In my place

di _Pulse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Night #1 ***
Capitolo 2: *** Night #2 ***
Capitolo 3: *** Night #3 ***
Capitolo 4: *** Night #6 ***
Capitolo 5: *** Night #7 ***
Capitolo 6: *** Night #14 ***
Capitolo 7: *** Epilogue - Day #1 ***



Capitolo 1
*** Night #1 ***


Ciao a tutti!

Sono tornata e questa volta con una long! La mia prima long Sherlolly. Sono piuttosto emozionata, ma anche nervosa perché non sono certa del risultato. Personalmente ne sono soddisfatta, ma ci sono dei punti che mi fanno un po’ storcere il naso. A voi il dovere di giudicare, dunque! :D

Tutto ciò che succederà in questi capitoli è ambientato successivamente al terzo ed ultimo episodio della terza serie, quindi tiene conto di tutto e in alcuni casi può darsi che io abbia dato la mia personale interpretazione a ciò che è successo.

Come anticipavo a chi ha seguito le mie one-shot precedenti, questa volta ho cercato di modificare la mia visione di Molly tenendo conto della terza stagione e spero vivamente di esserci riuscita, come spero di non essere andata OOC con Sherlock e tutti gli altri.

Al solito, i personaggi appartengono ai loro creatori e questo scritto non è a scopo di lucro.

Credo di aver detto tutto, non mi resta che augurarvi una buona lettura!

Un bacio,

 

_Pulse_
 

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In my place

 

1.      Night #1

 

«Molly?».

L’anatomo patologa aprì gli occhi e, al contrario di ciò che pensava, la voce di Sherlock non era solo l’ultimo ricordo di un sogno: lui era , in piedi accanto al suo letto, che la fissava con le mani unite dietro la schiena.

«Sherlock», biascicò, tirandosi su lentamente a sedere e coprendosi fino alle ascelle con il piumone.

«Se non ti dispiace, sono piuttosto stanco», disse a bassa voce il detective, togliendosi la giacca e lanciandola distrattamente sullo schienale della sedia sotto la scrivania.

Aveva appena iniziato a sbottonarsi la camicia bianca, quando le rivolse un’occhiata insospettita. «Non indossi i pantaloni, per caso?».

Molly si scostò bruscamente le coperte di dosso e scese dal letto, trovando particolarmente sgradevole il dover appoggiare i piedi nudi sul pavimento freddo ben prima del suono della sveglia.

Sherlock notò che li indossava, i pantaloni, quindi apparve ancora più confuso. «Che c’è?».

«Come hai fatto ad entrare? Ho fatto mettere il chiavistello alla porta».

«Avevo dato per scontato che fosse per la tua sicurezza personale, ora che Moriarty sembra essere tornato sul campo di battaglia. Sono lusingato».

I suoi occhi di ghiaccio brillarono come diamanti nella camera da letto buia, rischiarata soltanto da un fascio di luce lunare, e Molly strinse i pugni lungo i fianchi, cercando di mantenere la calma.

«Sono entrato dalla finestra», spiegò, nonostante fosse l'unica soluzione possibile, a quel punto, e Molly avrebbe potuto – e dovuto – arrivarci da sola.

«Perché sei qui?», gli chiese dopo vari secondi di silenzio, fissandosi direttamente i piedi piuttosto che lasciarsi cogliere in flagrante mentre si sorprendeva del candore della sua pelle, dei muscoli definiti e dei piccoli nei che formavano una specie di costellazione sulla sua schiena longilinea.

«Perché tu invece ti ostini a rimanere qui, a farmi domande di cui conosci già la risposta?».

«Non te l'ho mai chiesto prima».

«Non vuol dire che tu non conosca già la risposta».

I suoi occhi erano taglienti e duri proprio come diamanti e Molly avrebbe preferito mille volte uscire dalla propria camera da letto in silenzio, come aveva fatto molte e molte volte prima d'allora, ma le cose erano cambiate negli ultimi mesi, lei era cambiata, e per il suo stesso bene c'erano dei momenti in cui doveva soffrire, mostrando a Sherlock che se voleva qualcosa, doveva dare qualcosa in cambio. Non sempre, questo no: si trattava pur sempre di Sherlock! Ogni tanto le sarebbe bastato. Ma sapeva che senza una piccola spinta da parte sua – o di John, o di chiunque altro gli stesse vicino nel quotidiano – quell'“ogni tanto” avrebbe preso il significato di “raramente” nel particolarissimo dizionario di Sherlock.

Il consulente investigativo trasse un lungo respiro e con gli occhi semichiusi disse pazientemente: «O qui, oppure in quel posto in culo al mondo, citando John, con i miei amici drogati. Ho pensato che se ci fossi andato, ti saresti sentita autorizzata a schiaffeggiarmi di nuovo, quindi...».

Molly scosse il capo, sconfitta, e dato che erano le tre di notte e quella mattina era di turno al Bart's decise che anche per quella volta avrebbe lasciato correre.

«Il gatto, Molly».

La ragazza, già alla porta, tornò indietro per prendere Toby tra le braccia, comodamente raggomitolato tra le coperte del suo letto e non molto contento dello sfratto improvviso. Come se lei ne fosse felice. Come se Molly Hooper non vedesse l'ora di essere buttata fuori dal proprio letto per lasciarlo a Sherlock Holmes, un detective che col tempo si era guadagnato una reputazione internazionale e che da quando il suo miglior amico e coinquilino si era sposato non faceva altro che vagabondare di qua e di là, distrutto dalla solitudine. Molly ne riconosceva troppo bene i sintomi e lui lo sapeva, sapeva che lei riusciva a vedere come stava realmente, e quando aveva la luna storta – come quella sera – gli era pressoché insopportabile.

Molly si chiuse nella camera degli ospiti e dopo essere salita a quattro zampe sul letto si infilò sotto le coperte, stringendo i denti per il freddo. Non era mai stata ricoperta di neve dal collo in giù, ma fu quella la prima immagine che le venne alla mente quando si ritrovò a fissare il soffitto.
Non provò nemmeno a chiudere gli occhi: prima di cambiare di nuovo idea, scese dal letto e tornò in camera sua. Fu più forte di lei e bussò, ma non aspettò la risposta di Sherlock prima di entrare. Lo trovò seduto sul letto, in mutande, che le dava le spalle. Per un attimo volle voltarsi e correre via, ma fu solo un attimo.

«E adesso che c'è?», domandò stancamente Sherlock, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.

«Penso che dovresti dormire tu nella camera degli ospiti, visto che tu sei l'ospite».

«Non era questo il patto».

«Lo so».

«Pensavo fossi una donna di parola».

«Non ti sto cacciando di casa, Sherlock. Vorrei solo poter dormire nella mia camera da letto».

Il detective si voltò e la scrutò a fondo, come se volesse trovare la risposta a tutte le sue domande solo guardandola. Di solito ci riusciva, praticamente sempre, e con chiunque avesse davanti agli occhi, ma quella volta no.

«Mi hai fatto dormire nel tuo letto anche quando eri fidanzata con Tom».

«Una volta sola. Ed è stato un errore imperdonabile», rispose velocemente.

Ricordava fin troppo bene la vergogna e il senso di colpa che aveva provato nei confronti di Tom quando era tornato dal turno di notte, stanco e desideroso di una bella dormita. L'aveva trovata intenta a cambiare le lenzuola del letto – solo cinque minuti prima era riuscita miracolosamente a cacciare Sherlock – e Molly, per giustificarsi, gli aveva detto che aveva intenzione di portarle in lavanderia prima di andare al lavoro. Tom se l'era bevuta, naturalmente non avrebbe mai sospettato nulla, ma lei non si era sentita a posto con se stessa per tutto il giorno, tanto che per far pace con la propria coscienza quella sera gli aveva fatto trovare una cena coi fiocchi, con tutti i suoi piatti preferiti.

Molly scrollò il capo, sperando che quel ricordo smettesse di gravarle sul cuore, e tornò a fissare Sherlock incrociando le braccia al petto e stringendosi il collo tra le spalle.

«Mi chiedo che differenza faccia per te: di certo la mia stanza non può farti sentire meno solo».

Sherlock aprì la bocca per ribattere, con gli occhi leggermente sgranati, ma passarono diversi secondi prima che la voce gli tornasse.

«Dovrai trascinare via il mio corpo morto, se vuoi davvero dormire qui», sibilò con tono acido, poi afferrò le coperte e coprendosi fin sopra la testa si rannicchiò sul fianco.

Molly lo guardò incredula. Non riusciva proprio a capire il motivo per cui Sherlock si ostinasse così tanto: che cos’aveva di speciale il suo letto? Era più caldo di quello nella camera degli ospiti, sicuramente. Ma era una teoria troppo assurda perché ci credesse anche solo per un istante. Si sforzò di pensare ad altre motivazioni plausibili, ma il sonno l’ebbe vinta troppo presto.

Molly sapeva perfettamente che se avesse ceduto quella volta, dopo tutta la forza che le ci era voluta per tornare indietro ad affrontarlo, in futuro non avrebbe avuto la benché minima speranza di ottenere qualcosa da lui. Doveva andare fino in fondo, dimostrare a Sherlock che non poteva comportarsi in quel modo – non più.

Respirò profondamente per farsi coraggio e disse: «Non voglio finire in prigione per colpa della tua testardaggine».

Sherlock si tolse la coperta dalla testa e allibito seguì con gli occhi ogni suo singolo movimento.
Molly salì sul letto, diede un paio di colpi al cuscino, poi si infilò sotto alle coperte, al suo fianco.

Passò un’eternità prima che smettesse di fissarle la schiena e i capelli castani sparsi sul cuscino, prima che finalmente tornasse a darle le spalle come se ciò che aveva appena fatto non l’avesse minimamente toccato.

 

***

 

Non avrebbe mai immaginato che Sherlock potesse reagire in quel modo: non reagendo.

Aveva sempre lottato per la sua privacy, per avere i suoi spazi – per quello avevano concordato che avrebbe dormito nella sua camera! – e ora che lei aveva deciso di cambiare i punti fondamentali del loro patto, lui non diceva o faceva niente. All'improvviso la condivisione di quel letto non era più un problema. Sconveniente sì, perché Molly era certa che non sarebbe riuscita a chiudere occhio sapendo di essere sdraiata a pochi centimetri da uno Sherlock semi-nudo, ma non un problema.
C’erano dei limiti a tutto e Molly sapeva con certezza che uno dei suoi era il fatto che non l’avrebbe mai capito fino infondo, non da sola. Ma Sherlock non l'avrebbe mai aiutata in questo, mai si sarebbe esposto di sua iniziativa.

La ragazza lesse di nuovo l'ora sulla sveglia digitale e smise di farsi domande a cui non avrebbe ottenuto risposte. Era stanca e voleva davvero tornare a dormire, Sherlock o meno nel letto. Chiuse gli occhi e respirò profondamente, cercando un pensiero o un ricordo tranquillizzante.
Tutti i suoi sforzi però furono vani, purtroppo: era stato riportato a galla il nome di Tom e ora non riusciva a pensare ad altro. Era passato poco tempo dalla loro rottura, pochissimo rispetto all'anno in cui erano stati insieme, e se col tempo avrebbe dimenticato le piccole cose, i sorrisi, le risate e i baci, non avrebbe mai, mai potuto fare la stessa cosa con il momento in cui aveva avuto la piena consapevolezza di non amarlo davvero.

 

«Mary e John, in qualsiasi modo, qualunque cosa succeda, da oggi in poi giuro che ci sarò sempre. Sempre. Per tutti e tre. Ehm, scusate. Volevo… volevo dire due. Tutti e due. Entrambi, infatti. Ho solo contato male. Ad ogni modo, è tempo di danzare. Fate ripartire la musica, prego. Grazie. Okay, tutti voi, ballate. Non siate timidi!».

La musica partì e Sherlock scese giù dal palco. In smoking e con le luci colorate che gli danzavano addosso era ancora più bello del solito e Molly non poteva negarlo. Prese però la mano di Tom e lo portò in pista, decisa a divertirsi. O almeno una parte di lei lo era, mentre l'altra non riusciva ad evitare di gettare occhiate al detective, ora fermo in mezzo alla folla danzante, di fronte ai due novelli sposi.

Sembravano nel bel mezzo di una discussione, quando ad un certo punto Sherlock disse qualcosa in grado di farli rilassare improvvisamente. Il volto del consulente investigativo si era illuminato grazie ad un sorriso straordinario, uno di quelli più unici che rari, e anche a Molly venne voglia di sorridere. Si accorse però che lo stava già facendo, mentre Tom le alzava un braccio e le faceva fare una giravolta.

Quando John e Mary iniziarono a ballare e si allontanarono, Sherlock si guardò intorno spaesato fino a quando non scorse la damigella d'onore, Janine. Molly si sentì morire accorgendosi del sorriso che lui le aveva rivolto e fu ancora peggio quando esso scomparve all'improvviso: Janine aveva trovato un altro cavaliere e Sherlock era solo, in mezzo alla pista da ballo.
Molly avrebbe tanto voluto raggiungerlo e ballare con lui, anche solo per cinque minuti, per dimostrargli che quella non era l’esatta previsione di ciò lo attendeva da quel giorno in poi, ma ci ripensò: non poteva abbandonare Tom e Sherlock avrebbe insultato la propria intelligenza, se avesse davvero creduto che il matrimonio di John avrebbe stravolto la loro amicizia.

Qualche giravolta dopo, Sherlock attraversava di nuovo la pista da ballo con espressione cupa. Quella volta però era diretto verso l'uscita e nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo, perché nessuno lo aveva notato. Nessuno eccetto Molly.
Il tempo parve fermarsi e così anche lei, il suo nome sulle labbra, pronte ad urlarlo a squarciagola.

 

Era stato quello il momento in cui aveva avuto la piena consapevolezza di non amare Tom, di non averlo mai amato. Perché nonostante non avesse gridato il suo nome, nonostante non lo avesse rincorso, il suo cuore lo aveva fatto. Come sempre e contro ogni sua volontà, il suo cuore aveva scelto di stare accanto a Sherlock.

Molly si girò e rimase a fissare la schiena del detective.

«Sherlock?», bisbigliò. «Dormi?».

Lui non rispose e l'anatomo patologa, prestando più attenzione al suo respiro, si accorse che era regolare e pesante. Con un sospiro tirò fuori un braccio e con delicatezza gli coprì la spalla nuda con il piumone.

«Che ho fatto di male per innamorarmi di te?», mormorò ancora, poi chiuse gli occhi e seguendo il ritmo del respiro di Sherlock si addormentò.

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Capitolo 2
*** Night #2 ***


Ecco il secondo capitolo, spero sia degno del precedente! ;)
Ringrazio ancora, di cuore, chi ha commentato e chi ha letto, mi avete fatto davvero la donna più felice del mondo.
Buona lettura!

 

_Pulse_

 

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2.      Night #2

 

Molly si svegliò e capì subito che c’era qualcosa di sbagliato.
Primo, la sua sveglia segnava le sette e trenta, quando avrebbe dovuto suonare almeno un’ora e mezza prima; secondo, la sua schiena era premuta contro qualcosa di caldo e compatto; terzo, qualcuno le stava respirando tra i capelli, all’altezza del collo.
Il suo cervello, già in allarme per il ritardo mostruoso, andò completamente nel pallone quando realizzò che quel respiro era di Sherlock e che quello contro cui era premuta la sua schiena era a tutti gli effetti il suo petto.
Scioccata, spostò con delicatezza il suo braccio e scivolò fuori dalle coperte. Quindi corse in bagno senza più guardarsi indietro, sperando che fosse solo l’incubo più bello che avesse mai fatto in vita sua.

 

***

 

Sherlock aspettò che Molly uscisse di casa, poi si alzò e aprì le ante dell’armadio, trovando la sua vestaglia delle emergenze lì dove l’aveva lasciata l’ultima volta. Aveva preso il profumo degli indumenti di Molly, ma non gli dispiacque più di tanto. Anzi, non gli dispiacque affatto.
Uscì dalla camera da letto e fece un giro di ricognizione, entrando in ogni camera del piccolo appartamento. Aveva bisogno di abbassare i livelli di inquietudine e soffermarsi sui particolari era la distrazione migliore.

«Concentrati», mormorò a se stesso, avvicinandosi alla mensola del bagno dove Molly teneva le boccette dei profumi.

