

«Ora stai dalla parte dei Lannister?» tuonò Robert. Quello di suo fratello era lo stesso ragionamento che aveva fatto Cersei la sera prima; così decise di dargli la medesima risposta «Robb è un ragazzino, non appena saprà che il padre è libero rimanderà a casa tutti quanti e farà ammenda».

«E di Stark che mi dici?» chiese Renly «Lui non è un ragazzino, ti accontenterai delle sue scuse? Non appena si saprà che il grande Robert Baratheon è troppo debole per punire un tradimento simile, non ci vorrà molto perché qualche signorotto ambizioso cominci a immaginarsi con una corona sulla testa».

Robert non ebbe nemmeno il tempo per formulare una risposta. Renly aveva già lasciato la stanza, senza mai voltarsi indietro.

«Vino!» sbraitò Robert dopo qualche secondo. Ora ne aveva davvero bisogno.

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Capitolo 14
*** I am the King ***


I am the King

Eddard

 

 
«La Barriera?» con occhi increduli Ned fissava il suo re, il suo amico, suo fratello.

«Non ho altra scelta Ned. O questo o l’esilio o il boia, quale preferisci?».

Ned sapeva di non avere altre alternative, non poteva sperare di convincere Robert, ma non poteva neanche negare a se stesso la verità.

«Così sia, vostra maestà» disse, le parole che bruciavano mentre le pronunciava «Ma invoco la tua clemenza: risparmia questo destino a mio figlio».

«Solo se farà atto di sottomissione» sentenziò il sovrano «Erediterà Grande Inverno, ma non il titolo di protettore del Nord, quello andrà a qualche tuo alfiere».

Alle spalle di Robert, Cersei sorrideva, gli occhi di smeraldo che mandavano lampi di vittoria.

Ned si inginocchiò ai piedi del suo re, del suo amico, di suo fratello, accettando le sue condizioni, o meglio, quelle di sua moglie. Poi venne scortato fuori, il capo chino, la gamba trascinata.

Fu quella l’ultima immagine che ebbe del suo amico di sempre: alto ed imponente, superiore e giudice della sua anima corrotta.

 

     Giunsero nel cortile; un carro, stracolmo di pellicce e rotoli di lana grezza, lo stava aspettando. Alla sinistra del carriaggio c’erano le sue figlie: Sansa, il capo chino e le mani giunte, non si accorse del suo arrivo, Arya invece gli corse incontro. Le guardie che lo scortavano gli permisero di abbracciarla.

Le lacrime, trattenute a stento da entrambi, cominciarono a rigare i loro volti, mescolandosi. Arrivò anche Sansa, gli occhi rossi e secchi, quanto aveva pianto la sua bellissima bambina?

Le abbracciò entrambe, cercò di rassicurarle; Robert le avrebbe trattate bene e, un giorno, loro avrebbero potuto venire alla Barriera a fargli visita, o forse sarebbe venuto lui a Sud, con la scusa di cercare altri confratelli.

«Ci rivedremo» promise loro, ne era certo. Nulla era andato perduto.

Alla fine, però, arrivò il momento di partire. Venne fatto salire sul carro, che fu circondato da circa cinquanta armati a cavallo. Altrettanti li attendevano fuori dalle mura delle città.

In coda al suo carro vennero disposti gli altri prigionieri, feccia delle prigioni della capitale: ladri, stupratori, perfino tre assassini ai ceppi. Poi fu la volta dei suoi uomini, quelli che erano rimasti, quelli che Ned non aveva mandato a ovest con lord Beric, quelli che non erano stati trucidati dagli uomini di ser Jaime. Avevano giurato di seguire il loro lord e quindi, ne avrebbero condiviso il medesimo destino.

«Aprite le porte» ordinò un soldato con il naso a becco e folti capelli neri, in sella a uno stallone sauro.

Ned non lo conosceva, ma da come si comportava doveva essere un cavaliere.

Gli armigeri eseguirono e la processione iniziò.

Ned guardò le sue figlie scomparire dietro le porte della Fortezza Rossa, che rapidamente venivano richiuse. Le avrebbe riviste, lo sapeva, ma quando?

