La Regina di Spade

di khyhan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0 - Il Matto ***
Capitolo 2: *** 1.1 Il Mago - Parigi ***
Capitolo 3: *** 1.2 Il Mago - I Segreti della città ***
Capitolo 4: *** 1.3 Il Mago - L'eredità del Padre ***
Capitolo 5: *** 1.4 Il Mago - Regina del Passato e del Futuro ***
Capitolo 6: *** 1.5 Il Mago - Il Gioco delle Alleanze ***
Capitolo 7: *** 1.6 Il Mago - La Pietra nel Fango ***
Capitolo 8: *** 2.1 La Papessa - Dublino ***
Capitolo 9: *** 2.2 La Papessa - Notti Insonni ***
Capitolo 10: *** 2.3 La Papessa - L'Abilità del Ladro ***
Capitolo 11: *** 2.4 La Papessa - Il Potere della Spada ***
Capitolo 12: *** 2.5 La Papessa - Colui che Volse lo Sguardo alla Luna ***
Capitolo 13: *** 3.1 L'Imperatrice - Singapore ***
Capitolo 14: *** 3.2 L'Imperatrice - Come i Diamanti ***
Capitolo 15: *** 3.3 L'Imperatrice - A Forma di Carta, A Forma di Uomo ***
Capitolo 16: *** 3.4 L'Impetratrice - L'Eco dei Secoli ***
Capitolo 17: *** 3.5 L'Imperatrice - La Ragazza dietro l'Obiettivo ***



Capitolo 1
*** 0 - Il Matto ***


0 - il Matto

0 – Il Matto

La Follia della Fine

e

l’Inizio del Destino

 

Babilonia, Mesopotamia. 587 a.C.

 

Atlaeia si svegliò di soprassalto, coperta di sudori freddi e con la bocca dello stomaco chiusa per la tensione.

L’aveva addormentata.

Nefer l’aveva addormentata con l’uso della magia ne era sicura.

– Nefer? – chiese tremante cercando l’uomo nella stanza. Lo trovò seduto sul davanzale della finestra con solo il gonnellino intorno alla vita. Una vecchia abitudine egizia che non si era mai tolto in tanti anni di vita a Babilonia e che riaffiorava quando era preoccupato. Osservava corrucciato le nubi nere cariche di tempesta e presagi di morte sulla città. La spada di bronzo era appoggiata accanto a lui come una fedele amica che lo aveva servito in tanti anni. Il mento appoggiato sulla mano fece sorridere Atlaeia, aveva visto Nefer in quella posizione tante volte e amava il modo in cui i ricci gli ricadevano sugli occhi verdi. Nonostante l’età e ciò che lui aveva fatto e visto, il viso di Nefer era rimasto innocente come quello di un bambino.

– Mi hai addormentata. – gli disse alzandosi dal basso letto con delle raffigurazioni degli déi di Babilonia intagliati nel legno. Nefer non smentì le sue parole. Si strinse a lui che con le sue braccia forti la scaldavano e la rassicuravano. Quando affondava il viso nel suo petto, Atlaeia sapeva che nulla poteva ferirla. Eppure era andata da lui proprio per chiedergli quello: di ferirla. Era andata dall’unica persona in cui aveva fiducia per chiedergli di porre fine alla sua prigionia, ma prima che potesse parlare, Nefer l’aveva addormentata. Lui sapeva che la situazione stava precipitando, Babilonia era arrivata al limite e le continue lotte per il potere avevano portato alla morte di molti schiavi come lei. Sapeva che non potevano più andare avanti e amarsi di nascosto, che Malik diventava ogni giorno più folle e geloso. Aveva ucciso un uomo innocente solo perché l’aveva sfiorata e poi l’aveva picchiata sussurrandole all’orecchio di non istigare più gli uomini con la sua bellezza o la prossima volta avrebbe decimato la città. Se il suo padrone avesse della profondità del suo amore per Nefer, cosa gli avrebbe fatto?

Era corsa da lui per amarlo un’ultima volta e sentirsi cullata dal suo calore e perché lei era una codarda e non riusciva a rivolgere il pugnale contro se stessa. Era andata dall’unico uomo che aveva provato a capirla che aveva guardato oltre al suo corpo e l’aveva amata nonostante lei fosse una schiava. Tra le sue braccia si era sentita tratta come una donna e non come un oggetto ed era così che voleva morire.

Gli baciò il palmo della mano sentendo i calli sulle labbra. Il guerriero che era il lui si era allarmato poche ore prima guardandola negli occhi. Aveva riconosciuto lo sguardo di una persona che non aveva più nulla da perdere e nemmeno il loro amore era più in grado di farle sopportare l’orrore che era costretta a vivere ogni giorno; eppure Nefer l’aveva accolta tra le sue braccia e le aveva sussurrato di amarla con ogni suo respiro. Atlaeia ricordava i suoi baci e il suo tocco mentre la amava, ma prima che lei potesse dar voce alla sua richiesta un velo nero l’aveva avvolta e lei si era addormentata.

– Cosa riesci a farmi, Atlaeia? – mormorò  lui con voce roca affondando il viso nei suoi capelli biondi. – Così bella. Così preziosa. La donna più bella che il mondo abbia mai visto. Per te brucerei questa città sacrificandola a Marduk. – discese la curva del collo della donna stampandole una fila di baci sul suo corpo nudo. Atlaeia si godette quel contatto cercando di non pensare a ciò che le aveva appena detto Nefer. Da tempo l’uomo aveva dimenticato i suoi dèi in Egitto per quelli di Babilonia, anche se nel sonno lo sentiva mormorare parole in egiziano che lei non capiva e la stringeva più forte. – Non posso più separarmi da te, amore mio. – le disse baciandole la testa. – Non posso più rimandarti da Malik sapendo cosa ti fa. Come ti usa.

Atlaeia gli prese il volto tra le mani e lo guardò perdendosi nei suoi occhi. Esisteva solo lui nel suo cuore e nella sua mente e nulla avrebbe potuto cancellare il ricordo di quel viso che tanto amava. – Presto Malik sarà qui. – rispose lei.

Il suo padrone. Il suo aguzzino. Il suo creatore. Il migliore amico dell’uomo che amava. Non ci avrebbe messo molto a scoprire dove fosse scappata Atlaeia e allora sarebbe stata la fine per entrambi.

– Possiamo fuggire. – propose Nefer tornando a guardare fuori. La città era in fermento, animata dalla follia. Correndo da Nefer, Atlaeia era stata costretta a fare lunghi giri per evitare la violenza che dilagava per le strade. – Presto scoppierà la guerra a Babilonia, Malik sarà troppo impegnato a difendere il proprio potere. Possiamo approfittarne.

– Abbandoneresti così la città? Hai giurato di proteggerla. – Atlaeia seguì la direzione del suo sguardo fermandosi sui Giardini Pensili e sui templi vuoti e silenziosi. Come la notte in cui era rinata nell’aria aleggiava l’odore di zolfo e di bruciato, sentiva che tutto ciò che c’era di bello a Babilonia sarebbe bruciato fino alle fondamenta. Erano anni che viveva lì, da quando Malik l’aveva comprata al mercato degli schiavi, ma la vista dei Giardini la lasciava sempre senza fiato. Se li avessero dati alle fiamme in un momento di follia significava che per la città non c’era più nulla da fare.

– Per Marduk, donna! – Atlaeia sobbalzò all’imprecazione di Nefer. – Non lo capisci che per questa città non c’è più speranza? Siamo andati troppo oltre! Babilonia crollerà su se stessa, con me o senza di me. – si voltò a guardarla di nuovo accarezzando il viso lentamente. – L’unico di cui mi preoccupo sei tu, cuore mio. Malik ti ucciderà se ti prenderà, il seme della Follia l’ha travolto. Se coprisse cosa abbiamo fatto. – si prese il volto tra le mani dondolandosi sul posto e Atlaeia tremò accanto a lui. – Se coprisse cosa ho fatto! Ti ha già immolata su un altare una volta quando ti ha dato tutto quel potere. Ti immolerà alla sua gelosia se ti prende... – Atlaeia mise a tacere le sue proteste baciandolo. Un bacio dolce, che solo Nefer conosceva nei momenti di intimità strappati alla frenetica vita babilonese. – Non mi toccherà più, Nefer. – sentì una lacrima sfuggirle. Era arrivato il momento di palare anche se lui si era rifiutato di ascoltarla poche ore prima. Entrambi avevano bisogno di sentire quelle parole e essere liberi di seguire il proprio destino. – Sai cosa devi fare. Sai come impedire che mi tocchi di nuovo. – accarezzò il fodero della spada e Nefer si allontanò di scatto come se lei lo avesse schiaffeggiato.

 – Non puoi davvero chiederlo! – protestò. – Che ne sarà di Omarosa? Che ne sarà di nostra figlia? – la afferrò per le braccia e la scosse cercando di farla tornare sui suoi passi. – Posso tenere entrambe al sicuro! Posso far sì che Malik non ti tocchi più! Posso ucciderlo! Non chiedermi una cosa del genere. Io non posso farlo.

Atlaeia scosse la testa con le lacrime che le scendevano copiose sul viso. – Non puoi, Nefer. Siete stati amici per tanti anni. Non puoi farlo davvero. E Malik non farà nulla a Omarosa, la crede sua figlia, non la toccherà. Io sono solo una schiva. Sono sacrificabile per voi.

– Per tutti gli dèi! – Nefer afferrò la spada e la abbatté sul tavolo di legno, mandandolo in pezzi. – Avrei dovuto comprarti io quel giorno! Io! Non avrei dovuto lasciare che ti prendesse. Sono stato così egoista... Volevo solo qualche schiva che mi facesse divertire. Malik ha speso per averti quello che avevo pagato io per dieci, eppure l’acquisto migliore l’ha fatto lui. Gli avevo dato del folle quel giorno, ma il vero folle sono stato io a non comprarti.

Atlaeia abbassò gli occhi sul pavimento di legno, anche se Nefer l’avesse comprata non sarebbe cambiato niente. Sempre una schiava sarebbe rimasta e questo lui non lo capiva. – Nefer, – chiamò piano – ti prego. Per anni ho servito Malik in tutti i modi. Sono sempre stata una schiava, ma voglio morire come desidero io: tra le braccia dell’uomo che amo.

Lui scosse la testa. – Non posso.

– Hai passato a fil di spada tanti uomini e non te ne sei preoccupato. – singhiozzò.

– Ma non lo farò con la donna che amo, che mi ha dato una figlia, – le posò una mano sull’addome. – e che sta aspettando il secondo.

Lei alzò gli occhi su di lui. – Come lo sai? – lo aveva capito solo da pochi giorni e non lo aveva ancora detto a nessuno.

– Sono un mago. – rispose distogliendo lo sguardo. – Sento la vita crescere dentro di te.

Atlaeia gli voltò il viso e lo costrinse a guardala di nuovo. Il suo amore aveva distrutto quell’uomo, aveva distrutto Malik, aveva distrutto se stessa. – Nefer, ti supplico, fallo. Ho sempre vissuto come una schiava. Non ho mai visto la mia terra d’origine. Se esiste un modo per tornare dopo la morte voglio rinascere lì come una donna libera. Voglio vedere le montagne coperte di neve e i fiumi diventare freddi e duri con la pietra e non posso farlo da schiava.

– Non posso.

– Puoi. – Atlaeia estrasse la spada dal fodero e gliela offrì. – Ti supplico. Per anni Malik ha fatto di me quello che voleva. Anche se scappassimo insieme il ricordo non se ne andrà mai e lui ci darà la caccia. Mi perseguiterà in eterno. Non sarò mai libera. È l’unico modo e voglio che sia tu a farlo. Voglio essere tua fino all’ultimo respiro che mi rimane.

Nefer fissò a lungo la spada per poi impugnarla con i polsi che gli tremavano. – Chiudi gli occhi, amore mio. – sussurrò sulle sue labbra. Lei obbedì e il respiro di Nefer le accarezzò il viso con un’ultima, tenera carezza. – Ci ritroveremo ancora, te lo giuro. E possa Marduk essermi testimone, non ti perderò di nuovo. – sentì il bacio di Nefer aumentare di pressione mentre le apriva la bocca. La tenne stretta senza mai lasciarla andare quando la trafisse appena sotto il cuore, lì, dove quel giorno maledetto Malik l’aveva marchiata condannandola a essere una dominatrice del vento.

 ***

Nefer cadde in ginocchio stringendo il corpo insanguinato e senza vita di Atlaeia. Non l’avrebbe più rivista. Non le avrebbe più parlato, né si sarebbe perso nei suoi occhi di due colori diversi.

Urlò di rabbia mentre la follia lo sopraffaceva. Babilonia aveva trasformato lui in un mostro e la donna della sua vita in un essere magico. Tutto per avere il potere della Magia Originale.

L’avrebbe distrutta. Avrebbe distrutto quella città che lo aveva venerato come un dio per poi abbandonarlo al suo dolore e alla disperazione. Avrebbe dimostrato a tutta quella gente cosa significava mettersi contro di lui e le sue illusioni. Sarebbero arrivati a pregarlo perché li uccidesse.

Avrebbe distrutto la città che lo aveva incatenato con le sue leggi e i suoi lussi facendola crollare fino all’ultima pietra.

E avrebbe distrutto Malik, che nei suoi piani di conquista della Magia Originale aveva coinvolto Atlaeia costringendola a diventare come lui.

Estrasse la spada dal corpo della donna che amava. Respirava affannosamente mentre artigliava il pavimento che si copriva del sangue di Atlaeia.

– Ci ritroveremo. – urlò. – E ti amerò di nuovo, te lo prometto. Nella prossima vita. In cento prossime vite. Ogni volta mi innamorerò di nuovo di te. Tu sei mia e il mio cuore è tuo. – si alzò tremante aiutandosi con la spada e andò a sbattere contro il muro non riuscendo a stare in piedi.

Aveva tolto la vita a centinaia di persone. Sui campi di battaglia. Al tribunale. Per solo il suo piacere personale o perché gli avevano dato fastidio,  ma mai si era sentito così. L’odore di morte gli stava dando la nausea eppure voleva sentirlo ancora, voleva che tutti provassero ciò che stava provando lui.

La porta al piano terra venne sfondata con un violento colpo. – Nefer! – la voce di Malik gli diete una nuova sferzata di energia costringendolo a rimettersi dritto. – Dov’è quella puttana, Nefer? Dov’è Atlaeia? – strinse convulsamente la spada coperta di sangue.

Sapeva cosa doveva fare. Mettere al sicuro Omarosa da Malik. Far crescere sua figlia lontana da questo luogo dimenticato dagli dèi. E per farlo doveva uccidere il suo migliore amico.

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NdA: sì, ammetto di essere tornata con la storia che sotto il mio profilo si chiama la Guerra degli Arcani, in una nuova stesura, che stavolta poterò a termine. Devo assolutamente portare a termine. E... Niente! Senza Bea, Vale e Bianca non sarei tornata a pubblicare più nulla, quindi le ringrazio per avermi spronato.

 

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Capitolo 2
*** 1.1 Il Mago - Parigi ***


1.1 Il Mago - Parigi

I – Il Mago

Parigi

 

Parigi, 14 Luglio 2011.

 

Verity sistemò le scatole di cioccolatini in cima allo scaffale e guardò da un angolazione diversa l’effetto ottenuto. Si punteggiò il mento con l’indice non del tutto soddisfatta. – Non mi piace. – disse a Zoe, l’altra commessa della cioccolateria. – Non mi convince come le ho messe.

– Prova a scambiare la scatola con il fiocco rosso a destra con quella il fiocco oro.

Verity obbedì ed entrambe le ragazze guardarono la combinazione scuotendo la testa. – Fanno schifo come prima. – disse Verity togliendo le due scatole amareggiata – Hai altre idee?

La porta di ingresso scampanellò ed entrambe le ragazze di voltarono verso il cliente con lo stesso, identico sorriso anche se quello di Verity era un po’ tirato per gli eventi degli ultimi mesi. Essere sempre sorridenti era la politica del negozio ma aveva una fitta al cuore ogni volta che vedeva una coppia di fidanzati o una famiglia.

– Buongiorno. – dissero in coro.

Alla vista del giovane Zoe divenne rossa come un peperone, balbettò qualcosa che assomigliava a: ‘controllo il magazzino’ e scomparve nel retro bottega lasciando Verity da sola a servire il cliente.

– Come posso aiutarla? – chiese lei alzando gli occhi al comportamento bizzarro di Zoe. Dopo le avrebbe chiesto cosa fosse successo.

L’angolo delle labbra del giovane si piegò in un mezzo sorriso come se stesse ridendo ad una battuta che solo lui poteva capire. – Vorrei un assortimento di cioccolatini, ma qualcosa di speciale. Una scatola con trentuno praline.

– Trentuno? – ripeté Verity battendo le palpebre.

– Trentuno. Cos’è non sai contare fino a trentuno?

Verity lo trapassò con lo sguardo irrigidendosi all’istante. – Io so contare benissimo, – disse mantenendo il più possibile la calma. – solo che trentuno praline non stanno in una scatola.

Il giovane si appoggiò con il gomito sopra il bancone di marmo verde e si sporse verso di lei. – Beh, questo sarà un problema che dovrai risolvere. Perché io voglio esattamente trentuno praline del vostro migliore cioccolato. Né una di più, né una di meno.

Verity deglutì sotto lo sguardo penetrante del ragazzo. Quegli occhi azzurri le fecero accelerare il cuore ma non sapeva se era rabbia o qualcosa di più. Aveva l’impressione che dietro quel viso ce ne fosse un altro che conosceva bene e se avesse allungato la mano gli avrebbe tolto la maschera e lo avrebbe riconosciuto.

Si diede della stupida per quel comportamento e  si ricompose raddrizzando le spalle. – Come volete.

– La tua amica. – disse lui lentamente non schiodando gli occhi da lei. – Quella che è scomparsa alla velocità della luce, dovrebbe conoscere la misura di scatola adatta. Vengo qua tutti i mesi.

Verity annuì una volta e andò nel retrobottega a recuperare Zoe. Iniziava a capire perché fosse fuggita a gambe levate. In quattro frasi quel ragazzo l’aveva fatta arrabbiare e i suoi modi saccenti le avevano fatto prudere le mani.

– Zoe! – chiamò Verity passando davanti la pasticceria e andando verso il magazzino. – Che scatola usi per il signore?

Zoe sobbalzò sulla cassa su cui era seduta e scrisse sulla lavagna con i gessetti colorati ‘non è bellissimo?’

– Una misura standard, – le rispose guardando eloquente ciò che aveva appena scritto. – ma metto trenta praline quadrate un tonda in centro. – spiegò.

Verity le rispose sulla lavagna cercando di non sporcarsi la divisa di gesso. Io lo uccido era scritto rosso su nero, minaccioso come le parole non dette di Verity

– Grazie. – disse prima di abbassare i toni e le sussurrò: –  E riprenditi, è solo un ragazzo.

Verity le diede le spalle e tornò nel negozio, ma non le sfuggirono le ultime parole di Zoe: – Non è solo un ragazzo. È Michael. – disse sognante.

Recuperò la scatola standard sotto il bancone e aprì la vetrinetta delle praline di cioccolato finissimo. – Preferenze? – chiese frettolosamente. Non era proprio il massimo dell’educazione, ma aveva cominciato quel ragazzo con l’essere sgarbato.

Lui si mise le mani in tasca, padrone della situazione. – Direi di no. La ragazza che li riceverà mangia qualsiasi cosa contenga cioccolato, anche il cianuro se fosse ricoperto di fondente.

E così ha la ragazza. Beh, Zoe mettitela via. Un tipo del genere è meglio  perderlo che trovarlo.

– Inizio con quelle al fondente?

Lui alzò le spalle guardandola sempre con quel mezzo sorriso che la stava irritando. – Come desideri. Ti lascio carta bianca.

Verity iniziò a riempire la scatola il più velocemente possibile mettendo le praline quadrate ai lati e una rotonda, al caramello, in centro. – Vanno bene così? – chiese mostrando l’assortimento al ragazzo.

– Ottimo. Sembrerà strano, ma sei riuscita ad azzeccare quasi tutti i suoi gusti preferiti.

Un’altra scossa di irritazione attraversò Verity dalla testa ai piedi. Non le piaceva come le stava parlando. La trattava come se avesse cinque anni e non capisse nulla. Se quel tipo non si fosse levato dai piedi avrebbe finito per picchiarlo. Gli diete le spalle e iniziò a fare il pacchetto. Non aveva indicazioni da parte della direzione per un assortimento così strano, ma una scatola marrone con nastri verde e oro le sembravano una buona soluzione. – Potresti mettere un coperchio bianco e del nastro oro? – chiese lui.

Verity lo fulminò attraverso lo specchio. – Certamente. – disse acida.

Chiunque sia la sua ragazza deve avere la pazienza di una santa.

Lo guardò per un altro istante si accorse che lo sguardo del ragazzo le stava percorrendo pigramente la schiena soffermandosi sulle sue gambe e sul… – Mi sta guardando il fondoschiena? – domandò voltandosi di scatto.

Lui alzò le mani e le sorrise senza traccia di vergogna. – Mi offri una visione del genere ne dovevo approfittare, no?

Verity mise la scatola sul bancone e si morse la lingua. Ancora pochi minuti e il ragazzo sarebbe sparito e non l’avrebbe più visto.

Aveva visto giusto nel fuggire, sopportarlo per più di un quarto d’ora doveva essere una specie di primato. – Allora, – disse tenendosi stretto il suo ultimo barlume di calma. – sono trentuno praline per un euro e cinquanta.

– Ne pago trentadue.

Verity si bloccò di colpo con la mano sulla cassa. – Nella scatola ne ho messe trentuno.

– Lo so, – rispose lui tirando fuori il portafogli. – la trentaduesima è per te.

Non voleva nulla da lui, ben che meno una pralina. – Io non mangio cioccolato.

Il ragazzo si allungò sopra il bancone lasciando pochi centimetri tra di loro. – Il che spiega perché sei così frigida e fredda.

Verity indietreggiò. – Io non sono frigida!

– Dimostramelo. – sussurrò lui inclinando la testa di lato – Esci con me.

– Forse nei tuoi sogni.

Michael scoppiò a ridere e lei ebbe l’impressione di aver già sentito quel suono da qualche parte. Le mise una banconota da cinquanta euro sul bancone. – Tieni pure il resto. E mangia quella pralina, mi raccomando. – Verity fece lo scontrino e gli passò il pacchetto guardando da un’altra parte.

Il ragazzo prese la busta che lei gli tendeva e se andò per poi fermarsi sulla porta del negozio e voltarsi di nuovo. – Nessuno mi dice di no due volte. – disse. – La prossima volta che te lo chiedo, uscirai con me.

Come si chiuse la porta alle spalle, Zoe decise di riapparire in negozio. – È andato via? –  domandò facendo capolino. Verity si voltò a guardare torva l’amica. L’aveva abbandonata nel momento del bisogno. – Mi spieghi perché mi hai lasciata sola con quello là?

– Non è andata così male. – mormorò Zoe giocherellando con un pezzo di nastro abbandonato sul tavolo.

– Come no. – rispose ironica recuperando uno straccio e uno spruzzatore. Iniziò a pulire il bancone di marmo come se ne andasse della sua vita. – Non è andata male. Se si avvicinava un altro po’ gli staccavo il naso.

– Che stai facendo? – chiese Zoe. – Le pulizie le facciamo la sera.

– Lo so, – disse spruzzando abbondante spray sul marmo – ma disinfetto il locale dalla presenza di quello là.

– Quello là si chiama Michael.

– Preferisco quello là.

Zoe sospirò e prese le scatole di cioccolatini che Verity aveva abbandonato all’arrivo di Michael per sistemarle sull’espositore di legno scuro. – Michael non è così malvagio, voglio dire, viene qui una volta al mese e compra sempre qualcosa in più per noi. – spiegò scambiando le scatole verdi con quelle bianche.

Verity si fermò con lo straccio stretto in mano. – Stiamo parlando della stessa persona? Perché a gli avrei cacciato una Torre Eiffel di cioccolato giù per la gola.

Zoe le sorrise e le prese lo spray e lo straccio dalle mani. – Non voglio difenderlo, voglio dire, Michael è Michael aspettarsi qualcosa di serio da lui è da folli…

– Aspetta, aspetta, aspetta. – guardò prima lei poi la porta da cui lui era uscito e un’idea si fece strada nella sua mente. – Ci sei uscita insieme?

La faccia di Zoe diceva tutto, ma lei lo confermò lo stesso: – Usciti è una parola grossa. Divertiti direi.

– Ah. – si accorse di avere la bocca aperta e si ordinò di richiuderla. – Per questo sei corsa in cucina?

Zoe le picchiettò la fronte con l’indice – Sei un po’ tarda, eh? È successo prima che tu venissi assunta qui. Anche l’altra ragazza che c’era prima di te…

– Anche lei?

– E quella prima. E anche la ragazza che ci dà una mano nei finesettimana.

– Si è fatto tutte le commesse? – strappò lo straccio dalle mani di Zoe e riprese a pulire con rinnovata energia. Avrebbe eliminato ogni traccia di quel tizio a costo di consumare il marmo. – Io li odio gli uomini così. Pensano sempre che le ragazze gli cadano ai piedi. Io. – e picchiò lo straccio sulla vetrinetta che tintinnò. – Li odio. E comunque perché non l’hai servito tu?

– Non ti sfogare sulla vetrina. E poi mi vergognavo, Michael non esce con la stessa ragazza due volte. Una volta l’ho visto con una ragazza tre sere di fila, ma credo che fosse un record.

Verity incrociò le braccia al petto. – Non è che me lo rendi più simpatico se mi racconti cose del genere. – aveva conosciuto un tipo del genere una volta. Lei e le sue amiche lo prendevano sempre in giro anche se sapeva che era stato un po’ con tutte. – Perché poi trentuno cioccolatini?

– Ah, – Zoe si morse pensierosa un angolo del labbro. – Non ne prende sempre trentuno, a volte trenta. A febbraio, ventotto. – cercando una via di fuga all’interrogatorio, Zoe riprese a lavorare con più energia. – Abbiamo bisogno di altre praline al cognac e cointreau, vado a prenderle!

Si defilò prima che Verity potesse fare un’altra domanda, lasciandola a fissare i cioccolatini confusa. Se lui saltava da un letto all’altro per chi era la scatola che aveva fatto preparare così minuziosamente? Scosse la testa per scacciare il pensiero, non gli interessava un accidenti di quel tipo odioso.

Aveva chiesto quel lavoro per avere un modo per mangiare e lo stipendio non era male. Inoltre il proprietario del negozio le aveva messo a disposizione il piccolo appartamento che divideva con Zoe. Così mentre Verity faceva le sue ricerche poteva mantenersi. Tutto il resto era di troppo.

Sorrise e riprese a pulire, ad ogni passata il ricordo di quel ragazzo saccente se ne andava.

Zoe riapparve qualche minuto dopo con il vassoio in mano mentre Verity controllava le sculture di cioccolato e contava le Torre Eiffel piccole. – I pasticceri chiedono se abbiamo bisogno di qualcosa.

– Ci servirà qualcuna di queste. – rispose indicando le sculture. Raddrizzò un cesto che conteneva un assortimento di cioccolatini pregiati e bottiglie di liquore. – A proposito di torri Eiffel, hai sentito dell’esposizione?

– Quella del diamante?

Verity annuì. – Mi piacerebbe vederla, ho letto sul giornale che è uno dei diamanti più grandi del mondo, ma i biglietti costano caro. – avrebbe voluto vederla, ma era chiaro che era un’esposizione destinata all’élite di Parigi, non per gente come lei.

Zoe rise. – Per questa volta passiamo vista l’ultima bolletta dell’acqua, ma che ne pensi che ci prenotiamo la prossima? – Verity scoppiò a ridere insieme a Zoe. Erano perennemente in bolletta e qualsiasi esposizione sarebbe stata impossibile a tempo indeterminato. – Sai che ti dico? – proseguì Zoe – Stasera usciamo, andiamo a Montmartre a divertirci.

– Ma… – Verity non seppe cosa dire per la proposta improvvisa. Aveva già fatto i suoi piani per quella sera.

– E adesso in pausa signorina! Sei sopravvissuta a Michael.

– Ma… – Verity provò di nuovo a protestare sul piano di Zoe, ma l’amica la zittì con un cenno della mano. – E non dimenticarti di mangiarti la pralina pagata da Michael. – venne spinta fino all’espositore di cioccolatini alla frutta. – Avanti! So che non mangi cioccolato, ma quello con la salsa alle fragole devi assaggiarlo.

Ritrovò la parola. – A me non piace il cioccolato.

– A tutti piace il cioccolato. Tu sei solo di gusti difficili. – le ficcò il dolcetto in bocca.

Verity tossì rischiando di farselo andare di traverso e la guardò con gli occhi lucidi – Sei matta? – bofonchiò.

– E stasera niente regina della castità! – proseguì Zoe ammonendola con un dito. – Si esce!

Una volta che partiva per i suoi sproloqui, Zoe non si fermava più ma Verity aveva altri piani e doveva trovare un modo per dirle di no. – Non ho nulla da mettermi. – protestò lei cercando di tirarsi indietro. – E vorrei studiare un po’.

– Chi vota per far uscire Verity? – urlò Zoe alzando la mano nel locale vuoto. Dalla cucina si sentì un coro di ‘noi’ e la ragazza arrossì fissando le piastrelle. Sibilò ‘traditori’ a denti stretti rivolta ai pasticceri. Li trovava simpatici, anche se a volte erano un po’ troppo esuberanti.

– ‘Membri che hanno una vita sociale’ battono i membri del: ‘noiosa serata a casa con pigiama’. Andiamo! – esclamò lei volteggiando su se stessa. Verity non sarebbe riuscita più a farle cambiare idea. – È il 14 luglio! È festa! Ubriachiamoci fino a non stare più in piedi.

– Ma…

– Niente ma! Ti presto qualcosa io, usciamo, ci divertiamo, fine. Da quando sei arrivata sei sempre stata a casa.

– Sono andata a fare un giro turistico per Parigi.

– Quello lo chiami uscire? – chiese lei come se non credesse alle proprie orecchie. – Quello è ammazzarsi di cultura e noia.

Verity alzò le mani arrendendosi. – Va bene! Va bene, la riconosco una battaglia persa. Esco. – la guardò male e Zoe le fece un sorriso che non prometteva nulla di buono.

– E niente broncio.

– Niente broncio.  – sospirò sotto lo sguardo dell’amica e alzò gli occhi – Promesso. – Zoe riusciva a esasperarla fino a ottenere ciò che voleva.

 

****

 

Michael si sedette nella seconda fila del piccolo teatro della società filarmonica e osservò gli invitati al concerto salutarsi cordialmente e scambiarsi sorrisi mentre i loro figli si preparavano dietro alle quinte.

Trasformò una smorfia disgustata in un sorriso distaccato quando vide la donna castana avvolta in lungo abito blu fissarlo. Ovviamente doveva esserci anche lei, non si sarebbe mai persa lo spettacolo e ne avrebbe approfittato per cercare nuove, altolocate amicizie. La salutò con un cenno della testa, ma lei si voltò dall’altra parte iniziando a parlare con la coppia accanto.

Non ne era turbato, sapeva che prima di andarsene sarebbe venuta a parlargli. O per lo meno a minacciarlo.

Controllò che il mazzo di fiori e la scatola di cioccolatini non si fossero rovinati e si strinse meglio la cravatta scura mentre le persone prendevano posto intorno a lui e le luci si abbassavano.

Chiuse gli occhi e si rilassò sulla poltroncina ascoltando gli studenti della filarmonica che uno ad uno si esibivano nei loro saggi. Batteva il tempo con le dita e gli sfuggivano dei sorrisi quando quelli più giovani sbagliavano. Sapeva che l’emozione giocava brutti scherzi, a suo tempo era successo anche a lui e ancora rideva al ricordo.

Batté le mani un paio di volte ad ogni esibizione guardandosi attorno con noia e studiando possibili vie di fuga. Quell’abitudine era così radicata in lui che lo faceva senza pensarci.

– E ora, per l’ottavo anno su questo palco, – disse la voce della presidentessa della società filarmonica. – Aimée Hermé al pianoforte e Angéline Dubois al violino in Amazing Grace. – l’attenzione di Michael si riaccese e studiò le due ragazze che salivano sul palco.

Angéline strinse l’archetto del violino prendendo posto vicino allo spartito e percorse con lo sguardo la sala finché non individuò Michael e sorrise. Lui le fece un cenno con la testa incoraggiandola a esibirsi al meglio. Sarebbe sempre andato ai concerti della sua Angiéline, quella figura esile che affrontava il palco e le centinaia di occhi puntati addosso con solo il suo violino.

Si sporse in avanti preso dalla musica e dalla coordinazione delle due ragazze. In quel momento sparì ogni suo problema e dubbio, esisteva solo Angéline e il cuore di Michael batteva seguendo le note del violino. Aveva la pelle d’oca per la bravura che aveva raggiunto la ragazza.

Quando terminarono saltò in piedi applaudendo più forte che mai. Ignorava le persone che lo fissavano e sussurravano ‘maleducato’, lei era stava la migliore di tutti e doveva farglielo sapere.

Al termine del concerto Michael si fece largo nella sala fino a raggiungere Angéline che beveva in un angolo un bicchiere d’acqua. – Hai steccato. – sussurrò prendendola alle spalle e facendola sobbalzare.

– Michael! – esclamò lei sorpresa. – Mi hai fatto paura. – gli diede un veloce bacio sulla guancia e poi lo guardò mettendo il broncio. – Non ho steccato.

– Oh sì, invece. – rispose lui sorridendo – Hai steccato due volte. E questi non te li meriti. – le mise sotto il naso mazzo di giacinti azzurri e la scatola di cioccolati. – Penso che li darò a qualcun altro.

– Non ho steccato. Ho studiato lo spartito con attenzione. – non sembrava più convinta come prima e Michael decise di porre fine allo scherzo. Le scostò una ciocca di capelli castani dalla spalla e le baciò la tempia. – Lo so che non hai steccato, stupidina. Sei stata perfetta, la migliore della serata. – le offrì i fiori.

– Per cosa sono? – domandò lei prima di perdersi nel loro profumo.

– Ci deve essere un motivo per regalare un mazzo di fiori a mia sorella? – non le avrebbe mai dato una risposta, non c’era alcun motivo per cui glieli regalava voleva solo vedere il sorriso della sua sorellina. Prese un bicchiere di champagne e lo fece tintinnare contro il suo.

– Non me li aspettavo. Tutto qui.

– Sei pronta ad andare via? Abbiamo tutta la giornata da passare insieme. Puoi fare quello che vuoi, chiedermi quello che vuoi.

Angéline guardò verso le porte d’uscita e poi lui – Ecco, prima…

– Cosa?

Lei fece cenno di avvicinarsi con le guance rosa. – Devo andare in bagno. – sussurrò complice. – Sai, l’ansia da palcoscenico.

Michael si sforzò di non scoppiare a ridere, Angie non glielo avrebbe perdonato. – Ti aspetto qui. – disse togliendole il bicchiere e i fiori dalle mani per appoggiarli sul tavolo.

Angéline si diresse verso i bagni e il sorriso di Michael si spense quando avvertì una presenza familiare alle spalle. – Mi stavo giusto chiedendo quando ti saresti fatta viva.

– Ti vedo in forma, Michael. – la donna che prima lo aveva guardato male si fece avanti toccandogli il polsino della giacca grigia – Armani?

Michael annuì e la donna si morse un labbro inferiore valutando il taglio dell’abito. – Sei il degno figlio di tuo padre. – commentò infine.

Michael le sorrise gelido. – Lo prenderò come un complimento, anche se scommetto che non lo era. – si tolse la soddisfazione di vederla cambiare colore assumendo quella sfumatura acida che lui ricordava fin da bambino.

– Voglio solo ricordarti le regole. Se vuoi vedere Angéline, devi rispettarle.

Michael si appoggiò con la schiena contro la parete, insofferente. – Ti offrirei da bere, ma scommetto che i tuoi amici te ne offriranno a fiumi quando andrete a festeggiare.

Lei irrigidì le spalle e lo fulminò con gli occhi azzurri. – Non cambiare discorso. Sai le regole. Ripetile. – ordinò secca.

– Non dirle che lavoro faccio, chi era nostro padre e soprattutto non dirle cosa sono. – lei annuì, facendogli cenno di proseguire. – Non dirle dove abito, evitare le domande che mi riguardano direttamente. Contenta? O ho dimenticato qualcosa?

– Sai che è per il bene di Angéline. La faresti soffrire, come tuo padre ha fatto con me.

– La miglior scusa di sempre per distruggere un matrimonio. – la mano che teneva in tasca si chiuse a pugno. – O per abbandonare il tuo primogenito.

– Angéline merita solo il meglio. Ricordatelo bene, Michael. Se lei non avesse insistito tanto, alla morte di tuo padre tu non l’avresti più vista.

Michael sostenne il suo sguardo per alcuni secondi costringendola ad abbassare gli occhi. – È l’unico motivo per cui ho accettato.

La donna gli fece un piccolo sorriso per aver vinto quello scontro, ma Michael si era trattenuto dal dirle cosa pensava. – Bene. – guardò il tavolo e i fiori appoggiati sopra. Si sistemò meglio la stola color blu pavone. – Giacinti. Che fiori pacchiani. Angéline merita le migliori rose...

– Lei detesta le rose. – rispose Michael con irritazione. Quella donna non sapeva nulla di Angie. Nulla. – Si è punta da bambina con una spina. E i giacinti sono i suoi fiori preferiti.

– Ciò non toglie che siano dei fiori insulsi. – Michael alzò lo sguardo e si raddrizzò quando vide Angéline tornare verso di loro.

– Meglio che vada. – proseguì lei seguendo lo sguardo di Michael. – La rivoglio a casa per le dieci. Non un minuto dopo o sai cosa accadrà. – lasciò la minaccia in sospeso, ma non c’era bisogno di dirlo ad alta voce. Lui poteva vedere Angéline una volta al mese a patto che mantenesse gli accorsi presi.

– D’accordo. E madre? – si girò tra le dita una ciocca di capelli castani di sua madre. – L’unico motivo per cui sopporto tutto questo è Angéline. Toglimela e non risponderò di me, sai cosa posso fare. – tirò un po’ più forte facendole assaggiare un po’ di quel dolore lei gli infieriva fin da bambino. – L’inferno è niente in confronto a me.

Sua madre si dileguò tra la folla e Michael sorrise a sua sorella minore. – Sei pronta ora? – chiese offrendole il braccio e prendendo i fiori e i cioccolatini in mano.

– Sì. Di cosa parlavate tu e la mamma? – si voltò a cercarla tra la folla e Michael la seguì a ruota individuando prima di lei la donna. Angéline la salutò con una mano e lei gli rispose con un sorriso.

– Nulla, sorellina. Le solite chiacchiere: come sto, se gli studi vanno bene, come va il lavoro. Le classiche cose da mamma.

– E sempre tanto gentile, vero? Due settimane fa mi ha portato da Chanel per comprarmi una borsa nuova e abbiamo visto un povero uomo che chiedeva la carità per strada e mi ha promesso che avrebbe comprato degli abiti per più bisognosi.

Michael alzò gli occhi. L’innocenza di Angéline lo lasciava sempre stupito. Sua sorella aveva sempre vissuto sotto una campana di vetro grazie a lui e a sua madre e non aveva mai conosciuto la crudeltà delle persone. Michael aveva sempre fatto di tutto per proteggerla, anche accettare le minacce della madre se significava avere quella luce radiosa che era Angie vicino.

– Una vera santa. – disse accompagnandola fino alla macchina. – Mi chiedo perché non le abbiano fatto una statua. – le aprì lo sportello e poi le passò i regali. – Dove vuole andare, signorina? – chiese appoggiandosi allo sportello con un braccio.

Nulla l’avrebbe mai ferita, nulla avrebbe turbato il sorriso che lei gli stava regalando. – Smettila! Fai sempre così.

– Così come?

– Mi prendi sempre in giro. Non è carino, mi metti in imbarazzo.

Michael si tolse la giacca e la cravatta e arrotolò la camicia fino ai gomiti – Stai bene così, Angie? Hai bisogno qualcosa?

Lo sguardo di Angéline corse alla scatola che aveva tra le mani. – Posso aprirla?

– È tua, puoi farci quello che vuoi.

Angéline aggredì la scatola di cioccolatini e la spacchettò alla velocità della luce lasciando Michael a bocca aperta. – Non mangi molto cioccolato, vero? – ogni mese lui le regalava una scatola con il numero di praline che rappresentavano i giorni che li avrebbero separati. Una pralina per ogni giorno del mese fino al successivo.

– In collegio non ce lo lasciano tenere e mamma dice che non mi fa bene. – Michael sghignazzò e fece il giro della macchina salendo dal lato guida.

– Michael? – lui si voltò a guardarla e sua sorella le mise una pralina tra le labbra. – Questa è tua. – lui masticò lentamente assaporando il gusto del fondente e delle arancia candita.

– Il motivo per cui condividi con me il tuo prezioso cioccolato?

Angéline alzò le spalle e tornò a guardare la scatola. – Perché sei mio fratello, ma non farci l’abitudine. Sono le mie praline. Mie. – disse accarezzando i lati della scatola bianca come l’anima di sua sorella.

– Posso separarti da quella scatola il tempo di una passeggiata? Al Luco?

– Non può venire con noi? – chiese lei rimettendo il coperchio.

Lui sorrise e girò la chiave. – Inizio a capire perché mamma dice che ti fa male. Hai una grave forma di dipendenza. Quasi dimenticavo, – si allungò sul sedile posteriore e prese un cappello azzurro che mise sulla testa di sua sorella sistemandole poi i capelli sulle spalle. – Oggi il sole è un po’ forte, meglio se ti metti questo.

– Azzurro? Come facevi a sapere che avrei messo il vestito azzurro?

– Sei mia sorella. – rispose e ingranò la retromarcia, uscendo dal parcheggio.

Ai Giardini del Lussemburgo, Michael teneva sottobraccio la scatola di cioccolatini mentre lei lo tirava da una parte all’altra per vedere le statue e le fontane chiedendogli di spiegarle cosa rappresentavano.

– Perché c’è una statua della libertà qui? – lei conosceva la risposta, la loro madre non avrebbe ammesso l’ignoranza ma Angie gli faceva quella domanda tutte le volte che andavano al Luco.

– È una riproduzione di quella che sta a New York, c’è ne un’altra sulla Senna. – rispose meccanicamente.

– Sai tante cose di Parigi. – rispose Angéline battendo le mani estasiata – Vediamo, – disse cercando qualcos’altro da chiedergli – sei mai andato a New York?

Michael le sorrise e le indicò una statua spiegandole chi fosse l’autore. Voleva cambiare discorso sperando che la capacità di distrazione di sua sorella facesse il resto.

– Allora? – insistette lei – Sei mai andato a New York? Mamma mi ci vuole portare per Natale.

Michael fissò assorto il terreno prendendo a calci un paio di sassolini. Lui questo non lo sapeva e stava già progettando qualcosa per Natale, se gliela portava via cosa avrebbe fatto? Michael non ci voleva pensare. Se Angie fosse andata a New York lui sarebbe capitato là per caso. – Ci sono stato, – iniziò vago. – una volta, per lavoro.

Angéline lo prese sottobraccio e lo tirò verso una panchina costringendolo a sedersi. – Non mi hai mai detto che lavoro fai.

– Gioielli. – la risposta che dava a tutti quelli che glielo chiedevano. – Lavoro con i gioielli e mi capita di viaggiare.

– Non hai problemi con l’università?

Michael scosse la testa. Lei oggi aveva voglia di fargli domande a cui lui non voleva rispondere, ma non poteva negargliele anche se erano vuote. – Non ho obbligo di frequenza, il che mi permette di essere abbastanza elastico sul lavoro.

– Michael? – lui alzò la testa sentendo il cambiamento nel tono nella voce di sua sorella. Adesso iniziava a capire perché lei continuava a fare domande, stava cercando di raccogliere il coraggio per chiedergli qualcosa a cui lui avrebbe risposto di no. – Posso venire a vivere con te?

Le accarezzò la guancia. Dirle di no gli avrebbe spezzato il cuore. Avrebbe dato tutto ciò che possedeva per tornare a essere una famiglia, ma la sua presenza metteva in pericolo Angie. – Perché me lo chiedi? – indagò.

– Mamma vuole presentarmi dei ragazzi. – Michael ritrasse la mano come se il  contatto con Angéline l’avesse scottato e strinse i pugni.

– Perché? – doveva fare un discorso a sua madre. Se pensava di vendere Angéline al miglior offerente si sbagliava di grosso.

– Vuole che pensi al mio matrimonio, dice che finita l’università potrei sposarmi e farmi una famiglia.

Michael la tirò a sé stringendola in un abbraccio. – E non vuoi sposarti?

– Voglio scegliere io chi sposare. Finora non ho discusso cosa voleva mamma, ma non credo che mi possano piacere i ragazzi che lei mi vuole presentare. – era preoccupata, sola e spaventata, non ci sarebbe voluto un genio per capirlo. – O se non gli piacessi io?

– Sarebbero degli stupidi. – sussurrò Michael. – Sarebbero veramente degli stupidi a rifiutarti, ma se non li vuoi vedere, dillo a mamma. È ancora presto.

– Non voglio deluderla. Lei è sempre tanto gentile con me, ma mi chiedevo, – si torse le dita come faceva sempre quando era nervosa. – se potessi prendere un po’ di tempo e vivere con te, un mesetto magari, solo per cambiare aria.

– Angie, – cominciò Michael cercando le parole adatte. Mentirle era sempre più difficile e le mezze verità lo stavano soffocando, ma doveva pensare alla sua sicurezza. – il mio appartamento è piccolo. Molto piccolo. E non è adatto. Parlerò io con mamma, te lo prometto. La convincerò a non farti vedere quei tipi.

Si strinse al suo petto e tremò contro di lui soffocando un singhiozzo. – Non capisco perché non mi vuoi vedere più di una volta al mese.

Michael spalancò gli occhi e sentì la bocca secca. – Cosa ti ha detto mamma?

– Che sei sempre impegnato e vedermi più di una volta al mese ti è difficile o che non hai voglia anche se sei libero. – Michael la baciò sulla nuca lasciando piangere sua sorella e non trovando le parole per consolarla. Se le avesse detto la verità non l’avrebbe più vista. – Scusa. – mormorò. – Sono un pessimo fratello.

– Vorrei solo vederti di più. Tu sei l’unico che mi ascolta veramente.

– Angie, mi dispiace. So che non sono presente e non voglio che tu faccia nulla che non ti vada. Sistemerò le cose con mamma, lo giuro. – lei alzò gli occhi su di lui, rossi di pianto. – Non li vedrai se non vuoi. – ripeté lui asciugandole una lacrime e se quei tipi avessero insistito lui li avrebbe fatti fuggire a gambe levate. – Basta piangere. Andiamo a vedere le papere?

– Mi fanno paura. – singhiozzò lei con un sorriso.

– Le papere non fanno paura, – disse Michael – sono molto buone al forno con le patate o come paté.

– Michael!

Lui aprì la scatola e batté le palpebre trovando le praline ridotte alla metà. – Angie? – chiamò continuando a gli spazi vuoti. – Come hai fatto a dimezzare la scatola in pochi minuti?

Lei gli mostrò le mani e si allungò per afferrare un cioccolatino. – Sono veloce.

 La afferrò per la vita e la tirò indietro. – Ah, non ci pensare neanche! Prima mi prometti una cosa.

– Cosa? – chiese Angéline cercando di aggirarlo.

– Che non farai cose che non vuoi solo per far contenta mamma.

– Prometto. – rispose lei senza pensarci cercando di passare sotto le sue braccia. – Ora posso avere la scatola? – Michael scosse la testa e gliela mise sotto il naso. Se sua sorella voleva il cioccolato nulla le avrebbe fatto cambiare idea. – Non rovinarti l’appetito.

– Perché? – chiese lei con la pralina in mano.

– Mangiamo fuori. Ti porto in posto carino.

– Montmartre? – ingoiò il boccone quasi senza masticarlo. – Dimmi che mi porti a Montmartre, ti prego. Voglio vedere gli artisti di strada. – Michael le lisciò i capelli sostenendo lo sguardo pieno di aspettative della sorella con un piccolo sorriso. Passava quasi tutto il suo tempo in collegio e vedeva così poco di Parigi, ma non poteva portarla lì, nemmeno se lei lo pregava.

– Non mi piace molto Montmartre. Gira gente strana e non ha una buona reputazione. – spiegò dolcemente. – Possiamo andare a Place Stravinskij, anche là ci sono gli artisti di strada. Facciamo una passeggiata fin là. – propose.

Angéline si guardò intorno, il lungo il viale diventava pian piano sempre più affollato di famiglie e coppie ora che le ore più calde della giornata erano passate. – Quanto tempo ci mettiamo?

– Non è molto lontano. Dall’altra parte del fiume. Se tagliamo per l’Ile-de-la-cité ci mettiamo poco. Angéline gli sfoderò un sorriso a trentadue denti che gli illuminò lo sguardo. – Il fiume? – chiese facendosi più vicina al viso di Michael.

Sospirò arrendendosi in partenza alla proposta che lei gli avrebbe fatto. – Angie, hai quello sguardo.

– Quale? – chiese lei innocente.

– Quello che hai quando stai progettando qualcosa per farmi fare una pessima figura.

– Ci sono le librerie all’aperto lungo la Senna. E troveremo sicuramente qualcuno che vende disegni e caricature, magari anche una giostra.

– Angie, – scosse la testa. – mi rifiuto di farmi fare una caricatura.

Lei si dondolò sui talloni – Veramente, pensavo alla giostra.

– E sono troppo grande per la giostra. – che ci fosse salito il Natale scorso non aveva importanza, non ci avrebbe più messo piede.

Angéline lo afferrò per il polso e lui si lasciò trascinare in piedi. – Nessuno è troppo grande per la giostra. È questo il bello! – si guardò intorno cercando le indicazioni per uscire dal parco. – Da che parte devo andare?

Fingere che fossero di nuovo bambini, però, gli dava un senso di pace e non se lo voleva perdere. – Se non ricordo male ce n’è una alle Tuileries… – disse pensando che la giostra non fosse la cosa peggiore al mondo. Angie gli aveva fatto fare di peggio.

Angéline si avviò a grandi passi strascinandosi dietro il fratello maggiore che scoppiò a ridere. – Angie, è nell’altra direzione. E le Tuileries non sono di strada.

– Potremmo fare una passeggiata un po’ più lunga. Sai, mamma non mi lascia molto uscire da sola e passo quasi tutto l’anno in collegio. Voglio fare queste cose con mio fratello. – gesticolava animata da quel fuoco interiore che Michael conosceva da sempre. Angie non stava mai ferma, nemmeno quando dormiva. – Da bambini le facevamo sempre. Ti ricordi? Papà ci portava sempre sul lungosenna e tu non facevi altro che lamentarti mettendoti in un angolino.

Michael deglutì, sua sorella si stava addentrando in un discorso pericoloso tirando fuori loro padre. – Era noioso. – commentò brusco.

– Ci portava sempre a vedere le mostre più belle. Ti ricordi come fissava i tesori della corona di Carlo Magno? Sembrava quasi che se li volesse mettere in tasca.

– Sì… – di quello non voleva proprio parlarne. La corona di Carlo Magno era un argomento da evitare.

Angéline si batté  l’indice sulla guancia. – Se non ricordo male sono stati rubati un paio di anni fa. La notizia era su tutti i giornali.

Michael decise che fu ora di portare sua sorella su una conversazione più sicura. – Dove vorresti cenare oggi, Angie? – chiese prendendo il telefono e andando sulle mappe per cercare un ristorante sulla strada. – Così preparo un itinerario.

– Non lo so, non ci ho ancora pensato. Qualcosa di semplice.

– Semplice e buono o semplice e sciapo? – disse scorrendo la lista.

– Semplice. Facile e veloce da mangiare.

Michael studiò un po’ il suo telefono riducendo le scelte. – Sei mai andata a mangiare da McDonald’s?

– No. È buono?

Michael rise. Non avrebbe usato la parola buono. – Diciamo che è semplice e veloce da mangiare.

Angéline corse in avanti per poi voltarsi in mezzo al viale a guardarlo. – Allora andiamo, – lo chiamò – voglio assaggiarlo.

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NdA.: le vecchie abitudini di capitoli lunghissimi quanto mi erano mancate? comunque eccoci qua, con il primo capitolo e come al solito devo ringraziare Bianca per i suoi consigli e la sua caccia agli avverbi che finiscono in -mente...che sono rimasti lì.. Ne ho tolti solo un paio. Ovviamente ringrazio anche le splendide recensioni che mi sono state fatte, soprattutto quella di Nimue. Mi fa piacere che ti abbia attratta, spero che ti attragga anche questo capitolo. 

Ma parliamo di come è cominciata. Il titolo della storia è La regina di Spade, che effettivamente era il titolo originale che gli avevo dato e poi l'ho cambiato. Ora sono tornata a quel titolo. Mi piacerebbe dirvi come è nata la storia, ma sarebbe uno spoler che non mi perdonerei mai, quindi ve la racconterò più avanti. Posso dirvi però, che Michael è il mio primo personaggio maschile ed è anche quello che mi fa dannare di più. Difficle lavorare con un personaggio che  ritiene che il mondo gli giri intorno solo perché è lui.  Spero comunque di averlo reso bene e di aver vi susscitato qualche curiosità. 

a presto!

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Capitolo 3
*** 1.2 Il Mago - I Segreti della città ***


1.2 Il Mago - I segreti della città

I – Il Mago

I segreti della città

 

Parigi. 14 Luglio 2011

 

Michael aprì la porta del locale sovraffollato a sua sorella e si guardò intorno alla ricerca di un tavolino libero. – Angie? – chiamò prendendole la mano – Vieni, andiamo a sederci. – Le spostò la sedia da bar e la aiutò a salire e a mettersi comoda. – Hai guardato fuori il menu? Hai scelto cosa vuoi?

Angéline scosse la testa e si guardò intorno incuriosita. – C’è davvero tanta gente. È così buono il cibo qui?

– Io non direi buono, ma lo assaggerai. – rispose enigmatico. – Cosa vuoi mangiare?

Lei appoggiò il mento sulla mano. – Fai tu, non ho preferenze.

Michael si avviò verso il bancone tenendo sempre sott’occhio sua sorella che ora guardava incuriosita una coppia seduta al tavolino accanto a loro.

Si allungò verso di loro e disse qualcosa che Michael non poté sentire, ma a giudicare dalle facce scandalizzate dei ragazzi, Angéline doveva aver fatto una delle sue solite domande.

– Ciao, cosa prendi? – la sua attenzione venne catturata dalla cassiera e si affrettò ad ordinare il suo solito menu e qualcosa di non troppo stravagante per sua sorella.

Mentre aspettava che i panini fossero pronti, la fila accanto alla sua si allungò e lui perse di vista Angéline. Iniziò a spostare il peso da un piede  all’altro e aspettava che la ragazza finisse di preparare il suo ordine. Come fu pronto, Michael lo prese senza tanti complimenti e tornò da Angéline. Si bloccò a metà strada quando la vide parlare con un ragazzo che lui conosceva bene.

– Claude. – disse gelido resistendo alla tentazione di spaccargli il vassoio in testa. – Che ci fai qui?

– Passavo per caso e ho visto quest’angelo caduto solo soletto. Mi sono chiesto se per caso avesse bisogno di compagnia.

Michael posò il vassoio davanti ad Angéline e guardò male Claude. – Mia sorella, – disse rigido – voleva provare il McDonald. – conosceva Claude e sapeva a che tipo di compagnia si riferisse. Se avesse provato ad alzare un dito su sua sorella glielo avrebbe spezzato davanti a tutti.

– Tua sorella. – lo sguardo di Claude corse da Michael ad Angéline che in quel momento punzecchiava una patatina molliccia con un cannuccia. – In effetti noto una certa somiglianza, avete gli stessi occhi. Chissà se avete anche altre cose in comune. – Michael ci mise meno di un secondo a capire dove stesse andando a parare Claude e strinse i pugni. – No, – disse cercando di trattenere la rabbia. – Io e Angéline abbiamo gusti completamente diversi e poi dopodomani lei parte per il mare. Vero, Angie?

– Uh? – sua sorella li guardò con un sorriso. – Michael, possiamo mangiare? Muoio di fame.

– Se tua sorella parte per le vacanze non può perdersi una serata a divertirsi con noi a Montmartre. – propose Claude senza demordere. Aveva puntato Angéline e non se la sarebbe lasciata sfuggire.

Angéline annuì e afferrò la mano di Michael. – Ci andiamo?

Lui fece finta di pensarci qualche secondo. Montmartre era il suo territorio di caccia insieme a quello stronzo di Claude che ci stava provando con sua sorella.

Se lei avesse visto com’era in realtà ne sarebbe rimasta disgustata. – Angie, ho promesso a mamma di prendermi cura di te e ti ho detto cosa penso di Montmartre. La gente che ci gira, – fissò glaciale Claude, che fece un mezzo passo indietro sotto il suo sguardo. – Non è della migliore.

Claude ghignò. – Non la porti nemmeno se ci sarai tu a proteggerla da gente simile?

– No, e gente simile dovrebbe sparire dalla mia vista. – si sedette davanti ad Angéline, ignorando Claude. – Dai mangiamo, se diventa freddo fa schifo.

– Ma il tuo amico? – chiese Angéline. – Non mangia con noi?

Claude scosse la testa. – Mi dispiace angelo, tra poco ho un appuntamento a cui non posso mancare. Ci vediamo in giro, Michael.

Come Claude sparì oltre la porta gli mandò un veloce messaggio: ‘chiama di nuovo angelo mia sorella e ti affogo.’

– Mangiamo Angie. Nella scatoletta chiusa trovi il pollo fritto, qui c’è il ketchup e la maionese e, – prese un’altra vaschetta chiusa e la esaminò – questa non riesco ad identificarla, quindi la lascerei perdere.

– Perché?

Michael sospirò. – Mangia solo quello che riesci a riconoscere. Fidati. – afferrò il suo menù e scartò il panino, ma si bloccò con la cena a metà strada dalla bocca. Sua sorella lo stava fissando senza toccare cibo. – Cosa c’è? Non ti piace?

– Cos’è quello? – chiese lei indicando il panino di Michael.

– Uhm...Hamburger, bacon, cipolla, non mi ricordo che salsa, insalata e formaggio. Perché?

Gli occhi di Angéline si illuminarono. – Posso assaggiarlo?

Michael annuì e Angéline si allungò sopra il tavolo per requisirgli il panino. – È buono. – commentò dopo il primo boccone. – Un po’ piccante, ma buono.

– A proposito, prima cosa hai chiesto a quei due ragazzi dietro di te?

– Perché mangiavano con le mani. – rispose lei continuando a mangiarsi la cena di Michael soprapensiero. – È carina l’idea di mangiare senza posate, dovrei farlo più spesso.

Michael alzò gli occhi al cielo constatando quanto poco lei sapesse del mondo, poi si accorse che sua sorella stava continuando a mangiare la sua cena. – Angie…

– Si? – chiese continuando a mangiare.

Lui scosse la testa con un sorriso. – A volte mi dimentico che mangi tutto quello che ti capita a tiro. Mi prendo il tuo pollo.

– Me ne lasci uno? Tanto per assaggiarlo. Devo portare qui mamma. – aprì  la vaschetta contenente la maionese, leccandosi l’indice che si era sporcata con un gesto innocente. – Ti immagini la sua faccia quando cercherà la forchetta?

Sì, Michael riusciva a immaginarlo e la cosa non gli piaceva. – Mi scuoierebbe vivo se mai dovesse saperlo.

– Allora sarà il nostro segreto. –  intinse le patatine nella maionese e le assaggiò per poi fissarle con una smorfia. – Queste patatine sanno di olio e sono mollicce.

Michael gliene rubò una beccandosi un’occhiataccia dalla sorella. – Ho detto che mangiare qui è veloce e semplice, non ho mai detto che fosse anche sano. Finiamo e poi torniamo alla macchina.

– Perché?

– Perché ci vogliono venti minuti a piedi per tornare indietro e si sta facendo tardi.

Sua sorella guardò la vetrata e sorrise a un paio di bambini che passarono davanti a lei con i palloncini legati ai polsi – Fuori c’è ancora luce. Perché dobbiamo tornare così presto? – ci rifletté un momento e poi capì. – Oh, te l’ha chiesto mamma?

Michael annuì. – Mi ha chiesto di portati a casa presto. E dopo avrei da fare.

Angéline fissò il vassoio con le mani congiunte sul tavolo e gli occhi bassi. – Come raggiungere Claude? – sussurrò.

Michael rimase a bocca aperta sentendo quelle parole provenire da sua sorella. Lei lo aveva capito più di quanto credesse. – Angie…

Lei scosse la testa interrompendolo. – No. Cioè, voglio dire va bene. So che sei tanto impegnato. – disse con voce bassa. – Solo non fare come la mamma.

Michael posò il cibo sul vassoio con lo stomaco chiuso. – Fare cosa?

– Mentirmi. Nascondermi le cose. Cose così. Quindi, dimmi, più tardi andrai a Montmartre? –domandò diretta.

Michael annuì, scrutando il viso della sorella sull’orlo delle lacrime. – Lo sapevo. – disse lei strofinandosi gli occhi. – E non mi ci porti perché non vuoi farmi vedere i tuoi amici e come ti comporti lì?

– Sì. – sussurrò con vergogna crescente. Sua sorella era l’unica che riuscisse a farlo sentire così. – Angie, mi dispiace.

– Non scusarti. Sei mio fratello, io so che persona sei. – gli prese la mano e le situazioni si invertirono. Era lei che lo stava consolando. – Sei quella persona gentile che mi permette di fare tutto, che si ricorda dei miei saggi di musica e dei miei compleanni. Che una volta al mese, mi viene a prendere ovunque io sia. Che mi chiama quando ho la febbre e legge per me. Non mi importa cosa dice mamma su di te, solo non mentirmi.

Quello che gli chiedeva Angéline era impossibile, se avesse parlato l’avrebbe messa in pericolo o peggio, sua madre gli avrebbe impedito di vederla di nuovo. – Angéline, – di nuovo, non sapeva cosa dirle senza ferirla ritrovandosi impotente. – Ci sono delle cose che non ti posso dire. Ho promesso che non lo avrei fatto.

Angéline sospirò e scrollò le spalle. – Un giorno mi dirai tutto?

– Posso provarci.

– È già qualcosa. – gli sorrise e saltò giù dallo sgabello per poi dargli un bacio sulla guancia. – Qualsiasi cosa sia non mi fa paura. Me la puoi dire, non lo dirò a nessuno.

– Lo so, – disse sfiorandole la guancia con l’indice. – Sei l’unica di cui mi fidi. – alzò la testa sul vassoio, notando che sua sorella aveva lasciato le patate quasi intatte – Non mangi più?

