Seven Sins' Killers

di TheHellraiser
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wrath ***
Capitolo 2: *** Sloth ***



Capitolo 1
*** Wrath ***


Point of view: Julia/Wrath



Ok, va bene, posso cominciare io. In fondo, si può dire che sia da me che è cominciata tutta questa storia. Il mio nome è Julia Blake, ho diciannove anni, e sono la ragazza meno normale del mondo. Sono la figlia di Raymond "Copper" Blake, un sicario americano di origini italiane che uccide da oltre quindici anni. I miei compagni mi chiamano "July" o "capa", mentre per gli altri sono semplicemente Wrath. Sì, proprio quel Wrath. Quel famoso sicario che sparge il terrore a New York fra tutti, dal più piccolo spacciatore al più grande imprenditore. Non c'è nessuno che, quando mi sente nominare, non faccia un esame di coscienza e si chieda se abbia fatto nulla per fare in modo che qualcuno mi assuma contro di lui. Tutti mi temono, ma nessuno mi conosce davvero, tanto che nemmeno sanno che sono una ragazza. E ci sono momenti in cui ho persino desiderato di non esserlo. So che vi starete dicendo, che sono solo chiacchiere senza senso, che sono pazza. In un certo senso avete ragione ma fidatevi, non sono stata sempre così, no. Questa me è nata quattro anni fa. Prima ero normale. Ero solo una quindicenne che come molte altre aveva l'utopistico pensiero che il mondo fosse bello e che tutto sarebbe andato bene, se ci speravo abbastanza. Tutto è cambiato quella notte. Sì, quella notte, in cui ho capito quanto sbagliato fosse il mio pensiero. Vi state chiedendo cosa sia successo, lo so. Mi vengono i brividi ancora adesso, solo se ci penso, ma posso ugualmente raccontarvelo. Tanto, ormai, l'ho detto a così tanti fottuti psicologi che non mi fa più caldo nè freddo.

Era una sera qualunque. Una normalissima sera di Novembre, ricordo solo che era caldo per essere Novembre, più del solito. Per questo io e le mie amiche, i cui nomi sono irrilevanti e quindi non citerò, avevamo deciso di vestirci meno del solito. Dovevamo andare in discoteca, non sapete quanto ho dovuto insistere con mio padre per convincerlo a lasciarmi andare, ma forse se non avessi insistito tanto ora non sarei quella che sono adesso. Fatto sta che mi lasciò uscire. La serata in discoteca fu fantastica, quasi non potevo crederci. Le mie amiche bevevano un sacco e avevano rimorchiato qualche ragazzo carino, mentre io preferivo starmene in disparte a ballare con qualche sconosciuto. Sapete, non ci tenevo a farmi il primo che passasse, ero ancora una di quelle ragazzine che credeva nel primo vero amore, o cose simili. Ero convinta che prima o poi avrei trovato il ragazzo giusto e a lui avrei dato il mio primo bacio, cose tipo il principe azzurro o cose così. Peccato che ci fossero altri programmi per me, di cui ero completamente inconsapevole. Ballammo e ci divertimmo fino a tarda notte. Saranno state le due di notte, o giù di lì. Papà non mi aveva dato limiti di orario per cui non avevo nulla di cui preoccuparmi. Ad un certo punto, ho visto due uomini avvicinarsi. Li ho salutati semplicemente.
«Ehi, piccola» mi ha risposto uno dei due. Si sono guardati fra loro, e hanno riso. Io gli ho sorriso. Continuo ancora a chiedermi perchè non me ne sia andata e basta.
«Ti andrebbe di uscire a divertirci?» ha chiesto l'altro. Io ovviamente ho rifiutato. Scherziamo, avrebbero potuto avere l'età di mio padre. Quegli schifosi porci. Loro non sembravano essere molto felici, ma a me non importava. Credevo avessero capito l'antifona. Se ne sono andati. Nemmeno pochi minuti dopo sono arrivate le mie amiche a dirmi che era tardi, e che era meglio che ce ne andassimo. Io ho acconsentito, stavo cominciando a sentirmi stanca e il giorno dopo avevamo scuola. Siamo uscite e abbiamo camminato assieme per un po', tanto la strada era più o meno la stessa, chiacchierando e scambiandoci qualche commento sulla serata. A quel punto, l'hanno fatto. Ho sentito "qualcosa". Qualcosa che mi stava afferrando. Ho visto il volto delle mie amiche, terrorizzate, che fissavano un punto dietro di me. Io non riuscivo a capacitarmi di cosa stesse succedendo. Loro sono scappate, ma io continuavo ad essere trattenuta da quel qualcosa che scoprii essere mani, che stavano cercando di raggiungere... dei posti poco carini. ...No, no. Datemi un attimo, davvero. Devo respirare.

