Brave

di Made Again
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Step Out ***
Capitolo 2: *** Paradise lost, paradise found ***
Capitolo 3: *** Shades ***
Capitolo 4: *** As you promised me ***
Capitolo 5: *** Deep in white ***
Capitolo 6: *** All I know is that you can take me there ***
Capitolo 7: *** Just leave me alone with my thoughts ***
Capitolo 8: *** Mirror of your soul ***
Capitolo 9: *** Like a child ***
Capitolo 10: *** Weak ***
Capitolo 11: *** (never ever) Together ***
Capitolo 12: *** Thunderstorm ***
Capitolo 13: *** Living Hell ***
Capitolo 14: *** ... and now? ***
Capitolo 15: *** Stop crying your heart out ***
Capitolo 16: *** Tales from a Misplaced Childhood ***
Capitolo 17: *** Saturday morning call ***
Capitolo 18: *** Hey, Lyla! (I'm the Walrus) ***
Capitolo 19: *** Letter from a place called Freedom ***
Capitolo 20: *** Time to live with it ***
Capitolo 21: *** Untitled Track ***
Capitolo 22: *** Dani California ***
Capitolo 23: *** Falling Down ***



Capitolo 1
*** Step Out ***


Carissimo lettore che ti appresti a leggere questa storia,
desidero fare una breve premessa/introduzione a Brave, onde evitare colpi di scena. Si tratta di una storia principalmente incentrata sulle vite di due gemelli, accompagnata dalla musica del gruppo britannico Marillion.
Spesso i temi spazieranno e ci saranno momenti che potrebbero urtare la sensibilità di coloro che sono più emotivi o attenti a certe tematiche “delicate”. Tengo dunque a precisare che il rating non è arancione a caso.
Ogni capitolo presenterà una canzone che sarà il leit motiv dello stesso e un estratto dal testo del brano con annessa traduzione. So che è una scelta azzardata, ma spero che, se vorrai proseguire con la lettura, potrai apprezzare questa mia decisione.
Ti lascio ora alla lettura.
Cheers.
Made Again.


 



Canzone del capitolo: Hotel Hobbies
 

 
Erano le otto passate di un freddo giovedì 2 gennaio 1990, molto più freddo del normale. Le festività si erano appena concluse e tutto ciò che aleggiava per le strade erano tristezza e delusione generale. La pioggia ticchettava insistentemente sulle finestre del numero 17 di Tayson street e se non fosse stato per lei, l’unico rumore percepibile sarebbe stato il surreale silenzio che avvolgeva l’intera casa. Tutto lasciava pensare che all’interno non vi fosse nessuno se non che dalla finestra del secondo piano usciva un flebile bagliore. L’abat-jour, appoggiata sulla vecchia scrivania di noce, illuminava debolmente una vecchia e consunta edizione de The Lord of the Rings, uno stropicciato quadernetto giallo zafferano e il volto di una ragazza diciassettenne, visibilmente assorta nella lettura: i biondi capelli le ricadevano dolcemente sulle spalle. Erano riccissimi, una massa compatta di stupendi fili d’oro, così belli da sembrare quelli di una bambolina di porcellana. I suoi occhi, verde intenso, si muovevano rapidi, quasi correndo tra le righe. Brillavano mentre leggeva, parevano due smeraldi incastonati in quel viso dalla carnagione candida, delicata. Ogni tanto, interrompeva la lettura per scribacchiare a matita qualcosa sul vecchio quaderno. Il capo si muoveva leggermente, riflesso del piede che teneva il tempo battendo, silenzioso, sul tappeto bianco candido della stanza, seguendo il ritmo della musica che le cuffiette del vecchio walkman le iniettavano dritta nelle vene. Una canzone, eredità della sua infanzia perduta, fungeva da colonna sonora a quelle parole, vergate molto tempo addietro dall’immenso J.R.R. Tolkien.
 
 
“And the only sign of life is the ticking of the pen
Introducing characters to memories like old friends.”

 
“E l’unico segno di vita è il ticchettio di una penna,
Che presenta personaggi ai ricordi come vecchi amici.”

 
Tutto nella minuta figura della ragazza era armonioso, proporzionato, elegante: sembrava davvero una bambola di porcellana. Ma non era fragile. Come poteva esserlo? Quando vedi i tuoi genitori morire sotto ai tuoi occhi e capisci che da quel momento non ci saranno più e dovrai cavartela da sola, diventi una roccia, nel caso di Rachel un diamante, puro e inscalfibile. Ancora faceva fatica a capacitarsi di quello che era successo quella notte di nove anni fa: i discorsi del padre, le risate della madre, la lancetta dei chilometri di poco sopra il limite e quella subdola lastra di ghiaccio sulla strada. Pochi secondi e la loro bella famigliare blu notte era un ammasso informe di rottami accartocciati contro un platano. Ma più ancora non riusciva a capire come sua madre e suo padre fossero morti, mentre lei ed il fratello fossero sopravvissuti. Si sentiva in colpa, sebbene fosse stata una bambina di appena otto anni che di colpe non ne aveva proprio nessuna.
 
La porta della stanza si spalancò all’improvviso con un boato. Il cuore le si fermò per qualche secondo. Levò le cuffiette e si voltò, lentamente, verso la porta.
-Sempre dietro a quel pezzo da museo, sorellina?- chiese Heyden con tono fastidioso. Stette in silenzio per qualche secondo, fissandola con occhi crudeli e divertiti.
-Problemi? Beh, tienteli per te.- Ribattè lei, sulla difensiva.
-Sai, c’è un nonsocchè di patetico in quello che fai.- continuò subdolo. Mentre parlava, sfiorò il volto della sorella con il dito, percorrendole lentamente la guancia.
-Cosa ci trovi di così patetico? Stavo tentando di leggere prima che tu e la tua fottutissima presenza me lo impedissero.-
Heyden abbandonò la guancia della ragazza per scendere lentamente verso il collo. Lei fu scossa da un lungo brivido che le corse rapido lungo la schiena e d’impulso si alzò.
-Che cazzo vuoi?- l’apostrofò con freddezza. Heyden le metteva paura, l’unica cosa al mondo che ancora la spaventasse: odiava il suo contatto, le metteva ansia. Era sempre stato così, fin da bambini. Eppure erano fratelli. E per giunta gemelli. Anche se di gemello avevano solo il sangue e la data di nascita. 11 gennaio. Nient’altro. Heyden era alto, magro, magrissimo. La carnagione era chiara, bianca, quasi pallida. I folti capelli neri gli coprivano leggermente la fronte fino agli occhi color ghiaccio. Ma in quegli occhi gelidi brillava un fuoco indescrivibile. Il suo sguardo era praticamente insostenibile. Rispecchiava quell’odio che provava verso il mondo. Era subdolo, manesco, violento, vendicativo. Alla morte dei genitori aveva eretto un muro tra lui e chiunque altro, diventando una specie di vampiro: si nutriva della sofferenza altrui e trovava un spietato piacere nel provocarla. Eppure lei lo sapeva, non era sempre stato così.
 
Mentre era distratta, Heyden le prese il quaderno scritto a matita appoggiato alla sua sinistra sulla vecchia scrivania ed iniziò a leggere dandole le spalle.
Lei ebbe un sussulto. Nessuno poteva leggere ciò che scriveva su quel piccolo quadernetto giallo dalle pagine stropicciate. Erano affari suoi. I suoi sfoghi, le sue debolezze, le sue gioie vissute da Kayleigh, una ragazza come lei nata nell’East End londinese degli anni ’50.
Heyden invece pareva piuttosto divertito.
 
KAYLEIGH
Non sai cos’è l’East End se non ci vivi. Ho sentito tanti dire sui giornali, sulle riviste di viaggi “ L’East End non è così terribile come si può pensare. Andrebbe valorizzato e promosso. Una perla nella nostra meravigliosa capitale che meriterebbe spazio e rilancio socioculturale.”  Quante stronzate. Io nell’East End ci sono nata e cresciuta e posso giurare sulla regina, non esiste su tutta la Terra un posto tanto fottutamente dimenticato da Dio. La prima cosa che ti augurano quando nasci qui, è di riuscire ad andartene più presto che puoi. Tutti noi lo speriamo.
Mi chiamo Kayleigh e sono nata e morta qui. Dico così perché nascere in un posto del genere equivale ad augurarsi la morte se non hai le palle per lottare. Mio padre, quel fottuto bastardo ubriacone non so di dove fosse. Forse proprio di qui. Grazie a Dio, qualche fottuto tedesco una notte ha pensato di mandarlo all’inferno. Nessuno pianse quel giorno.
Mia madre è di Manchester. Northern Soul. Un’anima ribelle. Nelle mie vene scorrono insieme sangue mancuniano e Cockney. La mia anima non è ribelle, ma selvaggia ed indomabile. Credo non esista al mondo mix più letale di quello che mi scorre nelle vene. Sono viva.
Mia madre è una brava donna. Una donna forte. Ho tanta stima di lei. Lavora con turni da schiava in un laboratorio tessile e scrive qualche articolo per il giornaletto locale. Superfluo dire che la pagano poco e male, ma ci facciamo bastare quel che c’è. Ho una coperta, un tetto sulla testa e almeno un piatto caldo  al giorno. Quel che tutti più o meno hanno qui.
Nel nostro quartiere siamo una grande famiglia.Tra inglesi ci si conosce un po’ tutti. Ci sono un market, una cassetta rossa dove imbucare le lettere, il baretto dove i vecchi ubriaconi passano le loro giornate sonnacchiose a bere un surrogato del whiskey, la scuola che con gran coraggio viene ancora chiamata così e macerie. Macerie ovunque, regalo vecchio di anni ed anni. Un souvenir della Luftwaffe per ricordarci che non siamo altro che mosche il questo paese che è la grande e potente Inghilterra. Parassiti di una delle città più belle al mondo.
Il nostro quartiere  è inglese. Appena accanto abbiamo quello russo. Due isolati a est invece c’è quello dei neri. L’East End è anche questo. Un fottuto mondo i miniatura a nord del Tamigi…
Credo che sarei morta anch’io, se non avessi incontrato Liam… 
 
La ragazza perse le staffe. Fece per aprire la bocca per dirgli quanto facesse fottutamente schifo. Ma Heyden fu più veloce di lei nel parlare.
-Parli di lui?-
Silenzio.
-Cazzo, rispondi! Parli di lui?!-
Heyden afferrò con forza il braccio della sorella e la alzò dalla sedia. Portò il suo viso a pochi millimetri da quello della ragazza. La fissava con gli occhi sgranati. Era fuori di sé.
Lei fu presa da una morsa allo stomaco, come una tenaglia che non la lasciava respirare, le toglieva il fiato, le parole. Non lo aveva mai vasto così. Mai.
Heyden le stingeva sempre di più il braccio, la terrorizzava. Non capiva.
-Mollami. Subito.- gli sibilò all’orecchio.
Heyden per tutta risposta strinse ancora di più. Era assurdo. Ormai la sua mano era viola.
-Ti ho detto mollami!- urlò con quanto fiato aveva in gola. Il grido rimbombò cupo in tutta la casa. Non aveva mai reagito alla violenza del fratello con tanta decisione. Heyden si bloccò. Sul suo volto si dipinse un espressione anomala, stupita, quasi preoccupata. La fissò con un’espressione nuova, che lei non gli aveva mai visto rivolgerle.
Si sentì un rombo, come di qualcuno che saliva le scale correndo.
Pochi secondi dopo la porta si aprì.



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Capitolo 2
*** Paradise lost, paradise found ***


Canzone del capitolo: Waterhole (espresso bongo)


 
Giovedì 2 gennaio 1990
Ore 21.00

Ethan Liam Mac Lean entrò nella stanza, allarmato. La scena che vide lo lasciò pietrificato. Lei sosteneva con fierezza lo sguardo del fratello. Lui invece era perso, vuoto, il fuoco che di solito ardeva aggressivo nei suoi occhi era come indebolito.
 
Rachel Kayleigh Hogarth e Heyden William Hogarth crebbero insieme in una piccola casetta alla periferia di Aylesbury, nel sud est dell’Inghilterra. Alla morte improvvisa e prematura dei genitori dei due gemelli, Connor e Lisa Mac Lean, grandi amici dei genitori di Rachel e Heyden, decisero di risparmiare ai bambini assistenti sociali, orfanatrofi e psicologi, di prenderli con loro e di crescerli insieme al piccolo Ethan, più grande di loro di un anno, nella loro rispettabile villetta nella zona centrale della città. Mentre Heyden prese le distanze dalla famiglia adottiva, Rachel vi si integrò completamente: i tre bambini sapevano di non essere parenti tra loro e di non condividere nessun tipo di legame se non quello di amicizia che legava le loro famiglie, ma Rachel fin da subito aveva considerato Ethan un fratello al pari di Heyden, se non di più. Heyden dal canto suo detestava apertamente Ethan, con quella sua aria di superiorità, i capelli rossi così dannatamente scozzesi, le lentiggini sul volto dalla carnagione di un bianco delicato, gli occhi verdi come quelli della sorella, l’abito sempre impeccabile, i modi raffinati. Era nato con la camicia lui, nella villetta dei genitori che mai gli avevano fatto mancare nulla, soddisfando ogni suo piccolo capriccio. Certo, lui e Rachel non avevano mai sofferto la fame, ma essendo cresciuti nella periferia di una città piuttosto grande godendo della vita per come veniva, erano profondamente diversi dal ragazzo rosso e lentigginoso con cui vivevano ora.
La loro madre, originaria di Manchester (cosa della quale per altro andava fierissima, continuando a ripetere ai figli di andare orgogliosi di avere sangue mancuniano nelle vene, di girare a testa alta per le strade perché erano dei Northern Soul) scriveva per il giornale locale, mentre il padre era un semplice operaio in una ditta tessile. Non possedevano una fortuna, ma il necessario per vivere. Non passavano le domeniche al cinema, nei lunapark o ai concerti insieme ai genitori come il piccolo Ethan, ma seduti sui gradini della loro vecchia casetta a schiera alla periferia di Aylesbury ad ascoltare il padre suonare con la sua chitarra pezzi di gruppi ormai dimenticati mentre loro, rapiti, l’ascoltavano per lunghe ore seduti a gambe incrociate sulla strada. Ethan a loro confronto sembrava un damerino. Perfetto e dozzinale.
Con l’andare del tempo. il rapporto tra Ethan e Rachel era divenuto sempre più speciale fino a che, un anno prima, Ethan le si era dichiarato apertamente. Heyden non l’aveva mai accettato. Non poteva capire come quei due potessero avere qualcosa in comune.
Rachel era una ribelle. Spesso si rifugiava in un universo tutto suo, proprio come il fratello. Vivevano il loro essere orfani in modi differenti, ma il solo fatto di non avere genitori li rendeva una cosa sola, unica ed inscindibile. O almeno così avrebbe dovuto essere. Rachel vestiva in felpa e jeans praticamente tutto l’anno, aveva una passione ereditata dal padre per il rock anni 70/80. Era uno spirito libero, indipendente. La famiglia in cui era cresciuta non aveva temprato quella sua anima selvaggia che condivideva con Heyden. Mentre Ethan era il classico borghese. Forse un po’ inasprito dall’aria del sud, ma mai sarebbe stato come loro.
Heyden li trovava semplicemente patetici. Non avrebbe mai scommesso un centesimo su di loro, eppure resistevano anche dopo un anno.
 
-Cazzo, Hogarth, sei completamente impazzito?- sbottò Ethan, spostando il ciuffo rosso che gli era ricaduto dolcemente sugli occhi.
Heyden non rispose. Continuava a fissare la sorella, gli occhi a specchiarsi nei suoi. Lasciò il braccio di Rachel che, per la sorpresa, cadde a terra con un tonfo che fece tremare i vetri alle finestre.
Ethan si precipitò accanto a lei, fece per sollevarla, ma lei gli scostò infastidita il braccio con un gesto secco. Continuava a fissare il fratello con aria di sfida. Ethan le fu presto accanto, le prese la mano e le poggiò un bacio delicato sulla fronte che la rilassò ed ebbe l’effetto di calmarla. La fierezza svanì dal suo sguardo e rimase in piedi con affianco il proprio ragazzo.
Qualcosa si mosse dentro Heyden. Il suo sguardo si riaccese d’improvviso, un odio orrendo gli ribolliva dentro, saliva prepotentemente, facendosi strada nel suo corpo.
Tutto si svolse rapidamente.
Ethan era accasciato a terra. Si teneva il viso. Il naso sanguinava, gocciolando sul tappeto bianco. Rachel si sentì esplodere.
-Cazzo Heyden hai perso completamente quel fottuto briciolo di ragione che ti resta in quella dannata testa che ti ritrovi?- Gli occhi ridotti a fessure, la voce carica di disprezzo. Sembrava stesse fissando un mostro. Ma se di solito Heyden adorava quello sguardo attonito che lo faceva sentire più forte, stavolta no. Stavolta era diverso. 
Rachel si sentì pervadere da un odio profondo nei confronti del fratello. Aveva sempre sopportato in silenzio tutte le cattiverie che si era divertito a farle, ma stavolta era andato decisamente troppo oltre. Aveva toccato un tasto dal quale avrebbe fatto meglio stare alla larga.
-Heyden, sei sempre stato fottutamente strano, complicato da capire. Da quando sono morti, hai sempre vissuto in una sorta di universo parallelo, lontano da tutto e da tutti. Ti sei sempre isolato dal mondo, sei sempre scappato da qualsiasi tipo di affetto, arrivando lentamente a fuggire anche il mio, io che avevo così tanto da dartene. Ma allora spigami: perché vuoi che nemmeno io venga amata?!-
Per tutta risposta Heyden si girò e uscì sbattendo la porta. Non si smentiva mai. Avrebbe voluto voglia di risponderle, ma non sapeva nemmeno lui di preciso cosa gli era preso. Aveva avuto una reazione a dir poco esagerata, se n'era reso conto anche lui, ma tuttavia non ne conosceva la ragione. Cominciò a pensare.
Perché? Probabilmente la causa era l'odio che aveva sempre provato per Ethan pensò, mentre l’aria gelida della notte e la pioggia gli sferzavano il viso. Era diretto al pub, quello in periferia, quello nel quartiere dov’era nato e cresciuto, quello che aveva sempre guardato da lontano aspettando di essere abbastanza grande per entrarci senza essere preso a calci, quello dove c’era sempre casino, quello dove incontravi sempre qualcuno. Quello dove si esibivano piccole band a rievocare i grandi successi del passato, le grande hit di anni d’oro ormai dimenticati. Band che covavano l’irrealizzabile desiderio di emergere, band senza speranze. Non puoi emergere se nasci in una città come Aylesbury. Una città grande, ma non abbastanza. Una città a suo modo generosa, ma solo con chi vuol lei. Aylesbury, come un’ammaliatrice. Volubile ed incostante. Solo un gruppo era stato graziato dalla Prima donna qual’era quel puntino a nord nel Buckinghamshire. Ed ora, a quanto Heyden ne sapeva, era in America per un tour mondiale, ad inseguire il suo futuro, lontano da quella desolazione qual’era il vecchio impero. Loro. I Marillion.
Entrò nel pub affollato e fumoso facendosi largo tra volti noti, ma a lungo ignorati. I suoi pensieri l’incatenavano. Qualcosa dentro di sé gli diceva che il fastidio che provava nei confronti di Ethan non era la principale ragione della reazione di pochi minuti prima, c’era qualcos’altro che ancora aleggiava indefinito nella sua mente. Doveva distrarsi.
Ammiccando verso Diana, ordinò una Stella Artois che gli venne prontamente servita dalla ragazza con un sorriso. Prese il primo sorso dalla bottiglia.
No, pensò. La colpa non era solo di quell’essere inutile e spocchioso qual’era Ethan. Era troppo insignificante per spingerlo ad esporsi così tanto, a mostrare ciò che aveva dentro. Solo qualcuno con le palle poteva farlo involontariamente arrivare a tanto.
La radio accesa lasciava nell’aria note tormentate, dava sfogo ai suoi interrogativi.
 
 

“Was it paradise lost or paradise found?
Did we gain respect or were we holding ground?”
 
“Era un paradiso perduto o un paradiso ritrovato?
Ci guadagnammo il rispetto o provammo a farcela?"

 
Paradiso. Cos’è? Forse non era mai esistito per lui. O forse l’aveva perduto senza accorgersene.
Il rispetto. Cos’è? Quello di Rachel, mai l’aveva avuto?
 
 

“So when you think it's time to go,
When you think it's time to go,
Don't be surprised, the heroes never show.”

“Quindi quando credi sia ora di andare,
Quando credi sia ora di andare,
Non essere sorpreso, gli eroi non si mostrano mai.”

   
Tormentati quesiti irrisolti come eroi, c’era da impazzire. Heyden sorrise, un sorriso amaro rivolto al bancone. Forse era lui a farsi coinvolgere troppo nella musica, vedendo cose nei testi che in realtà non c’erano. Come il volto del padre riflesso sul vetro della finestra.
Pensieri contorti gli ronzavano nella testa e nemmeno una fottuta birra riusciva a placarli. Si arrese all’evidenza che sarebbe stato inutile restare. Avrebbe solo rischiato di rovinarsi la serata o peggio, di perdere nuovamente la fredda calma per la quale era conosciuto.
Pagò il dovuto ed uscì, chiudendo la giacca alla meno peggio. Il freddo e l’acqua gelida gli scivolavano sotto gli abiti azzannandogli la carne fino ad arrivare alle ossa. Mise tra le labbra una sigaretta, ultimo debole tentativo di placare quell’enorme confusione che gli martellava la mente.
Aloni di fumo bianco e leggero vorticavano nell’aria. Solo un piccolo cerchio incandescente segnava il suo lento incidere nella notte diretto verso “casa”.
Un’idea si faceva strada sempre più nitida e distinta.
La colpa non era di Ethan.
La colpa era di Rachel.
 
 

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Capitolo 3
*** Shades ***


Canzone del capitolo: Emerald Lies




Rachel rimase inchiodata davanti alla porta: gli occhi persi nel vuoto, il pungo sospeso a mezz’aria come un gesto di minaccia ignorato, incapace di muoversi tanta era la sorpresa. Heyden era uno stronzo, questo lo sapeva. Ma che fosse così vigliacco al punto di andarsene così, senza nemmeno una parola era qualcosa che mai avrebbe pensato o immaginato. Davvero penoso. Ma cosa poteva averlo spinto a tanto? Era sempre stato particolare come ragazzo, irascibile e violento. Ma per quanto si sforzasse di ricordare, Rachel non aveva memoria di episodi del genere. Violenza si, ma così gratuita e senza un apparente motivo mai. Heyden poteva anche essere, in quanto ad umanità, il peggior essere vivente dell’intera Inghilterra, ma non era nel suo stile picchiare la gente. Era un atto di debolezza. Ed Heyden non era debole. E poi, cosa cazzo gli aveva fatto Ethan? Non l’aveva mai deriso, mai istigato, mai. Di questo Rachel era sicura, Ethan non era quel tipo di ragazzo. L’aveva sempre fatta sorridere quel bimbo dai capelli color carota che tanto si sentiva in dovere di proteggerla. Da piccola lo chiamava Mr. Rabbit. Lui si imbronciava per gioco e lei rideva ancora di più. Ethan le aveva fatto assaporare la dolcezza e la tenerezza che mai aveva conosciuto nei lunghi anni trascorsi con Heyden dopo la morte dei genitori.
Rachel aveva bisogno di spiegazioni. Doveva sapere perché. Per quanto detestasse quella fottuta testa calda qual’era il fratello, voleva andare fino in fondo questa volta. Troppi interrogativi ristagnavano della sua mente e nel suo cuore. Fece un grande respiro, chiuse gli occhi e afferrò la maniglia, decisa ad andare in fondo alla storia, ma un mugugno indistinto la riportò alla realtà.
 
Si voltò di scatto: Ethan giaceva ancora a terra, immobile, il volto piegato in una smorfia di dolore, il respiro affannoso. Rachel si spaventò: perché non si era ancora alzato? Si inginocchiò accanto a lui, gli mise un braccio sotto il collo e lo sollevò delicatamente scoprendo con orrore che le poche gocce di prima si erano trasformate in un’enorme macchia rosso sangue che si espandeva a vista d’occhio sul tappeto che ormai non sarebbe mai più tornato candido. La vista del sangue l’affascinava, ma non poteva lasciare il ragazzo in quello stato. Che poteva fare?
D’improvviso sentì l’uscio di casa aprirsi: la “zia”, così chiamavano la madre di Ethan, era tornata dal lavoro, ringraziando il cielo.
-Zia Lisa! Ti prego vieni su, corri!-
Lisa, preoccupata dall’anomalo comportamento di Rachel, fece i gradini delle scale quattro a quattro e in pochi secondi irruppe nella stanza da letto della nipote:
-Dio santissimo, Rachel cos’è successo?- chiese quasi urlando alla ragazza.
Ma per quanto volesse parlare e raccontarle tutto, Rachel non vi riusciva. Aveva un miliardo di cose da dirle, ma le parole le morivano in gola, soffocate da un pianto che riuscì a stento a tenere nascosto. Un pianto nervoso, senza un vero motivo. La tensione si era allentata e Rachel trovò quello come l’unico modo per rilassare i nervi. Lisa era pietrificata sulla soglia. Guardò la macchia di sangue sul tappeto, il quaderno della ragazza in terra.
Era a dir poco allarmata. In preda al panico urlò di nuovo:
-Cristo, Rachel, parla! Cosa diavolo è successo qui?- fu la goccia che fece traboccare il vaso. Una lacrima solcò la guancia rosso fuoco di Rachel. Poi un'altra. E un'altra ancora. Le scendevano veloci lungo in viso e cadevano pesanti sul colletto della camicia di Ethan. Un pianto silenzioso che avrebbe preferito tenere per se. Ma non era stata abbastanza forte.
-Smettila di agitarti tanto, tuo figlio non è mica morto.- Una voce ruppe il silenzio irreale che si era venuto a creare nella stanza. Lisa si girò. Due occhi color ghiaccio risplendevano nel buio del corridoio.
-No Hogarth. Ci vuole di più di un pugnetto per mandarmi all’altro mondo.- Ethan parlava a voce bassa, con quanta più sicurezza possibile, ma il suo tono tradiva il dolore che quelle poche parole gli costavano.
-Ne sono cosciente, Mac Lean. M’hai preso per un coglione?- Con un passo, la sagoma di Heyden entrò prepotente nella stanza con fare fiero e soddisfatto. Respirava l’aria tesa a pieni polmoni. Si sentiva appagato, trionfante. E lo fu ancora di più quando la zia si scostò e poté vedere le guance della sorella rigate dal pianto amaro che la stava consumando. Fissò con cattiveria inaudita i suoi occhi verdi smeraldo: avevano perso quel luccichio di poco fa. Erano diventati cupi, vuoti. Erano carichi d’odio e rimorso. Heyden sorrise, perfido.
-Sorellina, tu che vai tanto parlando di correttezza e sincerità, di affetto negato e stronzate varie: ricordati che le promesse vanno mantenute.- Rachel assunse un’aria a metà tra il preoccupato ed il confuso. Rimase visibilmente turbata dalle parole del gemello.
Così dicendo, Heyden si voltò e fece per andarsene, ma Lisa lo afferrò per un braccio.
-Sei impazzito ragazzo mio? Hai perduto la ragione?- disse, fissandolo con disappunto e preoccupazione.
-Sembra che da un po’ di tempo a questa parte mi consideriate tutti pazzo in questa casa. Beh, desolato di deludervi, sono senza dubbio il più lucido in questa stanza al momento.- fece Heyden con tono sarcastico che tradiva volutamente tutto il suo disprezzo, quindi terminò, fissando la sorella:
- Le vostre fottute stronzate mi hanno davvero rotto i coglioni.- Così dicendo, si liberò dalla stretta della zia e se ne andò.

Lisa lasciò cadere le braccia stancamente lungo il corpo. Nonostante Heyden avesse appena picchiato a sangue suo figlio non era riuscita a dire nulla di più se non la cosa più banale e ovvia del mondo, viste le circostanze. Si sentì d’improvviso tremendamente in colpa nei confronti di Ethan. Per quanto si sforzasse non era mai riuscita a imporsi con forza su Heyden. Aveva sempre lasciato correre su tutto, persino su una questione così delicata come quella. Si sentì una fallita.
 
Un forte lamento richiamò Lisa e Rachel alla realtà. Tutte e due guardarono Ethan: quella confusione che si era venuta a creare lo aveva messo in ombra, proprio lui che più di tutti necessitava d’attenzione, ma come spesso succedeva, Heyden lo aveva messo in secondo piano. Heyden riusciva sempre a mettere chiunque in secondo piano.
-Zia…credo che sia meglio portarlo all’ospedale…- disse allora Rachel, nel tentativo di spezzare quell’atmosfera così tesa e carica di amarezza che si era venuta a creare nella stanza.
-Non ne ho bisogno.- Le parole di Ethan erano poco più che un sibilo.
-Hai…hai ragione cara..- disse con tono poco convinto. Continuava a fissare Ethan. Ma si vedeva che in realtà l’unica cosa che stava osservando con tanto interesse in quel momento era il vuoto. Lisa sbattè le palpebre tentando di riacquistare un minimo di lucidità.
-Forza- fece infine –Prendiamolo sotto braccio e portiamolo alla macchina.-
Rachel afferrò con un gesto fulmineo il suo quaderno e una matita dal pavimento, quindi aiutò il proprio ragazzo a reggersi in piedi e a raggiungere la vettura.
 
La radio dell’auto, accesa, era ignorata da tutti i passeggeri. Meno uno. Faceva freddo, pioveva ed era buio.
La frequenza disturbata permetteva soltanto a pochi stralci di una canzone che tuttavia Rachel conosceva bene di giungere chiari alle sue orecchie.

 

“To be the prince of possession in the gallery of contempt,
Suffering your indiscreet discretions and you ask me to relent…”

 
“Essere il principe del possesso nella galleria del disprezzo,
Soffrendo per le tue indiscrete discrezioni e tu mi chiedi di cedere…”


 
Heyden era il suo Prince of possession. Lui, che più di ogni altro al mondo disprezzava. Lui, che più di ogni altro al mondo la faceva soffrire. Lui, che aveva dato inizio a quella serata tormentata a causa della sua fottuta stronzaggine. Lui, che aveva violato il riservato e delicato silenzio della sua Kayleigh. Ma lei non si sarebbe piegata. Lei non avrebbe mai ceduto a Heyden.

 
“Plundering your diaries, I'll steal your thoughts, innocence,
Ravaging your letters, unearth your plots, innocence.
Innocence, innocence, innocence, innocence, innocence, innocence.”
 
“Saccheggiando i tuoi diari, ruberò i tuoi pensieri, innocenza,
Devastando le tue lettere, dissotterro le tue congiure, innocenza.
Innocenza, innocenza, innocenza, innocenza, innocenza, innocenza.”


 
Rachel chiuse gli occhi, immersa nel buio del sedile posteriore. Strinse a sé il suo piccolo quadernetto giallo, la sua Kayleigh. Aveva tanta voglia di spegnere la radio. Di uscire. Di mettersi ad urlare. Erano il gruppo di Heyden.
Loro.
Era come se fosse Heyden stesso a urlarle contro quelle parole con tremenda violenza ed inaudito crudele divertimento, con un sorriso perfido sul volto, mentre lei cadeva rovinosamente a terra. Voleva scappare.
Loro.

 

“In that tortured subtle manner inflict questions within questions,
Looking in shades of green through shades of blue,
I trust you trust in me to mistrust you.”

 
“E in quella torturata sottile maniera infliggere domande su domande,
Guardando sfumature di verde attraverso sfumature blu,
Ho fiducia che tu abbia fiducia che ti tradisca.”

 

L’inquietudine di quel sedile nero l’opprimeva. Davanti a sé vedeva riflessi di lampioni indistinti, le girava la testa. Chiuse gli occhi, ed Heyden era là. A massacrarla di cattiverie, a distruggerla per poi sputarle in faccia, guardando negli occhi disperati di una ragazza in pezzi. Guardando sfumature di verde attraverso sfumature di blu.

 
“And accusations moths that circle on the light,
Char their wings and spiral senseless suicidal flight,
You packed your world within a suitcase, hot tears melt this icy palace,
Dissolve a crystal swallowed by the night,
Looking in shades of green through shades of blue,
Looking in shades of green through shades of blue.”
 
“E le falene accusatrici che girano attorno alla luce,
Bruciano le loro ali in suicidi voli a spirale senza senso,
Riponi il nostro mondo dentro una valigia, lacrime bollenti sciolgono questo palazzo di ghiaccio,
Dissolvono un cristallo inghiottito dalla notte,
Guardando sfumature verdi attraverso sfumature blu,
Guardando sfumature verdi attraverso sfumature blu.”


Lacrime bollenti scioglievano il palazzo di ghiaccio fatto della sicurezza di una ragazza ormai in frantumi, la cui forza svaniva lentamente nel buio malinconico ed opprimente del sedile posteriore, come un cristallo inghiottito dalla notte. Mentre gli occhi crudeli ed accusatori del fratello erano ancora nei suoi.
 
-My dear radio listeners, this was Emerald Lies by Marillion on BBC radio 6 Music.-
Rachel levò il capo. Si asciugò le lacrime con la manica della felpa. Lo sguardo fisso davanti a sé, a guardare quegli occhi color ghiaccio che in realtà non erano presenti che nella sua immaginazione.
-Io non ho mai mentito. E tu non ha alcun potere su di me.-
 
Eccola lì, seduta di nuovo in quella schifosa sala d’attesa con le poltroncine di plastica rossa incise con i taglierini. L’aria era impregnata da un acre odore di disinfettante, lo stesso odore di 9 anni fa.
Rachel si sentiva terribilmente a disagio. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non dover tornare mai più in quel posto. E invece era lì, seduta sulla medesima poltroncina.
Si vide passare di fronte una barella: un uomo insanguinato, privo di conoscenza, era attorniato da quattro medici che continuavano a urlare ad alta voce i battiti cardiaci. Appena dietro, una donna in abito elegante li seguiva per quanto i tacchi a spillo glielo consentissero, tentando inutilmente di aggrapparsi alla barella. Anche lei aveva delle ferite superficiali alla testa e sembrava sul punto di cadere ad ogni passo. Era a pezzi: lacrime calde le solcavano inesorabilmente il viso, facendole colare il trucco, urlava in preda alla disperazione più nera. A Rachel sembrò di rivedere attimo per attimo le scene concitate di quella maledetta notte.
Distolse lo sguardo e tentò invano di tapparsi le orecchie, me le urla della donna erano così forti che fu costretta ad ascoltarle. Le veniva da vomitare.
Appena la barella sparì dietro alla porta insonorizzata tirò un lungo respiro. Si accorse che davanti a lei erano seduti due bambini che apparentemente non dimostravano più d’una decina d’anni e una donna anziana che tentava di non dare a vedere ai piccoli la sua preoccupazione. I due erano seduti sulla stessa poltroncina, visto che era abbastanza larga per permetterglielo. Sorridevano, parlando tra di loro. A volte uno dei due mollava un urletto e scoppiavano insieme in una dolce ed innocente risata. Ma ad un tratto un medico uscì dalla sala di primo soccorso. Le loro risa si interruppero bruscamente. L'anziana donna si alzò di scatto e si avvicinò quasi correndo al medico. Parlarono per secondi che parvero ore, ma ad un certo punto la donna venne presa dalla disperazione e fu costretta ad appoggiare la testa alla spalla del medico, in preda ad un malore. I due bambini guardarono attoniti la scena, si girarono l'uno verso l'altro, si guardarono per qualche secondo negli occhi.
Rachel ebbe un colpo al cuore. Riconobbe nei due bambini lei e suo fratello. Ad un tratto tutto le apparve chiaro: la frase del fratello che l’aveva tanto turbata, il suo comportamento, il suo sguardo, tutto quello che era successo sembrò trovare immediatamente una spiegazione, quasi una giustificazione, sebbene si trattasse di una congettura astratta, quasi assurda, praticamente senza senso. Eppure lei sapeva che era così.
Rachel portò le mani al volto e vi ci si abbandonò.

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Capitolo 4
*** As you promised me ***


Canzone del capitolo: Incubus



3 dicembre 1981
21.34

-Rachel, guardami.-
-Heyden, non ora. Ti prego. Lasciami in pace.-
-Rachel, t’ho detto di guardarmi.-
-E vabbene, cosa vuoi?-
-Devi promettermi che qualsiasi cosa succeda nulla potrà mai separarci, nessuno potrà mai mettersi tra te e me.-
Rachel fissava Heyden con i grandi occhioni verdi lucidi di lacrime, le guance rosse per l’agitazione e le manine chiuse in due pugnetti, infilate tra le gambe. Lo guardava stranita, troppo stanca e spaventata per capirci qualcosa.
-Promettimelo Rachel. Devi promettermelo.-
-Te lo prometto Heyden.-
 
Heyden era serio, ma non come quando la mamma lo sgridava, più serio, come se la questione avesse per lui un’importanza speciale, una priorità particolare su qualunque altra cosa, persino sul destino dei propri genitori. Pareva diverso. In realtà la cosa all’inizio non colpì particolarmente Rachel. Suo fratello era sempre stato un bambino diverso dagli altri, difficile da capire, da avvicinare: soltanto lei, sebbene non si sopportassero, aveva questo privilegio. Sembrava quasi più maturo dei suoi compagni, cosa che persino la maestra si era presa il disturbo di far notare ai suoi genitori all’ultimo colloquio, benché i suoi voti fossero ben al di sotto della media della classe. I suoi occhi, mentre parlava, erano freddi, distaccati, ma al contempo brillavano di una luce che Rachel non aveva mai visto prima di allora. Parlava in modo strano. Rachel arrivò quasi al punto di preoccuparsi del peso che quelle parole avrebbero potuto avere nella sua vita. Ma era una bambina di appena otto anni che si trovava nella sala d’attesa di un freddo prontosoccorso senza sapere se sarebbe mai più tornata a casa con sua madre e suo padre. Aveva ben altro a cui pensare in quella notte. Ma non adesso.
A distanza di 9 anni, quelle parole le ronzavano fastidiose nella testa. Le si aggrovigliavano nella mente, non riusciva a venirci a capo, si sentiva strana. Ma perché Heyden quella notte di nove anni fa si era preso il disturbo di farle giurare una cosa talmente naturale? Erano gemelli, era ovvio che nessuno si sarebbe mai potuto frapporre tra loro. Nemmeno se un giorno si fossero sposati e avessero avuto dei figli si sarebbero separati.
 
“I legami di sangue, per quanto possiamo odiarlo, restano per sempre e niente li può rompere.”
 
Nonna Abe era una donna saggia e nel corso della sua lunga vita aveva dispensato molti consigli, ma questa frase era rimasta particolarmente impressa a quella bimba sveglia qual’era stata Rachel.
Ma Heyden di questo non era evidentemente sicuro, sebbene fosse stato soltanto un bambino. Molti anni erano passati da allora, ma il mistero che girava attorno a quelle parole era rimasto lo stesso di parecchi anni prima. Lo aveva dimenticato, sepolto dentro di sé non ritenendolo importante. Ma evidentemente lo stesso non valeva per Heyden.
 