Nonostante fossero quasi tutte ancora piene, a Sherlock bastò una frazione di secondo per distinguere quali le erano state regalate – la maggior parte, – quale utilizzava per le occasioni speciali e quale avrebbe dovuto usare quotidianamente. Avrebbe dovuto perché si dimenticava di spruzzarsi addosso il profumo un giorno sì e l’altro pure da quando era tornata single.
Sherlock aveva avuto l’occasione di sentirli tutti, ma nessuno di essi era il suo preferito. A lui piaceva il profumo della pelle di Molly. E quello del suo ammorbidente. Insieme, creavano un mix capace di rilassarlo in un modo del tutto inconcepibile ed irrazionale.
Aveva provato con il solo ammorbidente (si era appuntato mentalmente il nome e la marca, ne aveva comprato un flacone al supermercato e aveva obbligato la signora Hudson a lavargli le lenzuola con quello), ma non aveva funzionato. Come non aveva funzionato quando Molly gli aveva permesso di dormire nel suo letto mentre Tom era a fare il turno di notte: il profumo di Molly era stato contaminato da quello del suo fidanzato e Sherlock non aveva fatto altro che rotolarsi tra le lenzuola per ore, senza riuscire a chiudere occhio. Per quello era successo una volta sola. Ma ora sapeva che anche se fosse ritornato, lei lo avrebbe mandato via.
Era sicuro al cento percento che tra lei e Tom non avrebbe mai funzionato, anche se per il suo bene ci aveva davvero sperato, ma era anche segretamente contento di poter riavere il letto tutto per sé. O quasi.
Quello che aveva fatto Molly la sera prima lo aveva davvero spiazzato. E gli aveva anche dato l’ultima, definitiva conferma di quanto fosse cambiata. Nei confronti del mondo, nei suoi confronti.
Quella volta era davvero intenzionata a seppellire ogni sentimento amoroso che provava per lui da sempre, era davvero pronta a rifiutarlo, e Sherlock doveva prestare molta attenzione.
Aveva molti difetti, moltissimi, ma non era insensibile come dava a vedere e anche lui poteva diventare soggetto a quel particolarissimo meccanismo che aveva avuto più volte modo di analizzare osservando i suoi clienti: più una persona desidera qualcuno, meno quel qualcuno la ricambierà; più la prima decide allora di evitare quel qualcuno, più quel qualcuno cambierà idea e vorrà farla sua.
E proprio perché Sherlock era a conoscenza di tutto ciò, avrebbe dovuto prestare molta più attenzione. A partire da quella stessa notte, quando aveva permesso a Molly di sdraiarsi accanto a lui. E poi quella mattina, quando aveva disattivato la sua sveglia e si era avvicinato a lei sempre di più, un centimetro alla volta, fino a sfiorarle con le dita la spalla nuda, fino ad abbracciarla, fino a respirare il suo profumo direttamente dalla fonte: i suoi capelli, la sua pelle.

Non devi perdere la concentrazione, esclamò la sua mutevole voce interiore. Quella volta, giusto per irritarlo un po’, aveva deciso di assumere i toni saccenti di quella di suo fratello Mycroft.
Sempre che tu non l’abbia già persa.

«Fai silenzio!», sibilò Sherlock, sbattendosi la porta del bagno alle spalle.

 

***

 

Molly aprì la porta di casa e dopo aver ripreso le borse della spesa che aveva lasciato sul pianerottolo entrò sospirando di fatica. Ogni volta rimpiangeva il fatto di aver scelto un appartamento in un condominio sprovvisto di ascensore.

«Ehi Toby», salutò il micio che le era andato incontro per strusciarsi contro le sue caviglie. Quindi posò le borse sul tavolo della cucina e lo prese tra le braccia.

«Scusami se stamattina non ti ho salutato come si deve, ma ero in ritardo. La sveglia non è suonata, oppure l’ho spenta e non me ne sono resa conto. Dopotutto ero davvero stanca. E ora ho una fame terribile, sai? Ho saltato la pausa pranzo per recuperare. Ma lo sarai anche tu, immagino».

Gli sorrise e gli posò un bacio sulla testolina mentre si dirigeva verso l’armadietto in cui teneva le scatolette di cibo per gatti. Aveva appena aperto il cassetto dove teneva le posate, quando con la coda dell’occhio vide una scatoletta identica a quella che aveva in mano nel lavello, vuota. Corrugò la fronte e gettò uno sguardo verso Toby.

«Sherlock ti ha dato da mangiare?», gli chiese, come se sperasse davvero di ottenere una risposta da lui.

Il detective non aveva mai dimostrato simpatia verso il suo gatto, ma nemmeno antipatia, perciò Molly non si fece troppe domande e si inginocchiò per accarezzare di nuovo l’animale.

«Spero tu l’abbia ringraziato, almeno. Io gli manderò un sms, più tardi. Adesso devo sistemare questa roba».

Non si era ancora tolta il cappotto, né la sciarpa: era più importante mettere quello che aveva comprato in frigorifero, prima che andasse tutto a male. Solo una volta finito si spogliò e andò in camera per cambiarsi.
Quasi si sorprese nel trovare il letto ancora sfatto: comprensibile, visto che da quella mattina non aveva fatto altro che ripetersi che si era sognata tutto, che non si era svegliata stretta tra le braccia di Sherlock, che era impossibile nel modo più definitivo.

Sarebbe stato troppo chiedere un po’ di chiarezza, una volta tanto? Ma con Sherlock la parola “chiarezza” non esisteva, o meglio, esisteva nel suo personale dizionario come “unico risultato possibile una volta risolto un enigma o un efferato delitto”.

Spalancò le finestre per far cambiare aria alla stanza e nel frattempo si cambiò, infilandosi i morbidi pantaloni di una tuta da jogging che con lei non aveva mai vissuto per quello scopo e un’enorme felpa rossa con il collo alto e una tasca sul davanti, perfetta per le sue mani quasi sempre fredde.

Rifece velocemente il letto, senza badare troppo alla perfezione – dopo la giornataccia che aveva passato aveva intenzione di coricarsi presto – e dopo aver chiuso le finestre si diresse verso il bagno. Trovò la porta stranamente chiusa, ma non si pose molti problemi ed entrò come se nulla fosse. La ventata di vapore che la investì la paralizzò sulla porta, mentre i suoi occhi incrociavano quelli di Sherlock, a mollo tra la schiuma nella sua vasca da bagno.
Molly boccheggiò come un pesce fuor d’acqua e poi come un gambero arretrò fino ad uscire dal bagno. Chiuse anche la porta, non sapendo che altro fare, e vi si appoggiò con le spalle.

Stava cercando di razionalizzare ciò che aveva appena visto, senza risultati apparenti: era semplicemente assurdo!

«Non è buona norma bussare?», domandò Sherlock da dietro la porta, e Molly sentì lo scorrere del getto dell’acqua.

«Che cosa ci fai nella mia vasca da bagno?», chiese lei, scioccata.

«Mi pare piuttosto ovvio: il bagno!».

«Okay, ma… Perché?».

«Non avevo voglia di tornare a casa».

«Oh, quindi… Vuoi dire che sei stato qui tutto il giorno?».

«Mmh-mmh», mugugnò.

«Bene». Molly si passò le mani sul viso e sospirò: «Fantastico».

«Che hai detto?».

«Niente. Gli asciugamani puliti sono…».

La porta si aprì all’improvviso di fronte a lei e Molly sobbalzò, trovandosi di fronte ad uno Sherlock con i capelli bagnati che gli cadevano sugli occhi verdazzurri, un asciugamano intorno al collo e uno a cingergli la vita.

«Lo so», le sussurrò prima di rivolgerle un piccolo sorriso storto e di farle l’occhiolino. Quindi si chiuse di nuovo in bagno, lasciando Molly nella più totale confusione.

Una manciata di secondi dopo, o forse un paio di interi minuti – Molly non avrebbe saputo dire con precisione quanto tempo fosse rimasta a fissare la porta – Sherlock aggiunse, urlando per farsi sentire sopra il rumore del phon: «Potresti cucinare qualcosa?».

L’anatomo patologa si ridestò e, sempre più scioccata, esclamò: «Che cosa?».

«Ho fame!», fu la risposta di Sherlock. «Un piatto di pasta andrà più che bene».

Molly ripeté a bassa voce le sue parole, come se farlo potesse aiutarla a renderle più reali. Sherlock richiamò la sua attenzione, spegnendo persino il phon, e Molly fu costretta a dire che sì, gli avrebbe fatto quel piatto di pasta. Il phon si riaccese, così come una scintilla di irritazione nel suo stomaco. 

 

***

 

Sherlock si sistemò il colletto della camicia scura e si diede un’ultima occhiata allo specchio, poi si voltò per chiudere le ante dell’armadio di Molly.
Col tempo le aveva lasciato un paio cambi di emergenza, assieme ad una delle sue vestaglie, e proprio per questo la scelta era davvero limitata.
A volte quando si parlava di abbigliamento poteva essere incontentabile come una vera e propria regina – escluso il drama.

Trovò Molly in cucina, intenta a scolare l’acqua della pasta. 
La tavola era apparecchiata per due e Sherlock, non sapendo dove solitamente si sedeva lei, si schiarì la voce per attirare la sua attenzione.

L’anatomo patologa gli gettò una rapida occhiata e disse: «Siediti dove vuoi, fai come se fossi a casa tua».

Il detective aggrottò le sopracciglia, afferrando lo schienale della sedia a capotavola. «Era sarcastica la tua affermazione?».

Molly accennò un sorriso, e quello fu tutto ciò che gli concesse: a lui il compito di dedurre ciò che stava a significare.

Sherlock prese posto e Molly gli servì in silenzio un piatto di pasta al sugo, poi si sedette alla sua destra.

«Buon appetito», disse senza molta convinzione, infilzando due pennette.

Sherlock la imitò, senza mai perderla di vista.

Era ovvio che fosse infastidita, se non addirittura arrabbiata con lui. Appurato questo, doveva solo scegliere uno dei molteplici motivi per cui Molly avrebbe potuto esserlo e metà dell’opera era fatta. La seconda metà sarebbe stata quella più ardua, ma aveva ancora tempo prima che ci arrivassero.

Uno, sono stato a casa sua tutto il giorno senza che lei lo sapesse.
Due, ho usato il suo bagno senza chiederle il permesso.
Tre, può pensare che abbia ficcanasato in giro. E l’ho fatto.

Quattro, l’ho messa in imbarazzo mostrandomi mezzo nudo. Ma questa non è una novità, dopo ieri sera.
Quattro, le ho chiesto di prepararmi la cena in modo scortese.
Cinque, sono stato scortese.
Sei, non l’ho ringraziata.
Sette, non l’ho salutata.

La lista si stava facendo troppo lunga, quindi Sherlock optò per un’altra tattica: mostrarsi gentile perché si dimenticasse di quanto avesse fatto di sbagliato in precedenza.

«Non sapevo sapessi cucinare così bene», disse sorridendole. «La pasta è un po’ troppo cotta, ma il sugo è eccezionale. L’hai fatto tu?».

Molly si pulì la bocca con il tovagliolo ed indicò il ripiano della cucina alle sue spalle: lì in bella vista, un vasetto vuoto di sugo già pronto.

«Uhm», mugugnò Sherlock, abbassando gli occhi. Il primo tentativo era fallito, ma aveva ancora un asso nella manica.

«Ho dato da mangiare al tuo gatto, a… Mi dimentico sempre il suo nome».

«Toby. Si chiama Toby».

«Toby, certo».

La fissò speranzoso, in attesa che lo ringraziasse e che smettesse di ignorarlo, ma Molly non lo degnò nemmeno di uno sguardo mentre gli diceva in tono piatto: «Pensavo l’avessi scambiata per una scatoletta di tonno normale e che l’avessi mangiata tu, sai? Beh, sei stato gentile allora».

«Davvero? Tutto qui?», sbottò, infastidito.

Molly alzò il capo, guardandolo con finta aria sorpresa. «Come, scusa?».

«Sei arrabbiata con me».

«No, ti sbagli».

«No, non mi sbaglio».

Molly lasciò cadere la forchetta nel piatto ed incrociò le braccia al petto, guardandolo negli occhi con aria di sfida. 
«Ti sto imitando, Sherlock».

Il detective sbatté rapidamente le palpebre, cercando di focalizzare il punto che evidentemente si era perso. 
«Tu mi stai cosa?».

«Non hai limiti, non ti interessi delle opinioni degli altri e soprattutto hai sempre in mente mossa e contromossa», gli spiegò, contando sulle dita di una mano. «Io ti sto imitando, Sherlock, perché la mia mossa ora è quella di chiederti il motivo per cui sei qui da ieri sera, la tua è il silenzio, o la menzogna, e la mia contromossa è quella di andarmene senza farti alcuna domanda».

Si alzò facendo strisciare rumorosamente i piedini della sedia sul pavimento e lasciò Sherlock da solo in cucina, di fronte al suo piatto di pasta mezzo pieno.
Poco dopo il detective la sentì tornare e si alzò, chiedendosi se avesse cambiato idea, ma ciò che vide fu il triste epilogo della loro discussione: si era cambiata, quindi voleva uscire.

Molly si diresse spedita verso l’attaccapanni e si infilò il cappotto. Mentre si sistemava la sciarpa intorno al collo, Sherlock le chiese dove volesse andare da sola a quell’ora.

«Non è affar tuo», rispose concisa e una volta afferrata la borsa uscì dall’appartamento, sbattendosi rumorosamente la porta alle spalle.

 

***

 

Molly sapeva benissimo di essere stata dura con lui, forse un po’ troppo, tanto da risultare patetica, ma non aveva visto altre alternative. E poi era davvero arrabbiata con lui. Non come quando John l’aveva portato al Bart’s ed analizzando un campione delle sue urine lo aveva trovato ben poco pulito, ma quasi.

Il suo recente comportamento le era incomprensibile e lui, come sempre, non sembrava minimamente intenzionato a dare spiegazioni.
“Spiegazione” era un’altra parola dal significato contorto stando al dizionario di Sherlock: non aveva una definizione vera e propria, era più che altro un sinonimo di “perdita di tempo”, “scarso utilizzo delle capacità intellettive” e “inutilità”.

Sherlock doveva imparare ad essere chiaro con lei, a chiedere ciò di cui aveva bisogno senza pretendere che lei lo capisse leggendogli la mente. Perché era vero, a volte non c’era bisogno che lui parlasse perché lei afferrasse ogni suo più piccolo pensiero, ma… a volte.
Sherlock si era in qualche modo abituato a quelle volte e quando gli faceva comodo – quando non lo trovava fastidioso – ci faceva pieno affidamento, senza rendersi conto di chiederle l’impossibile.

Di fronte ad un bicchiere aveva pensato molto a cosa fare una volta tornata a casa – sempre se Sherlock fosse stato ancora là – ma lei non era affatto tagliata per la pianificazione di mosse e contromosse. Lei era emotiva, sensibile, e la maggior parte del tempo agiva d’istinto, seguendo ciò che le diceva il cuore. Quindi aveva deciso di essere se stessa: sarebbe successo quello che sarebbe successo e il sole sarebbe sorto comunque.

 

Girò piano le chiavi nella toppa ed entrò nell’appartamento di soppiatto, trovandolo immerso nel buio e nel silenzio. Chiuse con due mandate e mise anche il chiavistello, poi si spogliò e in punta di piedi si diresse verso la sua camera. Sporgendosi all’interno, scorse Sherlock steso sotto le coperte, con le braccia sotto al cuscino e i ricci ancora un po’ umidi che gli ombreggiavano il viso.
Molly si lasciò andare ad un sospiro e senza far rumore socchiuse la porta. Aveva vinto lui, anche quella notte.

Andò in cucina per prepararsi un tè e fu con sorpresa che notò che Sherlock aveva sparecchiato e aveva persino lavato i piatti. Sul tavolo inoltre c’era un bigliettino scritto di suo pugno.
Una sola parola, un semplice «Scusa» che fu in grado di farle affiorare un minuscolo sorriso alle labbra.

«Questo è giocare sporco, Sherlock Holmes».

Ma con lei come avversaria avrebbe vinto in qualsiasi modo, sempre.



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Capitolo 3
*** Night #3 ***


Buon pomeriggio!
Sperando che voi vi sentiate più tranquilli e meno nervosetti di me oggi (è stata una giornata difficile) vi lascio questo terzo capitolo, incrociando come sempre le dita ;)
Un grazie enorme a chi ha recensito lo scorso capitolo e anche a chi ha letto soltanto, lots and lots of love.
A settimana prossima, buona lettura!

 

_Pulse_

 

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3.      Night #3

 

Molly si stiracchiò per bene, allungandosi nel letto e godendo del ritrovato spazio personale. Allo stesso tempo però rimpianse il calore che aveva provato quando si era risvegliata tra le braccia di Sherlock, il senso di sicurezza e protezione che aveva perso non appena era sgattaiolata via, in preda al panico.
Se ci ripensava andava ancora in panico, ma odiava anche se stessa per non aver goduto fino infondo di quell’unico, irripetibile e sbagliatissimo momento.

