La rosa e la pioggia

di 12Dodici
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 ***
Capitolo 2: *** 02 ***
Capitolo 3: *** 03 ***



Capitolo 1
*** 01 ***


Era stravaccato sul sedile della metropolitana, appoggiato con la spalla alla parete. Il capelli neri, portati un po’ lunghi sulle orecchie - perché andare dal parrucchiere voleva dire buttare via il tempo -  erano sparsi alla rinfusa sulla fronte e un po’ sulle guance. Quasi, anche loro, fossero stanchi dalla sera prima.

I suoi occhi erano chiusi e appesantiti, la maglia con le maniche tirate sopra le mani, perché quando aveva sonno aveva anche molto freddo. I jeans accasciati sulle gambe e su delle scarpe che non erano state allacciate.

La gente si accalcava, signore con troppo profumo per il primo mattino sbuffavano, uomini d’affari leggevano quotidiani di finanza e un marmocchio urlava, in fondo alla carrozza. Un paio di ragazzine bisbigliavano fra di loro, continuando a lanciargli occhiate. Ma lui non sentiva niente, neanche la musica eccessivamente alta nelle cuffie. Era davvero stanco.

Quel giorno riprendeva la scuola e lui ci avrebbe messo i suoi soliti nove mesi per abituarsi a svegliarsi così presto al mattino.

Liceo Classico Berchet, fermata della metropolitana Crocetta.

Emanuele aprì un occhio per vedere a che punto fosse arrivato. Mancava ancora qualche fermata.

Quell’anno era in seconda liceo. Sbuffò, cercando di svegliarsi. Ci sarebbero stati ancora stupidi che gli avrebbero chiesto come mai, a quasi diciassette anni, era ancora in seconda.

Imbecilli. Se davvero non sapevano che al classico gli anni si contano diversamente e che la seconda liceo era la quarta superiore erano davvero degli imbecilli.

Emanuele pensava che bene o male, quasi tutti fossero insopportabili imbecilli.

Porta Romana.

Ancora una fermata.

Che palle. Da non credere che le vacanze estive fossero passate così in fretta. Sembrava ieri che si era tutti in Sicilia a cazzeggiare, mangiare arancini, cazzeggiare e passare ai cannoli e cazzeggiare di nuovo. Sembrava ieri che quel pirla di Saverio ci provava con tutte le ragazze della spiaggia.

E invece eccoci qui, nuovamente a Settembre, nuovamente a Milano, nuovamente stanchi... Emanuele sbuffò e si alzò dal suo posto.

“Ehi, Lele!”

Voce nota, lievemente nasale: quel pirla di Save.

“Leleee”

Gli occhi verdi si Emanuele cercarono l’amico nella carrozza.

“Sono qui” era ad aspettarlo sulla banchina.

“Cazzo, Lele, che faccia c’hai? ‘zzo hai fatto ieri sera?”

“Solito. Una birra”

“Doveva essere roba forte! Non mi sembri al meglio per ricominciare”

Emanuele alzò il sopracciglio, con aria interrogativa. Non aveva davvero la forza di parlare

“Ci sarà Bianca. Ci saranno i capelli di Bianca, il culo di Bianca, le gambe di Bianca…” Saverio disse con aria sognante.

“A meno che non l’abbiano smembrata, ci sarà tutta Bianca”

“Il proposito di quest’anno è farmela”

Lele rise: “E’ il tuo proposito dalla quarta ginnasio, scemo”

“Ma quest’anno davvero, me la faccio”

“Non te la darà neanche quest’anno”

“Deve!” Saverio disse quasi fosse un’ovvietà “ Se non altro per la mia costanza”

Salite le scale, Emanuele si accese una sigaretta, scostò i capelli mori dalla fronte, perché rischiavano di bruciarsi con l’accendino, e aspirò profondamente, cercando in quel fumo un po’ di forza per quella mattina, grigia e catatonica.

Salite le scale, Emanuele non si accorse della ragazza che gli passò di fianco, di corsa. Non si accorse dei suoi capelli, delle sue gambe. Non si accorse di nulla.

Non si accorse nemmeno degli occhi di Emma, che guardavano altrove.