Heyden era sdraiato sul letto, immobile, completamente al buio, gli occhi sbarrati. Si sentiva bene. Nessun senso di colpa, nessun ripensamento, nessun rimpianto. Nulla. Ma infondo non era da lui. Non si abbassava mai a chiedere scusa, nemmeno quando aveva evidentemente torto, cosa che però succedeva di rado. Si sa, non c’è mai una buona giustificazione alla violenza, di qualsiasi tipo, ma Heyden aveva il potere di farti ricredere su qualsiasi cosa: sapeva rigirarti come un calzino, aveva l’innato dono di manipolare le persone. Tutto in poche frasi. Lo sguardo era la sua arma vincente e Rachel lo sapeva bene, per questo non alzava mai il capo quando gli parlava.
Si girò su un lato: la sveglia segnava le 21.30. Osservò il comodino. Vicino all’abat-jour una foto: erano lui, sua madre, suo padre e sua sorella. Erano seduti tutti nella loro vecchia cucina nella casa di periferia. Ricordava bene quella foto: Cara, la cugina più grande di Rachel e Heyden aveva appena ricevuto in regalo il prezioso apparecchio dal padre di ritorno da un viaggio d’affari conclusosi per il meglio. Heyden ricordava che consumò il rullino in pochi minuti, tanta era la sua euforia. Nella foto Rachel sorrideva felice, era raggiante stretta tra le braccia di mamma che la teneva stretta, mentre lei stava beatamente seduta sul tavolo. Il padre, appoggiato allo stipite dell’uscio, guardava un punto indistinto all’esterno dell’abitazione. Lui invece era in un angolo, l’espressione distaccata, profonda. Aveva spesso quell’espressione che faceva gelare il sangue nelle vene alla sorella, per questo sul comodino di Rachel quella foto non c’era.
Rachel ne teneva un’altra, scattata “nella scatola del click”, come la chiamava lei nella sua innocenza. In quella erano più piccoli e si trovavano alle giostre, dato che una volta l’anno il Luna Park si fermava ad Aylesbury per una settimana, per la gioia dei bambini. Tra le attrazioni del Luna Park infatti, vi era una delle prime cabine fotografiche dell’epoca dove, per pochi penny, potevi immortalare il sorriso d’un infanzia perduta. Amava quella foto: la mamma e il papà erano sorridenti e la stringevano forte a sé. Ma in quella foto Heyden non c’era, per questo Rachel l’aveva scelta.
Heyden guardò con occhi cupi la foto. Sua madre rassomigliava davvero molto alla figlia: gli stessi occhi, gli stessi lineamenti, lo stesso sorriso. Quel sorriso.
Heyden, in uno scatto d’ira come spesso gliene capitavano, centrò la foto con il palmo della mano con una forza inaudita. Essa colpì violentemente il muro e il vetro andò in mille pezzi. Si sentì improvvisamente calmo, rilassato. Il rumore dei vetri che si rompevano gli iniettarono dritto nelle vene un senso di pace e tranquillità mai provato prima. Si rigirò, gli occhi di nuovo a fissare vitrei il soffitto buio della stanza. Allungò la mano verso il comodino e prese in mano il walkman, regalo per il compleanno dell’anno prima. Reinserì la musicassetta, infilò gli auricolari e premette il tasto play. Chiuse gli occhi e si pose all’ascolto di Fugazi. Quella faceva parte della grande gamma di musicassette che il padre gli aveva involontariamente lasciato e sulle quali si era poggiata fino ad allora la vita e la sopravvivenza di Heyden in quel mondo stretto che non sentiva suo. Erano state la sua ancora di salvezza: Genesis, Pink Floyd, Led Zeppelin, Stone Roses, Dire Straits. L’avevano aiutato tanto, ma mai quanto quel fottuto, coraggioso e pazzo gruppetto di Aylesbury nato troppo tardi, quando già il punk aveva prepotentemente invaso il panorama musicale, spazzando via uno ad uno tutti coloro che aggrappati al passato tentavano di non far perire il progressive sotto quelle note graffianti e quei ritmi incazzati di cui Sex Pistols e Ramones si erano fatti portavoce.
Le note di Incubus gli riempirono piano le orecchie. Non l’aveva scelta, era semplicemente capitata. E lui di certo non l’aveva cercata. Prese a respirare più lentamente, tentando di non dar peso alle parole.

 

“The face that launched a thousand frames,
Betrayed by a porcelain tear, a stained career.”

“Il volto che ha dato vita a migliaia d'immagini,
Tradito da una lacrima di porcellana, una carriera macchiata.”


Il volto della sorella, quel volto, così tremendo e maledetto, quella sera aveva tradito la sua umanità. Quella ragazza bionda, così tosta, in realtà era crollata davanti a lui. Come tutti. Lei come tutti.

 
“You played this scene before, you played this scene before.
I the mote in your eye, I the mote in your eye,
A misplaced reaction.”

 

“Hai già recitato questa scena in passato, hai già recitato questa scena in passato.
Io sono il tuo granello di polvere nell'occhio, io sono il tuo granello di polvere nell'occhio.
Una reazione al momento sbagliato.”


Heyden sentiva caldo. Si alzò e si avvicinò alla finestra. Aprendola, sentì una ventata di aria fredda ed umida scuoterlo e scompigliargli i capelli neri come l’ebano, come il carbone ormai freddo. Tornando verso il letto, afferrò il suo pacchetto di Lucky Strike, ormai praticamente vuoto, e ne accese una mentre, stanco, si lasciava andare sul letto, inspirando lentamente e lasciando che il fumo uscendo producesse lente ed indistinte spirali attorno a lui. La cenere cadeva lentamente sul pavimento di legno massello mentre il pacchetto si svuotava. Ma anche una volta finita l’ultima inutile ma appagante sigaretta, sentiva che non era bastata a calmarlo.
 

“The darkroom unleashes imagination in pornographic images,
In which you will always be the star, always be the star:
Untouchable, unapproachable, constant in the darkness,
Nursing an erection, a misplaced reaction.”

 
“La camera oscura scatena l'immaginazione in immagini pornografiche,
In cui tu sarai sempre la star, sarai sempre la star:
Intoccabile, inavvicinabile, immutabile nel buio,
Cullando un'erezione, una reazione al momento sbagliato.”


Affondò la testa nel cuscino, tentando di calmare il respiro. Ma nel nero del suo silenzio, Rachel appariva come un’ombra silenziosa. Non sorrideva. Era seria, il suo sguardo era tremendo, l’espressione dura e splendente. Heyden strinse il cuscino fino a sentire le nocche gridare protesta. Aprì gli occhi e Rachel scomparì. Respirò profondamente. Era stato un errore permettere a quella canzone di fare il suo corso. Fece per spegnere l’apparecchio, ma un colpo accidentale del palmo lo fece scivolare sul pavimento, fuori dalla sua portata. Si alzò, affannato, piegandosi sul pavimento per raccoglierlo. E la musica continuava. Sul punto di premere il quadratino di stop, si bloccò. La dolce e leggera melodia del piano gli invase le orecchie, una dose di tranquillante dritta nelle vene, il respiro più calmo, il petto più leggero, senza più quel peso. L'assolo di chitarra subentrò silenzioso dietro al piano, invadendogli mente e corpo. Meglio di una Lucky Strike. Meglio di qualsiasi cosa avesse mai provato. I lineamenti del suo volto tornarono ad essere rilassati, ma decisi. Lo sguardo di nuovo presente e serio. Intanto, gli ultimi versi della canzone si facevano pigramente spazio tra le note.

 
“But now I'm the snake in the grass, the ghost of film reels past.
I'm the producer of your nightmare and the performance has just begun.”

 
“Ma adesso sono il serpente nell'erba, il fantasma delle pizze di un vecchio film.
Sono il produttore dei tuoi incubi, e lo spettacolo è appena incominciato.”


Nella stanza si potevano distinguere solo una magra figura maschile in piedi di fianco al letto e un paio di stupendi occhi color ghiaccio che brillavano nel buio, atteggiati in un’espressione di crudele soddisfazione. Ma i respiri del ragazzo erano tornati a farsi brevi ed irregolari, come se stesse cercando di controllarli senza successo.
Afferrò la sveglia che si trovava sul comodino e la rigirò qualche minuto in mano. Poi, rapido come un fulmine, la scagliò contro il muro. Andò in mille pezzi, così come l’abat-jour. Vetri trasparenti tintinnavano sul pavimento andando a cadere su quelli della foto precedentemente distrutta.
-Ora sono il serpente, Rachel. Sono il produttore dei tuoi incubi. E lo spettacolo è appena incominciato.-

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Capitolo 5
*** Deep in white ***


Canzone del capitolo: Holloway Girl



La testa della zia sbucò da dietro la porta insonorizzata. Le fece segno di seguirla.
Dietro alla porta bianca che divideva la silenziosa sala d’attesa dal resto della struttura, il caos regnava sovrano. Pianti, urla concitate, strepiti, rumore di barelle, medici ed infermiere che correvano di qua e di là come trottole.
Lisa afferrò con forza il braccio di Rachel, che intanto si era incantata a guardare quell’inferno in terra e la tirò con un secco strattone in una stanza dalle pareti bianche. Ethan era disteso su di un letto bianco, avvolto in ruvide lenzuola bianche. Una benda bianca fasciava il naso del ragazzo. Anche Rachel vedeva bianco. Ma non per via del colore che dominava quella fredda stanza d'ospedale.
-Cara, che c’è? Non ti senti bene?- chiese Lisa risvegliando la ragazza da quello stato di trans in cui era caduta.
-No zia, sto bene.- affermò la ragazza, seppur con voce leggermente tremante e senza troppa convinzione. No che non stava bene. Non stava bene per nulla. Troppe cose le affollavano la testa, la sentiva pesante, le gambe non la reggevano, l’odore di disinfettante le stava pian piano facendo perdere i sensi. Si sentiva stranamente debole, svuotata. Avrebbe soltanto voluto scappare, lontano…
La zia le diede un colpetto, tentando di farla avvicinare al letto del ragazzo che stava lì, immobile con gli occhi socchiusi. Rachel, colta di sorpresa, incespicò leggermente, ma riprese subito l’equilibrio. Fece qualche passo in avanti e si accostò al letto.
Lisa uscì dalla stanza e socchiuse la porta.
Rachel si sedette sul letto e prese a fissare il ragazzo addormentato.
-E’ proprio un bel ragazzo.- pensò tra sé e sé. -Gentile, leale, disponibile, il mio ragazzo e il migliore amico. A lui posso dire tutto. E mi capirà sempre. E’ bello sapere di non essere sola.-
Ma di ciò che accadeva nella sua testa mai gli rivelò nulla.
Proprio in quel momento Ethan aprì gli occhi e trovò l’angelico volto a fissarlo. Un sorriso si dipinse sul suo viso stanco e fasciato.
-Non ti avevo sentita entrare.- fece con tono sereno, rivolto a Rachel.
-Non volevo svegliarti, stavi dormendo come un bambino.- replicò lei con dolcezza, guardandolo come se stesse davvero ammirando un bimbo. Si piegò sul letto e gli posò lieve un bacio sulla fronte.
-Sei bellissima quando mi guardi così.- continuò lui sottovoce. La sua mano si posò lieve su quella della ragazza. –Sai che ti amo, vero?-
-Certo che lo so. Scusami ancora per quel fottuto coglione di mio fratello. Non sai quanto mi dispiace, mi sento così terribilmente in colpa.-
-Non devi. In fondo non sei mica la sua balia. Non hai nulla di cui scusarti. Non sei mica come lui.-
Rachel rimase leggermente infastidita da quelle parole. –Certo che lo sono. E’ pur sempre mio fratello.-
-Ma siete diversi, Rachel. Guardati. Non puoi paragonarti a lui. Non sembrate nemmeno gemelli.-
-Io sono come lui. Il mio sangue è il suo.-
Ethan decise di essere conciliante. –Si, dopotutto hai ragione.-
Lisa rientrò assieme ad un medico: era vestito di un lungo camice bianco e zoccoli igienici bianchi. Anche capelli e baffi erano bianchi. Tutto quel bianco la soffocava, ma Lisa sembrò per una volta arrivarle in soccorso.
-Puoi uscire per un po’ cara? Avremmo bisogno di discutere con il dottore.-
-Senza alcun problema, zia.- Rachel si alzò, posò un altro bacio sulle labbra di Ethan e mormorando buonanotte, uscì dalla stanza.
 
Si ritrovò di nuovo nella sala d’attesa dalle poltroncine di plastica rossa incise con i taglierini. Non avendo altro da fare, estrasse dalla tasca grande della felpa il suo quadernetto giallo e la matita.
 
“Jeremiah fu come un padre per me. Fu lui a salvare me e mia madre dalla strada. Con la morte di quel fottuto ubriacone di mio padre, i magri profitti del debole e precario lavoro di mia madre divennero insufficienti, dato che l’esercito britannico non era più tenuto a versarci nemmeno un cent. Io ero appena una bambina. Jeremiah giunse in nostro soccorso. Era il direttore dell’azienda tessile per la quale mia madre lavorava. Venuto a sapere delle gravi difficoltà che ci ritrovavamo ad affrontare, ci prestò aiuto economico senza pretese di risarcimento in denaro. Ciò che chiese fu la mano di mia madre. Per una donna sola, vedova, madre di una figlia ancora piccola, era un’occasione da non perdere. E mia madre, che scrupoli sentimentali proprio non ne aveva, accettò immediatamente. “Meglio essere fottuta senza amore che vedere me e mia figlia morire di fame.” Un ragionamento moralmente orrendo, ma scontato per una donna madre e vedova dei primi anni cinquanta che tentava di sopravvivere nell’East End ancora ridotto in macerie.
Due anni dopo il loro matrimonio, la mia vita divenne un inferno. Avevo 10 anni. Mia madre rimase incinta. Inutile descrivere quanto Jeremiah fosse felice. Aveva me, chiaro. Ma un figlio tutto suo. Magari un maschio! Che gioia incommensurabile. Ridusse i turni di mia madre fino a farla restare completamente a casa, distesa sul letto. Io quel fratello non lo vedevo nemmeno come mio. Quindi né lo disprezzavo, né lo volevo. Era solo un’altra anima che veniva al mondo. Non m’interessava. E mai lo vidi.
Mia madre ebbe un aborto spontaneo arrivata al terzo mese. Soffrì così tanto che temetti realmente la sua morte. A Jeremiah invece, la cosa non interessò minimamente. Si rinchiuse nel suo immenso dolore per la perdita del figlio mai conosciuto che però nella sua mente già aveva un nome ed un’identità. Aveva già un futuro, brillante e luminoso. Che figlio sarebbe stato quel fagiolo senza nome!
Una volta accettata la sua morte e sciolto il dolore, tutto ciò che rimase fu gran rabbia e rancore nei confronti di mia madre… e miei.
La picchiava. Lo fa tutt’ora. Questo non è un segreto per nessuno.
Mi violentava. Lo fa tutt’ora. Questo, invece, è un segreto che deve rimanere per sempre tale.”

Lisa rientrò nella sala d’attesa con aria stanca e lievemente preoccupata. Il figlio sarebbe rimasto lì in osservazione per la notte: il pugno ricevuto non aveva di certo migliorato la condizione della sua strana forma asmatica, ragione per la quale il medico aveva ritenuto opportuno trattenerlo per la notte. Risalirono in auto e sfrecciarono veloci per le strade deserte di Aylesbury.
Rachel era ricaduta nel suo universo bianco: all’improvviso tutto si fece cupo ed indistinto ai suoi occhi. Ma era al sicuro, sul sedile anteriore. Si voltò: l’angolo buio ed angoscioso del sedile posteriore sinistro era ancora là, la prigione dei suo pensieri, carcere delle sue paure con cui lei condivideva la stanza: l’oscurità, maledetta nemica. La teneva prigioniera. 

 

“One day, Freedom will unlock your door,
So hold on, believe on,
Be who you were before,
In deepest darkness,
the faintest light looks bright,
So hold on, hold on,
It's gonna be all right.”

“Un giorno, la Libertà aprirà la tua porta,
Non arrenderti, continua a credere,
Sii quella che eri un tempo,
Nella più assoluta oscurità ,
Anche la luce più fievole sembra risplendere,
Perciò non arrenderti, resisti,
Andrà tutto bene.”

 
Nella sua semi-incoscienza si ritrovò a mormorare:
-Don’t be afraid, cause one day Freedom will set us free and Darkness won’t be able to hurt us again.-
 
Chiuse gli occhi.
 
Quando li riaprì, altri due occhi color ghiaccio la stavano fissando, morbosi.





Miei carissimi lettori,
innanzitutto grazie a tutti voi che ogni volta vi ritrovate a leggere questa mia Fiction. Mi riempite di orgolio e soddisfazione. Tuttavia, vi scrivo per scusarmi: per quanto ci abbia provato, l'abbia letto e riletto, questo capitolo purtroppo non mi convince. Mi scuso quindi se con questo mio nuovo frammento, abbasserò lo standard e probabilmente deluderò qualcuno.
Vi prego, recensite e fatemi notare le mie carenze. Sono alla costante ricerca di migliorare ed un mio miglioramento non può che partire dai vostri pareri.
Grazie ancora a tutti voi.
MadCat

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Capitolo 6
*** All I know is that you can take me there ***


Canzone del capitolo: After me



Rachel richiuse gli occhi lentamente. Di nuovo nero. Tirò un lungo respiro e poi li riaprì. Ma i due cristalli di ghiaccio, così belli da risultare ipnotici, erano sempre lì. Capì che era tutto vero quando, con un movimento impercettibile, si chiusero e si riaprirono. Erano vitrei, inespressivi, vuoti, come se stessero fissando un punto indefinito nel profondo dei suoi occhi verde smeraldo. Sentì un brivido correrle lungo la schiena e li chiuse di nuovo, lentamente: quello sguardo apparentemente assente in realtà stava penetrando profondamente in lei. Aveva  paura, paura che Heyden potesse scovare nel profondo dei suoi occhi cose che lei aveva da sempre gelosamente cercato di custodire e nascondere. Avvolta dall’oscurità cercò di capire dove si trovava: era distesa, probabilmente su di un letto. Sentì in lontananza la pendola in salotto suonare e capì di trovarsi in camera del fratello. Come ci fosse arrivata era un mistero per lei.
Girò la testa di lato e riaprì gli occhi: stando ai rintocchi della pendola avrebbero dovuto essere circa le undici e mezza passate, ma non ebbe modo di confermare i suoi presentimenti perché la sveglia non era al suo solito posto. Il comodino era maledettamente vuoto: mancavano non solo la sveglia, ma anche la foto di famiglia e l’abat-jour. Faceva fatica a vedere con quel buio, quindi aspettò qualche secondo per riuscire a mettere a fuoco meglio. Mentre la vista si adattava all’oscurità notò che il comodino non era completamente vuoto: una piccola scheggia di vetro affilato, lunga qualche centimetro, era abbandonata in un angolo del comodino. Sembrava sporca e in torno ad essa c’era una piccola  macchia, ma Rachel non capì di che cosa si trattasse. Rigirò la testa sperando di poter tornare a fissare il soffitto buio della stanza, ma gli occhi glaciali del fratello erano ancora lì, immobili. Non riusciva a reggere quello sguardo impenetrabile, quindi fece per alzarsi, ma non vi riuscì: le scheletriche e sorprendentemente forti mani del fratello la tenevano inchiodata al letto per i polsi. Tentò allora di muovere le gambe, ma non fu che un altro fallimento. Non erano immobilizzate da chissà quale strumento di tortura, ma dal panico che le stava nascendo in petto espandendosi rapidamente in tutto il corpo. Decisa a non perdere la calma che almeno apparentemente sembrava conservare, concentrò l’attenzione sui polsi per tentare di liberarsi da quelle tenaglie. Poteva sentire le ossa delle dita stringerle i polsi con violenza e questo contribuì ad aumentare visibilmente il senso di angoscia che le stritolava il cuore in una morsa tremenda. Ma la sua pelle percepì anche qualcos’altro. Girò la testa di lato. Qualcosa di caldo e denso le stava correndo lungo la guancia, formando una chiazza scura sul lenzuolo. Sbarrò gli occhi. Fissò raccapricciata la scheggia di vetro sul comodino.
-Perché cazzo l’hai fatto?- La voce le uscì sorprendentemente calma. Subito dopo percepì un forte bruciore alla parte destra del volto. Una lacrima scura le rigò la guancia destra, mescolandosi al sangue. Rachel la sentiva scenderle prima lungo il viso, poi sul collo.
Heyden avvicinò il suo viso a quello della sorella, ma non disse nulla. Rachel chiuse gli occhi. Il cuore le martellava nel petto, ma lei era calma. Sorprendentemente calma.
Il contatto della lingua di Heyden con la guancia di Rachel fu delicato, quasi dolce. Lentamente, il ragazzo risalì il taglio che segnava la faccia della sorella, poi sollevò il capo. Rachel aprì gli occhi e quelli del fratello erano ancora nei suoi. Lentamente, Heyden si sedette sul letto, la potenza della sua morsa si affievolì, liberando il polso destro della ragazza. Il suo viso sembrò avere un piccolo sussulto. Approfittò di quel momento di distrazione da parte del fratello per liberarsi anche l’altro polso, scoprendo che anche quello era grondante di quel denso liquido caldo e purpureo, sebbene si rese subito conto con sollievo misto a preoccupazione, che non si trattasse del suo. Sedette anch’ella sul letto, al fianco di Heyden. Incrociò le gambe sul materasso e gli afferrò la mano sinistra: un solco gli segnava il pallido palmo, disegnando una diagonale che partiva dal mignolo e arrivava quasi fino al polso. Dal taglio usciva un liquido violaceo, caldo e denso.
Rialzò gli occhi e si ritrovò a specchiarsi in quelli del gemello.
 
 
“There's a line on her jeans that a ball-point made,
From a careless mistake that she can't wash away,
And there's a heart on her sleeve from a spill of red wine ,
There's a piece of green in the blue of her eyes,
She named it after me.”

 
“C’è un segno sui suoi jeans fatto con una penna a sfera,
Frutto di un errore che non può lavar via,
C’è un cuore sulla sua manica derivato da una goccia di vino rosso versata,
C’è un pezzo di verde nel blu dei suoi occhi,
Lo ha chiamato col mio nome.”
 
 
Heyden cantava a bassa voce quelle parole che a Rachel parvero così strane eppure così perfette in quella circostanza, la melodia ridotta ad un flebile mormorio.
-C’è un pezzo di verde nel blu dei suoi occhi.- Le parole di Rachel poco più di un sussurro.
-Gli ho dato il tuo nome.- Heyden continuava a scavarle dentro con quello sguardo quasi ipnotico.
D’impulso, Rachel prese delicatamente la mano di Heyden e se la portò alla guancia. Poi, con dolcezza, se la premette sul taglio dal quale continuava ad uscire un liquido violaceo, caldo e denso, lo stesso del gemello. Il sangue dei ragazzi si mescolò, mentre i loro occhi continuavano a vivere in quelli dell’altro. La mano destra del ragazzo scivolò lentamente dietro l’esile corpo di Rachel e lo strinse forte. I volti si avvicinavano sempre più.
Ma una mano si interpose tra loro.
 
Heyden aveva gli occhi della sorella a pochi centimetri dal viso. Lo fissavano seri. Tremendi e meravigliosi. Nel suo sguardo sembrò cogliere delle scuse, forse a lui, forse a se stessa. Una lacrima scese silenziosa sul viso di Rachel, non un singhiozzo, non un tremito. Era una lacrima amara, piena di rimorso. Era lì, pietrificata, la mano sulla bocca del ragazzo. Si odiava per quello che aveva fatto. Forse per esserci caduta. Forse per aver fermato l’ingranaggio delicato che avevano innescato. Sentiva che non avrebbe retto ancora a lungo, quindi si liberò rapidamente dalla stretta del fratello e si rizzò in piedi in mezzo alla stanza buia. Heyden era ancora lì, immobile, gli occhi perennemente su di lei. Rachel avvertiva il suo sguardo indecifrabile perforarle la schiena e sentì improvvisamente le forze venirle meno. Si alzò e si diresse verso la finestra. Sentiva che le mancava l’aria, così aprì le imposte e lasciò che il chiarore della luna che si era pian piano fatta strada tra le nuvole ed il freddo vento invernale inondassero la stanza.

Si sentiva già meglio, pronta ad affrontare il fratello. Si voltò verso di lui, la sua ombra nera proiettata dalla luna si allungava lungo la parete di fronte a lei.
-Mi devi delle spiegazioni.-
-Non ti devo proprio un cazzo.-
-Ascoltami, fottutissimo bastardo che non sei altro. Neanche tre ore fa hai picchiato a sangue il mio ragazzo. Voglio sapere cosa t’è passato per quella testa di cazzo che ti ritrovi. Voglio sapere il perché di tutta questa cattiveria e più di tutto ora…- gli occhi di Rachel saettarono rabbiosi sulla mano insanguinata del fratello, poi sul comodino. Alzò un indice e si indicò la guancia destra. -… voglio sapere il perché di questo.-
Heyden s’alzò in piedi e si diresse verso la finestra. Superata la sorella, prese dal cassetto della scrivania un nuovo pacchetto di Lucky Strike e ne accese una mentre si sedeva sul davanzale, una gamba piegata, l’altra lasciata libera di penzolare verso l’interno della stanza, la schiena appoggiata allo spigolo del muro. La gelida brezza della notte gli scompigliava i capelli, mentre lui guardava fuori, verso un punto indefinito nel buio.
Tolse la sigaretta dalle labbra.
 
 
“So if you ever decide that you have to escape,
And travel the world, and you can't find a place,
Well, you could wind up believing,
That paradise is nothing more than a feeling,
That goes on in your mind.
So if ever find out what that is,
There's something you could do...”

 
“Così se un giorno deciderai di scappare,
E viaggerai per il mondo senza riuscire a trovare un posto,
Bene, tu potrai fermarti credendo,
Che il Paradiso non sia nulla più di un sentimento,
Che attraversa la tua mente.
Così se un giorno scoprirai cos’è,
C’è qualcosa che potrai fare...”

-Perché tutto deve sempre avere un perché?- La voce di Heyden giunse a Rachel distante e fredda dopo quelle morbide parole cantate a fil di voce nella notte, portata dal vento. Questa domanda la colse impreparata. Rimase interdetta.
-Nella tua vita tutto deve sempre avere un perché, una logica spiegazione o un buon motivo per essere fatto. Perché non puoi semplicemente scegliere di lasciare che il tuo corpo agisca, libero dalla mente e dai suoi vincoli? Anche se fosse sbagliato, anche se per una volta non fosse scontato o logico.- Si voltò verso di lei: la luna gli illuminava il volto serio, faceva brillare gli occhi chiari nel buio. Le afferrò un polso e la avvicinò a sé. I visi a pochi centimetri. Rachel poteva avvertire il suo respiro caldo sulle guance. La voce del fratello ormai ridotta ad un sussurro.
-Perché non puoi scegliere di essere libera, per pochi attimi della tua perfetta esistenza?-
Rachel sentì un brivido percorrerle la schiena. Essere libera, facile. Ma ne aveva il diritto? Poteva lei permettersi di esserlo? Chiuse gli occhi. Decise che in quei pochi minuti che l’attendevano di quella fredda notte di gennaio, si sarebbe presa la libertà di scoprirlo.
Di nuovo la dolce voce del fratello la raggiunse da un punto lontano, indefinito.
 
 
“'Cause if I ever hold that golden dream again,
I want to tell you
I'm gonna name it after you.”

 
“Perché se un giorno raggiungerai quel sogno dorato,
Voglio dirti
Che gli darò il tuo nome.”

 
Senza preavviso, le labbra di Heyden si poggiarono lievi su quelle della ragazza quasi quanto una farfalla sui petali di un fiore esotico. Libero e selvaggio. Come Rachel.
Il corpo della sorella ebbe un sussulto, sentì il cuore esploderle nel petto, eppure non fece male. Si sentiva leggera, quasi galleggiasse nel vuoto. Istintivamente, mosse le labbra, rispondendo involontariamente al bacio. Heyden le accarezzò l’interno del labbro superiore con la punta della lingua. Il suo delicato profumo, misto all’odore del fumo arrivava chiaro a Rachel, coccolandola. Doveva semplicemente estraniarsi da se stessa, spegnere la mente, allontanarsi da quel luogo e non permettere alla razionalità di intromettersi. Si abbandonò a quelle sensazioni. Schiuse le labbra. La sua lingua andò ad incrociare quella del fratello. Avere Heyden in quel modo la stava letteralmente annullando. Eppure non si sentiva violata. Mosse nuovamente le labbra, con più decisione. Heyden rispose. No. In tutto quello non c’era violenza. Era dolce. Dolce e ancor più importante, desiderato. Si rese conto che una parte di se lo aveva sempre voluto. E probabilmente, anche per Heyden era così. Le fredde mani di Heyden si insinuarono leggere sotto la sua felpa. Il contatto con la pelle calda dei fianchi fece sussultare Rachel nuovamente, che abbandonò le braccia lungo il corpo, inerti. La lingua del gemello cominciò a rincorrere la sua e viceversa. Rachel sentiva sarebbe potuta esplodere, era troppo tutto così in fretta. Avvertiva il cuore di Heyden battere veloce sotto la maglia, veloce quanto il suo. Ad una velocità quasi insopportabile.
Si separò da lui in fretta, lo sguardo perso. Non capiva nemmeno cosa provasse. Heyden la guardò ancora per qualche secondo, Rachel sentiva che sarebbe potuta annegare in quegli occhi color ghiaccio, lucidi per il freddo. Heyden si voltò nuovamente, rivolgendo lo sguardo verso il buio della notte e riportando la sua Lucky Strike alle labbra.
Rachel si voltò. Troppo agitata per riflettere, si lasciò cadere sul letto del fratello e chiuse gli occhi. Una lacrima le scese rapida sulla guancia. Si addormentò.

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Capitolo 7
*** Just leave me alone with my thoughts ***


Canzone del capitolo: Lavender



Quando si risvegliò, Rachel era distesa nel suo letto: le lenzuola, fresche di bucato, profumavano di lavanda come pure la sua sottile camicia da notte che avvolgeva delicatamente il suo corpo caldo. Raggomitolata nel calduccio della stanza da letto si sentiva protetta, come un bambino in braccio a sua madre, anche se lei ormai ricordava solo vagamente come ci si dovesse sentire. Pensava spesso con nostalgia ai suoi genitori. Si chiudeva in camera e piangeva fino a quando il sonno non la coglieva e si addormentava completamente vestita, con gli occhi umidi e mille pensieri per la testa. Si chiedeva come sarebbe stata la sua vita se quella sera non si fossero trovati lì, ma magari a casa, oppure se si fossero fermati alla stazione di servizio pochi chilometri prima, visto che papà si era lamentato del fatto che il serbatoio della macchina della madre fosse sempre quasi vuoto.
Suo fratello invece non ne accennava mai. Non parlava di quello che era successo, né di come fosse stata la sua vita prima dell’incidente. Non ne aveva mai fatto parola, né con lei, né con gli zii e tantomeno con l’assistente sociale con cui passava lunghi pomeriggi per “risolvere i suoi problemi comportamentali dovuti alla prematura scomparsa dei genitori”. Elaborazione del lutto. Ma con grande dispiacere di tutti, ciò non produsse mai alcun genere di risultato se non quello di aumentare ancora di più l’indisponenza del ragazzo nei confronti della famiglia o di qualsiasi altra persona tentasse di aiutarlo, indisponenza che spesso e volentieri sfociava in atti di inspiegabile violenza. Non sembravano, a primo acchito, mancargli per nulla. Agli occhi di un osservatore poco attento o superficiale, poteva sembrare un ragazzo con un netto senso di superiorità a distaccarlo da quello che gli stava attorno ed una massiccia dose di menefreghismo a segnare una netta linea di separazione tra il presente e ciò che era stato. Ma Rachel sapeva che non era così. Sebbene il loro bel rapporto fratello-sorella si fosse incrinato rovinosamente nove anni addietro, non aveva mai perso quel privilegiato posto in prima fila nella vita e nella mente del fratello, nel bene e nel male. Era stata bistrattata, contrastata, sollevata per poi essere sbattuta in terra e calpestata senza pietà da quello che lei continuava sempre, talvolta con trasporto, altre con ribrezzo a chiamare “fratello”, ma a lei era sempre apparso come, innanzitutto, l’essere umano con il quale condivideva anima e corpo. Non sapeva sempre e costantemente cosa gli passasse per la testa, cosa che invece vantava con Ethan che per lei ormai era poco meno di un libro aperto, anzi. Per lo più il mistero avvolgeva quel ragazzo così dissimile da lei eppure suo gemello, ma che egli fosse soltanto un pezzo di ghiaccio al pari dei suoi occhi era una definizione quantomeno incompleta, visto quante diverse sfumature quei due occhi potessero celare. A volte erano forti, altre tristi, altre ancora ardevano di rabbia, frustrazione, desiderio. Rachel lo sentiva vivo, sapeva che era così. Come sapeva quanto in realtà tenesse ai genitori, solo che non lo dimostrava come la maggior parte degli esseri umani, non lo diceva con parole sue. Lasciava la musica parlare al posto suo. La sua musica, quella fatta di testi senza melodie che scriveva, e la loro musica. Per l’esattezza, quella dei Marillion. Quella che era stata prima di suo padre e che ora gli apparteneva, lo motivava, lo aveva cambiato. Perché Heyden, nel buio della notte, quando l’oscurità era opprimente e nessuno poteva udirlo, apriva la finestra e, sigaretta tra le dita, cantava. Era il suo modo di sfogare l’immenso dolore che covava nel profondo del suo cuore, sotto strati di gelata indifferenza. Quando nessuno poteva udirlo in modo che nessuno lo venisse mai a sapere. Non perché non fosse bravo anzi, Rachel sapeva quanto in realtà fosse dotato, perché nelle sue lunghe notti insonni lo ascoltava, seduta sul davanzale della propria finestra con gli occhi chiusi, il capo abbandonato all’indietro ed i ricci capelli biondi al vento, con la pelle d’oca ogni qualvolta Heyden s’arrischiava a raggiungere le vette delle audaci interpretazioni di un giovane Fish su “Script for a Jester’s Tear”. Era terribilmente bravo, con la dolce voce limpida, agile e calda tanto simile a quella del cantante che da pochi anni aveva piantato i Marillion lasciando dietro di sé un vuoto a prima vista quasi incolmabile dal giovane ed ancora inesperto H. Voci smentite alla svelta dal fenomenale “Season End”.
 
Lentamente cominciò a riprendere possesso del suo corpo. Ma quando arrivò alle mani, il cuore le sussultò nel petto. Si girò di lato: Heyden, inginocchiato sul tappeto bianco ancora macchiato del sangue di Ethan, stava dormendo, la testa appoggiata morbidamente sulla sua coperta, mentre la mano destra era saldamente intrecciata alla sua. La sollevò tremante e se la portò a pochi centimetri dal viso. Non odorava di sapone come al solito, sapeva più che altro da disinfettante, un odore acre e forte, in contrasto con il delicato, quasi impercettibile profumo del fratello. La osservò come non aveva mai fatto prima: era magra, ma inaspettatamente forte, come lui del resto. Un controsenso vivente, come lo aveva spesso definito, anche se in quel momento era un controsenso maledettamente dolce. Sembrava un angelo, passato dal paradiso all’inferno, una specie di Lucifero, tremendamente bello, questo non poteva negarlo.
 
Rachel si girò sul fianco e portò l’altra mano vicino alla testa del fratello e da quel momento in poi ne perse il controllo. La mano leggera si andò a posare sulla nuca del ragazzo e le dita cominciarono ad intrecciarsi delicatamente ai suoi capelli neri come il buio che li stava avvolgendo nel suo abbraccio delicato. Si sentiva bene, stare lì con Heyden le dava sicurezza e guardarlo dormire era uno spettacolo di cui non si sarebbe dimenticata facilmente. Era così catturata dai suoi capelli da non accorgersi che una mano magra dalle dita lunghe si era infilata sotto le coperte e le stava lentamente accarezzando il taglio che aveva sulla guancia.
Una voce dolce e calda intonò, sottovoce:
 
 
“I was walking in the park dreaming of a spark,
When I heard the sprinklers whisper,
Shimmer in the haze of summer lawns,
Then I heard the children singing,
They were running through the rainbows,
They were singing a song for you,
Well it seemed to be a song for you,
The one I wanted to write for you, for you.”
 
 
“Stavo camminando nel parco sognando una scintilla,
Quando udii il sussurro degli innaffiatori automatici,
Luccichio sulla foschia di un prato estivo,
Poi sentii dei bambini cantare,
Stavano correndo attraverso gli arcobaleni,
Stavano cantando una canzone per te,
Quella che volevo scrivere per te, per te.”

 
Non s’era resa conto che il fratello si era svegliato. Fu come destarsi da un sogno. O da un incubo. Rachel non seppe deciderlo. Scattò a sedere, lasciando la mano ed i capelli del fratello, mettendosi così a sedere sul letto. Heyden si alzò e prese a fissarla con uno sguardo glaciale e distaccato che non gli apparteneva fino a pochi secondi prima.
-Perché ti comporti così?-  sussurrò Rachel sul punto di scoppiare in pianto, prima di essere costretta ad abbassare lo sguardo.
-Potrei farti la stessa domanda.-
Rachel era confusa. Le tornarono alla mente le scene di poco prima. Il suo sguardo indugiò troppo a lungo sulle labbra di Heyden e qualcosa di molto simile alle vertigini le fece correre lungo la schiena un forte brivido. Aveva la pelle d’oca. Poi vide l’immagine di Ethan in ospedale e si sentì terribilmente in colpa. Abbassò lo sguardo, tenendosi le mani intrecciate in grembo. Cosa aveva fatto?
-Perché Heyden, perché? Perché mi fai sempre questo effetto, perché mi spingi a comportarmi così? Siamo fratelli! Non dobbiamo, non può esistere questo tipo di comportamento tra noi! Ci siamo sempre odiati negli ultimi nove fottuti anni, continuiamo a farlo perché se le opzioni sono queste preferisco odiarti.-
Pronunciava quelle parole tremando di dolore, le stavano uscendo di bocca automaticamente, senza aver formulato prima un vero discorso, senza nemmeno sapere se era veramente ciò che voleva.
Heyden non disse nulla.
-Vattene, ti prego, vattene di qui.- Parole chiare, fredde e distanti.
Heyden si alzò, si girò e si diresse lentamente verso la porta.
-Ci sono molte cose che ancora non sai...-

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Capitolo 8
*** Mirror of your soul ***


Canzone del capitolo: The Space...



Rachel si svegliò che erano da poco passate le undici. La luce entrava prepotente dalle grandi vetrate della sua camera da letto, mentre le note di “The Space...” giungevano ben distinte dalla camera del fratello. Quel povero giradischi sarebbe collassato da tanto lo usava, ne era certa. Per non parlare del walkman.
Guardò la sveglia e, appellandosi a tutta la sua buona volontà, s’alzò dal letto e si diresse verso la finestra. Spalancando le imposte, lasciò che la gelida arietta mattutina le facesse correre un piacevole brivido lungo la schiena. Aveva dormito parecchie ore, eppure si sentiva tremendamente stanca. Non voleva programmare nulla per i giorni seguenti: tutto ciò che riusciva a vedere erano i muri scrostati ed imbrattati della sua logora scuola pubblica di periferia. La fine delle vacanze natalizie incombeva.
Il pallido sole gennarino le illuminò il volto e sentì il suo tiepido tepore scaldarle la pelle chiara. Sedette sul davanzale, lasciando le gambe penzoloni verso l’esterno e la mente libera di vagare. Poteva sentire il venticello freddo che le scompigliava i capelli, sibilare tra gli alberi spogli del giardinetto. Il suono giungeva lontano, ovattato alle orecchie della ragazza, come un lamento indefinito trasportato dalla brezza mattutina. Sembrava provenire da miglia e miglia di distanza quando in realtà era la sua mente ad essere ben lungi da quel luogo. Melodie ben note venivano catturate dalle sue orecchie.
 