Si alzò dopo aver fatto scivolare una mano sul morbido pelo di Toby e fece una capatina in bagno, trovandolo libero. Quindi si avvolse nella propria vestaglia rosa e cercò di dare un ordine almeno apparente ai capelli legandoli in uno chignon alto.

Aveva il turno serale al St Bartholomew’s Hospital, perciò aveva la mattinata libera per svolgere qualche commissione. Sempre se Sherlock non avesse avuto bisogno di lei.
No, diamine, ho una vita personale anch’io! pensò e più determinata di prima fece un elenco mentale di ciò che avrebbe potuto fare: c’erano delle bollette da pagare, c’era da prenotare la visita di routine dal veterinario di Toby e poi non le sarebbe dispiaciuto fare un po’ di shopping. Era da troppo tempo che non pensava un po’ a se stessa e voleva comprarsi qualcosa di carino.

Nel frattempo aveva riempito il bollitore e aveva messo un paio di tovagliette sul tavolo, chiedendosi se Sherlock volesse fare colazione.

La notte le aveva fatto abbassare l’ascia di guerra e si sentiva più bendisposta nei suoi confronti, nonostante non fosse proprio contenta del suo quasi-trasferimento nel suo appartamento. Se solo avesse parlato con lei, se solo le avesse spiegato che cosa lo stava tenendo lontano da Baker Street…

Molly trovò il bigliettino di scuse di Sherlock sul ripiano della cucina, lì dove lo aveva lasciato la sera prima, e con esso nella tasca della vestaglia si diresse verso la propria stanza da letto.

«Sherlock?», lo chiamò, picchiando lievemente le nocche contro la porta. «Sei sveglio?». Attese qualche secondo e non ottenendo alcuna risposta aggiunse: «Sto preparando il tè. Ne vuoi una tazza?».

Che si sia offeso per il mio comportamento di ieri sera? si domandò, perplessa.
Sherlock non l’avrebbe mai ammesso, ma era un tipo piuttosto permaloso.

Scartò quell’idea non appena le sue dita si strinsero inconsciamente intorno al suo bigliettino e si disse che probabilmente era abituato a svegliarsi molto tardi, tutto qui.

Molly fece colazione con calma e sistemò un po’ del disordine che il detective si portava sempre dietro, ovunque andasse, quindi si preparò per uscire.

Probabilmente per lui non avrebbe fatto alcuna differenza, forse l’avrebbe addirittura infastidito se l’avesse svegliato solo per dirgli che usciva, ma le sembrava la cosa più giusta da fare.

Bussò di nuovo e di nuovo ciò che sentì fu solo silenzio, così si azzardò ad aprire la porta e a sbirciare all’interno.
Sherlock non c’era.

 

***

 

Mycroft accennò un sorriso vittorioso quando si accorse del fratello minore, seduto sulla poltrona che dava le spalle alla porta del suo salottino privato al Diogenes Club.

«Sapevo saresti venuto», esclamò sedendosi sulla poltrona di fronte e piegando il quotidiano sul tavolino di cristallo.

Sherlock si passò due dita sulla tempia sinistra con aria annoiata. «Davvero?».

«Lo sai che non ho il tempo utile ad aspettarti. Sei sempre stato lento, Sherlock».

Il detective serrò la mascella e respirò profondamente per cacciare dalla mente i ventitré modi in cui si sarebbe divertito a tappare la bocca a Mycroft.

«Novità?», gli domandò.

«Nessuna».

«Siete davvero così incapaci, tu, i tuoi servizi segreti e tutti gli altri tuoi più o meno leciti contatti?!».

Mycroft intrecciò le mani di fronte alla bocca, a nascondere l’ennesimo sorriso, e con tono vellutato replicò: «Come se tu avessi fatto progressi».

Quella frase fu in grado di ammutolire Sherlock, il quale strinse i pugni sui braccioli della poltrona e chinò il capo.

Il maggiore degli Holmes si alzò e fece qualche passo silenzioso sul pavimento ricoperto di morbidi e pregiatissimi tappeti persiani.

«Non siamo ancora riusciti a risalire all’identità dell’hacker che ha trasmesso quelle immagini su ogni schermo di Londra. È bravo, più bravo di qualsiasi altro affiliato di Moriarty».

Sherlock chiuse gli occhi quando quel nome raggiunse le sue orecchie, ma il suo cuore aveva già aumentato le pulsazioni e i normali livelli di sudorazione erano già stati alterati.

«Mi chiedo quanti siano riusciti a scampare alla nostra “caccia alle streghe”. Ma una cosa è certa: d’ora in poi non possiamo lasciare nulla al caso. Ho bisogno che tu sia nel pieno delle tue facoltà».

«Io sono nel pieno delle mie –».

«Hai dormito per due notti di fila a casa della signorina Hooper», lo interruppe e gli rivolse un’occhiata gelida. «Sorpreso? No, certo che no. Sai benissimo che ho alzato al massimo il livello di sorveglianza. E non solo io, dopo quello che è successo con Magnussen».

«Smettila».

«Spiegami che cos’hai in mente e allora forse – forse – la smetterò. Non c’è bisogno che io ti dica che la signorina Hooper è diventata un obiettivo ad alto rischio. Quindi per quale motivo non fai altro che peggiorare le cose?».

Sherlock si portò gli indici alle labbra e stese le gambe fino ad allora rimaste elegantemente accavallate. «Non capiresti».

«Potrei almeno provarci!», urlò, furibondo.

Il consulente investigativo si alzò e lo raggiunse. Faccia a faccia, sussurrò soltanto una parola: «Redbeard».

Mycroft inarcò un sopracciglio e Sherlock non poté impedire ad un sorriso triste di spaccargli le labbra.

«Aspetto quelle novità», aggiunse poco prima di chiudersi la porta alle spalle e di lasciare il fratello maggiore da solo in quella grande stanza silenziosa, dove avrebbe intrattenuto una lunga conversazione con i propri pensieri per giungere infine all’unica conclusione possibile.

 

***

 

Molly salì sulla carrozza e per sedersi ebbe l’imbarazzo della scelta, visto che a quell’ora poche persone prendevano la metropolitana. Scelse un posto vicino alle porte e destino volle che qualcuno si fosse dimenticato, sul sedile accanto, l’ultimo numero di una famosa rivista di gossip. In copertina c’era Janine, l’ormai famosa Janine: la damigella d’onore di Mary Watson, l’ex-fidanzata di Sherlock.

Quando aveva venduto i primi racconti piccanti sulla loro relazione, Molly ne era rimasta scioccata – come tutti – ma non ne aveva fatto parola con nessuno. Era stato John, quando per caso si erano incontrati al supermercato, ad aprire l’argomento e a chiuderlo, raccontandole a grandi linee ciò che era successo tra loro e perché. Sì, perché Sherlock Holmes non faceva mai nulla senza un motivo ben preciso e per iniziare una relazione con una ragazza vera, per spingersi anche a qualche notte di sesso, doveva aver avuto uno scopo molto ambizioso, uno scopo che alla fin dei conti aveva raggiunto con successo (escludendo la pallottola che i chirurghi gli avevano gentilmente rimosso dal corpo).

Anche Mary, qualche settimana più tardi, le aveva spiegato che Janine aveva ingigantito tutto in modo da rendere le sue rivelazioni il più appetibili e fruttuose possibile. Si era dimostrata un’abile imprenditrice e soprattutto una perfetta bugiarda, guadagnandosi un gruzzolo che da quanto aveva capito aveva investito in un cottage nel Sussex o giù di lì.

Tutti, ora che ci pensava, si erano dati un gran daffare per rassicurarla e migliorare la situazione di Sherlock. Come se lei potesse davvero aver sofferto per tutto ciò che era stato scritto su loro due! Certo che aveva sofferto, ma mai come quando i tabloid avevano fatto a gara per pubblicare le peggiori storie sul “falso genio” morto suicida.

 

Aveva quasi dato per scontato che a quell’ora avrebbe trovato Sherlock, in vestaglia, intento ad esaminare tutti i libri della sua libreria e a riordinarli nel modo secondo lui più logico, e questo la fece preoccupare: aveva dormito da lei per due sere soltanto – che le erano sembrate eterne, quello sì – e ne sentiva già la mancanza? No, non poteva permetterlo. Era ora di riprendere in mano le redini della sua vita, senza più coinquilini inattesi e sconvenienti; ora di dimenticare Sherlock per l’ennesima volta.

Iniziava a chiedersi seriamente se ogni suo tipo di sforzo fosse così inutile. Non solo perché ogni volta che si metteva d’impegno per voltare pagina lui ricompariva sulla sua strada per chiederle aiuto, ma soprattutto perché ogni volta che incrociava i suoi occhi o scorgeva un minuscolo sorriso sulle sue labbra tutti i suoi muri, così faticosamente innalzati, crollavano come un castello di sabbia di fronte ad un’onda, e i sentimenti che provava per lui si dimostravano più forti e vivi di prima.

Molly si passò le mani tra i capelli e capì che ciò di cui aveva bisogno per rilassarsi e cacciare via quei pensieri era un bel bagno caldo e pieno di schiuma.

 

***

 

Quel giorno non era stato particolarmente produttivo, eccezion fatta per la chiave dell’appartamento di Molly che era riuscito a farsi fare.
Ne aveva preso il calco molto tempo prima, giusto per prevenzione, e quel pomeriggio, prima di passare da Mycroft, era andato a far visita al suo fabbro di fiducia.

Essendo nuova ci sarebbero voluti un paio di utilizzi prima che funzionasse alla perfezione, perciò Sherlock decise di testarla subito: la infilò nella toppa e la girò lentamente, senza far rumore.
Aprì la porta, ma l’esaltazione venne subito spazzata via dal disappunto che provò trovando quel maledetto chiavistello di nuovo agganciato.

Sbuffò spazientito e richiuse la porta, poi corse giù per le scale.

 

Sherlock spinse leggermente in avanti la porta della camera da letto di Molly, quel tanto che bastava per sbirciare all’interno, e vide l’anatomo patologa già addormentata, accoccolata sotto alle coperte.

Entrò in punta di piedi e sotto la luce della luna si spogliò, poi sollevò un angolo delle coperte e scivolò accanto a lei.
Ci volle un po’ perché trovasse il coraggio di abbracciarla come aveva fatto la mattina prima, ma una volta trovato si pentì di non averlo fatto prima: Molly aveva fatto il bagno e aveva i capelli ancora un po’ umidi, era calda e profumava in una maniera incredibile. Si lasciò sfuggire anche un mugolio di piacere, col naso che le sfiorava la nuca, e fu allora che si accorse della rigidità del suo corpo: Molly era sveglia.

«Sherlock?», balbettò infatti poco dopo, e il detective la lasciò subito andare, trovandosi tremendamente a disagio a causa di quel suo attimo di debolezza.

Molly si tirò su a sedere ed accese l’abat-jour sul comodino. Con le spalle appoggiate contro la testata del letto, lo fissò con un’espressione disorientata e lievemente intimorita.
«Ti prego, spiegami che cosa sta succedendo», lo supplicò.

Sherlock strinse le labbra e guardò il soffitto assottigliando gli occhi.

Non sentiva la necessità di dormire con qualcuno da quando, all’età di otto anni, si era rifugiato nel letto di suo fratello Mycroft a causa di un incubo e si era ritrovato culo a terra dopo nemmeno dieci secondi.
Ora invece non riusciva a chiudere occhio o, almeno, non riusciva a riposare decentemente se non stava vicino a lei. Il suo profumo non gli bastava più. La notte prima, infatti, quando Molly aveva deciso di dormire nella stanza degli ospiti, si era svegliato ripetutamente, scosso dai soliti incubi.

«Gli incubi», mormorò, portandosi i palmi delle mani sugli occhi.

Ne soffriva da un po’, precisamente da quando Mary gli aveva sparato.
Viveva e riviveva quel momento terribile e poi quello ancora più terribile, quando aveva rischiato di dissanguarsi, di non reggere lo shock e di morire per il dolore, quando gli unici appigli che era riuscito a trovare erano stati proprio Molly e Redbeard: loro due, nel suo Palazzo Mentale, gli avevano dato la forza per non cedere a nessuna delle tre cose che avrebbero potuto ucciderlo nell’immediato.
Poi era entrato in scena Moriarty. In un angolo della sua mente, il suo ricordo era ancora vivido e spaventoso, e da quando quelle immagini avevano invaso la sua Londra ne era terrorizzato.

Dolore e paura, le due cose che aveva sempre cercato di fuggire in ogni modo possibile, lo tormentavano ogni volta che chiudeva gli occhi.

 

***

 

«Quali incubi?».

Molly notò le sue labbra muoversi in silenzio, pronunciare nomi e frasi che non riuscì ad afferrare.

«Sherlock?». Preoccupata, si sporse su di lui e gli prese il viso tra le mani, accarezzandogli delicatamente gli zigomi. «Sherlock, guardami!».

Il detective aprì di scatto gli occhi azzurri e trasse un respiro profondo, come se fosse stato in apnea fino ad allora. La guardò stordito per qualche secondo, poi si riscosse e si alzò rapidamente dal letto per correre fuori dalla stanza afferrando al volo la propria vestaglia.

Molly sentì distintamente la porta della camera degli ospiti sbattere e sospirò, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. L’ennesima notte agitata.
E come in ogni situazione senza soluzioni evidenti, quello che ci voleva era un tè bollente.

 

Bussò alla porta tenendo il vassoio in equilibrio su una sola mano ed attese quella che le sembrò un’eternità, poi entrò. Trovò Sherlock seduto al centro del letto, in una posizione che avrebbe definito “meditativa”.

«Volevo preparare del tè, ma poi ho pensato che sarebbe stata più utile la camomilla. Meglio evitare la caffeina, uhm?».
Si sedette di fronte a lui e gli prese una mano abbandonata sul ginocchio per consegnargli una delle due tazze.
«Bevi, Sherlock».

«Non voglio parlare», rispose aprendo un solo occhio per esaminare il liquido nella tazza di ceramica.

Molly accennò una risata. «Per questo ho detto bevi. È già zuccherata».

Il detective le rivolse un’occhiata guardinga, poi si portò la tazza alle labbra e bevve un sorso di camomilla. L’anatomo patologa fece la stessa cosa.

«È buona», disse Sherlock, rompendo quel silenzio imbarazzante.

«Le bustine le ho comprate. L’acqua l’ho fatta bollire io però».
Riuscì a strappargli un sorriso e Molly ne fu così felice che sentì il cuore diventarle più grande nel petto.

«Io ti do’ fastidio, Molly?», le chiese qualche altro sorso dopo, concentrandosi sulle espressioni che le passarono sul volto una dietro l’altra: prima sorpresa, poi un po’ titubante e infine dolce.

«Ogni tanto. Ma puoi stare qui per tutto il tempo che vuoi, dico sul serio».

Sherlock attese, perché aveva capito subito che avrebbe voluto aggiungere qualcosa. E infatti…

«A patto che tu non faccia troppo disordine. E il mio frigorifero è off-limits per tutto ciò che non è commestibile da esseri umani… non cannibali».

«Altro?», chiese, sollevando un sopracciglio.

Molly ci pensò su un attimo e nel frattempo gli prese la tazza vuota dalle mani.

«Se dovessi incontrare dei clienti, la caffetteria qui all’angolo è perfetta».

Sherlock annuì e l’anatomo patologa sorrise, soddisfatta di quel minimo di autorità che era riuscita a dimostrare.

«Ti dispiacerebbe se ti chiedessi io una cosa?», le chiese con quel tono che non ammetteva repliche: gliel’avrebbe chiesta e basta. «Potresti evitare di mettere il chiavistello alla porta? Qualcuno potrebbe fotografarmi mentre entro dalla finestra come un ladro e credimi, non ti piacerebbe».

Molly sorrise e rispose in modo affermativo con un leggero cenno del capo. Solo successivamente si rese conto che se il chiavistello era il suo unico problema doveva già essersi procurato in qualche modo una copia delle sue chiavi. Lasciò correre, ma una volta sulla porta, dopo aver spento la luce, si fermò un attimo a fissarlo, già interamente nascosto sotto le coperte.

«Cosa?», le domandò Sherlock all’improvviso, come se le avesse appena letto nel pensiero.

«Prima o poi mi dovrai spiegare tutto. Devi promettermelo».

«Promesso».

«Dici sul serio?».

Il detective emerse dal suo nascondiglio con la testa ed annuì.

«Perfetto. Buonanotte, Sherlock».

«‘Notte, Molly Hooper», mugugnò.

Se n’era già andata, quando aggiunse a voce ancora più bassa: «E grazie».

