JAG 1.0

di kk549210
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un caso inquietante ***
Capitolo 2: *** Luna di miele ***
Capitolo 3: *** L'eroe del momento ***
Capitolo 4: *** Una nuova vita ***
Capitolo 5: *** Morte ad Arlington ***
Capitolo 6: *** Errore umano ***
Capitolo 7: *** Tempo di ecografie ***
Capitolo 8: *** Il disgelo ***
Capitolo 9: *** Ti amerò per sempre ***
Capitolo 10: *** Azione difensiva ***
Capitolo 11: *** Lui è il CAG! ***
Capitolo 12: *** Affari di famiglia ***
Capitolo 13: *** Una doccia gelata ***
Capitolo 14: *** Sigari cubani ***
Capitolo 15: *** Hemlock ***
Capitolo 16: *** Un capo, un padre ***
Capitolo 17: *** Svegliati, Harm ***
Capitolo 18: *** Non temere, Livia ***
Capitolo 19: *** Visioni ***
Capitolo 20: *** Un anno a primavera ***
Capitolo 21: *** L'appuntamento ***
Capitolo 22: *** Julia ***
Capitolo 23: *** Notizie dalla Seahawk ***
Capitolo 24: *** Tutte le donne del Capitano ***
Capitolo 25: *** Accusato ***
Capitolo 26: *** Morte e Vita ***



Capitolo 1
*** Un caso inquietante ***


JAG 1.0
 
Disclaimers: i personaggi e il marchio JAG appartengono a Donald P. Bellisario. Questa fanfiction è stata scritta senza alcun fine di lucro.
 
NdA: La prima serie di JAG non viene quasi più trasmessa, forse perché ebbe a suo tempo una scarsa risposta di pubblico. Ora, con buona pace delle/gli shipper di Harm e Mac, la ripropongo in un AU che è una sorta di antefatto di “Amare è per sempre”. Confesso che mi è dispiaciuto molto dover uccidere il personaggio di Livia, nel cap. 10 di quella FF. Ora quindi lo faccio rivivere, riprendendo alcuni episodi della prima serie, ovviamente da una prospettiva totalmente mutata.
 
 

La nuova carriera da procuratore militare aveva molteplici aspetti accattivanti. La fase delle indagini, con il fascino emozionante della ricerca della verità, tra mille pieghe e ombre misteriose. L’alacre costruzione di una inattaccabile strategia processuale. Il dibattimento in aula, in cui sentiva sgorgare di nuovo quell’energia combattiva e quella grinta che avevano fatto di lui un Top Gun. Ma prestare servizio al quartier generale del JAG, all’ombra del Campidoglio e della Casa Bianca, presentava inevitabili risvolti politici duri da digerire. E così, il trentaduenne tenente Harmon Rabb jr aveva ricevuto l’ordine tassativo di partire su due piedi per Napoli. Un caso inquietante lo aspettava: la sparizione dalla portaerei Seahawk del tenente Angela Arutti, ormai una vera celebrità per i media. Era infatti la RIO del capitano Thomas Boone, il quale il giorno prima aveva abbattuto due Mig serbi sopra il cielo della Bosnia. Rabb era cosciente di essere stato gettato in pasto agli squali dal suo superiore, l’ammiraglio Albert Brovo, un pacioso clarinettista, ma ancor più dalla vera e propria eminenza grigia del JAG, il capitano di corvetta Theodore Lindsey. Quei due, dietro l’innocente parvenza di simpaticoni inetti al comando, nascondevano in verità l’astuzia volpina di due consumati politicanti. “Non si cade accidentalmente da un ponte di volo: ci sono troppe reti di protezione” pensava il giovane avvocato in divisa.  Omicidio o suicidio, quindi? Qualunque fosse la verità, era comunque scomoda. A maggior ragione in un momento in cui ferveva più che mai il dibattito sull’opportunità di mandare le donne in combattimento e l’opinione pubblica era spaccata in due.
“Ho proprio vinto alla lotteria!” rimuginava tra sé e sé. Non solo era dovuto salire su un C-130 con ancora indosso l’alta uniforme che aveva all’ambasciata francese per il tediosissimo ricevimento del 14 luglio, ma in quella missione gli era pure toccata per partner Caitlin Pike.  Una giovane tenente che si dava un po’ troppe arie da prima della classe –“E’ laureata ad Harvard, lei!”- e lo stuzzicava in continuazione, nonostante lui non facesse altro che piantarle dei semafori rossi davanti al naso. Primo fra tutti, l’anello che notificava con patente chiarezza il suo recente matrimonio.
 
 
 
-Eccola! – gridò entusiasta la Pike, quando dall’elicottero si poté scorgere la Seahawk – E’ la prima volta per me su una portaerei! E per lei?
Rabb non rispose nulla, limitandosi all’abbozzo di un tenue sorriso di circostanza, mentre il vento che entrava nell’abitacolo gli scompigliava il ciuffo.
“No, carina! Non è la mia prima volta su una portaerei… posso quasi dire di esserci nato! Ma non siamo qui per fare terapia di gruppo e io non ho voglia di raccontarti i fatti miei!” e ripensò quando, all’età di cinque anni, suo padre lo aveva messo per la prima volta a sedere a bordo di un caccia. Da quando era al JAG, non portava più il distintivo da pilota, per evitarsi la solita gragnuola di domande tanto curiose quanto inopportune e insensibili. Erano anni che non metteva più piede su una portaerei, dal giorno del suo incidente, e provò una lancinante emozione nel vedere le manovre del ponte di volo. Solo l’arrivo di un guardiamarina, responsabile delle pubbliche relazioni, tale Roberts, un giovane un po’ sovrappeso ma  simpatico e zelante, lo sottrasse alla catena di pensieri che lo aveva avvinto.
 
 
 
Harm aveva il forte sospetto di trovarsi di fronte a un caso di omicidio. All’alto comando di Napoli era pervenuto un lapidario messaggio, “è stata uccisa”, che però, come erano riusciti a dimostrare i tecnici in sala cifra, non era partito dalla Seahawk. La Pike invece era convinta, anzi ostinatamente radicata su quella stessa ipotesi, e non voleva essere contraddetta in nessun modo. Una RIO donna, molto graziosa per di più, non poteva non aver scatenato gelosie e invidie incontrollate su una nave con ben cinquemila uomini  a bordo. Tom Boone, il CAG, dissentiva completamente. “Non voglio donne sui miei aerei”, si andava ripetendo. Per lui la Arutti era solo una biondina cacasotto che non aveva retto alla tensione del suo primo combattimento e nottetempo si era buttata a mare. La Pike lo incalzava. Insisteva nel volerlo interrogare lì, sul ponte di comando, in pubblico. Voleva risposte subito, ma il CAG non era affatto dell’avviso. La tensione tra i due era al limite. Per evitare un’irreparabile esplosione, Rabb le ordinò di lasciare il ponte.
-Il CAG risponderà alle nostre domande al momento opportuno. Gliel’ha già detto, tenente! – le disse con uno sguardo molto eloquente, intimandole di recedere dalle sue intenzioni kamikaze. La sua collega si allontanò stizzita.  
 “Non ha i baffi, ma è la fotocopia di Hammer!” pensò Boone osservando il figlio del suo vecchio compagno di squadriglia, abbattuto in Vietnam. Aveva la sua stessa energia vibrante e lo stesso sorriso franco e luminoso.
-Come sta sua madre, tenente?
-Bene, signore. Ha aperto una galleria d’arte a La Jolla.
-E’ ancora sposata con quel venditore di macchine?
-Sì – rispose il giovane con un sorriso beffardo. Frank era un top manager della Chrysler, ma comprendeva l’ironia del CAG. Il suo patrigno non era un  Top Gun.
-Vedo che anche lei si è deciso al grande passo – osservò il CAG. Sapeva che il giovane Rabb aveva una fama di autentico ribelle e che si favoleggiava che prima dell’incidente e della diagnosi di cecità notturna fosse un aviatore degno della fama di suo padre. Ma non si aspettava certo che quella testa calda fosse sposato.
-Da tre mesi – rispose il giovane tenente. I suoi occhi cerulei brillavano fieri, proprio identici a quelli di Hammer.
-E anche lei è in Marina?
-No, signore. È un medico. Ed è italiana.
-Ottima scelta, ragazzo. Ha già in cantiere un piccolo aviatore di Marina?
-Non ancora, signore. Ma ci sto lavorando – fece Rabb con un sorriso.
 
 
 
Frammenti di verità. Voci di bordo che non sembravano potenziali testimonianze, quanto semplici pettegolezzi da comari indispettite. Nell’armadietto della vittima, un nastro magnetico vuoto. “Angela registrava tutte le missioni e poi le studiava. Probabile che l’abbia cancellato”, aveva detto Cassie Puller, la sua compagna di cabina. Una lettera di dimissioni, poi cestinata, e una ai suoi familiari, carica di nostalgia e di tristezza. Il berretto dell’Arutti recuperato dal fondo di una rete di protezione. Le indagini erano davvero intricate e sembrava che non si riuscisse a venire a capo di nulla. La Pike non aiutava certo a sbrogliare la matassa, ma continuava a scambiare la Seahawk  per una nave da crociera e Rabb per il suo fidanzatino. Stava diventando davvero intollerabile. Come quando Roberts aveva finalmente procurato loro un abbigliamento più consono alla portaerei e lei, vedendo Harm in tuta da aviatore, si era lasciata andare alle solite ammiccanti battutine sul fascino del distintivo. Poco ci mancava che tentasse di sbatterlo contro una paratia per sedurlo spicciamente. Ma ora finalmente si vedeva uno spiraglio nell’inchiesta. Pike lo attirò nella rientranza di un corridoio.
-Buone notizie, Harm. Il mio vecchio compagno di accademia, il tenente Lubin, è riuscito a decodificare il nastro cancellato – fece lei.
-Molto bene! – replicò lui soddisfatto. Poi, vedendo che la sua collega sembrava nascondere qualcosa di importante, aggiunse -  Altre novità interessanti?
Kate gli si accostò al viso e abbassò la voce con un tono molto suadente.
- Sì, mi ha detto che mi può dare la chiave di una sentina dove io e lei possiamo fare l’amore!
Harm ci vide rosso. Alzò la sinistra con fare minaccioso, cogliendo l’occasione per mostrarle ancora una volta la fede.
-Kate, se non vuole che le faccia rapporto all’Ammiraglio, la smetta all’istante con queste sciocchezze. E’ un ordine! Non mi importa se è laureata ad Harvard con il massimo dei voti o se ha vinto il concorso di reginetta di bellezza! Le indagini sono ancora a un punto morto e dobbiamo lavorare… ma se le piace tanto la sentina,  può sempre andarci con quel suo amico dell’accademia!
 

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Capitolo 2
*** Luna di miele ***


Gli era impossibile smettere di contemplare quella creatura che dormiva rannicchiata dandogli le spalle. La morbida massa dei capelli sparsa sul cuscino, le belle spalle da atleta, la schiena asciutta con le due fossette in fondo. Avrebbe voluto accarezzare ogni centimetro di quella pelle così sensibile, che sembrava quasi inspessirsi sotto il suo tocco. Ma non voleva svegliare quella donna che riposava così serena accanto a lui. La sua donna. Si erano sposati tre giorni prima, con una cerimonia semplice, stretti nel caldo abbraccio delle loro famiglie. La prima notte l’avevano passata in volo verso l’Italia, con i genitori e i fratelli di lei. La vetta più sublime del romanticismo. Quella successiva, il jet lag aveva letteralmente messo fuori uso la sposa, meno avvezza di lui ai voli intercontinentali. Harm aveva solo sperato di non essere condannato all’astinenza perpetua, anche se invidiava un po’ Livia e la sua fermezza. Tutte le relazioni fugaci che lui aveva coltivato fin da poco prima dell’accademia, con il solo gusto di sentirsi desiderato dalle ragazze più carine, non gli avevano lasciato altro che un gran senso di insoddisfazione. Ora invece si sentiva felice, nella piccola camera con vista del loro albergo, all’ultimo piano di un palazzo nel centro di Firenze.     
Lei si girò finalmente verso di lui e aprì gli occhi.
-Buongiorno, amore. Cosa fai? – gli chiese con la voce ancora assonnata.
- Guardo quanto sei bella – rispose lui, accarezzandole le vertebre a una a una.
-Ha parlato il bruttone – fece lei con quel suo sorriso dolce e un po’ beffardo. Era stata proprio la sua ironia che lo aveva fatto innamorare. La prima volta che l’aveva vista, si era soffermato solo sul suo aspetto fisico. Ma fin dalle prime parole che lei gli aveva rivolto, molto di malavoglia peraltro, aveva capito che lei non era come le altre. Non una ragazza da collezione, ma la donna con cui passare tutta la vita. Livia allungò la mano a disegnare il profilo della sua clavicola, fin sulla spalla. Harm si fermò a guardarla dritta negli occhi e le sorrise.
-Allora, era una cosa tanto terribile?
-No – rispose lei.
Vedendo che le sue fossette si imporporavano, il marito le baciò scherzosamente la punta del naso. Gli piaceva metterla in difficoltà qualche volta, proprio lei che era così quadrata. Quando arrossiva, gli sembrava una ragazzetta. Così le distanze tra loro si accorciavano, perché lui si sentiva un po’ meno l’immaturo della situazione. E tornavano ad essere quello che erano. Due ragazzi innamorati.
-Sarebbe bello se ci fosse già in viaggio un piccolo Rabb… - osservò lui facendole il solletico all’ombelico.
-Calma, Harm! Cos’è tutta questa smania? Deformazione professionale da Top Gun? Guarda che non è nemmeno il giorno giusto…
Lui inarcò le sopracciglia, dando ad intendere che non aveva capito quasi nulla.
-Sarai anche un esperto di anatomia femminile, ma in fisiologia hai bisogno di molte lezioni! – lo canzonò lei.
-Ah sì? Allora ho fatto bene a sposarmi una dottoressa. – replicò divertito lui – E la sai una cosa?
-Cosa?
-La tua città è meravigliosa. E anche la tua famiglia mi piace un sacco. Ma ho pensato che sarebbe bello starcene un po’ per conto nostro, al mare. Che ne dici di una settimana in barca?
-No… Sei anche un velista… Ho sposato un mostro! – disse lei accarezzandogli il viso leggermente velato dalla barba.
-Non esperto, ma me la cavo… Ho noleggiato una barca in un posto che si chiama… Portoferrato
- Vuoi dire Portoferraio. Fantastico… all’Elba ci sono certi posticini carinissimi!
- Allora mi farai da secondo! E adesso, dottoressa Vannucci… – le sussurrò all’orecchio - … sono molto bisognoso di cure!    
      
 
 
 
Harm sospirò. Era ora di smettere di fantasticare guardando il soffitto. Sgusciò fuori dalla triste e angusta cuccetta che gli era stata assegnata sulla Seahawk e si preparò ad affrontare una nuova giornata di indagini. Doveva andare a Napoli per i risultati dell’autopsia sul cadavere del tenente Arutti. Per fortuna, ora almeno sarebbe stato vestito in modo adeguato, dato che da Washington era finalmente arrivata la sacca con i suoi effetti personali.
Tirò fuori la divisa kaki. Mentre la indossava, appuntandosi le decorazioni sul petto, sentì nella tasca un piccolo foglietto ripiegato. L’ingarbugliata grafia medica era di una mano inconfondibile “Per questa volta te la sei cavata con una dozzina di rose rosse. La prossima volta che sparisci ti dovrai inventare qualcos’altro per farti perdonare.”
Quanto avrebbe preferito essere su quel bellissimo mare italiano con Livia, in barca a vela come nella loro luna di miele all’arcipelago toscano, anziché su quella portaerei che puzzava di nafta, con le orecchie sfondate dal rombo degli F-14 che ormai poteva guardare solo da lontano. 

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Capitolo 3
*** L'eroe del momento ***


“Era così su Hanoi?” aveva chiesto Harm al CAG durante il volo notturno. “Al prossimo passaggio ci aspetteranno. Allora sarà come su Hanoi” aveva replicato Boone, poco prima di essere ferito. Correndo nel parco, in quella calda mattinata di agosto, il giovane tenente riandava con la mente alla recentissima avventura sulla Seahawk. Volare di nuovo su un F-14, sul sedile del RIO, durante una delicata missione Atars. Attraversare il fuoco incrociato della contraerea serba, un pericoloso ed elaboratissimo spettacolo pirotecnico. “Come su Hanoi”. Come suo padre.
Incrociò un gruppetto di persone che correvano in direzione opposta alla sua. Un corteggio di nerborute guardie del corpo intorno a un uomo brizzolato e sorridente, che passando oltre lo salutò con la mano. Rabb ricambiò con stupore e cordialità.     
-Buongiorno, signor presidente! – esclamò con un sorriso.
Senza nemmeno volerlo, era divenuto una piccola celebrità. Riportare giù un caccia pilotandolo dal sedile posteriore non era certo una manovra semplice. Soprattutto per un avvocato del JAG che aveva lasciato i Tomcat da almeno quattro anni, con una diagnosi di cecità notturna sulla cartella clinica. “Non devo ringraziarti, ragazzo. Sei un aviatore di Marina, hai fatto solo il tuo dovere” gli aveva detto Boone dal suo lettino dell’infermeria. Ma i giornalisti non erano dello stesso avviso. E anche la brillante conclusione del caso Arutti aveva amplificato la visibilità del giovane tenente. Interviste e fotografie, e persino una conferenza stampa per la quale lui aveva riappuntato sulla divisa le sue ali d’oro. Per sempre. “Alla faccia di quei due volponi di Brovo e Lindsey che volevano gettarmi in pasto agli squali” aveva pensato con una punta di sarcastico orgoglio.
 
 
 
Fresco di doccia, ma non sbarbato, accolse dalle mani di Livia la sua colazione. Si sedette sul divano e appoggiò piatto e tazza davanti a sé, sul tavolino. Era finalmente sabato e non dovevano correre via di fretta come al solito. Sua moglie si sedette accanto a lui e gli accarezzò il mento ispido. Impazziva per quel suo aspetto informale e un po’ selvaggio e Harm era ben contento di assecondarla durante i fine settimana, quando appendeva al chiodo uniforme e obblighi della vita in Marina. Ricambiò volentieri la carezza e fece scivolare una mano tra i capelli di Livia, sciogliendo lo chignon in cui erano raccolti. Poi la calamitò a sé in un lungo bacio.
-Ora però basta, o si fredda la colazione! – lo rimproverò lei.
-Sì, mamma! – rispose Harm con un sorriso che celava la delusione.
-La prossima volta ti servo il caffè surgelato…
“Il mio bambinone. Il primo della serie…” pensò mettendosi una mano sul ventre.
-Vista la stagione, non sarebbe poi così male. Shakerato, però… Mi raccomando! Ma tu prendi solo un tè e una fetta di pane tostato? – fece lui osservando l’esiguo pasto della moglie.
-Sì, non mi sento tanto bene. Preferisco stare leggera.
-Non sarà colpa della cena di ieri sera? – chiese Harm preoccupato, vedendola un po’ pallida.
-No, no. Non è quello. Sei un cuoco fantastico, anche se noi italiani lo facciamo meglio. Ad ogni modo, sai che ho sempre avuto lo stomaco di ferro.
-  Ci credo, con quello che cucinavano i tuoi coinquilini… Maryamma non è male, quando non rovescia intere bustone di curry in qualunque ricetta… ma Simon è semplicemente disgustoso…
- A proposito di coinquilini… tesoro, quand’è che cambiamo casa? Questo tuo appartamento da scapolone pentito è un po’ piccolino… e poi non sopporto più di svegliarmi ogni mattina con l’inno dei Marine.
-Hai ragione. Ma è sempre meglio della sveglia. Va bene, cercheremo qualcosa di più adatto, però vicino a un parco o a un’area verde. Non mi piace iniziare la giornata correndo in mezzo al traffico.
-OK. Grazie, amore – disse Livia accarezzandogli dolcemente la mano.
-  Sai che al parco ho incrociato Clinton che correva anche lui? Mi ha fatto un gran saluto…
- Bè, ormai sei una celebrità. Dopo quel volo mirabolante e tutta quella visibilità mediatica. E il Presidente ha il dovere di conoscere i suoi uomini.
- Cara, è stato pazzesco. Non pensavo che sarei mai più riuscito a pilotare un Tomcat, soprattutto di notte…
-Se ce l’hai fatta,  forse la diagnosi non era corretta. O forse la cecità notturna è regredita.
-Può essere possibile? –chiese lui attento, inarcando le sopracciglia.
-Non sono un’oculista, ma ci sono stati casi di ripresa quasi completa della visione notturna, anche in seguito a traumi o lesioni.  
- No, non è possibile. Vedevo tutto annebbiato… sfuocatissimo. Come quando ho avuto l’incidente. E’ stata solo fortuna.
- Secondo me dovresti farti visitare di nuovo da uno specialista… – si avvicinò ancor più al marito e cercò il suo sguardo – Harm, se potessi tornare a fare l’aviatore, lo faresti?
-Intendi dire in servizio attivo? – puntualizzò lui.
-Sì – fece lei.  Voleva saperlo ora, prima di comunicargli la sua notizia. Suo marito non si doveva sentire in nessun modo obbligato  a vivere una vita che non sentisse totalmente sua.
 