Angéline scosse la testa. – Preferirei il pollo. Le patatine non mi piacciono tanto.

Michael guardò la sua vaschetta quasi finita. – E se invece ti comprassi una brioche al cioccolato? – propose.

– Due. E ti lascio il pollo.

Lui rise e le scompigliò i capelli. – Sei brava a contrattare! D’accordo, vada per due brioche.

– Andiamo? – lo tirò lei.

– Non mi lasci neanche finire?

– No! Il cioccolato rende tutto migliore. Non può aspettare. – trascinò giù Michael che fece appena in tempo a prendere la vaschetta contenente il pollo fritto. Sua sorella afferrò le bibite e gliene mise una un mano. – Tieni. Possiamo finire di cenare mentre camminiamo.

Michael accompagnò Angéline da uno dei suoi fornai di fiducia sul lungosenna della riva destra, ad un passo dall’Ile–de–la–cité.

– Sono buonissime! – commentò Angéline frugando nel sacchetto di carta per prendere la seconda brioche – Devo tornarci.

– Se vuoi ti ci porto di nuovo, ma non credo che mamma si faccia problemi a comprarti una brioche ogni tanto.

Angéline scosse la testa. – Dice che troppo burro fa male e anche il cioccolato. Io non capisco, – disse soprapensiero, masticando la brioche. – Come può una cosa così buona e rilassante fare male?

– Sai, – Michael rise pensando alla ragazza rigida e scontrosa della cioccolateria. – Dovresti dire questa cosa ad una persona che conosco.

Lei si voltò a guardalo stupefatta. – Chi?

– Ad una che non mangia cioccolato.

Angéline si bloccò sul ponte che portava a Ile–de–la–cité, stringendo in mano la busta di carta. – Deve essere una persona molto triste. – commentò infine appoggiandosi alla balaustra.

– Era un po’ rigida, ma non ci pensiamo adesso, okay? – le diete un bacio sulla guancia, chiedendosi perché nominare quella ragazza avesse reso Angéline tanto pensierosa.

– Devi aiutarla.

Batté le palpebre, sconcertato. – Io?

– Tu. – si voltò a guardalo, con lo sguardo carico di aspettative. – Tu sei sempre gentile. Saprai sicuramente come fare.

Si ritrovò completamente disarmato davanti alle parole semplici e sicure di Angéline e la abbracciò, scostandole i capelli dal visto. – La mia sorellina che pensa sempre alla felicità degli altri.

– Promettilo.

– D’accordo. – disse Michael sciogliendo l’abbraccio. – Se mai dovessi rivederla, ti prometto che cercherò di aiutarla. – poi come, non è un mistero, pensò guardando il fiume.

Mentre Michael guidava per riportare a casa Angéline, sua sorella canticchiava sottovoce inventandosi le parole quando non le ricordava. Abbandonata sul sedile guardava incantata dal finestrino le giostre colorare che decoravano la città. – Ma non sei mai stanca, Angie? – rallentò fino a fermarsi al semaforo sul lungo fiume.

– No. – rispose senza voltarsi. – Quando sono con te, no. Vorrei passare più giornate così.

Michael deglutì. Anche lui avrebbe voluto più giorni da dedicare a sua sorella e ora non l’avrebbe vista fino al prossimo mese. Si chiese distrattamente cosa avrebbe potuto raccontargli Angéline la prossima volta, forse di un ragazzo. Quel pensiero lo ingelosì un po’, se sua sorella si fosse innamorata, forse non avrebbe avuto più tempo per lui e qualcun altro se ne sarebbe preso cura. Scosse la testa e svoltò verso il quartiere residenziale senza mettere la freccia. Maledì in silenzio un guidatore che gli aveva suonato e mostrato il dito medio.

La gelosia per un ragazzo sconosciuto era una cosa stupida e lo sapeva. Angéline aveva diciotto anni, era giusto che si innamorasse dell’uomo adatto a lei. E se quell’uomo l’avesse fatta soffrire, non ci sarebbe stato un solo angolo sulla Terra al sicuro per lui; Michael lo avrebbe trovato e gli avrebbe fatto pentire di essere nato.

– Michael? A cosa pensi?

Lui guardò distrattamente l’ora sul cruscotto: mancava un quarto d’ora alle dieci di sera. – Che è tardi Angie.

– Sono quasi le dieci, non è tardi.

Michael si fermò al terzo semaforo rosso che incontrava e si voltò verso la sorella. – Angéline, dormi. – Angéline sbadigliò e si accoccolò sul sedile e in pochi secondi il respiro divenne lento e regolare, di chi dormiva profondamente. – È tardi per noi, sorellina. – mormorò. Si pentì di aver usato quel trucco su sua sorella, ma se voleva arrivare in orario a casa di sua madre avrebbe dovuto guidare in maniera non del tutto ortodossa e non voleva spaventare Angéline.

Come il semaforo divenne verde scattò in avanti, sorpassando a destra, sulla corsia riservata a taxi e autobus, Mandò a quel paese divieti e regole. Gettò un secondo incantesimo sulla macchina rendendola invisibile agli occhi facilmente influenzabili delle persone. Prese contromano una strada, ignorando qualsiasi limite di velocità e regole del buon senso. Svoltò l’angolo e parcheggiò sotto casa di Angéline.

La guardò dormire qualche secondo. Mormorava qualcosa nel sonno, che a lui sembrava la filastrocca della cornacchia che le aveva insegnato da piccoli.

Per un attimo pensò di svegliarla, ma poi si disse che era inutile visto che sua madre l’avrebbe mandata a dormire con poche parole e molte occhiatacce. La prese in braccio e salì i tre piani di scale a piedi, bussando il campanello con il mignolo. Sua madre aprì tre secondi dopo, rigida e scontrosa. – Giusto in tempo. – guardò Angéline tra le braccia di Michael e tirò le labbra, come se si trattenesse dal fare un commento e lo lasciò passare. – La camera di Angéline è…

– So dov’è la camera di mia sorella. – la interruppe Michael – Non c’è bisogno che me la indichi, madre. – la sorpassò senza degnarla di un secondo sguardo e proseguì fino alla camera di sua sorella.

La stanza di Angéline era esattamente come la ricordava, libri e peluche sugli scaffali, lunghe tende lilla e riproduzioni quasi perfette dei capolavori di Monet e Manet appese alle pareti giallo pastello. Scostò le lenzuola e le tolse le scarpe, facendo più silenzio possibile. – Dormi bene, sorellina. – le baciò la fronte un’ultima volta e si chiude la porta della stanza alle spalle.

Sua madre gli si parò davanti infuriata. – Hai addormentato tua sorella. – accusò.

– Sì.

Sua madre lo schiaffeggiò, guardandolo con odio. – Come hai potuto. Tua sorella.

– Dovevo. Dormirà serenamente fino a domani mattina. Si sveglierà fresca e riposata. Tu invece, – Michael fece un passo avanti, spargendo gelo intorno a lui. – vuoi farla sposare. Cos’è questa storia dei ragazzi che vuoi presentarle?

Sua madre si sistemò meglio l’anello d’oro intorno all’indice. – Angéline ha bisogno di un marito. I ragazzi che le presenterò sono di buona famiglia, ben educati. Degli ottimi pretendenti.

– E con un cospicuo conto in banca, scommetto. – Michael si sforzò di sorridere. – Non ti importa  della felicità di Angie.

– È mia figlia. – sibilò lei. – Certo che mi importa di lei. Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per Angéline.

– Immagino che sacrificio. – commentò lui sarcastico. – Divorziare da papà e abbandonare il tuo primogenito maledetto con lui. E vuoi dirmi che lo hai fatto per Angie?

– Io, – sua madre strinse gli occhi e per un attimo abbandono l’aria di sufficienza con cui lo guardava costantemente, prima di tornare rigida e lontana. – non volevo che ti capitasse questo. Tuo padre si è preso cura di te, insegnandoti tutto quello che devi sapere, ma io dovevo proteggere Angéline. Tu sei un pericolo per lei.

– Io non sono un pericolo per lei! – sbraitò.

– Non direttamente, – sua madre si strinse le braccia al corpo, facendo un passo indietro sotto la sua rabbia. – ma quelli come te potrebbero venire a cercarti, potrebbero prendere di mira Angéline per arrivare a te.

– Come me cosa, madre? Un ladro o un Arcano? – sorrise vedendo sua madre rabbrividire. Aveva paura di entrambi i mondi di cui Michael faceva parte.

– Non dirlo ad alta voce. – guardò verso la stanza di Angéline, ma Michael alzò le spalle.

– Non si sveglierà prima di domani, anche se crollasse l’intero edificio.

– Angéline non merita tutto questo, Michael. Non sai cosa voglia dire avere paura delle ombre perché tuo marito è un ladro o perché è un essere sovrannaturale. E non voglio questo per lei. Quando mi disse con orgoglio che tu, mio figlio, saresti stato come lui un giorno ho avuto paura. – Michael sgranò gli occhi, sentendo quella confessione. – Quando rimasi di nuovo incinta decisi che il bambino non avrebbe dovuto vivere in mezzo a tutto questo. Te li ricordi, vero? I litigi con tuo padre. Non potevo permettere che Angéline crescesse tra la paura e l’odio.

Michael si guardò intorno, lanciando occhiate significative all’arredamento lussuoso. – Però non ti sei fatta mancare nulla, vero? I soldi, l’alta società. E il tuo ex marito? Quello dopo mio padre? – proseguì con rabbia. Sua madre lo aveva abbandonato a se stesso perché era codarda arrivista. – Ora dov’è? In un qualche paradiso fiscale?

Sua madre gli fece un sorriso triste. – Sono una donna ambiziosa, lo ammetto. E voglio il meglio per mia figlia. Per te, invece, il meglio che potessi fare era lasciarti addestrare da Alain e pregare che mai nessuno venisse a cercarti o trovasse Angéline. E mi riferisco sia ai tuoi datori di lavoro che a quelli come te. – prese il giornale e gli mise sotto il naso l’articolo in prima pagina. Il furto al Museo d’Orsay dove una guardia giurata era rimasta uccisa.

– Non penserai che sia stato io, madre. Io non rubo quadri, ma gioielli. E non uccido.

La donna sospirò, mettendolo via. – No, – disse, anche se Michael non fu del tutto convinto che lei gli credesse. – ma non potevo esserne sicura.

Michael andò verso la porta di ingresso, pronto ad andarsene. – Io non uccido.

– No, – rispose lei – ma questa è una tua debolezza, non una forza, perché se non lo farai tu, ti uccideranno. E chi soffrirà sarà Angéline. In ogni caso figlio mio, la perderai.

A Michael si contorse lo stomaco, Angéline era l’unica a cui volesse bene e a cui si mostrava per chi era realmente. Perderla l’avrebbe fatto impazzire. – Vado via.

– Buonanotte, Michael.

Michael tornò al suo monolocale per il tempo necessario a cambiarsi i vestiti, sostituendo i pantaloni e camicia, con jeans e maglia aderente.

Fece rapidamente il numero di Claude. – Dove sei? – chiese senza preamboli.

Sentì l’amico sbuffare al telefono. – Iniziare con un: ciao Claude, come va? Tutto bene? Sai che sei una testa di cazzo, Michael?

– Ciao stronzo che ci ha provato con mia sorella, come va? Ora dimmi dove sei. – ringhiò al telefono.

– Ehi! Non sapevo che fosse tua sorella! Comunque sto facendo un giro per Pigalle.

– Bene, ti raggiungo là. Fatti trovare davanti al café de la Gigale.

– E se disertassi?

Michael ghignò al telefono. – Senza di me andresti in bianco. Quindi fatti trovare là. – e chiuse la conversazione senza salutare l’amico.

Quando Michael e Claude entrarono dentro il café si accomodarono al banco, ordinando il primo un Silver Bullet e il secondo un Negroni. Sembrava che mezza Parigi si fosse riunita al Pigalle per la festa nazionale.  – Dimmi, – disse Claude facendo tintinnare il bicchiere contro il suo e dando le spalle a bar. – Ti sei già guardato intorno?

Michael sorrise lentamente, come un predatore pronto a scattare. – Dal primo momento in cui ho messo piede qui dentro.

– E chi hai puntato?

– Le vedi le due ragazze lì, all’angolo a destra? – puntò l’indice della mano con cui teneva il bicchiere verso il fondo del locale. – Quella moretta molto truccata e il vestito scollato e quella castana vestita di nero che rimugina sul suo bicchiere?

Claude diede una rapida occhiata e sorrise. – Sono carine. Le vuoi entrambe o ce le dividiamo?

Michael sorseggiò il cocktail tenendo gli occhi puntati sulla castana. Sembrava un pesce fuor d’acqua tra i ragazzi festanti. Si vedeva da come si torturava le mani e il vestito.

L’aveva riconosciuta, l’aveva vista quella mattina alla cioccolateria. Ed era un’occasione da non perdere. – Prendi la mora. La castana è mia.

Claude le osservò qualche secondo. – Mi pare parecchio più spigliata la moretta.

– Oh sì, – commentò Michael, ricordandosi bene Zoe e i suoi morsi. – E fa dei giochetti niente male, ma ho promesso che avrei reso felice quella ragazza. – finì il cocktail in un sorso. – E sai che mantengo le promesse. – studiò la ragazza, iniziando dalle scarpe nere con il tacco per poi risalire lungo le gambe scoperte e fermarsi a studiarne il viso imbronciato. Non era male, bastava solo che si lasciasse andare. – Ora comincia il gioco. – posò il bicchiere, vuoto.

 

Verity continuava a guardarsi intorno, maledicendo il giorno in cui aveva conosciuto Zoe. Tutta Parigi stava festeggiando il giorno della Presa alla Bastiglia e nei locali non si riusciva quasi a respirare per la folla che c’era. – Spiegami perché siamo qui.

– Per prendere l’aperitivo prima di andare alla Loco. – rispose l’amica rigirandosi tra le dita un ricciolo scuro. – E smettila di abbassarti il vestito, metti in mostra quelle gambe!

Verity non sapeva se essere più imbarazzata per essere stata trascinata al quartiere Pigalle o per il vestito nero e oro che le arrivava appena a metà coscia – Mi è piccolo. – protestò. – E continua a salirmi.

Zoe scosse la testa, incredula. – Non è piccolo, è giusto. E ogni tanto dovresti mostrare alla gente ciò che tieni nascosto sotto jeans e maglietta. Del resto hai un bel fisico. Un seno morbido e non troppo grande. – Verity avvampò ricordando come l’amica l’avesse toccata appena uscita dalla doccia. Zoe aveva sorriso sussurrandole che aveva della mercanzia che non doveva buttare e poi le aveva lanciato quel vestito.

– Grazie, – sussurrò rossa fino alle orecchie. – ma non potevi farmi mettere qualcos’altro? Non mi sento molto a mio agio e non so camminare sui tacchi.

– Come facevi a vivere a Roma? – chiese Zoe alzando la testa dal Apple Martini. L’odore dell’alcol le diete immediatamente la nausea e si chiese come avesse fatto a lavorare per tanto tempo in un bar. Non spettava a lei giudicare chi buttava i propri soldi e la propria vita nell’alcol, ma non riusciva proprio a dimenticare l’odore che per anni aveva impregnato le mura di casa sua.

– Ero tipo da baretto sotto cosa, con jeans, maglietta e scarpe da ginnastica e una coca. E festeggiavo con il mio, – le si strinse il cuore al ricordo di Alessio. Erano stati insieme per quattro anni e lui ora non c’era più. – ragazzo e i suoi amici che tifavano la Roma durante il campionato di calcio.

– E i locali chic? – chiese Zoe tornando alla carica. Era sempre stata curiosa sulla sua vecchia vita a Roma e a Verity non faceva piacere parlarne. C’erano troppi ricordi dolorosi. Una fontana, o una piazza che le ricordavano la madre o peggio, Alessio.

– Li evitavo come la peste. – come cercava di evitare questi locali con scarso successo.

Le labbra di Zoe di disegnarono in una piccola ‘o’ e poi sbuffò. – Ora capisco molte cose, ma ora sei a Parigi! Perciò divertiti! – esclamò alzando il bicchiere. Verity aveva l’impressione che non sarebbe più riuscita divertirsi in vita sua, ma questo non poteva dirlo. Zoe si guardò un po’ attorno come in cerca di qualcosa e poi sospirò. – Vado in bagno. – si alzò e diede un’occhiata penetrante a Verity. – Allora? – la sollecitò, indicandole con la testa la direzione del bagno.

La guardò senza capire. – Allora cosa?

– Come allora cosa? Non conosci la regola del bagno? – Verity scosse la testa, l’amica si era arrabbiata senza che lei avesse fatto nulla. – Dio, ragazza come facevi a vivere a Roma? Lasciamo perdere, ti dovrò spiegare un sacco di cose e insegnare a muoverti. Ora vado in bagno.

Verity la guardò sparire tra la folla, chiedendosi ancora cosa intendesse lei con la regola del bagno, ma la sua curiosità si trasformò in rabbia quando vide un ragazzo castano chiaro sedersi davanti a lei. Al posto di Zoe. – Quel posto è occupato. – disse acida, riconoscendolo come il ragazzo maleducato di quella mattina.

– Già, – commentò lui sedendosi meglio. – dalla tua amica. Che è appena andata in bagno. Tu come mai non sei andata con lei?

Verity roteò un paio di volte il bicchiere del suo aperitivo analcolico. – Perché sarei dovuta andare con lei? Sa dov’è il bagno, no?

Lui rise e per un attimo le spalle di Verity sussultarono. Una parte di lei, le diceva che quella risata era conosciuta e familiare, ma schiacciò quell’idea quando vide l’occhiata maliziosa che Michael le lanciò alla scollatura. – Non conosci la regola del bagno? – domandò con interesse, facendosi più vicino. – Tutte le ragazze vanno in bagno insieme. È una santa regola non scritta. In bagno può accadere di tutto, si può essere attaccati da troll, aprire camere dei segreti, flirtare con amici dei ragazzi che si siedono davanti a false castane...

– Primo: i troll non esistono, a meno che non includiamo i microcefali come te, secondo: di camere dei segreti ce n’è una ed è ad Hogwarts. Terzo: Zoe non accetterebbe mai di flirtare con… – si bloccò al sorriso superiore del ragazzo davanti a lei, Zoe le aveva detto che era uscita con Michael in passato.

– Ne sei sicura? Perché ti ricordo che è venuta a letto con me. – confermò lui. Verity arrossì, sentendosi presa in fallo e si voltò a guardare da un'altra parte. Pregava che Zoe tornasse presto togliendola da quell’impiccio e che un buco nel terreno si aprisse sotto la sedia del ragazzo. – Prendi qualcosa? – chiese lui chiamando il cameriere. – Ovviamente pago io.

– Non voglio nulla da te. Sparisci. Dileguati. Evapora.

– Peccato. – si voltò verso il cameriere. – Un silver bullet e portane uno anche alla signorina.

Verity si trattenne dal ringhiare. – Ho detto che da te non voglio nulla. Ben che meno un alcolico. – non avrebbe mai bevuto qualcosa che avesse avuto quell’odore di rovina. Le si rovesciava lo stomaco solo al pensiero. E se pagava lui era un motivo in più per rifiutare.

Lui si mise più comodo sulla sedia, appoggiando la mano sul mento. Qualcosa in quel gesto e in quel sorriso le accese una lampadina in testa. C’era qualcosa in lui che... no! Verity mise a tacere quel pensiero. Solo perché Michael era affascinate non voleva dire che avessero un legame. Aveva visto dei tipi come lui e facevano così con tutte.

– Io invece penso che resterò seduto qui. A parlare con un finta castana scontrosa di cui non conoscono il nome. – disse lui senza cambiare espressione.

Non capiva perché un no non gli bastasse e non si arrendesse, Verity non voleva avere a che fare con lui. – Vattene. – ripeté con rabbia crescente.

– Dimmi il tuo nome.

– Sparisci. O affoga nella Senna. – per un attimo l’idea di buttarlo nel fiume e vedergli i vestiti e i capelli bagnati e rovinati dall’acqua sporca la fece sorridere.

– Il nome. – insistette lui senza scomporsi e allungandosi un altro po’ sul tavolo L’odore dell’alcol nel suo alito la colpì come un pugno forte. Alessio si era preso sempre cura di lei e si lavava i denti o aveva una gomma da masticare che gli togliesse quel sapore che lei tanto odiava.

Verity lo fulminò con lo sguardo. – Non capisci ciò che dico o cosa?

– Oh, ti capisco benissimo, anche se hai un accento strano. – fece lampeggiare i denti in un sorriso – Quindi non sei francese.

All’anima de li mortacci tua. – Verity imprecò, trattenendosi dal rovesciargli il cocktail in testa.

Lui rise. – E questo sembrava italiano. Ora, mia cara, che ne pensi di dirmi un nome da associare a quello che, non era un complimento per i miei occhi azzurri? Così me li ricorderò entrambi per la prossima volta.

– Non sono cara. Né per te, né per nessun altro. Sono Verity Jensen e non ci sarà una prossima volta. – gli fece cenno di andarsene, ma lui fece finta di nulla mettendosi seduto più composto sul tavolo.

– Alla buon’ora. Michael Dubois. – si presentò tendendole la mano. Verity gliela colpì prontamente con il portatovaglioli. – Ma ovviamente, – disse massaggiandosi la mano lesa. – La Regina dei Ghiacci ha mandato la buona educazione a quel paese.

– Adesso puoi andartene Michael. – lo invitò lei tenendo il portatovaglioli in mano e desiderando tirarglielo in testa.

– Mikael. – la corresse lui. – Si scrive Michael, ma si pronuncia Mi-Ka-El. Significa ‘chi è come Dio.’ – le fece un sorriso ammiccante e lei non volle sapere dove stesse andando a parare, ma si tirò indietro.

– Mi rifiuto di chiamarti così. – rispose gelida. Desiderava che Zoe tornasse il prima possibile. – Sei già un montato senza che ti paragoni a Dio. – guardò oltre la sua spalla nella speranza di vedere la testa mora della sua amica, ma ancora nulla.

– Non tornerà. – disse Michael seguendo la direzione del suo sguardo.

– Cosa?

– La tua amica. Non tornerà dal bagno. Claude mi ha mandato un messaggio mentre eri persa nel tuo mondo. E gli ho detto di riferirle di non preoccuparsi per te perché stavi con me.

– Tu… – perse definitivamente la pazienza e gli tirò il portatovaglioli in testa, che lui intercettò con una mano.

– Non riesci a comportarti bene, vero? E anche un po’ volgare, ma sei carina. Smetti di fare tanto la sostenuta e pensa a divertirti. C’è un bel posticino qui vicino dove potremmo andare.

Verity afferrò dal vassoio il cocktail che il cameriere gli stava portando e lo rovesciò addosso a Michael. – Ma chi ti credi di essere? – urlò attirando l’attenzione del locale. – Parlami un’altra volta così e ti pianto i tacchi in gola! E di alla mia amica che me ne vado a casa! – scappò fuori alla velocità della luce, sentendosi gli occhi di tutti puntati addosso per la scenata che aveva appena fatto.

La rabbia e l’umiliazione per le parole di quel ragazzo divennero una rabbia accecante. Camminava a passo svelto per strada, ignorando il dolore ai piedi. Doveva trovare un luogo dove calmarsi il prima possibile o sarebbe scoppiato un guaio. Il pensiero di Michael gli balenò in mente, infuriandola ancora di più. Come si aspettava un forte vento spazzò la strada, trascinando via cartelloni e sedie di plastica.

Calmati, si ordinò quando una sedia la colpì sul gomito. Fece un paio di respiri profondi, ritrovando un briciolo di autocontrollo e il vento calò di intensità.

Ma ogni volta che vedeva un ragazzo ridere o una coppia baciarsi, la rabbia la travolgeva. Non era solo infastidita dalla sua insistenza, in qualche modo si sentiva anche tradita, come se da lui non si aspettasse parole simili. Tutta la situazione non aveva senso.

– Ma chi cavolo si crede di essere quello là! – il vento tornò più forte di prima, scuotendo le tende parasole e facendo tremare i cartelli agli angoli delle strade. – E Zoe! Come ha potuto abbandonarmi in quel modo! – le chiome più alte degli alberi vicino a lei si piegarono mentre il cielo si rannuvolava velocemente. – Io li odio! – un fulmine colpì in pieno la cupola del Sacro Cuore in cima alla collina, lasciando interdetti i turisti e gli abitanti di Parigi che camminavano per le strade.

– Parli spesso da sola? È sintomo di pazzia, te l’hanno detto? – chiese Michael alle sue spalle. – Sai, da te mi sarei aspettato di tutto, ma non che mi rovesciassi il cocktail in testa.

Verity proseguì dritto per la sua strada ignorando il ragazzo alle sue spalle. Doveva rimanere calma, molto calma. Il fulmine non era affatto un buon segno. E lui non le stava rendendo le cose più facili. – E non sai camminare sui tacchi. Sembri una papera.

– Ma la smetti? – gridò voltandosi.

Cadde un altro fulmine, stavolta più vicino, colpendo un’insegna bianca e rossa. Michael e Verity alzarono contemporaneamente gli occhi al cielo, guardando le nuvole che si gonfiavano rapidamente sulla città. – Credo che si stia per scatenare una tempesta. – commentò lui, guardando il cielo nero. – Strano, non erano previsti temporali. Se vuoi ti porto a casa.

– Mi arrangio. – gli diede le spalle e proseguì sul marciapiede sentendo comunque passi di Michael dietro di lei. Era una persecuzione. Cosa doveva fare per liberarsi di lui?

– Sai che stai andando verso il cuore del quartiere a luci rosse? – la voce cantilenante di Michael la costrinse a mordersi la lingua fino a sentire in bocca il gusto metallico del sangue. Se non stava attenta, rischiava di provocare danni peggiori di un semplice temporale, ricordava i danni che sua madre aveva provocato sulla spiaggia di Ostia, e non voleva ripetere l’esperienza.

Senza rispondergli Verity girò alla prima a destra a testa alta, fingendo di sapere dove stesse andando. Parigi non era una città grande, prima o poi avrebbe trovato una strada che conosceva.

 – E se prosegui sempre dritta vai al cimitero di Montmartre. – la voce di Michael alle sue spalle la stava facendo impazzire. Tentando di concentrarsi sul respiro perse il ritmo dei suoi passi e inciampò in un tombino, finendo per terra. – Ahi!

– Ti sei fatta male? – Michael le tese la mano per aiutarla a rialzarsi, ma le lo scacciò con un schiaffo. Fu solo un istante, ma quando le loro mani si incontrarono Verity sentì una scossa attraversarla e guardò con odio Michael chino su di lei. – Allora? – insistette il ragazzo, scrutandola attentamente. Gli occhi più cupi e più interessati di prima. – Ti sei fatta male?

– Credo la caviglia. – disse lei afferrando il palo della luce per tirarsi su e rifiutando l’aiuto di Michael. – Colpa di queste maledette scarpe. – le scalciò via e sentì lo sguardo di Michael su di sé. – Io odio i tacchi!

– Vuoi camminare verso il cimitero con un caviglia che ti fa male e senza scarpe? – la prese in giro avanzando di un passo per tagliarle ogni via di fuga.

– Non sono affari tuoi. – si guardò intorno con la caviglia che pulsava di dolore. Con sconforto, non riconobbe nulla della strada ed estrasse dalla borsetta la cartina di Parigi che portava sempre con sé. – Dunque, – mormorò a bassa voce avvicinando la cartina al viso per vederci meglio. – Ero qui, poi ho fatto questa strada. E ora…

– Ora sei qui. – disse Michael colpendo con un dito la cartina. – Una ragazza senza scarpe contro un palo della luce e il vestito che le lascia intravedere praticamente tutto. Ah sì, hai anche il naso sporco. – Michael si avvicinò lasciando pochi centimetri tra di loro. – Chiunque penserebbe male, non credi?

– Levati di dosso! – Verity lo spinse via, ma per il risultato che ottenne avrebbe potuto provare a spingere un macigno. Michael non si mosse di un millimetro continuando a scrutarla dall’alto.

– Sto solo cercando di aiutarti. E comunque sei parecchio scontrosa, da quanto non fai sesso?

Le guance di Verity si colorarono all’istante e fissò il ragazzo. – Ma saranno affari miei?

– Tipica risposta di chi non lo fa da diversi mesi. – disse lui calando su di lei sfiorandole il mento con la mano. – Ascolta, io ho avuto una pessima giornata e tu hai bisogno di rilassarti un po’. Potremmo distrarci entrambi. Non è una cosa così strana, ci divertiamo insieme qualche ora e poi amici come prima. Senza impegno, né dolore.

– Tu sei… – iniziò Verity guardandolo storto e sfuggendo alla sua mano.

– Onesto, tanto per cominciare. Non mento su cose del genere, né illudo le ragazze. Ma penso che tu voglia dire arrogante e meschino.

– Più o meno, – disse trattenendo a stento un sorriso. Quel piccolo accenno all’onestà l’aveva fatta sorridere. Uno come lui associato alla parola onesto era un controsenso. – ma avrei usato termini molto meno raffinati. Tipo stronzo e testa di cazzo.

– Avrei puntato su bastardo e stronzo. – rispose lui.

– Ma tu permetteresti a qualcuno di parlare così a tua madre?

Michael ammutolì qualche secondo a bocca aperta. – Se qualcuno, – disse infine improvvisamente serio. – Parlasse così a mia madre gli farei i complimenti, se parlassero così a mia sorella lo ucciderei.

– Bene, perché è quello che vorrei fare con te ogni volta che apri bocca. – disse scansandolo. – Ora scusa, ma da me non avrai altro se non dei calci sugli zebedei, – disse in italiano. E voglio andare a casa.

La guardò confuso. – Cosa hai detto?

– Voglio andare a casa. – ripeté lei stanca.

Lui scosse la testa. – No prima, mi prenderesti a calci dove?

Verity alzò gli occhi al cielo, chiedendosi quanto potesse essere ottusa una persona. – Ti prenderei a calci sui coglioni, meglio così? Ora levati.

Michael non si mosse e continuò a fissarla. – Ti porto a casa.

– Ho detto che non ne ho bisogno.

– Beh, visto che mi vuoi mandare in bianco e Claude è impegnato con la tua amica, – le fece un sorriso sornione, ricordandole che era stata Zoe a cacciarla in quella situazione. – Tanto vale che mi trovi qualcosa da fare. – si allontanò di un paio di passi per poi chinarsi a raccogliere un pezzo di carta. – Questo è tuo? Mi pare che ti sia caduto quando hai tirato fuori la cartina. – Verity fece per riprenderlo, ma Michael lo tirò indietro osservando meglio il ritaglio di giornale. – Perché hai un articolo sulla mostra alla torre? Ti interessano i diamanti?

Verity si morse la lingua desiderando dargli un pugno, ma si fermò guardando il viso di Michael. Sembrava solo curioso e la domanda era innocente per i suoi standard. Non ci vide nulla di male nel rispondergli. – In un certo senso. Ho letto da qualche parte che sono le pietre più dure esistenti al mondo. Passano secoli sottoterra, schiacciati da tutto e tutti, ma diventano infrangibili. Li trovo belli.

Michael si passò una mano tra i capelli, arruffandoli, prima di passarle il ritaglio. – E non ti interessa il loro valore?

Lei scosse la testa. – Per quel che mi riguarda mi piacciono per la loro forza. Tutti li ammirano perché sono rari, a me piacciono perché non si spezzano.

Sentì lo sguardo di Michael su di sé mentre riponeva il ritaglio. – Interessante. – commentò infine – Riesci a camminare? Così torniamo indietro.

Lei annuì, qualcosa nel suo sguardo le diceva che in quel momento Michael non le avrebbe fatto del male. – Magari con le scarpe. – aggiunse lui. – Non è che i marciapiedi siano puliti. – Verity sbuffò e si rimise le scarpe, odiando quella serata e decisa che l’avrebbe cancellata dalla memoria.

Camminarono in silenzio, con Verity che guardava ovunque tranne Michael e si rese conto che effettivamente era finita nel quartiere a luci rosse, con le insegne al neon che gettavano lunghe ombre sulla strada e le vetrine che proponevano di tutto: dai giocattoli per adulti e coppiette, ai cinema vietati ai minori. Come potevano mettere in mostra tutto quel sesso a pagamento, lei non riusciva a capirlo.

– Non è così male il quartiere se ti lasci andare. – commentò Michael al suo fianco. – Devo solo smettere di censurare tutto quello che vedi.

Verity si sentì punta sul vivo. – Io non censuro un bel niente!

– Come no. Guardi una vetrina e il tuo cervello sputa una sentenza che farebbe impallidire il ‘J’accuse’.

Verity sospirò. – In Italia non abbiamo quartieri simili. Quanto ero bambina sapevo che ad Amsterdam esisteva il quartiere a luci rosse, ma non ci davo peso e non ci e sono mai entrata. A Roma si guarda sempre dall’alto in basso posti simili.

– Amsterdam, eh? – ripeté lui, guidandola con un cenno verso la strada da cui erano arrivati.

– Mio padre è olandese, ma sono nata a Copenaghen. – si cucì la bocca, maledicendosi per aver detto così tanto di lei a quel tipo odioso. Era da tanto che non raccontava delle cose di sé a qualcuno. Erano altri tempi ed un’altra vita. Il mondo era molto più bello e aperto, allora.

Michael le disse di svoltare a destra, in una laterale vicino al café e le indicò la Citroen decappottabile. – Sali. – disse lui aprendo l’auto.

Verity fissò prima lui, poi la macchina e Michael sospirò, passandosi una mano sugli occhi. – Prometto che non ti farò nulla finché siamo in auto, tranquilla. E io mantengo le promesse.

Verity salì, ancora insicura. Accettare passaggi da sconosciuti era da folli, ma se le cose si fossero messe male, lei sapeva come difendersi. Disse a Michael dove abitava e poi si chiuse in un silenzio ostile, senza proferire altra parola finché Michael non parcheggiò sotto il suo palazzo. – Grazie per il passaggio. – disse scendendo.

– Aspetta. – la chiamò lui – Sono stato gentile, no? Almeno un caffè me lo merito.

Verity strinse la mano sullo sportello, ma poi gli sorrise. La stretta si allentò, costringendosi a scollare ogni dito dalla macchina. – Ma certo! Hai ragione. Un caffè fatto con una macchina italiana lo meriti. Sei stato gentile a portarmi a casa. – aprì la borsetta e strinse le dita su ciò che cercava. – Tieni. – disse lanciandogli la moneta.

– Due euro? – chiese lui afferrandola al volo.

– Il resto che ti dovevo stamattina. Vicino alla Gare du Nord c’è un piccolo bar che fa il caffè con una macchina italiana. Puoi fare colazione lì domani mattina. Addio, stronzo! – sbatté lo sportello e si voltò, soddisfatta nell’aver avuto l’ultima parola.

Aspettò che Michael girasse l’angolo prima di frugare di nuovo nella borsa alla ricerca delle chiavi. La rivoltò tre volte e poi ne svuotò il contenuto sulle scale, ma delle chiavi di casa nemmeno l’ombra. – Merda! Me le sono dimenticate?

Prese il telefono e provò a chiamare Zoe, ma trovò la segreteria. – Zoe! Devi tornare a casa! Sono chiusa fuori...

Si sedette sulle scale ad aspettare, chiamandola ogni cinque minuti, sperando che l’amica le rispondesse. Dopo mezz’ora perse le speranze.

Stanca per la lunga e sfortunata serata, fece il giro del palazzo, trovando la scala antincendio. L’ultima parte era tirata su, fuori portata, per scoraggiare eventuali ladri, ma Verity si morse il labbro concentrandosi.

Legò alcune correnti d’aria in una robusta corda di vento che usò come frusta contro la scala, tirandola giù con un gran fracasso di metallo arrugginito. Salì rapidamente, pregando che nessuno la vedesse e chiamasse la polizia. Si accucciò vicino alla finestra della camera di Zoe e provò ad aprirla, trovandola bloccata.

Maledisse Zoe in tutte le lingue che conosceva, iniziando dal danese. Verity la rimproverava sempre dicendole di chiudere le finestre quando uscivano, e l’unica volta che doveva disubbidire, l’aveva ascoltata. Usò di nuovo i suoi poteri sul vento per muovere il fermi all’interno della stanza e aprì la finestra, entrando esausta in casa.

Fece in tempo a togliersi le scarpe ed a lanciare la borsa sul letto quando la luce si accese improvvisamente.

– Sai, – disse la voce affabile e profonda di Michael alle sue spalle. – Avresti dovuto invitarmi a prendere quel caffè.

Si girò lentamente, pronta a lanciarlo fuori dalla finestra, e lo trovò appoggiato con la schiena muro che roteava l’anello delle chiavi attorno al dito. – Rubarti le chiavi di casa non è stato così difficile. Dovresti fare attenzione a chi frequenti.

La frustrazione di Verity esplose di colpo e una forte raffica di vento attraversò la stanza rovesciando le sedie e i soprammobili, mettendola a soqquadro.

– Niente male. – commentò Michael. – Immaginavo che anche il vento e i fulmini a Montmartre fossero opera tua. – si staccò dal muro e le lanciò le chiavi che lei afferrò al volo. Non c’erano dubbi erano proprio le sue, riconobbe il portachiavi che le avevano regalato i suoi amici di Roma. – Non essere così sconvolta, Verity. Avevo dei sospetti già con quell’insolito vento, ma c’era troppa gente e non potevo essere sicuro che fossi realmente tu.

– C-cosa vuoi? – disse lei infine.

– Lascia che mi ripresenti. – disse con un inchino. – Michael Dubois. Il numero diciotto. L’Arcano della Luna. E ora, Verity, dormi.

La vista le si annebbiò e le girò la testa, mentre le gambe divennero intorpidite e pesanti. Provò a combattere il sonno che la stava avvolgendo come una coperta per qualche altro secondo, ma si arrese e il mondo divenne nero e silenzioso.

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NdA: Lavorare con Michael è sempre difficile, entrare nella sua testa mi fa morire dal ridere o mi fa venire voglia di prenderlo a calci. Dipende dalle giornte. E poi devo sempre rendere conto a Bianca per i suoi commenti sempre corretti e ovviamente a voi lettori. Se voleste lasciare un appunto mi aiuterà i migliorarmi, senza dubbio. XD

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Capitolo 4
*** 1.3 Il Mago - L'eredità del Padre ***


3. L'eredità del Padre

I – Il Mago

L’eredità del padre

 

Parigi, 15 Luglio 2011.

 

Il sole stava tramontando e Michael finì di prepararsi per la serata che lo attendeva. Estrasse lo smoking dalla custodia e controllò che la lavanderia avesse fatto il proprio lavoro. Soddisfatto, si infilò la camicia bianca, ma il fruscio delle lenzuola lo fece voltare, allarmato.

La ragazza che aveva rapito la notte precedente si agitava nel sonno, mormorando parole in francese antico che lui faceva fatica a comprendere. Scosse la testa, rilassando i muscoli tesi. Verity era il primo Arcano con cui aveva a che fare e non sapeva come dovesse comportarsi.

La testa gli diceva di ucciderla, ma ogni volta che la guardava, qualcosa gli fermava la mano. Si avvicinò al letto e le scostò una ciocca di capelli che le ricadeva sul viso.

Era profondamente addormentata e così sarebbe rimasta finché lui non avesse deciso cosa farne. Attorcigliò la ciocca attorno al dito, infondendo la sua magia fino alla cute, per eliminare ogni traccia di tinta castana.

Deglutì vedendo il vero colore dei capelli di Verity. Erano biondo oro e alla luce del sole morente, sembrava che la ragazza avesse l’aureola. Sorrise abbottonandosi la camicia. Un’aureola? Da quando aveva idee simili? L’unica ragazza pura incontrata finora era sua sorella. Le altre, erano copie di sua madre. Altezzose. Arriviste. Meschine e viziate.

Prese dalla cassaforte nascosta nell’armadio i gemelli d’oro bianco e chiuse i polsini. Aveva ereditato quei gioielli da suo padre. Sopra vi erano incisi degli intricati disegni a forma di luna, un lavoro eseguito su ordinazione diversi anni addietro e che gli ricordavano chi lui fosse e quanto potere avesse.

Finì di vestirsi, attenendosi alle più ferree regole dello stile: pantaloni neri sostenuti da bretelle, gilet e giacca in tinta con i risvolti in seta. La persona che doveva incontrare quella sera voleva che lui fosse sempre impeccabile non poteva permettersi di farla arrabbiare.

Si guardò allo specchio allacciandosi il papillon; non aveva mai capito se quel tipo di abbigliamento formale gli piacesse o no. Era costretto a indossare quel vestito dai rigidi canoni dell’alta società e lui detestava le costrizioni, ma non poteva negare che gli accentuasse la figura snella e lo mettesse in risalto tra le persone.

Lanciò un’altra occhiata alla ragazza attraverso lo specchio. Dormiva tranquilla, rannicchiata sotto le lenzuola. Con una scrollata di spalle, prese il telefono e scrisse un messaggio. Una decina di minuti dopo lesse la risposta e sorrise: non avrebbe potuto andare meglio di così.

Si chiuse la porta d’ingresso alle spalle lasciando Verity ancora addormentata nel suo letto. Presto le avrebbe dimostrato cos’era in grado di fare.

La limousine era già in attesa sotto casa e l’autista gli aveva aperto lo sportello, invitandolo a salire. Michael si accomodò sul sedile posteriore, sorridendo alla donna seduta dentro. – Buonasera, Duchessa.

– Michael. – la donna gli riservò un sorriso che non arrivò agli occhi. – Sono felice di vederti in perfetta forma. – parlava francese senza riuscire a nascondere l’accento fiammingo.

– Anch’io sono felice di vedermi in forma, Duchessa, ma non mi aspettavo che venissi fin qui per farmi i complimenti. Cosa ti ha portato a Parigi? – accettò con un cenno della testa il bicchiere di Champagne che la donna gli porgeva, e Michael ne approfittò per esaminarla. L’abito in seta color vinaccia le ricadeva sul corpo, mettendo in risalto la vita sottile e le braccia nude ben tornite. I capelli neri erano raccolti in uno chignon alto fermato da un vistoso gioiello d’oro a forma di narciso coordinato con la cintura. Nonostante i suoi quasi cinquant’anni, Duchessa era ancora una donna splendida, capace di far girare la testa a molti uomini e per un po’ lui era stato tra questi.

Fece tintinnare il bicchiere contro quello della donna senza distogliere gli occhi da quelli freddi che lo guardavano. – Sono qui per te, Michael caro. Mi mancavi. La tua ultima bravata alla banca di Monaco ha fatto il giro del mondo ed è arrivata anche alle orecchie di questa povera donna sola.

Michael posò il bicchiere sul tavolino della limousine, senza berne neanche una goccia. Dubitava che Duchessa potesse definirsi una ‘povera donna sola’ con quell’aria da innocente e il suo furto non era stata una bravata, ma un capolavoro organizzato con cura. – Hai avuto la tua parte per quel lavoro. – sussurrò.

– Ovviamente, – Duchessa gli posò una mano sul braccio facendosi più vicina. – ma mi chiedevo, se questo tuo lavorare in proprio non ti stia facendo stancare. – il sorriso di Duchessa si allargò fino ai molari e Michael si costrinse a spostarle dietro l’orecchio un ricciolo che le era sfuggito dall’acconciatura. Doveva mantenere la calma e affascinarla, solo così poteva spuntarla con lei. – Dovresti parlarne con me prima di accettare un lavoro. – proseguì lei. – Potrei consigliarti. Eviteresti gli errori di valutazione.

Michael soffocò la risposta tagliente che voleva darle. – So come comportarmi, Duchessa, grazie per l’interesse. Sono convito di poter gestire sia il lavoro in proprio, sia quello che mi dai. – si allontanò da lei, riguadagnando il proprio spazio. Toccarla lo faceva sentire più sporco di quanto già non fosse.

– Come sta tua sorella Angéline? Ieri è stata magnifica al suo saggio di violino. Amazing Grace, giusto? Un’opera difficile da suonare, dovrei portarle i miei omaggi. – la minaccia di Duchessa gli congelò il sangue nelle vene e la donna sogghignò, gustandosi la sua reazione. – Pensavi che non lo sapessi, Michael? Non succede nulla ai miei protetti senza che io lo venga a sapere. Ricordartelo per eventuali colpi di testa.

Michael le sollevò il mento con un dito, guardandola dritta negli occhi. – Lascia fuori da questa storia mia sorella. Non provare a toccarla e non minacciarmi, Duchessa.

– Io non minaccio nessuno, Michael caro. Mi fraintendi, ma capisco che le tue parole affrettate siano dettate dalla stanchezza. Ti ho fatto lavorare molto in questi ultimi mesi. – con la coda dell’occhio, Michael vide l’autista mettere una mano sotto la giacca, ma questi si rilassò a un cenno di Duchessa. – Fai bene il lavoro di stasera e ti garantisco che tua sorella godrà di una speciale protezione da parte mia. Ti avevo promesso questo, no? – si avvicinò al suo orecchio, solleticandogli la pelle. – Tu lavori per me e nessuno farà mai del male ad Angéline. Una protezione con i miei uomini migliori, ventiquattro ore su ventiquattro ovunque lei sia.

Michael si sistemò il papillon, ritrovando l’autocontrollo.

Angéline.

Prima di tutto, veniva Angéline. – Molto bene. – doveva tenere a mente il bene di sua sorella. – E in futuro ti consulterò, se ho in mente qualche nuovo lavoro.

– Tuo padre sarebbe fiero di te. Hai ereditato la sua saggezza, Michael.

– E anche il suo lavoro. – concluse lui in trappola. 

– Sarebbe stato uno spreco, – passò un dito sul risvolto della sua giacca. – con il tuo talento non ereditare anche il suo lavoro. Anche se hai un tocco più pulito del suo. Nessun omicidio, nessuna traccia, nessun indizio riconducibile a noi. Vorrei più collaboratori come te. – guardò fuori dal finestrino oscurato e sorrise, vedendo la torre Eiffel. – Siamo arrivati.

La limousine si fermò ai piedi della torre e quando l’autista aprì lo sportello, Michael fu il primo a scendere, offrendo la mano a Duchessa. – È tutto pronto? – chiese alla donna.

– Ovviamente, mio caro. – rispose stringendogli il braccio – Mi dispiace solo aver lasciato a casa Jamie. Gli sarebbe piaciuta una serata del genere.

Cercò di ricordarsi chi fosse Jamie. Duchessa non era sposata e non aveva figli. Gli unici uomini che avessero mai avuto a che fare con il suo letto duravano al massimo un mese e poi lei se ne stancava. Michael era durato la bellezza di centottantasei giorni, che lui aveva contato come un carcerato. Quando la donna si era stufata di lui aveva riassaporato l’aria di Parigi come se fosse stato in carcere – Jamie, sarebbe? – domandò per puro scrupolo.

– Un mio protetto. Un ragazzo molto dotato.

Michael si liberò del pensiero del nuovo giocattolo di Duchessa e alzò lo sguardo sulla torre Eiffel illuminata. Là, al primo piano, c’era il suo obiettivo: un diamante grosso come un uovo di quaglia e prima della fine della serata, l’avrebbe consegnato alla sua ricattatrice.

Sempre porgendo il braccio alla donna, si diresse verso uno degli ascensori. Per quella serata erano chiusi al pubblico e vi si poteva accedere solo tramite invito.

Squadrò dall’alto in basso due addetti alla sicurezza che invitavano le persone davanti a loro a passare attraverso il metal detector. Sorrise quando l’allarme del rilevatore scatenò le ire di un paio di donne.

– Dopo stanotte avrò bisogno di un periodo di pausa. – mormorò Michael approfittando del trambusto. Stava tirando la corda, aveva consegnato se stesso a quel mondo molti anni prima e Duchessa era solo la punta dell’iceberg, dietro di lei, c’erano personaggi molto più pericolosi. Lei gli strinse il braccio e lui sentì le unghie laccate attraverso gli strati di tessuto.

– Per quale motivo, mio caro? – il tono era amabile, ma gli occhi verdi lo trapassarono come pugnali.

– Vado all’università e magari ogni tanto dovrei andare a dare gli esami e seguire qualche lezione.

La tensione sul suo braccio si sciolse appena. – Potrei aiutarti anche per questo. – interruppe la conversazione quando passarono attraverso il blocco di sicurezza. – Non dovresti prendere gli esami troppo sul serio.

Con la scusa di sistemarle un orecchino, Michael si avvicinò al suo orecchio. – Già, potresti, ma stasera si creerà un gran polverone e vorrei tenere il profilo basso per un po’. – e aveva bisogno di passare un po’ di tempo con la ragazza che dormiva nel suo letto e studiarla. – E poi, andare all’università mi piace.

Duchessa si fermò davanti alle porte del vecchio ascensore. – Molto bene, – disse lisciandogli una piega invisibile dello smoking. – Fino alla fine di settembre. E voglio essere buona: questa tua pausa non influirà sul nostro accordo.

Michael guardò fuori dalle finestre mentre salivano. Parigi si era appena tolta la veste da giorno; quella severa, del business e dello studio, ammantandosi di luci, pronta a catturare le persone per trascinarle nel fascino misterioso della vita notturna fatta di musica e alcol. Due facce della stessa medaglia. Due vite diverse, stessa anima. Un po’ come lui.

La mano di Duchessa si posò sulla sua e Michael si chiese come una mano così morbida e minuta potesse tenerlo a un guinzaglio tanto corto.

– Tu sei nato per questo. – disse Duchessa facendo un cenno alla Parigi notturna. – Potrai essere sempre dolce con Angéline, potrai comportarti da cavaliere e farti tutte le donne che vorrai, ma ricordati che mi appartieni. Come mi apparteneva tuo padre. – aggiunse fredda. – Ti ha lasciato in eredità una vita fatta di ombre e bugie. Scegli bene a chi vuoi raccontarle Michael. – il ragazzo irrigidì la mascella infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni.

Ombre e bugie. Questo gli aveva lasciato, era vero. Ma anche qualcos’altro. Qualcosa che ogni giorno cresceva dentro di lui, facendolo diventare più forte. Un giorno sarebbe riuscito a proteggere da solo sua sorella liberandosi una volta per tutte del giogo di Duchessa. Si riscosse dai suoi pensieri quando l’ascensore arrivò al primo piano dove si trovava il ristorante e la sala esposizioni.

I suoi occhi allenati cercarono le vie di fuga più rapide nel caso la faccenda si mettesse male e la mano gli volò alla tasca interna della giacca dove teneva qualche attrezzo da lavoro.

Soddisfatto, porse il braccio sinistro a Duchessa e si mescolarono tra gli esponenti dell’alta borghesia europea. Fecero il giro osservando i quadri e le stampe, ma tenendo sempre sotto controllo il diamante esposto al posto d’onore, sotto una teca antiproiettile.

Si fermarono davanti ad una vecchia foto in bianco e nero della Torre Eiffel. – Il pacchetto che ti ho chiesto è già al suo posto?

– Sì, sotto il bancone del bar. Uno dei baristi lavora per me. L’ha sistemato durante il precedente turno di lavoro.

Ghignò a quella rivelazione. – Mi chiedo chi non lavori per te.

– Mi chiedo cosa te ne faccia di quell’oggetto. – rispose lei. – Il vetro è antiproiettile.

Michael la tirò a sé, prendendola per la vita. – Hai detto bene, antiproiettile. Questo non vuol dire infrangibile. – mormorò.

La lasciò andare e si avvicinò alla teca per esaminare il diamante. Sotto la forte luce delle lampade la pietra scintillava come se fosse animata da un fuoco interiore. Catturò la sua attenzione e, come succedeva solo con sua sorella, il mondo intorno a lui smise di esistere.

Voleva quel diamante. Voleva tenerlo in mano anche per pochi minuti e mostrarlo a quella ragazza fredda e altezzosa che lo aveva rifiutato per ben due volte. Lui era il migliore e quel furto l’avrebbe dimostrato.

– Smetti di fissare il diamante come se volessi mettertelo in tasca. – gli sussurrò Duchessa. La condusse verso un cameriere che offriva champagne su un vassoio d’argento per distrarsi da quel tesoro che lo attraeva come una falena alla luce.

– Strano. – rise porgendole il bicchiere. – È proprio quello che voglio fare. Mettermelo in tasca. – l’occhiata fredda di Duchessa gli fece allargare il sorriso sulle labbra. – Non prenderla così male, chiunque vorrebbe mettersi in tasca quel diamante. Non sono l’unico con lo sguardo affamato. – fece un cenno alle signore al centro della sala che fissavano il diamante come se le loro vite dipendessero da quello. – Come vedi è un pensiero ricorrente. Per dar meno nell’occhio dovresti avere anche tu quello sguardo.

Duchessa guardò con fare superiore le donne che si accalcavano attorno al diamante, spingendosi le une contro le altre per avere la visuale migliore. Si strinse le braccia intorno al corpo, mettendone in risalto le curve. – Perché dovrei buttarmi lì in mezzo, quando tra qualche ora potrò ammirarlo in separata sede?

– Hai una gran fiducia nelle mie capacità.

Duchessa posò il bicchiere su un vassoio vuoto. – Direi che sei il migliore.

– Non hai bisogno di dirmelo. So di esserlo.– rispose lui puntando gli occhi sull’orchestra in un angolo della sala. – Ora, visto che abbiamo un po’ di tempo prima dello spettacolo, che ne pensi di concedermi un ballo? – le porse la mano, invitandola. Ballare con Duchessa era qualcosa che un uomo sano di mente non si sarebbe mai perso. Lei era nata per quello e al fortunato a cui concedeva l’onore erano concessi pochi minuti sotto i riflettori mentre accompagnava una delle donne di più potenti del mondo.

La portò vicino all’orchestra insieme ad altre coppie che stavano ballando. – Sai, Michael, dovresti venire alla mia festa di Capodanno. – disse Duchessa stretta tra le braccia del ragazzo. – Ti potresti divertire.

– E tu potresti mettermi in mostra. – rispose, mascherando l’irritazione. Odiava la villa di Duchessa, ci aveva passato fin troppe ore, sia da bambino quando accompagnava il padre, che da adulto. – Come un tuo cucciolo al guinzaglio.

– Non credere di essere il centro del mondo. Sei carino, ma non sei indispensabile. Il mio era un atto di cortesia senza secondi fini.

Le labbra di Michael si curvarono in un sorriso di scherno. Dubitava che Duchessa concedesse ‘atti di cortesia’. Dettato dalla musica tirò a sé la donna che gli poggiò la testa sulla spalla. – Su una cosa ti sbagli Duchessa. Io non credo di essere il centro del mondo. Lo so per certo. Ora, non ti dispiace se inizio a lavorare e la smetto con i convenevoli? La serata inizia a essere noiosa.

– Ti annoia la mia compagnia? – chiese lei fermandosi. Doveva essere uno schiaffo per Duchessa, la donna che da sola riusciva a tenere testa a molti uomini potenti. Le aveva detto che era noiosa e Michael non poteva divertirsi di più.

– Diciamo che quel bel sasso luccicante laggiù è più interessante. – fece due passi indietro e si infilò i guanti, prima di mettere una mano in tasca prendendo una piccola pallina di plastica. L’oggetto era inerte, conteneva solo del fumogeno che serviva a creare confusione e a nascondere le tracce.

Attirò l’attenzione su di sé. – Signore e signori, mi dispiace interrompere questa bellissima serata fatta di champagne, falsi sorrisi ed esorbitanti donazioni, ma ci sono alcune cose importanti che richiedono la vostra cortese attenzione. – schiacciò la sfera tra due dita e il fumo invase la sala, scatenando il panico. – Ora se non vi dispiace, – proseguì Michael intessendo la sua magia. – Siete pregati di dormire. – infuse in quella parola tutti i suoi poteri e il susseguirsi di tonfi sordi lo informò che la gente si era addormentata. Tra qualche ora si sarebbero risvegliati senza ricordarsi di lui di lui. Sarebbe stato un’ombra nella notte.

Evitando di pestare i corpi, si avvicinò al bancone del bar per recuperare l’oggetto che gli serviva, ma un coltello si piantò nel legno a pochi centimetri dalla sua mano, vibrando minaccioso. Quello non se lo aspettava.

Si girò con i sensi in allarme, chiedendosi chi gli avesse lanciato un coltello. In mezzo al fumo, in un angolo della sala, brillava una luce. Assorbì la cortina fumogena, rivelando un giovane con i capelli ricci e la pelle ambrata. Teneva in mano una vecchia lanterna e lo guardava con rabbia. Michael riconobbe la divisa dei membri dell’orchestra e trattenne un’imprecazione. Strinse i denti, era un inconveniente che poteva rovinargli il piano preparato tanto accuratamente.

– Risveglia queste persone. – ordinò secco il musicista. – Subito. – parlava francese, ma con un morbido accento meridionale.

– Gli stranieri si divertano a lanciarmi addosso oggetti contundenti. – rispose ironico.

Il ragazzo batté un paio di volte le palpebre preso alla sprovvista, ma si riprese estraendo un mazzo di carte dalle tasche. – Tre di Spade. – una delle carte si illuminò e gli apparve in mano una spada corta a tre punte. – Ora, – continuò lui puntandogliela contro. – sveglia queste persone.

Michael si guardò le unghie curate, tenendo sempre sotto controllo l’altro ragazzo con la coda dell’occhio. In momenti del genere far perdere il controllo al proprio avversario lo avrebbe messo in vantaggio. La gente furiosa agiva d'istinto e l’istinto uccideva come una spada. – Perché dovrei farlo? Il fatto che tu abbia una spada in mano, non vuol dire che sappia anche usarla. – rotolò sul fianco quando il ragazzo gli lanciò contro la spada andandosi a conficcare accanto al pugnale.– Sembra un gioco divertente, – commentò con un risata. – fa provare me. – strinse le mani intorno all’elsa dell’arma, ma quando la estrasse, la spada tornò a essere una carta. – imprecò sottovoce. Si era dimenticato di quel piccolo particolare che suo padre gli aveva spiegato molti anni prima.

– Gli Arcani liberi non possono usare le carte che possiedono gli altri. – lo prese in giro ed estrasse di nuovo il suo mazzo. – In forma umana, Cavaliere di Bastoni. – la carta brillò, ma anziché un’arma apparve un uomo con tratti mediorientali e una lunga tunica dai colori sgargianti. In mano aveva un pesante bastone in legno nero con incastonate delle borchie d’ottone. – Immobilizzalo. – ordinò il ragazzo con sguardo truce.

L’uomo brandì il bastone contro di lui, tirandogli un colpo di lato che Michael evitò saltando sul bancone in marmo del bar. Quando il bastone lo sfiorò, una vampata di calore lo lasciò senza fiato e grondante di sudore.

– Salti come una scimmietta. – commentò l’uomo con un ghigno.

Si lasciò cadere dietro il bancone del bar per recuperare l’oggetto che gli serviva e ripararsi da un attacco alle ginocchia. Sotto i suoi occhi, il bastone colpì la bottigliera sciogliendo lo specchio antichizzato.

Una pioggia di vetri fusi e alcolici bollenti gli caddero addosso, costringendolo a rotolare di lato.

Strinse i denti. La gamba destra si stava riempiendo di vesciche. A carponi, percorse la pedana fino al barista addormentato. Trovò sotto la cassa l’oggetto che aveva chiesto a Duchessa e lo strappò mettendolo in tasca.

Sì rialzò e saltò oltre il bancone facendo leva su una mano, evitando il Cavaliere di Bastoni e si ritrovò davanti il ragazzo che prima gli aveva lanciato contro la spada.

Per una frazione di secondo si squadrarono. Aveva gli occhi neri e i capelli ricci, forse del sud della Francia o della Spagna, ma qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto riconoscere quello sguardo spaventato. Il momento di tranquillità esplose come una bolla di sapone e Michael gli sferrò un pugno, spedendolo contro le sedie. – La prossima volta presentati prima di attaccarmi.

Corse verso la teca che conteneva il diamante con le orecchie tese per cogliere altri eventuali attacchi. Strappò dall’involucro rivelando un generatore di ultrasuoni da applicare e una piccola pistola a colpo singolo.

Lo spostamento d’aria improvviso lo avvertì dell’attacco e riuscì a evitarlo per un soffio. Il bastone del Cavaliere attraversò il vetro antiproiettile e fuse la teca. Grosse gocce di vetro incandescente caddero sulla moquette bruciando il tessuto. – Una scimmietta davvero agile.

Distrusse il resto della teca con un movimento di polso, lanciando vetri ovunque.

Michael rotolò via evitando l’attacco al fianco sinistro. Se fosse arrivato a segno, gli avrebbe sfondato le costole e sarebbero stati guai seri. – Sarò anche una scimmietta, ma tu sei leggiadro come un bisonte zoppo. – si spostò verso il diamante, tenendo sempre sott’occhio il Cavaliere. Gli insegnamenti di suo padre gli tornarono in mente e i polsi gli tremarono per l’agitazione. Aveva una carta di bastoni in forma umana con tanto ci capacità di usare il fuoco.

L’uomo sputò per terra e lui approfittò di quel momento di distrazione per lanciarsi sul gioiello senza curarsi del sistema d’allarme. Lo strappò dalla base magnetica, le sirene esplosero nella torre. In pochi minuti sarebbe stata circondata e lui doveva disimpegnarsi.

– Sai, – disse Michael rivolto all’altro Arcano, il musicista. – Ti consiglio di richiamare il tuo amico. – parlava lentamente guadagnando tempo per avvicinarsi alle grandi finestre della sala. – Tra poco la polizia sarà qui e indovina chi incolperanno per tutto questo disastro? – l’altro ragazzo si rialzò e si ripulì la giacca dai vetri con calma e il puro odio negli occhi.

Qualcosa in quello sguardo gli fece montare la rabbia, ma non aveva più tempo. O fuggiva ora o mai più. – Non me. – precisò Michael con un ghigno quando sentì il freddo della finestra contro la schiena. Fissò il trasmettitore a ultrasuoni contro il vetro e lo accese, stringendo forte i denti. Si sentì il bip dell’attivazione, prima che la finestra esplodesse, frantumandosi in un milione di pezzi e con essa tutte le altre finestre del primo piano.

Michael scoppiò a ridere, guardando la faccia sconvolta del ragazzo. Sì, era appena finito in un mare di guai e lui non sarebbe rimasto per vedere come sarebbe andata a finire. Con l’aiuto della sua magia si rese invisibile e si tuffò nel vuoto. Frenò la caduta con la pistola e il rampino magnetico, che facevano parte del pacchetto che aveva trovato sotto il bancone del bar. Era lunga appena quindici centimetri e nel calcio, conteneva cinquantacinque metri di cavo sottile ultraresistente. Un piccolo oggetto che gli tornava comodo nelle situazione disperate e che lui aveva fatto costruire da un ex-agente della Polizia Segreta giapponese che doveva molti favori a Duchessa. Il rampino si attaccò alle travi di metallo della torre, permettendogli di fuggire da quella trappola mortale che era diventata la Torre Eiffel. Lo strappo della frenata gli mozzò il respiro e sentì un pericoloso scricchiolio alle ossa del braccio, mentre i muscoli  tesi urlarono di dolore.

