Century Child - II. Temptation

di Lady Vibeke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. In Nome di un Ricordo ***
Capitolo 3: *** 2. Verità e Bugie ***
Capitolo 4: *** 3. Approvazione ***
Capitolo 5: *** 4. Valo e Varjo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

 

This place is paradise
It's the place I call home
The moon on the mountains
The whisper through the trees
The waves on the water
Let nothing come between this and me

This Is Where I Belong, Bryan Adams

 

 

Un urlo agghiacciante riempì i corridoi deserti del palazzo, facendo vibrare i vetri delle finestre.

Fuori la pioggia scrosciava furiosa, abbattendosi su strade, alberi e case come una tempesta di aghi d’argento, finissimi e pungenti. Il grigio dominava su tutto, sbiadendo i colori, offuscando le luci. Sembrava di essere in una sfera di cristallo in bianco e nero. L’acquazzone nascondeva l’ormai prossima primavera dietro una giornata cupa come quelle del pieno inverno.

Da qualche parte ai piani superiori una porta sbatté violentemente, infrangendo prepotentemente il silenzio, in concomitanza con l’esplosione di un tuono.

Due paia di identici occhi neri tradirono una risata repressa.

– Adesso la senti. –

– Stavolta qualcuno ci lascia le penne. Anzi, il pelo. –

Regan gemette e richiuse svogliatamente il grosso libro che aveva sulle ginocchia. Sulla sua spalla, Mello si appallottolò su se stesso, nascondendosi sotto ai capelli.

Era poco più piccolo di un gatto, con enormi occhioni neri e minuscole orecchie tonde e sensibili, ed era una bestiolina davvero adorabile. Con un’inopportuna passione smodata per tutto ciò che luccicava.

Lo afferrò per la collottola e se lo strappò di dosso, anche se lui, recalcitrante, tentava in tutti i modi di aggrapparsi al suo vestito.

– Cosa diavolo hai combinato, stavolta, si può sapere? – sospirò, contando mentalmente il numero di porte che sbattevano, sempre più vicine, per avere una stima approssimativa di quando iniziare a campare scuse.

– REGAN! –

Puntuale come un orologio, sua cugina Anneli fece irruzione nella stanza, i capelli ondosi sciolti sulle spalle e la vestaglia di seta blu drappeggiata addosso in modo decisamente approssimativo sopra la camicia da notte.

– Quel tuo maledetto mostriciattolo ha di nuovo rubato la mia spilla! –

Mello tremò in mano a Regan, gorgogliando pauroso, e le rivolse uno sguardo che implorava pietà e misericordia. Era stato lui a scegliere lei, a scegliere di essere suo, e che lei fosse sua, e a volte la combinazione entrava pericolosamente in conflitto, viste soprattutto le folli manie del piccolo mascalzone.

– Sei proprio uno sfacciato! – sbuffò Regan, prima di rivolgersi alla cugina: – Scusalo, lo sai che non lo fa di proposito. –

– Non mi interessa se lo fa di proposito o no, voglio che tu tenga quel piccolo cleptomane fuori dalla mia stanza, lontano dalle mie cose e soprattutto alla larga da me! –

– Rilassati, sorellina, ti si stanno afflosciando i capelli – le disse suo fratello Mariek, con un gesto annoiato.

Lui e il gemello Ember sedevano di fronte a una partita a scacchi che stavano portando avanti con la stessa dedizione con cui avrebbero contato i granelli di polvere adagiati sul tavolo. In compenso, sembravano trovare molto più edificante e costruttivo il vassoio di biscotti che Donna Melyor, la governante, aveva portato loro pochi minuti prima e che era già vuoto per metà.

Anneli scoccò a Mariek un’occhiata di sufficienza e tornò a puntare il dito verso Regan e Mello:

– Fa’ in modo che la mia spilla salti fuori, o ti giuro che è la volta buona che nel mio guardaroba comparirà all’improvviso un manicotto di pelliccia rossa! –

Ciò detto, girò sui tacchi e uscì di gran carriera, scansando appena in tempo Prince, il maggiore dei suoi fratelli, che entrava nel salotto sbadigliando, completamente fradicio.

Il suo vero nome era Tristan, come il padre, il nonno e il bisnonno, ma per evitare confusioni tutti lo chiamavano Prince, perché fin dalla sua nascita, essendo il primogenito, era stato un po’ il principino di casa. Regan lo aveva sempre trovato molto attraente ed era più che certa che l’accezione con cui le ragazze lo chiamavano Prince era ben diversa da quella usata dai suoi fratelli.

Prince si avvicinò al camino acceso, prese una sedia e iniziò a depositarvi sopra strati di vestiti zuppi che ben presto contribuirono alla formazione di una discreta pozza d’acqua per terra.

– Cosa le prende? – domandò, riferendosi al malumore della sorella.

– Mello le ha di nuovo rubato la spilla dell’Accademia. – ridacchiò Ember, muovendo un alfiere.

Prince si girò verso Regan con un sopracciglio inarcato e lei assunse l’espressione più contrita che le riuscisse.

– Non è colpa sua! –

Prince, che ultimamente si era fatto stranamente distratto, scosse la testa e continuò a svestirsi. Non fosse stato per Donna Melyor, che entrò a fermarlo, si sarebbe tolto anche i pantaloni.

– Screanzato! – esclamò la donna, buttandogli addosso una coperta. – Ti sembra decoroso spogliarti di fronte a una signora? –

Prince si guardò intorno, confuso, presumibilmente cercando la signora in questione. Il suo sguardo incontrò Regan e passò oltre, e poi, dopo una breve esitazione, tornò indietro perplesso.

– Ma è solo… mia cugina. –

Regan ormai lo conosceva abbastanza bene da saper leggere perfettamente tra le righe: era solo una bambina. Il che cominciava a seccarla, perché, da ragazza ormai avviata verso il tramonto dell’adolescenza, desiderava essere considerata tutto fuorché una bambina.

Il problema era che il suo aspetto non la aiutava: era ancora molto acerba, magra con un giunco, curve a malapena accennate, e un visetto tondo e ingenuo che sembrava rubato a una bambola di porcellana.

Peccato solo che non esistessero bambole con i capelli color del sangue.

– Tua cugina o tua sorella che siano, è inappropriato! – berciò Melyor, spingendolo verso la porta, i vestiti bagnati ammucchiati su un braccio. – Via, via, andiamo di là! Ti preparo qualcosa di caldo. –

Prince si lasciò sequestrare con un’espressione di affettuosa sopportazione. Mentre uscivano, Regan sentì Donna Melyor che borbottava:

– Questi turni di notte non mi piacciono. Se tu avessi famiglia, dovresti lasciare tua moglie e i tuoi figli da soli, e con i tempi che corrono… –

La risposta di Prince finì inghiottita da fragore di un altro tuono.

Regan si accoccolò meglio sul divano e riprese la lettura da dove l’aveva lasciata.

Adorava le giornate di pioggia, starsene in casa al caldo e all’asciutto mentre il temporale imperversava di fuori, e godersi una buona lettura con il sottofondo rilassante dell’acqua battente.

Aveva trascorso tutta la prima parte della sua vita tenuta prigioniera da un uomo il cui scopo era stato solo e unicamente quello di impadronirsi di un potere oscuro che lei custodiva, ma che non aveva mai dato alcun segno di possedere. Almeno fino a che non aveva letteralmente distrutto il castello in cui era segregata.

Adesso era libera, e anche se i suoi genitori non c’erano più, aveva la fortuna di avere ancora il resto della famiglia ad occuparsi di lei: lo zio, Lord Tristan Edelberg, e sua moglie Arista, e i loro sei figli, che l’avevano accolta come una sorella. E poi c’erano zia Persefone, giovane sorella minore di Tristan, moglie e madre realizzata, ma anche importante figura politica, in quanto Coordinatore della Terra di Brenner.

Le due persone che più avevano aiutato Regan nella sua nuova vita, però, non erano suoi parenti. Una era Lucius, il demone che l’aveva trovata e tratta in salvo il giorno in cui lei, accecata dal dolore per l’uccisione del suo allora unico amico, aveva fatto crollare il castello di Lord Desmond, il suo aguzzino. Lucius era stato molto buono con lei: l’aveva accolta in casa sua e si era adoperato per rintracciare il passato che lei aveva dimenticato, e la aveva sempre protetta. E poi c’era Shin, il giovanissimo angelo capace di sedare qualsiasi turbamento con un semplice sorriso, la persona più buona e gentile che lei avesse mai conosciuto.

Tutti loro, adesso, erano la sua famiglia.

Un rumore di zoccoli all’esterno annunciò il rientro di Lord Tristan e di Aiden, il più giovane dei figli maschi di casa Edelberg, poco più grande di Regan. Erano usciti di prima mattina per sbrigare una commissione e ritornavano appena in tempo per il pranzo.

– Chissà dove sono stati tutta la mattinata – si domandò, mettendosi a sedere in maniera più composta. Allo zio piaceva vederla comportarsi in modo consono a una fanciulla del suo rango, anche se lei, a tutti gli effetti, non possedeva alcun titolo: suo padre era stato diseredato dal nonno Edelberg per essere fuggito con la figlia di una famiglia rivale: Aranel, la madre di Regan.

Mariek ed Ember fecero finta di niente e si concentrarono sulla loro partita con degli strani sorrisetti.

Regan continuò a leggere indisturbata per un po’.

Il trattato di Storia che aveva in grembo era grosso e pesante, ma l’argomento le interessava, nonostante avesse saltato di sana pianta alcune parti decisamente troppo boriose. Da due mesi a quella parte non aveva quasi fatto altro che divorare libri.

Il fatto era che, essendo cresciuta isolata dal mondo, le sue conoscenze in merito ad esso erano marginali e anche quel poco che sapeva lo doveva solamente a Derian, l’angelo che aveva condiviso con lei gli ultimi anni di prigionia, prima che Lord Desmond, il loro carceriere, lo uccidesse davanti a lei.

Regan avrebbe sempre sentito la sua mancanza.

La parte di Storia che stava leggendo al momento era quella che la affascinava di più: durante un periodo tumultuoso di carestie e disgrazie, la Monarchia non era stata in grado di gestire i disordini delle Sette Terre, allora riunite sotto un unico reame, e il popolo, istigato da alcune famiglie potenti, era insorto contro il re, il quale, impotente, aveva scelto di destituirsi e lasciare che la sua gente risolvesse a modo proprio la crisi.

Così, a furor di popolo, si era venuta a creare la Lega: ciascuna delle Sette Terre acquisì un’autonomia propria ed elesse una propria guida, i Coordinatori, i quale avrebbero avuto il compito di gestire gli affari politici delle rispettive Terre e al contempo rispondere al Consiglio. Da lì in avanti, la famiglia reale, i Leljen, rimase all’apice della società, non più come simbolo della Corona, ma come semplice casata nobiliare, e colui che era stato il Monarca venne premiato per la sua scelta con l’elezione a Coordinatore Generale, figura cui tutti gli altri Coordinatori avrebbero fatto riferimento.

Regan conosceva di persona l’ultima discendente di questa stirpe: Lady Soile Leljen, una donna bellissima e altrettanto fredda, che attualmente rivestiva la carica di Coordinatore della Terra di Norden.

Norden, pensò, con una stretta emozionata al cuore.

La terra dei ghiacci e del freddo, della neve, delle cavalcate notturne lungo le strade che nel buio risplendevano della tenue luminescenza del kival, la pietra di luna. Anche se non avesse mai scoperto dove risiedessero le sue vere radici, Regan non avrebbe comunque avuto dubbi sul fatto che Norden fosse casa sua. Se ne sentiva parte come una foglia era parte di un albero: se l’avessero portata via, sarebbe appassita.

Macinò tre capitoli tutti d’un fiato, poi realizzò che Mello era sparito.

Si guardò attorno spazientita e lo scovò in fondo alla stanza, appiattito a terra, che tentava di sgattaiolare verso la porta socchiusa. Sfortunatamente, si accorse di essere osservato e, con uno scatto fulmineo, fuggì via come un dardo.

– Mello, maledizione! – esclamò, arrabbiata, correndogli dietro, e aggiunse un altro paio di improperi non proprio signorili nel vedersi del tutto ignorata.

I gemelli ridacchiarono. Da qualche parte, invece, si sollevò l’ululato di protesta di Melyor, che poteva anche avere una certa età, ma possedeva ancora l’udito di un segugio:

– Modera il linguaggio, impudente! –

Regan si morse la lingua e continuò a correre lungo il corridoio. Seguiva alla cieca i piccoli rumori che Mello si lasciava indietro, ma non lo vedeva da nessuna parte. Probabilmente aveva approfittato della sua momentanea distrazione per correre a nascondere meglio la spilla di Anneli. Il che poteva significare che la avesse lasciata in un posto abbastanza ovvio da essere trovata, e che quindi esistesse qualche speranza di appianare, almeno in parte, il malumore di Anneli prima che il pranzo fosse servito.

Era appena arrivata al terzo piano quando udì uno scricchiolio propagarsi nel corridoio. La porta in fondo era aperta. Sulla pietra scura del pavimento, tuoni e fulmini si mescolavano alla calda e pallida luce delle lampade a olio.

Era lo studio personale dello zio Tristan e nonostante nessuno avesse mai ricevuto l’esplicito divieto di entrarci, era di tacito e comune accordo che nessuno si permettesse di metterci piede se non dietro a esplicito invito. Ma se Mello era là dentro, doveva portarlo via prima che combinasse qualche guaio serio, o, peggio, prima che rubasse qualche oggetto prezioso dello zio.

Entrò di soppiatto, cercando di non fare rumore. Anche se in giro non c’era nessuno, era probabile che Tristan, appena rientrato, salisse a momenti. La stanza era buia, le pesanti tende tirate. Tutto ciò che si poteva vedere erano ombre. Ombre di scaffali pieni di libri e mobili austeri, ombre di ritratti appesi alle pareti e pallidi riflessi che la luce fioca proveniente del corridoio creava incontrando il vetro delle teche in cui erano custoditi i cimeli di famiglia più importanti. Regan li aveva visti una volta sola e per lo più ricordava armi, diari e gioielli.

– Mello? Dove sei? Vieni fuori, avanti, prima che qualcuno ci scopra! –

Non si sentiva ancora del tutto a suo agio in quel palazzo che ormai chiamava casa, e quella stanza la metteva in soggezione. Era come se una proiezione di Tristan fosse seduta sulla pesante poltrona intarsiata dietro alla scrivania e la stesse sorvegliando in segreto.

C’era una pipa, accuratamente ripulita, dimenticata sul tavolino di fronte al divano accanto a una tabacchiera d’argento. E Mello era appollaiato proprio lì sopra, gli occhioni neri che luccicavano di tutta l’innocenza del mondo nella semioscurità.

Regan si portò le mani ai fianchi nel modo minaccioso aveva imparato da Donna Melyor.

– Chi spereresti di ingannare, per curiosità? –

Le orecchiette di Mello fremettero di insicurezza.

– Non ti azzardare a muoverti! – lo avvertì, mentre si avvicinava. Lui, che invece sembrava avere esattamente quell’intenzione, sembrò restringersi in se stesso, impotente, e rimase immobile ad attendere che la mano di lei lo sollevasse. Il modo in cui la guardò, gorgogliando sommessamente, le fece sciogliere il cuore.

Sospirò.

– Prima o poi capirò come si fa a non lasciarsi incantare dalle tue moine, e allora sarà peggio per te – borbottò, puntandogli sconfitta un dito contro il naso umido.

Lui chiuse gli occhi, sornione, ed emise un versetto contento.

Regan riportò la propria attenzione sulla tabacchiera: il coperchio era storto, leggermente  sollevato perché il suo perimetro non si incastrava correttamente nel bordo della scatola. Si chinò per aprirlo: tra il mucchio di foglie secche e spezzettate dall’intenso aroma acre individuò qualcosa che luccicava. Gettò un’occhiatina di rimprovero alla sua bestiola e recuperò l’oggetto, scoprendo che era esattamente ciò che aveva sospettato.

Lasciò andare Mello, il quale gemette in segno di protesta per il suo tesoro profanato e si diresse offeso verso la porta, ma Regan non gli badò. Ripulì velocemente l’ovale dorato, aiutandosi con le unghie per togliere anche i pezzetti più piccoli che si erano incastrati tra i raggi della stella a sette punte che vi era incisa, simbolo storico delle Sette Terre: sette unità a sé stanti che condividevano il medesimo nucleo. Quel nucleo un tempo era stato il re; adesso era la Lega, i cui membri, infatti, portavano al collo una stella identica a quella.

Rimise tutto a posto il più rapidamente e accuratamente possibile, poi, accertatasi che Mello fosse andato via, uscì e chiuse.

 

 

Le camere da letto erano al secondo piano. Al quarto, l’ultimo, c’erano la Biblioteca e il salone dove i ragazzi erano soliti allenarsi durante l’inverno o le giornatacce come quella.

Arrivata alla stanza di Anneli, bussò.

– Avanti. –

Dal tono svogliato, capì che la cugina non sarebbe stata granché bendisposta al dialogo, né alle sue ennesime scuse.

Entrò riluttante. La camera era illuminata a giorno, lampade e candele sparsi ovunque. Era facile, guardando le sue cose, capire che fosse figlia di suo padre: lo stesso gusto per l’eleganza sobria, talvolta persino essenziale, e una predilezione per l’ordine e la tranquillità. Tutto l’opposto di sua madre Arista e dei suoi fratelli Ember e Mariek, estroversi e solari, più propensi a farsi una risata in compagnia che a badare all’ordine.

Anneli era davanti alla grande specchiera della sua toeletta, seduta in una postura rigida e perfettamente eretta che Regan non avrebbe saputo replicare nemmeno con un bustino di metallo addosso.

– Ti ho riportato la spilla. –

Gliela posò accanto alla spazzola, su cui lei teneva una mano, anche se i suoi occhi, vuoti e assenti, erano assorti a fissare lo specchio, un oggetto che Regan di solito preferiva evitare.

Anneli, invece, era piuttosto vanitosa, e nessuno avrebbe potuto biasimarla: era davvero molto bella. Lineamenti fini, un corpo femminile, ben tornito, e in lei non restava più nulla di una bambina. Spesso, anzi, il suo sguardo era offuscato da un tormento interiore fin troppo adulto per una ragazza giovane come lei. Regan conosceva e riconosceva parte di quel tormento, perché era qualcosa che dimorava anche in lei: la vana speranza di un sentimento che non sarebbe mai stato ricambiato.

Anneli prese la spilla e la appoggiò dentro al portagioie aperto che aveva davanti senza nemmeno guardarla. Era triste e irritabile da qualche giorno, e Regan non aveva bisogno di domandarsi perché, dato che si sentiva allo stesso modo e per lo stesso motivo.

Un motivo che aveva occhi di cielo e muscoli armoniosi.

Lucius.

Non si faceva vivo da giorni, e anche se aveva ben avvertito che sarebbe stato assente per un po’, un velo di preoccupazione rimaneva sempre. Sapeva badare a sé stesso e, anzi, di norma era chi incrociava il suo cammino a doversi preoccupare.

Era un amico di vecchia data della famiglia Edelberg, da prima che Regan stessa lo conoscesse, e sia lei che la cugina avevano sempre avuto un inconfessato ma altrettanto palese debole per lui.

– Ti manca, vero? –

Anneli aveva parlato con voce così bassa e sottile che il temporale l’aveva quasi cancellata.

Regan non aveva bisogno di chiedere di chi parlasse. Lunghi capelli corvini, fisico statuario, occhi di un celeste limpido e irriverente, e una pelle chiara rovinata da più cicatrici di quante se ne potessero contare: Lucius Henker.

Il suo Lucius.

Non rispose, ma i denti che le affondavano nel labbro lo fecero per lei.

L’altra prese a spazzolarsi i capelli.

– Sai, all’inizio penso di averti odiata perché lui si occupava di te con molta dedizione, una tenerezza quasi famigliare… Ci ho messo un po’ a ricordarmi che anche con me si comportava così, una volta. –

Un’ombra di nostalgia le solcò il viso per un momento, accompagnata dal sorriso più amaro che Regan avesse mai visto.

– Quando ha capito che per me qualcosa stava cambiando ha smesso di trattarmi come una bambina e ha iniziato a essere più cerimonioso e distaccato. Ho lasciato perdere le illusioni inutili, ormai, quindi è inutile che io continui a portarti rancore per una colpa che non hai e non avrai mai. –

La verità nelle sue parole era dolorosa, ma priva di cattiveria. Ciononostante, Regan scelse di non vederla.

– Cosa vuoi dire? –

– Siamo oneste con noi stesse: Lucius ha gusti così ambiziosi che tu ed io non siamo nemmeno contemplate nell’eleggibile. –

E chi lo era, visto l’altro termine di paragone?

– Non hai già abbastanza problemi a cui pensare? Custodisci un potere che molti si venderebbero l’anima per avere e che qualcun altro invece vorrebbe annientare. In entrambi i casi, la tua vita è già sufficientemente complicata, senza che tu perda il sonno per qualcuno che non potrà mai darti quello che cerchi. Lo dico per il tuo bene, credimi. –

Regan poteva capire il suo punto di vista: Anneli aveva già passato la maggiore età e a quel punto molte ragazze erano già sposate, alcune addirittura avevano dei figli, ma lei, nonostante le pressioni del padre, non voleva saperne di accettare la corte di uno dei suoi molti pretendenti. I suoi fratelli maggiori, invece, avevano ancora tempo per trovarsi una sposa, e non avrebbero avuto che l’imbarazzo della scelta, anche se Regan spesso trovava comunque squallido che si dovesse scegliere il compagno o la compagna di tutta la vita in base al consenso espresso da qualcun altro.

Alle loro spalle, la pendola che c’era tra la grande finestra in fondo alla stanza e il piccolo scrittoio rintoccò il mezzodì preciso.

– Ci staranno aspettando per il pranzo. –

Anneli continuò a spazzolarsi i capelli, del tutto disinteressata al pranzo.

– Scusati da parte mia, di’ che non ho appetito. –

Regan si voltò indietro appena prima di uscire:

– Melyor ti verrà a prendere per le orecchie. –

Anneli scrollò le spalle in modo ben poco signorile.

– Che faccia pure. Non mi farà certo tornare la fame. –

 

 

Più tardi, a tavola, mentre veniva servito il dolce, lo zio si schiarì rumorosamente la gola. Quando ebbe avuto l’attenzione di tutta la famiglia, esordì:

– Si stanno avvicinando le celebrazioni per l’Equinozio di Primavera. È un evento mondano a cui parteciperanno tutti gli esponenti dell’alta società. Mi rincresce solo che si terrà a Shjarna. Sarebbe stato più adatta l’occasione del Solstizio d’Inverno, dato che gli Edelberg sono fieri figli di Norden, tuttavia non vorrei attendere tanto. –

Regan era perplessa. Per tutta la durata del pranzo era rimasta chiusa in una dimensione parallela a sé stante, vuotando il piatto senza nemmeno badare a cosa le veniva messo sotto il naso. Rimuginava sul proprio imminente futuro: era debole, rispetto a ogni altro demone della sua età, e non aveva la minima dimestichezza con i propri poteri; non sapeva invocarli né gestirli, e se voleva essere in grado di badare almeno un minimo a se stessa avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche e darsi da fare per imparare.