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Capitolo 4
*** Una nuova vita ***


Harm si schiarì la voce per rispondere a quella domanda così diretta, e ora più che mai legittima, della moglie.
-Mentirei se ti dicessi che non ho voglia di volare. Insomma, mi viene soltanto quando sono a bordo di una portaerei, o se vedo un aereo o quando mi faccio la barba o se mangio una pizza o se vedo un film… - le disse guardandola intensamente con i suoi profondissimi occhi cerulei. Livia deglutì nervosa, temendo un po’ il seguito – …ma la mia vita ora ha preso un altro corso. Ho trovato un nuovo modo di servire la Marina. E soprattutto ho trovato te. Non mi va affatto di passare turni di sei mesi su una portaerei senza tornare mai a casa. Questo non esclude che io salga su un Tomcat, qualche volta… OK?
La moglie annuì con un sorriso. Il fatto che lui fosse realmente appagato della sua nuova vita la rasserenava. Harm strofinò il naso contro il suo e prese a baciarla molto dolcemente, con studiata lentezza, e ad abbracciarla teneramente. Voleva che lei si sentisse al sicuro, che comprendesse a pieno di essere per lui la vera casa. E che la loro unione era la radice solida su cui costruire la loro esistenza. Desiderava tanto che in quel terreno fertile germinasse una nuova vita. “Bisogna lavorarci sopra” si disse e insinuò una mano sotto la maglietta di lei. “Non ora” pensò Livia a sua volta.
-Dammi un attimo di respiro! Ti devo far vedere una cosa… - gli disse alzandosi a malincuore dal divano.
Harm era doppiamente deluso. Aveva interrotto un momento davvero magico. E per che cosa, poi?
 -Guarda qua, sei sulla copertina di Aviation week di questo mese. E’ arrivato proprio stamattina – gli fece notare la moglie. “Dovunque si trovi, signore, suo padre sarà fiero di lei” gli aveva detto il responsabile del ponte di volo sulla Seahawk. Ora anche Livia lo era, nonostante la sua avversione al mondo militare. E questo lo ricompensava un po’ dell’interruzione del suo dolcissimo assalto amoroso.
-Un giorno tu sarai sulla copertina del Time, quando vincerai il Nobel per la medicina.
- Sì, se mai avverrà, avrò ottant’anni per gamba! - scherzò lei.
-Se fosse per me, in copertina ci staresti già ora… - la stuzzicò lui  - … su Vogue!
La guardò con ammirazione. Aveva sposato una donna di notevole finezza. Era elegantissima anche con una semplice polo grigia e un paio di jeans. E i nuovi, fantastici occhialetti verdi le conferivano un’aria ancor più affascinante.
-Temevo che sparassi qualche stupidaggine delle tue… e tirassi fuori qualche altra copertina- rise lei.
-No, io la mia donna non la condivido con nessuno, nemmeno in foto – le sussurrò Harm all’orecchio.
- Non guardi l’articolo all’interno? Per fortuna che è una rivista letta principalmente da uomini… il servizio è pieno di foto tue… e fai una gran bella figura - osservò Livia fingendosi gelosa.
-Guarda che nelle forze armate ci sono anche le donne! – fece lui sfogliando distrattamente le pagine – Meglio non approfondire quello che hanno tentato di farmi alcune, anche recentemente…
Livia non sentì nemmeno. Era troppo concentrata sulle mani del marito che erano arrivate nel punto che le interessava e ora tenevano in mano un piccolo fascio di fogli bianchi infilati dentro la pubblicazione.
-Che cos’è questo? – chiese Harm stupito.
-Analisi del sangue – ribatté Livia fingendo indifferenza.
-Sei malata? – fece lui con aria preoccupata.
-Niente che non si risolva tra una trentina di settimane… - disse lei, mentre il marito aggrottava la fronte – Sono incinta, di tre settimane.
Harm si sciolse al sorriso più splendido che si fosse mai sentito addosso in vita sua. Quello che sognava era già lì, concretamente. Abbracciò di nuovo sua moglie, con una tenerezza e una delicatezza che non si conosceva. Il gioioso e appassionato calore di un futuro padre.
-Sono l’uomo più felice del mondo! – esclamò, ripensando a quel sabato pomeriggio di tre settimane prima, quando l’aveva portata fuori con Sarah, per farsi perdonare una missione improvvisa su un sottomarino messo sotto scacco da un pericoloso hacker – Che bello! Il quarto aviatore della famiglia Rabb!
- Chi? Harmon Rabb III? No, ti prego… concedimi un po’ di originalità! E se fosse una bambina?
-Fantastico! Una bella principessina… nella famiglia Rabb siamo maschi da generazioni, mi piacerebbe tanto avere una figlia! Oppure anche due bei gemellini, una femmina e un maschio!
-Il solito megalomane! Io preferirei avere un figlio alla volta, ma lo scopriremo all’ecografia…
-A me va bene comunque, purché sia sano.
-Purché ci sia – replicò lei.
Harm era colpito dalla forza di sua moglie. Dalla fede profonda che la rendeva disponibile ad affrontare qualunque incerto della vita. E anche dalla sua profonda lealtà, poiché gli aveva voluto chiedere del volo prima di dirgli del bambino. “Ora ho un motivo in più per rimanere a terra”.
-Che ne dici… ce ne stiamo un altro po’ stretti stretti, tutti e tre? – chiese Livia.
-Perché? C’è bisogno di chiederlo? – accettò lui con un sorriso.

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Capitolo 5
*** Morte ad Arlington ***


-Ci devi proprio andare? – chiese Harm con un’espressione studiatamente triste.
-Dai, amore… non fare lo sciocco!  Starò via appena quattro giorni. Capita solo poche volte all’anno. E poi è il mio lavoro. Cosa dovrei dire io, che ho un marito che sparisce un giorno sì e uno no per qualche destinazione remota? – replicò Livia ridendo e stampandogli un bacio sulle labbra.
Non voleva che lei partisse, anche se si trattava solo di pochi giorni. Ma non era per via del bambino perché, a parte qualche episodio di nausea mattutina, sua moglie godeva di ottima salute. Era lui a sentirsi a disagio. Soprattutto dopo il ricevimento della sera prima, all’ambasciata francese, uno di quelli in cui si è forzati ad assistere all’esibizione jazzistica del Presidente, durante il quale aveva fugacemente scambiato quattro parole con una persona che lo aveva di colpo catapultato nel suo passato di dolore. “Sembra che lei abbia visto un fantasma”, aveva osservato l’avvenente interlocutrice, lusingata dallo sguardo incantato che le rivolgeva il giovane tenente di Marina, scambiando quell’occhiata per un approccio seduttivo. Harm era rimasto turbato e l’eco profonda di quel malessere lo aveva lasciato sveglio tutta la notte e ancora lo stava tormentando. Angélique Sonsiri, la moglie dell’ambasciatore thailandese, con i suoi delicati tratti orientali, gli aveva riportato alla memoria Gym, la dolce ragazzina vietnamita barbaramente uccisa dai miliziani dell’esercito laotiano. Il purissimo e delicato amore dei suoi sedici anni.
-Dai, mollami… si sta facendo tardi. Cinque minuti e Freddy passerà a prendermi… -  ribadì lei cercando di sottrarsi alla stretta amorosa del marito.
-Freddy? E’ così che chiami il tuo capo?
-  Lo sai benissimo. Perché? Come dovrei chiamarlo… esimio professor Muller? Non siamo mica in Marina! Là vi date del lei anche tra parenti…
- Certo che il tuo professore non è affatto scemo… al congresso si porta te e Mary, le ricercatrici più carine. Lascia almeno che ti accompagni io, all’aeroporto! Così ti saluto come si deve…
-Combinato così? – fece Livia tirandogli scherzosamente l’elastico dei boxer.
Harm la attirò di nuovo a sé e la strinse con forza. Si sentiva confuso più che mai e non voleva rimanere solo ad affrontare i suoi fantasmi. Desiderava averla al suo fianco, appoggiarsi a lei. Aprirle tutto il suo cuore e riceverne conforto.
Il telefono squillò. Lei si sentì quasi sollevata, poiché quella strana atmosfera che aveva percepito al suo risveglio non la lasciava affatto tranquilla. Doveva essere una delle perturbazioni che periodicamente attraversavano l’orizzonte esistenziale di suo marito, la cui eziologia le era sempre più chiara. Ormai era consapevole che l’incupimento di Harm era quasi sempre dovuto a fatti o persone che in qualche modo lo riportavano a suo padre e alla sua ignota sorte. Capitolo che lui faticava ancora ad affrontare, anche se Livia aveva notato che dopo il matrimonio si stava sforzando sempre più di aprirsi e di cercare con lei un dialogo profondo.      
-Rabb… sì, venti minuti e sono lì.
- A ciascuno il suo! – esclamò dandogli un ultimo bacio di saluto e accarezzandogli la guancia – Harm, ci sentiamo stasera… “Se ha un nuovo caso da seguire, almeno non si scioglierà il cervello nelle sue angosce. Non temere, amore! Tra quattro giorni sarò di nuovo qui, con te…”
“Torna presto, Livia. Ho bisogno di te. Intanto, lavorare mi distoglierà dai pensieri negativi… Tanto quella Angélique non la rivedrò più” pensò Harm congedandosi dalla moglie e correndo in tutta fretta a vestirsi.
 
 
 
Il nuovo caso, anziché fungere da diversivo, aveva complicato ancor di più la situazione. Il tenente Harbin, ritrovato ucciso nel cimitero di Arlington, altro non era che la probabile terza vittima di un omicida seriale. Tutti tenenti di Marina, uccisi con ferite al petto. Gli indizi, per di più, facevano convergere i sospetti sull’ambasciata thailandese, dove sembrava essere in vita un perverso triangolo tra il diplomatico, sua moglie e il loro responsabile della sicurezza, il colonnello Patano.  
E ora in casa Rabb volavano le pallottole. Un cecchino si era appostato sul tetto di fronte. Non difficile indovinare che si trattasse del colonnello stesso, restava solo da decidere se la vittima designata fosse il padrone di casa o uno dei tre ospiti, più o meno graditi, che quella mattina si erano presentati alla sua porta. La signora Sonsiri dal sorriso ammaliante e ambiguo, Meg che portava i rapporti della polizia sui tre omicidi, o l’ex seal Markwood, testimone oculare del delitto Harbin. Nel dubbio, Harm si precipitò giù per le scale e attraversò la strada schivando i colpi del feroce tiratore, per salire poi in cima al palazzo dirimpetto e neutralizzare quel bestione pelato. Quella gragnuola di proiettili ad altissima precisione gli suonava tanto come una patente dichiarazione di colpevolezza.   
 
 
Il giorno seguente, si sentiva ancora intontito per la massiccia dose di antistaminico che gli era stata somministrata a tradimento. Angélique si era rivelata una povera donna disturbata, una figlia della guerra del Vietnam che non era riuscita a superare il trauma dell’abbandono. E così, un innocente appuntamento per un drink si era tramutato in un convito mortale. E se non fosse stato per la Austin che aveva risolto il caso ed era corsa tempestivamente in suo aiuto, Rabb sarebbe andato ad arricchire la serie dei tenenti di Marina drogati e accoltellati dall’affascinante assassina dagli occhi a mandorla.
Dopo la sfortunata avventura, Harm aveva ottenuto la giornata libera. “Lindsey si prenda pure il merito della soluzione del caso” aveva detto a Meg, passata di buonora a controllare il suo stato di salute, o forse per qualche altro scopo. Non gli sfuggiva certo che la sua giovane collega pendeva letteralmente dalle sue labbra ed era tutta gentilezze e sorrisi per lui. Prese la vecchia foto di Gym, che aveva tirato fuori proprio in quei giorni, e la ripose in fondo a un cassetto. In mezzo a vecchi oggetti dimenticati. Nel passato, all’unico posto che le spettava. Poi tirò fuori l’aspirapolvere dallo sgabuzzino.    
“La casa è un macello. Se non mi muovo a sistemare e a chiamare un vetraio, sarò anche sopravvissuto a un cecchino thailandese e a una pazza serial killer, ma stasera ci pensa Livia a farmi secco”.

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Capitolo 6
*** Errore umano ***


-Lo riporti in assetto! Così rischiamo di schiantarci! – gridò il tenente Tess McKee dal seggiolino del RIO. L’F-14 stava procedendo a volo rovesciato a un centinaio di piedi da terra.
-Disinserisco l’Aptern, tenente – disse Rabb con un tono che voleva rassicurare più se stesso che il suo secondo. Quella missione era indubbiamente pericolosa, una sorta di suicidio annunciato. Ma lo doveva al tenente Luke Pendry, suo compagno di stanza all’accademia di volo. Con una brusca manovra a 9G, riportò l’aereo in posizione e riprese rapidamente quota. Ma il monitor dell’Aptern, il nuovo sistema computerizzato fornito dalla Macroplex, continuava a indicare l’assetto rovesciato. Harm era soddisfatto: la sua teoria investigativa era confermata. L’incidente in cui Pendry e il suo secondo pilota Marcus avevano perso la vita non era dovuto a un errore umano, come i rappresentanti della società fornitrice continuavano a sostenere, ma al malfunzionamento del sistema, che non era tarato per sopportare gli appontaggi a cui erano sottoposti i velivoli della Marina. La scoperta della verità non avrebbe riportato in vita Luke, ma avrebbe almeno riabilitato la sua memoria. Per Annie, la sua amata di un tempo, e per Josh. “E’ già difficile crescere senza padre, doversene anche vergognare è terribile” aveva pensato Harm. Si era rivisto nel piccolo Pendry, un bambino di soli otto anni, che lo aveva scrutato dietro la finestra della sua casa di La Jolla. Proprio come aveva fatto lui alla vigilia di Natale del 1969, quando due uomini in divisa si erano presentati a casa Rabb con la terribile notizia.
 
 
 
 
Livia era sempre più tesa e preoccupata. Dopo la missione a Miramar e l’indagine sulla morte di un suo amico pilota, Harm era rientrato a Washington molto incupito e impenetrabilmente chiuso in se stesso. Erano già passate tre settimane e la situazione non accennava a migliorare. Anzi, qualche sera prima, in occasione di una serata di raccolta fondi per la Clinica Universitaria di Georgetown, si era addirittura esibito in una inspiegabile ed esagerata scenata di gelosia.
“Non vorrai mica metterti quel vestito!”, l’aveva aspramente redarguita vedendola indossare il suo abito da sera rosso.
“Perché, che cos’ha che non va? In effetti mi sta un po’ tirato… ma non mi sembrava il caso di comprarne uno nuovo. Alla prossima serata ufficiale, avrò partorito da un pezzo…” aveva ribattuto lei con onesto candore.
“Sei mezza nuda! E’ evidente che ti vuoi cercare un amante… “ aveva insistito lui, cercando di sistemarle con poco garbo la scollatura.
Con lei non si era mai mostrato così intrattabile. Ma ora erano arrivati al punto più basso del loro matrimonio, dopo poco più di sette mesi. Fino ad allora Livia, con delicata fermezza, era sempre riuscita a sciogliere i nodi che si presentavano lungo il cammino. Come quella volta che Harm aveva incontrato un’affascinante donna orientale che aveva ridestato in lui un fantasma del passato. E anche se a fatica, il marito le aveva raccontato di Gym, il suo primo amore, e della sua tragica fine. Livia non lo forzava mai a parlare, ma aspettava pazientemente, mostrandogli in tutti i modi il suo amore e la sua comprensione. Era cresciuta in una famiglia solida e piena di affetto, circondata dal calore e dal sostegno dei suoi genitori e allietata dalla presenza di due fratelli. Si considerava una privilegiata in confronto ad Harm e quindi aveva sempre fatto di tutto per rispettare i suoi tempi. Ma ora si sentiva del tutto spiazzata da quel marito così taciturno e allo stesso tempo tanto insistente e pressante dal punto di vista fisico. Come se i rapporti intimi fossero divenuti per lui l’unica forma di comunicazione tra loro.
Si sedette sul letto a leggere un libro, nella vana speranza che Harm la lasciasse in pace. Le dispiaceva molto sottrarsi alle sue richieste, ma non voleva nemmeno vivere la frustrazione di stare tra le braccia di un uomo che sentiva intimamente sempre più distante. In quella carnalità così irruente e appassionata intuiva ossessione, senso di possesso, disperazione, paura dell’abbandono. Ma non riusciva a trovarne l’eziologia. “Come fa Mister America ad essere geloso di questa nanetta quattrocchi?”, si chiedeva. La situazione si era fatta insostenibile. Quella sera Livia si sentiva un po’ in ansia anche perché il giorno successivo si sarebbe dovuta sottoporre all’ecografia morfologica, una tappa importante nella vita di due genitori in attesa. Era giunto quindi il momento di fare qualcosa. Doveva ritirare fuori dalla naftalina la sua lingua tagliente, anche a costo di doverlo ferire. Una stoccata a fin di bene. Un colpo inferto per amore.
-   Che bella questa pancina! – disse lui stendendosi accanto a lei e cominciando ad accarezzarla, sopra e sotto la camicia da notte. “Ci risiamo!” pensò lei, ma per il momento preferì fingere indifferenza, continuando a leggere. – Che ne dici di sfilarti la camicia? Ho voglia di fotografarti!
“Eh, no! Questa volta è troppo… un discorso è farsi delle foto in spiaggia, un altro trasformarsi nello Hugh Hefner delle donne incinte!”. Mise giù il libro e gli occhiali, appoggiandoli sul comodino.
 -Harm, per favore… Non ho voglia di giocare! – gli disse con tono fermo, cercando il suo sguardo.
-Smettila di fare la bacchettona… ora siamo sposati! – replicò lui senza nemmeno alzare il viso e cominciando a baciarla sul collo.
-Appunto, siamo sposati! – fece lei staccandosi bruscamente e costringendolo a guardarla in viso - Perché non mi parli più, Harm?
-Non ce la faccio… - ammise lui a voce molto bassa.
-E io non sopporto più di essere trattata come un oggetto sessuale!    
Gli occhi di Livia, verdissimi di rabbia e di preoccupazione, incrociarono quelli cerulei del marito, pieni di una nebbia malinconica e indecifrabile.
-Perdonami.
E le baciò la mano con grande dolcezza. Poi si coricò e non disse più nulla. Anche Livia si mise sotto le coperte, in silenzio. Nutriva in cuore la speranza di aver fatto breccia in quel suo muro di ostinato isolamento. “La notte porta consiglio”, si disse asciugandosi una lacrima.

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Capitolo 7
*** Tempo di ecografie ***


-Ti dispiace se tengo io la cartella dell’ecografia? – le chiese Harm quando furono rimasti soli nell’ambulatorio, mentre lei si rivestiva. Aveva uno sguardo così carico di attesa, che lei ne fu molto colpita.
- No, assolutamente… prendila pure.
-Sta’ tranquilla, mamma. Non la perdo – replicò con il suo sorriso più affascinante.
Livia si sentì rinfrancata. Da quando lui era tornato da San Diego, non aveva più visto il viso del marito illuminarsi a quel modo. Forse la doverosa e amorevole strigliata della sera precedente aveva sortito il suo effetto. Ma senz’altro il merito del piccolo miracolo era da attribuire al loro bambino. Perfettamente sano e pieno di vita. Quando il battito del suo piccolo cuore si era reso udibile, l’orecchio della madre aveva filtrato tre soli suoni nella stanza. Una perfetta orchestrazione sinfonica, l’intreccio semplice ed armonico dei loro cuori. Il cuore della loro famiglia. Anche Harm aveva percepito una sensazione analoga, se lo sentiva, perché le aveva stretto dolcemente la mano e sorriso tenuemente, con l’occhio perso in una indescrivibile bruma di emozioni. La conferma di quella armonia temporaneamente ritrovata era venuta quando il ginecologo aveva fatto notare che, se volevano, era in grado di determinare il sesso del nascituro.
“No” aveva risposto Harm, cercando conferma nello sguardo della moglie “Vogliamo tenerci la sorpresa. Preferiamo fantasticarci un po’ sopra”.
Livia ne era felice. Non voleva ipotecare il futuro del loro bambino, ingabbiandolo in stereotipi di genere ancor prima della nascita, ed era fiera che suo marito fosse sulla stessa lunghezza d’onda. Sperava solo che le trasmissioni non si interrompessero di nuovo bruscamente.
-Ora devo andare, cara. Ma non ti preoccupare, questa sera vengo a prenderti al laboratorio… - le disse con grande premura.
-Non importa, ci vediamo a casa. Prendo la metro.
-No, non voglio che tu viaggi in mezzo alla calca.
- Allora posso tornare in taxi o chiedere un passaggio a un collega…
-Sicura? – insistette lui.
-Sì, vai tranquillo.
Harm si chinò a baciarle la fronte e ad accarezzarle il viso. Lei gli sorrise e scorse nel suo sguardo l’alba di una pacata calma. “Un altro passo avanti, tesoro mio”, pensò accarezzandosi il ventre.
 
