Morning Bar

di Acinorev
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno - Coincidence ***
Capitolo 2: *** Capitolo due - Randy is dead ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre - Come with me ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro - Hands ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque - Just a syllable ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei - Unforgettable ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette - Everything's gonna be fine ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto - And now? ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove - Lunch ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci - Nothing ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici - Telephone number ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici - Home, sharp home ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici - Speaking eyes ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici - And that's enough ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici - What do you want? ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici - Summit ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette - Words ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto - Break-even point ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove - What we have become ***
Capitolo 20: *** Capitolo venti - Set me free ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventuno - Epilogue ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno - Coincidence ***



 

Capitolo uno - Coincidence
 
*Eli si legge Ilai

 

Caren sta per avere una crisi di nervi, se lo sente, e non ne è entustiasta, perché è dannatamente in ritardo e perché lo è anche Eli*.
L'ha conosciuto mentre era all'edicola all'angolo della sua via, il pomeriggio precedente: entrambi erano stati attratti dall'ultima copia disponibile di un quotidiano e lei si era aspettata che lui glielo cedesse per galanteria,  invece non l'aveva fatto, giustificandosi con un semplice "ne ho proprio bisogno". Lei aveva rimuginato su quanto fosse strano avere bisogno di un quotidiano, ma aveva dovuto concentrarsi su qualcos'altro subito dopo, perché Eli si stava già presentando con un sorriso troppo gentile sul viso e con gli occhi troppo neri per essere veri. Caren non era riuscita nemmeno a distinguere la pupilla al loro interno, in un primo momento.
«Da uno a dieci quanto sarei inopportuno, se ti invitassi a cena per rimediare?» le aveva chiesto poi, ammiccando e passandosi una mano dalla pelle olivastra tra i capelli castani. Lei aveva alzato le sopracciglia chiare, stupita, e si era lasciata distrarre dal viso pulito e sottile di quel ragazzo.
E adesso, alle 20.43 di una tiepida sera primaverile in pieno aprile, la sua casa assomiglia vagamente ad un campo di battaglia: sul piccolo tavolo in legno chiaro vicino alla finestra, ci sono ancora i piatti usati per la cena e altri sono riposti in malo modo nel lavandino, reduci del pranzo. Il pavimento in mattonelle di un bianco sporco ospita qualche maglietta e pantalone che Caren ha provato e poi scartato, troppo impaziente per rimettere tutto al proprio posto. Il bagno è un’invasione di cosmetici, molti dei quali non ha mai usato e mai userà, ma che conserva nel caso dovessero mai servirle.
E lei – che è sicuramente la cosa più disordinata, lì in mezzo - gironzola indaffarata nel suo piccolo appartamento poco distante dal centro della tranquilla Worthing, e pensa a dove quel ragazzo la porterà - "spero in un bel posto" -, a come si vestirà, a come avrà sistemato i capelli e a cosa le dirà. In realtà, però, sta anche e soprattutto pensando che non riesce a trovare quel maledettissimo paio di ballerine argentate: era convinta che fossero nella scarpiera, ma sono misteriosamente scomparse.
Sa benissimo che di solito la donna deve farsi attendere, ma non è mai stata brava a rispettare questa specie di tradizione, perché Caren odia arrivare in ritardo. E anche i ritardatari.
Infatti, quando poco dopo suona il citofono di casa e lei borbotta un «cazzo, no», si passa una mano sul volto ben truccato e rinuncia alla sua missione di ricerca: afferra il primo paio di scarpe che si trova davanti - delle decoltè nere che si era ripromessa di buttare - e se le infila in tutta fretta, evitando per un pelo una storta. Al diavolo il suo tentativo di non sembrare troppo... Troppo.
Respira profondamente, davanti alla porta di casa, e si sistema la camicetta a tre quarti di raso grigio, infilandola ordinatamente nei jeans scuri; infine, controlla che i bottoni siano tutti nelle rispettive asole, anche e soprattutto il primo, che rischia di lasciare scoperto un po' troppo della sua scollatura, comunque non molto abbondante.
«Hey» dice, regolando il tono di voce per non far trasparire l'agitazione, quando finalmente arriva al portone di casa, dopo aver percorso le quattro rampe di scale che separano il suo appartamento dal piano terra.
Eli le sta davanti con una mano in tasca, mentre con l'altra ricambia il saluto: è alto qualche centimetro più di lei, nonostante i tacchi. Indossa un pantalone nero e un maglioncino di cotone beige, uno di quelli che cadono morbidi sui fianchi, uno di quelli che fan risaltare la sua carnagione. Ha le labbra aperte in un sorriso e i capelli come il giorno precedente, un po' disordinati sulla fronte.
È bello.
«Scusa il ritardo» esclama subito Eli, mentre Caren si chiude la porta alle spalle, facendo scattare la serratura con un rumore un po’ stridulo e fastidioso. Al fondo del vialetto c'è una vecchia macchina malandata che le fa storcere un po' il naso: il motore è acceso e del fumo nero sbuffa fuori dalla marmitta a tratti.
«Non preoccuparti, anche io ero in ritardo: non capisco come le cose possano sparire proprio nei momenti sbagliati» spiega lei, mentre si impegna a mantenere l'equilibrio sui ciottoli del vialetto.
La risata di Eli inizia a farsi conoscere con un accenno esitante, quasi imbarazzato, e la stupisce, perché non se l'aspettava così profonda. La sua voce è mite, lenta, e quasi non si addice al suono che è appena scaturito da quelle labbra poco carnose: Caren decide che le piace, la sua risata.
«Almeno tu hai perso qualcosa - sospira poi lui, fermandosi davanti all'auto che sembra di un blu scuro. Lei fa lo stesso, curiosa di sapere quale sia stato il suo contrattempo. - A me si è rotta la macchina».
«Davvero?» chiede Caren, cercando di trattenersi dal ridere.
«Avanti, ridi pure - la incita il castano, con fare rassegnato. - Sono sceso in garage e puff! Non si accende più, quella dannata».
Ora Caren non la trattiene più, quella risata, perché anche lui ha fatto della sua sfortuna un aneddoto su cui scherzare: è lieta del fatto che non sia uno di quei ragazzi innamorati della propria auto, che non vivono se non sanno che è tutta intera e al sicuro.
«Comunque ho trovato un passaggio giusto in tempo» la rassicura Eli, aprendole lo sportello che cigola un po'.
Lei corruga la fronte chiedendosi chi troverà al posto del guidatore, ma, prima di poter fare un passo, si ritrova la bocca del suo accompagnatore vicina all'orecchio: «Avrei preso in prestito solo la macchina, ma Lake sa essere molto testardo quando vuole» le spiega in un sussurro divertito, mentre Caren si immagina l'eventuale discussione con la quale Eli ha cercato di convincere il suo amico o chiunque questo Lake sia. Evidentemente si è dovuto scontrare con una possessività in campo di auto che non gli appartiene.
Gli sorride e annuisce, cogliendo il velo di preoccupazione nei suoi occhi pece: non è un problema che qualcuno li accompagni in giro, anche se forse potrebbe risultare un po' imbarazzante.
L'interno dell'auto non rispecchia fedelmente l'aspetto esteriore: è molto curato, pulito, e c'è una leggera fragranza che scaturisce da un aggeggio ovale che pende dallo specchietto retrovisore. Caren si siede al centro dei sedili posteriori, rivestiti da un tessuto grigio topo, salutando con un cordiale «Ciao» il ragazzo che sta alla guida: questo si volta verso Eli, che è appena salito al posto del passeggero e aspetta un suo cenno del capo per ingranare la marcia e partire.
La ragazza non sa se essere incuriosita o offesa dal comportamento del loro "autista", che non l'ha degnata nemmeno di uno sguardo: non riesce a vederlo bene in faccia, perché fuori è buio e i lampioni che fiancheggiano la via non illuminano granché nell'abitacolo. Quello che riesce a scorgere è la pelle chiara e i capelli neri, più degli occhi di Eli. Un piccolo neo irregolare sotto l'occhio sinistro e un naso squadrato e leggermente troppo largo. Ha un tatuaggio sul collo, ma è coperto per metà dal colletto del suo giubbotto, quindi non riesce a distinguere cosa sia.
«Lake, lei è Caren - li presenta Eli, con un entusiasmo simile a quello di un bambino. - Caren, questo è Lake, il mio migliore amico» spiega, appoggiando una mano sulla spalla dell'amico e rivolgendo un sorriso a lei.
«Piacere» esclama Caren, sforzandosi di mantenere il grado di gentilezza che si usa di norma con gli estranei.
Tutto quello che ottiene in risposta, però, è un semplice cenno del capo.
«Non te la prendere - la rassicura Eli, con un tono di voce quasi affettuoso. - È fatto così». La sua tranquillità, usata nel parlarne, le fa capire che deve essere abituato al carattere del suo amico: lei non sa nemmeno cosa pensarne, invece. Ma d'altronde, dovrebbe per caso importarle?
«Oh, oh, aspetta, gira qui!» esclama all'improvviso il castano, indicando una strada alla loro sinistra e provocando una frenata brusca da parte di Lake. Caren sente il clacson di una macchina alle loro spalle, che è stata evidentemente colta alla sprovvista, e si aggrappa al bordo del sedile del passeggero.
Guarda Lake alzare una mano al centro dell'abitacolo, in segno di scusa per il caos creato. L'auto ancora ferma in mezzo all'incrocio, in attesa della fine del via vai di macchine che impediscono la loro svolta.
«Pardon, mi ero distratto» ridacchia bonariamente Eli, stringendosi nelle spalle. Ed è proprio in quell'istante, che Caren incontra gli occhi di Lake per la prima volta.
Lui li hai spostati sullo specchietto retrovisore, non per guardare lei - no di certo -, ma molto più probabilmente per controllare la situazione dietro di loro. La ragazza è costretta a deglutire, quando i fari di un'auto di passaggio illuminano lei e gli altri due.
Tutto dura un solo istante. Gli occhi di Caren, di una banale tonalità di marrone chiaro, incontrano quelli di Lake. Sembrano di un blu scuro, ma è impossibile capire se siano così vicini al nero solo a causa del buio: la loro sfumatura imprecisa li rende unici.
Per un attimo guardano proprio lei, facendola sentire piccola ed indifesa, cosa che non le piace affatto.
Lake è un nome strano, l’ha pensato da subito, ma dopo aver incrociato quello sguardo, è convinta che gli si addica: quel colore, quell'intensità, sono gli stessi di un lago. Caren si chiede soltanto se possano essere altrettanto profondi e pericolosi.
«Non fa niente» mormora Lake velocemente, per rassicurare l'amico, mentre riesce finalmente a girare dove gli è stato indicato. La sua voce è risultata tanto bassa da essere facilmente sovrastata dai rumori del motore e della strada. Ormai Caren ha capito che non è un tipo di molte parole.
«No, davvero, so quanto ti dia fastidio» insiste Eli, questa volta con aria di sincere scuse. L'atmosfera non è tesa, però, e questo suggerisce a Caren che non ci sia alcun pericolo di una vera e propria discussione.
Eli riesce a distrarla dai suoi pensieri sull'altro ragazzo con la sua voce allegra e limpida, e ne è sollevata, perché, quando il castano si volta per dirle qualcosa con un sorriso, lei si scuote di dosso quella brutta sensazione opprimente e si sente subito meglio.
 