Il loro respiro orrendo sulla mia pelle. I loro corpi sudati ed eccitati che mi si strusciavano addosso. Le loro mani che mi violavano. I loro commenti divertiti su quanto fossi puttana, e sul fatto che potessi smettere di fingere che non mi piacesse. Io imploravo mentre loro ridevano. Altro che principe azzurro. Altro che "almeno la prima volta che sia fatta con amore". L'unica cosa che provavo in quel momento era terrore. Pregavo con tutte le mie forze qualsiasi dio esistesse perchè facesse aprire la terra sotto di me e mi uccidesse. Almeno sarebbe stato molto meno doloroso. Molto meno umiliante. Molto meno... qualsiasi cosa. Molto meno, basta. Chiudevo le palpebre con tutte le mie forze, sperando che fosse solo un sogno, cercando di concentrarmi sul dolore che provavo premendomi le unghie contro il palmo della mano pur di esternarmi da quel momento orribile. Ma non successe. Non ci riuscii. Persino dopo che loro se ne andarono, divertiti e finalmente soddisfatti, non riuscii a non provare dolore, e non solo fisico. Provai ad alzarmi in piedi. Una volta, due volte. Fallii. Solo al quarto tentativo riuscii a tenermi in equilibrio, e a tentare di trascinarmi a casa. Avete presente la via crucis? Beh, era dieci volte peggio. Aiutata da non so quale forza divina - che sinceramente era un po' in ritardo - arrivai a casa. Non vi descrivo la reazione di mio padre. Si mise ad urlare all'impazzata chiedendomi cosa diavolo fosse successo. La prima cosa che ha fatto è stata prendere in mano la sua fedele pistola, intenzionato ad uccidere chiunque fosse responsabile, mentre io volevo solo sprofondare. Per fortuna mio padre riuscì a calmarsi e a capire che prima di punire i responsabili era il caso di aiutarmi. Almeno esternamente, riuscì a darmi una ripulita. Ma anche se il dolore fisico era scomparso, l'enorme tenaglia che mi schiacciava il petto era rimasta. Non desideravo altro che ritrovarmi davanti quegli uomini, per vedere papà che gli sparasse. Di notte sognavo il momento in cui li avrebbe raggiunti e li avrebbe finalmente uccisi. Nei miei sogni, però, cominciai ad apparire io al posto di mio padre. Tenevo in mano la sua pistola, e sparavo a quegli uomini. Quei bastardi. E in quel momento realizzai che forse il dolore sarebbe sparito se lo avessi riversato su di loro.

Papà capì, quando provai a spiegargli la mia situazione. Si dimostrò persino troppo comprensivo. Mi aspettavo che mi dicesse che uccidere era male ma no, non lo fece. Fu in quel giorno che lui mi disse che non c'era niente di male nell'uccidere qualcuno se se lo meritava, e che lo diceva appunto perchè lui era un sicario. Un killer a pagamento. No, scoprendolo non mi crollò il mondo addosso. Ero troppo occupata dai miei pensieri omicidi, per farmi crollare il mondo addosso di nuovo. Chiesi a mio padre di insegnarmi ad uccidere. E lui lo fece. So che ovviamente non ci crederete, in fondo come può una ragazzina di quindici anni uccidere? Oh, fidatevi, può. Basta solo che le diate una buona motivazione. E io avevo la migliore di tutte. Papà mi insegnò tutto ciò che aveva imparato, nel suo lavoro. Come si poteva uccidere qualcuno senza farsi uccidere nell'intento. Come usare una pistola. Come fuggire senza farsi vedere. Come interrogare qualcuno, con le buone o con le cattive. Come sopravvivere in casi di emergenza. Una formazione molto più utile e molto migliore rispetto a quella della maggior parte delle scuole. Quando mi ritenne pronta, mi regalò la mia prima pistola, quella che ancora oggi è il simbolo di Wrath. Una Beretta nove millimetri Parabellum.
«Ho scelto questa pistola perchè è la migliore sul mercato... E per il significato del nome Parabellum»
Imparai così la frase che sarebbe diventata la mia massima di vita. Si vis pacem, para bellum. Se vuoi la pace, prepara la guerra. Ed era proprio ciò che stavamo facendo, no?

