La Porta dell'Inferno: Ashley

di La_Matricola
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Lo squarcio nel tessuto ***
Capitolo 3: *** Loro. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO
Ashley, Kansas.

Una città di poco più di 600 anime. 679, per l'esattezza.

Ma se cerchi sulle mappe Ashley e tenti di raggiungerla, ad Ashley non troverai nessuno di quei 679 abitanti. Non è una città fantasma del vecchio west, non è stata abbandonata. I 679 abitanti sono tutti morti.
Morti.
E la città con loro.

 Il 17 agosto del 1952, quando i sismografi dell'USGS (U.S. Geological Survey) vibrarono concitati per un forte terremoto di magnitudo 7.9, i cui ipocentro ed epicentro furono localizzati proprio sotto la cittadina di Ashley. Quando i geologi e le forze militari americane giunsero nei pressi della città per valutare i danni del sisma, non trovarono nessuna città di Ashley, nessun abitante di Ashley, nessuno. Soltanto una gigantesca crepa nella crosta terrestre, che a detta di molti testimoni oculari, pareva essere la perfetta porta per l'inferno. Fumava, ribolliva di un bagliore rossastro. La ferita della Terra fu misurata: era lunga 1 chilometro e larga circa 500 metri.

Le ricerche degli abitanti proseguirono nei giorni seguenti senza sosta, ma nessuno fu ritrovato. Nemmeno i cognugi Milton, che durante i giorni precedenti al sisma si erano allontanati dalla città. Non furono mai trovati, ne gli sposi, ne i loro figli.

Così che l'esercito dovette dichiarare il decesso collettivo dei 679 abitanti della città di Ashley la sera del 29 agosto 1952.

Nella notte del 30 agosto, un altro sisma fece eccitare i punteruoli dei sismografi americani, e nuovamente i geologi individuarono l'epicentro e l'ipocentro sotto quella che era la città di Ashley. Di nuovo venne inviata una squadra di indagine per verificare gli effetti in superficie. Tutto ciò che trovarono fu una ruga nella crosta: la porta dell'Inferno si era richiusa.

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Capitolo 2
*** Lo squarcio nel tessuto ***


~8 AGOSTO 1952.

-Mitchell! Mitchell è pronta la cena, torna in casa!- urlò Gabriel Johnathan a suo figlio, Mitchell Johnathan, di 11 anni, intento a giocare nella strada antistante alla propria abitazione con un compagno di classe delle scuole medie inferiori. Era un ragazzetto spigliato, Mitch, con quei capelli corti a spazzola e le ginocchia perennemente sbucciate coperte a malapena dai calzoncini bermuda color kaki.

-arrivo papà! Un attimo solo!- gli rispose sempre urlando suo figlio, senza nemmeno alzare la testa e degnarlo di uno sguardo. Gabriel sbuffò.

-spicciati Mitch. Tua mamma ha fatto il polpettone e...- Johnathan aveva rivolto per caso lo sguardo al cielo, e notò qualcosa di assolutamente insolito.

Una fessura nel blu slavato del cielo serale.

Una fessura NERA. Totalmente nera, come se qualcuno avesse strappato il tessuto del firmamento, aprendo un piccolo squarcio. Era una piccola fessura nera, che rimaneva li ,ferma nel cielo, quindi qualche pallone aereostatico di colore nero in volo sopra il cielo di Ashley era da escludere. Si sarebbe mosso.

Gabriel Johnathan rimase istanti che parvero eterni a fissare il cielo, facendosi scudo con la mano per ripararsi dal riverbero della scarsa luce solare, che comunque gli faceva bruciare gli occhi. Non si accorse nemmeno che suo figlio era rientrato in casa e che lo stava guardando fermo, sull'uscio.

-Papà? Tu non hai più fame?- la voce di Mitchell lo riscosse dal torpore in cui era piombato fissando quella strana fessura nera nel cielo. Si voltò a guardarlo e gli sorrise.

-ma certo che ho fame ometto, certo che si!- gli passò una mano sui capelli, arruffandoglieli. Mitchell corse via, verso il bagno. Era un ragazzetto educato, prima di mangiare "sempre lavarsi le manine, papà!".