Eli ha ventiquattro anni, compiuti il mese scorso, e per l'occasione si è regalato un viaggio in Kenya.
Ama i gatti e ne ha due, che però stanno sempre via di casa per qualche  giorno, facendolo spaventare ogni santa volta.
È originario di Liverpool e il padre è per metà irlandese.
Abita nel distretto di Findon Valley, a qualche quartiere di distanza da Caren, che invece alloggia nel West Tarring, tanto che lei non si é trattenuta dal rimproverarlo in tono scherzoso: «Così lontano? Saresti potuto andare ad un'altra edicola e lasciare a me quel giornale». Lui si è messo a ridere e ha vinto, perché ha risposto con un sopracciglio alzato: «A quest'ora non sarei a cena con te». Caren ha incassato il colpo con un sorriso e ha preso un'altra forchettata di bistecca ai ferri.
Eli lavora in un ufficio dell'azienda di suo zio Charles: per ora fa le fotocopie e porta il caffè ai colleghi, ma è sicuro che lo promuoveranno presto.
Le sembra un tipo abbastanza diretto, o almeno questa è stata la sua impressione quando nel mezzo della cena lui ha alzato gli occhi dal suo piatto ancora pieno e l’ha guardata per qualche secondo, prima di muovere le labbra lentamente e «Sei davvero bellissima» dire.
Gli piace viaggiare, guardare il baseball in tv ed uscire con Lake e gli altri amici.
Ride spesso, Caren l'ha notato, ma non perché sia frivolo: trova sempre qualcosa da ribattere e su cui scherzare, infatti è impossibile che cada un discorso in sua presenza. A lei questo fa piacere, perché adora parlare, adora conoscere bene le persone e capire tutto di loro, e con Eli tutte queste cose sono molto semplici.
Lui ha pagato il conto senza che lei se ne accorgesse e ora, mentre aspettano che Lake torni a prenderli, le ha confessato di aver trascorso una bella serata. Una mano a scompigliare i suoi capelli e le labbra inclinate all’insù vittime di un certo imbarazzo.
«Sì, anche io» annuisce Caren, stringendosi nelle spalle per l'arietta fresca che li avvolge.
In realtà c'è qualcosa che non la convince: certo, è andato tutto bene, si è divertita e anche la cena è stata davvero ottima, ma aveva sperato in qualcosa di più. Questo però non lo dice ad Eli, perché alla fine le piace il sorriso che ha e il modo in cui sorride proprio a lei.
 