Si passarono così vicini da toccarsi, ma nessuno dei due si accorse di nulla.

Emanuele prese una lunga boccata.

“Caffè prima di cominciare” disse più come un dato di fatto che come una proposta.

“Eccola là. Chiamala e offrile un caffè” Saverio si sbracciò per catturare l’attenzione di Bianca “Biancaaaa” La ragazza non sentì “Biancaaaaa”

“Tanto neanche quest’anno la convinci” Saverio si girò verso chi aveva parlato, ma si zittì prima di cominciare. La voce apparteneva ad un ragazzo di dieci centimetri e trenta chili più grande di lui, coi capelli rasati e la giacca di pelle nera.

“Ciao Muto” apostrofò Lele che non aveva alzato lo sguardo per vedere il compagno di classe.

“Ah, ciao Muto” proseguì Saverio che di avere Muto così vicino non era mai felice.

“Ti ho già detto che non mi piace che mi chiami Muto”

“Ma anche lui ti ha appena chiamato muto”

“E tu non chiamarmi”

“Ma scusa, ti chiami Muto, come altro devo chiamarti?”

“Andrea”

Saverio si strinse nelle spalle: “Che nome banale. Muto è molto più chic”

Il ragazzone aggrottò le sopracciglia e diede una spinta amichevole all’amico.

“Stronzo”

Raggiunsero le ragazze.

Un figura esile, slanciata, dai lunghi capelli castani si buttò fra le braccia di Emanuele.

“Ciao Lele” miagolò “Sono così felice di rivederti”

“Caffè” riuscì a dire il ragazzo, cercando di scrollarsi di dosso quelle braccia troppo invadenti.

“Dovete scusarlo” intervenne Saverio “senza caffeina, sappiamo che il nostro Lele non funziona. Soprattutto la mattina presto”

Si fermarono al bar e Lele sbuffò, per l’ennesima volta, quella mattina. Tutti sembravano felici: Saverio che parlava con Bianca, il Muto che parlava di con Margherita, i ragazzi della B ammucchiati al bancone…

Ma per lui era più complicato, troppo più complicato. La scuola non gli piaceva. Non gli era mai piaciuta. Poche erano le materie che gli interessavano, e ancora meno i professori che gli piacevano. Si applicava, sì – perché non si può certo dire che non studiasse – aveva voti alti e, bene o male, i professori non potevano dirgli molto sulla sua resa scolastica. Eppure i colloqui erano sempre uguali: il ragazzo si applica, sì, ma potrebbe farlo di più. Lei, signora, non ha idea delle potenzialità che spreca! E poi, signora, c’è quel carattere! Quel carattere così cupo. E’ sempre circondato da un nugolo di persone, ma è come se lui non ci fosse mai. Alcuni intervalli li passa a leggere, altri ad ascoltare musica. Vede signora, non dico che il leggere faccia male. Ovviamente. Tutt’altro. Ma Emanuele usa la lettura per isolarsi. Ride poco, solo quando legge. O quando parla con quel Saverio lì che, in tutta onestà, è troppo occupato coi suoi ormoni per occuparsi di studiare.

Vede signora, all’apparenza va tutto bene. I voti sono alti, il ragazzo è bravo, ma noi del consiglio vorremmo che facesse altro, che desse di più. Se quegl’amici che ha non gli piacciono, se tutto quel malumore deriva dal fatto che Emanuele si sente troppo intelligente per loro, allora che venga al consiglio di istituto, che si lasci coinvolgere dalle attività extra scolastiche, che…

Che un paio di palle. Imbecilli, tutti quanti. E i prof di certo non facevano eccezione. Lasciarsi coinvolgere dal consiglio di Istituto. Davvero, Emanuele, raramente aveva sentito una stronzata peggiore di quella. Voleva farsi i cazzi suoi. I sacrosanti cazzi suoi. Che male c’era?

Poi nessuno lo divertiva molto. Saverio forse era l’unico. E le prof. Ignoravano le sue di grandi potenzialità.

Poi c’era il Milan, la domenica, il calcetto il sabato e le birre della sera.