– Padre, ti spiacerebbe venire al dunque? – soggiunse Ember, alla prima pausa. – Ho programmi per la serata. –

– Porta rispetto, impertinente! – berciò Donna Melyor, allungandogli uno scappellotto sulla nuca mentre serviva la torta alle mele. Era stata la balia dei ragazzi quand’erano piccoli, e tuttora aiutava Arista a crescere ed educare la piccola Luce.

Gli altri fratelli se la risero sotto i baffi.

La torta fu servita a tutti tranne che a Ember, che stava sicuramente provando per la prima volta nella sua vita qualcosa di vagamente simile alla contrizione, a giudicare dalle occhiatine invidiose che gettava ai piatti degli altri.

Approfittando delle bocche impegnate a masticare, Tristan riprese parola:

– Prima di essere interrotto, stavo per parlare di qualcosa di importante. Regan è parte integrante della famiglia, ora, e vorrei ufficializzare la questione al più presto. Siamo una casata in vista, la gente sta già chiacchierando e speculando, e non mi sta bene. Voglio che Regan sia presentata in società come si deve e che tutti sappiano chi è. –

La diretta interessata inghiottì a fatica un boccone di torta e dovette prendere un paio di sorsi d’acqua per liberarsi dalla sensazione di soffocamento che questo le lasciò.

– Quindi, per tutelare la buona reputazione degli Edelberg, andremo davanti a tutta la nobiltà delle Sette Terre e annunceremo pubblicamente che Regan è la figlia illegittima di due rampolli di famiglie storicamente rivali che sono fuggiti insieme coprendosi di disonore? –

La battuta di Ember si conquistò un ceffone da parte di Donna Melyor, che, purtroppo per lui, era ancora negli immediati paraggi.

– Non è una figlia illegittima – sottolineò Tristan, severo. – Ardal sposò Aranel prima che si stabilissero ad Aurin. Ho parlato con la donna che li accolse in casa propria, ha detto che portavano entrambi un anello nuziale. Regan è una Edelberg tanto quanto lo siete voi. –

– Una Edelberg diseredata – borbottò Mariek sottovoce.

Donna Melyor, che era stava servendo una porzione di torta ad Arista, dall’altro lato del tavolo, lo trafisse con un’occhiataccia che lo fece ritrarre nelle spalle.

– Faccio da solo – bisbigliò, e si portò una mano dietro la testa per punirsi spontaneamente, risparmiando a Melyor la seccatura di aggirare l’intero tavolo.

­– Non posso cambiare ciò che mio padre stabilì a suo tempo – riprese Tristan, ignorando le schermaglie di sottofondo in corso. – Ma io e Persefone abbiamo ereditato gli averi che sarebbero spettati ad Ardal, e in seguito anche quelli di Malissa. Se è un patrimonio che manca a Regan, glielo possiamo tranquillamente fornire. –

Malissa e Ardal, rispettivamente zia e padre di Regan, erano i due fratelli di mezzo della penultima generazione degli Edelberg ed erano entrambi morti da anni. Almeno in via ufficiale, perché non molto tempo prima, in circostanze alquanto singolari, lei aveva avuto il piacere di incontrare in gran segreto colei che sarebbe dovuta essere la defunta Malissa, e la aveva trovata decisamente in salute, per essere pubblicamente deceduta.

– Voglio che abbia un futuro sereno e avrà la stessa dote che spetta alle mie figlie, benché non ritenga le serva un patrimonio per attirare l’attenzione di eventuali pretendenti. –

Regan arrossì a quell’ultima frase, non per l’imbarazzo, ma perché sentì del calore paterno in un complimento che prima d’ora non aveva mai ricevuto. Le faceva piacere sapere che lo zio la considerasse meritevole di attenzioni maschili, anche se lei era abbastanza realista da sapere che ciò che i ragazzi cercavano in una ragazza lei non lo aveva. Non ancora. Ma non faceva che ripetersi che prima o poi sarebbe cresciuta anche lei.

– Un momento, perché adesso stiamo parlando di matrimonio? – intervenne Aiden, accigliato, scostandosi due ciuffi di capelli biondi dal viso cesellato.

– Regan è in età da marito – disse Anneli, sprezzante. Era stata costretta a presenziare al pranzo, anche se non aveva intenzione di toccare cibo, e il suo umore era ulteriormente peggiorato. – È tempo che trovi un ragazzo rispettabile e si sistemi. –

Il solo pensiero fece inorridire Regan: al momento gli affari di cuore erano l’ultima cosa di cui voleva preoccuparsi.

– Ma io non… –

– C’è tempo per questo – tagliò corto Tristan, in un tono gentile ma che non ammetteva repliche. – Per ora mi preme che tu faccia come si deve il tuo debutto in società. E affinché questo avvenga, dovrai prima presentata ai tuoi nonni materni, Lord e Lady Dresden. –

Regan si sentì sprofondare nella sua sedia. Come al solito, stava succedendo tutto troppo in fretta, e senza che lei si sentisse pronta per affrontarlo.

Si era discusso spesso di come e quando lei avesse dovuto incontrare i Dresden, ed era sempre stato in termini così fumosi e vaghi che non aveva mai preso seriamente in considerazione l’eventualità.

– Domani Lucius verrà ricevuto a casa loro e cercherà di spiegare come stanno le cose. Ho pensato che fosse saggio mandare qualcuno di neutrale per comunicare loro la… novità. –

La mascella di Tristan si contrasse impercettibilmente. I Dresden erano una di quelle casate ritenute responsabili della Grande Rivolta che aveva messo fine alla Monarchia, e gli Edelberg, invece, erano sempre stati tra le più fedeli alla Corona, e i secoli non erano riusciti a cancellare questa storica rivalità. Era quindi comprensibile che il più anziano degli uni fosse tutt’altro che lieto di condividere una nipote con il più anziano degli altri.

Regan era furiosa, ma troppo sconvolta per reagire. Si sentiva una marionetta mossa dai fili di volontà altrui: ancora una volta era stato deciso tutto senza che lei fosse interpellata. Avrebbe voluto avere Shin accanto, adesso, con la sua calma e la sua razionalità, il suo innato potere rasserenante.

– Naturalmente spetta solo a te decidere quando incontrarli – si affrettò ad aggiungere Arista con tatto, gettando al marito uno sguardo di ammonimento. – Quando ti sentirai pronta. Non è vero, caro? –

– Ma certo – annuì lui in fretta. – Devi capire che era necessario metterli al corrente della situazione al più presto, perché se per disgrazia lo venissero a scoprire da altri, ne verrebbe fuori una guerra. Ci accuserebbero di tramare alle loro spalle, di voler tenere loro nascosta la loro unica nipote… –

Dalla tensione nella sua voce e nella sua espressione, Regan capì che i suoi timori erano sinceri, e la cosa la spaventò. Non voleva mettere nei guai nessuno, e ancor meno finire contesa su due fronti rivali. Non conoscendo i nonni materni, non aveva mezzi per fare paragoni, ma vivere a casa Edelberg le piaceva ed era stato soprattutto grazie ai suoi cugini che si era ambientata così bene e in fretta. Non voleva nemmeno pensare di dover essere strappata a quell’ambiente famigliare che si era duramente conquistata.

Per tutto il pomeriggio ebbe solo l’incontro di Lucius con i Dresden in testa. Persino il suo libro non riuscì a distrarla, tanto che alla fine, dopo aver sfogliato tre pagine senza aver assorbito niente, decise di lasciar perdere.

Riuscì a calmarsi un poco solo quando, verso il calar del sole, un grosso gufo bruno si presentò alla finestra della sua stanza stringendo qualcosa tra gli artigli. Era Libra, la Guardiana del suo amico Shin.

La fece entrare. Anche se ormai non pioveva più, le sue ali gocciolavano, così come le piante e i tetti delle case, e sparsero gocce d’acqua su tutto il pavimento, ma Regan non se ne curò. Ringraziò piuttosto che Mello non fosse nei paraggi, perché la sua esuberanza infastidiva spesso il carattere schivo di Libra.

Per la verità, nemmeno Regan stessa stava granché simpatica al rapace, che vedeva in chiunque si avvicinasse al suo protetto una minaccia incombente, anche se quel chiunque sarebbe morto piuttosto che fare del male a Shin. La gelosia, evidentemente, non era una prerogativa solo delle persone.

Libra le cedette con riluttanza la busta che aveva portato. Era un messaggio da parte di Shin.

Libra non attese che lei lo aprisse: le scoccò un’occhiatina malevola e spiccò il volo nel mosaico di nuvole e sprazzi di cielo limpido che il temporale aveva lasciato dietro di sé.

Sollevata di essersela cavata con così poco ed essere scampata a uno dei soliti attentati mordaci, Regan aprì la busta e lesse le poche righe vergate sul foglietto che vi era stato riposto:

“Scusa per l’assenza di questi giorni. Sono stato impegnato a Medilana e ogni volta che avrei voluto scriverti alla fine c’era sempre qualcosa che me lo impediva. Sono appena tornato a Kauneus e pensavo che forse ti piacerebbe uscire un po’ e distrarti, fare quattro chiacchiere.”

Regan sorrise. Ancora una volta, anche da lontano, Shin sapeva capirla meglio di chiunque altro.

“Passerò domani in mattinata a vedere come stai. Spero che sia tutto a posto. A presto. Shin.”

Fu più facile addormentarsi, quella notte, sapendo che aveva qualcosa di positivo ad attenderla il giorno dopo. Sentiva molto la mancanza di Shin e parlare con lui le avrebbe fatto bene. Inoltre era sicura che lui potesse soddisfare le sue curiosità riguardo ai Dresden e a cosa sarebbe potuto accadere a lei se questi ultimi avessero deciso di avanzare pretese su di lei e la sua tutela.




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A/N: ed eccomi qui, dopo mille mila anni, a iniziare a pubblicare anche Temptation. :) Ci ho messo tantissimo e me ne scuso, ma tra lavoro, vagabondaggi vari e un periodo di ispirazione scarsa, ho faticato a ingranare con questo nuovo capitolo della saga. Adesso, a metà stesura, mi sento abbastanza sicura da poter iniziare a pubblicare. La frequenza di aggiornamento sarà di circa una volta alla settimana, dato che parecchi capitoli sono già pronti. Spero che mi seguirete ancora, dopo Innocence, e che vorrete continuare a recensire e aiutarmi con i vostri consigli.

Alla prossima!

P.S. se qualche lettrice avesse un blog letterario e fosse interessata a organizzare interviste e/o giveaway, alla sottoscritta farebbe molto piacere, quindi contattatemi pure, se avete idee o proposte! :)

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Capitolo 2
*** 1. In Nome di un Ricordo ***


1. IN NOME DI UN RICORDO

 

When you’ve loved and you’ve lost someone close to you
You know what it feels like to lose

– Not Like The Other Girls, The Rasmus –

 

 

C’era il mare, lì a Falassar, pacifica cittadina agli estremi limiti meridionali della Terra di Astereis che sorgeva, in effetti, proprio in prossimità di una delle spiagge più belle di tutte le Sette Terre.

L’odore salmastro e lo spumeggiare delle onde arrivavano fin lì, in cima all’altura dove sorgeva, ben isolato, il palazzo imponente dei Dresden.

La giornata soleggiata illuminava generosamente la facciata di pietra bruna attraverso sprazzi di nuvole bianco latte che fluttuavano nel blu del cielo sospinte da un piacevole venticello tiepido. C’era tutto un altro clima, al Sud: mentre a Norden l’inverno ancora non aveva del tutto ceduto il passo alla primavera, lì sembrava già estate.

Lucius smontò da cavallo e si fermò davanti ai cancelli sbarrati. Dall’altra parte, una sentinella sorvegliava il passaggio, come se i residenti si aspettassero attacchi da parte di orde nemiche da un momento all’altro.

– Fatevi riconoscere! –

La guardia aveva usato un tono perentorio, e la sua mano era preventivamente accostata all’elsa della spada agganciata alla cinta. Indossava una livrea nera e gialla, i colori dei suoi signori.

Lucius rizzò il collo, cosicché la Stella che portava potesse brillare alla luce del sole, poi sorrise cortese:

– Lucius Henker di Kauneus. Presumo di essere atteso. –

La guardia attenuò subito l’atteggiamento ostile. Lo fece entrare, ma non disse niente.

Lucius attraversò il viale che conduceva all’ingresso rispolverando una a una le differenze con lo stile dei palazzi del Nord: i Dresden erano marchesi, o lo sarebbero stati se i titoli nobiliari fossero stati ancora ufficialmente in vigore, ma le tradizioni erano dure a morire e loro, come quasi tutti gli altri, ci tenevano a comportarsi e ad essere trattati come tali, e la loro dimora era un degno vessillo della loro condizione di privilegiati.

Le piogge erano scarse e lievi, da quelle parti, quindi i tetti erano semplici e lineari, privi delle pendenze aguzze e dei pinnacoli che ornavano quelli delle Terre settentrionali. La ricchezza, tuttavia, aveva trovato altre vie d’espressione: nei rivestimenti mosaicati dei tetti, ad esempio, e negli stucchi lavorati che facevano da decorazione alle ampie facciate, che al Nord sarebbero stati irrimediabilmente rovinati dalla prima gelata. L’uso dei ballatoi e delle terrazze, inoltre, era strettamente limitato ai piani inferiori, preferendo, in quelli superiori, finestre strette chiuse da scuri pesanti, che aiutassero a mantenere la frescura nei periodi più caldi.

C’era una fontana ad accogliere i visitatori nello spiazzo antistante le porte della casa, com’era in uso nelle aree più calde, un gesto di benvenuto nei confronti dei cavalli che conducevano fin lì gli ospiti lungo strade arse dal sole e spesso lontane da ogni risorsa d’acqua potabile.

Lucius diede una pacca incoraggiante a Freyr e lo legò a uno degli anelli di ferro che spuntavano dal bordo di marmo della vasca rotonda. Il cavallo nitrì riconoscente e subito tuffò il muso nella fresca acqua zampillante.

– Augurami buona fortuna, amico. –

Quando bussò al portone, gli venne aperto quasi subito. A dargli il benvenuto c’era una ragazzetta ossuta con il naso a punta e una folta massa di ricci scuri che si esibì in un inchino proverbiale.

– Milord, accomodatevi. I signori vi stavano aspettando. –

Lucius le sorrise:

– Non c’è bisogno di tutte queste cerimonie. Non sono un lord né lo sarò mai. –

Lei arrossì lievemente.

– Perdonatemi, signore, ma il vostro aspetto è quello di un principe, non di un popolano. –

Quello era vero. Si era messo in ghingheri perché, conoscendo Lord e Lady Dresden, sapeva che avrebbe dovuto puntare tutto sulla prima, fatidica impressione per riuscire ad ottenere da loro l’attenzione e la disponibilità necessarie a spiegare loro la complicata situazione. Già il fatto che avrebbe dovuto riferire che la loro preziosa unica figlia era morta lo rendeva nervoso: non avrebbe mai voluto essere nei propri panni.

Dopo avergli preso il mantello, la ragazza, che si presentò come Fanie, lo scortò personalmente verso il retro del palazzo, introducendolo in un ampio salotto luminosissimo che si affacciava direttamente sul mare.

­ – Milord, milady – Fanie fece una riverenza frettolosa e si tirò da parte per permettere a Lucius di farsi avanti. – Il vostro ospite è arrivato. –

Lord e Lady Dresden sedevano su due ricche poltrone davanti a un tavolino da the. Il primo era basso e tarchiato, con pochi capelli ispidi e grigi sulla testa e un’espressione tutt’altro che bendisposta sulla faccia larga da rospo; la seconda era pingue, ma conservava ancora qualcosa di quella che in giovinezza doveva essere stata un bellezza davvero incantevole, tuttora rintracciabile nei begli occhi blu e nella linea delicata del profilo. I due guardarono Lucius esattamente come avrebbero guardato una mosca che entrava per caso nella stanza.

– Lord Herne, Lady Fabel – Lucius accennò un inchino rispettoso del rivolgere loro il proprio saluto. – Vi ringrazio per avermi ricevuto. Il mio nome è Lucius Henker. –

– Sappiamo chi siete – bofonchiò il vecchio Herne, burbero proprio come lo volevano i pettegolezzi. – Venite al dunque in fretta, e poi tornate da dove siete venuto. –

Lucius non si scompose. Era arrivato preparato a quell’ostilità e di certo non sarebbe stata una tale piccolezza a mettere in difficoltà le sue doti di mediatore.

– Sono qui perché vorrei parlare di vostra figlia Aranel. –

Si era aspettato stupore, da parte loro, ma non ce ne fu. Lady Fabel, invece, interruppe per un secondo il suo lavoro di ricamo e lo guardò con il gelo negli occhi:

– Aranel è morta. Qualsiasi cosa vogliate sapere di lei, non ha più alcuna importanza. –

Questo Lucius non lo aveva previsto. Non lasciò tuttavia intendere il suo stupore, sia perché non era da lui, sia perché in ogni caso il suo scopo era un altro, e se loro avessero saputo qualcosa di più, sicuramente la tomba di Aranel non sarebbe rimasta ad Aurin.

Fece un passo in avanti, il mento sollevato per mettere in chiaro che, nonostante il loro atteggiamento, lui era lì per discutere da pari a pari, e sarebbe stato meglio per loro ascoltare ciò che aveva da dire.

– A onor del vero, signori, non sono venuto per fare domande, ma per darvi delle risposte. –

 

 

Regan era alla finestra quando arrivò Shin.

Stava tentando – senza alcun successo – di terminare il ricamo di un fiore su una tela ormai tutta sgualcita, quando lo vide apparire a cavallo di fronte ai cancelli in un fluttuare di capelli argentei e falde nere di mantello.

Sorrise. Ogni volta che lo rivedeva le sembrava più alto e più magro, un giunco bianco accarezzato dal vento.

Mollò all’istante il lavoro di ricamo che Donna Melyor le aveva ingiunto di terminare entro la fine della settimana e si precipitò verso l’ingresso, mancando per poco di travolgere l’ignaro Tjeren, marito di Melyor, che stava barcamenando un carico di legna da buttare nelle stufe. Il sole faticava ancora a riscaldare il palazzo attraverso le spesse mura di solida pietra.

– Fa’ attenzione, perbacco! Sei peggio di quei due scavezzacollo messi insieme! – lo sentì borbottare, ma lei aveva già spalancato il portone, precipitandosi fuori di corsa. Mariek ed Ember, comunque, i due scavezzacollo in questione, avrebbero avuto da ridire su quell’affermazione.

Le pantofole leggere attraversarono incuranti le pozzanghere che costellavano il viale, residuo del temporale del giorno precedente. L’aria era fresca, profumata di verde, e con il sole a brillare nel cielo era più facile vedere la primavera nelle gemme timide sui rami degli alberi, nei fili d’erba che si rianimavano e colorivano nuovamente dopo i mesi trascorsi sotto alla spessa coltre di neve che ancora indugiava su Norden. Qua e là nei prati spuntavano mazzolini di elleboro nero – la rosa delle nevi, com’era tradizionalmente chiamata.

Shin non ebbe quasi il tempo di sorriderle: Regan gli gettò le braccia al collo con tale trasporto da fargli muovere un passo indietro per non perdere l’equilibrio. Era esattamente come lo ricordava: spigoloso e profumato di tranquillità.

Lui ricambiò gentilmente l’abbraccio, ridendo di quell’entusiasmo probabilmente inaspettato, ma lei aveva sentito molto la sua mancanza, in quelle settimane che era stato lontano, e adesso ritrovare il tepore dei suoi occhi neri stava lentamente sopendo quell’inquietudine sorda che dal giorno prima la stava logorando.

– Suppongo che a questo punto sia inutile domandarti se ti sono mancato. –

Regan lo lasciò andare e gli diede una gomitata nel fianco.

– Non si può dire che tu non ti sia fatto attendere, vero? –

La battuta si smarrì nel vuoto. Shin stava guardando in alto davanti a sé e improvvisamente si era fatto serio, quasi guardingo. Regan seguì il suo sguardo: dietro una delle finestre del secondo piano, i riflessi di luci e ombre sul vetro occultavano solo parzialmente i contorni immobili dello zio Tristan.

Regan sapeva che Shin non era benvisto dagli Edelberg a causa dei vantaggi che le sue innate doti straordinarie gli avevano sempre garantito, ma non le importava di quello che pensavano loro. Era un suo amico, e tanto bastava.

Incurante della severa incombenza dello zio, Regan gli prese il polso e lo trascinò verso il portone d’ingresso, ancora spalancato.

– Su, vieni dentro. Voglio sapere che cosa hai fatto in tutto questo tempo. –

– Regan, aspetta. –

Shin non si era mosso da dov’era, gli occhi ancora rivolti alla finestra a cui Tristan, però, non era più affacciato.

– Preferisco non entrare. Non sono stato invitato. –

– Non dire sciocchezze, ti ho appena invitato io! –

Ma lui scosse la testa.

– Non sta a te, è questo il punto – rimarcò. – Sarebbe una mancanza di rispetto verso il capofamiglia se io adesso varcassi quella porta. La casa è sua e senza un suo invito diretto sarebbe un affronto, e io ho già una pessima nomea, in questa casa. –

Non faceva freddo come in pieno inverno, benché e si sarebbero potuti sedere su una delle tante panchine del parco, o sotto qualche padiglione, ma a quel punto avrebbero dovuto sopportare qualche improvvisa ispirazione di giardinaggio da parte di Tjeren, o l’impellente necessità di Donna Melyor di mettersi a pulire proprio le finestre che davano su quella porzione di giardino.

A Regan venne la pelle d’oca a pensare a cosa ne avrebbero detto quei due se per caso la avessero vista abbracciare Shin in quel modo indecoroso e smaccatamente fraintendibile. Le ripercussioni, immaginò, avrebbero previsto una tirata d’orecchie memorabile e una reclusione casalinga a tempo indeterminato, per lei. Lui, invece, sarebbe stato semplicemente bandito a vita dalla proprietà.

– Benvenuto, Shin. –

La voce di zia Arista.

Era comparsa sull’uscio, le maniche arrotolate fino ai gomiti e un grembiule identico a quelli delle domestiche a proteggerle l’abito verde scuro. Aveva le mani puntellate sui fianchi morbidi, ma sorrideva. Era così diversa da suo marito che Regan si era chiesta spesso come loro due potessero essere felicemente sposati da così tanto tempo.

Shin si affrettò a porgerle i propri ossequi.