Quando la macchina di Lake si ferma davanti al ristorante, proprio sotto l'insegna al neon che recita un elegante "Stanley's", Caren ha un'improvvisa voglia di tornare a piedi, eppure non lo dà a vedere. Inspira profondamente e si sistema i capelli biondo cenere che ha lasciato sciolti sulle spalle, perché sono venuti stranamente bene grazie a quella piastra che è riuscita a renderli mossi, e perché le piace la sensazione di sentirli sulle clavicole sporgenti.
Entra in auto e sorride semplicemente, anche se non sa a chi, dato che Lake sta guardando fuori con una sigaretta in bocca, tenuta con l'indice ed il pollice. Il finestrino lascia entrare solo un flebile spiffero d'aria, infatti a Caren bruciano gli occhi a causa del fumo che impregna tutto l'abitacolo.
«Hey, amico - lo saluta Eli, prendendo posto davanti. - Dove sei stato?»
Lake alza le spalle, mette in moto e riparte.
«Ho mangiato qualcosa da queste parti» risponde soltanto.
Caren si sente improvvisamente in colpa: alla fine è meno imbarazzante di quanto credeva, essere accompagnati al proprio appuntamento, ma le dispiace che qualcuno abbia dovuto passare una serata del genere solo per fare un favore ad un amico.
«Grazie, comunque» dice infatti, sorridendo allo specchietto retrovisore nel quale, di nuovo, incontra gli occhi di Lake.
Lui butta fuori del fumo ed alza un sopracciglio folto, senza distogliere lo sguardo: «Figurati».
L'attimo dopo Caren sta già guardando un riflesso che la ignora, ma è almeno soddisfatta di aver ottenuto una risposta.
 
«Allora, pensi che potremmo rivederci? - le chiede Eli con le mani nelle tasche, mentre le sta di fronte, davanti alla porta di casa. - O devo rubarti un altro quotidiano?» aggiunge poi, scherzando.
Caren ride e scuote la testa mordendosi il labbro inferiore, fine e ricoperto da un rossetto chiaro.
«Credo che potrebbe essere una buona idea» annuisce, convinta che quel ragazzo si meriti un'altra possibilità. Non che la prima l'abbia sprecata del tutto.
«Intendi il secondo appuntamento o il furto di giornali?»
«L'appuntamento, ovvio» ribatte lei, ridendo ancora e facendosi imitare da lui.
«Ok, bene - esclama Eli, senza riuscire a contenere perfettamente il suo entusiasmo. - Ti chiamo io, allora. O chiamami prima tu, se vuoi. Oh, insomma, ci sentiamo» conclude, passandosi una mano dietro il collo.
Caren sorride e gli lascia un bacio sulla guancia: «Buonanotte, Eli».











Non potete capire quanto io sia felice di aver pubblicato questa storia jfsdk
Sia perché, dopo un mese di vacanza aka assenza di un computer sul quale scrivere aka non poter aggiornare/pubblicare, ero entrata in una specie di astinenza, sia perché non so, volevo pubblicarla ahha
Comunque, questa è la seconda storia originale che scrivo – la prima è finita nel cestino perché faceva abbastanza schifo (Y) – e non so nemmeno da dove io l’abbia cacciata fuori! Sono un po’ “in ansia” perché non so se potrà piacere!
Questo primo capitolo è molto tranquillo, ma serve ad introdurre i tre personaggi: molte di voi penseranno che Lake sia un nome orrendo, lo so, ma quando me lo sono trovato davanti ho pensato a questa storia e tutti gli altri non mi soddisfacevano, quindi non ho resistito (ora praticamente lo amo) fjdskal Ah, premetto che non ci sarà nessun triangolo amoroso: voglio dire, nessuna storia di tradimenti tra migliori amici e cose del genere haha
E niente, in realtà non ho molto altro da dire! Piuttosto sono curiosa di sapere le vostre impressioni (:
Spero di aggiornare presto, tanto ho già pronti una dozzina di capitoli (sì, le mie vacanze hanno fatto schifo quindi ho riempito le note del telefono ahahha), e dal prossimo capitolo si capirà un po’ di più anche su Caren (:
Vi ringrazio moltissimo per aver letto e vi chiedo di lasciarmi il vostro parere, anche se questo primo capitolo lascia un po’ a desiderare dato che è solo una specie di introduzione!
E un grazie gigantesco a caterina aka malpensandoti per il banner, per la pazienza, per non avermi mandata a stendere, per avermi sopportata: tanto amore per te cate <3333
 
Ps. La citta di Worthing esiste davvero – così come i suoi distretti – e si trova sulla costa dell’Inghilterra, ma i posti che verranno descritti sono completamente inventati! Mi ero rotta della solita Londra!
E ultima cosa, i capitoli sono più corti, rispetto a quelli che scrivo di solito: non so perché, è come se fossero un po’ più essenziali (?). Ok, ora me ne vado sul serio ahha

Ciao,
Veronica.

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Capitolo 2
*** Capitolo due - Randy is dead ***