Perché doveva essere più sociale di così? La sua musica, i suoi libri… Loro gli riempivano la mente con qualcosa. Il resto no.

Era stato in vacanza in Sicilia quell’estate. Si era divertito, anche tanto a dire il vero.

Allora che cazzo volevano i suoi prof?

C’era una differenza sottile fra quello che gli dicevano i professori e quella che era la realtà. Il tanto decantato domani, Emanuele, non riusciva a carpirlo. Si era sempre chiesto il perché tutti si affannassero ad avere “un futuro”, mentre non avevano neanche un presente. Una volta aveva provato a parlarne in classe, ma la sua professoressa di filosofia aveva liquidato l’argomento dicendogli che il suo modo di pensare era troppo adolescenziale. La irresponsabilità di non farsi carico di un domani era tipico dell’età.

Emanuele scrollò le spalle e ordinò un secondo caffè al bar.

“Dobbiamo andare!” gli disse Saverio

“Un caffè e ci sono” Lo inghiottì in un sorso.

 

Di fronte alla scuola c’erano tutti gli altri. Gli erano mancati? Emanuele si strinse nelle spalle: non che non li volesse rivedere, ma vederli domani invece che oggi non avrebbe cambiato nulla.

Ultimo banco, in fondo a sinistra verso la finestra. Era il suo posto nessuno osava prenderglielo.

Saverio di fianco a lui, Bianca e Margherita davanti, le gemelle Sospiri – che continuavano anche quest’anno a sospirare per lui – davanti a destra, il cele e la Cele al primo banco…

Tutto drammaticamente uguale.

Prof di Latino.

“Cazzo, latino per cominciare. Dev’essere un presagio. Quest’anno andrà male” bisbigliò Saverio

“Chiara Adiani”

Presente

“Celeste Arbati”

Presente

“Francesco Celese”

Presente

“Saverio Cuadri”

Saverio alzò la mano: “Sempre con la C, prof, e sempre presente” Trovava estremamente divertente che nel suo cognome ci fosse un errore di ortografia.

Dopo poco, il suo nome

“Emanuele Facoeri”

Sì, era davvero tutto ricominciato.

 

 

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Capitolo 2
*** 02 ***


Nuova pagina 1

12: Grazie grazie grazie a Vitani, Caro e Costy per le vostre recensioni. Mi piace scrivere di posti che conosco bene, sono felice che questa "milano liceale" traspaia ^_^ Emanuele, in fondo, è anche figlio della sua città XD Voglio che l'atmosfera da liceo - un misto di cultura, serietà ma anche di adoloscenza e superficialità - si senta molto. Perciò fatemi sapere se continuo a centrare il bersaglio. Un bacio grande a tutti ^_^

 

 

-

 

 

La seconda mattina era sempre più difficoltosa della prima.

Chi aveva detto quella cazzata del lunedì?

Emanuele era, da sempre, convinto che il martedì fosse il peggior giorno della settimana. Di lunedì si è tramortiti, non ci si rende ben conto di quello che ti sta capitando. Di martedì si è già stravolti, la settimana è lunghissima, il weekend prima un sogno dimenticato e quello a venire un miraggio irraggiungibile.

Il secondo giorno di scuola, quindi, Emanuele era, oltre che stanchissimo, pure incazzato nero.

Aveva il mento appoggiato alla mano e guardava fuori dalla finestra: forse domani avrebbe fatto meglio a non venire a scuola.

La prof di filosofia già spiegava – siamo molto indietro ragazzi, avremmo dovuto essere qui e invece siamo qua – mai nessuna che dicesse oggi non si fa niente perché siamo avanti.

Mai.

Il cele e la Cele erano gli unici attenti, lì davanti, coi loro occhietti stretti stretti, le loro schiene ritte sull’attenti e quelle fastidiose pennine che scivolavano sul foglio di appunti.

“Ci fosse qualcosa da scrivere, li capirei” asserì Saverio “Ma cazzo, la Viggiani dice solo quello che c’è sul libro”

“Ne so più io della Viggiani”

“Ora stai diventando strafottente”

“Però sai che è vero”

“In effetti…” Saverio sbuffò

Bianca lanciò un bigliettino sul loro banco:

 

Pizza dagli egiziani dopo la scuola?

