In my place di _Pulse_ (/viewuser.php?uid=71330)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Night #1 ***
Capitolo 2: *** Night #2 ***
Capitolo 3: *** Night #3 ***
Capitolo 4: *** Night #6 ***
Capitolo 5: *** Night #7 ***
Capitolo 6: *** Night #14 ***
Capitolo 7: *** Epilogue - Day #1 ***
Capitolo 1 *** Night #1 ***
Ciao
a tutti!
Sono
tornata e questa volta con una long! La mia prima long Sherlolly. Sono
piuttosto emozionata, ma anche nervosa perché non sono certa
del risultato.
Personalmente ne sono soddisfatta, ma ci sono dei punti che mi fanno un
po’
storcere il naso. A voi il dovere di giudicare, dunque! :D
Tutto
ciò che succederà in questi capitoli è
ambientato successivamente al terzo ed
ultimo episodio della terza serie, quindi tiene conto di tutto e in
alcuni casi
può darsi che io abbia dato la mia personale interpretazione
a ciò che è
successo.
Come
anticipavo a chi ha seguito le mie one-shot precedenti, questa volta ho
cercato
di modificare la mia visione di Molly tenendo conto della terza
stagione e
spero vivamente di esserci riuscita, come spero di non essere andata
OOC con
Sherlock e tutti gli altri.
Al
solito, i personaggi appartengono ai loro creatori e questo scritto non
è a
scopo di lucro.
Credo
di aver detto tutto, non mi resta che augurarvi una buona lettura!
Un
bacio,
_Pulse_
____________________________________________
In
my place
1.
Night
#1
«Molly?».
L’anatomo
patologa aprì gli occhi e, al contrario di ciò
che pensava, la voce di Sherlock
non era solo l’ultimo ricordo di un sogno: lui era lì,
in piedi accanto
al suo letto, che la fissava con le mani unite dietro la schiena.
«Sherlock»,
biascicò, tirandosi su lentamente a sedere e coprendosi fino
alle ascelle con
il piumone.
«Se
non ti dispiace, sono piuttosto stanco», disse a bassa voce
il detective,
togliendosi la giacca e lanciandola distrattamente sullo schienale
della sedia
sotto la scrivania.
Aveva
appena iniziato a sbottonarsi la camicia bianca, quando le rivolse
un’occhiata
insospettita. «Non indossi i pantaloni, per caso?».
Molly
si scostò bruscamente le coperte di dosso e scese dal letto,
trovando
particolarmente sgradevole il dover appoggiare i piedi nudi sul
pavimento
freddo ben prima del suono della sveglia.
Sherlock
notò che li indossava, i pantaloni, quindi apparve ancora
più confuso. «Che
c’è?».
«Come
hai fatto ad entrare? Ho fatto mettere il chiavistello alla
porta».
«Avevo
dato per scontato che fosse per la tua sicurezza personale, ora che
Moriarty
sembra essere tornato sul campo di battaglia. Sono lusingato».
I
suoi occhi di ghiaccio brillarono come diamanti nella camera da letto
buia,
rischiarata soltanto da un fascio di luce lunare, e Molly strinse i
pugni lungo
i fianchi, cercando di mantenere la calma.
«Sono
entrato dalla finestra», spiegò, nonostante fosse
l'unica soluzione possibile,
a quel punto, e Molly avrebbe potuto – e dovuto –
arrivarci da sola.
«Perché
sei qui?», gli chiese dopo vari secondi di silenzio,
fissandosi direttamente i
piedi piuttosto che lasciarsi cogliere in flagrante mentre si
sorprendeva del
candore della sua pelle, dei muscoli definiti e dei piccoli nei che
formavano
una specie di costellazione sulla sua schiena longilinea.
«Perché
tu invece ti ostini a rimanere qui, a farmi domande di cui conosci
già la
risposta?».
«Non
te l'ho mai chiesto prima».
«Non
vuol dire che tu non conosca già la risposta».
I
suoi occhi erano taglienti e duri proprio come diamanti e Molly avrebbe
preferito mille volte uscire dalla propria camera da letto in silenzio,
come
aveva fatto molte e molte volte prima d'allora, ma le cose erano
cambiate negli
ultimi mesi, lei era cambiata, e
per
il suo stesso bene c'erano dei momenti in cui doveva soffrire,
mostrando a
Sherlock che se voleva qualcosa, doveva dare qualcosa in cambio. Non
sempre,
questo no: si trattava pur sempre di Sherlock! Ogni tanto le sarebbe
bastato.
Ma sapeva che senza una piccola spinta da parte sua – o di
John, o di chiunque
altro gli stesse vicino nel quotidiano –
quell'“ogni tanto” avrebbe preso il
significato di “raramente” nel particolarissimo
dizionario di Sherlock.
Il
consulente investigativo trasse un lungo respiro e con gli occhi
semichiusi
disse pazientemente: «O qui, oppure in quel posto
in culo al mondo, citando John, con i miei
amici
drogati. Ho pensato che se ci fossi andato, ti saresti sentita
autorizzata a schiaffeggiarmi
di nuovo, quindi...».
Molly
scosse il capo, sconfitta, e dato che erano le tre di notte e quella
mattina
era di turno al Bart's decise che anche per quella volta avrebbe
lasciato
correre.
«Il
gatto, Molly».
La
ragazza, già alla porta, tornò indietro per
prendere Toby tra le braccia,
comodamente raggomitolato tra le coperte del suo letto e non molto
contento
dello sfratto improvviso. Come se lei ne fosse felice. Come se Molly
Hooper non
vedesse l'ora di essere buttata fuori dal proprio letto per lasciarlo a
Sherlock Holmes, un detective che col tempo si era guadagnato una
reputazione
internazionale e che da quando il suo miglior amico e coinquilino si
era
sposato non faceva altro che vagabondare di qua e di là,
distrutto dalla
solitudine. Molly ne riconosceva troppo bene i sintomi e lui lo sapeva,
sapeva
che lei riusciva a vedere come stava realmente, e quando aveva la luna
storta –
come quella sera – gli era pressoché
insopportabile.
Molly
si chiuse nella camera degli ospiti e dopo essere salita a quattro
zampe sul
letto si infilò sotto le coperte, stringendo i denti per il
freddo. Non era mai
stata ricoperta di neve dal collo in giù, ma fu quella la
prima immagine che le
venne alla mente quando si ritrovò a fissare il soffitto.
Non
provò nemmeno a chiudere gli occhi: prima di cambiare di
nuovo idea, scese dal
letto e tornò in camera sua. Fu più forte di lei
e bussò, ma non aspettò la
risposta di Sherlock prima di entrare. Lo trovò seduto sul
letto, in mutande,
che le dava le spalle. Per un attimo volle voltarsi e correre via, ma
fu solo
un attimo.
«E
adesso che c'è?», domandò stancamente
Sherlock, senza nemmeno degnarla di uno
sguardo.
«Penso
che dovresti dormire tu nella camera degli ospiti, visto che tu
sei
l'ospite».
«Non
era questo il patto».
«Lo
so».
«Pensavo
fossi una donna di parola».
«Non
ti sto cacciando di casa, Sherlock. Vorrei solo poter dormire nella mia
camera
da letto».
Il
detective si voltò e la scrutò a fondo, come se
volesse trovare la risposta a
tutte le sue domande solo guardandola. Di solito ci riusciva,
praticamente
sempre, e con chiunque avesse davanti agli occhi, ma quella volta no.
«Mi
hai fatto dormire nel tuo letto anche quando eri fidanzata con
Tom».
«Una
volta sola. Ed è stato un errore imperdonabile»,
rispose velocemente.
Ricordava
fin troppo bene la vergogna e il senso di colpa che aveva provato nei
confronti
di Tom quando era tornato dal turno di notte, stanco e desideroso di
una bella
dormita. L'aveva trovata intenta a cambiare le lenzuola del letto
– solo cinque
minuti prima era riuscita miracolosamente a cacciare Sherlock
– e Molly, per
giustificarsi, gli aveva detto che aveva intenzione di portarle in
lavanderia
prima di andare al lavoro. Tom se l'era bevuta, naturalmente non
avrebbe mai
sospettato nulla, ma lei non si era sentita a posto con se stessa per
tutto il
giorno, tanto che per far pace con la propria coscienza quella sera gli
aveva
fatto trovare una cena coi fiocchi, con tutti i suoi piatti preferiti.
Molly
scrollò il capo, sperando che quel ricordo smettesse di
gravarle sul cuore, e
tornò a fissare Sherlock incrociando le braccia al petto e
stringendosi il
collo tra le spalle.
«Mi
chiedo che differenza faccia per te: di certo la mia stanza non
può farti
sentire meno solo».
Sherlock
aprì la bocca per ribattere, con gli occhi leggermente
sgranati, ma passarono
diversi secondi prima che la voce gli tornasse.
«Dovrai
trascinare via il mio corpo morto, se vuoi davvero dormire
qui», sibilò con
tono acido, poi afferrò le coperte e coprendosi fin sopra la
testa si
rannicchiò sul fianco.
Molly
lo guardò incredula. Non riusciva proprio a capire il motivo
per cui Sherlock
si ostinasse così tanto: che cos’aveva di speciale
il suo letto? Era più caldo
di quello nella camera degli ospiti, sicuramente. Ma era una teoria
troppo
assurda perché ci credesse anche solo per un istante. Si
sforzò di pensare ad
altre motivazioni plausibili, ma il sonno l’ebbe vinta troppo
presto.
Molly
sapeva perfettamente che se avesse ceduto quella volta, dopo tutta la
forza che
le ci era voluta per tornare indietro ad affrontarlo, in futuro non
avrebbe
avuto la benché minima speranza di ottenere qualcosa da lui.
Doveva andare fino
in fondo, dimostrare a Sherlock che non poteva comportarsi in quel modo
– non
più.
Respirò
profondamente per farsi coraggio e disse: «Non voglio finire
in prigione per
colpa della tua testardaggine».
Sherlock
si tolse la coperta dalla testa e allibito seguì con gli
occhi ogni suo singolo
movimento.
Molly
salì sul letto, diede un paio di colpi al cuscino, poi si
infilò sotto alle
coperte, al suo fianco.
Passò
un’eternità prima che smettesse di fissarle la
schiena e i capelli castani
sparsi sul cuscino, prima che finalmente tornasse a darle le spalle
come se ciò
che aveva appena fatto non l’avesse minimamente toccato.
***
Non
avrebbe mai immaginato che Sherlock potesse reagire in quel modo: non
reagendo.
Aveva
sempre lottato per la sua privacy, per avere i suoi spazi –
per quello avevano
concordato che avrebbe dormito nella sua camera! – e ora che
lei aveva deciso
di cambiare i punti fondamentali del loro patto, lui non diceva o
faceva
niente. All'improvviso la condivisione di quel letto non era
più un problema.
Sconveniente sì, perché Molly era certa che non
sarebbe riuscita a chiudere
occhio sapendo di essere sdraiata a pochi centimetri da uno Sherlock
semi-nudo,
ma non un problema.
C’erano
dei limiti a tutto e Molly sapeva con certezza che uno dei suoi era il
fatto
che non l’avrebbe mai capito fino infondo, non da sola. Ma
Sherlock non
l'avrebbe mai aiutata in questo, mai si sarebbe esposto di sua
iniziativa.
La
ragazza lesse di nuovo l'ora sulla sveglia digitale e smise di farsi
domande a
cui non avrebbe ottenuto risposte. Era stanca e voleva davvero tornare
a
dormire, Sherlock o meno nel letto. Chiuse gli occhi e
respirò profondamente,
cercando un pensiero o un ricordo tranquillizzante.
Tutti
i suoi sforzi però furono vani, purtroppo: era stato
riportato a galla il nome
di Tom e ora non riusciva a pensare ad altro. Era passato poco tempo
dalla loro
rottura, pochissimo rispetto all'anno in cui erano stati insieme, e se
col
tempo avrebbe dimenticato le piccole cose, i sorrisi, le risate e i
baci, non
avrebbe mai, mai potuto fare la stessa cosa con il momento in cui aveva
avuto
la piena consapevolezza di non amarlo davvero.
«Mary e John, in qualsiasi modo, qualunque cosa
succeda, da oggi in poi
giuro che ci sarò sempre. Sempre. Per tutti e tre. Ehm,
scusate. Volevo… volevo
dire due. Tutti e due. Entrambi, infatti. Ho solo contato male. Ad ogni
modo, è
tempo di danzare. Fate ripartire la musica, prego. Grazie. Okay, tutti
voi,
ballate. Non siate timidi!».
La
musica partì e Sherlock scese giù dal palco. In
smoking e con le luci colorate
che gli danzavano addosso era ancora più bello del solito e
Molly non poteva
negarlo. Prese però la mano di Tom e lo portò in
pista, decisa a divertirsi. O
almeno una parte di lei lo era, mentre l'altra non riusciva ad evitare
di
gettare occhiate al detective, ora fermo in mezzo alla folla danzante,
di
fronte ai due novelli sposi.
Sembravano
nel bel mezzo di una discussione, quando ad un certo punto Sherlock
disse
qualcosa in grado di farli rilassare improvvisamente. Il volto del
consulente
investigativo si era illuminato grazie ad un sorriso straordinario, uno
di
quelli più unici che rari, e anche a Molly venne voglia di
sorridere. Si
accorse però che lo stava già facendo, mentre Tom
le alzava un braccio e le
faceva fare una giravolta.
Quando
John e Mary iniziarono a ballare e si allontanarono, Sherlock si
guardò intorno
spaesato fino a quando non scorse la damigella d'onore, Janine. Molly
si sentì
morire accorgendosi del sorriso che lui le aveva rivolto e fu ancora
peggio
quando esso scomparve all'improvviso: Janine aveva trovato un altro
cavaliere e
Sherlock era solo, in mezzo alla pista da ballo.
Molly
avrebbe tanto voluto raggiungerlo e ballare con lui, anche solo per
cinque
minuti, per dimostrargli che quella non era l’esatta
previsione di ciò lo
attendeva da quel giorno in poi, ma ci ripensò: non poteva
abbandonare Tom e
Sherlock avrebbe insultato la propria intelligenza, se avesse davvero
creduto
che il matrimonio di John avrebbe stravolto la loro amicizia.
Qualche
giravolta dopo, Sherlock attraversava di nuovo la pista da ballo con
espressione cupa. Quella volta però era diretto verso
l'uscita e nessuno
sarebbe stato in grado di fermarlo, perché nessuno lo aveva
notato. Nessuno
eccetto Molly.
Il
tempo parve fermarsi e così anche lei, il suo nome sulle
labbra, pronte ad
urlarlo a squarciagola.
Era
stato quello il momento in cui aveva avuto la piena consapevolezza di
non amare
Tom, di non averlo mai amato. Perché nonostante non avesse
gridato il suo nome,
nonostante non lo avesse rincorso, il suo cuore lo aveva fatto. Come
sempre e
contro ogni sua volontà, il suo cuore aveva scelto di stare
accanto a Sherlock.
Molly
si girò e rimase a fissare la schiena del detective.
«Sherlock?»,
bisbigliò. «Dormi?».
Lui
non rispose e l'anatomo patologa, prestando più attenzione
al suo respiro, si
accorse che era regolare e pesante. Con un sospiro tirò
fuori un braccio e con
delicatezza gli coprì la spalla nuda con il piumone.
«Che
ho fatto di male per innamorarmi di te?», mormorò
ancora, poi chiuse gli occhi
e seguendo il ritmo del respiro di Sherlock si addormentò.
|
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Capitolo 2 *** Night #2 ***
Ecco
il secondo capitolo, spero sia degno del precedente! ;)
Ringrazio
ancora, di cuore, chi ha commentato e chi ha letto, mi avete fatto
davvero la
donna più felice del mondo.
Buona
lettura!
_Pulse_
___________________________________________
2.
Night
#2
Molly
si svegliò e capì subito che c’era
qualcosa di sbagliato.
Primo,
la sua sveglia segnava le sette e trenta, quando avrebbe dovuto suonare
almeno
un’ora e mezza prima; secondo, la sua schiena era premuta
contro qualcosa di
caldo e compatto; terzo, qualcuno le stava respirando tra i capelli,
all’altezza del collo.
Il
suo cervello, già in allarme per il ritardo mostruoso,
andò completamente nel
pallone quando realizzò che quel respiro era di Sherlock e
che quello contro
cui era premuta la sua schiena era a tutti gli effetti il suo petto.
Scioccata,
spostò con delicatezza il suo braccio e scivolò
fuori dalle coperte. Quindi
corse in bagno senza più guardarsi indietro, sperando che
fosse solo l’incubo
più bello che avesse mai fatto in vita sua.
***
Sherlock
aspettò che Molly uscisse di casa, poi si alzò e
aprì le ante dell’armadio,
trovando la sua vestaglia delle emergenze lì dove
l’aveva lasciata l’ultima
volta. Aveva preso il profumo degli indumenti di Molly, ma non gli
dispiacque
più di tanto. Anzi, non gli dispiacque affatto.
Uscì
dalla camera da letto e fece un giro di ricognizione, entrando in ogni
camera
del piccolo appartamento. Aveva bisogno di abbassare i livelli di
inquietudine
e soffermarsi sui particolari era la distrazione migliore.
«Concentrati»,
mormorò a se stesso, avvicinandosi alla mensola del bagno
dove Molly teneva le
boccette dei profumi.
Nonostante
fossero quasi tutte ancora piene, a Sherlock bastò una
frazione di secondo per distinguere
quali le erano state regalate – la maggior parte, –
quale utilizzava per le
occasioni speciali e quale avrebbe dovuto usare quotidianamente. Avrebbe dovuto perché si
dimenticava di
spruzzarsi addosso il profumo un giorno sì e
l’altro pure da quando era tornata
single.