 

     Il sole infuocato stava pigramente tramontando dietro i profili polverosi della pianura a nord di Approdo del re. La capitale era appena visibile alle loro spalle. Ned voltò la testa a nord, il solo distinguerne i profili gli provocava un dolore lancinante, mentre nord era casa, nord era Cat. Non sarebbe stato un vero ritorno il suo, non avrebbe mai più potuto stringerla tra le braccia, nemmeno amarla. Ma era questo il prezzo che doveva pagare, il prezzo della verità.

Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal ritmico incedere del carro. Si stava quasi appisolando quando improvvisamente il mezzo si arrestò. Ned aprì gli occhi, chiedendosi se non fosse troppo presto fermarsi ora per la notte, ma poi vide qualcosa che lo lasciò sconcertato. All’ombra del sole morente, decine e decine di sagome nere e porpora, con le lame sguainate, si chiusero attorno a lui e ai suoi uomini in catene.

«Che cosa significa tutto questo?» disse, la voce smorzata dalla paura, che l’aveva invaso, incontrollabile e sconosciuta.

Nessuno rispose.

Le lame brillavano di morte, cento servi dello Sconosciuto silenziosi come ombre erano a pochi passi da lui.

E di colpo nel crepuscolo silente riecheggiarono come tuoni i gemiti strozzati di uomini morenti.

Ned non era in grado di concepire quello che stava accadendo davanti ai suoi occhi. Gli sembrava di essere immerso in un sogno, uno di quegl’incubi irrazionali, che riflettono solo paure ed angosce, in un susseguirsi illogico di immagini sconnesse. Forse di era davvero addormentato, se avesse aperto gli occhi adesso il mondo l’avrebbe investito con la sua luce di vita.

Ma non era un sogno era la realtà.

Improvvisamente la moltitudine di mietitori si aprì, facendo ala a un’alta e flessuosa sagoma incappucciata, non diversa dalle altre eppure unica.  

La terra era pregna del sangue dei suoi uomini, dei ladri, degli stupratori e degli assassini.

Vedeva le loro gole tagliate, il massacro l’opprimeva, attanagliandolo da ogni lato.

E davanti a lui quell’ombra di morte si avvicinava, lenta e inesorabile.

Chi sei, voleva chiedere, ma la voce sembrava aver abbandonato il suo corpo, così come presto avrebbe fatto la sua anima.

Voleva sollevare le braccia, chiedere pietà, combattere, ma la forza sembrava aver abbandonato le sue membra, così come presto avrebbe fatto la sua essenza.

Eddard Stark non avrebbe mai saputo che cosa voleva veramente.

Un barbaglio argenteo e il lord di Grande Inverno venne spazzato via dalla faccia della Terra.

Ned sentì il sangue caldo colare giù dalla sua gola squarciata.

Vide se stesso esalare l’ultimo respiro, come l’aveva visto fare a tanti uomini, ma ora era il suo turno.

Aveva sentito dire che quando si ama veramente una persona, l’ultimo pensiero va a lei.

Ma Ned non pensò a niente, non vide niente.

Gorgogliando emise un rantolo, che cos’era? Una richiesta di aiuto? O di spiegazione? O forse una preghiera?

L’ombra di morte non pretese di comprendere.

Sorrise, denti bianchi nelle tenebre.  

Sorrise e disse «Io sono il re».

Prima di scivolare nelle tenebre eterne, Ned si sforzò ancora di capire, ma al mondo non sembrava esistere altro che quello che aveva davanti: due occhi blu come l’oceano incorniciati da una cascata di vellutati riccioli neri.    

Angolo autrice:

 Allora sono arrivata al 14esimo capitolo (così tanti??) e spero che almeno un pochino pochino la mia storia vi sia piaciuta ^_^

Inizio col ringraziare tutti quelli che hanno recensito la mia fanfic e che l’hanno aggiunta tra le seguite/preferite/ricordate, davvero un GRAZIE dal cuore J

Mi dispiace però che gli intrepidi siano stati così pochi L Mi farebbe piacere ricevere qualche commento in più, giusto per sapermi regolare, perché io ho ancora una marea di idee su come continuare la storia, ma se fa schifo ditemelo, che così la chiudo qui e amen, mi dedico a qualcos’altro XD

Quindi su su gente recensite, ditemi che cosa ne pensate, complimenti e critiche sono graditi, anzi direi, fondamentali, per un’aspirante scrittore.

Un bacio a tutti, Mart J

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