 
 
 
Per tutto il resto della mattinata, Harm aspettò con ansia la pausa pranzo. Il momento in cui il JAG diventava semideserto e lui poteva starsene in santa pace. Non era tanto difficile liquidare un eventuale invito della Austin, che quelle ultime settimane stava lavorando in archivio. Bastava dirle che era rimasto indietro con lo studio di alcuni documenti e lei si ritirava in buon ordine, con un sorriso docile e un po’ zuccheroso. Giunta l’ora tanto agognata, si chiuse quindi nel suo ufficio e tirò le veneziane per non essere disturbato. Voleva stare solo con quelle immagini tanto dolci che potevano riconciliarlo con l’esistenza e con se stesso. La morte di Luke, con tutte le sue implicazioni emotive ed affettive, lo aveva completamente sconvolto. E aveva scatenato una vera e propria battuta d’arresto nel suo rapporto con Livia. Si sentiva fragile e allo stesso tempo colpevole. Sia perché aveva rischiato seriamente la vita riproducendo le condizioni dell’incidente, sia per il turbamento  che avevano provocato in lui la vista di Josh e, soprattutto, l’incontro con Annie dopo tanto tempo.
Quella mattina, proprio nel momento in cui avevano sentito il cuore del loro bambino battere forte, si era reso conto di non essere più innamorato di sua moglie. E aveva realizzato di avere agito con troppa leggerezza. Erano passati appena diciotto mesi dal loro primo incontro, alla caffetteria centrale dell’Università di Georgetown, e nel giro di poco, a primavera, sarebbero diventati genitori. Durante l’ecografia aveva capito di essere volato in un’altra dimensione. Ora amava Livia. Era profondamente amareggiato di avere vissuto con superficialità il loro rapporto, lasciandosi trasportare da un entusiasmo quasi fanciullesco nei momenti di felicità e adesso, nell’ora della vera prova, quasi escludendola dalla sua vita e considerandola poco più di una piacevolissima amante. Harm accarezzò l’immagine del piccolo essere che galleggiava dolcemente nell’utero materno. Si sentì sgorgare in cuore un istintivo desiderio che si trattasse di una bambina, per rompere quella sorta di maledizione che colpiva da tre generazioni i maschi di casa Rabb. Ad ogni modo, ora doveva e voleva andare avanti, liberarsi dai fantasmi del passato per guardare al futuro e dare spazio alla vita nel suo libero, armonioso fluire. Avrebbe aperto il suo cuore a Livia, anche se gli costava una fatica sovrumana. Soprattutto perché le stava celando qualcosa che poteva farla soffrire, e non poco.

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Capitolo 8
*** Il disgelo ***


Rientrato a casa, Harm  trovò la moglie intenta ai fornelli. Contrariamente alle abitudini, si era già preparata per la notte. Anzi, si era letteralmente infagottata in una tuta scolorita e sformata. Un vecchio paio di occhiali con la montatura tonda metallica e i bei capelli raccolti in una treccia da castigata educanda completavano lo studiatissimo travestimento da ragazza brutta. Un repellente di innegabile efficacia contro qualsiasi slancio erotico maschile.
“Me la sono cercata” pensò Harm. “Nelle ultime settimane non ho fatto altro che pensare al sesso. Le sarò sembrato una bestia”. Le si avvicinò e la baciò sulla guancia per salutarla. Affettuosamente, in modo quasi fraterno. Lei non si sottrasse, ma gli sorrise con una dolcezza un po’ malinconica.
-E’ andata bene la giornata? – le chiese con gentilezza.
-Sì. Ma Mary si è un po’ arrabbiata perché voleva vedere subito le immagini dell’ecografia – rise Livia.
-Le donne… - sospirò lui.
- E a te, come è andata?
-Non male, in questo periodo il JAG è abbastanza tranquillo.
“Per fortuna” pensò lei “ne hai già avuto abbastanza con quella missione a Miramar. Devo scoprire che cosa è successo… è iniziato tutto da lì”
-Ah, Livia.. oggi mi hanno chiamato dall’agenzia immobiliare. La nuova casa sarà libera tra due mesi. Aggiungici un altro paio di settimane per piccoli lavori di ristrutturazione e potremo trasferirci.
-Spero che ce la facciamo prima possibile – disse lei sedendosi accanto a lui al bancone e porgendogli la scodella – Non so se riuscirò ad affrontare il trasloco quando sarò una balena.
-Non ti lamentare! Sei magrissima per essere incinta… sembri una modella!
-Sì, una Tap Model. E sono solo di ventidue settimane – osservò sconsolata rimestando con il cucchiaio.
-Una salutista come te non ha nulla da temere. E questa zuppa di legumi è fantastica, cara! – le disse accarezzandole la mano.
Durante la cena, la conversazione si mantenne su un tono leggero. Livia avrebbe voluto approfondire quello che c’era di irrisolto tra loro, ma per il momento si accontentò dell’atmosfera serena che da settimane non si respirava in casa. “Piuttosto che niente, è meglio piuttosto” si andava ripetendo. Harm si alzò, sparecchiò e dopo essersi rimboccato la camicia dell’uniforme, si mise all’acquaio.
-Vatti pure a riposare sul divano, ci penso io – fece tutto premuroso.
Livia pensò ancora una volta che il tenente Rabb, eroico Top Gun della Marina e astro emergente del JAG, fosse davvero un ottimo uomo di casa. Ma lei non si era sposata con lui per avere qualcuno le rigovernasse i piatti o che la stimolasse ad essere meno disordinata.
-Harm… - esordì rimanendo seduta dall’altra parte del bancone, per guardarlo negli occhi e tentare di dialogare con lui - … come ti senti oggi?
-Bene. Come ti ho detto, al JAG è tutto tranquillo – replicò lui senza alzare la testa.
-Non voglio parlare del lavoro, ma di te. E anche di me, visto che non siamo due semplici coinquilini che dividono le spese – puntualizzò con un pizzico di amarezza.
-Mi dispiace, Livia. Negli ultimi tempi sono stato una bestia. Ti ho trattato molto male – ammise Harm guardandola in viso con malcelato imbarazzo.
-Cosa è successo a Miramar, Harm? Sei tornato strano, chiuso… non ti ho mai visto così.
-Scusa se ti ho chiamato bacchettona. Tu non lo sei affatto.
-Non è questo il problema… dobbiamo parlare di quello che hai dentro.
-Non sai quanto vorrei farlo, ma non ci riesco – disse lui con un’espressione molto tesa.
Livia sospirò profondamente.
-Il nostro bambino è bellissimo. – continuò il marito – E’ il futuro. Vorrei tanto liberarmi dalle angosce del passato, ma non so come fare. Aiutami, ti prego… - disse asciugandosi le mani e avvicinandosi a lei.
Livia gli prese le mani e gliele baciò con dolcezza. “Un solo esame di psicologia clinica non fa di me una terapeuta, ma con un po’ di buon senso spero di poter fare qualcosa”.
-Sì, caro… Ma ora, perché non vai a farti la doccia e non ti prepari anche tu per la notte? Io ti aspetto di là.  

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Capitolo 9
*** Ti amerò per sempre ***


Harm uscì dal bagno e ai suoi occhi si offrì lo stesso quadro della sera precedente: la moglie seduta sul letto, intenta a leggere un libro. Era evidente che anche lei era preoccupata e cercava di distrarsi per sciogliere la tensione del momento. Ora lui non doveva lasciare passare altro tempo, ma sforzarsi di cogliere l’occasione per aprirsi con Livia e cercare di ristabilire una vera comunicazione. Si era reso conto che lei aveva compreso il suo imbarazzo nel parlare a quattr’occhi e voleva forse creare per lui una situazione più intima e accogliente.
-Vieni, tesoro – gli disse appoggiando libro e occhiali sul comodino e invitandolo sotto le coperte.
Harm si coricò accanto a lei e accostò la testa alla sua spalla.
-Posso starti vicino, così? – le chiese con un pizzico di timidezza.
-Certo, non siamo mica divorziati. Almeno, non ancora – rispose lei con un sorriso scherzoso, che accompagnò con una delicata carezza sulla guancia.
-Non mi lasciare – le sussurrò il marito all’orecchio – Ho fatto delle cose terribili…
-Sst, sta’ sereno. Scaccia via quest’idea balzana … – lo rassicurò lei – Vuoi che spenga la luce? Ti può aiutare a esprimerti più liberamente… e a non sentirti giudicato.
-Tieni solo quella sul tuo comodino, però, ti prego, non mi fissare…
-Va bene. Tu chiudi gli occhi e respira profondamente. Riuscirai a sentirti più rilassato…
Lui si affidò ai consigli della moglie e si sentì molto più sereno, ma aveva bisogno di lei per riuscire a rompere quella spessa coltre di ghiaccio che si era rappresa intorno al suo cuore.
-Livia, non so da che parte farmi. Ho un tale groviglio qua dentro. Perché non mi fai tu qualche domanda?
Lei sospirò e lasciò passare qualche minuto, nel silenzio e nella pace di quella luce soffusa.
-Ti andrebbe di raccontarmi che cosa è successo veramente a Miramar? So che è iniziato tutto di lì… Mi hai detto solo che dovevi indagare sulla morte di un tuo amico…
“Ha colto il nocciolo della questione. Ha capito la vera origine della mia angoscia. Non posso più tacere”.
-Luke Pendry era il mio migliore amico. Il mio compagno di stanza all’accademia di volo. Si è letteralmente schiantato con il suo F-14 durante un’esercitazione. Tutta colpa di uno strumento elettronico tarato male. All’inizio davano la colpa a lui. “Errore umano”, sostenevano quelli della ditta fornitrice, ma il mio istinto mi diceva che non era così. Non volevo credere che Luke fosse così incosciente da gettare via la sua vita e quella del suo RIO.
Harm fece una lunga pausa di silenzio. “Solo dettagli…” pensò Livia “Il macigno deve ancora tirarlo fuori”.   
-Glielo dovevo, Livia. Non potevo permettere che la sua memoria venisse infangata, che Luke passasse per un aviatore esaltato che pur di essere sempre il migliore gioca a fare il pazzo per il cielo… Luke ha lasciato un bambino di otto anni, Josh…
“Un orfano figlio di aviatore. Come te, amore mio. Quanto dolore ti sarà costata questa indagine: solo ora me ne rendo conto” si disse Livia e si strinse più vicina al marito per fargli sentire la sua calda vicinanza e il suo affetto.
-…  è già brutto crescere senza padre. Doversene vergognare, poi, è terribile. E allora, per dimostrare che Luke non aveva colpa, ho fatto una stupidaggine colossale. Una cosa che non mi perdonerai mai.
-Niente è imperdonabile, se chiedi perdono… - osservò lei con dolcezza.
Harm rimase di nuovo in silenzio. Si sentiva tremendamente in colpa per avere messo a repentaglio la propria vita per un principio. O meglio, di averlo fatto per Annie e per Josh. Aveva rischiato di lasciare sole la sua Livia e la loro piccola creatura non ancora nata per un’altra donna, per una famiglia non sua.
-Ho riprodotto le stesse condizioni dell’incidente. Ho fatto cinque appontaggi e poi il volo radente, come lui. Per un pelo non mi sono schiantato anch’io, Livia! – disse con un profondo e angosciato sospiro.
“Non hai fatto una stupidaggine. Hai fatto una solenne cazzata” pensò lei, sentendosi gelare il sangue nelle vene. Ma Harm non aveva bisogno di un severo giudizio, si stava già condannando da solo a sufficienza.
-Sentirti in colpa ora non serve a nulla, ti tira solo più giù. E’ passato, ormai. Quello che conta è che per il futuro tu eviti di metterti in pericolo…
- Non sono solo un avvocato, non posso garantirtelo al cento per cento. Ma starò attento, te lo prometto – e nella semioscurità aprì gli occhi e cercò il suo viso- Mi perdoni, allora?
-Sì – disse lei con schiettezza. Tenergli il muso non serviva a nulla. E poi, statisticamente parlando, era più pericoloso guidare l’auto che pilotare un F-14. Avevano entrambi le stesse probabilità di morire, lasciando l’altro solo.
-Non è tutto, Livia… - fece lui staccandosi da lei e chiudendo di nuovo gli occhi.
-Per via del bambino? Il figlio del tuo amico?
-Sì, ma non solo. Quando sono andato a casa sua, lui mi guardava dalla finestra con quel suo visetto così triste. Mi sono rivisto in lui, capisci? Quando alla vigilia di Natale del ’69 vennero due uomini in divisa a casa nostra… Sono stato davvero stupido a fare quel volo radente. Ho rischiato di non vedere mai nostro figlio… di lasciarlo solo, ancora prima che nasca… Mi sento tanto in colpa che vorrei sprofondare.
- Lascia stare, Harm. Ti ho già perdonato. Siamo qui tutti e tre, stiamo bene. E’ questo quello che conta.
-Sai a che cosa pensavo guardando l’ecografia? – disse Harm cambiando argomento, poiché la terza rivelazione, quella su Annie, gli costava davvero tanto.
-Dimmi…
-Mi piacerebbe tanto che fosse una bambina. Per rompere la maledizione dei Rabb, questa catena di morti e di orfani.
Livia rimase per un po’ in silenzio, a riflettere. I percorsi della mente di Harm a volte sapevano essere parecchio contorti. E a seguirli c’era davvero da smarrirsi, peggio che in un intricatissimo labirinto.
-Se hai cambiato idea e vuoi sapere di che sesso è questo piccolo tesoro… – disse accarezzandosi il ventre.
-… no, va bene così. Voglio aspettare fino a che non la vedo in faccia…
Lei sorrise dolcemente. Harm si girò sul fianco e le si accoccolò vicino. Livia gli accarezzò delicatamente i capelli.
“Non posso tradirla in questo modo. Devo parlarle, ma non so come fare”.
“E’ tenero e indifeso come un bambino. Deve ancora finire di vuotare il sacco, ma non sa da che parte farsi…”
-Mi sembri molto stanco. Spengo la luce, così possiamo dormire – fece lei allungando la mano verso il comodino. La stanza rimase immersa nella completa oscurità.
-Livia…
-Sì, tesoro…. – replicò lei tornando ad accarezzargli la testa.
-Tu mi ami ancora?
- Certo, Harm. Non ho l’amante chiuso nell’armadio. La nostra luna di miele è finita da un pezzo, e l’amore si è trasformato. È diventato più profondo, più concreto. Queste cose che ci stiamo dicendo stasera ci aiuteranno ad amarci di più, a volerci bene sul serio.  
Harm ruminò queste parole di Livia nella sua testa e nel suo cuore. Erano di nuovo sintonizzati sulla stessa frequenza, una nuova e che avrebbe garantito una comunicazione più efficace.
-Hai detto che avevi qualcos’altro da dirmi, oltre al fatto del bambino di Luke…
“M’ha beccato! Ha fatto finta di badare agli altri discorsi, ma in realtà non le era sfuggito il filo… per fortuna che non fa l’avvocato, altrimenti mi ridurrebbe in mutande ad ogni processo!”
-Sì, Livia… la moglie di Luke, Annie…
-Hai cercato di rincuorarla…
-Sì. Abbiamo parlato molto. Di Luke, del passato…
Per alcuni minuti calò di nuovo il silenzio.   
-Rivederla mi ha turbato più di quanto immaginassi. Ai tempi dell’Accademia di volo, quando l’ho conosciuta, mi piaceva molto. Anzi, penso di esserne stato innamorato.    
- E ora, lo sei ancora?
- No, ma rivederla mi ha fatto uno strano effetto. Mi ha fatto ripensare a quando ci provai con lei, ma lei preferì Luke. C’ero stato male all’epoca, sai?
-Lo posso immaginare. Non c’è situazione peggiore che trovarsi in competizione con un amico in faccende di cuore.
-Sei gelosa?
-No, Harm. Se tu non me ne dai motivo…
- Mi sento tanto in colpa, anche di questo. E’ un po’ come se ti avessi tradito…
-Se non sei innamorato di questa Annie e non hai fatto niente di male con lei, perché ti devi sentire in colpa? Sei solo stato gentile e premuroso con una persona cara che sta soffrendo.
-Mi perdoni?
-Sì, anche se mi sembra che non ci sia nulla da perdonare. Se sei stato innamorato di altre ragazze, è la cosa più naturale del mondo. Io e te non ci siamo messi insieme a quindici anni, ma non mi sembra il caso di darsi alla gelosia retroattiva. Anch’io ho avuto dei fidanzatini a Firenze, cosa credi? – fece lei virando al tono scherzoso.
-Non mi ci far pensare che mi va il sangue alla testa…
-Dai, Otello… smettila! Piuttosto, visto che sei in vena di confessioni… hai altre donne nascoste nell’armadio?
-Solo una. Diane, una mia compagna di Annapolis. Ma non penso che salterà fuori, dato che è imbarcata sulla Seahawk.
-L’importante è che non ti mandi in pappa il cervello…
-Di lei ero veramente innamorato, ma non ci ho mai fatto niente. Solo qualche bacio, e tante lettere d’amore.
“Lettere d’amore? Non ce lo vedo proprio… Il rude Harmon Rabb si è salvato anche dal dover scrivere le promesse matrimoniali, visto che ci siamo sposati con rito cattolico, altrimenti l’avrei visto molto in crisi…”
-Sai il paradosso, Livia? Sono stato a letto con un bel po’ di ragazze, ma mai con quelle di cui ero innamorato…
- Da Otello a Don Giovanni… spero solo che tu non ti metta a sciorinare la serie completa delle tue conquiste!
-Non scherzare, amore. E’ stato così fino al nostro matrimonio. Tu sei la quadratura del cerchio. La pace di questo animo incasinato e di questo corpo sempre in ebollizione.
Livia gli accarezzò il viso e lo baciò con delicatezza. Harm rispose con appassionata levità. Era la serata della tenerezza e della riscoperta.
-Ti amerò per sempre -  le sussurrò all’orecchio, e si abbandonò al sonno tra le sue braccia, sereno e appagato.
 
 
 
NdA: “Ti amerò per sempre –La scienza dell’amore”  è anche un libro di Piero Angela di qualche anno fa (2005 ca). E’ un bel saggio divulgativo pieno di curiosità scientifiche, quanto mai veritiere se confrontate con l’esperienza diretta dell’innamoramento e dell’Amore.         