Gabriel prese posto insieme a sua moglie, che stava portando il polpettone in tavola. La guardò per qualche istante. Erano sposati da dieci anni, e in tutto quel tempo la sua bellezza non era svanita, era magicamente sbocciata. Dalla donna giovane e inesperta che era quando si erano sposati, era diventata una meravigliosa donna matura, una mamma perfetta.

-Beverly...- cominciò, quasi esitante. Le doveva parlare di quello strano squarcio nel cielo. Suo moglie si voltò, guardandolo con occhi pieni di ammirazione, e tanto amore.

-Dimmi caro!- gli rispose, mentre posava la pirofila sull'alzatina, diffondendo nell'aria un profumo sapido di carne. Alzò lo sguardo e gli sorrise

Gabriel esitò qualche istante. Non poteva dirle ora ciò che aveva visto e che lo aveva turbato nel profondo. Li raggiunse anche suo figlio, e quello fu l'interruttore che lo fece desistere completamente dal suo proposito.

-che buon profumo!- le disse dunque, -complimenti tesoro, sei un'ottima cuoca!- La fece sorridere. Beverly si voltò, facendo frusciare l'ampia gonna a ruota, posò i guanti da forno e prese posto a tavola, accanto a suo marito.

Si presero per mano, e Mitch recitò una preghiera di ringraziamento.

"forse una preghiera è quello che ci serve" pensò Gabriel, associando il pensiero allo squarcio nero.

ORE 20.13

-Pronto, dipartimento di Polizia di Hays, Kansas. Con chi sto parlando e qual'è il motivo della sua telefonata?-

-Si, buonasera, mi chiamo Gabriel Johnathan, le telefono da Ashley-

-mi dica, signor Johnathan.-

-si, agente, vorrei segnalarle una cosa... strana...-

-mi dica.-

-vede, oggi, prima...prima di cena..-

-mi quantifichi l'orario, signor Johnathan-

-euh, circa.. circa verso le 19.30...-

-continui.-

-le dicevo, verso l'ora di cena, ero fuori sul vialetto a chiamare mio figlio in casa, quando ho alzato gli occhi al cielo e ho visto una...cosa.-

-una cosa?-

-si una..sorta di fessura-

*statico*

-agente?-

-signor Jhonathan, era una fessura nera?- nel tono dell'agente, c'era un qualosa di concitato e allarmato.

-si era nera...come fa a..-

-Gabriel, lei è la quindicesima persona che mi chiama segnalandomi uno squarcio nero. Direi che è ora di partire con le indagini. Invieremo ad Ashley un nostro agente per accertarsi della situazione. Buonanotte e grazie della segnalazione.-

peccato, che quell'agente ad Ashley non giunse mai. Per quanto si allontanasse dal dipartimento di polizia seguendo l'unica strada che conduceva ad Ashley, l'agente Allan Mace tornava sempre indietro sui suoi passi. Il lungo rettilineo che da Hays potava ad Ashley, da qualche parte evidentemente curvava tornando ad Hays.

ORE 22:17

-Pronto, dipartimento di Polizia di Hays, Kansas. Con chi sto parlando e qual'è il motivo della sua telefonata?-

-agente, agente, agente!- la voce squillante della signorina Elaine Kantor perforò i timpani dell'agente Derry.

-si calmi signora! Mi dica il suo nome! con calma-

-signorina, prego, Kantor. La chiamo perchè il buco...-

-lo squarcio nero signorina?-

-si si il buco nero... SI ALLARGA OMMIODDIO SI ALLARGA! ORA COPRE META' CIELO!- di nuovo, Elaine urlò, terrorizzata.

-signorina si calmi, ora. Rimanga in città, e non si allontani assolutamente, se non per motivi urgenti.-

-oh.- mormorò Elaine.

-cosa succede miss Kantor?-

-I signori Milton... i miei vicini. Oggi..sono andati via.-

-in quanti, signorina?-

-in quattro. Mr, Ms Milton, e i due figli Jeffrey e Brooke.-

La famiglia Milton fu la prima ad essere inserita nell'elenco dispersi. Non fece mai ritorno ad Ashley, e non venne mai ritrovata altrove.