 
Capitolo due – Randy is dead
 
 
Quando Caren viene svegliata all'improvviso da un tonfo sul letto, accompagnato da una risata inconfondibile, sa già di chi si tratta e, di conseguenza, chi dovrà uccidere.
Si mette il cuscino sopra la testa e borbotta qualcosa di incomprensibile, sia per la bocca impastata dal sonno, sia perché nessuno ha voglia di parlare alle... Che ore sono?
«Ren, andiamo, svegliati!» squilla la voce della sua amica, che sta saltellando con il sedere sul materasso, mentre con una mano scuote il corpo della bella addormentata.
«Perché diavolo ti ho lasciato fare un copione delle mie chiavi di casa?» chiede retoricamente Caren, più a se stessa che a lei.
«Perchè mi vuoi bene - è la spiegazione. - E perché so cucinare».
Caren non aveva certo bisogno di una risposta, d'altronde, perché la sua è stata solo una domanda con la quale esternare la frustrazione derivata dall'essere stata svegliata.
Si rigira nel letto, cercando di togliersi i capelli dal viso: quando apre gli occhi a stento, si accorge che la camera è ancora immersa nel buio, contrastato solo dagli spiragli di luce provenienti dalla serranda grigia e un po' difettosa che oscura la finestra.
«Non hai nemmeno acceso la luce»  commenta, sospirando e tirandosi su a sedere.
L'amica si alza velocemente e si fionda a premere l'interruttore accanto alla porta, rendendo la stanza completamente visibile.
«Ma che importa? Io voglio sapere di ieri sera!» spiega, calcando la "s" come al suo solito e precipitandosi di nuovo sul letto.
«Enriqua Fuentes Nieto, mi hai svegliata solo per questo?» la rimprovera Caren, premendo con indice e pollice sulle proprie tempie. Gli occhi strizzati per il mal di testa e le gambe piegate e nude.
Enriqua annuisce con enfasi, facendo ondeggiare i capelli neri e voluminosi, con i tanti ricci che Caren ha sempre voglia di contare anche se non lo fa mai, perché ci metterebbe davvero troppo. Le iridi della ragazza che le sta di fronte le ricordano quelle di Eli: sono un buco nero, anche se sono più grandi e terribilmente vivaci.
Le ricordano anche i capelli di Lake.
Caren le invidia tutta quella bellezza, rincarata da una carnagione abbronzata anche in pieno inverno e da un fisico formoso. La invidia dalla prima volta che si sono viste, tre anni prima, da quando ha incontrato quella ragazzina di diciotto anni che lavorava in una tavola calda due vie più in là, dopo essersi trasferita da Madrid con solo uno zaino in spalla e un gruzzoletto di soldi.
«Avanti, raccontami tutto! Com'è andata? Ti ha portata in un posto carino, almeno? E ha pagato il conto? Perché, se non l'ha fatto, è proprio un...»
«Ho bisogno di un caffè» sospira Caren, scivolando giù dal letto a piedi scalzi e con indosso una maglia del suo ex ragazzo, quella che non gli ha mai restituito.
«Aspetta!» la rincorre Enriqua, prendendola a braccetto.
«En, ti racconto tutto, te lo giuro - la consola dirigendosi verso il salotto, dove, nell'angolo opposto alla porta, c'è un piccolo cucinino. - Fammi solo svegliare del tutto».
«E va bene, va bene.»
Caren non riesce ad iniziare una giornata senza la caffeina. Ci ha provato, ma è davvero difficile disintossicarsi, infatti non ci è riuscita. Nemmeno un po'. In realtà, la sua è una dipendenza strana, perché le basta una sola tazzina con due cucchiaini di zucchero: non è una di quelle persone che ne bevono in continuazione, ma ha un inarrestabile bisogno di quella minuta quantità di caffè nel proprio corpo per carburare, per sospirare e iniziare la giornata. Questo, poi, la rende ancora più frustrata, dato che dovrebbe essere più facile per lei, smettere.
Con Enriqua in trepidante ascolto sul divano che Caren ha portato lì da casa dei suoi genitori, la bionda racconta più o meno nei dettagli l'appuntamento della sera precedente.  La schiena appoggiata ad uno dei ripiani della cucina e le mani incrociate sul petto.
«Quindi ci uscirai di nuovo» è l'ultimo dei commenti della spagnola, che non si è risparmiata in fatto di esclamazioni di approvazione o di perplessità per una parola detta o per un comportamento.
Caren sospira. «Sì, ma non ne sono entusiasta come dovrei. O come vorrei - spiega, mordendosi l'interno di una guancia. - Lui sembra davvero uno di quei ragazzi perfetti...»
«Alt! - La interrompe Enriqua, con il palmo della mano destra aperto davanti al volto. - Sai che non puoi dire che un ragazzo è perfetto se prima non hai dato una sbirciata nelle sue mutande!»
L'amica ride e scuote la testa. «Stavo dicendo... Sembra perfetto: certo, a volte è un po' egocentrico, ma è divertente, sa come comportarsi con una ragazza, ha un lavoro fisso e un mucchio di altri punti a suo favore - riprende Caren. - Però per ora è così che lo vedo: una persona piacevole con la quale ho passato un'altrettanto piacevole serata. Niente di più, ecco».
«Capisco - commenta En, assumendo un'espressione pensierosa mentre tamburella l’indice sul suo mento. - Secondo me fai bene a dargli comunque un'altra occasione. Può servire a lui per riscattarsi e a te per capire cosa ne pensi realmente».
«Già. Magari domani lo chiamo.»
«Sempre se non ti chiama prima lui - la riprende, divertita. - Ma in entrambi i casi, ti consiglierei di dare quella famosa sbirciatina, prima di prendere una decisione».
Caren alza gli occhi al cielo e sorride, mettendo la tazzina nel lavandino.
 
In effetti è proprio Eli a chiamare, verso le quattro del pomeriggio.
Caren ha declinato l'invito di Enriqua, che aveva progettato una giornata all'insegna dello shopping sfrenato: lei, infatti, aveva già un programma completamente diverso.
È uscita dopo aver pranzato con l'amica e dopo aver riordinato un po' casa, cosa che si riprometteva di fare da qualche giorno.
Ora cammina per la strada guardandosi intorno con aria curiosa e speranzosa: le è sempre piaciuto passeggiare, non tanto per l'azione in sè, ma per le persone che si incontrano; la diverte il poter immaginare le loro vite e i loro pensieri. Worthing, poi, è piena di soggetti interessanti e curiosi.
Quando il suo cellulare inizia a suonare nella piccola borsa di finto cuoio, però, deve interrompere le fantasticherie su una vecchietta intenta a cucire qualcosa su una panchina.
«Eli!» lo saluta, con un sorriso che lui non può vedere. Si ferma sul largo marciapiede e dà un'occhiata al cielo nuvoloso sopra di sè, maledicendosi per non aver preso l'ombrello.
«Oh, niente di che, in realtà - risponde, alzando le spalle, quando lui si scusa per averla disturbata "così presto" e le chiede cosa stia combinando. - Sono uscita per cercare quel lavoro di cui ti ho parlato ieri».
«Giusto, l'avevo dimenticato! Spero che la ricerca darà buoni risultati» esclama gioiosamente. A Caren viene da chiedersi come sia Eli da arrabbiato o nervoso: per adesso non riesce proprio ad immaginarlo.
«Lo spero anche io» risponde, annuendo tra sè e sè.
Cazzo, se lo spero.
Dopo un attimo di silenzio, la voce dall'altra parte del telefono torna a farsi sentire. «Probabilmente avrei dovuto aspettare almeno un altro giorno per chiamarti, ma non sono molto bravo in queste cose - ammette, velando una piccola risata. - Il fatto è che vorrei invitarti a prendere un caffè, domani».
Lei abbassa il capo e calcia un sassolino davanti ai suoi piedi, mentre si prepara a cogliere l'occasione. «Volentieri - risponde infatti. - Dimmi solo il posto e l'ora, non voglio far scomodare un altro dei tuoi amici» confessa, salutando con un cenno del capo la signora Tosh, conosciuta dalla parrucchiera che hanno in comune.
«Sei sicura? Lake potr...»
«Sono sicura» lo interrompe, con un sorriso. Non vuole assolutamente essere di peso per un'altra persona, che dovrebbe scarrozzarli in giro solo perché loro vogliono uscire - e questo le fa capire ancora di più quanto abbia bisogno di risparmiare per quella macchina che deve ancora comprare -, tantomeno Lake. Non lo conosce affatto, è vero, ma è comunque convinta che il favore che ha fatto ad Eli sia solo stato forzato dalle circostanze: non crede che sia stato davvero entusiasta di acconsentire.
«Ok, allora direi... Per le cinque al Geoffrey's Coffee
«Perfetto» acconsente, mentre apprezza il fatto che lui abbia scelto un posto vicino casa sua per compensare la scelta di non immischiare i suoi amici nel loro appuntamento.
«A domani, quindi! E grazie per aver accettato» risponde Eli, spiazzando Caren ancora una volta.
«Non devi ringraziarmi. A domani.»
La telefonata è finita e la ragazza si sente leggermente in colpa: non che abbia secondi fini o ne stia solo approfittando, ma le dispiace non ricambiare a pieno l'interesse che Eli prova e dimostra con tanta tranquillità.
Si schiarisce la voce e si incammina di nuovo: in fondo non è detto che qualsiasi ragazzo conosciuto ad un'edicola debba essere l'uomo per lei. Non ha niente da rimproverarsi.
 