 

“Sì” Gridò Saverio

La Viggiani s’interruppe: “Ha qualcosa da aggiungere, Cuadro?”

“Nonono” si affrettò a dire il ragazzo “Niente d’importante!”

Lele sorrise: “Imbecille”

 

Si ritrovarono dall’egiziano vicino alla scuola: pizza al trancio e una coca-cola per poi sedersi sui gradini davanti al negozio.

Bianca mangiava ogni pezzo come se stesse mangiando troppo, Saverio era già al secondo trancio.

Il Muto ne aveva presi direttamente due.

“Sembra che le vacanze non ci siano mai state”

“A vederci qui, sembra giugno, quando progettavamo dove andare”

Margherita sorrise, lasciando anche lei la pizza a metà.

“Tra due sabati farei la festa per i miei diciassette, voi venite?”

“Che piccolina, diciassette anni”

“Perché, tu quanti ne hai Save?” rispose lei acida

“Diciotto a febbraio”

“Ecco, ne hai diciassette anche tu, perciò smettila!”

C’era un che di petulante in Margherita che infastidiva Emanuele. Sempre con troppi soldi in tasca, viveva nel sogno di diventare come Bianca. Il che era oggettivamente impossibile. Era simpatica, forse quasi spiritosa, ma era anche una sciocca che diceva frasi da intellettuale e allo stesso tempo cercava qualcuno che gliele spiegasse.

“Perché non leggi, Marghe?”

“Cosa?”

La domanda di Emanuele la colse impreparata.

“Perché non leggi? Perché non ascolti un po’ di musica che non sia la commerciale?”

“Che c’entra ora cosa leggo?”

In effetti non c’entrava ed era anche inutile che lui cercasse uno spiraglio di luce in quella mente in cui albergava il buio più oscuro.

Bianca, che si era perfettamente resa conto dei pensieri di Emanuele, cercò di sviare il discorso.

“Che hai fatto dopo la Sicilia?”

Lele si strinse nelle spalle: “Niente di che, montagna dalla nonna, Irlanda con mio padre…”

Bianca  battè le mani, come faceva quando era entusiasta: “Wow, una vacanza con tuo padre, ma non ti sei rotto le palle?”

Lele fece spallucce: “A me piace stare con mio padre”

“Potevi però farti vedere una qualche sera”

“Te l’ho detto, ero via”

Bianca gli si sedette vicino:

“Ma mi avevi promesso che ti saresti fatto sentire”

“La vacanza in Irlanda è stata inaspettata. Mio padre è così, un giorno s’è deciso per il giorno dopo. E siamo partiti” Lele sorrise “Stava attento a quante birre bevesi, ma per il resto, è stata una bella vacanza”

Non aveva granché voglia di parlare, né di stare lì. Non gli dispiaceva chiacchierare con Bianca, se non altro era una mente pensante oltre che avere quel faccino da bambola che tanto faceva impazzire Saverio. Ma quel giorno era nato con lui di pessimo umore e Lele sapeva bene che non c’era soluzione se non quella di starsene per i fatti suoi.

Cercò gli auricolari nelle tasche.

“Va be’, io vado”

“Già vai?” Bianca imbronciò il viso

“Sì, ho cose da fare”

“Quali cose?” s’aggiunse Margherita

“Cose” ci mancava anche dovesse dare spiegazioni.

“Però sabato sera esci con noi?”

“Ma è solo martedì” Come faceva a sapere, martedì, che cosa avrebbe fatto sabato?

“Tu dì di sì” Bianca lo abbracciò, per dargli un bacio sulla guancia “Mi metto carina, andiamo a prenderci da bere e a fare un giro con gli altri…”

Lele annuì, l’importante era andarsene in quel momento.

 

Metropolitana molto più sgombra rispetto alla mattina, c’era qualche speranza di trovare un posto a sedere anche a Crocetta.

Emanuele prese dalla borsa il libro che stava leggendo e trovò la pagina che aveva piegato per tenere il segno.