In basso, appena a un paio di metri da lui, la gente urlava spaventata e mentre le forze dell’ordine circondavano il perimetro della torre. Ancora invisibile, lasciò andare la pistola e ammortizzò gli ultimi metri da terra con le ginocchia.

Aveva dovuto usare la sua via di fuga per le emergenze ed era furioso. Il suo doveva essere un colpo pulito e facile, non avrebbe dovuto distruggere metà del primo piano. Quel colpo ora era una macchia sulle sue abilità che qualunque persona interessata a lui avrebbe potuto contestargli. Per tornare alla ribalta avrebbe dovuto progetta qualcosa di altrettanto fantasioso e portarlo a termine senza intoppi o i suoi clienti avrebbero perso la fiducia. Si tolse la polvere dallo smoking, maledicendo quell’Arcano per avergli rovinato il piano e un Westwood che costava quanto un’auto nuova. Mentre si confondeva tra la folla, gli tornò in mente la conversazione che ebbe con suo padre mentre lo addestrava.

Sorrise, sentendo il freddo del diamante contro la propria mano, avrebbe dovuto pensarci prima e scegliere una soluzione ancora più facile. Nel suo letto dormiva una Carta di Spade che avrebbe potuto usare come distrazione. In futuro avrebbe potuto mandarla avanti per eliminare gli ostacoli. Forse era arrivato il momento di aggiungere un nuovo Arcano al suo mazzo che gli facilitasse il lavoro.

 



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NdA: Sono riuscita ad aggiornare, sembra quasi un miracolo. A causa di alcuni impegni ho dovuto saltare ben due settimane, ma spero che il capitolo vi piaccia lo stesso. Mia Dolcissima Bea, amante di Michael, sai che questo capitolo è dedicato a te. Il vero molto di Michael è questo. Un ladro geniale egocentrico come pochi.

Spero di riuscire ad aggiornare la prossima settimana. Ci provo, non prometto niente! <3
Un grazie a tutti quelli che leggono hanno messo tra i preferiti/ricordatii/seguiti

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Capitolo 5
*** 1.4 Il Mago - Regina del Passato e del Futuro ***


Il Mago - Regina del Passato e Del Futuro

I – Il Mago

Regina del passato e del futuro

 

Quartiere Latino, Parigi. 16 Luglio 2011.

 

Aveva perso il conto dei giorni di viaggio, sapeva solo che era stanca della carrozza, della strada accidentata e del continuo vociare della scorta. Scoccò uno sguardo malevolo allo sportello in legno scuro quando sentì un commento volgare da parte di una guardia. Parole simili le davano fastidio.

– Maestà? – con un sospiro, si voltò verso la sua dama di compagnia e le fece un sorriso tirato.

– Dimmi pure, Laira. – aveva chiesto spesso a Laira, la sua unica amica, di non rivolgersi a lei come ‘maestà’ ma solo con il suo nome. Quell’appellativo non le apparteneva, ma le era stato affibbiato da un giorno all’altro senza che lei potesse protestare.

– Avete l’aria stanca, maestà. Volete che faccia fermare le guardie e faccia montare la tenda?

Scosse la testa. Mancava poco al castello e non voleva fermarsi, almeno non fino al tramonto.

Voleva solo uscire da quella carrozza che non la faceva respirare e godersi una cavalcata nella foresta, ma non le era permesso. Ordini del re, dicevano. Per la sua sicurezza.

Si era chiesta perché un re così lontano avesse fatto girare mezzo mondo ai suoi cavalieri per trovarla e appena aveva avuto la conferma di chi fosse, l’aveva chiesta in sposa. Lui non l’aveva mai vista in volto, ma aveva organizzato il matrimonio fin nei minimi dettagli e aveva mandato i suoi uomini a prenderla. L’avevano fatta salire sulla carrozza e da allora aveva potuto scendere solo per brevi pause e per la notte.

Non si erano mai incontrati e già lei non ne poteva più. Per mesi le aveva mandato doni e inviato lettere, spiegandole quanto lui avesse bisogno di lei. Di quanto il suo regno avesse bisogno di lei.

Aveva provato a resistere a quell’assalto gentile finché aveva potuto, ma alla fine i suoi genitori l’avevano costretta a cedere. Avrebbe sposato un re che non conosceva, che non aveva mai visto e che non amava e tutto in nome di un sogno che non capiva.

– Vorrei cavalcare, Laira. – appoggiò la testa contro la parete della carrozza sentendo gli zoccoli dei cavalli calpestare le foglie secche e i rami caduti della foresta che stavano attraversando. – Vorrei sentire il vento tra i capelli, ne ho bisogno.

Il viso di Laira perse colore e le sue mani tremarono. – Mi dispiace, maestà, ma sapete, gli ordini… – chiuse la bocca, non sapendo come continuare. Laira non voleva ferirla, ma non voleva nemmeno contraddire gli ordini del re e dei suoi genitori.

– Non importa. – disse lei infine. – Riuscirò a sopravvivere lo stesso.

– Una volta al castello potrete fare quello che volete. Lo sapete. – cercò di incoraggiarla, ma le sembrarono parole di cortesia. – Vuole solo tenervi al sicuro.

Represse una risata amara. Da cosa, doveva tenerla al sicuro?

Le mani di Laira coprirono le sue e un piacevole tepore si diffuse lungo le dita. – Avete le mani congelate, mia signora. – un altro appellativo che detestava. Perché non la chiamava più per nome? Possibile che una sola proposta avesse cambiato le cose in maniera così radicale?

– Ho bisogno di luce, Laira. Sole. Sentirne il calore sul volto. Per quanto apprezzi i tuoi poteri sul fuoco, questa carrozza mi opprime. – la sua dama annuì e batté contro il tetto della carrozza con una mano per farla fermare. Aprì lo sportello per parlare con le guardie e il conducente. – La nostra signora ha bisogno di riposo.

Aveva bisogno di un cavallo e di fuggire, veramente.

Un cavaliere aiutò Laira a scendere e poi le porse la mano. – Permettetemi di aiutarla, maestà. – lo avrebbe scacciato e sarebbe saltata giù da sola, ma gli insegnamenti di sua madre la fermarono. Accettò la mano dell’uomo, ma mentre scendeva non le sfuggì la spada al fianco sinistro, si intravedeva appena sotto il mantello rosso su cui spiccava un dragone dorato. L’uomo indossava l’armatura completa, lasciando solo il viso e i capelli biondi allo scoperto. Tutti gli altri uomini indossavano l’abbigliamento completo da battaglia e le venne un brivido.

 – Vi ringrazio per l’aiuto.

– Vi faccio montare la tenda. – proseguì lui.

Scosse la testa, guardandolo negli occhi verdi. Erano sinceri, buoni. Forse lui l’avrebbe capita. – Avrei bisogno di passeggiare. Sono stata seduta troppo tempo e ho le gambe rigide e fredde. – il cavaliere guardò i suoi uomini e infine annuì.

– Come volete, ma avrete bisogno di una scorta. – con pochi gesti sbrigativi ordinò a un paio di guardie di seguirli mantenendo una certa distanza mentre camminava accanto a lei con una mano sulla spada.

– Siete molto cauto. – commentò inoltrandosi nel bosco. – Cosa temete?

– Pur essendo in pace, il regno ha molti nemici. – rispose lui mantenendosi sul vago. – Nemici che rapirebbero volentieri la nostra futura regina.

Regina.

Non si sentiva affatto una regina, ma una bambina spaurita in un mondo che non conosceva. Fu quasi tentata di dirglielo, il cavaliere le ispirava fiducia e aveva bisogno di parlare con qualcuno che non fosse Laira.  La sua dama era così fedele al re e ai suoi genitori che non la ascoltava più e sminuiva quello che aveva da dire. Alla fine lei aveva smesso di confidarsi e aveva iniziato a tenere tutto dentro. – Vorrei cavalcare. – disse sentendo che il vento e il calore del sole le davano nuova vita. – Vorrei cavalcare fino al castello.

Lui scosse la testa con un sorriso gentile, ma fermo. – Anche se siamo dentro i confini del regno, potrebbero esserci lo stesso dei briganti.

Camminarono nel bosco senza scambiarsi altre parole. Lei con il suo abito verde che strusciava sulle foglie e sull’erba mettendo in allerta gli animali. Lui con il passo leggero, di chi è abituato alla guerra e alla caccia.

– Il re, – iniziò l’argomento che le premeva torcendosi le mani. – che tipo di persona è? –  non lo aveva mai chiesto a nessuno e ora che erano vicini al castello sentiva il bisogno di prepararsi.

– Voi che tipo di persona pensate che sia? – non si era aspettata un’altra domanda, ma che venisse rassicurata e il re messo sotto la luce migliore. Che un uomo le chiedesse la sua opinione era strano, eppure piacevole. – Sentitevi libera di parlare, mia signora. – la incoraggiò. – Se tenete la voce bassa, i miei uomini non vi sentiranno.

– E di voi? Potrei mai fidarmi di voi?

– Non una parola di quel che direte uscirà dalle mie labbra, ve lo giuro su Dio.

Annuì, affidandosi a quel giuramento. Quell’uomo non poteva essere uno spergiuro. – Io non lo sopporto. – si sfogò, prendendosi la gonna tra le mani. – Ho letto le sue lettere, ho visto i suoi regali. Altisonanti e pomposi. Non me ne faccio nulla. Come posso amare un uomo del genere?

– I matrimoni non sempre avvengono per amore. – le diede la stessa risposta di sua madre quando lei cercò di spiegare cosa provava.

– Allora, – proseguì. – come posso avere una convivenza pacifica con un uomo che come mi ha in suo possesso mi mette le catene?

Il cavaliere alzò un sopracciglio guardandole i polsi. – Non fraintendetemi. – precisò. – Forse non saranno ceppi di ferro, ma impone la sua autorità e il suo potere. È un tiranno! – l’ultima parola le sfuggì dalle labbra e temette di essersi attirata le ire dell’uomo, ma contro ogni aspettativa scoppiò a ridere e le porse il braccio. – Avete una lingua tagliente e onesta, mia signora. Una ventata di aria fresca per il regno. Venite, qui vicino c’è un fiume. Potrete riposarvi là.

Si ritrasse, sospettando che l’uomo volesse ucciderla, ma lui continuò a ridere a intermittenza. – Non vi farò del male. Ho giurato che vi avrei protetta. Il mio re vi vuole al suo castello e io vi ci condurrò.

Si strinse al suo braccio. Qualcosa le diceva di aver fiducia in lui. Lo aveva osservato con i suoi uomini attorno al fuoco, prima che si ritirasse per la notte, e aveva notato come li chiamasse per nome mentre ne ascoltava i problemi e i dubbi. Aveva sempre avuto una parola di incoraggiamento e di lode quando loro si abbattevano. Quello doveva essere il comportamento di un vero condottiero e si era guadagnato il rispetto e l’amore dei propri uomini.

Si sedette vicino al fiume con un tetto di foglie sopra testa a riparlare la pelle bianca dalla luce e si sentì rinfrancata dallo scrosciare allegro dell’acqua accanto. Il cavaliere era al suo fianco che si guardava intorno senza mai smettere di tenere la mano sulla spada.

Lei, d’altro canto, intrecciava fiori per farne una corona da regalare a Laira mentre canticchiava a bassa voce. – Avete sempre l’aria preoccupata e tesa. – disse senza alzare la testa.

– Fanciulla, – a quella parola le guance le divennero calde – sono molte le cose di cui devo preoccuparmi.

– Ora, – chiese lei. Non sapeva se ridere o sentirsi offesa per la libertà che lui si era preso – sarei una fanciulla?

Lui si avvicinò, trafiggendola con quegli occhi colore dell’erba. – Sì. Siete una fanciulla. – le sistemò un fiore tra i capelli biondi appena sopra l’orecchio. – Delicata come un fiore e altrettanto fragile.

Una mano corse al fiore tra i capelli e se lo tolse. – Mi dispiace, – disse mettendoglielo sul palmo – siete un uomo gentile, ma se siete leale al vostro re non dovreste prendervi libertà del genere. – E se lei doveva per forza sposarlo, si sarebbe sforzata cominciando nel migliore dei modi.

Il cavaliere fece due passi indietro, riprendendosi il suo regalo. – Ai vostri ordini, mia signora. – non era freddo, anzi, era cordiale come prima e il sorriso non smetteva di illuminargli il volto.

Si alzò, raccogliendo la corona di fiori che aveva terminato e rassettò il vestito, più tranquilla, ora che aveva fatto una passeggiata. – Vi ringrazio per avermi portato in questa radura. Ora sarà meglio tornare indietro.

Fece in tempo a fare una decina di passi, quando l’uomo la afferrò per la vita e la spinse a terra. Rotolò stretta tra le sue braccia e con la gonna che si avvolgeva intorno alle loro gambe. – Cosa state facendo? – sbraitò. Ma lui non la ascoltava. Steso su di lei, scrutava la foresta con l’asta di una freccia gli spuntava da una spalla. – Siete ferito!

– Maestà! – le due guardie accorsero in loro soccorso e lui scalciò via le gonne dell’abito rialzandosi.

– Trovate chi ha lanciato questa freccia! – abbaiò lui. – Proveniva dall’altra sponda del fiume!

I due uomini scattarono sull’attenti. – Agli ordini, maestà!

Era ancora stordita per la caduta e le girava la testa, ma aveva sentito chiamare il cavaliere ‘maestà’. Non si erano rivolti a lei. Lo guardò sottecchi, stava dritto in piedi con la spada sguainata. Quando lei cercò di rialzarsi lui la fulminò con lo sguardo. – State giù. Quella freccia era per voi. – lei scosse la testa e si sedette.

Aveva smesso di essere rispettoso. Aveva smesso di trattarla con cortesia. Era freddo e con i sensi in allerta. Il vento scuoteva gli alberi e si stavano avvicinando pesanti nubi cariche di pioggia.

– Chi siete voi? – domandò lei guardando il cielo riconoscendo i segni. Li aveva già visti in passato quando sua madre si arrabbiava.

La ignorò e si strappò la freccia dalla spalla, non doveva essere penetrata in profondità, ma sembrava comunque una ferita dolorosa.

Chi siete voi? – ripeté alzando i toni.

La guardò un attimo, prima di tornare a scrutare la foresta. – Io sono Artù, re di Camelot. Non avrei permesso a nessun altro di venirvi a prendere, Ginevra. – un fulmine squarciò il cielo, colpendo un uomo che era appena uscito dal bosco con la spada sguainata, riducendolo in cenere. – E finché sarete sotto la mia protezione, nessuno vi toccherà.

 

Verity si svegliò di soprassalto con il fiatone. Era un sogno. Solo un sogno, eppure sentiva su di sé lo sguardo di quell’uomo, nelle narici l’odore di zolfo del fulmine e aveva la sensazione del grasso bruciato che le ricopriva la pelle e si attaccava alle labbra.

Nonostante respirasse a bocca aperta, l’aria non le riempiva i polmoni.

– Un brutto sogno? – la voce maschile la fece sobbalzare come se avesse ricevuto uno schiaffo. – Ti agitavi da un po’ e alla fine ho deciso di allentare l’incantesimo per permetterti di svegliarti prima che i vicini venissero a controllare quale animaletto avessi raccattato per strada. – la figura in ombra alzò le spalle. – Sai, i miei vicini non sono abituati a sentire le donne urlare. Non me le porto qui. Ho una reputazione da mantenere.

Batté le palpebre riconoscendo quel tono superbo. – Tu! Maledetto stronzo!

– Educata già di prima mattina, vedo. – Michael fece un passo avanti uscendo dall’ombra del muro. Aveva addosso una camicia con il colletto slacciato e un paio di pantaloni neri sorretti da bretelle. Anche se lei lo odiava e non lo sopportava, non poteva negare che con quel vestito e i capelli scompigliati, Michael fosse uno spettacolo da togliere il fiato.

– Non meriti un briciolo della mia buona educazione! – urlò allontanando il pensiero con forza. – Mi hai rapito!

Le sue labbra si piegarono in un sorriso. – Non ti ho rapito. Ti ho preso in custodia fino a data da definirsi.

– Rapito! E ti farò finire il galera!

Il suo sorriso si allargò. – Mia piccola, innocente Carta di Spade, – cominciò avvicinandosi a bordo letto, togliendosi le bretelle e sbottonandosi la camicia. – come pensi di farmi finire in galera? – si tolse la camicia che posò sullo schienale della sedia lì vicino, rimanendo a torso nudo. – Ti sei data un’occhiata prima di minacciarmi?

Verity si guardò. Era seduta su un letto matrimoniale con un lenzuolo bianco a coprirla e aveva le mani legate. Ma non era questo ad averle fatto perdere un paio di battiti del cuore. Aveva addosso solo la biancheria intima ed una canottiera bianca. – Cosa mi hai fatto mentre dormivo? – sibilò, ma quando lo guardò negli occhi la rabbia si sgonfiò come un palloncino.

Per la prima volta da quando l’aveva conosciuto Michael le parve minaccioso. Torreggiava su di lei con gli occhi azzurri ridotti a due fessure e i pugni serrati. – Credi davvero, – scandì lentamente le parole. Sembrava che la temperatura della stanza fosse calata di venti gradi per quanto era freddo. – che ti abbia fatto del male? Pensi che io sia così disperato da prendermi una donna mentre dorme? L’unica cosa che ho fatto, ragazzina, – aggiunse calando su di lei. – è stato cambiarti in modo che non dormissi con gli abiti dell’altro ieri.

Uno spiacevole senso di colpa la pungolò, incitandola a scusarsi prima di ricordarsi cosa avesse fatto Michael. – Se non mi avessi rapita, non avresti dovuto cambiarmi. – ribatté senza guardarlo negli occhi.

– Se non ti avessi preso in custodia, saresti morta. Sbandieri a tutti i tuoi poteri. Non ne hai il controllo. È troppo facile riconoscerti. – la rabbia la avvolse di nuovo come un manto e un vento gelido percorse la stanza, come se volesse dimostrare che Michael aveva ragione.

– Visto? Non hai alcun controllo. – sottolineò lui. – Comunque, scatenati non c’è nulla a cui tenga qui dentro. Ma prima di sfogare la frustrazione, da brava donna sessualmente repressa, vuoi fare colazione?

Quel repentino cambio di argomento la prese in contropiede e Michael ne approfittò per tornare al tavolo quadrato davanti cucinino e Verity si rese conto di dove si trovasse. Quel ragazzo strafottente viveva in un monolocale ben arredato e curato. Il letto aveva lenzuola bianche che profumavano di sapone di Marsiglia ed esaltavano la cornice e i comodini neri. Il resto dell’ambiente era come quel letto. I mobiletti scuri con i vetri fumé incastrati sotto le finestre con infissi bianchi. Perfino la cucina era bianca con maniglie nere. E aleggiava l’aria di una pulizia e di un ordine quasi maniacale.

– Finito di studiare l’appartamento? – chiese Michael con un vassoio tra le mani. Lo mise sul materasso accanto a Verity e prese in mano un bicchiere di carta. – Non amo che la gente mangi a letto, soprattutto nel mio, ma con te sarò buono e farò un eccezione. Quindi, non fare briciole.

Lei guardò la brioche e il bicchiere come quello di Michael, cercando di comprendere cosa le avesse detto. Anche mentre la invitava a mangiare riusciva a essere offensivo, ma la colazione avevano un’aria invitante e lei era affamata.

Mosse i polsi cercando di allentare la cintura che li stringeva. – Mi hai legata. – disse fredda. – Come pensi che possa mangiare e riempirti il letto di briciole con le mani legate?

– Ho solo legato i polsi, – spiegò prima di bere un lungo sorso. – hai ancora l’uso dell’articolazione dei gomiti, ma se vuoi, – lo sguardo corse lungo il suo corpo fino a fermarsi alle coppe del reggiseno che si intravedevano sotto la canottiera. – Posso imboccarti, bocca a bocca. O se preferisci posso metterti le manette, così sei più libera. Ne ho di carine: rosa con i cuscinetti morbidi.

Verity deglutì sotto lo sguardo predatore di Michael. Non le piaceva come la guardava e a cosa alludeva. – Usi veramente le manette? – non voleva avere una risposta, ma aveva bisogno di impegnare la mente.

Alzò le spalle. – E se anche fosse? Non ho mai fatto nulla che una ragazza non volesse. Mi hanno anche pregato. Per cui sì, ho usato anche le manette, ma non qui. Non amo ripetermi, quindi non dimenticarlo: non porto ragazze a casa mia.

Senza voler approfondire di più il discorso, prese il suo bicchiere. Bevve appena un sorso con il profumo della brioche che la stava torturando. Per poco non si fece andare la bevanda di traverso. – Ma che schifo è?

– Un caffè.

– No! Io vengo dall’Italia. – disse guardando il bicchiere. Il gusto era terrificante. – Lì fanno il caffè. Nero, molto forte e aromatico. Questo è… – si bloccò cercando la parola giusta. – è acqua al vago aroma di caffè! Vuoi avvelenarmi? – Michael si prese tutto il tempo di prenderle la tazza dalle mani e spostare il vassoio sul pavimento. Si muoveva con lentezza esasperante, come se fosse la cosa più naturale del mondo avere una ragazza legata sul suo letto che stava per farsi andare un caffè di traverso. – Non ti piace il caffè americano? – domandò sedendosi accanto a lei.

Se avesse potuto avrebbe incrociato le braccia al petto, ma si limitò a sbuffare. – I fondi di caffè passati in una moka italiana hanno più gusto di questo schifo.

– Peccato che non troverai altro che caffè americano qui. – le afferrò i polsi con una mano e ricaddero entrambi sul letto con lui a cavalcioni sopra di lei. – Cioè, ti potrei procurare un espresso, Verity, ma qui tutto ha un prezzo.

Le passò una mano sul ventre e lei represse un brivido di disgusto. – Non osare toccarmi!

Le sfiorò la guancia con il naso ignorandola. – Perché fai tanto la difficile? Non c’è niente di male in un po’ di divertimento. Siamo adulti e vaccinati.

Odiava sentirselo addosso, odiava tutto di lui. Il suo modo rassicurante di parlare. Il modo con cui gestiva la situazione in maniera distaccata, senza sentimenti. Alessio l’aveva accarezzata in quei punti, l’aveva toccata con dolcezza quasi tutte le sere da quando era andata a vivere con lui. Avevano fatto l’amore ogni volta che era possibile, anche mentre litigavano. C’era sempre qualche sentimento che la legava ad Ale, ma Michael... Michael le faceva ribrezzo perché era glaciale. La stuzzicava nei punti in cui era più sensibile e si godeva l’effetto, ma era lontano con la mente, assente. Non aveva mai odiato tanto una persona.

Come Michael avvicinò di nuovo il viso al suo, Verity gli tirò una testata al volto e le si appannò la vista. Non aveva mai capito l’espressione ‘vedere le stelle’, ma davanti ai suoi occhi si accesero tante lucine colorate. Mentre cercava di recuperare l’uso della vista, sentì l’acqua scorrere poco lontano da lei. Nonostante fosse sfocato e la testa le pulsava, vide Michael tamponarsi il viso con un asciugamano. – Ringrazia il cielo che guarisco in fretta. Mi hai rotto il naso. – gettò l’asciugamano sporco di sangue a terra e notò che il gonfiore e il livido sparivano lasciando il posto a un naso integro.

Un naso perfetto, su un viso perfetto.

Era un invito a spaccarglielo di nuovo se Michael si fosse avvicinato come prima. Verity ringhiò, retrocedendo sul materasso. – Non osare toccarmi di nuovo.

– Hai l’aria stordita. Non sei ancora guarita del tutto? Era solo una botta. – lo guardò senza capire e il sorriso di Michael lampeggiò di nuovo. – Da quanto sei un Arcano, Verity?

– Non sono affari tuoi!

– Oh sì, che sono affari miei! La regola vuole che io ti uccida. Il motivo per cui sei qui è questo: avere informazioni da te, divertirmi e poi farti diventare una Carta del mio mazzo. A dir la verità potevo fare le cose anche in ordine inverso, ma preferisco avere le informazioni senza sentire il servilismo nella voce che hanno le carte. Se posso lo dire, te la sei giocata bene. Mi hai  rotto il naso e mi hai sporcato le lenzuola cambiate ieri, non me lo aspettavo.

Verity si strattonò di nuovo i polsi cercando di liberarsi. Non poteva morire per mano di quel ragazzo meschino. Aveva una persona da vendicare. L’immagine del corpo senza vita di Alessio le balenò davanti agli occhi e con esso anche il biglietto che aveva trovato.

La sua rabbia esplose e un vento gelido invase la stanza distruggendo le finestre e rovesciando le sedie. Se prima aveva avuto la sensazione che la stanza si fosse raffreddata, ora la temperatura era scesa sottozero. La cintura che la teneva legata di congelò e le la strappò via. – Perché per arrivare a me hai coinvolto Alessio? Perché l’hai ucciso? E chi è Atlaeia? – urlava per sovrastare quel vento ghiacciato.

Michael rimase immobile a braccia incrociate guardando il suo mobilio che si copriva di brina. – Verity, calmati. – il vento si bloccò di colpo e il fiume dei suoi sentimenti si prosciugò come se qualcuno avesse costruito una diga. Li sentiva in un recesso della mente, ma non riusciva a raggiungerli. – Che mi hai fatto? – gridò sentendosi impotente.

Lui si massaggiò le tempie e poi la guardò con gli occhi azzurri brillavano di rinnovato interesse. – Hai detto Atlaeia?

– Perché hai ucciso Alessio? – ribeccò lei, cercando di raggiungere nuovamente la sua rabbia.

– Non so chi sia questo Alessio. Mi interessa Atlaeia, chi è? Quel nome non mi è nuovo.

Scosse la testa. – Io lo sto chiedendo a te! Tu e quel dannato biglietto che mi invitava a Parigi! Ora sono qui! – si liberò delle lenzuola con un calcio e si mise in piedi sul materasso. – Perché per arrivare a me hai dovuto uccidere il mio ragazzo? Non ti bastava mia madre?

Per la prima volta da quando si erano conosciuti, Michael era sconcertato. – Il tuo ragazzo è morto? Era come noi? Un Arcano?

Il dubbio le accese un campanello in testa, ma lei si rifiutò di dargli retta, sicura di avere davanti il responsabile della morte di Alessio. – Dovresti saperlo bene visto che gli hai sparato al petto.

Lui si grattò l’accenno di peluria sul mento camminando avanti e indietro. – Fammi capire: il tuo ragazzo è morto e un biglietto ti ha condotto qui a Parigi? E tu dove eri? In Italia?

– A Roma. – precisò.

– Beh, – disse Michael con un sorriso infilando le mani in tasca. – Questo mi scagiona. Io non sono mai stato a Roma.

– Bugie. – sussurrò lei minacciosa. Non gli avrebbe mai creduto. Mai.

– Te lo potrei anche provare, quando è successo?

Scosse la testa, rifiutando di ascoltare lui e quella parte di lei che le diceva di calmarsi e ascoltarlo. – Cazzate! Ridammi i miei poteri!

– Verity, rispondi.

Di nuovo, sentì una strana pressione dentro di sé. Prendeva possesso di una parte di lei costringendola ad obbedire. – Tre mesi fa. Dovresti saperlo. – rispose controvoglia.

Michael rise talmente tanto forte che Verity saltò giù dal letto per tirargli un calcio, ma lui le afferrò la caviglia. – Sai dove ero tre mesi fa? In Russia. A rubare una croce bizantina ad un collezionista. Vuoi le prove? Cerca su internet. Accendi la tv. Ieri ho rubato il diamante sulla Torre Eiffel. Io sono il migliore di tutti, Verity. Mi cercano per i furti impossibili. Due mesi fa ero a Monaco a derubare una delle banche con il miglior sistema di sicurezza d’Europa. Ero occupato a progettare i miei lavori e non potevo pensare al tuo fidanzatino. E poi, io torno a Parigi per pochi giorni al mese. E non per incontrare un donna cocciuta come te. – strinse la presa sulla caviglia mentre le sorrideva. – Ora, dimmi di Atlaeia. Lei mi interessa.

– Non so nulla di Atlaeia! – Michael mollò il suo piede e la afferrò per le braccia, stringendo fino a strapparle un grido di dolore.

Dimmi di lei! – ordinò. La sua voce le pressava la testa tanto da stordirla. Era sia dentro che fuori.

– Non so nulla! Il suo nome era su un biglietto accanto al corpo di Alessio. – il ricordo tornò più vivido che mai e ricacciò indietro le lacrime. Il corpo di Alessio era ancora caldo quando lo aveva trovato e lei gli aveva chiuso gli occhi prima vedere il bigliettino e chiamare la polizia. Non lo aveva mostrato alle autorità, ma lo aveva tenuto per sé con un angolo del pezzo di carta macchiato del sangue del ragazzo che amava.

La presa sulle braccia si allentò, ma non la lasciò andare tenendola inchiodata contro il muro. L’espressione di Michael si addolcì. – Non piangere. – le sussurrò. Anche se non era un ordine, lei si fermò. Era la prima volta che le parlava in quel modo, quasi gli importasse di non vederla stare male. Si rilassò contro il muro, stremata dal dolore, forte come una pugnalata. Le mani di Michael scesero fino a chiudersi sui polsi. – Da quanto tempo sei un Arcano? – chiese. C’era la stessa forza che l’aveva costretta a rispondere, ma i toni erano più calmi, quasi gentili.

– Circa sei mesi.

Chi lo era prima di te?

Un angolo della sua mente si chiese perché dovesse rispondere a quell’interrogatorio, ma la sua bocca parlò staccandosi dal cervello. Voleva solo rispondergli. – Mia madre.

Chi sei?

– Verity Jensen. – non aveva più forze per opporsi. Voleva solo chiudere gli occhi e sperare di non sognare. Non voleva farlo mai più. Gli incubi si alternavano a sogni impossibili su Alessio.

Michael alzò gli occhi al cielo, prima di ridurre ancora di più lo spazio tra di loro. Sembrava fosse pronto a prenderla nel caso lei non riuscisse più a reggersi in piedi. – Chi sei come Arcano?  – la incitò.

– La Regina di Spade. – Michael la lasciò andare. La pressione sul suo cervello sparì lasciandola svuotata e il sonno sparì come era arrivato. Le girava la testa e sentiva lo stomaco pesante come se dovesse vomitare.

– Sei la Regina di Spade? Tra tutti sei… – Verity non sentì le ultime parole di Michael, perché in quel momento la porta d’ingresso venne scardinata con un violento calcio e sbatté contro il muro coprendo i due ragazzi di intonaco e calcinacci.

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NdA: Ormai aggiornare sta divendando una specie di miracolo, ma sono sempre felice di farlo. Vorrei aggiornare più in fretta (e scrivere 2-3 capitoli a settimana se potessi), ma voglio fare le cose per bene e lavorare sulla storia prima darvela. Cerco di consegnarvi il miglior lavoro possibile, mettendoci impegno e passione :3
Spero di non farvi attendere secoli per il prossimo capitolo, l'ho già stampato, devo solo editarlo e sistemarlo (spero presto)
A presto

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Capitolo 6
*** 1.5 Il Mago - Il Gioco delle Alleanze ***


1.5 Il Mago - Alleanze

I – Il Mago

Il Gioco delle Alleanze

 

Quartiere Latino, Parigi. 16 luglio 2011

 

Michael guardò allibito il suo appartamento ricoperto di polvere bianca, la porta scardinata rovesciata sul letto e le finestre ridotte in frantumi. Il padrone di casa gli avrebbe presentato un conto astronomico per quel disastro. Per non parlare della vecchietta due piani più sotto che non si faceva mai gli affari suoi e che sarebbe comparsa per lamentarsi del rumore. Il danno che avevano appena fatto alla sua immagine era disastroso. Aveva passato anni a fingere con i vicini di essere un tranquillo studente disponibile ad aiutare le vecchiette a portare la spesa su per le scale e ora la copertura era saltata.

– Scusate il disturbo. – disse un ragazzo entrando in casa, togliendosi la polvere dalla maglietta nera. Michael lo squadrò da capo a piedi, imprimendosi in mente la sua fisionomia. Alto, capelli mori e lisci, e l’aria di chi si trovava a proprio agio nel caos. Subito dietro di lui, entrò un gigante con la testa rasata, le spalle larghe avvolte in un completo nero e occhiali da sole. E l’aria di chi portava guai.

– Se ti dispiace per il disturbo, – disse Michael nascondendo Verity dietro con il suo corpo. – esistono il campanello e il citofono. Ti avrei detto che stai disturbando.

Lo sconosciuto lanciò un’occhiata a Verity, per poi tornare su di lui. – Lasciala andare via, Dubois. – lo guardava dall’alto dando ordini secchi. Michael lo prese in antipatia. Era a casa sua e si permetteva di trattarlo con superficialità. Chiuse gli occhi, ricordando com’era tranquillo il suo rifugio prima che Verity e il pazzo entrassero nella sua vita. – Visto che mi hai appena distrutto casa, potresti almeno presentarti, così so a chi mandare il conto.

Lui si batté i pantaloni togliendosi altra polvere e intonaco. – Christian Courteney. Ora che abbiamo finito le formalità, posso passare alla parte in cui ti uccido? Ci sono delle persone che mi attendono e tu devi essere morto.

Dietro di lui, Verity sbuffò. – Uomini, sono tutti così teatrali.

Michael sorrise dentro di sé. Anche in situazioni di pericolo, Verity riusciva a essere acida e sarcastica. Probabilmente faceva anche a pugni come un uomo. Poco femminile per i suoi gusti, ma la sua presenza era utile per tagliare la corda in quel momento.

La afferrò per il braccio e la tirò davanti a sé, mettendole alla gola il coltello che teneva in tasca. Non voleva ferirla, ma aveva bisogno che distraesse i due uomini un po’. Lui era una carta che giocava con la mente delle persone. Distrarre da una parte e agire dall’altra, questo era il suo motto. – Mettiamo le cose in chiaro, – vide una goccia di sangue scorrerle lungo il collo e allentò un po’ la pressione. – ora me ne vado e se non vuoi coinvolgere un’innocente ti consiglio di restare là. – camminava rasente il muro per non dare le spalle all’energumeno che accompagnava Christian e strattonò Verity per costringerla a seguirlo. – Fa attenzione a non inciampare. – sussurrò alla ragazza. – Potresti tagliarti il collo.

– Toglimi il coltello dalla gola così non c’è alcun rischio. – ringhiò a denti stretti.

Le sfiorò la tempia con le labbra. – Mi dispiace, ma non posso farlo. E mi dispiace averti messo in questo casino. – guardò Christian che rimaneva immobile al suo posto. Gli lesse l’indecisione negli occhi, stava sul serio prendendo in considerazione di coinvolgere anche Verity e rischiare che si facesse del male per arrivare a lui?

Christian strinse i pugni lungo i fianchi con gli occhi ridotti a due fessure. – Non hai idea di quello che stai facendo. Non puoi scapparmi. Ti troverò e ti staccherò la testa dal collo. – fece un cenno all’uomo, che si mise accanto a lui in attesa di ordini.

– Verity, devo andare via. – si avvicinò alla finestra, sentendo l’aria fresca e la promessa della libertà.

– Spero che tu faccia un buon viaggio all’altro mondo. – gli rispose con freddezza. – Ti odio.

Lanciò un’occhiata rapida alla finestra con i vetri distrutti e il suo cervello progettò un piano di fuga. – Non è il momento per dirtelo, ma ho frugato in casa tua. – parlò portandosi verso la finestra. Un tuffo dal settimo piano era troppo anche per lui, ma poteva uscirne vivo se se la giocava bene. L’unico problema era la ragazza, non gli piaceva l’idea di usarla per distrarre Christian. – E per quello che ho preso nella tua borsetta. Ti cercherò, te lo prometto e parleremo di nuovo. Cerca di rimanere in vita.

Cosa? – gridò. La spinse verso Christian e lanciò il coltello contro l’energumeno prima di saltare fuori dalla finestra.

Mentre cadeva sul terrazzo due piani più sotto, sentì le maledizioni del ragazzo e le imprecazioni del suo scimmione, ma non si fermò ad ascoltarle. Scavalcò il parapetto e si incamminò rasente muro sul cornicione pensando a dove metteva i piedi e a Verity sola ad affrontare quei due, sette metri più in su. La Regina di Spade. Di tutte le carte che potevano venire a Parigi proprio lei doveva incrociare la sua strada. Sperava Christian si fosse levato dai piedi senza scoprire la vera natura di Verity.

Girato l’angolo, scavalcò un terrazzo. Più avanti c’era un appartamento libero dove poteva entrare e lasciare che le acque si calmassero, poi sarebbe andato sul tetto per prendere ciò che aveva lasciato in caso di emergenza e si sarebbe dileguato.

– Signor Dubois. – la voce della signora Monreau lo fece fermare. Quella vecchia sapeva essere più silenziosa di lui e lo aveva preso alle spalle sulle scale più di una volta. Anche se aveva fatto delle ricerche su di lei e aveva chiesto a dei suoi amici, non era saltato fuori nulla, nemmeno un multa per divieto di sosta e non gli piaceva. Una fedina troppo pulita era una fedina piena di segreti. La signora Monreau si sporse dalla finestra con i bigodini in testa. – Cosa fa sul mio terrazzo? E quei rumori in casa sua! Mi ha fatto prendere un colpo. Il mio povero cuore! – parlava in modo petulante e affrettato e Michael si chiese quando avrebbe tirato fuori il suo amato marito defunto. – Non ho più vent’anni, – proseguì lei con la sua ramanzina – dovrebbe avere rispetto per le persone anziane. Cosa sta succedendo in casa sua? E poi, perché è a petto nudo? Vuole prendersi un accidenti? Se vuole le presto una delle canottiere del mio amato Tobias, a lui non dispiacerebbe. – Appunto, pensò Michael, eccolo. Ora comincia con: tanto caro il mio amato Tobias... e chi la ferma più. – Tanto caro il mio Tobias, sempre disposto ad aiutare gli altri. A me e a Niege manca da morire. – ovviamente, doveva parlare anche del suo gatto che aveva l’abitudine di rifarsi le unghie sui suoi pantaloni di Armani. – E a Niege mancano anche quei bocconcini che lei compra in macelleria, li adora. Dovrebbe venirmi a trovare più spesso, sa signor Dubois? Racconta delle belle storie. E se dopo passa, potrebbe portarmi giù la spazzatura? E controllare il filo dell’antenna? La televisione non funziona molto bene, i canali saltano sempre.

Maledetta impicciona amante dei gatti bianchi, pensò. – Signora Monreau. – disse con un sorriso smagliante interrompendo quel torrente di parole. – Mi fa piacere incontrarla qui. – lanciò un’occhiata significativa al terrazzo con le piante che si stavano seccando al sole. – Ci sono delle motivazioni molto valide per tutto. In casa mia stanno facendo dei lavori di restauro e ci sarà un po’ di rumore. E sono qui perché… – si guardò intorno, cercando una scusa convincente. – Perché anche la mia televisione ha qualche problema e volevo controllare i cavi. Li ho seguiti fino a qui e ho visto che anche i suoi rovinati. – creò un illusione e indicò i fili fittizi che correvano lungo il muro. In alcuni punti erano spelacchiati e la guaina crepata. – Ora salgo sul tetto e controllo l’antenna, poi torno e vedo cosa posso fare anche per quelli.

La vecchia annuì, vinta dal suo incantesimo. – Oh, come è caro! Aspetti le porto qualcosa per i suoi sforzi. Lo dicevo sempre a Tobias: il signor Dubois è un ragazzo a modo, scommetto che le ragazze fanno la fila per uscire con lui! Sì, sì, questo dicevo al mio amato Tobias.

Avrebbe dovuto sparire nel momento esatto in cui la signora si era allontana, ma non poteva spezzarle in cuore abbandonandola a metà di un discorso. Nemmeno se lui era in pericolo di vita. Mantenere una buona presenza e mostrarsi al meglio, suo padre glielo ripeteva sempre. La donna aprì la portafinestra del terrazzo con in mano un piatto di biscotti che Michael non poté fare a meno di accettare con un sorriso. In gatto le passò in mezzo alle gambe, finendo per strusciarsi su di lui facendo le fusa, prima di usarlo come tiragraffi. Malefico gatto, li avevo messi puliti ieri notte dopo che ho dovuto buttare il Westwood.

Allontanò il gatto con un piede, mantenendo sempre il sorriso. – Cosa diceva? – domandò alla signora Monreau.

– Delle ragazze! Scommetto che fanno la fila!

– Non sono poi tante. Giusto un paio. – rispose quasi spezzandosi un dente sul biscotto.

– Dovrebbe sistemarsi, signor Dubois. Alla sua età io e il mio Tobias eravamo già sposati. Deve passare a vedere le foto del matrimonio…

Michael alzò gli occhi al cielo. Le aveva già viste ventisette volte. Abbandonò il biscotto sul davanzale, impietosito per il povero uccello che avrebbe provato a beccarlo. I dolci della signora Monreau erano più duri dei sassi. – Mi dispiace interromperla, ma devo andare sul tetto a controllare l’antenna. Posso passare per casa sua? – senza aspettare una risposta la mise da parte e attraversò la cucina che odorava di aglio.

– Sicuro che non vuole una maglia del mio Tobias? – urlò la vecchietta mentre lui si chiudeva alle spalle la porta d’ingresso. Controllando che Christian e il suo energumeno non fossero da quella parte del palazzo, si mosse verso gli ascensori e poi fino al tetto. Si sedette sulle tegole di ardesia a riprendere fiato, ora che era lassù era in vantaggio. Avrebbe preso ciò che gli serviva e poi sarebbe sparito dal radar di Christian. Facendo attenzione a non scivolare, raggiunse uno dei comignoli e tirò fuori dalla cerata lo zaino per le emergenze con su scritto il numero quattro. Ne aveva sparso diversi in giro per la città, ognuno con del contenuto diverso in base alle sue esigenze e con dei documenti falsi. Si mise la ricetrasmittente all’orecchio, e tirò fuori un’anonima maglia blu e dei jeans scuri. Stringendo la cintura, ascoltò le conversazioni che avvenivano in casa sua.

– E ora come si sente, signorina? – chiese una voce burbera che Michael identificò come il gigante che accompagnava Christian.

– Se potessi sbattere la testa di Michael contro un muro, meglio. – Michael deglutì, ma non per la minaccia nella voce furiosa di Verity, ma perché era ancora con quei due. Sperava che lo avessero inseguito lasciando lei indietro.

– Signorino, non crede che…

– Mikelich, va a controllare i corridoi e la strada. – ordinò secco Christian, nemmeno quando aveva minacciato lui era stato così freddo e perentorio. – Perquisisci la sua macchina e chiedi ai vicini informazioni su di lui Dubois. Cosa fa nel tempo libero, chi sono i suoi amici. Voglio sapere tutto, Chiaro? Devo trovarlo.

– Ma, signorino…

– Niente ma! Fa’ questa cosa! Non sono un bambino, me la posso cavare da solo. Tu vai, intanto io penso alla ragazza. – sentì dei passi pesanti in sottofondo e lui strinse ancora di più la ricetrasmittente. Il gigante se n’era andato lasciando Christian e Verity da soli. Sarebbe stata l’occasione buona per tornare al suo appartamento e affrontare Courteney.

– So cosa sei. – la voce del giovane lo immobilizzò. Stava parlando con Verity? Sapeva chi era?

– Una stupida che è riuscita a farsi rapire e derubare. – attraverso la ricetrasmittente la voce di Verity gli arrivava stanca e arrabbiata. – Ma appena lo prendo gli faccio ingoiare il coltello.

– Riprenderemo ciò che ti ha preso, tranquilla – Christian rise. – Tu stai bene? Ti ha fatto del male?

– A parte sequestrarmi a casa mia? Una meraviglia!

Si morse la lingua trattenendo un’imprecazione. C’erano fin troppe cose che stavano andando storte, ad esempio: quei due insieme. – Aspetta! Non puoi uscire così. Sei in mutande e la gente si farà delle domande. Non hai qualcosa da metterti?

– Li avevo, ma chissà dove li ha gettati quello là. Potrebbe anche averli bruciati per quel che ne so.

Susseguì l’aprirsi e il richiudersi dei cassetti e qualche sonora imprecazione in italiano da parte di Verity mentre rovistava in casa sua.

– Sono tuoi? Li ho trovati nella cabina armadio. – domandò Courteney. Forse aveva trovato i vestiti che lui aveva preso la notte prima.

– Non avevo jeans, ma un abito nero e oro.

– Questi sono da donna. Mettili, sembrano della tua taglia.

– Non mi metto vestiti di un’altra donna! Tra l’altro di una che è andata a letto con quello. – a Michael scappò una risata, Verity non aveva capito che lui non portava donne a casa. Lei era la prima e sarebbe stata l’ultima visto i guai che gli aveva procurato.

– Veramente, sono nuovi. – proseguì Christian. – Vedi l’etichetta? Aspetta! Dobbiamo metterci d’accordo.

– Passami i pantaloni.

– Prima ascoltami. Non so come mai tu fossi qui, ma non pensavo di incontrare un altro Arcano oltre a Michael. Non voglio farti del male, ma ho bisogno di sapere da che parte stai.

– Dalla mia. – rispose acida. Altre porte sbatterono e ci fu il silenzio per qualche secondo. – Quel maledetto stronzo! – la voce di Verity lo fece sobbalzare. Era così arrabbiata che sembrava che gli stesse urlando nelle orecchie. – Quel bastardo! Come ha potuto? Come ha osato! Ti tutte le cose che... – si scostò l’auricolare dall’orecchio quando qualcosa si frantumò contro il muro e non sentì il resto delle imprecazioni.

– Quello che hai lanciato era un vaso? Credo che fosse dipinto a mano.

Per un attimo la tempia gli si imperlò di sudore. Se era il vaso che immaginava lui, qualcuno non l’avrebbe presa bene. Aveva rubato il vaso per fare un dispetto e tenuto con cura e ora era in briciole.

– Avrei preferito che fosse la testa di Michael! Mi ha frugato nella borsa quel maledetto!

– Cosa ha preso? – Christian parlava in modo basso, dolce e gentile come se avesse a che fare con una tigre affamata. Michael ebbe l’impulso di scendere e prenderlo a pugni. Si mise una mano in tasca, sentendo il freddo cerchietto d’oro. Non doveva valere poi molto, era piccolo e la pietra quasi invisibile, al massimo un paio di centinaia di euro. – Mi ha preso l’anello di fidanzamento. L’unica cosa che mi era rimasta di Ale.

 Gli si fermò il cuore per la tristezza che percepiva nella sua voce. Quella cosa insignificante che aveva in tasca era l’anello che le aveva regalato il suo ragazzo morto. Quanto tirchio era stato per regalarle un oggetto così insulso? Lui non aveva mai regalato anelli, e mai lo avrebbe fatto, ma per la proposta avrebbe dato alla donna che gli avrebbe incantato il cuore qualcosa che costringesse alla gente a girarsi e guardarla a bocca aperta. L’anello che aveva preso poteva comprarlo chiunque.

Lo aveva scelto per me, – continuò Verity con voce rotta. – Sapendo che l’acquamarina era la mia pietra preferita. Non mi è rimasto altro di Ale.

E lui l’aveva preso senza rimorso, voleva giocare con lei, dimostrarle che poteva avere qualunque cosa volesse e poi torturarla e vedere le sue reazioni, non aveva immaginato cosa ci fosse dietro quell’anello. – Impara a non mettere al sicuro le cose a cui tiene. – mormorò gelido. Si chiese quando si sarebbe accorta delle carte che le aveva portato via. Quelle avevano valore, lasciavano Verity scoperta e alla mercé di un qualsiasi aggressore. Se Courteney l’avesse attaccata, avrebbe potuto contare solo sulle forze e non se sarebbe uscita viva. Forse doveva tornare giù e...

Si lasciò sfuggire un gemito. – Non è possibile! – esclamò. Dal giorno in cui l’aveva conosciuta i suoi pensieri deviavano nella sua direzione, quasi non ne avesse più il controllo. E lui aveva sempre il controllo su tutto, anche sui suoi bisogni di base.

– Voglio proporti un affare. – continuò Christian cercando l’attenzione di Verity. – Tu mi dai una mano a prendere Dubois e io ti restituisco l’anello. – la proposta di Courteney fu una doccia fredda. Aveva commesso un errore nel rubare l’anello e ora lei aveva un motivo per dargli la caccia. Verity avrebbe accettato l’offerta e Michael avrebbe incrociato di nuovo la strada della Regina di Spade. Solo che sarebbe stato contro di lui. Se Courteney se la fosse giocata bene, e Michael al suo posto lo avrebbe fatto, avrebbe riempito la testa di Verity di bugie sul suo conto, dipingendolo peggiore di quanto in realtà non fosse. – Ma la cosa non ha importanza, – disse a se stesso. – è una ragazza come le altre. Posso gestirla.

– E perché dovrei farlo? – replicò Verity guardinga.

– Perché sono l’unico che può aiutarti. Sono due mesi che do la caccia a quel ladro: tra false identità, prestanome e rifugi sicuri ha talmente tante vie di fuga che non ti basterebbero tre vite a ritrovarlo.

– E tu invece sì?

– Ho imparato a riconoscere il suo modo di agire e di muoversi. Con le conoscenze di Mikelich e le mie risorse economiche possiamo ritrovarlo.

– Se sei tanto bravo perché non te lo cerchi da solo? – udì la stoffa strapparsi e la rabbia che provava per Courteney aumentò. – Ma che fai? Lasciami! – urlò Verity.

Michael sperò che quella strappata fosse la canottiera e che il resto si trovasse ancora al suo posto. Anche se giocava con le donne, non gli piaceva che venisse usata la violenza su di loro.

– Perché io non sono la Regina di Spade. – mormorò Courteney – E la Luna non mi ha appena risparmiato la vita quando poteva usare i miei poteri sul vento per fuggire. È interessato a te e io ti voglio dalla mia parte.

Dì di no, Verity, non accettare, ti si rivolterà contro alla prima occasione, la implorò lui sperando che i pensieri le arrivassero. Se la storia era vera, quei due avevano un legame che superava il tempo, doveva esserci di più di un rapporto fisico e la sofferenza che li marchiava entrambi. Lei doveva sentirlo.

– Vuoi usarmi come esca?

– Sì.

– Pensi che sia così stupido da cascarci?

– No, visto che ci sta ascoltando. Sono sicuro che sappia già tutto. E anche se non avesse piazzato delle microspie in casa, ci sarebbe arrivato da solo vedendoci, ma ci sono legami che non si possono spezzare e io conto su questo. Ehi, Dubois, mi senti? – urlò Courteney nell’appartamento. – I giochi sono cambiati. Io avrò dalla mia la Regina di Spade, volente o no. Cosa farai quando te la ritroverai contro, Luna?

Maledetto bastardo, pensò Michael con un sorriso sardonico, vuoi giocare con me? Giochiamo!

– Ultima domanda: – Verity reclamò l’attenzione su di sé. – perché dovrei fidarmi di te?

– Non ricordi delle tue vite precedenti, vero? Guarisci lentamente, non sai chi è la Luna. Hai ereditato il tuo potere solo da pochi mesi. – arrivò alla stessa conclusione a cui era arrivato lui: Verity era ancora debole e confusa. Una preda facile da uccidere.

– Non mi hai risposto. – incalzò lei. – Perché dovrei fidarmi di te?

Christian rise. – Non ti devi fidare di nessuno. Nemmeno dei ricordi delle tue vite passate. Le persone cambiano, non commettere l’errore di giudicarle da ciò che ricorderai di loro.

– Quindi, non mi devo fidare di te?

– No.

Michael trattenne il fiato aspettando una risposta di Verity. Non poteva prendere in considerazione un’alleanza del genere, non dopo che Christian l’aveva minacciata apertamente. Una volta aveva fatto un errore del genere e stava ancora pagando le conseguenze.

– Metti conto che io accetti, cosa ti impedisce di tagliarmi la gola alla prima occasione?

– Nulla, ma lo stesso vale per te. Anche tu potresti farlo mentre dormo.

Verity sospirò. – Torniamo al discorso della fiducia.

– Non hai molta scelta: o vieni con me o morirai qui. – Michael pensò anche ad una terza opzione, ma non avrebbe rischiato la propria vita per nessuno, nemmeno per lei, poco gli importava che c’era una parte di lui che scalpitasse per tornare giù e sfidare Christian.

– Signorino… – La voce di Mikelich riempì la stanza e Michael iniziò a sudare freddo. Quando era tornato il gigante? E come mai non lo aveva sentito? Non gli importava, c’erano altre priorità. Quei due non avevano ancora un accordo e Christian doveva giocarsi il tutto per tutto. Michael aveva capito che Courteney non si fidava del suo uomo, l’aveva percepito negli ordini secchi che gli aveva dato.

– Mikelich. Prendi in consegna Verity, la portiamo con noi. È nostra alleata e ospite.

– Signorino, non dovrebbe sistemare la faccenda con la ragazza prima di tornare a caccia del ladro?

– No, lei mi serve. – nemmeno Courteney credeva nella scusa che stava imbastendo e si stava arrampicando sugli specchi, se fosse andata avanti così, Verity sarebbe morta prima del tramonto. Se vuoi mentire, pensò Michael tornando agli insegnamenti di suo padre, devi essere il primo a crederci. E Christian non stava credendo alle proprie parole.

Courteney sbuffò. – E se lei verrà a sapere di Verity, – lo minacciò. – sarai il volontario per provare il prossimo antitumorale che la Courteney Corp. sta sviluppando. Sono stato chiaro?

Questo è già meglio la paura funziona meglio della lealtà, Michael sorrise. Sì, avrebbe potuto essere un avversario alla sua altezza se si fosse impegnato.

– Hai scoperto nulla su Dubois? – proseguì il ragazzo.

– Sì, ma glielo dico dopo. – i rumori aumentarono e Michael lanciò via l’auricolare quando un fischio e una scarica elettrica lo avvertirono che la microspia era stata trovata e distrutta.

Prese dallo zaino il cellulare che teneva da parte e fece il numero di quella strega dai capelli castani. – Ciao. – iniziò senza preamboli. – Abbiamo un problema. Ci sono almeno altri tre Arcani in città. E uno è la Regina di Spade.

La risata allegra della donna al telefono lo costrinse ad asciugarsi la fronte per l’aumento improvviso della temperatura. – Non è un gioco. – proseguì Michael freddo. – Come mai non mi hai parlato di lei?

La ragazza rideva senza fermarsi e la luce del sole divenne più intensa mentre i piccioni tubavano in un angolo del tetto. – Non volevo rovinarti la sorpresa. – rispose cercando di trattenersi con scarso successo. – Cosa si prova a rivederla dopo tanto tempo?

Io non l’ho mai vista prima e lo sai. – rispose sempre più gelido. Lanciò un sassolino ai piccioni, in modo che andassero da un’altra parte. Si voltarono a guardarlo male, come se lui li stesse disturbando.

– Tu no, non l’hai mai vista, ma la tua anima sì. O adesso vuoi dirmi che non hai un’anima, fratellino?

Lui scrollò le spalle frugando nello zaino con una mano. – Smettila con questa storia del fratellino. Mi dà i nervi. La situazione è precipitata e devo andare via da Parigi per un po’. – prese il passaporto falso controllando la data di scadenza e l’identità. – Posso contare su di te per tenere d’occhio mia sorella?

– Non puoi usare i cagnolini di Duchessa per tenerla al sicuro?

Metà del suo cervello prestava attenzione alla conversazione, l’altra metà al passaporto. L’idea di chiamarsi Neal Keller, storico, era adatta a lui. Le sue false identità avevano sempre dei lavori autoritari e rispettati. – Non hanno i tuoi occhi. – disse passando il telefono all’altro orecchio. – Mi serve tutto l’aiuto necessario, anche se questo vuol dire chiederti un favore.

– Okay, – rispose la ragazza. – ma prima rispondimi, cosa hai provato rivedendola? È carina come la sua precedente incarnazione? Sua madre era molto bella a vent’anni.

– Non è un mio problema. – non aveva voglia di parlare di Verity, quella ragazza l’aveva confuso e doveva prendersi del tempo per riordinare le idee.

– A me sembra che stia diventando un tuo problema, come ho risposto hai iniziato a parlarmi di lei.

– Dovevi avvertirmi. – accusò. – Non sono riuscito a ucciderla.

– Tu non uccidi. Non era questa la tua politica?

I piccioni di prima si posarono di nuovo sul comignolo, iniziando a tubare più forte che mai. – Non quando si tratta di Arcani. È un guerra ricordi? Mia sorella potrebbe essere in pericolo se scoprissero il nostro legame, ecco perché devo ucciderli per primo. Verity compresa.

– Continui a non rispondermi. – cantilenò lei.

– Non ho provato nulla per lei, chiaro? Nulla! – fissò il comignolo fino a mandarlo fuori fuoco. Non l’aveva uccisa perché era la sua politica, tutto qui. Un gesto di galanteria. Non l’avevano fermato le sue vite passate e la prossima volta che si sarebbero rivisti avrebbe fatto la cosa giusta. – Io non sono Owen. – disse più a se stesso che a lei.

– L’anima alla fine è la stessa. Vogliamo parlare di quando le hai detto che saresti andato a cercarla?

Per poco non lanciò il telefono per la rabbia. Quella donna era sempre due passi avanti a lui. – Da quanto lo sapevi? – sputò a denti stretti.

– Da ieri, mi hai chiesto del diamante. Ho dato una sbirciata al tuo futuro e voilà! Ho visto la Regina di Spade legata a doppio filo con te. A proposito le hai scelto un bel paio di mutandine. Le regali anche a me? E mi devi un vaso nuovo. Puoi iniziare a dipingerlo quando vuoi, tanto te lo spaccherò sulla testa.

Michael ignorò il suo ultimo commento. – Perché ti sopporto? Concentrati su quello che è appena accaduto! Siamo entrambi in pericolo! – inspirò due volte profondamente, ritrovando l’autocontrollo. – Lascia perdere. Dovrei andarmene dall’altra parte del mondo e lasciare che Courteney si occupi di te e della Regina di Spade.

– Non lo farai. Ti conosco. Non la lascerai indietro. – rispose lei seria. – Ci sono molte pedine sulla scacchiera e Verity è un pezzo importante e non puoi fare a meno di me, siamo alleati. Lo sai.

Michael scattò. Erano alleati, ma lei lo teneva quasi sempre all’oscuro finché non tornava utile che lui sapesse. – Non dovevi mentirmi! – urlò stringendo la mano intorno al passaporto rovinandolo.

– Non ti ho mentito, ho omesso un particolare. Verity è un pezzo importante. Tu lo sai, io lo so, fine del discorso.

Espose. Da quella strega non avrebbe mai ottenuto una risposta chiara. – Non mi importa il suo valore per i tuoi piani! Agisce sempre di testa sua!

– Era così anche Emily.

– Lei non è Emily! E io non sono Owen! Smettila di parlare sempre di loro! – tirò un pugno a una tegola e i piccioni lo guardarono male di nuovo. – Non mi importa quanto tempo tu abbia perso a predisporre i pezzi. Quali macchinazioni ci siano dietro. Non ti permetto di usare il mio cuore per arrivare al tuo scopo.

– Ti ha fatto un certo effetto, eh? – anche attraverso il telefono poteva immaginare il suo sorriso sornione. – Non ti ho mai sentito così alterato. In genere sei sempre composto. Mi sono sempre chiesta se oltre l’indifferenza fossi in grado di provare altro. Ecco la prova che Dubois ha un cuore: minacciare la sua preziosa Regina. – il sudore gli scorse lungo la schiena quando la risata della ragazza fece salire la temperatura della città di almeno cinque gradi.

– Non è mia. – sibilò. Non avrebbe permesso che venisse comandato da una donna, nemmeno da una che aveva amato per secoli e che ogni volta che incontrava si abbandonava a lei. Sembrava che il destino lo giocasse. Ogni volta, lei rinasceva in una forma che lo attraeva, completandolo e sorprendendolo ogni volta. I suoi sogni lo avevano sempre messo in guardia, ma lui era più forte e stavolta non avrebbe ceduto.

– Vuoi che ti predica qualcosa? – l’attenzione tornò al telefono. – La Regina del Nord è al centro della scacchiera, tra quattro fronti verranno incrociate le lame. Colui che originariamente ha dato il primo colpo mortale, romperà il cerchio. Degli antichi alleati non ci si deve fidare e di Spade e di Coppe due anime si dovranno piegare. Ehi! Mi piace questa rima, me la segno.

– Ah-ah. – la schernì lui. – Era pessima e non sei d’aiuto. Cos’è questa storia delle Spade, delle Coppe e degli antichi alleati? Non puoi fare una predizioni decente e chiara?

– Hai ragione. – ammise lei e sbuffò al telefono. Un vento torrido gli scompigliò i capelli. – Il mio antenato Apollo era molto più bravo di me con le profezie e le rime, fratellino.

– Smetti di chiamarmi fratellino e impedisci al tuo umore di cambiare il tempo.

Per tutta risposta scoppiò a ridere e il sole splendette più che mai. Michael guardò oltre il tetto. Un paio di turisti che si facevano aria con le loro cartine. – Ehi, ma è la verità! Una volta eravamo fratelli, gemelli per l’esattezza.

– Non siamo parenti te lo posso assicurare.

– I tuoi ricordi non sono ancora completi. Eravamo veramente fratelli. – insistette lei. – Tu eri Artemide, ricordi?

Scosse la testa inorridito all’idea. – No, e non ci tengo a ricordare di essere stato una dea vergine. Trovati qualcun’altro da prendere in giro. Ora, concentrati! La profezia, il futuro. Tutte quelle cianfrusaglie da sciamano che tieni nella stanza ti serviranno a qualcosa, no?

– Non vedo niente. – disse dopo qualche secondo di silenzio.

– Trova il modo di vedere qualcosa. A cosa serve avere il tuo potere se quando servi non vedi nulla?

– Non sto scherzando. Sono oscurata. Non sono ancora state prese delle decisioni vere. Sai come funziona con me.

Michael si mise il passaporto e il portafogli con del contante in tasca. Sì, sapeva come funzionavano i suoi poteri e la cosa lo irritava. Nell’unico momento in cui lei poteva dargli delle indicazioni, era oscurata. Avevano solo una profezia senza senso.

– Non posso vedere nulla finché non inizi a percorrere il tuo destino. Vedo ciò che non può essere cambiato, ma nulla di più.

Michael pensò al libro sulle gemme che aveva letto poche ore prima. – Se decidessi di rubare un grosso zaffiro che aveva preso mio padre, ma che non so dove si trovi al momento, dove mi manderesti?