Il "Morning Bar" è in una via secondaria - o addirittura terziaria - che Caren non ha mai percorso e che ha faticato a trovare. L'insegna del locale sporge in verticale dalla parete in mattoni grigi, e non ha un aspetto molto... Nuovo. I caratteri sono costituiti da linee morbide e sottili, con le luci al neon che chissà di che colore sono quando si accendono.
Da fuori, l'ambiente non sembra così grande, anzi, ma la vetrina è cosparsa da offerte scritte in stile graffiti che rendono il tutto molto più accogliente.
Caren sbircia all'interno e tossicchia, cercando di acquisire un po' di coraggio: la verità è che non è fiera di avere ventidue anni e di essere senza lavoro, di nuovo. Certo, è un periodo di crisi, ma è anche colpa sua: avrebbe dovuto iscriversi all'università di scienze politiche, al posto di rinunciare ai suoi veri sogni per inseguirne uno che si sarebbe rivelato un'enorme fandonia.
"Vieni con me" le aveva detto lui, invitandola a seguirlo a Worthing, a circa due ore di viaggio da Swindon, la città nella quale avevano vissuto fino a quel momento. Il liceo era finito, entrambi erano accecati dai sentimenti impellenti che erano cresciuti con loro e dallo spirito di avventura, lui era intenzionato a partire ed era pronto a tutto per convincerla ad accompagnarlo in quella piccola follia.
La verità è che, a diciannove anni, non aveva ancora capito che quel ragazzo fosse un enorme cazzone. Ne aveva impiegati due, di anni, per esserne certa.
Caren alza il mento ed apre la porta del bar, producendo lo scampanellio di un piccolo aggeggio sospeso su di essa. L’odore di brioche e di caffè le invade subito le narici, mischiandosi al profumo dei propri capelli, ancora molto forte dopo quella doccia frettolosa. I tavoli saranno in totale una decina, tutti rotondi e rivestiti da una tavoglia blu scuro: al loro centro, c’è un vasetto trasparente, in cui è riposta una candela più o meno consumata. Ci sono solo tre clienti, tutti intorno allo stesso tavolo.
Il pavimento ai suoi piedi è in parquet, e potrebbe giurare che sia la prima volta che ne vede uno in un bar del genere: le pareti bianche sono cosparse da fotografie dei grandi della musica e da altre che ritraggono persone che non conosce. È tutto così intimo, da assomigliare ad una piccola casa, se non fosse per il bancone in legno scuro  che le sta davanti.
Dietro di esso, c'è un uomo sulla quarantina. La testa calva e la pelle tesa, ricoperta da uno spesso strato di barba nera. Il naso adunco e le labbra sottili gli conferiscono un aspetto severo, mentre asciuga dei bicchieri con indosso un grembiule bordeaux e macchiato legato al collo. Gli occhi sono scuri e scavati.
Il sorriso che le rivolge quando la vede, però, smonta la sua apparenza, facendolo sembrare molto più alla mano di quanto i piercing appuntiti alle sue orecchie vorrebbero far sembrare.
«Buongiorno - saluta Caren, avvicinandosi. - Ho parlato al telefono con un certo... Randy, ieri pomeriggio. Mi ha detto che sarei potuta passare di qui, se ero davvero interessata al lavoro».
L'uomo la guarda con un'espressione seria e appoggia lo strofinaccio sul bancone. «Randy è  morto stamattina» sono le sue parole, pronunciate con una freddezza glaciale.
Caren spalanca gli occhi e si irrigidisce. Si trova persino a boccheggiare, alla ricerca di qualcosa da dire, mentre prende a stritolare le maniche del giubottino di stoffa color panna tra i palmi delle mani.
«Randy, ma vuoi farla finita una buona volta?» lo rimprovera una voce femminile ed acuta proveniente da lì vicino. Una donna compare al fianco dell'uomo, con gli occhietti azzurri scocciati e divertiti puntati su Caren: i capelli di un ramato scuro sono raccolti in una coda più che disordinata e il viso sembra voler riflettere un certo livello di stanchezza, obbligando gli angoli della bocca larga ad inclinarsi all'ingiù.
«Scusalo, è un bambino mai cresciuto - dice ancora, dando un pizzicotto sul braccio magro di Randy, quello vero. Caren tira un respiro di sollievo, rendendosi conto di essere stata vittima di uno scherzo che fa ancora ridere quell'uomo. Rivolge un sorriso alla donna e annuisce. - Io sono Barbara, la proprietaria di questa bettola, e lui è quello scalmanato del mio compagno. Dio solo sa a cosa stavo pensando quando me ne sono innamorata, o, peggio ancora, quando gli ho permesso di lavorare qui» spiega, con un'espressione serena e vivace.
«Ah, smettila: senza di me saresti ancora in Scozia a lavorare nella lavanderia di tua nonna» la riprende Randy, facendosi gioco di lei, dato che si guadagna uno schiaffetto giocoso sulla nuca lucida.
Caren è affascinata da quelle due persone: sono esuberanti, segnate dal lavoro e in vena di scherzare. Barbara, poi, le ha dato l'impressione di essere più fiera del suo bar e del suo compagno di quanto volesse far intendere con le sue parole.
È convinta che sarebbe davvero divertente lavorare con loro.
 