Sherlock
aveva avuto l’occasione di sentirli tutti, ma nessuno di essi
era il suo
preferito. A lui piaceva il profumo della pelle di Molly. E quello del
suo
ammorbidente. Insieme, creavano un mix capace di rilassarlo in un modo
del
tutto inconcepibile ed irrazionale.
Aveva
provato con il solo ammorbidente (si era appuntato mentalmente il nome
e la
marca, ne aveva comprato un flacone al supermercato e aveva obbligato
la
signora Hudson a lavargli le lenzuola con quello), ma non aveva
funzionato.
Come non aveva funzionato quando Molly gli aveva permesso di dormire
nel suo
letto mentre Tom era a fare il turno di notte: il profumo di Molly era
stato contaminato da quello del suo
fidanzato
e Sherlock non aveva fatto altro che rotolarsi tra le lenzuola per ore,
senza
riuscire a chiudere occhio. Per quello era successo una volta sola. Ma
ora
sapeva che anche se fosse ritornato, lei lo avrebbe mandato via.
Era
sicuro al cento percento che tra lei e Tom non avrebbe mai funzionato,
anche se
per il suo bene ci aveva davvero sperato, ma era anche segretamente
contento di
poter riavere il letto tutto per sé. O quasi.
Quello
che aveva fatto Molly la sera prima lo aveva davvero spiazzato. E gli
aveva anche
dato l’ultima, definitiva conferma di quanto fosse cambiata.
Nei confronti del
mondo, nei suoi confronti.
Quella
volta era davvero intenzionata a seppellire ogni sentimento amoroso che
provava
per lui da sempre, era davvero pronta a rifiutarlo, e Sherlock doveva
prestare
molta attenzione.
Aveva
molti difetti, moltissimi, ma non era insensibile come dava a vedere e
anche
lui poteva diventare soggetto a quel particolarissimo meccanismo che
aveva
avuto più volte modo di analizzare osservando i suoi
clienti: più una persona
desidera qualcuno, meno quel qualcuno la ricambierà;
più la prima decide allora
di evitare quel qualcuno, più quel qualcuno
cambierà idea e vorrà farla sua.
E
proprio perché Sherlock era a conoscenza di tutto
ciò, avrebbe dovuto prestare
molta più attenzione. A partire da quella stessa notte,
quando aveva permesso a
Molly di sdraiarsi accanto a lui. E poi quella mattina, quando aveva
disattivato la sua sveglia e si era avvicinato a lei sempre di
più, un
centimetro alla volta, fino a sfiorarle con le dita la spalla nuda,
fino ad
abbracciarla, fino a respirare il suo profumo direttamente dalla fonte:
i suoi
capelli, la sua pelle.
Non
devi perdere la
concentrazione,
esclamò la sua mutevole voce interiore. Quella volta, giusto
per irritarlo un
po’, aveva deciso di assumere i toni saccenti di quella di
suo fratello Mycroft.
Sempre
che tu non
l’abbia già persa.
«Fai
silenzio!», sibilò Sherlock, sbattendosi la porta
del bagno alle spalle.
***
Molly
aprì la porta di casa e dopo aver ripreso le borse della
spesa che aveva
lasciato sul pianerottolo entrò sospirando di fatica. Ogni
volta rimpiangeva il
fatto di aver scelto un appartamento in un condominio sprovvisto di
ascensore.
«Ehi
Toby», salutò il micio che le era andato incontro
per strusciarsi contro le sue
caviglie. Quindi posò le borse sul tavolo della cucina e lo
prese tra le
braccia.
«Scusami
se stamattina non ti ho salutato come si deve, ma ero in ritardo. La
sveglia
non è suonata, oppure l’ho spenta e non me ne sono
resa conto. Dopotutto ero
davvero stanca. E ora ho una fame terribile, sai? Ho saltato la pausa
pranzo
per recuperare. Ma lo sarai anche tu, immagino».
Gli
sorrise e gli posò un bacio sulla testolina mentre si
dirigeva verso
l’armadietto in cui teneva le scatolette di cibo per gatti.
Aveva appena aperto
il cassetto dove teneva le posate, quando con la coda
dell’occhio vide una
scatoletta identica a quella che aveva in mano nel lavello, vuota.
Corrugò la
fronte e gettò uno sguardo verso Toby.
«Sherlock
ti ha dato da mangiare?», gli chiese, come se sperasse
davvero di ottenere una
risposta da lui.
Il
detective non aveva mai dimostrato simpatia verso il suo gatto, ma
nemmeno
antipatia, perciò Molly non si fece troppe domande e si
inginocchiò per
accarezzare di nuovo l’animale.
«Spero
tu l’abbia ringraziato, almeno. Io gli manderò un
sms, più tardi. Adesso devo
sistemare questa roba».
Non
si era ancora tolta il cappotto, né la sciarpa: era
più importante mettere
quello che aveva comprato in frigorifero, prima che andasse tutto a
male. Solo
una volta finito si spogliò e andò in camera per
cambiarsi.
Quasi
si sorprese nel trovare il letto ancora sfatto: comprensibile, visto
che da
quella mattina non aveva fatto altro che ripetersi che si era sognata
tutto,
che non si era svegliata stretta tra le braccia di Sherlock, che era
impossibile nel modo più definitivo.
Sarebbe
stato troppo chiedere un po’ di chiarezza, una volta tanto?
Ma con Sherlock la
parola “chiarezza” non esisteva, o meglio, esisteva
nel suo personale
dizionario come “unico risultato possibile una volta risolto
un enigma o un
efferato delitto”.
Spalancò
le finestre per far cambiare aria alla stanza e nel frattempo si
cambiò,
infilandosi i morbidi pantaloni di una tuta da jogging che con lei non
aveva
mai vissuto per quello scopo e un’enorme felpa rossa con il
collo alto e una
tasca sul davanti, perfetta per le sue mani quasi sempre fredde.
Rifece
velocemente il letto, senza badare troppo alla perfezione –
dopo la
giornataccia che aveva passato aveva intenzione di coricarsi presto
– e dopo
aver chiuso le finestre si diresse verso il bagno. Trovò la
porta stranamente
chiusa, ma non si pose molti problemi ed entrò come se nulla
fosse. La ventata
di vapore che la investì la paralizzò sulla
porta, mentre i suoi occhi
incrociavano quelli di Sherlock, a mollo tra la schiuma nella sua vasca
da
bagno.
Molly
boccheggiò come un pesce fuor d’acqua e poi come
un gambero arretrò fino ad
uscire dal bagno. Chiuse anche la porta, non sapendo che altro fare, e
vi si
appoggiò con le spalle.
Stava
cercando di razionalizzare ciò che aveva appena visto, senza
risultati
apparenti: era semplicemente assurdo!
«Non
è buona norma bussare?», domandò
Sherlock da dietro la porta, e Molly sentì lo
scorrere del getto dell’acqua.
«Che
cosa ci fai nella mia vasca da bagno?», chiese lei, scioccata.
«Mi
pare piuttosto ovvio: il bagno!».
«Okay,
ma… Perché?».
«Non
avevo voglia di tornare a casa».
«Oh,
quindi… Vuoi dire che sei stato qui tutto il
giorno?».
«Mmh-mmh»,
mugugnò.
«Bene».
Molly si passò le mani sul viso e sospirò:
«Fantastico».
«Che
hai detto?».
«Niente.
Gli asciugamani puliti sono…».
La
porta si aprì all’improvviso di fronte a lei e
Molly sobbalzò, trovandosi di
fronte ad uno Sherlock con i capelli bagnati che gli cadevano sugli
occhi
verdazzurri, un asciugamano intorno al collo e uno a cingergli la vita.
«Lo
so», le sussurrò prima di rivolgerle un piccolo
sorriso storto e di farle
l’occhiolino. Quindi si chiuse di nuovo in bagno, lasciando
Molly nella più
totale confusione.
Una
manciata di secondi dopo, o forse un paio di interi minuti –
Molly non avrebbe
saputo dire con precisione quanto tempo fosse rimasta a fissare la
porta –
Sherlock aggiunse, urlando per farsi sentire sopra il rumore del phon:
«Potresti
cucinare qualcosa?».
L’anatomo
patologa si ridestò e, sempre più scioccata,
esclamò: «Che cosa?».
«Ho
fame!», fu la risposta di Sherlock. «Un piatto di
pasta andrà più che bene».
Molly
ripeté a bassa voce le sue parole, come se farlo potesse
aiutarla a renderle
più reali. Sherlock richiamò la sua attenzione,
spegnendo persino il phon, e
Molly fu costretta a dire che sì, gli avrebbe fatto quel
piatto di pasta. Il
phon si riaccese, così come una scintilla di irritazione nel
suo stomaco.
***
Sherlock
si sistemò il colletto della camicia scura e si diede
un’ultima occhiata allo
specchio, poi si voltò per chiudere le ante
dell’armadio di Molly.
Col
tempo le aveva lasciato un paio cambi di emergenza, assieme ad una
delle sue
vestaglie, e proprio per questo la scelta era davvero limitata.
A
volte quando si parlava di abbigliamento poteva essere incontentabile
come una
vera e propria regina – escluso il drama.
Trovò
Molly in cucina, intenta a scolare l’acqua della
pasta.
La tavola era
apparecchiata per due e Sherlock, non sapendo dove solitamente si
sedeva lei,
si schiarì la voce per attirare la sua attenzione.
L’anatomo
patologa gli gettò una rapida occhiata e disse:
«Siediti dove vuoi, fai come se
fossi a casa tua».
Il
detective aggrottò le sopracciglia, afferrando lo schienale
della sedia a
capotavola. «Era sarcastica la tua affermazione?».
Molly
accennò un sorriso, e quello fu tutto ciò che gli
concesse: a lui il compito di
dedurre ciò che stava a significare.
Sherlock
prese posto e Molly gli servì in silenzio un piatto di pasta
al sugo, poi si
sedette alla sua destra.
«Buon
appetito», disse senza molta convinzione, infilzando due
pennette.
Sherlock
la imitò, senza mai perderla di vista.
Era
ovvio che fosse infastidita, se non addirittura arrabbiata con lui.
Appurato
questo, doveva solo scegliere uno dei molteplici motivi per cui Molly
avrebbe
potuto esserlo e metà dell’opera era fatta. La
seconda metà sarebbe stata
quella più ardua, ma aveva ancora tempo prima che ci
arrivassero.
Uno,
sono stato a casa
sua tutto il giorno senza che lei lo sapesse.
Due, ho usato il suo
bagno senza chiederle il permesso.
Tre, può pensare che
abbia ficcanasato in giro. E l’ho fatto.
Quattro,
l’ho messa in
imbarazzo mostrandomi mezzo nudo. Ma questa non è una
novità, dopo ieri sera.
Quattro,
le ho chiesto
di prepararmi la cena in modo scortese.
Cinque, sono stato
scortese.
Sei, non l’ho ringraziata.
Sette, non l’ho
salutata.
La
lista si stava facendo troppo lunga, quindi Sherlock optò
per un’altra tattica:
mostrarsi gentile perché si dimenticasse di quanto avesse
fatto di sbagliato in
precedenza.
«Non
sapevo sapessi cucinare così bene», disse
sorridendole. «La pasta è un po’
troppo cotta, ma il sugo è eccezionale. L’hai
fatto tu?».
Molly
si pulì la bocca con il tovagliolo ed indicò il
ripiano della cucina alle sue
spalle: lì in bella vista, un vasetto vuoto di sugo
già pronto.
«Uhm»,
mugugnò Sherlock, abbassando gli occhi. Il primo tentativo
era fallito, ma
aveva ancora un asso nella manica.
«Ho
dato da mangiare al tuo gatto, a… Mi dimentico sempre il suo
nome».
«Toby.
Si chiama Toby».
«Toby,
certo».
La
fissò speranzoso, in attesa che lo ringraziasse e che
smettesse di ignorarlo,
ma Molly non lo degnò nemmeno di uno sguardo mentre gli
diceva in tono piatto: «Pensavo
l’avessi scambiata per una scatoletta di tonno normale e che
l’avessi mangiata
tu, sai? Beh, sei stato gentile allora».
«Davvero?
Tutto qui?», sbottò, infastidito.
Molly
alzò il capo, guardandolo con finta aria sorpresa.
«Come, scusa?».
«Sei
arrabbiata con me».
«No,
ti sbagli».
«No,
non mi sbaglio».
Molly
lasciò cadere la forchetta nel piatto ed incrociò
le braccia al petto,
guardandolo negli occhi con aria di sfida.
«Ti sto imitando, Sherlock».
Il
detective sbatté rapidamente le palpebre, cercando di
focalizzare il punto che
evidentemente si era perso.
«Tu mi stai cosa?».
«Non
hai limiti, non ti interessi delle opinioni degli altri e soprattutto
hai
sempre in mente mossa e contromossa», gli spiegò,
contando sulle dita di una
mano. «Io ti sto imitando, Sherlock, perché la mia
mossa ora è quella di
chiederti il motivo per cui sei qui da ieri sera, la tua è
il silenzio, o la
menzogna, e la mia contromossa è quella di andarmene senza
farti alcuna domanda».
Si
alzò facendo strisciare rumorosamente i piedini della sedia
sul pavimento e
lasciò Sherlock da solo in cucina, di fronte al suo piatto
di pasta mezzo
pieno.
Poco
dopo il detective la sentì tornare e si alzò,
chiedendosi se avesse cambiato
idea, ma ciò che vide fu il triste epilogo della loro
discussione: si era
cambiata, quindi voleva uscire.
Molly
si diresse spedita verso l’attaccapanni e si
infilò il cappotto. Mentre si
sistemava la sciarpa intorno al collo, Sherlock le chiese dove volesse
andare
da sola a quell’ora.
«Non
è affar tuo», rispose concisa e una volta
afferrata la borsa uscì
dall’appartamento, sbattendosi rumorosamente la porta alle
spalle.
***
Molly
sapeva benissimo di essere stata dura con lui, forse un po’
troppo, tanto da
risultare patetica, ma non aveva visto altre alternative. E poi era
davvero
arrabbiata con lui. Non come quando John l’aveva portato al
Bart’s ed
analizzando un campione delle sue urine lo aveva trovato ben
poco pulito, ma quasi.
Il
suo recente comportamento le era incomprensibile e lui, come sempre,
non
sembrava minimamente intenzionato a dare spiegazioni.
“Spiegazione”
era un’altra parola dal significato contorto stando al
dizionario di Sherlock:
non aveva una definizione vera e propria, era più che altro
un sinonimo di
“perdita di tempo”, “scarso utilizzo
delle capacità intellettive” e
“inutilità”.
Sherlock
doveva imparare ad essere chiaro con lei, a chiedere ciò di
cui aveva bisogno
senza pretendere che lei lo capisse leggendogli la mente.
Perché era vero, a
volte non c’era bisogno che lui parlasse perché
lei afferrasse ogni suo più
piccolo pensiero, ma… a volte.
Sherlock
si era in qualche modo abituato a quelle volte e quando gli faceva
comodo –
quando non lo trovava fastidioso – ci faceva pieno
affidamento, senza rendersi
conto di chiederle l’impossibile.
Di
fronte ad un bicchiere aveva pensato molto a cosa fare una volta
tornata a casa
– sempre se Sherlock fosse stato ancora là
– ma lei non era affatto tagliata
per la pianificazione di mosse e contromosse. Lei era emotiva,
sensibile, e la
maggior parte del tempo agiva d’istinto, seguendo
ciò che le diceva il cuore.
Quindi aveva deciso di essere se stessa: sarebbe successo quello che
sarebbe
successo e il sole sarebbe sorto comunque.
Girò
piano le chiavi nella toppa ed entrò
nell’appartamento di soppiatto, trovandolo
immerso nel buio e nel silenzio. Chiuse con due mandate e mise anche il
chiavistello, poi si spogliò e in punta di piedi si diresse
verso la sua
camera. Sporgendosi all’interno, scorse Sherlock steso sotto
le coperte, con le
braccia sotto al cuscino e i ricci ancora un po’ umidi che
gli ombreggiavano il
viso.
Molly
si lasciò andare ad un sospiro e senza far rumore socchiuse
la porta. Aveva
vinto lui, anche quella notte.
Andò
in cucina per prepararsi un tè e fu con sorpresa che
notò che Sherlock aveva
sparecchiato e aveva persino lavato i piatti. Sul tavolo inoltre
c’era un
bigliettino scritto di suo pugno.
Una
sola parola, un semplice «Scusa» che fu in grado di
farle affiorare un
minuscolo sorriso alle labbra.
«Questo
è giocare sporco, Sherlock Holmes».
Ma
con lei come avversaria avrebbe vinto in qualsiasi modo, sempre.
|
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Capitolo 3 *** Night #3 ***
Buon
pomeriggio!
Sperando
che voi vi sentiate più tranquilli e meno nervosetti di me
oggi (è stata una
giornata difficile) vi lascio questo terzo capitolo, incrociando come
sempre le
dita ;)
Un
grazie enorme a chi ha recensito lo scorso capitolo e anche a chi ha
letto
soltanto, lots and lots of love.
A
settimana prossima, buona lettura!
_Pulse_
_____________________________________________________
3.
Night
#3
Molly
si stiracchiò per bene, allungandosi nel letto e godendo del
ritrovato spazio
personale. Allo stesso tempo però rimpianse il calore che
aveva provato quando
si era risvegliata tra le braccia di Sherlock, il senso di sicurezza e
protezione che aveva perso non appena era sgattaiolata via, in preda al
panico.