Attese in silenzio mentre lei scandagliava il futuro ora che era stata presa una decisione. – Uhmm. Ti manderei al Trinity College di Dublino, ti direi di flirtare con una ragazza stramba che inciampa nella biblioteca e vedere come si evolverà la cosa.

– È già qualcosa. – rispose lui, chiudendo lo zaino.

  Non è molto.

Michael sospirò e si sedette sul tetto. – È questo, vero? Quello che mi avevi anticipato quando ci siamo conosciuti. Tutto quello che sta succedendo. Il momento è arrivato?

Ci fu il silenzio, la temperatura scese, gli uccelli intorno a lui smisero di cantare e il sole si oscurò come la vista della persona dall’altra parte del telefono. Erano tutti in attesa della sua risposta. – Sì, – disse infine. – Ha fatto la sua mossa. Uccidendo il ragazzo a Roma ha messo in moto tutto. È iniziata la guerra. 

 

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NdA: seriamente, quanto lenta sono ad aggornare? Non voglio nemmeno controllare. Ho praticamente riscritto questo capitolo e spero che la cosa vi abbia soddisfatto. Questo e il prossimo capitolo chiuderanno la prima parte denominata il Mago che chiude gli avvenimenti di Parigi, poi ci sposteremo.
a presto, Khynan

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Capitolo 7
*** 1.6 Il Mago - La Pietra nel Fango ***


1.6 Il Mago - La Pietra nel Fango

I – Il Mago

La Pietra nel Fango

 

Parigi, 22 Luglio 2011

 

Gabriel era riuscito a uscire pulito dal disastro alla Torre Eiffel. Aveva passato gli ultimi giorni nelle mani della polizia francese che non faceva altro che interrogarlo e lui spiegava con calma il suo punto di vista e cercava di convincerli che non era un terrorista. La famosa torre era quasi distrutta e i francesi volevano qualcuno da punire.

Chi si trovava lì in quel momento era stato preso in custodia è interrogato prima di essere rilasciato, mentre lui, l’unico sveglio, era stato accusato di tutto. Non poteva dire tutta la verità, ma aveva parlato del ladro con cui si era battuto e del modo in cui aveva frantumato le finestre e lo avevano ascoltato a malapena. Le registrazioni delle telecamere erano sparite e non c’era alcuna prova di quello che diceva. Alla fine aveva usato l’unica telefonata a sua disposizione e aveva coinvolto il Mago ed era stato scagionato di tutte le accuse. La televisione aveva smesso di parlare di lui, le foto sui giornali erano sparite e le persone lo guardavano come se fosse un turista qualunque e di questo doveva ringraziare il Mago.

Ripensò allo scontro. Quando era partito da Siviglia non si era aspettato di trovare un altro Arcano tanto presto, sua madre aveva vissuto la sua vita senza mai imbattersi in nessun altro e sempre lei gli aveva insegnato a non agire per primo, ad aspettare e vedere se la situazione si poteva risolvere a parole. Già una volta la sua Carta aveva agito di impulso e aveva commesso un terribile errore e i suoi discendenti non volevano fare lo stesso sbaglio, ma come aveva visto quel ragazzo divertirsi usando il suo potere a scapito di gente innocente, Gabriel non era riuscito a stare zitto. Nel momento in cui il ragazzo aveva distrutto le finestre del primo piano e i suoi occhi avevano brillato argentei mentre diventava invisibile, Gabriel si era reso conto di chi aveva davanti. Conosceva le carte che potevano creare illusioni e la rabbia era stata sostituita dal dolore, solo a una brillavano gli occhi mentre usava la magia. Lo aveva visto succedere nei suoi sogni, quasi tutte le notti per tre anni.

La Luna. Aveva avuto a che fare contro la Luna e non l’aveva riconosciuto. Se avesse saputo chi era realmente Gabriel, sarebbe rimasto a combattere fino a ucciderlo? Se ricordava gran parte del suo passato, sì.

Ma lui non era la Luna che la sua mente ricordava. Agiva d’impulso e lo scherniva con ironia. L’uomo che Gabriel aveva conosciuto invece era mite e gentile, sempre attratto da libri e pergamene desideroso di conoscere sempre di più. Si perse in quei ricordi e ne venne travolto, forti come la prima volta che li aveva provati. Si fermò a riprendere fiato, scosso dalla nausea e dai sensi di colpa. Le sue mani erano coperte di sangue e sentiva le grida dei due bambini nelle orecchie. Ancora e ancora, fino a farlo impazzire. – Basta! – implorò coprendosele. – Vi prego, lasciate mi in pace.

Capiva perché c’erano delle volte in cui sua madre si rinchiudeva in camera a piangere e urlare fino a sfinirsi. Gabriel e suo padre attendevano che si calmasse e poi andavano a consolarla e a riportarla alla realtà. Entrambi sapevano chi era lei e non potevano fare niente di concreto per aiutarla. Dopo quei momenti, Anita lo prendeva tra le braccia e gli parlava della sua carta e di ciò che lo attendeva. Gabriel sapeva che non voleva spaventarlo, ma prepararlo al dolore che non lo avrebbe mai lasciato. – Siamo soli. – gli diceva lei passandogli una mano tra i capelli. – È nella natura della nostra carta cercare la solitudine e non sentirsi a proprio agio tra la folla, ma dopo ciò che lui ha fatto ce lo meritiamo. L’amore che ho avuto da tuo padre e poi da te non lo merito. Non sono mai andata a cercarla per sistemare le cose e non merito ciò che mi avete dato.

Lui. Sua madre non lo chiamava mai per nome se non per maledirlo. E dopo tre anni, Gabriel ne capiva il perché. Il suo antenato Lucas aveva tradito i suoi migliori amici e venduto se stesso al male in persona, in nome di una vendetta che non era mai esistita. Aveva versato del sangue innocente che nessuno dei suoi discendenti era riuscito a lavare via e ora lui viveva con quella colpa.

Siamo soli, ricordò a se stesso.

Le urla dei bambini nella sua testa non lo lasciarono andare, diventando più forti. Si appoggiò contro il muro cercando sostegno, senza sarebbe caduto in preda alla follia. Avrebbe fatto di tutto pur di avere il perdono e cercare l’unica persona al mondo che potesse darglielo. Si sentiva sporco, macchiato fin nel profondo e maledetto per una cosa accaduta millecinquecento anni prima.

– Io so cosa cerchi. – disse una vecchia seduta a un banchetto a due metri da lui. Gabriel non si era accorto della sua presenza finché non aveva parlato. Mescolava velocemente un mazzo di carte con le mani rugose, ma ben tenute. Prometteva la lettura del futuro con quelle carte, ma Gabriel preferiva tenersi il più lontano possibile dai tarocchi.

– Ciò che cercano tutti, vecchia saggia. – rispose neutro. Non voleva essere scortese, non con un’anziana, ma voleva andare via, quelle carte e il movimento ipnotico delle mani gli mettevano i brividi. La donna sembrava fragile e pronta a spezzarsi al minimo vento, eppure le mescolava sicura senza perdere un colpo. Quanti anni poteva avere? A vederla, più di cento.

La donna sorrise, mostrando alcuni denti mancanti. – E cosa cerchiamo, ragazzo? – disse con voce più autoritaria di prima. – Amore? – domandò gettando una carta sul velluto blu che ricopriva il banchetto. La cornice dorata degli Amanti rifletté la luce del sole. – Fortuna? – accanto alla prima si aggiunse la Ruota della Fortuna. – Giustizia? – chiese mettendo giù una terza carta. Si sentì nudo davanti agli occhi della Giustizia. Non aveva mai incontrato quella carta, ma sapeva che non avrebbe potuto fuggire per sempre alla spada della Giustizia, prima o poi avrebbe dovuto pagare per il tradimento commesso. Come se seguisse il filo dei suoi pensieri, la vecchia aggiunse altre due carte sul banco. – Amici?

Per poco, Gabriel non cadde in ginocchio. La Luna e La Forza erano su quel tavolo, l’una accanto all’altra come lui ricordava, ma sapeva che ne mancavano altre due per chiudere il quartetto che della sua memoria. Si abbassò per guardare negli occhi la donna. Erano marrone chiaro, caldi e sereni. Gabriel si sentì rassicurato e per una volta i suoi ricordi lo lasciarono in pace, rimanendo in silenzio. – Tu ragazzo cerchi altro. – proseguì lei continuando a mescolare le carte. Ne appoggiò altre due coperte prima di fermarsi. – Coraggio. – lo invitò. – Sai cosa troverai.

Allungò una mano tremante verso quella a sinistra, accanto alla Giustizia. L’Imperatore gli fece venire un nodo allo stomaco. Nella sua testa balenò il ricordo dell’uomo vestito di nero e di come lo avesse usato. – Vendetta. – disse la vecchia con un sorriso feroce.

Sì, Gabriel voleva vendetta, ma non per lui. Aveva quasi acquistato tutti i ricordi di quella tragica vita precedente e sapeva quale ruolo giocava l’Imperatore e cosa aveva fatto. Voleva vendetta per il dolore che aveva inflitto e fermarlo prima che portasse altro.

Girò l’ultima carta, quella accanto alla Luna. – Perdono. – disse lui guardando la Regina di Spade. Più di tutto, Gabriel voleva il perdono di quella donna. L’Imperatore poteva averlo raggirato e usato, ma era stato lui a ucciderla e a scatenare tutta la serie di eventi che lo aveva portato alla pazzia.

No! Urlò Gabriel nella propria testa. Non sono stato io, ma Lucas, lui l’ha uccisa.

Tornò in se stesso e prese la carta della Regina di Spade. – Voglio solo il tuo perdono. – sussurrò all’immagine della donna che teneva in mano una spada.

– Lo puoi avere. – gli promise la vecchia. A quelle parole Gabriel alzò la testa, guardandola di nuovo negli occhi. Pendeva dalle sue labbra. Voleva sapere come e quando avrebbe potuto averlo. Se sapeva così tante cose di lui, forse avrebbe anche potuto dirgli questo. Si sentiva come un bambino nel giorno di Natale e per una volta, pieno di speranza. Mise giù la carta e quel neonato sentimento si frantumò contro lo scoglio della dura realtà. Stava ascoltando una sconosciuta. Già una volta Lucas aveva fatto l’errore di credere a un estraneo e si era lasciato convincere da parole che avevano il gusto del miele e poi aveva ucciso una persona che conosceva fin dall’infanzia.

– Posso aiutarti a trovarla. – disse la vecchia.

Gabriel si mise allerta. Voleva sapere, ma c’era sicuramente un prezzo da pagare. – Ma...?

– Ma, – aggiunse lei prendendo le carte sul tessuto e riunendole al mazzo – devi fare una cosa per me. – riprese a mescolare con più energia di prima e lui si perse nel movimento agile di quelle dita. Non sembravano più tanto vecchie. Ad ogni giro con le carte alcune macchie scure sparivano, le rughe diventavano meno nitide e la pelle era più compatta.

La piega che stava prendendo la conversazione non gli piaceva, ma aveva bisogno di sapere dove fosse la Regina di Spade. Forse il dolore lo avrebbe lasciato andare se lui l’avesse implorata. – In questo momento lei è con la Forza. – disse la vecchia.

Gabriel annuì. – È un bene, la Forza è stata sua amica. La proteggerà. – disse rassicurato da quella notizia. Se stava con una persona di cui si poteva fidare, che avevano condiviso un passato, l’Imperatore ci avrebbe pensato due volte prima di attaccarla di nuovo.

Il sorriso della vecchia morì e Gabriel notò che c’erano meno segni sul suo volto e i capelli avevano ripreso splendore. – La Forza non è più quella di un tempo. Non è quella che la tua memoria ricorda. – distribuì una parte delle sue carte sul tavolo, ancora coperte. – Il Seme della Follia è già dentro di lui e presto, inizierà a mettere radici. Tu dovrai ucciderlo prima che accada.

Le carte sobbalzarono quando lui sbatté le mani sul tavolo. – Mi rifiuto di fare una cosa del genere! Era mio amico, il mio capo villaggio, il mio... – scosse la testa per schiarirsi le idee. Era stato Lucas a parlare, non c’era alcun dubbio. Si schiarì la gola. – Voglio dire...

– So cosa vuoi dire. Aver visto La Luna ha scatenato in te tutta una serie di ricordi che stanno prendendo il sopravvento. Il nostro corpo nasce e muore, la nostra magia e la nostra anima restano e il dolore passa tramite esse. Di anima in anima, aspettando il momento in cui verrà liberato.

Sì, quella donna aveva colpito nel segno un’altra volta. Aspettava solo il momento in cui si sarebbe liberato di quel dolore e avrebbe potuto sentirsi leggero per poter vedere il mondo con occhi diversi. I suoi. – Non ucciderò La Forza. Trovati un altro da manovrare, vecchia.

Fece per andarsene, ma lei girò tutte le carte che aveva appoggiato. – Allora moriranno tutti loro, Gabriel Rubio. – la voce era più sicura e forte di prima, molto più autoritaria e i capelli iniziavano ad assumere una sfumatura più scura. Solo i suoi occhi rimanevano immutati, ma per il resto, lei stava ringiovanendo. Non era questo a contorcergli lo stomaco, di stranezze ne aveva viste tante, ma Gabriel non aveva mai detto il suo nome. – Come...? – domandò con la bocca secca.

– Io vedo. – rispose. Il suo sorriso gli fece venire caldo, come se la temperatura fosse salita in un secondo. – Vedo ciò che accadrà. Vedo lacrime e dolore, più di quanto tu ne possa concepire. Questa guerra è diversa.

Le sembrava sincera, molto più di quanto fosse stata finora. – Perché lui? È L’Imperatore che vuole farci del male. Basta fermare lui.

Lei scosse la testa e i capelli divennero morbide onde castane. – L’Imperatore è una pedina di un gioco più grande. Lui crede di star agendo di testa sua, ma non è così. Il vero re deve ancora mostrarsi. La Forza... – toccò la carta con dolcezza, persa in un ricordo che solo lei aveva. – è un re bianco che nasconde in sé un seme oscuro. Ucciderlo ora è solo un atto di pietà.

– No!

Dei passanti si voltarono verso di loro, ma con un gesto della mano la donna li scacciò. – Lui è il rovescio della medaglia, non esiste nero senza bianco. Non esiste follia senza ragione e lui vuole la Forza per completare il tutto.

Gabriel non riusciva a convincersi. Non poteva fargli del male e anche se si fosse deciso, non era un guerriero. La sua carta era più propensa allo studio e alla meditazione, non alla guerra. – Lui chi? – domandò cercando di prendere tempo e rimandare la scelta.

– Chi ha dato inizio a tutto questo. Chiedi al Mago, lui l’ha visto agire. Ha visto la strage che ha portato nelle nostre vite. È stato dormiente per secoli, ora si è risvegliato. Se avrà la Forza, riunirà il Mazzo e distruggerà il sigillo.

Anche se quelle parole lo scuotevano, non poteva farlo. Non poteva prometterle di uccidere una persona, non era un assassino. Lui non era Lucas. – Dimmi dov’è lei. La Regina di Spade.

– Farai ciò che ti ho detto? – ora era una ragazza. Aveva più o meno la sua età e la sua pelle risplendeva come il sole. Anzi, era Il Sole, la carta della cura e della veggenza. In più di una vita passata i loro cammini si erano incrociati e Gabriel la riconobbe come un’amica. – Non posso prometterlo. Io non... – come poteva dirlo. Lui voleva solo trovare la pace, non uccidere per una sconosciuta. – Io sono solo un sasso nel fango, impantanato nel dolore che il mio antenato ha provocato maledicendo la mia stirpe. Quelli che erano miei amici fraterni giurarono di distruggere la mia carta. Lucas distrusse la vita di più di una persona quel giorno, anche la propria. So cosa significa provocare dolore. Non lo farò di nuovo, non se non è necessario.

La ragazza annuì, capendo cosa volesse dire. – Un giorno sarà necessario. – gli sorrise con dolcezza e lui si sentì accarezzato da tiepidi raggi solari. – Lei sarà a Calcutta tra trenta giorni. Al mercato.

Sapeva che lei non aveva alcun dovere di dirglielo, aveva rifiutato il suo patto. Aveva rifiutato di farsi muovere come una pedina. – Grazie.

– La Luna, la Forza, la Regina di Spade, – disse mettendo le carte sul tavolino. – l’Eremita. – mise la sua carta accanto alle altre. – Millecinquecento anni fa, questa guerra ricominciò con queste carte, terminerà con esse, ma chi sopravvivrà...nemmeno io posso vederlo.

Rimase a fissare i quattro tarocchi affiancati, senza dire una parola. Quattro persone si erano casualmente imbattute nel Mazzo addormentato e lo avevano risvegliato. E loro dovevano metterlo a dormire di nuovo. – Devo parlare con il Mago. – disse andando via.

– Gabriel, – lo richiamò il Sole. – ci sarà un futuro anche per te. – disse la donna con un sorriso. – Non solo la Luna e la Regina di Spade sono legate dal filo del destino, anche tu. Nel bene o nel male, lo troverai.

Gabriel la salutò senza voltarsi e prese le sei carte che teneva in tasca inoltrandosi nel parco. – Anche per me? – si domandò guardando le cornici del tarocchi che aveva ereditato. – Anche per l’Eremita?

Siamo soli, disse la voce di sua madre nella testa.

Ma lui non voleva restare solo per sempre. Voleva sistemare i danni che Lucas aveva provocato e avere un futuro che fosse libero da quei ricordi, che appartenesse solo a lui.

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NdA: Gabriel, come Michael è uno dei miei prediletti. Nella prima stesura era nato come cattivo, ora è un dannato senza pace e adoro questo cambiamento della sua figura e spero che piaccia anche a voi. Cosa ne pensate? Con questo capitolo si conclude il ciclo a Parigi, ora ci si sposta con l'apertura di un nuovo ciclio, La Papessa!

Grazie per tutti quelli che hanno letto e messo nelle seguite, preferite, ricordate e da chi mi ha lasciato un suo pensiero. Tengo tantissimo alle vostre opinioni. 

Khyhan

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Capitolo 8
*** 2.1 La Papessa - Dublino ***


2.1 La Papessa - Dublino

II – La papessa

Dublino

 

Dublino, 20 luglio 2011.

 

Michael ascoltò la pioggia battere sulle imposte della stanza d’albergo in cui si era rifugiato dopo la fuga da Parigi. Il pensiero di aver lasciato indietro Verity, e soprattutto sua sorella, continuava a tormentarlo come una mosca fastidiosa e lui lo scacciò con la stessa premura che si faceva con quegli insetti.

Si passò una mano sugli occhi che bruciavano per la stanchezza. Studiava quelle carte da quasi ventiquattro ore e ancora non aveva un piano in mente. Ogni tanto buttava giù qualche idea su un blocco per gli appunti scrivendo in codice, ma come arrivava a definire i dettagli, lo eliminava, accorgendosi che faceva acqua da tutte le parti. Nonostante i suoi poteri e il suo intuito infallibile, il caveau sotterraneo del Trinity College rimaneva arduo da aprire. Di sicuro più della zecca di Francia che aveva scassinato a diciotto anni per una scommessa con Duchessa.

Riprese da capo i suoi schemi, studiando la struttura della porta blindata e l’atmosfera protetta delle sale interne. Per conservare alcuni documenti antichi la parte dell’ala che gli interessava era piena di sensori per l’umidità e la temperatura, senza contare lo scarso contenuto di ossigeno. Michael era sicuro che se avesse respirato troppo forte lì dentro sarebbero partiti gli allarmi. No, per entrare doveva farsi aprire le porte con tutti gli onori e farsi regalare una bombala d’ossigeno firmata Trinity College.

Due braccia gli avvolsero la vita e una lingua gli solleticò l’orecchio. Il profumo del sapone della camicia che aveva indossato poche ore prima, misto a quello agli agrumi della ragazza gli riempì le narici. – Alex, – mormorò reclinando indietro la testa e cercando il suo collo. – sto ancora lavorando.

Quando quella strega gli aveva detto di andare a Dublino per cercare informazioni sullo zaffiro che lui voleva, gli aveva detto di trovare una ragazza stramba, poteva essere più specifica. Aveva riconosciuto Alexandria quasi subito nonostante indossasse un cappello da pescatore, un paio di occhiali spessi quanto due fondi di bottiglia, vecchi jeans e maglietta a quadri che lui non avrebbe offerto nemmeno al suo peggior nemico.

Il suo modo di muoversi troppo sbadato aveva attirato la sua attenzione e quando lei aveva finto di inciampare nei lacci delle scarpe da tennis che si era slacciata, Michael le si era avvicinato, indicandole i punti dei sensori laser a rasoterra. Sapeva che come lui, Alex stava studiando l’ambiente della biblioteca cercando telecamere nascoste e allarmi, ma non credeva che sarebbe mai arrivata a indossare quegli occhiali orribili pur di travestirsi.

Era stato ben felice di strapparglieli via mentre la stendeva sulla cattedra di un’aula deserta, mentre lei gli sbottonava la camicia e lo spogliava con forza sussurrandogli quanto fosse stato stronzo l’ultima volta che si erano visti, perché era ripartito il giorno stesso dell’ultimo furto lasciandola a festeggiare da sola. Michael aveva riso slacciandole i pantaloni, Alex non era il tipo da festeggiare da sola, anzi era probabile che si fosse infilata a qualche festa e avesse truffato un ricco rampollo.

Tra lui e Alex era sempre andata in quel modo, nessuna storia fissa e si divertivano ogni volta che si incontravano. Si scambiavano lavori e trucchi per arrivare al proprio obbiettivo. Quando lavoravano assieme l’unica regola che rispettavano era la divisione in parti uguali del bottino. Se avessero cercato di fregarsi a vicenda, tutti quelli che lavoravano con loro lo avrebbero saputo, rovinandosi la reputazione.

– Perché non torni a letto? – gli sussurrò passandogli una mano sul petto nudo. – Sono quasi le tre del mattino e mi annoio.

– Hai pensato di scendere al bar e adescare qualcuno? – non gli importava di quanti ragazzi condividessero il letto di Alex, gli bastava che non stessero in camera sua a disturbarlo mentre lui progettava e rifiniva i suoi piani, poi lei poteva fare ciò che voleva.

Gli baciò il collo, allungando una mano verso la pianta dell’edificio. – È così complicato entrare? – domandò scorrendo con lo sguardo la cartina. Michael invece guardava le sue gambe nude e il corpo avvolto nella sua camicia azzurra. Quel colore metteva in risalto le sue forme snelle e i suoi occhi azzurri, ma contrastava con il fisico magro e tonico di Alex e i suoi occhi scuri. Glielo aveva fatto notare, ma Alex aveva riso, infilandosela con suo disappunto.

Lui appoggiò il gomito sul tavolo, sorreggendo la testa con la mano per guardarla meglio. –  Sarebbe più facile entrare a Fort Knox.

Lei alzò un sopraciglio, stupita. – Non ci sei entrato l’anno scorso?

– Per questo dico che è più facile. – precisò con un sorriso.

Le tolse la carta di mano, tirandola a sé. Era molto tardi e non sarebbe riuscito a ricavare nulla con le gambe di Alex che continuavano a distrarlo. Sapeva p come farsi volere e cosa cercava Michael in una donna. – Dovrò tirare fuori la mia vecchia laurea ad Harvard in Storia.

– Tu non hai una laurea ad Harvard. – Alex succhiò l’estremità della matita con un sorriso malizioso e Michael chiuse gli occhi. Sì, quella ragazza sapeva esattamente come distrarlo. – Neal Keller, sì. Ecco come mi farò spalancare le porte degli archivi dai bibliotecari e con tutti gli onori per giunta. Dovrò solo trovare il modo per superare i livelli di protezione dei registri e inserire la mia prenotazione per la visita.

– Magari dicendogli anche il libro vorresti consultare...      

– Che sarà quello che vuoi tu. – confermò lui. Alex gli sorrise, prima di baciargli il mento.

– Così mi piaci, Michael.

Si erano scambiati i lavori ancora una volta. Lei si sarebbe occupata delle ricerche del suo zaffiro, mentre Michael avrebbe rubato il libro che le avevano commissionato di prendere. Le ricerche nelle acque torbide della malavita lo avevano sempre annoiato. Preferiva il lavoro manuale e la preparazione al furto al passare delle bustarelle e riscuotere vecchi favore a qualcuno, per farsi dare delle informazioni che al novanta per cento sarebbero state false.

Se solo avesse potuto accedere ai ricordi di suo padre, non avrebbe avuto un bisogno così disperato di Alex e della sua capacità di trovare qualsiasi cosa con un paio di telefonate ben piazzate. Ma quelle memorie continuavano a sfuggirgli, aveva solo dei lampi confusi e nessuno di essi era ciò che gli interessava.

Michael sapeva che era stato suo padre, Alain Dubois, a rubare la Stella di Bombay dal Museo dello Smithsonian dieci anni prima e a sostituirlo con uno zaffiro sintetico che aveva creato, ma a parte quell’informazione, non era più riuscito a seguire le tracce di quel gioiello da 182 carati. Chiunque avesse pagato suo padre per quel furto era sparito. E per questo lui lo desiderava ardentemente, quasi quanto riuscire a capire Verity.

Quando Alex si sedette a cavalcioni sulle sue gambe reclinò indietro la testa con un misto di eccitazione e d’ira per la libertà che lei si stava prendendo. Non gli piaceva non avere le cose sotto controllo, ma conosceva anche la ragazza e sapeva che poi non se ne sarebbe pentito.

Chiuse gli occhi, perdendosi nell’illusione che potessero essere di Verity le labbra che gli baciavano il collo. Continuava a pensare a lei anche se aveva cose più urgenti su cui riflettere, piani da elaborare e una a dir poco stupenda ragazza tra le braccia.

Anche mentre premeva Alex contro il muro il pensiero di lei continuava a tormentarlo e non capiva il perché. Si era trattenuto a stento due volte dal sussurrare il nome di Verity in preda all’eccitazione e alla confusione. Quello, nemmeno Alex avrebbe potuto perdonarglielo.

Aveva frugato un bel po’ tra tutti i suoi io del passato, cercando una risposta a quella persecuzione e credeva di aver trovato qualcosa: la Luna e la Regina di Spade erano stati sposati ed avevano anche avuto dei figli insieme. Doveva essere quello motivo per cui fosse tanto confuso e non perché non era riuscito ad ucciderla quando ne aveva avuto l’opportunità, ma dentro di lui c’era qualcos’altro. Un immenso vuoto, il senso di perdita, di tradimento e dolore si mischiavano al desiderio di trovarla e proteggerla.

– Sei freddo. – gli sussurrò Alex. – Assente.

Lui riaprì gli occhi raddrizzandosi, Alex aveva frantumato il suo sogno. Voleva togliersela dalle gambe e allo stesso tempo stringerla forte e averla più vicina. – Sono occupato, Alex. Devo trovare il modo per entrare negli archivi.

Si staccò, guardandolo negli occhi. – Nemmeno per entrare in quel museo a Mosca eri così occupato da non passare un po’ di tempo con me.

Lui ghignò stringendo forte le mani sui suoi fianchi. – Forse ora è più difficile.

Alex scosse la testa come se la frase di Michael fosse una stupidaggine. – C’erano i sensori di movimento e quelli a pressione. Era difficile.

Affondò le dita tra le ciocche nere di Alex mascherando un fiotto di irritazione. Il motivo per cui riteneva che le donne fossero stupide stava sulle sue ginocchia. Insieme a sua madre, l’insistenza di Alex nel correggerlo era la cosa che più gli dava i nervi. – Forse ora non ho voglia di fare sesso. – aveva appositamente usato un tono piatto e freddo, quasi sussurrato, ma aveva sortito l’effetto voluto. Alex lo guardò come se avesse ricevuto uno schiaffo. – Tu hai sempre voglia di fare sesso.

Nascose di nuovo l’irritazione dietro ad un sorriso beffardo. Era diventato bravo a non mostrare agli altri i propri sentimenti, quelli come lui si sarebbero approfittati di ogni più piccola breccia per far crollare il proprio nemico. Michael l’aveva scoperto a proprie spese quando aveva cercato di proteggere Angéline. I suoi tentativi di nasconderla, avevano portato Duchessa direttamente da sua sorella.

Se non fosse stato per quella strega chiaroveggente, Michael avrebbe avuto le mani legate e avrebbe consegnato anche l’anima a Duchessa, oltre che al proprio corpo e ai suoi talenti. – Alex, – mormorò dandole un bacio casto sulla guancia. – vai a dormire, io devo terminare qui. – se fosse riuscito a concentrarsi, forse avrebbe ottenuto qualche risultato decente.

Molti pensavano che l’arte del furto fosse basato sull’aprire casseforti e usare dei guanti per non lasciare impronte. Michael era molto più sottile, gli piaceva agire senza lasciare la minima traccia, comportandosi come se fosse un filo di fumo, impalpabile e inafferrabile che scompariva senza lasciarsi dietro niente altro che un ricordo. Per questo il furto alla Torre Eiffel era stato un fiasco. Il primo piano della torre era andato distrutto, la polizia era stata allertata e tutto il mondo sapeva che quel diamante era stato rubato. Lo aveva consegnato a Duchessa senza fare storie ben sapendo che lei non avrebbe incontrato difficoltà a farlo battere ad un’asta clandestina e a dargli la sua parte. Probabilmente avrebbe trattenuto qualcosa per essersi lasciato dietro una scia di vetri infranti e perché la polizia le aveva fatto un mucchio di domande mentre Michael se n’era tornato al suo appartamento al sicuro. Per Duchessa doveva essere stato un affronto e lui si era divertito a immaginarla sotto interrogatorio.

– Sei distratto. – lo rimproverò Alex passandogli una mano sugli addominali. Michael si irrigidì, ma non la fermò quando lei gli sbottonò i pantaloni neri.

– Allora impegnati, Alex. Fammi pensare solo a te. – si scostò sdegnato quando lei cercò le sue labbra per dargli un bacio. – È troppo facile così. Non mi piace farmi baciare. Considerami una preziosa cassaforte. Stupiscimi.

Gli davano fastidio le ragazze che lo baciavano in bocca aspettandosi che ricambiasse con passione. Ogni bacio per lui voleva dire qualcosa, e spesso, toccava le labbra di una ragazza solo per dirle addio.

Lui avrebbe passato le ore a baciare la ragazza che fosse riuscita a rubargli il cuore, ma visto che non c’era nessuna alla sua altezza, non c’era la possibilità che lui ricambiasse i baci delle ragazze esaudendo i loro desideri. Alex lo sapeva, ma continuava a provarci, rendendosi ogni volta ridicola.

– A volte sei noioso Michael, – la voce bassa di Alex avrebbe dovuto essere erotica, invece lui era sempre più freddo. – hai un bel faccino, un bel fisico, ma non sei l’unico sulla faccia della terra. Non ce l’hai d’oro.

Michael le sbottonò piano la camicia e la lasciò scivolare via dalle spalle di Alex. Le morse un seno con un mezzo sorriso prima di ritrarsi. – Allora mia cara, perché non ti vai a cercare qualcuno che ce l’ha realmente d’oro e non mi lasci in pace? Magari mettendoti qualcosa di tuo. Questa camicia vale molto di più di quanto possano offrirti per la tua compagnia. E visto che è un’edizione limitata, non riusciresti a rimborsarmela se si rovina.

Alex sbiancò e poi si ricompose con la massima dignità che poteva avere una donna nuda che era appena stata rifiutata dopo essersi offerta, Michael doveva dargliene atto. – Sei un bastardo. – sibilò lei.

Ormai glielo avevano detto talmente tante volte che non ci faceva più caso. – Considerando chi è mia madre, questo termine ha perso il suo fascino. – rispose alzando le spalle. – Alex, puoi scegliere: metterti qualcosa addosso e andartene o dormire. Magari sul divano, se vuoi rimanere. Mi dà fastidio che quelle come te pretendano di dormire nel mio letto come se vi appartenesse.

La crudeltà era una dote che aveva ereditato dalla madre. L’aveva messa a frutto fin da bambino per proteggere Angéline e quando il suo vocabolario sia ampliato, aveva imparato a essere offensivo senza essere volgare. Dare della puttana a una ragazza non era mai piacevole quanto farglielo notare, ma non avrebbe dovuto arrivare a quel punto con Alex. La ragazza poteva vendicarsi e metterlo su una falsa pista o farlo cadere in trappola. Peggio ancora, poteva tradirlo e comunicare i suoi movimenti a Duchessa. E se lei avesse saputo che stava di nuovo agendo di testa sua, Angie sarebbe stata in pericolo.

Invece di scendere dalle sue gambe e offendersi, Alex gli sorrise crudele passandogli due dita dall’ombelico allo sterno. – Non sono io quella che si è venduta a Duchessa per avere un buon giro di mercato. Girano delle voci su di te, sai? Pare che tu sia stato il suo preferito per un paio di mesi, poi ti ha scaricato per uno più giovane. Incredibile, no? Ventuno anni e sei troppo vecchio per soddisfare gli appetiti di Duchessa. Anche prima, sembravi un po’ fiacco.

Per la seconda volta  da quando si erano conosciuti, Alex lo lasciò senza parole. Forse era un record. Passarono quasi trenta secondi di silenzio con solo la pioggia che batteva contro le finestre alle sue spalle a ricordargli che il mondo non si era fermato.

Poi scoppiò a ridere. – Dovrebbe ferirmi? – sussurrò. – Pensi che mi importi di non essere più il giocattolo prediletto di Duchessa? Per quanto riguarda l’essere fiacco, forse tu non mi dai alcuna soddisfazione né motivo per impegnarmi. Alex, Alex. Insistente Alex. L’unico motivo per cui sei in questa stanza è la tua preziosa rubrica di contatti. Ciò che hai tra le gambe ce l’hanno tutte. Quindi, Alexandria, – cambiò tonò intessendo le parole con la magia. – perché non dormi?

La ragazza gli si accasciò tra le braccia e la sentì russare sommessamente. Anche lui si sentiva molto stanco per quel piccolo incantesimo. Più di quando aveva addormentato Verity o Angéline o reso invisibile la sua auto.

Guardò il calendario lunare. La luna era calante e fra undici giorni sarebbe stata nuova. Avrebbe sentito i suoi poteri ridursi fino alla completa perdita durante la notte di Luna Nuova.

Per quanto i suoi poteri giocassero a suo favore per i furti, odiava il modo in cui erano altalenanti durante il ciclo lunare. Aveva compiuto il furto alla Torre Eiffel con la Luna Piena, al massimo del suo splendore e se voleva approfittare di ciò che gli era rimasto doveva sbrigarsi a lavorare sul suo piano, altrimenti avrebbe dovuto rimandarlo.

Avrebbe potuto fare affidamento solo sul suo cervello per una volta, ma preferiva avere la sicurezza dell’uscire indenne e che nessuno riuscisse a risalire a lui. Soprattutto non Duchessa. Non gli avrebbe permesso di agire un’altra volta da solista, era stata chiara su quello.

Guardò Alex nuda tra le braccia e poi il letto. Era un matrimoniale e anche se non l’aveva misurato, sapeva che era più spazioso del suo. Avrebbero potuto dormire entrambi tra quelle lenzuola, ma l’idea gli dava fastidio. Perfino quando aveva Verity nel suo letto non aveva dormito con lei. Aveva eseguito il lavoro alla torre e poi si era appisolato sulla poltrona sotto la finestra del suo appartamento. – Immagino di doverti riportare al tuo hotel o dover portare pazienza. – mormorò. La prese in braccio e la appoggiò sul divano della camera moderna che aveva scelto. Prese perfino il lenzuolo e la avvolse invece che lasciarla dormire nuda sulla pelle nera. – Poi mi dicono che non sono cavaliere.

Tornò al tavolo a studiare le carte e gli appunti che aveva preso. La risposta gli sarebbe arrivata prima o poi. Non esistevano furti impossibili, solo persone che non avevano il coraggio di osare.

Aveva già deciso come entrare, il problema maggiore era come uscire con il libro. Le macchine non erano facili da ingannare come l’occhio umano. Avrebbe dovuto lavorare su quello.

Avrebbe portato dentro delle cose semplici, qualcosa da passare ai raggi x all’entrata e all’uscita. Una valigetta con un blocco per gli appunti, penna e guanti. Avrebbe indossato qualcosa di metallico per ingannare il metal detector, da tempo aveva sostituito i vecchi grimaldelli in acciaio con del materiale flessibile ad alta resistenza che passassero inosservato ai controlli.

All’uscita avrebbe avuto le stesse cose, più un libro. Michael era un illusionista e gli illusionisti attiravano l’attenzione da una parte per distrarre il pubblico dal vero trucco.

Senza Alex a distrarlo gran parte del suo piano prese forma in quel preciso istante e Michael si alzò soddisfatto andando alla finestra. Tre piani sotto di lui la vita notturna di Dublino proseguiva nonostante la pioggia battente. Dovevano essere abituati a quel tempo umido, alla nebbia tentacolare che si infilava ovunque e alle giornate di sole che improvvisamente si trasformavano in diluvi.

L’immagine che vide alla finestra si trasfigurò. Non era più a Dublino, in quell’albergo in mezzo al quartiere di Temple Bar, ma in un castello di pietra con le finestre erano piccole e con i vetri spessi. Fuori splendeva il sole ed era primavera inoltrata.

Michael batté le palpebre e scacciò il ricordo che lo aveva assalito mentre era ancora sveglio. Sapeva che come avrebbe chiuso gli occhi lo avrebbe rivisto. In parte non gli dispiaceva, per quel secondo che le due vite si erano sovrapposte un forte di pace e benessere l’aveva avvolto.

Andò a letto indossando i boxer scuri. Il sonno lo avvinse quasi subito e ancora  prima di rendersene conto, Michael era sprofondato in una delle sue precedenti vite.

 

Elena rideva mentre ricamava con le altre dame di Camelot. Giravano tante voci sulla regina che il re era andato a prendere di persona. Dicevano che se ne fosse innamorato dopo averla vista solo una volta. Le serve sussurravano che avesse già consumato le nozze perché non riusciva ad aspettare e che la regina fosse già incinta.

E mentre correvano quei pettegolezzi per i corridoi del castello, altre affermavano con sicurezza che lei lo avesse rifiutato. – Dicono che sia come noi. Una maga. – disse Arla mettendo un altro punto. Stava ricamando dei grappoli d’uva nera che poi avrebbe offerto al suo cavaliere prediletto durante il prossimo torneo.

Elena non aveva alcun dubbio che quella fosse la verità, Artù di Camelot aveva riunito intorno a sé dame e cavalieri che venivano da tutti i regni che possedevano la magia. E in un mondo dove quelli come loro venivano perseguitati, il sogno di Artù il Re e di Merlino il Mago era divampato come un incendio d’estate. Avevano costruito un regno dove i settantotto sventurati eredi dell’antica magia potevano vivere insieme e non lottare in una guerra sanguinaria.

Artù e Merlino erano stati irremovibili su un’unica regola su cui nessuno poteva transigere: dovevano vivere in pace.

Per Elena e per suo padre prima di lei, Camelot era la libertà.

Erano stati entrambi perseguitati per la loro capacità. E quando nel piccolo villaggio dove era nata la gente aveva iniziato ad additare suo padre come stregone, loro due erano partiti alla ricerca del regno che era già diventato leggenda.

Elena poteva mostrare a tutti i suoi poteri, poteva consultarsi con Merlino, e cercare i consigli della tutrice. Girava a testa alta per la città creando illusioni per i bambini e si divertiva guardando i giochi di fuoco nelle nottate di festa. E trovava confortante ascoltare le predizioni della sua migliore amica.

Ognuno a Camelot era valorizzato per il proprio potere e aveva una sua utilità.

– Smettete di ridere e concentratevi signorine. Quei fazzoletti non si ricameranno da soli! – Madama Juliana aveva ragione, ma lei avrebbe potuto creare l’illusione che il fazzoletto fosse quasi terminato. Alzò lo sguardo sulla sua tutrice che incrociò le braccia al petto e le labbra si tirarono in un linea sottile, quasi le avesse letto nel pensiero. Forse era così, loro due condividevano in parte l’origine dei propri poteri. Ma mentre una era costretta a mantenersi pura per avere la propria forza al massimo, la magia di Elena era dettata dalle fasi lunari.

Ridacchiò e decise di mettere qualche altro punto sotto lo sguardo della donna. Artù e Merlino avevano designato Juliana come tutrice delle giovani di Camelot per la sua integrità e intransigenza. Non era il caso di farla arrabbiare.

Il regno non poteva essere più fiorente, anche se Artù non aveva ancora riunito tutti quanti. Mancavano molti di loro, alcuni molto potenti. Ma c’erano alcuni maghi assenti che la turbavano. Quando pensava a uno di loro in particolare il cuore le batteva più velocemente incendiandosi do rabbia e risentimento. C’era qualcosa nel loro passato che non era ancora riuscita a comprendere e aveva paura di scoprirlo e rischiare di rompere la pace di Artù.

A Merida cadde il ricamo di mano e si premette le mani sulle tempie. – Cosa vedi, bambina? – domandò Juliana. – Una qualche visione?

La ragazza annuì concentrandosi ancora di più. – La regina arriverà oggi. – indicò un punto fuori dalla stretta finestra. – Quando il sole sarà in quella posizione.

Si diffuse un mormorio eccitato tra le ragazze che Juliana mise a tacere con difficoltà. La regina sarebbe arrivata presto. Una nuova maga per rendere più forte e sicura Camelot.

Merida le si avvicinò, approfittando della confusione. – Sarai la sua dama di compagnia. Lei ti vorrà bene e tu a lei.

Elena sorrise a quella notizia e riprese a ricamare guardando il punto che Merida aveva indicato nella speranza che il sole si muovesse e arrivasse in quella posizione. Voleva conoscerla a tutti i costi, da quando era stata nominata per la prima volta ne era stata incuriosita. Chissà che moglie aveva scelto un re forte e giusto come Artù?

Sentii lo scalpiccio degli zoccoli sul selciato e le grida di acclamazione prima delle altre ragazze e corse alla finestra. L’aria primaverile le rinfrescò il viso e fu costretta a litigarsi lo spazio di quel piccolo pertugio con le altre ragazze, ben decisa a non mollare. Doveva guardarla scendere dalla carrozza e salutarla insieme al resto della corte.

Vide la fanciulla dai capelli neri scendere a testa alta, aiutata da un cavaliere che ringraziò arrossendo e fece una riverenza quando la seconda ragazza con i capelli dorati scese dalla carrozza senza aiuto. I presenti nel cortile si inchinarono in sua presenza.

La fanciulla fece vagare lo sguardo smarrito sulle mura del castello e i loro sguardi si incrociarono per non lasciarsi andare più. Elena rivide tutti i loro passati in quell’istante infinito, come se il tempo si fosse bloccato ed esistessero solo loro due.

Il cuore le batté all’impazzata e desiderò correre a capofitto per le scale e andarle incontro e stringerla forte. Era lei, l’aveva ritrovata. La persona a lei più cara. Colei che sognava tutte le notti e per cui si struggeva.

L’incantesimo si ruppe nell’instante in cui la regina fu chiamata da Artù e le prese la mano per presentarla. – Lei è Ginevra. La Signora del Vento e delle Tempeste. Rendetele onore perché sarà mia moglie e regina di Camelot.

Il suo cuore si ruppe a quella frase. Ginevra non le sarebbe appartenuta in quella vita. Conosceva i piani del re, sapeva che l’avrebbe presa in moglie, ma quelle parole la ferirono. Loro due si amavano da secoli, il re lo sapeva, ma aveva calpestato lo stesso quei sentimenti. Anche questa volta l’aveva trovata e l’aveva persa di nuovo, ancora prima di poterle parlare. In quell’istante odiò Artù come mai prima d’ora, ma Elena capiva anche la sua decisione e non poteva tradire la fiducia che lui aveva riposto distruggendo il suo sogno. Loro due avevano poteri simili, era ovvio che la volesse.

Nel momento in cui Ginevra strinse la mano di Artù e gli sussurrò qualcosa che lo fece ridere, le gambe di Elena cedettero. Lei ti vorrà bene e tu a lei. Solo quelle parole le impedirono di cadere.

Guarda su, la implorò, guarda su e notami. Sono qui. Sarò sempre qui per te.

 

Michael si svegliò di soprasanto e si toccò il petto. Il cuore gli batteva forte contro il torace e aveva una pessima sensazione di soffocamento in gola.

Ricadde indietro contro i cuscini e si mise a scrutare il soffitto, nel buio. Ginevra, regina di Camelot. L’idea che Verity potesse essere stata regina di un regno leggendario lo faceva ridere. Così come lo faceva ridere l’idea di essere stato una donna e nonostante questo, l’aveva amata incondizionatamente.

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NdA: Sia lode all'eroe trionfatore! Scherzi a parte, ora inizia un nuovo ciclo e ovviamente dovevo iniziare con un furto di Michael o non sarei stata contenta. Cosa ne pensate  di Michael? fatemi sapere! Grazie a tutti quelli che mi lasciano un proprio pensiero e mi aggiungono nelle seguite, preferite ecc. Mi fa sempre tanto piacere!

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Capitolo 9
*** 2.2 La Papessa - Notti Insonni ***


2.2 La Papessa. Notti Insonni

II – La Papessa

Notti Insonni

 

Villa Courteney, Dover. 20 Luglio 2011

 

Verity non riusciva a dormire. Da quando era morta sua madre aveva iniziato ad avere degli incubi. Si svegliava con un dolore acuto al petto e le gambe tremavano e ci metteva quelle che sembravano ore prima di calmarsi. E una delle poche volte che aveva trovato il coraggio di alzarsi per andare in bagno si era ritrovata piegata in due a vomitare. All’inizio ancora credeva che la causa di quei dolori potesse essere di origine fisica, forse le mestruazioni o un’influenza atipica, ma le medicine e gli antidolorifici non facevano mai effetto e le rigettava.

Dopo tanti anni aveva iniziato a capire sua madre. Non ne era felice, avevano sempre avuto un rapporto teso finché lei non se ne era andata di casa a diciotto anni abbandonando quella donna ai suoi demoni e ai suoi errori e a fatica si era costruita una vita sua mentre sua madre cadeva sempre più in basso nel corso del tempo e lei all’inizio aveva cercato di aiutarla senza successo lasciandole i suoi spazi. Piccole cose all’inizio: usciva e rientrava molto tardi. Verity all’epoca aveva dodici anni e aspettava di sentire la porta aprirsi e prima prendere sonno. A quindici anni non poteva più negare l’evidenza, i soldi non bastavano più e Verity passava le mattinate a scuola e i pomeriggi a lavorare in un bar per poter avere qualche soldo in più in casa. Sua madre aveva lasciato il lavoro per trovarne uno part-time in modo da passare quasi tutto il suo tempo a bere. E Verity aveva iniziato a rientrare sempre più tardi e a lavorare sempre di più pur di mettere via qualcosa. Faceva fatica a stare attenta a scuola e i voti erano precipitati ad appena alla sufficienza e i professori avevano iniziato a guardarla storto accusandola di essere svogliata.

Quando riuscì ad ottenere la sua qualifica professionale decise di rinunciare alla scuola e di andare a lavorare una volta per tutte. Si trovava bene e il fatto che parlasse inglese e fiammingo, oltre che italiano, la avvantaggiava. Grazie all’alberghiero che aveva frequentato capiva anche un po’ di francese e riusciva a rendersi utile, ma era la situazione disastrosa a casa che la preoccupava. La maggior parte dello stipendio della madre finiva in alcol scadente e Verity doveva lottare con tutta per riuscire a mettere qualcosa da parte per fare la spesa. Tutti i soldi che guadagnava servivano per pagare le bollette e l’affitto del loro piccolissimo appartamento, ma nonostante le difficoltà c’era qualcosa che ogni mese Verity faceva il giorno stesso in cui riceveva lo stipendio: correva in banca a versare qualcosa sul conto intestato al suo fratellastro prima che la madre potesse metterci le mani sopra. Era un rituale di cui non poteva fare a meno, qualcosa che le ricordasse che oltre a sua madre, lei aveva avuto anche un’altra famiglia. Aveva avuto un padre anche se si era risposato e aveva un mezzo fratello che viveva in Olanda. Se non metteva via qualcosa per Jamie tutti i mesi non era in pace con se stessa. – Questo mese non gli ancora mandato i soldi. – borbottò davanti la tazza di tè caldo che si era preparata quando aveva rinunciato al sonno.

Se il giorno dopo Chris l’avesse lasciata libera, sarebbe andata in banca. Doveva avere ancora qualcosa da parte che poteva dare a Jamie nonostante avesse lasciato il lavoro a Parigi per seguire Christian.

Una piccola figura in pigiama sfrecciò davanti al tavolo per poi spalancare la porta del frigorifero e tirare fuori un succo di frutta. Verity guardò l’orologio da muro e poi la bambina indiana che stava prendendo i biscotti dalla dispensa arrampicandosi su una sedia. – Nyvie, – chiamò gentilmente Verity. – non dovresti essere a letto?

La piccola la squadrò con i suoi grandi occhi verdi spaventata per essere stata colta sul fatto o semplicemente perché Verity non era Christian e la piccola era sempre tesa quando non c’era lui in giro. Nyvie si ficcò in bocca un grosso biscotto con le gocce di cioccolato continuando a guardare Verity.

Da come masticava e si arrampicava, Nyvie le ricordava un po’ uno scoiattolo, ma a Verity piaceva quella bambina di nove anni, standole vicino aveva sempre un senso di pace che scacciava via i pessimi ricordi.

– Sai che a Chris non piace che tu stia sveglia fino a tardi. – proseguì Verity. Un’altra occhiata spaventata da parte di Nyvie e un altro biscotto sparito alla velocità della luce. Forse la preoccupava che lei andasse a dire a Christian che aveva trovato Nyvie in cucina da sola di notte. Del resto, anche lei era sveglia nell’enorme villa di Christian. Era un’ospite trattata bene, non poteva negarlo. Aveva la sua stanza con il bagno privato e tutti i comfort. E Christian aveva inviato anche il suo maggiordomo a comprarle degli abiti nuovi il giorno stesso che era arrivata. Ora aveva il cassettone color abete pieno di costosissimi pantaloni di lino, cargo e jeans, shorts e canotte colorate. Maglie e camice con i bottoni di madreperla ben stirate e appese in ordine per colore. I pigiami estivi erano coordinati con quelli di Nyvie su desiderio di Christian e nel grande armadio a specchio erano stati sistemati più abiti di quanti lei ne avesse mai portati. E tutto era stato completato da decine di scarpe, sandali e anfibi in ecopelle.

Tutto quello di cui lei poteva aver bisogno, Chris glielo procurava o chiamava qualcuno che glielo procurasse per lui, ma c’erano delle cose che lei non poteva fare: gironzolare per la villa da sola senza che qualcuno dei domestici la guardasse male e non poteva uscire senza che Mikelich la seguisse. Chris le aveva detto che era per la sua sicurezza e per impedire che si perdesse, in realtà si sentiva una prigioniera speciale sotto sorveglianza.

Nyvie fece sparire altri due biscotti e Verity le sorrise. – Non glielo dirò. Tu mangia in fretta e torna a letto.

Nyvie scese dalla sedia con il bricco del succo in mano e aggirò il tavolo sedendosi accanto a lei in silenzio. Gli unici suoni in cucina furono quelli della ghiacciaia e Nyvie che beveva rumorosamente tenendo il succo alla pesca con due mani.

Verity rimase in silenzio godendosi il tè che si era preparata. In quella villa tutto veniva fatto dal personale, le bastava suonare il citofono e la cameriera del turno di notte le avrebbe preparato tutto ciò che desiderava. Scherzando aveva chiesto se potesse avere una pizza alle tre del mattino e loro si erano mossi per preparargliela spiegandole che Chris aveva dato loro delle indicazioni precise. Farsi quel piccolo tè in cucina, senza avvertire nessuno le dava un senso di cupa soddisfazione. Chris poteva anche mettere una fila di piccoli punti chirurgici su un braccio, ma non sapeva nemmeno fare un caffè, doveva sempre affidarsi a qualcun altro. E Verity considerava di importanza vitale saper preparare un buon caffè.

Finiti i rispettivi spuntini le due ragazze fecero sparire le prove del misfatto e si scambiarono uno sguardo di intesa prima si separarsi sulla porta della cucina. Christian e Mikelich non avrebbero mai dovuto saperlo.

Salì le scale a chiocciola che portavano verso la sua stanza ricordandosi dove fosse la camera rispetto al resto della villa. Chris le aveva fatto fare un giro veloce dei luoghi che potevano interessarle fermandosi sulla biblioteca di famiglia e la piscina coperta. Quando aveva guardato il padiglione della piscina la prima volta Verity si era chiesta quanti soldi avesse Christian e come potesse pensare che la gente comune potesse permettersi una piscina come quella. Poteva ignorare i mosaici sul fondo della vasca, ma non poteva fingere di non vedere il complesso di statue da cui usciva acqua bollente che percorreva dei rigagnoli prima di gettarsi nella piscina. Chris le aveva detto che sua madre aveva fatto costruire quelle statue quando era nato per festeggiare la nascita di un Arcano in famiglia. La statua centrale, la donna che teneva spalancata la bocca del leone rappresentava lui: La Forza. Le altre statue più piccole rappresentavano gli altri Arcani Maggiori. Ventidue statue diverse e ognuna aveva uno sbocco per l’acqua calda. Riconobbe tra esse la Temperanza, il Sole e la Luna. Erano tutte rappresentate come apparivano nelle carte classiche e Verity non osava avvicinarsi alla piscina. Era inquietante fare il bagno con ventidue paia di occhi puntati contro.

Se Chris si fosse fermato a mostrarle solo la piscina lei avrebbe continuato a pensare lui fosse un ragazzo po’ eccentrico e viziato, ma più lui proseguiva con la visita, più Verity si chiedeva da dove Christian fosse saltato fuori. Non solo il parco della villa poteva concorrere con quello di Villa Borghese, ma aveva anche la sua chiesa personale costruita in fondo a un viale di querce e nella cripta c’erano sepolti i suoi antenati. Decine e decine di nomi scritti su marmo bianco e otto sarcofagi con i volti dei capostipiti scolpiti nella pietra e lo stemma di famiglia con il motto inciso sul soffitto.

Nell’oscurità rischiarata solo da una manciata di lampadine Verity era rimasta incantata a guardare il volto di una donna dai tratti delicati immortalati per sempre nel marmo. – Lisa Courteney, – le aveva sussurrato Chris quando si era avvicinata. – Madre di Thomas e James Courteney. – indicò gli altri sue sarcofagi vicino. Gli uomini scolpiti non potevano avere di più quarant’anni e tra le loro mani c’era scolpita una rosa dei venti. – Caduti entrambi mentre erano al servizio di Sua Maestà, re Carlo I Stuart. – c’era un’impronta di orgoglio nella sua voce, felice che i suoi antenati fossero morti per una causa nobile come proteggere l’Inghilterra. Verity non glielo aveva detto per rispetto ai morti, ma in quel momento si era arrabbiata e lo aveva invidiato. Era già tanto se lei conoscesse il nome dei suoi nonni, riuscire a risalire fino al 1647, la data incisa sul sarcofago, era impossibile.

La ragazza sospirò in cima alle scale ripensando ai suoi primi due giorni in quella casa Chris le aveva dato tutto, più di quanto lei avesse mai avuto nei suoi ventidue anni, eppure non riusciva a godersi nulla. Non riusciva a godersi la tv a schermo piatto, non riusciva a godersi l’enorme letto matrimoniale, non riusciva a godersi la vasca idromassaggio con tanto di cromoterapia.

Christian era gentile, un vero cavaliere, ma in realtà le mancavano le cose semplici. Le mancava giocare con l’xbox di Alessio e fare mattina tra le sue braccia, ridere al bar quando i ragazzi si riunivano per la partita e tifavano la Roma. Le mancava fare fotografie ai paesaggi e stringersi ad Alessio quando lei aveva dei giorni liberi e lui la portava a Ostia e Fiumicino. Le mancavano le sue sorprese quando preparava lo zaino e la portava fino a Ladispoli o a Bracciano. Quante volte si era lamentata con lui per le buche sull’Ardeatina e la scarsa illuminazione stradale? Ora le mancavano anche quelle. Sperava sempre di svegliarsi e scoprire che gli ultimi mesi erano stati un sogno, che Ale dormisse ancora accanto a lei. Voleva ancora sentirlo imprecare imbottigliati nel traffico e borbottare un “turisti” quando un gruppo di giapponesi attraversava la strada seguendo la loro guida con l’ombrellino colorato.

Verity poteva anche essere di origini inglesi e olandesi, ma il suo cuore apparteneva a Roma. Avrebbe volentieri scambiato tutto quello che aveva adesso con un altro giorno nel suo piccolo appartamento con la doccia che aveva le manopole dei rubinetti invertiti e il materasso vecchio e bitorzoluto pur di avere accanto ancora il suo ragazzo. Invece quella casa aveva i sigilli della polizia e Alessio era stato assassinato mentre lei faceva la spesa. – Vorrei tornare a casa mia. – sussurrò appoggiandosi contro il muro.

La porta di fronte si aprì e Christian apparve sulla soglia. Aveva ancora addosso i jeans blu scuro e la camicia ben stirata e non era ancora andato a dormire nonostante l’ora tarda. – Mi sembrava di aver sentito una voce. – disse lui con un sorriso. – Credevo fossi a letto. – forse la stava rimproverando o forse era stupito, Verity non sapeva dirlo, ma sembrava che non gli piacesse vederla andare in giro di notte per casa sua.

– Facevo fatica a prendere sonno. – si schermì lei. – Dovevo cambiare aria.

Chris annuì e le fece cenno di seguirlo in biblioteca. – Il materasso non è abbastanza comodo? Posso farlo cambiare se vuoi... o sono le lenzuola? Chiamo qualcuno per farti cambiare il letto? – non lo diceva per malizia, Verity vedeva che era preoccupato per lei, solo che cercava le cose sbagliata. I ricchi, pensò amaramente, non capiscono che non basta cambiare qualcosa per far andare tutto bene.

– Il materasso e le lenzuola sono perfette così come sono. Ho avuto un incubo.

Si scambiarono un’occhiata veloce e poi lui annuì versando del liquido ambrato in un bicchiere da una bottiglia di vetro. L’odore dell’alcol le diede la nausea e fece un passo indietro cercando di sottrarsi. Lavorando in un bar aveva visto decine di persone rovinarsi con l’alcol, aveva visto sua madre rovinarsi in quel modo. Lei stessa aveva servito alcolici con le mani tremanti sapendo che stava facendo dei danni. Alessio la prendeva un po’ in giro mentre beveva una birra in compagnia degli amici, ma rispettava la sua scelta e non la forzava a bere.

– Vuoi? – domandò Chris indicando il bicchiere che lei fissava allarmata. – Whiskey della migliore qualità.

Verity fece un altro passo indietro quando glielo offrì. Non le piaceva come quell’odore impregnasse la pelle di chi ne abusava, come impregnasse i vestiti e la casa. Tutto. Più forte era, più la nauseava.

Chris mise il bicchiere sul tavolino di legno scuro e le prese le mani. – Ehi, – sussurrò. Era perfino nel suo alito e lei distolse la testa, trattenendo un conato. – Sei pallida. Ti senti bene?

Fissò il bicchiere, luminoso alla luce del lampadario d’ottone. – Mia madre era un’alcolista. – disse meccanicamente. La bocca era secca e la lingua impastata, ma le parole le uscire sicure. I primi tempi ammettere che sua madre avesse problemi con l’alcol era stato difficile, trovava mille scuse per spiegarsene la ragione e far finta di non vedere e non sentire. Anche con i compagni di scuola e con i professori non aveva mai aperto bocca, inventandosi qualcosa quando lei non si presentava mai al ricevimento genitori.

Il giorno che sua madre alzò le mani su di lei senza alcun motivo, Verity aprì gli occhi e si rese conto di cosa fosse diventata. La cosa assurda è che lei aveva già trovato un lavoretto in un bar e le piaceva parlare con la gente. E grazie a una birra non fermentata aveva conosciuto Alessio. – Ho mal di testa, meglio che vada a dormire. – doveva uscire da quella stanza e sfuggire allo sguardo condiscendente di Chris.

– Anche io ho gli incubi. – disse lui a un tratto con aria grave. – Li ho da sempre. Da quando ero bambino. A volte il whiskey aiuta, annebbia la mente e...

– Non aiuta mai! – proruppe Verity con forza. – Mai! Non venirmi a raccontare cazzate come queste! Non... – Chris la afferrò per i polsi e la strinse a sé.

– Non dico che ci fa bene. – disse piano. – Anzi. Ma ho bisogno di dimenticare. Sogno da sempre le mie morti, le morti dei miei familiari, sogno di fare l’amore con donne vissute mille anni fa, sogno di crescere i miei figli, di morire per la peste e mi sveglio sentendo ancora la pelle tesa e dolorante per i bubboni. Ogni notte sogno cose diverse e non avrà mai fine perché la Forza ha vissuto migliaia di volte prima di arrivare a me. – provò a divincolarsi nella presa di Christian con scarso successo. Quelle parole la stavano uccidendo dentro. Era questo che provava sua madre quando urlava di notte? Cercava di sottrarsi a questo? – Tu non puoi capire. – proseguì imperterrito Christian. – Sei una carta da poco, sei ancora confusa. Il tuo potere deve ancora stabilizzarsi; io so chi sono fin da bambino dal giorno in cui mio padre è morto in quell'incidente d’auto. Io capisco tua madre. Sai cosa vuol dire vedere il rogo della propria sorella minore e sentire l'odore della carne bruciata? Io sì, l’ho visto, l'ho sentito. Le nostre carte hanno attraversato i secoli Verity. Vedo la guerra, sento l’odore del terreno intriso di sangue, mi sveglio con le grida della gente morente nelle orecchie. È facile studiare storia in un libro, non è altrettanto facile viverla ogni notte. Migliaia di ricordi per migliaia di vite. E vedo solo quelli più forti, quelli che nessuno può scordare. Più vivrò, più torneranno a galla anche gli altri. Siamo condannati a rivivere i nostri passati finché non moriremo. Cercare di fuggire dalla memoria è l’unica soluzione per non impazzire.

Verity rimase senza parole immobile come una bambola tra le braccia di Chris.

Sua madre aveva iniziato a bere quando lei aveva dodici anni, ma era una Carta da molto più tempo e aveva avuto una vita normale. Si era sposata, aveva avuto una figlia, poi il matrimonio era naufragato quando Verity aveva quattro anni. Lei ricordava il divorzio e l’arrivo del suo mezzo fratello. Aveva passato le estati ad Amsterdam con il padre. Ricordava sua madre metterla sul treno a Copenaghen e suo padre andarla all’arrivo. Ricordava il trasferimento a Roma per lavoro quando aveva nove anni e la risata di sua madre quando Verity aveva visto per la prima volta il Colosseo. Aveva avuto un’infanzia difficile, ma felice. Fino ai suoi dodici anni. Che sua madre avesse tentato di resistere e poi anche lei si era arresa al peso dei ricordi? Provò a scavare meglio nella memoria cercando di ricordare quando la madre avesse dato i primi cenni di cedimento, ma il dolore che provò le offuscò la vista. Aveva sempre mal di testa quando pensava alla sua infanzia. Secondo Alessio poteva essere un modo per proteggersi da ricordi ancora più dolori e faceva di tutto per non ricordare.