– Lady Edelberg. –

In quello stesso istante sopraggiunse anche lo zio Tristan, alto e imponente e vagamente inquietante a causa delle due vistose cicatrici parallele che gli sfregiavano il viso di sbieco.

Gelido, quasi sulla difensiva, Shin si accostò il pugno destro al lato sinistro del petto e si inchinò anche per lui, alla maniera dei gentiluomini delle Sette Terre.

– Lord Edelberg. –

Lui e Tristan si studiarono a lungo l’un l’altro e per la prima volta Regan si accorse di quanto Shin, pur così esile e aggraziato, sapesse apparire imponente.

– Zio – mosse un passo in avanti, timida ma sicura. – Stavo per venire a domandarvi il permesso di invitare Shin a entrare. –

Se Tristan avesse saputo sorridere, quello sarebbe stato il momento giusto per farlo. Ma, da che lo conosceva, Regan non lo aveva mai visto sorridere una volta ed era ormai arrivata a pensare semplicemente ne fosse incapace. Solo Arista sembrò cogliere il tentativo di umorismo e assecondarlo:

– Non è proprio il caso di restarsene chiusi in casa con una giornata così bella. Potreste fare un giro in città, piuttosto. A cavallo, magari – aggiunse, rivolgendo al consorte un sorriso esortativo.

– Se Lord Edelberg non ha nulla in contrario, sarei lieto di provvedere personalmente alla sicurezza di vostra nipote – disse Shin.

Regan sogguardò lo zio, titubante. Andava spesso in città insieme ai suoi cugini e non c’era alcun pericolo: Kauneus era sicura, tanto frequentata quanto protetta, e se Shin da solo non fosse bastato come garanzia, ci sarebbero state guardie ovunque pronte a intervenire in un improbabile caso di attacco.

Tristan, tuttavia, non sembrava incline ad accordare il suo permesso e il modo in cui scrutava Shin parlava di una diffidenza che non voleva conoscere ravvedimenti. Ma poi Arista gli toccò il braccio, dolcemente, senza aggiungere altro che una lieve pressione delle dita, e qualcosa nello sguardo di lui si ammorbidì:

– Molto bene – si schiarì la voce, a disagio. – Intendevo aspettare che fossimo tutti presenti, ma visto che si presenta l’occasione… –

Regan corrugò la fronte, perplessa e curiosa al tempo stesso.

– Di cosa state parlando? –

 

 

Le scuderie di trovavano nella parte posteriore degli immensi giardini della tenuta. Ospitavano una dozzina di cavalli ed erano l’indiscusso luogo preferito di Regan: se avesse potuto, vi avrebbe trascorso ogni singolo momento delle sue giornate. Amava stare in compagnia degli animali, più sinceri e affidabili delle persone, e per i cavalli, in particolare, nutriva una vera e propria venerazione.

I suoi cugini, armati di buone speranze e tanta volontà, le avevano dato personalmente qualche lezione di autodifesa nei loro giorni liberi, e i risultati non erano stati poi tanto migliori dei vari tentativi precedenti a cui Regan si era dedicata: non c’era verso di insegnarle a usare i poteri magici che possedeva e la spada riusciva a malapena a maneggiarla, ma in compenso aveva un qualche mediocre talento con i pugnali, che se non altro erano abbastanza piccoli e leggeri da poter essere adoperati anche senza un vero e proprio stile. Un talento, però, aveva scoperto di possederlo, ed era quello per l’equitazione. Fin dalla prima volta che le era stato permesso di montare un cavallo da sola aveva dato prova di essere un’ottima amazzone e la gioia che aveva provato a galoppare alla velocità del vento nei prati innevati di Norden era stata inimmaginabile.

Ciascuno dei membri della famiglia Edelberg possedeva un destriero personale, oltre a quelli destinati alle due carrozze, e ogni volta che i suoi cugini la portavano fuori per una cavalcata, a Regan era permesso di prendere in prestito Nashira, la bella roana scura di zia Arista, con cui aveva stabilito un rapporto accettabile. Con il tempo aveva notato una cosa: il carattere di ciascuno di quei cavalli era simile a quello dei rispettivi padroni.

Quando entrarono, tutto era pulito e ordinato. Gli stallieri iniziavano a lavorare di prima mattina e si assicuravano che alle bestie non mancassero mai né cibo né acqua fresca.

Shin camminava in coda al gruppo, osservando con modesta curiosità gli ambienti.

– Non capisco – mormorò Regan, sempre più confusa, seguendo gli zii lungo il corridoio interno delle scuderie. Si sentivano i borbottii sommessi dei cavalli e qualche sbuffo di protesta per il disturbo inaspettato. Faceva sempre caldo, là dentro, e l’odore del fieno saturava l’aria.

Senza concederle risposta, Tristan continuò ad avanzare fino a che non ebbe raggiunto l’ultimo cubicolo, l’unico che era sempre rimasto vuoto. Tolse il gancio che teneva chiuso lo sportello e lo spalancò, facendo cenno a Regan di avvicinarsi a dare un’occhiata.

Lei guardò prima la zia, poi Shin, il quale sollevò le spalle come invitandola a farsi avanti. Regan obbedì, pervasa da una crescente sensazione di euforia. Non osava sperare, ma poteva esserci solo una cosa in quello scompartimento. Quando vide, le sue mani scattarono a coprire la bocca, soffocando un’esclamazione di puro stupore: il cavallo che aveva di fronte era quanto di più magnifico i suoi occhi avessero mai ammirato.

Muscoli vigorosi ed eleganti si scolpivano in linee nette sotto al manto di un nero corvino, lustro e corposo come l’inchiostro, che sotto certi raggi di luce acquisiva impalpabili sfumature di bronzo. Le bastò incontrare il suo sguardo fiero per un solo istante per capire che sarebbe stato impossibile stabilire chi avrebbe domato chi.

– Non è splendida? – esordì Tristan, compiaciuto. – Arriva direttamente da Brenner. Per te, da parte mia e di Persefone. –

Regan riusciva a malapena a respirare. Zia Persefone, sorella minore di Tristan, era il Coordinatore della Terra di Brenner e possedeva quindi un vasto palazzo dotato di altrettanto vaste scuderie in cui venivano allevati i destrieri delle più alte cariche politiche e militari.

– È… è mia? – balbettò, disorientata dalla bellezza dell’animale. Aveva sognato così a lungo un momento come quello che adesso le riusciva quasi impossibile crederci.

Lo zio Tristan, che si era sempre comportato affettuosamente con lei, ma sempre con un certo distacco, per la prima volta, ora, arrivò quasi a sorriderle:

– Ci tenevamo a farti un regalo che tu desiderassi davvero, e dato che non c’è oggetto che sembri riscuotere il tuo interesse, i ragazzi hanno pensato che questa fosse l’idea migliore. –

Regan gli saltò al collo d’impulso, soverchiandolo con una raffica di ringraziamenti sconclusionati. Alla fine Tristan la allontanò da sé, imbarazzato, ma visibilmente soddisfatto che lei avesse gradito tanto il dono.

– Posso prenderla per fare un giro? – supplicò lei, gli occhi sgranati e scintillanti mentre le mani continuavano ad accarezzare il muso della bestia, adoranti.

– Suppongo che sarebbe una gita gradita ad entrambe – disse Arista. La giumenta, infatti, aveva preso a raschiare il pavimento con gli zoccoli anteriori, smaniosa di muoversi.

Regan adocchiò una sella e delle briglie appoggiate in un angolo della cella, nuove di zecca e finemente lavorate, e dimenticò definitivamente di preoccuparsi per l’incontro che Lucius aveva con i Dresden quella mattina.

– Dovrai trovarle un nome – osservò lo zio, mentre ritornavano verso il palazzo.

Regan ci rifletté su mentre si cambiava, aiutata da Donna Melyor. I vecchi vestiti da equitazione di Anneli non le erano mai calzati proprio a pennello, ma almeno sarebbe stata comoda. Quando fu pronta, si guardò allo specchio orgogliosa: treccia, giacca e pantaloni di pesante velluto nero, stivali e una morbida sciarpa bianca a proteggerle il collo. Sembrava molto più matura, così. Più donna.

Scendendo, trovò Shin ad aspettarla nell’ingresso, da solo.

– Come sto? – gli chiese, compiendo una giravolta su sé stessa nel scendere l’ultimo scalino.

– Molto a tuo agio, si direbbe – approvò lui, ma lei non lo stette quasi a sentire.

– Su, avanti, sbrighiamoci! –

Lo spinse fuori impaziente, mentre dal piano di sopra la voce isterica di Donna Melyor strillava:

– E vedi di comportarti da signora, una buona volta! –

La porta sbatté sull’ultima metà della frase.

 

 

Gli sembrava quasi di essere tornato là dove da ragazzino si era sentito in trappola. Il cielo che sembrava non conoscere nuvole, le terre riarse dal sole, i venti caldi e deboli che spiravano dai deserti di Asante: l’estremo sud di Astereis era fin troppo simile alle zone meridionali di Sonnerg, e a Kemaras, il suo villaggio di origine.

L’ultimo luogo al mondo in cui avrebbe voluto tornare.

– Come sapete che è morta? –

Le mani inanellate di Lady Fabel Dresden si contrassero l’una sull’altra, sintomo della schiettezza forse eccessiva della domanda. Il pallore conferiva alla carnagione olivastra della donna un colorito malsano, quasi malato, ma forse era quello il legittimo aspetto di qualcuno che si trovava a parlare della morte della propria figlia.

– Quando nasce un nuovo membro nella nostra famiglia viene accesa una candela nella nostra cappella, ed essa arde fintanto che arde la vita di chi essa rappresenta – rispose Lord Herne, senza un accenno di inflessione. – Quella di Aranel si spense un paio d’anni dopo che fu rapita. –

Lucius si accigliò.

– Rapita? –

Il silenzio all’interno della casa era quasi fastidioso. Tutt’intorno, oro e colori caldi dominavano l’ambiente, pesanti tendaggi bianchi a filtrare la luce che bussava alle grandi finestre affacciate sul mare. C’era una tetra ironia nel discorrere di morte in una giornata piena di vita come quella.

– Fu quel maledetto ragazzo Edelberg – esordì Lady Fabel, la voce inibita da un groppo alla gola. – Era ancora una bambina… –

Lucius serrò le labbra suo malgrado. Preferiva non disquisire su quel punto. Non ancora, almeno. Sarebbe tornato sull’argomento al momento giusto, quando le barriere di odio dei Dresden si fossero allentate a sufficienza da poterli far ragionare. In anni e anni trascorsi a stretto contatto con i più grandi maestri dell’inganno e della persuasione, aveva imparato a giocare le parole come carte in una mano vincente, e per questa partita avrebbe dovuto usare tutta la delicatezza e tutta l’astuzia di cui era capace. Puntò sulla diplomazia:

– Vi direi che mi dispiace per la vostra perdita, se non sapessi che la vostra risposta sarebbe che non posso capire ciò che si prova. –

La mancanza di una risposta immediata denotò una discreta sorpresa da parte dei suoi ospiti.

– Voi… voi sapete cosa successe ad Aranel? – balbettò Fabel, sempre più terrea.

– Un incidente – rispose immediatamente Lucius, attenendosi alla versione concordata come ufficiale. – Un incidente che si portò via anche il giovane Ardal Edelberg. –

La notizia che anche Ardal fosse morto parve in qualche modo rasserenare almeno in parte l’animo della coppia.

– Venite al dunque, giovanotto. – Lo sguardo sgarbato di Lord Herne lo colpì, ma senza scalfirlo. Ci voleva ben altro per disturbare l’animo impermeabile di Lucius Henker.

– Poche settimane fa mi trovavo a Cittanuova assieme a una ragazza che tempo fa salvai dalle rovine della Corte – spiegò, e l’uomo annuì.

– La ragazza dai capelli di sangue. Abbiamo sentito parlare di lei. –

– Al mercato abbiamo incrociato per caso una vostra anziana serva che faceva acquisti per voi assieme al nipote. –

– Bethil e Brennan – intervenne Lady Fabel, con un accenno di impazienza. – Non vedo come questo possa… –

– Quando ha visto la ragazza – la interruppe Lucius con tutta l’educazione che gli fu possibile. – La donna si è rivolta a lei chiamandola Aranel. –

– Bethil era molto affezionata ad Aranel, era la sua balia. Non è più stata la stessa, da che lei scomparve – affermò Lord Herne, asciutto.

– Per lei è come se fosse ancora qui – soggiunse la moglie in un sussurro – Le prepara sempre un posto a tavola, fa prendere aria alla sua stanza ogni mattina, rassetta i suoi vestiti… –

La voce le si spezzò sull’incrinarsi dei primi accenni di commozione.

Lucius lasciò alla coppia qualche istante per smaltire la tensione accumulata. Dalla rigidità di entrambi comprese che si sentivano a disagio per il momentaneo cedimento emotivo e, per rispetto, prese ad ammirare il mobilio con improvviso, vividissimo interesse. Si azzardò a guardarli di nuovo in faccia e riprendere la conversazione solo quando fu sicuro che si fossero ricomposti.

– Questa volta la situazione potrebbe essere diversa. –

– Spiegatevi. – La voce del vecchio Herne suonò leggermente più rauca del normale. Qualcosa si accese nel suo sguardo, trattenuto da reti di orgoglio e ostinazione.

Lui non batté ciglio. Sapeva che a questo punto una sola parola sbagliata avrebbe compromesso il buon esito dell’incontro e l’indole schiva e sospettosa dei Dresden non era da sottovalutare, men che meno in un frangente come quello. Inspirò ed espirò, pensando agli occhioni di Regan sgranati dall’ansia. Chissà se Shin era riuscito a distrarla.

– So che è una notizia difficile da apprendere, ma… la ragazza in questione è vostra nipote. –

Lucius non aveva figli e dubitava ne avrebbe mai avuti, ma pensò che, trovandosi al posto dei Dresden, la sua reazione sarebbe stata esattamente identica alla loro: sconcerto, dapprima, e poi, naturalmente, incontenibile collera.

– Come osate? – Lady Fabel balzò in piedi con insospettabile agilità, molto rossa in viso, gli occhi fiammeggianti, una mano premuta sul petto. – Con quale cuore osate venire a prendervi gioco di una madre consumata dal dolore? –

Dalla porta in fondo alla stanza si affacciò una domestica, richiamata dalla voce acuta della padrona, ma un cenno rapido di Lord Dresden la rispedì immediatamente da dove era venuta. Sicuramente sarebbe rimasta ad origliare di nascosto.

Lucius avrebbe preferito evitare di parlare se c’erano orecchie indiscrete all’ascolto, ma suggerire ai padroni di casa come tenere a bada la propria servitù sarebbe stato scortese.

– Mi rendo conto che sia traumatico, per voi, milady, ma vi prego di non dubitare della mia buona fede. – Si alzò in piedi a sua volta e sostenne con fermezza lo suo sguardo accusatorio della nobildonna. – Ho fatto delle indagini e questo è quanto ho scoperto. Ritenevo giusto che ne foste informati. –

Incontrò gli occhi congelati di Herne, il quale, muovendosi appena, prese la mano della moglie nella propria e la invitò a risedersi.

– Mia cara, ti prego. –

Lei obbedì, ma l’ira bruciava ancora sulle sue guance, nelle iridi lucide. Quando ebbe ripreso il proprio posto, il marito continuò a tenerle la mano; la sua attenzione, tuttavia, non aveva mai lasciato Lucius:

– State insinuando che questa fanciulla sarebbe il frutto delle violenze subite da Aranel? –

La durezza nel suo tono non riuscì a mascherare un tremito di emozione repressa che rese il compito di Lucius ancora più delicato.

– No, milord. Il frutto dell’amore che lei condivideva con un giovane che non le era nemmeno permesso di incontrare. –

Lady Fabel fremette, sempre più oltraggiata:

– Questo è un insulto alla memoria di mia figlia! Aranel sapeva bene a che tipo di gente apparteneva quel ragazzo, non gli avrebbe mai nemmeno rivolto la parola! –

Quante volte Lucius era stato testimone di scene come quella: dolore che rubava obiettività, covato per anni e lasciato a logorare l’anima in silenzio, cancellando progetti, bruciando speranze. Non c’era niente di analizzabile nella devastazione interiore lasciata da un lutto.

– Nemmeno a un ballo mascherato in cui le sarebbe stato impossibile indovinare chi lui fosse? –

– Questa ragazza di cui parlate – balbettò la donna, deglutendo a fatica dietro alle lacrime. – Qual è il suo nome? –

– Regan, milady. –

Lady Fabel serrò gli occhi come se un pugnale le avesse appena trafitto il cuore. Anche suo marito chiuse gli occhi, in una manifestazione di dolore più contegnosa, ma non meno intensa.

– Aranel aveva chiamato così tutte le sue bambole, da bambina. –

Tra le sua braccia, la sua consorte era sbiancata. Tremava, orfana di tutto il nobile contegno finora ostentato, e tracce lucide lungo il viso tradirono la caduta di due lacrime silenziose.

– Dov’è, ora? Possiamo vederla? – domandò, accorata.

Era la domanda più spinosa della situazione.

– Si trova a Kauneus, adesso. Presso la famiglia Edelberg, prima che lo chiediate. –

Un odio intimo e viscerale insorse nelle pupille ridotte a spilli di Lord Herne, andandosi a mescolare con l’odio ancestrale maturato dalla sua stirpe in secoli di rivalità con gli Edelberg.

– Gli Edelberg mi hanno già privato di una figlia. Non lascerò che si prendano anche nostra nipote! – esclamò Lady Fabel, ma il marito la zittì con un cenno brusco.

– Per tutti Aranel è morta il giorno della sua scomparsa. L’ultima cosa che voglio è uno scandalo sulla nostra famiglia. –

Terrea, Fabel chinò il capo con occhi lucidi, ma mormorò:

– Vorrei solo conoscerla, vederla almeno una volta... –

Era quasi possibile sentire la mortificazione della donna corrodere lentamente l’impeto rabbioso di Lord Dresden, fino ad appianarlo quasi del tutto. Doveva amarla molto, nonostante tutto.

– E sia. Incontreremo questa fanciulla. Il resto si deciderà poi. –

Lucius non sapeva come prendere quella dichiarazione. Gli suonava strano che un Dresden si tirasse indietro di fronte alla possibilità di sottrarre qualcosa a un Edelberg, ma decise di stare al gioco.

– Vi prego solo di concedermi un po’ di tempo per preparare Regan a questo incontro. –

Non specificò quanto tempo. Mantenere le promesse era alla base dei principi di un uomo d’onore e lui non prometteva mai niente, se non era più che certo di poterlo ottenere, e quando c’era Regan di mezzo niente era mai prevedibile.

 

 

Uno degli infiniti motivi per cui Shin amava Norden era che lì, nonostante tutto, riusciva quasi a passare inosservato: di ragazzi alti, biondi e con la pelle nivea ce n’erano tanti e difficilmente qualcuno badava a lui, vedendolo passare, a meno che non lo riconoscesse esplicitamente. Non gli importava granché dell’opinione della gente, ma era a conoscenza delle chiacchiere che circolavano su di lui e sul nome che portava, e non gli erano gradite. La sua casata, i Montress, era stata una delle più vicine alla Corona, godendo di lustro e rispetto, ma con il tempo gli sperperi e l’indolenza delle varie generazioni avevano consumato il vasto patrimonio che gli antenati si erano guadagnati con onore al servizio dei re e oggi tutto ciò che rimaneva di queste antiche glorie era un castello lasciato cadere in rovina e un lord in delicato stallo tra la lucidità e la follia, inaridito dall’inclemenza del fato.

Shin si sentì tra le labbra il sapore amaro che accompagnava sempre le riflessioni sulla sua famiglia. In sella a Vento, il suo fidato destriero, chiuse gli occhi per un attimo e quando li riaprì davanti a lui non c’era altro che la strada costeggiata da alberi, e Regan che spronava la sua puledra ad aumentare la velocità. Shin riusciva a sentire ogni goccia della sua euforia, la stessa che le aveva illuminato il volto quando lo zio le aveva spalancato di fronte il cubicolo nelle scuderie.

Immaginò che era così che sarebbe stata, che sarebbe stata quella l’esatta espressione che avrebbe avuto la Regan bambina nel vedersi regalare una bambola a lungo desiderata. Un pezzetto di quell’infanzia che le era stata negata, se non altro, lo stava vivendo adesso.

– Muovetevi, o la mia polvere arriverà in città prima di voi! – urlò Regan, voltandosi indietro.

Lui scosse la testa e rise fra sé, poi sfidò Vento a fare onore al suo nome.

Kauneus era un giglio in piena fioritura sotto al sole tiepido di marzo. Le strade ampie e gli edifici bianchi sembravano un prolungamento delle montagne dell’estrema area settentrionale della Terra, dove le nevi erano perenni e d’inverno il sole incontrava i ghiacci dando vita agli straordinari spettacoli naturali noti come Luci del Nord.

– Dovremmo cercare un posto in cui fermarci a pranzare. La cavalcata mi ha messo appetito. – Regan era appena smontata da cavallo e stava guidando la puledra, ancora senza nome, verso una delle tante fontane che popolavano le vie trafficate. Shin la imitò, ma non accolse la proposta con grande entusiasmo.

– Potremmo comprare qualcosa in Via del Mercato e mangiare per strada – suggerì invece.

Lei, accaldata, si scostò una nuvola di ciuffi rossi disordinati dalle guance accese di un rosa intenso.

– Che stai dicendo? Voglio sedermi comodamente a un tavolo e godermi le pietanze con calma! Andiamo alla Quercia d’Argento, ormai dovrebbero avere allestito i tavoli in giardino. Sarà bellissimo! –

Shin non ne dubitava, ma aveva comunque le sue riserve in merito. Non c’era niente di sconveniente in un ragazzo e una ragazza che pranzavano insieme e lui non aveva scuse credibili da accampare.

– Non so se sia il caso… –

– Perché no? – brontolò lei.

Una guardia decorata con gli stemmi della Lega e della Terra di Norden passò loro accanto e rivolse a Shin un cenno distratto. Era un soldato semplice, più anziano di Shin di diversi anni, ma i cavalieri ai comandi di Soile, a differenza di quelli delle altre Terre, non osavano mai mancargli di rispetto, ben consapevoli di quanto lui fosse vicino alla loro signora. Ironico che fosse proprio quella la ragione principale per cui tutti sembravano disprezzarlo tanto.

– Agli occhi della maggior parte dei cittadini di Kauneus sono un raccomandato buono a nulla… finirebbero per guardare male anche te. –

A Regan tuttavia di rado importava qualcosa di quel che il resto del mondo pensava di lei o di chiunque altro: faceva ciò che voleva, entro i limiti dell’accettabile, e a volte anche oltre, e difficilmente si soffermava a pensare alle conseguenze. La sua espressione, infatti, non avrebbe potuto essere più indifferente mentre, afferrandolo per una manica, scrollava le spalle e lo trascinava verso la Quercia d’Argento.