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Capitolo 10
*** Azione difensiva ***


Il sottotenente Meg Austin era davvero emozionata e orgogliosa. Dopo alcuni mesi trascorsi tra tedioso lavoro d’archivio e casi di limitata importanza, ora era finalmente giunta la sua grande occasione. Il capo ad interim del JAG, Theodore Lindsey, l’aveva inviata a Napoli per un’istruttoria molto delicata, dal cui esito poteva dipendere il fragile equilibrio appena creatosi nei Balcani grazie agli accordi di Dayton. Il CAG della portaerei Seahawk, il pluridecorato capitano di vascello Thomas Boone, aveva abbattuto un Hind serbo nella zona di interdizione volo sopra la Bosnia. Questo era l’unico dato certo, poiché le due parti presentavano versioni del tutto discordanti. Per i serbi, l’elicottero si trovava lì per prestare soccorso ai piloti dell’F-14 di appoggio a quello del CAG, che si erano eiettati a seguito di un’avaria al motore. Boone giustificava invece il suo operato, sostenendo che l’Hind stava sparando al paracadute del RIO, il tenente Painter. Ma quest’ultimo era del tutto irreperibile, tanto che si pensava che fosse caduto vittima dell’implacabile cavalleria serba. Per evitare la rottura dei trattati di pace, il SecNav aveva disposto che il CAG fosse processato per l’articolo 92, disobbedienza all’ordine di “cessate il fuoco” e che la Seahawk venisse rimpiazzata in Adriatico dalla Thomas Jefferson.
Meg era quindi lusingata per questo nuovo incarico, non solo perché rappresentava una grossa opportunità per la sua carriera, ma soprattutto perché avrebbe potuto di nuovo assistere zelantemente Harm, nominato titolare dell’indagine e difensore di Boone in corte marziale. Harm, ovvero il neocapitano di corvetta Harmon Rabb jr. Il suo capitano.
La cerimonia di consegna dei gradi era stata molto semplice e informale, del tutto inattesa. Il capitano Lindsey li aveva convocati tutti e due nel suo studio, dove aveva offerto a Rabb un pregiatissimo Cohiba, ma lui aveva cortesemente rifiutato con un sorriso. Peccato, un bel sigaro profumato tra le dita di quell’uomo avrebbe completato la sua immagine virile, arricchendo con il suo aroma forte e un po’ pungente l’afrore maschio della sua pelle.  
-Sua moglie ha avuto un bambino? – aveva chiesto stupita Meg, accettando di buon grado il cubano al posto del suo collega e diretto superiore.
-Non che io sappia – aveva replicato Lindsey - Questo lo offre la Marina degli Stati Uniti. Complimenti, capitano di corvetta Rabb.
Lei aveva subito baciato con slancio il suo collega, che si era un po’ irrigidito.
-Ma come, non è contento? Spero che tocchi anche a me, quando mi promuoveranno – aveva osservato scherzosamente il loro capo.  
Meg si era un po’ pentita di quel suo gesto così spontaneo ed entusiasta, ma erano mesi che sognava quell’uomo così prestante e sicuro di sé che le faceva battere forte il cuore. Quando gli stava vicino, si sentiva emozionata e allo stesso tempo protetta. Nonostante la giovane età, Harm era un ottimo avvocato e un sagace investigatore: difficilmente il suo istinto lo portava sulla pista sbagliata.
Non poteva scordare la prima volta che si erano incontrati, a bordo di un elicottero, sul quale lui era stato caricato di gran furia, prelevato senza preavviso dal parco dove stava correndo. Le era come rimasta stampata nel cuore quell’immagine che le aveva letteralmente sconvolto i sensi: accaldato e un po’ trafelato, con i muscoli luccicanti di sudore messi in bella evidenza dalla canottiera da cui fuoriuscivano le sue braccia possenti, le belle spalle tornite e i pettorali turgidi. Quando Caitlin Pike le aveva detto che Harm era il degno protagonista di un sogno erotico ad occhi aperti, Meg aveva scosso la sua bella testolina bionda, credendo che fosse una delle solite esagerazioni della sua esuberante amica, un’autentica ragazza da rodeo. Ma la realtà superava di gran lunga ogni fantasia. Non era quindi insolito se Kate, come aveva maliziosamente ammesso lei stessa, aveva tentato con tutte le armi di sedurlo. Il sottotenente Austin era fatta di ben altra stoffa, quella di una tenera e romantica fanciulla del West che mai si sarebbe fatta avanti con un superiore in grado, a maggior ragione se sposato come il fascinosissimo Harmon Rabb jr. Ma quello della fantomatica signora Top Gun rimaneva un oscuro mistero. Harm portava la fede al dito e si comportava di conseguenza, in  modo cordiale e simpatico ma sempre corretto e ineccepibile; eppure Meg non ne aveva mai incontrato la moglie, sebbene fosse andata di buon mattino a casa di lui. Un piccolo appartamentino, più da scapolo avventuriere che da fedele ammogliato. Spesso si trovava anche ad arrovellarsi su come potesse essere la donna che era riuscita ad accalappiare quel meraviglioso esemplare di marinaio dai mille talenti. Se la immaginava alta, formosa e atletica. Un’intrigantissima bruna dai tratti vagamente mediorientali e dalla pelle ambrata. Un po’ come Sarah MacKenzie, la bella marine che Meg aveva avuto come compagna di corso alla Duke. Ecco, una così poteva essere proprio il tipo di Harm. Purtroppo.

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Capitolo 11
*** Lui è il CAG! ***


La corte marziale non lasciava spiragli positivi. Poche le prove a discarico del loro cliente. La radio del tenente Painter irrevocabilmente muta. Il cadavere del pilota dell’F-14 caduto, il tenente Winstler, talmente devastato dalle ferite che era quasi impossibile ricostruire le cause della morte. Il tenente Arnoldi, il RIO del CAG, confuso e spaventato dal pubblico ministero, l’implacabile capitano di fregata Alison Krennick, uno dei migliori avvocati del JAG che era stata inviata a Napoli proprio per il prestigio di quella causa e l’alta posta in gioco. Quella donna era un’autentica cagna da punta, affamata di successo in aula. E non solo di quello.   
-Ragionando sempre in via ipotetica, propongo questo accordo. Il CAG si dimette e io sciolgo la corte marziale – disse la loro bionda e accigliatissima avversaria.
-E io le rispondo di andare a farsi fottere. Ipoteticamente, ovviamente! – rispose Boone stizzito. Si alzò dalla sedia e uscì dallo studio del pubblico ministero, seguito a ruota da Meg.
-Il CAG ha ragione. Andiamo avanti con il processo – osservò il giovane neocapitano congedandosi dalla controparte.
-Allora è  vero quello che si dice di lei, che lei è un cowboy… - fece lei lanciandogli un’occhiata molto allusiva.
-No, sono solo un avvocato del JAG che è onorato di confrontarsi con lei in aula – replicò Harm con tono pacato.
-Vediamo se la penserà così alla fine del processo – replicò la Krennick un po’ irritata.
Meg capì subito quali erano le intenzioni di quella donna. Vincere, su tutti i fronti.
 
 
-Il segnalatore di Painter è attivo – comunicò De Palma, un giornalista invadente, vecchia conoscenza di Harm, che li aveva appena raggiunti nel ristorante di Napoli dove Meg, Rabb e Boone stavano cenando.
-Torno sulla Seahawk… e lo vado a cercare – disse di slancio Harm alzandosi da tavola – Tenente, le affido la direzione del processo!
-Ma capitano! – obiettò lei smarrita.
-Dovrà imparare, prima o poi – la rimbeccò lei – E’ un ordine, Meg.
-Sì, signore – disse lei chinando il capo.
Il problema non era affrontare la Krennick in aula, o gestire quell’osso duro di Boone, che era tutto tranne il cliente ideale. Il pensiero di lui, là fuori, a lanciarsi da un elicottero dei Marine, chissà dove, tra le stoppie dei campi della Bosnia, le faceva tremare le vene e i polsi.
Come previsto, il CAG fece di tutto per renderle la vita grama. Prima criticò aspramente la sua strategia difensiva, poi tagliò corto e la licenziò. L’arringa fu un’accorata e vibrante autoapologia. “È meglio difendere i propri uomini in combattimento, anche se si è impopolari. Il giorno che tradissi la loro fiducia, darei io stesso le dimissioni”. Ma il verdetto di non colpevolezza arrivò comunque. Anche se di stretta misura, quattro giurati contro tre.
-Ero sicura che fosse innocente, capitano – disse la Krennick stringendogli la mano, quando furono ritornati sulla Seahawk – facevo solo il mio lavoro.
Sul ponte di volo il vento soffiava forte. Da un elicottero appena posatosi, uscì fuori il tenente Painter, sorretto da Harm. Finalmente era tornato, sano e salvo. Meg sentì il cuore sussultarle pazzamente nel petto. Sollievo ed emozionante eccitazione si agitavano in lei. Una berrettaccia di lana nera, la tuta mimetica dei Marine e il volto imbrattato di nero, su cui spiccavano brillantissimi i suoi occhi chiari, lo rendevano insolito e magicamente eroico. In una parola, irresistibile. Lei dovette fare le acrobazie per trattenere il rossore che la imporporava tutta. Rabb si avvicinò al CAG e gli porse un pezzo di stoffa del paracadute di Painter.
-12,7 millimetri. I proiettili in dotazione agli Hind russi – sentenziò Boone con sicurezza.
-Vorrei vedere la faccia di quei tre che hanno votato contro – disse Meg.
-Non si può sapere chi sono – fece la Krennick molto seria.
-Io lo so… accidenti se lo so! – rise Boone.
-Come fa a saperlo? –chiese Meg allibita.
-Lui è il CAG! – esclamò Harm con un sorriso intrigantissimo.
-Signori, il caso è chiuso. – annunciò la Krennick – Siete liberi fino a stasera alle 21. Fatevi trovare all’aeroporto di Capodichino. Abbiamo un volo di linea alle 22,30.
-Allora ne approfitto per fare un salto a Roma… - disse Harm controllando l’orologio. Aveva nove ore esatte. Con un Eurostar avrebbe fatto in tempo ad andare e tornare con comodo.
-Turista nella Dolce Vita? – chiese Meg incuriosita.
-No, affari di famiglia – rispose laconicamente Harm, andando a fare i bagagli.
“Tanto non mi scappi, bel maschione” pensò la Krennick guardandolo mentre si allontanava.

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Capitolo 12
*** Affari di famiglia ***


Un pomeriggio romano davvero gradevolissimo. Lo spirare del ponentino portava con sé l’odore dei fiori che adornavano i balconi e le aiuole delle piazze del centro. Harm era letteralmente conquistato da quella città, in cui ad ogni angolo si svelavano le vestigia di una gloria millenaria e gli abitanti sprizzavano da tutti i pori un’ilarità un po’ rude.  Con la memoria riandava alla primavera precedente, quando l’aveva brevemente visitata con Livia durante  il loro viaggio di nozze italiano. Pochissimi giorni, ma davvero sereni e allo stesso tempo entusiasmanti. Scese dal taxi nei pressi di Santa Maria sopra Minerva e si diresse a lunghi passi verso la vicina piazza del Pantheon, ben contento che Mario gli avesse dato appuntamento in quel luogo così affascinante.
-Ciao, Harm! – vicino all’ingresso del tempio lo attendeva un bel giovane italiano. Un suo coetaneo alto, ma non come lui, castano di occhi e di capelli, con una bella barba corta e curatissima che gli ricopriva le guance.
-Mario, che piacere! Sono proprio contento di vederti… - rispose con slancio Harm, dandogli un’amichevolissima pacca sulla spalla. Mario rispose baciandolo su entrambe le guance, alla maniera fiorentina. “Paese che vai, usanza che trovi” si disse, pur non gradendo particolarmente quello slancio affettuoso da parte del fratello maggiore di sua moglie.
-Se fossi venuto una settimana fa, avresti trovato anche Luigi… pensa, i tuoi cognati tutti in blocco! – esclamò entusiasta Mario conducendolo al tavolino di un bar della piazza.
-Purtroppo non decido io le date dei miei viaggi – fece Harm con un sorriso – Livia mi ha detto che Luigi stava seguendo un corso di diritto canonico.
- Sì, all’Università Sant’Anselmo. Il nostro fratellino è un mostro. Ha la laurea in giurisprudenza, ha già finito gli studi di teologia, licenza compresa, e ora è anche specialista in diritto canonico. Niente male, per un futuro prete di soli trent’anni. L’ordinazione ci sarà in autunno, nel duomo di Firenze. Spero che possiate venire.
-Faremo il possibile, anche se a quell’epoca il bambino sarà ancora molto piccolo – replicò il cognato americano. E pensò con affetto al futuro don Luigi, un biondino dai modi spicci e dalla battuta sempre pronta. I tre fratelli Vannucci erano molto diversi tra loro, quasi una tavolozza di colori in gradazione, ma condividevano lo stesso carattere schietto e molto simpatico.
-Non mi hai spiegato bene, o forse sono io che non ho capito… perché sei venuto a Napoli?  
-Una corte marziale. Dovevo difendere un capitano, un aviatore, coinvolto in un vero pasticcio internazionale. Poco ci mancava che riscoppiasse la guerra nei Balcani…
-Accipicchia! Allora sei diventato un pezzo grosso! E hai vinto la causa?
-A dire il vero ha vinto la mia assistente. Io nel frattempo sono andato in Bosnia…
-In Bosnia? – fece Mario esterrefatto.
-Sì, a recuperare un secondo pilota, un testimone chiave per difendere il mio assistito. Stanotte mi sono unito a una squadra di Marine e mi sono paracadutato giù.
-E tu saresti un avvocato? – rise il fratello di Livia.
-Principalmente sì, ma il mio lavoro non esclude l’azione.
-Allora, Rambo… spero che tu non nasconda queste cose a mia sorella. Non se lo merita, sai? E’ una ragazza fantastica – Mario era orgoglioso di Livia, anche se era andata contro la tradizione antimilitarista della famiglia, sposando quell’armadio americano in divisa. Ma Harm era un tipo a posto, nonostante le ali d’oro e le decorazioni da eroe di guerra, e i Vannucci lo avevano accolto di buon grado nella loro famiglia.
-No, l’ho avvertita dalla stazione, poco prima di prendere il treno. Certo, non è il modo migliore per svegliare la propria moglie, soprattutto se è incinta. Ma tra noi non ci sono segreti – “Non più. E mai più” pensò tracannando il suo caffè.
Tra la barba del bell’italiano fece capolino un sorriso luminosissimo al vedere la faccia un po’ stravolta di suo cognato.
-Si chiama espresso perché è concentrato… Noi italiani lo beviamo così. Capisco che in Marina vi addestrino ad affrontare qualunque situazione, ma non ti dovevi sottoporre a questa tortura…
Harm ricambiò il sorriso.
-Ecco Guido! Guido, siamo qua! – fece Mario per attirare l’attenzione di giovane bruno e riccio, di media altezza, che li stava cercando con lo sguardo.
-Ciao bello – disse scambiandosi con Mario due affettuosi baci sulla guancia. Harm osservò che il saluto tra i due era molto caloroso. Si irrigidì un po’, pur intuendone già il motivo.
-Guido, questo è Harm, mio cognato…
-Ah, il famoso eroe! – fece l’amico stringendogli la mano.
-Non esageriamo – si schermì Harm con un sorriso.
-Guido è il mio salvatore, oltre che un grandissimo artista… Mi ospita mentre seguo i lavori in quel cantiere di cui ti ho detto. Altrimenti mi toccherebbe abitare in qualche tristissimo Bed & Breakfast per tutta la settimana…
-Bè, questo e altro per un vecchio amico! Anche se è un brutto raccomandato di preti e suore…
-Ma cosa dici? Roma è piena di cantieri, tra tre anni e mezzo inizierà il Giubileo – si giustificò Mario.
Harm li guardò divertito. Sembravano lui e Livia quando si punzecchiavano tra loro.
-Mario ha detto che sei un artista. Di che cosa ti occupi precisamente?
-Sono un fotografo. Ora insegno al Centro Sperimentale di Cinematografia, a Cinecittà. Il mio contratto scade tra quattro mesi.
-Complimenti, davvero.
-Poi vedremo…
-Poi si torna a Firenze! – disse Mario dandogli un pizzicotto sul braccio.
-Ho saputo del bambino, Harm. Sono davvero felice per voi. Mario mi ha mostrato le foto di Livia. È bellissima, più che mai. Ha una luce speciale negli occhi. Il matrimonio e la gravidanza le fanno davvero bene. Tra quanto nasce il bambino?
-  Ancora due mesi circa, a metà maggio. Ma tu conosci Livia? – chiese Rabb.
-Sì, certo. Io e Mario abbiamo fatto insieme le superiori…
-Sì, l’istituto tecnico per geometri. Io sono il somaro della famiglia – puntualizzò il Vannucci – Sono Livia e Luigi quelli che hanno fatto il liceo…
Harm rise perché sapeva che non era vero. Virgilio e Rosa, i suoi suoceri, potevano essere molto fieri di tutti e tre i loro ragazzi.
-… il rude ingegnere che progetta strutture! – lo schernì Guido.
-Bè, se me lo chiedi ti ristrutturo pure il Pantheon! – esclamò l’amico con un gran sorriso – Alla facciaccia di Adriano e di Agrippa!
-Agrippa? – fece Harm.
-Sì, il genero dell’imperatore Augusto. Il marito di sua figlia Giulia – puntualizzò Mario.
“Che strani questi antichi romani, davano agli uomini dei nomi da donna! Ma Giulia è un gran bel nome. Se fosse una bambina…” pensò il capitano Rabb. Uno sguardo fulmineo all’orologio lo riportò alla realtà.
-Ragazzi, starei qui con voi per ore… ma devo scappare a prendere l’Eurostar! Se non arrivo in tempo a Capodichino, mi becco un’accusa di assenza ingiustificata.
-Agli ordini, capitano! – fecero in coro i due italiani, mettendosi scherzosamente sull’attenti.
-Hai bisogno di un passaggio? Ho l’auto a pochi isolati – propose Mario.
-No, carissimo. Grazie mille, salto al volo su un taxi. E’ stato un piacere, Guido. Ciao!
 
 
-Oh grullo! Ti sei perso? – fece Mario vedendo che Guido continuava a osservare Harm che si allontanava. Con un colpo d’occhio si accorse che non gli stava guardando proprio le spalle.
-Sai, ho sempre pensato che tua sorella fosse una scienziata pazza. Ma oggi ne ho avuto la conferma matematica.
-Uhm? – fece l’altro con uno sguardo molto interrogativo.
-Livia sta di sicuro facendo un esperimento di eugenetica. Avranno il bambino del secolo. Lei è una sventola con un’intelligenza superiore alla media. Suo marito  è un tipo sveglio, si vede. Ha l’occhio vivo… e non solo quello! Non so se te ne sei mai reso conto, ma Harm è un gran figaccione! Hai visto che culo che ha?
-Guido, è mio cognato! – esclamò Mario fingendosi scandalizzato.
-Te lo immagini in uno spogliarello? Quello, per ballare "In the Navy”, non ha nemmeno bisogno di mettersi la divisa… quella ce l’ha già! Deve solo togliersela…
-Te sei proprio grullo!

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Capitolo 13
*** Una doccia gelata ***


Ormai si era impuntata. Da quando si erano scontrati in corte marziale a Napoli e lo aveva visto così carnalmente appassionato nella difesa del capitano Boone, Rabb le era come entrato nel sangue. Ancor più da quando, sempre durante quella missione, lo aveva intravvisto rorido di sudore, mentre correva in calzoncini e canottiera lungo il mar Tirreno. Ed essere stata sconfitta da un collega più giovane le bruciava parecchio. Voleva una rivincita, ma a modo suo.
Doveva averlo a tutti i costi. Il vibrante entusiasmo che quel giovane neocapitano di corvetta metteva nel suo lavoro doveva essere senz'altro solo la punta di un iceberg di ghiaccio bollente. E quel cerchietto d'oro che sfoggiava all'anulare e il suo sorriso seducente ma mai malizioso non erano altro che parte del suo personaggio, ne era sicura. Una maschera costruita a bella posta che lui indossava per riuscire a selezionare con accuratezza chirurgica nel folto e variegato stuolo delle sue ammiratrici. Un rigoroso e matematico piano da seduttore professionista. Uno sbarramento preliminare insomma, non un perentorio semaforo rosso. Dopotutto, nessuno al JAG aveva mai visto la fantomatica moglie di Harmon Rabb jr.
Ora era appena stato nominato il nuovo Giudice Generale dell'Avvocatura della Marina, che aveva preso il posto dell'ammiraglio Brovo. Il neocapo del JAG, AJ Chegwidden, era un ufficiale che era agilmente passato da un ambito all'altro della Marina, eccellendo in ognuno. E aveva scelto lei, il capitano di fregata Alison Krennick, come suo braccio destro. Quale migliore occasione per andare a sollecitare un po' il fascinoso sottoposto dagli occhioni cerulei e a solleticare un po' la sua scalpitante voglia di emergere?
Era un bel sabato mattina di marzo. Un weekend libero dopo alcuni mesi di noiosissimo lavoro. Anche Rabb non era impegnato in nessuna missione, aveva controllato con molta cura. Decise di cogliere la palla al balzo e di andare a fargli visita a casa. Per informarlo della nuova nomina e per cavalcare l'onda. E non solo quella. Niente di meglio che una bella sferzata d'energia per iniziare una giornata che altrimenti rischiava di essere molto pigra.
Libera dalla costrittiva e castigatissima divisa d'ordinanza e dall'odioso cravattino, approfittando del favorevolissimo clima mite, indossò un maglioncino leggero con la zip che scopriva le sue grazie al punto giusto, una attillatissima gonna di pelle nera e scarpe con il tacco dodici. Non voleva correre il rischio di essere fraintesa: la sua intenzione era di andare dritta al punto, alla faccia di una possibile accusa di fraternizzazione. Ma Rabb non avrebbe mai avuto il coraggio di fiatare: sarebbero stati i suoi gemiti sovracuti a zittirlo.
Parcheggiò l’auto davanti a quello che, secondo la sua scheda personale, risultava essere l’indirizzo della preda designata. Il 224b dell’Ottava strada era un condominio in mattoni rossi, con una piccola scalinata in pietra grigia aggettante sul marciapiede. Una graziosa costruzione in stile georgiano. Salendo le scale, Krennick si faceva sempre più convinta che tra poco avrebbe varcato la soglia della tana di un consumato donnaiolo e non certo il nido d’amore di un giovane sposino. Arrivata alla porta dell’appartamento di Rabb, bussò con delicata fermezza. La tigre che era in lei era pronta a graffiare.
Quello che le si presentò davanti superava di gran lunga ogni sogno proibito. Rabb era sulla soglia, già scartato e pronto all’uso. Spettinato e un po’ sudato, con indosso solo un paio di boxer, e l’ampio torace temperatamente villoso ben in vista.
-Buongiorno, signora – disse con visibile imbarazzo – Si accomodi, prego.
E sparì come un fulmine dietro una porta socchiusa. Nel frattempo l’ospite inattesa ebbe il tempo per guardarsi intorno. Una minuscola zona giorno con un semplice banco cucina, due sgabelli e un salotto molto spartano, con tavolino, divano e una poltrona. “Non manca il caminetto, però… sai che belle seratine! Il bagliore del fuoco, un bicchiere di brandy, e i pettorali di Harm come cuscino!”. Non c’era dubbio. Quello era lo scannatoio dello scapolone, che  purtroppo ricomparve da quella che doveva essere la camera da letto vestito di tutto punto, con una Tshirt e un paio di calzoni della tuta.
-Tempo di trasloco? – chiese lei osservando i vari scatoloni che ingombravano l’appartamento. “Spero in un altro bell’appartamentino con la vasca idromassaggio. Ma anche la doccia va bene, purché ci sia posto per due…”
-Sì – rispose Rabb seccamente, quel tanto che bastava per non passare per un perfetto maleducato. Già l’intrusione di quella donna lo irritava, ma era del tutto inaccettabile che ficcasse pure il naso nei suoi affari privati.
-Per fortuna, niente modellini di aerei! – scherzò lei, per cercare di riprendere terreno, visto che lui non appariva particolarmente partecipativo al suo piano strategico di seduzione.  Anzi, si era messo a sbattere le uova per la colazione.
-Quelli sono in camera da letto! - fece Harm con un sorriso stentato. “Spero proprio che non vada a controllare… Da una ninfomane come questa c’è da aspettarsi di tutto. Livia, sveglia! Vieni a salvarmi…”
-E’ una sua mania o c’è una ragione precisa per separare l’albume dal tuorlo? – disse la Krennick accennando alla frittatina di Rabb.
-Così l’omelette viene molto più soffice.
Lei si mise a girargli  intorno incuriosita.
-E gliel’ha insegnato la mamma? – fece con tono malizioso
-No, un colonnello dei Marine, signora – la freddò lui. “Che cosa vuole questa? Non mi sembra certo venuta qui per scambiare ricette di cucina”.
-Non sono venuta in uniforme – osservò lei indicando il suo abbigliamento non certo d’ordinanza. “Che schifo! Sembra una donna di strada. Non andrei a letto con lei nemmeno se fossi in astinenza dalla nascita” pensò Harm - Mi chiami Allison.
- Che cosa vuole, capitano? – disse lui rompendo gli indugi. Voleva levarsela di torno, al più presto.
-Voglio avvertirla. Sa chi è l’ammiraglio Chegwidden?
- Comanda il JAG nel Pacifico
-Da lunedì comanda tutto il JAG. E’ un genio… Uno che passa sempre da un cavallo all’altro e riesce sempre al meglio.
-E’ il futuro presidente degli Stati Uniti… - fece Harm con un sorriso ironico.
-Ogni cosa a suo tempo.
- E allora, signora… di che cosa voleva avvertirmi? – “Perché questa mena tanto il can per l’aia? Crede di farmi capitolare con questi giochetti scemi da quindicenne in calore?”
-Il nuovo aiutante dell’ammiraglio potrebbe sentirsi messa in difficoltà da lei, che è l’astro nascente del JAG.
-Messa in difficoltà?
-L’aiutante sono io… e visto che lei è così ambizioso.
- Non sono così in gamba né così ambizioso… - si schermì lui. “Dai, va’ a cercartene un altro!”.
-Lo è… è uno dei motivi per cui voglio venire a letto con lei…
 