Li trovammo. Così ignari. Così inutili. Così stupidi. Vivevano le loro stupide piccole vite, senza sapere che l'occhio di Wrath era su di loro. Non sapevano che tutto il male che avevano fatto stava per tornare indietro, come un boomerang. Non mi dilungherò nella descrizione del più bel giorno della mia vita. Vi dirò soltanto che se cercate bene per New York, potreste ancora trovare qualche pezzetto di quei due in giro.

E' questo che mi ha creata. La tenaglia non si sciolse. Papà ha ragione, se si è assassini una volta si è assassini per sempre. E allora, perchè non farmi pagare? Tanto tutti gli uomini avevano la faccia di quei due. Ogni volta che vedevo un uomo, provavo l'irrefrenabile desiderio di strappargli gli intestini a mani nude. Papà mi disse che potevo lavorare al posto suo, se questo mi aiutava a stare meglio. Mi sono fatta una reputazione, sì. Una gran bella reputazione. Forse non si può considerare "bella" per voi persone comuni, ma per me... Era manna dal cielo. Ancora più persone su cui sfogare la mia ira. Tante. Tanto sangue. Tanto dolore. Uccidere è come un'iniezione di anfetamine, dopo un po' non puoi più fare a meno. Ora sono in proprio, non uccido più a nome di mio padre. Ho rischiato di morire più di qualche volta, e ho capito che da sola non sarei andata molto lontano. Certo, c'era papà. Ma non era abbastanza. Mi serviva qualcuno che collaborasse con me. Qualcuno che mi aiutasse, e che mi parasse le spalle. Dei compagni. E quindi, è proprio quello che sono andata a cercare. Volete sapere della ricerca? Non preoccupatevi, potete chiedere a loro. Gli lascerò la parola, saranno loro a raccontare il resto. Buon divertimento.

NdA: Ok, è il primo capitolo. La storia di come i sette si sono messi insieme si scoprirà nelle prossime One-Shot, ognuno racconterà la sua parte. Spero che per ora vi sia piaciuta. Stay tuned! <3

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Capitolo 2
*** Sloth ***


Point of view: Tony/Sloth



...Devo proprio essere il secondo? Ok, ok, va bene, non vi lamentate troppo. Comincio. Julia si è presentata, quindi credo di doverlo fare anche io. Mi chiamo Anthony Di Lauro, ho venticinque anni, sono meglio conosciuto per le strade come Sloth, il più apatico fra i killer dei peccati. Ho molti soprannomi che spaziano da Tony il rosso a L'immortale, mentre i meglio informati sul mio conto - vale a dire, quelli della squadra - mi conoscono meglio come Antonio Valente. Come? Perchè ho due nomi? Beh, aspettate e vi racconterò. Come ben saprete, faccio parte dei sette sicari dei peccati capitali. L'origine del nostro gruppo risale ad un sacco di tempo fa. Quasi quattro anni, per la precisione. La storia della distruzione della mia vita, però, comincia ancora prima. Il mio cognome, Di Lauro, ricorderà di sicuro qualcosa agli italiani del sud. I Di Lauro sono una famiglia della camorra potente, famosa per la grande faida di scampia del 2004. Proprio quell'anno è stato l'inizio della mia fine.