“Così rovinerai tutti i libri” si sentì dire. Si girò verso la sconosciuta che aveva parlato, che si spiegò: “Se pieghi l’angolo di ogni pagina per tenere il segno, finirai per rovinare i libri che leggi”

Ma non poteva farsi i fatti suoi?

“Starai pensando che mi dovrei fare i fatti miei, e avresti ragione. Ma vedi, mi dispiace proprio vedere i libri spiegazzati, è più forte di me”

“Perdo sempre i segnalibri”

“Tieni questo, l’ho fatto io” la ragazza tirò fuori dalla sua borsetta un libro e gli sfilò il segno. Lo appoggiò fra le pagine del libro di Emanuele e lo fissò alla spina con un elastico. “E’ molto comodo, e non si perde”

La ragazza gli sorrise.

“Ma così hai perso il tuo segno”

“Pagina 213. Mi ricordo sempre la pagina dove mi trovo”

“Allora perché tieni un segnalibro?”

“Non si sa mai, della mia memoria non mi fido molto”

“Hai mai sbagliato?”

“No”. La ragazza sorrise divertita e Emanuele non potè non ridere anche lui. Quella ragazza l’aveva inspiegabilmente messo di buon umore.

“Cercherò di tenere da conto questo segnalibro, allora. Io non mi ricordo assolutamente a che punto sono arrivato, a volte mi capita di finire un libro quando penso di averlo appena cominciato…”

La ragazza aggrottò la fronte:” Ma come, non ti rendi conto che la storia prosegue?”

“Se sono molto preso, mi sembra sempre troppo breve” sorrise imbarazzato. “Dev’esserti sembrata una frase stupida. Quello che int…”

“No, ho capito” la ragazza si strinse nelle spalle “E’ così, quando qualcosa ti coinvolge, non si vorrebbe mai smettere”.

Emanuele guardò la ragazza e annuì, rimanendo in silenzio. La guardò sistemarsi i lunghi capelli castani dietro l’orecchio, inclinando la testa leggermente. La spessa montatura nera degli occhiali non gli permise di vedere bene il colore di quegli occhi attenti. Si soffermò sulle labbra disegnate perfettamente. Per non fissarla troppo, cercò qualcosa da dire, ma l’altoparlante della metrò lo precedette

Capolinea, si prega di scendere.

“Capolinea?” Si agitò lei “O cielo, ho perso la mia fermata” si alzò di scatto e si girò verso Emanuele.

“Ho sbagliato fermata, non mi sono accorta del tempo che passava… Ci si vede”

E senza dargli possibilità di rispondere, uscì dalla carrozza e corse via, verso le scale che l’avrebbero portata sulla banchina opposta, per riprendere il treno perso.

Emanuele la guardò andarsene, stretta in un cappottino elegante con la borsa che non voleva saperne di starle sulla spalla.

Non si mosse anche quando lei non c’era più.

Poi sospirò e sbattè gli occhi, come se si fosse appena svegliato. Il treno dietro di lui si mosse per andare al deposito e lui di girò di scattò, sorpreso dal rumore.

Vide lei al di là dei binari, che gli faceva ciao con la mano. Lei che avrà avuto ventidue, ventitre anni, lei che era elegante anche in un banale martedì pomeriggio, che diceva o cielo invece di imprecare.

 

Casa vuota, come sempre. Emanuele si accese una sigaretta in cucina e prese il libro dalla borsa. Guardò attentamente quel nuovo segnalibro avvinghiato alla copertina. Probabilmente aveva ragione lei, così non l’avrebbe più perso. E non avrebbe neanche più dovuto piegare le pagine dei libri, per poi sentirsi dire dal padre che i suoi libri erano stati tutti rovinati dal figlio.

 

Era stato uno stronzo ad andarsene così dai ragazzi. Lo faceva sempre, e altrettanto spesso si dispiaceva, a posteriori, di averlo fatto.

Non perché avrebbe preferito stare lì. No. Era davvero di malumore, quella mattina, per fingere di stare bene fuori, fra gli altri. Ma non erano certo loro non erano certo la causa dei suoi malumori.

Non c’era causa. O almeno, Emanuele non riusciva a trovarla e ad indicarla.