– Che guardino. Io ho fame e voglio mangiare come si deve. –

 

 

– Per un paio di settimane sono stato nella Terra di Asante. Il Coordinatore Foyer stava indagando su una banda di ladruncoli che ha saccheggiato le miniere di Cristallo Eterno, lasciandosi dietro solo due testimoni ridotti a poco più che vegetali. Si sono presi le loro anime. I Liberatori aspettavano me per… –

Lasciò cadere la frase a metà. Aveva recuperato i vaghi ricordi nelle menti apatiche di quei due poveretti con i pianti strazianti delle loro mogli in sottofondo e gli era stato più difficile di quanto avesse immaginato, poi, riuscire a comunicare al Coordinatore Foyer i pochi elementi utili che i due erano riusciti a notare. Se n’era andato prima che i Liberatori potessero purificare completamente il corpo dei due malcapitati, perché quello che sarebbe successo dopo non lo avrebbe potuto sopportare. Del resto non c’era molta scelta, quando un’anima veniva trafugata: o si lasciava la vittima a sé stessa, permettendole così di trasformarsi in un mostro affamato di anime altrui, oppure si stroncava quel che restava della sua misera esistenza e si concedeva alla Madre di riprendersi ciò che di diritto le spettava.

– Li hanno presi, poi, i ladri? – gli chiese Regan in tono assolutamente casuale, tanto che sarebbe stato difficile per chiunque sospettare che lo avesse fatto di proposito, per risparmiargli quella parte che non aveva nessuna voglia di raccontare. Ma Shin non era chiunque.

– Li hanno presi, sì. Ma il bottino era già sparito e non sapevano nemmeno loro per conto di chi avessero lavorato. Hanno preso i soldi e basta. –

Vide la curiosità scintillare repressa negli occhi di lei, le sue labbra dischiuse come in procinto di fare altre domande, che però non vennero.

– Poi mi hanno convocato a Medilana – riprese allora lui. – In realtà è stato per una sciocchezza, ma tra una cosa e l’altra sono passate altre due settimane. Intendevo scriverti, davvero, ma non mi sembrava di avere niente di interessante da raccontare, quindi… –

Regan sbuffò e il suo respiro divenne una nuvoletta evanescente. Il clima era ancora freddo, anche se non come in pieno inverno, e il cortile della Quercia d’Argento era stato disseminato di alti bacili pieni di tizzoni ardenti che fiammeggiavano vivacemente per riscaldare i temerari che sceglievano di mangiare all’aperto.

– Un giorno ti nomineranno Coordinatore Generale e io lo verrò a sapere per caso, e tu mi verrai a dire che non ti sembrava una cosa interessante da raccontarmi. –

Shin rise e riempì di birra i due boccali che aveva davanti.

Il giardino della taverna era piccolo, quadrato, circondato da un muretto in pietra alto poco più di una persona su cui l’edera proliferava libera e che tratteneva all’interno dello spiazzo che circoscriveva una vivace sinfonia di chiacchiere e stoviglie in movimento. C’era una grande quercia al centro del giardino, solida e rigogliosa, che con le sue fronde ombreggiava la dozzina di tavoli sparsi tutt’intorno. Nessuno sapeva esattamente quanto fosse vecchia, ma era già lì quando, ancora all’epoca dei Monarchi, era stata costruita la prima taverna, e tutti sostenevano che il suo tronco rugoso fosse sempre stato di quello strano colore slavato, un grigio quasi argenteo, in onore del quale la locanda era stata battezzata. E c’era anche una gabbia, costruita proprio attorno a uno dei rami più bassi dell’albero, in cui si agitavano degli uccellini piccoli e tondi come mele selvatiche, di colori che variavano dal bruno a un bianco azzurrino. Il loro canto era meraviglioso, ma terribilmente malinconico.

– Usignoli di Almaris – spiegò Shin, notando che Regan li fissava. – Una specie che non esiste più, allo stato selvatico. –

Regan non distolse lo sguardo. Sembrava improvvisamente triste, dimentica del piatto colmo di leccornie che aveva davanti. Non occorse domandarsi il perché.

– Non abbiamo mai avuto modo di parlare di quello che è stato di te durante la tua clausura alla Corte, io e te. –

Regan smise di rimestare la sua zuppa, i suoi muscoli si irrigidirono.

– Lucius non ti ha detto niente? –

– Le cose hanno un valore diverso, recepite tramite intermediari. –

Non glielo stava chiedendo per curiosità. Sapeva già tutto quello che c’era da sapere. Voleva solo che fosse lei a raccontarglielo, perché era giusto così e voleva sentire la storia così come la aveva vissuta lei.

– Non c’è granché da raccontare. Non ero tanto diversa dagli oggetti che c’erano con me in quella stanza: me ne stavo lì ad aspettare che il tempo passasse e… non so, prima dell’arrivo di Derian non ho nemmeno dei ricordi precisi. – Un’alzata di spalle accompagnò la ripresa dei movimenti circolari del cucchiaio nella ciotola mezza piena. – Tutti i giorni erano uguali, le stesse solite tre facce: Isabel che mi portava da mangiare, Desmond che passava a controllare se per caso da un giorno all’altro io non dessi segno di possedere qualche potere, e quel ragazzo dagli occhi spietati… Samael. Lui si fermava sempre sulla porta con aria annoiata, aspettava che Desmond si accertasse che io fossi ancora del tutto inutile e poi se ne andava con lui senza dire una parola. –

Shin rimase impressionato da come lei gli parlò di quelle persone: due di loro non erano che un nome; l’altro, invece, doveva averle lasciata impressa una sensazione più profonda, anche da lontano, senza alcun contatto diretto.

“Quel ragazzo dagli occhi spietati.”

– Non so perché Desmond non abbia mai tentato di sottrarmi il potere che c’è racchiuso in me, se era davvero per quello che mi teneva prigioniera. A volte era così frustrato che temevo mi avrebbe fatta sgozzare pur di non perdere altro tempo con me. –

Shin non era sicuro che l’incuranza con cui Regan parlava del suo potere fosse un fattore positivo. La conosceva bene, ormai, e non lo rassicurava vedere con quanta leggerezza citava quella che a tutti gli effetti era un’essenza di male puro incastonata dentro di lei, confinata dalla sua innocenza.

Non sarebbe rimasta tale ancora a lungo, purtroppo.

– A volte mi sarebbe piaciuto. Essere sgozzata, intendo, o morire in qualunque altro modo. Non per disperazione, dato che non conoscevo altra vita al di fuori di quella, ma solo per… sai, solo per non dover vedere un altro giorno uguale a tutti gli altri. Ma poi… – L’accenno di un sorriso nostalgico le stiracchiò le labbra. – Poi è arrivato Derian, e tutto è diventato più sopportabile. –

Anche di lui Shin sapeva tutto: il suo sangue era stato immune ai veleni e per questo il suo stesso padre, a corto di denaro, lo aveva venduto a Desmond in cambio di una cospicua somma, e infine, dopo anni di reclusione e sevizie, era stato ucciso per motivi ancora oscuri, morendo tra le braccia impotenti di Regan, che assieme al suo ultimo respiro aveva raccolto anche il suo dono dell’immunità ai veleni.

– Anche nella sua vita libera, Derian non aveva visto molto del mondo. I suoi orizzonti erano molto ristretti: suo padre gli stava insegnando a fare il mercante. A lui non piaceva, ma lo faceva comunque, perché la sua famiglia aveva bisogno di soldi. E l’hanno ringraziato svendendolo come una partita di lana al miglior offerente. –

Shin deglutì un sorso di birra.

– Ti rincresce per lui più che per te stessa. –

 

 

Non era una domanda e quindi non necessitava di una risposta.

Regan spinse via la sua zuppa senza finirla e si appoggiò con il viso ai palmi, sconsolata. Donna Melyor le avrebbe urlato dietro per ore se solo la avesse vista con i gomiti appoggiati alla tavola.

– Non so perché… –

Shin sorrise. Anche il suo piatto non era ancora rimasto vuoto.

– Lo so io. Per quanto misera, la sua vita al di fuori della Corte aveva un suo scopo, le sue piccole gioie. Tu, invece, eri proprio come quelle povere bestiole – fece un cenno con il capo verso la gabbia degli Usignoli. – Non avevi mai conosciuto altro che la cattività, le tue quattro pareti. Non avresti mai saputo cosa ti stavi perdendo. –

Erano parole strane da ascoltare. Dette da un altro, le sarebbero parse brutali, forse addirittura crudeli, quasi chi le aveva pronunciate trovasse irrisorio il fatto che lei avesse trascorso gran parte della sua vita segregata in una stanza. Eppure sulla voce pulita di Shin avevano un suono meno amaro.

– Il mondo che ho conosciuto attraverso i ricordi di Derian ha reso la prigionia più amara, ma almeno qualcosa ha acquisito un senso. Non ero niente prima che arrivasse lui, capisci? – Sollevò lo sguardo e nei suoi occhi neri trovò un bagliore di comprensione. – Non sapevo niente di quel che c’era là fuori, non potevo sviluppare delle mie idee, delle opinioni… accettavo tutto così com’era, perché non sapevo che ci potesse essere una vita diversa da quella. –

Le venne un groppo alla gola e ricordare quanto vuoti e sterili fossero stati quei giorni. Quegli anni. Era stata una bambina, eppure non ne aveva memoria. Non ricordava come ci si sentisse ad essere piccoli, come fosse l’infanzia. Dopotutto non poteva nemmeno dire di averne avuta una.

– È ironico che io mi sia resa conto di quanto sola fossi sempre stata solo quando ho avuto qualcuno al mio fianco, vero? – sospirò.

– Come ho detto prima: non può mancarti qualcosa di cui ignori l’esistenza. –

Regan non era del tutto convinta che fosse vero, ma non disse niente. Non aveva voglia di discorsi così impegnativi.

– Come credi che stia andando il colloquio di Lucius con i Dresden? –

Nonostante Shin fosse un maestro dell’impassibilità, avvertì comunque in lui un accenno di disagio.

– I Dresden non sono famosi per la loro ragionevolezza – ammise. – Puoi star certa che dal momento in cui sapranno della tua esistenza il loro scopo sarà averti con sé. Probabilmente le cose sarebbero più semplici, se tuo padre non fosse stato un Edelberg. –

Regan gli fu grata per la schiettezza, per averle risparmiato delle rassicuranti bugie che non le sarebbero state di alcun aiuto. Era una cosa che aveva imparato presto ad apprezzare, in lui: diversamente da Lucius, che cercava sempre di proteggerla da qualunque cosa, Shin le concedeva la possibilità di affrontare la realtà e imparare a sostenerla da sola.

– Non possono decidere al mio posto, vero? Voglio dire, ho compiuto la maggiore età, sono formalmente adulta. –

Qualcosa di simile alla paura le tremava nelle mani. Strapparla a Norden avrebbe significato portarla via a luoghi che aveva imparato a conoscere e amare, alle amicizie che vi aveva trovato. Sarebbe stata lontana da tutto ciò che amava.

Da Lucius

– Ufficialmente fino al matrimonio sarai sotto la tutela della tua famiglia – puntualizzò Shin. – Senza contare che ti fai chiamare Edelberg, adesso, ma c’è anche sangue Dresden nelle tue vene e i tuoi nonni probabilmente si batteranno perché tu porti il loro cognome. –

Dresden. Gente del Sud. Regan si sforzò di immaginarsi a passeggiare su una spiaggia assolata, la sabbia rovente e le onde tiepide del mare ad accarezzarle i piedi, ma non ci riuscì.

– Possono davvero portarmi via da qui? –

Più che una domanda, suonò come una preghiera. Shin, tuttavia, non le mentì, anche se la risposta non era quella che lei avrebbe voluto sentire.

– In mancanza di prove concrete di un legame matrimoniale tra i tuoi genitori, sì. Passeresti sotto la loro tutela fino al giorno in cui ti sposerai. –

– Non voglio lasciare Norden. Non possono costringermi! –

Si alzò. La gabbia degli Usignoli era vicina al loro tavolo; la raggiunse in pochi passi, portando con sé un pezzo di pane che iniziò a sbriciolare per gettarlo oltre le fessure tra una sbarra di metallo lavorato e l’altra. Subito gli uccellini accorsero a contendersi il pasto inaspettato e lei li compianse esattamente come una volta compiangeva sé stessa. La gabbia era davvero splendida, riccioli di metallo e spirali che si intrecciavano e dividevano segnando un invalicabile confine tra il ristretto spazio che custodivano e la libertà. C’era solo un minuscolo chiavistello a sigillare quel sottile confine. Lo sfiorò con le dita, meditando su chi si fosse assunto il pretenzioso diritto di decidere che quelle creature dovessero stare lì dentro.

Shin soggiunse alle sue spalle, silenzioso come un felino. Non lo vedeva, ma poteva avvertire la sua presenza, la sua ombra sulla schiena.

– Non è il caso di preoccuparsi adesso. Lucius saprà gestire la situazione, e comunque non dipende solo da lui, né dai Dresden – la rassicurò.

Regan gettò le ultime briciole agli uccellini, ascoltando i loro cinguettii entusiasti, poi finalmente si decise a seguire Shin verso l’uscita. Pagarono tre corone a testa all’oste dietro al bancone nella sala interna e furono salutati con ossequi degni di re, infine abbandonarono i profumi speziati della locanda per ritornare all’aria aperta. I loro cavalli erano legati alla rastrelliera all’ingresso, a riposare pacifici all’ombra del tetto di paglia.

Quando Regan slegò la puledra, questa si ribellò, strattonando le briglie fin quasi a fargliele sfuggire di mano. Shin rise mentre lei la rimproverava.

– Avete lo stesso carattere. –

Regan lo fulminò con un’occhiataccia.

– Cosa staresti insinuando, esattamente? –

Shin ebbe il buonsenso di montare in sella senza rispondere. Lei fece lo stesso.

– Sai, stavo pensando di chiamarla Morrien. –

– Come la prima stella della sera? Sì, le dona. –

– Morrien ­– si ripeté Regan, accarezzando il collo caldo dell’animale. La puledra accennò un’impennata prima di incamminarsi al seguito di Shin e del suo Vento. – Sì, direi che le piace. –

 Si avviarono a passo tranquillo verso il mercato sotto a un cielo turchino e un sole tanto luminoso da ferire gli occhi.

Alle loro spalle, nel giardino sul retro della locanda, una folata di vento spalancò lo sportello della gabbia degli Usignoli di Almaris che qualcuno, accidentalmente, aveva dimenticato aperta.

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Capitolo 3
*** 2. Verità e Bugie ***


2. VERITÁ E BUGIE

 

You believe, but what you see?

– Amaranth, Nightwish –

 

 

Ogni domenica, come ogni vedova che si rispettasse, Madame Carlyle si recava al cimitero appena fuori Medilana per onorare la memoria del defunto marito.

Portava sempre con sé un mazzo di fiori freschi e una moneta d’argento da consegnare al figlio del custode affinché si premurasse nella settimana successiva di tenere in ordine le aiuole che circondavano la cappella. Non possedeva il titolo di lady, poiché né nelle sue vene né in quelle del suo povero marito c’era mai stata una sola goccia di sangue nobile, ma si compiaceva ogni volta di vedere che non c’era tomba di famiglia nobile che reggesse il confronto con quella dei Carlyle.

Il capo coperto da un velo scuro, la donna girava la chiave nella serratura che chiudeva il piccolo cancello di ferro e si inginocchiava dinnanzi alla lapide del suo Hathol e lo compiangeva in silenzio, e tutti coloro che passavano di lì provavano ammirazione e compassione quella moglie così devota.

Era una triste storia, la sua, perché il suo amato consorte, ormai quarant’anni addietro, era stato incarcerato sotto accuse gravissime e, dopo un processo lampo, giustiziato di fronte a tutta la città.

Madame Carlyle aveva presenziato all’esecuzione e aveva ascoltato il marito professarsi innocente fino al suo ultimo istante di vita e mai per un solo istante lo aveva abbandonato. Mai lo aveva creduto colpevole.

Agli occhi di tutti era una donna forte, nobile, se non nel sangue, almeno nello spirito, e tutte le matrone di Medilana concordavano che era stato ammirevole da parte di una vedova ancora relativamente giovane, per di più così ricca e piacente, non cercarsi un nuovo marito.

Madame Carlyle, dal canto suo, sminuiva assiduamente tutte queste lodi e, anzi, cercava di spiegare che non era uno sforzo virtuoso, per lei, restare fedele al suo primo e unico sposo, bensì qualcosa che le imponeva il cuore.

Con un sospiro affranto, proprio mentre due anziane nobildonne passavano di lì, si portò le dita alle labbra e le posò sull’ovale di vetro in cui era stato impresso il volto di Hathol e si lasciò sfuggire un piccolo singhiozzo.

– Povera creatura – sentì sussurrare una delle due vecchiette. – Un amore così saldo e genuino, niente figli che la consolino… –

– Se solo quella megera di mia nuora mostrasse la metà di questa devozione per il mio ragazzo… – borbottò l’altra, e a Madame Carlyle parve quasi di vederle scuotere tristemente la testa mentre la compativano.

Stava per mormorare, come di consueto, qualche parola di cordoglio, quando avvertì un’improvvisa sensazione di calore alla mano sinistra.

Ritrasse la mano di scatto e se la nascose al di sotto della cappa scura. Si alzò rapidamente, tanto da suscitare un’esclamazione di sorpresa nelle due signore che la osservavano da fuori.

– Ve ne andate presto, quest’oggi, cara – disse una delle due, evidentemente incapace di tenere qualsivoglia pensiero per sé.

Madame Carlyle le riconobbe entrambe: facevano parte della vecchia nobiltà terriera di Corterra e le aveva incontrate spesso in città. Due pettegole senza ritegno.

Sorrise cordialmente e chinò il capo mesta.

– Purtroppo impegni urgenti mi chiamano altrove. –

– Che genere di impegni? –

Il sorriso sulle labbra di Madame Carlyle si pietrificò mentre lei si sforzava di tenere a bada l’impazienza.

– Mi sono iscritta a un circolo del cucito – inventò su due piedi. – Sapete, per ingannare la solitudine… il mio Hathol mi manca terribilmente. –

Sui volti delle due apparve immantinente un’espressione solidale:

– Come vi capisco! Il mio Meldon è mancato da quasi mezzo secolo, ormai, e ancora non… –

– Vogliate perdonarmi, signore, ma ho una certa premura – tagliò corto lei e le due, benché piuttosto stranite, si affrettarono a congedarsi e allontanarsi parlottando sottovoce.

– Circolo del cucito? Sul serio? –

La donna si voltò nell’udire quella voce dalla cadenza insopportabilmente flemmatica e sfacciata e non si stupì affatto quando, nell’ombra tra la cappella e i cipressi che la contornavano, intravide una figura maschile appoggiata al muro a braccia conserte e due occhi verdi che scintillavano divertiti.

– Molto toccante la scenata della vedova affranta – proseguì lui, imperterrito. – Davvero, mi sono commosso. – Finse di asciugarsi una lacrima inesistente e lei, dopo essersi accertata che non ci fosse nessuno a guardare, gli sferrò un calcio sugli stinchi.

– Chiudi quella tua maledetta bocca e spiegami cosa diavolo ci fai tu qui! –

Lui sollevò le spalle. Considerò brevemente la distesa non esattamente ordinata di lapidi e croci alternata a strisce di prato verde che costituiva il cimitero

– Niente di che, mi divertivo a spiarti. È interessante vedere fino a che punto una donna riesca a fingere per un uomo di cui non le è mai importato nulla. –

Lei digrignò i denti, ma si costrinse a mantenere la calma. Avevano altro a cui pensare, per il momento.

– Dobbiamo sbrigarci. Siamo stati convocati – sbottò, assicurandosi con circospezione che nessuno fosse nelle vicinanze.

– Oh, sì – annuì lui e sollevò la mano sinistra per osservare con vago interesse l’anello d’oro che portava all’anulare. Lei ne aveva uno identico. – Me ne sono accorto. –

Si incamminarono verso l’uscita del cimitero, l’uno a una certa distanza dall’altra, come se non si conoscessero e non avessero alcunché a che vedere l’uno con l’altra. Lei aveva la sua carrozza ad attenderla, lui le passò accanto mentre saliva, diretto verso la periferia.

– A più tardi, Niamh. –

Lei lo maledisse interiormente, giurando a sé stessa che avrebbe trovato il modo di fargli passare quel suo atteggiamento insolente, poi diede segno al cocchiere che poteva partire.

E comunque Arith si sbagliava: non era vero che a lei non importava nulla del suo defunto marito. Gli era profondamente grata per essersi fatto giustiziare per un crimine che era stata lei a commettere.

 

 

L’infuso sapeva di erbe amare e il suo retrogusto acre bruciava giù per la gola in modo davvero sgradevole. Era un intruglio da bere a occhi chiusi, perché il solo aspetto denso ed eterogeneo del liquame che riempiva la tazza sarebbe bastato a ribaltare lo stomaco anche dell’animo più crudo.

Una smorfia nauseata storse la bocca coraggiosa che aveva appena bevuto.

– Assolutamente disgustoso. Vi ringrazio. –

Labbra rosse sorrisero di rimando con modestia.

– È un piacere, Lucius. –

Geira sembrava una bambina, accoccolata sulla poltrona a gambe incrociate, la veste bianca che sembrava tutt’uno con lei. I capelli sciolti le gocciolavano acqua sulle spalle, ma la temperatura era talmente mite non c’era alcun bisogno di preoccuparsene.

Per quanto giovane potesse essere, la Somma Sacerdotessa sosteneva a pieni meriti il suo ruolo e talvolta faceva anche più del dovuto. Come nel caso di Lucius, a cui di tanto in tanto preparava un filtro che lei stessa consacrava per aiutare il suo corpo a recuperare meglio le energie quando lui faceva ritorno da missioni particolarmente impegnative. Era un loro piccolo segreto e non era necessario che terzi ne venissero a conoscenza.

– Sei più provato del solito – osservò la sacerdotessa. – Forse è il caso che te ne prepari dell’altro – aggiunse, accennando al boccale vuoto.

Lui fece un gesto incurante.

– Non è il caso, mi sento già meglio. Il Coordinatore Blackthorne ci sta prendendo gusto a coinvolgere il sottoscritto per certe operazioni. –

Geira sembrava scettica.

– Blackthorne che chiede la tua collaborazione? Per che genere di operazione, se mi è concesso chiederlo? –

Oh, nulla di che… quel genere di operazioni in cui ne esci sfinito e malconcio, ma soddisfatto. Se ne esci. Lo pensò, ma evitò di esternarlo.

– Questioni leggere, tipo sterminare bande di sicari o penetrare in qualche covo di Ladri di Anime… nulla di che. – Si gettò un’occhiata alle braccia piene di contusioni e bruciature e scrollò allegramente le spalle. – Penso stia cercando di uccidere me, in realtà. –

Lo disse per scherzare, ma il guizzo che ebbero gli occhi di Geira gli comunicò che per lei la faccenda era molto più seria.