 -Bè, così rischiamo di stare un po’ stretti! – si sentì dire da una voce femminile dall’accento straniero.
 
Krennick si girò di scatto a destra, in direzione della presunta camera da letto, da cui era sbucata fuori all’improvviso la proprietaria di quella voce. Una ragazza di circa trent’anni. Non alta, ma decisamente bella. Occhi verdi ancora un po’ annebbiati dalla notte appena trascorsa. La pelle imperlata dallo stesso sudore di Rabb. E all’anulare sinistro, lo stesso cerchietto d’oro. La moglie della sua fascinosa preda non era un fantasma. Era lì in carne ed ossa. Una camicia da notte con le spalline sottili  ne rivelava il florido turgore del seno e la curva rigogliosa del ventre. Quella bella ragazza dai lunghi capelli castani un po’ spettinati era inequivocabilmente incinta.
-Un altro avvertimento, finché sarà sotto il mio comando, dovrà lavorare sodo per ottenere degli avanzamenti – disse perentoriamente al suo sottoposto, puntandogli contro l’indice.
-Non conosco altro modo, signora – fece serenamente Rabb, mentre lei sbatteva la porta infuriata, dimentica di qualsiasi norma della buona creanza.
Dopo che il ciclone Krennick se n’era uscito dal suo campo visivo, con una promessa che suonava più come una minaccia, gli era letteralmente passata la fame. O meglio, era subentrato in lui un nuovo languore, un appetito di altra natura. Livia scuoteva la testa e gli sorrideva, sicuramente convinta che quella inaspettata visitatrice fosse una maniaca del sesso allo stadio terminale.
-Ma non avete gli psichiatri nella Marina?
-Sì, ma quella lì è irrecuperabile.
-Ed è il tuo nuovo capo?
-A quanto pare… ma ora non parliamo di lei…
Le si avvicinò e le fece scivolare le spalline della camicia.
-Non qui, Harm. Ti prego, stamattina ho le gambe gonfie come due zampogne… 
Si era quasi dimenticato che sua moglie era già al settimo mese e il peso del loro bambino cominciava a farsi sentire con effetti non sempre gradevoli. La prese tra le braccia e la ricondusse in camera, varcandone la soglia come se fossero due neosposini.

Non aveva mai conosciuto una donna così appassionata e attenta. E, cosa incredibile a credersi, lui era stato il primo e unico uomo della sua vita. Passato il trepidante timore della loro notte di nozze, Livia aveva lasciato esplodere tutta la sua carnale sensualità. Con lei Harm si sentiva di nuovo un ragazzino, come quando a diciassette anni, alla vigilia della partenza per Annapolis, si era liberato del fardello della verginità con una ragazza più grande. Una sorta di nave scuola per i ragazzi del quartiere. Nel loro casto fidanzamento, lui aveva riscoperto il piacere del desiderio e dell’attesa. Proprio come durante la sua storia d’amore con Diane, quella dolcissima e formosissima ragazza di cui mai aveva goduto.

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Capitolo 14
*** Sigari cubani ***


Harm scivolò dentro il condotto e legò la cintura della sua divisa alla turbina. Al momento della riaccensione dei motori, l’F-14 all’interno dell’hangar sarebbe esploso, mandando in fumo anche le complesse trame messe in atto da Fidel Castro per procurarsi il petrolio dall’Iran e aggirare così l’embargo statunitense. Il sabotaggio ora era l’unica strada per evitare che la più sofisticata tecnologia d’attacco finisse nelle mani nemiche. I cubani erano in trattativa con gli iraniani per la cessione del software di cui erano dotati gli F-14 di ultima generazione. L’esperto informatico russo Alexej Barkov era stato mandato a Los Banos proprio per quello scopo, per copiare la preziosissima nuova arma. La posta in gioco era molto alta e così il capitano dell’aviazione cubana Carlos Fuente gestiva ambigue trattative anche con gli Stati Uniti, tenendo la delegazione JAG letteralmente segregata nella sua hacienda, allo scopo di ottenere il ritiro dell’embargo da parte della Casa Bianca in cambio della restituzione dell’aereo sequestrato e del suo pilota.
In tutta quella faccenda, Harm si sentiva particolarmente a disagio. Non solo perché non amava gli intrighi politici e quell’incarico assegnatogli dal nuovo capo del JAG, AJ Chegwidden, gli andava particolarmente stretto. Ma “la Marina ha bisogno di eroi” aveva detto l’ammiraglio nel loro primo colloquio “proprio in questo momento, in cui la stampa ci dà addosso e il Congresso diminuisce gli stanziamenti”. O perché i componenti della delegazione  erano decisamente malassortiti. La Krennick non si era affatto calmata dopo la figuraccia fatta il sabato prima a casa sua, anzi continuava a fargli battutine tra il sarcastico e il malizioso e a invitarlo sfacciatamente in camera. Il funzionario governativo, vicesegretario di chissà quale articolazione della macchina burocratica, tale David Bair, nascondeva una temibile machiavellica astuzia dietro gli occhialini e la barbetta da timido omuncolo di mezza età. E Meg, l’ingenua e gentile sottotenente, unica nota positiva in quel disarmonico concento, andava tenuta a distanza per evitare che si mettesse in testa anche lei delle strane idee: la visita della Krennick gli era bastata. Ma il fatto che maggiormente sconcertava Harm in tutta la questione era la posizione del capitano di corvetta Jack Keeter, suo ex compagno all’accademia di volo e pilota dell’F-14 dirottato dai Mig cubani  guidati da Fuente. Keeter era un abilissimo aviatore, uno dei migliori tra quelli in servizio attivo nella Marina. Impensabile quindi che fosse finito per sbaglio nello spazio aereo cubano. E le giustificazioni che aveva addotto per scusarsi erano poco credibili, anche se Harm non poteva risolversi a credere che il suo amico fosse un traditore, e che avesse deviato di proposito dalla sua rotta verso Guantanamo per far cadere il velivolo nelle mani dei cubani.        
-Che cosa ha fatto! – lo aggredì verbalmente Bair, quando seppe del sabotaggio. Per fortuna erano al riparo da orecchie indiscrete, coperti dallo scroscio della doccia della stanza di Rabb.
-Non le sembra ora di spiegare qualcosa anche a noi? – sbottò la Krennick, piuttosto seccata di essere stata usata come semplice pedina in un complesso gioco internazionale di cui in realtà sapeva poco o niente.
-Lavoro per la Sicurezza Nazionale – spiegò il vicesegretario – Il software contiene un virus che neutralizza l’arma. Keeter si era proposto per questa missione segreta. Il virus è contenuto nell’ultimo chip. Bisogna evitare che l’F-14 esploda a copiatura incompleta.
“Lo sapevo: Keeter non poteva tradire così il suo paese” pensò Harm.
-E ora come facciamo? – chiese la Krennick allarmata. Si vedeva già rotolare giù dal suo piccolo trono di regina del JAG, arbitra delle cause più prestigiose. Retrocessa a fare l’addetto legale su qualche portaerei assordante e puzzolente di carburante bruciato, a dirimere questioni di infima importanza: risse tra ubriachi, furti di mazzancolle per bisbocce notturne, orgiastiche fraternizzazioni.
-Ho trovato! Mi lavorerò un po’ Fuente –propose Harm - Gli dirò che ho messo una bomba sul Tomcat, ma che voglio aiutarlo e la toglierò, se mi aiuta con un diversivo.  Aggiungerò che il software è fasullo, ma conviene che lo vendano lo stesso agli iraniani, perché Clinton non acconsentirà mai a togliere l’embargo.
-E crede di riuscirci? – fece Bair molto titubante, arricciando il naso.
- E’ un pilota: crederà a quello che gli dico. Noi aviatori abbiamo un codice d’onore, qualunque sia il nostro paese.
-Si fidi di lui: sa quel che fa – disse la Krennick con tono appassionato, che  non aveva nulla dell’istinto materno che Fuente le aveva attribuito. Ottimo aviatore, quel cubano, ma pessimo osservatore della natura umana.
E così, il capitano dell’aviazione castrista c’era cascato con tutte le scarpe. Un unico inconveniente nell’accordo: per dare credibilità alla farsa, Rabb e Keeter sarebbero dovuti scappare sul Learjet e farsi abbattere dai Mig della base di Los Banos.
-Andiamo verso sud! – propose Harm, ai comandi del velivolo – Loro ci cercheranno verso nord, così avremo tempo di uscire dallo spazio aereo cubano. 12-13 minuti e non ci beccheranno più!
-E in mezz’ora saremo alle Cayman… sole, mare, belle ragazze in costume… - ribatté Keeter.
Ad Harm non importava niente delle ragazze del suo amico. Voleva solo tornare sano e salvo, dall’unica ragazza che dimorava stabilmente nei suoi giorni e nei suoi pensieri. A casa. Nella nuova, vera casa dove si erano trasferiti quella stessa settimana. Dove avrebbero festeggiato una lunghissima serie di anniversari di matrimonio. Il luogo caldo e accogliente dove loro e la loro famiglia sarebbero cresciuti nella gioia.
-Da Caccia di Los Banos a 7-Zulu! – fece Fuente – State violando lo spazio aereo di Cuba!
-Ci hanno trovato! Mig a ore sei! –gridò Keeter.
-Adios amigo!
Dal Mig partì un missile. Harm guidò in picchiata il Learjet, quasi a toccare il pelo dell’acqua.
-Dai, Keeter! Aiutami a tirarlo su…
Pochi metri ancora ed erano in salvo.
-Caccia di Los Banos! Qui 7-Zulu. Stiamo uscendo dallo spazio aereo cubano. Grazie per averci scortato! – comunicò ironicamente Rabb.
-E’ stato un piacere. Buena suerte! – replicò Fuente, ammettendo sportivamente di essere stato gabbato da un aviatore più abile di lui.
-E allora? Cayman? Sole, mare… e bellezze in bikini? – ammiccò Keeter.
-Dai, non scherzare. Abbiamo abbastanza carburante per tornare in Florida prendendola larga.
-Ma come? Non vuoi divertirti un po’… proprio tu che a Barcellona mi hai pure fregato la ragazza?
-Non fare l’offeso. Come fai a dire che era la tua ragazza, se non ti ricordi nemmeno il nome?
-Perché, tu te lo ricordi?
-Certo, Maria Helena Carmelita Moreno Gutierrez…
-Ah, scommetto che te la spassi ancora con lei!
-Sono due anni che non la vedo… te l’ho detto: mi sono sposato!
-Harmon Rabb jr sposato? Allora non ho più rivali…
Harm rise. Gliele lasciava tutte, proprio tutte. Di quelle che cadono tra le braccia di un Top Gun in capo a mezz’ora, non sapeva proprio più che farsene.
 
 
 
 
-Mi piacerebbe far dipingere di blu le pareti da metà altezza e anche il soffitto… che ne dici? – propose Livia, facendo progetti sulla stanzetta ancora vuota.
-Non sarà un po’ troppo scuro per la stanza di un bambino? – fece Harm un po’ perplesso.
-Mica di blu scuro… un  bel bluette. Poi mettiamo tanti piccoli adesivi fosforescenti, così ci saranno le stelle a vegliare sul suo sonno.
-Così mi va bene. Anzi, è un’idea fantastica! A proposito di idee… sai, Keeter voleva andare alle Cayman…
-Una pensata da scapolone… da Harmon Rabb prima maniera – rise lei scompigliandogli il ciuffo.
-Bè, i Caraibi sono sempre piacevolissimi – le sussurrò all’orecchio – soprattutto al primo anniversario…
Livia sorrise e accostò la fronte alla sua. Poi lo baciò dolcemente. Le sarebbe piaciuto molto un weekend romantico, ma occorreva tenere i piedi ben zavorrati a terra.
-Non voglio smorzare i tuoi entusiasmi, ma per questa casa ci siamo indebitati per almeno tre generazioni di Rabb! Forse è meglio un festeggiamento più modesto…
“Ma perché è sempre così pratica? Per fortuna che non è in Marina, altrimenti la vedrei dura per Krennick e Chegwidden: se li mangerebbe a colazione!”
-Va bene, mamma. E che festeggiamento domestico sia! Ma non fare più indigestione di fagioli o chiedo il divorzio…
Livia rise di nuovo. I suoi cari legumi, oltre che dei radicali  liberi, erano nemici anche dell’intimità coniugale.
Harm le appoggiò dolcemente una mano sulla pancia. Il piccoletto espresse anche lui il suo parere, volteggiando beato nel suo microcosmo liquido. 

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Capitolo 15
*** Hemlock ***


Harm arrivò trafelatissimo al JAG. Un rapido sguardo all’orologio. “Cavolo, già le undici! Questa volta la Krennick tira fuori il frustino… ma mica è colpa mia se ad Andrews le cose sono andate per le lunghe”. Nel corridoio incrociò Meg stracarica di pratiche che subito gli si accodò e lo seguì fin nel suo ufficio con un’espressione vagamente ruffiana.
-Buongiorno, Meg! Che cosa sono quelle? – chiese inarcando le sopracciglia.
-Richieste di finanziamento da controllare… facciamo a metà, da bravi colleghi – replicò lei, appoggiandogli un discreto cumulo di cartellette sulla scrivania e cercando di rincuorarlo con un dolce sorriso.
“No, Meg… non metterti a fare la zuccherosa. È già dura tenere a bada quella maniaca della Krennick, non cominciare anche tu…”
-Era meglio se mi davo malato… Crudelia De Mon è in sede?
“A ore sei” pensò la giovane collega, visto che la suddetta si era appena materializzata sulla soglia e stava fissando Rabb alle spalle, con uno sguardo carico di rabbia rancorosa. “Ci ha provato e le è andata male” aggiunse Meg ai propri pensieri, non senza una punta di soddisfazione.
Lui, ignaro della repentina e minacciosa epifania, stava stampando i fax in entrata.
-Ben alzato, capitano! – esclamò la Krennick con un sarcasmo pieno e sonoro. Harm si girò e le rivolse un’occhiata di insofferente apatia - Le undici di mattina? La credevo più mattiniero…
-È dalle cinque che sono in piedi – ribatté lui con pacata sicurezza.
“Che uomo!” pensò Meg, ammaliata dalla calma della risposta. Nella sua fervida fantasia si concretizzò l’immagine di lui, fulgido e splendente in un lungo addestramento che scolpiva il suo fisico da perfetto palestrita.
“In piedi? Non ti crede neanche tua madre… Lo so io cosa stavi facendo, con quella là” avrebbe voluto gridargli in faccia la Krennick.   
- Ho fatto l’esame annuale di volo – specificò lui.
- Allora, faccia volare queste – gli disse lei stizzita, facendogli atterrare tra le mani un’altra dozzina di cartelline, prima di uscire dalla stanza.
- Guardi, Meg! È arrivato questo al mio fax…
-Arriva dal Pentagono, prefisso N62.
-Che strano. “Nome in codice, Shepard. Ambasciata russa”. Dev’esserci un errore.
-Che pensa di farne?
-Per ora lo chiudiamo in cassaforte, poi vediamo.
-Vado nel mio ufficio, la lascio lavorare in pace. Ma se ha bisogno di me, non si faccia scrupolo a chiamarmi… - propose Meg.
-Grazie. Ma ora mi metto sotto, per oggi ho stuzzicato fin troppo Crudelia…
-Tranquillo, sta uscendo. Alle 11.30 deve essere dal SecNav con l’ammiraglio.
 
 
 
Quel lavoro di scrivania era un’autentica tortura. Tabelle fitte di cifre e capitoli di spesa che nemmeno immaginava potessero esistere su quella faccia dell’orbe terracqueo. Livia gli aveva parlato molte volte della complessa burocrazia italiana, ma nelle ultime due ore Harm si stava facendo sempre più convinto che ogni Campidoglio è uguale all’altro, senza distinzioni di epoca o di continente. Era l’una passata e ormai gli si annebbiava la vista. Per fortuna che aveva già sostenuto l’esame di volo quella mattina, altrimenti, dopo quella sessione coatta di lettura, si sarebbe giocato l’abilitazione anche se fosse salito su un ottovolante. Cominciava anche a sentire il suo stomaco che si scatenava in una serrata orchestrazione di gorgoglii e brontolii. Ancora una cartella e sarebbe andato in mensa a mettere qualcosa sotto i denti. La concentrazione, tanto faticosamente tenuta a bada, svanì di colpo quando qualcuno bussò alla porta.
Un uomo sulla quarantina con l’uniforme della Marina inglese. Alto, occhi azzurri, di bell’aspetto.
-Posso aiutarla, signore? – chiese Harm alzandosi per accogliere il visitatore.
-Capitano Keith Nelson, Marina Britannica – si presentò l’altro – Mi scusi, non ho trovato uscieri.
-Sono tutti a pranzo…
-E lei, è a caccia di promozioni? – fece l’inglese con un sorriso.
-Lasciamo stare… “E’ un miracolo se la Krennick non mi fa retrocedere a suo attendente privato”.
-So che può sembrare imbarazzante, ma dovrebbe esserci un fax arrivato per sbaglio a me.
Harm andò alla cassaforte.
-Prego, signore.
-Grazie – rispose Nelson. Con una mano prese il documento e con l’altra estrasse una pistola e la puntò contro Rabb.
-Harm, ha lei la richiesta per i casellari d’archivio?
Meg entrò nell’ufficio giusto in tempo per vedere il suo collega che si accasciava al suolo. L’ignoto aggressore cercò di sparare anche a lei, ma non riuscì a centrarla. Poi scappò via di corsa. Per ora gli conveniva non dare ulteriormente nell’occhio. Ma chi era quel misterioso e pericoloso figuro con la divisa della Marina britannica?
-Harm, ti prego! Non mi lasciare!
Meg raccolse quel poco di autocontrollo che le era rimasto e lo mise a guardia del cuore. Chiamò i soccorsi e mentre aspettava l’arrivo dell’elicottero, tamponò la ferita. Ora erano entrambi immersi in un agghiacciante lago di sangue.