C’era un disagio di fondo in lui che non riusciva a carpire, una lieve insoddisfazione, forse, un po’ di tristezza probabilmente.

E poi c’era una solitudine incolmabile che gli bruciava addosso ogni volta che stava con gli altri, che gli altri lo cercavano e che volevano la sua compagnia. Era molto più facile gestirla da solo. Era meno dolorosa.

Quando quella solitudine, subdola e irragionevole, lo aggrediva quand’era in compagnia, lui poteva solo scappare.

Sbuffò, infastidito da se stesso. Save, Bianca, ma così anche il Muto, Marghe e gli altri. Quell’estate avevano passato una bella vacanza, una birra con loro ci poteva stare…

C’era sempre quel ma a infastidirlo. Con nessuno di loro si sentiva in sintonia, con nessuno di loro avrebbe mai parlato di se stesso realmente. Era fin troppo adolescenziale. In fin dei conti, però, l’unica persona che probabilmente lo conosceva davvero, era suo padre. E Saverio.

Riposò gli occhi sul libro e pensò alla ragazza della metropolitana. Sorrise a quel pensiero: non gli aveva nemmeno chiesto il nome.

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Capitolo 3
*** 03 ***


Nuova pagina 1

Grazie mille per le vostre recensioni *_* A Tanny, a BabyzQueeny, a Caro. Vi bacio, tantissimo. Emanuele è un po' come me, quando andavo al liceo. E' un personaggio a cui sono affezionata, perchè è forte e fragile allo stesso modo. In questo capitolo c'è un pochino di interazione fra i due. Diamo il via alle danze ^_^v

 

 

 

*

 

 

La mattinata era fredda, con quel vento subdolo che ti passa sottopelle e ti penetra subito nelle ossa. La luce era fin troppo intensa per gli occhi chiari di Emanuele che non erano riusciti a riposarsi bene, la notte precedente perché avevano trascorso troppo tempo su quel libro che non poteva essere lasciato a metà.

Erano occhi grandi, inumiditi dagli sbadigli che continuavano a farli lacrimare.

La luce al neon della metropolitana era molto più indulgente rispetto al sole settembrino. Brutta e grigia, ma per lo meno rimaneva discretamente nei corridoi senza prendersi la briga di infastidire quelle iridi verdi che avrebbero riposato per tutte le fermate che le separavano dalla scuola.

Era di nuovo, inevitabilmente, martedì.

Sulla carrozza sempre le stesse facce, anche se appartenevano a persone diverse. Uomini, donne, ragazzi, tutti uguali, ogni mattina.

Crocetta: scuola.

Era in ritardo, aveva perso il treno e aveva dovuto aspettare quattro minuti sulla banchina. Se la mattina perdeva anche un solo treno arrivava in ritardo. Un’equazione matematica.

Vide una ragazza seduta ai bordi dell’aiuola, di fianco all’edicola in superficie. Gli parve di conoscerla e si avvicinò. Aveva i capelli lunghi, castani, un cappotto nero e i tacchi, che continuavano a picchiettare per terra. La ragazza si accorse di essere osservata e si girò di scatto, quasi fosse spaventata.

La ragazza del segnalibro.

“Ciao” le disse Emanuele, come a giustificare il fatto di essersi avvicinato così tanto. Lei ci mise un attimo a riconoscerlo

“Ah ciao! Certo” disse a se stessa “il ragazzo del segnalibro”  concluse portandosi un dito sulla fronte.

“Scusami, non volevo disturbarti. E’ che mi sembravi una faccia nota”

“No, nessun disturbo. Tanto sono qui con troppo anticipo e mi sta solo salendo l’agitazione. E’ un bene che ti abbia incontrato!” sollevò le sopracciglia e continuò a picchiettare i tacchi sull’asfalto

“Agitazione?”

“Ho un esame oggi. Un esame terribile. Ho studiato tutta l’estate, ma ora la mia mente è vuota…”

“Fai l’università?” ad Emanuele sedersi di fianco a lei sembrò la cosa più naturale da fare. Ormai era in ritardo, inutile mettersi a correre.