Se
ci ripensava andava ancora in panico, ma odiava anche se stessa per non
aver
goduto fino infondo di quell’unico, irripetibile e
sbagliatissimo momento.
Si
alzò dopo aver fatto scivolare una mano sul morbido pelo di
Toby e fece una
capatina in bagno, trovandolo libero. Quindi si avvolse nella propria
vestaglia
rosa e cercò di dare un ordine almeno apparente ai capelli
legandoli in uno
chignon alto.
Aveva
il turno serale al St Bartholomew’s Hospital,
perciò aveva la mattinata libera
per svolgere qualche commissione. Sempre se Sherlock non avesse avuto
bisogno
di lei.
No,
diamine, ho una vita
personale anch’io!
pensò e più determinata di prima fece un elenco
mentale di ciò che avrebbe
potuto fare: c’erano delle bollette da pagare,
c’era da prenotare la visita di
routine dal veterinario di Toby e poi non le sarebbe dispiaciuto fare
un po’ di
shopping. Era da troppo tempo che non pensava un po’ a se
stessa e voleva
comprarsi qualcosa di carino.
Nel
frattempo aveva riempito il bollitore e aveva messo un paio di
tovagliette sul
tavolo, chiedendosi se Sherlock volesse fare colazione.
La
notte le aveva fatto abbassare l’ascia di guerra e si sentiva
più bendisposta
nei suoi confronti, nonostante non fosse proprio contenta del suo
quasi-trasferimento nel suo appartamento. Se solo avesse parlato con
lei, se
solo le avesse spiegato che cosa lo stava tenendo lontano da Baker
Street…
Molly
trovò il bigliettino di scuse di Sherlock sul ripiano della
cucina, lì dove lo
aveva lasciato la sera prima, e con esso nella tasca della vestaglia si
diresse
verso la propria stanza da letto.
«Sherlock?»,
lo chiamò, picchiando lievemente le nocche contro la porta.
«Sei sveglio?».
Attese qualche secondo e non ottenendo alcuna risposta aggiunse:
«Sto
preparando il tè. Ne vuoi una tazza?».
Che
si sia offeso per il
mio comportamento di ieri sera? si
domandò, perplessa.
Sherlock
non l’avrebbe mai ammesso, ma era un tipo piuttosto
permaloso.
Scartò
quell’idea non appena le sue dita si strinsero inconsciamente
intorno al suo
bigliettino e si disse che probabilmente era abituato a svegliarsi
molto tardi,
tutto qui.
Molly
fece colazione con calma e sistemò un po’ del
disordine che il detective si
portava sempre dietro, ovunque andasse, quindi si preparò
per uscire.
Probabilmente
per lui non avrebbe fatto alcuna differenza, forse l’avrebbe
addirittura
infastidito se l’avesse svegliato solo per dirgli che usciva,
ma le sembrava la
cosa più giusta da fare.
Bussò
di nuovo e di nuovo ciò che sentì fu solo
silenzio, così si azzardò ad aprire
la porta e a sbirciare all’interno.
Sherlock
non c’era.
***
Mycroft
accennò un sorriso vittorioso quando si accorse del fratello
minore, seduto
sulla poltrona che dava le spalle alla porta del suo salottino privato
al
Diogenes Club.
«Sapevo
saresti venuto», esclamò sedendosi sulla poltrona
di fronte e piegando il
quotidiano sul tavolino di cristallo.
Sherlock
si passò due dita sulla tempia sinistra con aria annoiata.
«Davvero?».
«Lo
sai che non ho il tempo utile ad aspettarti. Sei sempre stato lento, Sherlock».
Il
detective serrò la mascella e respirò
profondamente per cacciare dalla mente i
ventitré modi in cui si sarebbe divertito a tappare la bocca
a Mycroft.
«Novità?»,
gli domandò.
«Nessuna».
«Siete
davvero così incapaci, tu, i tuoi servizi segreti e tutti
gli altri tuoi più o
meno leciti contatti?!».
Mycroft
intrecciò le mani di fronte alla bocca, a nascondere
l’ennesimo sorriso, e con
tono vellutato replicò: «Come se tu avessi fatto
progressi».
Quella
frase fu in grado di ammutolire Sherlock, il quale strinse i pugni sui
braccioli della poltrona e chinò il capo.
Il
maggiore degli Holmes si alzò e fece qualche passo
silenzioso sul pavimento
ricoperto di morbidi e pregiatissimi tappeti persiani.
«Non
siamo ancora riusciti a risalire all’identità
dell’hacker che ha trasmesso
quelle immagini su ogni schermo di Londra. È bravo,
più bravo di qualsiasi
altro affiliato di Moriarty».
Sherlock
chiuse gli occhi quando quel nome raggiunse le sue orecchie, ma il suo
cuore
aveva già aumentato le pulsazioni e i normali livelli di
sudorazione erano già
stati alterati.
«Mi
chiedo quanti siano riusciti a scampare alla nostra “caccia
alle streghe”. Ma
una cosa è certa: d’ora in poi non possiamo
lasciare nulla al caso. Ho bisogno
che tu sia nel pieno delle tue facoltà».
«Io
sono nel pieno delle mie
–».
«Hai
dormito per due notti di fila a casa della signorina Hooper»,
lo interruppe e
gli rivolse un’occhiata gelida. «Sorpreso? No,
certo che no. Sai benissimo che
ho alzato al massimo il livello di sorveglianza. E non solo io, dopo
quello che
è successo con Magnussen».
«Smettila».
«Spiegami
che cos’hai in mente e allora forse – forse
– la smetterò. Non c’è
bisogno che io ti dica che la signorina Hooper è
diventata un obiettivo ad alto rischio. Quindi per quale motivo non fai
altro
che peggiorare le cose?».
Sherlock
si portò gli indici alle labbra e stese le gambe fino ad
allora rimaste
elegantemente accavallate. «Non capiresti».
«Potrei
almeno provarci!»,
urlò, furibondo.
Il
consulente investigativo si alzò e lo raggiunse. Faccia a
faccia, sussurrò
soltanto una parola: «Redbeard».
Mycroft
inarcò un sopracciglio e Sherlock non poté
impedire ad un sorriso triste di
spaccargli le labbra.
«Aspetto
quelle novità», aggiunse poco prima di chiudersi
la porta alle spalle e di
lasciare il fratello maggiore da solo in quella grande stanza
silenziosa, dove
avrebbe intrattenuto una lunga conversazione con i propri pensieri per
giungere
infine all’unica conclusione possibile.
***
Molly
salì sulla carrozza e per sedersi ebbe l’imbarazzo
della scelta, visto che a
quell’ora poche persone prendevano la metropolitana. Scelse
un posto vicino
alle porte e destino volle che qualcuno si fosse dimenticato, sul
sedile
accanto, l’ultimo numero di una famosa rivista di gossip. In
copertina c’era
Janine, l’ormai famosa Janine: la damigella d’onore
di Mary Watson,
l’ex-fidanzata di Sherlock.
Quando
aveva venduto i primi racconti piccanti sulla loro relazione, Molly ne
era
rimasta scioccata – come tutti – ma non ne aveva
fatto parola con nessuno. Era stato
John, quando per caso si erano incontrati al supermercato, ad aprire
l’argomento e a chiuderlo, raccontandole a grandi linee
ciò che era successo
tra loro e perché.
Sì, perché
Sherlock Holmes non faceva mai nulla senza un motivo ben preciso e per
iniziare
una relazione con una ragazza vera, per spingersi anche a qualche notte
di
sesso, doveva aver avuto uno scopo molto ambizioso, uno scopo che alla
fin dei
conti aveva raggiunto con successo (escludendo la pallottola che i
chirurghi
gli avevano gentilmente rimosso dal corpo).
Anche
Mary, qualche settimana più tardi, le aveva spiegato che
Janine aveva
ingigantito tutto in modo da rendere le sue rivelazioni il
più appetibili e
fruttuose possibile. Si era dimostrata un’abile imprenditrice
e soprattutto una
perfetta bugiarda, guadagnandosi un gruzzolo che da quanto aveva capito
aveva
investito in un cottage nel Sussex o giù di lì.
Tutti,
ora che ci pensava, si erano dati un gran daffare per rassicurarla e
migliorare
la situazione di Sherlock. Come se lei potesse davvero aver sofferto
per tutto
ciò che era stato scritto su loro due! Certo che aveva
sofferto, ma mai come
quando i tabloid avevano fatto a gara per pubblicare le peggiori storie
sul
“falso genio” morto suicida.
Aveva
quasi dato per scontato che a quell’ora avrebbe trovato
Sherlock, in vestaglia,
intento ad esaminare tutti i libri della sua libreria e a riordinarli
nel modo
secondo lui più logico, e questo la fece preoccupare: aveva
dormito da lei per
due sere soltanto – che le erano sembrate eterne, quello
sì – e ne sentiva già
la mancanza? No, non poteva permetterlo. Era ora di riprendere in mano
le
redini della sua vita, senza più coinquilini inattesi e
sconvenienti; ora di
dimenticare Sherlock per l’ennesima volta.
Iniziava
a chiedersi seriamente se ogni suo tipo di sforzo fosse così
inutile. Non solo
perché ogni volta che si metteva d’impegno per
voltare pagina lui ricompariva
sulla sua strada per chiederle aiuto, ma soprattutto perché
ogni volta che incrociava
i suoi occhi o scorgeva un minuscolo sorriso sulle sue labbra tutti i
suoi
muri, così faticosamente innalzati, crollavano come un
castello di sabbia di
fronte ad un’onda, e i sentimenti che provava per lui si
dimostravano più forti
e vivi di prima.
Molly
si passò le mani tra i capelli e capì che
ciò di cui aveva bisogno per
rilassarsi e cacciare via quei pensieri era un bel bagno caldo e pieno
di
schiuma.
***
Quel
giorno non era stato particolarmente produttivo, eccezion fatta per la
chiave
dell’appartamento di Molly che era riuscito a farsi fare.
Ne
aveva preso il calco molto tempo prima, giusto per prevenzione, e quel
pomeriggio, prima di passare da Mycroft, era andato a far visita al suo
fabbro
di fiducia.
Essendo
nuova ci sarebbero voluti un paio di utilizzi prima che funzionasse
alla
perfezione, perciò Sherlock decise di testarla subito: la
infilò nella toppa e la
girò lentamente, senza far rumore.
Aprì
la porta, ma l’esaltazione venne subito spazzata via dal
disappunto che provò
trovando quel maledetto chiavistello di nuovo agganciato.
Sbuffò
spazientito e richiuse la porta, poi corse giù per le scale.
Sherlock
spinse leggermente in avanti la porta della camera da letto di Molly,
quel
tanto che bastava per sbirciare all’interno, e vide
l’anatomo patologa già
addormentata, accoccolata sotto alle coperte.
Entrò
in punta di piedi e sotto la luce della luna si spogliò, poi
sollevò un angolo
delle coperte e scivolò accanto a lei.
Ci
volle un po’ perché trovasse il coraggio di
abbracciarla come aveva fatto la
mattina prima, ma una volta trovato si pentì di non averlo
fatto prima: Molly
aveva fatto il bagno e aveva i capelli ancora un po’ umidi,
era calda e
profumava in una maniera incredibile. Si lasciò sfuggire
anche un mugolio di
piacere, col naso che le sfiorava la nuca, e fu allora che si accorse
della
rigidità del suo corpo: Molly era sveglia.
«Sherlock?»,
balbettò infatti poco dopo, e il detective la
lasciò subito andare, trovandosi
tremendamente a disagio a causa di quel suo attimo di debolezza.
Molly
si tirò su a sedere ed accese l’abat-jour sul
comodino. Con le spalle
appoggiate contro la testata del letto, lo fissò con
un’espressione
disorientata e lievemente intimorita.
«Ti
prego, spiegami che cosa sta succedendo», lo
supplicò.
Sherlock
strinse le labbra e guardò il soffitto assottigliando gli
occhi.
Non
sentiva la necessità di dormire con qualcuno da quando,
all’età di otto anni,
si era rifugiato nel letto di suo fratello Mycroft a causa di un incubo
e si
era ritrovato culo a terra dopo nemmeno dieci secondi.
Ora
invece non riusciva a chiudere occhio o, almeno, non riusciva a
riposare
decentemente se non stava vicino a lei. Il suo profumo non gli bastava
più. La
notte prima, infatti, quando Molly aveva deciso di dormire nella stanza
degli
ospiti, si era svegliato ripetutamente, scosso dai soliti incubi.
«Gli
incubi», mormorò, portandosi i palmi delle mani
sugli occhi.
Ne
soffriva da un po’, precisamente da quando Mary gli aveva
sparato.
Viveva
e riviveva quel momento terribile e poi quello ancora più
terribile, quando aveva
rischiato di dissanguarsi, di non reggere lo shock e di morire per il
dolore,
quando gli unici appigli che era riuscito a trovare erano stati proprio
Molly e
Redbeard: loro due, nel suo Palazzo Mentale, gli avevano dato la forza
per non
cedere a nessuna delle tre cose che avrebbero potuto ucciderlo
nell’immediato.
Poi
era entrato in scena Moriarty. In un angolo della sua mente, il suo
ricordo era
ancora vivido e spaventoso, e da quando quelle immagini avevano invaso
la sua
Londra ne era terrorizzato.
Dolore
e paura, le due cose che aveva sempre cercato di fuggire in ogni modo
possibile, lo tormentavano ogni volta che chiudeva gli occhi.
***
«Quali
incubi?».
Molly
notò le sue labbra muoversi in silenzio, pronunciare nomi e
frasi che non
riuscì ad afferrare.
«Sherlock?».
Preoccupata, si sporse su di lui e gli prese il viso tra le mani,
accarezzandogli delicatamente gli zigomi. «Sherlock,
guardami!».
Il
detective aprì di scatto gli occhi azzurri e trasse un
respiro profondo, come
se fosse stato in apnea fino ad allora. La guardò stordito
per qualche secondo,
poi si riscosse e si alzò rapidamente dal letto per correre
fuori dalla stanza
afferrando al volo la propria vestaglia.
Molly
sentì distintamente la porta della camera degli ospiti
sbattere e sospirò,
sistemandosi i capelli dietro le orecchie. L’ennesima notte
agitata.
E
come in ogni situazione senza soluzioni evidenti, quello che ci voleva
era un
tè bollente.
Bussò
alla porta tenendo
il vassoio in equilibrio su una sola mano ed
attese quella che le sembrò
un’eternità, poi entrò.
Trovò Sherlock seduto al centro del letto, in una
posizione che avrebbe definito “meditativa”.
«Volevo
preparare del tè, ma poi ho pensato che sarebbe stata
più utile la camomilla.
Meglio evitare la caffeina, uhm?».
Si
sedette di fronte a lui e gli prese una mano abbandonata sul ginocchio
per
consegnargli una delle due tazze.
«Bevi,
Sherlock».
«Non
voglio parlare», rispose aprendo un solo occhio per esaminare
il liquido nella
tazza di ceramica.
Molly
accennò una risata. «Per questo ho detto bevi.
È già zuccherata».
Il
detective le rivolse un’occhiata guardinga, poi si
portò la tazza alle labbra e
bevve un sorso di camomilla. L’anatomo patologa fece la
stessa cosa.
«È
buona», disse Sherlock, rompendo quel silenzio imbarazzante.
«Le
bustine le ho comprate. L’acqua l’ho fatta bollire
io però».
Riuscì
a strappargli un sorriso e Molly ne fu così felice che
sentì il cuore
diventarle più grande nel petto.
«Io
ti do’ fastidio, Molly?», le chiese qualche altro
sorso dopo, concentrandosi
sulle espressioni che le passarono sul volto una dietro
l’altra: prima
sorpresa, poi un po’ titubante e infine dolce.
«Ogni
tanto. Ma puoi stare qui per tutto il tempo che vuoi, dico sul
serio».
Sherlock
attese, perché aveva capito subito che avrebbe voluto
aggiungere qualcosa. E
infatti…
«A
patto che tu non faccia troppo disordine. E il mio frigorifero
è off-limits per
tutto ciò che non è commestibile da esseri
umani… non cannibali».
«Altro?»,
chiese, sollevando un sopracciglio.
Molly
ci pensò su un attimo e nel frattempo gli prese la tazza
vuota dalle mani.
«Se
dovessi incontrare dei clienti, la caffetteria qui all’angolo
è perfetta».
Sherlock
annuì e l’anatomo patologa sorrise, soddisfatta di
quel minimo di autorità che
era riuscita a dimostrare.
«Ti
dispiacerebbe se ti chiedessi io una cosa?», le chiese con
quel tono che non
ammetteva repliche: gliel’avrebbe chiesta e basta.
«Potresti evitare di mettere
il chiavistello alla porta? Qualcuno potrebbe fotografarmi mentre entro
dalla
finestra come un ladro e credimi, non ti piacerebbe».
Molly
sorrise e rispose in modo affermativo con un leggero cenno del capo.
Solo
successivamente si rese conto che se il chiavistello era il suo unico
problema
doveva già essersi procurato in qualche modo una copia delle
sue chiavi. Lasciò
correre, ma una volta sulla porta, dopo aver spento la luce, si
fermò un attimo
a fissarlo, già interamente nascosto sotto le coperte.
«Cosa?»,
le domandò Sherlock all’improvviso, come se le
avesse appena letto nel
pensiero.
«Prima
o poi mi dovrai spiegare tutto. Devi promettermelo».
«Promesso».
«Dici
sul serio?».
Il
detective emerse dal suo nascondiglio con la testa ed annuì.
«Perfetto.
Buonanotte, Sherlock».
«‘Notte,
Molly Hooper», mugugnò.