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Capitolo 4
*** Night #6 ***


Buongiorno a tutti! :)
Prima di lasciarvi leggere, le solite poche parole di ringraziamento a chi ha letto e commentato lo scorso capitolo: vorrei potervi abbracciare tutti :D
Spero che questo nuovo capitolo non deluda le aspettative e ci rivediamo la settimana prossima.
Buona lettura!

 

_Pulse_

 

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4.      Night #6

 

«E così Sherlock si è trasferito nel tuo appartamento».

Quella era la prima frase che aveva sentito uscire dalla bocca di tutti negli ultimi tre giorni, ovvero da quando John l’aveva scoperto e, scandalizzato, l’aveva raccontato a tutti i loro amici, compreso Greg, il quale ora la stava fissando in attesa di una qualsiasi risposta.

Molly si tolse gli occhiali protettivi e ricambiò lo sguardo, più seria che mai. «È una sistemazione momentanea».

«Uhm. E com’è?».

«Cosa?».

«Vivere con lui». L’ispettore Lestrade inarcò le sopracciglia. «Persino John non riusciva a sopportarlo, a volte».

«Ognuno ha i propri spazi», replicò distrattamente, sollevando le spalle.

Era una bugia bella e buona, ovviamente: Sherlock era riuscito ad invadere ogni angolo del suo appartamento – persino il cassetto della sua biancheria intima – e Molly doveva prestare sempre attenzione a non spostare le cose che lui lasciava in giro, se non voleva passare dieci minuti buoni a sentire i suoi borbottii di disappunto su quanto fosse controproducente minare i “sistemi d’ordine” altrui.

«Sei sicura che non sia…».

«Non dovete preoccuparvi, davvero, riesco a gestirlo. Quasi sempre».

Greg sospirò e terminò la frase: «Pericoloso?».

Non ci aveva mai pensato. Aveva preferito non pensarci, evitare del tutto la questione, ma non sapeva per quanto tempo Sherlock avesse intenzione di restare a casa sua e quello non era un argomento che poteva evitare ancora a lungo. Fino ad allora non era ancora successo nulla di troppo strano o pericoloso e Sherlock aveva persino mantenuto la parola, incontrando i clienti a casa loro anziché invitarli nel suo salotto, ma nulla le assicurava che sarebbe sempre stato così.

Molly sollevò gli occhi sull’ispettore di Scotland Yard, il quale scrollò lievemente le spalle, evitando di guardarla negli occhi.

«Suo fratello mi ha chiesto di provare a farti cambiare idea».

«Suo fratello? Cambiare idea?».

«Sì, Mycroft Holmes. Teme per la tua incolumità, Molly. E se lui è preoccupato, lui che ha lo stesso sangue di Sherlock, puoi benissimo immaginare quanto possiamo esserlo noi».

«A chi altro l’ha chiesto?».

Un’altra scrollata di spalle. «A Mary, a John, alla signora Hudson…».

«Okay, basta», mormorò, posando le mani strette nei guanti in lattice sulle provette che doveva esaminare. «Grazie dell’avvertimento, Greg».

«Molly…».

«Non caccerò Sherlock», disse con decisione. «Mi ha fatto una promessa e fino a quando non la manterrà, non gli chiederò di andarsene».

«Ma –».

«Ho del lavoro da sbrigare, se non ti dispiace».

L’ispettore respirò profondamente ed uscì dal laboratorio senza aggiungere altro.

L’anatomo patologa, nonostante avesse davvero del lavoro da sbrigare, non poté fare a meno di abbandonarsi alla sedia di fronte al computer, scossa dai brividi.
Col cuore in gola aprì il proprio blog, abbandonato ormai da più di due anni, e lesse il primo ed unico commento al suo ultimo post: «Ti sono mancato?».

 

***

 

«Hai preso tutto quello che ti ho chiesto?».

Era la seconda volta che mandava Billy al 221B di Baker Street perché gli recuperasse alcune cose e sperava che almeno quella volta non avesse dimenticato nulla.
Il ragazzo gli consegnò la borsa che aveva preparato e Sherlock la posò sul tavolo della cucina per esaminarne il contenuto: un paio di libri, altri strumenti per le sue analisi casalinghe, vestiti, la sua scorta di cerotti alla nicotina e soprattutto la sua vestaglia blu. C’era tutto.

«Ottimo lavoro, Billy», disse e quando si voltò lo trovò in piedi di fronte alla libreria di Molly, col suo gatto tra le braccia.

«Davvero un bel posticino», esclamò il ragazzo, impegnato a sfiorare le coste dei libri con un dito, almeno fino a quando il suo sguardo non incrociò quello cavo del teschio che da sempre aveva vegliato su Sherlock e John da sopra il caminetto nel loro salotto.

«Lascia andare Toby, non gli piace essere toccato dagli estranei».

Bill abbassò gli occhi sul micio e trovandolo tranquillo decise di ignorare le parole di Sherlock. 
«È della tua ragazza? L’appartamento, intendo».

«Credo proprio che tu debba andare, adesso».

«Ho ragione, allora. È proprio un nido d’amore…».

Sherlock lo prese per la camicia e lo trascinò fino all’ingresso. «Ti scriverò se avrò bisogno ancora di te».

«Okay, Shezza».

«Oh per l’amor del cielo, smettila di chiamarmi in quel modo!», urlò sbattendogli la porta in faccia.

Si sistemò la giacca scura ed abbassando gli occhi incontrò quelli rifrangenti di Toby. Provò ad avvicinarsi per accarezzarlo tra le orecchie, ma il gatto corse via più veloce della luce.
Irritato, Sherlock gli gridò dietro: «Nemmeno tu mi piaci!».

«Con chi stai parlando?».

Il detective si voltò, preso alla sprovvista, e John gli sorrise, chiudendosi la porta alle spalle.

«Ho incontrato Bill di fronte al portone. Che ci faceva qui?».

«Mi ha portato alcune cose. Tu come mai sei qui?».

«Ci ho pensato molto e credo che tuo fratello questa volta abbia davvero ragione».

Sherlock roteò gli occhi, annoiato. «Potrebbe fare qualcosa di davvero utile, invece di infastidire tutti quanti?».

«Ti rendi conto di quanto il tuo comportamento sia da irresponsabile? Davvero non ti importa nulla di ciò che potrebbe succedere a Molly?».

«È ciò che mi importa di più, al momento», lo corresse, guardandolo severamente.

John, ancora in piedi accanto alla poltrona, boccheggiò per qualche secondo, cercando di trovare le parole giuste per descrivere quella situazione surreale.

«Quindi tu… tu ti sei trasferito nel suo appartamento per tenerla d’occhio?», gli chiese alla fine.

«Lei avrebbe frainteso, se le avessi chiesto di trasferirsi a Baker Street. Quali altri motivi avrei potuto avere?».

Il dottor Watson si strinse nelle spalle, decidendo finalmente di sedersi all’altro capo del divano bianco, dove Sherlock si era accomodato già da un pezzo con il suo violino.
«Ne avrei un paio».

Sherlock pizzicò una corda. «Se ritieni necessario che io li prenda in considerazione…».

Con un sorriso amareggiato sulle labbra, John iniziò ad elencare: «Perché ti sentivi solo. Perché avevi bisogno di qualcuno che ti aspettasse alzato fino a tardi e che si preoccupasse per te. Qualcuno per cui valesse ancora la pena avere dei limiti, delle regole, e anche dell’amor proprio».

Con le dita premute con forza sulle corde del violino, il detective si sforzò di non mostrarsi impressionato dalle parole dell’amico. Non c’era bisogno di celare la sorpresa, perché non lo era affatto: John riusciva a capirlo più di chiunque altro al mondo, anche più di se stesso.

Gli rivolse un piccolo sorriso. «Grazie per l’impegno che ci hai messo».

John sospirò, abbandonando il capo sul petto. «Sherlock…».

«Come sta Mary?».

E con quella domanda l’argomento fu chiuso.

 

***

 

Ho finito i biscotti.
SH

 
Molly lesse l’sms, poi infilò il cellulare nella tasca dell’accappatoio e continuò a spalmarsi la crema di bellezza sul viso.

Bip bip.

La ragazza sospirò e senza nemmeno prendere in mano il telefono aprì la porta del bagno e, per farsi sentire sopra il frastuono del frullatore (Dio solo sapeva che tipo di esperimento stesse facendo quella volta), gridò: «Vai a comprarteli da solo, Sherlock!».

Qualche secondo dopo, l’ennesimo bip bip. Molly, sfinita, aprì il messaggio che le aveva appena inviato in risposta:


Impegnato.

 
Io sto per mettermi due fette di cetriolo sugli occhi.

 
Non le avrebbe mai messe sul serio, ma era una bella immagine, molto da film.

Molly si sedette sul bordo della vasca da bagno e mentre aspettava che la crema facesse il proprio effetto si portò avanti infilandosi le collant nere.  
Capì che c’era qualcosa che non andava non appena si accorse che il frullatore aveva smesso di funzionare e che Sherlock non le aveva più inviato sms. Inoltre, c’era una fastidiosa corrente d’aria fredda che le lambiva i polpacci…

«Molly Hooper».

 

***

 

Il detective dovette sfruttare ogni briciolo di autocontrollo per non soffermarsi troppo sull’incavo tra i seni che si intravedeva sotto l’accappatoio o sulle sue gambe nude e avvolte per metà dalle collant.
Si concentrò allora sul suo viso, ricoperto quasi interamente da una crema verde acido, ma era certo di aver già visto e memorizzato abbastanza dettagli, fin troppi, capaci di distrarlo in modo alquanto pericoloso da pensieri ben più importanti.

Si schiarì la voce e come se non avesse già capito tutto le chiese: «Che cosa stai facendo?».

«Ho un appuntamento, questa sera».

«Ma in quell’ospedale curate anche le persone, ogni tanto, o siete tutti troppo impegnati a darvi appuntamenti a vicenda?».

Molly sbuffò trattenendo un sorriso divertito. Poi corrugò la fronte, domandando: «Come fai a sapere che lavora all’ospedale?».

«A meno che tu non sia così disperata da accettare di uscire con uno sconosciuto incontrato sulla metropolitana oppure al supermercato, non ci sono altri luoghi in cui avresti potuto fare delle nuove conoscenze».

Molly sorvolò sulla parola “disperata” e cercò di portare il discorso su qualcosa di più frivolo, sperando di irritarlo tanto da costringerlo a ritornare al suo esperimento.
«Ho letto un paio di libri dove i protagonisti si incontravano proprio in metropolitana e al supermercato. Amore a prima vista».

«Sciocchezze», replicò Sherlock, sventolando una mano come a voler cacciare una mosca fastidiosa.

Molly gli gettò un’occhiata intensa. «Non credi che esista l’amore a prima vista? Finalmente qualcosa su cui hai torto».

Sherlock notò qualcosa di diverso nel luccichio dei suoi occhi – una specie di rabbia, di frustrazione – e aprì la bocca per chiederle dove volesse andare a parare, ma non ce ne fu più bisogno perché il suo cervello aveva già elaborato una teoria: lei ci credeva, all’amore a prima vista, perché l’aveva sperimentato in prima persona; la sua rabbia indicava che ne avrebbe fatto volentieri a meno e questo lo portava alla conclusione che le era capitato con un uomo che l’aveva delusa, che non l’aveva mai ricambiata o con cui pensava sarebbe stato solo tutto tempo perso.
Sherlock arricciò il naso, posando gli occhi di nuovo in quelli di Molly, e la sua rabbia si trasformò in un nome: Sherlock Holmes. Era lui l’uomo in questione e per quanto poco gli facesse piacere, non poteva negarlo: era l’unica spiegazione possibile, tenendo conto di tutti i fatti.

«Lo conosco?», le chiese dopo qualche istante di silenzio.

Molly si alzò dalla vasca da bagno, dandogli le spalle, per finire di infilarsi le calze. «No. È stato trasferito al Bart’s solo un paio di settimane fa».

«Credo che tu debba annullare l’appuntamento, allora».

«Cosa?», domandò con tono gelido, voltando la testa di tre quarti verso di lui. «Dimmi, ti prego, che ho sentito male».

Sherlock incrociò le braccia al petto, sospirando annoiato. «Considerando i tuoi ultimi fallimenti, ritengo opportuno che qualcuno interceda per te in maniera preventiva».

Molly fece un nodo più stretto alla cintura dell’accappatoio, dopodiché gli andò incontro con così tanta foga che il detective arretrò d’istinto, permettendole di sbattergli più facilmente la porta in faccia.

 

***

 

Assurdo. Inaccettabile. Fuori da ogni logica.
Molly stava cercando di definire l’imposizione che Sherlock aveva tentato di rifilarle e non riusciva a venirne a capo. 
O aveva ripreso con la droga e questa volta era sulla via del non ritorno, tanto da iniziare ad ammattire, oppure celava qualche altra ben più sensata ragione, qualcosa che lì per lì, accecata dall’ira, non riusciva a cogliere.
In ogni caso, niente e nessuno le avrebbe impedito di uscire quella sera. Aveva davvero bisogno di allontanarsi da quell’appartamento, da Sherlock, da tutto quanto. Voleva bere qualche drink in compagnia e non pensare alla sua vita sempre più incasinata.

Aveva quasi finito di truccarsi e ogni tanto si concedeva un respiro profondo, con la speranza di buttare fuori tutto il nervosismo che aveva accumulato, ma non sembrava funzionare. Anzi, capitava spesso che invece dicesse delle imprecazioni tra i denti.

«Nemmeno mio padre aveva diritto di parola sui ragazzi con cui uscivo!», borbottò, controllandosi allo specchio i capelli che le cadevano sulla schiena in morbidi boccoli.

Quando si sentì pronta, uscì dal bagno e si diresse in camera da letto, dove scelse la borsa adatta e si infilò i tacchi. Prima di attraversare il salotto socchiuse gli occhi per raccogliere tutta la calma di cui di solito disponeva – dosi extra comprese se aveva a che fare con Sherlock Holmes.

A testa alta lanciò la borsa sul divano e passò di fronte alla porta della cucina per andare a recuperare le chiavi di casa.
Non aveva mai avuto l’intenzione di fermarsi – il suo piano era quello di dimostrarsi così arrabbiata con lui da ignorarlo totalmente – ma non poté resistere e si fermò sulla soglia, rimanendo sbigottita di fronte a ciò che aveva inscenato: una cenetta romantica. Lui, una cenetta romantica!

Aveva preparato la tavola, mettendo i piatti e addirittura due tipi di bicchieri diversi; al centro aveva sistemato un vecchio candelabro che Molly aveva iniziato ad usare come stendino per gli stracci e chissà dove aveva trovato quelle tre candele rosa, tutte di lunghezze diverse, le cui fiamme gli brillavano negli occhi mentre li posava su di lei e la analizzava dalla testa ai piedi, due volte.

«Frullato come aperitivo?», le chiese Sherlock, indicando il calice con tanto di cannuccia colorata che aveva posato accanto alle forchette. «È alla banana».

Molly strabuzzò gli occhi. «Il frullatore… Hai usato il frullatore per fare un frullato?».

Sherlock corrugò la fronte. «Che cos’altro avrei dovuto farci?».

«Ah, non chiederlo a me», disse a mezza voce, stringendosi nelle spalle.

Si avvicinò al tavolo con una certa insicurezza, in parte dovuta al suo sguardo che spesso e volentieri indugiava sulla sue braccia lasciate scoperte dal tubino in stile scozzese, sui suoi fianchi e sulle sue gambe.

«Siediti», le disse con un tono di voce fin troppo carezzevole.

Molly sospirò e si sedette in diagonale rispetto a lui, gettò un’occhiata all’orologio e non fece in tempo a dire che era in ritardo che Sherlock le prese la mano che aveva abbandonato sul tavolo. Quel contatto la fece quasi sobbalzare, quasi perché il sospetto prese subito il sopravvento.

«Molly…», mormorò, avvicinandosi lentamente al suo viso, gli occhi fissi sulle sue labbra.

«A parte il frullato, che cosa hai cucinato?», gli chiese trattenendo a stento un sorriso e rompendo l’atmosfera senza più alcuna esitazione: aveva capito tutto.

Il detective sbatté le palpebre un paio di volte. «Cucinato? Io non cucino. So farlo, è tutta una questione di tempistica e dosi, come negli esperimenti, ma lo sai che io non lo faccio mai».

«Appunto». Molly ritrasse la mano, rimpiangendo per un attimo il calore di quella di Sherlock, e si alzò, stirandosi il vestito sulle cosce. «Puoi aver ingannato Janine, ma non funziona con me; io ti conosco troppo bene, Sherlock. Non mi convincerai ad annullare l’appuntamento, non questa volta».