Caren esce dal bar con un sorriso a trentadue denti sul volto e il petto leggero: ha un lavoro. O meglio, ce l'ha quasi.
Randy e Barbara le hanno fatto poche domande di routine, giusto per capire che persona fosse, e non hanno nemmeno voluto sapere se avesse già avuto  esperienze di lavoro simili.
“Qualche giorno di prova ci basterà, per farci un'idea su di te" le hanno solo detto, annuendo soddisfatti.
Lei è rimasta alquanto stupita da quel colloquio improvvisato e fuori dagli schemi, intervallato da battute e aneddoti raccontati, ma le è piaciuto molto il clima di quel piccolo locale. Da che l'idea di lavorare come cameriera non la entusiasmava molto, ora non vede l'ora che sia l'indomani per cominciare.
Attraversa la strada dopo aver controllato che non arrivasse nessuna macchina, con il telefono in mano perché freme di raccontare la notizia ad Enriqua tramite un messaggio carico di faccine sorridenti e punti esclamativi.
Quando arriva sul marciapiede, di gran lunga meno largo di quello che affianca il bar, si gira verso sinistra per continuare il pomeriggio con un'altra passeggiata di sicuro meno ansiosa. Eppure, quando alza lo sguardo dallo schermo del cellulare dopo averlo riposto in borsa, si immobilizza e spalanca gli occhi.
«Lake» dice soltanto, con un tono tra l'interrogativo e lo stupito. Ce l'ha davanti, ed è quasi uno shock vederlo alla luce del sole.
I capelli neri non hanno un vero e proprio ordine, e contrastano con la pelle pallida che Caren ricordava più scura. Le iridi sottili riflettono la luce del tiepido sole, che ha fatto capolino da una nuvola, e brillano, lei può giurarlo: non sono affatto scure come pensava, tutto il contrario. Le profonde borse sotto gli occhi sono i segni evidenti di un sonno mancato, e il neo sullo zigomo sinistro è in realtà un piccolo tatuaggio a forma di croce.
Le labbra sono leggermente secche e ospitano una sigaretta, che lui tiene tra la base dell'indice e quella del medio.
Caren, in tutto ciò, è consapevole del fatto che l'improvvisa attrazione che sente non sia affatto normale.
«Ciao» è il semplice saluto di Lake, pronunciato dopo aver espirato del fumo.
Il tatuaggio sul collo è una rondine. È perfettamente riconoscibile, adesso, perché Lake indossa solo un maglioncino viola scuro, quindi non c'è più l'impiccio del colletto del giubbotto. Caren si rende conto solo adesso di quanto quel ragazzo sia esile, con le gambe magre coperte da jeans neri stracciati e le dita affusolate. Le stesse dita della mano destra che mostrano dei tatuaggi, delle lettere: a partire dal mignolo, una "m", una "i", una "s" ed una "c", che formano la parola “mischief” se si contano le lettere presenti anche sulle dita speculari. Le stesse dita che conducono a un dorso della mano che ospita un'altra rondine tatuata.
Non riesce a carpire ulteriori particolari, però, perché Lake la supera l'attimo dopo, senza dire altro e senza guardarla: lei lo segue con lo sguardo confuso, lo osserva entrare nel negozio davanti al quale si sono incontrati. È un negozio di attrezzi e abbigliamento sportivi, al quale non aveva fatto caso, distratta com'era. E Lake sembra lavorarci, perché saluta il ragazzo dietro il bancone e prende il suo posto, iniziando a servire un cliente.
Perché lo sta spiando da una vetrina, comunque?
Enriqua interrompe i suoi assurdi pensieri chiamandola al cellulare. Caren risponde e si allontana con un sorriso sul volto.





 
 
 

Giuro che non pensavo di aggiornare così presto, ma io ho un serio problema con il tenere i capitoli pronti nel pc hahah È più forte di me, quindi non ho resistito oltre e ho pubblicato!
Anche questo è un capitolo relativamente introduttivo, perché si scoprono alcune cose su Caren (so che alcune di voi non l’hanno ancora inquadrata, giustamente, ma pian piano verrà delineato anche il suo personaggio!) – come il fatto che vive da sola, anche se Enriqua ha la possibilità di piombare in casa sua come e quando vuole, il suo passato con un certo ragazzo che l’ha convinta a trasferirsi a Worthing ma con il quale la storia è finita, e il suo bisogno di un lavoro -, la seconda possibilità ad Eli, il “Morning Bar” (Randy e Barbara fska) e Lake, che a quanto pare lavora dall’altra parte della strada (: È una coincidenza bella e buona, ma nemmeno poi tanto!
Sono davvero felice che Lake abbia catturato la vostra attenzione fjsak E spero che anche gli altri personaggi vi piaceranno allo stesso modo :) Dal prossimo capitolo ne entreranno in scena di nuovi, soprattutto uno, e niente, non vedo l’ora haha
Vi ringrazio davvero tantissimo per aver letto, per le recensioni allo scorso capitolo e per aver inserito la storia tra le seguite/ricordate/preferite! Mi ha fatto davvero molto piacere :)


E adesso è meglio che vada! Spero che il capitolo non abbia deluso le aspettative e che mi farete sapere cosa ne pensate! Sono curiosa di sapere cosa vi aspettate che succeda :)
Un bacione,
Veronica.
 
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Capitolo 3
*** Capitolo tre - Come with me ***




 
Capitolo tre – Come with me
 
 
«E quindi, alla fine, fui io a prenderle di santa ragione da mio padre, nonostante fosse stata Cassidy a rompere quello stupido specchio» conclude Eli, sorridendo con l'aria di chi è immerso nei ricordi. Le sta raccontando di come la sua amica d’infanzia, quando avevano entrambi solo sette anni, avesse rotto il prezioso specchio nel suo salotto con una pallonata, svignandosela subito dopo e lasciando lui alle ire di un padre che non sopporta più i disastri del figlio.
Caren ride e «certo che ne hai passate di tutti i colori, da piccolo» constata, giocherellando con la tazzina di cappuccino ormai vuota.
«Ero abbastanza vivace, sì - le dà ragione il castano, annuendo. - E tu, invece? Non mi hai ancora raccontato molto sulla tua famiglia».
La ragazza sorvola il fatto che non ne abbia avuto l'occasione, dato che Eli ama molto parlare di sè, anche perché non è particolarmente infastidita da questa sua caratteristica.
«In realtà non c'è moltissimo da dire - inizia, leggermente imbarazzata. L'infanzia di Eli è stata sicuramente più emozionante della sua. - Mi sembra di averti già detto che sono figlia unica e che i miei vivono a Swindon, giusto? Quello che non ho detto è che sono stata io ad andarmene di casa, appena finito il liceo: ero innamorata, e quell'amore mi ha portata qui, anche se poi è finito tutto. I miei genitori se la sono legati al dito, la mia piccola fuga: non siamo una famiglia molto unita, diciamo».
«Ah, mi dispiace. Non volevo costringerti a parlare di queste cose» esclama Eli, con fare preoccupato.
Caren scuote la testa con un'espressione serena e lo rassicura. «Non è così male, in fondo - ammette. - Niente noiose cene in famiglia, almeno non sempre, e niente genitori apprensivi che ti stanno con il fiato sul collo. Ho una casa tutta mia, sono indipendente, e da ieri ho anche un lavoro. Potrebbe andarmi peggio, no?» scherza, alzando le spalle, coperte dal maglioncino azzurro pastello. Ed è sincera, perché la sua vita le sta bene così com'è: ha già superato la fase della rabbia e quella della delusione, ha capito lo stato d'animo dei suoi e ha provato a rimediare, anche senza riuscirci completamente. Ha ottenuto solo il ritorno di rapporti quantomeno pacifici, dei quali ha imparato a non lamentarsi.
«Giusto, il lavoro! Allora ti hanno presa! Congratulazioni! - esclama Eli, con un entusiasmo che smorza l'atmosfera leggermente tesa di poco prima. - Di cosa si tratta?»
«Il Morning Bar mi ha assunta come cameriera, anche se ora sono solo in prova per qualche giorno. Ho iniziato stamattina e mi sono trovata molto bene, nonostante non sia il lavoro che vorrei fare per tutta la vita» spiega, annuendo con aria sognante.
«E cosa vorresti fare, sentiamo?» chiede lui con curiosità, appoggiando i gomiti e gli avambracci sul tavolino quadrato al quale sono seduti. Gli occhi neri e allegri non abbandonano il viso di Caren nemmeno per un secondo, come se fossero davvero solo loro due, come se non fossero fuori dal locale con altri tavoli intorno e con altre persone a chiacchierare rumorosamente nei paraggi.
«La giornalista» mormora Caren, quasi per paura che pronunciare ad alta voce quelle parole possa far allontanare il suo sogno, più di quanto non succeda ogni giorno.
«La giornalista? È fantastico! Sai, anche io da ragazzo ho attraversato un periodo in cui quella era la mia massima aspirazione. Poi i miei voti non eccellenti mi hanno fatto cambiare idea» ricorda con amarezza e divertimento, facendola ridere.
Lei, prontamente, cerca di arginare i pensieri di Eli, che potrebbe ricominciare a parlare solo di sè da un momento all'altro. «La mia professoressa mi ha sempre incoraggiata, invece, e anchei miei genitori erano pronti a veder realizzato il mio piccolo sogno: però poi sono fuggita - racconta, mimando le virgolette sull'ultima parola. - E ora mi tocca lavorare in un bar per guadagnare qualcosa e poter pagare l'università a cui conto di iscrivermi presto».
«Sono sicuro che ce la farai, sembri molto determinata» è il commento del ragazzo, accompagnato da uno sguardo caloroso e da un sorriso incoraggiante.
Caren annuisce e mormora un «lo sono, sì», ricambiando il sorriso.
«Ah, a proposito di quel bar... Se non ricordo male, Lake dovrebbe lavorare da quelle parti» dice  Eli, pensieroso, mentre si massaggia il mento glabro con una mano.
Qualcosa in Caren si risveglia e la porta a sistemarsi meglio sulla sedia in ferro, schiarendosi la voce. «Sì, in effetti l'ho incontrato, ieri - confessa, ripensando a quei pochi secondi in cui hanno condiviso lo stesso spazio vitale. - Il negozio in cui lavora è proprio davanti al bar, dall'altra parte della strada».
«Allora avevo ragione – esulta lui. - Be', non mi stupisce nemmeno che Lake non mi abbia detto di averti incontrata. È fatto così» ripete, come quella sera in macchina.
Caren accetta quelle scarse informazioni e lascia che il discorso si infranga su altri argomenti. Eppure vorrebbe proprio chiederlo, "è fatto così, ma così come, esattamente?" vorrebbe chiedere.
 