Se
n’era già andata, quando aggiunse a voce ancora
più bassa: «E grazie».
|
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Capitolo 4 *** Night #6 ***
Buongiorno
a tutti! :)
Prima
di lasciarvi leggere, le solite poche parole di ringraziamento a chi ha
letto e
commentato lo scorso capitolo: vorrei potervi abbracciare tutti :D
Spero
che questo nuovo capitolo non deluda le aspettative e ci rivediamo la
settimana
prossima.
Buona
lettura!
_Pulse_
_________________________________________________________________
4.
Night
#6
«E
così Sherlock si è trasferito nel tuo
appartamento».
Quella
era la prima frase che aveva sentito uscire dalla bocca di tutti negli
ultimi
tre giorni, ovvero da quando John l’aveva scoperto e,
scandalizzato, l’aveva
raccontato a tutti i loro amici, compreso Greg, il quale ora la stava
fissando
in attesa di una qualsiasi risposta.
Molly
si tolse gli occhiali protettivi e ricambiò lo sguardo,
più seria che mai. «È una
sistemazione momentanea».
«Uhm.
E com’è?».
«Cosa?».
«Vivere
con lui». L’ispettore Lestrade inarcò le
sopracciglia. «Persino John non
riusciva a sopportarlo, a volte».
«Ognuno
ha i propri spazi», replicò distrattamente,
sollevando le spalle.
Era
una bugia bella e buona, ovviamente: Sherlock era riuscito ad invadere
ogni
angolo del suo appartamento – persino il cassetto della sua
biancheria intima –
e Molly doveva prestare sempre attenzione a non spostare le cose che
lui
lasciava in giro, se non voleva passare dieci minuti buoni a sentire i
suoi
borbottii di disappunto su quanto fosse controproducente minare i
“sistemi
d’ordine” altrui.
«Sei
sicura che non sia…».
«Non
dovete preoccuparvi, davvero, riesco a gestirlo. Quasi
sempre».
Greg
sospirò e terminò la frase:
«Pericoloso?».
Non
ci aveva mai pensato. Aveva preferito non pensarci, evitare del tutto
la
questione, ma non sapeva per quanto tempo Sherlock avesse intenzione di
restare
a casa sua e quello non era un argomento che poteva evitare ancora a
lungo.
Fino ad allora non era ancora successo nulla di troppo strano o
pericoloso e
Sherlock aveva persino mantenuto la parola, incontrando i clienti a
casa loro
anziché invitarli nel suo salotto, ma nulla le assicurava
che sarebbe sempre
stato così.
Molly
sollevò gli occhi sull’ispettore di Scotland Yard,
il quale scrollò lievemente
le spalle, evitando di guardarla negli occhi.
«Suo
fratello mi ha chiesto di provare a farti cambiare idea».
«Suo
fratello? Cambiare idea?».
«Sì,
Mycroft Holmes. Teme per la tua incolumità, Molly. E se lui
è preoccupato, lui che
ha lo stesso sangue di Sherlock, puoi benissimo immaginare quanto
possiamo
esserlo noi».
«A
chi altro l’ha chiesto?».
Un’altra
scrollata di spalle. «A Mary, a John, alla signora
Hudson…».
«Okay,
basta», mormorò, posando le mani strette nei
guanti in lattice sulle provette
che doveva esaminare. «Grazie dell’avvertimento,
Greg».
«Molly…».
«Non
caccerò Sherlock», disse con decisione.
«Mi ha fatto una promessa e fino a
quando non la manterrà, non gli chiederò di
andarsene».
«Ma
–».
«Ho
del lavoro da sbrigare, se non ti dispiace».
L’ispettore
respirò profondamente ed uscì dal laboratorio
senza aggiungere altro.
L’anatomo
patologa, nonostante avesse davvero del lavoro da sbrigare, non
poté fare a
meno di abbandonarsi alla sedia di fronte al computer, scossa dai
brividi.
Col
cuore in gola aprì il proprio blog, abbandonato ormai da
più di due anni, e
lesse il primo ed unico commento al suo ultimo post: «Ti sono
mancato?».
***
«Hai
preso tutto quello che ti ho chiesto?».
Era
la seconda volta che mandava Billy al 221B di Baker Street
perché gli
recuperasse alcune cose e sperava che almeno quella volta non avesse
dimenticato nulla.
Il
ragazzo gli consegnò la borsa che aveva preparato e Sherlock
la posò sul tavolo
della cucina per esaminarne il contenuto: un paio di libri, altri
strumenti per
le sue analisi casalinghe, vestiti, la sua scorta di cerotti alla
nicotina e
soprattutto la sua vestaglia blu. C’era tutto.
«Ottimo
lavoro, Billy», disse e quando si voltò lo
trovò in piedi di fronte alla
libreria di Molly, col suo gatto tra le braccia.
«Davvero
un bel posticino», esclamò il ragazzo, impegnato a
sfiorare le coste dei libri
con un dito, almeno fino a quando il suo sguardo non
incrociò quello cavo del
teschio che da sempre aveva vegliato su Sherlock e John da sopra il
caminetto
nel loro salotto.
«Lascia
andare Toby, non gli piace essere toccato dagli estranei».
Bill
abbassò gli occhi sul micio e trovandolo tranquillo decise
di ignorare le
parole di Sherlock.
«È della tua ragazza? L’appartamento,
intendo».
«Credo
proprio che tu debba andare, adesso».
«Ho
ragione, allora. È proprio un nido
d’amore…».
Sherlock
lo prese per la camicia e lo trascinò fino
all’ingresso. «Ti scriverò se
avrò
bisogno ancora di te».
«Okay,
Shezza».
«Oh
per l’amor del cielo, smettila di chiamarmi in quel
modo!», urlò sbattendogli
la porta in faccia.
Si
sistemò la giacca scura ed abbassando gli occhi
incontrò quelli rifrangenti di
Toby. Provò ad avvicinarsi per accarezzarlo tra le orecchie,
ma il gatto corse
via più veloce della luce.
Irritato,
Sherlock gli gridò dietro: «Nemmeno tu mi
piaci!».
«Con
chi stai parlando?».
Il
detective si voltò, preso alla sprovvista, e John gli
sorrise, chiudendosi la
porta alle spalle.
«Ho
incontrato Bill di fronte al portone. Che ci faceva qui?».
«Mi
ha portato alcune cose. Tu come mai sei qui?».
«Ci
ho pensato molto e credo che tuo fratello questa volta abbia davvero
ragione».
Sherlock
roteò gli occhi, annoiato. «Potrebbe fare qualcosa
di davvero utile, invece di
infastidire tutti quanti?».
«Ti
rendi conto di quanto il tuo comportamento sia da irresponsabile?
Davvero non
ti importa nulla di ciò che potrebbe succedere a
Molly?».
«È
ciò che mi importa di
più, al momento»,
lo corresse, guardandolo severamente.
John,
ancora in piedi accanto alla poltrona, boccheggiò per
qualche secondo, cercando
di trovare le parole giuste per descrivere quella situazione surreale.
«Quindi
tu… tu ti sei trasferito nel suo appartamento per tenerla
d’occhio?», gli
chiese alla fine.
«Lei
avrebbe frainteso, se le avessi chiesto di trasferirsi a Baker Street.
Quali
altri motivi avrei potuto avere?».
Il
dottor Watson si strinse nelle spalle, decidendo finalmente di sedersi
all’altro
capo del divano bianco, dove Sherlock si era accomodato già
da un pezzo con il
suo violino.
«Ne
avrei un paio».
Sherlock
pizzicò una corda. «Se ritieni necessario che io
li prenda in considerazione…».
Con
un sorriso amareggiato sulle labbra, John iniziò ad
elencare: «Perché ti
sentivi solo. Perché avevi bisogno di qualcuno che ti
aspettasse alzato fino a
tardi e che si preoccupasse per te. Qualcuno per cui valesse ancora la
pena
avere dei limiti, delle regole, e anche dell’amor
proprio».
Con
le dita premute con forza sulle corde del violino, il detective si
sforzò di
non mostrarsi impressionato dalle parole dell’amico. Non
c’era bisogno di
celare la sorpresa, perché non lo era affatto: John riusciva
a capirlo più di
chiunque altro al mondo, anche più di se stesso.
Gli
rivolse un piccolo sorriso. «Grazie per l’impegno
che ci hai messo».
John
sospirò, abbandonando il capo sul petto.
«Sherlock…».
«Come
sta Mary?».
E
con quella domanda l’argomento fu chiuso.
***
Ho
finito i biscotti.
SH
Molly
lesse l’sms, poi infilò il cellulare nella
tasca dell’accappatoio e continuò a spalmarsi la
crema di bellezza sul viso.
Bip
bip.
La
ragazza sospirò e senza nemmeno prendere in
mano il telefono aprì la porta del bagno e, per farsi
sentire sopra il frastuono
del frullatore (Dio solo sapeva che tipo di esperimento stesse facendo
quella
volta), gridò: «Vai
a comprarteli da solo, Sherlock!».
Qualche
secondo dopo, l’ennesimo bip bip.
Molly, sfinita, aprì il
messaggio che le aveva appena inviato in risposta:
Impegnato.
Io
sto per mettermi due fette di cetriolo sugli occhi.
Non
le avrebbe mai messe sul serio, ma era una bella immagine, molto da
film.
Molly
si sedette sul bordo della vasca da bagno e mentre aspettava che la
crema
facesse il proprio effetto si portò avanti infilandosi le
collant nere.
Capì
che c’era qualcosa che non andava non appena si accorse che
il frullatore aveva
smesso di funzionare e che Sherlock non le aveva più inviato
sms. Inoltre,
c’era una fastidiosa corrente d’aria fredda che le
lambiva i polpacci…
«Molly
Hooper».
***
Il
detective dovette sfruttare ogni briciolo di autocontrollo per non
soffermarsi
troppo sull’incavo tra i seni che si intravedeva sotto
l’accappatoio o sulle
sue gambe nude e avvolte per metà dalle collant.
Si
concentrò allora sul suo viso, ricoperto quasi interamente
da una crema verde
acido, ma era certo di aver già visto e memorizzato
abbastanza dettagli, fin
troppi, capaci di distrarlo in modo alquanto pericoloso da pensieri ben
più
importanti.
Si
schiarì la voce e come se non avesse già capito
tutto le chiese: «Che cosa stai
facendo?».
«Ho
un appuntamento, questa sera».
«Ma
in quell’ospedale curate anche le persone, ogni tanto, o
siete tutti troppo
impegnati a darvi appuntamenti a vicenda?».
Molly
sbuffò trattenendo un sorriso divertito. Poi
corrugò la fronte, domandando: «Come
fai a sapere che lavora all’ospedale?».
«A
meno che tu non sia così disperata da accettare di uscire
con uno sconosciuto
incontrato sulla metropolitana oppure al supermercato, non ci sono
altri luoghi
in cui avresti potuto fare delle nuove conoscenze».
Molly
sorvolò sulla parola “disperata” e
cercò di portare il discorso su qualcosa di
più frivolo, sperando di irritarlo tanto da costringerlo a
ritornare al suo
esperimento.
«Ho
letto un paio di libri dove i protagonisti si incontravano proprio in
metropolitana
e al supermercato. Amore a prima vista».
«Sciocchezze»,
replicò Sherlock, sventolando una mano come a voler cacciare
una mosca
fastidiosa.
Molly
gli gettò un’occhiata intensa. «Non
credi che esista l’amore a prima vista? Finalmente
qualcosa su cui hai torto».
Sherlock
notò qualcosa di diverso nel luccichio dei suoi occhi
– una specie di rabbia, di
frustrazione – e aprì la bocca per chiederle dove
volesse andare a parare, ma
non ce ne fu più bisogno perché il suo cervello
aveva già elaborato una teoria:
lei ci credeva, all’amore a prima vista, perché
l’aveva sperimentato in prima
persona; la sua rabbia indicava che ne avrebbe fatto volentieri a meno
e questo
lo portava alla conclusione che le era capitato con un uomo che
l’aveva delusa,
che non l’aveva mai ricambiata o con cui pensava sarebbe
stato solo tutto tempo
perso.
Sherlock
arricciò il naso, posando gli occhi di nuovo in quelli di
Molly, e la sua
rabbia si trasformò in un nome: Sherlock Holmes. Era lui
l’uomo in questione e
per quanto poco gli facesse piacere, non poteva negarlo: era
l’unica
spiegazione possibile, tenendo conto di tutti i fatti.
«Lo
conosco?», le chiese dopo qualche istante di silenzio.
Molly
si alzò dalla vasca da bagno, dandogli le spalle, per finire
di infilarsi le
calze. «No. È stato trasferito al Bart’s
solo un paio di settimane fa».
«Credo
che tu debba annullare l’appuntamento, allora».
«Cosa?»,
domandò con tono gelido, voltando la testa di tre quarti
verso di lui. «Dimmi,
ti prego, che ho sentito male».
Sherlock
incrociò le braccia al petto, sospirando annoiato.
«Considerando i tuoi ultimi
fallimenti, ritengo opportuno che qualcuno interceda per te in maniera
preventiva».
Molly
fece un nodo più stretto alla cintura
dell’accappatoio, dopodiché gli andò
incontro con così tanta foga che il detective
arretrò d’istinto, permettendole
di sbattergli più facilmente la porta in faccia.
***
Assurdo.
Inaccettabile. Fuori da ogni logica.
Molly
stava cercando di definire l’imposizione che Sherlock aveva
tentato di
rifilarle e non riusciva a venirne a capo.
O aveva ripreso con la droga e
questa volta era sulla via del non ritorno, tanto da iniziare ad
ammattire,
oppure celava qualche altra ben più sensata ragione,
qualcosa che lì per lì,
accecata dall’ira, non riusciva a cogliere.
In
ogni caso, niente e nessuno le avrebbe impedito di uscire quella sera.
Aveva
davvero bisogno di allontanarsi da quell’appartamento, da
Sherlock, da tutto
quanto. Voleva bere qualche drink in compagnia e non pensare alla sua
vita
sempre più incasinata.
Aveva
quasi finito di truccarsi e ogni tanto si concedeva un respiro
profondo, con la
speranza di buttare fuori tutto il nervosismo che aveva accumulato, ma
non
sembrava funzionare. Anzi, capitava spesso che invece dicesse delle
imprecazioni tra i denti.
«Nemmeno
mio padre aveva diritto di parola sui ragazzi con cui
uscivo!», borbottò,
controllandosi allo specchio i capelli che le cadevano sulla schiena in
morbidi
boccoli.
Quando
si sentì pronta, uscì dal bagno e si diresse in
camera da letto, dove scelse la
borsa adatta e si infilò i tacchi. Prima di attraversare il
salotto socchiuse
gli occhi per raccogliere tutta la calma di cui di solito disponeva
– dosi
extra comprese se aveva a che fare con Sherlock Holmes.
A
testa alta lanciò la borsa sul divano e passò di
fronte alla porta della cucina
per andare a recuperare le chiavi di casa.
Non
aveva mai avuto l’intenzione di fermarsi – il suo
piano era quello di
dimostrarsi così arrabbiata con lui da ignorarlo totalmente
– ma non poté
resistere e si fermò sulla soglia, rimanendo sbigottita di
fronte a ciò che
aveva inscenato: una cenetta romantica. Lui,
una cenetta romantica!
Aveva
preparato la tavola, mettendo i piatti e addirittura due tipi di
bicchieri
diversi; al centro aveva sistemato un vecchio candelabro che Molly
aveva
iniziato ad usare come stendino per gli stracci e chissà
dove aveva trovato quelle
tre candele rosa, tutte di lunghezze diverse, le cui fiamme gli
brillavano negli
occhi mentre li posava su di lei e la analizzava dalla testa ai piedi,
due
volte.
«Frullato
come aperitivo?», le chiese Sherlock, indicando il calice con
tanto di
cannuccia colorata che aveva posato accanto alle forchette.
«È alla banana».
Molly
strabuzzò gli occhi. «Il frullatore…
Hai usato il frullatore per fare un
frullato?».
Sherlock
corrugò la fronte. «Che cos’altro avrei
dovuto farci?».
«Ah,
non chiederlo a me», disse a mezza voce, stringendosi nelle
spalle.
Si
avvicinò al tavolo con una certa insicurezza, in parte
dovuta al suo sguardo
che spesso e volentieri indugiava sulla sue braccia lasciate scoperte
dal
tubino in stile scozzese, sui suoi fianchi e sulle sue gambe.
«Siediti»,
le disse con un tono di voce fin troppo carezzevole.
Molly
sospirò e si sedette in diagonale rispetto a lui,
gettò un’occhiata
all’orologio e non fece in tempo a dire che era in ritardo
che Sherlock le
prese la mano che aveva abbandonato sul tavolo. Quel contatto la fece
quasi
sobbalzare, quasi perché
il sospetto
prese subito il sopravvento.
«Molly…»,
mormorò, avvicinandosi lentamente al suo viso, gli occhi
fissi sulle sue labbra.
«A
parte il frullato, che cosa hai cucinato?», gli chiese
trattenendo a stento un
sorriso e rompendo l’atmosfera senza più alcuna
esitazione: aveva capito tutto.
Il
detective sbatté le palpebre un paio di volte.
«Cucinato? Io non cucino. So
farlo, è tutta una questione di tempistica e dosi, come
negli esperimenti, ma
lo sai che io non lo faccio mai».
«Appunto».
Molly ritrasse la mano, rimpiangendo per un attimo il calore di quella
di
Sherlock, e si alzò, stirandosi il vestito sulle cosce.
«Puoi aver ingannato
Janine, ma non funziona con me; io ti conosco troppo bene, Sherlock.