 
“He did it without knowing, didn't feel a thing,
He just wrecked it and kept going.
The space around the stars,
Is something that you know,
A billion miles of darkness,
Left your feeling low,
The space around the stars,
Is something that you know.
Everything about you,
So perfectly restrained,
But everything inside you,
Bites you.”

 
“Lo fece senza saperlo, non sentì niente,
Solo la distrusse e proseguì.
Lo spazio attorno alle stelle,
È qualcosa che conosci,
Un miliardo di miglia di oscurità,
Ti lasciarono una sensazione di tristezza,
Lo spazio attorno alle stelle,
È qualcosa che conosci.
Attorno a te tutto,
È perfettamente misurato,
Ma tutto dentro di te,
Ti tormenta.”

 
Ripensava al sogno dai contorni indefiniti che ristagnava nel suo corpo ancora intorpidito dalla nottata trascorsa. Heyden era con lei. E l’aveva baciata. E lei l’aveva allontanato. Ben due volte. Che sogno assurdo, sbagliato, illogico, innaturale. Già, innaturale. Si girò e, percorrendo la stanza a piccoli passi, si lasciò nuovamente andare sul letto, la testa affondata nel cuscino profumato di lavanda. Insieme alla fine fragranza provenzale, avvertì un altro odore. Forte, acre. Disinfettante. Si levò di scatto a sedere e si premette con forza la mano destra sulla guancia. Si sentì mancare. Senza badare troppo alla delicatezza (sapeva che non c’era nessuno in casa, in quanto gli zii lavoravano), spalancò la porta e corse verso il bagno. Non era possibile.
Una volta varcata la soglia, vacillò sotto il peso di quello che vide. Per quanto la luce in bagno fosse assai fioca, lo specchio le restituiva l’immagine di una ragazza sui diciott’anni anni, tutto sommato bella, dai lunghi, ricci, ribelli capelli biondi, stravolta e piuttosto sconvolta. Con una lunga cicatrice che le solcava la guancia destra. Si avvicinò al lavabo per potersi osservare meglio. Ma il taglio era ancora là.
-Sai bene anche tu di non averlo immaginato.-
Lo specchio ora le restituiva il riflesso di un ragazzo alto, moro, con gli occhi azzurro ghiaccio, anch’egli spettinato, appoggiato allo stipite della porta del bagno. Era davvero bello.
-Speravo di averlo semplicemente sognato.- Rachel si rivolgeva allo specchio, gli occhi fissi nel riflesso di quelli del fratello.
-Hai dimenticato un “non”.-
-Cosa vuoi dire?-
-Speravo di non averlo semplicemente sognato.- Le labbra piegate in un fottuto sorrisetto ironico.
-Cazzate.-
-Per favore, evita di mentire almeno a te stessa.-
-Che ne sai tu di ciò che voglio?-
-Già, Rachel. Spiegamelo. Che cosa vuoi?-
Heyden era solo un infido.
-Levati di mezzo.- Rachel si diresse decisa verso la porta, ma le mani del fratello le afferrarono saldamente le spalle.
-Cosa vuoi Rachel?-
Silenzio. La ragazza non emise un suono. Continuò a fissare il ragazzo dagli occhi di ghiaccio.
-Dimmelo, Rachel. Cosa vuoi davvero?-
Si sentiva prigioniera di quelle parole. Heyden avvicinò il volto al suo.
-Coraggio Rachel. Cosa sogni veramente?- Poteva avvertire il respiro del fratello sul suo collo.
Tutto avvenne rapidamente. Rachel chiuse gli occhi, afferrò i polsi del gemello e con forza lo spinse contro il muro del corridoio dietro di loro, facendo vibrare le boccette di vetro precariamente appoggiate vicino allo specchio. Heyden sembrava divertito. Una strana espressione gli aleggiava sul volto. Se possibile, era ancora più bello. Rachel inspirò, poi aprì gli occhi e si alzò in punta di piedi, in modo da arrivare all’altezza del fratello. I loro nasi erano così vicini da potersi sfiorare. Rachel si sentiva ardere dentro dalla frustrazione. Gli occhi negli occhi, la voce carica d’odio.
-Sogno quello che sognano tutti: quello che nella realtà non si può avere.-
-E cosa ne sai di quel che si può e non si può avere?-
-Tu invece sai cos’è naturale e cosa no?-
Rachel lasciò i polsi del fratello, voltò le spalle e si diresse a passo deciso verso le scale.
Aveva bisogno di fare qualcosa per smaltire la tensione e cominciare ad apparecchiare il pranzo per gli zii le sembrava una buona scelta, data l’ora.
Cosa cazzo aveva quel fottuto ragazzo che non andava? Era strano, ma questo lo sapevano tutti. Ma in quegli ultimi mesi il rapporto che avevano instaurato era diventato quasi inquietante. A Rachel la cosa non dava così tanto fastidio, anzi. Ne era quasi felice. Felice che nel loro vivere così anomalo ci fosse qualcosa di esclusivo, di speciale, che lo differenziava da tutti gli altri. Aveva una priorità sul resto. Heyden aveva una priorità nella vita di Rachel. E ormai ne era sicura, anche lei la aveva in quella di Heyden. Ciò che ancora la turbava era, che genere di priorità? E soprattutto, perché? Era così normale tra fratelli che la vita dell’uno stesse così a cuore all’altro, tanto da volerne far parte in maniera così prepotente, disperata?
 
Seduta al tavolo della cucina, cercava di calmare il nervosismo che la intrappolava, leggendo. Era arrivata a buon punto con il primo libro de “Il Signore degli Anelli”, collana appartenuta in passato alla madre. La Compagnia si apprestava a lasciare le buie e tremende miniere di Moria. Poche sale ed un ponte sull’abisso delle profondità della terra li separavano dai cancelli orientali. Meno di un giorno di marcia. La minaccia di orchetti ed altri esseri più forti e terribili incombeva ancora su di loro, ma il peggio era ormai alle loro spalle. Nella camera di Mazarbul, Gandalf stava terminando la lettura di quel che restava della lunga e tragica epopea del popolo dei nani di Moria. Gli occhi della ragazza divoravano rapidi pagine e pagine di parole così magistralmente scelte ed accostate.
 
“Gandalf aveva appena finito di pronunciare queste parole, quando si udì un grande rumore: un DUM rombante che pareva giungesse dalle profondità sotto di essi, tremando nella roccia ai loro piedi. Balzarono tutti allarmati verso la porta. DUM, DUM, continuava a tuonare, come se immense mani avessero trasformato le caverne stesse di Moria in un gigantesco tamburo. D’un tratto echeggiò uno squillo: un grande corno suonava nel salone, mentre in lontananza si udivano rispondere altri corni e strilli acuti. Infine il rumore frettoloso di molti piedi.
-Stanno venendo!- gridò Legolas.
-Non possiamo uscire.- disse Ghimli.”
 
Fece per voltare pagina, al culmine della suspance, quando si accorse che la pagina che veniva dopo portava scritto in caratteri eleganti “ Capitolo VI. Lothlòrien.”. Guardò il numero in cima. 414. Mancavano moltissime pagine! L’edizione era vecchia, certo, ma non si aspettava di trovare così tante pagine mancanti. Non avrebbe potuto proseguire la lettura, mancavano troppi avvenimenti. Chiuse il libro e vi poggiò la testa, avvilita e delusa.
 
Un rumore di chiavi la distrasse. Poco dopo la voce di zia Lisa la raggiunse dall’ingresso fin in cucina.
-Buongiorno tesoro. Come stai? Ancora in pigiama?-
Rachel si voltò e rispose forzando un sorriso.
-Ciao zia. Benissimo, grazie. Si, mi sono appena svegliata. Non ho proprio sentito la sveglia.-
-Che hai fatto alla guancia?- chiese Lisa in tono allarmato.
Rachel se ne era completamente dimenticata. Si sentì sciocca. Disperatamente alla ricerca di una scusa, disse la prima cosa che le passò per la testa.
-Mi sono tagliata. Vedi, mi si è rotto un bicchiere e per sbaglio mi sono tagliata mentre raccoglievo i pezzi.-
-Ti sei disinfettata?- Lisa non sembrava troppo convinta.
-Certo. Non ti preoccupare. Lo zio?- chiese la ragazza, tentando di cambiare discorso.
-Sarà qui a momenti, puoi tranquillamente buttare la pasta.-
Sollevata di avere una scusa per allontanarsi dalla cucina, Rachel si voltò e si diresse verso la dispensa.
 
 
 
 
Tratto da: Il Signore degli Anelli, La Compagnia dell’Anello, Il ponte di Khazad-dum. Pag. 403. J.R.R.Tolkien.




Un saluto a tutti voi lettori che mi seguite ed un grazie a tutti coloro che hanno gentilmente lasciato una recensione fin'ora. Un ringraziamento speciale in tal senso va a ChocoBomb che mi ha sostenuta ed aiutata con le sue recensioni puntuali e una sempre gentile parola d'incoraggiamento.
Chiedo perdono per questa divagazione sul tema a causa dell'inserimento di un brano tratto da "Il Signore degli Anelli". Chiedo a tutti voi di pazientare, ogni cosa avrà un suo fine ed un suo perchè.
Grazie ancora dalla vostra MadCat.

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Capitolo 9
*** Like a child ***


Canzone del capitolo: Pseudo Silk Kimono



 -Accidenti che silenzio!- la voce calda di Connor sembrò quasi rimbombare nella stanza.
Erano a tavola da dieci minuti buoni, ma nessuno aveva ancora emesso un fiato. Sembravano tutti molto concentrati, gli sguardi assenti rivolti alla propria pastasciutta fumante, immersi nei loro pensieri.
Rachel, dal canto suo, non aveva ancora toccato cibo. Aveva un sapore metallico in bocca e una morsa a serrarle lo stomaco.
Heyden mangiava con grande appetito, ma senza dar l’impressione del maleducato: avvolgeva gli spaghetti aiutandosi con un cucchiaio e li masticava senza fretta, quasi si fosse trattato del piatto di un grande chef.
Lisa era preoccupata. Moriva dalla voglia di rivedere il figlio, ancora piantonato all’ospedale. Si era per l’appunto presa un permesso per poterlo andare a prendere nel pomeriggio e riportarlo con sé a casa.
Connor addocchiò l’orologio, sbuffò e riprese a mangiare con più rapidità. Il lavoro lo richiedeva e non aveva certo tempo da perdere dietro a certe futilità. Se non era giornata, non era giornata. Si alzò, afferrò il piatto e sparì a preparare il caffè.
Rachel rinunciò definitivamente, si alzò e domandando scusa, sparì in camera sua. Non se la sentiva proprio di restare. L’atmosfera le pesava addosso come un macigno e il profumo di pomodoro che aleggiava in cucina le dava la nausea.
Si sdraiò sul letto ancora sfatto, chiuse gli occhi e si abbandonò ad un sonno agitato, popolato da incubi.
 
Heyden terminò il pranzo, si alzò, ripose piatto, bicchiere e posate nell’acquaio, quindi si ritirò nella propria stanza, senza aggiungere una parola. Cosa di per sé normale. Limitava al minimo i contatti con il resto della propria “famiglia”. Non voleva entrare nella loro vita. E non voleva loro nella sua. La cosa stava bene ad entrambe le parti, quindi nessuno aveva mai obiettato questa silenziosa e concorde decisione.
Salì silenziosamente le scale e percorse il corridoio con passi talmente leggeri da risultare impercettibili, simili in tutto e per tutto a quelli di un felino. Esitò davanti alla porta della sorella. Si sporse e portò l’orecchio in ascolto. Ma da dentro, non proveniva alcun suono. Si era addormentata. Proseguì e il buio della propria stanza l’inghiottì.
 
Appena avvertì l’uscio chiudersi, Heyden aprì gli occhi. Lisa era evidentemente partita per andare all’ospedale a riprendere quell’idiota del figlio. Si tirò a sedere sul letto e si stiracchiò. Una volta abituati gli occhi all’oscurità, si diresse verso il mangianastri che troneggiava sulla scrivania. Dopo aver inserito la musicasetta prescelta, lasciò che le prime note di “Pseudo silk kimono” invadessero la stanza.
Restò in ascolto.

 
 
“Huddled in the safety of a pseudo silk kimono
Wearing bracelets of smoke, naked of understanding
Nicotine smears, long, long dried tears, invisible tears
Safe in my own words, learning from my own words
Cruel joke, cruel joke”

 
“Raggomitolato nella sicurezza di un kimono di seta finta
Indossando braccialetti di fumo, indifeso di fronte alla comprensione
Macchie di nicotina, lunghe, lunghe lacrime asciutte, lacrime invisibili
Al sicuro nelle mie parole, imparando dalle mie parole
Scherzo crudele, scherzo crudele”
 
 
Heyden si abbandonò sul letto. Atmosfere confuse invadevano la stanza, si sentiva a casa. Una casa fatta di note, persa in chissà quale universo. Dove nessuno sarebbe mai potuto entrare a disturbarlo. O no?

 
 
“The spirit of a misplaced childhood is rising to speak his mind
To this orphan of heartbreak, disillusioned and scarred
A refugee, refugee.”

 
“Lo spirito di un’infanzia perduta sta sorgendo per far conoscere il suo pensiero
A questo orfano dal cuore infranto, disilluso e disperato
Un profugo, un profugo.


Chiuse gli occhi e si rilassò. Cominciò a mimare le parole con le labbra, senza però emettere alcun suono. Inconsapevolmente, stava ascoltando sé stesso.
 
Quando finalmente Rachel si destò, erano le cinque. Fuori era già buio e la camera era avvolta nell’oscurità. Qualcuno le aveva rimboccato le coperte. Si sentì incredibilmente tranquilla, in pace con sé stessa, la mente vuota, libera e leggera. Avrebbe desiderato che quello stato di benessere non l’abbandonasse mai. Fece per muovere una gamba verso il bordo del letto, ma questa cozzò contro qualcosa. Abbassò lo sguardo e notò una figura maschile seduta in fondo al letto. Sentì il cuore sussultarle lievemente nel petto. Dentro, nel profondo dentro di lei, una piccola fiamma si accese, a riscaldarla. Era felice.
-Sei qui.- mormorò, rivolta alla figura scura seduta in fondo al letto.
-Si, non ti preoccupare. Ora sono qui e sto bene.- una voce maschile le rispose, serena.
Rachel sussultò lievemente per la sorpresa ed un sorriso sereno salì spontaneo alle sue labbra.
-Ethan! Sono felice tu sia potuto tornare a casa così presto.- La voce le uscì sinceramente sollevata. Era felice che il ragazzo stesse bene e che lo sfogo della sera precedente non avesse avuto gravi conseguenze. Eppure non era lui che voleva seduto al fondo del proprio letto, per quanto la vista del ragazzo le avesse riempito il cuore di gioia.
Accantonando questo pensiero che le era germogliato nel profondo del cuore, si levò a sedere e si sporse ad abbracciare il proprio ragazzo. Portava ancora una grande benda bianca sul naso rotto e il tutto gli conferiva un aspetto piuttosto buffo.
-Mi sei mancata così tanto. Non ho fatto altro che pensare a te.- Rachel non sapeva dire se anche a lei fosse mancato. Per la verità non aveva pensato al povero Ethan per più di tre minuti consecutivi in quelle folli ore e realizzando ciò si sentì in colpa. Ancor di più perché a dir il vero, l’unica persona alla quale aveva pensato in quella giornata era stato Heyden.
-Se desideri dormire, ti lascio sola. Io mi sono completamente ristabilito, mentre mia madre mi ha detto che tu hai la febbre.-
La febbre? E da quando? D’istinto, Rachel si portò un palmo alla fronte. Scottava, era vero.
-Non è nulla, ma mi sento stanca e preferirei riposare. Ti ringrazio del pensiero.-
-Figurati.- Ethan s’alzò e si diresse verso la porta. Uscì e la riaccostò delicatamente. Rachel avvertì i suoi passi allontanarsi lungo il corridoio.

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Capitolo 10
*** Weak ***


Canzone del capitolo: White Feather



10 gennaio 1990
 
Distesa a letto, nel tepore della camera illuminata dalla sola luce dell’abat-jour, Rachel dedicava quelle vuote ore di malattia alla scrittura, cullata dalla musica che il walkman le iniettava dritta nelle orecchie. Progrediva lentamente, ma in modo costante. A seconda del suo stato d’animo, Rachel scriveva su quel suo quadernetto giallo fiumi di parole e pensieri. Ma c’erano delle volte in cui si ritrovava a fissare il foglio bianco dopo l’ultimo punto anche per ore. Senza riuscire a proseguire. Quanto di più simile ad una tortura esistesse. Allora si fermava e si appellava alla musica. E le parole tornavano prepotenti a premere contro la punta della penna per uscire.
E così era stato quella sera. White Feather le pulsava dritta nelle vene.
 
 
“I will wear your white feather,
I will carry your white flag,
I will swear I have no nation.”

 
“Indosserò la tua piuma bianca,
Porterò la tua bandiera bianca,
Giurerò di non avere una patria.”
 
 
Quelle parole di fuga e rinnego furono la scintilla. Prese a scrivere con trasporto.
 
“Una notte di dicembre sono scappata. Non potevo più reggere tutto quello schifo da sola. Avevo bisogno di evadere, di fuggire lontano, di possedere almeno il pensiero che una vita migliore era possibile anche per me. Volevo potermi sentire libera.
Mi dispiaceva soltanto per la mia povera madre, ma a quel punto la mia vita era l’unica cosa che mi interessasse davvero. Dovevo innanzitutto sopravvivere e l’amore che provavo per mia madre non mi avrebbe mai aiutata in questo. Soprattutto perché nemmeno lei sapeva di cosa era capace Jeremiah e quanto aveva osato con quella sua povera figlia.
Sono scappata e mi sono ritrovata sola per le strade di una Londra immensa e sconosciuta, per chi ha visto soltanto il proprio quartiere per tutta la vita. Sarei morta assiderata, sola e senza amici se Liam non mi avesse trovata. Liam, un ragazzo sulla ventina, alto e biondo, con gli occhi scuri. Mi ha raccolta dalla strada quella triste notte fredda e buia per condurmi attraverso strade e vicoli sconosciuti fino ad un vecchio casolare abbandonato, ridotto a macerie da quei fottuti nazisti, in una zona buia della città. Li mi ha presentato Bess e Jack che avranno avuto si e no diciannove anni. Erano fuggiaschi, rifugiati, delinquenti e anime dannate, ritrovatisi chissà come e chissà perché. Ma mi concessero la loro amicizia, un posto dove stare e il calore di persone accanto. Con loro ho passalo il Natale, l’inverno e la primavera seguenti. Non ricordo molto di quel periodo. Era tutto così confuso. Forse per l’alcool. O forse per la marijuana che mi avevano portata a consumare in dosi sempre più massicce. Ma mi sentivo così vuota dopo. Così piacevolmente inebetita. Tutto sembrava bello e colorato.
Io e Liam ci mettemmo assieme quasi subito. Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Non andammo mai realmente a letto, finché un giorno non me lo impose. Io non avrei voluto farlo, ma quella sera era ubriaco fradicio, io ero completamente cannata e non capivo assolutamente un fottuto cazzo di quello che stava accadendo. Appena me lo ritrovai sopra, al posto del suo volto c’era quello di Jeremiah. Quello che mi guardava con sorriso sadico non era Liam, ma quel porco del mio patrigno. Cominciai ad urlare, a piangere. Ma lui non si fermò.
Appena si accasciò sfinito su di me, mi divincolai, afferrai un logoro cappotto e scappai. Mi persi per quella città fatta di disillusione e false speranze. Piansi, piansi tutta la notte, finché dei poliziotti non mi trovarono. Dopo di ché, svenni. Mi risvegliai sdraiata su un letto dalle lenzuola ruvide e sporche, con ancora il mio sudicio cappotto addosso. Di fianco a me era distesa una puttana sulla quarantina. Una vecchia pazza. Ero in un ricovero per “quelli disperati”. Gli emarginati senza speranze. Forse già allora non avevo più speranze. Ma sapevo che ero dipendente da quella maledetta roba ormai e dovevo a tutti i costi averne ancora, sapevo che solo a quel modo potevo sentirmi un po’ meglio. Quindi una notte annodai le lenzuola e fuggii.” 
 
 
“These are our hearts,
You can't take away our hearts,
You can't steal our hearts away,
I can't walk away,
No more.”

 
“Questi sono i nostri cuori,
Non potete portare via i nostri cuori,
Non potete rubare i nostri cuori,
Non posso fuggire,
Mai più.”

 
La canzone si spense, e con essa anche Rachel. Si abbandonò sul cuscino, esausta, e si addormentò con la testa poggiata sul quadernetto aperto.
 
-Mamma, lascia portare a me il brodo a Rachel.- Ethan desiderava accertarsi delle condizioni di salute della propria ragazza e farle compagnia durante la cena gli sembrava un’idea perfetta, dato che negli ultimi giorni era stata poco bene e non aveva quindi ripreso la scuola normalmente dopo le vacanze natalizie.
-Ethan, tesoro. E’ venerdì, sinceramente preferirei tu andassi in camera tua a terminare la relazione per il professor Lloyd in vista degli esami che ti attendono a fine semestre e poi andassi a riposare. Hai ancora la borsa da fare, domani ti riaccompagneremo al college e sarebbe il caso di partire presto domattina. Heyden porterà il brodo a Rachel.-
Heyden continuò imperterrito a far scorrere lungo il vetro l’ultima goccia d’acqua rimasta nel bicchiere.
-Heyden?- Lisa l’incoraggiò.
Il ragazzo s’alzò, afferrò il vassoio e si avviò verso la camera della sorella.
Arrivato davanti alla porta la socchiuse ed entrò. Dentro, l’abat-jour ancora accesa illuminava il volto addormentato della sorella.
Poggiò il vassoio sul comodino, sedette sul tappeto ancora sporco del sangue di Ethan e stette in attesa che si svegliasse, in silenzio. La guardava e la trovava terribilmente indifesa, così debole. Sembrava una bambina cresciuta troppo in fretta.
 
Rachel aprì lentamente gli occhi. La testa le pulsava leggermente e sentiva un gran caldo. Istintivamente, prese il lembo del piumino e lo scostò di lato, scoprendosi fino alla vita.
Quando si voltò, Heyden era lì. Seduto a gambe incrociate sul tappeto, le braccia indietro a sorreggerlo. La fissava con sguardo profondo, quasi fosse immerso in una qualche seria riflessione.
-Sei qui da molto tempo?-
Heyden non cambiò né atteggiamento, né posizione.
-Non lo so. Ho perso la cognizione del tempo.- Sembrava sincero. –T’ho portato la cena.- Con un movimento impercettibile del capo le indicò la ciotola ancora fumante sopra il comodino.
Rachel sedette anch’ella a gambe incrociate, la schiena appoggiata al muro, il volto rivolto al fratello. Afferrò la ciotola e si apprestò a bere il brodo tiepido.
- Mac Lean domani torna al college.-
-Sai quando torna?-
-Non me ne fotte niente di quando torna lo scozzese.- Il tono Heyden era chiaramente irritato.
-Okey, okey. Va bene. Lo riaccompagnamo tutti?-
-Col cazzo. Lo riaccompagnano loro. Al di là di tutto, noi che centriamo?- puntualizzò Heyden.
-E’ vero. Nulla…- Le parole le uscirono come un mormorio indistinto. Rachel spesso dimenticava che quella non era la sua famiglia. Non lo sarebbe mai stata. Sempre più spesso sentiva di essere nulla di più che un’ospite. Aveva cominciato a non lasciare più i suoi oggetti in giro, a non chiedere nulla che non le fosse strettamente necessario. Si sentiva di passaggio, con un perenne senso di insicurezza nel petto. Quasi sentisse che l’avrebbero sbattuta fuori a momenti.
-Quindi resteremo qui soltanto noi due mentre vanno ad Edimburgo?- Ethan frequentava un college prestigioso ad Edimburgo, lo stesso che Connor aveva frequentato prima di lui. Il viaggio per arrivarci era lungo e di solito quando lo riaccompagnavano, Lisa e consorte solevano trascorrere una notte insieme nella capitale scozzese.
-Si tratta di 48 ore. Se proprio non puoi vedermi, basta che ti chiudi qui dentro.-
Heyden s’alzò e uscì sbattendo la porta.
Rachel s’incurvò sulla ciotola che teneva ancora strettamente tra le mani. Ma cos’aveva quel fottuto ragazzo? Non fece in tempo a rispondersi che la porta si spalancò nuovamente. Ethan era trafelato: aveva il fiatone, quasi avesse corso.
-Che t’ha fatto?- domandò con voce acuta.
Per Dio. –Nulla, cosa vuoi che m’abbia fatto?-
-Non mi fido di lui. Non vorrei lasciarti qui sola.-
Una voce giunse dalla porta.
-Non sono uno stronzo tale da mettere le mani addosso ad una ragazza. Soprattutto viste le condizioni di salute nelle quali versa.-
-Devo ricordarti che l’hai già fatto nemmeno due settimane fa?-
-Mac Lean, t’avverto. Non voglio dartele di nuovo proprio oggi che finalmente te ne torni fuori dai coglioni. Non vorrei rischiare di averti qui più del necessario.-
-Ah, no? Che hai, paura? Quella sera m’hai preso all’improvviso. Sei stato un vero vigliacco.-
Heyden stava perdendo la pazienza, Rachel poteva leggerglielo negli occhi.
-Allora, coraggio ragazzo-ombra. Non colpisci? Dai, so che muori dalla voglia di farlo.-
Dev’essere completamente impazzito. Rachel non capiva come si potesse essere tanto stupidi. Poggiò la tazza sul comodino e fece per alzarsi. Doveva fermare quel coglione prima che Heyden decidesse di spezzargli le gambe. Mosse qualche passo.
Ma poi le forze l’abbandonarono e le gambe cedettero.
 
Fece appena in tempo a voltarsi che il corpo della sorella gli giaceva tra le braccia. La fronte sembrava bruciarle. Lo sforzo così improvviso le aveva fatto perdere i sensi. La prese delicatamente e la sollevò tra le braccia. Mosse verso il letto, l’adagiò e le rimboccò le coperte perché stesse calda.
Quindi lasciò la stanza.
Appena si fu chiuso la porta della propria stanza alle spalle, sferrò un calcio al comodino, facendolo sbattere contro il muro. Si buttò a letto.
Ethan era solo un fottuto coglione esaltato. S’addormentò.


Carissimi lettori,
a scanso di futuri equivoci e/o incomprensioni rispetto alle mie scelte per quanto concerne il contenuto dei capitoli, comunico a tutti che questo è solamente un capitolo di transizione, del quale non sono per altro nemmeno totalmente soddisfatta. Ma ne avevo bisogno per riprendere la storia di Kayleigh. Spero potrete capire. Se non altro, i prossimi capitoli credo potranno almeno in parte ripagarvi di questa delusione.
Critiche, sempre se espresse educatamente, sono ovviamente ben accette.
Vostra MadCat

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Capitolo 11
*** (never ever) Together ***




11 gennaio 1990
 
Rachel si svegliò sulle note di Chelsea Morning piuttosto frastornata.
 

 
“She's playing the actress in this bedroom scene,
She's learning her lines from glossy magazines,
Stringing all her pearls from her childhood dreams,
Auditioning for the leading role on the silver screen.”
 
“Sta recitando la parte dell’attrice in questa scena nella camera da letto,
Sta imparando la sua parte dalle riviste patinate,
Mettendo in fila tutte le perle dei suoi sogni di gioventù,
Facendo l’audizione per il ruolo principale sulle lenzuola argentate.”
 
 
Si era addormentata con gli auricolari nelle orecchie? Premette il tasto di stop e guardò l’orologio. Erano quasi le cinque del pomeriggio. Aveva dormito per un tempo lunghissimo, ma in compenso ora si sentiva piuttosto bene. Forse non aveva nemmeno la febbre.
Qualcuno aveva lasciato sul comodino un biglietto. Allungò la mano e l’afferrò.
 
“Buongiorno Gioiamia,
Tanti auguri. Non sai quanto mi dispiace di non esserci nel giorno del tuo diciottesimo compleanno. Prometto che ti telefonerò quando possibile. Ci vediamo per Pasqua.
Ti amo.
Ethan.”
 
-Il nostro compleanno.- Rachel sospirò.
S’alzò e scese le scale diretta in cucina. Desiderava moltissimo poter mangiare qualcosa di dolce. Magari una di quelle cose proibite in quella casa di salutisti. Come…
-Burro d’arachidi?!- Le parole, all’inizio formulate come pensiero, le uscirono chiare e forti.
-Si, burro d’arachidi. M’ero rotto il cazzo di marmellata biologica di avocado e non so che altro, quindi sono uscito e l’ho comprato.-
-Sei un genio.- Rachel sorrideva raggiante. –Sono per me?- chiese indicando tre belle fette poggiate sul tagliere in centro alla tavola.
-Si. Il latte invece è in frigo.- rispose lui afferrando una tazza.
-Grazie Heyden.-
-Prego…Rachel.- Avevano nuovamente gli occhi l’uno nell’altra. Rachel si riscosse e addentò una fetta. Accidenti quant’era buono. Mangiò tutto in pochi minuti, bevve il latte e si sentì terribilmente soddisfatta. Heyden continuava intanto a guardarla. Appoggiato al lavello, lo mangiava a cucchiaiate, direttamente dal vasetto.
-Cosa fai?-
-Non possiamo mica avanzarne!- Heyden sembrava divertito. Sorrideva leggermente.
-Ne voglio anch’io! Brutto ingordo che non sei altro!-
-Ingordo io?! Sei tu ad aver mangiato tre fette che insieme ricoprivano la superficie di mezzo Galles!-
-Bugiardo! Voglio anch’io!-
Rachel s’alzò e si diresse verso il fratello. Voleva giocare? Bene, gli avrebbe dato filo da torcere. Heyden intanto aveva alzato il vaso fin sopra la testa, in modo che Rachel non potesse arrivarci.
-Mollalo!- Rachel saltellava sulle punte, inutilmente. Heyden sembrava sinceramente divertito dalla situazione.
-Sei comica sorellina.-
-Abbiamo la stessa età, sorella andrà più che bene.-
-Sorellina.-
-Abbiamo ufficialmente diciotto anni da oggi, comportati da adulto e dammi quel cazzo di burro d’arachidi!-
-Ah ahn.- Heyden continuava a reggere saldamente il vaso sopra la testa.
-Rinuncio.- Rachel smise di saltellare e il cuore le rallentò nel petto.
-Sei stata brava, dai. Meriti un premio.-
Heyden abbassò il vaso e ne prese una grande cucchiaiata. Poi, mimando un aereoplanino, l’imboccò.
-Visto che sei una sorellina? Ti fai ancora imboccare con l’aereoplanino!- Heyden non tentava nemmeno di mascherare le risate. –Dio, eri così comica!-
-Bastardo!- La ragazza mise il broncio. Heyden si piegò in due sul pavimento dal ridere.
Rachel era felice. Erano anni che non lo vedeva così.
-Basta! Per punizione, sarò costretta a…- Rachel addocchiò il vasetto -…A sequestrarti il burro d’arachidi!- L’afferrò e corse via.
-Sei proprio una bambina!- gridò Heyden prima di prendere a rincorrerla per il salotto. Girarono attorno al tavolo da pranzo ridendo come due infanti finché Rachel non si fermò.
Heyden le arrivò alle spalle, la circondò con le braccia andando ad afferrare il vasetto con le mani su quelle della ragazza, sebbene l’attenzione di Rachel fosse già stata catturata da un pacchetto avvolto in una carta regalo dal delicato colore azzurro cielo. Si volse verso Heyden che continuava a tenerle le mani.
-E’ per me?-
-Si, certo.- aveva l’aria leggermente imbarazzata, sebbene conservasse sempre quella sua tipica sicurezza nel tono. –Aprilo pure.-
Rachel liberò le proprie mani da quelle del fratello per afferrare il pacchetto. Al primo tocco, sembrava contenere una scatola, o forse un libro. Ma nulla la colmò di felicità come scoprire il contenuto della carta color cielo.
-Mio Dio, Heyden. E’… E’ meraviglioso.- Una nuova edizione de “Il Signore degli Anelli” dalla lucida copertina blu faceva ora brillare gli occhi della giovane, sull’orlo delle lacrime. –Ma come facevi a sapere che…- Heyden l’interruppe. –Sapevo che mancavano delle pagine, mancano da sempre. Così potrai proseguire con la tua lettura. Ma apri l’ultima pagina.- La ragazza fece guizzare gli occhi sull’ultima pagina bianca del tomo. Una calligrafia ordinata aveva vergato in inchiostro nero le seguenti parole:
 
“Qualsiasi viaggio intraprenderai, non sarai mai sola Rachel. Mai.”
 
 Dalle labbra del ragazzo nacque un sorriso, così sincero, raro e disarmante che Rachel si commosse.
-Ho anch’io qualcosa per te, fratellino.- E così dicendo indicò la mensola dietro di lui, sulla quale troneggiava il televisore. Di fianco all’imponente sagoma nera del vecchio Hitachi, se ne stava un quadrato di carta da pacchi marrone. –Mi dispiace per non averti potuto fare un pacchetto in piena regola.-
-Figurati- replicò Heyden, con lo stupore per la sorpresa inattesa nella voce. –Posso?-
-Ma certamente! Avanti, guarda.-
Heyden mosse qualche passo verso il cartoccio marroncino e sfilò dalla carta da pacchi un vinile nuovo fiammante. IL vinile. Quello che ancora gli mancava.
-Season End.- mormorò assorto mentre lo contemplava, rigirandoselo tra le mani e scorgendo così sulla parte posteriore della custodia di cartoncino la chiara calligrafia di Rachel. 
 
“Segui sempre la musica. Il tuo cuore sa che ti guiderà verso ciò che desideri davvero.”
 
Ora a commuoversi era lui. In silenzio, si avvicinò alla sorella che aveva ancora gli occhi lucidi e la prese tra le braccia, avvolgendola in un lunghissimo abbraccio fatto di  emozioni e sensazioni. Le parole erano superflue.
Sembrò durare parecchi minuti, tanto che Rachel cominciò ad avvertire un certo tremore alle gambe che le rendeva difficile reggersi in piedi e una forte confusione in testa.

-Heyden, non mi sento troppo bene.- A Rachel girava la testa. Sentiva il respiro del fratello sul collo, scenderle lungo la schiena tramutandosi in un brivido. Non l’aiutò.
-Heyden…- Ma il fratello la strinse a sé con maggiore forza. Avvertiva il suo delicato profumo tutt’intorno a lei. –Heyden, ti prego.-
Il ragazzo si separò da lei e stette a fissarla. Rachel avvertiva un grosso peso all’altezza dello stomaco. Doveva andarsene.
-Credo mi sia salita nuovamente la febbre. Vado in camera.- La scusa era debole, ma Heyden non disse nulla. Stette immobile, esattamente dov’era. Rachel s’allontanò.
 
Una volta distesa a letto, premette “Play” sul proprio walkman e Chelsea Morning riprese da dove l’aveva lasciata.
 
 
“She'll pray for endless Sundays as she enters saffron sunsets,
Conjure phantom lovers from the tattered shreds of dawn.”
 
“Pregherà per eterne Domeniche mentre scivolerà in tramonti color zafferano,
Amanti fantasmi rievocati da brandelli frantumati dell’alba.”
 

Pregherà per eterne Domeniche…




Cari lettori,
chiedo perdono per questo giorno di ritardo, ma sono impossibilitata ad aggiornare ieri per svariati motivi. Spero che questo capitolo, insolito oserei dire, possa in qualche modo ripagarvi dell'attesa.
MadCat

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Capitolo 12
*** Thunderstorm ***


Canzone del capitolo: Kayleigh




Era mezzanotte e mezza. Domenica 12 gennaio 1990 sorgeva fredda e silenziosa su una Aylesbury addormentata. Delle note tanto a lungo ignorate svegliarono Rachel dal suo dormiveglia agitato.
 
 
“Do you remember, chalk hearts melting on a playground wall?
Do you remember, dawn escapes from moon washed college halls?
Do you remember, the cherry blossom in the market square?
Do you remember, I thought it was confetti in our hair.”

 
“Ti ricordi, cuori uniti disegnati con il gesso su un muro dei campi da gioco?
Ti ricordi, fughe all'alba dalle stanze del college?
Ti ricordi, il fiorire dei ciliegi nella piazza del mercato?
Ti ricordi, pensai fossero coriandoli sui nostri capelli.”
 
 
Rachel sgranò gli occhi. Si portò a sedere sul letto e deglutì a vuoto. Aveva la gola secca e riusciva a malapena a respirare.
-Kayleigh…-
-Kayleigh.-
Il mormorio di risposta di Heyden le giunse chiaro alle orecchie.
Prese a tremare. Voleva parlare, ma le parole le morivano nella mente, un abbozzo di pensiero inconcluso.

 
 
“By the way didn't I break your heart?
Please excuse me, I never meant to break your heart,
So sorry, I never meant to break your heart
But you broke mine.”

 
“Ma non ti avevo spezzato il cuore?
Per favore scusami, non avrei mai voluto spezzarti il cuore,
per cui scusami, non avrei mai voluto spezzarti il cuore
ma tu hai spezzato il mio.”
 
 
Heyden s’avvicinò al letto e sedette di fianco a lei.
-Perché?- Rachel lo chiese a se stessa.
-Non lo so.- Heyden rispose per lei.
-C’erano miliardi di canzoni, perché proprio questa? Perché proprio ora? Dimmelo, Heyden.-
Ma Heyden rimase in silenzio a fissarla.
-Heyden. Cosa significa?- Il tono sorpreso della ragazza mutò rapidamente. Assottigliò lo sguardo e prese a fissarlo con diffidenza.
-Cosa vuoi fare?-
 
 
“Kayleigh is it too late to say I'm sorry?
And Kayleigh could we get it together again?
I just can't go on pretending that it came to a natural end.
Kayleigh, oh I never thought I'd miss you.
And Kayleigh I thought that we'd always be friends.
We said our love would last forever,
So how did it come to this bitter end?”
 
“Kayleigh è troppo tardi per chiederti scusa?
e Kayleigh potremo tornare insieme?
Non posso continuare a fingere che sia finito tutto in maniera naturale.
Kayleigh, non ho mai creduto che mi saresti mancata.
E Kayleigh pensavo che saremmo rimasti sempre amici.
Abbiamo detto che il nostro amore sarebbe durato per sempre,
come siamo arrivati a questo finale amaro?”
 
 
-Voglio darti il tuo momento di spensierata felicità nella tua esistenza così fottutamente perfetta, voglio mostrarti per pochi attimi ciò che desideri, ciò che sogni, per farti vedere che anche se non è naturale, è possibile.-
I loro volti erano vicini, molto vicini. Gli occhi smeraldini di Rachel si perdevano in quelli glaciali di Heyden che in quel momento ardevano di una fiamma potente, ipnotica, travolgente.
La voce di Heyden era un sussurro.
-Voglio liberarti, Kayleigh.-
Rachel chiuse i propri.
-E dimostrarti che non sarai mai sola.-
 
 
“Do you remember barefoot on the lawn with shooting stars?
Do you remember loving on the floor in Belsize Park?
Do you remember dancing in stilettoes in the snow?
Do you remember you never understood I had to go.”