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Capitolo 16
*** Un capo, un padre ***


Una sparatoria al quartier generale JAG. A due passi dal suo ufficio. Un ufficiale con una pallottola in corpo, ancora sotto i ferri, in bilico tra la vita e la morte. La sua collega miracolosamente illesa, ma emotivamente scossa. La terribile notizia gli era arrivata proprio mentre stava uscendo dal Pentagono, a seguito di un’importante riunione al vertice. “Stia calma, tenente” l’aveva rassicurata “Tra poco il capitano Krennick sarà da lei in ospedale”.
L’ammiraglio non certo era uomo da farsi prendere dal panico. Ufficiale dei corpi speciali, svezzato nella limacciosa carneficina del Vietnam. Procuratore militare da quando il suo orologio biologico non era più sincronizzato con i ritmi serrati della vita da Seal. E ora, da poco più di un mese, Giudice Generale della Marina più potente del mondo. Un uomo per tutte le stagioni. Carattere d’acciaio e modi spicci e un po’ rudi, resi ancora più marcati dalla sua figura. Già inoltrato nella cinquantina, Albert Jethro Chegwidden era grande, bruno, calvo.
Ora c’era una situazione critica da gestire. Il ferito era il più brillante dei suoi uomini. Un neocapitano di corvetta, Harmon Rabb jr, figlio e nipote di aviatori di Marina, eroi di guerra entrambi, caduti nell’adempimento del loro dovere. E lo stesso giovane Rabb aveva compiuto una brillante carriera da Top Gun, prima di conseguire la laurea in legge ed entrare nei ranghi del JAG. Promettente anche come procuratore, non c’era dubbio. Dalla lettura della sua scheda personale, Chegwidden s’era fatto persuaso che il suo sottoposto fosse una sorta di incrocio tra un pilota e un domatore di leoni. Proprio il genere d’uomo di cui la Nazione ha bisogno.
L’ammiraglio si rigirò nervosamente tra le mani quella stessa scheda che si era fatto portare dall’archivio e ordinò via interfono al suo attendente una piccola ricerca telematica.
-Istituto di Oncologia, Clinica Universitaria di Georgetown – la risposta non tardò ad arrivare, attraverso lo stesso mezzo. Il giovane sottufficiale aveva colto subito che era meglio non mostrarsi nel campo visivo del suo superiore, che quel giorno appariva assai più accigliato del solito.
-Grazie – rispose asciutto Chegwidden. Poi prese il cappello e lasciò la sede del JAG senza dire una parola.  
Il comando comporta onori e oneri. E la vita militare si trascina con sé l’ombra lunga e onnipresente della morte e del dolore. Tanti compagni aveva visto cadere al suo fianco. Quella non era la prima volta che doveva comunicare una brutta notizia. Nella sua carriera aveva stretto la mano a madri, padri, vedove.  Accarezzato piccole testoline di orfani e confortato valorosi combattenti rimasti mutilati. Ma ora si sentiva stranamente teso. Forse perché il sedicente capitano della Reale Marina Britannica era di sicuro un pericoloso criminale, che avrebbe senz’altro minacciato nuovamente la vita del tenente Austin e che tramava nell’ombra qualcosa di ben più losco. Un caso gravissimo per cui aveva contattato subito il servizio di controspionaggio della Marina. Ma soprattutto perché sulla scheda di Rabb aveva letto un nome straniero. La moglie del capitano era italiana. Come Marcella e Francesca. Ora si trattava quindi di portare un triste annuncio a una giovane donna, forse sola e lontana dai suoi affetti.
 
 
 
-Mi scusi, sto cercando la dottoressa Livia Rabb – chiese a un giovane biondo con il camice.
-Forse intende Livia Vannucci? – puntualizzò il suo interlocutore.
-Sì, esatto.
-Guardi, è laggiù che trascrive dei dati.
-La ringrazio.
Chegwidden avanzò lungo il laboratorio e si accostò a un tavolo dove una donna era intenta a scrivere al computer. I lunghi capelli castani tenuti indietro con un semplice fermaglio, gli occhiali rossi come il suo vestito, che spuntava sotto il camice aperto. E la pancia. La moglie di Rabb era incinta. Non sembrava a uno stato molto avanzato, ma era certo che aspettava un bambino. In un baleno gli ritornò in mente un’altra gravidanza. Quella di Marcella, la sua moglie italiana. La sua ex moglie, che si era risposata da tempo con un connazionale.
- Dottoressa Vannucci? – chiese con tono fermo ma gentile.
La ricercatrice si distolse dal proprio lavoro. Vedendola direttamente in viso, l’ammiraglio si accorse che era poco più di una ragazza. Come la sua Francesca. La sua unica figlia. La Vannucci annuì e nello stesso tempo parve sbiancare.
“Povera ragazza, penserà che se due uomini in divisa annunciano una disgrazia, uno solo ne annuncia una mezza, ma pur sempre disgrazia”.
Lei si sforzò di mettersi in piedi, ma si vedeva che il suo corpo non le rispondeva. Chegwidden le si avvicinò e la aiutò con premura ad alzarsi.
-Non abbia paura… – le disse d’istinto, in italiano.
La dolce lingua del sì ebbe come l’effetto di un balsamo lenitivo sul cuore della giovane donna, che alzò e si appoggiò con fiducia al suo braccio.

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Capitolo 17
*** Svegliati, Harm ***


- Dovremmo tornare al JAG e metterci a indagare sull’aggressore, quel presunto capitano Nelson… E’ una perdita di tempo rimanere qui! – dichiarò la Krennick. Il ruolo da babysitter di quella bamboletta paurosa della Austin non le si confaceva affatto. E men che meno quello di custode del sonno di Rabb, che dopo l’intervento era stato trasferito in terapia intensiva. Non c’era più motivo di rimanere in ospedale. Harm era affidato alle cure del personale medico. E presto sarebbe arrivata la moglie. Dopo l’imbarazzante figura di un mesetto prima, alla bionda virago con i galloni non andava molto a genio l’idea di ritrovarsi faccia a faccia con lei.   
-Come fa a parlare così? – ribatté scandalizzata Meg, ancora molto scossa dall’accaduto. Per fortuna, si era potuta cambiare la camicia e non aveva più addosso il sangue di Harm. Il suo sangue, che la turbava tanto. In tutti i sensi.
-Cerco solo di essere realista, Meg. Non capisco cosa potremmo risolvere rimanendo qui… non siamo medici! C’è un pericoloso delinquente ancora in libertà ed è nostro dovere contribuire alle indagini. Soprattutto suo, perché lei è l’unica, oltre a Rabb, ad averlo visto in faccia!
- Parla così perché Harm non è il suo collega – osservò il tenente, con tono mesto ma indignato.
-Ma è sotto il mio comando… - ribatté il suo superiore.
-Con rispetto parlando, non è la stessa cosa!
-Tenente, non è la gara a chi gli vuole più bene… Io sono sconvolta quanto lei, anche se non lo metto in piazza – disse con fermezza la Krennick, incurante del fatto che anche Meg aveva rischiato di essere colpita come Rabb -… guardi che anch’io sono molto affezionata a lui.
Il tenente Austin annuì.
-So che cosa sta pensando – proseguì il capitano – Crede che io e lui siamo stati a letto insieme…
-No, signora. E poi Harm è sposato…
-Per la cronaca, non è successo niente. “Sfortunatamente” pensò la Krennick, sperando che la giovane tenente fosse più ingenua e scoprisse le sue carte – E lei?
-No, non siamo mai stati insieme. Non sono il tipo da avere una storia con uno sposato. Anche se in fondo mi sarebbe piaciuto – ammise Meg con un sospiro.
-Peccato!
-Perché?
-Perché lo ha ammesso. Non lo avrebbe mai fatto, se credesse che Harm abbia speranze di sopravvivere.
“Come fa ad essere così cinica in un momento del genere?” si chiese Meg, ma non ebbe il coraggio di replicare.
Ed ecco che nel corridoio dell’ospedale comparve Chegwidden in compagnia di una sconosciuta. Una giovane donna con il capo basso e l’espressione veramente sconvolta. Su quella figura si concentrarono subito gli occhi delle due donne, soprattutto quelli di Meg.
-La moglie – commentò seccamente la Krennick. 
Meg osservò attentamente quella ragazza incinta. Non alta, ma molto elegante e di bell’aspetto. Ne rimase molto colpita. Non delusa, ma stupita. A fianco di Harm si era immaginata una compagna di tutt’altro genere. Una donna alta, forte, capace di tenere testa al capitano Rabb, che era uomo e maschio. Provò allo stesso tempo pena e invidia per la futura madre. Comunque andassero le cose, quella piccola donna avrebbe conservato per sempre con sé una parte di lui. Il segno tangibilmente miracoloso dell’amore di quell’essere straordinario che l’aveva prescelta in mezzo a milioni di altre.
 
 
 
Livia non si era neppure accorta delle due bionde in divisa che la stavano scrutando con tanta acribia, né tantomeno aveva percepito nulla del loro inopportuno battibecco. L’ammiraglio Chegwidden, con un fare davvero gentile, l’aveva condotta direttamente alla stanza che era stata indicata loro dall’infermiere.  
Harm era nudo e inerme. Il suo corpo giovane e forte, coperto dal lenzuolo, riposava in un sonno placido e profondo, come quello di un bambino. Gli strumenti della sala di rianimazione gli suonavano intorno una monotona e mesta ninnananna.
Il suo primo istinto fu quello di toccarlo, per sentire il suo calore, se il sangue gli fluisse ancora nelle vene.   
Un comportamento viscerale. Non di medico, ma di donna innamorata.  
L’ammiraglio le mise una mano sulla spalla e lei annuì con gratitudine, mentre si sedeva accanto al letto.
-Non si preoccupi, ho già parlato io con il suo capo.  
-La ringrazio, ammiraglio.
-Per qualsiasi cosa, mi chiami pure – le disse porgendole il suo biglietto da visita.
-La ringrazio, lei ha già fatto molto per noi – fece lei stringendogli la mano.
-Ho fatto solo il mio dovere. Non abbia paura, suo marito è un uomo forte.
Lei annuì dolcemente. Chegwidden lasciò soli i due sfortunati sposi e uscì nel corridoio.
-Signore! Basta con il cicaleccio… è ora di tornare al lavoro – disse alle sue sottoposte con tono severo– Abbiamo un pericoloso killer da consegnare alla giustizia.
“Te l’avevo detto, bambina”. La Krennick rivolse al tenente Austin uno sguardo di rimprovero un po’ saputo.
-Tenente – aggiunse l’ammiraglio con una vena di preoccupazione – le assegnerò una scorta. Non posso permettermi di perdere anche lei.    
 
 
  
 
Livia era rimasta sola con Harm. Il piccolo era particolarmente inquieto e si agitava in continuazione nel suo ventre, come se il cordone ombelicale gli trasmettesse in diretta il dramma. Non trovando pace in sé stessa, tirò fuori dalla borsa la sua vecchia Bibbia. “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…”
 

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Capitolo 18
*** Non temere, Livia ***


-Sst… fai piano! Facciamogli una sorpresa! – disse la bambina al suo fratellino.
Livia aprì un occhio, sentendo le assi del pavimento scricchiolare sotto i passettini concitati dei suoi monelli. Harm dormiva ancora della grossa, girato sul fianco verso di lei com’era sua abitudine, in posizione fetale.
-Svegliaaa!!! – gridò la loro figlia maggiore, buttandosi a pesce sul letto trascinandosi dietro il piccolo di casa.
Livia accolse tra le braccia quei due terribili tesori. Un’impertinente donnina di quattro anni, la vera peste di casa, e un tenero cucciolo di venti mesi con il nasino gocciolante.
-Come sta il fratellino nuovo? – chiese lei.
-Dorme? – fece eco il pupetto, appoggiando teneramente la testa sulla pancia della mamma.
-Sì. Ed è ancora piccino, come un piccolo seme – rispose Livia, accarezzandogli i capelli.
-E’ un dormiglione, come papà… Papà! Svegliati! – fece la bambina. Ma il letto dalla parte di Harm era vuoto.
 
 
 
Il pungente vento primaverile spazzava la distesa erbosa di Arlington. Due cariche a salve dal picchetto dei Marine in alta uniforme. L’omaggio della squadriglia di F-14 che compiva il volo d’onore sopra il cimitero.
-Dalla patria, con gratitudine.
Livia ricevette nelle sue mani tremanti la bandiera a stelle e strisce ripiegata a triangolo e se la tenne in grembo. Ora era sola in quella terra che non sentiva sua, lontana dalla dolcezza di sua madre e dall’abbraccio sicuro di suo padre. Harm non c’era più. E il piccolo che stava per nascere non avrebbe mai conosciuto l’uomo che gli aveva dato la vita. L’ineluttabile maledizione dei primogeniti Rabb si era precocemente abbattuta su di loro.
 
 
 
 
-Mi vuoi sposare? – chiese Harm al termine della cena, aprendo la scatolina con l’anello della nonna.
-Se la metti così… - scherzò lei per celare l’emozione profonda che la scuoteva dalla testa ai piedi.
-Dai, non prendermi in giro – fece lui deglutendo nervosamente – Sto parlando sul serio…
-Sì, Harm.
-Mi vuoi sposare?
-Sì, certo – ribadì Livia.
-E quando? Dai, sposiamoci subito… domani! – propose lui al colmo dell’entusiasmo, infilandole l’anello al dito.
-Ma che dici? Domani chiamiamo padre Edward per la data. Penso che ci vorrà almeno un mese…
-Un mese?
-Certo. Prima di tutto dobbiamo dare il tempo alle nostre famiglie di organizzarsi per venire alla cerimonia… e poi dobbiamo fare il corso prematrimoniale…
-Ma io so già tutto! – disse lui con il suo smagliante sorriso – Soprattutto come nascono i bambini… ne voglio avere almeno dieci! – aggiunse tutto orgoglioso.
“Il mio fidanzato è tutto scemo” pensò lei.
 
 
 
Ora era seduta nella sua stanza all’Isolotto, quella che aveva sempre diviso con Luigi, il suo fratello minore. Quasi un gemello per lei. Si sfilò dalla testa la corona d’alloro. Era felice ed emozionata. Poi la gioia si mutò repentinamente in pianto. Aveva paura. Harm era diventato freddo, come morto. La macchina dell’elettrocardiogramma era impazzita nel suo fischio sibilante e le sfondava le orecchie. Voleva scappare via, ma non voleva lasciare suo marito.
Alzò la testa e vide Luigi, con ancora al collo la stola viola. Da dove era entrato? La stanza non aveva né porte né finestre.   
- Non temere, Livia – le disse sedendosi vicino a lei ed abbracciandola.

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Capitolo 19
*** Visioni ***


Che fantastica giornata!
Su e giù per le montagne russe a Mission Park, con il suo papà. Il piccolo Harm era al colmo della gioia. Da alcuni giorni la casa era di nuovo piena di allegria e di risate. Papà e mamma erano bellissimi insieme, scherzavano sempre. Anche se lui poteva rimanere a casa solo per una settimana. Ma Harm era felice lo stesso: gli avevano persino rifatto la festa per il compleanno, anche se era già passato da qualche settimana. E lui aveva di nuovo spento le sei candeline. Era grande, ormai! L’uomo di casa che doveva proteggere la sua bellissima mamma, mentre papà era via. Harmon Rabb sr era l’uomo più forte e coraggioso del mondo. Un grande aviatore, un tenente della Marina. Era per questo che non poteva rimanere a lungo a casa, a La Jolla. La Nazione aveva bisogno di lui, in un paese lontano chiamato Vietnam. C’era una guerra contro degli uomini cattivi, che Harm non aveva capito bene se fossero rossi o gialli. Fatto sta che il suo papà doveva combattere contro di loro, in nome della Libertà e della Giustizia. Le lettere-cassette che gli mandava erano entusiasmanti, piene di azioni pericolose e coraggiose. Suo padre era un vero eroe, e lui da grande voleva diventare così. Un aviatore della Marina. Alto, forte, bello.
Quel giorno avevano appena inciso su un albero del parco le loro iniziali: HR, con un piccolo due accanto. Il bambino non aveva capito bene il significato di quel numero, ma non importava. Harmon Rabb sr sapeva sempre quello che faceva.
Si sedette su un’altalena, mentre suo padre lo scrutava a debita distanza e ne approfittava per fumarsi un sigaro. Quel bel sigaro grosso e profumato che gli intrideva i baffi di un odore strano. Il piccolo Harm si dondolava pigramente, tutto fiero del proprio giubbotto da  aviatore, uguale a quello di papà, quando sull’altalena vicina si sedette una bimbetta press’a poco della sua stessa età.
-Io so andare più forte e più in alto di te… scommettiamo? – fece lei con tono di sfida.
Harm detestava le bambine. Erano delle autentiche piaghe. Come le sue cugine, le figlie dello zio Mark, il fratello di mamma. Sempre pronte a lamentarsi o interessate solo ai loro vestitini o ai nastri per i capelli. Era ben felice di essere figlio unico e di non avere per casa una mocciosa frignona che gli guastasse ogni divertimento.
Ma quella piccoletta che lo aveva sfidato sembrava molto diversa. Anzitutto, portava i pantaloni come un maschio e uno strano giubbino blu trapuntato. Non aveva nastri vistosi, ma una treccia castana legata con un semplice elastico. E aveva due occhi vivacissimi. Azzurri come quelli di nonna Sarah, la mamma di papà. 
-Guarda che io sono fortissimo! Il mio papà è un aviatore! – replicò lui.
-E che c’entra? Mica è un aereo questo… - ribatté lei con la sicurezza di un piccolo avvocato – e poi io ho sfidato te!
Harm e la bambina si scambiarono un rapido sguardo di intesa e via, dopo una vigorosa spinta diedero vita alla loro sfida.
Doveva ammetterlo, quella lì andava proprio forte. Stanchi e accaldati, dopo qualche minuto passato ad accarezzare le nuvole, decisero di scendere di nuovo a terra.
-E allora? – disse la piccola sconosciuta – Hai visto che so volare in alto?
-Eh, già… -ammise lui con il fiatone.
Papà gli aveva sempre detto che non era educato non presentarsi, soprattutto con una ragazza. E quella tipetta lì era giusta e si meritava il suo rispetto.
-Io sono Harm. E tu, come ti chiami?
-Julia. Sai, tu ti chiami come il mio papà.
-Davvero? – fece Harm sgranando i suoi occhioni cerulei.
-Sì. Anche lui è Harm… Sai, lui è capitano della Marina. Il capitano Harmon Rabb.
-No, ti sbagli. Harmon Rabb è mio padre. Ed è tenente – disse Harm, un po’ vergognoso di non poter ribattere a quella serpentella con un grado più alto del suo.
-No, no. Il mio papà è capitano ed è avvocato. Il più bravo di tutto il JAG.
“Il JAG? Che roba è? Questa bambina è tutta scema.” pensò il suo coetaneo.
-Ti sbagli, Harmon Rabb è un aviatore. Un eroe di guerra!
-Una volta sì,– asserì tutta sicura Julia – ma ora fa l’avvocato.
-Sei una bugiona! –sbottò il bambino tutto spazientito e a corto di argomenti.
-Non è vero! Non sono una bugiona!
-Bugiona!
-Nooo. Ti dico la verità! – insistette la piccola puntando i piedi nella polvere.
Harm tirò un sospiro di sollievo. Suo padre si stava avvicinando. Forse l’avrebbe salvato dalle unghie di quella tigrotta arrabbiata.
- Guarda, il mio papà è uguale a quell’uomo lì – fece lei indicando Harmon Rabb sr – Solo che non ha i baffi.
-Figliolo, perché litighi con questa tua nuova amichetta? Sai che devi essere gentile con le signorine – lo rimproverò il padre scompigliandogli i capelli.
-Scusa…
Harm chinò la testa rassegnato. Suo padre aveva ragione, anche se quella lì era davvero impertinente. Ma cosa faceva ora? Le accarezzava la testa? E la prendeva pure in braccio molto dolcemente? Il bambino bruciava di gelosia. Ma la faccia di quell’uomo che abbracciava Julia non era più la stessa. Quell’uomo era suo padre e allo stesso tempo non lo era. Non aveva né i baffi né il giubbotto da aviatore. E sembrava anche più vecchio, tanto che aveva già una ruga leggera tra le sopracciglia.
 