Non mi
convincerai ad annullare l’appuntamento, non questa
volta».
«Okay,
mi arrendo», sospirò, alzando le mani.
Molly
sorrise vittoriosa e si girò, pronta per recuperare borsa e
cappotto ed uscire.
«Aspetta
ancora un attimo», aggiunse all’improvviso.
«Che
c’è?».
Sherlock
abbassò gli occhi sul frullato e si rigirò il
bicchiere tra le dita, prendendo
tempo come se stesse cercando le parole giuste. Molly
sospirò e tornò sui propri
passi, gli tolse il bicchiere dalle mani e se lo portò alle
labbra. Bevve il
frullato alla banana tutto d’un fiato e provò a
sorridergli per non offenderlo,
ma il suo cervello non inviò abbastanza in fretta gli
impulsi giusti e Molly si
ritrovò a stringere le labbra in una smorfia.
«Dio,
è terribile», biascicò, aprendo il
frigo per tirare fuori dell’acqua con cui
sciacquarsi la bocca.
Sherlock,
ammutolito, si portò le mani di fronte alle labbra ed
iniziò a fissare il
vuoto. L’anatomo patologa, accorgendosene, gli
posò delicatamente una mano
sulla spalla e si chinò per baciargli la tempia, un gesto
che la fece avvampare
come se le avessero appena acceso una stufa alle spalle.
«Grazie
comunque per il pensiero, Sherlock. Non credevo sapessi quale fosse il
mio
frutto preferito».
Il
detective non si mosse, né rispose. Molly decise di
lasciarlo stare e si rese
conto che anche se avesse voluto fare un altro tentativo per tirarlo su
di
morale non ne avrebbe avuto il tempo necessario.
«Ci
vediamo più tardi», esclamò, correndo a
prendere il cappotto.
Già
con un piede fuori dalla porta, aggiunse frettolosamente: «Se
non hai niente da
fare guardi la puntata di Glee che
mandano questa sera? Così poi me la racconti!
Ciao!».
Di
nuovo, Sherlock non le rispose, ma quella volta perché stava
cercando di
trattenere la risata gutturale che gli squassava la schiena.
***
Nicholas
aveva solo qualche anno in più di lei, aveva i capelli
castani con delle
particolarissime sfumature bionde sotto la luce delle lampade e
lavorando come
pediatra adorava i bambini.
Non
era mai stato sposato, la sua ultima fidanzata risaliva ad un annetto
prima ed
erano rimasti buoni amici, viveva in un quartiere benestante di Londra
ed
incredibilmente gli piacevano i gatti.
Non
usciva con un uomo così perfetto da molto tempo,
così tanto che si chiedeva
quando sarebbe giunto il momento in cui avrebbe detto o fatto qualcosa
in grado
di rovinare tutto quanto.
Ma
quel momento non arrivava mai. La conversazione era così
piacevole che non
avrebbe mai smesso di parlare né di ascoltarlo: al contrario
di molti uomini,
sapeva quando essere serio e quando dire una battuta, ispirava fiducia
e
simpatia e non la metteva mai a disagio con domande troppo personali
né la
solita sfilza di complimenti studiati.
Nicholas
era un sogno e Molly sperava vivamente di non svegliarsi mai. Non
voleva
tornare a casa, non voleva trovare Sherlock in crisi
d’astinenza da casi, con i
suoi capricci e le sue frecciatine pungenti.
Ogni
tanto, doveva ammetterlo, perdeva il filo del discorso chiedendosi che
cosa
stesse facendo e soprattutto perché avesse insistito
così tanto perché non
uscisse. Gelosia? Impossibile. Probabilmente voleva soltanto avere
qualcuno con
cui fare il saputello, qualcuno che gli cucinasse la cena e che lo
ascoltasse
suonare il violino fino a quando i vicini non avessero iniziato a
lamentarsi.
In
quelle occasioni, Nicholas le schioccava le dita di fronte al viso e le
sorrideva dolcemente, chiedendole se la stesse annoiando e volesse un
altro
drink.
Ne
aveva già bevuti tre e non aveva mangiato quasi niente,
perciò ogni volta
rifiutava: non voleva che il fastidioso mal di testa che le picchiava
contro le
tempie da quando era salita sul taxi aumentasse e che Sherlock le desse
dell’ubriacona.
«Ti
dispiace se vado un attimo in bagno?», le chiese Nicholas ad
un certo punto,
indicando la toilette infondo al carinissimo locale dove
l’aveva portata per
quel late happy hour.
«No,
certo, vai pure», rispose accennando un sorriso.
Il
mal di testa stava peggiorando, nonostante tutti gli accorgimenti,
quindi fu
felice di avere un momento per sé.
Aspettò
che Nicholas fosse di spalle prima di massaggiarsi le tempie con
movimenti
circolari delle dita. Poi cercò di attirare
l’attenzione di uno dei camerieri
per chiedere un bicchiere d’acqua e non riuscendoci decise di
andare
direttamente lei al bancone. Non appena si alzò
però sentì le gambe cederle,
mentre la stanza le vorticava attorno.
Un
ragazzo in tuta e con un cappellino da baseball calato sulla fronte la
prese al
volo prima che cadesse a terra, poi con una mano le tenne la testa
sollevata e
con l’altra le esaminò le pupille, borbottando
qualcosa sui livelli di alcool
troppo elevati.
Molly
faticava a capire ciò che stava succedendo intorno a lei e
persino il
trambusto che si era creato le arrivava in maniera ovattata alle
orecchie.
Cercò di sollevarsi per non far preoccupare nessuno, in
particolare Nicholas,
ma il ragazzo chinato su di lei alzò la visiera del berretto
e due occhi
verdazzurri inconfondibili fecero saltare un battito al suo povero
cuore.
Fu
quasi un’illuminazione: una teoria confusa, con molti punti
oscuri, ma di cui
era assolutamente certa.
Strinse
forte le dita intorno al suo polso, senza preoccuparsi di graffiarlo
con le
unghie, e cercando di non farfugliare sibilò: «Sei
un bastardo».
Sherlock
sfoderò un gran sorriso e si avvolse un suo braccio intorno
al collo, mentre la
propria voce interiore – quella volta con il timbro
canzonatorio di John – lo
rimproverava dicendo: Questa tua mania di
drogare le persone non è sana, te ne rendi conto?
***
Sentì
un rumore secco alle sue spalle e voltandosi vide che una scarpa col
tacco di
Molly le era scivolata dal piede ed era caduta a terra. Incurante,
proseguì
verso la camera da letto e non accese nemmeno la luce: salì
sul materasso con
un ginocchio e posò delicatamente la ragazza sopra le
coperte, tenendole
delicatamente una mano sotto la testa.
Aveva
dovuto fare tutte e tre le rampe di scale con lei in braccio ed era
stato
faticoso, ma in una non ben definita misura gli aveva fatto piacere
sentire il
suo respiro sul collo e il suo cuore battere vicino al proprio.
Voleva
bene a Molly. Ne era anche attratto, a volte. Ma non sapeva dire con
certezza
se ciò che provava per lei fosse amore. In ogni caso, Molly
meritava il meglio.
Qualcuno che sapesse darle tutto ciò che voleva e non solo
rompicapi, disordine
e pericoli.
Qualcuno
come quel Nicholas. Un bel partito, davvero.
Gli
erano bastati tre minuti per assicurarsi che non fosse un uomo di
Moriarty e
realizzare che se Molly fosse riuscita a conquistarlo si sarebbe
sistemata per
tutta la vita. Una vita monotona, con un paio di bimbetti urlanti per
casa e
poche soddisfazioni personali. Ma forse sarebbe stata felice. Con lui
avrebbe
mai potuto avere un futuro migliore di quello? Ne dubitava, ne aveva
sempre
dubitato.
Sin
dall’inizio Sherlock era stato a conoscenza
dell’influenza che aveva su di lei,
dell’affetto che lei nutriva irrazionalmente nei suoi
confronti, ma solo
recentemente si era reso conto di ricambiarla. Quando ormai era troppo
tardi.
Molly
aveva deciso sul serio di voltare pagina e aveva fatto un ottimo
lavoro, da
quanto aveva potuto notare. Non era più solo la timida ed
impacciata Molly
dalla cotta adolescenziale. Era una donna che aveva sofferto per amore,
che si
voleva un briciolo di bene e che per questo era intenzionata a non
farsi più
mettere i piedi in testa. Gli rispondeva a tono, lo prendeva in giro,
lo aveva
persino schiaffeggiato… in generale lo affrontava in modo
molto più sicuro e
coraggioso di prima.
Gli
piaceva, ma gli mancavano terribilmente anche quella timidezza, quelle
guance
rosse e quegli occhi bassi e velati di lacrime che aveva visto troppe e
troppe
volte. Gli mancavano solo per il tempo necessario a dire:
«Sono un idiota,
perdonami».
Nonostante
tutti i suoi sforzi, da quando Molly aveva iniziato a respingerlo lui
aveva
iniziato a provare attrazione come una calamita, a volerla in sua balia
come un
tempo.
Si
era lasciato coinvolgere e a volte ogni pensiero razionale, compresa
l’altissima probabilità di metterla in pericolo e
di renderla oggetto di
chiacchiere in ogni salotto del Regno Unito, evaporava, rendendolo
capace di
diventare abile sceneggiatore – forse non tanto quanto
credeva – di scene come
quella che avevano appena vissuto.
Molly
mugugnò lamentosamente e sollevò le palpebre
pesanti, trovando gli occhi di
Sherlock fin troppo vicini. Gli posò le mani sul petto e lo
spinse via, o
almeno ci provò: non aveva forza nelle braccia, si sentiva
uno straccio e le
tempie le pulsavano ancora.
«Qualsiasi
cosa tu mi abbia dato, hai bisogno di fare un ripasso di
chimica», farfugliò e
sbuffò quando sentì Sherlock ridacchiare.
«Le
mie dosi erano perfette. Sei tu che hai bevuto troppo».
«Ah!
Sempre mia la colpa».
«Ovviamente»,
esclamò, lasciandosi cadere al suo fianco sul letto.
«Che
cos’era?».
«GHB».
Molly
ebbe l’impulso di schizzare seduta sul letto dallo shock, ma
il mal di testa
non glielo permise. «Mi hai messo una droga da stupro nel
frullato alla banana?!
Come hai potuto, Sherlock?!».
«Era
un esperimento. Ti ho dimostrato quanto sia facile farti del male senza
che tu
te ne accorga minimamente».
«Oh,
non avevo bisogno di questo esperimento per rendermene
conto», mormorò,
passandosi un braccio sugli occhi e spalmandosi inevitabilmente il
mascara
dappertutto.
«Il
GHB è leggermente salato, ma quel frullato era
così terribile che forse l’ha
migliorato. Non farlo mai più, Sherlock».
«Che
cosa, il frullato o il somministrarti una droga da stupro?».
«Entrambe
le cose», ordinò, sollevando l’indice.
«Ma dove l’hai recuperato? No, non
rispondere, non sono sicura di volerlo sapere».
Molly
respirò profondamente e dopo qualche minuto di silenzio, in
cui rischiò di
addormentarsi, disse: «Dovrei togliermi questo vestito e
riposarmi, domani devo
lavorare».
«Domani
starai benissimo, a parte un po’ di mal di testa».
«Perfetto.
Esci?».
Sherlock
voltò il viso verso di lei, leggermente confuso.
Analizzò nuovamente ciò che
aveva detto e capì che voleva stare da sola per cambiarsi.
«Prometto
di non guardarti».
Molly
si tirò su a fatica, non trovando nemmeno le energie per
ribattere, e lottò con
la cerniera del vestito, non venendone a capo. Le mani di Sherlock le
giunsero
in aiuto e l’anatomo patologa gli lanciò
un’occhiataccia.
«Hai
promesso, te lo sei già dimenticato?».
Il
detective si sdraiò sul fianco ed ascoltò il
fruscio del vestito sulla pelle di
Molly. Con gli occhi chiusi immaginò il ferretto del
reggiseno, il solco della
colonna vertebrale, le fossette di venere infondo alla
schiena…
«Fatto»,
sussurrò Molly, tirando le coperte per infilarcisi sotto.
«Ora vattene».
Sherlock
corrugò la fronte e si girò sull’altro
fianco per guardarla dritta in faccia,
trovando però i suoi occhi chiusi e una ciocca di capelli
che le attraversava
la fronte.
«Come?».
«Sono
arrabbiata con te, Sherlock. Perciò vattene, prima che
spinga giù dal letto a
calci».
«Nelle
tue condizioni attuali, non credo ci riusciresti».
Molly
inarcò un sopracciglio, ma non aprì gli occhi.
«Chissà
che cosa penserà di me ora Nicholas…»,
si chiese, rannicchiandosi in posizione
fetale. «Mi piaceva tanto».
«E
per quale motivo?».
La
ragazza accennò una risatina. «Era simpatico,
gentile, bravo con i bambini… Praticamente
il tuo opposto».
Il
silenzio prolungato di Sherlock la allarmò e nonostante
sentisse le palpebre
incollate tra loro, si sforzò per socchiudere gli occhi e
sbirciare la sua
espressione: era assorto, come quando escludeva tutto e tutti per
rifugiarsi
nel proprio Palazzo Mentale, e Molly preferì non
disturbarlo. Chiuse
semplicemente gli occhi e si addormentò, domandosi se
sarebbe rimasto.
|
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Capitolo 5 *** Night #7 ***
Buonasera! :)
In questa pigra domenica, posto il capitolo cinque sperando di non aver
fatto troppe cavolate.
Ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo - vi lovvo tutti - e chi
ha semplicemente letto :)
Alla prossima settimana, un bacione!
_Pulse_
____________________________________________________________
5.
Night
#7
Come
va il mal di testa?
SH
Molly
sorrise, dimenticandosi completamente del fastidio che aveva provato
quando
arrivata al Bart’s le era stato detto che il nuovo stagista
aveva sbagliato a
registrare i risultati di diversi esami tossicologici, i quali dovevano
essere
svolti di nuovo.
Aveva
avuto voglia di strangolarlo e di urlargli in faccia che lei aveva
lavorato duramente
per avere quel lavoro, un lavoro che lui prendeva meno seriamente delle
serate
trascorse in discoteca a sballarsi. (E lo diceva una che giusto la sera
prima
si era ritrovata così strafatta che Sherlock aveva dovuto
riportarla a casa in
braccio).
Meglio,
grazie. Ma ho ancora dei buchi di memoria.
Aspettò
per un po’ la risposta di Sherlock, approfittandone anche per
andare a prendere
una tazza di caffè. Solo quando fu tornata in laboratorio,
con gli occhi di
nuovo sul microscopio, il suo cellulare suonò. Stava per
pescarlo dalla tasca
del camice, quando la porta si aprì
all’improvviso, rivelando un uomo alto,
vestito in modo elegante e con un ombrello portato a mo’ di
bastone da
passeggio. In due parole: Mycroft Holmes.
Molly
lasciò perdere il messaggio e si alzò in piedi,
aprendo la bocca nonostante non
avesse idea di che cosa dire.
«Stia
pure comoda, signorina Hooper», esordì il fratello
maggiore di Sherlock,
sorridendole in modo freddo. «Anzi, posso unirmi a
lei?».
«Certo,
io… posso andare a prenderle una tazza di caffè,
se vuole».
«Non
si disturbi».
Spostò
rumorosamente uno sgabello e si sedette accavallando le gambe.
Dopodiché posò
sul tavolo la cartelletta di pelle che aveva portato con sé,
l’aprì e ne
estrasse un plico di fogli. Una specie di contratto, da quello che
Molly aveva
potuto vedere, ma non volle azzardare alcuna ipotesi, nemmeno quando
Mycroft
spinse il plico sotto i suoi occhi perché lo esaminasse
meglio.
«Ho
bisogno di una sua firma», le disse, porgendole una raffinata
stilografica.
Molly
corrugò la fronte, confusa. «Una firma per che
cosa?».
«Quello
che ha davanti», iniziò a spiegarle pazientemente,
«è un accordo di segretezza.
Qualsiasi cosa le dirò in questa stanza rimarrà
in questa stanza, lei sarà obbligata a non parlarne e se lo
farà – e lo verrò a
sapere, può starne certa – le conseguenze saranno
molto spiacevoli. Tutto
chiaro, signorina Hooper?».
Molly
lo fissò, scorgendo nei suoi occhi la stessa intelligenza di
Sherlock, se non
una ancora maggiore, e una risolutezza quasi spietata.
Quell’uomo
era abituato a comandare, abituato al fatto che mai nessuno gli andasse
contro.
Poteva avere il Regno Unito in pugno, poteva avere anche il mondo per
quanto le
interessava, ma non avrebbe mai avuto lei.
L’anatomo
patologa allontanò da sé l’accordo, poi
incrociò le braccia al petto.
«Non ho
intenzione di firmare nulla perché non
c’è nulla che desidero sapere da lei».
Mycroft
Holmes piegò le labbra in un sorriso sinceramente divertito.
«Mi scusi, ho
ritenuto ovvio un dettaglio e l’ho omesso: ciò che
le dirò riguarda Sherlock».
Molly
sgranò leggermente gli occhi e li posò sulla
stilografica che l’Holmes più
grande aveva appoggiato su quelle pagine dai caratteri minuscoli, pieni
di
clausole ed asterischi.
Sapeva
che avrebbe dovuto rifiutare nuovamente, nella speranza che prima o poi
lo
stesso Sherlock si fosse confidato con lei, ma la preoccupazione e la
paura
vinsero su ogni sua morale.