Gli ultimi metri, prima di arrivare sotto casa di Caren, sono stati percorsi in silenzio, e lei è convinta che entrambi l'abbiano lasciato accadere per motivi diversi.
Ora sono davanti al portone, ed è appena passata una signora che abita al terzo piano, salutandoli con cortesia e obbligandoli a dare aria a poche parole. Eli ha le mani in tasca - è quasi sicuro che sia un vizio - e Caren si sta mordendo l'interno delle guance, mentre rovista nella borsa per troppo tempo, anche dopo aver già trovato le chiavi di casa.
«Caren» sussurra lui, costringendola a spostare gli occhi sul suo viso. Il problema è che, quello stesso viso, è più vicino di quanto lei si aspettasse, e continua a ridurre la distanza tra di loro. Ma, nonostante il profumo del castano sia capace di stordire per quanto è dolce, nonostante le sue labbra siano umide e sensuali, nonostante la sua presa sul braccio di Caren sia esitante ma comunque sicura di ciò che vuole, lei sente il bisogno di indietreggiare di un passo. Lo fa per se stessa, per lui, per evitare di prenderlo in giro inutilmente.
Quel qualcosa che doveva scattare non è scattato, e non sa se mai scatterà. Semplicemente, non riesce ad immaginarlo in modo diverso da un semplice amico, il che è banale, ma è anche la verità.
«Scusa, io... Scusa» mormora Eli, grattandosi il capo e dimostrando il suo imbarazzo per quell'azione impulsiva che sarebbe stata perfetta, in un'altra occasione e con un'altra ragazza.
«Non avrei dovuto farlo» aggiunge poi, abbozzando un sorriso quasi pentito.
«No, non è questo - lo corregge Caren, sfoderando tutta la sincerità di cui è dotata. Cerca il suo sguardo quasi per rassicurarlo. - È che... Mi dispiace, Eli» dice, abbassando gli occhi per un attimo e riportandoli sul volto del ragazzo subito dopo, per scoprirci la sorpresa e un certo dispiacere.
«Ah» è il suo solo commento. Evidentemente ha capito che il bacio non è l’unico problema. Ora sì, che lei si sente in colpa.
«Mi dispiace sul serio, ma non...»
«Ho capito, ho capito - la interrompe, riportando le mani nelle tasche dei jeans chiari. - Non fa niente. Voglio dire, qualcosa fa, ma non ne morirò» esclama, sorridendo ancora. Caren vorrebbe dirgli di smettere di sorridere perché le dispiace vedere quegli occhi velati dalla delusione, ma sa che non ne ha il diritto e che in fondo è normale che sia così.
«Mi dispiace molto, davvero» ripete lei per la terza volta. E lo sa, che non ha senso continuare a dire le stesse cose, ma non capisce nemmeno perché non riesca a fare altrimenti.
Eli sospira e la guarda intensamente per qualche istante interminabile. «Mi piaci molto, Caren - dice soltanto. - Buona fortuna per tutto» sono le ultime parole, prima di allontanarsi con un altro sorriso, l'ennesimo.
La ragazza sente il cuore battere un po' più forte, e schiude le labbra come se fosse sul punto di dire qualcosa, di richiamarlo. Ma a che scopo?
Inspira profondamente e lo guarda andare via, prima di aprire finalmente il portone e dirigersi verso il suo appartamento.
 