“Sì, Medicina” disse indicando il Policlinico lì vicino “terribile eh?”

Lele sorrise: “No, se ti piace…”

“Per piacere mi piace anche. Ma odio questi giorni, in cui tutto si decide. Ho studiato come una matta, ma davvero, la materia è troppo vasta…” s’interruppe, mettendosi una mano sulle labbra e guardando il ragazzo negli occhi.

“Ti sto stressando e neanche ti conosco. Scusa” arrossì e i suoi occhi si inumidirono un poco.

“Nessuno stress, sono stato io a fermarmi qui” in effetti, perché s’era fermato? Per nessun motivo davvero, ma la voce leggermente spezzata della ragazza e le sue parole dette un po’ troppo velocemente gli facevano così tenerezza che non si sarebbe mai mosso di lì.

“Tu dovrai andare a…”

“Scuola” disse lui, col tono di chi si scusa “ma ormai salto la prima ora”

Lei annuì, sorridendo. Emanuele notò ancora i suoi occhi che ridevano con lei. Non portava gli occhiali, quel giorno, ed era facile leggere qualunque espressione.

Si ritrovò ad essere di buon umore

“Che cosa avevi alla prima?”

Emanuele si strinse nelle spalle: “Latino”

“Hai l’aria di chi va benissimo in latino. Uno di quelli che fanno arrabbiare tutti in classe perché sembra che non studiano, eppure prendono sempre otto nella versione”

Emanuele si schemì: “Dipende…”

“Lo sapevo. Beccato” Lei gli diede una leggera spinta sulla spalla e scoppiò a ridere di nuovo.

“Anche tu hai l’aria della secchioncella”

“Secchioncella? Ma come osi?” finse d’arrabbiarsi “se ti ho appena detto che ho studiato tutta l’estate e ora ho la mente vuota. Il prof mi boccerà. Signorina, guardi, è meglio che torni a casa e rifletta su tutte le stupidaggini che mi ha detto. Mi dirà così”

Sospirò, ripiombando in quello stato di agitazione in cui Emanuele l’aveva trovata.

Ricominciò a picchiettare i tacchi sull’asfalto

“Vedrai che andrà tutto bene. E se ti promuovono ti faccio un regalo”

“Un regalo? Che cosa?”

“Se è un regalo, non posso rivelarti cos’è. E poi, non lo so mica se ti promuovono!” Lui rise, mentre lei imbronciava la bocca

“Aiuto” lei si portò le mani sul viso. “Ancora poche ore. Ancora poche ore e sarà tutto finito.”

“A che ora hai l’esame?”

“Alle undici. Avrò finito per l’una o le due”

Emanuele annuì, fissando le dita lunghe  che coprivano metà del volto di lei.

Una campana suonò in lontananza.

“O cazzo, devo andare, altrimenti non mi fanno più entrare” si alzò di scatto ed un leggero senso di fastidio gli percorse la schiena.

Si voltò verso di lei, cercando di memorizzare quegl’occhi grandi, quelle labbra continuamente mordicchiate dall’ansia per l’esame.

L’avrebbe rivista?

“Io mi chiamo Emanuele” le disse

“Emma” rispose lei porgendogli la mano “Buona scuola” gli sorrise, e lui non se ne andò subito

“In bocca al lupo” esitò nuovamente, ma i rintocchi della campana finirono e lui fu costretto ad allontanarsi. La sentì soltanto dire crepi.

 

Entrò in classe al cambio dell’ora. La prof di Storia dell’Arte ci avrebbe messo il suo buon quarto d’ora arrivare, perciò Emanuele non si diede la briga di correre. Non disse niente, una volta entrato in classe, si sedette semplicemente al suo posto, coi piedi appoggiati al sottobanco, a sorseggiare il caffè delle macchinette appena preso. Si ritrovò a guardare fuori dalla finestra, un paesaggio che conosceva benissimo ma che continuava a cambiare.

Non aveva parole in quel momento.

In quel momento sembrava non ci fosse nulla e tutta l’aria intorno a lui sembrava non lambirlo. C’era solo spazio vuoto che Emanuele s’era abituato a gestire semplicemente non parlando e cercando di ridurre al minimo il suo respiro, che in quel vuoto d’aria avrebbe rimbombato solo alle sue orecchie.