Con
mano tremante afferrò la stilografica e senza nemmeno
leggere una parola di ciò
che c’era scritto su quei fogli cercò la linea a
cui apporre la propria firma.
Si
era del tutto dimenticata del messaggio che Sherlock le aveva inviato e
lo
avrebbe letto solo qualche ora dopo, trovandolo in qualche modo
profetico e
così veritiero da spezzarle il cuore.
A
volte dimenticare può rivelarsi un vantaggio.
***
«Oh,
Sherlock!», esclamò la signora Hudson non appena
si accorse della sua presenza
nell’atrio, lo sguardo sollevato verso la rampa di scale.
«Che
cos’hai combinato, questa volta?».
«Perché
dà per scontato che la colpa sia mia?»,
domandò atono, prima di salire i
gradini due a due, senza aspettare la sua risposta.
Entrò
nel proprio appartamento ed ispezionò minuziosamente
l’ambiente con gli occhi.
«Sei
sempre il solito maleducato, fratello mio. Farmi aspettare per
un’ora in questa
tana polverosa!».
Il
consulente investigativo gettò un’occhiata a
Mycroft, seduto sulla poltrona di
John – non sapeva in quale altro modo chiamarla – e
un potente flashback gli
procurò un brivido lungo la schiena.
«Non
mi sono mai
piaciuti gli indovinelli».
«Impara
ad apprezzarli.
Perché ti devo una caduta, Sherlock. Te ne devo
una».
Chiuse
gli occhi, stringendo i denti.
«Devi
dirmi qualcosa?», domandò poi al fratello,
spazientito e a disagio. «Si tratta
delle novità che aspettavo?».
«Ebbene,
ne ho una», rispose, tirando fuori dalla valigetta di pelle
un tablet
sottilissimo. «Ma io la chiamerei
“conferma”, piuttosto. Dai un’occhiata,
coraggio».
Sherlock
si avvicinò ed afferrò il tablet. Mycroft aveva
aperto l’ultimo post di un blog
dalla grafica piuttosto femminile, rosa e con tanto di gattini: il blog
di
Molly. Lesse ciò che aveva scritto in quel lontano 2 Aprile
e le sue parole,
nonostante non le avesse mai pensate davvero, furono dolorose come
mille
minuscoli tagli cosparsi di sale. Ciò che lo distrusse
completamente però, ciò
che Mycroft voleva che vedesse, fu il primo ed unico commento, lasciato
meno di
settantadue ore prima.
«La
signorina Hooper è una persona troppo gentile, troppo
innocente, per meritarsi
questo. Non ti permetterò di farle del male. Di fare del
male a qualcun altro»,
disse Mycroft quasi con tenerezza, alzandosi per guardare il fratello
minore
dritto negli occhi. «Sai cosa dobbiamo fare, per la sua
sicurezza».
Sherlock,
con gli occhi inspiegabilmente lucidi, faticò a trovare la
voce. «Lei non
accetterà mai, lei…».
«Potrei
averle già dato un incentivo. Forse non sarà
abbastanza per convincerla ad
accettare, ma per iniziare mi è sufficiente che stia lontana
da te».
Mycroft
fissò il fratello cercando di capire che cosa gli
attraversasse la mente e ciò
che intuì lo lasciò vagamente confuso
e… stupito.
Trattenne un sospiro amareggiato, conscio di una sua grande mancanza:
poteva
proteggere tutte le persone che stavano vicine a Sherlock, ma non
poteva
proteggerlo da se stesso in alcun modo.
«Mi
dispiace», disse e cercò di mostrare che
ciò che diceva era vero, ma in ogni
caso sarebbe stata fatica sprecata: Sherlock non era lì, al
momento.
Mycroft
era andato via. Non sapeva quando, esattamente, e non gli interessava.
Aveva
preso la sua decisione e non sarebbe stato facile, per niente, ma era
la cosa
più giusta da fare. Per la prima volta – e sperava
con ogni fibra del proprio
corpo che fosse anche l’ultima – doveva dar ragione
a suo fratello.
«Sherlock?».
Il
detective si voltò verso la signora Hudson, ferma sulla
soglia del salotto. La
sua espressione triste lo confuse e prima che potesse chiederle che
cosa fosse
successo, una goccia d’acqua salata gli bagnò le
labbra dischiuse. Chinò il
viso e si passò una mano sulla guancia, trovandola umida.
Una lacrima. Aveva
versato un’unica lacrima, sola come si sarebbe sentito lui.
***
«Sherlock
ha ucciso
Charles Augustus Magnussen, gli ha sparato in testa. Ora capisce
perché non
posso permetterle di vivere con lui? È per la sua
sicurezza».
Molly
posò la fronte sulle ginocchia, stringendo ancora un
po’ il cuscino tra le
braccia, e si sforzò perché le parole di Mycroft
Holmes lasciassero spazio al
silenzio nella sua testa. Invano.
Aveva
sentito parlare dell’improvvisa sparizione del magnate dei
giornali, ne avevano
parlato tutti e tutti avevano esposto le loro teorie al riguardo, lei
compresa:
aveva sempre pensato che avesse deciso di farsi una bella vacanza ai
tropici,
isolato dal resto del mondo. Mai, mai avrebbe osato pensare che
Sherlock lo
avesse ucciso. Solo immaginare il suo
Sherlock impugnare la pistola con l’intento di spegnere una
vita la faceva
tremare da capo a piedi, col cuore che le batteva dolorosamente nella
cassa
toracica.
Mycroft
in realtà non le aveva spiegato i dettagli, come per esempio
il perché Sherlock
avesse preso una
decisione così drammatica, né Molly aveva voluto
saperli.
Ciò
che il detective aveva fatto era orribile ed imperdonabile, eppure il
suo cuore
non avrebbe mai smesso di dirle che lo Sherlock che lei conosceva non
l’avrebbe
mai fatto se non ci fosse stato un motivo più che valido,
qualcosa che lui
aveva ritenuto più importante del suo stesso futuro, della
sua stessa vita. E questo
le bastava per perdonarlo, per credere ancora in lui, per amarlo.
A
quel punto non riuscì più a trattenere le lacrime
e si morse le labbra per
attutire almeno un po’ i singhiozzi.
Aveva
promesso a Mycroft che ci avrebbe pensato, che presto avrebbe deciso
che cosa
fare, ma già mentre faceva quella promessa sapeva
esattamente come si sarebbe
comportata.
O
Mycroft Holmes non conosceva suo fratello, oppure conosceva la sua
versione
precedente, quella che non aveva ancora incontrato John,
l’uomo che con la sua
amicizia era riuscito a renderlo migliore.
Lei
lo conosceva. Lei riusciva a capirlo, la maggior parte delle volte.
Lei
sapeva che il matrimonio di John e il suo addio a Baker Street erano
stati duri
colpi per Sherlock, che si era sentito abbandonato e che aveva provato
paura di
fronte alla solitudine.
Lei
sapeva che Sherlock non le avrebbe mai fatto del male, non
volontariamente. Ma
che anzi avrebbe cercato di proteggerla da tutto e tutti, anche
sacrificando se
stesso. Era così che faceva, quando si affezionava a
qualcuno.
Lei
sapeva che non avrebbe retto ad un altro abbandono, che aveva bisogno
di
qualcuno accanto per andare avanti; che ne era diventato dipendente, in
qualche
modo.
Per
questo non l’avrebbe mai lasciato solo.
Le
parole di Mycroft non avevano fatto altro che rinforzare ciò
che provava per
lui, l’avevano convinta definitivamente che se
c’era una cosa che non avrebbe
mai fatto – nemmeno se questo avesse voluto dire soffrire,
affrontare mille
pericoli o andare all’inferno – era proprio quella
di non allontanarlo da sé. Sempre
se… beh, se Sherlock l’avesse voluta al suo
fianco.
***
Sherlock
aprì la porta e per un attimo ebbe paura che Molly avesse
ripreso a mettere il chiavistello.
Non trovandolo, entrò nell’appartamento e si tolse
la sciarpa mentre si
incamminava verso il salotto, immerso nel buio se non fosse stata per
la luce
azzurrognola della televisione.
Molly
era rannicchiata sul divano e aveva un cuscino stretto al petto, mentre
la
coperta di lana in cui si era avvolta era caduta a terra.
Toby
si aggirava inquieto intorno al tavolino, come se stesse pensando a
qualcosa da
fare per aiutare la sua padrona, ma si allontanò non appena
si accorse della
presenza del detective.
Quest’ultimo
si avvicinò ed osservò Molly dall’alto
per una dozzina di secondi, poi si piegò
per raccogliere la coperta e dopo avergliela sistemata addosso si
sedette
accanto a lei, lasciando che una mano indugiasse sulla sua gamba.
«Molly»,
sussurrò il suo nome per svegliarla.
L’anatomopatologa
sollevò appena le palpebre ed assottigliò gli
occhi, cercando di
focalizzare ciò che la circondava. Incrociando quelli di
Sherlock, si mise
lentamente seduta e senza mai interrompere il contatto visivo
posò una mano su
quella di lui, ancora sul suo ginocchio.
Stranamente,
Molly aveva le mani calde. Erano calde, piccole e delicate. Sherlock
ricambiò
la stretta e rimpianse l’aver notato l’irritazione
delle sue guance, le borse
sotto agli occhi, il rossore dei suoi occhi: Molly aveva pianto per
quello che
Mycroft le aveva detto, perciò aveva pianto per colpa sua.
Avrebbe
voluto prenderle il viso tra le mani, accarezzarlo ed abbracciarla,
stringerla
così forte da farla diventare una parte di lui, ma Molly lo
aveva intrappolato
coi suoi occhi scuri, con le sue piccole mani.
«È
a causa sua, vero? I tuoi incubi, sono a causa di quello che
è successo con
Magnussen», disse a bassa voce, avvicinandosi un
po’ a lui.
Sherlock
abbassò gli occhi, trovandosi senza parole.
Aveva sperato fino all’ultimo che
Mycroft non avesse realmente sfruttato il proprio asso nella manica, ma
l’aveva
fatto, e senza pensarci su due volte.
Molly
ora sapeva che era un assassino, sapeva che quelle mani che lei stava
stringendo erano macchiate di sangue, eppure non aveva intenzione di
lasciarle
andare.
Perché
il piano di Mycroft non stava funzionando? Perché Molly non
aveva paura di lui,
non ne era disgustata, non lo odiava né lo allontanava come
avrebbe fatto
qualsiasi persona normale?
«No,
non come credi tu», rispose, decidendo di essere sincero.
Quella poteva essere
la sua ultima opportunità. «Quando sono entrato
nell’ufficio di Magnussen e mi
hanno sparato: è questo che rivivo nei miei incubi. Rivivo
tutto quello che ho
provato, quello a cui ho pensato ad un passo dalla morte».
«Ma
tu non sei morto, Sherlock».
«No»,
sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso ironico,
«e devo ringraziare
te, per questo».
Sherlock
lesse sul suo viso la sorpresa e lo sbigottimento, ma non le permise di
fare
domande, aggiungendo subito: «Nei miei incubi
c’è Moriarty. Mi invita a morire,
mi dice che non devo averne paura».
«Ma
ora è tutto passato, tu stai bene e lui non
c’è».
«Lo
sai che non è vero. Lo sai benissimo».
Fu
il turno di Molly ad abbassare gli occhi e volle anche ritirare le mani
per
stringersi le braccia intorno alle gambe, come protezione, ma Sherlock
glielo
impedì, stringendole ancora più saldamente.
«Avresti
dovuto dirmelo, Molly. Perché non l’hai
fatto?». Chinò il viso e con le nocche
le sollevò il mento, in modo che i loro occhi si fondessero.
«Perché?».
«Perché
ne ero terrorizzata».
«E
pensavi forse che ignorarlo avrebbe risolto la situazione?».
«Hai
ragione, i demoni vanno affrontati», disse, abbassando gli
occhi sulle loro
mani ancora unite per poi sollevarle tra i loro visi. «E a
volte non lo si può
fare da soli».
Sherlock
sentì qualcosa rompersi all’interno del suo corpo,
qualcosa di inconsistente ma
di tanto reale quanto le pulsazioni del cuore o i tessuti che
permettevano
l’estensione dei polmoni.
Quello
che suggeriva Molly andava contro la decisione che aveva preso a
malincuore al
221B di Baker Street. Non poteva tornare indietro, non poteva davvero.
Per
quanto meraviglioso, era un sogno destinato ad andare in frantumi, una
follia,
un rischio che non poteva correre. Perché aveva messo troppe
volte in gioco la
vita dei suoi amici e non voleva che accadesse mai più,
qualsiasi sarebbe stato
il costo da pagare.
Per
questo le lasciò le mani e si diresse in silenzio verso la
camera da letto.
***
Molly
si girò e rigirò nel letto per almeno
un’ora, prima di prendere una decisione.
Sherlock
era andato nella camera degli ospiti di sua spontanea
volontà, senza nemmeno
augurarle la buonanotte, e Molly era andata a dormire a stomaco vuoto,
accartocciato come una pallina di carta straccia con l’inizio
di una storia
scritta e riscritta ma che, incurante di ogni tentativo, non avrebbe
mai avuto
un lieto fine.
Bussò
piano alla porta e l’aprì, domandando a bassa
voce: «Sherlock, sei sveglio?».
«Uhm»,
mugugnò lui.
Molly
si sentì autorizzata ad entrare e si chiuse la porta alle
spalle, poi si
avvicinò al letto e non senza un po’ di timore
sollevò le coperte per potersi
sdraiare al suo fianco.
«Tuo
fratello mi ha proposto un trasferimento negli Stati Uniti, lo
sapevi?», esordì
rompendo il silenzio, gli occhi rivolti verso il soffitto.
«No».
«Pensi
che dovrei prenderlo in considerazione?».
«È
la soluzione migliore».
«Non
ti ho chiesto questo, Sherlock. Ti ho chiesto se pensi che dovrei
prenderlo in
considerazione».
Molly
osservò le spalle del detective sollevarsi un poco mentre
respirava
profondamente.
«Penso
che dovresti. Saresti più al sicuro, faresti nuove
esperienze, nuove
conoscenze, e chissà, magari deciderai che là ti
piacerà più di Londra».
Molly
serrò le labbra e gli diede le spalle, rannicchiandosi su un
fianco.
Si
era illusa ancora una volta: Sherlock non avrebbe mai ammesso di aver
bisogno
di qualcuno, tantomeno di lei.
«Credi
davvero che Moriarty sia vivo, allora?», gli chiese,
scoprendo una certa
freddezza nella propria voce.
Ciò
che aveva detto l’aveva offesa: come poteva pensare che
avrebbe potuto
preferire un altro ospedale al Bart’s? Come poteva pensare
che avrebbe potuto
amare una città degli USA più di quanto amasse
Londra? Come poteva pensare che
si sarebbe rifatta una vita facilmente, sentendo la mancanza di tutte
le
magnifiche persone che conosceva, compreso lui? E soprattutto avrebbe
dovuto
essere a conoscenza che nessun posto era abbastanza lontano
né sicuro se
Moriarty era davvero ancora vivo.
«Non
lo so».
«Eri
di fronte a lui, quando si è sparato».
«L’hai
appurato di persona, quanto sia facile inscenare la propria morte se si
dispone
dei mezzi e delle persone giuste».
«Ma
lui si è sparato, Dio
mio!».
«Era
furbo, era intelligente…».
«Tu
di più, Sherlock».
Il
consulente investigativo si girò, o meglio, Molly lo
sentì spostarsi sotto le
coperte ed ebbe la sensazione che le stesse fissando le scapole
lasciate
scoperte dalle spalline sottili della canotta che indossava.
«Molly,
giuro che non gli permetterò di avvicinarsi di nuovo a
te», sussurrò,
infinitamente serio.
Il
cuore iniziò a batterle più forte nel petto,
così forte che nel silenzio ebbe
paura che Sherlock riuscisse a sentirlo.
«Al
matrimonio di John avevi detto che non avresti più fatto
giuramenti in vita tua».
«Ogni
tanto – raramente
– dico delle
stupidaggini anche io».
Molly
si voltò, senza più provare imbarazzo, e come lei
trovò Sherlock sorridente.
«Se
andassi a prendere il cellulare e ti registrassi mentre lo
ripeti?», gli
chiese, inarcando un sopracciglio in modo sbarazzino.
«No»,
esclamò facendo schioccare le labbra, prima di lasciarsi
andare ad una risata
gutturale.
L’anatomopatologa
sospirò e fece per alzarsi e tornare nella sua camera da
letto, ma
Sherlock le afferrò il polso, costringendola a guardarlo
negli occhi.
«Per
questa notte, affrontiamo insieme i nostri demoni».
Molly
ci rifletté su qualche istante, poi ritornò sotto
alle coperte ed abbracciò il
cuscino, rivolgendogli un breve sorriso prima di chiudere gli occhi.
«Per
questa notte», specificò sottovoce, come se in
cuor suo non sperasse che ce ne
sarebbero state altre.
|
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Capitolo 6 *** Night #14 ***
Buongiorno e
chiedo umilmente perdono per il ritardo!
Tra il lavoro, gli Oscar (deduco che la maggior parte delle persone qui
li abbiano guardati per una sola ragione xD) e quel minimo di vita
sociale che tento di preservare, non ho avuto un minuto libero per
postare u_u
Spero che questo sesto e - ahimè - penultimo capitolo sia in
grado di farmi perdonare!
Un grazie enorme a chi ha commentato la volta scorsa e chi ha letto
soltanto :)
Buona lettura, un bacio!
Vostra,
_Pulse_
______________________________________________________________________
6.
Night
#14
L’ultima
settimana era stata la più movimentata che avesse vissuto da
due anni a quella
parte.