 
“Ti ricordi a piedi nudi sull’erba con le stelle cadenti?
Ti ricordi l’amore fatto sul pavimento a Belsize Park?
Ti ricordi le danze nella neve coi tacchi a spillo?
Ti ricordi, non hai mai capito che me ne dovevo andare.”
 
 
Le labbra di Heyden incontrarono quelle di Rachel, morbide ed umide. La baciò con un misto di delicatezza e desiderio, lasciando che le mani affondassero nei suoi capelli biondi mentre quelle della ragazza arpionavano le sue spalle. Le accarezzò le guance calde, percorrendo il segno del taglio non ancora completamente rimarginato, per poi scendere sul collo, facendole venire la pelle d’oca e spingendola a stringerlo più forte. Ma quando le labbra di Heyden abbandonarono quelle di Rachel per andare a lambirle il collo, perse il controllo. Gli infilò le mani sotto la maglia e la sfilò in un soffio, lasciandola cadere a terra. Prese ad accarezzargli la schiena in tutta la sua lunghezza, mentre la lingua di Heyden a contatto con la delicata pelle del suo collo le provocava brividi sempre più forti. Intanto, anche le mani di Heyden si erano silenziosamente insinuate sotto la sua felpa ed ora le percorrevano lentamente i fianchi asciutti. Rachel si sporse sopra la spalla di Heyden e prese a succhiargli prima delicatamente, poi sempre con più desiderio il lobo dell’orecchio. Lo sentiva ansimare, sebbene silenziosamente. Il freddo l’avvolse rapido nella sua morsa quando Heyden le tolse la felpa. La strinse a sé e cercò le sue labbra, questa volta con urgenza. La baciò con passione, trasporto. Prese a succhiarle il labbro inferiore mentre la sua mano destra slacciava con un gesto lento, quasi esasperante, il gancetto del reggiseno. Appena avvertì il contatto dei suoi seni con il corpo del fratello, un altro brivido scosse Rachel che abbandonò il capo all’indietro, dando ad Heyden il silenzioso permesso di riprendere la sua dolce tortura. La fece adagiare sul materasso, prendendo tra le mani i seni sodi e accarezzandoli lentamente, mentre continuava a posarle lievi baci sul collo. Rachel ansimava. Lentamente, uno dopo l’altro, i loro vestiti scivolarono sul pavimento in modo sparso. Si ritrovarono, per la prima volta nella loro vita, ad essere una cosa sola. Erano lì, solo loro due senza nessun’altro pensiero al mondo, a condividere sensazioni tanto sbagliate, quanto meravigliose, forti, nuove, proibite. Non erano più i gemelli Hogarth. Erano Heyden e Rachel. William e Kayleigh. Loro. E nessun’altro.
-Pensavo fossi indomabile come le tempeste marine, libero ed inarrestabile quanto il vento delle steppe. Selvaggio ed irraggiungibile.- Rachel sussurrò questo con voce tremante, le labbra su quelle di Heyden.
-Lo sono.- Heyden rispose senza allontanarsi da lei. Le sue labbra, muovendosi, sfioravano quelle della sorella, calde, morbide ed umide. –Lo sono. Ma tu lo sei con me. Te l’ho detto Kayleigh: tu non sarai mai sola.-
 
 
Rachel avvertiva il peso del corpo del fratello sul suo. La sua testa, ora appoggiata sul petto di Rachel, si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro. Era una sensazione così bella, così nuova e meravigliosa. La mano della ragazza ancora saldamente tenuta da quella di Heyden, premuta sul suo cuore.
La musica non s’era fermata. Continuava, seguendo il suo corso. Le canzoni si succedevano, l’atmosfera cambiava. Improvvisamente si fece angosciante.
 
 
“The mist crawls from the canal,
Like some primordial phantom of romance,
To curl, under a cascade of neon pollen,
While I sit tied to the phone like an expectant father,
Your carnation will rot in a vase.”

 
“La nebbia avanza lentamente dal canale,
Come certi fantasmi primordiali dei racconti,
Per ondulare, sotto una cascata di polline di neon,
Mentre siedo attaccato alla cornetta del telefono come un padre in attesa,
Il tuo garofano appassirà nel vaso.”
 
 
Heyden, che nel frattempo si era alzato e si stava pigramente rivestendo, non sembrò avvertire il cambiamento. Rachel ne restò turbata. Si mise in ascolto.
 
 
“She was a wallflower at sixteen,
She'll be a wallflower at thirty four,
Her mother called her beautiful,
Her daddy said "A whore".”

 
“Lei faceva da tappezzeria a sedici anni,
Lei farà da tappezzeria a trentaquattro anni,
Sua madre la chiamava bella,
Suo padre diceva "Puttana".”
 
 
-Puttana…- Rachel lo ripeté con voce incolore.
Heyden alzò il volto.
-Puttana… Sono una puttana.- Guardò il fratello. Rachel sgranò gli occhi.
-UNA PUTTANA!- il grido della ragazza riecheggiò nella casa vuota e buia.
-Rachel, calmati…- Con un dito le accarezzò la cicatrice sulla guancia.
-Ecco cos’hai fatto di me! Una puttana! Sei mio fratello! MIO FRATELLO!- lacrime le scendevano sul volto, cadendo sul materasso come macigni. Gli diede uno schiaffo tanto forte da fargli voltare il viso di lato.
 Gli occhi di Heyden diventarono nuovamente seri, duri e freddi come il ghiaccio.
Allungò una mano, ma la ragazza si dimenò. –Rachel, ci sono cose che…-
-TACI!!!- Era fuori di lei.
-RACHEL! ASCOLTAMI! E’ importante.- La voce di Heyden era dura e fredda quanto il marmo.
-No! No, non voglio ascoltarti! Non voglio ascoltare mai più quello che hai da dirmi, non voglio ascoltare le tue scuse, le tue confessioni, le tue “cose importanti”. Te l’avevo già chiesto. Ti avevo supplicato di non fare mai più quello che facesti giorni fa. Ma tu non solo non mi hai ascoltata! Mi hai portata a questo, mi hai sfruttata, hai sfruttato il mio stato d’animo, i miei sentimenti, la mia confusione.- Sputò le parole come fossero veleno. –Tu mi hai usata, Heyden.-
Rimase in silenzio, la testa voltata di lato. -Ti odio.-
-Mi odi.- Mai parole furono pronunciate con così tanto distacco.
-Va’ fuori di qui.-
Heyden rimase immobile.
-HO DETTO VA VIA!-
Senza emettere un fiato, Heyden si alzò e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Rachel affondò il viso paonazzo di rabbia e vergogna nel cuscino al profumo di lavanda e pianse per ore finché, esausta, non prese sonno.
 
 
“Kayleigh I just wanna say I'm sorry.
But Kayleigh I'm too scared to pick up the phone.
To hear you've found another lover to patch up our broken home.
Kayleigh I'm still trying to write that love song,
Kayleigh it's more important to me now you're gone,
Maybe it will prove that we were right,
Or ever prove that I was wrong.”

 
“Kayleigh, voglio solo dirti che mi dispiace.
Ma, Kayleigh, ho troppa paura di prendere in mano il telefono,
E scoprire che hai trovato un altro uomo per rimettere insieme la nostra casa caduta in pezzi.
Kayleigh, sto ancora provando a scrivere quella canzone d'amore,
Kayleigh, è ancora più importante per me, ora che te ne sei andata,
Forse proverà che avevamo ragione,
Oppure proverà che io avevo torto.”
 
 
Da lì, le cose precipitarono. In modo lento ed inesorabile.

 

                                                                                               
 
 
 
 
 
Cari lettori,
qui la storia subisce la sua prima battuta d’arresto. Ebbene, ho scelto volontariamente di segnare questa come la fine della prima parte della mia FanFiction, in quanto molte cose cambieranno dal prossimo capitolo. Ne approfitto quindi per prendermi un periodo di “pausa” da EFP, nel quale mi dedicherò completamente alla seconda parte della vicenda senza aggiornare, in modo da poterla elaborare con la calma e la pazienza che “Brave” richiede e che purtroppo al momento non ho. Ma non temete! La storia non termina così. Nuovi sviluppi attendono Rachel, Heyden, Ethan, e nuovi personaggi faranno il loro ingresso nella storia.
Sperando di ritrovarvi tutti ancora una volta insieme a me dopo queste settimane di interruzione, vi abbraccio.
Un saluto ed un grazie a tutti voi.
La vostra
MadCat


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Capitolo 13
*** Living Hell ***


Canzone del Capitolo: Easter



15 Aprile 1990
 
Era stato un inizio primavera tormentato. Tante cose erano cambiate. Rachel aveva deciso che l’unico modo per sopravvivere a tutto quello che era successo, fosse di smettere di considerare Heyden. Non solo come fratello. Ma come abitante della casa, come presenza per i corridoi della scuola, come essere vivente. Nulla. Semplicemente per lei, non esisteva più. Lo aveva cancellato completamente dalla propria mente e dai propri ricordi. Come si fa con delle vecchie foto, aveva chiuso tutto in una scatola per dimenticarla serenamente in un angolo buio di una soffitta polverosa.
Ultimamente le cose però erano all’apparenza ancor più facili.
Il 17 Febbraio, Heyden era stato espulso. Ma Rachel covava il sospetto che si fosse fatto espellere volontariamente: era stato sorpreso con uno spinello nel bagno della scuola e, colta al volo l’occasione, il dirigente se n’era liberato senza troppi complimenti. Era un modo talmente insulso per farsi espellere da suonare quasi comico e certamente Heyden non era uno stupido. Evidentemente, aveva pensato Rachel tra sé e sé quel giorno tornando a casa, il fratello aveva bisogno di una scusa per andarsene senza mollare tutto “volontariamente” e chiaramente non aveva trovato nulla di meno banale. Perché prendere una simile risoluzione a pochi mesi dal diploma, Rachel lo scoprì soltanto il 27 Marzo quando, una fredda e piovosa mattina primaverile, Heyden prese su quelle poche cose che riteneva utili e abbandonò casa Mac Lean per non rimettervi più piede. L’unica cosa che lasciò detta, è che si sarebbe stabilito a Manchester. Dopo di ché, scomparve senza lasciare né un recapito telefonico, né un indirizzo. Da allora, il clima in casa era divenuto più vivibile. Venuto a saperlo da poco, Ethan era senza dubbio il più felice tra tutti. Rachel era semplicemente più leggera. In quei mesi era diventata più fredda del marmo, con tutti, ma la partenza di Heyden ebbe i suoi effetti positivi anche su di lei. Non doveva più preoccuparsi di vestire con abiti troppo stretti o scollati, di mettere i pantaloni sotto le canotte lunghe per muoversi in casa, di dire la parola sbagliata al momento sbagliato, di mentire spudoratamente ad Ethan su cosa provasse mentre trascorreva con lui lunghe ore al telefono i sabato pomeriggio. Ethan che ora era lì con lei.
La pasqua era arrivata portando con sé le vacanze ed un agrodolce sapore di primavera e leggerezza che le riempiva il cuore e l’aiutava ad andare avanti. In fondo, era dipesa da Heyden per una vita intera ed il fatto che le fosse venuto a mancare così senza preavviso aveva, oltre ad una lunga lista di benefici, portato anche un grande senso di vuoto in Rachel. Quel suo gesto era stato come sradicare da un terreno inquinato una pianta già debole. Per quanto la pianta smetta di assorbire il veleno, senza quella terra marcia, avvelenata, muore. Inevitabile. E Rachel era morta dentro. Un guscio vuoto. Non aveva più nulla in sé, nemmeno le lacrime per piangere, la forza per scagliare gli oggetti per la stanza. O anche solo per alzarsi al mattino. Era stata male. Malissimo. Non aveva toccato cibo per giorni interi, vomitando l’anima e combattendo con lenzuola fredde come stagnola. Era dimagrita visibilmente e la prima cosa che aveva detto Ethan rivedendola era stata “Sei quanto di più simile ad un fantasma io abbia mai visto”. E poi l’aveva presa tra le braccia.
Era dura. Fottutamente dura.
Ma Rachel non aveva più né la forza, né un buon morivo per continuare a combattere. Non aveva più niente.
Heyden si era portato tutto a Manchester in quello zaino blu, frugato dagli anni lasciandole solo quel suo debole, scarno corpo malato.
 
-Cheers!-
Parenti.
-Salute!-
O estranei?
-Buona Pasqua a tutti!-
Estranei.
-Buona Pasqua Rachel.-
-Buona Pasqua, Ethan.- Lo champagne nel bicchiere le dava il voltastomaco, ma bevette lo stesso. Quanto avrebbe pagato per una Guinnes ghiacciata.
-Prego, Rachel. Prendi una fetta di Apple pie. Non hai mangiato praticamente nulla! Non far stare in pensiero la tua povera zia.-
Stava per vomitare, quel poco agnello che aveva ingoiato a forza la stava torturando. Aveva bisogno di una Lucky Strike, non di ipocrisia da pranzo in famiglia.
-Sei pallida. Vuoi andare a stenderti?-
Si, ti prego. Salvami Ethan.
-Ha solo bisogno di fare quattro chiacchiere!- Il vocione di Connor suonò alle sue orecchie come una campana a morto nel giorno di Natale.
Ucciditi.
-Allora! Cosa vuol fare la nostra Rachel una volta diplomata?-
-Non lo so.-
-Coraggio, nemmeno un’idea? College?-
-No, niente college. Voglio fare giornalismo. Quindi troverò un modo per lavorare e fare gavetta. Ma non lo so ancora. Non ho molta voglia di pensarci.-
-Ma cara! Manca poco tempo oramai. Il caro Ethan aveva già inviato la lettera di presentazione a questo punto. E’ il tuo futuro, non vorrai mandare tutto all’aria quando sei ancora così giovane! Hai un mondo avanti a te e mille strade. Lo dicevo sempre al mio Ethan…-
Non me ne frega un cazzo del mio futuro! Lasciami andare a fumare e poi a dormire. Ne ho pieni i coglioni di tutte queste puttanate.
-Certamente Connor. Ti ringrazio per i tuoi preziosi consigli.-
-E ricorda sempre che la via che più si confà ad una donna una volta terminati gli studi è quella del matrimonio. Lisa aveva 20anni quando ci sposammo. Ricordi, cara?-
-Certamente tesoro.-
Rachel subordinata ad un uomo come Lisa a Connor? Mai. Lei era libera.
“…indomabile come le tempeste marine, libera ed inarrestabile quanto il vento delle steppe. Selvaggia ed irraggiungibile.”
Oh, no. Cazzo.
Sentiva che ne stava arrivando un altro.
-Chiedo perdono. Connor, Lisa.-
Si alzò di scatto dalla sedia e corse verso il bagno. Si accasciò sul water e l’agnello che aveva ingoiato a forza nemmeno un’ora prima finì tra gli scarichi neri di Aylesbury.
Quanto avrebbe resistito ancora?
-Amore, ci sei? Stai bene?-
Da dietro la porta del bagno, la flebile voce di Rachel era quasi impercettibile.
-Voglio andare in camera.-
-Si, si tesoro. Ora ti porto in camera.-
Ethan aprì la porta del bagno, prese il corpo torturato della ragazza tra le braccia e lo portò in camera. La adagiò delicatamente su quel letto che anche dopo diversi mesi, Rachel non riusciva a trovare né comodo, né accogliente. Non era più un semplice pezzo di arredamento, ma un monumento alla meravigliosa mostruosità del gesto che aveva compiuto.
Ethan prese un vinile a caso e lo mise sul giradischi, per farla addormentare. Era debole, aveva bisogno di riposare. Di dormire. Di dimenticare. Se Ethan avesse saputo come, avrebbe fatto qualsiasi cosa per avere indietro quella ragazza allegra, spensierata, forte, sorridente. Ma l’ultima volta che l’aveva vista a quel modo era stato mesi fa. Il più bel Natale della sua vita. Amava Rachel più di qualsiasi creatura al mondo e vederla così ridotta, vicina all’autodistruzione, lo torturava a morte. Ma cosa poteva fare?
-Non lasciarmi sola.- Meno di un sussurro. Che Ethan non udì. Chiuse la porta.
Le prime note della seconda traccia del vinile si dispersero leggere nella stanza.
Non lo fece apposta…
 
 
“And Easter here again, a time for the blind to see,
Easter, surely now can all of your hearts be, free.
 
What will you do?
Make a stone of your heart?
Will you set things right?
When you tear them apart?
Will you sleep at night?
With the plough and the stars alight?

What will you do?
With the wire and the gun?
That'll set things right.
When it's said and done?
Will you sleep at night?
Is there so much love to hide?
Forgive, Forget.
Sing -Never again-.”

“E Pasqua di nuovo da queste parti, il tempo in cui i ciechi possono vedere Pasqua,
Ora certamente i vostri cuori possono essere liberi.

Cosa farai?
Muterai il tuo cuore in pietra?
Metterai le cose a posto?
Dopo averle distrutte?
Dormirai la notte?
Con l’orsa maggiore e le stelle accese?

Cosa farai?
Con il filo spinato ed il fucile?
Che metterà a posto ogni cosa.
Quando tutto sarà stato detto e fatto?
Dormirai la notte?
C’è così tanto amore da nascondere?
Perdona, Dimentica.
Canta -Mai più-.”

 
Rachel sbarrò gli occhi.
No, non Easter. Non Season End. Non questo. Di nuovo.
Lacrime calde le solcarono furiose le guance già pallide e scavate.
Basta. Basta. Per pietà. Uccidetemi, ma fate cessare questa tortura. Vi prego. Basta.
Era un inferno.
Un inferno in terra.
Quanto poteva ancora sopravvivere?





Miei carissimi lettori,
L'attesa è terminata. Finalmente, dopo un mese d'assenza da Efp, mi ripresento a voi sotto le spoglie di Made Again.
Mi dispiace per essermi assentata così a lungo, ma prometto di riprendere esattamente da dove avevo lasciato e di proseguire con questa storia. Il mese appena trascorso non è stato vano: ho potuto riflettere sull'evoluzione della storia e portare le piccole migliorie che richiedeva. Spero potrà piacervi almento tanto quanto la prima parte, nonostante da qui in poi tutto cambi radicalmente per i due protagonisti.
Vi rinnovo il mio appello alle recensioni: sapere cosa ne pensate di questa nuova parte di Brave è per me essenziale.
Grazie nuovamente a tutti voi.
La vostra Made Again.

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Capitolo 14
*** ... and now? ***


Canzone del capitolo: Script for a Jester’s Tear



30 Giugno 1990
 
-… ed ora davanti a noi mille porte, mille cancelli, mille strade. Che ne sarà dei diplomati del 1990? Forse nulla. O forse saranno la generazione che riscriverà il mondo, chi potrà mai saperlo? Ognuno di noi ha in pugno il proprio destino. Ora, in pugno ho soltanto un pezzo di pergamena ad affermare che ormai quella parte di vita fatta di sicurezze e comodità, l’unica che ho fin’ora conosciuto, è terminata. Ora devo rimboccarmi le maniche e trasformare la mia esistenza in qualcosa che valga la pena di essere vissuto, in qualcosa che possa davvero lasciarmi dire, un giorno, “Ottimo lavoro Rachel. Visto? Alla fine ce l’hai fatta.” Sarò sincera, al momento non vedo alcun lieto fine per me. Non ho nessuna certezza, se non che anche domani sorgerà il sole sull’Inghilterra come in tutto il mondo. Non ho alcuna speranza, se non quella di riuscire a ritrovare me stessa, prima o poi, in questa grande confusione da neodiplomata.- Le lacrime cominciarono a premerle ai lati dei grandi occhi verdi. Si scostò i capelli biondi dal viso e riprese, tentando di reprimere l’emozione.
-Io, Rachel Kayleigh Hogarth, non ho intenzione di lasciare che la mia vita vada in pezzi. Questo è un nuovo inizio, lo è per tutti noi. I fantasmi del passato ci lasceranno, prima o poi, liberi di vivere il nostro futuro. Un ragazzo una volta mi ha detto “Qualsiasi viaggio intraprenderai, non sarai mai sola Rachel. Mai.”. Abbiamo un avvenire ad attenderci. E’ giusto lasciarci imboccare la nostra strada, è giusto lasciarci sbagliare. Ma affrontarlo con la consapevolezza di non essere soli facilita le cose.
Never, never, never give up.
Cheers.-

Rachel scese dal piedistallo accompagnata dagli applausi dei propri compagni e rispettivi genitori. La veste nera frusciava piacevolmente mentre si riaccomodava al proprio posto. Quante belle parole. Era stata piuttosto brava, lei che notoriamente con le parole non ci aveva mai saputo fare. La parte migliore era stata “Ma affrontarlo con la consapevolezza di non essere soli facilita le cose.” La più falsa, per l’appunto. Lei era sola. Sola, dannatamente sola. Poteva illudersi di avere gli amici con sé, di avere una famiglia, di avere un ragazzo che amava davvero. Ma i veri amici le avevano sputato in faccia alla prima difficoltà, la sua famiglia era morta ed Ethan non era ormai nulla più che una spalla su cui piangere. Gli voleva molto bene, diceva di amarlo. Ma non ne era più tanto sicura. Non era sicura di nulla. Era sola. Divisa dall’affetto che meritava da un muro eretto da lei stessa.
E poi quel continuo autobombardarsi di sofferenze. L’ultima nemmeno qualche minuto fa. Le prime settimane aveva tentato in ogni modo di fuggire qualsiasi cosa le ricordasse Heyden. E puntualmente quel “qualsiasi cosa” la perseguitava, ricompariva subdolo tra lei e la via d’uscita da quel tunnel di depressione e solitudine dove s’era cacciata con le sue stesse mani. E quando tutto, ogni traccia, briciola di suo fratello sembrava finalmente scomparsa, si era messa lei stessa a ricercarla. Quanto di più autodistruttivo esistesse. A livello emotivo quanto meno, perché una volta superata la fase più nera del suo rifiuto verso il mondo aveva ripreso a mangiare e, sebbene fossero ancora ben visibili le costole quando si spogliava, appariva decisamente meno fragile.
Però, quel suo stato di distacco, apatia, nervosismo, rifiuto, solitudine forzata, quello c’era ancora tutto. Passava ore ed ore sola in camera distesa a letto a fissare il soffitto nero della stanza nell’opprimente oscurità di lunghe notti insonni. Stringendo inutilmente le lenzuola tra le dita umide di pianto. Sfogliava un libro letto fino alla nausea, nonostante si trattasse di un tomo da più di 1300 pagine fino all’ultima, dove una calligrafia ordinata aveva vergato in inchiostro nero le seguenti parole:
 
“Qualsiasi viaggio intraprenderai, non sarai mai sola Rachel. Mai.”
 
-Sei uno stronzo, lo sai?- mormorava versando grandi lacrime amare su quella pagina. –Sei uno stronzo bugiardo.-
E poi ascoltava per ore gli stessi vinili, le stesse musicassette finché non prendeva sonno ancora vestita, sfinita. Lo odiava. Lo odiava perché nonostante tutto quello che le aveva fatto, Rachel non riusciva ad accettare il fatto che non ci fosse più. E odiava se stessa per non essere capace di continuare imperterrita la sua vita. La verità, è che una parte di lei, quella felice, spensierata, indipendente, era scappata a Manchester una mattina di 5 mesi prima e non era più tornata.
 
-Un brindisi alla mia Rachel! Complimenti amore mio, ce l’hai fatta.- Ethan sorrideva felice porgendole un bicchiere di vino bianco, mentre Connor cingeva le spalle di Lisa, che l’osservava con sguardo compiaciuto.
-Sei giunta alla fine del tuo percorso scolastico con successo, Rachel.- Connor si avvicinò e le strinse la mano in una stretta vigorosa. –Congratulazioni.-
-Vi ringrazio, senza tutti voi non credo avrei mai raggiunto questo traguardo.- Rachel era sincera. Il suo sorriso, seppur composto, saliva direttamente dal cuore. Era estremamente riconoscente a quelle persone per averle dato tanto. E lei, in quell’ultimo periodo, non aveva certo facilitato loro le cose. Si era comportata egoisticamente. Non se ne pentiva, ma certo un po’ se ne dispiaceva. Nonostante tutto, non sarebbe rimasta con loro, adesso che poteva andarsene. Sarebbe scappata a Londra, magari Dublino, gli States? Qualsiasi cosa purché non fosse casa Mac Lean. Voleva loro bene, ma ormai quella era una vita che le stava stretta. Decisamente troppo stretta. E lei aveva bisogno di essere libera. Da sola.
-Abbiamo pensato di farti un… beh, non si può chiamare regalo. Abbiamo un pensierino per te, ecco. Un aiuto, un appiglio per il futuro. Che speriamo tu possa trovare utile.-
Lo sguardo interrogativo di Rachel sembrò divertire Connor, che tentennò per godersi la sorpresa della ragazza.
-Su, avanti caro. Diglielo!-
-Ho un vecchio amico di nome John Paul Palmer che ora dirige la sede distaccata di una certa rivista. Ecco, si chiama NME. Credo tu la conosca.-
Gli occhi di Rachel si illuminarono di una luce nuova. Si poteva percepire la sua curiosità. –Ebbene?-
Connor sorrise ancora più apertamente. –Ecco, gli ho fatto un nome di una certa ragazza di nostra conoscenza. Una ragazza brillante, volenterosa e motivata. Una ragazza che ci aveva confidato di voler intraprendere la carriera giornalistica. E quella ragazza sei tu. Spero non ti dispiaccia.-
-Mi dispiace? Mi dispiace?! Oddio, Connor, è meraviglioso! Grazie, grazie, grazie! Non so come ringraziarvi.- Rachel sprizzava gioia da ogni parte, era il ritratto della felicità. Avrebbe avuto una possibilità. Come giornalista. Il medesimo lavoro della madre che a malapena ricordava. La sua gioia era totale, travolgente, indescrivibile. Connor e Lisa si intenerirono vedendola così felice dopo tutti quei mesi di tristezza e rifiuto. Ethan le afferrò i fianchi e la sollevò fino al soffitto. Si guardarono per un lungo momento negli occhi, sguardo che sfuggì alla vista dei due coniugi Mac Lean. Uno sguardo felice, sollevato, innamorato. La riportò a terra e la baciò. Lì, davanti ai propri genitori, senza alcun filtro, senza alcuna preoccupazione se non quella di avvertire sulle proprie labbra il sorriso di lei. Ora che finalmente poteva riavere, forse anche solo per pochi minuti, la Rachel che aveva tanto amato, quella che non avrebbe mai più voluto veder andare via, sostituita con una Rachel triste, magra, depressa e senza alcuna speranza nel domani.  
-Certamente, avrai capito che, per inseguire il tuo sogno non potrai però restare qui con noi, purtroppo.- continuò Connor dopo che i due giovani si separarono. –Malauguratamente dovrai spostarti e trovare un impiego per mantenerti nella nuova città finché non farai gavetta nel mondo del giornalismo. Anche un semplice lavoretto serale. Ma in questo, sfortunatamente non possiamo aiutarti.-
-Non è un problema, mi arrangerò. Troverò una casa ed un lavoro, vedrete. Me la caverò.- Rachel era troppo felice per preoccuparsi di simili futilità in quel momento. Il New Musical Express. La rivista musicale per eccellenza, la più famosa in Inghilterra dopo Melody Maker. Non riusciva quasi a credere alla sua fortuna. Era così assurdo per essere vero.
-Non dovrai preoccuparti per dove stare! Ho un vecchio compagno delle scuole elementari che attualmente vive là e certamente potrà ospitarti, a patto che tu paghi la tua parte. Si chiama Henry Campbell. Vedrai, ti troverai benissimo. E’ una ragazzo davvero simpatico e disponibile.-
L’euforia iniziale aveva lasciato in Rachel spazio ad una più composta felicità. Si ritrovò quindi a domandare: –Là dove?-
-Giusto!- puntualizzò Connor. -Non si tratta, come ti ho già precedentemente detto, della sede principale che si trova a Londra, ma una delle sedi distaccate. E’ piuttosto lontana da qui, ma sono certo potrai ugualmente trovare un modo per venirci a trovare ogni tanto.-
-Certamente lo farò, non dubitate. Vi sono immensamente debitrice.- Rachel si voltò e si abbandonò nuovamente tra le braccia di Ethan, troppo felice per pensare. Come in silenzioso accordo, presero a muoversi dal salone verso le scale, sempre tenendosi per mano e scherzando come ragazzini. Erano già in cima alle scale quando Connor urlò –Rachel! Non ti ho detto che la sede si trova a Manchester!-
Rachel si bloccò a metà del corridoio delle camere, di fronte alla propria stanza. Manchester. Poteva essere possibile? Forse aveva capito male. –Dove hai detto che si trova?- urlò di rimando a Connor, lasciando la mano di Ethan ed aggrappandosi con forza alla maniglia della propria porta.
-Manchester!-
Un leggero tremore le prese le mani e si ritrovò improvvisamente a respirare con il fiato corto, il respiro spezzato.
Manchester.
Aveva capito male.
Manchester.
Non poteva essere.
Manchester.
Continuava a ripeterselo nella mente come una nenia senza fine, sperando che si trattasse di un errore. Ma sapeva che non era così. Nel profondo, dentro si sé, sapeva che era tutto vero. Guardò Ethan con sguardo confuso, la felicità era svanita dai suoi occhi. Ora v’erano solo incredulità e preoccupazione.
-Ho bisogno di andare a riposare. Sono davvero stanca. Buonanotte Ethan.-
Ethan le afferrò rapido il polso.
-Tutto bene tesoro?-
Rachel forzò un sorriso. –Tutto bene. Sono solo molto stanca. E’ stata una giornata faticosa e ricca di novità.-
Ethan si rassegnò: era evidente che la notizia l’aveva profondamente turbata, ma non v’era nulla che potesse fare, se non lasciarla sola. L’aveva imparato a sue spese in quei lunghi mesi di apatia. –D’accordo amore. Fai tanti sogni d’oro. A domani.-
Rachel si chiuse la porta alle spalle, si aggrappò alla massiccia scrivania in noce, aprì il cassetto più piccolo ed estrasse il suo pacchetto di Lucky Strike, spalancò la finestra e ne accese una. Prese una lunga boccata ed espirò lentamente, osservando il fumo disperdersi nell’aria. Sorrise. Prima che Heyden se ne andasse, proprio non riusciva a capire cosa ci trovasse di così appagante nell’inspirare ed espirare fumo, la trovava una cosa stupida ed inutile. Ma quando se n’era andato, in quella fredda mattina di Marzo, aveva dimenticato un pacchetto quasi finito nel cassetto della sua scrivania. E allora Rachel, guidata più da un misto di nostalgia e rabbia che dalla vera necessità, ne aveva presa una tra le labbra ed aveva provato. E le era piaciuto. Le era piaciuto sentire il fumo caldo nei polmoni, la gola grattare e seccarsi. Le era piaciuta la sensazione di freddo pungente una volta ripreso a respirare normalmente, quello stato di calma come se il mondo per quei pochi minuti potesse fermarsi, le figure pennellate nell’aria dal fumo, quell’odore così particolare sulle sue dita, sui capelli, intorno a lei. In fondo era un po’ come se ci fosse lui. Cullata da quei pensieri, spense la sigaretta contro il marmo del balcone, chiuse la finestra e si lasciò andare sul letto, nuovamente agitata dalla rivelazione della serata. Possibile che fosse sempre la stessa storia? Possibile che Heyden non la lasciasse mai in pace? Possibile che il suo ricordo continuasse a perseguitarla sempre e comunque? Quando pareva averlo finalmente dimenticato, tornava, più prepotente che mai. Se ne sarebbe mai liberata? Certamente non nell’immediato futuro. Cosa volva da lei? Cosa cazzo voleva ancora da quell’anima a brandelli, da quel fisico in pezzi? Si era preso tutto di lei: il suo cuore, la sua felicità, la sua vita, il suo corpo. Cos’altro voleva?
-Lasciami andare, ti prego.- sussurrò tremante a sé stessa. Si arrese alla stanchezza e chiuse gli occhi. Dal piano inferiore provenivano i suoni di una normale serata estiva inglese: Lisa che lavava i piatti, Connor che discuteva con lei dei più e del meno, la televisione in salotto accesa, sempre ad un volume un po’ troppo altro.
Script for a Jester’s Tear: la riconobbe non appena la decisa voce di Fish calcò le prime sillabe del pezzo. Scherzo crudele addormentarsi sulle loro note dopo quella strana serata, dolceamara. Il sonno la prese dolcemente tra le sue braccia mentre il pezzo era giunto ormai alle sue battute finali.
 
“So here I am once more in the playground of the broken hearts,
One more experience, one more entry in a diary, self-penned.
Yet another emotional suicide overdosed on sentiment and pride,
Too late to say I love you, too late to re-stage the play,
Abandoning the relics in my playground of yesterday.”
 
“Eccomi di nuovo qui nel giardino dei cuori infranti,
Una nuova esperienza, qualcosa di nuovo da scrivere in un diario tutto mio.
L'ennesimo suicidio emotivo con un'overdose di sentimentalismo ed orgoglio,
E' troppo tardi per dirti che ti amo, troppo tardi per inscenare una nuova commedia,
Lasciandoti dietro tutti i ricordi del mio giardino di una volta.”

Si preannunciava uno dei suoi soliti sogni agitati, popolati di incubi.
Quanto ancora l’avrebbe perseguitata?
Quanto ancora sarebbe potuta fuggire?

 

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Capitolo 15
*** Stop crying your heart out ***


ATTENZIONE
Sono desolata di dover dare questo annuncio, ma mi pare doveroso mettervene al corrente.
Il mio computer ha avuto un problema hardware improvviso ed a quanto sembra non sarà possibile recuperare i file che vi erano salvati. Fortunatamente avevo una copia di "Brave" salvata in un altro luogo, ma tale copia é ahimè soltanto parziale. Inoltre, avrò seri problemi ad aggiornare da ora in avanti, ma in qualche modo spero di riuscire a fare.
Non so descrivervi la mia grandissima frustrazione all'idea non solo di non poter rispettate le scadenze autoimpostemi, ma soprattutto di non poter progredire con la stesura digitale autonoma e, anzi, di aver perso numerosi dati e capitoli già terminati.
Con immenso dispiacere,
Made Again 





Canzone del Capitolo: King of Sunset Town



Venerdì 30 Luglio 1990
 
-I signori passeggeri diretti a Manchester Piccadilly sono pregati di affrettarsi al binario sei. Ripeto, il treno delle 17.34 per Manchester Piccadilly in partenza da London Euston lascerà la stazione tra pochi minuti. I signori passeggeri sono pregati di affrettarsi al binario sei.-
Rachel correva affannata scansando i pendolari dell’ora di punta di quel caldo venerdì 30 luglio affiancata da un ansimante Ethan, che le stringeva la mano scivolosa. Era madida di sudore ed agitata: la vecchia, seppur ancora molto elegante Aston Martin DBS nera del settanta aveva avuto un guasto alle porte di Londra e v’erano voluti venti preziosi minuti perché l’efficiente compagnia assicurativa di Connor facesse accorrere sul luogo un carro attrezzi per rimorchiare l’auto. Rachel aveva dunque preso un autobus insieme ad Ethan. Il tragitto le era parso infinto, non arrivavano mai. E così si era ritrovata all’ultimo minuto a correre tra la calca di un tardo venerdì pomeriggio decisamente troppo caldo. Riuscì a salire sul treno proprio mentre le porte del convoglio si stavano chiudendo alle sue spalle, rischiando di lasciare fuori il suo ingombrante zaino.
Si voltò: Ethan stava in piedi davanti al vetro della porta ormai chiusa. Non era nemmeno riuscita ad abbracciarlo, lui che aveva corso per mezza Londra su un autobus scalcagnato pur di portarla fin là, dove sarebbe partita per una città lontana che non avrebbe probabilmente mai più lasciato. Certo, lui sarebbe venuto a trovarla da Edimburgo con la sua berlina decapottabile blu nuova fiammante, ma soltanto quando gli esami e le lezioni glielo avessero permesso. Stava iniziando un periodo di prova per loro, Rachel ne era consapevole, come pure Ethan. Ma avevano deciso che il suo futuro veniva prima della loro relazione per quel momento: vi ci sarebbero adattati e tuttavia prima o poi si sarebbe chiusa anche quella parentesi.
-Siamo fatti per durare, noi.-
Questo le aveva detto quella mattina, mentre salivano in auto. Rachel aveva sorriso. Sperava davvero che lui non l’abbandonasse. Non avrebbe potuto sopportalo in quel momento.
Qualunque cosa potesse pensare, ora quel ragazzo le rivolgeva un sorriso schermato dalla porta insonorizzata del treno. Mentre il convoglio sobbalzava improvvisamente in avanti, mimò l’atto di telefonare, scandendo il labiale.
-Ti amo.-
-Anche io.- scandì Rachel a sua volta, poggiando la mano al vetro bollente. Lo guardò allontanarsi, finché la stazione di London Euston non scomparve alla sua vista dietro una curva.
-E’ fatta.- mormorò tra sé, continuando a guardare fuori. Era vero, ormai era fatta. Non si tornava più indietro a quel punto. Il suo futuro era in avanti, la aspettava affacciato alla fine di quelle due ore di treno attraverso l’Inghilterra da sud a nord. In un qualche modo, era un po’ come tornare a casa. Sua madre era originaria di Manchester, una vera mancuniana DOC. Sperava che quella gigante del nord dai contorni fumosi potesse accoglierla come una figlia rimasta lontana per molto tempo. Quella città sarebbe stata il suo futuro e la sua vita per gli anni a venire, aveva quella ragazza dai capelli biondi un po’ troppo ribelli e dagli occhi smeraldini il diritto di sentirvicisi a casa? Rachel pregava che fosse così.
Si riscosse da quei pensieri e si voltò, diretta verso la carrozza alla sua destra. Appena aperta la porta, l’aria condizionata l’investì come una benedizione. Trovò posto affianco ad una donna bionda dall’aria assorta, immersa nella lettura di un consunto librone. Una volta accomodatasi e trovata un’adeguata sistemazione al suo ingombrante bagaglio, si apprestò ad affrontare quelle due ore di viaggio. Estrasse dalla tasca superiore del vecchio Salewa verde scuro il proprio walkman con la cassetta prediletta già inserita ed il suo vecchio quadernetto giallo zafferano. Non aveva avuto più il coraggio di scrivere di Kayleigh dopo quella sera. Ma, città nuova, vita nuova. Era ora di affrontare il passato per riprendere una vita “normale”.
 