– Lady Soile è a conoscenza di questo particolare? –

Lucius si stiracchiò le braccia sopra la testa, sgranchì il collo e la spina dorsale, infine prese una sedia e vi prese posto al contrario, avvolgendo lo schienale con le braccia.

– Non è necessario. –

Sapeva che la sacerdotessa non si sarebbe lasciata ingannare dall’apparente leggerezza del suo tono. L’ultima cosa che lui voleva era che Soile scoprisse tutto e gli proibisse esplicitamente di partecipare alle operazioni organizzate da Blackthorne o, peggio ancora, che vietasse direttamente a Blackthorne di coinvolgerlo. Avrebbe senz’altro apprezzato che lei si preoccupasse per lui, ma non avrebbe mai potuto sopportare l’umiliazione.

– Come sta Regan? – gli domandò allora Geira. Si era portata le ginocchia al petto e lo scrutava attenta con i suoi occhioni verde scuro.

Lucius le era molto affezionato: l’aveva vista il giorno della sua investitura, una ragazzina sparuta ma dallo sguardo determinato, e l’aveva guardata crescere mentre lui stesso stava crescendo, da ragazzino a giovane uomo, e spesso aveva cercato il suo consiglio durante i suoi primi anni nella Lega, quando la sua vita di Ladro di Anime era ancora una ferita fresca sulla sua pelle e tutto ciò che lui voleva era pagare il suo debito verso colei che lo aveva sottratto alla pena di morte. Geira era stata il suo aiuto più prezioso in quei momenti, una confidente e consigliera che gli aveva permesso di raggiungere dei compromessi con sé stesso che lui temeva non avrebbe mai trovato.

Ricordava ancora le sue parole, ora come dieci anni prima, come se gli fossero state incise direttamente nel cuore.

– Non devi temere per i tuoi peccati, poiché senza peccato l’anima non ha modo di temprarsi e imparare ciò che è giusto e sbagliato. La vera forza non appartiene a chi non sbaglia mai, ma a chi, avendo sbagliato, sa riconoscerlo e porvi rimedio. –

Prese dal tavolo un bicchiere di liquore ai frutti di bosco per scacciare il cattivo sapore del filtro e se lo scolò mentre rifletteva su ciò che gli aveva chiesto Geira: non vedeva Regan da un po’, ma si era premurato di informarsi regolarmente su di lei e sapeva che, nel bene e nel male, stava imparando a costruirsi una sua quotidianità. Era molto affezionato a lei, anche se talvolta era lui il primo a stupirsene, e quella piccola impertinente gli mancava. Si era ripromesso che, non appena avesse avuto un briciolo di tempo, sarebbe passato a trovarla. Solo gli sarebbe piaciuto farlo senza troppi lividi addosso.

– Regan sta bene, suppongo. –

La giacca di Lucius era abbandonata su una sedia, le maniche della camicia che indossava arrotolate fino ai gomiti.

Sarebbe stato divertente spiegare la situazione, se qualcuno fosse per caso entrato proprio in quel momento: non c’era niente di più sconveniente di un uomo dalla reputazione ambigua infiltrato di nascosto nelle stanze di una sacerdotessa vergine. A una qualsiasi delle consorelle di Geira sarebbe venuto un colpo, a vederli così, lei un veste da camera, lui decisamente a suo agio, e avrebbe sicuramente gridato alla scandalo, facendosi sentire fino al villaggio più vicino. Gli alloggi delle sacerdotesse ordinarie e delle novizie, per fortuna, si trovavano in un edificio separato da quello della Somma Sacerdotessa e sebbene alcune di esse dimorassero nel piccolo palazzo di Geira, nessuna si sarebbe sognata di salire fino ai piani superiori a disturbare il sacro riposo della loro superiora.

Non era stata Geira a scegliersi quella vita e Lucius aveva spesso l’impressione che adempiesse ai propri doveri con una sorta di pesantezza nel cuore, perché c’era una vita, al di fuori del Tempio della Luna, che non le era concesso vivere. Se nei reami degli umani le forme di potere politico avevano indotto la gente a crearsi divinità su misura per le proprie necessità – déi che si potessero pregare, che dessero conforto e guidassero, che si potessero comprare con sacrifici e voti di qualsivoglia tipo – il Mondo Occulto restava un territorio di isolata consapevolezza che non c’era preghiera che potesse mutare il corso degli eventi se non la forza di volontà personale. Il libero arbitrio era un dono e una condanna e non lasciava capri espiatori a cui addossare le colpe dei mali del mondo, se non i singoli individui.

Talvolta, tuttavia, la Madre stessa sceglieva di intervenire per aiutare il suo creato a non soccombere nei suoi stessi errori. C’erano segni e avvertimenti che inviava nei più svariati modi, moniti che bisognava saper leggere e accogliere, come i marchi naturali con cui venivano elette le guide spirituali, segni impressi nella loro pelle che comparivano inaspettatamente quando la Madre stessa riteneva giunto il momento e che li designavano come legittimi eredi dei Sommi Sacredoti che li avevano preceduti.

Il marchio di Geira – una voglia simile a una luna crescente dietro all’orecchio sinistro – era apparso quando lei era ancora giovanissima. Poco più che bambina, era stata portata alle Vergini della Luna affinché venisse istruita e preparata a diventare quel che la Madre aveva scelto per lei.

Ora e era vincolata al suo voto, e lo sarebbe stata fino a che una nuova prescelta non avesse ricevuto il marchio ed era pressoché impossibile prevedere quando ciò sarebbe successo. C’erano state Somme Sacerdotesse la cui carica era durata per tutta la vita, altre, invece, che avevano ricoperto il ruolo solo per pochi anni.

Geira aveva dato gran parte dei suoi anni migliori alla Madre e Lucius iniziava a domandarsi se mai la Madre le avrebbe dato qualcosa in cambio.

– Desidererei parlare con lei – disse Geira, d’un tratto pensosa, lo sguardo perso fuori dalla finestra, dove la notte era chiara e la luna alta nel cielo. – Indagare nel suo profondo, capire se c’è qualcosa che possiamo fare. –

La prima volta che Geira e Regan si erano incontrate era stato pochi mesi prima, in circostanze tutt’altro che liete. Era stato quando, dopo un attacco che li aveva messi tutti in pericolo, avevano scoperto qual era il segreto legato a Regan e alla gente mascherata che le dava la caccia, il motivo per cui Lord Desmond la aveva tenuta segregata in segreto nella sua dimora per tanti anni.

Il nucleo di Male che lei custodiva.

L’aria che entrava dalla finestra era mite e piacevole da sentirsi sulla pelle, ma un brivido formicolò lungo la schiena di Lucius.

– Il testo parla chiaramente – disse, accennando al tomo che troneggiava al centro del tavolo, e trovò le sue stesse parole insopportabili. – L’Incarnazione deve morire affinché il male che custodisce possa essere estirpato. È rinchiuso all’interno della sua anima, non c’è altro modo. –

Era una magia antica di secoli e fino ad ora, nonostante gli sforzi, non erano riusciti a venire a capo di una soluzione che non prevedesse la morte dello scrigno vivente che custodiva la pericolosa essenza di male puro, ossia Regan, nel caso del secolo corrente.

– Permettetemi comunque di avere qualche colloquio con lei, se lo consentirà. Forse c’è altro che potrei capire. –

Se suo zio lo consentirà, corresse mentalmente lui.

– Gliene parlerò, ma non adesso. Non voglio turbarla più di quanto già non lo sia. La sua vita è fin troppo frenetica, al momento. –

Un mondo da conoscere, comportamenti da imparare, una storia da ricostruire… decisamente non aveva bisogno di altri grilli per la testa. Una volto sciolto qualche nodo, si sarebbero occupati del resto.

Un grosso gatto rosso balzò in grembo a Geira, spuntando da chissà dove. La ragazza lo accolse con un piccolo sobbalzo di stupore. Le sue dita si immersero nella morbidezza della pelliccia e subito il felino iniziò a fare le fusa, offrendo il muso alle sue carezze. Quando lei tornò a guardare Lucius, sorrideva.

– È molto nobile da parte tua preoccuparti tanto per lei. –

Lui, che non riusciva a ricordare una sola cosa che in vita sua avesse fatto per puro spirito di nobiltà, non riuscì a trattenere una piccola risata.

– La gente è troppo abituata ad attribuirmi virtù che non mi appartengono, Venerabile Geira. –

– O forse, Lucius, sei tu a non volerne portare il peso. –

Le vide un’insinuazione nello sguardo, qualcosa di simile a una beffa amichevole, ma non priva di una nota di rimprovero.

– Mi biasimereste, per questo? – La tranquillità in cui lui costrinse quella risposta era venata da un rivolo di angoscia. – Conoscete la mia storia, e siete una dei pochi. Sapete quanto siano ricurve le spalle della mia anima. –

Un alito di vento passò ad accarezzare le molte candele che ardevano ovunque nella stanza. Le loro fiamme oscillarono dolcemente, spingendo le ombre a fare lo stesso. L’aria sapeva di erba umida e incenso.

– Abbiamo tutti le nostre colpe. Solo chi non ha coscienza non risente del loro peso. –

Lucius tacque. Non sapeva come spiegarle che non erano le colpe in sé ad angustiarlo, bensì l’immagine che esse potessero dare di lui. Infinite volte si era chiesto se Soile si fosse mai pentita di aver risparmiato la vita a un assassino come lui – perché, anche se non aveva ucciso che anime corrotte, sempre un assassino restava – e che cosa potesse mai vedere, lei, quando lo guardava.

Forse lo stesso assassino di un tempo, passato da un lato all’altro degli schieramenti, forse un pentito che si dedicava anima e corpo a scontare le sue pene.

Il fatto era che non c’era alcuna azione di cui Lucius si fosse mai pentito. Se adesso era lì, a dare la caccia a quelli che una volta erano stati i suoi compagni, era solo perché qualcuno, senza un apparente motivo se non la personale pietà, aveva voluto concedergli una possibilità.

Gettò uno sguardo al libro sul tavolo – Ontologia del Male – e sospirò.

– Che cosa ne devo fare di questo? –

– Serbalo – rispose Geira senza alcuna esitazione. – Nel luogo più sicuro che conosci. Distruggerlo non servirebbe a niente. Solo uno sciocco distruggerebbe un simbolo privo di essenza nel tentativo di eliminare l’essenza stessa. Forse c’è ancora qualcosa che possiamo imparare da queste pagine. –

Le sue dita magre si allungarono verso le pagine gialle del tomo come se avessero voluto sfiorarle, ma non lo fecero.

– Lo posso affidare a voi? Le terre del Tempio sono consacrate. Non c’è mano empia che possa violare questo luogo. –

Lei soppesò la proposta e Lucius si chiese se non fosse stato inopportuno da parte suggerire qualcosa del genere. Il Tempio della Luna, dopotutto, era un luogo sacro, che onorava e celebrava la Madre e i suoi prodigi, e quel manoscritto immondo era quanto di più dissacrante si potesse immaginare. La decisione della sacerdotessa, tuttavia, lo stupì:

– Lo conserverò nelle mie stanze personali. Lascerò a te la chiave del suo scrigno. –

– A me? – fece lui, spiazzato.

– Le mie consorelle non devono nemmeno immaginare cosa c’è custodito in questo libro. La virtù non è che un mero ideale: forte nelle parole e debole nella carne. Non voglio esporre nessuno a inutili tentazioni. Nemmeno me stessa. –

Lucius la ammirò per l’umiltà che ancora una volta dimostrava. Conosceva dozzine di persone meno influenti di lei che non avrebbero avuto la stessa disinvoltura nel confessarsi timorosi di qualche debolezza.

­– Certo, lo comprendo. Vi ringrazio. –

Un’ombra comparve sul davanzale della finestra, così nera che sembrava essersi generata direttamente dall’oscurità del cielo. Rok, il corvo di Lucius, piegò la testa di lato, un topo esanime stretto tra gli artigli. Il gatto tra le braccia di Geira lo considerò con scarso interesse.

– Il tuo Guardiano è tornato dalla caccia, vedo. –

– Il che mi ricorda che si è fatto veramente tardi ed è ora che io vi lasci riposare – Lucius si alzò e iniziò a srotolarsi le maniche lungo le braccia. – Avrete ancora molto da organizzare per le celebrazioni dell’Equinozio. –

C’erano quattro festività maggiori osservate nelle Sette Terre e corrispondevano alle quattro stagioni di cui la Madre si vestiva durante l’anno. Per tradizione, l’Equinozio di Primavera veniva festeggiato di giorno, con grandi banchetti, giochi e danze all’aperto, e nelle campagne sacerdoti e sacerdotesse consacravano i campi e i corsi d’acqua che li avrebbero irrigati.

Per il Solstizio d’Estate, le feste duravano tutta la notte e le famiglie usavano recarsi al tempio con due monete: una da far benedire simbolicamente affinché la prosperità dei mesi più caldi si prolungasse anche in quelli più freddi, l’altra da offrire in elemosina per chi di monete non ne aveva affatto.

L’Equinozio d’Autunno era dedicato alla vendemmia e alla raccolta delle provviste per il periodo invernale e veniva festeggiato in modo più rilassato rispetto alle altre ricorrenze: la gente si incontrava nelle piazze e nelle taverne e brindava alla salute dei propri cari con fiumi di vino e sidro e da tutti i focolari le castagne arrostite spargevano il loro profumo per le città.

Infine, il Solstizio d’Inverno era forse la data più importante e più attesa dell’anno: durante la Vigilia le famiglie si riunivano per tradizione sotto al tetto del capostipite più anziano e dopo la cena tutti si scambiavano doni in segno di buon augurio per il nuovo anno che presto sarebbe giunto; il mattino seguente era di rito la visita al tempio per onorare la Madre e affidarle i propri desideri per il nuovo anno.

C’era un desiderio, in particolare, che Lucius aveva covato negli ultimi anni, ma non aveva mai osato portarlo fino ai piedi dell’altare di un tempio, poiché sapeva bene che c’erano desideri che, semplicemente, non avrebbero mai potuto incontrare la realtà.

­– Porterai da me la piccola Regan? – gli disse Geira quando, infilata la giacca, fu pronto ad andarsene. Rok gli volò sulla spalla e lui si avvicinò alla porta.

– Appena mi sarà possibile, lo prometto – aggiunse poi.

Fuori i corridoi erano bui, perché nessuno si aspettava che qualcuno potesse aggirarvisi nella notte inoltrata in cui avevano finora chiacchierato. Le lampade spente, le porte chiuse, il silenzio disteso come una morbida coperta ovunque l’orecchio riuscisse a tendersi: per fortuna lì le pareti non erano d’acqua come quelle del Tempio.

Fece per uscire e i suoi passi non produssero alcun rumore. All’occorrenza, se qualcuno per sbaglio fosse uscito da qualche stanza, sarebbe anche stato in grado di celarsi nelle ombre e fondersi con esse fino all’invisibilità, ma sapeva che non sarebbe stato necessario.

– Stai ancora cercando la terza copia e le parti mancanti di quel manoscritto? –

Lucius si bloccò con la mano sulla maniglia. La prima copia, incompleta, la aveva ottenuta attraverso canali non esattamente leciti e non aveva mai avuto modo di scoprire da dove fosse stata recuperata; la seconda, invece, era arrivata da nientemeno che il covo della sua amica Angina, un tempo rifugio dei Veglianti, la setta che aveva reso Regan ciò che era. Chiunque possedesse il resto era un potenziale nemico.

– Sono più che convinto che Lord Desmond sia in possesso dell’una o dell’altra cosa. Resta da capire dove si trovi il resto. –

– Possibilità che sia in possesso della Lega? –

– Nessuna. In un modo o nell’altro sarei riuscito a scoprirlo. –

– E sono sicura che hai già avuto modo di fare le tue ricerche negli Archivi di Restrizione di Medilana, dico bene? –

Lui si limitò ad arricciare furbamente le labbra.

– Hai pensato di cercare al Tempio del Sole? –

– Il Tempio del Sole? –

– È lì che all’epoca della Monarchia venivano raccolti i testi proibiti requisiti alle sette. –

Lucius aggrottò le sopracciglia, arretrò di un passo e accostò la porta.

– Credevo venissero bruciati. –

– Ufficialmente. Ma non penserai davvero che la Corona possa aver fatto incenerire le armi più potenti che avesse contro i suoi nemici, vero? È un’arrogante ingenuità che ci si potrebbe aspettare dal Coordinatore Generale Reis, ma non certo dai Leljen. Negli archivi sono conservati ancora tutti i registri delle confische e delle persone indagate. –

C’erano scarse probabilità che riuscisse a trovare qualcosa: le radici dell’Ordine dei Veglianti risalivano a più di un millennio prima ed erano state così ben insabbiate che nemmeno i più autorevoli storici della Lega e della Domus Aurea ne avevano mai sentito parlare, ma poteva esserci qualche indizio, da qualche parte, che a un occhio ignaro sarebbero facilmente sfuggiti.

– Come posso avere accesso a quei volumi? –

– Non puoi – replicò ovviamente Geira nel più neutrale dei toni. – Nessuno può: il Sommo Sacerdote custodisce la sola chiave che apre le segrete e ha la severa consegna di non consentire a nessuno di accedervi. – Il suo sguardo, però, si accese di una luce misteriosamente sorniona. – Ma forse sarà disposto a scendere a compromessi… –

 

 

Sprofondato nella poltrona più comoda e lussuosa su cui avesse mai avuto il piacere di sedere, Arith si rigirava il suo pugnale tra le dita, annoiato, e ascoltava i passi nervosi che il Priore Genesis disseminava lungo tutta la discreta lunghezza della sala.

Pensò che non c’era da sorprendersi se Niamh fosse una tale spina nel fianco: abituata a quella casa principesca e alla sua bella vita comoda, doveva essere una bella seccatura, per lei, scontrarsi con gente che non era disposta ad assecondarla in qualunque cosa.

Si riunivano quasi sempre lì, ormai, dato che la loro base nelle catacombe di Medilana era stata ormai scoperta. Bisognava ammetterlo: Luciferus – o Lucius, come preferiva farsi chiamare adesso – poteva sembrare uno sprovveduto, ma lui e soci erano più in gamba di quel che i Veglianti avessero stimato. Arith, naturalmente, si chiamava fuori da quel giudizio affrettato. Era un Ladro di Anime da metà della sua vita e su di lui ne aveva sentite tante, di storie, e una cosa in comune la avevano tutte: lo dipingevano come il più scaltro dei furfanti, abilissimo su molti piani, ma in particolare a fare il proprio interesse.

No, decisamente Arith non aveva mai commesso l’errore di sottovalutare Luciferus.

La proprietà di Niamh era immersa in una macchia di vegetazione a due passi dalla capitale di Corterra, isolata quando bastava per accogliere una manciata di ospiti di eterogenea estrazione che in una zona densamente abitata avrebbero sicuramente dato nell’occhio.

La casa, al momento, sembrava deserta. La servitù era stata congedata per l’intera giornata e la strada era troppo lontana perché qualche rumore potesse giungere fin lì. C’era solo il silenzio, e il ticchettio metallico di una pendola nella stanza attigua.

– Alla luce delle peculiari condizioni in cui ci troviamo a dover operare – stava dicendo Genesis, e dalla tensione delle sue parole si riusciva a intuire quella dei suoi nervi. – È necessario elaborare una strategia diversa da quelle adottate dai nostri confratelli nei secoli che ci hanno preceduto. –

Frustrazione e rabbia. Comprensibilmente, pensò Arith, dato che non era mai accaduto prima di allora che qualcuno interferisse con l’operato del loro Ordine. Avevano ormai la certezza che Lord Ganus Desmond avesse messo le mani su informazioni abbastanza rilevanti da aver compreso che cosa fosse la ragazzina dai capelli rossi. Ne sapeva abbastanza, anzi, da essere riuscito ad appropriarsi di lei appena prima che potessero farlo loro stessi.

I quattro compagni di Arith davano la colpa a Sharlit e al suo tradimento se avevano fallito nel loro compito di eliminare la bambina, e forse era anche così, ma Arith aveva la netta sensazione che Desmond sarebbe comunque riuscito ad appropriarsi di lei, in un modo o nell’altro.

Già il fatto che non l’avesse semplicemente uccisa per impossessarsi del potere che lei serbava la diceva lunga su quanto lui effettivamente sapesse.

– Perché ci stiamo dando tanta pena per una ragazzina? –

– Perché, Arith, in caso non te ne fossi ancora reso conto è un pericolo per il mondo intero – berciò Niamh con il suo solito fare superiore.

Arith non ne fu affatto impressionato.

– Che male ha fatto? Ha distrutto la Corte, d’accordo. Anziché ucciderla, dovremmo darle una medaglia. –

– Deve essere distrutta, prima che sia lei a distruggere noi! –

– Mi chiedo se valga veramente la pena… –

Alioth sollevò lo sguardo dal suo calice di vino e l’occhio destro, l’unico che gli restava, saettò verso il ragazzo.

– Se non lo facessimo, il Male dominerebbe il mondo e sarebbe il caos. –

– E come lo sappiamo, se da mille anni nessuno ha mai provato a fare diversamente? –

Il pugno di Genesis si abbatté con violenza sul tavolo, facendo sobbalzare tutto ciò che vi era posato sopra.

– Stai esagerando, ragazzo! – sibilò in faccia ad Arith. – Non dimenticare che cosa hai giurato quando ti abbiamo scelto! –

Dimenticare…

Arith avrebbe riso, se solo la situazione non fosse stata così tesa. Aveva barattato la sua vita per pura arroganza: per un’occasione di approfondire le sue conoscenze, per poter aver accesso a fonti di cultura che la sua povertà non gli aveva mai concesso, e non c’era stato un singolo momento in cui se ne fosse pentito.

– Perdonate l’interruzione, sapete che sono un polemico. –

– Non c’è alcunché da polemizzare: il destino di tutti è nelle nostre mani e non c’è prezzo che non valga la pena di essere pagato. –

Arith non ne era del tutto sicuro, ma decise che la cosa non lo riguardava. Era curioso per natura e fin da piccolo aveva sempre messo in discussione qualsiasi cosa. Non era uno di quelli che si accontentavano di una spiegazione nero su bianco: lui voleva vedere le sfumature di grigio, tutte le sfumature di grigio, ed era abbastanza testardo da non mollare finché non le aveva scovate tutte.

Per stavolta, però, accantonò la questione e non ne fece più parola, in nome della pace comune e del suo stesso benestare.

Non aveva importanza, comunque: uccideva persone da tutta la vita e una in più o una in meno non avrebbe fatto alcuna differenza.

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Capitolo 4
*** 3. Approvazione ***


3. APPROVAZIONE

 

You're sure it’s the only way
But why can’t I
Why can’t I be me?