 – Meglio che vada ora. Ho...

– Rimani. – le chiese Chris. – Rimani con me. So cosa vuol dire non dormire la notte. Ho provato di tutto: dall’alcol ai sonniferi, ma riesco sempre a dormire meglio quando non mi sento solo.

Verity si sedette in silenzio su una poltrona vicino al camino spento. Quel piccolo angolo della biblioteca era confortevole con le vecchie poltrone in pelle e il divano coperto di velluto. Sul tavolino accanto c’era un libro dalla copertina consumata. Tra le pagine ingiallite spuntava un pezzo di tessuto colorato.

– Me l’ha fatto Nyvie. – disse Christian sedendosi sulla poltrona davanti alla sua. – Il segnalibro intendo. La stoffa viene dall’India, lei l’ha ritagliata e incollata sulla carta. È doubleface, dietro ci sono dei fiori secchi.

Studiò il volto di Chris e il modo in cui i suoi tratti si ingentilivano quando parlava di Nyvie. Lui le insegnava a leggere in inglese, deciso a mandarla in una scuola in Inghilterra. Si comportava con la bambina come un fratello maggiore. – Sorridi sempre quando parli di lei.

Chris annuì accarezzando il tessuto liscio del segnalibro. – Nyvie è stata la mia salvezza in India. Mi  ha fatto capire cosa fosse il valore della vita.

Verity non capì cosa stesse dicendo, Christian era un po’ pomposo e brusco in certi momenti, ma non era cattivo. L’aveva raccolta a casa di Michael e aveva nascosto la sua natura a Mikelich. Inoltre lui era... – Tu sei un medico. Salvi la vita delle persone. – si sentì un’ingenua nello stesso momento in cui lo disse ad alta voce.

La risata senza gioia di Chris confermò il disagio che provava. – Io sono un medico, vero. Sono un medico perché mio nonno ha scelto l’università per me, perché mi ha scelto il liceo e mi ha sempre spianato la strada verso la chirurgia. E cosa c’è di male in tutto questo? – chiese retorico con un sorriso crudele. – Assolutamente niente. E lo sai perché? Perché mi sentivo un dio. Mi sentivo un dio a operare, mi sentivo un dio quando il mio nome lasciava basite le persone, mi sentivo un dio quando avevo tra le mani la vita degli altri. Sai cosa si prova a tenere in mano un cuore umano? Ti sembra tenere il mondo. Mi sentivo migliore degli altri perché una mia parola poteva dare speranza o distruggere una persona. Me ne fottevo del codice deontologico, mi interessava il potere che esercitavo. – allungò le gambe in avanti e alzò la testa verso il soffitto cesellato, perso nei propri ricordi. Anche se disgustata, Verity pendeva dalle sue labbra. – Nyvie fu l’unica a farmi capire dove stessi sbagliando. Ci avevano provato in tanti, ma l’unica fu quella piccola bambina e il suo orgoglio. Io sono egoista. Voglio dare un ottimo futuro a Nyvie. Voglio che abbia tutto, ma soprattutto, non voglio separarmi da lei perché mi ricorda quanto fosse misera la mia vita prima che arrivasse. Quando guardo i suoi occhi mi ricordo cosa vuol dire non avere nulla, ma essere felici e cosa vuol dire avere tutto e non sapere cosa vuol dire vivere. – sbuffò e suoi tratti si ingentilirono. – Non sai cosa darei per poter tornare in India. Qui mi sento oppresso. Osservato, soppesato e giudicato. Odio questo posto. – le ultime tre parole gli uscirono con un ringhio cupo e lo sguardo si diresse alla porta della biblioteca. – Avevo detto che non volevo essere disturbato, Mikelich.

Il maggiordomo entrò con la testa china e lo sguardo pentito. Beh, pensò Verity, pentito come poteva essere un gigante di quasi due metri.

– Vostra madre ha inviato un fax. – mormorò l’uomo porgendogli il foglio. – Dice che non potrà tornare neanche anche questo finesettimana. Vi esorta comunque a continuare a inseguire Dubois e a ucciderlo il prima possibile.

Negli occhi azzurri si accese una luce pericolosa e per un attimo Verity si chiese quale dei due uomini fosse il più pericoloso in quella stanza: la guardia del corpo o il medico. – Immagino che i lavori stiano procedendo bene. – disse freddo Christian strappando il figlio dalle mani di Mikelich. – Ci sono stati altri incidenti oltre a quello di tre giorni fa?

L’uomo drizzò le spalle con le mani dietro la schiena. – Un rallentamento, signorino. Alcuni carichi di cemento non sono arrivati a causa del maltempo. Pensano che la costruzione possa slittare di uno o due mesi.

Chris strappò il figlio in pezzi finché non divennero piccoli quadratini irregolari. – Cazzate! Dimmi la verità, quanto è arrabbiata per essermelo fatto sfuggire?

Verity non sapeva di cosa stesse parlando, lui era sempre molto attendo a non parlare davanti a lei del motivo per cui dava la caccia a Michael. Sapeva solo che c’entrava la madre di Chris e che lei lo aveva mandato alla ricerca del ladro forzandogli la mano.

– La signora vi consiglia di recuperare il tempo perso.

Chris chiuse gli occhi, pallido come un morto. – Ritirati, Mikelich. È un ordine.

A Christian non gli piaceva dare ordini, Verity lo aveva sempre visto ringraziare tutti i membri del personale e anche se era ingenuo e chiedeva delle cose assurde a orari altrettanto assurdi, usava dei toni gentili che faceva sì che tutti facessero quanto richiesto. Si comportava così con tutti, tranne che con Mikelich. Chris non provava nemmeno a nascondere il disprezzo che provava per quell’uomo.

Quando il maggiordomo se ne andò, Chris scolò in un colpo il bicchiere di whiskey che aveva abbandonato prima. Tremava e stringeva così forte il bicchiere che la ragazza temeva che lo frantumasse tra le dita. – Christian. – chiamò.

Lui la ignorò e riprese a bere fissando cupo il caminetto spento. – Chris... – chiamò in tono più alto. Aveva paura ad avvicinarsi a lui. Le ricordava fin troppo la madre in quello stato, ma come una stupida non voleva nemmeno lasciarlo da solo. – Non devi farlo per forza. Non devi bere per scappare, puoi trovare altri modi per sfogarti.

– Ah sì? Allora dimmi come posso dimenticare tutto quello che sta succedendo. Dimmi come posso dormire la notte senza essere perseguitato, non solo dai miei predecessori, ma anche ai miei demoni. – lei tremò sotto il suo sguardo furioso e folle. – Dimmi Verity, come posso dormire bene la notte quando so che per salvare migliaia di vite devo diventare un assassino e tradire tutto ciò che mi ha insegnato Nyvie?

Verity non trovò la risposta e se ne andò chiudendosi la porta della biblioteca alle spalle, lasciando quel ragazzo da solo a combattere una battaglia in cui si era già arreso.

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NdA: sono quei piccoli miracoli che ormai accadono ogni due settimane! l'Aggiornamento! Evviva. Ringrazio tutti quelli che mi lasciano un commento, fa sempre piacere leggere le vostre impressioni e vedere che le persone che la mettono nelle seguite/ricordate/preferite aumentano. Non sapete quanta gioia mi date! Allora, che ne pensate di Christian e di Verity? Cosa vi aspettate per il futuro?

Un bacio a tutti

Khyhan

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Capitolo 10
*** 2.3 La Papessa - L'Abilità del Ladro ***


2.3 - L'abilità del ladro

II – La Papessa

L’abilità del ladro

 

Trinity College, Dublino 21 Luglio 2011.

 

Michael depositò la valigetta sul nastro trasportatore per il controllo ai radiografico mentre lui oltrepassava il metal detector. Allargò le gambe permettendo alle guardie dell’archivio di perquisirlo. La fibbia della cintura e la montatura degli occhiali finti avevano fatto suonare il macchinario attirando l’attenzione delle guardie, ma solo perché lo aveva voluto lui. Aveva bisogno di sapere quanto fosse sensibile.

Mentre i due uomini gli diedero un’occhiata veloce tra le gambe, Michael ridacchiò. – Vacci piano, amico. – esclamò imitando l’accento americano. – I gioielli mi servono ancora.

L’uomo gli diede un’altra scrollata, stavolta con più zelo, ribadendo che il padrone di casa lì era lui e poi gli permise di riprendere la valigetta e di raggiungere la guida che gli era stata messa a disposizione.

Il metal detector era sensibile come aveva immaginato, ma Michael non aveva notato sensori di peso e le guardie poco attente non gli avevano fatto domande. Una guardava ai raggi x il contenuto della valigetta di pelle e le altre due lo avevano esaminato. Tutto come aveva previsto.

La ragazza castana gli fece un sorriso incoraggiante prima di allungare la mano. – Buongiorno. – disse un accento strano. Non era inglese e nemmeno irlandese, parlava con la stessa cadenza di Verity quando imprecava. – Sono Carolina Ciarelli, oggi le farò da assistente nelle sue ricerche.

Michael gliela strinse, studiando la ragazza. La gonna larga e la camicetta gli fecero venire mal di testa per i colori accesi e le ciocche dei capelli le sfuggivano dalla coda che si stava disfacendo. Era la personificazione del disordine, ma mascherò il disappunto dietro un sorriso affabile. Di quella ragazza non gli importava nulla, gli bastava che lo conducesse al libro. – Piacere mio. – rispose stringendogliela.

La ragazza guardò le loro mani corrucciata. – Tirate di scherma, signor Keller?

Michael non si aspettava una domanda tanto diretta e ritrasse la mano, sottraendosi allo studio della ragazza. Non poteva sottovalutare l’intelligenza di quella ragazza. Solo toccandolo aveva scoperto più di quanto lui volesse far sapere. – Ogni tanto. Mi aiuta a rilassarmi. – e la lista di persone che immaginava infilzare si allungava ogni giorno di più. All’attivo aveva ne aveva circa una ventina e in cima c’era Duchessa.

La ragazza annuì facendogli cenno di seguirlo. – Ho letto dei manuali di scherma. È interessante.

Si stavano addentrando su un terreno pericoloso. Michael non era un esperto di scherma, non aveva mai frequentato una scuola o una palestra. Ciò che sapeva derivava dalle nozioni imparate dai suoi avi e quando impugnava una spada o una sciabola i suoi ricordi gli dicevano come muoversi. Non avrebbe mai potuto sostenere un incontro o un discorso contro qualcuno che ne conosceva più di lui a meno che non avessero parlato di storia della scherma.

Cambiò discorso mentre lei gli faceva strada attraverso i corridoi disseminati di schedari. – Da quanto lavorate per il  Trinity? – domandò. Dentro uno solo di quegli schedari doveva esserci un tesoro di conoscenza immenso: l’ubicazione dei testi antichi e moderni.

– Un anno circa. Da quando il mio professore di letteratura inglese si è accorto che mi bastava leggere qualcosa per memorizzarne il contenuto. – si picchettò la fronte con un dito. – La chiamano memoria fotografica.

Michael sorrise sotto i baffi. Le aveva stretto la mano e da lei non aveva percepito nulla di particolare. Era una ragazza normale che camminava intralciata dalla lunga gonna di velluto verde brillante. Mise alla prova le sue capacità deciso a smascherare le sue bugie. – Quanto ancor più bella sembra la bellezza, per quel ricco ornamento che virtù le dona! Bella ci appar la rosa, ma più bella la pensiamo per la soave essenza che vive dentro a lei...

Anche le selvatiche hanno tinte molto intensesimili al colore delle rose profumate, hanno le stesse spine e giocano con lo stesso brio quando brezza d'estate ne schiude gli ascosi boccioli: ma poiché il loro pregio è solo l'apparenza,abbandonate vivono, sfioriscono neglette e solitarie muoiono. Non così per le fragranti rose: la loro dolce morte divien soavissimo profumo: e così è per te, fiore stupendo e ambito, come appassirai, i miei versi stilleran la tua virtù.Carolina terminò di recitare il sonetto con un sospiro e poi gli fece un sorriso timido. – Vi piace Shakespeare, signore Keller? Questo era il cinquantaquattresimo. Potete trovarne una copia al piano di sopra, nella biblioteca. Nello scaffale A, quarto ripiano a partire dall’alto sulla destra. Se vi interessa altre sue opere può ammirare alcune prime edizioni nelle teche vicino a una delle prime copie della Divina Commedia e al Libro di Kells. Hanno un valore astronomico per gli amanti dei libri e non.

Dio, pensò Michael, questa ragazza mi sta invitando a rubarglieli.

Non si era mai interessato al furto di manoscritti, erano le gemme ad attrarlo di più e maggiore era il valore, maggiore era il suo interesse, ma il modo acceso con cui Carolina parlava di libri gli faceva prudere le mani dalla voglia di privare il Trinity dei suoi preziosi tesori.

Lei continuò a parlare ancora un po’ delle bellezze che la biblioteca offriva, ma Michael non era ancora convinto riguardo alla sua intelligenza. Shakespeare e i suoi sonetti erano relativamente semplici e avrebbe potuto impararli a memoria per i suoi studi.

Provò con qualcosa di diverso che arrivava dall’altra parte del mondo. – Quando vedi il nemico pronto, preparati contro di lui; ma evitalo, dove è forte. Quando il nemico è unito, separalo.

Carolina annuì. – Immagino che amando la scherma abbiate letto l’Arte della guerra, ma è un’inesattezza. Dice: Quando il nemico è unito, dividilo. Magari sono differenze di traduzione. Se vuole controllare abbiamo anche Sun Tsu.

– No, ma la ringrazio. – mormorò a denti stretti. Aveva cambiato apposta l’ultima parola per vedere se lei era attenta e se aveva la memoria fotografica di cui si era vantata. – Sono sicuro che sia come dice lei, signorina.

A quanto pare i geni esistono veramente.

Michael si arrese all’evidenza e decise di memorizzare il nome e il volto della ragazza. Un giorno avrebbe potuto tornargli utile. Avere la propria enciclopedia personale a disposizione avrebbe potuto fargli risparmiare tempo e sfortunati incontri come quello con Alex. Anzi, avrebbe già potuto iniziare a sfruttarla. – So che non è ciò che ho richiesto nella mia domanda di consultazione, ma potrei anche vedere dei volumi sul ciclo bretone, se li avete? E qualcosa sulle carte dei tarocchi.

Sapeva di starsi cacciando in un guaio che avrebbe potuto sollevare molte domande e un grosso polverone, ma se non aveva delle risposte in una delle più grandi biblioteche del mondo non aveva idea di dove andarle a cercare.

Carolina lo soppesò con lo sguardo, quasi trapassandolo con quegli occhi nocciola. – Forse posso fare qualcosa. Ho letto dei volumi sul ciclo bretone. E qualcosa sull’origine dei tarocchi. Le interessano le magie e i misteri? – gli aprì le porte a vetri invitandolo nell’anticamera dove avrebbe potuto sistemarsi prima di entrare nella stanza ad atmosfera protetta. Passando, Michael vide le telecamere e lo spessore del vetro antiproiettile. – L’atmosfera modifica all’interno della stanza provoca vertigini e nausea alle persone in circa dieci minuti, se vuole starci più tempo dovrà usare le bombole. – spiegò lei indicandogli la bombola di ossigeno con il marchio del Trinity College. – La stanza è isolata, anche acusticamente.

Per un attimo le parve di vedere negli occhi un lampo di malizia, ma Michael scosse la testa e lei tornò a essere gentile e affabile. Il libro che voleva era già dentro appoggiato sul tavolo sotto una luce che non potesse rovinarlo. Quella biblioteca trattava i libri come se fossero i figli primogeniti. – Penso che lo consulterò per un paio di ore. Anche gli altri libri che le ho chiesto dovrò studiarli in quella camera?

Carolina era una persona pacata che amava soppesare le risposte. Non si sbilanciava e si chiese distrattamente se fosse così tranquilla anche a letto o se l’avrebbe sorpreso. Magari avrebbe potuto provare prima di abbandonare Dublino. Se il suo piano funzionava non si sarebbero accorti del furto per un paio di giorni. Aveva tutto il tempo per divertirsi.

Quando Carolina andò a cercare i libri sul ciclo bretone aprì la valigetta ed estrasse i suoi guanti bianchi. Non solo gli servivano per maneggiare il libro senza danneggiarlo, ma anche per non lasciare impronte che potessero incriminarlo. Il problema erano le bombole. La maschera in dotazione era già pronta nel suo sacchetto sterile e se Michael ci avesse respirato dentro, le tracce di saliva sarebbero state una prova inconfutabile. Lanciare un razzo segnalatore e appendersi un cartello “sono stato io” avrebbe dato meno nell’occhio.

Decise in quel momento di modificare un po’ il suo personaggio e diventare un maniaco della pulizia. Non che non lo fosse già, portava sempre con sé una boccetta di gel per le mani, ma stavolta l’avrebbe usata per eliminare ogni prova della sua presenza.

Con il fazzoletto pulì l’interno e l’esterno della maschera con l’alcolgel prima di mettersela addosso. Michael conosceva l’uso di quelle bombole così come avrebbe dovuto fare la sua identità fittizia. Aveva scritto nella sua prenotazione che aveva già lavorato in ambienti con atmosfera controllata e che non dovevano preoccuparsi di istruirlo.

Prese ciò che gli serviva dalla valigetta ed entrò nella camera insonorizzata. Il codice lo attrasse subito e aprì con delicatezza la copertina di legno e pelle. Non aveva mai letto nulla in inglese arcaico, ma capiva quelle parole come se lo avesse sempre parlato. Sorrise quando trovò un errore di ortografia nel testo. Aver vissuto più di mille vite a volte gli tornava comodo per scoprire piccoli tesori come quello che aveva davanti.

Riusciva quasi a immaginare la persona che l’aveva scritto, le ore passate a fare la miniatura. Ogni pagina era bella come i quadri che si ammiravano nei musei e Michael sapeva che Alex non meritava quel libro e non lo avrebbe trattato con le giuste attenzioni. Il suo compratore non gli avrebbe dato il rispetto che quel pezzo di storia meritava chiudendolo dentro una cassaforte per privarlo agli occhi del mondo. Michael non ci poteva fare nulla, quella era la sua vocazione. Arrivare dove gli altri non osavano e non lasciare tracce del suo passaggio.

Si mise al lavoro. Il blocco per gli appunti era già pronto con una copertina simile a quella del libro e imitò le posizioni delle miniature del libro. Non doveva essere perfetto, doveva solo aiutare la facile mente umana a cadere nella sua trappola. Mentre lavorava, Carolina lo raggiunse depositando accanto a lui tre libri. Era pallida e l’aria iniziava già a darle fastidio. Lui le mimò un grazie e la invitò ad uscire dalla stanza. Un po’ le dispiaceva per lei, dopo quel furto avrebbe perso il lavoro. Con la sua memoria non avrebbe faticato a trovarne un altro, ma quella macchia sarebbe rimasta sul suo curriculum. Scuotendo la testa, mise a tacere il senso di colpa. Non era un problema suo. Era abituato a ferire le persone, a usarle per i suoi scopi, ma non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo acceso di Carolina quando parlava di libri. Il nodo allo stomaco si sciolse solo quando si ripromise di salvarle quel lavoro prestigioso.

Se continuo così, tra un po’ regalerò caramelle ai bambini e aiuterò le vecchiette a portare la spesa.

Passando ai libri su Artù, rise. Lui aiutava già la sua vicina a portare la spesa. La signora Monreau impicciona riusciva sempre a beccarlo alla base delle scale con due buste piene e gli chiedeva se poteva aiutarla. Se Angie lo avesse visto avrebbe riso per un quarto d’ora prima di stampargli un bacio sulla guancia e dirgli che era il fratello migliore del mondo. Ed era così che voleva che lei lo vedesse. Questo Michael che dubitava di tutti e si muoveva tra le paludi della malavita l’avrebbe spaventata.

Si immerse nel ciclo bretone escludendo tutti i rumori esterni. Mentre leggeva riusciva a discernere i fatti storici dalle leggende e le canzoni narrate in quei libri. Leggeva un nome e nella mente gli si formava l’immagine della persona, altri erano di pura fantasia. Certi nomi non gli dicevano nulla, lo lasciavano indifferente come se leggesse un romanzo che non gli trasmetteva alcuna emozione. Altri, come Morgana e Mordred gli facevano pulsare una arteria sulla tempia e gli faceva venir voglia di cancellare quei nomi dai libri e dalla memoria dell’Inghilterra. Per Artù provava soggezione, a volte venerazione quando leggeva come aveva creato Camelot, ma quando apparve il nome di Ginevra, i suoi sentimenti per Artù cambiarono passando alla gelosia mista al rancore. Amava e odiava quell’uomo che era una leggenda nel mondo. Sapeva che era stato giusto, aveva amato la sua gente ed era il primo a rispettare le regole che lui stesso dettava, ma non poteva perdonargli di aver sposato Ginevra. Quella donna era sua, era nata per lui e anche a distanza di un millennio il dolore gli stringeva il cuore. Stesso discorso valeva per Lancillotto, il suo nome gli stuzzicò la memoria, andando a pungolare quella parte di lui che cercava di soffocare. Non voleva sapere altro del suo passato, lui era lui e basta, ma riconosceva quei nomi come dei vecchi amici e ora che aveva cominciato non riusciva più a smettere. Lancillotto del Lago era stato il più fidato cavaliere del re e dopo Merlino era l’uomo a lui più vicino e aveva avuto il compito di proteggere Ginevra. La sua testa gli diceva di essere grato a quell’uomo per tutto quello che aveva fatto per lui e Ginevra anche se non ne ricordava più il volto.

Michael si passò una mano sugli occhi, le leggende raccontavano male la storia che la Luna aveva vissuto in prima persona. Ora che le vedeva scritte coglieva gli errori e le inesattezze storiche. Lancillotto non aveva mai tradito Artù, aveva eseguito i suoi ordini stando vicino alla regina per proteggerla da Mordred che la perseguitava. L’aveva portata via prima che lui potesse ucciderla e che Morgana spargesse la follia per il regno che tanto faticosamente avevano costruito. Chi aveva amato veramente Ginevra era stata la Luna ed era stata giustiziata per quello. Senza più lei e Lancillotto a proteggerla, Ginevra era morta sul rogo preparato dal suo stesso marito diventato folle.

Chiuse il libro cercando di sigillare i ricordi che avevano preso possesso della sua mente. Non solo doveva rivivere quei momenti di notte, ora lo assalivano anche in pieno giorno. Aveva sbagliato a chiedere dei libri sul ciclo arturiano, si sentiva confuso e spaesato. La prigione dove aveva passato gli ultimi giorni di quella vita si sovrappose alla camera sotterranea dove si trovava.

Inspirò un paio di volte l’aria delle bombole riprendendo il controllo di se stesso. Era Michael, il figlio di Alain Dubois, era un ladro che non lasciava traccia dei suoi furti, era il sogno segreto delle ragazze che frequentavano il quartiere Pigalle. Conosceva i suoi limiti e la sua forza. Confondersi nel bel mezzo di un lavoro non era da lui. Cacciò quei sentimenti estranei dove lui non potesse più raggiungerli.

L’orologio e il livello della bombola gli dissero che aveva passato lì dentro più quanto avesse voluto. Aveva ancora un’ora di autonomia poi avrebbe dovuto uscire, ma la maggior parte del lavoro era già fatto, doveva solo terminare il suo inganno. Passò al libro sull’origine dei tarocchi e come prima, escluse tutti i rumori esterni. Doveva memorizzare il più possibile quelle pagine. Tornare dentro il Trinity in futuro sarebbe stato pericoloso. Sfruttò la sua mente al massimo  memorizzando date e nomi che gli sarebbero tornati utili per ulteriori ricerche. Non doveva dimenticarne nemmeno uno. Una volta terminato sorrise, Carolina poteva avere una memoria fotografica, ma anche lui rientrava nella categoria dei geni.

Posò il suo blocco per gli appunti dove preso il libro che era venuto a rubare e si mise il codice sotto braccio usando l’illusione per modificare l’aspetto agli oggetti.

Carolina lo aspettava lì fuori e non cambiò espressione quando lui mise il codice nella valigetta, anzi gli sorrise aiutandolo con la bombola. – Trovato qualcosa di utile? – domandò lei controllando l’indicatore sulla sommità della bombola.

– Abbastanza. – disse soddisfatto. La sua magia poteva ingannare l’occhio anche di chi stava oltre le telecamere. Chiunque stesse guardando in quel momento vedeva lui con degli appunti sottobraccio e il codice nella stanza. Esattamente ciò che vedeva Carolina. – Più che il codice, ciò che mi ha sorpreso veramente è stato il ciclo bretone.

La ragazza annuì. – La leggenda di Albione e re Artù.

E la storia di una dama che ha amato la sua regina fino a morire pur di non rinunciare ai quei sentimenti.

Michael chiuse la valigetta ermetica attivando il filtro interno. Aveva un’autonomia di ventiquattro ore. Avrebbe mantenuto stabile l’atmosfera all’interno impendendo all’aria di deteriorare il codice. Consegnata quella valigetta a Alex, sarebbe stato compito suo consegnarla in tempo al mandante.

Carolina guardò due volte la valigetta e il finto codice lasciato nella stanza con aria dubbiosa. La ragazza era sveglia, Michael non aveva alcun dubbio e intensificò la presa della sua magia. Doveva far credere al cervello di Carolina che lui avesse lasciato il codice nella stanza a costo di bruciarle qualche neurone. – Problemi? – domandò sudando freddo. Ordinò a se stesso di darsi un contegno. Lui non sudava freddo, il mondo avrebbe potuto cadere in quel momento e lui si sarebbe scansato, ridendo del panico degli altri.

Lo sguardo della bibliotecaria si fece più vacuo e scosse la testa. – Meglio che metta via il libro. Con la testa che ho me lo sarò dimenticato tra cinque minuti.

Non poteva chiedere di meglio. Se metteva via il libro poteva ingannarli per diversi giorni e lui avrebbe già abbandonato Dublino. – La attendo qui. – disse appoggiandosi di schiena al tavolino. Rimasto solo, Michael ripulì la maschera collegata alla bombola e fece sparire il sottile tubo di raccordo non potendo pulire anche quello.

Sapeva che le sue erano delle preoccupazioni in più. Se il suo piano andava come voleva, lui non era nemmeno entrato nella biblioteca del Trinity ma l’esperienza gli aveva insegnato che l’eccesso di zelo salvava la vita nella maggioranza dei casi.

Finì di ripulire la stanza dalla sua presenza nello stesso momento in cui Carolina tornò e si rilassò. Ora poteva anche pensare al dopocena. Mentre Carolina lo scortava verso l’uscita le si affiancò. – Ha qualcosa da fare stasera?

La ragazza batté due volte le palpebre. – Non esco con gli sconosciuti. – disse accelerando il passo. Michael si chiese se tutto quello che aveva sentito sulle italiane fossero leggende metropolitane e quelle con cui aveva flirtato a Parigi fossero una razza in via di estinzione. Non era possibile che anche lei, dopo Verity, gli dicesse di no. Forse doveva cambiare qualcosa nel modo di parlare o era l’illusione sulla sua persona a non attrarre la ragazza. – Non è per me. – spiegò abbassando la voce. – Io riparto stasera, ma un mio amico non è pratico di Dublino. Un po’ di compagnia per un paio di giorni lo aiuterebbe. – ed eliminerebbe il problema Alex dalla sua stanza.

– Sempre uno sconosciuto è. – rispose lei senza guardarlo. Le guance le divennero rosse e Michael trattenne la soddisfazione. Era lusingata, anche se non aveva ancora ceduto.

– Se non ci esce insieme rimarrà uno sconosciuto per sempre. – proseguì lui deciso a non mollare. Lo smalto azzurro della ragazza lo attraeva, voleva sentirlo saltare via mentre lei gli graffiava la schiena.

Carolina gli indicò l’ingresso. Le guardie svogliate parlavano di qualcosa sottovoce osservando i monitor senza vederli realmente. – E così rimarrà, signor Keller. Buona giornata. – girò i tacchi e lo abbandonò da solo con le guardie. Lo avevano mandato in bianco di nuovo.

E voglio salvarle anche il lavoro.

Si avvicinò ai tre uomini lasciando che la magia tessesse per lui delle forti illusioni. Non doveva permettere che rimanesse traccia del contenuto della valigetta nei nastri della vigilanza. Poteva cancellare la sua presenza dalle telecamere, ma non poteva fare nulla per quei macchinari. Portò la valigetta con sé sotto il metal detector e le guardie non fecero una piega, vinti dalla sua magia mentre il terzo addetto guardava il monitor vuoto. – Deve fare attenzione, signor Keller. – disse lui. – La penna nella tasca interna è aperta e potrebbe rovinarle la valigetta di pelle.

– Grazie per l’avvertimento. – disse con un sorriso mentre suonava il metal detector. – Gli occhiali e la cintura. – spiegò.

– Certo. – rispose uno degli addetti. – Ha suonato anche all’ingresso.

– Già. – rispose Michael annuendo. – È un macchinario sensibile. Meglio così, scoraggia eventuali ladri.

Le guardie furono d’accordo con lui dicendo che finora nessuno era riuscito a derubare gli archivi del Trinity College. Secondo Michael era ora che rivedessero i loro primati. Entrare e uscire da lì era stato un gioco da ragazzi. Più facile di quanto avesse potuto credere. Il pensiero delle ore spese a progettare quel piano lo fece ridere. Voleva entrare di notte mentre tutti gli allarmi erano attivati? Il Trinity gli aveva spalancato le porte dicendogli benvenuto. Se gli avessero offerto anche un rinfresco, Michael sarebbe tornato una seconda volta.

Uscì dalla biblioteca del Trinity con un sorriso sulle labbra e la valigetta in mano. Nessuno aveva protestato o posto delle domande. La bibliotecaria e gli addetti della sicurezza avrebbero avuto dei falsi ricordi su di lui. Con la magia della luna calante era più facile modificare la realtà che costruire dei ricordi dove lui non era mai esistito. Se qualcuno avesse posto loro delle domande, avrebbero parlato di un americano con i capelli rossi e gli occhi verdi nascosti dietro a un paio di occhiali quadrati. I travestimenti lo divertivano. Erano frutto della sua fantasia e della sua abilità e più i suoi personaggi erano complessi e ben costruiti, più si divertiva. Lo rendevano il migliore e in grado di rubare qualunque cosa. Ma non aveva il tempo per festeggiare un lavoro così ben fatto, doveva ancora fare due cose.

Tornò alla sua stanza d’albergo sciogliendo la sua illusione e tornò a essere se stesso. Neal Keller non era un brutto uomo ma preferiva che allo specchio fosse l’immagine del suo viso e il suo sorriso sarcastico a salutarlo.

Con la valigetta chiusa posata sul tavolo e Alex che ora dormiva un sonno naturale, Michael accese il pc ed entrò nel sistema del Trinity College. Eliminò le registrazioni della sicurezza dell’ultima settimana con un virus in modo che sorgessero i minor sospetti possibili. Eliminare solo le ore che aveva passato lì dentro era un errore da principianti e prima o poi qualcuno si sarebbe posto qualche domanda. Assicuratosi che non ci fossero più tracce di lui passò ad cancellare la propria domanda di consultazione. Della sua presenza non rimase altro che il ricordo confuso di quattro persone.

Mancava un’ultima cosa da fare. La sua coscienza gli diceva di muoversi con la voce gentile di sua sorella nella testa, ma le dita tamburellavano sul tavolo, indecise. Doveva modificare il file con i turni di lavoro dei bibliotecari, spostando Carolina da quella giornata e mettere un nome qualunque della lista che aveva davanti. Cosa importava a lui se quella ragazza perdeva il lavoro? Il mondo era grande, avrebbe trovato altro. Come nella biblioteca, gli balenò davanti lo sguardo della ragazza e la gioia che provava nel parlare di libri. Era una crudeltà privarla di una cosa del genere, stava facendo il lavoro che amava. Si passò una mano tra i capelli. Un anno prima non ci avrebbe pensato due volte e avrebbe spento il computer, ora era combattuto.

Avrebbe dovuto imparare a stare più attenta, disse alla propria coscienza.

La voce di Angéline trillò. Trasgredendo alle regole ti ha portato dei libri che non avevi richiesto e che ti sono tornati utili.

Scosse la testa e si mise a lavorare. Modificare quel file era un lavoro semplice e Carolina non sarebbe mai stata lì. Non avrebbero fatto a lei le domande.

Grazie sorellina, pensò ironico, riesci sempre a farmi sentire un uomo migliore di quanto in realtà sia. Se suo padre avesse saputo di quel gesto di pura gentilezza lo avrebbe punito. Essere gentili significava essere morti.

Il suo cellulare squillò e quando vide il numero non riuscì a trattenere un’imprecazione. – Sono io. – disse rispondendo contro voglia. Sapeva che quella strega lo avrebbe tempestato di chiamate e messaggi fino a esaurirlo.

– Ti disturbo? – domandò lei con voce allegra. Quei poveri turisti di Parigi dovevano sopportare l’ondata di calore che la presenza del Sole in città provocava. Michael si divertiva a vederli sudare arrancando da un museo all’altro o alla ricerca di un bar con l’aria condizionata. Gli piaceva meno quando lei lo chiamava.

– Tu disturbi sempre. – rispose spegnendo il computer con una mano. – Potevi dirmi di cercare Alex mi avresti risparmiato un sacco di problemi.

Con la sua risata, Parigi doveva essere salita di altri tre gradi e se lei proseguiva di questo passo avrebbero raggiunto il record. Doveva chiamare sua sorella e dirgli di uscire con un cappellino e una bottiglia d’acqua o si sarebbe sentita male.

Il Sole proseguì a ridere per un minuto buono e Michael mise giù il telefono in attesa che lei finisse. – Mi chiami per? – la incitò lui dopo un po’.

– Abbiamo un problema, fratellino.

Aver risposto era già un problema. – Tu porti solo problemi. E sapevo che non mi avresti chiamato solo per farmi i complimenti.

– Stavo guardando il futuro della Regina di Spade...

Michael sbuffò. – Questa conversazione era già irritante prima, ora è odiosa.

La strega fece finta di non sentirlo proseguendo nel suo sproloquio. – E ho avuto una chiara visione del futuro, fratellino. – abbassò la voce teatrale e aspettò una risposta da Michael.

Il sopracciglio di Michael scattò verso l’alto e l’arteria sulla tempia tornò a pulsare. – Si romperà un’unghia cadendo dai tacchi?

Il Sole rise. – Se l’è già rotta. No! – proseguì come se stesse intrattenendo una delle tante vecchie credulone che la consultavano. – È molto più cupo di così, molto molto più cupo.

Michael era stanco. Il sogno della notte prima lo aveva reso irritabile e nemmeno il suo furto così ben architettato riusciva a scacciare le sensazioni che gli avevano lasciato i nomi letti sul ciclo bretone, ma al Sole piaceva giocare e amava che la gente pendesse dalle sue labbra. – Quando sei tornata in te, scrivimi una mail o un messaggio e non mettermi gli smile. – taglio corto, acido. Stava per chiudere la conversazione quando lei sbottò. – Vedo la sua morte!

Michael si raddrizzò sulla sedia, attento e teso. L’idea della morte di Verity gli fece torcere le budella. – Cosa sai? – sussurrò. – Cosa vedi?

Le visioni della carta del Sole erano sempre accurate e veritiere. Era la sua maledizione poter vedere il futuro una volta prese le decisioni, ma se lo aveva chiamato forse c’era una speranza. Qualcosa a cui tenersi stretto, anche se Michael non l’amava come i suoi predecessori non voleva che morisse. – Sarà Courteney a ucciderla?

– Hanno liberato il Diavolo. È tornato a camminare libero e lui la legherà a sé. Non solo morirà, ma stavolta la potresti perdere per sempre. Le parole del Diavolo sono veleno con il gusto del miele per le orecchie della Regina. Le farà credere ciò che lui vorrà, la porterà dalla sua parte. E morirà nel dolore maledicendo il tuo nome e quello dei tuoi antenati.

Anche se gli importava poco di Verity gli vennero i brividi per quelle parole. – Alanna... – non la chiamava per nome da anni e ora gli era sfuggito mentre stringeva il telefono. Verity avrebbe maledetto il suo nome e quello dei suoi antenati sarebbe morta odiandolo e l’avrebbe persa per sempre. Quel pensiero gli fece più male di quanto volesse ammettere. – Come hai potuto ridere dicendomi una cosa del genere? – batté la mano sul tavolo e sentì Alex mormorare qualcosa nel sonno. Stava ancora lì, sul divano dove l’aveva lasciata ma a lui non importava più niente di quella ragazza. La sua testa era piena di immagini di Verity che si sovrapponevano a mille altri volti che aveva amato nelle sue vite passate. La sua rabbia svanì e per la prima volta sentì la paura. Le gambe non volevano stare ferme e le mani lo imploravano di muoversi, di agire. Tutto il suo corpo fremeva e le sue cellule urlavano il nome di quella ragazza. Aveva paura per lei. – Cosa devo fare? – non riconobbe la propria voce. Stava implorando al telefono una ragazza che non sopportava. Una strega che tesseva in silenzio aprendo la bocca solo se riceveva un tornaconto. Non c’era niente che Alanna facesse gratuitamente per gli altri Michael lo sapeva a proprie spese, ma il suo corpo e il suo cuore gli chiedevano di vendersi anche ad Alanna se fosse stato necessario. Anche a Duchessa, se poteva salvarla. Il suo cervello era muto sopraffatto da millenni di sentimenti che lui non poteva arginare.

Era stato attratto da Verity ancora prima di saperne l’identità. La sua anima l’aveva riconosciuta subito e anche se lei l’aveva rifiutato e schernito aveva sentito la sua voce cantare per lui soltanto. Ora che l’aveva incontrata non avrebbe più conosciuto pace.

– Quella che vedo è una visione chiara e precisa. Non posso modificare quell’incontro è scritto nel suo destino. Vedrà il Diavolo e le sue parole l’attrarranno. I suoi modi di fare la affascineranno, che ceda o meno alla tentazione dipenderà da te.

Michael rise amaramente. – Mi stai dicendo di farla innamorare di me...

– Di ricordarle che voi avete avuto un passato insieme. Avete attraversato la storia. Siete destinati a ricongiungervi. Questa è la fine, Michael. Ovunque io volga la mia vista vedo solo la fine. Non ci saranno future incarnazioni, non ci saranno eredi. Vedo un campo di battaglia insanguinato e non ho idea di chi avrà in mano il mazzo alla fine. Inoltre, lui sta tornando, sta seminando. Presto raccoglierà i frutti della follia cominciando dai vecchi amici e corrodendo ancora di più i nemici.

Per quanto Alanna gli facesse saltare i nervi non poteva ignorare quegli avvertimenti. – Non puoi trovarlo con la tua vista? Potremmo ucciderlo prima che agisca.

Michael aspettò in silenzio la risposta del Sole sapendo già che non gli sarebbe piaciuta. Avevano già vissuto quella situazione in passato e aveva visto come era andata a finire. – Lui cambia idea ogni ora. – mormorò Alanna al telefono. – La sua mente è un labirinto: non prende decisioni, non fa piani. Si affida all’umore e poi giocano dalla sua parte pedine che sanno. Vedono il futuro come me e conoscono il passato meglio di tutti noi messi insieme. Loro ricordano tutto. – fece un profondo sospiro. – Presto si muoveranno in cerca di vendetta.

Non aveva bisogno di chiederle chi volesse vendicarsi, conosceva già la risposta. Anche se non l’aveva mai visto in faccia l’antico odio tornò a farsi potente trasformando il respiro in un ringhio basso e minaccioso. Stava per fare un’altra domanda, ma il Sole lo precedette. – Muoviti secondo i tuoi piani. – disse lei. – Continua a cercare lo zaffiro, ciò che troverai potrebbe aiutarti in futuro.

Anche se era scosso gli sfuggì un sorriso. – Odio quando parli per enigmi.

Alanna ritrovò la risata. – Sono gli enigmi che rendono la vita interessante, fratellino. Risolvi presto quello del tuo cuore.

Mise giù il telefono e andò a svegliare Alex scrollandola per le spalle. Non era dell’umore adatto per sopportare i capricci della ragazza così la liquidò con poche parole mentre lei era ancora intontita dal sonno. – Ho recuperato ciò che volevi. – annunciò mentre lei si strofinava gli occhi. – È nella valigetta. Ora dammi ciò che voglio. Dove si trova la Stella di Bombay?

Alex guardò prima la valigetta e poi lui. Si stiracchiò con tutta calma sapendo che a Michael non si sarebbe fatto sfuggine nulla della visione che lei gli dava. – Ma come, – disse allungandosi verso di lui per giocherellare con l’orlo della sua maglietta. – non te l’ho detto? Si trova nelle Sail Towers di Singapore. Al sessantesimo piano della torre uno protetto da una cassaforte che nemmeno tu potrai aprire. Il proprietario è un ricco magnate di Philadelphia, Alexander Bowers. – lo tirò a sé e gli leccò il pomo d’Adamo. – Vedo già che la tua testa geniale sta progettando qualcosa...

Con un sorriso, Michael accantonò il pensiero di Verity. Il destino continuava a prenderlo in giro in modo crudele. Sapeva chi era Bowers in realtà e non vedeva l’ora di sottrargli prima lo zaffiro e poi la vendetta. Alanna non lo avrebbe avvertito se fosse stato troppo tardi. Le sue profezie non si avveravano subito, aveva ancora tempo. Attirò a sé Alex, passandole due dita sulla schiena. Sì, lei lo conosceva bene. – Lascerò a bocca aperta il mondo intero. – le sussurrò.

Stringendo Alex gli tornarono in mente le parole di suo padre. Un ladro usa la propria abilità e la fantasia per raggiungere il suo obbiettivo.

Tutti lo avrebbero saputo, anche i suoi nemici. Non esistevano muri, case o casseforti che potessero fermarlo. Stava per fare la sua personale dichiarazione di guerra.

 

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NdA: Aggiornare è diventata una cosa incostante, così come scrivere. Faccio quello che posso quando posso e mi scuso perché nei precedenti capitoli ho visto un macello con le virgole. Li sistemerò pian piano, ma spero che questo capitolo vi piaccia. Cosa ne pensate di Michael? Cosa pensate che succederà?

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Capitolo 11
*** 2.4 La Papessa - Il Potere della Spada ***


2.4 - Il potere della Spada

II – La Papessa

Il Potere della Spada

 

Villa Courteney, Dover. 25 Luglio 2011

 

Christian aveva bisogno di sfogarsi. Non riusciva più a tenere a freno la rabbia che lo stava consumando negli ultimi tempi. Da quando aveva ricevuto il fax da sua madre i suoi pensieri erano rivolti a Calcutta e alle migliaia di persone che aveva lasciato lì. Non conosceva i loro nomi né i loro volti, ma era a conoscenza della loro condizione e delle poche risorse che avevano a disposizione i volontari che andavano in quella città dimenticata da Dio.  Aveva provato a far capire alla sua famiglia quanto disperata fosse la situazione, aveva provato a spingere di più sul piano pubblicitario, ma sua madre non voleva sentire ragioni: se Christian voleva realizzare i suoi desideri doveva obbedire agli ordini, poco le importava che nel farlo lui avrebbe perso la persona che era diventato a fatica.

Aprì piano la porta della camera di Nyvie e si perse a guardare la piccola che dormiva nel suo letto. Era in pace mentre osservava la sua protetta che riposava al sicuro. Egoisticamente l’aveva strappata a sua madre e ai suoi fratelli per portarla con sé in Inghilterra lasciando loro nella casa di un suo amico. Ne pagava le spese e faceva in modo che avessero tutto ciò che cui potevano aver bisogno, ma non erano come Nyvie. Erano persone che aveva visto due volte e non gli importava di loro, ma erano collegati alla bambina e per lei si era preso carico anche di loro. Lei era felice di sentire la madre e i fratellini al telefono e sapere che stavano bene e avevano sempre da magiare, a Chris interessava solo questo.

Si appoggiò al muro e rimase in quella stanza per qualche minuto. Ne aveva bisogno. Aveva bisogno di ricordare a se stesso perché aveva scelto di cambiare, tornare alla sua vecchia vita era allettante perché questa strada era molto più difficile della precedente.

Nyvie si girò nel letto mormorando qualcosa di hindi e lui le sorrise nella penombra. Se in quel giorno di pioggia non avesse trovato la bambina le cose sarebbero andate diversamente. Sua madre non avrebbe trovato nulla con cui ricattarlo, tanto per cominciare e lui sarebbe stato su qualche isola a godersi il sole estivo e la compagnia di donne interessate solo al suo nome e ai suoi soldi. Eppure preferiva questa situazione così intricata, ma con dei veri affetti, rispetto al passato.

Rimboccò il lenzuolo a Nyvie. Non gli piaceva che dormisse a pancia scoperta, anche se era estate, con l’ambiente climatizzato, Nyvie avrebbe potuto prendere freddo. La piccola doveva sempre stare bene, vederla anche con banale raffreddore lo terrorizzava. Se le fosse successo qualcosa, cosa ne sarebbe stata della sua neonata coscienza?

Chris non ci voleva pensare. Tornare a essere il vecchio Christian Courteney che dispensava vita e morte a suo piacimento lo esaltava e lo spaventava. Ciò che aveva fatto era profondamente sbagliato, inumano, contrario a tutto ciò che gli avevano insegnato all’università, ma non gli era mai importato. Era stata Nyvie a insegnargli con pochi gesti che lui era una persona vuota anche se era un medico ricercato. Gli occhi di quella bambina lo avevano colpito lasciandogli un segno profondo nella sua sicurezza. L’aveva curata dalle piaghe infette solo per dimostrarle che lui era al di sopra del suo disprezzo e poi del suo fratellino strappandolo al colera perché lui poteva vincere anche contro la morte. Si era occupato dei due bambini per giorni nutrendoli e curandoli al massimo delle sue conoscenze, ma negli occhi di Nyvie continuavano a scrutarlo e soppesarlo. Vedeva che era grata per le cure che prestava al fratello malato, ma non lo guardava mai con l’adorazione che avevano tutti i suoi clienti. Frustrato per quel comportamento le urlò cosa volesse e Nyvie lo trapassò con lo sguardo dicendogli che era povero.

Quando Chris li mise alla porta senza tanti complimenti si aspettò di tornare alla normalità. Le sue giornate erano piene di situazioni drammatiche, ma niente riusciva a colpirlo come il ricordo dello sguardo di Nyvie. Ignorando la sua sicurezza personale, si era inoltrato nei bassifondi per capire perché lei lo avesse definito povero. Christian aveva sempre avuto tutto ciò che poteva desiderare mentre le persone che vivevano in quelle capanne di scarti e lamiere non sapevano nemmeno se avessero avuto un tetto il giorno dopo. Trovò Nyvie che stava dividendo un pezzo di pane con i suoi tre fratelli mentre la madre scaldava su un fornello di fortuna del tè chai. Non avevano nulla se non qualche stuoia e i vestiti che avevano indosso. Quella ragazzina aveva avuto il coraggio di definire lui povero quando lei aveva meno che niente. Eppure lei era felice. Rideva, giocando con i fratellini anche se le ossa le sporgevano e la pelle era sottile come la carta. Soddisfatta la sua curiosità avrebbe dovuto andarsene, ma senza capire il perché, rimase in mezzo a quella baraccopoli a osservarli, invidioso di quelle risate genuine e di quell’allegria che contagiava tutti i bassifondi. Nyvie lo vide e con un sorriso lo trascinò oltre la tenda sbrindellata, invitandolo a unirsi a loro per mangiare quel poco che avevano. Sua madre gli offrì la stuoia intrecciata migliore. A distanza di due anni, ancora non gli venivano in mente le parole adatte per descrivere il tè che gli avevano offerto e il calore che aveva provato in quel momento. Si sentiva il benvenuto e non perché era un medico o un ragazzo ricco, ma perché era una persona. Da quel giorno non era più riuscito a separarsi da Nyvie, andava a cercarla anche se era esausto portando con sé una busta piena di cibo che affidava alle prime persone che trovava per strada sapendo che quel giorno qualcuno avrebbe mangiato e iniziò a lavorare per le Missionarie della Carità con nuova energia combattendo anche per i casi disperati perché tutti avevano diritto ad una seconda occasione. A una seconda vita come era successo a lui. Nel momento in cui Nyvie aveva incrociato la sua strada, aveva capito cosa significava essere poveri ed era riuscito a riempire la voragine dentro di lui che sentiva da sempre.

A fatica si allontanò dal letto. Era appena l’alba e lei aveva il diritto di godersi ancora qualche ora di riposo. – Sogna anche per me. – le sussurrò. – Crea un mondo tutto nuovo senza povertà, menzogne e malattie.

Nyvie mormorò qualcosa e sulle labbra le si dipinse un sorriso che gli scaldò.

Assicuratosi che lei stesse bene si diresse in palestra. Fin da bambino lo avevano costretto ad alzarsi prima che il sole sorgesse per allenarsi e nel corso degli anni non aveva mai perso l’abitudine. La sua giornata iniziava presto e finiva a notte fonda, quando la villa sprofondava nel silenzio e nemmeno gli animali emettevano più un suono.

Percepì la presenza di Mikelich nel corridoio e si fermò. Non aveva voglia di incontrarlo, erano cinque giorni che faceva di tutto per non vederlo, ma il suo maggiordomo spuntava fuori ovunque. Erano lontani i tempi in cui si sentiva al sicuro con quell’uomo vicino, quando contava sul suo consiglio ed era convinto che avrebbe risolto ogni suo problema. Chris aveva capito da che parte stava Mikelich e non era dalla sua.

Se possibile, il gorgoglio dell’acqua calda che uscivano dalle statue della piscina lo irritarono ancora di più. Amava e odiava quella zona. Il nuoto lo rilassava e lo aiutava a riflettere, ma le ventidue statue gli ricordavano l’attenta pianificazione che suo nonno e sua madre che li avevano messo in atto e che li aveva portati alla sua nascita. Fin dall’infanzia suo nonno lo portava alla piscina e gli indicava la Forza, raccontandogli storie sulla sua carta e il significato che assumeva nei tarocchi. Il giorno che aveva sbriciolato una roccia con una mano sua madre lo aveva guardato con orgoglio e suo nonno gli aveva detto che era il degno erede del nome dei Courteney.

Quelle statue lo avevano esaltato per tanti anni spingendolo a comportarsi come preferiva e a credersi migliore degli altri perché lui era di ascendenza nobile e un essere sovrannaturale e nessuno lo aveva mai fermato. Ora, il significato che vedeva in quei pezzi di pietra lo faceva vergognare. Avrebbe ridotto in cenere quella villa se glielo avessero consentito, ma sapeva di essere osservato dai mille occhi di sua madre e ne era terrorizzato. A trent’anni aveva ancora paura di guardare in faccia sua madre e dirle che non era più una sua pedina, ma anche se avesse trovato la forza di farlo, innumerevoli vite contavano sulla sua obbedienza. Sua madre non avrebbe ferito lui, ma avrebbe licenziato il personale che conosceva da anni, gli avrebbe tolto Nyvie e distrutto ciò che lui stava costruendo in India. Avrebbe dato fuoco i bassifondi di Calcutta per rimetterlo in riga.

Poteva solo ingoiare la rabbia e attaccarsi alla speranza che con il sacrificio di pochi, molti avrebbero avuto un futuro migliore. E aveva iniziato da Verity e Nyvie. Voleva dare alle due ragazze tutto ciò che desideravano. Fare in modo che non dovessero più accontentarsi di poco, quando potevano avere tutto.

La prima volta che aveva aperto l’armadio per Verity si era sentito impacciato. Non aveva mai fatto nulla di simile. Era abituato a scegliere vestiti per le ragazze che lo accompagnavano e che esibiva come un trofeo e non si era mai soffermato a chiedere i loro gusti, ma l’idea che ciò che aveva scelto non piacesse a Verity lo preoccupava. Era un tarlo che lo consumava dall’interno e si sentiva inadeguato in presenza di quella ragazza che aveva lottato per avere una vita migliore. Così come non poteva stare davanti a Nyvie senza provare vergogna per se stesso e per la sua famiglia.

Si fece forza ed entrò in palestra dove Mikelich lo attendeva come ogni mattina, ma non fu lui a sorprenderlo.

Verity stava dando dei pugni al sacco che Mikelich teneva fermo. Lo sguardo concentrato sul suo obbiettivo e le cuffie nelle orecchie che la estraniavano da ciò che le stava intorno. Non sapeva cosa animasse quella ragazza, ma era decisa a combattere con tutta se stessa, glielo leggeva negli occhi.

– Può forte, signorina! – la incitò Mikelich. Come se lo avesse sentito, Verity aumentò l’intensità e la frequenza dei pugni. Anche se la sua forza di volontà lo avevano attratto, Chris non poteva fare a meno di soffermarsi sui capelli raccolti che le danzavano sul collo imperlato di sudore e le gambe nude che sbucavano da un paio di shorts neri che lui non ricordava di aver comprato.

Accortosi della linea dei suoi pensieri, Mikelich gli indicò con lo sguardo il tapis roulant con cui poteva iniziare ad allenarsi. Gli obbedì senza disturbare Verity, ma quando accese il macchinario, fu lei ad accorgersi della sua presenza.  – Ciao. – lo salutò asciugandosi il sudore dalla fronte con il guantone. – Spero non ti dispiaccia. – gli disse togliendosi una cuffietta. – Non riuscivo più a dormire.

Christian scosse la testa e selezionò la playlist da un’ora. – Puoi fare tutto ciò che vuoi, – le disse con un mezzo sorriso. – ma evita di passare troppo tempo con Mikelich.

Ogni volta che vedeva Verity e Mikelich nella stessa stanza gli venivano i sudori freddi. Il maggiordomo avrebbe potuto denunciarli entrambi a sua madre rivelando la natura di Verity, ma non poteva lasciare che la ragazza vagasse libera per la villa, alcune stanze contenevano la verità sul suo passato e non voleva metterla a disagio o in allarme. Se Verity, che amava tanto gli animali, avesse visto la sala della caccia, lo avrebbe odiato. C’erano delle sue foto con il fucile in mano circondato da persone come lui, con un sorriso soddisfatto in volto mentre tenevano le loro prede in mano. Le zanne di un elefante erano lì dentro da prima della sua nascita, ma sentiva le mani sporche come se la povera bestia fosse morta ieri e lui avesse sparato il colpo mortale. Tutta la villa parlava dello stile dei vita dei Courteney, che per secoli avevano pensato solo ad arricchirsi. L’aveva portata nella cripta per mostrarle che loro avevano fatto anche qualcosa di utile per l’Inghilterra cercando di mettere la propria famiglia in una luce migliore. Avevano iniziato come corsari al servizio della Compagnia delle Indie e poi avevano difeso la tratta commerciale dai pirati guadagnandosi il titolo nobiliare. Sperava un giorno che il suo cognome tornasse ai fasti di allora.

– Hai già fatto colazione? – le domandò scacciando quei pensieri.

Verity scosse la testa. – Non ancora. – rispose infilandosi di nuovo le cuffie e Christian la imitò. La musica dei Linkin Park accentuò la rabbia che covava facendogli venir voglia di muoversi. Le fece cenno che ci avrebbero pensato dopo e iniziò a correre.

Si perse. La palestra scomparve, così come Verity dietro di lui e Mikelich. Sentiva il battito del suo cuore nel petto e i muscoli contrarsi. Le sue musiche preferite si mischiarono alle parole distaccate di sua madre mentre gli comunicava cosa dovesse fare con Dubois. Ricordava com’era andato da lei disperato, rimettendosi alla sua pietà per avere sufficienti farmaci e una struttura adatta ad ospitare tutte quelle persone che le Missionarie della Carità non riuscivano a gestire.

Presto, ricordò a se stesso, presto avrò ciò di cui ho bisogno per prendermi cura di tutti.

Accelerò il passo. Ricordava le parole balbettate per metà in hindi e metà in inglese che lo imploravano. Le urla dei bambini lo circondarono, così come le grida delle donne che si vedevano strappati i propri cari dalla malattia e dalle ferite infette. Davanti agli occhi riviveva le piogge monsoniche e come i fiumi si gonfiavano minacciando di trascinare via le baracche, e i tombini straripavano rigurgitando il loro contenuto sulle strade.

Non poteva fare nulla per quelle situazioni, ma poteva far costruire un posto dove la gente trovasse rifugio e cure, un ospedale da affidare a chi si sarebbe preso cura degli altri come scopo nella vita e non solo per soldi.

Se per avere il mio ospedale in India devo uccidere Dubois, sono disposto a dannarmi l’anima, ricordò a se stesso. Aveva fatto molte cose sbagliate, ma non aveva mai ucciso nessuno e anche se si ripeteva che era per un motivo più importante era stato felice che Dubois fosse fuggito. Non voleva avere le sue mani imbrattate di sangue e guardare la sua carta ricordando il suo viso. Era felice di aver guadagnato altro tempo per venire a patti con quella scelta. In buona fede sua madre aveva già spedito dei bancali di medicinali e fisiologiche, ma Chris non poteva tenerla sulla corda per sempre, prima o poi avrebbe dovuto portarle qualche risultato. E temeva il giorno in cui lei glieli avrebbe chiesti.

Strinse i denti. Fino a due anni prima approvava la politica della madre, ora la detestava, ma senza di lei e i soldi della sua famiglia Christian non sarebbe andato da nessuna parte. Perfino il viaggio in India lo aveva fatto sotto stretta sorveglianza di Mikelich. Ma adesso, la sua vita era finita in un milione di pezzi e poi si era ricomposta assumendo un’altra prospettiva. Aveva vissuto per anni in un modo orribile e ora faceva di tutto per rimediare ai propri errori, ma non sapeva cos’altro poteva fare.

– Maledizione! – colpì il pannello del tapis roulant con tutta la forza che aveva mandandolo in pezzi. Respirando affannosamente, si voltò a guardare Verity che lo studiava con ancora il pugno alzato e la rabbia svanì. – Ti ho spaventato? – chiese. – Mi dispiace.

– No, – disse scuotendo la testa. – mi hai fatto prendere un colpo, ma è okay. – osservò i danni che lui aveva fatto e poi tornò al suo visto. – Credo.

Non lo stava guardando come il mostro che si sentiva. Aveva distrutto un macchinario da qualche migliaia di euro in un secondo e lei lo osservava immobile senza traccia di paura, solo stupore mista a preoccupazione.

Del resto, si disse, mi ha visto sfondare un muro con un pugno. Cosa può esserci di più spaventoso?

Voleva restare un po’ solo con lei e cercare di chiarirsi, ma con il suo mastino sempre in agguato era impossibile. – Mikelich. – disse guardandolo con disgusto. – Sarebbe il caso che tu vada a preparare la colazione. O pensi che la nostra ospite debba nutrirsi d’aria? – ci mise ogni briciola di disprezzo che provava per quell’uomo alto due metri e ciò che rappresentava. Non gli importava più di guadagnare il suo rispetto. Ora era solo una delle tante ombre della sua famiglia che lo inseguivano e lo studiavano in attesa di un passo falso.

– Signorino...

Non si fece ingannare dallo sguardo costernato di Mikelich e scese da ciò che rimaneva del tapis roulant per prendere un asciugamano. Lui poteva guardarlo come voleva, ma aveva imparato a non fidarsi delle espressioni di una persona proprio da lui. Potevano ingannarlo e ritorcergli contro ogni sua debolezza. – Vai. – ordinò tamponandosi il viso.

Rimasti soli, Verity passò dallo stupore alla rabbia. – Non ti aveva fatto nulla! Potevi anche chiedere per favore.

Lei non poteva capire cosa significasse vivere per anni con un uomo che aveva adorato e che voleva raggiungere. Credere che fosse un esempio di forza e lealtà e poi scoprire che ogni passo di Chris veniva riferito alla sua famiglia. Quando lo aveva scoperto, si era sentito tradito dall’unica persona che gli era stata vicina come un genitore. – Nel suo contratto non c’è scritto che io debba chiedergli per favore. Lui è il mio maggiordomo e la mia guardia del corpo, è pagato per obbedire agli ordini.

Lo sguardo di Verity lo soppesò e lungo per poi tornare a concentrarsi sul sacco da boxe. – Come preferisci. – aggiunse ricominciando a sferrare colpi. Senza Mikelich, ora si divertiva a usare anche i calci e in volto le si disegnò un sorriso compiaciuto quando evitò il sacco per poi colpirlo con forza.

Christian aveva capito che ciò che animava Verity era la rabbia. La trascinava fuori dal letto la mattina e la costringeva a lavorare sulle ricerche di Dubois o ad allenarsi. – Ehi. – disse avvicinandosi e tenendole il sacco. – Chi immagini di colpire così violentemente?

Gli lanciò un’occhiata di fuoco prima di dare un altro pugno. – Quel bastardo di un ladro francese.

Già, si disse, era ovvio che la Regina di Spade pensasse alla Luna. Ogni carta conosceva la loro storia d’amore e come si cercavano ogni volta, ma Verity non gli aveva detto tutta la verità. Sotto quello sguardo concentrato e la violenza dei colpi, c’era qualcos’altro. Non pensava che fosse a causa di ciò che Dubois le aveva fatto a Parigi e non era sicuro che lo odiasse fino al punto da volerlo morto anche se lei affermava il contrario.

– È ciò che gli farai quando lo troverai? – le faceva domande per riempire il silenzio perché non esso arrivano anche i ricordi da cui lui fuggiva.

Verity annuì e una goccia di sudore le corse lungo la tempia. – Mi ha rapito. – esclamò tirando una ginocchiata. – E legato. – un altro pugno si abbatté sul sacco. Christian non fece commenti. Non c’era convinzione nei suoi occhi mentre Verity lo diceva e lui non glielo fece notare.

– Vuoi provare qualcos’altro? – chiese con un sorriso. Voleva passare altro tempo con lei, conoscerla meglio e non poteva farlo con Mikelich sempre intorno.

– Tipo? – domandò Verity con il fiato corto.

Chris alzò le spalle e le indicò le maschere bianche dall’altra parte della palestra. – Scherma. – spiegò andando a prendere la sua spada dalla rastrelliera. Con gli anni, la scherma gli aveva dato tante soddisfazioni e continuava ad amare Il momento in cui il bottone sulla punta si premeva in un affondo contro la giubba dell’avversario e gli veniva assegnato il punto.

Verity lo seguì, studiando la spada che lui teneva nella destra. – Non è pericoloso?

Lui rise e prese la maschera. – Ci potremo fare qualche livido, sì! Ma sarà divertente. – le passò una maschera della sua misura e poi il completo di protezione. Era il caso che lei li mettesse se non aveva mai tirato di spada. – Sono più o meno della tua taglia. – disse mostrandole la giubba. – Dovrebbero andarti bene.