All'inizio non sospettavo assolutamente nulla. In fondo, avevo solo undici anni. Un bambinetto del cazzo. L'unico difetto che avevo a quei tempi era - oltre ad essere un arrogante stronzo - l'essere figlio di un importante membro della famiglia Di Lauro. Lo sapevano tutti, ovviamente, tranne noi. Mi sono sempre chiesto perchè gli altri mi trattassero così rispettosamente, ma l'ho semplicemente ricollegato al fatto che riconoscessero che ero meglio di loro. Durante quell'anno le guerre della mafia infuriavano, ma a me non era mai importato. Non ci era permesso uscire tardi la sera, ma oltre a questo non aveva ricadute su di noi. O almeno non le aveva avute fino a quel momento. Quel giorno, mentre stavo giocando con il mio fratellino in salotto e la mamma preparava da mangiare, ho sentito degli spari. Erano troppi spari, per i miei gusti, e non erano affatto lontani come al solito. Anzi. Fin troppo vicini. Non ci ho dato particolare peso, almeno finchè papà non è entrato in casa con in braccio il suo AK-47 e un sacco di sangue che gli impregnava i vestiti. Lui e la mamma si sono scambiati uno sguardo. Era come se, in un certo senso, si stessero aspettando quel momento. In casa c'era sempre stata una cassa di metallo che papà chiamava "Cassa delle emergenze". Ci era stato proibito toccarla, e in quel giorno capii perchè. La prima cosa che papà fece fu aprire la cassa, mentre fuori sembrava che satana fosse salito dall'inferno a fare un giretto sulla terra. Ne ha tirato fuori una pistola. Era bella, io non ci capivo molto di pistole a quei tempi, e soprattutto non capivo cosa succedesse. Papà mi ha guardato negli occhi. Mai l'avevo visto così serio. Mamma si è messa a piangere a dirotto, e ha abbracciato me e Jake continuando a baciarci sulla testa. Non capivo che stesse succedendo. Papà mi mise la pistola in mano, era già carica.
«Tonio, qualunque cosa succeda adesso, dovrai proteggere te e tuo fratello. Prendi Jake e scappa. Non esitare ad usare questa.»
Non scorderò mai quelle parole. La mamma ci ha condotti alla porta sul retro. Jake piangeva e non capiva, mentre io stavo lentamente metabolizzando la situazione. Realizzavo ogni secondo di più quanto fosse grave. Così, baciai la mamma, presi Jake per mano e corsi più veloce che potevo, lontano, con la consapevolezza che non sapevo se sarei mai tornato. Jake aveva solo tre anni, all'epoca. Abbiamo corso. Corso. Siamo fuggiti. Speravamo che avremo potuto correre più veloci della morte che ci stava inseguendo. Abbiamo raggiunto un boschetto che stava non molto lontano da casa nostra e ci siamo buttati nella prima buca che abbiamo trovato. Ho fatto del mio meglio per coprire mio fratello e me. A quel punto, gli spari aumentarono d'intensità. Si sentivano urla, boati, e tutto quello che potevo fare era stare fermo lì, schiacciato nella terra, con ogni muscolo teso, aspettando e sperando. Poi, il silenzio.

Quando finalmente siamo usciti, era chiaro che non avremo più parlato con i nostri genitori. Non pensai nemmeno per un istante di tornare a casa, mi limitai a stringere la mia pistola in mano, come se questo potesse scacciare il male. Provavo dolore, mi faceva male tutto, correndo mi ero graffiato tutte le gambe e il corpo nei rovi del bosco. Jake non aveva nemmeno la forza di piangere, si limitava a guardarmi in modo triste, come se in fondo sapesse cos'era successo. Io non provavo niente, dentro. Fino a quel momento avevo creduto che saremmo morti, per cui ero ancora zuppo dell'apatia di cui mi ero intriso per prepararmi alla morte. Ma sopravvivemmo. Non avevamo più nessuno, ma riuscivamo a tirare avanti. Io lavoravo, facevo qualsiasi cosa potesse aiutare a racimolare qualche soldo per proteggere mio fratello. L'avevo promesso a mio padre. Jake non poteva ancora essere molto d'aiuto, così toccava fare tutto a me. Fortunatamente in una città in cui la mafia aveva ben radicato i suoi tentacoli non era difficile trovare del lavoro in nero, che fosse scaricare un camion o intrattenere uomini dai gusti discutibili. Appena fui abbastanza grande cominciai a lavorare per la mafia, con la consapevolezza che forse avrei trovato chi aveva ucciso i miei. Si dice che la mafia possa vedere tutto, e infatti era proprio questo ciò che successe. Chiesi chi dovevo cercare. Fu fatto il nome di Evandro Brigas, un killer ispanico della 'ndrangheta che aveva ucciso i miei per conto del clan avversario. Ma questo Evandro sembrava introvabile, e non volevo mettere in pericolo Jake. Dopo le numerose volte che qualcuno ha cercato di uccidermi - ne porto ancora i segni sul petto - decisi che Jake non poteva restare con me. Doveva andare in un luogo più sicuro, mentre io cercavo il responsabile.