«Okay, mi arrendo», sospirò, alzando le mani.

Molly sorrise vittoriosa e si girò, pronta per recuperare borsa e cappotto ed uscire.

«Aspetta ancora un attimo», aggiunse all’improvviso.

«Che c’è?».

Sherlock abbassò gli occhi sul frullato e si rigirò il bicchiere tra le dita, prendendo tempo come se stesse cercando le parole giuste. Molly sospirò e tornò sui propri passi, gli tolse il bicchiere dalle mani e se lo portò alle labbra. Bevve il frullato alla banana tutto d’un fiato e provò a sorridergli per non offenderlo, ma il suo cervello non inviò abbastanza in fretta gli impulsi giusti e Molly si ritrovò a stringere le labbra in una smorfia.

«Dio, è terribile», biascicò, aprendo il frigo per tirare fuori dell’acqua con cui sciacquarsi la bocca.

Sherlock, ammutolito, si portò le mani di fronte alle labbra ed iniziò a fissare il vuoto. L’anatomo patologa, accorgendosene, gli posò delicatamente una mano sulla spalla e si chinò per baciargli la tempia, un gesto che la fece avvampare come se le avessero appena acceso una stufa alle spalle.

«Grazie comunque per il pensiero, Sherlock. Non credevo sapessi quale fosse il mio frutto preferito».

Il detective non si mosse, né rispose. Molly decise di lasciarlo stare e si rese conto che anche se avesse voluto fare un altro tentativo per tirarlo su di morale non ne avrebbe avuto il tempo necessario.

«Ci vediamo più tardi», esclamò, correndo a prendere il cappotto.
Già con un piede fuori dalla porta, aggiunse frettolosamente: «Se non hai niente da fare guardi la puntata di Glee che mandano questa sera? Così poi me la racconti! Ciao!».

Di nuovo, Sherlock non le rispose, ma quella volta perché stava cercando di trattenere la risata gutturale che gli squassava la schiena.

 

***

 

Nicholas aveva solo qualche anno in più di lei, aveva i capelli castani con delle particolarissime sfumature bionde sotto la luce delle lampade e lavorando come pediatra adorava i bambini.
Non era mai stato sposato, la sua ultima fidanzata risaliva ad un annetto prima ed erano rimasti buoni amici, viveva in un quartiere benestante di Londra ed incredibilmente gli piacevano i gatti.

Non usciva con un uomo così perfetto da molto tempo, così tanto che si chiedeva quando sarebbe giunto il momento in cui avrebbe detto o fatto qualcosa in grado di rovinare tutto quanto.
Ma quel momento non arrivava mai. La conversazione era così piacevole che non avrebbe mai smesso di parlare né di ascoltarlo: al contrario di molti uomini, sapeva quando essere serio e quando dire una battuta, ispirava fiducia e simpatia e non la metteva mai a disagio con domande troppo personali né la solita sfilza di complimenti studiati.

Nicholas era un sogno e Molly sperava vivamente di non svegliarsi mai. Non voleva tornare a casa, non voleva trovare Sherlock in crisi d’astinenza da casi, con i suoi capricci e le sue frecciatine pungenti.

Ogni tanto, doveva ammetterlo, perdeva il filo del discorso chiedendosi che cosa stesse facendo e soprattutto perché avesse insistito così tanto perché non uscisse. Gelosia? Impossibile. Probabilmente voleva soltanto avere qualcuno con cui fare il saputello, qualcuno che gli cucinasse la cena e che lo ascoltasse suonare il violino fino a quando i vicini non avessero iniziato a lamentarsi.

In quelle occasioni, Nicholas le schioccava le dita di fronte al viso e le sorrideva dolcemente, chiedendole se la stesse annoiando e volesse un altro drink.
Ne aveva già bevuti tre e non aveva mangiato quasi niente, perciò ogni volta rifiutava: non voleva che il fastidioso mal di testa che le picchiava contro le tempie da quando era salita sul taxi aumentasse e che Sherlock le desse dell’ubriacona.

«Ti dispiace se vado un attimo in bagno?», le chiese Nicholas ad un certo punto, indicando la toilette infondo al carinissimo locale dove l’aveva portata per quel late happy hour.

«No, certo, vai pure», rispose accennando un sorriso.
Il mal di testa stava peggiorando, nonostante tutti gli accorgimenti, quindi fu felice di avere un momento per sé.

Aspettò che Nicholas fosse di spalle prima di massaggiarsi le tempie con movimenti circolari delle dita. Poi cercò di attirare l’attenzione di uno dei camerieri per chiedere un bicchiere d’acqua e non riuscendoci decise di andare direttamente lei al bancone. Non appena si alzò però sentì le gambe cederle, mentre la stanza le vorticava attorno.
Un ragazzo in tuta e con un cappellino da baseball calato sulla fronte la prese al volo prima che cadesse a terra, poi con una mano le tenne la testa sollevata e con l’altra le esaminò le pupille, borbottando qualcosa sui livelli di alcool troppo elevati.

Molly faticava a capire ciò che stava succedendo intorno a lei e persino il trambusto che si era creato le arrivava in maniera ovattata alle orecchie. Cercò di sollevarsi per non far preoccupare nessuno, in particolare Nicholas, ma il ragazzo chinato su di lei alzò la visiera del berretto e due occhi verdazzurri inconfondibili fecero saltare un battito al suo povero cuore.

Fu quasi un’illuminazione: una teoria confusa, con molti punti oscuri, ma di cui era assolutamente certa.

Strinse forte le dita intorno al suo polso, senza preoccuparsi di graffiarlo con le unghie, e cercando di non farfugliare sibilò: «Sei un bastardo».

Sherlock sfoderò un gran sorriso e si avvolse un suo braccio intorno al collo, mentre la propria voce interiore – quella volta con il timbro canzonatorio di John – lo rimproverava dicendo: Questa tua mania di drogare le persone non è sana, te ne rendi conto?

 

***

 

Sentì un rumore secco alle sue spalle e voltandosi vide che una scarpa col tacco di Molly le era scivolata dal piede ed era caduta a terra. Incurante, proseguì verso la camera da letto e non accese nemmeno la luce: salì sul materasso con un ginocchio e posò delicatamente la ragazza sopra le coperte, tenendole delicatamente una mano sotto la testa.

Aveva dovuto fare tutte e tre le rampe di scale con lei in braccio ed era stato faticoso, ma in una non ben definita misura gli aveva fatto piacere sentire il suo respiro sul collo e il suo cuore battere vicino al proprio.

Voleva bene a Molly. Ne era anche attratto, a volte. Ma non sapeva dire con certezza se ciò che provava per lei fosse amore. In ogni caso, Molly meritava il meglio. Qualcuno che sapesse darle tutto ciò che voleva e non solo rompicapi, disordine e pericoli.
Qualcuno come quel Nicholas. Un bel partito, davvero.

Gli erano bastati tre minuti per assicurarsi che non fosse un uomo di Moriarty e realizzare che se Molly fosse riuscita a conquistarlo si sarebbe sistemata per tutta la vita. Una vita monotona, con un paio di bimbetti urlanti per casa e poche soddisfazioni personali. Ma forse sarebbe stata felice. Con lui avrebbe mai potuto avere un futuro migliore di quello? Ne dubitava, ne aveva sempre dubitato.

Sin dall’inizio Sherlock era stato a conoscenza dell’influenza che aveva su di lei, dell’affetto che lei nutriva irrazionalmente nei suoi confronti, ma solo recentemente si era reso conto di ricambiarla. Quando ormai era troppo tardi.
Molly aveva deciso sul serio di voltare pagina e aveva fatto un ottimo lavoro, da quanto aveva potuto notare. Non era più solo la timida ed impacciata Molly dalla cotta adolescenziale. Era una donna che aveva sofferto per amore, che si voleva un briciolo di bene e che per questo era intenzionata a non farsi più mettere i piedi in testa. Gli rispondeva a tono, lo prendeva in giro, lo aveva persino schiaffeggiato… in generale lo affrontava in modo molto più sicuro e coraggioso di prima.
Gli piaceva, ma gli mancavano terribilmente anche quella timidezza, quelle guance rosse e quegli occhi bassi e velati di lacrime che aveva visto troppe e troppe volte. Gli mancavano solo per il tempo necessario a dire: «Sono un idiota, perdonami».

Nonostante tutti i suoi sforzi, da quando Molly aveva iniziato a respingerlo lui aveva iniziato a provare attrazione come una calamita, a volerla in sua balia come un tempo.
Si era lasciato coinvolgere e a volte ogni pensiero razionale, compresa l’altissima probabilità di metterla in pericolo e di renderla oggetto di chiacchiere in ogni salotto del Regno Unito, evaporava, rendendolo capace di diventare abile sceneggiatore – forse non tanto quanto credeva – di scene come quella che avevano appena vissuto.

Molly mugugnò lamentosamente e sollevò le palpebre pesanti, trovando gli occhi di Sherlock fin troppo vicini. Gli posò le mani sul petto e lo spinse via, o almeno ci provò: non aveva forza nelle braccia, si sentiva uno straccio e le tempie le pulsavano ancora.

«Qualsiasi cosa tu mi abbia dato, hai bisogno di fare un ripasso di chimica», farfugliò e sbuffò quando sentì Sherlock ridacchiare.

«Le mie dosi erano perfette. Sei tu che hai bevuto troppo».

«Ah! Sempre mia la colpa».

«Ovviamente», esclamò, lasciandosi cadere al suo fianco sul letto.

«Che cos’era?».

«GHB».

Molly ebbe l’impulso di schizzare seduta sul letto dallo shock, ma il mal di testa non glielo permise. «Mi hai messo una droga da stupro nel frullato alla banana?! Come hai potuto, Sherlock?!».

«Era un esperimento. Ti ho dimostrato quanto sia facile farti del male senza che tu te ne accorga minimamente».

«Oh, non avevo bisogno di questo esperimento per rendermene conto», mormorò, passandosi un braccio sugli occhi e spalmandosi inevitabilmente il mascara dappertutto.
«Il GHB è leggermente salato, ma quel frullato era così terribile che forse l’ha migliorato. Non farlo mai più, Sherlock».

«Che cosa, il frullato o il somministrarti una droga da stupro?».

«Entrambe le cose», ordinò, sollevando l’indice. «Ma dove l’hai recuperato? No, non rispondere, non sono sicura di volerlo sapere».

Molly respirò profondamente e dopo qualche minuto di silenzio, in cui rischiò di addormentarsi, disse: «Dovrei togliermi questo vestito e riposarmi, domani devo lavorare».

«Domani starai benissimo, a parte un po’ di mal di testa».

«Perfetto. Esci?».

Sherlock voltò il viso verso di lei, leggermente confuso. Analizzò nuovamente ciò che aveva detto e capì che voleva stare da sola per cambiarsi.
«Prometto di non guardarti».

Molly si tirò su a fatica, non trovando nemmeno le energie per ribattere, e lottò con la cerniera del vestito, non venendone a capo. Le mani di Sherlock le giunsero in aiuto e l’anatomo patologa gli lanciò un’occhiataccia.

«Hai promesso, te lo sei già dimenticato?».

Il detective si sdraiò sul fianco ed ascoltò il fruscio del vestito sulla pelle di Molly. Con gli occhi chiusi immaginò il ferretto del reggiseno, il solco della colonna vertebrale, le fossette di venere infondo alla schiena…

«Fatto», sussurrò Molly, tirando le coperte per infilarcisi sotto. «Ora vattene».

Sherlock corrugò la fronte e si girò sull’altro fianco per guardarla dritta in faccia, trovando però i suoi occhi chiusi e una ciocca di capelli che le attraversava la fronte.
«Come?».

«Sono arrabbiata con te, Sherlock. Perciò vattene, prima che spinga giù dal letto a calci».

«Nelle tue condizioni attuali, non credo ci riusciresti».

Molly inarcò un sopracciglio, ma non aprì gli occhi.
«Chissà che cosa penserà di me ora Nicholas…», si chiese, rannicchiandosi in posizione fetale. «Mi piaceva tanto».

«E per quale motivo?».

La ragazza accennò una risatina. «Era simpatico, gentile, bravo con i bambini… Praticamente il tuo opposto».

Il silenzio prolungato di Sherlock la allarmò e nonostante sentisse le palpebre incollate tra loro, si sforzò per socchiudere gli occhi e sbirciare la sua espressione: era assorto, come quando escludeva tutto e tutti per rifugiarsi nel proprio Palazzo Mentale, e Molly preferì non disturbarlo. Chiuse semplicemente gli occhi e si addormentò, domandosi se sarebbe rimasto.

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Capitolo 5
*** Night #7 ***


Buonasera! :)
In questa pigra domenica, posto il capitolo cinque sperando di non aver fatto troppe cavolate.
Ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo - vi lovvo tutti - e chi ha semplicemente letto :)
Alla prossima settimana, un bacione!

_Pulse_

 

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5.      Night #7

 

Come va il mal di testa?
SH

 
Molly sorrise, dimenticandosi completamente del fastidio che aveva provato quando arrivata al Bart’s le era stato detto che il nuovo stagista aveva sbagliato a registrare i risultati di diversi esami tossicologici, i quali dovevano essere svolti di nuovo.
Aveva avuto voglia di strangolarlo e di urlargli in faccia che lei aveva lavorato duramente per avere quel lavoro, un lavoro che lui prendeva meno seriamente delle serate trascorse in discoteca a sballarsi. (E lo diceva una che giusto la sera prima si era ritrovata così strafatta che Sherlock aveva dovuto riportarla a casa in braccio).

Meglio, grazie. Ma ho ancora dei buchi di memoria.

 

Aspettò per un po’ la risposta di Sherlock, approfittandone anche per andare a prendere una tazza di caffè. Solo quando fu tornata in laboratorio, con gli occhi di nuovo sul microscopio, il suo cellulare suonò. Stava per pescarlo dalla tasca del camice, quando la porta si aprì all’improvviso, rivelando un uomo alto, vestito in modo elegante e con un ombrello portato a mo’ di bastone da passeggio. In due parole: Mycroft Holmes.
Molly lasciò perdere il messaggio e si alzò in piedi, aprendo la bocca nonostante non avesse idea di che cosa dire.

«Stia pure comoda, signorina Hooper», esordì il fratello maggiore di Sherlock, sorridendole in modo freddo. «Anzi, posso unirmi a lei?».

«Certo, io… posso andare a prenderle una tazza di caffè, se vuole».

«Non si disturbi».

Spostò rumorosamente uno sgabello e si sedette accavallando le gambe. Dopodiché posò sul tavolo la cartelletta di pelle che aveva portato con sé, l’aprì e ne estrasse un plico di fogli. Una specie di contratto, da quello che Molly aveva potuto vedere, ma non volle azzardare alcuna ipotesi, nemmeno quando Mycroft spinse il plico sotto i suoi occhi perché lo esaminasse meglio.

«Ho bisogno di una sua firma», le disse, porgendole una raffinata stilografica.

Molly corrugò la fronte, confusa. «Una firma per che cosa?».

«Quello che ha davanti», iniziò a spiegarle pazientemente, «è un accordo di segretezza. Qualsiasi cosa le dirò in questa stanza rimarrà in questa stanza, lei sarà obbligata a non parlarne e se lo farà – e lo verrò a sapere, può starne certa – le conseguenze saranno molto spiacevoli. Tutto chiaro, signorina Hooper?».

Molly lo fissò, scorgendo nei suoi occhi la stessa intelligenza di Sherlock, se non una ancora maggiore, e una risolutezza quasi spietata.
Quell’uomo era abituato a comandare, abituato al fatto che mai nessuno gli andasse contro. Poteva avere il Regno Unito in pugno, poteva avere anche il mondo per quanto le interessava, ma non avrebbe mai avuto lei.

L’anatomo patologa allontanò da sé l’accordo, poi incrociò le braccia al petto. 
«Non ho intenzione di firmare nulla perché non c’è nulla che desidero sapere da lei».

Mycroft Holmes piegò le labbra in un sorriso sinceramente divertito. «Mi scusi, ho ritenuto ovvio un dettaglio e l’ho omesso: ciò che le dirò riguarda Sherlock».

Molly sgranò leggermente gli occhi e li posò sulla stilografica che l’Holmes più grande aveva appoggiato su quelle pagine dai caratteri minuscoli, pieni di clausole ed asterischi.
Sapeva che avrebbe dovuto rifiutare nuovamente, nella speranza che prima o poi lo stesso Sherlock si fosse confidato con lei, ma la preoccupazione e la paura vinsero su ogni sua morale.
Con mano tremante afferrò la stilografica e senza nemmeno leggere una parola di ciò che c’era scritto su quei fogli cercò la linea a cui apporre la propria firma.