– Why Can’t I Be Me, The Cure –

 

 

I vetri vibravano sotto alle percosse del vento che si scagliava con violenza tra le chiome degli alberi, strappando foglie e spezzando rami. Il cielo era ammantato di nuvole nere che più a nord stavano vessando le montagne con una tempesta di quelle che Regan non si sarebbe mai stancata di vedere. Dalle stanze più alte della dimora degli Edelberg si riuscivano a vedere fulmini e saette squarciare l’oscurità a miglia e miglia di distanza, uno spettacolo che faceva venire la pelle d’oca.

La soffitta era immensa, vuota e polverosa, e la stasi che la dominava sembrava il respiro silenzioso di un pacifico sonno.

La pendola dello studio al piano di sotto rintoccò la Seconda mattutina. Il suono riecheggiò per i corridoi vuoti del castello fino a giungere a lei come un avvertimento sbiadito. Lo zio si sarebbe arrabbiato molto se l’avessero scoperta di nuovo in piedi a quell’ora, abbarbicata nello stretto vano della finestra aperta che si affacciava su nient’altro che il nulla. Ci aveva provato a rimanere a letto, ma l’insonnia era stata inclemente e non appena aveva avvertito il cambiamento del tempo non era proprio riuscita a resistere. Adorava passeggiare di notte per il palazzo: ogni ombra, ogni scricchiolio del mobilio antico erano un brivido lungo la schiena; ormai conosceva ogni angolo a memoria, ma continuava a divertirsi a vagabondare di stanza in stanza. Mariek ed Ember le avevano raccontato che c’erano dei passaggi segreti in tutti i castelli antichi e da qualche parte ce ne dovevano essere anche in casa loro, ma nessuno li aveva mai scoperti. Lei si era ripromessa che prima o poi ne avrebbe scovato almeno uno.

Era un toccasana starsene seduta lì a sentire l’aria fresca, profumata di pioggia, che le lambiva il viso.

Le doleva la testa, satura di pensieri come il cielo all’orizzonte era saturo di elettricità. Gli stessi lampi che rimbombavano nel nero della notte erano uno specchio perfetto di quello che Regan aveva nella sua mente: luci e ombre a brandelli, riflessioni a pezzi, subito interrotte da altre riflessioni, ciascuna più impellente della precedente, più pesante. Aveva creduto che, una volta rivelata la sua identità, tutto sarebbe stato più facile, e invece no: tutto, giorno dopo giorno, non faceva che complicarsi. Il che era tutto un dire, visto che la situazione per lei era stata complicata fin dall’istante in cui era venuta al mondo, portatrice di un’essenza di male pura che una magia antica di secoli le aveva inculcato nell’anima. Ora, naturalmente, i custodi di questa magia avevano il compito di ucciderla. Tra i pochi che erano a conoscenza di questo piccolo particolare – e tra essi i suoi zii ancora non erano inclusi – era diffusa opinione che lei fosse assolutamente terrorizzata da questo pericolo che incombeva su di lei, ma che tacesse per personale contegno; in concreto, invece, e talvolta si dava della sciocca per questo, lei rimaneva indifferente al riguardo, forte di un’incoscienza che, diceva sempre Lucius, le derivava dalla mancanza di esperienze dirette. In effetti questo punto non era del tutto sbagliato: per merito di Derian, che le aveva trasmesso ciò che nella vita aveva appreso, Regan sapeva tutto del mondo, eppure non conosceva niente. Di tutte le nozioni presenti nella sua memoria, aveva vissuto solo un’infinitesimale parte, ed era davvero strano, ogni volta che sperimentava qualcosa, associare la reale sensazione che ne traeva al concetto pregresso che già ne possedeva. Vedere una cascata, toccare la neve, gustare more e mirtilli, annusare il profumo dei mughetti sulla terrazza di zia Persefone, ascoltare le vibrazioni delle corde di un violino… tutto era una sorpresa infinita. E in certi momenti, quando vedeva un ragazzo e una ragazza passare a braccetto per strada, di nascosto quasi anche da se stessa, si chiedeva quando avrebbe vissuto il sapore di un bacio.

Non appena quel pensiero la sfiorò, chiuse gli occhi e scosse la testa, tentando di scrollarselo di dosso come un’insidiosa ragnatela. Non aveva voglia di mettersi a rimuginare su Lucius adesso. Del resto, lui non si era nemmeno preso il disturbo di andare al parlare con lei del suo colloquio con i Dresden.

Senza aspettare che lei rientrasse da una passeggiata con la zia e la piccola Luce, era andato dritto da Tristan e aveva riferito tutto a lui. Al suo ritorno, Regan si era trovata davanti agli accordi già presi: sarebbe stata ufficialmente presentata come Lady Regan Edelberg, legittima figlia di Lord Ardal Edelberg e Lady Aranel Dresden. Nessuno avrebbe mai menzionato il fatto che suo padre era stato diseredato e che lui ed Aranel avevano coperto le rispettive famiglie di vergogna fuggendo insieme come due sguatteri qualsiasi. Ma nessuno avrebbe potuto sospettare la verità: lui, cancellato dagli alberi genealogici e dai ritratti di famiglia, era stato dichiarato morto dal proprio padre il giorno stesso in cui la sua famiglia aveva scoperto cosa aveva fatto e, in quanto a lei, i suoi genitori avevano semplicemente denunciato la sua scomparsa, ma nessuna ricerca aveva mai prodotto alcun frutto. La versione ufficiale prevedeva che si fossero sposati in segreto e che, dopo la morte di lui, lei avesse abbandonato la creatura che aveva dato alla luce e si fosse gettata in qualche fiume per seguire il suo amato nel ritorno alla Madre. Questo avrebbe salvato la reputazione di tutti, vivi e defunti, e soddisfatto la sete di pettegolezzi delle comari di tutte le Sette Terre. Se poi il tutto soddisfacesse anche Regan, nessuno si era premurato di chiederlo.

Lasciò che le palpebre si chiudessero mollemente. Le carezze del vento erano seducenti, premurose come fresche mani affettuose scese a lenire una febbre interiore. Regan ne era rapita al punto tale che si domandò se non potesse arrischiarsi ad abbandonarsi alle loro blandizie, cedere a quelle brezze che sembravano chiamarla, per vedere se l’avrebbero raccolta tra le loro braccia e sostenuta nel vuoto.

Riusciva a vedere il lago appena al di fuori delle proprietà di famiglia: senza luna o stelle a farlo scintillare, era un drappo di velluto nero sconvolto in mille pieghe nervose, e mentre lo ammirava poteva quasi avvertire il sentore delle acque gelide agitarsi sotto alle dita assieme ai nastri di vento.

Sospirò, e il mondo sospirò con lei.

Da qualche parte nelle foreste i lupi stavano ululando, turbati dalla rapidità dei cambiamenti atmosferici.

– Parlano con il vento. –

Regan sussultò, premendosi una mano sul cuore che batteva impazzito. Voltandosi, trovò il maggiore dei suoi cugini sulla soglia della soffitta.

– Non intendevo spaventarti. –

Lei scosse la testa e si raccolse le ginocchia al petto mentre lui si avvicinava per sederle accanto.

– Ero solo molto assorta. –

– Si direbbe che tu subisca il richiamo della tempesta quasi quanto loro – osservò Prince, sulla scia di un altro coro di ululati. Il cuore di Regan batteva un po’ più forte ogni volta che una di quelle voci selvagge si sollevava nel vento, mescolandosi al ruggito della pioggia. In momenti come quello, tutto ciò che lei avrebbe voluto era poter mutare forma, essere lupo come loro, e correre a perdifiato verso la foresta, incurante dell’acqua e dei tuoni. Semplicemente libera.

– Hai uno spirito irrequieto – Prince fece un sorriso obliquo studiandola di sottecchi. – Il che non è esattamente un pregio, per i canoni Edelberg, ma ammiro e un po’ anche invidio la tua spontaneità. –

Regan provò un moto di affetto verso di lui. La prima impressione che ne aveva avuto era stata di un giovane uomo altero ed estremamente posato e quest’impressione non era cambiata poi di molto, imparando a conoscerlo, ma una cosa di lui l’aveva capita in fretta: l’alterigia non era un suo tratto innato, ma una sorta di distintivo che aveva imparato a indossare e smettere a seconda delle occasioni.

Prince era visibilmente stanco. Indossava ancora la divisa da Cacciatore con lo stemma dorato della Lega – la Stella a sette punte – appuntato al petto, il medesimo simbolo che, in argento, con un nucleo rosso rubino, pendeva dalla catenella che gli cingeva il collo. Nei suoi occhi provati, tuttavia, c’era un bagliore che Regan solo di recente aveva notato.

– Da qualche tempo sembri più rilassato. A volte addirittura distratto. –

Il ricciolo vago che apparve in un angolo della bocca di Prince denotò che l’osservazione non lo aveva infastidito. Considerò il cielo tempestoso, perdendovisi per qualche istante.

– Sì, può darsi. –

Regan stava per domandargli cosa fosse cambiato, perché anche lei sentiva un profondo bisogno di sentirsi più rilassata – anche se a Donna Melyor sarebbe potuto venire un crollo di nervi se solo si fosse dimostrata appena più distratta di quanto già non fosse di suo – ma Prince si alzò e con un cenno della testa la invitò a fare lo stesso.

– Meglio andare a dormire, adesso, figlia dei lupi. È così tardi che potrebbe benissimo essere presto, ormai. –

Le voltò le spalle e fece per uscire, ma lei non si mosse.

­­– Prince? –

Lui si fermò sull’uscio.

­ – Sì? –

Gli occhi di Regan accarezzarono le montagne su a Nord, le cime perennemente imbiancante vessate dalle piogge, con un affetto quasi anelante.

– Credi che sia possibile fare una gita lassù, qualcuno di questi giorni? –

Lui rimase immobile, fissandola senza un’espressione, come a cercare di capire se lo volesse o meno prendere in giro, poi, una volta appurata la serietà della domanda, rovesciò indietro la testa e scoppiò a ridere di gusto.

– Una gita sulle montagne? – Lo disse con assoluta ilarità, nemmeno gli fosse appena stata chiesta la luna. – Regan, tu non hai idea di quanto siano basse le temperature lassù, vero? – Si portò una mano agli occhi per asciugarsi lacrime divertite. – Sono luoghi a malapena tollerabili in piena estate, figuriamoci in primavera quasi nemmeno iniziata! –

Mentre lui rideva ancora, lei gli si accostò per appioppargli un ceffone sul braccio. Non avrebbe mai osato farlo, prima, ma in quel momento le sembrava di avere a che fare con un Prince diverso, più accessibile.

Per tutta risposta lui le elargì uno sguardo pieno di tenerezza.

– Sei una vera Edelberg, non c’è che dire. –

– In che senso? –

– Non lo sai? La nostra famiglia discende dalle genti che abitavano quei picchi inospitali di cui mi hai appena chiesto. Edelberg significa nobili di montagna. –

Regan si sentì accendere le guance di un orgoglioso tepore rosato mentre suo cugino, ancora in vena ridanciana, la sospingeva fuori, strappandola a quello spettacolo naturale che lei avrebbe volentieri ammirato fino alla fine dell’eternità.

 

 

– Regan? Regan? Regan! –

Non c’era traccia di lei nelle stanze da letto, né nella biblioteca, né nella stanza dei bagni, e nemmeno dabbasso, nelle cucine. Come svanita nel nulla.

Era la seconda volta che Donna Melyor perquisiva l’intero palazzo, ma della ragazza non c’era proprio traccia da nessuna parte. Paonazza, i capelli scarmigliati davanti al viso, impugnò le sottane e si accinse a ricominciare a setacciare le stanze per la terza volta.

– Benedetta Madre, dove si sarà cacciata quella bambina? –

Era ancora abbastanza presto, la mattina era fresca e limpida dopo la nottata ventosa, ed era pressoché preoccupante che Regan non fosse ancora sepolta sotto le sue amate coperte. Di certo, pensò Melyor, raccattando i vestiti sparsi nelle stanze dei ragazzi, aveva scelto il giorno sbagliato per sparire nel nulla.

Spalancò le persiane di tutte le camere da letto e chiamò un paio di cameriere perché rassettassero, poi scese fino alla sala da pranzo, dove i signori Edelberg e alcuni dei loro figli si stavano già godendo una sostanziosa colazione.

Normalmente, la domenica, la colazione veniva consumata al Bottondoro, rinomata sala da the del centro di Kauneus in cui solevano per tradizione riunirsi le famiglie più in vista. Era un evento mondano che tutti trovavano molto piacevole, ma quella mattina la situazione richiedeva diversamente: alle undici in punto Regan sarebbe stata ricevuta da Madame Ilyalisse, la sensale che si occupava di valutare le giovani fanciulle e approvare il loro ingresso ufficiale in società, e tutti quanti, in casa, avevano la netta sensazione che non sarebbe stato un colloquio semplice.

Donna Melyor ebbe il tempo di far fluttuare uno sguardo di amorevole soddisfazione verso Mariek ed Ember – che si stavano rimpinzando come se non avessero toccato cibo da settimane – prima di accorgersi del cipiglio nuvoloso di Lord Tristan.

– Ebbene? –

– Non so più dove cercarla, signore – gemette lei, desolata, con un cumulo di vestiti che le traboccava tra le corte braccia pingui. – Tjeren è andato a guadare nelle scuderie, forse… –

– Non si trova lì. –

Anneli era comparsa sulla soglia, sudata e leggermente rossa in viso, reduce dalla sua cavalcata mattutina domenicale. Alle sue spalle apparve Prince, anch’egli in tenuta da equitazione.

– Che succede? –

– Abbiamo perso Regan – gli comunicò Ember, masticando una badilata di uova strapazzate.

– Di nuovo – pensò bene di puntualizzare Mariek.

Aiden, seduto di fronte a loro, volse gli occhi al soffitto. Anneli, invece, si lasciò scappare un sorriso beffardo.

– Perché la cosa non mi sorprende? –

– Siediti, pettegola – la zittì Prince, spingendola verso il tavolo. Una cameriera che stava entrando con un vassoio di dolcetti si fermò per cedere loro il passo con un piccolo inchino nervoso.

– Proprio oggi doveva mettersi a giocare a nascondino… – borbottò Lord Tristan fra sé mentre il suo coltello scricchiolava spiacevolmente contro la porcellana del piatto, causando sibili infastiditi da parte dei ragazzi.

Anneli si fece servire del the bollente e non prese altro. Per contro, Donna Melyor prese un piatto, lo riempì di pietanze e glielo piazzò davanti con un’occhiata tagliente che dissuase la ragazza da qualsivoglia protesta. Solo quando Anneli iniziò a mangiucchiare una frittella di malavoglia la governante si degnò di allontanarsi, supervisionando la situazione in attesa di nuove istruzioni.

Lady Arista, che teneva la piccola Luce sulle ginocchia e la aiutava a mangiare, fece per alzarsi.

– Forse è meglio che la vada a cercare io. Melyor, vorresti pensare tu a Luce, per favore? –

– Lasciala a me, mamma – disse Prince, allungando le braccia verso la sorellina. – Melyor non ha ancora toccato cibo. Siediti – aggiunse, Luce aggrappata al collo, facendo cenno alla donna di prendere posto.

La cameriera che aveva portato i dolcetti se ne andò con un’espressione risentita. Melyor e suo marito Tjeren godevano di un trattamento di favore da parte dagli Edelberg, in quanto servivano fedelmente la famiglia da ben tre generazioni e lei aveva aiutato le ultime due padrone a crescere i loro ragazzi con lo stesso amore di una madre naturale.

Arista lasciò quindi Luce a Prince, si passò il tovagliolo sulla bocca e poi lasciò la tavola, seguita dagli occhi severi del marito.

 

 

Era difficile dire se il frenetico scalpiccio che si sentiva echeggiare tra le pareti umide appartenesse a Mello che saettava qua e là in preda all’incontenibile gioia di scoprire un posto nuovo oppure se fossero semplicemente i topi che dimoravano là sotto, ma non era importante.

Regan rigirò un paio di volte la mappa che aveva in mano e corrugò la fronte. Non aveva idea che i sotterranei di casa Edelberg fossero così vasti.

Dopo averla ripresa svariate volte a causa dei suoi vagabondaggi notturni, lo zio le aveva detto che avrebbe fatto meglio a smetterla o avrebbe finito per smarrirsi da qualche parte. Il che era credibile, perché il castello era veramente enorme e tutti i corridoi si somigliavano tra di loro, ma durante una delle numerose incursioni in biblioteca durante le lunghe, cupe giornate invernali Regan era riuscita a scovare quella cartina ammuffita in mezzo a una dozzina di libri di araldica e, non senza un bel po’ di fatica, aveva imparato ad usarla.

I sotterranei, secondo il disegno, all’alba dei loro tempi avevano svolto la funzione di prigione, e in effetti lungo il vasto corridoio centrale si aprivano numerosi varchi chiusi da pesanti grate arrugginite che avevano tutta l’aria di essere celle. Da qualche parte ci doveva essere anche una ghiacciaia, un deposito per le armi e una grande stanza ottagonale che apparentemente non serviva a nulla.

Da quelle parti era abbastanza freddo e umido perché ogni respiro si trasformasse in bianca condensa davanti al viso. Era anche molto buio, tanto che la candela che Regan si era portata appresso bastava appena a farle vedere poco più in là del suo naso. Oltre l’alone di luce gialla, l’oscurità si infittiva progressivamente fino a perdersi in distanza in un occhio cieco.

Regan era elettrizzata dall’atmosfera di quel luogo, ma sapeva anche che atti turpi si erano consumati dietro alle porte chiuse che incontrava, cose risalenti a ere ormai concluse in cui intrighi, tradimenti e omicidi erano stati all’ordine del giorno, soprattutto tra le casate nobiliari. Dopotutto un motivo c’era se gli Edelberg si erano fatti il nome di Scudo del Re.

Trasalì quando vide qualcosa di nero attraversarle inaspettatamente il cammino.

– Attento! – disse la grosso ragno che, scampato il pericolo, se la svignava in fretta e furia in una fessura nel muro. – Potevo calpestarti! –

Le pantofole avevano suole morbide che non producevano alcun rumore contro il pavimento di pietra e questo, se possibile, rendeva tutto ancora più sinistro.

Si era svegliata di buonora e non aveva perso del tempo prezioso a cambiarsi. Peccato solo che ora la sua camicia da notte fosse umida e non troppo pulita e che la sua treccia avesse raccolto qualche ragnatela di troppo nel discendere la vertiginosa scala a chicciola che conduceva laggiù. Non aveva avuto altra scelta, comunque, perché l’accesso principale ai sotterranei era stato sbarrato e probabilmente anche protetto con qualche sigillo e non ci sarebbe stato verso di forzarlo.

Il passaggio che aveva usato lei lo aveva scovato per caso nella dispensa delle cucine, nascosto dietro uno scaffale pieno di mazzi essiccati di piante aromatiche, ed era stato grazie alla piantina che aveva capito che cos’era. Non si trattava propriamente di un passaggio segreto di quelli che avrebbe voluto svelare lei, ma per adesso poteva accontentarsi.

Scrutava gli spazi angusti che la circondavano con avida curiosità – quella curiosità che così spesso le veniva rimproverata – e acuiva la vista per riuscire a vedere anche negli angoli più nascosti, dietro a statue decrepite e dentro a nicchie polverose. Anche se non stava cercando niente di particolare, non le sarebbe dispiaciuto trovare qualche oggetto vagamente interessante da potersi tenere.

Un alito gelido sul collo la fece rabbrividire e pentire di non essersi coperta meglio. Prese appunto mentale di portarsi almeno uno scialle, la prossima volta.

Una goccia d’acqua le cadde sul naso mentre cercava di scavalcare indenne una pozzanghera che si era formata al centro del passaggio. Sapeva che i suoi capelli dovevano essere un disastro e sentiva le ciocche sfuggite alla treccia che si increspavano per la troppa umidità. Una vocina fastidiosa nella sua testa borbottò qualcosa a proposito di un appuntamento importante e dell’assoluta necessità di essere impeccabile, ma lei non la sentì, perché i suoi pensieri galoppavano altrove, liberamente sguinzagliati in fantasie che fluttuavano verso la storia antica di quei sotterranei e l’incredibile quantità di segreti che avevano raccolto nei secoli.

Qualcosa di soffice le sfiorò le caviglie. Guardò in giù e nel cono di luce intravide gli occhioni neri di Mello che la fissavano pieni di aspettativa. Vide che tra le zampette teneva un coccio di vetro.

– Mettilo giù, stupido, finirai per tagliarti! –

Dopo un istante di silenzio, il rumore del vetro che cadeva a terra echeggiò per il sotterraneo, seguito dalla scia della fuga ovattata della bestiola, probabilmente alla ricerca di altri tesori.

Regan si domandò come mai quel piccolo furfante fosse disposto a darle retta solo quando sgraffignava di oggetti senza alcun valore.

Uno spiffero fece vibrare la fiamma della candela fin quasi a spegnerla. La protesse con la mano, temendo di non riuscire a riaccenderla con il solo ausilio dei propri poteri, in caso si fosse spenta. Aveva ancora qualche difficoltà, da quel punto di vista.

Si volse verso la propria destra. Le era sembrato che l’alito di aria avesse spirato proprio da lì, ma si era sicuramente sbagliata. Non c’era un corridoio ad aprirsi, da quella parte: il muro di pietra era solido e compatto.

Aveva già allungato la mano a cercare un’eventuale punto di fuga, quando qualcos’altro attirò la sua attenzione. Era a una decina di passi da lei, vicino a una delle statue dalle sembianze di cavalieri che adornavano il corridoio: un’ombra, o qualcosa che di un’ombra aveva la consistenza, più nera del nero stesso che la circondava, come se nemmeno i bagliori della candela potessero farla impallidire.

Tenebra pura e intoccabile.

 Regan non si mosse. Le sue labbra si schiusero di un soffio mentre la testa si inclinava leggermente di lato. La fiamma della candela fremette angosciosamente.

Le spalle di Regan vennero lambite da un intenso sentore di gelo che penetrò fino alle ossa.

La cosa era immobile davanti a lei e appariva più densa dell’aria in cui indugiava, impossibile guardarvi attraverso, perché sembrava assorbire e neutralizzare anche il più piccolo raggio di luce che cercava di raggiungerla.

I battiti del cuore di Regan acquisirono una velocità folle senza che lei se ne accorgesse. Le sue gambe si erano fatte pesanti come piombo e non sarebbe riuscita a muoverle anche se l’idea l’avesse sfiorata. Ma non era così.

Avrebbe potuto benissimo fare dietrofront e tornare da dov’era venuta, chiudersi dietro tutte le porte e sbucare nella profumata sicurezza della cucina, eppure se ne restava lì, come in trance, a dirsi che quello sarebbe stato un buon momento per mostrare un po’ di sano buonsenso e mettersi a tremare di paura. Benché se lo stesse ripetendo ormai da un po’, tuttavia, non funzionava.

D’altra parte era solo un’ombra… che male avrebbe potuto farle?