       
 
      
-Tomcat quattro otto tre in finale di avvicinamento – comunicò Harm all’operatore del ponte di volo della Patrick Henry.
-Sei un po’ sotto il sentiero di discesa! Tiralo su! Tiralo su! – risposero dalla portaerei.
-Papà! E’ buio pesto… è tutto imbrogliato!
-Coraggio figliolo, portalo giù – gli disse Harmon Rabb sr dal sedile del RIO.
-Motore! Motore! Tira su il muso! – gridò alla radio l’operatore.
-Non ce la faccio!
-Eiezione! Eiezione! – dal ponte di volo, una sola parola.
- Dai Harm, portaci a casa! – lo incoraggiò il padre.
“Non posso uccidere anche mio padre” pensò disperato Harm.
Agganciò il secondo cavo e l’aereo fu arrestato molto bruscamente. Un appontaggio duro, ma erano ritornati a casa, senza danni.
-Sei un grande aviatore, molto meglio di me. – gli disse il padre mentre si ritiravano sottocoperta, lungo l’asfalto del ponte – E sarai un padre fantastico – aggiunse mettendogli un braccio intorno alla spalla.
Harm si commosse nel profondo del cuore.
-Papà, nella nostra famiglia c’è mai stata una Julia? Sai, ho fatto uno strano sogno…
-Non ancora – rispose Harmon Rabb sr, con uno dei suoi irresistibili sorrisi. 
 

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Capitolo 20
*** Un anno a primavera ***


Meg era ferma nel corridoio da circa una trentina di minuti e osservava con attenta apprensione attraverso la finestrella, ma non aveva cuore di entrare. Harm si era già svegliato dal sonno, ne era sicura. Lo aveva visto muoversi. Non erano contrazioni involontarie dei muscoli, ma gesti decisi seppure ancora deboli. Quell’organismo così vigoroso, frenato dalla violenza di uno spietato killer, si riaffacciava di nuovo alla luce del giorno. La giovane ufficiale tirò un sospiro di sollievo. Harm, anche se non suo, tornava finalmente anche a lei. Inoltre Hemlock, il pericoloso sicario che lo aveva ferito, seminando il panico al JAG, era stato eliminato dagli uomini del servizio di controspionaggio. Un’operazione molto complessa e piena di rischi che si era conclusa all’Ambassy Row Hotel, dove l’astutissimo criminale dalle mille identità era stato intercettato, proprio sul punto di mettere in atto un piano per uccidere il presidente russo Eltsin nel corso di una delicata trattativa internazionale.
Non se la sentiva però di entrare a salutare Harm e a dargli la bella notizia. Su una poltroncina, accanto al bel dormiente appena ridestatosi, c’era la sua dolce sposa, la madre del suo bambino. Era crollata dal sonno. “Povera ragazza” pensò il tenente Austin con sincera compassione. Livia gli era rimasta accanto per tutti quei tre giorni, a dispetto del suo stato. “Ancora due settimane”, aveva risposto a Meg quando questa le aveva chiesto notizie sulla sua gravidanza. E l’aveva ringraziata con grande calore per la premura e l’affetto che dimostrava a suo marito con le sue visite in ospedale, e soprattutto per avergli prestato i primi, tempestivi soccorsi. Harm non poteva avere accanto compagna più adatta – Meg ne era certa, ora che l’aveva conosciuta. A dispetto di quello che si poteva banalmente presagire dalla sua figura minuta, che contrastava decisamente con quella imponente del suo affascinante marito, Livia era una donna tenacissima e forte. Pur nella tensione di quel drammatico momento, i suoi occhi castano verdi sembravano vibrare di un’energia inestinguibile. E quando ringraziava chi le stava vicino, sul suo bel volto da statuetta etrusca si stampavano profonde le fossette d’un sorriso aperto e sincero.  
-Tenente Austin, cosa fa lì impalata? È di piantone? – si sentì dire alle spalle. Era arrivato anche l’ammiraglio.   
 
 
 
 
-Livia
Possibile che stesse ancora sognando? Aprì gli occhi. Harm era desto e la stava chiamando. Il cuore le sobbalzò nel petto. In un secondo fu con lui e gli prese la mano.
-Amore mio, bentornato!
-Sei bellissima… - fece Harm rinsaldando la stretta.
-Devi essere ancora stordito… sono tre giorni che non mi cambio e puzzo come una capra! – scherzò lei per stemperare l’emozione.
- Ma che giorno è? – chiese lui sorridendo.
Harm era ritornato, e con lui quel sole meraviglioso che illuminava il suo volto.
- Il 24 aprile…
- Oh no, il 22…
-Non ti preoccupare, avremo almeno un’altra cinquantina di anniversari da festeggiare… ti passerà la voglia!
Con molta discrezione, l’ammiraglio entrò nella stanza.
-Bentornato, capitano! Comodo, comodo – gli disse, quando vide che Rabb cercava goffamente di raccogliere le energie per assumere una postura dignitosa.
-Grazie, ammiraglio. Di tutto! – Livia lasciò per un momento Harm per stringere la mano al superiore di suo marito.
-Dovere, Livia. E ora, capitano, pensi solo a rimettersi e a diventare padre. Il JAG non scappa…
-Grazie, signore. Tanto ci penserà questa qua a tenermi in riga.
Chegwidden sorrise tenuamente e si congedò con un cenno del capo.
Harm guardò Livia con un’espressione molto interrogativa.
-Che c’è? – fece lei con un sorriso ironico.
-Da quand’è che siete così intimi, Livia?
-Ti consiglio di non sprecare il fiato, sei ancora troppo debole per fare il geloso… Chegwidden è stato molto gentile con me. Sai, tra l’altro parla anche un ottimo italiano… decisamente molto migliore del tuo!
-Ah sì? – ribatté lui inarcando un sopracciglio.
Per tutta risposta, lei gli accarezzò i capelli. Harm le appoggiò la mano sul ventre. Anche il piccolo decise di partecipare alla gioia dei suoi genitori.
-La nostra bambina è una calciatrice! – esclamò il futuro padre.
“Eh sì, la nostra bambina!” si disse Livia, dolcemente presaga.  

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Capitolo 21
*** L'appuntamento ***


Dopo le dimissioni dall’ospedale, Harm aveva proseguito la sua convalescenza a casa. “Il JAG non scappa” gli aveva detto l’ammiraglio. E questa frase gli sembrava ora non solo veritiera, ma più che mai piacevole. A nemmeno trentatré anni era già capitano di corvetta. La carriera era tutta in ascesa, grazie soprattutto alla tenacia e alle ottime doti di avvocato e investigatore che aveva messo in luce durante l’ancora breve periodo di servizio presso la procura militare. Non aveva quindi bisogno di affannarsi o raspare per ottenere il successo. “E men che meno mi tocca finire nel letto della Krennick” si diceva ridendo piacevolmente tra sé e sé, memore delle insistenti e inopportune profferte della bionda ingallonata, e soprattutto di quella scena eroticomica svoltasi due mesi prima nella vecchia casa. Era dunque sicuro di meritarsi di ristorare le forze con calma, a maggior ragione dopo essersi preso una pallottola in corpo. A rendere piacevolissimo il detto di Chegwidden era la particolare circostanza in cui si stava svolgendo la convalescenza. La gestazione di Livia era quasi al termine e anche lei era a casa dal lavoro. L’occasione giusta per vivere quasi una nuova luna di miele, in versione domestica e metropolitana. Un accudimento reciproco, un tenerissimo e affettuoso scambio  di cure e di attenzioni. Harm si era messo in piedi con sorprendente rapidità e c’era stato modo di fare qualche salutare e gradevole passeggiata nel parco, sorreggendosi amorevolmente a vicenda. “Come due vecchietti” commentava lei molto divertita.    
Era una dolce serata di inizio maggio. Livia aveva cominciato a sentire alcune contrazioni, ma dato che erano abbastanza lievi e sporadiche, non aveva ancora voluto mettere in allarme il marito e aveva preferito continuare a godersi il tranquillo e romantico dopocena sul divano. Harm si mise a stuzzicarle maliziosamente l’orecchio e a baciarla con appassionata lentezza e cominciò a seguire il corso delle sue fantasie. Un bel bagno nella nuova vasca, alla luce fioca delle candele profumate. Coccole e carezze da regalare a quella donna meravigliosa. Ma nel bel mezzo di quel sogno così eccitante, qualcuno ebbe la brutta idea  di telefonare.
“Chi è che rompe, a quest’ora?” pensò lui molto seccato. Non aveva la minima intenzione di spostare nemmeno un muscolo per assecondare l’impaziente scocciatore. Tanto più che il cellulare, dimenticato in cucina, continuava ad emettere il suo trillo sfondatimpani. Ma prima o poi quello là si sarebbe stancato.
-Dai, Harm… Va’ a rispondere – gli suggerì Livia con un tono un po’ stanco – Sarà tua madre…
-Non può essere… le ho detto che chiamerò io quando sarà il momento.
-Allora va’ almeno a spegnerlo…
Harm si alzò di malavoglia. Ormai il trillo si era placato. Ma proprio mentre stava mettendo mano al telefono rimasto sul  bancone, questo ricominciò a suonare. Tanto valeva rispondere, a questo punto.
-Rabb.
-Ciao, Harm! – esclamò con slancio una voce femminile.
-Ciao, carissima! – rispose Harm felice di risentirla dopo tanto tempo - Qual buon vento?
-La Seahawk è in porto, a Norfolk. Che ne dici di vederci? Washington non è poi tanto lontana… - propose lei.
- Vedi, mi sono sposato…  e mia moglie sta per partorire.
Dall’altro capo del telefono calò un glaciale silenzio.
-… ci sei ancora? – chiese lui.
-Sì, certo. Allora scusami il disturbo… -  si giustificò la donna piuttosto delusa.
-Ma figurati… sarà per un’altra volta, ok?
-Ok… - fece lei poco convinta.
- Mi ha fatto molto piacere risentirti! Stammi bene… ciao!
-Ciao, Harm – sussurrò lei con un tono che sapeva di addio.
Era rimasto davvero stupito da quella chiamata. Tutto poteva aspettarsi, tranne che risentire quella voce dopo più di due anni. Per un istante il suo ricordo corse agli anni dell’Accademia, quando con lei aveva vissuto una romantica storia d’amore. Le aveva scritto tante lettere tenere e appassionate, soprattutto dopo che le loro strade in Marina si erano separate. All’accademia di volo lui, a calcare le nobili orme dei Rabb, ai corsi di crittografia lei. Ma Diane apparteneva al passato e lì rimaneva. Harm non aveva dubbi. Ora c’era Livia nella sua vita. E anche se non le aveva mai dedicato romanticherie postadolescenziali, era lei che contava. Per sempre. Lei e quella piccola creatura che stava per venire alla luce. L’attesa lo galvanizzava totalmente. Riprese il filo dei suoi pensieri in libertà e tornò a fantasticare sul bagno serale. Un ottimo sistema per rilassarsi e godere di una dolcissima intimità con sua moglie.
-Che ne dici di fare un bel bagno, come ieri sera?
-No, Harm. Sono stanca morta. Anzi, vado a stendermi – gli rispose lei. “Sarà una lunga notte” pensò.
-Cinque minuti e ti raggiungo – le disse aiutandola ad alzarsi e dandole un bacio.
Livia non aveva chiesto nulla della chiamata. E lui non aveva voglia di parlare di Diane. Il passato doveva rimanere al suo posto.
 
 
-Harm, penso che ci siamo, ormai – fece Livia accendendo la luce sul comodino un’ora più tardi – Chiama un taxi, per favore.
Harm si stiracchiò e si mise a sedere sul letto.
-Un taxi? Ho la Corvette e tu vuoi andare a partorire su uno squallido taxi?
-La Corvette? Ma te la senti di guidare?
-Certo! Adoro l’aria notturna frizzantina che entra nei finestrini…
-Dai, non fare il galletto… prendi la familiare.
Harm era tutto ringalluzzito. Quella notte aveva sì un appuntamento. Il più importante della sua vita.    
 

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Capitolo 22
*** Julia ***


Nella sala tracciati, Livia venne subito sottoposta a controllo.
-E’ tutto regolare, ma le contrazioni sono ancora molto distanziate. E la dilatazione è minima. Nemmeno  un centimetro. Ma dottoressa, è sicura di essere a termine? Mi sembra molto magra – disse l’ostetrica con una punta d’invidia, del tutto comprensibile, in fondo. Cynthia Sommars era apprezzata alla Clinica universitaria di Georgetown per la sua esperienza ventennale e il suo amabilissimo carattere che la rendevano molto sensibile nell’accompagnare le partorienti nel loro difficile ma emozionante percorso. Era però altrettanto famosa per la sua figura da Venere steatopigia che la faceva sembrare, più che la madre di una bella ragazza quindicenne, la matriarca di un’intera progenie di ippopotami.   
-Ho preso in tutto sette chili. Ma sono già alla trentasettesima settimana – rispose la Vannucci con convinzione. “Se non sembro una balena spiaggiata è solo perché non mi sono strafogata di schifezze con la scusa di essere incinta e perché ho continuato ad andare in giro sulle mie gambe fino a mezz’ora fa” pensò, ma una nuova contrazione venne a reprimere la sua momentanea acrimonia nei confronti di Cynthia. Una sorta di sano e naturale amore-odio terapeutico.
-Non voglio tornare a casa. Aspettiamo qui – disse risoluta, appena uscita in corridoio.
-E se non succede niente? – chiese Harm.
-Vedrai che nasce prima di domattina – rispose sicura sua moglie – Comunque non ho la benché minima intenzione di farmi inchiodare a un letto per tutto il travaglio. Capito?
Harm annuì. “Oh no, speriamo che quando verranno le doglie vere non si metta ad insultarmi”.     
 
 
 
-Complimenti, è una bellissima bambina – disse la Sommars tirando fuori la neonata e accomodandola su un panno verdeazzurro. Legò con automatica perizia il cordone ombelicale e porse le forbici al trepidante neopadre – A lei l’onore.
Ad Harm le mani tremavano più che la prima volta che aveva toccato i comandi di un F-14. Ma si sentiva anche pervaso di una forza sconosciuta e irresistibile. Gli incerti della vita avevano impresso una brusca e secca virata al corso della sua vita, che l’aveva trasformato da Top Gun dell’aviazione di Marina a principe del Foro militare. Sarebbe stato di sicuro in grado di affrontare anche la nuova, elettrizzante avventura che gli si dispiegava davanti. Quella creaturina minuscola che ora gridava alla luce, alle cui sponde si era appena affacciata, aveva bisogno di tutto il suo sostegno e di tutto il suo amore. Dell’affetto e della tenerezza sua e di Livia.  Da ora in poi avrebbe avuto per padre un uomo appassionato e ardente, dal cuore pieno di tuoni e lampi. E per madre una  donna forte e solida, come una quercia dalle profondissime radici.
L’ostetrica mise la piccolina tra le braccia della mamma. Harm guardò Livia con immensa tenerezza. Era spettinata e sudata, letteralmente distrutta dalle lunghe ore di travaglio. Sette e interminabili, durante le quali lui si era sentito impotente e disarmato  come non mai. Incapace di alleviare quella sua pena così straziante, a cui solo un’iniezione di anestetico, e non la dedizione di un giovane uomo innamorato aveva potuto dare sollievo.  
-Benvenuta amore mio – disse lei accarezzando leggermente con un dito la piccola manina. Cinque dita piccole e sottili come fiammiferini – Ahi!
-Un ultimo sforzo, Livia – disse Cynthia – Coraggio, la tua bimba è già qui con te.
 
 
 
-Tre chili tre e cinquanta. Cinquantadue centimetri di lunghezza. Proprio una bella bimba – comunicò la Sommars ripresentando ai genitori la piccolina tutta nettata e rivestita di una tutina bianca – Avete già pensato a un nome?
- Che ne dici di Julia? – propose Harm alla moglie.
Livia guardò per un istante negli occhi il suo piccolo, prezioso tesoro.
-Sì, è un nome bellissimo – concordò con un sorriso.
L’ostetrica compilò i documenti e scrisse i dati nel braccialetto della neonata. Poi uscì per lasciare sola la nuova famiglia.
-Guarda, ha gli occhi azzurri! – disse Harm.
-La maggior parte dei neonati ha gli occhi chiari… - osservò Livia con un sorriso dolcissimo. Quello di una madre.
-Sono azzurri come quelli di nonna Sarah.
-E come quelli di mamma – aggiunse lei. “E di Luigi” pensò con una punta di commozione, rattristata dal fatto che la sua famiglia non fosse lì a condividere con lei quella gioia ineffabile.
- Harm, Julia è un nome bellissimo… ma come ti è venuto in mente? – gli chiese più tardi, mentre la loro bambina riposava serena nella nursery.
-Quando sono andato a Roma da tuo fratello ho scoperto che la figlia dell’imperatore Augusto si chiamava così…
-Ah… ah e tu chi saresti? L’Augusto della corte marziale? – lo schernì lei.
-Visto che tu sei Livia… la moglie – la stuzzicò lui.
-Se mi ricordo bene, questa è stata l’unica cosa intelligente che mi hai detto la prima volta che ci siamo incontrati…
-Ah sì? Guarda che ti sbagli… Ero semplicemente irresistibile.
-Eri semplicemente idiota. E odioso.
-Ma se sono sempre irresistibile! – le disse chinandosi a baciarla. Poco gli importava quante mogli avesse avuto Augusto. Lui aveva Livia. La sua prima, la sua unica,  per sempre. E pensò in cuor suo che sei settimane di astinenza sarebbero state un supplizio insopportabile. 

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Capitolo 23
*** Notizie dalla Seahawk ***


Che nottata tremenda! Quella maledetta frutta bastarda lo aveva messo letteralmente al tappeto. Ridotto a contorcersi sulla tazza del gabinetto tra lancinanti crampi intestinali e sudori freddi. Nel turno di guardia si era persino beccato un solenne liscebusso da un superiore. Ma che cavolo! A quell’attaccabrighe del tenente Lamm non era mai capitato di avere il transito intestinale vorticosamente accelerato? “Poco male” si disse “Se mi deferiscono alla corte marziale per assenza ingiustificata, userò la cacarella come circostanza attenuante. Mitico!”. E a questo pensiero la sua faccia grassoccia e rubiconda si illuminò a un sorriso soddisfatto e i suoi vispissimi occhi azzurri si fecero sparluccicanti.  Per fortuna quella nottataccia da incubo era finita. Le sue budella sembravano avere smesso di ballare il rock’n’roll, ma il suo stomaco brontolava imperiosamente. “Ci credo! Questa notte avrò perso un chilo buono!” pensò ridacchiando. Erano già le otto suonate. Ora di colazione: il primo capo Morrisette, un simpatico quarantenne con cui aveva stretto amicizia, aveva da poco finito la guardia e aveva insistito perché andassero insieme alla tavola calda della Base Navale di Norfolk.
-Perché dobbiamo pagare per uova e salsicce, quando sulla nave possiamo averle gratis? – chiese candidamente il giovane guardiamarina mentre camminavano lungo il molo.
-Si vede che è in mare solo da sei mesi, signor Roberts! Si fidi di me, che sono ventidue anni che giro il mondo su queste carcasse d’acciaio! – ribatté con un sorriso il maturo marinaio.
Nonostante le salsicce della Seahwk fossero deliziose, il guardiamarina Bud Roberts jr era già stanco della vita di mare. Forse perché inconsciamente gli ricordava troppo Big Bud. Suo padre, un rude e sboccato primo capo in pensione. Uno per cui tirare su i suoi figli, due maschi e una femmina, significava frullarli tutti e tre di schiaffoni. E per il quale stare in Marina voleva dire sbronzarsi e andare a donne nei porti. Ma per il giovane Roberts non era così. Per lui era un onore e un privilegio servire il paese e stava lavorando duramente per conquistarsi i gradi di sottotenente, nonostante suo padre detestasse visceralmente gli ufficiali e non gliene avesse mai fatto mistero.
Per fortuna il periodo di prova come addetto alle pubbliche relazioni sulla portaerei stava per scadere. Cominciava a venirgli a noia starsene in mezzo agli aviatori, eroici maschioni tutti sicuri di sé, e ai marinai di lungo corso, gente un po’ volgarotta, anche se grazie al suo carattere gioviale e aperto era sempre andato d’accordo con tutti, senza troppi sforzi. E tra poco sarebbe arrivata la conferma, o una nuova destinazione. Roberts aveva ripreso in mano gli studi di legge che aveva iniziato al College e continuava a coltivare il suo pallino per l’informatica, la crittografia e le telecomunicazioni. E così sognava un incarico all’avvocatura militare, soprattutto dopo che era venuto a indagare un paio di volte sulla Seahawk uno straordinario ufficiale del JAG. Harmon Rabb jr, una specie di Superman dal volto umano che Bud aveva immediatamente assurto a suo idolo personale. Quel capitano di corvetta di soli cinque anni più grande di lui era un mirabolante ibrido tra Rambo, McGyver, Magnum P.I. e il mitico capitano Kirk. Era pure un Top Gun pluridecorato. Sulla portaerei ancora si parlava di quella volta che aveva fatto appontare l’F-14 del CAG, pilotandolo dal sedile posteriore. E per fortuna che dicevano che di notte fosse mezzo cieco! Roberts non aveva mai visto il suo paladino in un’aula di tribunale, ma se lo immaginava semplicemente perfetto. Elegante e astuto come Matlock, ardente e rigoroso come Ben Stone di “Law & Order”.  Nonostante le sue doti quasi sovrumane, confermate da una prestanza e da una bellezza notevoli, Rabb pareva un tipo veramente a posto. Tutt’altro che un pallone gonfiato. Era sempre stato affabile con lui, di una gentilezza schietta, non quella forzata che si mantiene nei confronti di un ragazzotto grasso e un po’ goffo. E ora la principale aspirazione di Bud era quella di diventare l’assistente di quel fenomeno. Essere preso sotto la sua ala protettrice. E chissà, farsi dare anche qualche dritta su come conquistare una ragazza. Si era proprio stancato di essere single.         
-Guardi, signor Roberts! – esclamò Morrisette indicando un’auto parcheggiata con poco garbo davanti alla tavola calda.  Dentro si scorgeva una persona seduta.
-E’ il tenente Schonke! – gridò Roberts avvicinandosi. Era inorridito e sconvolto: al posto di guida c’era una giovane crittografa della Seahawk che aveva salutato solo poche ore prima, mentre sbarcava per andare in libera uscita. Portava ancora la divisa e il cappello d’ordinanza. Ma la camicetta bianca era scarlatta di sangue. Diane Schonke era stata barbaramente assassinata.
-Non tocchi niente, signore! – lo apostrofò il primo capo, visibilmente turbato anche lui. Ora bisognava aspettare la Polizia Militare, il JAG e forse anche il Servizio Investigativo della Marina.
Il guardiamarina Bud Roberts jr non aveva la benché minima intenzione di toccare nulla. Era paralizzato dall’orrore e dal dolore. In quei mesi in mare, aveva stretto un cordiale rapporto con il tenente Schonke. Non era proprio amicizia, ma poco ci mancava. Diane aveva solo un paio d’anni più di lui ed era decisamente adorabile. Aveva un carattere molto dolce e spiritoso. E poi, era una vera bellezza. Le sue forme così generose e sui occhi nocciola grandi ed espressivi rendevano la sua compagnia ancor più piacevole. Ma Bud non si era mai fatto avanti. Sia per le rigide regole vigenti in Marina contro la fraternizzazione, sia perché si rendeva conto che il tenente Schonke era del tutto fuori dalla sua portata. Ma anche perché si vociferava che lei fosse perdutamente e irrimediabilmente innamorata di un suo vecchio compagno d’accademia. Anche se le portaerei sono come dei villaggi galleggianti, dei veri agglomerati di pettegoli, lui sapeva che di sicuro c’era un fondo di verità. Per una ragazza speciale come Diane ci voleva un tipo super. Uno come Rabb, per esempio. Peccato che il capitano fosse già sposato, altrimenti avrebbero formato insieme la coppia perfetta.      