 

Si era del tutto dimenticata del messaggio che Sherlock le aveva inviato e lo avrebbe letto solo qualche ora dopo, trovandolo in qualche modo profetico e così veritiero da spezzarle il cuore.
 

A volte dimenticare può rivelarsi un vantaggio.

 

***

 

«Oh, Sherlock!», esclamò la signora Hudson non appena si accorse della sua presenza nell’atrio, lo sguardo sollevato verso la rampa di scale.
«Che cos’hai combinato, questa volta?».

«Perché dà per scontato che la colpa sia mia?», domandò atono, prima di salire i gradini due a due, senza aspettare la sua risposta.

Entrò nel proprio appartamento ed ispezionò minuziosamente l’ambiente con gli occhi.

«Sei sempre il solito maleducato, fratello mio. Farmi aspettare per un’ora in questa tana polverosa!».

Il consulente investigativo gettò un’occhiata a Mycroft, seduto sulla poltrona di John – non sapeva in quale altro modo chiamarla – e un potente flashback gli procurò un brivido lungo la schiena.

«Non mi sono mai piaciuti gli indovinelli».

«Impara ad apprezzarli. Perché ti devo una caduta, Sherlock. Te ne devo una».

Chiuse gli occhi, stringendo i denti.
«Devi dirmi qualcosa?», domandò poi al fratello, spazientito e a disagio. «Si tratta delle novità che aspettavo?».

«Ebbene, ne ho una», rispose, tirando fuori dalla valigetta di pelle un tablet sottilissimo. «Ma io la chiamerei “conferma”, piuttosto. Dai un’occhiata, coraggio».

Sherlock si avvicinò ed afferrò il tablet. Mycroft aveva aperto l’ultimo post di un blog dalla grafica piuttosto femminile, rosa e con tanto di gattini: il blog di Molly. Lesse ciò che aveva scritto in quel lontano 2 Aprile e le sue parole, nonostante non le avesse mai pensate davvero, furono dolorose come mille minuscoli tagli cosparsi di sale. Ciò che lo distrusse completamente però, ciò che Mycroft voleva che vedesse, fu il primo ed unico commento, lasciato meno di settantadue ore prima.

«La signorina Hooper è una persona troppo gentile, troppo innocente, per meritarsi questo. Non ti permetterò di farle del male. Di fare del male a qualcun altro», disse Mycroft quasi con tenerezza, alzandosi per guardare il fratello minore dritto negli occhi. «Sai cosa dobbiamo fare, per la sua sicurezza».

Sherlock, con gli occhi inspiegabilmente lucidi, faticò a trovare la voce. «Lei non accetterà mai, lei…».

«Potrei averle già dato un incentivo. Forse non sarà abbastanza per convincerla ad accettare, ma per iniziare mi è sufficiente che stia lontana da te».

Mycroft fissò il fratello cercando di capire che cosa gli attraversasse la mente e ciò che intuì lo lasciò vagamente confuso e… stupito
Trattenne un sospiro amareggiato, conscio di una sua grande mancanza: poteva proteggere tutte le persone che stavano vicine a Sherlock, ma non poteva proteggerlo da se stesso in alcun modo.

«Mi dispiace», disse e cercò di mostrare che ciò che diceva era vero, ma in ogni caso sarebbe stata fatica sprecata: Sherlock non era lì, al momento.

 

Mycroft era andato via. Non sapeva quando, esattamente, e non gli interessava.

Aveva preso la sua decisione e non sarebbe stato facile, per niente, ma era la cosa più giusta da fare. Per la prima volta – e sperava con ogni fibra del proprio corpo che fosse anche l’ultima – doveva dar ragione a suo fratello.

«Sherlock?».

Il detective si voltò verso la signora Hudson, ferma sulla soglia del salotto. La sua espressione triste lo confuse e prima che potesse chiederle che cosa fosse successo, una goccia d’acqua salata gli bagnò le labbra dischiuse. Chinò il viso e si passò una mano sulla guancia, trovandola umida. Una lacrima. Aveva versato un’unica lacrima, sola come si sarebbe sentito lui.

 

***

 

«Sherlock ha ucciso Charles Augustus Magnussen, gli ha sparato in testa. Ora capisce perché non posso permetterle di vivere con lui? È per la sua sicurezza».

Molly posò la fronte sulle ginocchia, stringendo ancora un po’ il cuscino tra le braccia, e si sforzò perché le parole di Mycroft Holmes lasciassero spazio al silenzio nella sua testa. Invano.

Aveva sentito parlare dell’improvvisa sparizione del magnate dei giornali, ne avevano parlato tutti e tutti avevano esposto le loro teorie al riguardo, lei compresa: aveva sempre pensato che avesse deciso di farsi una bella vacanza ai tropici, isolato dal resto del mondo. Mai, mai avrebbe osato pensare che Sherlock lo avesse ucciso. Solo immaginare il suo Sherlock impugnare la pistola con l’intento di spegnere una vita la faceva tremare da capo a piedi, col cuore che le batteva dolorosamente nella cassa toracica.

Mycroft in realtà non le aveva spiegato i dettagli, come per esempio il perché Sherlock avesse preso una decisione così drammatica, né Molly aveva voluto saperli.

Ciò che il detective aveva fatto era orribile ed imperdonabile, eppure il suo cuore non avrebbe mai smesso di dirle che lo Sherlock che lei conosceva non l’avrebbe mai fatto se non ci fosse stato un motivo più che valido, qualcosa che lui aveva ritenuto più importante del suo stesso futuro, della sua stessa vita. E questo le bastava per perdonarlo, per credere ancora in lui, per amarlo.

A quel punto non riuscì più a trattenere le lacrime e si morse le labbra per attutire almeno un po’ i singhiozzi.

Aveva promesso a Mycroft che ci avrebbe pensato, che presto avrebbe deciso che cosa fare, ma già mentre faceva quella promessa sapeva esattamente come si sarebbe comportata.

O Mycroft Holmes non conosceva suo fratello, oppure conosceva la sua versione precedente, quella che non aveva ancora incontrato John, l’uomo che con la sua amicizia era riuscito a renderlo migliore.

Lei lo conosceva. Lei riusciva a capirlo, la maggior parte delle volte.
Lei sapeva che il matrimonio di John e il suo addio a Baker Street erano stati duri colpi per Sherlock, che si era sentito abbandonato e che aveva provato paura di fronte alla solitudine.
Lei sapeva che Sherlock non le avrebbe mai fatto del male, non volontariamente. Ma che anzi avrebbe cercato di proteggerla da tutto e tutti, anche sacrificando se stesso. Era così che faceva, quando si affezionava a qualcuno.
Lei sapeva che non avrebbe retto ad un altro abbandono, che aveva bisogno di qualcuno accanto per andare avanti; che ne era diventato dipendente, in qualche modo.

Per questo non l’avrebbe mai lasciato solo.
Le parole di Mycroft non avevano fatto altro che rinforzare ciò che provava per lui, l’avevano convinta definitivamente che se c’era una cosa che non avrebbe mai fatto – nemmeno se questo avesse voluto dire soffrire, affrontare mille pericoli o andare all’inferno – era proprio quella di non allontanarlo da sé. Sempre se… beh, se Sherlock l’avesse voluta al suo fianco.

 

***

 

Sherlock aprì la porta e per un attimo ebbe paura che Molly avesse ripreso a mettere il chiavistello. Non trovandolo, entrò nell’appartamento e si tolse la sciarpa mentre si incamminava verso il salotto, immerso nel buio se non fosse stata per la luce azzurrognola della televisione.

Molly era rannicchiata sul divano e aveva un cuscino stretto al petto, mentre la coperta di lana in cui si era avvolta era caduta a terra.
Toby si aggirava inquieto intorno al tavolino, come se stesse pensando a qualcosa da fare per aiutare la sua padrona, ma si allontanò non appena si accorse della presenza del detective.
Quest’ultimo si avvicinò ed osservò Molly dall’alto per una dozzina di secondi, poi si piegò per raccogliere la coperta e dopo avergliela sistemata addosso si sedette accanto a lei, lasciando che una mano indugiasse sulla sua gamba.

«Molly», sussurrò il suo nome per svegliarla.

L’anatomopatologa sollevò appena le palpebre ed assottigliò gli occhi, cercando di focalizzare ciò che la circondava. Incrociando quelli di Sherlock, si mise lentamente seduta e senza mai interrompere il contatto visivo posò una mano su quella di lui, ancora sul suo ginocchio.
Stranamente, Molly aveva le mani calde. Erano calde, piccole e delicate. Sherlock ricambiò la stretta e rimpianse l’aver notato l’irritazione delle sue guance, le borse sotto agli occhi, il rossore dei suoi occhi: Molly aveva pianto per quello che Mycroft le aveva detto, perciò aveva pianto per colpa sua.

Avrebbe voluto prenderle il viso tra le mani, accarezzarlo ed abbracciarla, stringerla così forte da farla diventare una parte di lui, ma Molly lo aveva intrappolato coi suoi occhi scuri, con le sue piccole mani.

«È a causa sua, vero? I tuoi incubi, sono a causa di quello che è successo con Magnussen», disse a bassa voce, avvicinandosi un po’ a lui.

Sherlock abbassò gli occhi, trovandosi senza parole. 
Aveva sperato fino all’ultimo che Mycroft non avesse realmente sfruttato il proprio asso nella manica, ma l’aveva fatto, e senza pensarci su due volte.

Molly ora sapeva che era un assassino, sapeva che quelle mani che lei stava stringendo erano macchiate di sangue, eppure non aveva intenzione di lasciarle andare.
Perché il piano di Mycroft non stava funzionando? Perché Molly non aveva paura di lui, non ne era disgustata, non lo odiava né lo allontanava come avrebbe fatto qualsiasi persona normale?

«No, non come credi tu», rispose, decidendo di essere sincero. Quella poteva essere la sua ultima opportunità. «Quando sono entrato nell’ufficio di Magnussen e mi hanno sparato: è questo che rivivo nei miei incubi. Rivivo tutto quello che ho provato, quello a cui ho pensato ad un passo dalla morte».

«Ma tu non sei morto, Sherlock».

«No», sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso ironico, «e devo ringraziare te, per questo».
Sherlock lesse sul suo viso la sorpresa e lo sbigottimento, ma non le permise di fare domande, aggiungendo subito: «Nei miei incubi c’è Moriarty. Mi invita a morire, mi dice che non devo averne paura».

«Ma ora è tutto passato, tu stai bene e lui non c’è».

«Lo sai che non è vero. Lo sai benissimo».

Fu il turno di Molly ad abbassare gli occhi e volle anche ritirare le mani per stringersi le braccia intorno alle gambe, come protezione, ma Sherlock glielo impedì, stringendole ancora più saldamente.

«Avresti dovuto dirmelo, Molly. Perché non l’hai fatto?». Chinò il viso e con le nocche le sollevò il mento, in modo che i loro occhi si fondessero. «Perché?».

«Perché ne ero terrorizzata».

«E pensavi forse che ignorarlo avrebbe risolto la situazione?».

«Hai ragione, i demoni vanno affrontati», disse, abbassando gli occhi sulle loro mani ancora unite per poi sollevarle tra i loro visi. «E a volte non lo si può fare da soli».

Sherlock sentì qualcosa rompersi all’interno del suo corpo, qualcosa di inconsistente ma di tanto reale quanto le pulsazioni del cuore o i tessuti che permettevano l’estensione dei polmoni.

Quello che suggeriva Molly andava contro la decisione che aveva preso a malincuore al 221B di Baker Street. Non poteva tornare indietro, non poteva davvero. Per quanto meraviglioso, era un sogno destinato ad andare in frantumi, una follia, un rischio che non poteva correre. Perché aveva messo troppe volte in gioco la vita dei suoi amici e non voleva che accadesse mai più, qualsiasi sarebbe stato il costo da pagare.

Per questo le lasciò le mani e si diresse in silenzio verso la camera da letto.

 

***

 

Molly si girò e rigirò nel letto per almeno un’ora, prima di prendere una decisione.

Sherlock era andato nella camera degli ospiti di sua spontanea volontà, senza nemmeno augurarle la buonanotte, e Molly era andata a dormire a stomaco vuoto, accartocciato come una pallina di carta straccia con l’inizio di una storia scritta e riscritta ma che, incurante di ogni tentativo, non avrebbe mai avuto un lieto fine.

Bussò piano alla porta e l’aprì, domandando a bassa voce: «Sherlock, sei sveglio?».

«Uhm», mugugnò lui.

Molly si sentì autorizzata ad entrare e si chiuse la porta alle spalle, poi si avvicinò al letto e non senza un po’ di timore sollevò le coperte per potersi sdraiare al suo fianco.

«Tuo fratello mi ha proposto un trasferimento negli Stati Uniti, lo sapevi?», esordì rompendo il silenzio, gli occhi rivolti verso il soffitto.

«No».

«Pensi che dovrei prenderlo in considerazione?».

«È la soluzione migliore».

«Non ti ho chiesto questo, Sherlock. Ti ho chiesto se pensi che dovrei prenderlo in considerazione».

Molly osservò le spalle del detective sollevarsi un poco mentre respirava profondamente.

«Penso che dovresti. Saresti più al sicuro, faresti nuove esperienze, nuove conoscenze, e chissà, magari deciderai che là ti piacerà più di Londra».

Molly serrò le labbra e gli diede le spalle, rannicchiandosi su un fianco.
Si era illusa ancora una volta: Sherlock non avrebbe mai ammesso di aver bisogno di qualcuno, tantomeno di lei.

«Credi davvero che Moriarty sia vivo, allora?», gli chiese, scoprendo una certa freddezza nella propria voce.

Ciò che aveva detto l’aveva offesa: come poteva pensare che avrebbe potuto preferire un altro ospedale al Bart’s? Come poteva pensare che avrebbe potuto amare una città degli USA più di quanto amasse Londra? Come poteva pensare che si sarebbe rifatta una vita facilmente, sentendo la mancanza di tutte le magnifiche persone che conosceva, compreso lui? E soprattutto avrebbe dovuto essere a conoscenza che nessun posto era abbastanza lontano né sicuro se Moriarty era davvero ancora vivo.

«Non lo so».

«Eri di fronte a lui, quando si è sparato».

«L’hai appurato di persona, quanto sia facile inscenare la propria morte se si dispone dei mezzi e delle persone giuste».

«Ma lui si è sparato, Dio mio!».

«Era furbo, era intelligente…».

«Tu di più, Sherlock».

Il consulente investigativo si girò, o meglio, Molly lo sentì spostarsi sotto le coperte ed ebbe la sensazione che le stesse fissando le scapole lasciate scoperte dalle spalline sottili della canotta che indossava.

«Molly, giuro che non gli permetterò di avvicinarsi di nuovo a te», sussurrò, infinitamente serio.

Il cuore iniziò a batterle più forte nel petto, così forte che nel silenzio ebbe paura che Sherlock riuscisse a sentirlo.

«Al matrimonio di John avevi detto che non avresti più fatto giuramenti in vita tua».

«Ogni tanto – raramente – dico delle stupidaggini anche io».

Molly si voltò, senza più provare imbarazzo, e come lei trovò Sherlock sorridente.

«Se andassi a prendere il cellulare e ti registrassi mentre lo ripeti?», gli chiese, inarcando un sopracciglio in modo sbarazzino.

«No», esclamò facendo schioccare le labbra, prima di lasciarsi andare ad una risata gutturale.

L’anatomopatologa sospirò e fece per alzarsi e tornare nella sua camera da letto, ma Sherlock le afferrò il polso, costringendola a guardarlo negli occhi.
«Per questa notte, affrontiamo insieme i nostri demoni».

Molly ci rifletté su qualche istante, poi ritornò sotto alle coperte ed abbracciò il cuscino, rivolgendogli un breve sorriso prima di chiudere gli occhi.
«Per questa notte», specificò sottovoce, come se in cuor suo non sperasse che ce ne sarebbero state altre.

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Capitolo 6
*** Night #14 ***


Buongiorno e chiedo umilmente perdono per il ritardo! 
Tra il lavoro, gli Oscar (deduco che la maggior parte delle persone qui li abbiano guardati per una sola ragione xD) e quel minimo di vita sociale che tento di preservare, non ho avuto un minuto libero per postare u_u 
Spero che questo sesto e - ahimè - penultimo capitolo sia in grado di farmi perdonare! 
Un grazie enorme a chi ha commentato la volta scorsa e chi ha letto soltanto :)
Buona lettura, un bacio!
Vostra,

_Pulse_

 

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6.      Night #14

 

L’ultima settimana era stata la più movimentata che avesse vissuto da due anni a quella parte.
Sette giorni di telefonate, accordi, novità e tanti, tantissimi dubbi, ma alla fine tutto era stato organizzato e ogni decisione era stata presa in maniera irrevocabile. Ciononostante, non si sentiva tranquilla; al contrario, aveva la sensazione di camminare sopra un ponte instabile, sempre sul punto di crollare.
Era sempre stata una ragazza abitudinaria, a cui non piacevano troppo i cambiamenti improvvisi, perciò se doveva essere completamente sincera con se stessa era proprio terrorizzata.