“Come spiegare alla mia anima dipendente e malata che quella fuga non durò che un giorno, quando caddi a terra stremata, completamente senza forze per tutti quei giorni passati a totale digiuno, tentando di fuggire da quella vita che più che una salvezza si stava dimostrando la mia condanna? Ma Liam, il mio angelo ed il mio demonio, la mia liberazione e la mia perdizione, mi aveva seguita fin là. Mi raccolse e mi riportò indietro. Mi salvò nuovamente da me stessa e da quella città-fantasma. Quando tornammo in quel rifugio, origine e fine di ogni mio male, Bess e Jack sniffavano davanti alla televisione. Liam si buttò malamente sul tappeto di fianco a loro e si attaccò ad una bottiglia sporca  dal manico scheggiato.
Mi avviai stancamente in bagno, chiusi la porta e accesi l’acqua. Dovevo farmi un bagno per lavarmi di dosso quella sensazione malata ed appiccicosa di non valere nulla, quella consapevolezza assassina di non avere nessun motivo per andare avanti. Dovevo in qualche modo rinascere. Quel bagno: la mia fine o il mio nuovo inizio.
La mia fine.
Mi immersi nell’acqua tiepida. La fronte mi bruciava, avevo fortissimi crampi allo stomaco e una nausea che mi stritolava le viscere. All’improvviso, dalla stanza accanto arrivò un grosso tonfo, come di una porta che cadeva di schianto sul pavimento. Contemporaneamente, urlai. Non per la paura. Ma per il dolore. Improvviso, atroce, fottutamente feroce, totalmente inumano. Mi raggomitolai su me stessa in quella vasca dall’acqua improvvisamente gelata. Gelata e rossa. Tremavo ed urlavo. E non potevo fare altro. Intanto di là, altre urla arrivavano e sembravano farsi sempre più vicine e contemporaneamente lontane. Sentivo Liam gridare imprecazioni e maledizioni al vento, Bess stillare e strepitare e Jack agitarsi nel tentativo di menare pugni a non sapevo nemmeno chi. Sentivo uno, due, cento urla di minaccia rivolte ai miei tre compagni di naufragio. E sentivo il mio urlo disumano, e vedevo l’acqua farsi sempre più rossa tra gli occhi annebbiati dal dolore e dalle lacrime. Improvvisamente un poliziotto irruppe nella stanza e rimase completamente paralizzato davanti allo spettacolo che stavo dando di me. E altri due dietro di lui. Continuavo ad urlare, a piangere, a stringermi, graffiarmi, mordermi, fino a sentire il sapore del sangue in bocca, sulla pelle, nell’acqua, dentro di me. Forse stavo finalmente morendo. Ma se così non fosse stato, perché tanto male per nulla? Sparatemi, uccidetemi e non dite nulla a nessuno, ma fermate tutto questo perché non esiste al mondo nulla, nulla peggio di questo.
Rosso.
Bianco.
Nero.”
 
Rachel si addormentò con la testa appoggiata al finestrino bollente e la penna ancora in mano, scossa di quando in quando dal vecchio treno singhiozzante.
 
Uno scossone più forte degli altri la riscosse dal suo sonno agitato, riportandola violentemente a bordo del convoglio diretto a Manchester Piccadilly in quel torrido venerdì pomeriggio che stava pigramente volgendo a sera tra nuovi, rapidi scorci di campagna inglese. Si girò, intorpidita, verso il finestrino e le sfuggì un grande sbadiglio. La donna seduta di fronte a lei sollevò lo sguardo dal suo grosso tomo e sorrise al riflesso del viso assonnato di Rachel.
-Non si preoccupi, signorina. Oramai non manca più molto all’arrivo.-
Rachel si voltò verso la signora che aveva appena parlato. Il forte accento mancuniano della donna le rendeva superflua la domanda che uscì spontanea dalle sue labbra.
-Di dov’è originaria, màdame?-
-Di Manchester. Sono di ritorno. Mi sono recata a far visita a mio figlio. E tu cara? Se non è sconveniente domandartelo.-
-Si figuri. Mi sto recando a Manchester per intraprendere un nuovo lavoro nel campo del giornalismo.-
La donna sorrise, un sorriso segnato da sottili rughe di cui sembrava andare vagamente orgogliosa.
-Allora, ti auguro ogni fortuna, mia cara collega.- I luminosi occhietti blu schermati da un paio di spessi occhiali dalla classica montatura dorata brillarono nella sua direzione.
Rachel divenne improvvisamente curiosa.
-Anche lei giornalista, màdame?-
-Solo occasionalmente oramai, cara. Per lo più mi dedico pienamente alla mia famiglia e al mio adorato marito, le uniche due cose che io abbia realmente amato oltre al mio lavoro. Ma sono soddisfatta di ciò che ho fatto. Mi appresto a pubblicare un libro.-
A Rachel quello sguardo, quegli occhi, ora che li osservava attentamente, parvero vagamente famigliari. Dove l’aveva già vista?
-Mi perdoni, màdame, ma potrei già averla incontrata? Ho la sensazione che questa non sia la prima volta che la vedo.-
-Non di persona, mia cara!- rise la donna, piuttosto divertita. –Io ogni caso, si. Credo proprio che tu possa avermi già visto. Magari su Melody Maker. Una volta avevano quella terribile fissazione per le foto dei giornalisti. Volevano un bel primo piano di fianco ad ogni articolo. Ridicolo. A chi importa la faccia di chi scrive? L’importante è che lo faccia bene.-
Rachel s’illuminò di colpo. Con voce stupefatta chiese: -Lei è per caso Penny Ann Valentine?-
-Si mia cara. Lo sono.- sorrise serena la donna dai luminosi occhietti azzurri.
Incredibile chi si può incontrare su un anonimo convoglio inglese.
-Per chi andrai a lavorare, cara?- Rachel si riscosse dal suo stato di stupore e sorpresa.
-Mi è stato gentilmente permesso di fare un periodo da stagista presso il New Music Express nella sede mancuniana della rivista. Tale…- Rachel prese a rovistare nella tasca superiore del vecchio zaino alla ricerca del biglietto da visita del giornalista che avrebbe a breve assunto il ruolo di capo nella sua vita. I lunghi, ricci capelli biondi le ricadevano sulle guancie, sciolti, rendendole difficile la ricerca.
-Mr. Palmer forse?- azzardò Mrs. Valentine.
-Si, màdame! Proprio lui. Un mio caro… parente, gli ha fatto il mio nome e ho avuto fortuna.- affermò Rachel sollevando il capo. La donna si aggiustò il capellino sulla testa e si rassettò la gonna. Poi riprese a guardarla, con un sorriso gentile ad impreziosirle il volto.
-Sei molto fortunata mia cara…?-
-Rachel Kayleigh Hogarth , Mrs. Valentine.-
-Kayleigh. Che nome delizioso, cara. Ebbene, come stavo dicendo, sei molto fortunata. Sir Palmer è un giornalista di ottimo livello, un uomo disponibile nonché una persona davvero squisita, particolare oserei dire. Non giudicarlo dalle apparenze! Vedrai che ti troverai meravigliosamente a lavorare alle sue dipendenze. Apprenderai moltissimi trucchi del mestiere e, credimi cara, molto nella carriera di un buon giornalista di successo dipende dal mentore che si ha avuto in gioventù. Tu hai i presupposti per diventare un’ottima giornalista, mia cara Kayleigh Hogarth.-
-Vi sono infinitamente grata Mrs. Valentine. La fortuna ed il piacere per avervi incontrata oggi sono miei. Non so descrivervi la mia felicità nell’aver avuto il privilegio di fare la vostra conoscenza.-
La registrazione di una voce femminile interruppe la conversazione tra le due.
-Siamo in arrivo alla stazione Manchester Piccadilly. I signori passeggeri sono pregati di appropinquarsi alle uscite e di avere l’accortezza di non lasciare nulla sua sedili. Grazie per la cortese collaborazione.-
-E’ stato un piacere anche per me, mia cara Kayleigh.- Penny Valentine s’alzò, ripose il vecchio tomo nella borsa e si diresse verso la porta in fondo al vagone. Prima di oltrepassarla, si voltò nuovamente verso Rachel.
-Credi in te stessa. Vedrai che riuscirai ad arrivare in alto. Ma ti raccomando una cosa: non perdere mai di vista le cose realmente importanti. La vita ti metterà davanti a molti bivi, talvolta difficili. Scegli sempre la strada che ti rende più felice. Addio, cara.- Rivolgendole un ultimo luminoso sorriso, varcò la porta e scomparì alla vista di Rachel, lasciandola a fissare la porta chiusa.
Rachel si abbandonò sul sedile. Aveva appena finito di discutere con Penny Ann Valentine, una delle migliori giornaliste musicali britanniche. Incredibile quale sorpresa le aveva riservato quel vecchio treno sobbalzante in un venerdì pomeriggio decisamente troppo caldo.
Prese dalla tasca superiore del vecchio Salewa verde una nuova musicassetta. Una musicassetta che aveva a lungo lasciato chiusa nel buio di un vecchio cassetto polveroso.
L’inserì nel walkman, quindi chiuse lo zaino, lo prese sulle spalle e si diresse verso l’uscita. Il treno era ormai praticamente fermo. Premette play e lasciò che Season End la avvolgesse nel suo fresco, dolce abbraccio. Le prime note di King of Sunset Town le risuonarono negli auricolari non appena le porte del convoglio si aprirono.
Scese dal treno.
La lunga intro musicale in crescendo l’accompagnò attraverso la stazione affollata. Un bambino correva sulla banchina, tenendo ben stretto nella manina chiusa a pugnetto un leccalecca alla fragola, intrattenendo senza intenzione gli stanchi pendolari vogliosi di ritrovare il sorriso delle proprie famiglie una volta a casa. Rachel gli rivolse un fugace sorriso.
La luce del tramonto invadeva la stazione ferroviaria di Manchester quando la ragazza ne varcò l’uscita.
Appoggiata allo stipite del grande ingresso di marmo della stazione, Rachel fissava un punto indefinito in lontananza, il viso rilassato, lo sguardo vuoto. Quella città…
D’improvviso, la sua espressione cambiò. Una nuova consapevolezza si fece strada sul volto della ragazza, illuminato dai caldi bagliori del tramonto. Quella era una nuova vita. Doveva azzerare i precedenti, quella era la sua ultima possibilità di un’esistenza spensierata e felice. Era suo obbligo coglierla. Si tolse lo zaino dalle spalle e prese a frugarvici all’interno. Dopo un minuto abbondante, le sue mani riemersero dal vecchio Salewa verde stringendo un sottile flaconcino nero. Il braccio si rilassò contro il suo corpo ancora troppo magro e vulnerabile, continuando a stringere convulsamente il tubetto tra le mani. Un sospiro sfuggì dalle sue labbra colorate da quel grosso mostro che le si stava risvegliando in fondo al cuore, facendola sentire così pericolosamente instabile sulle gambe. Senza preavviso, la resa dei conti era arrivata ed ora era tardi per scappare nel buio della sua stanza: o distruggeva una volta per tutte quel dolore, o lui avrebbe distrutto definitivamente lei ed a quel punto nessuno avrebbe più potuto rimettere assieme il suo debole corpo spezzato. Rachel si premette violentemente le mani chiuse a pungo sulle tempie e scivolò lentamente lungo lo stipite marmoreo dell’ingresso fino a ritrovarsi accovacciata a terra. La gente continuava a passarle frettolosamente di fianco, osservandola chi con curiosità, chi con indifferenza, chi con una vaga ombra di preoccupazione sul volto, ma nessuno si fermò ad aiutarla. Le cuffiette continuavano a pomparle dritto nella testa un flusso ininterrotto di note appuntite come aghi. Le sentiva pizzicarla e sfregiarla ovunque, insinuandosi profondamente dentro di lei, facendola sanguinare. Doveva reagire. Doveva trovare la forza di farlo, o non si sarebbe alzata mai più.
Appellandosi a tutte le sue forze, appoggiò il palmo alla fredda lastra di marmo e si riportò in piedi. Lo sguardo determinato, una vaga ombra di rabbia negli occhi. Senza esitare, si voltò e lanciò il correttore nel cestino dietro di lei. Quella densa e rassicurante crema colorata sparì alla sua vista, sommersa dai rifiuti. L’amica di tante notti insonni, lei che mascherava così abilmente le sue occhiaie, gli occhi gonfi ed arrossati da ore ed ore di fredde lacrime amare affogate nel cuscino zuppo, da sola, al buio. Mascherare. Ma lei doveva essere se stessa, era stanca di portare una maschera, era stanca di recitare. Nuova città, nuova vita. Si portò il dorso della mano sinistra alla guancia destra e la strofinò con forza finché una sottile linea bianca non apparve evidente contro il rossore della pelle sfregata. Poi prese un elastico e intrecciò i ribelli capelli biondi in una lunga treccia, in modo che le lasciassero libero il viso.
Quando rialzò lo sguardo verso lo skyline di una Manchester prossima al crepuscolo si sentì, per la prima volta dopo mesi, semplicemente se stessa. Rachel Kayleigh Hogwart.
Davanti a lei, la grande regina del nord, la sua nuova casa.
L’avrebbe accolta?
 
“He said -I'm the king of sunset town-
Watch a big wheel turning round,
Some go up and some go down,
Some go thirsty some just drown,
-That's the law round here-
Said the king of sunset town.”

 
“Disse -Io sono il Re della città del tramonto-
Osserva una ruota panoramica girare,
Alcuni salgono ed altri scendono,
Ad alcuni viene sete, altri invece annegano,
-Questa è la legge da queste parti-
Disse il Re della città al tramonto.”

Rachel sorrise.
-I’m the queen of sunset town.-




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Capitolo 16
*** Tales from a Misplaced Childhood ***


Canzone del capitolo: The Release



Seduta sulla vecchia panchina scrostata fuori dalla stazione di Manchester Piccadilly che cominciava in quel momento a svuotarsi da quel marasma di gente che ogni giorno solcava le sue vecchie piattaforme, Rachel aspirava lentamente il fumo e lo soffiava fuori altrettanto lentamente, perdendosi nelle astratte nuvolette che si disperdevano pian piano nell’aria calda del tardo pomeriggio mancuniano. Attendeva ormai da una buona mezzora quel “qualcuno” che ancora non arrivava. Quel “qualcuno” aveva un nome, un cognome ed un abbozzo di identità fornita quella mattina stessa da Ethan in persona. A prenderla sarebbe arrivato un vecchio compagno di classe di Ethan: i due avevano fatto le elementari assieme, ma poi il padre del ragazzo si era trasferito a nord a causa del lavoro e si era portato via con lui anche il bambino. Quel bambino ora aveva 19 anni, ma stando a quanto aveva detto Ethan, se la passava piuttosto bene: il padre aveva aperto tre locali nella viva Manchester e da poco il ragazzo aveva preso possesso di uno dei tre e lo gestiva per conto del genitore. Gli affari sembravano andargli alquanto bene e lui l’avrebbe aiutata a trovarsi un lavoro da affiancare alla sua esperienza da giornalista.
Lasciò cadere a terra il mozzicone, lo spense con la scarpa e si guardò il palmo della mano dove un nome scribacchiato in fretta e furia quella mattina a bordo del vecchio autobus londinese stava cominciando a sbavare, sebbene risultasse ancora leggibile.
-La puntualità non dev’essere il suo forte Mr. Henry Campbell.- sbuffò Rachel a mezza voce con tono a metà tra il divertito ed il seccato continuando a guardare quel nome piatto sul suo palmo.
-Queste parole non hanno molto senso dette da te, Kay.-
Rachel alzò immediatamente il viso e i suoi occhi si illuminarono. Un grande sorriso spuntò sulle sue labbra.
 
-Gale! Non posso crederci! Sei proprio tu!- Rachel si alzò e si buttò tra le braccia del ragazzo che le stava ora di fronte.
-Così sembra wet-chick.-
-Gaaale!- Rachel alzò gli occhi al cielo –questo speravo non te lo ricordassi. E poi i giorni del mio nanismo infantile sono finiti.-
-Come dimenticare, dai! Si, cioè. Sono sempre un coglione, ma non ancora così fottutamente ritardato!- Gale sorrise a sua volta allontanandola da sé e prendendole le mani. Adottò uno sguardo sprezzante e proseguì con un’inconfondibile inflessione da lord inglese nella voce. –E comunque i tuoi ribelli capelli biondi da pulcino bagnato ci sono ancora. Mi ritengo autorizzato a perpetuare questo soprannome.- Rachel rise forte.
-Henry… ecco dove l’avevo già sentito! Ma chi poteva ricordarselo, non credo di averti mai chiamato così! Nemmeno mamma e papà lo facevano. Tu per noi eri sempre stato Gale.-
-E’ vero, hai ragione. Come tu non sei mai stata Rachel e tuo fratello non p mai stato… Heyden, giusto?- Rachel fece un tacito, malinconico segno d’assenso. Gale non vi diede peso. -Sei perdonata Kay.-
Rachel si riscosse. -Che sorpresa, dico davvero. Mi sarei aspettata chiunque, ma mai te. Sono così felice di averti ritrovato Gale.-
-Anche io Kay.- Gale la strinse di nuovo in un abbraccio. –Allora, immagino avrai fame. Vieni, dammi il tuo zaino che lo porto in macchina così possiamo andare a casa.-
 
Mentre la città prossima alla notte sfrecciava veloce accanto a lei dietro il finestrino dell’auto, Rachel tentava di seguire i discorsi di Gale a proposito della grande mancanza di acqua di quell’estate che si stava facendo sentire persino là. Ma la verità è che la sua mente continuava a perdersi, tentando di rielaborare le mille novità di quella giornata.
Chi avrebbe mai detto che lo avrebbe rincontrato? Dopo tutti quegli anni passati a credere di averlo perso per sempre. Certo, era cambiato fisicamente. I capelli biondo cenere che nei loro giochi di bambini gli ricadevano scompigliati sulla fronte mentre tentava di calciare il pallone contro la porta erano ora acconciati in un ordinato e pratico taglio corto, ma quegli occhi grigi così dolci eppure così attenti erano sempre gli stessi di allora. Quando lo aveva osservato, ricambiando il suo sguardo, aveva capito che in realtà era sempre lo stesso di un tempo. Il bambino con il quale lei ed Heyden avevano tanto giocato durante la loro infanzia ormai perduta, il loro vicino di casa, era diventato un ragazzo come lei, ma dentro era rimasto sempre lo stesso, con la sua gentilezza, la sua giocosità e la sua attenzione. Da piccoli avevano passato lunghe ore assieme in mezzo alla vecchia strada di periferia, avevano ascoltato suo padre suonare con la sua vecchia chitarra canzoni che ora erano diventate la colonna sonora della sua vita. Ma era stato più tardi che si erano trovati a condividere qualcosa che li aveva portati a sentire la mancanza l’uno dell’altra di tanto in tanto nella loro vita. La madre di Gale era morta di cancro quando lui aveva appena 6 anni. Si era dimostrato incredibilmente forte in quell’occasione. Rachel non lo era stata altrettanto quando era toccato a lei perdere i genitori. E proprio allora la vera natura di Gale era venuta a galla: era nato per aiutare gli altri, un dono che possedeva e che aveva condiviso con una Rachel di appena nove anni, tanti, troppi anni prima.
Parlare del dolore non è facile. Il dolore si vive. Lo senti bruciare sulla pelle viva, morderti la carne, strapparti ogni cosa cui aggrapparti, lacerarti l’anima. Ed il dolore che Rachel aveva provato ritrovandosi sola al mondo ad appena nove anni era stato insopportabile. Dopo la scuola, Rachel fuggiva alle braccia ed alle grida di una Lisa spaventata per correre a perdifiato fino alla vecchia casa. Heyden la raggiungeva puntualmente pochi minuti dopo avanzando stancamente strascicando i piedi per terra e trascinandosi dietro lo zainetto quasi vuoto. Allora si fermavano: Heyden prendeva a camminare avanti ed indietro per la vecchia stradina fissando l’asfalto sotto di sé con sguardo assente. Rachel invece sedeva sui gradini di fronte alla porta, appoggiava la testolina tra le braccia tremanti e piangeva. Sola e silenziosa.
Talvolta mormorava il nome del fratello, allora lui si fermava e la fissava intensamente con i grandi occhi color ghiaccio lucidi di lacrime impossibili da versare. Poi riprendeva a camminare con andatura lenta e cadenzata lungo la stradina, avanti ed indietro per ore.
Ma proprio quando il dolore stava per prenderle i polmoni, impedendole persino di respirare, quando le lacrime stavano per strozzarla, Gale si materializzava al suo fianco e prendeva ad accarezzarle i lunghi capelli biondi finché non si calmava. Nel silenzio di quei pomeriggi invernali senza sole, Gale con il suo silenzio operava in Rachel molto più di quanto decine di psicologi infantili avessero mai potuto con migliaia e migliaia di parole.
Altre volte invece Rachel spingeva il vecchio uscio ed entrava nella casa oramai buia e maledettamente vuota seguita da Heyden. Allora sedevano taciturni sul divano rattoppato e stavano per ore a fissare la cucina immersa in una tetra semioscurità finché Rachel non veniva presa dal sonno e cadeva in un dormiveglia agitato popolato da incubi di auto in fiamme, lamiere appuntite e quel lungo, assordante stridore di freni fino a che Heyden si stendeva accanto a lei e la stringeva forte, portando la schiena della sorella a poggiare sul suo petto. Solo allora, tranquillizzata dal calmo e regolare alzarsi ed abbassarsi del petto del fratello, Rachel riusciva ad addormentarsi. Ma quando si svegliava, nella buia cucina non c’era più il fratello disteso accanto a lei, ma la tranquillizzante figura di Gale seduto ai piedi del divano a gambe aperte che faceva rigirare un sassolino tra le dita. Sempre lo stesso. Quel sassolino glielo aveva poi regalato l’ultima volta che lo vide accanto a lei. Perché un giorno Gale partì senza una parola insieme al padre per il nord e Rachel non lo rivide mai più fino a quel giorno. Non un saluto, non una parola. Eppure lui doveva sapere che non si sarebbero mai più rivisti, perché decise di donarle quella piccola pietra che Rachel aveva conservato per tutti quegli anni e si era portata appresso anche in quella circostanza insieme a qualche musicassetta del padre che Heyden non aveva preso, pochi vestiti sformati e scoloriti, al libro de “Il Signore degli Anelli” appartenuto alla madre... e la copia donatale dal gemello. Era stato più forte di lei, non era riuscita a lasciarlo sul suo scaffale.
Rachel non seppe mai perché Gale non le disse mai nulla riguardo la sua partenza. Semplicemente un pomeriggio non venne più. Allora Rachel prese quelle poche cose che ancora erano rimaste là, chiuse definitivamente la sua vecchia vita dietro alla porta della casa di periferia di Aylesbury e non vi ritornò mai più. Le fece male, ma nemmeno così tanto come aveva pensato. Ormai era abituata al dolore tanto da non sentirlo più. Però le era molto dispiaciuto perdere quell’amico così strano eppure così speciale.
-Perché quando sei dovuto partire non mi hai detto nulla? Perché te ne sei andato senza salutarmi?-
Rachel sputò fuori quelle domande senza averle nemmeno formulate nella testa. Gale si interruppe e il suo viso sembrò farsi serio. Prese un lungo respiro. Rachel stette in attesa finché non fu pronto per parlare di nuovo.
-Non ci sono riuscito. Volevo farlo, ma quando è arrivato il momento non ci sono riuscito. E’ stato più forte di me. Quando poi sono partito, ci sono stato malissimo, mi sono pentito di non averlo fatto, ma allora l’idea di andarmene da Aylesbury era così assurda che non l’ho accettata e tutto quello che ho saputo fare per salutarti in qualche modo è stato lasciarti quella cazzo di pietra. Mi dispiace.-
Rachel annuì silenziosa sul sedile di fianco a lui. Si, poteva capirlo. Allungò la mano e la poggiò sopra quella di Gale che teneva saldamente la leva del cambio. I due ragazzi si voltarono simultaneamente e si lanciarono un rapido sguardo. Gli occhi di Gale brillavano, Rachel lo notò subito.
-Fermati.-
-No, ci siamo quasi.-
-Gale, fermati.-
Il ragazzo accostò a brodo strada di fianco ad un parco, scese dall’auto e sbatté violentemente la portiera, ma Rachel non si spaventò. Lui non era come Heyden, non era capace di violenza sugli esseri umani. Provocava, istigava, insultava, ma non era capace di alzare le mani. Non aveva la cattiveria necessaria per fare del male ad un’altra persona. Rachel scese a sua volta dall’auto e si diresse verso Gale che stava immobile a fissare il cielo buio illuminato di stelle sopra di loro. Si avvicinò silenziosa e lo abbracciò come faceva da bambina, circondandolo con le braccia e agganciando le dita dietro la sua schiena. E proprio come allora, dopo pochi attimi i muscoli di Gale si rilassarono e la circondò a sua volta con le braccia forti. Quell’abbraccio, così simile a quelli che era solito darle Heyden. Dall’alto dei suo venti centimetri abbondanti rispetto alla sorella, le prendeva la testa e, accarezzandole i capelli, gliela faceva posare sul suo petto, tanto che lei poteva sentire i suoi battiti lenti e regolari. Involontariamente, Rachel si commosse. Quanto le mancava quel ragazzo che una volta era stato suo fratello, quel gemello che aveva imparato prima ad amare e poi ad odiare. Ora sentiva che la figura più vicina ad un fratello nella sua vita forse non era stato Ethan, ma Gale. Che però in quel momento fraintese i suoi occhi lucidi di nostalgia.
-Mi dispiace. Mi dispiace di essermene andato così Kay. Non volevo, lo giuro.-
-Tranquillo.- Rachel scosse lievemente il capo e alzò lo sguardo sul ragazzo che le stava davanti. –Anzi. In un certo senso ti ringrazio.-
-Mi ringrazi?- Gale sembrava ora confuso. -Perché?-
Rachel sospirò, guardando lontano oltre le spalle del ragazzo le luci della città che si fondevano in strane danze nel buio di quella calda notte estiva. –Prima o poi ti spiegherò.-
 
-Ecco, questa è la mia reggia.- disse Gale aprendo con un calcio la porta del piccolo appartamento buio. –Non un granchè.- fece poi portando la mano destra dietro la nuca.
-Non un granchè?- gli fece eco Rachel avvicinandosi alla grande vetrata del soggiorno. Da lì poteva godere di una vista mozzafiato sulla città. –E’ semplicemente meraviglioso.- disse poggiando il palmo alla vetrata che si appannò immediatamente attorno al profilo delle cinque dita affusolate della ragazza.
-Già, questo è davvero meraviglioso. La piccola perla di questo buco.- disse Gale, ora in piedi di fianco a lei. Stettero per un po’ nell’oscurità l’uno di fianco all’altra a guardare una Manchester risvegliarsi lentamente dal letargo del giorno per esplodere in tutta la sua bellezza al calar del sole. Le luci dei locali si stavano lentamente accendendo, dalla strada giungevano strepiti di clacson incazzati e urla di gente pronta ad affrontare la notte ancora giovane. Un faro proveniente da un locale illuminò per un attimo i volti dei due giovani.
-Che hai fatto alla guancia?- Rachel non si era accorta del rapido sguardo che Gale le aveva lanciato in quell’attimo di accecante luce. Istintivamente, mosse le dita verso la cicatrice, percorrendola lentamente.
-Nulla.-
-Non mentirmi.-
-Dico davvero. E’ stato tempo fa, non ricordo nemmeno più.-
-Non prendermi per un ritardato, Kay. E’ recente, si vede.-
-Non sono cazzi tuoi, va bene Gale?-
Rachel si girò verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. Gale invece si fece pensoso. Poi scosse lievemente il capo.
-E’ stato lui. E’ successo qualcosa tra te ed Heyden, è così ovvio. Ecco perché non mi hai ancora parlato di lui. L’avresti fatto altrimenti. Da bambina stravedevi per il tuo gemello. Eravate inseparabili.-
Quelle parole colpirono Rachel dritta in viso con violenza. Era vero. Abbassò lo sguardo.
-Cosa è successo?-
Rachel si lasciò scivolare a terra abbandonando la testa tra le braccia. Il tono di Gale divenne tremendamente dolce. Si accovacciò di fronte a lei, le prese il mento tra le dita e le sollevò il capo. Prese a fissarla negli occhi.
-Cosa ti ha fatto?-
Mesi e mesi di sofferenze tornarono a gravare in modo insopportabile su una Rachel troppo debole per poter continuare a portare tanto dolore da sola. Così riversò tutta la frustrazione, la rabbia, la tristezza, l’amarezza, l’angoscia accumulate sul tappeto del salotto di Gale che stette silenzioso ad ascoltarla. Gli disse di quanto era stata felice con Heyden, di come poi fosse lentamente cambiato dopo la morte dei genitori arrivando a disprezzarla, di come a volte si facesse violento e subito dopo dolce senza una ragione, di come avesse picchiato il suo ragazzo mandandolo all’ospedale, di come l’avesse aiutata ad alzarsi per poi rigettarla violentemente a terra. Ma quando arrivò il momento di svelargli l’inconfessabile, quello che nemmeno lei riusciva ancora a riconoscere senza provare sentimenti diametralmente opposti, non ce la fece. La sua voce si spense. No, non era pronta per rivelargli quelle cose, era troppo presto. Prese fiato e concluse.
-Ma nonostante tutto quello che mi ha fatto, non sono capace di odiarlo completamente. C’è una parte di me che si è portato via quando mi ha lasciata mesi fa. Non so come spiegarlo, ma nel nostro rapporto c’era qualcosa di diverso. Nessuno sarà mai come lui.-
-Tu e lui siete una cosa sola, Kay. Lo sai. Vi siete sempre mossi insieme, vi bastava uno sguardo per capirvi. Io credo sia perché siete gemelli.-
Rachel prese un lembo della maglia e si asciugò il viso.
-Si, probabilmente è per quello. Gale, mi manca cosi tanto.-
-Coraggio wet-chick. Passerà anche questo.- Le prese le mani e l’abbracciò. Dal locale di sotto The Release arrivava chiara fino a loro. Rachel credette per un attimo di sentire la voce del fratello al posto di quella di H cantarle quelle parole.
 
 
“So won't you show me those pictures you hold in your head,
And can you lose me somewhere inside them all,
Because there are colours that run through the heart of me,
That only you can see.”
“Così non mi mostrerai quelle fotografie che conservi dentro la tua testa,
E potrai perdermi da qualche parte dentro di loro,
Perché ci sono dei colori che passano attraverso il mio cuore,
Che solo tu puoi vedere.”
 
 
-Questo è proprio il tipo di musica che suonano nel mio locale.- fece Gale sovrappensiero. –Sai, Beatles, Rolling Stones, Queen. I classici. Ma anche Smiths, Cult, Dire Straits, Marillion …-
-Marillion? Li conosci?-
-Kay, mi reputo mancuniano, ma non mi sono certo dimenticato dove sono nato.-
-Se il pub che gestisci è come la musica che ci suonano, allora è una vera figata.-
Gale le cinse i fianchi e prese a ballare lentamente nel buio. Rachel assecondava i suoi movimenti, mimando con le labbra le parole della canzone, quasi rispondendo a quel fratello così lontano al suo stesso modo.
 
 
“But at the end of the day,
You're the one who burns it all away.
The end of the day,
You're the one, you're the one.
The end of the day.
You're the one who burns it all away.”
“Ma alla fine del giorno,
Sei l’unico che spazza via ogni cosa.
La fine del giorno,
Sei l’unico, sei l’unico.
La fine del giorno,
Sei l’unico che spazza via ogni cosa.”


Le stelle in cielo sembravano ballare lentamente assieme a loro. Rachel poggiò il capo sulla spalla di Gale e chiuse gli occhi mentre la musica sfumava lentamente, sentendosi dopo tanto tempo finalmente a casa.
 




The release non compare nella track list di Season End perchè è la B-side del singolo Easter.

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Capitolo 17
*** Saturday morning call ***


Canzone del Capitolo: Sugar Mice





-Oh, vaffanculo.-
Rachel si svegliò maledicendo sottovoce, strascicando le parole, la bocca ancora impastata dal sonno, quell’unico raggio di sole che era riuscito a filtrare dalle pesanti tende scure del soggiorno. Si girò pigramente su di un lato, alzando la testa e rivolgendo lo sguardo all’open-space della cucina: appeso al muro azzurro troneggiava un grande orologio a parete. Segnava le cinque e mezzo del mattino. Rachel alzò gli occhi al cielo, infastidita da quel risveglio fin troppo mattiniero per i suoi gusti, si portò il cuscino sopra la testa e lo strinse forte attorno al capo, tentando inutilmente di proteggere gli occhi ancora assonnati da quella lama di luce.
Affondando il viso nell’imbottitura blu del divano si rese conto di quanto diverso fosse il profumo di quel tessuto da quello delicato di lavanda delle sue lenzuola color zafferano o da quello di Heyden, un miscuglio di menta e fumo che continuò ad impregnare la sua camera nonostante le imposte lasciate aperte per giorni e giorni. Sembrava essersi attaccato prepotentemente alle pareti di quella stanza, alle lenzuola, lavate e rilavate più volte senza risultati, agli oggetti che aveva lasciato dietro di sé una volta partito. Alla fine anche Rachel si era arresa al profumo così particolare di quell’ambiente ed aveva cominciato a trascorrervi ore ed ore distesa al buio sul tappeto, gli occhi sbarrati a fissare il soffitto perdendo la cognizione del tempo, incapace di addormentarsi, ma anche di muoversi, di andarsene, di pensare.
Si arrese all’evidenza che le sarebbe stato impossibile riaddormentarsi ora che quei ricordi erano tornati a galla nella sua mente confusa e assonnata. Ma più che il dolore, era la nostalgia a rendere così amara quella calda alba mancuniana, la consapevolezza di qualcosa che si era spezzato per sempre. Nostalgia di un passato perduto, proprio come la sua infanzia, di un rapporto così delicato che non avrebbe mai più potuto recuperare, di un ragazzo, un uomo, che non sarebbe mai più stata capace di guardare con gli stessi occhi limpidi ed innocenti di un tempo. Di un futuro che non c’era più, che lasciava spazio soltanto alla fredda consapevolezza che era ora di cominciare a progettarne un altro, tagliando definitivamente i ponti col passato, facendo ripartire la sua vita da quella calda alba mancuniana.  
Nonna Abe, nella sua infinita saggezza, era solita raccontarle brevi storie prima di rimboccarle le coperte e darle il bacio della buonanotte con un dolce sorriso impreziosito dalle rughe. Una delle sue preferite parlava di un ragazzo che, senza accorgersene, faceva del male alla gente che gli stava attorno. Un giorno, ritrovandosi senza amici, parlò di questo al padre, che gli consigliò di piantare un chiodo sulla staccionata in giardino per ogni cattiva azione che avesse compiuto. Il primo giorno il ragazzo piantò molti chiodi, poi piano piano ne piantò sempre meno, finché un bel giorno non ne piantò nemmeno uno. Allora corse dal padre, che gli disse di cominciare ora a togliere un chiodo dalla staccionata per ogni buona azione che avesse compiuto durante la giornata. Finalmente , dopo parecchio tempo, estrasse dalla staccionata anche l’ultimo chiodo. Chiamò dunque il padre per guardare la staccionata.
“Cosa vedi, figlio mio?” chiese il padre.
”E’ piena di buchi.” rispose il figlio.
“Vedi, figlio mio, per quanto bene compiamo con le nostre azioni, esse non potranno mai cancellare completamente il male che abbiamo fatto. I segni resteranno per sempre, proprio come su questa staccionata.”
Rachel ora si sentiva come quella staccionata: bucata, deturpata, sfregiata nel profondo. Ma il dolore dei chiodi nella carne era ormai poco più che l’ombra di un debole ricordo confuso relegato nell’angolo più oscuro dell’anima. Il tempo li aveva lentamente asportati tutti, lasciando al loro posto invisibili cicatrici bianche totalmente rimarginate, come il lungo taglio sulla sua guancia. Ma Rachel sapeva che la sua pelle non sarebbe mai più ritornata liscia e rosea come prima, esattamente come lei non sarebbe mai potuta tornare ad essere la ragazza di un tempo.
Rachel si sedette sul divano, rendendosi conto di ciò che era successo la sera prima. Evidentemente si era addormentata tra le braccia forti di Gale mentre lui continuava piano a farla girare ed accarezzarle i capelli. Lui l’aveva dunque adagiata sul divano dietro di loro, l’aveva spogliata e rivestita con una comoda maglia del Manchester City probabilmente sua e l’aveva avvolta in quel morbido lenzuolo azzurro cielo. Rachel si sentì infinitamente riconoscente per ciò che quel ragazzo aveva fatto per lei: l’aveva accolta in casa sua senza nulla chiedere in cambio e l’aveva accudita, quasi il tempo tra loro non fosse mai passato per quei due bambini di 9 e 11 anni. Non la infastidiva che lui l’avesse vista praticamente nuda: non era passato nemmeno un giorno da quando si erano ritrovati, eppure lei sentiva dentro di sé di potersi fidare completamente di lui, che in fondo non era cambiato che nell’aspetto.  
Si alzò in piedi e, avvicinatasi al raggio di luce che illuminava fiocamente la stanza, tirò le pesanti tende del soggiorno. All’inizio la luce così forte ed improvvisa l’accecò. Ma non appena i suoi occhi si furono abituati, rimase incantata davanti a quello spettacolo: un sole rosso sorgeva lento su una Manchester ancora pesantemente addormentata memore di una notte magica illuminata da mille e mille lucciole danzanti, colorando le sue strade, i palazzi, i parchi di riflessi purpurei, aranciati e dorati. La luce prepotente del sole si rifletteva nei capelli e negli occhi di Rachel, in piedi davanti alla vetrata. Inconsciamente, la ragazza portò le mani alla lunga treccia e la sciolse, lasciando i ribelli capelli biondi ricaderle disordinatamente sulle spalle. Si riscoprì a fissare la propria figura riflessa. Fece un passo indietro per poterla osservare meglio. Il grande vetro della finestra restituiva ai suoi occhi ancora assonnati l’immagine di una ragazza profondamente diversa da quella che Heyden aveva lasciato ad Aylesbury mesi prima. Davanti a lei stava ora una ragazza piuttosto assonnata molto più magra di quanto la ricordasse, non troppo alta, con indosso una vecchia maglia di qualche taglia più grande che le arrivava fino al ginocchio, dai lunghi ribelli capelli ricci resi dalla forte luce dell’alba lucenti come l’oro e gli occhi verde intenso impreziositi da pagliuzze dorate e riflessi aranciati. Dietro di lei, a farle da sfondo, una Manchester avvolta in quell’aurea incantata che avvolge qualsiasi grande città fino alle sei del mattino, la calma prima della tempesta, la tensione dei muscoli prima del salto, il respiro trattenuto prima del tuffo, il silenzio prima del bacio. Tanto tempo era passato dall’ultima volta nella quale si era specchiata appena sveglia. Ma nessuno l’avrebbe attaccata alle spalle con un ironico “Sai bene anche tu di non averlo immaginato
”. Nessuno si sarebbe specchiato insieme a lei. Non quella mattina.
Gli occhi di Rachel sembravano ora ardere a causa dei mille giochi di colore che la luce proiettava nella sua iride smeraldina. Sembravano quasi ardere di un fuoco caldo, rassicurante, piacevole, quel genere di fuoco che ti riscalda nelle lunghe sere invernali, quando il vento fuori soffia impetuoso e la neve volteggia come impazzita contro il cielo nero della notte. Un fuoco che sa di famiglia, di the e latte, di risate, di carezze. Quei fuochi che non ti scaldano solo le membra, ma anche il cuore, l’anima. Non quel fuoco freddo, doloroso che bruciava negli occhi come in Heyden stesso. Quel fuoco che o ti distruggeva, o ti faceva bruciare assieme a lui. Eppure lei ed Heyden erano proprio quello: uniti e separati, vicini e lontani, uguali ed opposti.
Siamo la stesa cosa…
Rachel distolse lo sguardo.
Mosse qualche passo indietro e si sedette nuovamente sul divano, poggiò la testa sui palmi delle mani e stette ad ammirare lo spettacolo della città che si risvegliava, perdendosi tra i suoi pensieri.
Sovrappensiero, prese a canticchiare tra sé e sé stralci di canzoni.
 