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Capitolo 3
*** Loro. ***


~10 AGOSTO 1952, 7:38 am.
-Distretto di Polizia di Hays, Kansas. Sono l'agente capo Derry, con chi parlo e qual'è il motivo della telefonata?-

-salve, signor Derry. Sono Mary, Mary Horace, la chiamo dalla cittadina di Ashley.-

L'agente capo Derry sbuffò quasi annoiato, ma perlopiù terrorizzato dal fatto che nel giro di qualche giorno, avesse ricevuto telefonate insolite da Ashley. Più che altro, che avessero telefonato da Ashley. Era un posto così tranquillo, un paesello di meno di mille anime, e ora sembravano tutti ammattiti, e tutti irraggiungibili. Aveva inviato l'agente Mace ad indagare direttamente sul campo, ma ad Ashley non ci era mai arrivato, tornava sempre al dipartimento di polizia.

Ancora ricordava la sua faccia incredula, quando dopo tre giri compiuti a vuoto, era ritornato ad Hays.

-te lo giuro Michael, te lo giuro! ad Ashley non ci arrivi proprio! e c'è solo una strada santo cielo!- urlò Mace con gli occhi fuori dalle orbite.

-avanti Mace, non sparare cagate. Ti sei perso!-

Mace afferrò Derry per il bavero della camicia e lo strattonò un paio di volte.

-Michael c'è una sola cazzo di strada per arrivare ad Ashley partendo da Hays, e non ci si arriva nemmeno ad Ashley! Nemmeno al cartello di Ashley. Ti dico che da qualche parte quella strada curva.-


Stava succedendo qualcosa di stranissimo, ad Ashley. Gli unici contatti possibili erano telefonici. E questo era parecchio strano. Non era avvenuta alcuna frana (e come sarebbe stato possibile, erano in pianura), nessuna alluvione. Nulla che avesse potuto interrompere i contatti via terra.

Si portò la mano sulla fronte, e sbuffò nuovamente.

-Mi dica Miss Horace.-

-si è solo un'informazione... l'alba era prevista per che ora in Kansas?-

Derry aggrottò le sopracciglia, e si voltò a guardare il bollettino meteo sulla sua scrivania, fresco di qualche ora prima.

-per le 6:56 signora-

-c'è una qualche eclissi in corso allora?- incalzò la signorina Horace. Derry si voltò sulla sedia, girandosi verso la finestra e scrutò fuori. Il giardino antistante al dipartimento era illuminato dalla fioca luce del mattino, e
di eclissi nemmeno l'ombra.

Ebbe paura di rispondere.

-...no signora Horace. Nessuna eclissi.- ci fu qualche istante di silenzio.

-la ringrazio allora, agente Derry... .- rispose la signor Horace, con la voce rotta dal terrore.

-signora Horace, cosa sta succedendo?- le chiese dunque Derry, inquietato dalla voce terrorizzata della sua interlocutrice.

-agente, non saprei... Ad Ashley non è sorto il sole, oggi. E nemmeno le stelle questa notte.-


12:43 pm, 11 AGOSTO 1952


Phebe Danielewski era una signora elegante, sulla quarantina, ed abitava ad Ashley da sempre. Si era sposata giovane, all'età di 23 anni, e aveva dovuto affrontare due gravidanze abortite. Fino a quando non nacque sua figlia, Hope. Suo marito Adam e lei avevano deciso di chiamarla così, visto che ormai non nutrivano alcuna speranza di diventare genitori, e Hope era stata la loro nuova speranza di costruire una famiglia.

Quel pomeriggio, appena dopo pranzo, si stava dedicando mollemente al lavoro a maglia, adagiata sulla poltrona del salotto. Ogni tanto contemplava la foto del marito, morto tre anni prima, in un incidente sul cantiere.

Suo marito Adam era capomastro, e stavano lavorando al cantiere del nuovo minimall di Ashley, quando fu colpito da una trave di ferro pesante direttamente alla testa. Il trauma causò la frattura di alcune ossa del cranio, e i pezzi si infilzarono nel cervello, causando una pesante emoraggia interna.
Adam morì due ore dopo, in coma.

Hope aveva dodici anni, quando successe il fatto. E ne rimase traumatizzata profondamente. Per quasi un anno intero non riuscì ad accettare la morte dell'adorato padre, e continuò a comportarsi come se vivesse ancora con loro: aiutava la mamma a rifare il letto e metteva un fiorellino sul cuscino del padre come faceva da piccina, apparecchiava la tavola per tre e pretendeva che la mamma servisse anche nel piatto del padre, convinta che sarebbe tornato dal lavoro di li a poco. Quando non vedeva il padre fare ritorno, copriva il suo piatto con un coperchio e sorrideva, dicendo che probabilmente stava ancora lavorando e sarebbe tornato quando ormai lei era a scuola.