"Assolda un killer che lo scorti", mi dissero. Ma io non avevo soldi. Nemmeno un centesimo. Mi parlarono di un killer relativamente giovane con una certa fama, spietato come pochi, ma che costava molto. Più di duemila dollari. Lo chiamai. Dovevo a tutti i costi aiutare Jake, anche se questo significava dover offrire tutto ciò che mi restava ad un assassino a pagamento.

Non era propriamente esatto chiamarlo un killer. Era una killer. Quando la vidi la prima volta, le risi in faccia. Era molto più piccola di me, avrà avuto sedici anni o giù di lì. Se avessi saputo chi avevo di fronte, non avrei mai riso. Già, penso che indoviniate proprio chi sia. Era Julia. Quando le risi in faccia lei non disse nulla, si limitò a squadrarmi con gli occhi eterocromatici. Mi chiese se avevo i soldi. Ovviamente risposi di no. Non avevo affatto duemila dollari. Forse vi starete chiedendo perchè non abbia semplicemente mentito dicendo di averli, ma è piuttosto difficile dire di averli e poi al pagamento tirarli fuori se non ce ne sono, no? Tanto valeva dirle subito la verità. Tanto ero disperato. La minacciai, dissi che doveva portare al sicuro Jake o che l'avrei uccisa. A quel punto, è stata lei a mettersi a ridere. L'avrei strozzata. Io le avevo appena fatto capire che ero così dannatamente disperato che avrei potuto ucciderla e lei mi ha riso in faccia! E' stata una delle cose più umilianti che mi siano mai successe.
«Non ti preoccupare, ci penso io a tuo fratello»
Quella frase non ha fatto altro che farmi dannare ancora di più per la preoccupazione. Lei ha chiesto in prestito un jet a uno dei suoi amici, e mi ha spiegato che avrebbe portato via mio fratello da uomini di sua fiducia. Quando scoprii che gli "uomini di sua fiducia" erano degli Yakuza che vivevano in giappone, mi sono immediatamente opposto. Pensava davvero che mi fidassi? Lei mi ha guardato come per dirmi "ti pare di avere scelta?" Per far sì che mi fidassi, mi ha lasciato accompagnare mio fratello fino in Giappone. In fondo aveva ragione, quei due erano Yakuza della vecchia guardia che avevano un debito con lei, e per nulla al mondo avrebbero fatto qualcosa contro la sua volontà. Questioni di onore, o cose del genere. Non mi fidavo ancora, ma fu proprio Jake a dirmi che andava bene così e che si sentiva in colpa a starmi in mezzo ai piedi. Penso di non esserci mai rimasto così male, ma se Jake voleva stare con loro perchè si sentiva al sicuro allora così sarebbe stato. Non mi fidavo per niente, ma avendo un piccolo difetto chiamato disturbo paranoide - che ho tutt'ora - credo che fosse normale. Ancora oggi mio fratello si trova in Giappone, dove nulla e nessuno potrà raggiungerlo. Lo so. Come lo so? Beh, è semplice. Perchè so di potermi fidare di quella killer, che oggi è la mia capo. All'inizio continuavo a non fidarmi, però.

Pensai che forse, se avessi continuato a sorvegliarla da vicino, magari non avrebbe fatto nulla a mio fratello. E' esattamente per questo che ho deciso di "pagarla" offrendomi di diventare una specie di guardia del corpo, per lei. Le dissi che le dovevo un grossissimo favore e che mi sarei sentito in debito se non avesse accettato, anche se in realtà di lei mi fregava meno di niente. Sì, è così che ho incontrato e seguito Julia, e sono diventato il primo membro effettivo ad unirsi ai sette killer. Il secondo... Credo che sia stato Vash. Sì, sì, Pride, chiamatelo un po' come vi pare. Ma questo non ho intenzione di raccontarlo io, mi si sta già seccando la gola. Sapete che siete dei veri impiccioni, neh? Quasi come quel ragazzino, Dylan. Umpf. Vi lascerò a Vash. Buon divertimento.

NdA: Ah, i modi bruschi di Tony. Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Sì, quasi nessuno dei miei killer ha ancora tutta la famiglia in vita xD Il prossimo a parlare sarà Vash, aka Pride! Stay tuned! u.ù/

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