Toccò il tessuto di cotone spesso con due dita, prima farsi aiutare da Chris a mettersi la giubba. – Come fai ad avere un modello femminile? – l’occhio le cadde sulle spalle larghe di Christian e sulle braccia muscolose e lui trattenne un sorriso.

– Mia madre. – spiegò. – Tirava anche lei. Diciamo che è tradizione di famiglia. – al pensiero della madre il divertimento si spense, ma riemerse quando Verity guardò la rastrelliera cercando una spada adatta a lei. – Ti aiuto a scegliere. – propose lui. – Sei destra o mancina?

Lei scosse la testa e prese una spada. Fendette l’aria come se l’avesse sempre usata, ma poi la mise giù scegliendone un’altra. Provò altre due volte prima di essere soddisfatta della scelta. Chris la guardò sbalordito. – Come hai fatto?

– Non lo so. – mormorò lei saggiando la flessibilità dell’arma. – La sento mia. Ecco tutto.

Christian sapeva che non doveva sottovalutarla, Verity era una carta di Spade e aveva quell’arte nel sangue, ma che riuscisse a scegliere l’arma della giusta misura senza aiuto di nessuno andava ben oltre la sua immaginazione. – Ti mostro le impugnature e le posizioni del polso.

Christian non poteva avere a che fare un’allieva migliore. Verity era attenta, imparava velocemente e metteva in pratica ciò che lui le insegnava come se lo avesse sempre fatto. Mentre le mostrava un mulinello, rimase a bocca aperta nel vedere lei che imitava le sue mosse alla perfezione. – Tu hai già tirato di scherma. – rise infine sedendosi sul pavimento della palestra. Non era possibile che una novellina che non aveva mai preso in mano una spada eccellesse come chi praticava da anni.

Verity si sedette davanti a lui giocando con la coccia della sua lama. – A dir la verità, no. Ho guardato le Olimpiadi e mi sarebbe sempre piaciuto cominciare, ma sai... – arrossì fino alla fronte e guardò da un’altra parte – tutta l’attrezzatura costa. E anche l’iscrizione in palestra. – sussurrò.

Fu il turno di Chris a dover essere imbarazzato. Lui non doveva far altro che chiedere e tutto gli arrivava nel giro di pochi giorni, e come lui, i ragazzi che aveva frequentato. Non era facile guardare qualcuno che desiderava tanto qualcosa e dover rinunciare per un problema economico. Soprattutto se aveva un talento naturale.

I due ragazzi rimasero in silenzio evitandosi con lo sguardo.

Christian si rialzò, obbligandosi a darsi un contegno. Aveva trent’anni, non sedici e non doveva comportarsi come un adolescente alla sua prima cotta. – Ti va di provare un incontro? – le propose. – Solo per incrociare le lame.

Ancora rossa, Verity accettò e si rimise in piedi.

– La maschera. – disse lui prendendo la propria. – Meglio non tentare la fortuna.

Verity rimase con la spada in mano puntata verso il pavimento di legno. – Non ti metti la protezione? – domandò lei. – Solo la maschera?

– No. – disse con un moto d’orgoglio. Verity aveva preso la spada in mano per la prima volta oggi, anche lo riusciva a imitarlo, questo non voleva dire che poteva arrivare a colpirlo. Lui praticava da quando aveva sette anni e si era allenato con i campioni. Non sarebbe arrivata nemmeno a sfiorarlo. – Andrà bene così, tranquilla. Le regole prevedono che tutto il corpo sia bersaglio, ma visto che è la tua prima volta mirerò solo al tronco.

Il sorriso che gli fece Verity prima di calarsi la maschera sul viso non gli piacque per niente. – Se va bene per te... – la sua voce gli arrivò soffocata dalla maschera, ma sentì la punta minacciosa nella sua voce.

Per rispetto verso di lei, cominciò piano stuzzicandola con la spada e incrociando volutamente le lame. Non voleva spaventarla o metterla in condizione di non potersi difendere, ma Verity tenne per tutto il tempo la guardia, pronta sia a difendersi che ad attaccare.

Quando lui si lanciò in un attacco, lei arretrò deviando la spada e cercando il contatto con la propria. Provò anche a colpirlo in controtempo, ma Chris se ne accorse e si svincolò. – Niente male. – le disse facendole i complimenti. – Niente male, davvero. – e lo pensava veramente, solo che Verity non si era accorta di aver lasciato scoperto un punto ed era un facile bersaglio. Chris andò all’assalto, ma la sua spada incontrò quella di Verity e gliela deviò facendogli fare un giro completo. Si ritrovò con la spada di Verity puntata contro la base della maschera, all’altezza della gola.

Si strappò la maschera dal viso. – Ma che...? – gli sfuggì attonito. Era stato battuto facilmente e non aveva ancora razionalizzato il pensiero. Poi, gli arrivò l’illuminazione. – Era un invito, quello? Hai lasciato volutamente un punto scoperto?

Verity si tolse la maschera. – Sì. – disse con un sorriso compiaciuto.

Non sapeva se esserne felice o meno. Aveva ancora la spada in mano e guardava Verity come se gli avesse dato una botta in testa. – Incredibile.

Verity uscì dalla giubba a fatica, con la maglia di cotone inzuppata di sudore. – Non so come ci sia riuscita. Nella mia testa si è formato uno schema e il mio corpo ha fatto il resto. 

Chris invece iniziava a capire cosa fosse accaduto. – Verity, prendi la spada e fammi una sparizione. – non le aveva mai parlato di quella mossa. Era sicuro di non averla nominata.

Verity obbedì e finse di avere di fronte un avversario, si diede uno slancio all’indietro e allungò il braccio armato per deviare una spada immaginaria.

– Una leva. – le ordinò studiandola.

Di nuovo, Verity obbedì senza che lui dovesse spiegarle di cosa stesse parlando. Christian non aveva più alcun dubbio. – Credo che questa sia una delle capacità delle Carte di Spade. Hai in testa un manuale di scherma.

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NdA: I tempi di aggiornamento stanno diventando biblici, lo so, ma il tirocinio mi impedisce di essere più veloce per quanto mi ci applichi. Allora, cosa ne pensate di Christian? sarei curiosa di conoscere la vostra opinione. Grazie per i commenti e per aver messo la storia nelle preferite/ricordate/seguite. Mi fa sempre molto piacere.

Al prossimo aggiornamento.

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Capitolo 12
*** 2.5 La Papessa - Colui che Volse lo Sguardo alla Luna ***


2.5 - Colui che Volse lo Sguardo alla Luna

II – La Papessa

Colui che Volse lo Sguardo alla Luna

 

Villa Courteney, Dover. 31 Luglio 2011

                         

Verity scese in cucina in camicia da notte.

Si era svegliata per andare in bagno e dopo non era più riuscita a prendere sonno. Aveva continuato a rigirarsi nel letto e a dormire a tratti, ma non era più riuscita a proseguire il sogno da dove si era interrotto e la cosa le dispiaceva. Non ricordava molto bene cosa aveva rivissuto, era stato confuso, ma per una volta le erano sembrati momenti di vita allegri, passati a giocare con altre donne e a raccogliere fiori in riva al fiume. Si era svegliata nel momento in cui una delle ragazze le aveva spruzzato addosso l’acqua fredda del fiume con il sorriso sulle labbra. Accanto a quella ragazza si era sentita accolta e compresa come se lei fosse stata in grado di comprendere cosa la turbava e la facesse propria, donandole in cambio sicurezza e amore. Solo Alessio era riuscito a darle una sensazione simile, ma non così profonda.

La mano le corse al collo cercando l’anello che Dubois le aveva rubato. Proprio lui, che si era vantato di poter accedere ai diamanti più preziosi, le aveva portato via quel cerchietto d’oro con un’acquamarina. Per Michael non doveva essere una goccia in un oceano di diamanti, per lei era l’unica cosa che la collegava ad Alessio. Avrebbe potuto perdonargli il rapimento se si fosse scusato, ma non quello. Non erano molte le cose che potessero portarle via e ancora meno a cui tenesse, ma lui era riuscito a strapparle la cosa più preziosa che avesse.

Dopo quelle che parvero ore passate a rimuginare sul loro incontro a Parigi, si era alzata. Non avrebbe più preso sonno e il tempo passato a letto a non fare nulla era sprecato. Doveva aiutare Christian a trovare Michael e farsi riconsegnare l’anello. poi avrebbe proseguito con le altre sue ricerche.

Già in corridoio si accorse che qualcosa non andava. Di mattina, i suoni della cucina erano ovattati, con le cameriere che facevano colazione con calma e chiacchieravano assonnate. L'odore di uova, caffè e brioche che permeava l’aria arrivando fino al piano della sua stanza spingendola a scendere prima di Chris e Nyvie per scambiare due parole in allegria. Adesso arrivavano dei gridolini allarmati mischiati a imprecazioni.

– Quello era il mio rubinetto, ragazzino! – urlò scandalizzata Susan, la cuoca di famiglia. – Scordati la mia torta di mele per un mese. Oddio, il mio povero rubinetto!

– Dai, Sue! Posso comprartene uno nuovo. Scegli quello che ti piace di più. – Christian rise e lei si domandò cosa ci facesse in cucina a quell’ora. Faceva sempre colazione in biblioteca o nello studio e poi la raggiungeva in palestra per gli allenamenti. Non lo aveva mai visto in cucina in quelle settimane.

– Questa volta voglio che sia un Franke, capito? – non aveva mai sentito Susan urlare così a Chris. In genere lo trattava con l’affetto di una madre, cucinando per lui tutto quello che desiderava mentre cantava sovrastando la radio.

Una delle cameriere uscì passandosi le mani tra i capelli rosso fiamma, ma si bloccò di colpo quando vide Verity in corridoio. Si scambiarono uno sguardo prima che Kate corresse indietro. – Allarme! È qui!

– Io ho detto che dovevamo installarla ieri notte! – dalla voce sembrava Andrew, il marito di Susan che si occupava del parco della villa e anche lui sembrava turbato.

– Nella mia cucina quella cosa non entra! – urlò Susan.

– Ma siamo sicuri che funzioni?

Verity percorse gli ultimi passi e si fermò sulla soglia.

Le due cameriere erano contro il muro dall’altra parte della cucina, mentre Susan, Andrew e Chris studiavano la nuova macchina appoggiata sul bancone. Susan e le cameriere urlavano, Andrew si grattava la barba con un angolo della chiave inglese e Chris rideva in maniche di camicia.

– Silenzio! – tuonò Mikelich. – Signori, contegno.

Christian lo raggelò con lo sguardo, ma il maggiordomo gli indicò Verity con un cenno. – La signorina è sveglia.

Sul volto di Kate si dipinse uno sguardo soddisfatto, felice di essere stata lei a dare l’allarme per prima, anche se a quel che Verity aveva capito, non l’avevano ascoltata.

– Ehi, – sussurrò Chris spostandosi lateralmente per coprire la macchina. – sei mattiniera.

– Cosa state facendo? – domandò cercando di vedere cosa le nascondesse Chris. Il gruppetto si scambiò un’occhiata colpevole, ma quello che si schermì di più fu il proprietario della villa.

– Nulla di che. – rispose evasivo. – Manutenzione e qualche cambiamento. Kate e Aisha dovranno fare un salto in città a comprare la colazione stamattina. Cosa desideri? – sorrise, sotto lo sguardo furibondo di Susan. – Rimetterò tutto a posto, promesso. – aggiunse rivolto alla donna.

– E farai bene a mantenere la promessa, ragazzino. – lo minacciò lei indicando il rubinetto smontato. – Cucino per te da quando sapevi appena camminare e conosci le regole. Non si fanno danni nella mia cucina.

Susan era l’unica che si permettesse di trattare così Christian e il ragazzo accettava di buon grado di essere il figlioccio viziato della cuoca. Verity non capiva come mai lui non si rendesse conto di essere circondato da affetti e da persone che si prendevano cura di lui. Anche se diceva che Nyvie era l’unica ad avergli aperto gli occhi, quelle persone lo amavano, soprattutto Susan.

Aveva sentito voci dalle ragazze sul suo passato e dei suoi comportamenti, ma da quel che aveva capito, il rapporto con Susan e Andrew era sempre stato speciale e diverso, così com’era quello con Mikelich fino al viaggio in India dove avevano vissuto per due anni. Susan le aveva confidato che da quando era tornato, Christian non parlava più a Mikelich dei suoi problemi cercando un consiglio, ma li teneva per sé e gli dava degli ordini freddi. Cosa che non aveva mai fatto prima. E sempre a detta di Susan, anche se Mikelich non lo ammetteva, ne soffriva.

Quei tre lo avevano visto crescere, ed erano per persone più simili ad una famiglia che Chris potesse avere e Susan non capiva come il rapporto tra Christian e Mikelich si fosse incrinato così tanto in poco tempo.

Qualsiasi cosa fosse successa a Christian in India l’aveva cambiato profondamente, compreso il suo modo di trattare le persone.

Sorridendo, Chris incrociò le braccia al petto. – Oggi dovrai fare a meno della cucina, dovremo chiamare un idraulico. Mikelich, occupatene. – ordinò gelido. – Voglio che per stasera sia tutto apposto.

A quel brusco cambiamento di umore, le due cameriere uscirono con la scusa di doversi occupare della colazione. Susan e Andrew le seguirono, congedandosi di Christian. Non piaceva a nessuno l’aria tesa che si respirava, ben che meno che a Verity. Anche se il gigante non mostrò alcuna emozione, si sentì in pena per lui.

Cambiò di discorso. – Ma quella è una Gaggia? – chiese studiando la macchina per il caffè. Anche non ne aveva mai comprata una di persona, l’aveva usata al bar dove lavorava e sapeva che costavano una fortuna.

– Pensavo che fossi stufa del caffè come lo facevamo noi. – spiegò Chris quando le passò davanti. – Così ho controllato quali fossero le migliori e ne ho ordinata una. Arriva dall’Italia.

Prima o poi avrebbe dovuto parlare con Chris riguardo ai bizzarri acquisti che faceva, ma per ora si mise a studiare la macchina. – C’è proprio tutto. – commentò a un rapido sguardo. Poggiò una mano sullo scaldatazze e tolse il gruppo per saggiarne il peso. Quando la mano si chiuse attorno alla maniglia si sentì di nuovo a casa. – Dio, – mormorò quasi pregasse. Le mancavano quelle macchine. Le mancava tutto della sua vecchia vita. – è perfetta. – mentre spostava l’indice sui pulsante, notò che i gruppi erano più alti del normale ed era dotata di una grata estraibile. Non stava più nella pelle. Voleva provarla e servire a Chris un vero caffè italiano. – Oh, mio Dio. È adatta anche alle tazzine da caffè lungo! Questa macchina è un sogno.

Christian le si avvicinò. – Ne farei ordinare altre se servisse a vedere ogni giorno il sorriso che hai ora.

Verity lo ascoltò appena continuando a giocherellare con la macchina per il caffè. Non vedeva l’ora di mettersi all’opera. Voleva fare le prove di macinatura e pressione, trovare quale fosse la combinazione migliore per avere il gusto più intenso. Peccato che non fosse collegata alla corrente e alla presa dell’acqua. Si voltò per chiedere quando potesse essere pronta e si rese conto che non era al bar e davanti aveva Christian che la stava studiando.

La verità le franò addosso. – Hai comprato una macchina per il caffè. – cominciò.

– Sì.

– Italiana. – precisò lei. – Di quelle professionali.

– Esatto. – proseguì Christian con lo stesso sorriso.

– Una macchina che costa un sacco di soldi.

– Più o meno. Non so esattamente quanto abbia pagato tra quella, il macinacaffè, i sacchetti di chicchi e spedizione. Mikelich si è occupato dei dettagli, io ho solo detto cosa volevo.

A quella spiegazione, Verity si arrabbiò. Lui aveva detto solo quello che voleva e gli altri avevano fatto il resto. Era normale, si disse, era pieno di soldi e poteva permetterselo, ma quando a Roma si era rotta la sua macchina per il caffè e non riuscivano ad arrivare a fine mese, Alessio aveva resuscitato la vecchia moka da tre tazze. Con stizza si accorse che la sua non era rabbia, ma gelosia e non poteva più fermarsi. – Hai una vaga idea di quanto valga? Perché l’hai fatto? – urlò in cucina lasciandolo a bocca aperta. – Tu bevi quella specie di brodino la mattina! Non ha alcun senso è...è... – cercò le parole giuste e puntò il dito sulla marca, aggrappandosi a quella. – È una Gaggia!

Christian le tolse il gruppo d’acciaio che teneva ancora stretto in mano e la voltò verso la macchina. – Per quei minuti che hai passato a esaminarla sorridevi spensierata. In queste settimane non ti ho mai visto così felice. Mi ripeto: ne comprerei ancora se servisse a farti ridere così. È un mio regalo per te.

Non sapeva cosa dire, non si sarebbe mai aspettato che qualcuno le regalasse una cosa del genere. – Non avresti dovuto. – sussurrò senza schiodare gli occhi dalla vernice rossa. – Sei stato gentile ed è bellissima, ma è...

– È tua. – la interruppe Chris appoggiando il gruppo sullo scaldatazze. – Puoi farci quello che vuoi. Anche non accenderla mai.

– Non posso accettarla. – mormorò in imbarazzo. La gelosia di poco prima se n’era andata così come la rabbia. – Christian, questo è troppo. Non posso accettare un regalo simile.

Il ragazzo le si fece più vicino, prendendole i polsi. La delusione gli apparve in volto. – Non ti piace il colore? Posso farla cambiare, posso...

– No! – si affrettò a spiegare lei. La aveva fraintesa e pensava che non le piacesse. – È perfetta così ed è bellissima per un bar, Chris. Ma per un bar. È una macchina professionale, non casalinga.

Verity sperava di essere riuscita a convincerlo che il regalo le piacesse, ma fosse troppo per lei. Non era riuscito a farlo cedere sul guardaroba che le aveva donato, ma gli avrebbe permesso di lasciarle quella macchinetta. – Per favore. – gli sussurrò. – È meravigliosa, Chris, ma non posso accettarla.

Lui annuì titubante, ma non aveva lo stesso sguardo ferito e stupefatto di prima. – Vorresti provarla una volta pronta? – domandò scostandosi i capelli da viso. – Ora che è qui mi dispiacerebbe mandarla indietro e vorrei provare un espresso.

Stavolta fu Verity a rimanere stupefatta. – Non l’hai mai provato? Mai?

– Non mi piacciono le cose amare, però quando mi parli di Roma e del tuo lavoro ti si illuminano gli occhi. Una cosa preparata da una persona che ha uno sguardo del genere deve essere eccezionale.

– Non... – si schiarì la voce e riprovò. – Mi piaceva lavorare al bar, mi facevano sentire a casa, ecco tutto. Ed è lì che ho incontrato... – si bloccò al ricordo doloroso che le serrò la gola e la mano corse a cercare l’anello, chiudendosi sul nulla. Christian la coprì con la sua, dandole conforto.

– Recupereremo quello che ti ha rubato e gliela faremo pagare.

Quando parlava di Michael, Chris aveva sempre un tono risoluto, ma triste e lei ogni volta voleva chiedergli perché gli stesse dando la caccia, ma non ci riusciva. Aveva paura che dietro ci fossero altre malefatte di Michael e una parte di lei non voleva conoscerle. Era già furiosa con lui, non voleva arrivare a odiarlo.

Gli hai già detto che lo odi, la pungolò una voce nella testa.

Mi aveva puntato un coltello alla gola ed ero arrabbiata.

Si liberò della presa di Christian, più confusa di prima. Non capiva perché i suoi pensieri verso Michael fossero tanto contrastanti. Se lo avesse rivisto non avrebbe esitato due volte a dargli quattro schiaffi, ma allo stesso tempo aveva fiducia nelle ultime parole che le aveva detto. Gli dispiaceva e sarebbe venuto a cercarla. In qualche modo credeva in quelle parole e non capiva perché.

Fece un passo indietro, allontanandosi da Chris. C’era qualcosa dentro di lei che la spingeva ad allontanare Christian, come se stesse tradendo qualcuno. Alessio, mormorò dentro di sé, sto tradendo Alessio. Eppure quando se lo diceva, le sembrava di mentire. – Meglio che vada a vestirmi. – disse allontanandosi.

– Mi raggiungi in terrazza per la colazione? – le domandò. – Oggi è una bella giornata.

– Va bene. – rispose senza voltarsi a guardarlo, fuggendo via.

Tornò in camera con il cuore in gola e confusa per quello che stava succedendo. Non era solo stato il regalo di Christian ad averla sconvolta, ma anche tutti i pensieri che faceva su Michael. Non era normale che lei attendesse il momento in cui lui sarebbe tornato a cercarla e avrebbero parlato ancora. La rabbia iniziale che aveva provato ne i suoi confronti stava scemando con i giorni, sostituita da un’impazienza che riusciva a scrollarsi di dosso. Quando le aveva chiesto del ritaglio sul diamante lei era rimasta colpita dall’intensità del suo sguardo e certi sorrisi in cui si apriva le stuzzicavano la memoria. Perché tutti le dicevano che erano legati da un passato e lei era l’unica a non riuscire a ricordare nulla?

Provò a scavare nella sua mente, cercando di far tornare a galla anche un solo indizio, ma il dolore la trafisse come se la testa si stesse spaccando in due. Con le vertigini si allungò verso il letto, ma cadde a terra percorsa dal dolore. Perché ogni volta stava così male? Il suo corpo si e il dolore spariva solo quando smetteva di cercare di ricordare qualcosa di più.

– Signorina? – Mikelich la raccolse da terra e la stese sul letto, guardandola con apprensione. – Si sente bene? Faccio chiamare il signorino Courteney?

– A-acqua. – balbettò con la gola riarsa. Deglutì e riprovò: – Dell’acqua per favore.

Mikelich spalancò lo sportello del piccolo frigo in camera e prese una bottiglia di acqua sorgiva senza mai distogliere lo sguardo da lei.

Già con i primi sorsi lo stomaco le si calmò e il cerchio alla testa scomparve. – Le succede spesso, signorina?

Scosse la testa, stringendo la bottiglia dell’acqua. – No. Non so. – mormorò massaggiandosi le tempie. – A volte mi vengono dei lancinanti mal di testa, ma passano in fretta. Ora va molto meglio. Grazie per l’aiuto. Piuttosto, come mai è nella mia stanza?

L’uomo le sorrise e per un istante le parve più giovane dei suoi cinquant’anni. Aveva l’aria paterna che le scaldo il cuore. – Deve perdonare la mia intrusione, signorina. E perdonare le parole che le dirò, ma non dovrebbe rifiutare i regali che le fa il signorino Courteney.

– Non capisco. – rispose stringendo la presa sulla bottiglia. – La macchina per il caffè era troppo per me. Non posso accettare una cosa del genere. Mi dispiace, Mikelich, ma non posso.

– Conosco il signorino Courteney dal giorno che è nato. – spiegò l’uomo rimanendo in piedi davanti a lei con aria gentile. – Ho fatto la guardia davanti alla stanza della clinica in cui la signora ha partorito. L’ho visto muovere i primi passi, imparare a parlare e l’ho allenato. In tanti anni che ho seguito il signorino non l’ho mai visto prendere a cuore delle persone come lei e la signorina Nyvie. Ci tiene a voi e ha bisogno di dimostrarvelo, ma non conosce altre strade se non quelle che il denaro può ottenere. Per questo vi dico che non vi fa questi regali con malizia. Non sa come altro dimostrare quello che prova. Vi prego di accettare i suoi regali per quanto siano bizzarri. Ne ha bisogno. – Mikelich parve sorpreso dalle sue stesse parole e chinò la testa. – Ho parlato troppo, signorina. Se permettete, mi congedo.

– Mikelich. – lo richiamò lei ancora stordita per il mal di testa. – Tenete molto a Christian, vero? Perché non glielo dite?

L’uomo non si voltò. – Non bisogna affezionarsi al principale, questa è la prima regola di una guardia del corpo. Faccio il bene del mio principale e penso ai suoi interessi, ecco tutto.

La lasciò sola, ancora turbata per quella strana conversazione. Per quanto capisse le buone intenzioni di Christian e la preoccupazione di Mikelich non poteva permettere che il ragazzo continuasse a farle regali del genere, soprattutto perché quando la faccenda di Michael sarebbe stata sistemata, lei se ne sarebbe andata per la sua strada.

Si lavò e si vestì con calma, prendendosi più tempo possibile per pensare a come spiegare a Christian che non doveva più farle regali simili senza offenderlo. Non riuscì a trovare nulla. Ogni volta che formulava una frase in testa le venivano solo parole di circostanza, vuote e senza senso. Parole che Christian non meritava.

Finì di vestirsi con gli shorts jeans e un paio di sandali e lo raggiunse in terrazza per fare colazione ancora piena di dubbi.

Nyvie era già seduta a tavola accanto a Christian con un quaderno aperto davanti a sé e Christian le indicava delle immagini dal libro di scienze per bambini. – E di conseguenza i dinosauri si sono estinti. – le spiegò con dolcezza. Christian alzò la testa e le sorrise, invitandola a sedersi accanto a lui scostando la sedia. – Approfittavamo del tempo per ripassare un po’ di storia.

Verity si unì a loro, ricordando come anche a lei da bambina piacesse sfogliare le enciclopedie di suo padre e soffermarsi sui disegni. – A me piaceva l’Antico Egitto e l’Era dei Faraoni. – disse con nostalgia. – Passavo le ore guardando le ricostruzioni di com’erano i templi e le città.

– Chissà come mai. – aggiunse Christian servendo a Nyvie il tè. – Voglio dire: conosciamo quella storia.

Verity lo guardò senza capire, mentre lui continuava a riempire il piatto di Nyvie e le spostava i libri. – Che storia?

Christian parve non sentirla mentre spalmava la marmellata di arance sul pane tostato di Nyvie e glielo serviva. Verity scosse la testa quando le offrì il bricco del latte da aggiungere all’espresso che erano andate a prenderle al bar. Ormai il caffè era freddo e la crema scomparsa, ma lo preferiva così piuttosto che bere un caffè americano. – Non mi hai risposto, – proseguì dopo un minuto. – che storia?

– La storia del guerriero egiziano che si era innamorato di una schiava appartenente a un altro uomo.

La vista le si appannò e le cadde la tazzina di mano che si ruppe al suolo. Nyvie la fissò con il pane a metà strada per la bocca aperta. Il mal di testa tornò più forte di prima, provocandole dei conati e le mani le tremarono. Si allontanò da tavola cercando rifugio nella penombra della stanza.

– Nyvie, fai colazione con calma. – disse Christian, grattando la sedia sul pavimento mentre si alzava. – Dopo mi disegneresti un dinosauro? A tua scelta, lo appendo nello studio.

Verity cadde in ginocchio vicino al divano, senza più riuscire a vedere nulla per dolore e le orecchie che fischiavano. Le faceva male tutto e il suo corpo era scosso fino a farle battere i denti.

– Prendete dei panni bagnati e portatemeli. – ordinò Christian raccogliendola e mettendole una mano sulla fronte. – E dell’acqua.

Il suo corpo scottava come se fosse circondata da fiamme e i polmoni bruciavano cercando disperatamente l’aria che non li raggiungeva. Il dolore al petto era lancinante. La stringeva in una morsa e si irradiava fino alle punte dei piedi. Christian le prese il volto tra le mani costringendola a guardarlo. – Segui i miei ordini. Inspira. Pausa. Espira. Pausa. – Verity provò a seguire le indicazioni con scarso successo. Ogni volta che il dolore accennava a diminuire, uno più intenso e violento di prima la assaliva. Ora non si sentiva più bruciare, ma stava congelando mentre il petto era attraversato da mille aghi. – Portatemi la cassetta con i farmaci. – sbraitò Christian. – Subito!

Aiutato, Christian la immobilizzò sul tappeto, ma Verity non riusciva a vedere niente altro che il suo viso concentrato, mentre dava indicazioni alle cameriere intorno a lui. – Tenetela ferma e mettetela su un fianco. Devo farle un’intramuscolo. – senza aggiungere altro, Christian le tolse i pantaloni, aiutato da due persone che la girarono come se fosse una bambola e la tennero ferma trattenendola per le spalle e per le gambe. Si sentiva prigioniera di quelle mani e la sensazione non era nuova, ma quando il suo cervello in crisi cercò di capirne il motivo, un’ondata di nuovo dolore le mozzò il fiato lasciandola ansante nelle mani di Christian. – Andrà bene, – le sussurrò prima di piantarle l’ago nel muscolo. – questo ti aiuterà a sentirti meglio.

Il farmaco bruciava, ma non era paragonabile alle fiamme vive che sentiva sulla pelle e alla gola riarsa. Per un attimo, le sembrò di non essere più in grado di urlare, che avesse riportato dei danni alle corde vocali o che stesse soffocando. L’urlo esplose in fondo alla gola permettendole di tornare a respirare. Le sembrava di essersi liberata di qualcosa che la stesse soffocando.

Christian la sollevò prendendola tra le braccia e la depositò sul divano. – Portatemi qualcosa per coprirla. – disse sedendosi accanto a lei. – Per favore. – aggiunse più gentilmente rendendosi conto che l’emergenza era passata.

Verity era esausta. Tutti i muscoli le facevano male come se avesse deciso di correre una maratona senza allenamento, ma le vertigini erano diminuite. Batté le palpebre, cercando di scacciare il senso di stordimento con Christian che continuava a studiarla. – Il farmaco che ti ho dato ti sederà. – le stese addosso il lenzuolo che le cameriere avevano portato mentre la guardavano con preoccupazione e pietà, ma non le importava come la guardassero, voleva solo capire cosa le era successo. Non aveva mai vissuto niente del genere e la testa continuava a pulsare impedendole di pensare con lucidità.

– Cosa ti è successo, Verity? – le domandò Chris.

Scosse la testa, non fidandosi delle proprie parole. Come poteva spiegare qualcosa che non riusciva a capire? Chiuse gli occhi stringendosi fino al mento il lenzuolo bianco che profumava di lavanda. Si lasciò cullare dall’indolenza farmaco, felice di sentirsi assonnata e di poter sfuggire allo sguardo indagatore di Christian.

– Vieni pure dentro, Nyvie. – chiamò il ragazzo con un cenno della mano. – Verity è stata male, ma ora va meglio. Vero? – chiese rivolto a lei. Con gli occhi le implorava di annuire e di non far preoccupare la bambina.

Il pallore spiccava sulla sua pelle color moka mentre si avvicinava con un foglio stretto al petto. – Io... – si schiarì la voce rauca e riprovò. Doveva fare uno sforzo per quella piccola di otto anni e i suoi grandi occhi verdi. – Non volevo spaventarti. Sto meglio, ora.

Nyvie le sorrise e le sfiorò i capelli biondi con una mano. Anche se mezza addormentata, gli occhi di Verity caddero sulle cicatrici che la bambina aveva sulle braccia. Le aveva viste altre volte, ma non riusciva ad abituarsi a quella pelle rosea e tesa che deturpava la bambina. Christian tossicchiò accanto a loro, ricordandole di non fissare troppo le cicatrici per non farla sentire a disagio.

Con timore, Nyvie le allungò il foglio su cui aveva disegnato un dinosauro verde brillante. – Grazie. – mormorò Christian. Scosse la testa e lo mise accanto a Verity, prima di donarle un sorriso e tornare in terrazza. Verity sapeva che Nyvie parlava lo stretto indispensabile quando era con altre persone. Solo con Christian si rilassava e si lasciava andare, giocando e ridendo. Con tutti gli altri, Nyvie era dolce, ma schiva e Verity era felice che le avesse regalato il disegno. – Le piaci. – disse Christian scivolando sul pavimento. – E mi piacerebbe vedervi andare d’accordo. – il suo sorriso si spense e la guardò dritta negli occhi. – Ho bisogno di sapere cosa ti è successo. Noi non possiamo ammalarci fisicamente, ma la nostra mente non è immune alla follia. Se sei pericolosa per Nyvie, devo saperlo.

Con il farmaco in corpo, Verity ci mise qualche secondo a capire cosa le stesse chiedendo, voleva sapere se era pazza e pericolosa per la bambina. – No. – mormorò con la testa pesante e quasi vinta dal sonno. – Quando hai detto quelle parole, avevo la sensazione che non mi fossero nuove, ma poi ho sentito male ovunque.

Christian meditò sulle sue parole. – Ti è successo altre volte?

– Ogni volta che provo a ricordare qualcosa. Quando ripenso alla mia adolescenza o ad alcune cose che mi sono successe da bambina non ho problemi, ma come mi sforzo di ricordare qualcosa di più mi viene mal di testa.

– Sogni i nostri passati?

Verity annuì. – Certo. Li rivedo nei sogni, però...

– Però? – la incalzò lui.

– Ci sono momenti in cui mi sveglio sapendo di aver sognato qualcosa delle mie vite passate, ma il ricordo è sfocato e più ci penso, più scompare.

– Perdonami. – le sussurrò baciandole la fronte. – Ricordi chi era Atlaeia?

Lo guardò storto. Quel nome continuava a perseguitarla, ma l’aiuto che le aveva dato Christian meritava una risposta. – No, ma ho trovato scritto il suo nome su un biglietto a Roma. Sai chi è? Perché è così importante?

Il ragazzo la guardò con tristezza. – Mi dispiace, Verity. – le disse. – Se non è Atlaeia a provocare tutto allora... Ricordi chi era Nefer?

A quel nome, il dolore tornò a bruciarle in petto, facendola urlare come non mai. Il suo cuore sembrava tranciato in due nonostante continuasse a battere. Christian si mise a cavalcioni sopra di lei e la afferrò per le braccia con una mano, tenendola ferma mentre lei lottava con tutta se stessa per sottrarsi a quella tortura. Le tappò la bocca con un cuscino, impedendole di urlare. – Perdonami. – disse lottando contro di lei mentre fuori il cielo si rannuvolava e in lontananza si sentivano dei fulmini. – Non posso permetterti di spaventare ancora Nyvie. Preparate un’altra fiala da farle in muscolo. – la tenne ferma dando indicazioni a Mikelich su dove pungerla.

Quando si calmò, vinta di nuovo dal farmaco, Chris la lasciò andare e scivolò via dal suo corpo, stringendola con gentilezza. – Trovami Dubois. – ordinò a Mikelich senza distogliere lo sguardo da quello in lacrime di Verity. – Ovunque sia, trovamelo. Ti do carta bianca, usa tutti i mezzi necessari.

– Signorino?

– Qualsiasi cosa sia stata fatta a Verity, c’entra la Luna. Voglio scoprire come e perché.

– Sì, signorino.

– Mi dispiace. – continuò a sussurrarle cullandola mentre lei scivolava nel sonno indotto da una doppia dose. – Non volevo farti del male così, ma qualsiasi sia il motivo, è opera di un Arcano e scoprirò perché ti fa soffrire cercare di ricordare la Luna.

Mentre si addormentava, Verity pensò alla ragazza di cui non ricordava il volto che aveva sognato quella notte. Lei era la Luna, questo le stava dicendo Christian? Come se volesse confermare le sue parole, il mal di testa tornò e con esso la sensazione di avere il petto squarciato, ma non aveva più la forza di emettere un suono. Cullata da Christian, scivolò nel sonno con la consapevolezza che qualsiasi cosa la stesse aspettando, sarebbe diventata presto un incubo.


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NdA: contro ogni aspettativa, non sono scomparsa. Purtroppo alcuni impegni accademici mi hanno tenuta lontano da EFP, ma ora sono riuscita ad aggiornare. (credo che ora gli aggiornamenti saranno una volta al mese, visti gli impegni). Vorrei ringraziare Nimue e Aniasolaty per le bellissime recensioni che mi hanno lasciato. Un grazie di cuore. PS: con questo capitolo si conclude la seconda parte La Papessa, dal prossimo ci sposteremo ancora e si aprirà il ciclo "L'Imperatrice".
A presto

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Capitolo 13
*** 3.1 L'Imperatrice - Singapore ***


3.1 Singapore

III – L’Imperatrice

Singapore

 

Sail Towers. Singapore, 13 Agosto 2011

 

Michael aveva preparato il suo piano nei giorni precedenti e aveva dovuto attendere che i suoi poteri tornassero prima di poterlo mettere in pratica. Aveva lavorato durante la luna era nuova sentendosi debole e stanco. Per prepararsi aveva dovuto contattare dei vecchi amici e chiedere diversi favori. Inoltre, aveva proposto l’affare a Duchessa che aveva accettato dopo che lui aveva dovuto insistere e rassicurarla che nessuno avrebbe potuto risalire a lei. Alla donna non piaceva l’idea di pestare i piedi a Bowers e prima di poter piazzare la Stella di Bombay avrebbe dovuto attendere che le acque si calmassero, ma Michael sapeva già da chi andare e con il ricavato, avrebbe tenuto Duchessa buona. A lui non gli interessavano i soldi, non per questo furto, perlomeno. Voleva la fama, voleva che gli occhi del mondo fossero puntati su di lui. La notizia doveva arrivare a Bowers e ai suoi alleati in pompa magna: la Luna era appena scesa in guerra.

Con l’auricolare alle orecchie, controllò con il binocolo il piano che voleva sfondare. Era al telefono con Togu, l’ex-agente della Polizia Segreta giapponese e voleva assicurarsi che gli ultimi preparativi fossero in ordine.

– Sicuro che funzioni? – domandò. L’appartamento era immerso nel silenzio e Michael prese il fucile da cecchino che aveva portato fin lassù.

Il piano della piscina era deserto grazie ad alcuni cartelli che lui aveva piazzato giorni prima. Bastava parlare di infezioni da funghi e disinfestazione e la gente si dileguava, permettendogli di fare avanti e indietro indisturbato.

– È come quello della Torre Eiffel, – spiegò Togu – solo più potente.

Michael annuì anche se l’uomo non poteva vederlo. Si fidava di lui e degli oggetti che gli procurava, più di una volta gli erano tornati utili e gli avevano salvato la vita. – Avrai poco tempo. Venti minuti al massimo. Non potevi farlo in silenzio come al tuo solito?

– Per una volta, voglio ogni riflettore e ogni telecamera che il mondo può fornirmi. – anche perché non avrebbe mostrato la sua vera identità.

Aveva già addosso la tuta nera che gli lasciava scoperti solo gli occhi ed era pronto a reagire in caso la polizia ci mettesse meno di quanto avesse previsto. Aveva studiato tutto fin nei minimi particolari, compreso il modo per non lasciare tracce, era stato attento a quello. Voleva dichiarare guerra a Bowers, non compromettersi il lavoro. Il tocco finale sarebbe apparso dopo che si era allontanato da un pezzo.

– Buona fortuna. – gli disse Toguprima di chiudere la conversazione.

Rimasto solo, Michael sorrise. – Alla fortuna si affidano gli incapaci. – prese il fucile che aveva già montato e prese la mira, puntando dove poteva ottenere il massimo danno. La suoneria del cellulare gli trillò nelle orecchie e lui rispose premendo un dito sull’auricolare. La voce automatica lo avvertì che la telefonata sarebbe stata tutta a suo carico, ma lui la accettò comunque.

– Immagino che ci sia un motivo se mi chiami mentre lavoro... – cominciò senza nemmeno controllare chi fosse. Sapeva chi era, c’era una sola persona al mondo che poteva chiamarlo addebitandogli il costo di una telefonata effettuata dall’altra parte del mondo.

– Augurarti buona fortuna? – domandò retorica Alanna.

– Addebitandomi una intercontinentale? Ne facevo a meno, grazie.

Alanna rise. Anche se era al di fuori della sua sfera di influenza, Michael sentì caldo. Il suo doveva essere un riflesso condizionato: la carta del Sole rideva, lui sentiva la temperatura alzarsi. – Pensavo che ti servisse la mia consulenza.

Michael si trattenne dal risponderle qualcosa di tagliente. Era una settimana che non le parlava, da quando lei lo aveva informato che aveva coinvolto l’Eremita dicendogli la futura posizione di Verity. Di tutte le carte esistenti, ce n’erano un paio che detestava in maniera particolare. Era un odio che andava oltre al tempo e anche se non le aveva mai incontrate prima, aveva rivissuto in sogno cos’era successo. Non gli piaceva immischiarsi in prima persona nella guerra per il potere, ma ciò che aveva visto era troppo anche per lui. L’errore dell’Eremita aveva distrutto il suo passato e quello delle persone che aveva amato. Era stato tradito chi aveva considerato un amico per la pelle.

Scosse la testa, tornando in sé. La Luna era stata tradita, non lui. Owen era stato tradito e sua moglie assassinata. E dopo che aveva sognato per notti intere quel passato, aveva deciso di portare avanti il proposito di Owen e vendicarsi. Avrebbe avvertito Bowers di guardarsi le spalle e poi avrebbe dato la caccia all’Eremita.

– L’ultima volta che mi hai chiamato mi è venuta voglia di mandare tutto al diavolo e ucciderti. – le ricordò. Era ancora arrabbiato con lei e se l’avesse avuta sotto mano non sarebbero bastati i quasi cento anni di differenza a proteggerla. Alanna poteva essere più esperta e guardare nel futuro, ma Michael sapeva come accecarla ed essere imprevedibile. – E il fatto che stia pagando una fortuna per ascoltarti ridere non è d’aiuto.

– Ti ho chiamato per dirti di fare attenzione. – piegò lei. Erano rare le volte in cui la sentiva serie e Michael le prestò attenzione. – Appena avrai lo zaffiro tra le mani salta a sinistra. Dovrai spostarti di almeno un metro. Afferra il vaso che ti troverai davanti agli occhi, conta fino a sei e lancialo verso l’anticamera.

– È la prima volta che mi dai istruzioni così precise. Cosa è cambiato? – domandò.

Aveva l’obbiettivo nel mirino e doveva solo fare fuoco. Poteva ancora tornare indietro e progettare un piano meno rumoroso, ma per una volta, voleva fare le cose in grande. 

Era capace di fare due cose contemporaneamente così, mentre sistemava il detonatore radio vicino alla mano, continuò a parlare con il Sole. – Fammi indovinare, Zach ti ha lasciato e vuoi venire a piangere sulla mia spalla? Per questo mi vuoi vivo?

Se avesse avuto una cravatta se la sarebbe allentata per quanto rideva Alanna. Quella ragazza lo faceva soffocare con una telefonata, ma ghignò pensando a turisti, vittime dei suoi sbalzi di umore.

– No! – rispose lei cercando di trattenersi. – È la mia nuova politica lavorativa. Io ti informo e ti addebito sulla carta di credito la mia consulenza. Per salvarti la pelle sono cinquemila euro. Per te, quattromilanovecentonovantanove e novanta centesimi.

Michael sparò e vide attraverso il mirino il generare a ultrasuoni attaccarsi al vetro vicino a uno dei tanti sostegni di metallo che percorrevano l’edificio come un reticolo ordinato di vene. – Se non volessi darti il numero della carta?

Era allegro. Tutto stava procedendo secondo il suo piano e niente lo avrebbe fermato, poteva anche sopportare una chiamata dal Sole e scherzare con lei.

– Posso vedere nel futuro, fratellino. – ci fu un secondo di silenzio e Michael sbuffò con il dito sul pulsante. – Vedo che tiri fuori la carta dal portafoglio, vedo che la passi alla commessa. Bel vestito, Michael, ottimo gusto. Verity lo adorerà. Ecco, vedo i numeri! Vuoi che te li dica per sicurezza? Iniziano con quattro, zero, zero, sei, nove...

Mise giù il detonatore, non voleva perdersi lo spettacolo e aveva un lungo discorso da fare ad Alanna. – Sai che un furto, vero? Mi hai rubato i numeri della carta di credito.

– Tu mi hai rubato un vaso. – protestò lei. Poteva immaginarla mettere il broncio e anche se lei gli stava addebitando una grossa somma, rise. – Era un lascito di mia nonna. E ora è in pezzi.

– Non l’ho distrutto io, – precisò Michael. – ma Verity. Lo usavo come portacravatte. – e gli piaceva vedere le sue cravatte appese al vaso che aveva preso a quella strega. Ogni volta che lo guardava la soddisfazione gli dava i brividi. Si era intrufolato di notte nella sua stanza e glielo aveva portato via tra le risate. Non gli interessava il valore, aveva voluto farle un dispetto.

– Verity che tu hai fatto infuriare e... Ah, attento con il vaso di stasera. È un Ming originale. Sapevo che quello della nonna non aveva valore, ma era un ricordo. – la capacità di Alanna di saltare da un discorso all’altro lo lasciava sempre basito. I suoi discorsi non avevano un filo logico. – Ti sei mai affezionato a qualcuno al punto tale che non vuoi separarti dai suoi oggetti preferiti?

Michael non ebbe bisogno di pensarci. Conservava i biglietti dell’autobus che aveva preso nelle giornate passate con Angéline e ne aveva un cassetto pieno. – Lo sai già. Senti, questa telefonata mi sta costando una fortuna. Facciamo un riassunto veloce. Entro, rubo lo zaffiro, evito quello che arriverà distruggendo un Ming ed esco, giusto?

– È un riassunto così freddo, senza dettagli...

– Alanna! – la rimproverò.

– Sì! Sì! È così! Attento alla Regina di Coppe!

Gli cadde il detonatore di mano. – E quando pensavi di dirmelo? – urlò. Forse era la cosa più importante e Alanna si era dimenticata di informarlo. – Fammi indovinare, hai di nuovo fatto uso di qualcosa? – non era la prima volta che il Sole lo chiamava per dargli delle informazioni a metà e poi lui scopriva che aveva bevuto o si era drogata. Era un vizio la sua carta si portava dietro da secoli e lei sosteneva che le predizioni migliori le faceva dopo una canna.

– Di piccolo... – piagnucolò Alanna al telefono. – Per ampliare la mente.

– Sei fatta. – disse senza mezzi termini. La conosceva e sapeva che quello che lei considerava ‘piccolo’ avrebbe steso l’intera Loco. – Zach che ne pensa?

– È sul divano che canticchia, perso.

Si passò una mano sugli occhi. Certe volte gli sembrava di avere a che fare con una bambina molto piccola. – Ci sentiamo quando smaltisci gli effetti.

– Due ore e trentatré minuti, quindi.

Michael chiuse la telefonata senza salutarla. Gli aveva preso i numeri della carta di credito per addebitargli un servizio che lui non aveva richiesto. Finito con Singapore doveva bloccare la carta e cambiare numero di telefono. Non sarebbe servito a molto, Alanna lo avrebbe rintracciato, ma per qualche tempo sarebbe stato in pace.

Riprese il detonatore e con un sorriso premette il pulsante. Il generatore di ultrasuoni era più potente di quanto immaginasse. I cani ulularono impazziti e tutti i vetri della torre uno delle Sail Towers esplosero provocando una cascata di frammenti sulla strada sottostante.

Michael inseguiva sempre la perfezione e l’ordine. Entrare e uscire senza farsi notare era la sua regola, ma quel complesso lo aveva costruito Bowers e adorava l’idea di distruggerglielo. Non lo aveva fatto a pezzi, ma poteva stimare i danni a diversi milioni che l’uomo avrebbe dovuto sborsare di tasca sua. Nessuna assicurazione avrebbe coperto un danno simile. Non poteva amare di più il suo piano.

Prese il secondo fucile caricato con il rampino e sparò verso la moquette dell’appartamento che gli interessava. Tanto valeva fargli anche un buco nell’appartamento che Bowers aveva tenuto per sé. La corda si tese fino arrivando a fine corsa. Aveva calcolato quanta gliene servisse per attraversare il vuoto sotto di lui e poi aveva aggiunto altri dieci metri per assicurarsi di avere una misura adeguata. – Come vedi, Togu. Non ho bisogno di fortuna, ho il mio ingegno.

Attraversò la distanza tra le due torri mentre sentiva le auto della polizia avvicinarsi a sirene spiegate e le persone urlare. Il terrore era un’arma potente che giocava a suo favore per distogliere l’attenzione. Il cavo era studiato in modo che si confondesse il più possibile con la notte e perfino lui si era vestito in modo da essere visto il meno possibile.

Attira l’occhio da una parte e giocali dall’altra, gli ripeteva sempre suo padre. E Michael aveva bevuto quelle parole imparando a essere un’illusionista.

Arrivato dall’altra parte, al sicuro sul pavimento, sganciò il cavo e attivò l’argano con il telecomando in modo che lo riavvolgesse. Presto sarebbero arrivati anche gli elicotteri e quel cavo avrebbe indicato da dove cominciare. C’era un altro pulsante che doveva premere e non vedeva l’ora di farlo, ma prima doveva aprire la cassaforte.

Aveva studiato le planimetrie riuscendo a rintracciare un file fantasma. Qualche hacker di Bowers non aveva fatto un lavoro accurato e tramite le sue conoscenze era riuscito a trovare quel file. Gli ci erano voluti tre giorni solo per ottenere quelle mappe e non aveva trovato nulla sulla cassaforte. Sapeva che non poteva arrivarci né dal piano inferiore, né da quello superiore, lo spessore delle pareti glielo impedivano e non voleva mettere una bomba. No, doveva dimostrare a Bowers che quello che lui credeva impossibile non lo era per Michael.

Attraversò lo studio arredato con cura. Tutti i vetri della casa erano esplosi, comprese le vetrinette e le bottiglie di liquore. Evitò quello che doveva essere un prezioso brandy e che ora era una pozza sul parquet di sandalo. Si era frantumata perfino una boccetta di inchiostro e ora stava gocciolando dallo scrittoio d’epoca coperto di cuoio, sul pavimento. Quella macchia non sarebbe mai andata via e lui ne era felice.

Entrò nell’anticamera mentre gli elicotteri sorvolavano la torre. Non potevano vederlo perché si trovavano in una stanza interna, ma era appena iniziato il conto alla rovescia per uscire. Per controllare tutti i piani la polizia ci avrebbe messo un po’. Contava che gli uomini partissero sia dall’alto che dal basso e che si incontrassero a metà strada. E immaginava che le guardie fossero già state piazzate a bloccare tutte le uscite. C’erano nove piani sopra la sua testa e doveva aprire la cassaforte in un quarto d’ora. Entrasse i suoi grimaldelli in nylon e fibra di carbonio ed escluse ogni suono attorno a sé. Esisteva solo la cassaforte.

Fischiò, ammirando la porta di acciaio e titanio come se avesse davanti una statua antica. Aveva davanti otto manopole e tre serrature da forzare e poco tempo. Prese carta e penna e si mise al lavoro. Disegnava i diagrammi ogni volta che sentiva uno scatto, e poi segnava i numeri e le combinazioni. Non gli ci volle molto a capire che le manopole avevano un ordine di apertura e anche se avesse trovato le combinazioni per ognuna, doveva sbloccarle nel modo corretto. Riempì i fogli di appunti, disegnando quella che doveva essere la struttura interna del sistema di apertura secondo i suoni che sentiva. Quando lo schema che aveva formato gli sembrò completo divenne il momento di girare le manopole e forzare le serrature, e vedere se le sue intuizioni erano state corrette.

Per quanto quella cassaforte fosse all’avanguardia, Bowers era di vecchio stampo e usava la tecnologia il meno possibile. Il pesante portello scattò in avanti e sorrise. – Esistono solo tre persone al mondo in grado di aprila a questa velocità.

C’erano tesori per svariati milioni, dalle banconote sistemate in bell’ordine sullo scaffale, alle azioni che da sole avrebbero potuto permettergli il ritiro su un’isola e la possibilità di vivere di rendita, ma solo una cosa lo attraeva ed era lo zaffiro stellato posizionato su un cuscino in fondo alla cassaforte. Come aveva potuto suo padre rubarlo per rivenderlo all’uomo che odiavano di più? Non avrebbe mai avuto l’occasione di domandarglielo, ma una volta avuto Bowers tra le mani gli avrebbe estratto la verità.

Prese la gemma e saltò a sinistra come gli aveva indicato Alanna evitando il proiettile diretto alla sua testa. Il suo istinto prese il sopravvento e si abbassò, trovandosi davanti agli occhi un vaso Ming. Gli pianse il cuore, apprezzava l’arte e veder distruggere un capolavoro era terrificante, ma qualcuno lo voleva morto. Conto in silenzio fino a sei e poi lanciò il vaso verso la porta dell’anticamera con tutta la forza che possedeva. Come aveva previsto Alanna il vaso colpì una figura in penombra e cadde a terra, sfracellandosi. Per un attimo lo shock lo svuotò delle energie. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era il vaso fatto a pezzi accanto alla figura svenuta.

Ordinò a se stesso di riprendersi, doveva uscire da lì al più presto.

Il sangue alla tempia della donna asiatica si stava coagulando in fretta, come la ferita si stava rimarginando sotto i suoi occhi. Prese la pistola e gliela puntò addosso, aspettando che lei riprendesse i sensi.

Due pozzi neri puntarono su di lui. – Mi hai fatto male, moccioso.

Non gli piaceva avere un’arma in mano e puntarla contro la faccia di qualcuno ma era costretto a farlo. – E te ne farò di più se non mi dici cosa voglio sapere.

La donna gli fece un sorriso freddo.

Fu percorso da un brivido a quello sguardo. Anche se la teneva sotto mira, si mise al di fuori della sua portata. Aveva riconosciuto il tatuaggio sull’incavo del collo, Togu ne aveva uno simile. Quella donna era letale come poche persone al mondo. – Resta ferma dove sei. – le intimò. Aveva pochissimo tempo e doveva fare una scelta importante. La donna si mise seduta, soppesandolo con sguardo sornione. – Non hai mai premuto un grilletto, vero moccioso?

Lo stava provocando per fargli perdere la pazienza. Lui usava la stessa tattica e sapeva che funzionava. Chi era arrabbiato commetteva errori e chi li faceva era morto. Michael si costrinse a sorridere. – Chi ti dice che non cominci ora?

– Lo avresti già fatto. Regola numero uno: se vuoi uccidere, lo fai subito. Prima spari, le domande dopo.

Era ancora nell’anticamera, incastrato in una stanza senza uscita e lei era sulla porta. Presto la polizia sarebbe arrivata e li avrebbero trovati. Anche se poteva sparire, lei lo aveva visto e avrebbe potuto cercarlo in futuro. No, la donna non poteva uscire dall’appartamento viva.

– Come ti chiami? – domandò. Non sapeva perché stesse perdendo tempo, ma aveva bisogno di sapere il suo nome prima di sparare.

Lei rise. – Adam e Andrian fecero la stessa cosa la prima volta. – scosse la testa, come se stesse ricordando qualcosa di buffo. – Adam poi non ce la fece, mentre Andrian sparò senza esitazione. Bravo e diligente quasi quando Alekseji, il migliore dopo di lui. – sembrava che parlasse da sola, persa nei suoi ricordi, ma lo sguardo non si spostava mai dalla canna della pistola.

– Hai dei figli? – Michael deglutì, non aveva messo in conto quella possibilità. Come poteva vivere con se stesso sapendo di aver tolto una madre a dei figli? Sapeva cosa voleva dire crescere senza una madre, la sua lo odiava e aveva paura di lui.

La donna lo fulminò con lo sguardo. – E dare a mia figlia la possibilità di vivere per sempre mentre io invecchierò fino a morire? Non essere sciocco, bambino. Il mio Andrian è quanto più vicino a un figlio abbia mai avuto, suo fratello invece è inutile.

Michael respirò profondamente due volte. – Dimmi il tuo nome. Sai chi sono, sai cosa posso fare. Non costringermi a usare i miei poteri.

La donna rimase impassibile. – Come hai costretto la Regina di Spade? – chiese con cattiveria. Michael sentì il sangue defluirgli dal viso e la mano che sorreggeva l’arma tremò. – Sappiamo tutto, moccioso. L’Imperatore sa tutto e sta andando a prenderla. Alekseji e Kyle sono sulle sue tracce, ma il mio piccolo Andrian si occuperà di te.

Zitta! – ci mise tutto il suo potere in quell’ordine. Più di quanto ne avesse mai usato, eppure lei rise come se nulla fosse.

– Illusioni, moccioso. Ecco  cos’è il tuo potere. Non hai il controllo, quello appartiene ad altre carte. Fai credere alle persone di averlo e loro ci cascano, ma quando capisci il trucco, non funziona più. Scoprirai sulla tua pelle cosa vuol dire non avere il controllo della propria mente. – estrasse dagli stivali un pugnale e si colpì la voglia a forma di coppa che aveva sopra il ginocchio. La ferita alla testa si riaprì e non smise di sanguinare, così come quella alla gamba. – L’Imperatore ti manda i suoi saluti, Luna.

A Michael cadde l’arma di mano. Si era appena colpita al punto debole da sola, rendendosi vulnerabile a qualsiasi ferita mortale. Non sarebbe più guarita. Michael avrebbe potuto lasciarla lì, si sarebbe salvata se lui se ne fosse andato, ma la donna prese di nuovo il coltello e mirò al petto.

 Si lanciò sulla lama ancora prima di rendersene conto, stringendola fino a tagliarsi la carne. Sentì lo stridere delle ossa contro l’acciaio ma deglutì il dolore cercando di fermarla. – Cosa stai facendo, stupida?

– Obbedisco agli ordini. Sopravvivi a questo, moccioso. – afferrò la mano libera di Michael e la strinse attorno alla lama, serrandola con la propria e affondò il pugnale nel cuore.

Nel momento in cui la mano di lei scivolò via, Michael scattò indietro. Guardò la mano coperta di sangue con un misto di orrore e incredulità. Non contava cosa lui volesse o cosa non avesse fatto, stringeva il coltello che l’aveva uccisa e per le regole della magia questo bastava.

La Regina di Coppe divenne una carta ai suoi piedi, sopra ai vestiti aderenti che aveva indossato, mentre lui fissava il vuoto dove prima c’era la donna. Un bigliettino sporgeva dal taschino della camicetta.

 

Una regina per una regina, Nefer. A te la mossa.

 

Cosa voleva dire? Era così confuso che non riusciva a capirlo, ma non poteva rimanere lì dentro, la polizia avrebbe frugato presto anche quell’appartamento. Si rimise in piedi ancora intontito e si rese invisibile pensando a cosa gli aveva detto la Regina di Coppe. Le sue erano illusioni e credeva di avere il controllo della situazione, ma nel momento in cui lei era morta si era reso conto che non era così. La Regina e lo zaffiro bruciavano nella tasca, accusandolo. In teoria il suo era stato un ottimo guadagno ma aveva lo stomaco chiuso. Una persona era appena morta e sentiva ancora il calore di quelle dita che lo avevano afferrato.

Camminò per i corridoi dell’edificio e scese le scale senza guardare dove mettesse i piedi. Gli ascensori erano fuori uso e lui doveva andarsene ma la sensazione di avere le mani macchiate di sangue non accennava a diminuire. Era la prima volta che succedeva. Non era stato in grado di fermare gli eventi e ora non controllava più il proprio corpo. Si fermò sul pianerottolo del quarantottesimo piano resistendo all’impulso di vomitare. Se lo avesse fatto, avrebbe lasciato dietro di sé delle tracce e non poteva permetterselo.

Quando raggiunse il piano terra, si defilò, ancora invisibile agli occhi, e mise più chilometri possibile tra lui e le Sail Towers. Si chiuse alle spalle la porta del suo rifugio e prese il telefono dalla tasca della tuta aderente.

Fece il numero di Alanna prendendosi carico della chiamata. – Una regina per una regina. Cosa vuol dire? – chiese assicurandosi che nessuno lo sentisse.

Alanna doveva aver smaltito gli effetti delle droghe perché non rise e a Michael vennero di nuovo i brividi. – Negli scacchi è una mossa. Si chiama scambio di regine. Tu mangi quella del tuo avversario e lui...

– ... mangia la tua. – concluse Michael. – L’Imperatore mi ha appena dato la Regina di Coppe. Mi ha costretto a ucciderla.

– Vuol dire che presto andrà a prendersi la Regina di Spade. Non abbiamo più tempo. – rispose lei grave.

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NdA: come avevo anticipato, gli aggiornamenti saranno ormai una volta al mese a causa di vari impegni. Spero comunque che continuiate a seguirmi e che la storia vi continui a piacere. Grazie a tutti.

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Capitolo 14
*** 3.2 L'Imperatrice - Come i Diamanti ***


3.2 Come i Diamanti

III – L’Imperatrice

Come i Diamanti

 

Villa Courteney, Dover. 14 Agosto 2011

 

Christian stava facendo riposare gli occhi dopo aver passato le ultime ore a guardare i video delle Sail Tower. I vetri di una delle due torri del complesso si erano infranti in un secondo. Aveva osservato le immagini di bassa qualità fotogramma dopo fotogramma cercando qualcosa di cui nemmeno lui aveva idea. Quando le prime notizie erano trapelate sui telegiornali, e le speculazioni erano rimbalzate da un capo all’altro del pianeta, aveva ordinato a Mikelich di scaricare sul computer tutto il materiale possibile sulle Sail Tower. Non solo immagini del disastro, ma anche sulla sua costruzione, sull’inaugurazione e sul suo proprietario. La prima volta che era apparso il nome di Bowers aveva sobbalzato sulla poltrona di pelle. Conosceva quel nome, pochi giorni prima aveva visto delle carte firmate da lui indirizzate a sua madre, la presidentessa della Courteney Corp.

Il materiale che aveva trovato Mikelich sulle sue aziende e sulla sua persona lo avevano lasciato perplesso. C’era molto poco sui Bowers su internet nonostante l’azienda fosse in attività dai primi del novecento. Le foto dei vecchi giornali erano rare, spesso riguardanti gli anni cinquanta e l’era del boom economica, dove i Bowers di Philadelphia avevano iniziato a espandersi in tutto il mondo, dall’America all’Oriente. Le idee innovative avevano permesso loro di arricchissi in fretta e avevano mantenuto alti standard fino a oggi.

Come la Courteney Corp. lavoravano in diversi ambiti compresa la biogenetica, le fonti energia alternative e l’industria militare. Più scavava, più il nome e il marchio Bowers saltava fuori. Erano ovunque eppure c’erano poche foto su di loro, preferendo mandare avanti avvocati e portavoce che apparire di persona.

– Si assomigliano molto. – disse Mikelich interrompendo la linea dei suoi pensieri alla deriva.

Aprì un occhio per guardarlo male. – Chi?

– Il signor James Bowers e suo nipote, l’attuale presidente Alexander.

Christian tese una mano per farsi passare i documenti che il maggiordomo aveva appena stampato. La foto in bianco e nero era sgranata, però si potevano riconoscere i volti dei trentacinque ospiti a un ricevimento di gala di più di sessant’anni prima. Tra di loro, James Bowers si intravedeva appena, messo in ombra da due uomini accanto a lui. Senza dire nulla, Christian voltò pagina è studiò l’altra foto migliorata digitalmente. Era stata scattata nelle ultime ventiquattro ore dopo l’esplosione alla torre di Singapore. Il giornalista era riuscito a catturare di sfuggita l’attuale presidente mentre saliva sulla limousine.