Sette
giorni di telefonate, accordi, novità e tanti, tantissimi
dubbi, ma alla fine
tutto era stato organizzato e ogni decisione era stata presa in maniera
irrevocabile. Ciononostante, non si sentiva tranquilla; al contrario,
aveva la
sensazione di camminare sopra un ponte instabile, sempre sul punto di
crollare.
Era
sempre stata una ragazza abitudinaria, a cui non piacevano troppo i
cambiamenti
improvvisi, perciò se doveva essere completamente sincera
con se stessa era
proprio terrorizzata.
Domani
a quella stessa ora – non proprio in realtà,
dimenticava sempre le sette ore di
fuso orario – sarebbe già stata nel suo nuovo
appartamento, in una città
sconosciuta e con un nuovo lavoro. Niente amici, solo un paio degli
uomini di
Mycroft che lavoravano a tempo pieno per lui negli USA, il cui unico
scopo
sarebbe stato quello di garantire la sua sicurezza.
Il
tempo di una dormita e poi, sull’aereo che in poco
più di otto ore l’avrebbe
portata a Washington D.C., la sua vita non sarebbe più stata
la stessa.
«Sei
migliorata moltissimo, Molly».
L’anatomopatologa
sollevò di scatto la testa e scoprì che Sherlock
non era più
appollaiato sul divano, a criticare a bassa voce una delle tante serie
TV di
cui lei era dipendente, bensì al suo fianco, intento ad
esaminare le camicie
che stava stirando. Le sue camicie.
«L’avevo
detto che era solo una questione di pratica», aggiunse,
rivolgendole un sorriso.
Molly
posò il ferro da stiro e si passò una mano sulla
fronte.
Aveva
trascorso gli ultimi giorni ad impacchettare tutto ciò che
avrebbe portato in
America – ne erano la prova gli scatoloni in giro per
l’appartamento – e come
se non bastasse, proprio la sera prima della partenza, Sherlock le
aveva dato
una decina di camicie da stirare. Avrebbe potuto rifiutare, certo, ma
non se la
sentiva proprio di litigare con lui: quelle erano le ultime ore che
passavano
insieme e chissà quando avrebbe potuto rivederlo o anche
solo sentire la sua
voce.
«Sei
stanca?», le chiese quasi amorevolmente, prendendola in
contropiede.
Molly
accennò un sorriso e rispose con sincerità:
«Un po’. Mi prenderesti un
bicchiere d’acqua, se non ti…?».
«Ho
in mente di meglio», esclamò, interrompendola. La
prese per le spalle e la
spinse verso il corridoio. «Cambiati, andiamo a cena
fuori».
«Cosa?»,
squittì, incredula. «Potresti essere un
po’ più chiaro?».
«Io,
te, a cena fuori, da Angelo. È abbastanza chiaro?».
«No.
Ma non ce n’è bisogno, posso benissimo cucinare
qualc–».
«Vai
a cambiarti, sbrigati. Mettiti il vestito che hai indossato quando sei
uscita
con quel pediatra… Nicholas? Era molto bello».
Molly
strabuzzò gli occhi e per la sua stessa sanità
mentale si convinse che non fare
domande era la decisione migliore.
Quando
si fu chiusa in camera da letto, Sherlock estrasse il cellulare dalla
tasca
interna della giacca ed inviò un breve sms a John.
***
«Mi
prendi in giro?», chiese Molly, afferrando distrattamente la
mano che Sherlock
le aveva offerto per aiutarla a scendere dal taxi.
L’auto
si allontanò e lei rimase ferma di fronte
all’insegna spenta e alle serrande
abbassate del ristorante di Angelo, la mano ancora al caldo in quella
del
detective.
«Di
qua», disse quest’ultimo, trascinandola
con sé fino all’angolo della
strada.
«Sherlock,
mi spieghi che cosa sta succedendo? E rallenta, non riesco a starti
dietro con
questi tacchi!».
«Perché
li hai messi, allora?».
«Perché
me l’hai chiesto tu!».
Le
gettò un’occhiata sospettosa, come se davvero non
lo ricordasse. «L’ho fatto?».
Molly
sospirò, arrendendosi al fatto che non le avrebbe spiegato
nulla, ed accennò
una corsetta, sperando di non cadere faccia a terra sul cemento, fino a
portarsi al suo fianco.
Si
lasciò guidare in un vicolo stretto e buio e a quel punto si
chiese se non
avesse voluto coinvolgerla in uno dei suoi casi; se per
quell’occasione,
anziché di John, avesse avuto bisogno di
un’assistente donna e vestita in quel
modo. Stava per fargli una bella ramanzina – poteva almeno
avvisarla! – quando
si rese conto che l’aveva portata di fronte
all’uscita sul retro del ristorante
di Angelo.
«È
chiuso, Sherlock. Cos’hai intenzione di fare, vuoi cucinare
tu?».
«Ti
ho già detto che io non cucino».
«Dovrei
cucinare io, allora?», sbottò, indecisa se
scoppiare a ridere oppure portarsi
le mani nei capelli.
Sherlock
le mostrò un sorriso fin troppo largo ed abbassò
la maniglia della porta,
trovandola inspiegabilmente aperta. Le indicò di entrare per
prima e una volta
dietro di lei accese le luci della cucina.
«Andiamo»,
le disse, porgendole di nuovo la mano.
Molly
lo fissò intensamente negli occhi, cercando di capire che
cosa avesse in mente,
e Sherlock, rendendosene conto, roteò gli occhi irritato.
Amava
le deduzioni, ma non quando le persone si soffermavano a farle su di
lui.
«So
di non essere esattamente la prima persona a cui una madre affiderebbe
i propri
figli, ma…».
Sherlock
si interruppe bruscamente quando Molly infilò la mano nella
sua, simile ad un
petalo delicato e freddo. Quindi le regalò un piccolo
sorriso e la guidò
all’interno del locale, anch’esso immerso nel buio.
Quella volta non fu lui ad
accendere le luci, bensì qualcuno al suo fianco.
Non
ci fu il solito coro ad urlare «Sorpresa!», ma
tutte le persone a lei più care
che le sorridevano e avevano già gli occhi lucidi. Non era
una festa in cui
l’allegria avrebbe fatto da padrona e ne erano tutti
consapevoli, ma ce
l’avrebbero messa tutta per rendere quella separazione
più facile, per rendere
quell’addio un semplice arrivederci.
L’anatomopatologa
alzò il viso verso quello di Sherlock, ancora al suo fianco,
e lo
ringraziò con gli occhi, già colmi di lacrime. Il
detective la invitò a
gettarsi tra le braccia di John, di Mary, della signora Hudson, di
Lestrade e
di un paio di sue colleghe che poteva considerare le uniche vere amiche
che le
erano rimaste dopo la rottura con Tom.
Molly
non avrebbe voluto lasciargli la mano ed infatti fu lui, rendendosene
conto, a
lasciarla andare per primo, stringendo le labbra e sforzandosi di
sorriderle.
«È
dura, eh?», gli disse Angelo, con quel suo inglese dal forte
accento straniero.
«Farà male, ma col tempo
passerà».
Sherlock
non le tolse mai lo sguardo di dosso, mentre dispensava baci e abbracci
e
ringraziava tutti i presenti. Pensò al Bart’s
senza Molly e realizzò che non
avrebbe mai smesso di fare male.
***
Nessuno
aveva fatto domande sul perché da un giorno
all’altro avesse deciso di
trasferirsi a Washington D.C., ma Molly era convinta che solo la
signora Hudson
e le sue due colleghe ne fossero del tutto all’oscuro. Di
sicuro Greg e John, e
quindi per forza di cose sua moglie Mary, dovevano aver almeno intuito
che la
causa era l’incredibile ritorno di Jim Moriarty, che quella
era una decisione
che non aveva preso di sua iniziativa e che quel lavoro al Quartier
Generale
dell’FBI non le era stato assegnato solamente per la sua
competenza e serietà.
Tutti
però le avevano fatto gli auguri più sinceri,
assicurandole che la città le
sarebbe piaciuta e che si sarebbe ambientata in fretta. Molly non ne
era altrettanto
sicura, ma aveva apprezzato.
L’unico
che non aveva aperto bocca era stato proprio Sherlock, il quale si era
subito
seduto in un angolo e non si era più mosso. Non
c’era bisogno che le dicesse qualcosa
perché in realtà non c’era nulla da
dire ed entrambi preferivano il silenzio
alle false speranze.
Era
seduta con Mary e John, quando proprio quest’ultimo si
alzò per raggiungere il
detective. La signora Watson aspettò che fosse lontano, poi
allungò le braccia
sul tavolo e le prese le mani, sorridendole dolcemente.
«Non
puoi nemmeno immaginare quanto ti capisca, tesoro».
Molly
ricambiò il sorriso, abbassando gli occhi. «Non ho
mai avuto così tanta paura
in vita mia».
«Lo
so, lo so. Ma quando le cose si sistemeranno, spero il prima possibile,
potrai
tornare qui e tutto sarà come prima».
«Non
è solo questo, Mary». Si morse le labbra e con la
coda dell’occhio scorse
Sherlock e John parlare a bassa voce in fondo al locale.
«Cercheremo
di stargli ancora più vicino, te lo prometto».
Quelle
parole furono come balsamo sulla sua anima e riuscì a
rilassare un po’ le
spalle, mentre gli occhi le si inumidivano di nuovo.
«Non
sarà facile», aggiunse Mary sorridendo e
portandosi una mano sul pancione. «Ma
io e John ce la metteremo tutta. Gli mancherai davvero
moltissimo».
«E
se non partissi? Se domani non salissi su
quell’aereo, che cosa succederebbe?».
La
signora Watson scosse lievemente il capo, gli
occhi tristi. «Vuoi davvero sapere che cosa penso?».
Molly
bevve tutto d’un fiato il cocktail che si
girava nervosamente tra le mani, annuendo con un cenno del capo.
«Sherlock
non riuscirà mai ad affrontarlo:
sapendoti così alla sua portata, non riuscirebbe a
concentrarsi totalmente. Con
te in America, invece, il suo unico scopo sarebbe la sua cattura e ci
metterebbe tutto se stesso, solo per averti di nuovo al suo fianco il
prima
possibile».
Era
una teoria fin troppo romantica, una che
avrebbe potuto benissimo essere stata presa dai suoi lontani sogni,
quelli che
aveva da tempo rinnegato e che ora stavano tornando a galla.
Si
ritrovò a ridacchiare e Mary corrugò la
fronte, chiedendole se avesse detto qualcosa di divertente.
«No,
scusami. Stavo solo pensando alla povera
anima di chi gli stirerà le camicie in mia assenza. Lo sai
che mi ci sono
voluti giorni, prima di capire come volesse la piega sulle
maniche?».
Mary
la fissò incredula fino a quando insieme
non scoppiarono a ridere.
***
«Quanto
manca prima che tu te ne vada nel bel mezzo della festa?»,
domandò John, sedendosi di fronte all’amico
detective con un bicchiere tra le
mani.
«Non
è una festa», replicò Sherlock, unendo
le
punte delle dita e portandosele di fronte alla bocca.
«Okay,
non lo è, ma sarebbe carino se tu
parlassi con qualcuno».
«E
cosa dovrei dire?».
Il
dottor Watson si strinse nelle spalle,
guardando il soffitto.
«Appunto»,
mormorò il consulente investigativo,
gettando l’ennesima occhiata verso Molly, seduta di fronte a
Mary.
«Potresti
raccontarmi che cos’è successo
esattamente in questi giorni. È stata un’idea di
Mycroft, non è così? Molly è
in pericolo?».
Sherlock
annuì. «Qualcuno le ha lasciato un
messaggio sul suo blog, la stessa frase pronunciata da Moriarty in quel
filmato. Mycroft ha ritenuto opportuno che Molly si allontanasse per un
po’».
«E
tu l’hai lasciato fare?», gli chiese,
inarcando le sopracciglia.
«Perché
ti stupisci? È la soluzione migliore: a
Washington avrà un lavoro migliore di quello che ha adesso,
un salario più
alto, un appartamento più bello, e sarà tenuta
sotto stretta sorveglianza».
«Ma
non avrà accanto le persone che ama».
Sherlock
strinse i denti e socchiuse gli occhi,
sibilando: «Bisogna fare dei sacrifici, John. E non
sarà per sempre».
«Voglio
sperarlo», esclamò, con un sorriso
storto sulla bocca. «Sarai intrattabile».
«Come
al solito», mormorò sbuffando.
«No,
più
del solito. È
davvero la soluzione
migliore, Sherlock? Per te, intendo».
«Come
ho già detto, bisogna fare dei sacrifici».
John
sorrise, quella volta teneramente, e si
allungò per dargli una pacca sulla spalla.
«Che
cos’era quella?», chiese Sherlock, confuso.
«Una
pacca di sostegno».
«Sostegno?».
«Se
hai qualcosa da dirle, credo che dovresti
farlo. Città nuova, lavoro nuovo, gente nuova…
Potrebbe anche decidere di non
tornare, sai?».
«L’ho
messo in conto».
«Quand’è
che non lo fai?», domandò John
retoricamente, sospirando.
Finì
il suo drink e si alzò proprio mentre al
loro tavolo Molly e Mary scoppiavano a ridere. John si voltò
e sorprese uno
Sherlock contagiato, con una risata intrappolata tra le labbra
incurvate in un
sorriso già malinconico.
***
Molly
si schiarì la voce e chiese un po’
d’attenzione, portandosi al centro della sala per poter avere
un contatto
visivo con tutti.
«Volevo
solo ringraziarvi di cuore per ciò che
avete fatto per me questa sera. Avevo immaginato addii piagnucolosi e
voi mi
avete regalato solo sorrisi. Mi mancherete tantissimo, tutti
quanti».
Il
suo sguardo si incatenò a quello di Sherlock
per un paio di secondi di troppo, ma nessuno lo notò
– o fece notare di averlo
notato.
«Un
grazie speciale ad Angelo. Grazie per la tua
disponibilità, sei stato gentilissimo».
«Per
gli amici di Sherlock, questo ed altro!»,
esclamò, stritolando Molly in un abbraccio caloroso e
dandole tre baci sulle
guance.
Tutti
scoppiarono a ridere di fronte allo
sbigottimento dell’anatomopatologa e dopo gli ultimi saluti
non rimase più
nessuno nel locale, eccetto Molly, Sherlock e i coniugi Watson.
«Noi
ci avviamo, voi… fate pure con calma»,
disse John, guardando Sherlock in modo eloquente.
Il
detective sgranò gli occhi e lanciò
un’occhiata allarmata a Molly, quindi la prese per il braccio
e seguì a ruota
John e Mary.
«È inutile rimanere qui, veniamo con
voi»,
spiegò, per la delusione di John.
Uscirono
da dov’erano entrati e sul piazzale
dietro il ristorante trovarono l’ispettore Lestrade, fermo a
fumare una sigaretta,
illuminato da un lampione dalla luce fioca.
«Credevo
fossi andato via», disse John sorpreso,
ma non quanto Sherlock.
«Mi
sono dimenticato di dire una cosa a Molly.
Posso averla per due minuti?».
«In
realtà…», iniziò a dire
Sherlock, ma il
dottor Watson gli strinse il polso e concluse al posto suo:
«Certo Greg, vi
aspettiamo in strada».
Molly
guardò i tre allontanarsi e si avvicinò
all’uomo, sorridente nonostante il freddo che le faceva
tremare le gambe.
«Ho resistito per tutta la sera, non vorrai farmi
piangere proprio adesso».
Greg
sorrise e fece l’ultimo tiro alla
sigaretta, poi se la gettò alle spalle senza curarsi di
spegnerla.
«Volevo
augurarti buon viaggio e farti una
promessa».
Si
avvicinò di un passo e Molly sollevò gli
occhi nei suoi, sentendosi un po’ a disagio: non erano mai
stati così vicini e
i suoi occhi erano così seri, così
tristi…
«Fosse
anche l’ultima cosa che faccio, prenderò
Moriarty – se è ancora vivo – o chiunque
altro abbia agito per lui. Chiunque ti
stia costringendo ad andare via».
Sollevò
una mano e le accarezzò i capelli che le
sfioravano una guancia, quindi timidamente si avvicinò al
suo viso con
l’intento di baciarla. Molly arretrò di un passo,
allontanando la sua mano
stringendola tra le proprie congelate.
«Mi
dispiace, Greg. Non posso», mormorò e non
riuscì ad impedire ad una lacrima di scivolarle sulla
guancia.
L’ispettore
di Scotland Yard stirò un sorriso
che trasudava tristezza e gliel’asciugò con il
pollice. «Perdonami, Molly».
«Lo
sai che non c’è nulla da perdonare».
«Già…
Infondo nessuno più competere con Sherlock
Holmes».
Molly
chiuse gli occhi e sospirò, poi allungò le
braccia perché Lestrade l’abbracciasse.
«Abbi cura di te, Greg», sussurrò.
«Anche
tu. E sappi che la mia promessa rimane
valida».
«Grazie.
Grazie davvero».
Si
separarono e Molly gli sorrise prima di
voltarsi ed incamminarsi nel vicolo buio, verso la strada affollata.
Vide
Sherlock, John e Mary accanto all’auto di
questi ultimi e li raggiunse, sforzandosi perché non
notassero il suo
dispiacere.
Non era mai stata brava a mentire e il detective
era l’ultima persona che si potesse fregare, ma con
l’aiuto di Mary, la quale
aveva subito colto qualcosa nei suoi occhi sfuggenti, riuscì
a non dover dare
spiegazioni.