Domani a quella stessa ora – non proprio in realtà, dimenticava sempre le sette ore di fuso orario – sarebbe già stata nel suo nuovo appartamento, in una città sconosciuta e con un nuovo lavoro. Niente amici, solo un paio degli uomini di Mycroft che lavoravano a tempo pieno per lui negli USA, il cui unico scopo sarebbe stato quello di garantire la sua sicurezza.
Il tempo di una dormita e poi, sull’aereo che in poco più di otto ore l’avrebbe portata a Washington D.C., la sua vita non sarebbe più stata la stessa.

«Sei migliorata moltissimo, Molly».

L’anatomopatologa sollevò di scatto la testa e scoprì che Sherlock non era più appollaiato sul divano, a criticare a bassa voce una delle tante serie TV di cui lei era dipendente, bensì al suo fianco, intento ad esaminare le camicie che stava stirando. Le sue camicie.

«L’avevo detto che era solo una questione di pratica», aggiunse, rivolgendole un sorriso.

Molly posò il ferro da stiro e si passò una mano sulla fronte.

Aveva trascorso gli ultimi giorni ad impacchettare tutto ciò che avrebbe portato in America – ne erano la prova gli scatoloni in giro per l’appartamento – e come se non bastasse, proprio la sera prima della partenza, Sherlock le aveva dato una decina di camicie da stirare. Avrebbe potuto rifiutare, certo, ma non se la sentiva proprio di litigare con lui: quelle erano le ultime ore che passavano insieme e chissà quando avrebbe potuto rivederlo o anche solo sentire la sua voce.

«Sei stanca?», le chiese quasi amorevolmente, prendendola in contropiede.

Molly accennò un sorriso e rispose con sincerità: «Un po’. Mi prenderesti un bicchiere d’acqua, se non ti…?».

«Ho in mente di meglio», esclamò, interrompendola. La prese per le spalle e la spinse verso il corridoio. «Cambiati, andiamo a cena fuori».

«Cosa?», squittì, incredula. «Potresti essere un po’ più chiaro?».

«Io, te, a cena fuori, da Angelo. È abbastanza chiaro?».

«No. Ma non ce n’è bisogno, posso benissimo cucinare qualc–».

«Vai a cambiarti, sbrigati. Mettiti il vestito che hai indossato quando sei uscita con quel pediatra… Nicholas? Era molto bello».

Molly strabuzzò gli occhi e per la sua stessa sanità mentale si convinse che non fare domande era la decisione migliore.

Quando si fu chiusa in camera da letto, Sherlock estrasse il cellulare dalla tasca interna della giacca ed inviò un breve sms a John.

 

***

 

«Mi prendi in giro?», chiese Molly, afferrando distrattamente la mano che Sherlock le aveva offerto per aiutarla a scendere dal taxi.

L’auto si allontanò e lei rimase ferma di fronte all’insegna spenta e alle serrande abbassate del ristorante di Angelo, la mano ancora al caldo in quella del detective.

«Di qua», disse quest’ultimo, trascinandola con sé fino all’angolo della strada.

«Sherlock, mi spieghi che cosa sta succedendo? E rallenta, non riesco a starti dietro con questi tacchi!».

«Perché li hai messi, allora?».

«Perché me l’hai chiesto tu!».

Le gettò un’occhiata sospettosa, come se davvero non lo ricordasse. «L’ho fatto?».

Molly sospirò, arrendendosi al fatto che non le avrebbe spiegato nulla, ed accennò una corsetta, sperando di non cadere faccia a terra sul cemento, fino a portarsi al suo fianco.

Si lasciò guidare in un vicolo stretto e buio e a quel punto si chiese se non avesse voluto coinvolgerla in uno dei suoi casi; se per quell’occasione, anziché di John, avesse avuto bisogno di un’assistente donna e vestita in quel modo. Stava per fargli una bella ramanzina – poteva almeno avvisarla! – quando si rese conto che l’aveva portata di fronte all’uscita sul retro del ristorante di Angelo.

«È chiuso, Sherlock. Cos’hai intenzione di fare, vuoi cucinare tu?».

«Ti ho già detto che io non cucino».

«Dovrei cucinare io, allora?», sbottò, indecisa se scoppiare a ridere oppure portarsi le mani nei capelli.

Sherlock le mostrò un sorriso fin troppo largo ed abbassò la maniglia della porta, trovandola inspiegabilmente aperta. Le indicò di entrare per prima e una volta dietro di lei accese le luci della cucina.

«Andiamo», le disse, porgendole di nuovo la mano.

Molly lo fissò intensamente negli occhi, cercando di capire che cosa avesse in mente, e Sherlock, rendendosene conto, roteò gli occhi irritato.
Amava le deduzioni, ma non quando le persone si soffermavano a farle su di lui.

«So di non essere esattamente la prima persona a cui una madre affiderebbe i propri figli, ma…».

Sherlock si interruppe bruscamente quando Molly infilò la mano nella sua, simile ad un petalo delicato e freddo. Quindi le regalò un piccolo sorriso e la guidò all’interno del locale, anch’esso immerso nel buio. Quella volta non fu lui ad accendere le luci, bensì qualcuno al suo fianco.

Non ci fu il solito coro ad urlare «Sorpresa!», ma tutte le persone a lei più care che le sorridevano e avevano già gli occhi lucidi. Non era una festa in cui l’allegria avrebbe fatto da padrona e ne erano tutti consapevoli, ma ce l’avrebbero messa tutta per rendere quella separazione più facile, per rendere quell’addio un semplice arrivederci.

L’anatomopatologa alzò il viso verso quello di Sherlock, ancora al suo fianco, e lo ringraziò con gli occhi, già colmi di lacrime. Il detective la invitò a gettarsi tra le braccia di John, di Mary, della signora Hudson, di Lestrade e di un paio di sue colleghe che poteva considerare le uniche vere amiche che le erano rimaste dopo la rottura con Tom.
Molly non avrebbe voluto lasciargli la mano ed infatti fu lui, rendendosene conto, a lasciarla andare per primo, stringendo le labbra e sforzandosi di sorriderle.

«È dura, eh?», gli disse Angelo, con quel suo inglese dal forte accento straniero. «Farà male, ma col tempo passerà».

Sherlock non le tolse mai lo sguardo di dosso, mentre dispensava baci e abbracci e ringraziava tutti i presenti. Pensò al Bart’s senza Molly e realizzò che non avrebbe mai smesso di fare male.

 

***

 

Nessuno aveva fatto domande sul perché da un giorno all’altro avesse deciso di trasferirsi a Washington D.C., ma Molly era convinta che solo la signora Hudson e le sue due colleghe ne fossero del tutto all’oscuro. Di sicuro Greg e John, e quindi per forza di cose sua moglie Mary, dovevano aver almeno intuito che la causa era l’incredibile ritorno di Jim Moriarty, che quella era una decisione che non aveva preso di sua iniziativa e che quel lavoro al Quartier Generale dell’FBI non le era stato assegnato solamente per la sua competenza e serietà.
Tutti però le avevano fatto gli auguri più sinceri, assicurandole che la città le sarebbe piaciuta e che si sarebbe ambientata in fretta. Molly non ne era altrettanto sicura, ma aveva apprezzato.
L’unico che non aveva aperto bocca era stato proprio Sherlock, il quale si era subito seduto in un angolo e non si era più mosso. Non c’era bisogno che le dicesse qualcosa perché in realtà non c’era nulla da dire ed entrambi preferivano il silenzio alle false speranze.

Era seduta con Mary e John, quando proprio quest’ultimo si alzò per raggiungere il detective. La signora Watson aspettò che fosse lontano, poi allungò le braccia sul tavolo e le prese le mani, sorridendole dolcemente.

«Non puoi nemmeno immaginare quanto ti capisca, tesoro».

Molly ricambiò il sorriso, abbassando gli occhi. «Non ho mai avuto così tanta paura in vita mia».

«Lo so, lo so. Ma quando le cose si sistemeranno, spero il prima possibile, potrai tornare qui e tutto sarà come prima».

«Non è solo questo, Mary». Si morse le labbra e con la coda dell’occhio scorse Sherlock e John parlare a bassa voce in fondo al locale.

«Cercheremo di stargli ancora più vicino, te lo prometto».

Quelle parole furono come balsamo sulla sua anima e riuscì a rilassare un po’ le spalle, mentre gli occhi le si inumidivano di nuovo.

«Non sarà facile», aggiunse Mary sorridendo e portandosi una mano sul pancione. «Ma io e John ce la metteremo tutta. Gli mancherai davvero moltissimo».

«E se non partissi? Se domani non salissi su quell’aereo, che cosa succederebbe?».

La signora Watson scosse lievemente il capo, gli occhi tristi. «Vuoi davvero sapere che cosa penso?».

Molly bevve tutto d’un fiato il cocktail che si girava nervosamente tra le mani, annuendo con un cenno del capo.

«Sherlock non riuscirà mai ad affrontarlo: sapendoti così alla sua portata, non riuscirebbe a concentrarsi totalmente. Con te in America, invece, il suo unico scopo sarebbe la sua cattura e ci metterebbe tutto se stesso, solo per averti di nuovo al suo fianco il prima possibile».

Era una teoria fin troppo romantica, una che avrebbe potuto benissimo essere stata presa dai suoi lontani sogni, quelli che aveva da tempo rinnegato e che ora stavano tornando a galla.

Si ritrovò a ridacchiare e Mary corrugò la fronte, chiedendole se avesse detto qualcosa di divertente.

«No, scusami. Stavo solo pensando alla povera anima di chi gli stirerà le camicie in mia assenza. Lo sai che mi ci sono voluti giorni, prima di capire come volesse la piega sulle maniche?».

Mary la fissò incredula fino a quando insieme non scoppiarono a ridere.

 

***

 

«Quanto manca prima che tu te ne vada nel bel mezzo della festa?», domandò John, sedendosi di fronte all’amico detective con un bicchiere tra le mani.

«Non è una festa», replicò Sherlock, unendo le punte delle dita e portandosele di fronte alla bocca.

«Okay, non lo è, ma sarebbe carino se tu parlassi con qualcuno».

«E cosa dovrei dire?».

Il dottor Watson si strinse nelle spalle, guardando il soffitto.

«Appunto», mormorò il consulente investigativo, gettando l’ennesima occhiata verso Molly, seduta di fronte a Mary.

«Potresti raccontarmi che cos’è successo esattamente in questi giorni. È stata un’idea di Mycroft, non è così? Molly è in pericolo?».

Sherlock annuì. «Qualcuno le ha lasciato un messaggio sul suo blog, la stessa frase pronunciata da Moriarty in quel filmato. Mycroft ha ritenuto opportuno che Molly si allontanasse per un po’».

«E tu l’hai lasciato fare?», gli chiese, inarcando le sopracciglia.

«Perché ti stupisci? È la soluzione migliore: a Washington avrà un lavoro migliore di quello che ha adesso, un salario più alto, un appartamento più bello, e sarà tenuta sotto stretta sorveglianza».

«Ma non avrà accanto le persone che ama».

Sherlock strinse i denti e socchiuse gli occhi, sibilando: «Bisogna fare dei sacrifici, John. E non sarà per sempre».

«Voglio sperarlo», esclamò, con un sorriso storto sulla bocca. «Sarai intrattabile».

«Come al solito», mormorò sbuffando.

«No, più del solito.  È davvero la soluzione migliore, Sherlock? Per te, intendo».

«Come ho già detto, bisogna fare dei sacrifici».

John sorrise, quella volta teneramente, e si allungò per dargli una pacca sulla spalla.

«Che cos’era quella?», chiese Sherlock, confuso.

«Una pacca di sostegno».

«Sostegno?».

«Se hai qualcosa da dirle, credo che dovresti farlo. Città nuova, lavoro nuovo, gente nuova… Potrebbe anche decidere di non tornare, sai?».

«L’ho messo in conto».

«Quand’è che non lo fai?», domandò John retoricamente, sospirando.

Finì il suo drink e si alzò proprio mentre al loro tavolo Molly e Mary scoppiavano a ridere. John si voltò e sorprese uno Sherlock contagiato, con una risata intrappolata tra le labbra incurvate in un sorriso già malinconico.

 

***

 

Molly si schiarì la voce e chiese un po’ d’attenzione, portandosi al centro della sala per poter avere un contatto visivo con tutti.

«Volevo solo ringraziarvi di cuore per ciò che avete fatto per me questa sera. Avevo immaginato addii piagnucolosi e voi mi avete regalato solo sorrisi. Mi mancherete tantissimo, tutti quanti».

Il suo sguardo si incatenò a quello di Sherlock per un paio di secondi di troppo, ma nessuno lo notò – o fece notare di averlo notato.

«Un grazie speciale ad Angelo. Grazie per la tua disponibilità, sei stato gentilissimo».

«Per gli amici di Sherlock, questo ed altro!», esclamò, stritolando Molly in un abbraccio caloroso e dandole tre baci sulle guance.

Tutti scoppiarono a ridere di fronte allo sbigottimento dell’anatomopatologa e dopo gli ultimi saluti non rimase più nessuno nel locale, eccetto Molly, Sherlock e i coniugi Watson.

«Noi ci avviamo, voi… fate pure con calma», disse John, guardando Sherlock in modo eloquente.

Il detective sgranò gli occhi e lanciò un’occhiata allarmata a Molly, quindi la prese per il braccio e seguì a ruota John e Mary.
«È inutile rimanere qui, veniamo con voi», spiegò, per la delusione di John.

Uscirono da dov’erano entrati e sul piazzale dietro il ristorante trovarono l’ispettore Lestrade, fermo a fumare una sigaretta, illuminato da un lampione dalla luce fioca.

«Credevo fossi andato via», disse John sorpreso, ma non quanto Sherlock.

«Mi sono dimenticato di dire una cosa a Molly. Posso averla per due minuti?».

«In realtà…», iniziò a dire Sherlock, ma il dottor Watson gli strinse il polso e concluse al posto suo: «Certo Greg, vi aspettiamo in strada».

Molly guardò i tre allontanarsi e si avvicinò all’uomo, sorridente nonostante il freddo che le faceva tremare le gambe.
«Ho resistito per tutta la sera, non vorrai farmi piangere proprio adesso».

Greg sorrise e fece l’ultimo tiro alla sigaretta, poi se la gettò alle spalle senza curarsi di spegnerla.

«Volevo augurarti buon viaggio e farti una promessa».

Si avvicinò di un passo e Molly sollevò gli occhi nei suoi, sentendosi un po’ a disagio: non erano mai stati così vicini e i suoi occhi erano così seri, così tristi…

«Fosse anche l’ultima cosa che faccio, prenderò Moriarty – se è ancora vivo – o chiunque altro abbia agito per lui. Chiunque ti stia costringendo ad andare via».

Sollevò una mano e le accarezzò i capelli che le sfioravano una guancia, quindi timidamente si avvicinò al suo viso con l’intento di baciarla. Molly arretrò di un passo, allontanando la sua mano stringendola tra le proprie congelate.

«Mi dispiace, Greg. Non posso», mormorò e non riuscì ad impedire ad una lacrima di scivolarle sulla guancia.

L’ispettore di Scotland Yard stirò un sorriso che trasudava tristezza e gliel’asciugò con il pollice. «Perdonami, Molly».

«Lo sai che non c’è nulla da perdonare».

«Già… Infondo nessuno più competere con Sherlock Holmes».

Molly chiuse gli occhi e sospirò, poi allungò le braccia perché Lestrade l’abbracciasse.
«Abbi cura di te, Greg», sussurrò.

«Anche tu. E sappi che la mia promessa rimane valida».

«Grazie. Grazie davvero».

Si separarono e Molly gli sorrise prima di voltarsi ed incamminarsi nel vicolo buio, verso la strada affollata.

Vide Sherlock, John e Mary accanto all’auto di questi ultimi e li raggiunse, sforzandosi perché non notassero il suo dispiacere.
Non era mai stata brava a mentire e il detective era l’ultima persona che si potesse fregare, ma con l’aiuto di Mary, la quale aveva subito colto qualcosa nei suoi occhi sfuggenti, riuscì a non dover dare spiegazioni.