Continuò a passare da una foto all’altra, soffermandosi sulla fisionomia dei due uomini. – Non c’è alcuna differenza. – mormorò. – La linea della mascella è pressoché identica, così come il naso e la forma delle labbra. Sono...

– Sono la stessa persona, signorino. – finì per lui Mikelich quando gli mancarono le parole. – Solo tra gemelli potrebbe esserci una somiglianza simile, ma le due foto hanno sessant’anni di differenza. Anche se sono nonno e nipote è impossibile che...

– So come funziona la genetica. – abbaiò frustrato per la libertà che Mikelich si era preso.

Erano lontani i tempi in cui lo lasciava parlare e Christian lo ascoltava pur conoscendo già la risposta. Ed entrambi sapevano che non sarebbero più tornati. Christian aveva imparato la lezione e si era ripromesso di non fidarsi più dell’uomo che lo aveva cresciuto e addestrato. – Sta’ al tuo posto. – gli ordinò.

Mise a tacere la fitta di dolore che quell’ordine gli procurò e tornò a concentrarsi sui video e su quell’uomo. Non c’era alcun dubbio che era come lui ed era probabile che le due persone nella foto fossero la stessa. – Alexander Bowers ha almeno settant’anni, ma non ne dimostra più di quaranta. – la notizia non gli faceva piacere. Più tempo vivevano, più gli Arcani ricordavano e diventavano forti.

Se Bowers era uno di quelli che credevano nel completamento del mazzo era probabile che avesse dato la caccia agli altri e ne era sempre uscito vivo. Quante carte aveva? Chi era lui? Un Maggiore o un Minore? Era neutrale o li avrebbe braccati se avesse saputo della loro esistenza?

– È un’incognita che non mi piace.

Si versò da bere senza badare che fosse appena pomeriggio. Aveva provato a contenersi, soprattutto dopo che Verity gli aveva confidato cosa successe a sua madre e quanto la facesse star male stare accanto a qualcuno che beveva ma aveva bisogno di buttare giù qualcosa di forte che gli alleviasse il mal di testa crescente.  

Alle sue spalle Mikelich tossì un rimprovero. – Signorino.

Buttò giù un altro sorso. Il whiskey gli bruciò in gola e poi in petto soffocando sul nascere il desiderio di gettare via il bicchiere e ascoltare il consiglio non detto del suo maggiordomo.

– Non dirmi cosa devo fare.

Fin da bambino lo aveva sempre ascoltato. Aveva fatto tutto quello che l’uomo gli aveva chiesto perché era sicuro che fosse dalla sua parte e lo proteggesse perché tenesse a Christian. Quando il ragazzo aveva scoperto la verità, il senso di tradimento era stato più forte di quanto fosse disposto ad ammettere. Non solo si era sentito tradito, ma anche usato. Eppure Christian non era capace di mandarlo via e spezzare del tutto quel legame creatosi con gli anni.

– Non sono più un bambino. – lo disse più a se stesso che a Mikelich cercando di ricordare perché avesse preso le distanza da quell’uomo che era stato un confidente e un fratello maggiore. La vecchia ferita si riaprì di nuovo scuotendolo da capo a piedi.

L’uomo gli tolse il bicchiere dalla mano e senza protestare Christian se lo lasciò portare via. – Il mio dovere è fare il suo bene.

– Allora non avresti dovuto tradirmi. – si sentì di nuovo un bambino. Solo e con una madre sempre assente per lavoro e un nonno irraggiungibile che gli ricordava sempre quanto importanti e influenti fossero i Courteney e quante aspettative avesse risposto in Christian. C’era solo Mikelich a prendersi cura di lui con modi bruschi da soldato. Lo svegliava prima dell’alba e lo allenava fino a colazione, poi lo conduceva a scuola lasciandolo sulla soglia dell’istituto per riprenderlo al termine delle lezioni. I momenti a scuola erano gli unici in cui lo lasciava, ma anche se non poteva vederlo sapeva che Mikelich era nei dintorni per assicurarsi che stesse bene e fosse al sicuro.

Si era accorto di quella sorveglianza quando a quindici anni aveva provato a marinare la scuola con un paio di amici e aveva notato il maggiordomo mentre lo seguiva senza perderlo di vista un attimo. Quando lo aveva aspettato davanti ai cancelli della costosa scuola privata e gli aveva aperto lo sportello della limousine non aveva detto nulla e aveva fatto finta che fosse rimasto a scuola tutto il giorno.

Le sue giornate erano state scandite dalla presenza di Mikelich e dagli impegni. All’epoca si era sentito solo perché gli mancava la madre che vedeva di sfuggita nei fine settimana ma niente era paragonabile al dolore che provava ora, guardando l’uomo che aveva sempre fatto parte della sua vita e che aveva visto come un estraneo in India.

L’immagine di quella giornata di pioggia e sangue danzò tra di loro e per un attimo gli parve che Mikelich volesse dirgli qualcosa, ma quell’istante passò e il rigido autocontrollo del maggiordomo prese di nuovo il sopravvento. – Controllo se ci sono dei nuovi video sull’incidente a Singapore. Con permesso, signorino.

Christian avrebbe voluto urlare. Afferrare Mikelich e scuoterlo fino a farsi dire perché aveva ucciso quella gente, stavolta facendosi dare una motivazione che andasse oltre a quella che lui gli aveva sempre rifilato: era stato un dovere.

Chiuse gli occhi, rivivendo il momento in cui aveva trovato i cinque corpi insanguinati e Mikelich con ancora la pistola in mano. Le parole che gli aveva detto quel giorno tornarono a farsi sentire, crudeli come la prima volta.

La signora mi ha ordinato di togliere ogni ostacolo. Era mio dovere farlo, signorino.

Gli venne la nausea. Mikelich aveva ucciso cinque persone inermi, tra cui un’infermiera, perché sua madre glielo aveva ordinato. Il maggiordomo l’aveva chiamata per dirgli che Christian aveva preso in considerazione l’idea di gettare all’aria il suo cognome e la sua eredità e costruirsi una vita lontana dalla sua famiglia e per questo era stato punito. Aveva poi trovato sua madre nel piccolo appartamento che condivideva con Mikelich e ancora stordito da ciò che era accaduto, non era riuscito a dire una parola mentre lei lo rimproverava perché la sua folle idea l’aveva costretta a rimandare una riunione importante. Lo aveva minacciato senza giri di parole, promettendogli che la prossima sarebbe stata Nyvie se avesse provato di nuovo a dimenticare quale fosse il suo dovere verso i Courteney e il motivo per cui lo aveva messo al mondo. Prima di andarsene, disgustata dal piccolo ambiente in cui viveva Christian, gli aveva accarezzato la guancia.

Resta qui a comportarti come il patetico e debole figlio che sei sempre stato. Manderò dei giornalisti a documentare quanto la Courteney Corp. si prodighi per la salute dei più poveri mandando il loro stesso erede. Questo tuo capriccio ci farà guadagnare consensi e le nostre azioni voleranno in alto: la carità va molto di moda quest’anno. Non deludermi di nuovo, figlio mio, e non dimenticarti mai più che sei un Courteney. Se ne era andata lasciando nella stanza ancora il suo profumo costoso a ricordargli che poteva arrivare ovunque e la consapevolezza che Mikelich non stava dalla sua parte, ma da quella di sua madre e lo aveva sempre spiato riferendo ogni suo passo.

Aveva imparato la lezione quel giorno e aveva deciso di agire di conseguenza. Se sua madre lo usava per ottenere più profitti, lui avrebbe fatto lo stesso e avrebbe usato i loro soldi per i suoi capricci. Era tornato a Dover nel momento in cui lei gli aveva mandato una scorta di farmaci per un anno intero e la promessa di un ospedale a Calcutta o Christian avrebbe chiamato i giornali e avrebbe mostrato il vero volto della Courteney Corp. e nessuna minaccia di sua madre era riuscita a fargli cambiare idea. Avevano raggiunto un accordo e un equilibrio che Christian non aveva intenzione di rompere. La vita di Dubois valeva quasi nulla a confronto delle centinaia di persone che aspettavano delle cure e la fiducia che aveva in Mikelich dopo quel giorno era scomparsa, lasciando spazio al rancore e a un vuoto che nessuno a parte Nyvie riusciva a colmare.

Sapeva di star esponendo la bambina al pericolo, ma non riusciva ad allontanarla. La paura di tornare a essere quel Christian Courteney, il ragazzo che si sentiva un dio, lo terrorizzava. Sentiva la sua presenza farsi pressante ogni volta che vedeva i risultati che davano i farmaci che inviava a Calcutta. Erano i suoi soldi, la sua influenza e il suo potere a permettere quel risultato. Nessuno doveva dimenticarlo, nemmeno lui.

Stai zitto, ordinò a quella parte che tanto odiava. Non sono più quella persona.

Ma per quanto cercasse di domare quel Christian spietato e calcolatore non riusciva mai a metterlo a tacere del tutto. Si faceva sentire quando Verity lo guardava con ammirazione e gelosia e si esaltava quando Nyvie sorrideva accettando con entusiasmo uno dei suoi regali. Aveva bisogno che loro due lo guardassero in quel modo, ne era drogato. Poteva dare loro tutto quello che desideravano e lo avrebbero amato per quello, sarebbero sempre venute da lui.

Scacciò il pensiero con forza. Voleva che Nyvie e Verity sorridessero perché gli piaceva che fossero felici. Quando Verity stava male e suoi occhi verdi si oscuravano gli sarebbe piaciuto stringerla e allontanare la sua tristezza, ma la ragazza era schiva e restia a farsi toccare in un modo così intimo, soprattutto dopo che si era sentita male in terrazza quando era stato nominato Nefer.

Dubois, la Luna, l’attuale incarnazione di Nefer era la chiave per spiegare il dolore di Verity e lui doveva trovarlo. Cosa fare una volta catturato, non lo sapeva. Per il bene delle persone che attendevano le cure avrebbe dovuto ucciderlo ma anche se Verity diceva il contrario, ne avrebbe sofferto. Perdere l’anima gemella di nuovo l’avrebbe dilaniata.

Il dolore di Owen e Thomas alla morte di Emily lo travolse. Quello era il ricordo peggiore che possedeva. Come fratello di Emily e capo villaggio era stato costretto ad accendere la pira funebre della ragazza che era stata assassinata mentre Thomas e Owen controllavano i granai e i magazzini in vista dell’inverno. Aveva dovuto far trattenere Owen, la Luna, dai suoi uomini più forti per impedire che si gettasse nel fuoco e abbandonasse i due figli che aveva avuto da Emily. Il dolore per la perdita era così forte che non riusciva a conviverci e voleva seguire la sua Emily. Da quel giorno, Owen aveva vissuto solo per la vendetta e lo aveva coinvolto, deciso a dare la caccia a Lucas in tutta la Cornovaglia, e oltre, se fosse stato necessario.

Se Christian avesse ucciso Dubois davanti a Verity sarebbe impazzita come era successo Owen? Gli avrebbe dato una caccia serrata come avevano fatto Thomas e Owen?

Non voleva vedere gli occhi di Verity ricolmi di odio, ma non poteva nemmeno sottrarsi al suo dovere. Christian non aveva altra scelta se non obbedire all’ordine di sua madre e doveva agire finché Verity non ricordava i trascorsi tra la Regina di Spade e la Luna. Se le avesse permesso di sbloccare le memorie sulla Luna avrebbe capito che Christian le aveva sottratto la possibilità di essere felice di nuovo.

La risata di Nyvie lo riscosse e incuriosito seguì il suono allegro che arrivava dai corridoi. Trovò la bambina nascosta dietro una pesante tenda non lontano dal suo studio e come la vide lei gli fece cenno di tacere e tornò a nascondersi, trattenendo le risate. Christian studiò quel comportamento insolito cercando di non ridere contagiato dalla bambina.

– Nyvie, – chiamò Verity svoltando l’angolo – dove ti sei nascosta?

Passò davanti alla tenda studiando il piccolo rigonfiamento e i piedi della bambina che spuntavano fuori e fece un sorriso accondiscendente a Christian. – Hai visto Nyvie? – gli chiese scuotendo la testa. – Non la trovo da nessuna parte. Si è nascosta davvero bene.

Christian sentì la tenda dietro di lui muoversi scossa dalla risata silenziosa di Nyvie. – L’ho vista correre verso la piscina. – rispose stando al gioco.

Verity si incamminò lungo il corridoio e Nyvie saltò fuori correndo nella direzione opposta e battere contro la porta dello studio. – Salva! Salva! Ho vinto! – gridò volteggiando su se stessa.

Ridendo, Verity gli corse in contro e la afferrò sollevandola. – Piccola peste! – esclamo facendole il solletico mentre Nyvie provava a sottrarsi a quella tortura appallottolandosi contro il pavimento. – Puoi aver vinto una battaglia, ma non la guerra!

Finirono stese tutte e due sulla moquette con il fiatone e ancora una mezza risata ad accendere i loro occhi, con Nyvie che ogni tanto le faceva il solletico che Verity non evitava. Christian avrebbe voluto unirsi a loro ma gli piaceva guardarle giocare e divertirsi, lo rilassava.

Ebbe l’impulso di rinchiuderle entrambe nelle loro stanze e non lasciarle uscire più in modo che il mondo esterno non potesse ferirle né toccarle ancora. Se le avesse imprigionate per il loro bene, nessuno gliele avrebbe portate via e avrebbe conservato quella risata per sempre.

Verity si mise a sedere in mezzo al corridoio con i capelli arruffati per la piccola lotta che aveva volutamente perso e lo invitò a sedere accanto a lei mentre Nyvie si accoccolava sulle sue gambe e la stringeva.

Sedendosi accanto a loro provò il morso della gelosia. Verity aveva conquistato Nyvie e la bambina passava molto tempo con lei. La cosa non gli dispiaceva, voleva che Nyvie apprezzasse Verity, ma non si sentiva più il centro del mondo di quella bambina.

I pensieri contrastanti che continuava a provare accentuarono il suo mal di testa. Si massaggiò le tempie sotto lo sguardo vigile di Nyvie.

– Stai male? – domandò la piccola accarezzandogli la guancia.

– No, sono solo stanco. Ho lavorato troppo alle mie ricerche.

Nyvie strinse un’altra volta Verity prima di abbracciare anche lui. – Oggi studio sola. – mormorò contro il suo petto. – Così riposi.

– Non c’è bisogno, Nyvie. Magari iniziamo più tardi.

– Insisto. – lo disse con una tale risolutezza nella voce che Verity rise e Christian guardò allibito la bambina.

Non l’aveva mai sentita dire quella parola. – E questa da dove è uscita?

– Veraty ha insegnato una nuova parola.

– Verity. Ve-ri-ty. – la corresse lui con dolcezza – Con la i.

Nyvie aveva difficoltà a pronunciare il nome insolito della ragazza ma a Verity non dava fastidio che lo storpiasse ogni volta.

In India l’inglese era la seconda lingua, ma quando aveva incontrato Nyvie, la bambina conosceva poche parole e storpiava le regole grammaticali. Si era messo a insegnarle a leggere e scrivere quando trovava tempo libero e gli enormi passi che aveva fatto la bambina lo aveva incoraggiato a proseguire. Aveva ancora difficoltà, ma Nyvie era entusiasta ogni volta che imparava qualcosa di nuovo e Christian contava di mandarla a scuola per l’inizio dell’anno scolastico.

– Se insisti, – proseguì lui – allora non continuo. Stasera mi dici cosa hai letto oggi?

– Sì. – la gioia nei suoi occhi verdi lo rassicurò. Nyvie avrebbe fatto del suo meglio leggendo con attenzione i libri che lui le aveva preso e stasera gli avrebbe fatto un resoconto completo. Nel momento in cui sparì oltre l’angolo del corridoio si accasciò contro il muro vinto dal dolore pulsante che sentiva alle tempie.

– Se alla sua età avessi avuto tutta questa voglia di imparare a quest’ora avrei una laurea. – la voce di Verity gli arrivava soffocata dal dolore che provava. La testa era affollata di voci e tutte gli davano indicazioni contrastanti. C’era chi gli suggeriva di seguire Nyvie e accantonare Dubois, chi gli ordinava di tornare a guardare i video e cercare una risposta e alcune più forte che gli dicevano di ribellarsi alla madre e fare sua la Courteney Corp. per realizzare tutto quello che desiderava.

– Sicuro di stare bene? – il viso di Verity era alla stessa altezza del suo, così vicino che gli sarebbe bastato un tendersi per sfiorarla con le labbra. – Sei pallido.

– Sì. – rispose. – No. Non so. – era confuso oltre ogni dire e non sapeva se a parlare era lui o qualcun altro. Riusciva solo a vedere le guance ancora rosse della ragazza per il gioco di poco prima, le ciocche di capelli che le sfuggivano ribelli dalla coda e il velo di sudore le imperlava il collo e le spalle. Se si fosse avvicinato ancora un po’ avrebbe potuto ridurla in quel modo in giochi tutt’altro che innocenti. Ricordava vecchi trucchi che le sue amanti gli avevano insegnato, cose che avrebbe potuto fare anche a Verity se solo lei si fosse lasciata andare un di più. Quelle due labbra rosse lo tentavano e le sue mani si chiusero sulle spalle di Verity tirandola a lui. Gli sarebbe bastato ordinare che nessuno lo disturbasse e avrebbe potuto portare con sé Verity in camera sua con una scusa e...

La allontanò di scatto, spingendola indietro. – Scusa. – mormorò.

Si sentiva febbricitante e non riconosceva più i propri pensieri. Si era ripromesso di trattare Verity con gentilezza ed era sua ospite non avrebbe fatto nulla che lei non volesse apertamente. – Devo tornare al lavoro. Mikelich deve aver trovare dei nuovi video da farmi vedere a quest’ora.

Non osava guardarla negli occhi per non vedere l’accusa sul suo volto ma prima che potesse sparire di nuovo oltre la porta del suo studio Verity gli afferrò la mano. – Cosa c’è?

– Stanchezza. – disse.

– Cazzate!

– Il caldo.

– Smetti di mentirmi.

Chiuse gli occhi. Si sarebbe comportato come un uomo e avrebbe affrontato la situazione. – Ho passato un attimo in cui ho desiderato baciarti. – la presa sulla sua mano si mosse a disagio, ma Verity non lo lasciò andare continuando a scrutarlo con attenzione. – Non solo. – proseguì lui. Non voleva ferirla, anzi sì. Non lo sapeva più. Voleva solo vedere lo sconcerto in quegli occhi verde-grigio e sapere che la regina dei ghiacci provava qualcosa oltre sconforto e desiderio per il suo amore perduto. Avrebbe voluto vedere quegli occhi pieni di paura come erano quella notte di tempesta quando...

No!

Scosse la testa scacciando il pensiero. – Ho fatto uno sbaglio, mi dispiace.

– Cosa intendevi con quel ‘non solo’? – chiese lei imperterrita.

– Volevo portarti in camera mia per farlo con te. Ti avevo trovato eccitante. E se ti fossi ribellata avrei usato la violenza. Sai quanto posso essere forte, non avresti avuto alcuno scampo. – la presa che lo stringeva si serrò senza un attimo di esitazione e Christian alzò gli occhi su di lei. – Non hai paura?

– Se volevi farmi del male non mi avresti spinto via e non me lo avresti detto come se fossi un condannato a morte.

La porta dello studio si spalancò e Mikelich uscì esaminando la sua pistola. – C’è stata un’intrusione nel parco, signorino. Vado a controllare la situazione.

Non poté fare altro che annuire. Se la sua sicurezza e quella dei suoi ospiti era in pericolo, Mikelich non lo avrebbe guardato in faccia due volte e non si sarebbe fermato finché la minaccia non veniva eliminata.

Si trascinò nello studio e si accasciò sulla poltrona ancora confuso. Il mal di testa era quasi sparito e i suoi pensieri erano tornati chiari. Non c’erano più strani impulsi e pensieri contrastanti ad annebbiargli la mente. – Cosa è successo? – mormorò guardando il soffitto.

Non aveva mai provato nulla del genere, per un lunghissimo instante si era sentito un’altra persona. Una persona con meno vincoli, molto più incline a prendersi quello che voleva quando voleva senza pensare alle conseguenze. Si era già comportato così in passato e aveva ferito più persone di quante avesse ammettere. Provare di nuovo una sensazione del genere era stato terrificante e... liberatorio. Non lo avrebbe mai detto ad alta voce, ma per un attimo si era sentito libero da tutti pesi che gli gravavano sul cuore.

Verity prese posto sulla sedia accanto a lui, quella che fino a pochi minuti prima era stata occupata da Mikelich, e si mise a studiare gli schermi.

– È esplosa un torre? – domandò preoccupata. – Un attentato terroristico? – puntò il dito verso una delle sovraimpressioni della BCC mentre il telegiornale faceva rivedere il momento in cui i vetri esplodevano e la gente correva via, spaventata e confusa. C’erano stati solo lievi ferite per pura fortuna nonostante le tonnellate di vetri che erano caduti sulla strada come una cascata mortale.

Christian scosse la testa. – Un messaggio.

– Da parte di chi? – Verity guardò affascinata le immagini a rallentatore sullo schermo accanto, facendo scorrere il cursore più e più volte avanti e indietro rivivendo il momento in cui i vetri sembravano incresparsi come delle onde in uno stagno per poi esplodere tutti insieme.

– Di Dubois. – rispose a denti stretti. – Quel bastardo ha fatto danni per milioni per mandare uno stupido messaggio e dirci che era stato lui. Centinaia di persone hanno la casa inagibile per colpa sua.

Verity annuì ascoltandolo appena. Stava osservando i vetri che cadevano stagliandosi nella notte riflettendo la luce argentea della luna. Era rapita da quella scena. Non faceva altro che guardarla e i suoi occhi rimbalzavano da uno schermo all’altro. – Sembra una cascata di diamanti. – mormorò infine. – Come sai che è stato lui? Da ciò che mi hai detto non sembra il modo di lavorare di Michael.

Christian cambiò le immagini su uno degli schermi mostrandogli l’altra torre delle Sail Towers. L’immagine di una luna piena era proiettava su tutta la torre. L’immensa firma dell’artefice di quel disastro. – C’è un’unica persona al mondo che può firmarsi con una luna. E poi, è un megalomane. Il mondo intero sta parlando di lui, la cosa gli fa solo piacere. – il rancore nella sua voce era palpabile e non provò nemmeno a trattenerlo. Michael rappresentava tutto ciò con cui lui non voleva più avere a che fare e doveva per forza cercarlo senza sapere il motivo per cui sua madre lo odiava tanto.

– Sai, – cominciò Verity guardando di nuovo la scena dell’esplosione e la pioggia di vetri – una volta io e lui abbiamo parlato. – sotto l’occhiata in tralice di Chris, Verity alzò gli occhi al cielo esasperata. – Prima che mi rapisse, intendo. Buffo come mi venga in mente adesso, non c’entra nulla, ma parlavamo di diamanti e di come mi piacessero perché sono forti e a lungo andare diventano...

– Infrangibili? – domandò Chris.

– Sì. Come lo sai?

Batté veloce sulla tastiera e l'immagine cambiò mostrando il tetto della torre su tutti gli schermi. Scritto in argento, il colore dell'acciaio della spada di Verity e del colore della luna, sul muro della torre due, c'era scritto: come i diamanti, siamo infrangibili.

– Ma cosa c’entrano queste torri con me? – protestò lei. – E con lui? È la prima volta che le vedo.

– Non credo che il messaggio fosse per te. – Christian tirò fuori le carte su Bowers che aveva stampato e gliele mise in mano spiegandole i suoi sospetti. – Se ho ragione, lui è come noi. – concluse.

Con la mano che tremava, Verity mise giù le sue foto che ritraeva Bowers. – Non mi piace quest’uomo. Mi fa venire la pelle d’oca. – strinse le braccia al corpo cercando di farsi piccola sulla sedia e i pezzi del puzzle che cercava Christian andarono al suo posto guardandola tremare. C’era una sola persona al mondo che poteva ridurre Verity in una condizione come quella: l’Imperatore. L’anima della ragazza aveva riconosciuto il suo aguzzino con una sola occhiata e tutto di lei parlava di paura cieca.

Christian le coprì una mano con la sua cercando di rassicurarla. – Non lo incontrerai, te lo prometto. Non gli permetterò di farti del male. Ma adesso sappiamo per chi era quel messaggio.

Rannicchiata sulla sedia, Verity annuì. – Pensi che Michael si riferisse a lui con quel siamo ‘infrangibili’?

Verity non ricordava, non doveva sorprendersi per una domanda del genere. Se avesse ricordato cosa le aveva fatto l’Imperatore e il male che aveva provocato alla Luna non si sarebbe rannicchiata sulla poltrona, sarebbe fuggita in preda al panico.

– Penso che Michael abbia voluto ricordare a Bowers che sta per affrontare due diamanti. Due anime che si sono rafforzate nel tempo e ora sono infrangibili. – non c’era altro modo per spiegare la relazione che c’era tra la Luna e la Regina di Spade. Erano due anime forgiate nel dolore che si rafforzavano ogni volta che si ritrovavano. Christian sperava solo che ora fossero abbastanza forti da tener testa all’Imperatore e non soccombere un’altra volta.

Un movimento del monitor a sinistra di Verity catturò la sua attenzione. Non era abituato a guardarlo perché era collegato alle telecamere di sorveglianza ed era Mikelich a controllarlo periodicamente. – Esci. – disse spingendo indietro la sedia di Verity senza tanti complimenti. Ingrandì l’immagine di una delle telecamere nel parco.

C’era un ragazzo punk nel suo giardino, seduto su un ramo con le gambe a penzoloni mentre fumava senza curarsi di niente altro. Christian era sicuro di non averlo mai visto prima, ma quando incrociò il suo sguardo attraverso il monitor le decine di voci che prima lo avevano assalito tornarono a farsi sentire più forti di prima, bombardandolo.

– Christian.

Spinse Verity lontana con più forza di quanta volesse usarne mandandola a sbattere contro il muro opposto, ma preferiva che si fosse fatta male in quel modo piuttosto che si avvicinasse a lui mentre non si fidava del suo stesso corpo. Tremava mentre si costringeva a rimanere immobile con le dita affondate nel legno massiccio della scrivania.

Diamo il via alle danze.

No!

Torniamo a essere una cosa sola.

No!

In passato ci siamo divertiti insieme.

No! Lasciami in pace. Esci dalla mia testa.

Le voci risero tutte insieme a quella affermazione. Sai che non è così. Siamo sempre stati una cosa sola. Oggi era solo un saluto. Un modo per mostrarti le mille possibilità che hai. Ma ho bisogno che tu faccia una cosa per me prima di salutarti, fratello.

Guardando lo schermo, Christian sentì le voci sussurrare sempre più incessantemente perforandogli il cranio fino a stordirlo.

Con un ultimo sbuffo di fumo rivolto alla telecamera il ragazzo lo salutò e sparì tra le ombre degli alberi. Sai cosa devi fare, fratello, sussurrarono un’ultima volta le voci. Questa volta faremo cadere il mondo.

Christian cadde a terra con le gambe che non riuscivano più a reggerlo. Dove prima c’era il ragazzo, ora vedeva Mikelich avanzare guardingo con la pistola in mano. Non era mai stato tanto felice di vederlo in vita sua.

– Christian, stai bene? – Verity era di nuovo accanto a lui con le mani sul suo volto a costringerlo a guardarlo. – Parlami. Dimmi qualcosa. Stai bene?

Annuì e si accasciò contro di lei beandosi del calore che il suo corpo emanava. – Sto bene. Ora. – mentì.

Verity lo strinse insicura, ma a lui non importava. L’aveva vista andargli incontro quando aveva avuto bisogno di aiuto e ora lo stava sorreggendo. Christian ricordava i passati della Regina di Spade quando si erano incontrati, era sempre stata coraggiosa e non era mai fuggita qualsiasi fosse il problema. Anche ora, sapendo che il livido che stava sparendo sulla sua spalla glielo aveva provocato lui quando l’aveva spinta non si era tirata indietro. Verity aveva la forza di un diamante, mentre Christian si sentiva come uno dei vetri delle Sail Towers: frantumato in migliaia di pezzi e senza la possibilità di ricomporsi.

Sai cosa devi fare, fratello. Cantilenò di nuovo la voce.

– Ho bisogno di un momento, Verity. Esci, per favore.

– Sicuro? – domandò lei.

– Sì. – no. Non sapeva cosa avrebbe fatto una volta lasciato solo. Sapeva solo che doveva farlo. Era un impulso a cui non poteva sottrarsi. – Lasciami il tempo di ricompormi.

Con un’ultima occhiata titubante, Verity lo lasciò e Christian prese il telefono componendo il numero della segretaria di sua madre. – Sarah, – disse senza preamboli alla donna. – ho bisogno che tu faccia qualcosa per me: prendi un appuntamento con Alexander Bowers a mio nome.

– La signora cosa ne...

– Lascia stare mia madre. – interruppe freddo. – Non ha bisogno di conoscere ogni mio passo. Un appuntamento con Bowers. Se è restio, digli che ho la cosa che più desidera al mondo e che voglio incontrarlo a Calcutta tra un paio di giorni.

Le voci nella sua testa esultarono senza lasciare la presa. Christian aveva la nausea per quello che aveva appena fatto, ma non riusciva più a fermarsi. Non aveva alcuna intenzione di dargli Verity o forse sì? Per ora non lo sapeva, voleva divertirsi un po’ con lei. Del resto aveva aiutato quei tre folli a crearla, apparteneva anche a lui di diritto. Sapeva con certezza, però, che se la Regina di Spade fosse stata minacciata, la Luna sarebbe corsa a salvarla. Era l’occasione buona per far cadere un paio di teste e ricordare loro a chi dovevano tutto quel potere.

Gli venne un altro tremito e si riscosse ansimante. Christian si passò una mano sugli occhi. Cosa aveva appena fatto? Avrebbe dovuto annullare l’appuntamento e mettere al sicuro Verity ora che aveva rivelato dove fosse, ma la mano non gli rispondeva.

Usa l’occasione per uccidere l’Imperatore e mettere al sicuro la Regina di Spade e la Luna. Con i soldi che potresti prendere da Bowers sarai libero dal giogo di tua madre.

Quel pensiero non gli sembrava affatto male. Se fosse riuscito a giocarsela bene, l’Imperatore non sarebbe più stato una minaccia e avrebbe potuto affrontare a testa alta sua madre.

Sarebbe diventato a tutti gli effetti infrangibile come un diamante.

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NdA: Non sono sparita, sono stata rapita dagli impegni universitari e mi scuso per il ritardo. In compenso posso dire che il prossimo capitolo è pronto,devo solo correggerlo e lo pubblicherò a fine mese. Enjoy.

Khynan

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Capitolo 15
*** 3.3 L'Imperatrice - A Forma di Carta, A Forma di Uomo ***


3.3 A Forma di Carta, A Forma di Uomo

III – L’Imperatrice

A Forma di Carta, a Forma di Uomo

 

Camelford, Cornovaglia. 16 Agosto 2011

 

Gabriel era in attesa seduto su una panchina del centro città. Nonostante fosse estate, l’aria era più fresca e umida rispetto a quella di Siviglia, dove lui era nato e cresciuto. Temperature del genere le avevano alla fine dell’inverno, non nel mezzo di Agosto.

Tenne lo sguardo ben piantato a terra rifiutandosi di guardarsi intorno per non soffocare nel dolore. Se avesse potuto avrebbe evitato di tornare in Cornovaglia, soprattutto a Camelford. Non lontano c’era la brughiera dove Lucas era fuggito dopo aver ucciso Emily e se percorreva le strade lungo il fiume Camel poteva rivedere le vie non battute e contornate da piccole case di pietra, legno e paglia con gli animali nei recinti costruiti con legname umido e corde vecchie. Sentiva nell’aria l’odore di fango e sudore e dei fuochi fatti con sterco secco e paglia.

Erano passati poco meno di millecinquecento anni ma vedeva Camelford com’era stato allora e sentiva la stessa paura e orrore che aveva provato nel momento in cui l’aveva abbandonata.

Si aspettava che Owen e Thomas saltassero fuori per cercare di vendicare la morte di Emily.

Riviveva il momento in cui aveva piantato il coltello nella gola della donna e l’aveva guardata dissanguarsi mentre i figli di Emily urlavano terrorizzati.

– Non ora, vi prego. – sussurrò prendendosi la testa fra le mani. – Vi prego.

Non avrebbe dovuto tornare. Non avrebbe dovuto mettere più piede sul suolo d’Inghilterra, i fantasmi che lo inseguivano erano troppi ma il Mago aveva voluto che lui lo raggiungesse e se voleva la verità non poteva sottrarsi.

Una donna si avvicinò guardandolo con preoccupazione. – Stai bene? – parlava con un marcato accento, con un cadenza simile a quella che aveva Emily in passato.

– Sì.

Anche se sapeva che la donna voleva solo assicurarsi che lui stesse bene, gli sembrava che ogni sasso, ogni albero e ogni persona di Camelford lo accusassero di omicidio. Il sangue innocente che Lucas aveva versato aveva marchiato la terra in profondità e ricordava ancora cosa avesse fatto. Tutto il suolo cittadino inneggiava alla sua morte e non capiva come mai quella donna non sentisse quelle grida oltraggiate.

– Sto bene, grazie.

Senza insistere oltre, la donna si allontanò guardandolo un’ultima volta prima di svoltare l’angolo e sparire.

– Sto bene. – mormorò a se stesso con le urla nella testa che non accennavano ad andarsene. – Sto bene.

Quasi volesse rispondere alle sue parole un forte vento si alzò scompigliandogli i capelli con rabbia. Lucas aveva vissuto una sensazione simile quando aveva visto il fumo della pira di Emily dalla cima di una collina nella brughiera. Il vento che si era alzato quel giorno lo aveva spinto ad allontanarsi e a non mettere più piede in quelle terre.

Solo due secoli dopo gli eredi di Lucas avevano scoperto che Emily era stata la regina del vento e delle tempeste e quel giorno il vento stava dicendo addio alla sua signora.

– Hai sempre preferito la solitudine e tenerti tutto dentro piuttosto che aprirti con qualcuno, Eremita.

Gabriel alzò la testa. La piazza era deserta a parte per il ragazzo castano che gli stava venendo incontro con i pollici nelle tasche dei jeans fascianti. Aveva un mezzo sorriso sulle labbra che non prometteva nulla di buono mentre gli occhi color miele brillavano.

Stava usando la sua magia in pieno giorno dove chiunque poteva vederlo. – Tu invece appari sempre quando non me lo aspetto, Mago.

– È nella natura degli eroi. Appariamo sempre al momento migliore. Alla gente non dispiacerà se facciamo due chiacchiere da soli. Non si avvicineranno alla piazza. – disse muovendo le dita, come se suonasse una tastiera invisibile.

Gabriel rise per la disperazione. Se il Mago fosse stato presente ai tempi di Lucas niente sarebbe successo.

– Ora ho bisogno di te. – rispose. Il suono delle voci nella sua testa diminuiva a ogni passo avanti di quel ragazzo.

– So perché sei qui. – gli rispose sedendosi accanto. – Non è difficile da immaginare. Quando mi hai chiamato per la seconda volta in pochi giorni, parlandomi di ciò che ti ha detto il Sole, ho immaginato che tu volessi sapere tutta la storia. – alzò il viso dai lineamenti delicati godendosi per alcuni secondi il vento che gli scompigliava i capelli. – Dopo tutto questi secoli sento ancora le loro voci e vedo i loro sorrisi. Li vedo ogni giorno e ogni notte. Hanno vissuto proprio qui, dove appoggiamo i piedi.

Gabriel lo guardò malevolo. – Credi di essere l'unico, Robert?

Ogni volta che pronunciava il suo nome ad alta voce rimaneva sorpreso nel sentire quanto fosse comune il suo nome per un ragazzo che di comune non aveva nulla. Dietro quegli occhi con una luce divertita e l'accenno di barba si nascondeva Merlino, il Mago.

Il ragazzo scosse la testa. – No. – sussurrò. – Io sono stato il primo, il Custode della Memoria. La nostra maledizione cominciò qui, su questa terra. Dove una volta sorgeva la leggendaria Camelot. – mosse la mano e la cittadina si dissolse come se lui avesse tranciato un velo e dietro la piazza e la case ci fossero le spesse mura di pietra di un castello.

– Prima di Artù, venne Uther Pendragon. Un condottiero giusto e un uomo del popolo, perseguitato dai più per il suo potere sul vento e le tempeste.

Mentre Robert parlava ciò che vedeva Gabriel mutava insieme alle sue parole. Uther era in cima alla collina accanto al suo vessillo, con un dragone, al vento e il cielo si stava rannuvolando, quasi seguisse l'umore del condottiero che scrutava l'accampamento sassone in lontananza. – Uther commise due errori: salvarmi la vita e innamorarsi della moglie del suo amico e compagno Gorlois.

Gabriel vide il giovane Uther ballare con una ragazza appena sedicenne, mentre un uomo li osservava con un sorriso gentile come quello di un fratello e due bambine ai suoi piedi li guardavano curiose, con delle bambole di pezza e legno in mano. – Le bambine che stai osservando sono Morgause, la maggiore e Morgana, la minore E la scena che vedi attorno è noi è l’inizio della rovina: la festa per le vittorie di Gorlois e Uther. Uther vi aveva partecipato con l’unico scopo di avere la moglie di Gorlois: Igraine. – indicò il giovane che stava ballando con gli occhi accesi di lussuria e vino. – Triste, vero? Ero presente quella sera. Uther mi fece entrare come suo servo. Assistetti all’inizio della fine senza alzare un dito. Di nuovo.

– Di nuovo? – domandò Gabriel attratto da Morgana che stringeva la sua bambola al petto.

– Di nuovo. – confermò Robert. – Vedo sempre l’inizio della fine. Millenni prima di quella festa aiutai dei maghi di Babilonia a rendere alcuni schiavi degli essere soprannaturali. Come Signore dei Misteri era in mio potere e lo feci dietro un lauto compenso. Gli esperimenti che facemmo su di loro... – Scosse la testa allontanando i ricordi che gli avevano incurvato le spalle per il peso che era costretto a sostenere. Gabriel ricordava i molti appellativi con cui avevano chiamato Robert in passato: il Signore dei Misteri, il Saggio, il Custode della Memoria, il Mago. Doveva essere difficile vivere sapendo che il mondo aveva delle aspettative fin troppo alte ed era il discendente di una leggenda.

– Avrei dovuto immaginare che le conseguenze di certi gesti si ripercuotono nei secoli. – disse il Mago scuotendolo dalle sue riflessioni. Fissava Uther che ballava senza mascherare la tristezza.

– Guardami. – disse Robert indicando il ragazzo che si stava avvicinando a Gorlois con una coppa di vino in mano chiedendogli di brindare insieme al suo signore per le vittorie ottenute contro i sassoni. – Tre millenni e non ho mai acquistato saggezza. Se l’avessi avuta, avrei allontanato Uther invece di assistere senza fare nulla. La storia che vedi prosegue come la leggenda: scoppiò una guerra tra i due e Igraine e le figlie furono mandate alla fortezza di Tintagel, dove per entrare, Uther prese le sembianze di Gorlois grazie al mio aiuto. Durante la notte che passò con donna, Gorlois venne ucciso e Igraine rimase vedova, sola e incinta di un bambino. Il figlio di Uther: Artù.

L’immagine cambiò e Gabriel vide un adolescente che si allenava con la spada circondato da uomini che lo incoraggiavano e lo applaudivano all’ombra di un castello. – Artù fu il più grande re di tutti i tempi. Era giusto, sia in tempi di pace che di guerra e riunì sotto la sua bandiera esseri come lui. Uomini e donne che avevano poteri speciali e che non erano più in grado di resistere alle persecuzioni che gli venivano fatte. Arrivavano a Camelot rischiando la vita, dove trovavano accoglienza e pace. Artù li mise al lavoro secondo le loro capacità. E grazie a lui non dovevano più nascondersi. All’età di venticinque anni, Artù aveva reso stabili i suoi confini tramite il matrimonio con Ginevra, il popolo aveva di che mangiare, le strade erano sicure, e quelli che venivano chiamati maghi si muovevano sotto la bandiera del drago ed erano apprezzati per l’aiuto che offrivano. 

– Lo ricordo. – irruppe Gabriel avanzando nel salone centrale del castello. – Ricordo che ogni settimana il re ascoltava le preghiere del popolo e li aiutava secondo giustizia. Accanto a lui c’erano sempre due persone: Merlino, il suo consigliere, – disse guardando Robert. – e Galahad.

Il Mago annuì. – Tra tutti i cavalieri e gli uomini che circondavano Artù, Galahad era il più giusto. Lui poteva riconoscere la verità e la menzogna con uno sguardo, sapere se c’era rimorso o meno e agiva nella maniera più corretta possibile. Amministrava la giustizia del re. A quel tempo, tutto era perfetto. – il dolore nella sua voce rifletteva il tremito delle mani, e Gabriel si chiese se anche lui aveva lo stesso tono disperato quando pensava a ciò che aveva fatto a Emily e alla sua famiglia.

Il salone di riempì di persone. Artù era seduto sul trono con accanto Ginevra circondati da persone che li avevano amati. Rivide anche se stesso in un angolo del salone a osservare sprezzante la festa che andava avanti, mentre Parsifal e Ivano lo prendevano in giro come due bambini perché non amava la compagnia.

C’era Lancillotto, il più fedele cavaliere di Artù nonché suo migliore amico che scherzava con il re mentre la regina parlava con Elena, la sua dama di compagnia. E vicino a una delle colonne Merida, il Sole, si divertiva a guardare nel futuro dei bambini.

 – A quei tempi non amavo la compagnia. Il rumore mi dava fastidio e preferivo passare le ore nel laboratorio del castello. – accennò a un sorriso. – Forse è per questo che mi chiamano anche l’Alchimista oltre che l’Eremita.

– Eri sempre stato un po’ strano, vero. – ammise Robert affiancandosi a lui.

Camminavano tra le persone come dei fantasmi senza poter essere visti o sentiti, ma Gabriel li ricordava tutti come se li avesse salutati ieri.

– Sia Merlino che Artù hanno sempre tenuto in gran conto i tuoi esperimenti. Ti apprezzavano. Anche se nella tua mente il dolore e il disprezzo ti offuscano fino a farti dimenticare il resto del tuo passato, ci fu un tempo in cui eri apprezzato e benvoluto. Come noi, chiamavi Camelot casa.

Scosse la testa, non del tutto sicuro di quelle parole. Come poteva esserci stato un tempo in cui era stato benaccetto? Dopo quello che aveva fatto e le persone che aveva considerato amici e che aveva fatto soffrire?

– Perché mi mostri tutto questo? – chiese tornando a sentire le ultime parole di Emily e la risata dell’uomo dopo che lo aveva usato per ucciderla.

– Per mostrarti che tutto questo era stato possibile. È esistito un tempo dove non eravamo in guerra e collaboravamo per un mondo migliore. – Robert andò verso Merlino e per un attimo sia lui che il vecchio lo guardarono, parlando all’unisono. – Io sono l’ultima guardia, Gabriel. Mi chiamano il Mago, il Primo dei Maggiori, il Custode della Memoria, perché sono l’ultimo che ancora possiede tutte le verità. Ogni secondo, ogni minuto di questa storia insanguinata è impressa nella mia mente. E dopo di me, voglio che sia tu a conservarla. Hai sempre meditato prima di agire. Non prendi decisioni avventate. Per questo devi conoscere il nostro passato e usarlo per cambiare il futuro.

Gabriel fece due passi indietro colpito dalle parole del Mago. – Ho già parlato con il Sole e la mia risposta è stata no. Non ucciderò la Forza, se è questo che vuoi. Thomas fu mio amico e il fratello di Emily. Non ucciderò un suo discendente.

– La Forza è solo una faccia della medaglia. Il suo vero nome sarebbe stata Ragione. Rappresenta il potere del costruire, del creare. Venne chiamata Forza perché è ciò che ci smuove e ci spinge a essere migliori, ma è anche molto fragile perché non esiste creazione senza distruzione e ragione senza follia. – il momento passò e Merlino tornò a essere un ricordo che si muoveva insieme agli altri grazie alla magia del Mago.

– Crudele, vero? A quel tempo giocammo sapendo che tutti i pezzi erano riuniti e convinti che l’onore e la lealtà fosse più forte dell’antico risentimento e dell’amore. Come fummo sciocchi! Ginevra ed Elena divennero sempre più vicine, riunite da un sentimento che i secoli non potevano cancellare. E anche se non tradirono mai il loro re, Artù divenne geloso di quell’intimità che le donne condividevano. Tra loro due bastava uno sguardo per capirsi, per sapere se stavano bene. Anche se erano distanti, il loro cuore batteva all’unisono.

Il salone e la festa lasciò il posto a un sotterraneo rischiarato da una manciata di torce, mentre la regina che aveva visto prima sorridere, ora era in lacrime inginocchiata davanti a una prigione. Stringeva le mani della sua dama di compagnia, incatenata per la caviglia.

– Non potete convincerlo che non ha fatto nulla? – singhiozzò Ginevra. Non staccò gli occhi dalla donna dall’altra parte delle sbarre, ma si rivolse ai due uomini che l’avevano accompagnata. Merlino e Lancillotto erano con lei nel momento in cui era più spaventata e fragile.

– Elena è stata messa a giudizio davanti al re. – rispose Lancillotto. – E quando Galahad le ha chiesto se provava risentimento verso Artù, lei ha risposto di sì.

– Non può condannare a morte una persona solo perché è arrabbiata con lui! – interruppe Ginevra tra le lacrime – Non può! Quell’uomo non è più mio marito! È se Elena muore, io lo odierò. Non ci sarà giorno in cui io non lo odierò e pregherò per la sua distruzione.

Merlino si chinò su di lei e le appoggiò il mantello sulle spalle. – Bambina, Artù ha ricevuto un cattivo consiglio e la gelosia ha fatto il resto. Convincilo che gli sei sempre stata fedele. Sappiamo della storia tra te ed Elena e cosa vi unisce, ma sappiamo anche che siete state leali al re. Per amore tuo, ti ascolterà.

– Non lo farà. – disse Lancillotto cupo. – Ginevra ha ragione. Non è più il nostro re. Non è più l’Artù che ci ha cercato e ci ha riuniti per proteggerci.

– Allora cosa suggerisci, Signore del Lago? – Ginevra tratteneva a stento le lacrime, tirando a sé la ragazza imprigionata che ancora non aveva detto una parola, pallida come una morta.

Lancillotto estrasse la spada e si inginocchiò sul pavimento fetido. – Se me lo comanderai, mia signora, porterò via Elena e la proteggerò a costo della mia vita. Sono legato per giuramento a obbedire ai tuoi ordini e a proteggerti.

– No! – fu Elena a parlare per la prima volta, con un grido rauco e terrorizzato. Le sue labbra screpolate si spaccarono e una goccia di sangue brillò alla luce delle torce. – Non puoi allontanarti da lei! Non con Mordred dentro il castello ad avvelenare la mente di Artù. Ginevra, ascoltami, non lo fare. Non importa cosa mi farà, ma non mandare via la tua unica protezione. È Malik, Ginevra. Mordred è il discendente di Malik. Ti ucciderà in nome di un odio che non riesce a mettere a tacere.

Ginevra le strinse di più le mani e le accennò un sorriso. – Lo so, ma la tua vita è molto più importante della mia. Tu sei il mio cuore, come lo fosti in passato. E non posso vivere senza cuore. – le dita di Ginevra scivolarono via e si rimise in piedi.

Per un attimo, Gabriel rivide la regina che la sua mente stava ricordando: forte e fiera come le tempeste che lei dominava. – Lancillotto, Signore del Lago, per anni sei stato il mio fedele cavaliere dal giorno in cui Artù ti mise a mia protezione. Mi hai servito con lealtà. Lo farai di nuovo?

Le grida di Elena coprì quella di Lancillotto, ma Gabriel udì lo stesso le sue parole. – Fino alla morte, maestà!

– Ti ordino di portare Elena dove l’ira di Artù non possa raggiungerla e di proteggerla a costo della vita.

Lancillotto strinse la presa sulla spada, sapendo di stare lasciando senza protezione la sua regina. – Ai tuoi ordini, mia signora!

– Merlino, se mi sei amico, liberala e aiutali ad allontanarsi dal palazzo. Te ne prego.

– Ginevra, bambina, ripensaci. Forse puoi ancora parlargli.

Le lacrime tornarono a brillare sul suo bel volto. – Ha già fatto preparare la pira in cortile. Non tornerà indietro e io nemmeno. Se le tue parole in questi anni non sono state vuote, ti supplico, aiutaci.

Robert accanto a lui lo fece sussultare. – Mi chiedo sempre cosa avrei dovuto fare quel giorno. Se avrei marciare nelle stanze di Artù e scuoterlo fino a fargli recuperare la ragione o se questa fosse stata la scelta migliore, anche se disperata. Aiutai Elena, che refrattaria, lasciò Ginevra. Ci misi un giorno ad aiutarli a superare i confini e assicurarmi che fossero lontani e un altro a tornare. Passai due giorni lontano da Camelot e furono sufficienti a portare tutto alla rovina. La follia che stava crescendo dentro Artù lo consumò nel momento stesso in cui scoprì cosa aveva fatto Ginevra. Su consiglio di Mordred, lei finì sulla pira al posto di Elena e dopo uccisero insieme tutti gli uomini, donne a bambini di Camelot, diventando a ogni morte più forti assorbendo il loro poteri.

Gabriel non capì a cosa si stesse riferendo. – Assorbendo? Non...

– Già. – mormorò Robert. – Assorbendo. Prima che venisse messo il sigillo, chi uccideva un altro essere magico senza eredi ne assorbiva il potere. Artù e Mordred fecero una strage.

Tornarono nel salone centrale. Artù stava seduto composto sul suo trono, con i vestiti insanguinati e la spada al fianco che ancora gocciolava.

Dietro di lui, Mordred osservava compiaciuto la devastazione e il silenzio che regnava su Camelot. Merlino avanzava piano tra i corpi riconoscendo gli amici, trattenendo a stento le lacrime. – Artù. – lo chiamò chinandosi sui due bambini fatti a pezzi, stretti ai loro genitori. – Artù, cosa hai fatto? – sussurrò incredulo.

Gabriel venne preso dalla nausea quando vide il suo antenato riverso in una pozza di sangue con la faccia a terra e gli occhi sbarrati.

Venne travolto dal ricordo di Artù che lo trapassava con la spada e rideva della sua morte senza dargli alcuna spiegazione. Nel momento in cui aveva esalato l’ultimo respiro aveva chiesto cosa avesse fatto per scatenare le ire del re, ma non aveva ricevuto risposta. Era stato uno dei primi a morire e non sapeva della carneficina che lo aveva seguito.

– Merlino, – lo riconobbe il re. – vieni accanto a me. Tra poco arriveranno i postulanti e ho bisogno del tuo consiglio. Come al solito.

Senza rivolgersi a nessuno, alzò la voce. – Mandate a chiamare mia moglie. Ginevra vorrà occuparsi degli orfani e dei più poveri offrendo loro da mangiare.

– Artù. – lo chiamò di nuovo Merlino avvicinandosi ancora. Quando il Mago guardò fuori dalla finestra ad arco acuto, Gabriel fece lo stesso. Il corpo carbonizzato di Ginevra era ancora incatenato a ciò che restava della pira.

– Non si rende conto che è là? – domandò Gabriel a Robert.

– In quel momento non era più in grado di rendersi conto di nulla. Aveva distrutto il suo regno e ucciso la sua gente, ma si comportava come se fosse una giornata normale. Osserva.

Con un cenno, gli indicò il re. – ... e dì a Arianna che secondo Merida e Ramsay questo inverno sarà duro. Deve cercare di ottenere il più possibile dai campi insieme ai suoi ragazzi. Se le serve un aiuto le metterò a disposizione degli uomini. – Artù parlava con nessuno come se accanto a lui ci fossero i suoi amici e consiglieri fidati e ignorava i corpi a terra. – Non avete ancora mandato a chiamare la regina? Le si spezzerà il cuore se non parteciperà. Lancillotto. Lancillotto! – il nome del cavaliere del lago risuonò nel salone deserto.

Artù si alzò e uscì dalla sala, seguito da Mordred a pochi passi dietro di lui. – Ginevra! Dove sei, amore mio? Presto arriveranno i postulanti. Lancillotto! Elena! La nostra regina non è ancora pronta?

Gabriel e Robert seguirono i passi sempre più folli di Artù insieme a Merlino che lo guardava con rammarico e dolore. In ogni stanza, il re cercava sua moglie e i cavalieri senza ottenere alcuna risposta.

Nel cortile, Merlino afferrò il re. – Artù, ora basta.

– Lascialo, mago.

Mordred si avvicinò con la spada in mano, ma a parlare fu una donna dall’altra parte del cortile. – Lascia che il re veda cosa ha fatto.

Senza preoccuparsi di quello che stava accadendo, Artù continuò a vagare a vuoto inciampando sulle persone che lui aveva trucidato e lo guardavano con occhi fissi e vuoti. – Ginevra, abbiamo un ospite. – disse guardando per la prima volta la donna riccamente vestita. – Perdonatemi, signora. Se non la mando a chiamare, mia moglie si arrabbierà per non essere stata presente. Merlino, manda un servo a cercare Ginevra.

La donna rise. – Ti sei ridotto a questo, Artù Pendragon? Fratello, ho sempre desiderato vederti in preda alla follia, ma non al punto tale da non riconoscermi o non capire quello che hai fatto.

– Morgause, – tuonò Merlino facendosi avanti. – non lo fare! Non torturarlo più così.

– Non torturarlo più di così? – ripeté Morgause stringendosi lo scialle viola attorno al corpo minuto. – E perché non dovrei farlo, mago? Artù mi ha rubato ciò che era mio di diritto. Il trono di Britannia apparteneva a me! Io ero la prima figlia di Gorlois. Lui e suo padre mi hanno rubato il trono e mia madre. I miei figli sono diventati suoi cavalieri, vinti dalla sua lealtà. – guardò disgustata i corpi degli uomini in armatura a terra con una rosa di sangue in petto. – E tu, – disse fulminando con lo sguardo Merlino. – tu mi hai privato di mia sorella Morgana. Hai privato il mio Mordred di sua madre.

Il cavaliere si affiancò alla donna con la spada sguainata, pronto a proteggerla. – Ai tuoi ordini, mia signora. – mormorò senza distogliere lo sguardo dal re che continuava a vagare chiamando Ginevra. Ogni volta che la nominava, lo sguardo di Mordred si incupiva e la rabbia gli accentuava il pallore del viso.

– Cosa ti turba, figlio mio? Dimmelo e vi porrò fine.

– Ogni volta che pronuncia il nome della donna che mi ha tradito, desidero affondargli la spada nel petto. Ginevra doveva essere mia. Fu la mia schiava. Fu la mia donna. E Artù è arrivato prima di me. Permettimi di ucciderlo, mia signora.

Morgause sorrise a Mordred, benevola. – Concesso.

Merlino fu più veloce di Morgause e Mordred e si frappose fra loro e il re alzando una barriera sulla quale si infranse la spada del cavaliere. Mordred urlò di rabbia agitando il moncone della lama. – Una volta mi aiutasti tu! – gridò abbattendo quello che rimaneva della spada contro la barriera. – Tu mi hai aiutato a far rinascere Atlaeia. Sai che era mia! Non appartiene a nessuno di loro! È mia!

Con un cenno della mano, Merlino lo scaglio lontano mandandolo a sbattere contro una colonna del portico interno. – E mai commisi un errore più grande. Se potessi tornare indietro, non alzerei un dito su quella fanciulla.

Morgause soccorse il suo figlioccio senza smettere di ridere, guardando i due abitanti di Camelot ancora vivi come avrebbe fatto un lupo con due agnelli. – Forse hai fatto bene a fermare la spada di Mordred, mago. Uccidere Artù in questo modo, senza che si possa rendere conto dei suoi peccati e mentre è indifeso come un bambino è da sciocchi. Permettimi di renderti la ragione che ti ho rubato, Artù Pendragon. Guarda la pira della donna che hai messo a morte e gli occhi vuoti degli uomini che hai ucciso mentre mormoravano il tuo nome. Sii cosciente delle tue azioni, fratello, e allora invocherai tu stesso la spada di Mordred.

L’urlo di terrore che proruppe dalle labbra di Artù, seguita dalla tempesta di fulmini che cadde nel cortile oscurò la vista a Gabriel, ma Robert lo prese per la spalla e lasciò che i ricordi si dispersero tornando a Camelford.

– Morgause e Mordred approfittarono del dolore di Artù per scappare e nemmeno Merlino riuscì a impedirlo. Cercava in tutti i modi di fermare il re che voleva suicidarsi a causa del rimorso. Pochi giorni dopo, Mordred e Artù si scontrarono a Camlann, dove il re uccise Mordred e fu ferito a morte. Merlino lo soccorse, ma anziché farsi curare chiese a Merlino di porre fine alla sua vita. Obbedì a quel suo ultimo ordine. Con il potere di quasi tutti quelli che vivevano a Camelot che aveva guadagnato in seguito alla morte di Artù e Mordred, Merlino andò ad affrontare Morgause che in quel momento si era occupata di altre due persone. Il mago avrebbe dovuto immaginare che c’era qualcosa sotto quando non l’aveva vista accanto al suo pupillo, ma era troppo impegnato a proteggere Artù e credeva che quei due fossero ormai lontani, dove niente di quello che era accaduto a Camelot potesse raggiungerli. – Robert aveva le lacrime agli occhi mentre alzava il volto al cielo. – Ah Gabriel, non sai quanto soffrì Merlino quando vide i corpi di Elena e Lancillotto ai piedi di Morgause. Quella donna folle voleva consegnarli a Mordred per fargli completare la vendetta, ma quando scoprì che era morto, li uccise e ne prese il potere.

Sembrava che Robert avesse perso il controllo dei suoi poteri perché Camelford si dissolse e Gabriel si ritrovò in una foresta dove i due maghi si stavano battendo aspramente.

– Morgause era un’avversaria fenomenale. Imprevedibile, scaltra e completamente pazza. Non le importava di venire ferita. Voleva solo distruggere tutto.

Vedeva quello che gli stava raccontando. Morgause aveva dei profondi tagli lungo il corpo. Ferite che una persona più saggia avrebbe preferito curare, ritirandosi per poi tornare all’attacco in seguito. Lei invece continuava a combattere con il sangue che le macchiava il bel vestito verde creando illusioni e usando l’acqua del fiume per cercare di uccidere Merlino. Convinta di aver vinto dopo averlo gettato a terra il mago, Morgause si fermò a ridere e in quell’attimo un fulmine la incenerì, lasciandosi dietro l’odore di carne bruciata e brandelli di vestiti.

– Quando morì Morgause, Merlino acquisì tutto il potere conosciuto. Dentro di lui scorreva ogni forza che aveva aiutato a costruire questo mondo. Quello che per anni avevano desiderato i maghi babilonesi e che li aveva portati a una guerra, lui lo aveva ottenuto. E fu troppo. Oltre al poter creare e fare i più potenti incantesimi che il mondo avesse mai visto, Merlino era anche spinto a distruggere. Veniva consumato dentro da dei sentimenti che non riusciva a fermare. Non riuscendo più a controllarsi, distrusse il castello che aveva chiamato casa fino all’ultima pietra, cancellando ogni ricordo di Camelot e dei suoi abitanti. Ma non bastò. – singhiozzò Robert stringendosi le braccia attorno al corpo. Gabriel si era dimenticato che il Mago era solo un ragazzo. Era di poco più piccolo di lui, aveva appena diciotto anni ed era l’unico a conoscere tutte le verità. – Il potere che ora possedeva era troppo e non riusciva a mettere a tacere tutte quelle voci, tutti quei ricordi. Così decise di rinunciarvi.

Robert allungò una mano e si ritrovarono nel mezzo della brughiera della Cornovaglia a seguire Merlino, ormai vecchio e consumato dal tempo e dalla sua stessa magia. Raggiunse uno degli antichi cerchi di pietra si inginocchiò al centro. – Artù, mio re, amico mio, Ginevra, mia signora e voi uomini e donne di Camelot, perdonatemi se non sono riuscito ad aiutarvi. E perdonate quello che sto per fare. Non posso vivere contenendo in questo corpo vecchio e stanco il vostro dolore e la vostra magia. – gli occhi di Merlino riflettevano la luce delle stelle e della luna mentre fissava il cielo  notturno. – Se esistesse un altro modo, lo farei, lo giuro. – disse mettendo le mani sulla pietra fredda. – Tornate a camminare su questa terra, amici miei. Tornate a essere di carne e sangue. Che torni a scorrere il vostro potere e le vostre anime siano di nuovo tra di noi così che un giorno possiate trovare la pace. Io, Merlino, consigliere di Artù e primo mago della magia universale, vi ordino di tornare su questa terra. – estrasse dalle tasche delle carte e le dispose a terra coprendole con le proprie mani. – Che sulle vostre teste ci sia un sigillo, che nessuno possa più assorbire il potere dell’altro, ma che possa utilizzarlo senza renderlo proprio. Che sia una carta inerme la vostra forma magica e la forma di un uomo il contenitore della vostra anima e dei vostri ricordi.

Le carte brillarono e Gabriel si avvicinò vinto da quello incantesimo. I volti dipinti sulle carte acquisivano la luce della coscienza mentre Merlino continuava a parlare. – Che i vostri figli e figlie diventino a loro volta contenitori dell’anima. E se nel momento della morte non vi saranno eredi, tornerete a essere carta succubi di coloro che ha preso la vostra vita. Finché perdurerà questo sigillo, non nascerà un nuovo mago della magia originale. Io, Merlino, il primo e l’ultimo, lo ordino. – si accasciò sulle carte, respirando appena e Gabriel si chinò accanto a lui.

– È morto? – domandò a Robert. – Merlino morì così?

– Apporre il sigillo lo prosciugò, ma no, non morì subito. Si svegliò la notte dopo e si trascinò in un tumulo non lontano da qui, dove nascose le carte appena nate. Morì lì dentro. Essendo il primo e l’ultimo era in suo potere suicidarsi. Divenne una carta, quella che conosci: il Mago e riposò insieme alle altre per quasi due secoli.

Tornarono entrambi sulla panchina e Robert incrociò le gambe avanti a sé. – Non avrebbero mai dovuto tornare. Non possiamo cancellare la magia da questo mondo, non è in nostro potere, ma Merlino aveva trovato il modo di contenerla e nasconderla. Avrebbero dovuto rimanere così, ma un giorno quattro bambini decisero di esplorare il tumulo e svegliarono le carte. Quei bambini erano Emily, Owen, Thomas e – guardò Gabriel. – Lucas. Con loro, le carte si svegliarono. Quattro di loro scelsero i bambini come contenitori delle loro anime e dei loro ricordi perché gli erano affini, le altre si sparsero per il mondo.