«Vieni
qui tesoro, fatti abbracciare», le disse,
avvolgendole le braccia intorno alle spalle e baciandola su una
guancia. «Dovrai
fare il possibile per essere qui quando nascerà la piccola
Watson, intese?».
Molly
sorrise ed annuì. «Assolutamente».
Successivamente
fu il turno di John, nonostante
si fossero salutati ormai una decina di volte.
«Vi
diamo un passaggio, non c’è problema»,
propose, pescando le chiavi dell’auto dalla tasca del
cappotto.
«No,
prendiamo un taxi», rifiutò Sherlock, con
un sorriso piatto sulle labbra. John non osò contraddirlo e
Mary imitò il
marito, salendo in auto.
«Chi
ti accompagna in aeroporto, domani mattina?»,
si informò il dottor Watson, ormai già dentro
l’abitacolo per metà.
«Mycroft
manderà un’auto con la sua assistente
personale», rispose Molly.
«Okay,
allora ci vediamo direttamente in
aeroporto».
«Non
è necessario John, davvero…».
Il
dottore scosse il capo, determinato a non
voler sentire altro. «Buonanotte, a domani!».
Molly
e Sherlock guardarono l’auto dei Watson
allontanarsi e poi il detective si sporse oltre il marciapiede per
fermare un
taxi. Cinque minuti dopo erano già in viaggio verso casa,
seduti vicini ma consapevoli
di essere lontani come non lo erano mai stati in quelle due settimane.
L’anatomopatologa
si sentiva vagamente in colpa
per ciò che era quasi successo con Greg e per spezzare quel
silenzio
imbarazzante disse: «Angelo ha tenuto il ristorante chiuso
questa sera, solo
per me. Quando smetterà di sentirsi in debito con
te?».
Sherlock
la guardò con la coda dell’occhio, un
angolo della bocca sollevato in un mezzo sorriso.
«L’ho scagionato da un’accusa
di triplice omicidio ed è italiano,
perciò… mai, suppongo».
Le
strappò una lieve risata che la fece sentire meglio, ma non
si dissero altro
per l’intera durata del viaggio.
Una
volta di fronte al condominio di Molly, Sherlock scambiò
qualche parola con il
tassista, probabilmente per dirgli di tenere il resto, poi la
seguì
all’interno, fino alla porta dell’appartamento.
«Non
entri?», gli chiese sbigottita e un tantino preoccupata,
trovandolo ancora
fermo sul pianerottolo.
«Ho
chiesto al tassista di aspettarmi».
«Cioè…
Non dormi qui, questa notte?».
Sherlock
scosse il capo, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto. Molly
allora si
avvicinò per guardarlo negli occhi da più vicino.
«Torno
a Baker Street».
«Okay»,
mormorò, anche se in realtà avrebbe voluto
pregarlo di restare. Non voleva
passare da sola l’ultima notte a Londra, non era pronta a
dirgli addio.
«Prima
di andare, voglio che tu sappia una cosa», disse Sherlock,
guardandola dritta
negli occhi. «Voglio che tu sappia che non avrei mai permesso
a Mycroft di
organizzare il tuo trasferimento a Washington se questo non fosse stato
realmente necessario. Moriarty ha commesso un errore, pensando che tu
non
contassi nulla per me. Non lo commetterà di nuovo,
anzi… sarai la prima persona
che colpirà. E non posso permetterlo».
Molly
si strinse le braccia al petto, annuendo. Non riuscì a
resistere ed esclamò,
per poi interrompersi di colpo: «È solo
che…».
«Cosa?».
«Come
farai a mantenere il tuo giuramento, a 6000 chilometri di
distanza?».
«5904,58*».
Molly
non riuscì a trattenere un sorriso, nonostante le lacrime
che le avevano
riempito gli occhi. Si strofinò il naso con una mano e
crollò, lasciando che un
singhiozzo le bruciasse la gola.
Sherlock
si paralizzò, non sapendo come reagire al suo pianto, ma
Molly si ricompose
quasi subito, tirando su col naso e spazzando via le lacrime con
entrambe le
mani. Fu allora che entrambi si accorsero di Toby, il quale si era
infilato tra
loro e si stava strusciando contro le gambe di Sherlock.
«Alla
fine sei riuscito a farti piacere», commentò
Molly, l’ombra di un pallido
sorriso sul volto.
«Alla
fine. Perché non succede mai
all’inizio?».
«È
successo, molto tempo fa», rispose Molly, anche se forse
Sherlock avrebbe voluto
che quella domanda rimanesse solo un pensiero inespresso nella sua
mente.
Il
detective infatti alzò gli occhi, la fronte corrugata. Poi
capì ciò a cui si
riferiva e sentì il cuore sprofondare, letteralmente. Non
sapeva dove, né
perché, solo… sprofondò.
Molly
si avvicinò lentamente, quasi con cautela, e gli prese il
viso tra le mani per
accarezzarlo con la delicatezza che si usa con le cose a cui si tiene,
quelle
inestimabili ed infinitamente fragili. Poi si alzò in punta
di piedi e senza
mai distogliere lo sguardo dal suo si avvicinò in maniera
esitante alle sue
labbra, fino a sentire i loro respiri unirsi.
Sherlock
la sentì tremare contro di lui e le accarezzò un
braccio per rassicurarla,
chiuse persino gli occhi, ma quando le loro bocche erano ormai ad un
soffio
dallo sfiorarsi si allontanò, maledicendosi.
«Buonanotte,
Molly Hooper», disse quasi con freddezza e si
voltò.
Molly
lo ascoltò scendere le scale velocemente e quando non lo
sentì più chiuse la
porta di casa per appoggiarvisi contro con la schiena. Si morse le
labbra e serrò
forte gli occhi, poi respirò profondamente e andò
a preparare le ultime
valigie.
.
.
*Numero
di chilometri che separano Londra e Washington. Ho usato diversi siti
di calcolo e questo è il numero che è uscito
più volte, ma non ne assicuro l'esattezza.
|
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Capitolo 7 *** Epilogue - Day #1 ***
Eccoci
alla fine!
Diavolo, mi mancherà tantissimo pubblicare ogni settimana -
era un
sacco che non lo facevo, tra l’altro xD - è una
routine così rassicurante! Ma
questa è un’altra storia.
Prima
di lasciarvi al capitolo finale, volevo solo spiegare il senso del
titolo “In
my place”.
Sono
pessima a dare i titoli, perciò mi sono lasciata un
po’ guidare dalla mia
colonna sonora e tra le canzoni che ascoltavo di frequente mentre
scrivevo
c’era proprio “In my place” dei Coldplay,
che adoro. Oltre ad essere in qualche
modo azzeccata per il tema di questa FF, mi piaceva pensare alla specie
di
gioco di parole che si veniva a creare, dato che
“place” in gergo vuol dire
anche “casa”, o luogo in cui si vive insomma.
Bene,
dopo questa spiegazione patetica, vi auguro buona lettura e ci vediamo
infondo
per i ringraziamenti e i saluti finali!
Vostra,
_Pulse_
________________________________________________________
7. Epilogue
– Day #1
«È
tutto pronto, signorina Hooper».
Molly
si voltò verso Anthea – o qualunque fosse il suo
vero nome – ed annuì con un
cenno del capo.
«Arrivo
subito».
Ascoltò
i tacchi dell’assistente personale di Mycroft echeggiare
sulle scale e si voltò
di nuovo verso la finestra da cui stava guardando l’alba di
un nuovo giorno
illuminare la sua Londra.
Col
cuore pesante come piombo sospirò e prese in braccio Toby
per poterlo infilare
nel suo trasportino.
«Sarà
un lungo viaggio, ma staremo bene. Vedrai, andrà tutto
bene», gli sussurrò,
cercando di convincere anche se stessa.
Molly
tenne gli occhi sempre incollati sul finestrino, facendo del proprio
meglio per
imprimersi nella mente le strade che non avrebbe visto per
chissà quanto tempo:
i marciapiedi pieni di persone a tutte le ore del giorno e della notte,
la
guida a sinistra, i taxi neri, le ultime caratteristiche cabine
telefoniche
rosse.
Passarono
anche di fronte al Bart’s e fu un colpo al cuore.
Le sarebbe mancato da morire
e una volta lontana sapeva che avrebbe vissuto e rivissuto i momenti
trascorsi
nel laboratorio d’analisi, nell’obitorio e persino
in mensa. Era lì che aveva
incontrato Sherlock per la prima volta, lì lo aveva aiutato
e gli aveva
permesso di rubare i suoi strumenti, i suoi cadaveri, il suo
tempo… e non solo.
Perché
non le sarebbe mancato il Bart’s di per sé, o
Londra, bensì i luoghi che per
lei avevano un significato particolare, quelli a cui erano legati i
ricordi
migliori e quelli peggiori da quando lo aveva conosciuto.
Si
ritrovò a dover tirare su col naso e Anthea le
offrì distrattamente un
fazzoletto, che Molly accettò sentendosi ancora
più piccola, insignificante e
patetica al suo fianco.
***
«Eccoti
qua, finalmente ti ho trovata», disse John, aprendo le
braccia per stringerla a
sé. «Come ti senti?».
«Nervosa,
disorientata… Grazie per essere qui»,
sussurrò Molly, staccandosi per
sorridergli dolcemente.
Il
dottor Watson si guardò intorno, rivolse un cenno di saluto
ad Anthea – la
quale non ricambiò, concentrata sul suo smartphone
– poi sospirò e con
espressione mesta disse: «Sherlock non è
venuto».
Era
più un’affermazione che una domanda, ma Molly si
sentì comunque in dovere di
difenderlo, spiegando: «Ci siamo già salutati
ieri, non avremmo avuto
nient’altro da dirci».
La
guardò intensamente negli occhi, cercando di intuire cosa
mai potevano essersi
detti, ma ogni ipotesi che formulava veniva scartata nel giro di pochi
secondi,
lasciandolo come prevedibile senza la più pallida idea.
Il
check-in era già stato fatto e i bagagli, compreso Toby,
erano già stati
imbarcati, quindi i due uomini di Mycroft, per la precisione un uomo ed
una
donna, muniti di auricolare, dissero a Molly che era arrivato il
momento di
passare i controlli di sicurezza e di dirigersi al gate
d’imbarco.
La
ragazza provò un’irresistibile desiderio di
scappare tra la folla e nascondersi
da qualche parte, oppure di aggrapparsi a John perché
impedisse loro di
portarla via, ma fu solo un momento passeggero.
«Devo
andare», disse, non senza che la voce le tremasse un poco.
«Cerca
di vederla come una vacanza, okay? Poi ci racconterai tutti i segreti
dell’FBI»,
esclamò John sorridendo, ma fu subito fulminato dai due
agenti.
«Era una
battuta», precisò, sollevando le mani in segno di
resa.
In
quel momento un mendicante dai vestiti logori si avvicinò a
loro, in
particolare a Molly, e con la scusa di farle qualche falso complimento
per
ottenere degli spiccioli le prese le mani. Subito i due agenti lo
placcarono e
lo spinsero via, cacciandolo in malo modo, e Molly sfruttò
il fatto che fossero
tutti distratti per leggere il fogliettino stropicciato che
l’uomo le aveva
lasciato tra le dita.
Quando
gli uomini di Mycroft tornarono, Molly sorrise loro brevemente e
chiese: «Posso
andare un attimo in bagno a lavarmi le mani? Non vorrei che,
sapete… Faccio in
un attimo».
I
due acconsentirono, a patto che l’agente donna
l’accompagnasse, ma Molly
insistette perché la lasciassero andare da sola.
Messa
alle strette, prese John per un braccio ed esclamò:
«Andrebbe bene se mi
accompagnasse John? È un soldato, ha affrontato moltissime
avventure pericolose
con Sherlock Holmes e ne è uscito sempre abbastanza bene,
riuscirà a
proteggermi nel caso ce ne fosse bisogno».
«Lasciateli
andare, per l’amor del cielo», borbottò
Anthea e i due agenti si ammutolirono,
dando controvoglia la propria approvazione.
Molly
si voltò e si trascinò dietro John, correndo
quasi.
«Che
cosa sta succedendo?», le chiese ad un tratto, puntando i
piedi perché si
fermasse e gli spiegasse la situazione.
L’anatomo
patologa si limitò a dargli il biglietto che quel barbone le
aveva consegnato e
riprese a correre senza aspettarlo.
John
lo aprì e dopo aver letto quelle parole scritte in modo
frettoloso con una
penna quasi scarica sorrise, scuotendo il capo.
“Worldwide
Newspapers”
SH
***
Sherlock
abbassò il giornale svedese che aveva aperto di fronte al
viso e gettò
un’occhiata verso l’uscita dell’edicola,
domandandosi come mai Molly ci stesse
mettendo tanto. Forse il senzatetto che aveva pagato non aveva portato
a termine
il proprio lavoro, forse gli uomini di Mycroft non le avevano permesso
di
allontanarsi, forse lei non voleva più vederlo.
Strinse
le labbra e si calò un po’ di più la
visiera del berretto da baseball sul viso,
dicendosi di non perdere la speranza.
Quella
notte non era riuscito a chiudere occhio, nella sua vecchia stanza del
221B di
Baker Street: rotolandosi tra le lenzuola non aveva fatto altro che
pensare a
quel bacio non dato, all’espressione che aveva visto sul viso
di Molly, e alla
fine aveva capito che non poteva lasciarla partire con
quell’ultimo suo
ricordo.
John
aveva ragione: era l’ultima occasione che aveva per mettere
in chiaro qualsiasi
cosa ci fosse in sospeso tra loro e doveva sfruttarla, prima di
pentirsene per
sempre. E anche se Molly forse ne era già a conoscenza
– conosceva praticamente
tutti i suoi difetti – doveva farle capire che infondo era un
fottuto egoista.
Con
la coda dell’occhio la vide affacciarsi
nell’edicola ed allungare il collo tra
i diversi espositori. Rincuorato che fosse corsa da lui anche quella
volta,
sorrise. Quindi chiuse di scatto il giornale svedese, attirando la sua
attenzione, e dopo averlo sistemato in mezzo a quelli francesi si
diresse verso
il fondo dell’edicola, nell’area fumetti.
Molly
lo raggiunse e la prima cosa che gli disse fu: «Non
è una buona mossa usare due
volte lo stesso travestimento».
«Ero
di fretta», le rispose, mettendosi il berretto da baseball di
traverso sulla
testa.
«Ormai
ero convinta che non saresti venuto a salutarmi, sai?».
«Beh,
John una volta ha detto che sono una drama
queen».
«E
ha ragione, eccome».
Si
scambiarono un sorriso e Sherlock si avvicinò di un passo,
sollevando le mani
per posargliele ai lati del viso.
«Mycroft
ti ha dato un incentivo, dicendoti che ho ucciso un uomo,
perché ti
allontanassi da me. L’ho fatto davvero, sai? Nel caso non ci
credessi».
Molly
respirò profondamente, posando le mani sulle sue.
«Stai per dirmi che forse
dovrei fare degli esami, che probabilmente soffro di una sindrome
simile a
quella di Stoccolma?».
Sherlock
trattenne una risata e sussurrò: «No, volevo
semplicemente darti il mio
incentivo».
Senza
darle il tempo di capire, le alzò il viso e posò
le labbra sulle sue,
intrappolandole in un bacio che se fosse stato per lui sarebbe stato
solo il
primo di diversi altri. Ma sapeva di avere i secondi contati, prima che
gli
uomini di Mycroft la individuassero e gliela portassero via.
Perciò si scostò e
posò la fronte contro la sua, obbligandola a guardarlo negli
occhi.
«Non
crearti una nuova vita, a Washington, perché tornerai qui.
Dammi un paio di
mesi al massimo. Siamo d’accordo?».
Molly,
vagamente sotto shock, annuì muovendo la testa.
«Ora
vai, Molly Hooper. E non avere paura».
L’anatomopatologa
lo guardò negli occhi e mettendocela tutta perché
la propria voce
risultasse fiera e decisa, disse: «Nemmeno tu. Ci riuscirai
anche questa volta,
ne sono certa».
Gli
sorrise e gli sistemò il cappellino da baseball in modo che
avesse di nuovo la
visiera al posto giusto, poi gli diede le spalle per uscire
dall’edicola senza
più guardarsi indietro.
Sherlock
la seguì con lo sguardo e dopo cinque minuti si diresse
anche lui verso
l’uscita, trovando John intento a girare con ben poco
interesse un espositore
di cartoline.
«E
così…», iniziò a dire il
dottore, ma il detective lo interruppe subito.
«Hai
da fare?».
«Nulla
che non possa essere rimandato».
«Bene.
Devo portare tutte le mie cose di nuovo a Baker Street».
Sherlock
sorrideva soddisfatto, come se avesse appena scoperto il crimine del
secolo, in
attesa solo che lui lo risolvesse.
John
lo affiancò con una corsetta e ridacchiò,
contando i secondi che mancavano
prima che dicesse la sua ormai celebre frase.
«Adesso
il gioco può cominciare, John».
Il
dottor Watson aprì la bocca, colpito da quel cambio di
sintassi.
Piacevolmente
colpito.
________________________________________________
Here
we are again!
Spero
davvero che vi sia piaciuta questa conclusione (non vedo
l’ora di sapere che
cosa ne pensate) e vi ringrazio di cuore, tutti quanti: chi ha
recensito immancabilmente
tutti i capitoli, chi passava ogni tanto, chi ha letto soltanto. Siete
tutti
importantissimi *^*
Spero
anche di tornare presto: ho qualche idea che mi frulla nella testa,
anche se il
tempo è sempre quello che è, purtroppo D:
Di
nuovo: grazie,
grazie, grazie! Lots of
love :)
Vostra,
_Pulse_
|
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