«Vieni qui tesoro, fatti abbracciare», le disse, avvolgendole le braccia intorno alle spalle e baciandola su una guancia. «Dovrai fare il possibile per essere qui quando nascerà la piccola Watson, intese?».

Molly sorrise ed annuì. «Assolutamente».

Successivamente fu il turno di John, nonostante si fossero salutati ormai una decina di volte.

«Vi diamo un passaggio, non c’è problema», propose, pescando le chiavi dell’auto dalla tasca del cappotto.

«No, prendiamo un taxi», rifiutò Sherlock, con un sorriso piatto sulle labbra. John non osò contraddirlo e Mary imitò il marito, salendo in auto.

«Chi ti accompagna in aeroporto, domani mattina?», si informò il dottor Watson, ormai già dentro l’abitacolo per metà.

«Mycroft manderà un’auto con la sua assistente personale», rispose Molly.

«Okay, allora ci vediamo direttamente in aeroporto».

«Non è necessario John, davvero…».

Il dottore scosse il capo, determinato a non voler sentire altro. «Buonanotte, a domani!».

Molly e Sherlock guardarono l’auto dei Watson allontanarsi e poi il detective si sporse oltre il marciapiede per fermare un taxi. Cinque minuti dopo erano già in viaggio verso casa, seduti vicini ma consapevoli di essere lontani come non lo erano mai stati in quelle due settimane.

L’anatomopatologa si sentiva vagamente in colpa per ciò che era quasi successo con Greg e per spezzare quel silenzio imbarazzante disse: «Angelo ha tenuto il ristorante chiuso questa sera, solo per me. Quando smetterà di sentirsi in debito con te?».

Sherlock la guardò con la coda dell’occhio, un angolo della bocca sollevato in un mezzo sorriso. «L’ho scagionato da un’accusa di triplice omicidio ed è italiano, perciò… mai, suppongo».

Le strappò una lieve risata che la fece sentire meglio, ma non si dissero altro per l’intera durata del viaggio.

Una volta di fronte al condominio di Molly, Sherlock scambiò qualche parola con il tassista, probabilmente per dirgli di tenere il resto, poi la seguì all’interno, fino alla porta dell’appartamento.

«Non entri?», gli chiese sbigottita e un tantino preoccupata, trovandolo ancora fermo sul pianerottolo.

«Ho chiesto al tassista di aspettarmi».

«Cioè… Non dormi qui, questa notte?».

Sherlock scosse il capo, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto. Molly allora si avvicinò per guardarlo negli occhi da più vicino.

«Torno a Baker Street».

«Okay», mormorò, anche se in realtà avrebbe voluto pregarlo di restare. Non voleva passare da sola l’ultima notte a Londra, non era pronta a dirgli addio.

«Prima di andare, voglio che tu sappia una cosa», disse Sherlock, guardandola dritta negli occhi. «Voglio che tu sappia che non avrei mai permesso a Mycroft di organizzare il tuo trasferimento a Washington se questo non fosse stato realmente necessario. Moriarty ha commesso un errore, pensando che tu non contassi nulla per me. Non lo commetterà di nuovo, anzi… sarai la prima persona che colpirà. E non posso permetterlo».

Molly si strinse le braccia al petto, annuendo. Non riuscì a resistere ed esclamò, per poi interrompersi di colpo: «È solo che…».

«Cosa?».

«Come farai a mantenere il tuo giuramento, a 6000 chilometri di distanza?».

«5904,58*».

Molly non riuscì a trattenere un sorriso, nonostante le lacrime che le avevano riempito gli occhi. Si strofinò il naso con una mano e crollò, lasciando che un singhiozzo le bruciasse la gola.
Sherlock si paralizzò, non sapendo come reagire al suo pianto, ma Molly si ricompose quasi subito, tirando su col naso e spazzando via le lacrime con entrambe le mani. Fu allora che entrambi si accorsero di Toby, il quale si era infilato tra loro e si stava strusciando contro le gambe di Sherlock.

«Alla fine sei riuscito a farti piacere», commentò Molly, l’ombra di un pallido sorriso sul volto.

«Alla fine. Perché non succede mai all’inizio?».

«È successo, molto tempo fa», rispose Molly, anche se forse Sherlock avrebbe voluto che quella domanda rimanesse solo un pensiero inespresso nella sua mente.

Il detective infatti alzò gli occhi, la fronte corrugata. Poi capì ciò a cui si riferiva e sentì il cuore sprofondare, letteralmente. Non sapeva dove, né perché, solo… sprofondò.

Molly si avvicinò lentamente, quasi con cautela, e gli prese il viso tra le mani per accarezzarlo con la delicatezza che si usa con le cose a cui si tiene, quelle inestimabili ed infinitamente fragili. Poi si alzò in punta di piedi e senza mai distogliere lo sguardo dal suo si avvicinò in maniera esitante alle sue labbra, fino a sentire i loro respiri unirsi.
Sherlock la sentì tremare contro di lui e le accarezzò un braccio per rassicurarla, chiuse persino gli occhi, ma quando le loro bocche erano ormai ad un soffio dallo sfiorarsi si allontanò, maledicendosi.

«Buonanotte, Molly Hooper», disse quasi con freddezza e si voltò.

Molly lo ascoltò scendere le scale velocemente e quando non lo sentì più chiuse la porta di casa per appoggiarvisi contro con la schiena. Si morse le labbra e serrò forte gli occhi, poi respirò profondamente e andò a preparare le ultime valigie.

.

.

*Numero di chilometri che separano Londra e Washington. Ho usato diversi siti di calcolo e questo è il numero che è uscito più volte, ma non ne assicuro l'esattezza.

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Capitolo 7
*** Epilogue - Day #1 ***


Eccoci alla fine! 
Diavolo, mi mancherà tantissimo pubblicare ogni settimana - era un sacco che non lo facevo, tra l’altro xD - è una routine così rassicurante! Ma questa è un’altra storia.
Prima di lasciarvi al capitolo finale, volevo solo spiegare il senso del titolo “In my place”.
Sono pessima a dare i titoli, perciò mi sono lasciata un po’ guidare dalla mia colonna sonora e tra le canzoni che ascoltavo di frequente mentre scrivevo c’era proprio “In my place” dei Coldplay, che adoro. Oltre ad essere in qualche modo azzeccata per il tema di questa FF, mi piaceva pensare alla specie di gioco di parole che si veniva a creare, dato che “place” in gergo vuol dire anche “casa”, o luogo in cui si vive insomma.
Bene, dopo questa spiegazione patetica, vi auguro buona lettura e ci vediamo infondo per i ringraziamenti e i saluti finali!

Vostra,

 

_Pulse_

 

 

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7.      Epilogue – Day #1

 

«È tutto pronto, signorina Hooper».

Molly si voltò verso Anthea – o qualunque fosse il suo vero nome – ed annuì con un cenno del capo.

«Arrivo subito».

Ascoltò i tacchi dell’assistente personale di Mycroft echeggiare sulle scale e si voltò di nuovo verso la finestra da cui stava guardando l’alba di un nuovo giorno illuminare la sua Londra.
Col cuore pesante come piombo sospirò e prese in braccio Toby per poterlo infilare nel suo trasportino.

«Sarà un lungo viaggio, ma staremo bene. Vedrai, andrà tutto bene», gli sussurrò, cercando di convincere anche se stessa.

 

Molly tenne gli occhi sempre incollati sul finestrino, facendo del proprio meglio per imprimersi nella mente le strade che non avrebbe visto per chissà quanto tempo: i marciapiedi pieni di persone a tutte le ore del giorno e della notte, la guida a sinistra, i taxi neri, le ultime caratteristiche cabine telefoniche rosse.

Passarono anche di fronte al Bart’s e fu un colpo al cuore. 
Le sarebbe mancato da morire e una volta lontana sapeva che avrebbe vissuto e rivissuto i momenti trascorsi nel laboratorio d’analisi, nell’obitorio e persino in mensa. Era lì che aveva incontrato Sherlock per la prima volta, lì lo aveva aiutato e gli aveva permesso di rubare i suoi strumenti, i suoi cadaveri, il suo tempo… e non solo.
Perché non le sarebbe mancato il Bart’s di per sé, o Londra, bensì i luoghi che per lei avevano un significato particolare, quelli a cui erano legati i ricordi migliori e quelli peggiori da quando lo aveva conosciuto.

Si ritrovò a dover tirare su col naso e Anthea le offrì distrattamente un fazzoletto, che Molly accettò sentendosi ancora più piccola, insignificante e patetica al suo fianco.

 

***

 

«Eccoti qua, finalmente ti ho trovata», disse John, aprendo le braccia per stringerla a sé. «Come ti senti?».

«Nervosa, disorientata… Grazie per essere qui», sussurrò Molly, staccandosi per sorridergli dolcemente.

Il dottor Watson si guardò intorno, rivolse un cenno di saluto ad Anthea – la quale non ricambiò, concentrata sul suo smartphone – poi sospirò e con espressione mesta disse: «Sherlock non è venuto».

Era più un’affermazione che una domanda, ma Molly si sentì comunque in dovere di difenderlo, spiegando: «Ci siamo già salutati ieri, non avremmo avuto nient’altro da dirci».

La guardò intensamente negli occhi, cercando di intuire cosa mai potevano essersi detti, ma ogni ipotesi che formulava veniva scartata nel giro di pochi secondi, lasciandolo come prevedibile senza la più pallida idea.

Il check-in era già stato fatto e i bagagli, compreso Toby, erano già stati imbarcati, quindi i due uomini di Mycroft, per la precisione un uomo ed una donna, muniti di auricolare, dissero a Molly che era arrivato il momento di passare i controlli di sicurezza e di dirigersi al gate d’imbarco.
La ragazza provò un’irresistibile desiderio di scappare tra la folla e nascondersi da qualche parte, oppure di aggrapparsi a John perché impedisse loro di portarla via, ma fu solo un momento passeggero.

«Devo andare», disse, non senza che la voce le tremasse un poco.

«Cerca di vederla come una vacanza, okay? Poi ci racconterai tutti i segreti dell’FBI», esclamò John sorridendo, ma fu subito fulminato dai due agenti. 
«Era una battuta», precisò, sollevando le mani in segno di resa.

In quel momento un mendicante dai vestiti logori si avvicinò a loro, in particolare a Molly, e con la scusa di farle qualche falso complimento per ottenere degli spiccioli le prese le mani. Subito i due agenti lo placcarono e lo spinsero via, cacciandolo in malo modo, e Molly sfruttò il fatto che fossero tutti distratti per leggere il fogliettino stropicciato che l’uomo le aveva lasciato tra le dita.

Quando gli uomini di Mycroft tornarono, Molly sorrise loro brevemente e chiese: «Posso andare un attimo in bagno a lavarmi le mani? Non vorrei che, sapete… Faccio in un attimo».

I due acconsentirono, a patto che l’agente donna l’accompagnasse, ma Molly insistette perché la lasciassero andare da sola.
Messa alle strette, prese John per un braccio ed esclamò: «Andrebbe bene se mi accompagnasse John? È un soldato, ha affrontato moltissime avventure pericolose con Sherlock Holmes e ne è uscito sempre abbastanza bene, riuscirà a proteggermi nel caso ce ne fosse bisogno».

«Lasciateli andare, per l’amor del cielo», borbottò Anthea e i due agenti si ammutolirono, dando controvoglia la propria approvazione.

Molly si voltò e si trascinò dietro John, correndo quasi.

«Che cosa sta succedendo?», le chiese ad un tratto, puntando i piedi perché si fermasse e gli spiegasse la situazione.

L’anatomo patologa si limitò a dargli il biglietto che quel barbone le aveva consegnato e riprese a correre senza aspettarlo.
John lo aprì e dopo aver letto quelle parole scritte in modo frettoloso con una penna quasi scarica sorrise, scuotendo il capo.

 

“Worldwide Newspapers”
SH

 

***

 

Sherlock abbassò il giornale svedese che aveva aperto di fronte al viso e gettò un’occhiata verso l’uscita dell’edicola, domandandosi come mai Molly ci stesse mettendo tanto. Forse il senzatetto che aveva pagato non aveva portato a termine il proprio lavoro, forse gli uomini di Mycroft non le avevano permesso di allontanarsi, forse lei non voleva più vederlo.

Strinse le labbra e si calò un po’ di più la visiera del berretto da baseball sul viso, dicendosi di non perdere la speranza.

Quella notte non era riuscito a chiudere occhio, nella sua vecchia stanza del 221B di Baker Street: rotolandosi tra le lenzuola non aveva fatto altro che pensare a quel bacio non dato, all’espressione che aveva visto sul viso di Molly, e alla fine aveva capito che non poteva lasciarla partire con quell’ultimo suo ricordo.
John aveva ragione: era l’ultima occasione che aveva per mettere in chiaro qualsiasi cosa ci fosse in sospeso tra loro e doveva sfruttarla, prima di pentirsene per sempre. E anche se Molly forse ne era già a conoscenza – conosceva praticamente tutti i suoi difetti – doveva farle capire che infondo era un fottuto egoista.

Con la coda dell’occhio la vide affacciarsi nell’edicola ed allungare il collo tra i diversi espositori. Rincuorato che fosse corsa da lui anche quella volta, sorrise. Quindi chiuse di scatto il giornale svedese, attirando la sua attenzione, e dopo averlo sistemato in mezzo a quelli francesi si diresse verso il fondo dell’edicola, nell’area fumetti.

Molly lo raggiunse e la prima cosa che gli disse fu: «Non è una buona mossa usare due volte lo stesso travestimento».

«Ero di fretta», le rispose, mettendosi il berretto da baseball di traverso sulla testa.

«Ormai ero convinta che non saresti venuto a salutarmi, sai?».

«Beh, John una volta ha detto che sono una drama queen».

«E ha ragione, eccome».

Si scambiarono un sorriso e Sherlock si avvicinò di un passo, sollevando le mani per posargliele ai lati del viso.

«Mycroft ti ha dato un incentivo, dicendoti che ho ucciso un uomo, perché ti allontanassi da me. L’ho fatto davvero, sai? Nel caso non ci credessi».

Molly respirò profondamente, posando le mani sulle sue. «Stai per dirmi che forse dovrei fare degli esami, che probabilmente soffro di una sindrome simile a quella di Stoccolma?».

Sherlock trattenne una risata e sussurrò: «No, volevo semplicemente darti il mio incentivo».

Senza darle il tempo di capire, le alzò il viso e posò le labbra sulle sue, intrappolandole in un bacio che se fosse stato per lui sarebbe stato solo il primo di diversi altri. Ma sapeva di avere i secondi contati, prima che gli uomini di Mycroft la individuassero e gliela portassero via. Perciò si scostò e posò la fronte contro la sua, obbligandola a guardarlo negli occhi.

«Non crearti una nuova vita, a Washington, perché tornerai qui. Dammi un paio di mesi al massimo. Siamo d’accordo?».

Molly, vagamente sotto shock, annuì muovendo la testa.

«Ora vai, Molly Hooper. E non avere paura».

L’anatomopatologa lo guardò negli occhi e mettendocela tutta perché la propria voce risultasse fiera e decisa, disse: «Nemmeno tu. Ci riuscirai anche questa volta, ne sono certa».
Gli sorrise e gli sistemò il cappellino da baseball in modo che avesse di nuovo la visiera al posto giusto, poi gli diede le spalle per uscire dall’edicola senza più guardarsi indietro.

Sherlock la seguì con lo sguardo e dopo cinque minuti si diresse anche lui verso l’uscita, trovando John intento a girare con ben poco interesse un espositore di cartoline.

«E così…», iniziò a dire il dottore, ma il detective lo interruppe subito.

«Hai da fare?».

«Nulla che non possa essere rimandato».

«Bene. Devo portare tutte le mie cose di nuovo a Baker Street».

Sherlock sorrideva soddisfatto, come se avesse appena scoperto il crimine del secolo, in attesa solo che lui lo risolvesse.
John lo affiancò con una corsetta e ridacchiò, contando i secondi che mancavano prima che dicesse la sua ormai celebre frase.

«Adesso il gioco può cominciare, John».

Il dottor Watson aprì la bocca, colpito da quel cambio di sintassi.
Piacevolmente colpito.

 

 

 

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Here we are again!
Spero davvero che vi sia piaciuta questa conclusione (non vedo l’ora di sapere che cosa ne pensate) e vi ringrazio di cuore, tutti quanti: chi ha recensito immancabilmente tutti i capitoli, chi passava ogni tanto, chi ha letto soltanto. Siete tutti importantissimi *^*
Spero anche di tornare presto: ho qualche idea che mi frulla nella testa, anche se il tempo è sempre quello che è, purtroppo D:
Di nuovo:  grazie, grazie, grazie! Lots of love :)

Vostra,

 

_Pulse_

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