Acuì ogni singolo senso nel tentativo di percepire di più. Chiuse gli occhi e si mise in ascolto, non solo con le orecchie, ma con tutta sé stessa.

Sentì il freddo strisciare lungo il pavimento e salirle sulle caviglie nude. Un’immagine, come un lampo, le balenò dietro alle palpebre chiuse, schizzi di un rosso familiare, che si frantumarono nel vuoto assieme al risuonare distante di un urlo straziante.

– Regan! –

Il portacandela precipitò a terra con un assordante schianto metallico. Il tronco di cera si spezzò, la fiamma morì. L’odore pungente del fumo entrò nella gola di Regan, causandole una sgradevole sensazione di asfissia.

Si voltò, una mano premuta sul cuore e l’altra aggrappata alla parete, e vide che in fondo al corridoio, da dove era venuta lei, c’era qualcosa di luminoso che si stava muovendo nella sua direzione.

– Regan? Va tutto bene? –

La voce premurosa di zia Arista la raggiunse e avvolse come una carezza. Riaprì gli occhi di scatto e si guardò indietro: l’ombra, o qualunque cosa fosse, non c’era più, tanto che si chiese se non se la fosse solo immaginata.

La zia la raggiunse, una lampada a olio in mano, e la esaminò accuratamente. A giudicare dal sospiro sconfortato, non le erano sfuggite né le ragnatele né lo stato disastroso dei capelli e chissà che altro.

– C’era qualcosa… un’ombra… – farfugliò, ma la zia non badò a lei. E poi che cosa le avrebbe potuto dire? Era ovvio che dove c’era luce ci fossero anche delle ombre.

– Oh, tesoro… era proprio necessario che ti mettessi a fare l’esploratrice proprio stamattina? Melyor è impazzita a cercarti, tuo zio ha i nervi a fior di pelle… –

Regan era felice di vederla, ma non si spiegava come fosse arrivata fin lì.

– Come hai fatto a…? –

– Pensi di poter spostare un solo granello di farina nella dispensa di Nella senza che lei se ne accorga? Come hai fatto tu, piuttosto, a trovare quel passaggio? –

Arrossendo fino alla punta dei capelli, Regan sollevò la mappa che aveva in mano a mo’ di spiegazione. L’aveva ridotta a un cartoccio informe senza accorgersene.

Dando prova di grande saggezza, la zia evitò di fare commenti; prese Regan per mano e se la portò via. Non sembrava tanto arrabbiata, e questo contribuì solo a far sentire Regan ancora più in colpa.

Si sentì miserabile ed egoista per tutto il tragitto di ritorno. Arista era sempre fin troppo gentile con lei, ma una tirata d’orecchie da parte di Donna Melyor niente e nessuno gliela avrebbe risparmiata, senza contare il terrore di quel che avrebbe potuto dire lo zio Tristan.

Il fatto era che davvero non si era resa conto che fosse così tardi. Si accorse dell’ora solo quando, passando dalla dispensa alla cucina, vide il sole già alto e splendente nel cielo.

– La Nona passata! – ululò Donna Meloyr quando la vide arrivare nell’anticamera della sala da pranzo. A un secondo sguardo più attento, poi, inorridì del tutto: – Che cosa ti è successo? Sei… sembri… – Non trovò parole abbastanza raccapriccianti per definire la tragicità della situazione, e fu un bene, perché più tardi, mentre spediva Regan dritta filata a immergersi in una vasca da bagno piena di acqua gelata (– Sarebbe stata calda, se tu la avessi usata quando dovevi! – ), ebbe modo di dare sfogo a tutte le frustrazioni represse durante la difficile mattinata.

– Incosciente, ecco cosa sei! E se ti fosse successo qualcosa e la cuoca non si fosse accorta del disordine in dispensa? E se fossi morta laggiù, come un povero ratto smarrito? O, peggio ancora, se tu avessi tardato ancora a tornare e milord e milady fossero stati costretti a presentarti in quelle condizioni al cospetto di quella vecchia bisbetica? –

Regan soprassedette sul discutibile concetto di priorità della donna.

Meloyr le lavò i capelli e, finito il bagno, la trascinò davanti al camino affinché asciugassero più in fretta mentre glieli pettinava con un’energia tale che lei temette che glieli avrebbe strappati tutti.

Venne imbrattata di cipria – a che scopo, poi, dato che si considerava già sufficientemente smorta, non lo avrebbe mai capito – e profumata per bene, ingioiellata in modo sobrio e consono alla sua giovane età. Pensò che i cavalli dovevano sentirsi esattamente come si sentiva lei adesso quando venivano strigliati e agghindati per una parata ufficiale: immensamente impotenti e altrettanto ridicoli.

 

 

Più di un’ora dopo, infagottata in un abito oscenamente vezzoso che le faceva venire il prurito solo a vederlo, con lo stomaco vuoto e di pessimo umore, fu piazzata su una carrozza assieme allo zio e alla zia alla volta della città.

– Mi raccomando, cuginetta, sii docile e mansueta come un agnellino e andrà tutto bene! – le urlò uno dei gemelli dall’alto dell’ingresso del palazzo.

– In poche parole, andrà tutto a rotoli – concluse l’altro gemello, sghignazzando mentre la sua voce echeggiava all’interno del cortile.

Regan sospirò, depressa, e si accasciò contro il sedile a braccia conserte.

Tenne gli occhi chiusi, sia per non vedere il vestito, sia perché continuava a pensare a quella specie di ombra nera e il paesaggio la distraeva. Avrebbe potuto chiedere a Lucius se sapesse qualche cosa in merito, se solo lui si fosse degnato di farsi vivo o di dare almeno qualche notizia. Era troppo orgogliosa per ammetterlo con qualcuno, sé stessa per prima, ma odiava essere diventata solo un particolare trascurabile delle vita di Lucius, dopo essere stata al centro delle sue attenzioni tanto a lungo.

A metà strada, però, fu costretta a tornare alla realtà, perché Arista le prese una mano e se la strinse tra le sue:

– Regan – la zia la guardò intensamente, con una velata supplica nel tono e nello sguardo. – Questo incontro che stiamo per fare è molto importante. So che hai già partecipato a qualche festa e sai già come funzionano, ma adesso hai un nome e uno stato sociale ed è quindi necessario che si facciano le cose come si deve. Madame Ilyalisse ha il compito di esaminare le giovani donne e stabilire se sono pronte a fare il loro ingresso in società. Noi non intendiamo privarti della libertà di goderti gli eventi mondani, ma tu questa libertà te la dovrai guadagnare. – Scambiò con il marito un’occhiata ansiosa. – Qualunque cosa dirà Madame Ilyalisse, tu non replicare. Si rivolgerà a me a tuo zio e saremo noi a rispondere. Tu devi fingere di non sentire e di non saper parlare, qualunque cosa lei dica. Promettimelo. –

Regan trovava l’intera questione del tutto insensata. Se era a lei a dover essere presa in esame, allora avrebbe avuto senso che fosse lei a parlare con quella donna.

– Io… –

– Regan! –

C’erano ancora un’infinità di cose che lei non sapeva, dopotutto. Imparare le buone maniere era stato un requisito fondamentale per la sua nuova posizione, ma non era sufficiente. Forse, ripensandoci, lasciar parlare gli zii era davvero la cosa migliore. Non era più stata a una festa o a un evento mondano da quando aveva scoperto chi era e non aveva nessuna voglia di continuare a restarsene chiusa in casa mentre tutti gli altri andavano a divertirsi. Non si poteva dire che amasse le cerimonie, ma era sempre meglio che annoiarsi.

– D’accordo, promesso. –

 

 

Madame Ilyalisse riceveva gli ospiti in un salottino della propria sontuosa abitazione e un segretario dall’aria poco amichevole si occupava di gestire gli ingressi nella stanza accanto, dove avveniva il colloquio effettivo.

Tutto era sui toni caldi del rosso e dell’oro, grasse poltrone erano sistemate lungo le pareti e un grande tavolino basso al centro esponeva un intero servizio da the con tanto di vassoio colmo di bignè dall’aspetto molto invitante.

Lo stomaco di Regan brontolò.

Stavano per accomodarsi, quando la porta che dava sull’altra stanza si aprì e ne uscì una ragazzina, accompagnata dal padre, un uomo alto e robusto che scambiò con lo zio Tristan un saluto cerimonioso e offrì invece ad Arista un profondo inchino. La ragazzina, che doveva essere sua figlia, a vedere quanto si somigliavano, fece lo stesso.

Era indubbiamente più piccola di Regan ed le indirizzò un’occhiata in tralice che scese immediatamente alla spilla che le fermava il mantello su una spalla. La sconosciuta dovette riconoscere il blasone degli Edelberg – una spada incastonata verticalmente nel fianco di un monte – perché la sua bocca assunse una piega rigida e ostile e, nasino all’insù, tirò dritto a braccetto con il padre.

Regan la guardò andare via con una punta di invidia: si muoveva con un’eleganza incredibilmente naturale ed era molto graziosa, con forme molto sviluppate, per la sua età.

– Prego, signori, entrate – disse il segretario, distendendo teatralmente un braccio verso la porta.

La prima cosa che Regan vide, entrando, furono occhi metallici che la fissavano da dietro un paio di lenti rettangolari. Non avevano alcuna espressione e forse era questo a renderli così inquietanti. Appartenevano a una donna dai capelli ingrigiti ma ancora scuri, raccolti in una crocchia in cima alla testa. Le labbra rugose erano contratte su una prominente dentatura cavallina che si accompagnava perfettamente al viso lungo e scarno e alle dita nodose, che teneva incrociate davanti a sé al di sopra della bellissima scrivania di mogano.

Lo zio e la zia fecero una breve reverenza, cosa che Regan trovò strana, poiché, in quanto nobili, erano a lei socialmente superiori.

– Madame Ilyalisse. Questa è nostra nipote Regan. –

La zia le diede una piccola spinta discreta e lei mosse un passo in avanti. Si esibì a sua volta nell’inchino più studiato e impeccabile che le fosse mai riuscito e quando si risollevò la donna parve non avere nulla da rimproverarle.

Non ancora.

La fissò a lungo, invece, e Regan sapeva esattamente perché: occhi troppo verdi, capelli di un rosso impossibile. Colori pericolosi, che richiamavano alla memoria le antiche leggende su Lucifero, con cui lei aveva molto più in comune che un paio di banali tratti fisici, ma questo era un suo piccolo segreto.

Poi, senza dire una parola, Madame Ilyalisse fece garbatamente cenno loro di occupare le tre sedie intarsiate che le stavano di fronte. Quella di mezzo, presumibilmente destinata a Regan, non possedeva imbottitura.

C’erano targhe e quadri con blasoni appesi alle pareti, alcuni dei quali talmente lisi e scoloriti da dover essere veri e propri cimeli storici. Sulla parete in fondo, alle spalle della sensale, erano affissi dei ritratti di coppie che a Regan sembravano più o meno tutte uguali: ricchi abiti ed espressioni fiere. Una di queste catturò la sua attenzione: l’uomo era avvenente, ma era la donna a interessarla – bionda e regale – perché i suoi occhi verde ghiaccio erano molto familiari.

– Lord Edelberg, Lady Edelberg, è un piacere rivedervi. Lady Regan, benvenuta. –

Regan trattenne una sbuffata. Madame Ilyalisse non l’aveva nemmeno considerata nel pronunciare il suo nome e, osservandola mentre si sistemava gli occhiali sul naso facendo oscillare la loro catenella dorata, iniziò a intuire perché la zia avesse tanto insistito a farle promettere di stare zitta in qualsiasi caso.

– Figlia di un Edelberg e di una Dresden… non si può certo dire che non sia unica nel suo genere. – Le labbra della donna si corrugarono sottintendendo un certo disappunto. – Vostro fratello fu diseredato, milord, quindi la ragazza formalmente non ha patrimonio. Avete già preso accordi con Lord e Lady Dresden circa la dote della ragazza? –

– Non ancora, ma sarei più che lieto di provvedere personalmente alla questione. –

– Dato che sostenete che vostro fratello e Lady Aranel erano sposati, la vostra famiglia e la famiglia Dresden sono legate e non spetta esclusivamente a voi stabilire una dote per la ragazza. –

– Non c’è alcuna fretta, da questo punto di vista, Madame. Sistemeremo tutto a suo tempo, con calma, quando Regan sarà pronta ad affrontare un’altra ondata di novità. –

Madame Ilyalisse corrugò le labbra ma non questionò oltre.

Si alzò in piedi e fece alzare anche Regan, iniziando a esaminarla come se fosse stata una partita di seta in cui riscontare eventuali difetti di fabbricazione.

– È acerba, per la sua età. –

Andò aventi con una imbarazzante serie di domande fin troppo intime e personali che, secondo il modesto parere di Regan, non si sarebbero mai dovute discutere in presenza di un uomo, soprattutto uno zio. Era sempre Arista, infatti, a rispondere.

Poi, senza preavviso, la donna le afferrò la gonna e gliela sollevò sopra le ginocchia, scoprendo la biancheria intima.

– Gambe secche, fianchi troppo stretti, petto quasi completamente piatto. L’età è adatta, ma… santo cielo, non spererete che qualcuno possa vedere in lei una potenziale nuora, mi auguro. –

– Il motivo della nostra premura di presentarla in società è evitare che si spargano dicerie infondate e sconvenienti. Regan è ancora una bambina, non c’è alcuna fretta di accasarla. –

– Come anni fa non c’era alcuna fretta di accasare vostra figlia Anneli, del resto. –

– Non siamo qui per discutere di Anneli – puntualizzò Tristan asciutto, prendendo parola per la prima volta.

La donna, allora, afferrò in malo modo le mani di Regan, le ricacciò indietro le maniche che le sfioravano il dorso e prese ad studiarle da vicino, polpastrello per polpastrello.

– Molto bene, se non altro ha delle mani da signora. Niente calli, graffi e unghie rovinate. –

La descrizione era così precisa e mirata che Regan non poté non cogliere l’allusione: Anneli, che abitualmente maneggiava armi e briglie da equitazione quanto e forse più dei suoi fratelli, aveva delle mani così.

Le mani di una lavoratrice, non certo di una nobile.

Quelle di Regan, invece, erano morbide e nivee, prive di qualsiasi tipo di segno, e in quel momento, mentre le fissava, capì di non volere delle mani così, bianche e vuote. Voleva mani che parlassero di una vita vissuta.

Alla fine, dopo un tempo che a lei parve interminabile, la tortura giunse al termine e Madame Ilyalisse, aggiustandosi gli orribili occhialetti sul naso, pronunciò la sua sentenza:

– Potete presentare vostra nipote la sera dell’Equinozio di Primavera, signori. Provvedete perlomeno a darle una parvenza di femminilità. –

Nell’indecisione tra arrossire e infuriarsi, Regan optò per la seconda, sebbene sentisse comunque un certo calore iniziare a concentrarsi attorno al suo viso. Enumerò mentalmente una lunga serie di epiteti a mascella contratta, concentrandosi con tutte le sue forze sulla promessa che aveva fatto alla zia, ma si accorse che Madame Ilyalisse la stava fissando, gli occhi severamente assottigliati, le narici dilatate.

– Ragazza, modera i tuoi pensieri, se non sei in grado di tenerli occultati. –

Regan si strinse la testa nelle spalle, sentendo le nocche dello zio scricchiolare attorno al suo bastone da passeggio.

– Perdonatela, Madame. È orfana da sempre ed è cresciuta lontana da noi, non ha potuto essere educata convenientemente – intervenne la zia con una prontezza stupefacente.

La sensale sollevò il naso in un modo che a Regan fece solo venire voglia di romperglielo.

Madame Ilyalisse si tolse gli occhiali, richiuse le asticelle con una calma più che ostentata e le li appoggiò al petto.

– Questa scusa è accettabile ora, milady – dichiarò infine, a voce molto bassa. – Ma fate in modo di non averne più bisogno prima che abbia perso credibilità. Lasciate che vi dia un consiglio, signori: mantenete una presa salda su questa ragazza. Un’indole indomita attira solo guai e disgrazie e accompagnata a questi colori funesti – e fece un cenno vero Regan e i suoi capelli scarlatti. – Non può certo essere sottovalutata. Disciplinatela, finché... –

 

 

– Disciplinatela, finché è ancora malleabile! –

– Cugina, dimmi che non è vero che mi sono perso una scena madre del genere, ti supplico! –

– Hey, Mariek, dovremmo comprare un guinzaglio a questa piccola Edelberg selvaggia, non credi? –

– Forse anche una museruola. –

Regan si strinse la sciarpa intorno a collo, paonazza.

Passeggiava assieme ai cugini per le vie del centro di Kauneus e si faceva bene attenzione a tenersi qualche passo avanti a loro, perché Ember e Mariek ridevano di lei ormai da dici minuti filati e non volevano saperne di smetterla di farsi beffe di lei. Anneli, a braccetto con Aiden, le camminava accanto e di tanto in tanto la occhieggiava con qualcosa di simile alla compassione nello sguardo.

– Mi chiedo che cosa ci sia nel sangue delle donne della nostra famiglia – si stava domandando Mariek, asciugandogli gli occhi. – Voglio dire, zia Malissa era una tosta: si ribellò al marito violento… –

– Lo uccise – sottilizzò Aiden. – E fu condannata a morte. –

Condanna che non fu mai eseguita, pensò Regan, a cui sarebbe piaciuto poter condividere con gli altri quell’informazione, ma non poteva. Era un Segreto e lei, anche se avesse voluto, non avrebbe mai potuto rivelarlo.

Mariek ignorò il commento:

– Zia Persefone è stata la prima donna della famiglia ad andare alla Domus Aurea e, non paga, anziché limitarsi a fare la mogliettina e mammina perfetta, è diventata Coordinatore e se ne va in giro a prendere a calci i criminali. Anneli è sulla buona strada per seguirla… –

– Anche se, al posto dei criminali, preferisce prendere a calci i suoi spasimanti – si intromise Ember.

– E adesso – proseguì l’altro imperterrito. – Si scopre che la nostra piccola, dolce, ingenua Regan ha bisogno di essere domata. Mi domando quali sorprese ci riserverà Luce! – Rovesciò indietro la testa e si abbandonò all’ennesima risata.

– Ricordatemi di non fare figlie femmine, fratelli! –

– Ignorali – disse Anneli. – Sono solo una coppia di… –

Regan non seppe mai quale sentitissimo complimento Anneli intendesse rivolgere ai gemelli, perché uno strillo abbastanza acuto da ferirle l’orecchio si diffuse per la strada. Non fu difficile riconoscere la tipologia di strillo, i livelli di isteria erano inconfondibili: tipica reazione da zitella che aveva avvistato un succoso scapolo a piede libero. O, per meglio dire, tre succosi scapoli.

– Mariek, Ember, Aiden, che magnifica sorpresa! –

Regan identificò immediatamente la ragazza che attraversava la strada di tutta fretta, facendo sobbalzare la generosa scollatura: Adora Shephard, ricca figlia di mercanti alla caccia di un titolo nobiliare. Non che i titoli nobiliari avessero avuto alcun valore ufficiale negli ultimi secoli, ma possederne uno, seppur per pure questioni di immagine, era un gran prestigio.

Anneli, che non era nemmeno stata inclusa nei saluti, accolse la ragazza nel gelo più completo, ma quest’ultima era talmente presa dai tre ragazzi che nemmeno ci fece caso.

Regan lasciò i suoi cugini a vedersela con l’esuberante fanciulla e andò poco più avanti a curiosare nelle vetrine delle botteghe chiuse.

La sua preferita era quella del fornaio: esponeva una quantità di pagnotte e dolci che riuscivano a rallegrare l’animo solo a guardarli. Sapevano di caldo e di casa. A Regan ricordavano i giorni trascorsi a casa di Lucius, a sfornare torte assieme a Eleonora per poi divorarle assieme a suo figlio Calien.

Eleonora era un’umana e il padre di Calien un demone. Quando lui era morto, Lucius gli aveva promesso di avere cura di Eleonora e del suo bambino e così li aveva portati via dal mondo degli umani, in cui Calien, che cresceva due volte più lentamente dei bambini umani, sarebbe stato guardato come un mostro. Madre e figlio ora vivevano insieme nella casa adiacente a quella di Lucius e spesso Regan aveva sofferto la loro mancanza.

La bottega successiva era quella dello speziale e anche in quella c’era da perderci ore intere. Erbe, spezie e ingredienti per i filtri erano solo la parte più irrilevante; quello che piaceva a Regan era l’enorme vetrina che c’era sulla sinistra, sempre lustra e impeccabile, piena di boccette e fiale di profumi i cui prezzi non erano mai esposti. Non aveva mai sentito l’odore di uno solo di quei profumi, ma adorava i piccoli capolavori di vetro in cui erano custoditi, colorati e delle forme più inusuali, decorati con finissimi ghirigori d’oro e d’argento, lasciati in bella vista a scintillare sotto i raggi del sole che penetrava dalle ampie vetrine. La bottega vendeva anche cosmetici, candele profumate, carta finissima, anch’essa profumata, e molte altre cose, tra cui i preziosi colori di cui si servivano i pittori: erano in polvere, conservati in sacchetti di iuta su un tavolo grezzo, in cui ancora si vedevano le forme e i nodi del legno da cui era stato ricavato, ed erano tinte così belle e sgargianti, così vive, che Regan aveva più volte avuto la tentazione di affondarci le dita per sentirli.

Stava cercando la forza di staccarsi da lì e tornare dagli altri quando scorse nel vetro un fugace riflesso nero alle proprie spalle.

Si voltò, ma non c’era nessuno. Sull’altro lato della strada due bambini si rincorrevano rumorosamente, litigandosi un pezzo di focaccia.

Una carrozza le passò davanti. Cercò di riconoscere lo stemma che portava impresso, perché lo zio ci teneva che lei imparasse a conoscere le famiglie più importanti: un corvo e tre stelle neri su fondo giallo.

– Cassel – sussurrò una voce bassissima al suo orecchio, prima che potesse anche solo rifletterci su.

La reazione fu strana: l’istinto comandava allungare una gomitata all’indietro per il dispetto mentre il cervello elaborava rapidamente il timbro e la cadenza maliziosa della voce, facendole esplodere un fiotto di calore nel cuore. Il risultato fu che si accartocciò maldestramente su sé stessa nel voltarsi di scatto e perse l’equilibrio, finendo per atterrare in un paio di braccia robuste.

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Capitolo 5
*** 4. Valo e Varjo ***


4. VALO E VARJO

 

Where am I meant to be?
I feel I'm lost in a dream
Yearning again only to be myself

Unleashed, Epica

 

 

– Lucius! –

Regan sprofondò nel suo abbraccio tra le sue risate. Ritrovò quel suo profumo di polvere e pioggia che di lui amava tanto.

Lucius la strinse e le accarezzò i capelli con tutto l’affetto che le aveva fatto mancare durante la sua imperdonabile assenza.