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Capitolo 24
*** Tutte le donne del Capitano ***


Il guardiamarina Bud Roberts dovette riaversi in breve dal turbamento e dal raccapriccio. Nel giro di una mezzoretta, il molo davanti alla tavola calda fu invaso dagli agenti.
-Guardate dappertutto! Nei cassonetti, in mare… voglio l’arma del delitto! – intimò ai suoi uomini Bryan Tacchino, al comando della Polizia Militare della Seahawk. “Tàcchino” aveva puntualizzato l’arcigno ispettore, per pararsi le spalle da sgradevoli ed ironici errori di pronuncia.
“Anche nel peggio c’è sempre un lato comico” si disse Bud “guarda come ingrossa il collo e i bargigli…”.
In qualità di addetto alle pubbliche relazioni della portaerei, gli toccò accompagnare nella cabina della povera Diane il pennuto in borghese.
-Lei si intende di informatica, Budders? – gli chiese l’investigatore. Il pc della Schonke era protetto da una password.
-Un po’. Ma il mio nome è Roberts, signore – replicò il giovane ufficiale, anche se avrebbe voluto digli sul muso “Signor Tacchìno”. Non gli piaceva il trattamento che quell’uomo gli riservava. Più che un PR, si sentiva usato come un elettrodomestico multifunzione. E poi, vedere l’alloggio della sua amica rivoltato come un calzino gli faceva venire il voltastomaco. Come il pensiero di quella cara e dolce ragazza ridotta ormai solo a un cadavere dentro un sacco con la zip, pronto per essere macellato sul tavolo autoptico.
– Però, signore, con rispetto parlando… non si dovrebbe aspettare l’ufficiale del JAG incaricato delle indagini?
-C’è qualcosa nella cassaforte, Reece? – fece Tacchino a un agente che era alle prese con la combinazione, ignorando deliberatamente l’acuta osservazione di Roberts.
-Lettere. Un fascio di lettere. E anche bello grosso – rispose Reece, tirando fuori un involto di buste, fogli e cartoline.
-Bene. Il capitano Holbarth ci lascia la mensa ufficiali come centro operativo. Si metta subito al lavoro e legga da capo a fondo quelle lettere. Voglio sapere tutto sulla vita privata della vittima.
Reece uscì dall’alloggio, incrociando sulla porta una graziosa biondina con i gradi da sottotenente.
-E allora, Roberts? E’ riuscito ad entrare nel sistema operativo?  - chiese l’ispettore con aria molto seccata.
-Questo è compito mio, se permette – intervenne prontamente la neoarrivata. Bud alzò lo sguardo e si trovò davanti un gran bel pezzo di ragazza in divisa caki. Un sottotenente del JAG. “Un motivo in più per continuare gli studi di legge e per chiedere il cambio di destinazione” pensò, e nello stesso tempo le sue guance si colorarono di un rossore colpevole. Non si sentiva granché fiero di se stesso. Beccato a curiosare tra le prove di un delitto. Da una superiore così carina, per giunta – Sottotenente Meg Austin, Procura Generale della Marina – si presentò l’avvenente sconosciuta.
-Ah, il JAG! Gli investigatori più bravi della Marina! E come mai hanno mandato lei? – fece Tacchino molto sarcastico - Il famoso capitano Rabb è andato a discutere una causa interstellare?
La Austin non raccolse. Quello era il primo caso importante che le veniva affidato. La responsabilità diretta sulle indagini di un caso di omicidio.
-Vediamo un po’ cosa c’è qua dentro – si sedette al pc e cominciò a forzare il sistema operativo.
Tacchino lasciò l’alloggio mugugnando e trascinò con sé un guardiamarina Roberts un po’ dispiaciuto.
-Si tenga a disposizione. Avrò bisogno di interrogarla – e senza nemmeno congedarsi, si attaccò al telefono. 
 
 
 
-Dov’è la piccola Rabb? – chiese un’arzilla vecchietta facendo capolino nella stanza d’ospedale.
-Nonna Sarah! – esclamò Harm con un sorriso, fagocitandola in un forte abbraccio.
Anche i neononni non stavano nella pelle.
-E’ bellissima! – disse di slancio Frank, avvicinandosi a Julia che sbadigliava beata tra le braccia della madre.
-Come stai, cara? – chiese con premura Trish, carezzando la fronte della nuora.
-Benone… grazie- fece Livia con un sorriso soddisfatto, distogliendo per un attimo gli occhi da quel piccolo miracolo.
-Che bella la nostra piccolina! Io sono nonna… e il mio ragazzone è diventato papà! – disse la signora Burnett. “Il passaggio di grado fa perdere la testa” pensò, per autogiustificarsi di quelle parole un po’ sciocche e banali. Harm premiò anche lei con un bell’abbraccio, stringendola forte a sé. 
La gioia nella stanza era alle stelle.
-Voglio fare una foto alle quattro donne della mia vita! – propose il neopadre al colmo dell’entusiasmo.       
 
 
 
 
L’ammiraglio Chegwidden era molto contrariato, quella mattina. Un tenente trovato morto sulla banchina del porto di Norfolk. Il capitano Rabb ancora in convalescenza, che a breve si sarebbe trasformata in congedo parentale. E così, in assenza di personale di fiducia libero da altri casi, si era dovuto rassegnare a mandare da sola la Austin. Brava come assistente, ma ancora poco autonoma nelle indagini.
E ora per giunta, tornando dall’aula dove era andato a seguire un importante dibattimento, si ritrovava la Krennick che si gingillava nel suo ufficio di mogano. Sulla sua poltrona, per giunta.
“Maledetto il giorno che l’ho scelta come mia aiutante! Questa qua, poco ci manca che mi salti addosso per fare carriera!”
-Ho scoperto che la vittima era un’amica del capitano Rabb… – lo informò lei con tono molto malizioso.
-E quella è la mia poltrona… - fece lei invitandola con un cenno ad alzarsi.
-Ah! - la Krennick obbedì scuotendo la testa con fare civettuolo – Non pensa che sia meglio che mi occupi io delle indagini al posto della Austin?
-Non ne vedo il motivo… - osservò Chegwidden – il tenente si sta facendo le ossa, ma ha buone qualità. E ad essere sincero, capitano, lei non ha grandi capacità investigative…
-Ma ho straordinarie qualità diplomatiche. Sono un’ottima mediatrice… – ammiccò la Krennick sedendosi e accavallando le gambe.
“Con questi argomenti, anche quell’osso duro dell’ispettore Tacchìno collaborerà più volentieri. Tacchino? Ma che razza di nome è? E io che pensavo che Chegwidden fosse ridicolo”.
 
 
 
 
-Ispettore, queste sono tutte lettere d’amore. Di un certo Harm. Harmon Rabb jr, a quanto risulta dalle buste. L’ultima, una cartolina, è datata 27 marzo 1994. Poco più di due anni fa - dopo due ore, Reece aveva terminato il suo lavoro.
-Rabb? –chiese Tacchino stupefatto.
-Sì. Dall’NCIS mi hanno mandato la sua scheda personale. È un capitano di corvetta - disse l’agente porgendo l’incartamento al suo superiore.
-Il mondo è proprio piccolo… - fece l’ispettore aprendo la cartella – la supernova del JAG amante di una vittima di stupro e di omicidio? 
-Eh già… il capitano è sposato, ma qui non dice da quanto… - osservò l’altro.
Il cellulare di Tacchino interruppe lo scambio di idee.
-Sì? Può farmi inviare i tabulati? La ringrazio molto, agente. A presto.
Reece guardò il suo capo con aria interrogativa.
-Indovini di chi è l’ultimo numero chiamato dalla vittima…
-Rabb? – propose l’agente.
- Abbiamo il nostro uomo. Non ci resta che andarlo a prendere. E so già anche il movente. Nella vita di Rabb c’era una donna di troppo.
 
 

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Capitolo 25
*** Accusato ***


-Vieni, figliolo… fiori e palloncini sono per donne e bambini. Tu ti meriti un bel sigaro – disse Frank dando una pacca sulla spalla ad Harm.
-E’ meglio di no… Livia non vuole e poi, non voglio lasciarla sola con le suocere!
-Dai, Harm… non capita tutti i giorni di diventare padre. Non preoccuparti per tua moglie. E’ in buona compagnia. Tre madri si intendono benissimo tra loro…
-Hai ragione – fece il capitano Rabb ormai convinto, seguendo il patrigno nel corridoio.
Frank Burnett era un uomo saggio ed equilibrato, e lui era felice che fosse da tanti anni al fianco di sua madre, ad amarla e a sostenerla. A tutta prima non era stato facile accettarlo. Harm lo aveva visto come un estraneo, un usurpatore del posto che doveva essere riservato solo al suo amatissimo ed eroico padre. Ma l’adolescenza del giovane Rabb era finita, ora più che mai, e la sua stima nei confronti del patrigno aveva ormai solidissime e profonde radici.
-E’ lui – disse un uomo appoggiato al bancone degli infermieri. Lui e il suo collega si diressero con passo deciso verso Harm.
-Harmon Rabb jr?
-Sì. Perché? – fece lui sorpreso.
-E’ in arresto per l’omicidio e lo stupro del tenente Diane Schonke. Ha il diritto di rimanere in silenzio. Ogni cosa che dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale – fece quello più grosso mettendogli le manette.
-Ma cosa dice? Diane è morta? Come? Quando? – disse frastornato Rabb.
-Lasciatelo. Dev’esserci un errore di persona… - reagì esterrefatto Frank.
-Si faccia da parte, signore. – lo bloccò l’energumeno – O dovremo arrestare anche lei per resistenza alla forza pubblica.   
-Frank, avvisa l’ammiraglio Chegwidden! – furono le ultime concitate parole di Harm mentre lo portavano via.
 
 
 
-Allora, capitano Rabb. Le conviene confessare. Abbiamo le sue lettere d’amore alla vittima. Fotografie che vi ritraggono insieme. E pure una poesia sul sole, sul mare… Complimenti – disse beffardo l’ispettore Tacchino – lei ha una vena lirica da premio Nobel! Ma soprattutto, la vittima l’ha chiamata poco prima di morire.
-  Non la chiami la vittima. Il suo nome è Diane – ribatté Rabb indignato. Era stremato dalla lunga notte insonne, ma aveva raccolto le ultime energie per onorare la memoria di Diane.
-E va bene, come vuole lei, capitano. L’ultimo numero chiamato dal tenente Schonke è proprio il suo. Non vorrà negare anche questo… abbiamo i tabulati telefonici. La carta canta!
Il funzionario della polizia militare gli agitò davanti al naso un fascicolo, con un’espressione facciale a metà strada tra il soddisfatto e lo stizzoso. Quel Rabb era proprio un osso duro.
-Non nego nulla. E perché dovrei? Mi ha chiamato ieri sera, intorno alle ventuno…  voleva vedermi.
-Lei è andato all’appuntamento. La Schonke era ossessionata da lei. Stava persino scrivendo un romanzo… e sa chi era il protagonista?
-Non saprei… - ammise Harm con sincera schiettezza. “Perché questo gioca agli indovinelli? Tra un po’ mi schizza il cervello fuori dalla testa”.
-Lei, ovviamente. E’ evidente che il tenente non ne voleva sapere di interrompere la vostra relazione, anzi l’ha minacciata di spifferare tutto a sua moglie. Lei non ci ha visto più dalla rabbia e l’ha accoltellata…
Dietro il vetro della sala interrogatori, due paia d’occhi si godevano lo spettacolo. Una bionda sui quarant’anni con l’uniforme della Marina e un uomo dai capelli grigi un po’ più vecchio. Un agente speciale dell’NCIS.
-Mi sembra che questo interrogatorio non stia portando a nulla. Lei che dice?
-Il capitano Rabb è uno che non molla tanto facilmente – rispose lei con una punta di compiacimento.
-Farebbe meglio a interrogarlo lei. Forse, vedendo una collega, collaborerà di più.
-Mi propone il vecchio giochetto del poliziotto buono e di quello cattivo? – chiese la donna sporgendosi maliziosamente verso di lui.
-Funziona sempre… - replicò l’agente – Creda a me, che sono dodici anni che faccio questo lavoro.
E nel dire questo, si allontanò.
-Sarà… nel dubbio, sempre meglio provare- disse lei entrando nella stanzetta.
“Creda a me, capitano Krennick. In dodici anni all’NCIS ho imparato a riconoscere  un colpevole alla prima occhiata. Quel ragazzo lì non è certo un omicida. E men che meno uno stupratore”.
-Per favore, ispettore… ci può lasciare soli per qualche minuto? – chiese con melliflua gentilezza il capitano Krennick.
-Vuole già discutere la strategia difensiva, capitano?
-Solo due parole con il capitano Rabb… Dopotutto, l’ammiraglio Chegwidden ha affidato a me la direzione di questo caso… non vorrà mica inimicarsi l’Avvocatura Generale della Marina?
“Avvocati!” Tacchino scosse la testa e uscì dalla stanza. Tanto c’era sempre il vetro per controllare. Quella virago dalle gambe mozzafiato era troppo invadente per i suoi gusti, ma doveva lasciare spazio anche a lei. Dopotutto, il principale indiziato era proprio un uomo del JAG.
-Capitano Rabb… Harm – esordì con un sorriso quando furono rimasti soli. Meglio recitare la parte della buona. Rabb avrebbe collaborato più volentieri.
“Poche smancerie… lo so benissimo che ci godi a vedermi nei guai. Anzi, son sicuro che hai insistito con l’ammiraglio per avere questo incarico.”
-Con rispetto parlando, capitano, possiamo fare presto? Questa notte è nata mia figlia… io sono stato all’ospedale di Georgetown dalle ventidue fino a stamattina, quando sono stato arrestato. Se verificate il mio alibi, vedrete che non c’è motivo di trattenermi…
“Lo sai benissimo che la testimonianza di un coniuge non ha valore in tribunale. Questa volta la tua nanetta con gli occhiali non può venirti a salvare!”
-Non si preoccupi, stiamo verificando. Piuttosto, parliamo un po’ dei suoi rapporti con la vittima… Diane, volevo dire…
-Non la vedevo da più di due anni. E non l’avevo nemmeno sentita più, finché mi ha chiamato ieri sera.
-Quindi  non era la sua amante?
-Ma quando mai? – fece con sorpresa Rabb.
-Nemmeno prima di incontrare sua moglie? – insistette lei.
-Durante l’Accademia, io e Diane abbiamo sempre rispettato il regolamento. Dopo, è diventata quasi un’abitudine.
-E cosa facevate nei weekend? Giocavate a Scarabeo? Capitano Rabb, non mi prenda in giro! – reagì la Krennick interdetta. Si alzò in piedi e lo squadrò con il suo sguardo spolpa ossa– Un rapporto tra un uomo, un maschio, e una donna può essere  platonico solo se lui è un gay! E questo non mi sembra proprio il suo caso!
“Ma perché non ti metti il cuore in pace? Ti ho fatto capire che non mi interessi… ma ora non vendicarti a questa maniera”
-Signora, la prego di non farmi più domande personali come queste.
 
 
-Capo, abbiamo il referto definitivo dell’autopsia. La morte del tenente Schonke si colloca tra le undici e l’una. Starfield ha interrogato il personale del reparto maternità di Georgetown. Rabb è stato lì con la moglie dalle ventidue di ieri sera fino al suo arresto di stamattina.
-E Norfolk-Washington non si fa certo in dieci minuti… Grazie, Markus! – disse il vecchio agente dell’NCIS.
“E bravo il nostro Tacchino pensante! Questa volta ha fatto proprio la figura del pollo”.
 

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Capitolo 26
*** Morte e Vita ***


Uscito di nuovo all’aperto, Harm respirò l’aria frizzante e serotina e gli parve di percepire di lontano una fragranza di rose. Forse quelle del famoso roseto della Casa Bianca. O forse era una mera suggestione, dovuta alle forti emozioni di quella notte e alla tensione delle ultime ore, trascorse in una piccola stanzetta interrogatori in un bunker di cemento, la sede centrale dell’NCIS. La Polizia Militare e il JAG si erano incontrati in campo neutro. Ma a lui di queste strategie non importava nulla. Così come non avrebbe chiesto un risarcimento danni, anche se di certo Frank avrebbe insistito perché si muovesse in tale direzione. Diane era morta. Uccisa nel modo più barbaro. Il suo corpo squartato sul freddo bancone d’acciaio della morgue. Con lei, s’era chiusa la porta del passato. Un capitolo importante della sua esistenza. Ma proprio oggi ne era iniziato un altro, entusiasmante e pieno di miracolosi progressi. Prese un taxi al volo per tornare al suo presente, incarnato nella Vita e nella gioia.
Livia era seduta in poltrona, con la nonna accanto che le parlava dolcemente. Tra le braccia della mamma, la piccola Julia succhiava beata il latte. Un piccolo fiorellino che si alimentava alla pianta solida e forte che lo aveva generato.
-Eccolo qua, il piccolo Harm! – esclamò nonna Sarah.
-Grazie, nonna – disse lui baciandola sulla fronte.
La dolce vecchietta accarezzò la testa di Livia e lasciò soli i due ragazzi. Quel momento così intimo doveva essere solo per loro.
-Non farmi più di questi scherzi, capito? – lo rimproverò dolcemente Livia, scoppiando in lacrime.
Harm le accarezzò il viso e la baciò teneramente sulla guancia.
Avrebbe voluto parlarle di tante cose. Della morte di Diane, della sua vita, della loro storia d’amore. E di quanto fosse felice di essere lì con loro due, in un caldo abbraccio d’amore. Ma non disse nulla, limitandosi a godere del silenzio e della tenue armonia del respiro della sua famiglia. Il lieve contrappunto della Vita.     
 
 
NdA: Grazie a tutti i lettori, di cuore.

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