Mordicchiò il bicchierino di carta che si ruppe fra i suoi denti, ma ugualmente Emanuele continuò a guardare fuori, con lo sguardo accomodato all’infinito, senza mettere a fuoco nulla.
Sentì picchiettare, un rumore lontano che attraversò d’improvviso il suo mondo. Gli sembrò uguale al rumore che i tacchi di Emma facevano contro l’asfalto

“Shhh” disse a chiunque l’avesse provocato, portandosi un dito sulle labbra. Qualcuno sospirò.

Emma probabilmente aveva smesso di picchiettare i tacchi sull’asfalto e probabilmente stava andando in aula ad aspettare il suo professore.

Emanuele ruppe definitivamente il bicchierino del caffè e il rumore di plastica lo riportò in aula, insieme alla voce di Saverio.

“A volte ti perdo…”

Emanuele si ritrovò circondato, Saverio da una parte, Bianca e Margherita sedute sul suo tavolo, le gemelle Sospiri – Maria e Marina rispettivamente, chi si chiamasse come era sempre stato un mistero per Emanuele che, se doveva rivolgersi a loro, usava un sicuro Mari – appoggiate al muro dietro di lui e il Muto poco distante.

“Che fine hai fatto questa mattina?”

“Sono arrivato in ritardo” disse lui sollevando le sopracciglia

“Questo lo vedo da solo, perché?”

“Che c’è Save, devo giustificare i miei ritardi con te?”

Saverio aggrottò la fronte per la risposta brusca dell’amico. C’era abituato, ma a volte gestire Emanuele era particolarmente difficile.

“E’ che ti abbiamo aspettato fuori, potevi avvisarci” gli spiegò Bianca

Nessuno ve l’ha chiesto, avrebbe voluto dire il ragazzo, che si limitò a scostarsi i capelli dalla fronte e guardare il suo banco sovraffollato.

“La prossima volta che bigi(*), dimmelo che vengo anch’io” gli disse Saverio in tono più riconciliante.

Emanuele sorrise: “Ero con Emma…” non sapeva neanche lui il motivo per cui stava dicendo all’amico cos’aveva fatto quella mattina, ma la voglia di pronunciare quel nome era diventata impellente. Per renderlo reale.

“Emma? E chi sarebbe Emma?”

“La ragazza del segnalibro”

Saverio ci mise un attimo per inquadrare di chi si stesse parlando.

“Che nome obsoleto” disse con un tono leggermente infastidito Bianca che non aveva mai sentito parlare di questa Emma e che tutto d’un tratto si ritrovava fra i piedi.

“E’ un nome molto elegante” la corresse Lele, senza davvero parlare con nessuno. Quasi il commento fosse esclusivamente per se stesso.

Era un nome molto elegante, e Emma - con quell’aria un po’ tirata, stanca di prima mattina e preoccupata - gli parve per un istante una donna d’altri tempi.

“Ma quella della metrò?” Saverio aveva fatto i suoi collegamenti mentali

Lele annuì

“Che storia, e vi siete incontrati di nuovo? Dev’essere destino”

Bianca corrugò la fronte, ma Emanuele scosse la testa.

“Togliti qualunque idea dalla testa. E’ grande”

“Grande? Grande quanto?”

“Non so di preciso, va all’università. Ventitre? Circa”

Saverio annuì, le gemelle sospiri sospirarono, sapendo che Emanuele per loro era comunque irraggiungibile e Bianca rilassò lo sguardo, rincuorata di non aver di fronte una rivale ignota

“Beh, ventitre anni, qual è il problema?”

I loro discorsi furono interrotti dalla professoressa di Storia dell’Arte che finalmente entrò in classe.

Non c’era nessun problema, perché non c’era nessuna questione. Ma questo Emanuele non poteva spiegarlo a Saverio in quale aveva la testa piena di ormoni, invece che di materia grigia.

Emanuele pensò di nuovo ad Emma, seduta in un’aiuola in mezzo al traffico. La trovò incredibilmente bella.

 

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