– La mia cerbiattina... – sussurrò la sua voce, vicina all’orecchio, attraverso un sorriso. La allontanò da sé per guardarla meglio. – Come stai? Hai un aspetto… –

Lei, che quella mattina era meno propensa del solito accettare complimenti, gli diede un colpetto di avvertimento sul braccio.

– Oh, sta’ zitto. Come stai tu, piuttosto! Sono settimane che non ti fai vivo! –

Il rimprovero, troppo blandito dalla gioia di rivederlo, finì per passare inosservato.

– Ho avuto da fare qua e là – rispose Lucius, in tono vago e distratto. – Sai, le solite cose. –

“Come cercare di restare vivo.”

Regan aggrottò la fronte perplessa: Lucius aveva chiuso la bocca, ma lei aveva sentito lo stesso.

Lo avrebbe tempestato di domande, se gli altri non li avessero raggiunti, fortunatamente senza Adora Shephard alle calcagna.

Appena lo vide, Mariek gli allungò una sonora pacca su una spalla.

– Guardate un po’ chi non ha ancora tirato le cuoia! –

A Regan non sfuggì la fugace smorfia che passò sul viso di Lucius, ma fece finta di niente.

– Hey, ragazzaccio! – interloquì Ember con una gomitata. – Si può sapere che fine avevi fatto? Le ragazze di Kaunes potranno finalmente smettere il lutto. Avevano iniziato a temere che tu ti fossi fatto ammazzare. O, peggio, sposare. –

– E nel secondo caso tua moglie non avrebbe avuto vita lunga. – Anneli rivolse a Lucius un sorriso che non le raggiungeva gli occhi. Lui, invece, ricambiò con calore.

– In ogni caso, entrambe le eventualità mi sembrano alquanto improbabili. –

Combattevano la stessa guerra senza speranza, Lucius e Anneli: lei per avere lui, lui per avere un’altra.

Si spostarono a chiacchierare nella prima osteria che incontrarono e con un boccale di sidro e qualche fetta di pane imburrato davanti le lingue si sciolsero facilmente.

Lucius snocciolò racconti insolitamente scoloriti, dedicandosi più che altro a bere, ma la sala era talmente chiassosa che quasi non si notava la sua mancanza di entusiasmo. Il che era strano, perché la sua arte oratoria in genere sapeva stregare folle intere.

Regan a stento badava alle parole. Ascoltava solo il suono, la cadenza della sua voce, quell’esatto timbro che, in un sussurro, la prima volta le aveva chiesto di resistere. Di non morire.

Non erano passati che pochi mesi, da allora, e già sembravano lunghi anni. Troppe cose erano cambiate, e troppo in fretta, e Regan stava ancora cercando di aggiustare le crepe nella sua sicurezza interiore, anche se, mentre Lucius parlava, aveva la sensazione che alcune non sarebbe mai riuscita a sanarle. Si impose di non pensarci, poiché di pensieri per la testa ne aveva già più che a sufficienza, e si sforzò quindi di partecipare ai discorsi.

Il tempo trascorse così bene che quando Tristan e Arista entrarono a cercarli si stupirono tutti quanti di quanto si fosse fatto tardi.

– Scusate, colpa mia – disse Lucius, alzandosi per andare a salutare entrambi, salutato a sua volta con il medesimo trasporto. Era sempre stato trattato come un figlio dagli Edelberg.

– Dov’è Prince? –

– Ha detto che aveva un impegno a Torresco – rispose Tristan. – Il che significa che abbiamo un posto vacante per il pranzo, Lucius, se vorrai unirti a noi. –

Lui rise.

– Amico mio, il mio appetito è tanto e tale che non fingerò nemmeno di fare complimenti. –

Regan fu contenta di sapere che sarebbe rimasto ancora per un po’. C’erano tante cose che dovevano dirsi e capì che lui pensava la stessa cosa quando, alzandosi, le strizzò

Mentre uscivano – chi per salire in carrozza, chi per raggiungere il proprio cavallo – Anneli si lamentò della maleducazione che aveva mostrato Prince a non avvertire prima che non ci sarebbe stato per il pranzo.

– Almeno avrebbe potuto dirmelo che sarebbe andato a Torresco, avevo dei libri da restituire a Lisandra. –

 

 

Donna Melyor fu così contenta di rivedere Lucius, e tutto intero, che per poco non lo soffocò in un abbraccio di grande trasporto e a tavola lo costrinse a servirsi di una doppia porzione per ciascuna delle sei portate. Non che lui apparisse in alcun modo deperito, ma il buon cibo sembrava essere la risposta di Melyor a qualunque cosa, anche quando non c’era un bel niente a cui rispondere.

Quando anche le ultime briciole del dolce furono spazzolate e Tristan gli ebbe offerto un bicchiere di liquore digestivo, Lucius chiese il permesso di poter fare una passeggiata nei giardini assieme a Regan.

Anneli, che sembrava aver perso la voglia di lasciarsi offendere dalle preferenze manifestate da Lucius, li guardò uscire senza battere ciglio.

Camminarono per un po’ in silenzio, così Regan ebbe modo di osservarlo. Le sembrò di vederlo stanco, un po’ sciupato. Ogni volta che il vento gli soffiava sul viso chiudeva gli occhi e inspirava profondamente, come se da tempo gli mancasse l’aria.

– Non sai quanto sono felice di essere di nuovo a Norden, cerbiattina. –

Non c’era bisogno di chiedergliene il motivo.

– Casa è dove è il cuore, giusto? – mormorò Regan, ricordando quanto lui stesso le aveva detto tempo prima.

Lucius le piaceva, forse in modo più spiccato del dovuto, e per un certo periodo si era quasi illusa di poter avere qualche speranza. Poi aveva conosciuto la vera ragione per la quale lui considerava Norden – e Kauneus, nella fattispecie – la propria casa, e non le era rimasto altro che la rassegnazione.

– Mi dispiace di essere stato così assente ultimamente – riprese lui, ignorando il suo commento. – Ho lavorato gomito a gomito con il Coordinatore Blackthorne per un po’ ed è stato un periodo tutt’altro che gradevole. –

– Gomito a gomito tu e Blackthorne? – fece Regan, scettica. Lo sapevano anche i sassi che quei due non si potevano sopportare l’un l’altro. – E siete entrambi ancora interi? –

– Interi non è esattamente la parola giusta, ma siamo sopravvissuti. Era il solo modo che avessi per indagare senza dare nell’occhio su una questione importante. –

– Parli del furto nella miniera di Cristallo Eterno? –

Lucius aprì la bocca per la sorpresa.

– E tu che ne sai di quel furto? –

– Non molto – replicò lei, soddisfatta di aver attirato la sua attenzione. – Me ne ha accennato Shin. Credevo fosse stato commissionato da qualche banda di Ladri di Anime. –

Lucius la fissò, evidentemente colpito, poi le diede un pizzicotto sul naso.

– Molto bene, cerbiattina, dopotutto non sei svampita come sembri a volte. Ma non credo ci siano dei Ladri di Anime dietro, e non lo crede nemmeno la Lega. I cristalli che usano loro sono molto piccoli e quelli che sono stati trafugati invece erano piuttosto grossi di dimensione. –

– Li vogliono polverizzare e usarli per forgiare delle armi di Vetro Eterno? – ipotizzò lei.

– Ci vogliono artigiani molto esperti per plasmare il Vetro Eterno, maestri di una tecnica che solo pochi eletti posso apprendere. Non puoi andare al mercato e chiedere al Mastro Vetraio. – Parve ragionarci sopra ancora un po’, fino a che, sorridendo, non si riscosse. – Mi stai facendo parlare di cose di cui non dovrei discutere, con te. –

La leggera nota di rimprovero non disturbò affatto Regan. Era abituata ad essere stuzzicata e presa in giro da lui, per cui glissò elegantemente e prese Lucius sottobraccio.

Stavano passando vicino alle serre, all’interno delle quali l’aria rarefatta sfocava i contorni di fiori dai colori fulgidi e grandi foglie smeraldine. C’erano un paio di cesoie appese alla maniglia interna della porta di vetro e, poco lontano, qualche cespuglio di rododendri rosa e viola era stato depredato.

– Insomma, mi vuoi dire la vera ragione della tua miracolosa ricomparsa? –

La primavera conservava qualche sfumatura ghiacciata nell’odore del suo vento placido, che però già parlava di fioriture rigogliose a prati tornati al pieno del loro splendore dopo aver dismesso i severi manti di neve invernali. Il cielo era dello stesso azzurro degli occhi pensosi di Lucius.

– Diciamo che presto ti farò evadere un po’ dalla noia domestica. –

Lei lo guardò con aria interrogativa.

– Te ne parlerò a tempo debito. Per adesso preoccupati del tuo imminente incontro con la società e tutti suoi smorfiosi membri ficcanaso. –

Il solo pensiero faceva venire a Regan la pelle d’oca, ma non si scompose.

– Sono già stata ad altre feste, ricordi? –

– Ma prima eri solo una ragazzina qualsiasi. Ora invece sei Lady Regan Edelberg, figlia di due casate storicamente rivali, senza contare il colore insolito dei tuoi capelli. Fidati di me: sarai letteralmente assediata. –

Lei sbuffò.

– Che notizia magnifica. –

– E non dimenticare che conoscerai i tuoi nonni, la sera del ballo. –

– Cosa? – Regan sgranò gli occhi allarmata. – Così presto? Ma io… –

Lucius la zittì chiudendole la bocca con un dito.

– Rifletti, è la cosa migliore: sarà molto più semplice incontrarli in mezzo a un gran folla piuttosto che in un intimo salotto privato. Potranno parlare con te liberamente e al tempo stesso tutti noi potremo tenerti d’occhio e, all’occorrenza, venirti in aiuto. –

– Se voialtri voleste aiutarmi, mi risparmiereste tutto questo. –

– A te piace stare in compagnia. –

– Come faccio a godere della compagnia di qualcuno se devo fingere di essere una gentildonna mentre sono bardata come un cavallo da parata? –

Lucius scoppiò a ridere. Due leggere fossette apparvero ai lati della sua bocca e i suoi occhi si assottigliarono in due mezzelune scintillanti.

– Paragone efficace, lo devo ammettere! –

– Quelle sono cose per Anneli, non per me – borbottò Regan senza starlo a sentire. Stava per salire i gradini di marmo del gazebo lì accanto, ma lui le afferrò il mento e la fece voltare. Il celeste dei suoi occhi era tutt’uno con il cielo.

– Quanto poco devi conoscere tua cugina per affermare qualcosa del genere? –

La sua voce, un sussurro di insolita serietà, le suscitò un formicolio dietro la nuca. Regan lo maledisse per l’incuranza che costantemente mostrava in gesti e parole che rivolgeva a lei, pieni di tenerezze troppo ambigue per non ferire là dove la speranza lasciava debolezza in uno scudo già fin troppo sottile.

– Ho detto fingere – ribatté, più fredda del necessario, strappandosi a lui. – E non puoi negare che lei sia molto più brava di me a farlo. –

Ma lui non perse la sua leggerezza di spirito. Era difficile farlo arrabbiare, scalfire anche solo di un poco la sua invulnerabile corazza.

– Devi imparare a moderare questa tua causticità, o non troverai mai marito. –

– Non ti ci mettere anche tu, adesso! –

– Comunque tu limitati a comportarti bene e, se farai la brava, ti prometto che ti ricompenserò. –

Regan sedette su uno dei gradini del gazebo e si lasciò studiare per qualche secondo fingendo di non accorgersene. Quando finalmente Lucius guardò altrove, fu lei a studiare lui. Il suo sguardo verso l’orizzonte era distante, proteso verso pensieri a cui lei non avrebbe mai avuto accesso.

– Quindi al ballo ci sarai anche tu? –

– Naturalmente. –

Lei sorrise sarcasticamente fra sé.

Non ne dubitavo.

Si alzò, mossa da un istinto improvviso, si rassettò la gonna e scese i pochi gradini che la separavano dal sentiero.

– Forse è meglio rientrare. Mi devo preparare per il the da zia Persefone. –

Era il rituale di ogni domenica pomeriggio, e se all’inizio Regan aveva temuto che a lungo andare se ne sarebbe annoiata, adesso, con qualche piccolo incentivo, il sorprendente estro della zia le aveva fatto cambiare idea.

Lucius rimase semplicemente incredulo.

– Mi stai dicendo che, tra me e un the, sceglieresti un the? –

Regan, che già si stava avviando nella direzione opposta, si volse indietro con un’espressione perfettamente neutra:

– La cosa ti disturba? –

Non aspettò che Lucius riuscisse a trovare una risposta.

 

 

Lezioni di buone maniere: era questo che la famiglia dava per scontato che lei facesse con Persefone, benché nessuna delle due lo aveva mai dichiarato esplicitamente. Lo avevano semplicemente presunto nel notare i miglioramenti nella postura e nel portamento della nipote.

Lady Persefone Westert era Coordinatore della Terra di Brenner e questo faceva di lei una delle personalità più influenti delle Sette Terre. Regan sognava di diventare come lei, un giorno: bella e indipendente, sicura di sé, con una vita appagante e completa e un marito devoto accanto. Peccato solo che ciascuna voce di quella lista, per il momento, le sembrasse del tutto utopistica.

– Sei distratta. –

La voce musicale di Persefone risuonò nel corridoio fino a perdersi nella sua lunghezza. Regan si abbandonò a un lungo sospiro di frustrazione.

– Mi dispiace. Non so cosa mi prenda. –

Si tamponò la fronte con una manica della camiciola mentre con l’altro braccio riabbassava la spada, quella che un tempo era appartenuta ad Anneli.

Persefone, la cui spada puntava direttamente al cuore della nipote, rilassò la posa e sorrise.

– Penso che per oggi possa bastare. –

Si trovavano in un corridoio di servizio, inutilizzato persino dalla servitù. Ampio e lontano da occhi e orecchie indiscreti, era stato eletto teatro ideale dei loro allenamenti segreti. Uno die tanti motivi per cui Regan adorava la giovane zia era che, a differenza di Tristan, lei capiva i suoi disagi e le sue paure e cercava sempre un modo per farla sentire meglio. In effetti, anche se non poteva dirsi esattamente brava, Regan aveva imparato in fretta a cavarsela con le armi, scoprendosi anche particolarmente portata per l’uso dei pugnali, che maneggiava con molta più confidenza delle spade.

Persefone si complimentava spesso con lei per i suoi progressi e di tanto in tanto insisteva ad allenarla anche all’uso dei suoi poteri, cosa che puntualmente si rivelava un perdita di tempo. Per qualche motivo, a Regan riusciva quasi impossibile entrare in contatto con le proprie forze interiori e capire come manovrarle. Il che era una vera scocciatura, visto che a chiunque altro sembrava riuscire così naturale, ma secondo pareri autorevoli la causa di questa difficoltà veniva dall’altro potere che lei custodiva, così ben sigillato in lei che aveva finito per bloccare anche tutto il resto.

Abbandonarono il corridoio e si trasferirono in una saletta attigua a cambiarsi, poi salirono agli appartamenti privati di Persefone per la merenda. Trovarono già tutto apparecchiato e Yalin, la cameriera personale della zia, le stava aspettando assieme ai bambini.

Hemel era una piccola bambola, rosea e perfetta come la madre, e stava giocando sul soffice tappeto di fronte all’ampia finestra che dava sulla terrazza. Il suo fratellino Shedar, ancora troppo piccolo per prendere parte ai suoi giochi, succhiava un lembo di coperta nella sua culla. Era incredibile quanto fosse cresciuto. Somigliava in tutto e per tutto al padre, tranne che in un particolare: come tutti coloro che avevano sangue Edelberg nelle vene, aveva gli occhi neri come l’ossidiana.

Tutti, tranne me, non poté evitare di pensare Regan, non senza una punta di dispiacere. Era una sciocchezza, ma in qualche modo la faceva sentire come se ci fosse una sottilissima linea che la separava dal resto della famiglia, come se fosse rimasta esclusa da un dono che accomunava tutti gli altri.

Yalin servì il the e, come di consueto, si congedò.

– Sei nervosa per il tuo debutto – osservò Persefone, deponendo nel piattino di Regan un paio di grassi pasticcini glassati di rosa che lei non aveva nessuna voglia di mangiare. – Mandali giù con un po’ di the – la spronò la zia, leggendo senza alcuna difficoltà la sua espressione. – Hai bisogno di energia. E comunque non è il caso di stare in ansia. –

– Non sono in ansia – precisò Regan, punzecchiando con la forchetta la cima di un pasticcino. – Sono arrabbiata. –

– Perché sei arrabbiata? – le chiese Hemel, avvicinatasi per reclamare qualche leccornia.

Un cenno di Persefone accordò a Regan il permesso di porgerle un bignè al limone.

– Perché a nessuno interessa quello che penso io. –

Un’occhiata severa da parte della zia la fece pentire di aver parlato.

– Scusami. Il fatto è che… –

Hemel si avvicinò alla madre e si fece prendere sulle sue ginocchia. Persefone le versò del the e lo raffreddò con un goccio di latte.

– Il fatto è che, anche se in apparenza sei identica ad Aranel, sei una Edelberg: ribelle, cocciuta, orgogliosa, e ben poco incline a piegarti a qualsivoglia tipo di sottomissione. –

Stranamente, non suonava affatto come un rimprovero. C’era anzi un accenno di orgoglio in quelle parole, nell’aria vagamente colpevole che Persefone assunse subito dopo. Forse fu per quello che aggiunse:

– Che tu lo creda o meno, so come ti senti in questo momento, Regan. Non riesci a sentirti te stessa nei panni che sei costretta a vestire. Ti senti soffocare nella tua stessa immagine e vorresti solo cancellare tutto quello che sei e riscriverti daccapo. –

Regan la fissava immobile, gli occhi sgranati. La zia le sorrise mentre accarezzava i capelli della bambina.

– Se vuoi essere quella che senti di essere davvero, dovrai guadagnartene la possibilità. Mio padre mi concesse il permesso di frequentare la Domus Aurea solo perché fin da piccola mi ero impegnata a imparare tutto ciò che una fanciulla di buona famiglia dovrebbe sapere: arte, musica, letteratura, danza, buone maniere… sapevo persino cucire e ricamare, all’epoca, benché ora io abbia perso ogni abilità. – Una breve risata alleggerì i toni del discorso. – Tristan non ti negherà di seguire le tue inclinazioni, entro i limiti della rispettabilità, e se dovesse farlo, ti prometto che metterò in gioco tutta la mia influenza per persuaderlo, ma tu prima devi dimostrargli di essere degna di un tale premio. –

– E se io dovessi morire domani e non avere mai la possibilità di essere come vorrei? –

– Suvvia, che sciocchezza. Nessuno di noi permetterà mai che ti accada qualcosa. –

– Ma quello che sono… –

– Sei una ragazza come tutte le altre e come tale noi tutti ti consideriamo. – Regan non aveva mai sentito la giovane zia così secca e categorica. – Nascondi un segreto e non credere che chi ne è a conoscenza faccia semplicemente finta di niente. Sono convinta che esista un modo per separare la tua essenza da quel nucleo estraneo che risiede in te, ma fino a che non lo avremo scoperto, puoi star certa che nessuno ti dispenserà dall’assolvere i quotidiani doveri di una fanciulla per bene della tua età. –

A quel punto Regan non poté trattenere un minuscolo sorriso rincuorato.

– Quando parli così sei identica allo zio Tristan. –

Non era esattamente un complimento, ma fece comunque sorridere Persefone.

– Il bello di essere la sorella minore è che hai tutto il tempo per apprendere dai fratelli maggiori ogni miglior pregio e ogni peggior difetto. Tristan mi ha insegnato ad affrontare le cose sempre a testa alta, con dignità e orgoglio. Tuo padre, al contrario, mi ha trasmesso il valore della libertà, e probabilmente se non fosse stato per lui ora non sarei dove sono adesso, e sicuramente non altrettanto felice. Ma noto con piacere che a te non mancano né l’orgoglio, né la dignità. –

Regan consumò i suoi pasticcini in silenzio, servendosene un altro paio senza quasi rendersene conto. Quando ebbe posato la sua seconda tazza di the, svuotata fino all’ultima goccia, la zia la stava scrutando pensosa, le mani intrecciate sotto al mento in quel suo tipico modo da ragazzina che la distaccava così tanto dal solenne ruolo di Coordinatore che vestiva in pubblico.

– Che c’è? –

– Pensavo all’Equinozio di Primavera. –

– Non ci stavo pensando da quasi cinque minuti… grazie per avermelo rammentato. –

L’aria assorta di Persefone evaporò per lasciare spazio a un sorrisetto sornione.

– Ho una cosa che cambierà il tuo modo di vedere la serata. Un regalo che sarà il nostro piccolo segreto. –

Si alzò, lasciò che Hemel tornasse ai suoi giochi e scomparve oltre la porta, ritornando poco dopo con una scatola di legno consumato, lunga e piatta, chiusa da un chiavistello annerito. La porse a Regan e la invitò ad aprirla. Lei obbedì e quando ebbe sollevato il coperchio fittamente intarsiato, i suoi occhi brillarono.

Erano daghe. Due daghe gemelle, una nera e una bianca, lunghe quasi quanto un suo avambraccio e adagiate su un drappo di velluto rosso che ne risaltava la bellezza in ogni minimo dettaglio. L’elsa era sottile, fatta di spire avvolte su sé stesse dalla finissima guardia crociata fino al pomolo, su cui erano incastonati due diversi simboli su ciascuna delle due armi: un sole dorato stilizzato ornava infatti la daga bianca, mentre su quella nera risplendeva una falce di luna d’argento.

Regan le prese in mano e le studiò da vicino. Il filo era tagliente come un rasoio e poco ci mancò che saggiandolo non si ferisse un dito.

Non erano semplici lame. Erano due piccole opere d’arte.

– Valo e Varjo – disse Persefone, indicando ora la lama bianca, ora quella nera. – Vetro Eterno forgiato nelle fucine reali di Hazar più di mezzo millennio fa. Le ho avute in dono da mio nonno quando entrai nella Lega. Sono state per me delle compagne infallibili. Ora è tempo che servano una nuova Edelberg. –

Regan non era sicura di aver capito. Era davvero possibile che la zia stesse donando quelle daghe a lei? Si sentiva vergognosamente prossima alla commozione, soprattutto perché non riteneva di meritare un regalo così prezioso.

– Non so cosa dire… sono meravigliose. Ma non riuscirò a portarle con me molto spesso, visti gli abiti che sono costretta a indossare. –

Proprio come se avesse previsto quell’obiezione, Persefone si sporse in avanti e scostò il drappo rosso sul fondo della custodia: da sotto di esso fecero capolino dei lacci di cuoio nero tenuti insieme da piccole borchie metalliche.

– Credi che io giri disarmata solo perché i miei abiti sono un po’ scomodi? –

Regan sollevò interrogativamente lo sguardo e vide che la zia stava sorridendo senza sforzarsi di celare una nota di malizia.

– Ora viene la parte che preferirai. –

 

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