“I was flicking through the channels on the TV,
on a Sunday in Milwaukee in the rain,
trying to piece together conversations,
trying to find out where to lay the blame.

But when it comes right down to it there's no use trying to pretend,
for when it gets right down to it there's no one here that's left to blame,
blame it on me, you can blame it on me.
we're just sugar mice in the rain.”
“Stavo saltellando tra un canale televisivo e l’altro,
una domenica di pioggia, a Milwaukee,
cercando di mettere insieme i pezzi di conversazione,
cercando di scoprire a chi o che cosa dare la colpa.

Ma quando si arriva al punto è inutile cercare di fingere,
perché quando si arriva al punto qui non c’è più nessuno a cui dar la colpa,
la colpa è mia, puoi dare a me la colpa,
siamo solo di zucchero sotto la pioggia.”

E anche quell’alba lasciò lentamente il posto al giorno.

Fu così che la trovò Gale qualche ora dopo.
-Buongiorno Gale.- fece Rachel senza muoversi.
Gale fu colto di sorpresa. Si avvicinò al divano e sedette accanto a lei.
-Buongiorno Kay. Non credevo ti avrei trovato sveglia.-
-Nemmeno io credevo mi sarei svegliata tanto presto. Ma l’ora è valsa lo spettacolo. Manchester all’alba è qualcosa di magico.-
-E’ così. Mi sono innamorato di questa città appena l’ho vista. Sarà lo stesso per te.-
-Ho sempre amato questa città. Era parte di mia madre. Allo stesso modo è parte di me.-
-Si, è così.- Gale si alzò dal divano. –Avrai fame.- disse guardando l’orologio. -Ieri sera non hai nemmeno cenato.-
Effettivamente, Rachel si accorse di avere una gran fame. Era digiuna praticamente dal mattino precedente. –A dirla tutta sto letteralmente morendo di fame. Cosa si mangia?-
Gale spostò lo sguardo divertito dall’orologio a lei. –Per il momento, nulla. Vestiti, White. Non tutti amano il City qui.- disse indicando con un cenno del capo la maglia di Rachel.

Dopo una ventina di minuti stavano scendendo le scale dell’angusto condominio di Gale diretti verso la fermata del tram, lui indossando un paio di jeans logori, una maglia blu ed una vecchia tracolla consumata, lei con un paio di shorts di jeans a vita alta, una leggera camicetta bianca senza maniche infilata dentro i pantaloni e una pratica borsa di pelle. Si strinsero nel mezzo affollato di pendolari, finché dopo alcune fermate Gale non le afferrò la mano e la trascinò fuori dalla carrozza.
-Benvenuta a Manchester.-
 La Town Hall si stagliava in tutta la sua bellezza troneggiando su St. Albert Square. La torre del municipio, quel bizzarro Big Ben in miniatura, dominava con la sua massiccia presenza il cielo di un azzurro così intenso da poterci affogare sopra le loro teste. Qualche mancuniano si affrettava attorno a loro verso il luogo di lavoro, qualche altro si attardava di fronte alle vetrine o sorseggiava il primo the della giornata in un café, qualche altro ancora fumava pigramente abbandonato su una panchina. Proprio in quel momento, il cugino mancuniano della celebre torre orologio della capitale suonò dieci rintocchi. Rachel rimase colpita da tanta bellezza. Aylesbury che tanto le era sembrata bella ed immensa nella sua infanzia non era nulla in confronto a quello.
-Allora?-
-E’ stupenda.- Rachel fece un piccolo giro su se stessa. –Davvero stupenda.-
-Un piccola curiosità tipicamente nostra.- asserì Gale compiaciuto. –Entriamo?- fece poi rivolgendo il capo verso il vecchio café che occupava un’ala del primo piano del municipio.

–E’ un posticino tipico, antico, molto carino. Non quanto il mio locale però!- esclamò sottovoce Gale ancora con la bocca mezza piena. Rachel terminò il suo the osservando l’interno del café dall’aria molto british.
-Quando mi ci porterai? Nel tuo locale intendo.-
Gale lasciò la domanda in sospeso, si alzò per pagare, quindi le fece segno di raggiungerla fuori.
-Allora?- fece lei, impaziente.
Gale si voltò verso di lei con un sorriso. –Appena avrai voglia di cominciare a lavorare, Kay.-
Il viso di Rachel si aprì in un grande sorriso. –Anche subito capo, se per lei va bene.-
-Molto bene Miss Hogarth. Se proprio insiste, può attaccare stasera, compatibilmente con i suoi impegni di giornalista di successo, s’intende.-
-Quelli sono in sospeso fino ad Agosto quando farò il primo colloquio con Mr. Palmer.-
-Allora benvenuta a bordo, Kay. Sei ufficialmente una cameriera del Lass o’Gowrie. Sta sera ti affiderò alle mani di Lyla, ci penserà lei a fare di te la migliore cameriera di tutta Manchester.-
Rachel l’abbracciò.
-Grazie Gale.-
-Di nulla, Kay.-

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Capitolo 18
*** Hey, Lyla! (I'm the Walrus) ***


Cari lettori,
 
Mi scuso innanzitutto per il ritardo nell’aggiornare, ma sono stata veramente molto impegnata quest’oggi. Detto questo, faccio una piccola premessa prima di lasciarvi a questo nuovo ed insolito capitolo. Insolito, perché il brano che lo accompagna non appartiene come di consueto al gruppo che funge da spalla ed anima all’intera storia. Questa scelta di introdurre in “Brave” questo nuovo gruppo che nasce proprio a Manchester nel 1990/91 scaturisce da un’idea avuta per caso mesi fa ascoltando proprio questa canzone che ivi vi propongo. Essendo questa storia come pure i suoi personaggi parte integrante di me, non ho potuto evitare di affiancare ai Marillion i The Rain che diventeranno con l’ingresso in formazione dell’intramontabile Noel Gallagher gli Oasis. L’amore per questi due gruppi viaggia di pari passo, quindi perdonatemi se inserirò qualche sporadico pezzo del quintetto di Burnage. Ma non temete! Non stravolgeranno la storia che per concezione iniziale e natura stessa ruota attorno ai ragazzi di Aylesbury. Spero potrete apprezzarli, nella loro netta diversità, tanto quanto me.
Cheers.
Made Again.

 
 
 
 
Canzone del Capitolo: I Am The Walrus (Oasis cover)



 

Era quasi mezzogiorno e l’aria cominciava a farsi calda ed afosa nonostante la latitudine. Ma Rachel non sembrava accorgersene. Lei e Gale stavano allegramente passeggiando per l’antico centro di Manchester sotto quel brillante sole estivo tenendosi spensieratamente sottobraccio. Gale continuava ad elencarle cenni storici, particolarità artistiche, dettagli impalpabili di ogni facciata, a farle notare ogni scorcio, ogni viuzza dimenticata nella bellezza della sua semplice autenticità, ognuna con le sue piccole particolarità: un gatto che balzava pigramente sui cassonetti stracolmi, una donna che rovesciava l’acqua sporca dopo aver pulito i pavimenti nel tombino a bordo strada, due bambini che calciavano un vecchio pallone rattoppato contro un muro scrostato, le urla strascicate di un uomo rivestite di quell’accento così particolare che di tanto in tanto si affacciava timidamente anche alle parole di Gale. Tutto di quella città, nella sua quotidiana semplicità, affascinava Rachel più di quanto avesse fatto Londra molti anni prima. Ad ogni passo si riscopriva parte integrante di quel delicato ingranaggio fatto di volti atteggiati in espressioni dure, sicure, eppure estremamente cordiali, ogni sguardo portava con sé ricordi mai vissuti, ma che sentiva le appartenevano. Si rendeva conto, passo dopo passo, di aver fatto la scelta giusta decidendo di lasciarsi alle spalle Aylesbury e tutto ciò che rappresentava.
-E qui giungiamo alla fine del nostro tour, Miss Hogarth, la ringrazio della cortese attenzione. Commenti?-
-Assolutamente esauriente, Mr. Campbell.- rispose lei con un sorriso.
-Merito una mancia quindi?-
-Accontentati dell’onore di avermi come dipendente nel tuo locale, Gale.-
-Naaa. Il fottuto onore deve essere tuo Kay, cazzo.- Gale si fermò di colpo davanti all’antico café dove poche ore prima avevano fatto colazione. –Quel posto è il pub più figo che tu abbia mai visto in vita tua. E’ semplicemente epico!-
-Cazzo, Gale. Calma! Neanche si trattasse della tua ragazza.-
-Esatto quel pub è mio figlio. Ed in quanto tale, è figo almeno tanto quanto il padre.- Terminò portandosi la mano destra chiusa a pugno sul cuore.
Rachel alzò gli occhi al cielo con finta esasperazione. Quanto ego! Però se il suo intento era quello di incuriosirla, beh, c’era riuscito. Ora non vedeva l’ora di entrare in quel fantomatico pub.
La piccola St. Albert Square iniziava pian piano ad animarsi di allegri mancuniani accorsi per godersi il piacevole sole estivo durante la pausa pranzo, magari per addentare un succulento sandwich o semplicemente per fumare una sigaretta in santa pace. Un allegro chiacchiericcio si diffuse nell’aria
Con un gesto teatrale, Gale estrasse dalla logora tracolla due pacchetti macchiati di rosso.
-Il pranzo è servito!-
Rachel rimase a bocca aperta: un grosso sandwich farcito con ogni ben di Dio stava ora tra le sue mani, mentre Gale si avviava verso una panchina poco distante, all’ombra di un vecchio acero.
Dopo aver gustato quel lauto pasto tra una risata ed un’altra, Rachel si alzò e si diresse verso una cabina telefonica poco distante, frugò in tasca alla ricerca di qualche spicciolo e compose il numero della vecchia casa. Il telefono suonò a vuoto per qualche secondo, poi Ethan rispose.
-Mac Lean?-
-Ciao Ethan.-
-Amore! Finalmente! Come stai?-
-Benissimo, grazie. Qui è tutto meraviglioso e Gale si è dimostrato subito estremamente gentile e disponibile.-
-Henry?-
-Già, proprio lui. Sai, ho scoperto di conoscerlo: eravamo vicini di casa da piccoli.-
Ethan si lasciò andare ad una risata dall’altro capo della cornetta. -Tu e la tua solita fortuna! Ed ora che fate?-
-Sta mattina siamo andati a fare un piccolo giro per l’antico centro città. Scommetto ti piacerebbe moltissimo. Un giorno, quando verrai a trovarmi, dovremmo proprio fare una passeggiata.-
-E se questo giro lo facessimo domani? Dovrò tornare ad Edimburgo dopodomani, ma anticipando la partenza potrei essere a Manchester in serata.-
-Oh, tesoro. Mi piacerebbe moltissimo. Ma sta sera comincio a lavorare e non mi sembra proprio il caso di assentarmi già il secondo giorno. Non sai quanto mi dispiace. Vorrei tanto poterti vedere.-
-Non fa nulla.- replicò Ethan dopo qualche attimo di silenzio. –Anzi. Vorrà dire che mi farò servire la cena dalla cameriera più bella di tutta Manchester.-
-Ethan. E’ meraviglioso! Allora ti aspetto domani sera.-
-Certamente. Nome del locale?-
-Lass o’Gowrie. Sud-est rispetto al centro, appena dentro il ring.-
-Perfetto, ci sarò. Mi lasci un recapito telefonico per favore?-
-Certo.- Rachel gli dettò il numero di casa di Gale e successivamente quello del locale.
-Grazie amore. Sarai a casa sta sera?-
-Non credo. Se devi dirmi qualcosa, chiama pure al lavoro. Sarò là.-
-Oh, non per me. E’ Lisa. Ha piacere di salutarti e di sentire come stai. Se non ricordo male, ha anche qualcosa da dirti, ma al momento mi sfugge di cosa si tratti. Beh, ti dirà tutto lei questa sera.-
-Tranquillo, non ci sono problemi. A domani allora.-
-Certo amore. A domani. Ti amo.-
Rachel sospirò. –Anch’io.-
 
-Avanti, avanti, avanti. Ferma! Okkei, si. Così. Coraggio. Ancora una curva e ci siamo. Ecco, pronta, ci sei? Bene, apri gli occhi. Tah Dah!-
In piedi in mezzo al marciapiedi, Rachel guardava verso l’alto in direzione del pannello luminoso che lampeggiava intermittente sopra la sua testa sebbene fosse ancora tardo pomeriggio ed il sole splendesse alto nel cielo, lanciando pallidi lampi verdi sull’ingresso del locale. Il pub sorgeva all’angolo di due strade piuttosto trafficate. Si trattava di un vecchio edificio rustico in mattoni rossi, molto tipico. Il rumore dei clacson indiavolati si fondeva con le prime pallide note di una radio accesa all’interno. Da fuori, il Lass o’Gowrie pareva promettere bene.
-Non male, Campbell. L’esterno è una vera figata. Molto Irish.-
-Merito della padrona di casa. Vieni dentro, te la presento.-
Salì i tre gradini che portavano all’ingresso ed entrò. Dentro, il legno era ciò che prevaleva nell’ambiente. Una piccola anticamera dava su due pareti laterali adibite ad attaccapanni per poi lanciarsi direttamente nel vivo del locale. Sulla sinistra troneggiava il grande bancone di legno lucido e scuro, dietro stavano ripiani e ripiani di alcolici di ogni sorte. Sulla destra imperavano invece grosse botti con sgabelli dove accomodarsi. Il resto dell’ambiente era occupato da tavolini tondi, anch’essi di legno. In fondo al pub stava una piccola piattaforma rialzata per i gruppi che ogni sabato sera animavano il locale. Alle pareti erano affissi vecchi poster di concerti più o meno celebri di band inglesi dagli anni 60 in poi. E poi arazzi, cartelli, massime, freddure inglesi appesi ovunque. Il tutto rigorosamente di una qualche sfumatura verde. Dalle travi del soffitto calavano cappellini con visiera che portavano ricamato sulla fronte il logo ed il nome di una qualche marca di birra. Rachel ne contò più di 50 differenti provenienti da ogni parte del mondo prima di essere richiamata a terra da un trillo. 
 -Campbell! Sei arrivato presto oggi!-
Una ragazza sui vent’anni fece il suo ingresso nella stanza vuota. Portava i lunghi capelli rossi raccolti in due trecce. I frizzanti occhi dorati si spostavano rapidi da Gale a Rachel e viceversa.
-Tu devi essere Kayleigh! Piacere, io sono Cassidy, ma chiamami pure Lyla. Il mio secondo nome è decisamente più facile.- fece con voce allegra. Il marcato accento irlandese rendeva le sue parole particolarmente cordiali. Rachel allungò la mano verso quella ragazza così intrigante.
-Chiamami pure Kay.-
-Ragazze, c’è quella nuova.- fece poi voltando la testa verso l’ingresso della cucina.
Altre due figure dai corti capelli mori fecero capolino nella sala.
-Kay, loro sono Penny e Violet.-
-Ciao!- fecero all’unisono le due nuove venute.
-Oh, gemelle…- esclamò Rachel con voce spezzata, più simile ad un pensiero espresso ad alta voce che ad una vera affermazione.
-Lyla, te l’ho portata perché tu faccia di lei la migliore cameriera che l’Inghilterra abbia mai conosciuto e so che nelle tue mani i risultati sono assicurati.-
-Non sono così incapace, Gale!- protestò Rachel nella sua direzione.
-Ovviamente, si vede di che pasta sei fatta, non ho dubbi sul fatto che sarai una cameriera di quelle toste. Non fare caso a lui, vieni con noi. Per prima cosa hai bisogno della gusta mise.- Lyla prese Rachel sottobraccio e la trascinò verso la cucina seguita da Penny e Violet. Voltato l’angolo si ritrovarono in un piccolo stanzino illuminato malamente da una luce al neon.
-Ecco, allora. Intanto benvenuta a bordo. Non ti far problemi a chiedere qualsiasi cosa tu non capisca, siamo tutte qui per aiutarti, ci si vuole bene tra di noi.- cominciò Lyla con un sorriso stampato sul suo viso diafano ricoperto da allegre lentiggini. – Non ci sono regole precise, se non quella di evitare di ubriacarsi durante il turno, c’è tutto il tempo per farlo quando stacchiamo, e di legare i capelli quando sei qui, dato che sono così lunghi. Una semplice treccia come quella che porti oggi andrà benissimo. Per il resto, un bel sorriso e divertiti, questo lavoro è stupendo se preso da subito per il verso giusto. E a proposito di verso giusto…- Lyla si voltò ed immerse la testa in uno scatolone alle sue spalle. Ne riemerse poco dopo porgendo a Rachel una gonna plissettata verde pino, una camicetta bianca e un nastro dello stesso verde della gonna. –Ecco la tua divisa. Lo so, non è il massimo, ma quanto meno non abbiamo la targhetta appuntata alla tasca destra come alcuni squallidi locali del centro. Per lo più, ci conosciamo tutti qui. Vedrai, è un po’ come stare in famiglia, alla fine ti ci abitui e ti piace anche se non vuoi. Ma ora cambiati. Appena hai finito, ti aspetto di là per le ultime due cosette prima dell’apertura.- Lyla fece per chiudere la porta, ma prima di socchiuderla si voltò verso Rachel e le disse: -Sono contenta di averti con noi Kay.-
Rachel sorrise.
–Anche io sono felice di essere qui con voi, Lyla. Grazie di tutto.- Detto quello, l’irlandese scomparì in cucina.  
 
Erano appena le dieci di quella calda serata mancuniana, ma l’aria all’interno del Lass o’Gowrie era già satura dell’odore del fumo mischiato a quello dell’alcool in un mix letale che dava lentamente alla testa. Un paio di avventori in giacca e cravatta, decisamente fuori posto in quell’ambiente, tentavano goffamente di farsi spazio a gomitate tra la calca di operai, studenti, ragazzi e ragazze la cui sola ancora di salvezza in quelle vite in bilico erano una buona birra ghiacciata ed una sigaretta in compagnia a fine giornata. Il gruppo di quella sera suonava brani propri intervallati a cover di alcuni pezzi dei Beatles e tutti nel locale rivolgevano pigramente lo sguardo al palchetto in fondo al pub per cercare d’intravedere in quel quartetto squattrinato almeno una briciola dell’immensità dei quattro Lords di Liverpool, per quanto il loro accento secco fosse caratteristicamente mancuniano ed il loro aspetto trasandato fosse riconducibile al peggior quartiere sud della città, Burnage. Ma anche la stessa Rachel, per quanto le premesse fossero tutt’altro che promettenti per quel gruppetto di ventenni, si riscopriva ad incantarsi con un bicchiere in mano o la mano sollevata a mezz’aria nell’atto di prendere una bottiglia di ottimo Scotch scozzese dal ripiano dietro al bancone. Ma nessuno, nemmeno Lyla si prendeva il disturbo di rimproverarla. Tutti sembravano catturati, anche se involontariamente, da quella band dal nome così inglese da risultare quasi patetico: The Rain.
I quattro ragazzi, già piuttosto sbronzi nonostante l’ora (soprattutto il cantante), avevano cominciato la serata in sordina, ma avevano pian piano ingranato la giusta marcia ed ora sempre più sguardi d’approvazione e vivo interesse si posavano su quel giovane dagli occhi blu limpidi quanto il cielo dopo un temporale che, mani dietro la schiena e busto piegato in avanti in modo talmente particolare ed insolito da rasentare il buffo, annunciava tra urla d’approvazione -I’m the Walrus!- con quel pronunciato, fiero accento mancuniano e quella voce così graffiante e secca.
Finalmente la serata stava prendendo la giusta piega e la gente rumoreggiava canticchiando quella melodia conosciuta, anche se la versione proposta quella sera aveva un ritmo più incalzante, marcato, incazzato, più mancuniano. E non appena il cantante attaccò la strofa, il pubblico s’accese: in ogni angolo del locale la gente di alzava in piedi, i ragazzi afferravano la mano delle ragazze per andare ai piedi del palchetto per poterli vedere meglio, persino tutte le cameriere di fermarono, Rachel compresa che stava ancora reggendo tra le mani due bottiglie di Stella Artois, e si avvicinarono a quel gruppetto di sfacciati esaltati su cui nessuno avrebbe mai scommesso un solo penny e che invece stava dimostrando che anche in un posto dimenticato da Dio come Burnage c’era della stoffa da vendere, grezza ma promettente. Non appena iniziò il ritornello, il Lass o’Gowrie esplose. Tutti attaccarono a cantare ad una sola voce assieme al cantante:
 
“I am the eggman,
they are the eggmen.
I am the walrus,
goo goo g'joob g'goo goo g'joob!”
 
Alzando i bicchieri e le braccia, urlando assieme alla voce graffiante di quel ragazzo dagli occhi blu, lucidi per l’eccitazione e l’alcool che continuava ad arrivare ininterrotto in circolo, quelle parole senza senso, eppure così care ad intere generazioni di inglesi e non solo. Alla fine del pezzo, urla e fischi d’approvazione si levarono disordinatamente, ma con inaudita potenza da ogni angolo del locale, facendo quasi tremare i vetri, mentre il cantante in un eccesso di onnipotenza derivata dal trionfo assoluto, gridava a squarciagola –Sono John Lennon!-
Rachel, unitasi alle urla, porse una delle due bottiglie di birra al cantante. Lui l’afferrò con un sorriso ammiccante dritto dritto negli occhi verde intenso di Rachel che venne percorsa da un brivido impostogli da quelle pozze limpide. Poi alzarono le bottiglie all’unisono verso l’alto ed esclamando “Cheers” bevvero, quasi si fosse trattato di due vecchi amici, ritrovatisi curiosamente per un bizzarro gioco del destino. Una volta buttato giù un generoso sorso, il ragazzo si rivolse nuovamente a Rachel, sfoderando lo sguardo più accattivante e seducente che lei avesse mai visto rivolgerle.
-Liam-
-Kayleigh.-
-Bel nome, blondie.- ammiccò verso di lei.
-Grazie.-
Il cantante afferrò in quel momento uno spinello, l’accese e lo portò alle labbra. Poi si rivolse nuovamente a Rachel con il viso atteggiato in un’espressione a metà via tra un sorriso ed un ghigno.
–Canna? Giusto per scaldarsi un attimo, prima del camerino.-
-Passo, grazie.- fece lei di rimando, sfoggiando un sorriso altrettanto languido.
-Hai appena perso l’occasione di scopare con la rockstar più fottutamente famosa che esisterà al mondo.- Sorrise, i suoi occhi blu s’illuminarono di un luccichio giocoso da bimbo.
Rachel sorrise a sua volta. –Me ne farò una ragione. Magari per la prossima volta.-
Si girò. Per quanto fosse uno sfacciato esaltato, quel ragazzo le piaceva.
The Rain, eh? Credo sentiremo ancora parlare di voi.
 
-Kay! Il telefono!- Violet si sbracciava da dietro il massiccio bancone nella direzione di Rachel, intimandole di avvicinarsi.
-Lisa!- esclamò lei a sua volta, battendosi una mano sulla fronte ed avviandosi verso la cucina, facendosi spazio tra la folla adorante che pressava verso il palchetto. Prossima alla porta della cucina, Rachel sentì una mano afferrarle il braccio. Si voltò: una Lyla piuttosto allegra le urlò nell’orecchio in un misto di inglese e dialetto irlandese:
-Ti ho vista prima col cantante! Brava ragazza!- Le fece l’occhiolino.
Rachel le sorrise, portando l’indice ed il medio ad aprirsi in un segno di vittoria.
Appena Lyla scomparve alla sua vista, inghiottita dalla folla, levò dolcemente gli occhi al cielo in un moto di tenerezza rivolto a quella giovane irlandese dalle trecce rosse, conosciuta da meno di un giorno, ma che già sentiva di poter chiamare “amica”.
Si diresse al telefono nero appeso alla parete della cucina.
 
-Pronto?-
-Rachel, tesoro!-
-Lisa. Che piacere sentirti.-
-Come stai?-
-Tutto bene, ti ringrazio. E voi?-
-Meravigliosamente. Oggi Connor ha ottenuto una promozione. Ora è responsabile del suo reparto alla ditta. Proprio una bellissima sorpresa. Questa sera abbiamo anche festeggiato! La zia Nathalie…-
-Sono felice per voi, Lisa. Fai vivissimi complimenti a Connor da parte mia.- l’interruppe Rachel, cercando di dissimulare con un tono allegro la sua totale mancanza d’interesse.
 
-Rachel! Al banco!-
 
-Lisa, mi chiamano al lavoro.- asserì Rachel, camuffando un sospiro di sollievo in uno di dispiacere.
-Non ti preoccupare tesoro. Vai pure, capisco. Chiamami ogni tanto per raccontarmi come va!-
-Lo farò senz’altro Lisa, non temere, statemi tutti bene, a presto!-
-Un attimo! Hai ricevuto una lettera ieri.-
-Uh? Davvero?-
-Si, cara. Non temere. Ethan si prodigherà di fartela avere domani.-
-Grazie infinite Lisa. Buona serata.-
-Arrivederci cara… comunque la lettera la manda Heyden!-
 
 
 
 
 
Ho omesso la traduzione del testo della canzone in quanto non ha un gran senso.
Per la cronaca, il brano originale è dei Beatles ed il ritornello tradotto sarebbe:
 
“Io sono l'uomo uovo, loro sono gli uomini uovo.
Io sono il tricheco, goo goo g'joob goo goo g'joob.”

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Capitolo 19
*** Letter from a place called Freedom ***


Cari lettori e lettrici.
Comincio augurandovi di cuore uno splendido 2014 ricco di sorprese e felicità.
Passo dunque alle note dolenti, scusandomi per il ritardo, ma mi sono ritrovata impossibilitata ad aggiornare. Chiedo ad ogni modo scusa a tutti.
Tengo tra l’altro a palesarvi che tra i miei buoni propositi per l’anno nuovo purtroppo, e non per mia volontà, non figura la puntualità nell’aggiornare che mi ha fin’ora caratterizzata. Potrebbe quindi subire variazioni, rimanendo comunque dentro il limite di due settimane.
Detto questo, rinnovo gli auguri e vi lascio al capitolo seguente che ammetto amare moltissimo.
Cheers.
Made Again

 
 
 
 
Canzone del Capitolo: The Web
 

 
Nonostante la magnifica domenica che, contro l’opinione dei metereologi della BBC, quel terso cielo ora tinto delle aranciate sfumature del tramonto imminente le aveva donato, Rachel aveva vissuto l’intera giornata in funzione di quell’attimo. Ethan, in immacolata camicia bianca con le maniche ordinatamente piegate fino a metà avambraccio ed un paio di eleganti pantaloni cachi di taglio sartoriale faceva il suo ingresso nel locale, riponendo i costosi occhiali da sole nella loro custodia di pelle. Da dove si trovava, Rachel poteva scorgere il retro della sua BMW Z1 decapottabile blu nuova fiammante attraverso i vetri opachi del pub, già piuttosto affollato nonostante l’ora. Tutto ciò che riuscì a pensare, vedendolo guardarsi intorno con aria vagamente smarrita, fu quanto quel ragazzo dai capelli dello stesso colore del cielo in quel momento fosse terribilmente fuori posto nel luogo che lei invece sentiva di poter chiamare “casa”. Si costrinse a dipingersi in grande sorriso sul volto e gli andò incontro.
-Ciao Ethan.-
-Amore!- esclamò lui in risposta, illuminandosi. La prese delicatamente tra le braccia e le posò un casto bacio sulle labbra in mezzo alla sala.
Mossa sbagliata… 
Intorno a loro si levarono alcuni fischi ed un paio di ragazzi appoggiati malamente al bancone presero a scambiarsi gomitate e sguardi d’intesa.
-Hai capito la londinese!-
-Ne ha trovato uno con la camicia quella nuova.-
Richiamata da quell’insolito baccano, Lyla si affacciò alla porta della cucina facendo ciondolare le lunghe trecce rosse, seguita da Penny e Violet.
-Kay! E’ arrivato il principe azzurro?-
-Calma ragazzi! Lui è il mio fidanzato.-
Come di comune accordo, i ragazzi precariamente appollaiati ai loro sgabelli lungo il bancone stringendo ognuno il proprio bicchiere si alzarono e si affollarono confusamente attorno ad un Ethan dall’aria sconvolta, chi battendogli vigorose pacche sulla spalla quasi facendolo cadere, chi offrendogli una bottiglia di birra, chi mettendogliela di forza in mano senza aspettare risposta. Lo sguardo di Ethan era talmente confuso e scioccato che Rachel tratteneva a stento le risate. Penny e Violet stavano già ridendo fino alle lacrime, abbracciate l’una all’altra. Ma quando incrociò lo sguardo di Lyla, non ce la fece a trattenersi e scoppiarono in una risata isterica, aggrappandosi alla bell’e meglio a ciò che stava loro vicino.
Dopo un minuto buono, Violet si avvicinò a Rachel ancora con gli occhi lucidi di lacrime e le sussurrò all’orecchio:
-Cenerentola, meglio che tu vada a salvare il tuo principe azzurro prima che i topolini lo rosicchino tutto.-
-Okay ragazzi! Basta così, grazie!- urlò Rachel rivolta alla massa che, lasciato un Ethan piuttosto provato dagli avvenimenti accasciarsi su una sedia poco distante, riprese la propria birra dove l’aveva lasciata prima di quel comico intermezzo.
-Perdona i ragazzi. Sono molto… socievoli, ecco.- fece Rachel, sedendosi di fronte a lui.
-Tranquilla. Sembrano simpatici da queste parti.-
-Oh, si. Sono persone stupende questi mancuniani. Talvolta sono un po’ bruschi, un po’ volgari, ma è il loro modo di fare. Non puoi non affezionartici.-
Ethan la guardò con un’ombra di incredulità negli occhi. –Ti piace stare qui?-
-Si.- Sospirò. –Si, qui sono felice.-
-Ethan! Amico mio!- Gale fece il suo ingresso nel locale accolto da saluti biascicati dai ragazzi al banco. –Che sorpresa!- Rachel si lasciò sfuggire un insulto a denti stretti. Avrebbe voluto avere subito qualche minuto per parlargli ed avere la lettera.
Gale sedette al posto che Rachel aveva appena lasciato libero alzandosi.
-Kay, portaci una Guinnes, tanto per cominciare.-
 
Nascosta dietro il massiccio bancone, Rachel osservava i due ragazzi conversare al tavolo: Gale era molto a suo agio, si vedeva. Non la finiva più di parlare ed il suo bicchiere era ormai quasi completamente vuoto, l’esatto contrario di Ethan che era ancora visibilmente scosso dall’accaduto. L’accoglienza ricevuta aveva definitivamente compromesso la sua opinione su quel luogo e la vita che vi si conduceva pensò tristemente Rachel.
Era talmente persa nei suoi pensieri che non sentì Gale chiamarla e fu Violet che, ancora una volta, la riportò gentilmente alla realtà. Dipinse un dolce sorriso quanto più rassicurante le riuscì sulle labbra rosee e carnose e si diresse al tavolo.
-Ditemi signori! Cosa posso fare per voi?-
-Kay, la specialità della casa. Evita le ostriche per oggi perché ho un certo languorino e credo non potrei cogliere degnamente le variegate sfumature di sapore che quei prelibati molluschi posseggono. Anatra all’arancia in salsa sherry andrà benissimo, grazie.- fece con un timbro ed un tono distinto e raffinato che persino un anziano Lord gli avrebbe invidiato.
Rachel alzò il sopracciglio destro, poi scoppiò in una risata cristallina. –Hamburger o sandwich?-
-Un sarnie, per tutti i diamanti della corona della regina! Per chi cazzo mi hai preso, un fottuto americano? E mettici pure dentro tutto quello che trovi, sto morendo di fame.-
-Ethan?-
-Nulla, ti ringrazio.-
-Come niente!? Cazzo, Ethan. Sei nel mio Pub, non esiste!- Si rivolse a Rachel. –Fanne due Kay. Belli piccanti!- Ethan impallidì. Lui era allergico al piccante.
-Nessun problema signori. Farò in un attimo.- Fece l’occhiolino ad Ethan e gli sorrise, rassicurandolo. Era già sulla porta della cucina quando Gale urlò a pieni polmoni.
-E altre due Guinness!-
I ragazzi al banco urlarono la loro approvazione verso di lui, levando in aria le bottiglie ormai vuote.
 
Dire che per Ethan la serata passò lentamente, è un eufemismo. Quella fu la sera più lunga della sua vita, sembrava non volesse finire mai. Attorno a lui era pieno di ragazzi ubriachi intenti ad articolare bislacchi discorsi pieni d’impropri e bestemmie e ragazze ammiccanti dai visi impiastricciati di trucco in minigonna e tacchi, mentre il tintinnio delle bottiglie accostate violentemente nell’atto di brindare o sbattute senza riguardo sui tavoli in legno e la musica della radio riempiva l’aria satura di fumo, rendendola pesante quanto un macigno sulle esili spalle del ragazzo. L’odore dell’alcool, mischiato a quello dei corpi febbricitanti gli rendeva quasi impossibile respirare e totalmente impossibile formulare il pensiero di poter anche solo addentare quell’enorme, mostruoso panino che stava minaccioso sul piatto di fronte a lui. Gale, finiti i propri due bicchieri, aveva cominciato da intaccare senza molti complimenti quelli di Ethan ancora pieni di limpida, profumata birra scura irlandese, che certo non aveva protestato. La sua parlata, solitamente pulita da ogni tipo di accento o inflessione linguistica e generalmente educata, con l’aumentare dell’alcool in circolo si era fatta via via sempre più strascicata, volgare, prepotente, marcata, rapida ed urlata. Il suo accento mancuniano che a Rachel tanto piaceva, da velato era diventato ora perfettamente evidente.
Rachel, passando tra i tavoli avanti ed indietro, lo vedeva sbracciarsi ed agitarsi in maniera concitata una volta arrivato al culmine del discorso per poi ricadere pesantemente sullo schienale e far dondolare la sedia sulle gambe posteriori. Le dispiaceva da morire per Ethan: quello non era il suo mondo e non lo sarebbe mai stato. Era semplicemente un pesce fuor d’acqua in mezzo a quelle voci esaltate ed a quella musica pulsante, viva attorno a lei. Lui era nato per i salotti delle ricche ville dei suo amici, per il teatro dell’opera di Londra, per i musei, per il suo immacolato, lussuoso College ad Edimburgo e per quella brillante carriera da avvocato che lo attendeva.
Verso le nove e mezza lo vide alzarsi, congedarsi alla meglio da un Gale ormai ben lungi dalla sobrietà e rivolgerle uno sguardo che sott’intendeva la parola “Raggiungimi”.
L’aria fresca quella sera faceva danzare i ciuffetti sfuggiti alla lunga, bionda treccia di Rachel, conferendole un’aria quasi magica.
-Come stai?-
-Un po’ sconvolto. Non è esattamente il mio ambiente.-
-No.- rispose Rachel abbassando lo sguardo. –No, non lo è.-
-E’ così evidente?- chiese lui con ironia.
-Giusto un pochino. Mi dispiace.-
-Ehi, non devi mica dispiacerti.- le tirò un buffetto sulla guancia. –Ti ho proposto io ieri di venire qui, ricordi? Semplicemente non ero preparato a questo mondo. Beh, ho scoperto qualcosa di nuovo ed un lato di te che non conoscevo.-
-Mi disprezzi. Non è forse così?-
Ethan sorrise, dolce. –Assolutamente no, tesoro. Perché dovrei? Non hai scelto tu di ritrovarti in un posto simile. Io stesso non ti ci avrei mandato se avessi saputo, di questo mi dispiace. E poi non vivrai sempre qui. Quando finirò di studiare ci trasferiremo a Londra. Tu lavorerai come giornalista ed io come avvocato. Tutto questo non sarà più una realtà per te e saremo felici. Vedrai.-
Non ha capito. Non ha capito che invece è questa la vita che avevo sempre sognato…
Ethan vide Rachel farsi ancora più triste. Mosse quindi un passo in avanti e la prese tra le braccia, stringendola forte a sé per qualche minuto.
-Non ti preoccupare. Quel momento non è poi così distante, credimi. Arriverà prima di quanto credi. Non essere triste, questo periodo finirà presto.-
La tenne stretta ancora per qualche attimo, poi le mormorò all’orecchio: -Devo andare.-
Rachel si allontanò da lui e gli sorrise tristemente. –Tornerò presto, vedrai.-
Le prese il volto fra le mani e le lasciò un delicato bacio sulle labbra umide. Si voltò e percorse qualche passo verso l’auto. Mentre saliva a bordo, come risvegliatasi da uno strano stato di incoscienza, Rachel scattò verso l’auto, facendo dondolare la lunga treccia sulla schiena.
-Ethan! Non hai nulla per me?-
-Ah, si.- fece lui afferrando una piccola lettera bianca dal sedile affianco al suo. Gliela porse attraverso il finestrino aperto. Ci fu un lampo, un attimo e tutto finì. Eppure, Rachel lo avrebbe giurato, uno sguardo di odio puro attraversò i chiari occhi azzurri di Ethan.
-Grazie mille.-
-Figurati amore. Ci vediamo presto.- Si scambiarono un altro bacio, più urgente, passionale. Poi Ethan ingranò la prima e ripartì.
Non appena la lucida decappottabile blu scomparse dietro l’angolo del locale, Rachel emise un lungo sospiro e portò la lettera ancora stretta nel pugno sul petto. Un vago aroma di menta e fumo le invase prepotentemente le narici, arrivando fino al cervello, inebriandola. Chiuse gli occhi e strinse più forte la lettera al cuore.
 
Era mezzanotte e mezza. Rachel, trascinandosi dietro un Gale ubriaco e mezzo addormentato fece il suo trionfale ingresso nell’angusto appartamento: l’aria al suo interno era rovente ed umida, quasi impossibile da respirare. Con le ultime forze che le rimanevano, se lo caricò sulle spalle e lo portò fino in camera. Il caldo nell’ambiente era insopportabile, quindi gli tolse la maglia ed i pantaloni, lasciandolo in boxer a rigirarsi nel letto disfatto, nel vano tentativo di addormentarsi, reso impossibile da quel forte mal di testa del quale continuava a lamentarsi.
-Stai fermo, va bene? Shhh. Calmo. Vado a prenderti un’aspirina e poi fai la nanna.- gli sussurrò all’orecchio. Lui annuì.
Una volta in cucina, guidata dalle luci della città che entravano dalla grande finestra del soggiorno illuminando la stanza e dalle deboli note di The Web provenienti dalla strada, aprì qualche cassetto a caso finché non trovò quello dei medicinali. Ne estrasse la scatola delle aspirine, quindi prese un bicchiere dalla credenza e lo riempì d’acqua del rubinetto. Mentre aspettava che l’aspirina si sciogliesse sfrigolando nell’acqua, si trascinò in salotto e si abbandonò sul divano.
 
 
“I realise I hold the key to freedom,
I cannot let my life be ruled by threads,
The time has come to make decisions,
The changes have to be made.”
 
“Mi rendo conto che ho in mano le chiavi della libertà,
non posso lasciare che la mia vita sia regolata dal filo del passato,
E' venuto il momento di prendere delle decisioni,
è necessario cambiare qualche cosa.”
 