A volte gli parlava.

Anche quel pomeriggio gli parlava. Phoebe smise di sferruzzare, e tese l'orecchio. Hope era in camera sua, al secondo piano, ma aveva lasciato la porta aperta.

*ciao papà, mi sei mancato tanto. Sei mancato anche a mamma, ma sembra che ti abbia dimenticato*

-Hope?-

*no non ha un altro uomo. Non arrabbiarti papà, credo solo che faccia finta di aver dimenticato, pensando che a me facesse male. Ma sei qui ora Papà!*

papà? sta parlando ancora con suo padre? pensò Phoebe.

-Hope vieni qui per favore.- la chiamò, insospettita dal comportamento della figlia.

*devo andare papà, mamma mi chiama. Ma ci vediamo più tardi la fuori.*

Hope corse giù per le scale, fino in salotto.

-dimmi mamma.- le chiese innocentemente.

-Hope, stavi giocando con le bambole?- incalzo Phoebe, tentando di non puntare dritta al nocciolo della questione e lasciando che fosse Hope a rivelarle l'accaduto.

-no mamma.-

-eri al telefono con Martha, la tua amica di liceo?-

-nemmeno mamma, stavo semplicemente parlando con papà-

Phoebe sorrise.

-ancora parli con papà tesoro. Pensavo fossimo riuscite ad affrontare il lutto.- pronunciò lutto come se fosse una parola proibita, sottovoce.

Hope scosse la testa.

-si ci parlo mamma, ma papà era qui poco fa, l'ho salutato e mi ha detto di dirti che vi rivedrete presto. Ora scusami ma devo uscire.-

Phoebe era inorridita.

-uscire? Uscire dove che fuori è buio pesto?-

-devo andare con loro, devo unirmi a loro.- Hope parlava come se non fosse più nel salotto con sua madre.

-loro chi Hope?- le chiese Phoebe, alzandosi di scatto dalla sedia e afferrando sua figlia per le spalle, cercando di trovare un bagliore di vita nel suo sguardo catatonico.

Il lavoro a maglia cadde a terra, tintinnante.

-loro. E presto verrai anche tu.- le rispose Hope.

Phoebe la scosse, terrorizzata. Non aveva idea di chi fossero loro ma sentiva che c'era qualcosa di sbagliato in tutto ciò.

-tu non andrai da nessuna parte, e nemmeno io. Fuori è stranamente buio pesto, le scorte di cibo le abbiamo, io e te rimaniamo qui!-

-no mamma..-cominciò la ragazza -..devo andare con loro.-

Loro.

-NO HOPE!- le tirò uno schiaffo, piangendo per il terrore e la disperazione di sentire sua figlia dire certe cose. La ragazza trasalì, e parve tornare in se. Guardò la madre con estremo spavento, e pianse a dirotto. Le due donne si strinsero una nelle braccia dell'altra.

-...noi rimarremo qui...- mormorò Phoebe.

3.48 am, 12 AGOSTO 1952.

Phoebe si alzò come suo solito nel cuore della notte, e scese al pian terreno, per prendersi un bicchiere di latte fresco. Aveva caldo e aveva molta sete.

Appena scese sul giro di scale che conduceva in salotto, un refolo l'aria fresca le solleticò le caviglie.

Scese fino al divano, guardinga. Temeva che qualcuno si fosse intrufolato in casa loro. Brandì l'ombrello che aveva poggiato sul bracciolo qualche giorno prima, quando ancora c'era luce e quando era stata sorpresa da un temporale estivo mentre tornava a casa.

Si trovò davanti quello che non si sarebbe mai aspettata. La porta d'ingresso principale completamente spalancata sul buio innaturale che imperversava ad Ashley.

Le vennero in mente le parole di sua figlia.

devo andare con loro, devo unirmi a loro.

Corse di nuovo su per le scale, e spalancò di botto la porta della camera di sua figlia.

Hope non c'era più.

Hope era andata con loro.

Un gemito di dolore si levò alto in Ashley e Phoebe capì che non era solo sua figlia ad essersi unita a loro.

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