Gabriel rimase a lungo in silenzio, radunando le idee. – Merlino creò le carte? – domandò infine in un sussurro. Non sapeva perché si stava arrabbiando, ma gli tremavano i polsi. – Le creò perché non riusciva più a contenere tutto il potere che aveva ricevuto?

– È un potere troppo grande per un solo uomo. – rispose Robert guardingo. – Merlino lo sapeva bene.

– Lui mise quel sigillo, condannandoci a tonare... – si mise le mani tra i capelli ricci, rendendosi conto di quanto fosse pesante la verità.

– Gabriel...

– Taci! – urlò. – Se non fosse stato così debole! Se Merlino non lo avesse fatto, Lucas non avrebbe ucciso Emily! Tutto  questo dolore, tutto questo senso di colpa che sento ogni giorno... è successo perché lui non è riuscito a convivere con quel potere. La Regina di Spade e la Luna hanno passato vite intere a soffrire e a perdersi perché lui ha creato le carte! L’Imperatore gli dà la caccia perché Merlino lo ha riportato indietro. Cosa aveva in mente? – gridò con l’affanno. – Cosa aveva in mente quando riportò indietro l’anima malata di Mordred?

– Non funziona così. – rispose Robert calmo e per un attimo gli sembrò di rivedere Merlino dietro quegli occhi imperscrutabili. – Merlino non poteva separarsi da solo alcune anime. O tutte o nessuna.

– Allora era meglio nessuna! – sbatté il pugno contro la panchina di pietra e sentì appena il dolore. – Che senso ha tutto questo? Ci ha condannato a soffrire, ancora e ancora.

– Ci ha dato un’altra occasione. Camelot è stata possibile una volta, può rinascere di nuovo.

Gabriel rise sprezzante all’idea. – Con l’Imperatore e quella pazza di Morgause a perseguitarci? Chi è poi lei?

– Non lo immagini da solo? Morgause rappresenta la fine di ogni cosa, lei è la Follia che consuma, la carta che agisce di istinto: Morgause era il Matto.

Gabriel si sentì piccolo. Il suo potere non era in grado di battere qualcuno come la carta 0. Nessuno  aveva mai incontrato il Matto e la sua presenza veniva sempre percepita come qualcosa di oscuro e pericoloso. – Il Sole si riferiva a lei parlando del seme della Follia?

– Sì. Il Matto è sveglio e si sta muovendo.

Gli vennero i brividi. Cadere nella follia era seducente, ogni cosa non aveva più importanza, le conseguenze delle azioni assumevano sfumature astratte e ci si sentiva liberi. Gabriel lo sapeva perché Lucas si era sentito così per un breve periodo. Finché il senso di colpa non lo aveva sopraffatto. – E come possiamo battere il Matto e l’Imperatore?

– Merlino ci ha dato l’arma. Il sigillo che ha creato ci trasforma in carte alla nostra morte senza eredi. Non possiamo assorbire il potere di chi uccidiamo e con esso, nemmeno l’anima e i ricordi che li smuovevano in vita. Possiamo usare i loro poteri tramite le carte, ma rimangono confinati lì dentro.

Quella fu la prima, bella notizia che riceveva da ore. – Qualcosa di giusto l’ha fatto. Non potrà mai esserci un altro potente come Merlino.

Il sorriso di Robert morì. – Su questo punto...

– Cosa? – lo interruppe prima che potesse aggiungere altro.

– Se qualcuno ci uccide tutti e conquista il mazzo può evocarci insieme e distruggere il sigillo. Non esiste una magia che non può essere infranta. Dobbiamo fermare il Matto e l’Imperatore e convincere gli altri che è possibile convivere in pace.

Robert si mise in piedi e scrutò con rammarico le case che li circondavano. – Qui sorgeva Camelot secoli fa. La terra la ricorda ancora, il vento percorre le strade chiamandola a gran voce, e qui, le carte sono tornare a camminare sulla terra tramite quei bambini. In questo luogo, dove tutto ha avuto fine e poi inizio, io ti chiedo mi aiuterai a creare una nuova Camelot? Un posto dove possiamo vivere in pace e dove possiamo avere una seconda occasione?

Gabriel pensò alla Regina di Spade che per anni aveva popolato i suoi sogni. Al ricordo della sua morte che non scompariva e al suo desiderio di trovare la pace e di una vita che appartenesse solo a lui e prese la sua decisione. Forse, tramite Robert e l’eredità che Merlino gli aveva lasciato era possibile. – Dimmi cosa devo fare.

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NdA: sono in leggero ritardo, ma ce l'ho fatta come promesso! il nuovo capitolo è pronto! Arrivederci al prossimo mese

Khyhan

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Capitolo 16
*** 3.4 L'Impetratrice - L'Eco dei Secoli ***


3.4 L'eco dei secoli

III – L’Imperatrice

L’Eco dei Secoli

 

Singapore. 16 Agosto 2011

 

Michael non aveva dormito bene dal giorno del suo ultimo furto. Ogni volta che provava a chiudere gli occhi l’immagine della donna morta alle Sail Towers tornava a perseguitarlo, e con lei le sue parole. Michael non aveva il controllo. Non poteva credere che un giorno sarebbe arrivato qualcuno che conosceva i suoi trucchi. Alanna sapeva come funzionava la sua magia fin da quando si erano conosciuti. Era stata la prima a informarlo delle sfumature del suo potere, ma non credeva che l’Imperatore conoscesse il suo segreto.

Questo cambiava tutto. I suoi progetti futuri erano da rivedere e temeva di non riuscire a fronteggiarlo. Non solo, se sapeva che le sue erano illusioni, allora poteva anche sapere che il suo potere si affievoliva dopo la luna piena e scompariva del tutto il giorno della luna nuova. Il suo cuore scalpitava ogni volta che si aggiungeva un nuovo punto a suo sfavore. L’Imperatore non era un nemico che poteva vincere in una battaglia a parole e mostrandosi sicuro di sé per incutere timore. Anche se era stato avvertito anni prima, davanti a lui si prospettava una vera guerra che non poteva permettersi di perdere o avrebbe perso tutto. Le memorie delle sue vite passate ricordavano l'Imperatore come un uomo crudele, scaltro e senza scrupoli che manipolava gli altri pur di colpire il suo obiettivo dove poteva ferirlo di più.

 Doveva rendersi introvabile nei giorni in cui era vulnerabile e fare più attenzione del solito. Se fosse arrivato a lui non solo sarebbe stato in pericolo ma avrebbe coinvolto la persona che amava di più al mondo. Si stava pentendo di quello che aveva fatto, indirettamente rischiava di coinvolgere Angéline in nome del ricordo di una donna.

Pensare a sua sorella gli diede una stretta al cuore. Era un mese che non la vedeva e aveva tutto il diritto di andare a trovarla, ma se lo faceva adesso che aveva dichiarato guerra a un uomo potente come Bowers, l'avrebbe messa in pericolo.

Se l’avesse vista, lei gli avrebbe preso il volto tra le mani gentili e gli avrebbe detto che tutto sarebbe andato per il meglio. Aveva bisogno della presenza di Angie, la Regina di Coppe si infilava nei suoi pensieri quando meno se lo aspettava e non riusciva a guardare la mano che aveva stretto il coltello.

Michael aveva ucciso.

Era la prima volta che succedeva e sperava che fosse l’ultima. Per lui, l’omicidio era sempre stato il fallimento di un piano, significava essere stati poco attenti ed essere stati scoperti. Non aveva mai messo in conto che qualcuno avrebbe potuto progettare un omicidio per renderlo debole. Perché così che Michael si sentiva: per la prima volta in vita sua era insicuro sulla prossima mossa da seguire, era sotto scacco di un re che giocava da molto più tempo di lui e non aveva la minima remora nell’usare mezzi illeciti. Non sapeva se fargli un applauso per quella perfidia o esserne preoccupato. Il suo cervello gli dava delle vie di fuga, dei modi per salvarsi, ma in tutti Angie rimaneva indietro e non poteva permetterlo. Se avesse abbandonato sua sorella, la sua coscienza sarebbe morta subito dopo.

Com’era riuscito a trovarsi in una situazione del genere? Com’era riuscito l’Imperatore a prevedere le sue mosse e farsi trovare pronto a contrattaccarlo nel modo peggiore possibile? Frugando tra i suoi ricordi, Michael sapeva che l’Imperatore non poteva vedere il futuro ma non capiva come aveva fatto a trovarlo e vincerlo a una partita che lui aveva preparato con cura.

Non era ancora riuscito ad analizzare gli eventi di quella notte. Li riviveva, ma si sentiva come se non gli appartenessero, quasi li stesse osservando da oltre un vetro, dove suoni e odori non potevano raggiungerlo.

Il suo cervello razionale gli diceva che era stata una macchinazione, che la donna si era suicidata e lo aveva costretto a impugnare quel coltello ma Michael sapeva che c’era sempre un’altra soluzione. Avrebbe potuto allentare la presa, avrebbe potuto spingere indietro la donna. Avrebbe potuto evitare di diventare un assassino.

Sono un assassino.

Andò in bagno e ficcò la testa sotto il lavandino reprimendo i brividi che l’acqua gelida gli facevano venire. Si scostò i capelli dal viso, e guardandosi allo specchio cercò tracce del Michael che era stato qualche giorno prima. Non c’era il suo sorriso superbo né quell’aria di chi osservava il mondo partecipare a un gioco che capiva solo lui.

Lo specchio gli rimandò indietro l’immagine di una persona che non conosceva. Di nuovo, si analizzò come se non fosse lui il soggetto in esame. Aveva le occhiaie profonde. Gli era  già capitato in passato, dopo il suo primo furto non aveva dormito la notte perché aveva i sensi all’erta, in attesa di capire se la polizia lo aveva scoperto o meno. Non aveva lasciato tracce, ma all’epoca non ne era stato sicuro.

E poi ancora più indietro, quando i suoi genitori urlavano nella stanza accanto e lui sentiva ogni parola di sua madre mentre affermava che quello che aveva messo al mondo un giorno sarebbe stato un mostro e che lui e Alain dovevano andarsene.

Erano lontani i tempi in cui si era sentito piccolo e in balia degli eventi. Il giorno in cui suo padre morì decise di abbandonare ogni paura e non farsi controllare dal destino. Non si sarebbe affezionato a nessuno che avrebbero potuto usare per farlo cadere in fallo. Il giorno che aveva sepolto suo padre era nato Michael Dubois, il ladro. E anche se Angéline era la sua debolezza e il suo peccato più grande, non permetteva nemmeno a lei di scalfirlo a sufficienza per fargli smettere di essere un ladro e un truffatore. Aveva iniziato a lavorare per la malavita, progettando con un sorriso furti impossibili per poi guardarli con orgoglio, ma non si era mai sentito il mostro che sua madre aveva descritto.

Almeno fino a ora. Nell’immagine dello specchio si rifletteva il volto di un assassino. Il viso di un mostro.

Ficcò di nuovo la testa sotto l’acqua corrente, sperando che riuscisse a lavare via lo sporco che si sentiva addosso ma quella sensazione strisciante sotto pelle non accennava a diminuire e nell’acqua che scorreva nello scarico  intravedeva il sangue di quella donna che lo ricopriva da capo a piedi.

Si scostò, ricadendo indietro sul pavimento freddo del bagno di lusso.

Aveva usato una delle sue identità fittizie per prenotare una stanza in uno degli hotel più costosi di Singapore. Ma nemmeno le luci calde e soffuse e i mobiletti in legno di cedro riuscivano a calmarlo. Nulla avrebbe potuto calmarlo. Nulla, a parte una persona.

 Fissò disperato il cellulare abbandonato sul tavolino accanto al divano. Non aveva mai sentito un tale bisogno di sentire la sua voce.

«Sono completamente pazzo» mormorò tra sé e sé rimettendosi in piedi. Stava rischiando tutto, stava rischiando la sua vita per delle paure che non riusciva a mettere a tacere. I suoi io del passato avevano ucciso, alcuni più di una volta, ma non erano mai arrivati al punto di sentirsi così persi e disperati.

Aveva bisogno di capire come.

La luna era ancora nel pieno del suo splendore e per lui fu un attimo evocare con le immagini delle sue vite passate. Ne chiamò cinque, quelle che più premevano per uscire fuori e che si facevano sentire di tanto in tanto per torturarlo con alcune delle memorie più tristi e allo stesso tempo dolci che un essere umano potesse provare.

Gli occhi verdi di Elena ricambiarono i suoi mentre congiungeva le mani in grembo, sul tessuto di lana soffice della gonna lunga fino ai piedi. Accanto a lei, Owen era pieno di furia con la barba rossa sfatta che si mischiava ai capelli ricci. Ogni cosa di lui parlava di un uomo che non aveva altro obiettivo nella vita se non la vendetta. Si muoveva come una corda tesa a testa alta, così diverso dall’uomo che era stato prima che la sua Emily morisse. Il terzo uomo, Michael lo conosceva bene. Suo padre lo scrutava con aria superiore e lui si sentì consapevole di essere un fallimento per quegli occhi e quei ricordi. Alla sinistra di Alain si stagliava un’altra ragazza. Sembrava ancora più minuta nel suo abito vaporoso di fine ottocento e incastrata tra suo padre e un legionario romano.

Cinque delle sue memorie più importanti, scelte tra le tante perché in un momento della loro vita avevano ucciso e si erano confrontati con l’Imperatore.

– Come avete fatto a non impazzire? – chiese con voce rotta.

Era una prerogativa della sua magia creare illusioni viventi, dando voce e forma alle immagini delle sua testa. In quel caso, Michael aveva proiettato all’esterno le voci che mormoravano dentro di lui e i visi che vedeva nei sogni.

Elena lo guardò con dolcezza. – Perché la amavo – gli rispose. – E lei amava me. Non potevo impazzire con questa consapevolezza. Non potevo permettermelo. Avevo ucciso per proteggerla e l’avrei fatto mille altre volte.

– Lei mi rimase vicina. – mormorò la dama vittoriana. Charlotte, si chiamava. – A quel tempo era nostra sorella. Quando uccisi, nei dintorni di Whitechapel, lei si prese cura di me, mi restò vicina promettendomi che tutto sarebbe finito bene. – le si velarono gli occhi di lacrime e Michael sapeva perché. Poco dopo l’omicidio che commise Charlotte, Anna, sua sorella e Regina di Spade morì, lasciando vedovo il marito sposato da un anno e la bambina appena nata. Per un attimo, fu tentato di far sparire Charlotte e farla tornare un mormorio confuso nella mente. – Lui la trovò – disse la ragazza – e me la portò via davanti agli occhi.

– Dopo Emily, – interruppe Owen. – non ho mai avuto pace. Lucas e l’Imperatore ce l’avevano portata via. Mia moglie, uccisa davanti ai nostri figli, sotto il tetto di casa nostra. Avrebbe dovuto essere al sicuro. La vendetta e calpestare chiunque si mettesse tra me e i suoi assassini era l’unica ragione che mi tenevano in vita.

– Io non volevo essere un soldato. – disse il legionario. – Mio padre lo era in gioventù. Apparteneva alla II Augusta e aiutò con le sue mani a costruire il Vallo di Adriano. Se non fossero stati stazionati a Isca Silurum non l’avrei mai conosciuta. Non sono diventato un legionario per Roma, quella patria lontana di cui avevo sentito solo storie, ma per proteggere lei dai nemici. Mi accoglieva ogni volta con un sorriso e mi sentivo al sicuro solo quando tornavo tra le sue braccia. Uccidere era l’unico mezzo che conoscevo per tenerla al sicuro e non mi sono mai guardato indietro  né mi sono pianto addosso.

– Io non l’ho mai incontrata – disse suo padre facendo un passo avanti – né ho mai conosciuto il vero amore. Ma questo già la sai. Quello che vuoi sapere è come ho potuto convivere con gli omicidi che mi sono lasciato dietro. La risposta è semplice: non avevo altra scelta. O la loro vita o la mia. E una volta superato l’orrore della prima volta, le altre diventarono via via più semplici fino a diventare parte della mia vita.

Riguardando il volto di suo padre, Michael si rese conto del perché avesse giurato di non uccidere: quegli occhi nocciola erano vuoti. Consumati da una vita fatta di menzogne, bugie e crudeltà. Michael ricordava quando gli unici scopi nella vita di suo padre era la creazione di furti sempre più complessi e fantasiosi e l’addestramento di Michael. Perfino Angéline, sua figlia, era passata in secondo piano con il passare degli anni.

– E l’Imperatore? – domandò Michael guardando i cinque che aveva richiamato.

– Ci vuole morti e la nostra memoria cancellata dal tempo. – rispose Elena grave. – Per lui non c’è altro al mondo che desidera di più. Noi morti e la regina di nuovo nelle sue mani.

– E ogni volta che ci siamo ritrovati, – aggiunse Owen chinandosi all’altezza dei suoi occhi – noi e lei, ha commesso gli atti più atroci pur di portarcela via.

– E Bowers è ancora più formidabile perché ha impiegato anni a concentrare su di sé denaro e potere. – disse suo padre

– Come fece Malik ai suoi tempi. – disse Marco, il legionario. – Raccolse attorno a sé denaro e potere, arrivando a diventare uno degli uomini più potenti di Babilonia.

Quel nome fu un flash nella sua mente e per un attimo lo vide, mentre accarezzava il volto di una donna con una spessa treccia bionda fino alla vita e gli occhi di due colori diversi. Michael la ricordava come bella e sapeva che quel suo io del passato aveva passato ore a osservarla nei giardini di Malik mentre corteggiava le sue altre serve. Malik aveva dichiarato quella sua nuova schiava intoccabile e lui ne era stato attratto proprio per quel divieto. Si era divertito a incontrarla quasi per caso, aggirando i divieti di quello che a quei tempi era un amico fraterno e alla fine si era innamorato di lei.

Si prese la testa tra le mani. – Cosa mi sta succedendo? –  si domandò con il cuore in gola e un senso di oppressione al petto. Da quello che aveva letto, avrebbe potuto dire che stava avendo un infarto, invece sapeva che era il suo cuore che si stava spezzando ripetutamente.

– È lui. – disse Charlotte. – Sono i suoi sentimenti.

– Il suo dolore. – spiegò Elena.

– Il nostro dolore. – disse Owen.

Tutti e cinque si piegarono in avanti stringendosi il petto nella morsa della mano, come se fossero stati colpiti tutti insieme da un attacco di cuore. Perfino il padre di Michael era piegato in due con il viso contorto al dolore. – I suoi sentimenti sono così forti che superano i secoli. – sussurrò Alain in agonia.

Michael rimase immobile a fissare suo padre soffrire. Non aveva mai visto quell’espressione sul suo viso che si rifletteva sulle quattro persone accanto a lui, e sapeva, anche sul suo. Era impossibile non provare dolore sentendo il proprio cuore ridursi in frammenti. – Per lui intendete...?

Una nuova fitta lo piegò in due e la vista si offuscò. Sentiva le lacrime affacciarsi senza riuscire a trattenerle che mi mischiavano alle imprecazioni e maledizioni che gli salivano alle labbra in una lingua che non conosceva.

Era la realizzazione di ciò che aveva sempre temuto: perdere se stesso nelle memorie di qualcun'altro e non avere più il controllo del proprio corpo. – Atlaeia. – gemette a denti stretti disteso sul freddo pavimento di marmo. – Amore mio.

Gli anni che aveva passato a seppellire quelle emozioni sparirono e venne travolto dall’immensità del dolore che aveva provato lungo i secoli. I nomi, gli aspetti, le espressioni della Regina di Spade si accavallarono nella sua mente minacciandolo di farlo impazzire.

– Smetti di lottare. – gli sussurrarono le precedenti Lune. – Tu sei noi e noi siamo te. Io nostro dolore è il tuo dolore. La nostra gioia è la tua gioia.

Provò a scacciarle, disperdendo la magia ma ne aveva perduto il controllo ed era completamento dominato da essa. Sapeva che non era più lui a manovrare l’incantesimo ma qualcun'altro. Qualcuno che aveva vissuto millenni prima e aveva avuto la forza e l’arroganza di un dio. Il suo nome gli risalì alle labbra, a metà tra un’imprecazione e una preghiera: – Nefer. – mormorò stringendo i pugni. – Lasciami andare.

Le cinque illusioni sparirono, sostituite da quelle di un ragazzo che aveva circa la sua età. Gli occhi verdi che spiccavano sotto i ricci scuri e la pelle olivastra lo inchiodarono contro il pavimento.

Stava fissando negli occhi il suo capostipite. Il guerriero egiziano sfuggito alla caduta di Babilonia. L’uomo che aveva amato una schiava più delle sue mogli e dei suoi figli. L’uomo che alla fine, aveva condannato le loro vite.

– Credi che il mio amore ci abbia condannati? – domandò con un sorriso storto.

– Sei un’illusione della mia mente. Sparisci.

Tentò di nuovo di dissipare la magia ma quella non voleva rispondergli. Le illusioni erano il frutto della sua immaginazione. Giochi che creava con la mente e Nefer avrebbe dovuto sparire nel momento stesso in cui lo aveva rinnegato.

– Se mi avessi rinnegato sul serio, sì, sarei scomparso. – rispose Nefer con il sorriso che si allargava. – Ma tu, come Owen, come Elena, come Artemide, non hai mai amato l’ignoranza. Non capire perché i sentimenti che abbiamo provato ti turbino così tanto ti impedisce di mandarmi via. Vuoi una risposta.

– Allora sii gentile e dammela. Perché Atlaeia? Perché non posso vivere la mia vita in pace?

Nefer alzò il viso, fissando il muro senza vederlo veramente e Michael sapeva che a volte, lui aveva lo stesso atteggiamento quando cercava le parole per una risposta che non sarebbe piaciuta. – All’inizio, Atlaeia era solo un gioco. Malik aveva ordinato a tutti di non toccarla e io, noi, che abbiamo sempre desiderato quello che non possiamo avere, abbiamo iniziato a osservarla, a studiarla perdendoci nella sua bellezza e nella sua dolcezza. Anche se era schiava da anni, aveva nel fondo degli occhi una luce irrequieta che nessuna sevizia riusciva a cancellare. Chiunque incrociasse il suo sguardo non poteva fare a meno di rimanere incantato da lei. È per questo che Malik la scelse per i suoi esperimenti di magia, Atlaeia era forte e caparbia. Se le cose fossero andate diversamente, se fossi stato più umile al mercato degli schiavi, lei sarebbe stata la regina che meritava di essere.

– Le persone cambiano. – Michael batté gli occhi, rendendosi conto che stava dibattendo con uno spettro della memoria, un’illusione creata da un sentimento che non voleva scomparire. – Verity non è Atlaeia.

Il sorriso di Nefer si allargò. – Nei secoli, la luce nei suoi occhi non è mai cambiata.

Nefer sparì, portandosi via tutto il malessere che Michael aveva provato negli ultimi minuti, lasciandolo solo con se stesso. Aveva di nuovo il controllo sul suo corpo e sulla sua magia e Michael tornò nella stanza principale sbattendo la porta del bagno dietro di sé. Non capiva come avesse potuto perdere il controllo in quel modo. Lui non lo perdeva mai, qualsiasi fosse la situazione. Eppure ora era ricoperto di sudore gelido che si mischiava all’acqua che gli cadeva sul colletto della camicia dai capelli zuppi. Non era da lui. La stanchezza, mischiata alla preoccupazione e allo shock gli avevano impedito di essere razionale e per questo aveva finito per condividere alcuni sciagurati minuti con delle memorie a cui aveva dato forma.

Si tolse la camicia e prese il suo asciugamano dalla valigia, gettandoselo sulle spalle. Doveva ritrovare la calma e c’era un’unica persona in grado di dargliela.

Prese il telefono e fece il numero di sua sorella che rispose al quarto squillo. – Michael! – gridò Angie eccitata al telefono. – Come stai? Dove sei? Quando ci possiamo vedere? – fu costretto ad allontanare il telefono dall’orecchio mentre Angéline partiva con un resoconto dettagliato della sua villeggiatura nel sud della Francia.

La ascoltò con attenzione senza proferire parola, ponendogli solo alcune domande quando sembrava che il discorso stesse scemando. Ascoltarla sprizzare vita da tutti i pori mentre gli raccontava del nuovo spartito per violino su cui aveva messo le mani o la libreria nascosta in una viuzza che aveva scovato passeggiando lo riempiva di calma. – Quindi cosa stai leggendo adesso?

– Un libro sulle fate. – rispose Angéline ridendo di gioia. – La storia di una ragazza per metà umana e per metà fata, figlia di re Oberon. E poi c’è un principe della corte avversaria. Però c’è anche Puck, che lo preferisco, e un gatto che parla e... e...

– Me lo presti? – chiese Michael d’impulso. Non credeva che potesse piacergli, ma Angie era così agitata per quel libro che gli aveva fatto venir voglia di leggerlo.

– Certo! Quando ci vediamo? Così te lo do.

A Michael morì il sorriso sulle labbra. Con quello che aveva fatto non avrebbero potuto vedersi per un po’. – Ti chiamo anche per questo, sorellina. Sono pieno di lavoro e devo studiare per gli esami. Non sono nemmeno a Parigi, ora. Credo che non potremo vederci questo mese.

– Ah.

– Mi dispiace. – non riusciva a sentire la delusione che aveva percepito in quell’ultima parola. Aveva deluso tante persone nella sua vita, ma si era sempre impegnato al massimo per essere sempre presente per Angéline. Non poterla vedere gli spezzava il cuore più di quanto lei potesse immaginare. Come aveva potuto permettere al suo passato di coinvolgerlo al punto tale da ferire Angéline? – Mi dispiace. – mormorò di nuovo.

– Però ci vedremo, vero? – domandò lei triste. – Appena possibile?

– Te lo prometto.

– Allora, okay. – rispose Angie tornando a essere allegra. – Allora dimmi, chi è la persona che ti fa penare?

Per poco non si strozzò con la saliva che gli era andata di traverso e tra un colpo di tosse e l’altro fissò lo schermo del telefono. – Chi? Cosa? – non c’erano molte persone al mondo che potessero imbarazzarlo, ma Angéline ci riusciva sempre a colpo sicuro.

– Non prendermi in giro, Michael. Sei mio fratello. Quando qualcosa ti preoccupa stai in silenzio. Lo facevi anche da bambino quando la maestra ti sgridava. Allora, chi è? Il tuo datore di lavoro?

– No. – rispose Michael ridendo. Angéline, per quanto innocente aveva un intuito da far paura. – Con lui va abbastanza bene.

– Qualche collega all’università?

– No, ci ignoriamo stoicamente. Difficile fare amicizia quando vogliamo sempre i posti migliori per ascoltare la lezione e siamo in guerra fredda perenne.

– Qualche professore? – azzardò sua sorella dopo aver rimuginato un po’. – Posso punzecchiarlo con una penna se ti dà fastidio.

Michael rise. – No, ma si impegnano a sbagliare il nostro cognome quando mi chiamano per l’appello agli esami.

Era tornato a divertirsi. Sentire Angéline che gli faceva le domande più strane cercando di farlo sbottonare e strappargli qualche confessione lo rendeva allegro. Se la polizia avesse avuto la sua testardaggine lo avrebbero già arrestato.

– Allora Claude! – gridò Angie d’un tratto. – Ti fa penare lui? Voglio dire se ti preoccupa basta che gli parli. E poi ho una mente aperta capisco se ti piace. Il problema è mamma? Hai problemi a dirglielo? Ti aiuto io!

– Claude? No. No, Angie, sei fuori strada.

Conosceva sua sorella e sapeva che era partita verso fantasie da fotoromanzo.

– Guarda che me lo puoi dire se vuoi. Sono tua sorella e sarò sempre dalla tua parte.

Michael sospirò. Angéline aveva frainteso. – No, Angie, non sono gay. Mi piacciono ancora le ragazze.

– Allora è una ragazza! – esclamò, minacciando di spaccargli un timpano. – Chi è? Quando posso conoscerla? È carina? Legge? Studia? Lavora? Andiamo, Michael! Dimmi chi è!

– Angie è solo che... – chiuse gli occhi, rivivendo la serata in cui aveva conosciuto Verity. – È maleducata, impreca sempre e non ha il minimo rispetto per chi prova a essere gentile con lei.

Michael ammetteva però, che il primo a essersi comportato male era stato lui. Aveva dato per scontato che Verity ci stesse a priori e facesse solo la sostenuta prima di capitolare tra le sue braccia. – Però è anche coraggiosa. – aggiunse ricordando il loro scontro a casa sua. – È fedele, risoluta e coscienziosa. E molto testarda. – finì con un sorriso. 

– Oh. – disse sua sorella al telefono. – Pensi che possa incontrarla?

Forse, se Verity era ancora a Parigi e lavorava alla cioccolateria, magari Angéline poteva incontrarla. – Non lo so. – rispose Michael sincero. – Non le ho fatto una buona impressione la prima volta e non credo che voglia parlarmi di nuovo.

– Che sciocchezza! – esclamò Angie con uno sbuffo. – Basta solo che ci riprovi e ti spieghi, no? Se non vi conoscete come fai a dirlo?

– Angie, non è così semplice. – sentì in sottofondo la voce di sua madre che la chiamava, dicendole che era ora di andare a cena e Michael calcolò velocemente la differenza di fuso orario. Doveva essere sera da loro ed era ora che la lasciasse andare a magiare. – Ci sentiamo presto, sorellina.

– Sì. – mormorò Angie parlando a bassa voce come se si stessero scambiando un segreto. – Stasera ho intenzione di prendere la pasta, ma tu non dirlo a mamma finché non lo faccio. Non vuole farmi mangiare carboidrati la sera. Conto sulla tua discrezione.

Rise di nuovo, riuscendo a immaginarsi sua sorella guardarsi intorno furtivamente mentre gli confessava quella cosa. – Da me non uscirà una parola, promesso.

– Allora a presto. – lo salutò Angéline.

– Sì, a presto.

Come chiuse il telefono, il senso di malessere tornò a colpirlo. Voleva chiamare di nuovo sua sorella per scacciarlo ma sapeva che ora non avrebbe risposto e lui non poteva scaricargli addosso ancora le sue frustrazioni. Se Angie aveva capito che qualcosa non andava in lui doveva essere conciato male.

Giocherellò con la rubrica del telefono, facendola scorrere su e giù a caso con le parole di sua sorella in mente.

Basta solo che ci riprovi e ti spieghi, no? Se non vi conoscete come fai a dirlo?

Nei secoli, la luce nei suoi occhi non è mai cambiata.

Scese la rubrica fino a fermarsi davanti a quel numero che non doveva avere e che si era ripromesso di non usare mai e premette il pulsante di creazione di un messaggio.

 

Ciao, come stai?

 

Nel momento in cui lo inviò, si chiese se avrebbe mai ricevuto una risposta o il destinatario avrebbe cancellato il messaggio vedendo un numero che non conosceva.

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NdA: ci ho impegato una vita nonostante il capitolo fosse già scritto. Purtroppo alcuni impegni mi avevano completamente prosciugata di energie e non riuscivo a correggere il capitolo.

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Capitolo 17
*** 3.5 L'Imperatrice - La Ragazza dietro l'Obiettivo ***


3.4 La ragazza dietro l'obiettivo

III – L’Imperatrice

La Ragazza dietro l’Obiettivo

 

Villa Courteney, Dover. 16 Agosto 2011

 

Era sera e Verity stava ancora guardando la valigia spalancata sul letto cercando di capire cosa metterci dentro.

A pranzo Christian le aveva detto che sarebbero partiti alla volta dell’India nel giro di un paio di giorni e aveva preparato una trappola per Michael. Non era sceso nei particolari davanti a Nyvie, ma le aveva chiesto di preparare le valigie mentre lui organizzava le ultime cose e prenotava l’albergo a Calcutta.

Da quando aveva saputo del viaggio, Nyvie non stava più nella pelle e aveva iniziato a parlare di sua madre e dei suoi fratellini, spiegandole i giochi che facevano, i posti che avevano visto della città e il mercato dei fiori dove voleva portarla.

Ora la bambina stava stesa a pancia in giù sul parquet mentre sfogliava un libro illustrato sugli animali del mondo.

– Voglio vedere anche questo! – esclamò mostrandole la foto di un ippopotamo.

Verity sorrise in risposta. Aveva visto un ippopotamo allo zoo e la mole dell’animale le aveva fatto impressione mentre avanzava verso la pozza d’acqua. Quel giorno si era portata dietro la Nikon che Alessio e i suoi amici le avevano regalato per il suo compleanno in sostituzione di quella vecchia a cui era affezionata, ma che non poteva più usare perché i rullini erano sempre più introvabili.

Scese dal letto, abbandonato la valigia e si sedette a gambe incrociate accanto a Nyvie. – Potremmo andare allo zoo se vederli se vuoi. Sai dove vivono?

La bambina scosse la testa facendo danzare le ciocche nere, ascoltandola con attenzione come faceva con Christian quando le insegnava qualcosa. Verity non era un’esperta di geografia, anzi se poteva la evitava come la peste, ma poteva trasmettere anche lei qualcosa a quella bambina. Le prese il libro dalle mani e sfogliò le figure con calma, mostrandole delle foto dell’Africa centrale. Mentre parlava sentiva dentro di sé l’eco di una voce del passato. Aveva la consapevolezza che quella bestia fosse vissuta in tempi remoti anche nella valle del Nilo, spingendosi fino a Tebe e nel delta. Non sapeva da dove arrivasse quella conoscenza, ma le diete una stretta allo stomaco e un atroce mal di testa che la costrinse ad allontanare il libro da sé.

– Scusa, – disse alzandosi per recuperare una bottiglia di acqua gelida dal frigorifero – credo che sia la stanchezza.

Incrociò gli occhi verdi di Nyvie, che risaltavano sotto i capelli neri e la pelle olivastra e le vennero le lacrime agli occhi senza che potesse impedirle. Le tempie pulsavano mentre si rendeva conto che aveva già conosciuto qualcuno con una fisionomia simile a Nyvie e il ricordo stava premendo in tutti gli angoli della mente per uscire. Capelli scuri e crespi e un paio di vividi occhi verdi. Cadde in ginocchio, soccorsa immediatamente dalla bambina che la guardava con apprensione.

– Stai male? – le chiese Nyvie.

Le parlava in modo semplice e diretto e i ruoli si invertirono: erano Nyvie che si stava occupando di lei con una maturità e una dolcezza che non si direbbe da una bambina di nove anni.

Strinse la piccola tra le braccia, un po’ per rassicurarla, un po’ per il bisogno di sentire qualcuno vicino e trovare un punto fermo nel mare di sentimenti che la stavano sommergendo. – Mi dispiace – mormorò. Non sapeva a chi lo stesse dicendo, se a Nyvie per averla spaventata o alla persona del ricordo che non riaffiorava. – Mi dispiace tanto.

– Non devi preoccupare. Va tutto bene.

Verity annuì asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. Avrebbe voluto mettere la bambina a letto e cercare di darsi un contegno, invece non riusciva a muoversi paralizzata da alcuni sentimenti che riaffioravano sempre più forti senza riuscire ad associare un nome o un volto alla persona verso cui erano diretti.

Si ritrovò seduta con Nyvie in braccio mentre dava voce ai pensieri che non smettevano di tormentarla. – Una volta, molti anni fa, c’erano un ragazzo e una ragazza che si conoscevano fin da bambini. Erano cresciuti insieme perché il fratello maggiore della ragazza era il migliore amico del bambino.

Nyvie la scrutò sottecchi, per poi sistemarsi meglio contro di lei. – Hanno un nome?

I pensieri di Verity vagarono nell’oscura confusione che c’era nella sua testa fino a trovare una risposta. – Lei si chiamava Emily e suo fratello maggiore Thomas, mentre lui... – una fitta più forte delle altre la costrinse a lasciar stare, avvertendola che se avesse scavato troppo avrebbe avvertito molto più dolore. – Lui non lo ricordo – mentì.

– Allora Christian – suggerì Nyvie animandosi di colpo. – Possiamo dare questo nome fino a che ricordi.

– Sì.

Chiamarlo Christian le suonava sbagliato, come una nota stonata in una melodia malinconica ma il vero nome continuava a sfuggirle. – Emily e... Christian si sposarono da giovani. Lei aveva appena quindici anni quando suo fratello maggiore, diventato capo villaggio da poco, intrecciò le loro mani davanti a tutti. Lui era diventato un uomo, uccidendo un cervo durante una battuta di caccia dimostrando così di essere in grado di prendersi cura di una famiglia. – Verity sorrise triste. Poteva rivivere tutti gli eventi, quasi tracciasse dei puntini per formare un disegno, ma non ricordava il viso, il nome o l’odore del ragazzo. La sua figura nella mente era fatta di puro fumo. – Ma lei sapeva bene che Christian – ogni volta che era costretta a pronunciarne il nome si sentiva male. Non era il suo, non era il nome che cercava, ma se non usava quello ci sarebbe stato il vuoto. – amava imparare. Non era portato per cose come la caccia, era curioso e intelligente. Emily adorava quel tratto del suo carattere. Avevano passato ore intere nei boschi con lui mentre si appostava per seguire gli animali o studiava le piante.

– Erano felici di stare insieme? – domandò Nyvie contro il suo petto.

– Sì. Emily si sentiva la donna più felice del mondo. Il giorno del suo matrimonio avrebbe giurato che il sole stesso stesse baciando le loro mani intrecciate. La loro vita era dura, ma erano felici. Christian aiutò Thomas a costruire un nuovo granaio e teneva il conto per il villaggio mentre Emily imparò da lui e dalla guaritrice del villaggio l’uso delle piante medicinali e si rese utile aiutando gli ammalati. Quando nacque la loro prima bambina niente poteva renderli più felici. Stavano insieme, e sapevano che erano fatti l’uno per l’altra, nati per trovarsi e amarsi.

Nyvie sbadigliò e si accoccolò meglio mentre Verity continuava a raccontare aneddoti sulla storia di Emily e di come lui, l’avesse sempre protetta o l’avesse afferrata quando era scivolata da una roccia in riva al fiume.

La bambina si addormentò prima che Verity potesse arrivare alla parte tragica di quella storia, quando Emily, sola in casa a parte i due bambini, aprì la porta a una persona che aveva sempre considerata amica e che poi la uccise. Il ricordo di quel momento si affievolì mentre riviveva sulla pelle il freddo del pugnale di Lucas e le urla dei bambini, poi il ricordo tornò forte ma da un’altra prospettiva. Vedeva il cadavere di Emily sul pavimento, riverso in una pozza di sangue e le sue mani infantili imbrattate fino ai polsi mentre la scuoteva, chiedendole implorante di muoversi.

La mente di Verity era alla deriva, come se fosse animata di vita propria e non riusciva fermarla. Quello che stava vivendo era il ricordo di Awena, la figlia di Emily. Aveva la consapevolezza di avere accanto il suo fratellino e di averlo incitato a correre per andare dallo zio Thomas e chiamare suo padre mentre Lucas, che aveva considerato come un secondo zio, fuggiva abbandonando dietro di sé Emily e il coltello imbrattato di sangue. Si sentì tirare indietro, mentre suo padre si chinava sul corpo della mamma e le ripuliva il viso con delicatezza, pregandola di tornare indietro e di non andare di nuovo dove lui non poteva seguirla.

– Perché sei fatto di fumo? – domandò Verity tra i singhiozzi. – Perché sei un’ombra e non ho il ricordo della tua voce? Se sei un fantasma, perché mi fai del male?

Nyvie mormorò qualcosa nel suo sonno innocente e allegro e Verity si costrinse a stare in silenzio premendosi forte il dorso della mano contro le labbra. Chiuse gli occhi e lasciò che le memorie terminassero di torturarla mentre Awena guardava suo padre il giorno del funerale. Era trattenuto a stento dai membri del villaggio per impedire che si gettasse nelle fiamme che consumavano il catafalco di Emily. Quando non rimase altro che cenere al vento di Emily, suo padre era accasciato a terra privo di forze a fissare le braci che avevano consumato il corpo. Su di esse aveva giurato che si sarebbe vendicato. Da quel giorno, Awena aveva visto suo padre sempre di meno, immerso com'era nei suoi propositi di vendetta, fino a sparire del tutto quando lei si era sposata.

Tornò in se stessa con Nyvie tra le braccia che dormiva tranquilla. La bambina era sempre così, metteva tutta se stessa nelle attività della giornata fino ad addormentarsi in pochi minuti.

Con gli occhi rossi, Verity si alzò piano e prese la piccola in braccio per portarla nella sua camera.

Aveva bisogno di stare da sola e riordinare le idee, inoltre, non voleva svegliare la bambina.

Incrociò Christian nel corridoio che si muoveva nella sua direzione con i soli pantaloni del pigiama addosso.

– Nyvie era con te? – sussurrò allungando le mani per togliergliela dalle braccia. – Ero passato per camera sua ad assicurarmi che fosse a letto.

C’era qualcosa di possessivo nel modo in cui gliela tolse. Anche se i toni erano gentili, gli occhi blu di Christian la fulminarono, come se Verity gli avesse sottratto qualcosa di prezioso.

– Stava sfogliando un libro in camera mia – rispose Verity cercando di non dare peso a quella sensazione. – Si è addormentata mentre gli raccontavo una storia.

Christian guardò prima il sonno sereno di Nyvie e poi gli occhi arrossati di Verity e la gelosia che lei aveva notato, sparì.

– Non hai una bella cera – le disse il ragazzo. – Metto a letto Nyvie e poi parliamo.

Verity lo seguì in silenzio, ancora persa nel ricordo che aveva rivissuto. Cos’era che le faceva più male? Aver appena sentito la propria morte o sapere che quel viso rimaneva un’ombra? Il suo poteva essere un sogno ad occhi aperta, una fantasticheria come quelle che aveva fatto nelle sonnacchiose domeniche pomeriggio dopo aver appena finito un libro o visto un film avvincente, eppure quei sentimenti non andavano via. Erano suoi, appartenevano a lei. Le batteva il cuore quando percepiva che un paio di braccia forti l’avevano stretta e una schiena larga l’aveva sostenuta e la sua mente deviava sempre verso Michael e quel sorriso aperto che un paio di volte era apparso sul suo viso. Conosceva nel profondo quel modo di sorridere, ma come provava a frugare nei suoi ricordi, quello spariva. Era come guardare qualcosa con la coda dell’occhio e poi voltarsi per mettere a fuoco e scoprire che era stato tutto un gioco di riflessi.

Studiò Christian mentre rimboccava il lenzuolo leggero a Nyvie e le dava un bacio sulla fronte per poi controllare che la zanzariera fosse ben chiusa. C’era ancora un mezzo sorriso sul volto del ragazzo nel momento in cui si era girato verso di lei e le aveva fatto cenno di precederlo fuori.

– Ti comporti come un padre nei suoi confronti – disse quando lui si chiuse la porta della camera di Nyvie alle spalle.

– È la persona più importante per me. Non hai idea di cosa farei pur di vederla sorridere.

Verity non voleva ammetterlo ad alta voce, ma c’era qualcosa di malsano nell’attaccamento che Christian aveva per Nyvie. Controllava sempre dove fosse, cosa stesse facendo e che nulla potesse turbare la sua pace. Quel comportamento le faceva paura. Quando era stata sopraffatta dal dolore Christian non aveva esitato due volte a immobilizzarla e metterla a tacere pur di evitare che Nyvie si preoccupasse per lei, ma nonostante quell'episodio l'avesse spaventata nel suo cuore sentiva dell’affetto nei confronti del ragazzo. Avevano condiviso un passato e ora che lo guardava in faccia vedeva che in Christian c’era Thomas, il fratello maggiore di Emily.

Gli accarezzò una guancia mentre i tratti di quello che era stato suo fratello si confusero con Christian. – Thomas?

Le sorrise con dolcezza mentre le toglieva la mano dal volto. Aveva anche lui gli occhi lucidi. – Sono passati più di millecinquecento anni. Non sono più tuo fratello, Emily.

Aveva parlato direttamente alla memoria della ragazza che prima era riaffiorata nella mente di Verity. La sentì agitarsi come se Emily fosse ancora viva, come se i suoi pensieri, sentimenti ed emozioni non fossero mai morti ma fossero lì, in attesa di tornare alla luce.

– Sorellina, – mormorò Christian appoggiando la fronte contro la sua – mi sei mancata. Ogni giorno dalla tua morte. Ogni respiro e ogni minuto che ho vissuto dopo. – Era Christian e allo stesso Thomas che le parlavano e lei rispondeva come Verity e come Emily a quelle parole.

Come aveva fatto a non vedere quello che un tempo era stato suo fratello dietro il volto di Christian?

Le diete un bacio sulla guancia, uno di quelli dolci e tristi che Christian riservava a Nyvie, asciugandole una lacrima. – Volevo che ti ricordassi di me, cosa fossi stato per te, Verity. Le memorie stanno vivendo dentro di te ma non lasciare che ti dominino.

Appoggiò un’ultima volta le labbra contro la sua fronte rispondendo al richiamo di due fratelli troppo a lungo separati dal tempo e dalla morte ed entrambi chiusero gli occhi concedendo un ultimo minuto a Thomas ed Emily per dirsi addio.

Quando incrociò di nuovo il suo sguardo, Verity vedeva solo Christian in quegli occhi blu. – Cos’era quello? – domandò asciugandosi il viso.

– L’eco di un bisogno – rispose Christian. – Sentimenti e memorie che vivono dentro di noi. Stai recuperando la memoria delle tue vita passate con il passare dei giorni. Alcune personalità più forti si fanno vive anche mentre sei sveglia. In presenza di persone che per noi hanno significato qualcosa alcune vite passate emergono in tutta la loro forza  prendendo possesso di noi.

Mentre glielo spiegava Christian si morse il labbro inferiore e Verity colse qualcosa in quel gesto.

– Cosa mi stai nascondendo?

– Cosa non capisco, vorrai dire. La prima volta che ti ho vista ho capito quasi subito chi tu fossi. Quando ti scansai la canottiera e vidi il marchio sul tuo cuore non aveva provato nulla. Sapevo che eri stata Emily. Razionalmente parlando lo sapevo, ma solo stasera ho avvertito Thomas farsi avanti e riconoscere sua sorella.

– Significa che prima di vedere Thomas in te, tu non avevi percepito Emily?

Christian alzò le spalle. – L’avevo vista nei sogni. Sapevo chi era e conoscevo l’affetto che Thomas aveva provato per lei, ma non ne ero stato turbato come stasera. Non ero mai stato emotivamente coinvolto dai ricordi mentre ero sveglio. – meditò sulle sue stesse parole mentre la sospingeva verso il corridoio da cui erano arrivati. – Cosa hai provato vedendo Dubois la prima volta?

Al ricordo del modo in cui si era comportato al negozio, Verity si infuriò. – Li mortacci sua! Se avessi potuto, lo avrei picchiato. Un maleducato! Un arrogante! Uno schifoso, lurido bastardo.

– Credo che tu abbia reso chiaro il concetto. – Christian rise e anche a Verity scappò una risata per quell’uscita. Le mancava il dialetto di Roma, quella parlata un po’ burbera ma solare che la faceva sentire sempre a casa.

– Penso, – disse Christian stiracchiandosi – che per provare ciò che abbiamo vissuto prima ci debba essere una reciproca riconoscenza. Tu non hai riconosciuto Dubois e me a Parigi, vero?

Verity scosse la testa e fissò il petto nudo di Christian. C’erano delle parole nere tatuate seguendo la linea delle costole come lei avrebbe fatto con le righe di un quaderno. Non riconosceva l’alfabeto, anche se c’era qualcosa di familiare in esso, lo aveva già visto a Roma e al Louvre. – E quello? – domandò curiosa.

– Non riesci a seguire il filo di un discorso serio? – rispose Christian guardandosi il petto.

– Mai stata capace. Anche a Roma dicevano sempre che saltavo di palo in frasca. Ale per esempio... – si bloccò con il dolore forte come una staffilata pensando al suo ragazzo e dovette trattenere la mano per impedire che corresse al collo a cercare l’anello.

Christian si accorse di quel movimento involontario e le prese la mano, sostenendola con la propria. – Il tatuaggio che ho addosso è il giuramento di Ippocrate scritto in greco antico. – le spiegò con dolcezza assecondando il suo bisogno di cambiare argomento. – Quelle che vedi più marcate sono quelle che mi piacciono di più, che mi ricordano chi dovrei essere. – Chiuse gli occhi e iniziò a recitare: Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo. Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell'esercizio sulla vita degli uomini tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili. E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell'arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro. – inspirò forte, riprendendo fiato e aprì gli occhi con la luce della determinazione negli occhi. – Che mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro. – ripeté sottovoce.

– È bello. – disse Verity osservando le linee nere. Piccole frasi, scritte in una lingua che non capiva ma che avevano tanta forza al loro interno. – Le hai mai pronunciate?

– I medici fanno un giuramento una volta laureati, ma queste le ho pronunciate il giorno che Nyvie mi ha salvato. Il giuramento dei medici non aveva avuto alcun valore per me fino a quel momento. Pronunciando il giuramento di Ippocrate per conto mio, con solo Dio a essermi testimone, ho deciso di ricominciare da capo ed essere un nuovo medico.

Verity non sapeva cosa dire. Christian l’aveva impressionata. Si sentiva piccola sotto il suo sguardo. Era questo che intendeva Mikelich quando le aveva detto che Christian aveva bisogno di dimostrare qualcosa? Mostrare a se stesso e agli altri che era cambiato facendo gesti estremi come quel tatuaggio e i regali che le faceva?

Percorse le parole nere con due dita seguendo le linee delle costole che sentiva sotto i muscoli del ragazzo, che si irrigidirono al suo tocco. – Sei coraggioso.

– Per un tatuaggio?

– Per ciò che rappresenta questo tatuaggio. Hai avuto il coraggio di cambiare. Non devi fare regali costosi per dimostrare di non essere più quello di allora, quando ti prendi cura degli altri la gente lo nota.

Christian coprì la mano di Verity con la sua. – Tu lo hai visto?

Annuì. – Quando ti prendi cura di Nyvie, quando mi hai accolto nella tua casa trattandomi come un’ospite e non una prigioniera, quando mi hai protetto da te stesso. Non hai bisogno di fare regali costosi per mostrare che sei una brava persona, lo sei. Sono i gesti istintivi che fai a parlare per te.

Gli occhi blu di Christian si oscurarono e le dita si chiusero sulle sue con forza, facendole male, ma prima che la protesta lasciasse le sue labbra la presa si rilassò e il ragazzo le sorrise. – Mi dispiace.

Lo guardò senza capire, se non fosse per il dolore pulsante che aveva la mano, avrebbe giurato di aver solo immaginato l’ombra che era passata negli occhi del ragazzo. La stessa ombra che aveva visto quando lui l’aveva spinta via nel suo studio, ordinandole di allontanarsi. – Mi passerà presto. – mormorò massaggiandosi le dita. – Hai solo stretto un po’ troppo.

Sperava che lui la correggesse e le spiegasse cosa gli stesse passando per la testa, invece non aggiunse nulla che potesse chiarire gli sbalzi di umore che aveva negli ultimi giorni. – Vieni, – le disse facendole cenno di seguirlo – ti accompagno in camera tua. Hai fatto i bagagli?

– Sono in alto mare. Non ho idea di cosa metterci dentro a parte lo spazzolino e il dentifricio.

Avrebbe voluto indagare oltre su ciò che gli stava succedendo, ma il ragazzo non aveva voglia di parlarne e Verity non voleva insistere oltre. Conosceva i sentimenti di chi era spinto al limite da domande troppo personali. La sensazione di essere sotto una lente di ingrandimento, sempre osservato, soppesato e giudicato.

Se Christian non era pronto a parlarne, lei non avrebbe insistito.

Si affidò all’esperienza sul clima indiano di Chris per selezionare i vestiti e le scarpe, mentre lei sistemava con cura gli effetti personali che si era portata da Parigi. Poteva rinunciare al vestiario, alle lenzuola comode che aveva imparato ad apprezzare e al bagno personale senza voltarsi indietro due volte, ma non poteva lasciare alla villa il suo prezioso album di foto e i suoi libri preferiti. Quando li mise dentro con delicatezza, facendo attenzione che le pagine non si rovinassero e le sovracopertine non avessero pieghe, Christian si accorse della loro presenza.

– Harry Potter? – domandò con un sorriso un po’ canzonario.

Da brava Potterhead dovette resistere all’impulso di abbracciare i libri come se fossero i suoi figli primogeniti. Verity aveva ventidue anni ed era cresciuta con Harry attendendo con ansia l’uscita del libro successivo ed era fermamente convinta che il gufo con la sua lettera per Hogwarts si fosse perso. Quando lo aveva detto ad Alessio lui aveva primo riso, poi era impallidito sotto il suo sguardo furioso. Harry era stato un compagno fedele che l’aveva accompagnata nei momenti più soli e malinconici della sua vita, perfino Ale aveva dovuto arrendersi di fronte all’amore che lei provava per quei libri.

– Problemi? – replicò sul piede di guerra.

– Nessuno. Li ho anche io. Sono in camera mia.

Verity lo guardò guardinga, non del tutto sicura che fosse serio. La gente che parlava di Harry Potter solo perché aveva visto i film era ovunque. – Che casa?

– Se potessi scegliere andrei a Corvonero, ma non ho idea di dove mi metterebbe il Cappello Parlante. Chissà che canzone canterebbe prima che la McGranitt ci chiami per mettercelo in testa? Ci hai pensato?

Per poco non lo abbracciò. Alessio non aveva letto i libri, aveva visto i film con lei ma non aveva mai aperto nemmeno una pagina della serie.

Solo a gennaio di qualche anno prima, in concomitanza dell’uscita dell’ultimo libro, Alessio l’aveva accompagnata in libreria e anziché prendere il settimo volume, le aveva preso il cofanetto con tutti i libri. Aveva pianto quando lui aveva appoggiato sulla cassa l’edizione speciale con il motto di Hogwarts sotto le sovracopertine. Aveva capito quanto lui la conoscesse e l’amasse nonostante lei si comportasse come una matta nei momenti più impensati e stesse sveglia ore e ore a incoraggiare Harry in piena notte, incitandolo a non arrendersi.

Si sedette a bordo letto accarezzando il titolo dei libri. – Non potrei separarmi da loro. Avevo iniziato a leggerli prendendoli in prestito in biblioteca. Quando uscì il quinto c’era una fila di prenotazioni lunghissima per poterli leggere. Dopo una settimana che lo avevo, la bibliotecaria mi chiamò per chiedermi se potevo riportarlo non appena lo finivo perché c’erano un sacco di ragazzi che lo chiedevano. Fu Ale a regalarmi tutti e sette i libri. – disse con gli occhi lucidi. Era un periodo che non faceva altro che piangere e iniziava a vergognarsi di essere tanto debole da non riuscire a sostenere una conversazione senza finire in lacrime. – Non avevo mai preso in considerazione di possederli tutti. Leggere è un hobby costoso e quindi...

– A te piace leggere? – chiese Christian sedendosi accanto a lei.

– Buffo, vero? – disse asciugandosi gli occhi. – Ho iniziato con una copia dell’Isola del tesoro in offerta. Me l’aveva presa mamma appena trasferite a Roma, pensava che leggendo in italiano avrei imparato in fretta la lingua. E aveva ragione.

Christian le passò una mano intorno alle spalle. – Ti manca tua madre?

– Se dicessi di no, sarei una pessima figlia? Mia madre beveva e si rovinava la vita, spesso arrivavamo a fine mese con una scatoletta di tonno da dividere perché spendeva tutto in alcol. Sono andata via appena ho potuto e l’ho lasciata da sola per poter avere una vita mia. Non ho rimpianto nemmeno una volta di essermene andata nonostante fosse mia madre. – guardò gli oggetti nella valigia spalancata, persa. – Ciò che vedi è quello che possiedo. Quello che mi ha regalato il ragazzo che amo e quello che ho ottenuto con le mie forze. Ciò che mi manca è la mia vita a Roma, la mia routine, la mia doccia con le manopole invertite e un piccolo scaffale con quattro libri in croce. Era un vita perfetta perché ero felice. – singhiozzò tirando su con il naso. – Ero felice nell’alzarmi la mattina e andare a fare un giro al mercato con una vecchia macchina fotografica. Ero felice quando servivo cappuccini e pulivo i pavimenti del bar. Avevo tutto ciò di cui avevo bisogno.

Con dolcezza, Christian prese il vecchio album che Verity aveva messo in borsa e iniziò a sfogliarlo. – Questo che posto è?

– Una veduta di Roma dalla terrazza del Pincio. Vedi quella? È la cupola di San Pietro. Non so nemmeno perché l’ho fatta, potevo andare alla terrazza ogni volta che volevo e vedere il panorama. Mi piaceva la luce che c’era quel giorno e il vento freddo che scuoteva gli alberi. – parlare l’aiutava a calmarsi. Non sapeva perché fosse scoppiata in quel modo, se era a causa della tensione degli ultimi giorni o degli incubi che non la lasciavano in pace. Passò alla foto successiva con un sorriso triste in volto. – Il Giardino del Lago e il Tempietto di Esculapio a Villa Borghese. Aveva appena finito di piovere e avevo evitato il diluvio per pura fortuna. Non avevo nemmeno l’ombrello quel giorno.

Christian le indicò la foto di una donna con dei fiori in mano e a Verity sfuggì una risata. – Non so perché l’ho fatta. Eravamo fuori dal Mercato dei Fiori di via Trionfale e lei era lì, con quel mazzo di fiori in mano che aspettava l’autobus. Aveva un’aria così serena in mezzo al caos che è Roma che le ho fatto una foto. Mi immagino, non so, che abbia voluto decorare un vaso che le era stato regalato o boh, semplicemente che le piacessero e che li avesse comprati. Questa qui sotto, – disse indicando una coppia di turisti che prendevano un caffè sulle poltroncine esterne di un bar – l’ho scattata in piazza Navona. Era estate e come al solito la città era assediata di turisti da tutto il mondo. Mi facevano ridere perché guardavano le fontane della piazza e indicavano le cartine che tenevano in mano, così gliel’ho fatta. Questa invece l’ho scattata subito dopo. – proseguì indicando un bambino che fissava a bocca aperta una vetrina. – All’angolo di piazza Navona c’è un negozio di giocattoli. Avevano in vetrina il peluche di una tigre a grandezza naturale, credo di essere rimasta a bocca aperta anche io in quel momento. Era stupenda.

Tra le braccia di Christian si sentiva meglio e riusciva a parlare di tutti quei piccoli momenti che aveva catturato nella quotidianità di Roma. La gente assiepata sui marciapiedi in attesa del momento ideale per attraversare in mezzo al traffico. Amici e colleghi con un supplì e un trancio di pizza in mano. Le lunga coda che girava dietro l’Arco di Trionfo per visitare il Colosseo e i desideri affidati alle monete sul fondo di Fontana di Trevi.

– Via Appia Antica. – disse mostrandogli la foto della strada lastricata e circondata da pini marittimi. – Era una domenica, o un festivo, non ricordo ed eravamo andati a fare un giro perché avevo dei giorni di ferie. Ho bloccato tutti pur di fare questa foto.

– Non ti piace far mettere in posa la gente?

– Lo trovo ridicolo. La gente che è pensierosa o fa qualcosa è affascinante. Il paesaggio è affascinante. È un momento che non ricapiterà più, una cosa immortalata nel tempo. Domani quella gente farà altre cose e quel paesaggio sarà diverso. Non grandi cose, magari cambierà il gioco di luci o ci saranno le nuvole o sarà appassito un fiore e sbocciato un altro. Non mi piace fotografare la gente in posa, è una cosa costruita e la sento finta.

– E questa? – domandò Christian indicando la foto di un ragazzo con la sciarpa della Roma attorno al collo mentre esultava. Lo aveva immortalato nell’attimo in cui saltava in piedi, rovesciando la sedia e urlava per la felicità. Negli ultimi minuti della partita aveva tirato fuori la sua fedele Nikon e l’aveva regolata in base alla luce del locale pur di immortalarlo. La gioia dipinta sul suo volto scaldò il cuore di Verity. – Che storia c’è dietro questa foto?

– La Roma aveva appena vinto una partita. È stata scattata al bar dove lavoravo. I ragazzi che vedi sullo sfondo sono gli amici di Ale e lui è...lui è...Alessio. – si sforzò di dire con un filo di voce. – Il ragazzo della foto è lui.

– Mi dispiace, non...

Scosse la testa e chiuse l’album con un gesto secco. – Meglio che vada a dormire. Finirò domani. Grazie dei consigli.

– Verity...

Non aveva più voglia di ascoltarlo né di parlare di sé e della sua Roma. Ciò che aveva vissuto, ascoltato e respirato Christian non poteva capirlo e ora era stanca di parlare. – Buonanotte. – mormorò invitandolo ad andarsene. – Ci vediamo domani mattina per colazione.

– Buonanotte, Verity. – disse andando via.

Rimasta sola, aprì di nuovo l’album alla pagina dove l’aveva chiusa e fissò la foto. Quella era l’unica foto che avesse mai preparato in vita sua, l’unica per cui aveva tenuto la macchina fotografica pronta in attesa del momento giusto.

Strinse l’album di foto al petto, pensando al momento in cui Ale le aveva chiesto di andare a vivere insieme e le serate passate a guardare quelle stesse foto e a ridere, mentre lui la prendeva in giro per le sue manie. Le aveva fatto promettere di non fotografarlo mai mentre andava in giro in mutante per casa o si faceva la barba. Sorrise appena, pesando a quando fosse stato facile fargli quella promessa con l’idea di vederlo ogni mattina appena sveglia.

Quella che ora stava fissando era l’unica foto che possedesse di Ale. Forse, si disse, avrebbe dovuto farne di più quando ne aveva avuto l’occasione, che si stesse sbarbando o meno.

Prima di andare a dormire diede un'occhiata veloce al suo vecchio cellulare. Aveva ricevuto un messaggio.

Solo alcuni vecchi amici che aveva a Roma le scrivevano di tanto in tanto e lei rispondeva a fatica perché le ricordavano Ale. Il numero non le diceva nulla, a parte il prefisso internazionale francese. Lo cancellò senza pensarci due volte convinta che avessero sbagliato numero e fissò in silenzio il soffitto aspettando che il sonno la prendesse.

Il telefono vibrò di nuovo e il numero di prima scorreva sotto l'icona del messaggio in entrata.

 

Sono Zoe. Ho approfittato di un'offerta per cambiare numero.

Come stai? :)

 

Verity sorrise. Sì, era da Zoe approfittare della migliore offerta possibile sul mercato. Scrisse una breve risposta, rimanendo sul vago e la inviò. Un minuto dopo il telefono si illuminò di nuovo portando con se una risposta che le strappò involontariamente un sorriso. Non capiva perché, ma quella sera Zoe la stava capendo e aveva trovato con poche parole il modo di farla ridere.

Chiuse gli occhi, grata per quello scambio che le aveva risollevato l'umore.

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