 
Si perse qualche momento ad ammirare le luci intermittenti della città ai suoi piedi, poi tirò fuori la letterina spiegazzata dalla tasca dei pantaloni e la portò alle labbra. Quel profumo di menta mischiata al fumo la rapì nuovamente, facendole battere il cuore un po’ più forte. Prese un grande respiro e l’aprì.
Al suo interno trovò un semplice cartoncino bianco, sul quale l’ordinata ed inconfondibile calligrafia del fratello aveva vergato una sola, semplice parola.
“Chiamami” seguita da un numero col prefisso di Manchester.
“Chiamami.” Non un “Puoi chiamarmi?” o un “Per favore, chiamami.” No, non era una richiesta quella. Era un imperativo. Un ordine. “Chiamami.” Rachel chiuse gli occhi. Poteva sentire nella testa la seria, fredda, gelida voce del fratello ordinarle quelle parole, sapendo che lei avrebbe senz’altro ubbidito. Non riusciva ad opporsi a lui, ed Heyden lo sapeva. Ma quella era la ragazzina che aveva lasciato sola a piangere al buio ad Aylesbury. Quella che ora stringeva tra le dita quel cartoncino era una ragazza che era stata ferita, ma che poi era guarita. Era stata spezzata, ma poi poco alla volta aveva ripreso tra le mani la sua vita. Era stata sbattuta a terra, calpestata, frantumata, ma aveva saputo raccogliere i cocci e rialzarsi. No, lui non poteva, non aveva il diritto di ripresentarsi così di punto in bianco dopo mesi con un ordine. Lui ed i suoi soliti, meschini, subdoli, fottutamente magnetici ordini da stronzo qual’era. Non questa volta.
Rachel, sempre tenendo stretto tra le dita il cartoncino, afferrò il bicchiere con dentro disciolta l’aspirina e rientrò nella camera da letto. Gale la aspettava, seduto malamente a bordo del letto. Rachel gli porse silenziosamente il bicchiere. Lui bevve, poi si distese a pancia in su e chiuse gli occhi. Rachel fece per andarsene quando lui mormorò: -Resta qui.-
 
Quelle parole le fecero girare la testa verso Gale che, immobile, attendeva.
Rachel lanciò un occhiata veloce al biglietto nella sua mano. Profumava sempre di lui, la sua delicata fragranza di lavanda non riusciva a coprire quella del gemello, forte, prepotente. Chiuse gli occhi, inspirò profondamente. Vide passare rapide davanti a sé scene abbaglianti come flash accecanti: Lisa che urla davanti ad Ethan, accasciato sul tappeto bianco della sua camera, gli occhi saettanti del gemello, il faccione bonario di Connor, il fumo a disegnare spirali contorte attorno a lei ed Heyden abbracciati nel buio della sua stanza, la propria immagine riflessa allo specchio, il bruciore del taglio, Ethan in ospedale… e poi le mani di Heyden sui suoi seni, sul suo corpo, dentro di lei, le sue urla, le porte sbattute, quell’”Addio Rachel” mormorato con voce glaciale chiudendo il portone di casa dietro di sé, le lacrime, il dolore, il viso preoccupato di Ethan, l’alcool, il fumo, i morsi, il sapore del sangue in bocca, il treno, il tramonto su Manchester, Penny, Violet, Lyla, Gale…
Il cuore le scoppiava nel petto, faceva quasi fatica a prendere aria. Le sembrava di soffocare.
La canzone oramai era quasi giunta al termine.


“Now I leave you, the past has had its say,
You're all but forgotten a mote in my heart,
Decisions have been made.

Decisions have been made. I've conquered my fears.
The flaming shroud.
Thus ends the web”

“Ora ti lascio, il passato ha detto quello che aveva da dire,
Sei tutto tranne che dimenticato, una pagliuzza nel mio cuore,
Le decisioni sono state prese.

Ormai ho preso le mie decisioni. Ho sopraffatto le mie paure.
Il lenzuolo è in fiamme.
Così finisce la ragnatela.”

 
Quelle parole la bloccarono.
Qualcosa in lei si spezzò.
Decise.
 
Mi dispiace, Heyden.
Se fossi tornato prima, avrei potuto aspettarti. Ma ora ormai è troppo tardi. Questa ora è la mia vita. E non c’è spazio per i tuoi ordini in tutto questo, ora che ce l’ho fatta. Ora che ho perdonato e dimenticato. Ora che sono guarita. Ora che riesco a vedere un futuro per me. Ora che sono di nuovo felice. Non ce la faccio a riprendere tutto da dove l’avevamo lasciato, a ricominciare. Avevi detto che mi avresti dato la libertà. E’ così, alla fine lo hai fatto, magari non nel modo che avevi progettato, ma me l’hai donata. Però adesso non la puoi revocare senza un buon motivo, non puoi richiamarmi a te come si fa con un cucciolo, un pupazzo, un oggetto. Non puoi togliermi anche questa vita.
Ti amo, ma devi lasciami andare.
Come io ho imparato a lasciar andare te.
Buona fortuna fratellino…
 
Rachel aprì gli occhi, accartocciò il cartoncino e lo lasciò cadere a terra. Si avvicinò al letto, si tolse i pantaloni e la canottiera, infilò la grande maglia sformata del City e si stese affianco a Gale. Lui le prese la mano.
Si addormentarono, mentre le ultime note di The Web vibravano nell’aria come una ninna nanna.

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Capitolo 20
*** Time to live with it ***


Canzone del capitolo: Jigsaw
 

 
20 Agosto 1990
 
Il pallido sole di quella mattina di tarda estate faticava ad imporsi su quella spessa coltre di nubi bianche che la rendevano particolarmente smunta ed assonnata. Spente ombre indefinite erano proiettate dalla figura di una giovane donna in piedi in mezzo al lindo marciapiedi. I lunghi capelli ricci erano elegantemente raccolti in uno chignon, il viso impreziosito da un velo di trucco appena accennato, un paio di magnifici chandelier dorati ad incorniciarle il volto dalla delicata carnagione chiara. Indossava un elegante tailleur blu, coordinato ad un paio di scarpe dai tacchi alti. Gli occhi verde smeraldo brillavano di impazienza ed emozione mentre si torceva le dita, nervosa. Alzò lo sguardo verso quell’imponente costruzione neoclassica bianco candido e si sentì immensamente piccola. In fondo, chi era lei se non una semplice orfanella di provincia catapultata in quella realtà luccicante senza alcun tipo di conoscenza in merito, padrona solo di se stessa e della strana epopea che la sua mente continuava nei momenti di vuoto a sviluppare? La storia di quella ragazza, nata in un dopoguerra inglese subdolo e spietato…
Riportò lo sguardo a terra e fece per muovere un passo, ma non vi riuscì: un improvvisa e silenziosa paura le aveva spietatamente incollato le suole al cemento, impedendole di avanzare verso la grande porta a vetri che dava sull’ingresso del palazzo.
-Stai tranquilla. Ricorda di mettere un passo avanti all’altro e di non mordicchiarti le dita quando sei nervosa. E vedi di non capitombolare in mezzo al corridoio solo perché hai voluto fare la figa e mettere i trampoli, wet-chick.- era stato l’incoraggiamento di Gale quella mattina. “Promettente” aveva pensato tra sé e sé Rachel uscendo di casa quella mattina.
Ethan era stato molto più tecnico invece.
-Amore, poche accortezze ed il posto sarà tuo senza nemmeno bisogno di un mese di prova come molti richiedono. Presentati come una ragazza solare, ma evita di sorridere troppo per non lanciare un segnale equivocabile a chi ti sta intorno. Mostrati sicura di te stessa, ma non esagerare per non porti da subito come quella che vuol sempre aver ragione. Mostrati disponibile con i superiori, ma evita accuratamente di farti etichettare da subito come la subordinata adorante. Poniti immediatamente sullo stesso livello del tuo interlocutore, ma modera sempre le parole e pondera ogni singola sillaba prima di pronunciarla onde evitare fraintendimenti indesiderati…- Dopo quella buona mezz’ora di consigli, Rachel aveva avuto la sensazione che le avessero messo la testa in lavatrice e poi acceso la centrifuga, le idee ancor più confuse di quanto già non fossero.
Anche Lyla, Penny e la saggia Violet si erano profuse in mille e più consigli, disorganici e talvolta contraddittori. Si era limitata a sorridere e a ringraziarle di cuore per la fiducia che le avevano infuso.
Alla fine, aveva deciso che sarebbe stata semplicemente se stessa. Rachel Kayleigh Hogarth, senza filtri; ovvero la ragazza solare, estroversa, sorridente, talvolta troppo insicura, semplice e spontanea che era. Lei e basta.
Osservò la propria immagine riflessa nella porta che stava ancora chiusa davanti a lei. Non si poteva certo considerare una brutta ragazza. Non sarebbe di certo mai stata miss Universo con quel professionale tailleur blu notte e forse nemmeno con il vestito più bello mai confezionato, ma si poteva ritenere in fin dei conti soddisfatta di se stessa. Era una brillante ragazza di 18anni che si apprestava a compiere un importante salto nel vuoto verso un ipotetico futuro in campo giornalistico. Poteva essere fiera. Un campanile di lontano suonò dieci rintocchi e le gambe mossero automaticamente verso l’ingresso.
Senza accorgersene, si trovava ora nel centro della sontuosa hall del palazzo.
Due imponenti lampadari d’oro sovraccarichi di cristalli scendevano dall’alto soffitto gettando magici bagliori tutt’intorno a lei. Alla sua destra si trovava un massiccio camino bianco, spento probabilmente da sempre, affiancato da bizzarre piante rampicanti. Davanti ad esso, simmetricamente disposti, due lustri divanetti rossi coi piedini a forma di zampa di felino, un tavolinetto di cristallo sul quale posava un raffinato vaso contenente profumate rose rosse e un posacenere, solamente ornamentale dato il divieto di fumo affisso fuori alla porta d’entrata.
A sinistra, due giovani segretarie ingioiellate si destreggiavano con nonchalance tra cornette e registri, prendendo diligentemente nota su agende ordinatamente poggiate davanti a loro dei vari appuntamenti della giornata e futuri. Rachel mosse qualche passo verso la più giovane che ad occhio e croce aveva circa cinque anni più di lei e le si rivolse gentilmente.
-Buongiorno. Mi scusi, ho un appuntamento con il direttore del New Music Express.-
La donna l’ignorò per un minuto abbondante. Poi, finalmente, l’apostrofò distrattamente, senza guardarla negli occhi.
-Nome?-
-Hogarth. Ho appuntamento alle dieci ed un quarto.-
-5° piano. Gli ascensori sono in fondo alla hall.-
Detto quello, afferrò l’ennesima cornetta e sempre senza rivolgerle la benché minima attenzione, riprese il proprio lavoro.
Rachel si diresse seccamente verso gli ascensori, facendo rimbombare i propri passi in tutta la stanza.
Maleducata snob. Spero non siano tutti come te in questa reggia, pensò, ribollendo d’indignazione.
Ma nonappena le porte dell’ascensore si riaprirono, le sembrò di trovarsi in un palazzo totalmente diverso. Giovani giornalisti sfrecciavano a destra ed a sinistra, portando grandi plichi di fogli da un lato all’altro del piano, giovani fotografi sventolavano gli scatti freschi di sviluppo sopra la testa, responsabili di varie rubriche urlavano e si sbracciavano cercando di attirare l’attenzione dei tipografi che si attardavano a raggiungere il piano seminterrato dove stavano le macchine tipografiche, segretarie rispondevano al telefono tentando di farsi comprendere da chi c’era all’altro capo della cornetta. L’aria era satura degli squilli a vuoto dei telefoni, del ticchettio degli orologi e dell’odore della carta fresca. Rachel si sentì subito meglio in quell’ordinato caos.
Si fece largo come meglio poté tra la calca che affollava l’entrata e si diresse verso una porta bianca in fondo ad un corridoio.
Varcata la soglia, si ritrovò in un ambiente raccolto, ordinato e silenzioso. Seduta dietro un’elegante scrivania nera una donna sulla trentina dai corti capelli neri a caschetto era intenta ad annotare qualcosa su una grossa agenda dalla copertina in pelle mentre con la spalla reggeva la cornetta del telefono. Gli occhiali dalla montatura dorata le ricadevano sul naso a punta con eleganza e la camicetta rosa che indossava si apriva sul petto, lasciando intravedere il generoso decolleté. Un piacevole aroma di rosa aleggiava nella stanza. La donna alzò la testa e le sorrise, facendole segno di attendere. Appena si fu liberata dell’interlocutore dall’altro capo della linea, le rivolse un sorriso, si alzò e mosse con disinvoltura verso di lei, nonostante i tacchi vertiginosi, un paio di open toe rosa confetto con plateau. Si rivolse a lei con un dolce accento francese.
-Bonjour! Lei dev’essere Mademoiselle Hogàrth, n’est pas? M.lle Jacqueline Dupont, segretaria di Monsieur Pàlmer. Dammi pure del tu ma Chère.-
-Rachel. Grazie Jacqueline. Ho un appuntamento con Mr. Palmer.-
-Oui, ma Chère. Non ti preoccupare. Ti riceverà tra pochi minuti. Sei la ragazza del sud, c’est vrai?-
-Si, sono io. Sono qui per il posto da stagista presso la redazione…-
L’interfono gracchiò e Jacqueline si diresse nuovamente verso la scrivania per rispondere.
-Vai pure, ma Chère. Bonne chance!-
Rachel le sorrise, prese un grosso respiro e bussò alla porta in fondo alla stanza.
-Avanti, prego.-
Rachel aprì e si ritrovò in un luminoso ufficio. Dietro alla scrivania stracarica di carte di ogni tipo, un distinto uomo sulla cinquantina era intento ad esaminare un plico di fogli dentro una cartellina arancione. Quando la vide, s’alzò in piedi le porse la mano.
-Così tu devi essere l’orfanella di cui mi parlava Connor. Mi ricordo di te, eri così piccola… non dev’essere stato facile per te.-
Domanda idiota.
-No, infatti non lo è stato. Comunque sono Rachel. Rachel Kayleigh Hogarth.-
-Ti conosco, cara Rachel. John Paul Palmer. Prego, accomodati.- Le indicò l’elegante poltroncina nera di fronte alla propria scrivania. Si riaggiustò il nodo alla cravatta e si sedette di fronte a lei sulla sua comoda poltrona.
-Ebbene, dimmi esattamente cosa sei venuta a cercare da me. Sappi che non do lavoro a chiunque solo perché a chiedermelo è un vecchio amico.-
Rachel prese un lungo respiro. –Sono venuta qui essenzialmente perché cerco un lavoro e il campo del giornalismo mi ha sempre attirata. Così, appena mi si è presentata questa opportunità ho preso un treno e sono venuta fin qui. Non ho alcun genere di esperienza in merito, se non gli articoletti che scrivevo per il giornalino della scuola e poco altro. Ma posso assicurarle che sono rapida ad apprendere e motivata.-
Prese un respiro, poi puntò gli occhi in quelli del direttore. -Desidero questo lavoro più di ogni altra cosa. E’ la mia grande opportunità e non avrò un’altra occasione simile nella vita, sono più che determinata a lottare pur di avere la possibilità di dimostrarle quanto valgo. Nessuno mi ha mai regalato nulla per nulla, sono abituata a guadagnarmi ciò che voglio, non sono la raccomandata di nessuno quindi non mi giudichi solo perché Connor ha avuto la creanza di farle il mio nome mesi fa. Può anche soltanto prendermi in prova per qualche giorno, ma non mi chiuda la porta in faccia senza nemmeno sapere come lavoro. Merito questa opportunità, se dice di conoscermi davvero, allora lo sa.- 
Mr. Palmer sembrò soppesare quelle parole per un po’, senza mai distogliere lo sguardo dagli occhi verdi di Rachel. Forse aveva esagerato. Forse era stata troppo diretta. Ethan sarebbe di certo rabbrividito davanti a tanta spavalderia. Ma ormai quel che era detto, era detto. Non poteva tornare indietro.
-No.- Mr. Palmer incrociò le braccia sul petto. Rachel si sentì mancare. Ebbe l’impressione che il pavimento le si sgretolasse sotto i piedi, la poltroncina si dissolvesse, lasciandola cadere in un baratro. Perché non aveva tenuto la lingua al proprio posto? Stupida, piccola, infantile Rachel. Credi ancora alle favole, alle eroine che si salvano grazie al potere della verità ed al coraggio? Povera, povera illusa…
-No, non ho intenzione di darti qualche giorno di prova. Domani. Ore otto. Puntuale, il ritardo verrà detratto dalla busta paga. 670 sterline al mese, non è sindacabile. Rivolgiti a Percy Mc Gill.-
Rachel si alzò. Galleggiava. Una tremolante espressione di incredulità le distese il viso teso per l’agitazione per essere poi sostituita da una determinata che celava la grande gratitudine che provava nei confronti di quell’uomo. Fece un segno d’assenso col capo e si voltò, diretta alla porta.
-Hogarth!-
Rachel si voltò.
-Ottimo lavoro.-
Sorrise a quell’uomo che era oramai il suo datore di lavoro e si chiuse la porta alle spalle.
 
-Cazzo, Kay. Ma che ti è passato per la testa? Potevi mandare tutto a puttane!- Lyla urlava in tono concitato, agitando le braccia sopra la testa in modo convulso. Poi si bloccò, la fissò, sorrise e la abbracciò forte. –Sono così felice per te amica mia!-
-Sono così felice anche io Lyla. Ce l’ho fatta. Capisci? Non ci credo ancora.-
-Per me sei stata geniale.- Gale, abbandonato sulla sedia, i piedi sul tavolo e una bottiglia di Stella Artois tra le mani. –Cioè, cazzo. Come si fa a dire di no ad una ragazza in tailleur che ti guarda fisso negli occhi e praticamente ti ordina di fare qualcosa?-
Le quattro cameriere lo fissarono con aria interrogativa e vagamente infastidita.
-Si, cazzo. C’era un doppio senso, contente? Cazzo volete, sono un uomo con una certa dose di alcool in corpo e molti arretrati.-
-Effettivamente è da una settimana a questa parte che non c’è molto via vai in casa Campbell.- Osservò Rachel in tono ironico, assottigliando lo sguardo. Le furbe iridi verdi si spostarono lentamente da Gale a Lyla per più volte. Violet sgranò gli occhi, quasi sputando l’ottimo Scotch che aveva tra le mani.
Lyla puntò il naso in aria e se ne andò con aria indignata, seguita da una Penny sghignazzante. Violet mandò giù un altro sorso di Scotch e guardò altrove.
-Ecco, l’hai fatta incazzare. Sei felice ora?-
-Ho detto la verità si o no?-
-Si, effettivamente si.-
-Allora taci, Cambpell.-
-Alt. Al tuo cazzo di direttore puoi dare ordini, ma non a me e soprattutto non nel mio locale. Intesi?- ribatté Gale in tono minaccioso. Poi si alzò, si avvicinò a lei e si sciolse in un sorriso. La prese tra le braccia e la strinse forte. –Sono fiero di te, Kay.-
-Grazie Gale.- Rachel affondò il viso nell’incavo del suo collo. –Ora però fila in cucina e fatti perdonare da Lyla. Lei è sensibile su queste cose, lo sai. Così ne approfitto per chiamare Ethan.-
Gale la fissò, sconsolato. –Vado.-
 
-Vieni a nanna?-
Era l’una passata, ma Rachel non aveva sonno.
-Sto qui ancora qualche minuto e poi ti raggiungo. Buonanotte Gale.-
-Notte Kay.- Fece lui di rimando, sbadigliando.
Da quella sera di luglio avevano preso a dormire insieme nel lettone di Gale. Non facevano nulla. Semplicemente si addormentavano tenendosi la mano. Da quando accadeva, Rachel non aveva più avuto incubi. Si sentiva protetta con Gale al suo fianco.
Le note di Jigsaw le pulsavano nelle orecchie, arrivandole dritte al cuore ed imponendogli il medesimo ritmo della melodia.
 
“We are jigsaw pieces aligned on the perimeter edge,
Interlocked through a missing piece.
We are renaissance children becalmed beneath the Bridge of Sighs,
Forever throwing firebrands at the stonework.
We are Siamese children related by the heart,
Bleeding from the surgery of initial confrontation.
Holding the word scalpels on trembling lips.”
                                                         
“Siamo come pezzi di un puzzle allineati sull’orlo del perimetro,
allacciati l’un l’altro da un pezzo mancante.
Siamo i figli del riconoscimento calmati sotto il ponte dei sospiri,
Che continuano a gettare torce contro la pietra lavorata in eterno.
Siamo come i gemelli siamesi uniti dal cuore in comune,
Ancora sanguinanti dall’operazione del confronto iniziale.
Temiamo le parole come scalpelli sulle labbra tremanti.”
 
Quanto sentiva sue quelle parole. Per molti non avevano senso, ma la sensazione di essere un pezzetto di puzzle, qualcosa che senza gli altri pezzi non ha senso, quella sensazione la conosceva bene.
Riprese a scrivere su quel consumato quadernetto giallo zafferano. Era quasi finto anche lui.
 
“Non rividi mai più la vecchia pazza e tantomeno il ricovero per “quelli disperati”. Non rividi mai più Bess, né Jack, né Liam. No, questa volta mi portarono all’ospedale, sola, dove stetti per un tempo indefinito. Rimasi senza conoscenza per ore. O forse per giorni? Il giro delle lancette non aveva alcuna importanza in quel luogo di un bianco abbagliante. Quando ripresi coscienza, non avevo più un corpo vero, ma solo un ammasso esangue di pelle ed ossa. Il mio viso era scavato, il colorito se n’era andato per sempre dal mio volto. Ero un contenitore vuoto.
Quante ore passai dallo psicologo? Quante ore parlò con me senza ottenere risposta? Non lo so. Ma io non riuscivo più a parlare. Né a mangiare. Ad alzarmi, a camminare. Avrei voluto non riuscire più a respirare. Ma quella invece sembrava essere l’unica cosa che ancora avessi la facoltà di fare.
Ma io non volevo più sentire l’aria fredda nei miei polmoni. Non volevo più sentire il caldo sulla pelle, la vita dentro di me.
Lasciatemi andare.
Ma loro mi tenevano qui a forza.
Lasciatemi tornare dal bambino che non ho mai avuto, dalla madre che ormai non ricordo nemmeno più, dall’infanzia che non ho mai conosciuto.
Come ti chiami? Mi chiedeva lo psicologo. Da dove vieni? Nulla… Io non ero più nulla. Finalmente un giorno l’ha detto. Noi non possiamo più fare nulla per lei. E’ già andata oltre. Solo il suo corpo è rimasto qui. Così diceva agli altri medici. Ma io potevo ancora sentirlo. Io lo sapevo che era così.
Ed un bel giorno di sole mi lasciarono andare. Avevo una gonna lunga, pulita, nuova. Quant’era bella. Ho vagato un po’ a caso. Non conoscevo quella città, non l’avevo mai conosciuta in fondo. Come non avevo mai conosciuto davvero me stessa. Poi sono arrivata su un ponte. La brezza del mare vicino mi scompigliava i capelli, il sole mi baciava il viso pallido e scavato. In quell’attimo fui viva per l’ultima volta. Guardai giù. L’acqua gorgogliava, s’infrangeva contro i pilastri, spruzzava. Ma era lontana. Potevo solo sentirne l’odore, il rumore. Ma io la volevo sulla pelle. Lasciatemi arrivare all’acqua. Vi prego, lascatemi. Voglio arrivare all’acqua.
E’ già andata oltre.
Sono libera? Salto. L’aria mi sferza il viso. Sento un urlo, ma io sto volando, verso l’acqua. Il mare. C’è luce, tanta tanta luce. Sono libera.
Sorrido.
Sono Kayleigh, sono nata nell’East End e sono morta saltando da un ponte.
Sono Kayleigh, sono nata imprigionata e sono morta volando.
Sono Kayleigh, sono nata in guerra e sono morta libera.
Sono Kayleigh, e sono finalmente felice.”
 
Chiuse il quadernetto.
Anche questo è finito. Un altro pezzettino di me si è slegato dal passato. Sono libera.
 
La canzone sfumava verso il finale.

 
“Stand straight, look me in the eyes and say goodbye, say goodbye.
Stand straight, we've drifted past the point of reasons and why.
Yesterday starts tomorrow, tomorrow starts today, starts today.
And the problem always seems to be we're picking up the pieces on the ricochet, this is the ricochet.”

 
“Stai dritto, guardami negli occhi e dimmi addio, dimmi addio.
Stai dritto, siamo scivolati oltre il punto delle ragioni e dei perché.
Ieri comincia domani, domani comincia oggi, comincia oggi.
E il problema sembra essere che continuiamo a raccogliere i pezzi solo dopo il rimbalzo, questo è il rimbalzo.”

-Solo dopo il rimbalzo...- mormorò tra sé e sé. –Sempre troppo tardi. Time to live with it… tempo di rassegnarsi Kayleigh. It’s over.-
Chiuse il quadernetto e si diresse stancamente verso la camera di Gale.

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Capitolo 21
*** Untitled Track ***


Cari lettori,
Here we are.
Enjoy.
Cheers.



Canzone del capitolo: Cover My Eyes (Pain and Heaven)
 

 
11 Gennaio 1991
 
L’anno nuovo era cominciato talmente bene, le premesse per quel 1991 erano tanto buone, che Rachel non aveva nemmeno ventilato l’idea di prefissarsi dei buoni propositi per quei nuovi dodici mesi di fine millennio. Tutto nella sua vita aveva finalmente trovato il suo ordine, una certa, regolare normalità che però non sfociava mai nel noioso. Quelle nuove abitudini le erano oramai familiari e trovava rassicurante persino quella maledetta sveglia che ogni mattina la tirava giù dal letto. Finalmente, dopo un anno di tumulti interiori, di paure, di incubi, di insicurezze, era riuscita a riallacciare i cavi spezzati di quella vita, imprimendole nuovo slancio e vigore. Da poco era diventata la curatrice di una rubrica tutta sua all’interno del NME e tutto ciò non faceva che riempirla di gioia e orgoglio. Oramai lavorava stabilmente alle dipendenze di Mr. Palmer che si era rivelato con il passare dei mesi meno freddo e calcolatore di quanto le era sembrato inizialmente e molto più adatto a vestire i panni di direttore di una rivista musicale qual’era il New Music Express. Una mattina lo aveva infatti visto arrivare a cavalcioni di una mastodontica motocicletta, indossando il solito completo da lavoro elegante corredato ad un paio di Ray Ban dorati da aviatore, chiodo di pelle nera e fazzoletto rosso annodato all’altezza della gola. La musica, puro Heavy Metal da spaccare i timpani, sparato a tutto volume dalla radio della grossa Harley Davidson, mescolato a quella visione al limite del sovrannaturale le aveva aperto gli occhi riguardo la vera natura del suo capo. Aveva riso di gusto di fronte a quell’accozzaglia senza senso di stili, ma le era piaciuto.
Era ancora tuttavia sottoposta all’incessante controllo di Mc Gill, che non cessava mai di farle notale quei piccoli particolari che solo all’occhio esperto di un veterano non sfuggono. Infondo, lei lavorava lì da nemmeno un anno e curava già la sua personalissima rubrica affiancata da Jacky Gallagher, fotografa di professione. Si occupavano essenzialmente di nuovi talenti. Nuove band dal grande e mal valorizzato potenziale. C’era fermento nella sfera musicale in quel periodo. Sembravano spuntare ovunque come funghi nuovi, talvolta improbabili gruppi, facendo la felicità di giovani inglesi e curatori di rubriche giornalistiche di nuovi talenti. Alcune band che cominciavano a farsi spazio prepotentemente nel panorama musicale di quella fetta d’Inghilterra erano The Verve, Blur, Anathema, ma voci parlavano di altri gruppi in rapida ascesa che cominciavano proprio in quei primi-ultimi anni del XX secolo a farsi spazio. Oasis, tanto per citare il più chiacchierato, soprattutto a causa dei precoci, ma già presenti tumulti interni causati da Noel, chitarrista e autore dei testi della band ed il cantante, il fratello minore Liam, ex cantante bello e possibilissimo della band The Rain che aveva sentito qualche mese prima proprio al Lass o’Gowrie. I Gallagher brothers, ironia della sorte. Ed i meno noti, ma già piuttosto popolari The Hobbies. Ed era proprio dei fantomatici falchi che Rachel e Jacky andavano disperatamente cercando. Lettere richiedenti delucidazioni in merito a quei cinque sconosciuti arrivavano sempre più frequentemente in redazione e le due intraprendenti giovani giornaliste d’assalto in erba si erano lanciate alla loro disperata ricerca. Sebbene fremesse molto più all’idea di incontrare un fantomatico Richard Ashcroft intento a sorseggiare un autentico Yorkshire Tea insieme agli altri componenti dei The Verve, un già meno probabile Ian Brown, frontman di quei magnifici Stone Roses che aveva imparato ad amare o ancor di più, il mitico Steve Hogarth, insuperabile cantante dei suoi Marillion, si sarebbe accontentata anche di quei cinque disadattati di Burnage, gli Oasis, appena nati, ma già promettenti fenomeni planetari. Tutto pur di poter rinunciare ad incontrare quel gruppo, quei chimerici The Hobbies che pur senza averli mai visti, già trovava irritanti.
Primo, perché erano introvabili.
Secondo, perché erano destinati a morire in partenza. Facevano cover delle canzoni degli stessi Marillion e qualche pezzo loro, giusto per non passare per una semplice e banale Tribute band. Ciò che di fatto erano. Eppure quella versione mancuniana del gruppo progressive di Aylesbury, la sua Aylesbury, sembrava piacere.
Era l’11 Gennaio 1991, giorno del suo diciannovesimo compleanno, e Gale le aveva fatto la sorpresa insieme più bramata e meno desiderata: i The Hobbies si sarebbero esibiti lì, proprio al Lass o’Gowrie.
Tentativo di sabotarle il compleanno?
No!, si era giustificato lui, semplice favore da professionista a professionista.
Stronzate, aveva pensato tra sé e sé Rachel.
Erano le nove passate, ma Rachel quella sera non svolgeva le sue solite mansioni di barista, non indossava la bella divisa verde e bianca da cameriera. Nessuno dello staff quella sera lavorava: Violet, Penny, Lyla e Gale sedevano assieme a Jacky, chi più civilmente, chi meno, attorno al piccolo tavolino di legno vicino al palchetto, davanti alle rispettive birre. Altre tre sconosciute si occupavano del marasma di gente che affollava scompostamente l’ormai piccolo locale, vista la grande fama di cui godeva. Così si svolgeva quel diciannovesimo compleanno. E Rachel era felice.
-Propongo un brindisi!- sbraitò Gale, sovrastando il vociare della folla.
-Yeah man, alla nostra Kay!- rispose Lyla, già piuttosto allegra.
-Cheers!- urlarono tutti gli altri, alzando in aria i boccali traboccanti di Guinnes. Qualche avventore abituale si unì al brindisi.
-Vacci piano, Kay.- rise Jacky dietro agli spessi occhiali dalla montatura dorata. –Abbiamo un impegno questa sera! Vedi di ricordarlo.-
-Si, si. Tanto quei cinque cazzoni faranno cagare. Come tutti quei disperati senza speranze che hanno provato ad eguagliare i Marillion prima di loro. Non hanno possibilità. E lo sai anche tu.- ribatté Rachel in tono scocciato.
Jacky scosse la testa, testarda. –Potranno anche essere cinque cazzoni, ma la gente vuole sentire cos’hanno da dire. E ogni parola che riusciremo a spillargli sono soldi in più per noi.-  la fotografa portò una ciocca castana dietro all’orecchio ed imbracciò la Reflex con fare professionale.
-Io so solo che se mi rovinano il compleanno, gli tirerò tanta di quella merda che saranno costretti ad emigrare. Giuro.-
-Si, Kay. Cazzo, così ti voglio!- latrò Gale, sbattendo il boccale sul tavolo. –Ma se devi proprio insultarli, fallo fuori dal pub. Poi mi fai cattiva pubblicità e c’è troppa gente sta sera per fare cazzate davanti a tutti.-
Proprio in quel momento, i musicisti presero posto sul palco. Il chitarrista afferrò il microfono e urlò a pieni polmoni.
-‘Night Northern! Sta sera cominceremo in modo diverso dal solito. In onore del nuovo album che verrà lanciato da qui a breve dai Marillion, apriremo con una canzone tratta proprio da Holidays in Eden. Esclusiva di questa serata. Hope you’ll enjoy it, mates. Cheers!-
-Tranquillo.- sorrise Rachel rivolta a Gale, continuando però a fissare il chitarrista, un ragazzo sulla ventina, biondo e piuttosto alto. Si vedeva che era uno di quei personaggi di una certa pasta. Si leggeva l’entusiasmo autentico nei suoi occhi scuri.
Almeno l’atteggiamento è promettente.
 –Ora indosserò la mia maschera di professionalità e andrà tutto per il meglio.-
Le prime, leggere note di intro presero il via dalle rapide dita del ragazzo alla tastiera. Il ritmo si fece fin da subito incalzante.
E poi quella meravigliosa, splendida maschera di professionalità si infranse, lasciando Rachel a viso scoperto, priva di qualsiasi difesa. Inerme, impreparata ad affrontare quel che sarebbe seguito.
Una voce calda, potente, straordinaria attaccò il pezzo, seguendo la melodia dettata dal synth. Applausi e fischi partirono scompostamente dal pubblico dietro a lei.
La voce attaccò la strofa, con energia e vigore.
 
“Cover my eyes,
The light falls on her face,
Dangerous lines,
Dangerous colours and shake,
Ferocious designs,
Connected and ready to play,
Buttoned up tight,
Crimson and Halloween-white.”

 
“Copro i miei occhi,
La luce cade sul suo viso,
Linee pericolose,
Colori e forme pericolosi,
Progetti crudeli,
Collegati e pronti a funzionare,
Abbottonato stretto,
Il cremisi e il bianco candido.”
 
Rachel portò le mani a coprire la bocca. Era incredula.
Dio…No, calma. Non è possibile. E’…è  uno scherzo. Andiamo. Calma, non è niente, solo una coincidenza, uno sbaglio. Respira.
 
Chitarra e batteria entrarono.
Il ritornello iniziò, incalzante.
E lui salì sul palco.
 
“She's like the girl in the movie when the Spitfire falls,
Like the girl in the picture that he couldn't afford,
She's like the girl with the smile in the hospital ward,
Like the girl in the novel in the wind on the moors.”

 
“Lei è come la ragazza nel film quando cade lo Spitfire, (*)
Come la ragazza nella foto che lui non può permettersi,
Lei è come la ragazza con il sorriso nella corsia d’ospedale,
Come la ragazza del racconto nel vento della brughiera.”
 
Heyden. In tutta la sua bruciante, inscindibile essenza. Il viso atteggiato in un’espressione concentrata, serena, tremenda e splendente mentre le sue corde vocali liberavano quella melodia nell’aria fumosa, un sorriso disarmante, spensierato che mai, mai Rachel gli aveva visto in volto, il corpo libero di muoversi al ritmo della musica. Gli occhi azzurro ghiaccio puntati fissi di fronte a lui, micidiali ed insostenibili come sempre, i capelli neri a ricadergli disordinati sulla fronte.
Rachel sentì l’aria diventare calda, sentì ogni singolo respiro scenderle nei polmoni e bruciarla consumandola dall’interno, sentì il mondo fermarsi, sentì il silenzio ed il frastuono dentro di sé, sentì ogni membra del suo corpo gridare e la mente tacere, impotente davanti a lui. Lui. Che dopo quei dieci, lunghi, infiniti mesi era nuovamente a pochi metri da lei, diverso eppure sempre lo stesso.
 
“Pain and heaven,
Pain and heaven”

 
“Dolore e Paradiso,
Dolore e Paradiso”
 
Spostò le mani, coprendo gli occhi, incapaci di reggere oltre quella vista così bramata e temuta.
Cover My Eyes…
Troppo dolorosa e troppo meravigliosa insieme.
Pain and Heaven…
 
Lui non sembrava essersi accorto di nulla. Nessuno si era accorto di nulla. Tutti erano troppo concentrati sulla sua presenza, discreta eppure prepotente sul palchetto, dalla sua voce, limpida e straordinariamente potente, dai suoi occhi color ghiaccio eppure capaci di sguardi bollenti, dalle sue labbra che si muovevano rapide articolando i versi di quella canzone straordinaria che sembrava nuovamente essere stata scritta per lei. Per loro.
Progetti crudeli.
La ragazza nella foto che lui non può permettersi.
La ragazza con il sorriso nella corsia d’ospedale.
Dolore e paradiso.
 
Nessuno, nemmeno Lyla impegnata a battere il tempo col palmo sul tavolo, nemmeno Jacky che, Reflex alla mano, scattava senza sosta. Nemmeno Gale, che pur continuava a fissare il volto di Heyden, chiedendosi dove l’aveva già visto, aveva percepito le mille sensazioni che l’avevano attraversata in quei pochi secondi, troppe tutte insieme, troppo intense. Brividi le percorrevano la schiena, le mani le tremavano, aveva la pelle d’oca.
 
“The meaning of life,
A hair falls out of place,
Cover my eyes,
Dangerous colours and shapes,
And when she moves,
Cover my eyes.”

 
“Il significato della vita,
Una ciocca di capelli si scompiglia,
Copro i miei occhi,
Colori e forme pericolosi,
E quando lei si muove,
Copro i miei occhi.”
 
E poi il ritornello, di nuovo. Quella voce, di nuovo, a calcare quella melodia così insolita per quel gruppo progressive, così maledettamente pop eppure così incalzante, trascinante. Rachel si rese conto che, se non fosse stata seduta su quella sedia, sarebbe caduta a terra. Le gambe tremavano talmente tanto da non poterla reggere in piedi. Il corpo inerme, la testa pesante, maledettamente pesante. La stanza sembrò prendere lentamente a girare.
 
“She like the girl on the TV with the red guitar,
Like the girl with the dealer at the end of the bar,
She's like the girl with the smile in the dream in the dark,
Like the girl overtaking in the open car.”

 
“Lei è come la ragazza alla TV con la chitarra rossa,
Come la ragazza con lo spacciatore in fondo al bar,
Lei è come la ragazza col sorriso del sogno nel buio,
Come la ragazza che sorpassa nella macchina decappottabile.”
 
E quelle due parole, quasi urlate, così vere. Le uniche cose che provasse in quel momento, le uniche sensazioni che sentiva definite dentro di sé.

“Pain and heaven,
Pain and heaven”
 
 “Dolore e Paradiso,
Dolore e Paradiso.”

Quello che anche lei voleva gridare a quel microfono datato assieme al fratello.
Al suo gemello, all’altra parte di sé che aveva considerato a lungo perduta. Heyden.
Senti una gioia incontrollabile, impetuosa pervaderla, scaldare quelle sue membra fredde.
Il pezzo stava terminando quando Rachel s’alzò in piedi. Sentì qualcuno tirarla per la manica, ma non le importava. Stesse dritta a pochi metri dal palco. Il bassista alzò gli occhi neri dalle spesse corde dello strumento e stette a guardarla con aria interrogativa. Ma le iridi smeraldine di Rachel erano puntate dritte in quelle di Heyden che sembravano brillare sotto la luce del riflettore.
Abbassò gli occhi.
E la vide.
I loro sguardi si incatenarono e sembrò che null’altro esistesse nel locale all’infuori di loro. Scese un surreale silenzio. Solo le ultime note di Cover my Eyes riempivano l’aria tesa, facendola vibrare. Tutti li fissavano, chi attonito, chi incuriosito, chi troppo ubriaco per capirci qualcosa. Heyden mosse un passo in avanti, verso di lei.
Allora Rachel si rese conto di ciò che realmente aveva fatto. Aveva riaperto la porta che lei stessa gli aveva sbattuto in faccia ben due volte. E non riuscì a reggere il peso del gesto che aveva inconsciamente compiuto. Si era alzata, si era mostrata. Avrebbe potuto rimanere seduta in mezzo alla folla e nulla di tutto quello sarebbe accaduto.
Vigliacca…
Si voltò e prese a correre, facendosi spazio a gomitate tra la folla. Sentì Gale chiamarla a gran voce, ma non si fermò. Senti la gente mormorare nella sua direzione, ma non si voltò ad ascoltare. Inciampò, incespicò, ma mantenne l’equilibrio. Continuò a correre impetuosamente verso l’uscita. Indossava una semplice felpa, ma il freddo pungente di quella fretta notte di gennaio non aveva importanza: lo sentiva sferzarle violentemente il viso, non le interessava.
Girò l’angolo, ma una mano magra dalle dita lunghe e forti le afferrò il polso, costringendola a fermarsi. Si voltò e trovò gli occhi del gemello nei suoi. Brillavano per il freddo. Non le era mai sembrato così dannatamente bello. E tutte le sue difese finirono in frantumi davanti a lui. Sensazioni mai provate la invasero. Sentì che se avesse continuato a dare il tacito permesso alla sua mente di vagare sarebbe impazzita, quindi la spense. Smise di pensare e si abbandonò al fratello.
Heyden le prese i polsi, li strinse in una presa calda, dolorosa, spinse violentemente il corpo di Rachel contro il muro freddo e la baciò.
Premette le labbra fredde contro quelle calde, umide e morbide di Rachel con urgenza. Spinse il proprio corpo contro quello della sorella, inchiodandola al muro ruvido alle sue spalle. Avvertire il magro eppure sorprendentemente energico corpo del fratello sul suo a quel modo la sconvolse di gioia e piacere. Chiuse i pugni e spinse con altrettanta violenza il proprio viso contro quello di Heyden, costringendolo ad arretrare. Avvantaggiata da quel gesto che aveva causato la sorpresa del gemello, Rachel si staccò dal muro, fece ruotare i loro corpi tenuti ancora saldamente uniti dalla solida presa di Heyden sui suoi polsi e prese il suo posto, mandandolo a sbattere contro la parete laterale del palazzo. Si alzò il punta di piedi e lo baciò con altrettanta urgenza. Dischiusero le labbra all’unisono e le loro lingue si incontrarono. Presero a  rincorrersi freneticamente, ad assaporarsi in modo così sbagliato e meraviglioso al tempo stesso. Rachel cominciava ad avere il respiro affannato, mentre il cuore di Heyden batteva rapido sotto il leggero tessuto della camicia che indossava. Heyden le prese il labbro inferiore tra i denti e lo morse, lasciandola senza fiato. Sentì le sue labbra prendere a scendere lungo il suo collo, lasciando un’umida scia di baci urgenti, impetuosi, sostituiti poco dopo da morsi sempre più dolorosi. Rachel sentiva che le gambe non la reggevano più. Heyden lasciò quindi la presa sui suoi polsi, le afferrò le cosce con le mani forti e la sollevò senza fatica, facendole stringere le gambe attorno alla sua vita. I morsi diventavano via via sempre più disperati, violenti. Rachel voleva urlare, ma non aveva abbastanza fiato per farlo. Finché Heyden non la morse con forza inaudita prendendo poi a succhiarle la pelle martoriata. Rachel gridò quando sentì i denti di Heyden nella sua carne.
Heyden la lasciò, premette i palmi febbricitanti sulle sue spalle, facendola arretrare di un passo. Allungò la mano verso il suo collo devastato e le fece correre un dito lungo la pelle arrossata. Quando ritirò il dito, Rachel notò quel liquido vermiglio, caldo e denso che ben conosceva sulle dita del gemello. Lui succhiò piano il dito, poi annullò nuovamente la distanza tra loro e prese a passarle lentamente la lingua e le labbra sulla pelle viva affinché il sangue smettesse di fluire. Rachel chiuse gli occhi a quel contatto dolce, sentendo nuovamente il cuore accelerarle nel petto. Lo aveva già fatto. Aveva già sentito il sapore del suo sangue. Ed ora di nuovo. Erano di nuovo una cosa sola.
Quando ebbe finito, Heyden arretrò nuovamente. Rachel poté finalmente guardarlo attentamente: i capelli neri erano scompigliati, il petto si alzava ed abbassava velocemente, gli occhi azzurro-ghiaccio brillavano nel buio, lucidi per il freddo e per l’eccitazione. Passò la lingua sulle labbra in un gesto automatico ed incrociò le braccia sul petto. Sembrò pensare per qualche attimo, poi parlò.
-Perché?-
-Dovevo.-
-Dovevi cosa? Dovevi fare a meno di alzarti? Dovevi stare ferma e non scappare? Dovevi telefonarmi quando te ne ho dato la possibilità? Dovevi dimenticarmi? Dovevi tenermi fuori dalla tua vita? Dovevi fingere di odiarmi? Dovevi… Dovevi tante cose, Rachel. Eppure ora sei qui.-
-Dovevo averti di nuovo.-
Il volto di Heyden si dipinse di un’espressione vagamente interrogativa, senza però perdere la sua solennità.
-Ce l’avevo fatta. Ero riuscita a chiuderti fuori dalla mia vita dopo mesi e mesi di doloroso silenzio. Ma quando poi è arrivato il momento di confermare definitivamente la scelta, il mio corpo si è ribellato. Per questo ti dico dovevo. Perché non volevo, ma ne avevo troppo bisogno.- Abbassò lo sguardo e si afferrò il braccio sinistro con la mano destra. –Io… Non ce la faccio senza di te.-
Heyden non si mosse. Rimase immobile, fermo nella sua posizione composta, un vago sorriso di tacito trionfo aleggiava ora sulle sue labbra.
Rachel sentì la pelle del collo bruciarle. Tastò delicatamente il punto dolorante, ma il sangue continuava lentamente a fuoriuscire dal morso sul suo collo.
Alzò il viso verso Heyden e lo sorprese a sorridere, ironico. Sentì la rabbia montarle dentro e gli lasciò uno sguardo carico di rancore e disprezzo.
-Sono sempre io quella a sbagliare, vero? No, tu non hai mai fatto un cazzo. Sei sempre stato impeccabile nel tuo agire, specialmente con me, no?-
-Taci.- le intimò lui, fattosi nuovamente serio a quelle parole. Allargò leggermente i piedi e portò le braccia ad incrociarsi sul petto che prendeva in quel momento ad alzarsi ed abbassarsi più rapidamente. La tenue luce dei lampioni proveniente dalla strada principale illuminava debolmente i forti tratti del suo viso, contratti in un’espressione irritata.
Questo suo atteggiamento la fece esplodere.
-Cazzo, guardati! Non fai altro che dirmi che ho sbagliato, mi tratti come se tutta la colpa di ciò che è successo fosse solo mia! Non sono io quella che ti ha tormentato per anni, non sono io quella che ti ha baciato in una fredda notte di gennaio senza darti poi un fottuto straccio di spiegazione! Non sono io quella che…- la voce di Rachel si spense. Risentì tutte le sensazioni sconvolgenti di quella notte bruciarle sulla pelle, sentì il cuore accelerarle nel petto, le mani calde del gemello sul suo corpo nudo, febbricitante. Esattamente un anno fa. Chiuse gli occhi, indietreggiando fino a ritrovarsi spalle al muro all’altro lato del vicolo buio. Aveva bisogno di appoggiarsi a qualcosa, le gambe le tremavano violentemente. Fece appello a tutte le sue forze per non cadere proprio in quel momento, non poteva permetterselo. Alzò nuovamente gli occhi verso Heyden. Ora c’era solo rabbia nel suo sguardo, gli occhi verdi erano di un colore più cupo del solito ed Heyden se ne accorse.
-Quindi ora tocca a me chiedertelo. Una volta per tutte. Perché? Perché, fratello?- sputò, velenosa.
Heyden indietreggiò fino a ritrovarsi spalle al muro a suo volta, piegò il ginocchio destro ed appoggiò il piede al muro, tenendo le braccia conserte.
-C’è una cosa molto semplice che la gente tende a dimenticare, una cosa che tutti, compreso quel coglione del tuo patetico scozzese devono ficcarsi in quelle teste del cazzo che si ritrovano. Compresa tu, sorellina.-
Assottigliò lo sguardo, piegò la testa leggermente verso il basso, gli occhi color ghiaccio saettavano tetri nel buio, più chiari e glaciali che mai. La voce gli uscì tagliente e fredda in un sinistro mormorio.
-Tu sei mia, Rachel. Ed è una cosa che non puoi cambiare.-
Il suo sguardo si sciolse in un sorriso inquietante e tremendamente ipnotico, godendosi l’effetto di quelle parole sulla sorella, mentre il viso di Rachel si apriva in un’espressione sconvolta e preoccupata che non provò nemmeno a celare.
Heyden abbassò nuovamente la voce. –E per essere mia, devi portarne i segni. Tutti devono saperlo. Sapere che tu sei parte di me, proprio come io sono parte di te. Ciò che sei va oltre le semplici, fottute, patetiche parole di adolescenti innamorati. La tua non è una scelta. E’ così e basta. Quello…- fece un segno col capo rivolto al morso dolorante sul suo collo –come pure la cicatrice che porti sulla guancia serve a ricordarlo. A tutti, ma soprattutto a te. Non potrai mai scegliere, Rachel. Né cambiare tutto questo. Potrai prenderti in giro, fare finta che non sia così, che quello che è stato non sia mai accaduto. Potrai cercare di dimenticarmi, di scappare, ma non puoi. Ormai è tardi.-
Heyden si riavvicinò lentamente al copro scosso dai brividi della gemella, incombendo sulla sua piccola figura ancora fragile. Fletté leggermente le ginocchia fino a portare i propri occhi all’altezza di quelli della sorella. Le prese il mento tra le dita, costringendola controvoglia a fissarlo negli occhi chiari. I loro sguardi s’incatenarono. Le posò un dolce, morbido bacio sulle labbra rosse per il freddo pungente.
Si separarono.
-Non puoi scappare da me, Rachel. Tu sei mia.-
 
 
 
 
(*) Spitfire: aereo simbolo della Royal Air Force durante la II° guerra mondiale.

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Capitolo 22
*** Dani California ***


Canzone del Capitolo: Hooks in You
 

 
Rachel camminava stancamente, intorpidita ed infreddolita, verso il Lass o’Gowrie, stringendosi alla meno peggio nella felpa, lo sguardo basso a fissarsi le scarpe nel suo incedere lento. Heyden si trascinava silenzioso al suo fianco, lo sguardo assorto dritto davanti a sé e le mani cacciate a forza nelle tasche dei vecchi jeans. Sembrava non essere nemmeno sfiorato da quel gelo infernale. Incapace di sopportare oltre quel freddo che le si infilava subdolo nelle ossa, Rachel frugò nella tasca della felpa fino ad estrarne il suo pacchetto di Lucky Stike, ne portò una alle labbra e riparando la debole fiamma dell’accendino dall’aria gelida, l’accese. Lasciò che il fumo reso denso dal freddo le riscaldasse i polmoni per poi lasciarlo uscire lentamente in candide nuvolette profumate. Richiamato alla realtà dall’odore del fumo, Heyden si voltò verso la sorella. Uno sguardo profondamente sorpreso si dipinse sul suo volto. Alzò il sopracciglio destro in segno di disapprovazione.
-Tu?- chiese con tono incredulo e contrariato.
Rachel per tutta risposta scosse le spalle con noncuranza. Heyden sbuffò, allungò la mano verso la sigaretta, gliela prese dalle labbra e la portò alle proprie. Rachel si voltò a sua volta verso Heyden, che la trapassò con uno sguardo profondamente seccato. Rachel alzò gli occhi al cielo.
-Ne avevi dimenticato un pacchetto nel cassetto della scrivania. Era mezzo vuoto…-
-E tu hai pensato intelligentemente di finirlo. Devi stare lontana da questa merda.-
Rachel tagliò corto, infastidita. -Tardi.-
Ma chi cazzo era lui per farle la predica sotto quel punto di vista? Lui che fumava praticamente da sempre.
Il piccolo cerchio arancione si illuminò quando Heyden prese ad aspirare il fumo profumato. Deboli bagliori aranciati furono lanciati sul suo viso, gettando fioche ombre inconsistenti sui suoi tratti seri.
-Sapevo di aver fatto una cazzata.- Riportò lo sguardo fisso davanti a sé e rilasciò il denso fumo nell’aria gelida della notte prima di renderle la sigaretta. –Non sei abbastanza forte. Ti illudi di essere un diamante. Quando in realtà sei un semplice cristallo. Ad un occhio inesperto possono sembrare identici, quando in realtà il diamante è pressoché indistruttibile, mentre il cristallo è così fragile che si rompe con un nonnulla. Smettila di fingere. Almeno con te stessa.-
Fu come ricevere un pungo dritto nello stomaco. Violento, rapido, inaspettato.
“Non sei abbastanza forte”.
Lasciò la sigaretta cadere a terra e si bloccò. Per quei dieci mesi si era dunque semplicemente illusa? Aveva soltanto mentito a se stessa, ritenendosi la ragazza determinata, sicura di sé e delle proprie capacità che in realtà non era? No, non voleva crederci. Era davvero cambiata, ciò che era riuscita a fare in quei mesi ne era la prova. Si era rialzata, aveva raccolto i cocci di quella vita e li aveva rimessi insieme, era diventata più forte di prima, più sicura, più indipendente.
-Sono cambiata, Heyden.- disse, alzando la voce nella sua direzione.
Per tutta risposta, il gemello si fermò a sua volta, si voltò e le lanciò uno sguardo a metà tra il divertito ed il compassionevole.
-Si, forse con gli altri. Ma avresti il coraggio di ammettere che è così anche tra noi? Che sei cambiata anche con me?-
Rachel chiuse il pungo destro fino a sentire le unghie nella carne, ma poi lasciò andare ed abbassò lo sguardo al sudicio marciapiedi, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. Aveva ragione. Come sempre.
Heyden si rilassò in un sorriso ironico e compiaciuto.
-Lo sapevo. Nessuno ti conosce meglio di me, sorellina.- detto quello, riprese a camminare lentamente verso il locale, ormai non più così lontano.
Rachel rialzò gli occhi sul gemello. In un accesso di rabbia corse in avanti, gli afferrò il polso e lo costrinse a fermarsi. Erano ormai quasi di fronte al Lass o’Gowrie. La luce proveniente dal locale illuminava debolmente i loro volti. Da dentro il caldo pub, i The Hobbies continuavano a suonare, mentre Rachel sembrò riconoscere la calda voce del chitarrista esaltato mentre intonava Kayleigh.
Rachel chiuse gli occhi, poi li riaprì e trovò quelli del gemello nei suoi.
-Nessuno ti conosce meglio di me, fratellino.-
Le iridi, verdi lei e azzurre ghiaccio lui, brillavano per il freddo in quella notte invernale.
-No, nessuno mi conosce come te.-
Stettero uno di fronte all’altra, i visi fiocamente illuminati nella notte gelida, in silenzioso ascolto della canzone finché gli applausi degli avventori non si sostituirono alle ultime note del pezzo. Nessuno dei due sembrava essere capace di rompere l’atmosfera satura di ricordi che quella canzone aveva creato attorno a loro.
Rachel deglutì a vuoto, la gola arida alla sola idea di pronunciare quelle parole. Non tanto per la domanda in sé. Ma per la risposta.
-Te ne andrai di nuovo?-
Heyden le afferrò a sua volta l’altro polso. Si tenevano a vicenda, uno saldamente agganciato al polso dell’altra e viceversa.
–Solo se mi costringerai a farlo. Non voglio dover sopravvivere un’altra volta a questo modo, ma non resterò se non mi vorrai.-
Rachel inclinò la testa di lato, scettica. -Sopravvivere… mi sembra che la tua vita sia andata avanti.-
Heyden si fece serio. –Anche la tua. Eppure, sei stata mai davvero felice?-
Rachel abbassò lo sguardo. Si sforzò di essere sincera, di cercare in sé, nel suo passato, qualcosa per il quale fosse stata mai realmente felice in quei mesi. Ma invano. –No…-
-Ecco. Allora abbiamo provato le stesse cose. Abbiamo trovato persone alle quali aggrapparci. Ma non siamo vissuti. Siamo sopravvissuti. Perché l’uno senza l’altro, vivere è impossibile. Lo sai.-
Rachel sentì le guance arrossarsi violentemente ed un nuovo brivido caldo pervaderla. Senza pensare, mosse verso il gemello, si portò in punta di piedi e l’abbracciò, stringendolo forte a sé. Heyden rispose subito a quell’abbraccio, così urgente, ardente, dolce, vero. Il calore del suo corpo solido l’invase. Mai come allora aveva colto il vero significato dell’essere gemelli, non semplici fratelli, ma parte l’uno dell’altra e contemporaneamente la stessa cosa.
-Non lasciarmi Heyden.-
-No, Rachel. No, non ti lascio. Sei mia. Ti terrò al sicuro, nessuno ti farà del male.-
Singhiozzi violenti cominciarono a squassarle il petto violentemente, mentre lacrime improvvise e troppo a lungo trattenute le rigavano le guance fredde.
Heyden prese a dondolare, cullandola perché si calmasse, sussurrandole all’orecchio. -Calma, sei con me ora. Va tutto bene, non aver paura.-
-Resti con me, vero?- Gli occhi ancora carichi di lacrime di Rachel si puntarono in quelli di Heyden. Il ragazzo fu percorso da un moto di incondizionata tenerezza verso quella bambina che stava ora tra le sua braccia, che lo pregava di non lasciarla. Proprio come da bambina, con i grandi occhioni verdi e quell’espressione a metà tra l’impaurito e il supplichevole che le faceva sembrare le guance rosee ancora più paffute. Proprio come quelle di una bimba.
-Si, resto con te.-
 
Stettero a quel modo per molti minuti. Il freddo infernale tentava di infilarsi tra i loro corpi nuovamente uniti senza successo, nel vano tentativo di separarli. Ma Heyden aveva ragione: lei era sua come lui era suo, combaciavano perfettamente perché parte della stessa cosa. Non era un “io e te”. Era un “noi”. Così come era sempre stato e come sempre avrebbe dovuto essere, allo stesso modo era in quel momento.
O almeno così fu, finché una limpida voce non spezzò quel momento.
-Ehm… Heyden?-
Una piccola mano dalle lunghe unghie curate laccate di blu dalla calda carnagione abbronzata si poggiò lieve sulla spalla destra del ragazzo. A quel tocco, Heyden si separò dalla sorella ed indietreggiò fino a ritrovarsi al fianco della ragazza che con la sua voce cristallina aveva interrotto quell’attimo così delicato. Rachel sospirò, consapevole che non avrebbe mai più avuto una sera come quella con in fratello per molto, molto tempo.
La ragazza che aveva con la sua presenza infranto quel fragile equilibrio stava ora al fianco di Heyden, continuando a poggiargli la piccola mano curata sulla spalla solida. Sembrava, a prima vista, avere la stessa età di Rachel e, nonostante fosse un po’ più alta di lei, arrivava comunque soltanto all’orecchio di Heyden. Aveva lunghissimi capelli mori, curvati in dolci onde a ricaderle soffici sulle spalle minute, che gettavano scuri bagliori ipnotici ogni volta che si muoveva, nulla a che vedere con i ribelli ricci biondi di Rachel. Gli scuri occhioni dalle lunghe ciglia nere brillavano alla fioca luce proveniente dal pub. Il suo dolce sorriso, ora velato da un’espressione vagamente interrogativa, sembrava richiedere spiegazioni. Dato che nessuno dei due fratelli parlò, la sconosciuta si rivolse a Rachel.
-Ti chiedo scusa, ma tu chi saresti?-
Rachel era sconvolta.
-Scusa, chi saresti tu?-
-Io sono Danielle, ma puoi pure chiamarmi Dani.- Le sorrise e mosse in avanti, porgendole la mano. –E tu?-
-R…Rachel…-
La sconosciuta si voltò verso Heyden, poi verso Rachel e nuovamente verso Heyden. Sul suo volto si fece spazio un’espressione prima profondamente stupita e poi nuovamente felice.
-Ma sei sua sorella! Mi ha tanto parlato di te. Tanto piacere.- Cantilenò, allegra.
Il suo caldo accento americano fece incurvare involontariamente il sopracciglio di Rachel.
Dani sembrò accorgersene perché si affrettò a chiarire.
-Si, hai ragione, non sono inglese. Vengo da Cisco. Sai, no? San Francisco! California. Sono qui per…- Si voltò verso Heyden che spostò in quel momento lo sguardo dalla gemella a lei e poi nuovamente alla gemella. Rachel si irrigidì, cosa che sfuggì alla ragazza, ma non ad Heyden, che le rivolse uno sguardo enigmatico, quasi dispiaciuto.
Dani non sembrò scoraggiarsi, si voltò verso Rachel ed esibì un sorriso radioso. –Beh, è una storia lunga e non voglio annoiarti.-
Rachel era ora più confusa che mai.
-E così tu saresti la gemella di Heyden. Non vi somigliate molto…-
-No, è così. Eterozigoti.- tagliò corto Rachel, apatica.
Dani rise. La sua risata cristallina si perse, inghiottita dal buio della notte.
 
Intanto, dall’interno del locale continuavano ad arrivare indistinte le note di Hooks in You.

“I feel so strange what's wrong with me?
You've got a problem that you can't see,
But I've got a feeling all the rumours are true,
I see the girl's got a hook in you.

You carry on believing,
That you can take or leave it.
Now who are you deceiving?
Cause when its own up time,
She's in back of your mind.

She's got her hooks in you.”
“Mi sento così strano, cosa c’è che non va in me?
Hai un problema che non riesci a capire,
Ma ho l’impressione che le voci siano vere,
Vedo che la ragazza ha affondato un artiglio dentro di te.

Continui a credere,
Di poter prendere o lasciare,
Ma chi vuoi prendere in giro?
Se quando arriva il momento di confessare,
Lei è in un angolo della tua mente.

Lei ha affondato gli artigli dentro di te.”
 
-Ha affondato gli artigli dentro di te…- Rachel mormorò, piegando la testa di lato, gli occhi su Heyden. Il ragazzo fece per risponderle, ma Dani lo precedette.
-Hai detto qualcosa?-
Rachel si riscosse immediatamente. –No, no. Figurati. Nulla.-
-Entrambi fratelli di poche parole insomma. Fa nulla, immagino sarai sorpresa, non credo tu abbia avuto modo di parlare con Heyden. No? Immaginavo. Non importa. Ma non sapevo che fossi qui, non abitavate a… ma come si chiama? Ah, già! Aylesbury, giusto? Si, dev’essere così…-
Rachel era a dir poco scombussolata, nonché estremamente confusa. La piccola mora la stava letteralmente bombardando di informazioni con una rapidità sconcertante, tanto che la velocità delle sue parole mista al marcato accento americano le stavano rendendo impossibile afferrare anche solo la metà dei contorti ragionamenti solitari di Dani. Senza pensare, apostrofò la nuova venuta senza nemmeno tentare di nascondere il proprio tono confuso.
-Scusa, Dani, giusto? Credo di non aver ancora capito. Tu chi sei?-
Il volto dell’americana parse a Rachel ancora più luminoso nella notte mentre, con un sorriso disarmante sulle piccole labbra rosso fuoco, si preparava a risponderle. Sembrava brillare di luce propria, avvolta in un’aurea quasi magica. Non si poteva negare fosse bellissima.
Heyden mosse un passo in avanti, tentando di afferrarle il polso per tirarla indietro, ma non fece in tempo.
-Sono la ragazza di Heyden!-
Heyden si bloccò sul posto, fissando Rachel per poi portarsi una mano al volto, scuotendo inutilmente il capo, come se fosse arrabbiato con se stesso, ma Dani interpretò male il gesto e l’abbracciò.
Rachel spalancò gli occhi mentre sentiva lontano, nella mente annebbiata dalla confusione e dal dolore, forte ed improvviso, il rimbombo indistinto di una porta mentre le si chiudeva in faccia.




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Capitolo 23
*** Falling Down ***


Canzone del capitolo: Lord Of The Backstage
 

 
Come mossa da un nuovo automatismo interno, Rachel irrigidì le braccia lungo il corpo, si voltò e salì lentamente i pochi gradini che portavano all’ingresso del locale. Camminava adagio, inconsciamente consapevole del fatto che, se si fosse mossa più rapidamente, sarebbe caduta al suolo. Dietro di lei, una Dani confusa chiedeva, rivolta ad un Heyden ancora impalato “Ho detto forse qualcosa che non va?”
 
L’ingresso decisamente poco trionfale di Rachel nel locale non fu notato da nessuno. Senza pensare, si diresse verso il tavolo dove i suoi amici, eccezion fatta per Jacky, stavano discutendo animatamente. Il concerto era appena finito e probabilmente la fotografa stava inseguendo il gruppo alla ricerca di scatti e magari di qualche intervista. Ma a Rachel non interessava. Non riusciva a ragionare. Era bloccata, ferma, pallida, apatica, stava scivolando lentamente in un inquietante stato di paralisi emotiva. Nella sua mente ora c’era il bianco. Il bianco più spaventoso.
Il primo a notarla fu Gale: stava battendo nervosamente il piede a terra, le sue frasi contenevano più bestemmie che parole. Appena la vide, esplose.
-Porca puttana, Kay! Che cazzo ti è preso? Sei andata fuori di testa? Volevi mandare a puttane la serata?-
Ma da parte di Rachel non vi fu risposta. Si abbandonò sulla sedia in modo scomposto, afferrò un bicchiere a caso, l’unico ancora mezzo pieno presente sul tavolo e lo mandò giù d’un sol fiato.
Lyla, preoccupata, si alzò e la raggiunse, inginocchiandosi davanti alla sua sedia.
-Ehy chick, everything’s all right? Non mi sembri star bene.- Sembrò riflettere per un po’, poi le chiese, dolcemente. –Hai forse la febbre?-
-Che cazzo è quella roba?- Violet impallidì leggermente, visibilmente scossa, mentre puntava il lungo indice verso il collo di Rachel. Penny portò una mano sulla bocca, bloccando un urlo. Gale si costrinse alla calma e si alzò. Lyla fece ruotare lentamente la testa a Rachel, ancora immobile, gli occhi sbarrati, vuoti. Uno spaventoso livido nero, marchiato dal segno dei denti ancora rosso di sangue incrostato, circondato da un altro paio di segni simili, ma meno intensi le segnavano indelebilmente il collo. Anche la felpa, mezza spostata, era macchiata di rosso. Lyla spalancò gli occhi.
-St. Patrick bless us… Kay! Chi ti ha fatto questo?- esalò, tremante. Ma Rachel non rispondeva.
-Kay, guardami.- Gale prese il posto di Lyla, troppo scossa per poterla realmente aiutare in quel momento. –Vai a prendere un panno umido Violet.- intimò alla ragazza.
-Kay, Kay. Mi vedi? Sono qui.-
Rachel accennò un assenso senza però distogliere lo sguardo, imbambolato di fronte a lei a fissare il vuoto.
-Kay. Ascoltami attentamente. Prometti?-
Altro cenno d’assenso.
-Chi è stato? Heyden?-
Assenso.
-Ti ha stuprata?-
Negazione.
-Ti ha costretta a fare qualcosa che non volevi fare?-
Negazione.
-Ti ha fatto del male?-
Rachel prese a respirare più velocemente. Serro violentemente gli occhi. Assenso.
-Sporco figlio di puttana. Giuro che lo ammazzo.-
Proprio in quel momento, Heyden fece il proprio ingresso nel locale, trascinato da una Dani sempre sorridente. Quella ragazza era il ritratto fatto persona della gioia di vivere. Ma a Manchester non c’è gioia di vivere. Quella è la semplice illusione del sogno americano, qui devi saper combattere. Non ci sono tramonti da brivido da ammirare dal Golden Gate Bridge, ma la nebbia, la pioggia, fottutissima pioggia che ti consuma fino all’osso giorno dopo giorno. C’è la disperazione che diventa malata euforia se annegata nell’alcool.
Violet rietrò in quel momento nella stanza e si gettò a terra di fronte a Rachel, iniziando a tamponarle lentamente il collo. Heyden la seguì con lo sguardo, soffermandosi sulla figura seminascosta della sorella.
Lyla trasalì, accorgendosi della sua presenza nella stanza.
Gale si alzò, furibondo.
-Che cazzo le hai fatto, bastardo?!-
Heyden alzò il capo. Sembrò riflettere qualche attimo. -Gale? Sei davvero tu? Che cazzo ci fai qui?- chiese, stupito. Ricordava solo vagamente quel bambino di un anno appena più grande, compagno di lunghe ore di giochi nella sua infanzia ormai perduta.
-Rispondi alla mia domanda, schifoso figlio di puttana. Che cazzo le hai fatto?-
Dani si spaventò. Rachel si irrigidì leggermente nel suo stato di trans.
Heyden afferrò i fianchi della piccola americana e la spostò dietro di sé. –Non le ho fatto nulla.- affermò, duro.
-Nulla? Nulla?! Cazzo, mi prendi per il culo? Cristo, guarda in che condizioni sta! E’ totalmente sotto shock, piena di lividi. Che cazzo dovrei pensare?-
-Ascoltami, non verrò a dar conto delle mie azioni a te, capito? Non le ho fatto un cazzo di niente, man. Slow down.-
-No, non ho capito. Vieni a dirmelo qui Hogarth che non le hai fatto un cazzo di niente.-
Gale si avvicinava sempre più ad Heyden. Era totalmente fuori controllo. Tutti nel locale guardavano la scena, completamente senza parole. Lyla era pietrificata. Penny mosse un passo in avanti, subito fermata dalla gemella, ancora inginocchiata di fronte a Rachel. Dal fumoso backstage riemersero anche Jacky insieme agli altri quattro membri della band.
Gale allungò il pugno oltre Heyden ed afferrò l’esile polso di Dani, che urlò. –A lei fai quelle cose? Eh, Heyden? A lei le fai?-
-Lasciala stare, Campbell!- Heyden gridò, fuori di sé.
Ma il suo grido fu coperto da un altro urlo. Più forte, doloroso, disperato, straziante. Rachel portò le mani al volto cadde a terra, raggomitolandosi su se stessa, senza smettere di urlare.
Lyla, sconvolta, mosse verso di lei, tentando inutilmente di fermarla aiutata da Penny e Violet, ma Rachel si dimenava convulsamente sul vecchio pavimento in legno.
Heyden prese Dani per i fianchi, la fece sedere sul grosso bancone per poi scattare in avanti oltre Gale e farsi spazio tra le ragazze, fino ad essere su di lei. Le afferrò i polsi e glieli costrinse al suolo. Rachel spalancò gli occhi e smise di urlare. Dani, saltata giù dal bancone quasi subito, fu subito sopra Heyden. I suoi lunghi capelli mossi scivolarono lievi sulle solide spalle del ragazzo, i grandi occhi scuri erano lucidi di lacrime.
Rachel riacquistò improvvisamente il controllo di sé. Fu come risvegliarsi da un incubo. Per precipitare in uno peggiore.
Una goccia calda cadde dagli occhi di Dani sulla guancia bollente di Rachel. La bionda si riscosse e la fissò, esterrefatta. Una fitta di dolore l’attraversò mentre teneva fissi gli occhi verdi in quelli neri dell’americana. Le sue lacrime. Erano vere. Era sincera. Quindi aveva realmente paura, stava realmente tremando, sentiva realmente di essere in un qualche modo un’estranea in quel momento, in quel luogo. Era realmente preoccupata per Rachel. Perché non c’è nulla di più tremendo che ritrovarti davanti qualcuno che le circostanze ti impongono di detestare con tutto te stesso, ma che la tua natura ti impedisce di odiare. Rachel era così, troppo buona per essere capace di disprezzare quella ragazza così sinceramente impaurita, angosciata per lei. Perché si, Dani era sincera. Rachel si sentì letteralmente impotente davanti a quella sconosciuta che in quel momento, con le grandi iridi nere rese lucide dal pianto ed i capelli mori mossi da una leggerissima brezza, pareva una fata, una ninfa eterea venuta da un qualche paese a lei ignoto. Quella contro di lei era una battaglia persa fin dal principio: non aveva né i mezzi, né la motivazione necessaria per riuscirvi. E allora, perché combattere, quando sai di avere già perso? Di essere già sconfitto in partenza? Bisogna essere autolesionisti per provarci.
Ma in fondo, chi era il problema? Dani? No, Dani era solo una conseguenza. Il problema era Heyden. Heyden, Heyden, Heyden, sempre Heyden. Origine e causa di ogni suo male, unica cura possibile. Salvatore e carnefice al contempo.
Ma non aveva senso urlare. Aveva già urlato contro di lui, ed aveva ottenuto cosa? Che se ne andasse per farsi una vita migliore lontano, trovare amore e passione. No, non sarebbe stata tanto stupida questa volta.
Nutrita dal nuovo sentimento che nasceva in quegli attimi in lei, Rachel spostò lo sguardo sul gemello. Non fu capace di decifrarne lo sguardo e si sentì ancora più sbattuta fuori da quel mondo che fino a pochi minuti prima pareva essere di nuovo esclusivamente suo. Con la clausola del per sempre sott’intesa. Ed invece, come in ogni buon contratto che si rispetti, sono i cavilli a fregarti, le righine in piccolo, quelle che nemmeno con la lente d’ingrandimento riesci a leggere. E nella sua righetta stava Dani.
Heyden, gli occhi color ghiaccio in quelli della sorella, sembrava non essere cosciente della presenza di Dani su di lui. Iniziò, deciso, rivolto alla gemella: -Rachel…-
Ma lei l’interruppe. Con voce calma, dolce, in un sussurro appena percettibile, con i grandi occhi verdi in quelli di Heyden, Rachel pagò il gemello con la sua stessa moneta.
-No, Rachel. No, non ti lascio. Sei mia. Ti terrò al sicuro, nessuno ti farà del male.-
 
Ecco, era fatta. Il colpo era stato sparato e la situazione stava lentamente precipitando inesorabilmente verso il freddo suolo della realtà, il cristallo stava per infrangersi. Era ora di abbandonare il campo di battaglia prima della fine. Occhio non vede, cuore non duole.
Cosa, cosa di più letale avrebbe mai potuto dire? Nulla. Non esisteva niente di più tremendo di quelle parole, quella promessa, espressa nemmeno un’ora prima e già infranta, il patto più breve della storia, la maschera più finta mai realizzata.
Vide i mutamenti del viso di Heyden al rallentatore sopra di lei, tutto sembrava essersi fermato, la grossa bolla di immobilità intorno a loro li imprigionava in un bianco, insostenibile silenzio. Rachel sentì la presa di Heyden abbandonarla, vide il suo corpo allontanarsi, la luce e poi un’ombra su di lei. Sbatté le palpebre, uscendo a quel modo da quello stato di incoscienza. Gale era su di lei: le parlava, ma Rachel non sentiva. Il respiro di Heyden, ancora forte nelle sue orecchie, le impediva di udire alcun’altro suono.
I suoi occhi, ora vigili, si spostavano lentamente dai propri polsi rossi alle mani di Heyden e viceversa in una danza infinita di occhiate mute. E poi Dani ci mise lo zampino.
Spaventata, la piccola americana cercava in quel momento rassicurazione delle braccia di Heyden, rigide quanto quelle di un manichino, freddo quanto il ghiaccio, spento esattamente come la gelida fiamma nei suoi occhi. Perso, lo sguardo nel vuoto, un’espressione tra lo stupefatto e l’irato.
Rachel ebbe un sussulto. Se n’era reso conto.
-Allora lo sai…-
Heyden non rispose.
Dani era confusa. Faceva girare i grandi occhioni da lei a lui, proprio come tutti nella stanza in quel momento. Ma non le interessava.
-Sapevi che mi avrebbe ferito. E me l’hai nascosto. Lei è stata un imprevisto, non sarebbe dovuta saltare fuori, non è così? Doveva essere il tuo segreto, non è così?-
Silenzio. Heyden chiuse gli occhi, abbassò il capo e strinse i pugni lungo il corpo.
-Rispondimi, Heyden cazzo!- Rachel stava urlando.
Heyden alzò contemporaneamente braccia e sguardo dal suolo. Dani sussultò ed arretrò, spaventata.
-Si, si porca puttana Rachel! E’ così! Dimmi, ti senti meglio ora?-
Rachel voltò la testa di lato, indietreggiando lentamente verso la porta del locale.
Alzò lentamente lo sguardo sul gemello. Poi sull’americana.
-Sei… sei un bugiardo Heyden.-
Il ragazzo scansò Dani e si avvicinò a lei. Gale fece un passo avanti, ma si fermò. Nessun’altro si mosse. Rachel prese a tremare. Lui lo notò e si fermò di colpo a qualche metro da lei. Il suo sguardo era assolutamente indescrivibile, a metà tra il furioso e lo sconvolto.
-Hai paura di me?-
Rachel deglutì a vuoto. –S..si.-
Heyden fece per avvicinarsi, ma Rachel premette il palmo sulla porta dietro di lei, pronta a scappare. Quello lo fece fermare di nuovo. Ora c’era solo incredulità nei suoi occhi azzurri.
-Dimmi che non è vero…-
-S…scusa Heyden.-
Heyden tentò di allungare la mano verso la guancia della sorella, ma l’autentico terrore che scorse nei suoi occhi prima che li abbassasse al suolo lo pietrificò con il braccio a mezz’aria.
-Di cos’hai paura? Tu sai come sono. Non hai mai avuto paura di me, sai che non potrei mai ferirti realmente. Non alzo le mani sulle ragazze. Io posso proteggerti Rachel. L’ho sempre fatto e così sarà sempre.-
Rachel alzò lo sguardo su Heyden e lo trovò quasi supplichevole. In quel momento, le faceva semplicemente una tenerezza infinita. Ma poi Dani si schiarì la voce e sentì improvvisamente il cuore esploderle nel petto. Ma stavolta, Heyden lo percepì. E, Rachel ne fu certa, comprese a quale tipo di male si stava riferendo. Perché avesse così tanta paura di lui. Perché, infondo, fa più male il male fisico o il male che si prova dentro l’anima quando viene strappata in modo così violento?
Heyden spalancò i profondi occhi color ghiaccio, che divennero leggermente più scuri.
-Tu mi ami…-
Lei non rispose.
Dani si schiarì nuovamente la voce.
Rachel premette il palmo destro sul petto e indietreggiò ancora. Lo fissò con intensità indescrivibile negli occhi azzurri, resi più lucidi del solito dal freddo che entrava dalla porta ormai aperta, il corpo tremante, gli occhi umidi, la voce rotta dal pianto.
-Puoi proteggermi da te stesso, ora?-
Detto quello, corse via.
 
“Talk, we never could talk,
distanced by all that was between us.”

 
“Parlare, non abbiamo mai potuto parlare,
allontanati da tutto quello che c’era fra di noi.”




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