Il pub è affollato, fin troppo, e respirare è quasi un'impresa, tra la puzza di sudore, il fumo delle sigarette che dovrebbero essere proibite all'interno e lo spazio vitale notevolmente ridotto, o talvolta quasi azzerato.
Caren ha gli occhi che le bruciano e la mano stretta a quella di Enriqua, che stenta a starle dietro a causa dei tacchi vertiginosi, che le fanno già male perché sono nuovi di zecca, e perché «levami le mani di dosso, razza di pervertito».
Nel suo vestito nero un po' troppo corto e senza spalline, la bionda si ritrova a farsi spazio tra la gente che proprio non ne vuole sapere, di lasciarle passare: stanno tutti ballando e forse sono anche tutti ubriachi, cosa di cui non c'è da stupirsi.
A fatica riesce a trascinare con sè l'amica, fino ad arrivare ai tre divanetti che circondano un tavolo traballante ricoperto di alcool e fonte di allegria della loro compagnia.
Annah, con i capelli biondi tinti legati in una coda alta e gli occhi grigi arrossati da chissà cosa, le vede arrivare e si alza in piedi, sventolando una mano in aria: barcolla un po' e muove la gambe grassocce avvolte in  leggins neri per avvicinarsi a loro e stringerle in un abbraccio. Enriqua si ritrae subito, perché la loro amica è davvero sudata.
«Cazzo, Annah, grondi di sudore!» la prende in giro Caren, camminando sulle ballerine argentate - che alla fine erano in bagno, incastrate tra un mobile e la parete - per raggiungere gli altri, mentre la bionda risponde qualcosa di sconnesso prima di cominciare a ballare.
«Eccola qui, la festeggiata!» sbraita Sue, avvinghiata al suo fidanzato d'epoca. Potrebbero essere scambiati per gemelli, agli occhi di estranei, ma i loro amici sanno che non lo sono affatto: sanno che hanno entrambi una statura non da giganti, ma che Vins rimane più alto della ragazza anche se lei indossa i tacchi; sanno che hanno entrambi gli occhi verdi, ma che quelli di Sue diventano quasi azzurri se colpiti dal sole; sanno che  hanno una carnagione scura e molto simile, ma solo perché Vins si fa le lampade più volte all'anno "per non sfigurare"; sanno che hanno entrambi i capelli neri, ma che quelli di Sue sono tinti, perché a lei non piace il suo colore naturale, un castano spento.
Caren sorride e li abbraccia entrambi, sacrificata dalla stretta che li tiene uniti e che non sembrano voler sciogliere. Enriqua intanto saluta gli altri, stando attenta al vestito verde acqua che ogni tanto scopre un po' troppo delle sue cosce magre.
«Bob, sei venuto alla fine!» esclama Caren, dando una pacca amichevole sulla spalla di Robert, quello che più si avvicina ad un fratello per lei.
«Non potevo certo mancare!» è la risposta, che precede un abbraccio un po' troppo accentuato che le fa staccare i piedi da terra. Bob ha le braccia forti e muscolose, perché fa il bodyguard in un locale in centro. È alto e, quando ride, scuote tutti i muscoli che lo rendono così... Enorme. Ha i capelli rasati e quasi bianchi per quanto sono biondi, gli occhi di un marrone screziato di nero e il naso appuntito, le mani grandi e le gambe stranamente magre e depilate.
Caren gli vuole bene, così tanto, da quando lui è andato a recuperarla in fondo ad una strada, mentre lei giaceva a terra ubriaca marcia e con il vomito alla sua sinistra, perché lui se ne era appena andato.
«Grazie di essere qui» gli dice all'orecchio, alzando la voce per farsi sentire. Riceve in risposta un pizzicotto sulla guancia destra, che le fa strizzare gli occhi per il fastidio e il divertimento, poi passa oltre.
Alla sua destra, seduto sul divanetto, c'è Henry.
Ha le gambe divaricate e ricoperte da un jeans grigio che lei conosce bene. La t-shirt bianca l'hanno comprata insieme, se lo ricorda, e le scarpe da ginnastica sono nuove, perché non hanno alcuna ammaccatura, il che non è assolutamente da lui.
Gli occhi del ragazzo, scuri quanto la porta di casa di Caren, sono fissi su di lei e sono fastidiosamente attenti ed inarrestabili. Le fanno ancora mancare il fiato, ma è qualcosa su cui sta lavorando.
Henry ha i capelli ramati e mossi, non troppo corti e sempre morbidi, se non sono cambiati. La sua pelle è chiara e le spalle sono ricoperte da nei e lentiggini che lei conosce a memoria: quando la storia tra di loro è finita, chiudeva gli occhi ed immaginava di accarezzarli con le dita, come era abituata a fare mentre lo guardava dormire.
Henry non si alza, né muove un solo muscolo, perché Caren lo sta già superando per salutare Ginnie, a pochi passi da lei: ormai tra di loro è così. Purtroppo è grazie a lui che Caren ha conosciuto tutti i suoi amici, e, per non perderli, ha dovuto abituare il proprio cuore alla sua presenza nel gruppo.
Lui è sempre stato un collante, tra tutti loro, quindi non si era stupita quando nessuno aveva osato trattarlo diversamente, nonostante era – ed è - risaputo che si fosse comportato da vero stronzo: solo Bob aveva avuto l’impulso di scaricare su di lui tutta la forza dei suoi muscoli, e forse la situazione non è diversa nemmeno adesso.
«Allora, un bel brindisi a Caren! Finalmente ha un lavoro! - urla Annah, un po' a fatica e con una bottiglia di tequila tra le mani. - Stasera offre lei!»
A quelle parole scherzose si leva un grido di approvazione, anche se tutti sanno che la festeggiata non se lo potrebbe permettere: non tanto perché sia povera, ma perché sono loro, a bere come delle spugne.
Caren porta in alto il bicchiere di Rum e ride spensieratamente, ringraziando subito dopo Enriqua, che ha organizzato tutto per celebrare la novità.
 
L'alcool nelle vene è molto, ma tanto c'è Enriqua che non beve, perché "se no come torni a casa in questo stato? E non vomitarmi sulle scarpe nuove!"
Il volume della musica è alto, ma domani Caren deve andare al bar di pomeriggio, quindi è pronta a farsi stordire completamente.
La testa le gira leggermente, ma a lei non importa.
Vuole dimenticare gli occhi di Henry su di lei, che per tutta la sera non l'hanno lasciata respirare, e quelli di Eli, che sembrano esserle ancora davanti, mentre chiedono una possibilità, un'altra.
Vuole dimenticare le bollette da pagare, la macchina da comprare e il tubo della lavatrice che rischia di rompersi da un momento all'altro.
E ci riesce, per gran parte della serata. Poi tutti i suoi tentativi diventano vani, quando delle mani familiari le cingono la vita, da dietro.
Sente quelle labbra carnose appoggiarsi sul suo collo leggermente sudato e rabbrividisce, perché non vuole.
«Mi machi da far schifo» le dice Henry all'orecchio, ma lei pensa che lo schifo sia proprio lui, infatti si allontana, divincolandosi dalla sua presa. Il ragazzo la afferra per un polso e la tira a sé, facendola traballare sui tacchi.
«Vieni con me» continua lui, imperterrito come sempre, con la bocca a sfiorare la sua, con le mani ad accarezzarle i capelli e le scapole scoperte.
«Mi fai vomitare» dice solo Caren, e non per colpa della sbornia. Come si permette anche solo di toccarla, di parlarle e di respirare così vicino a lei, avvelenando l'aria che la circonda?
Ci ha messo un anno, per togliersi dalla testa la sua voce mentre diceva certe cose, ed ora eccola lì, ovattata dalla musica e dalla confusione, ma lì. Ed è buffo che stia succedendo proprio quel giorno, quando si è ritrovata a parlare di lui ad un ragazzo conosciuto ad un'edicola, un ragazzo al quale non ha dato un'occasione nonostante fosse un milione di volte migliore di lui.
«Car, vieni con me» ripete Henry, mentre Caren pensa che debba proprio piacergli, dirlo. Lo ha sussurrato per convincerla ad andarsene da Swindon con lui, lo diceva sulla sua pelle mentre facevano l'amore - o qualsiasi cosa fosse -, e lo dice anche ora, probabilmente solo per svuotarsi le palle.
Caren lo conosce bene, purtroppo, ed è per questo che si scosta ancora una volta da quel corpo snello che le fa male, per cercare Enriqua ed andarsene a casa.





 


Buooongiorno :) Sono di fretta perchè domani ho un esame e devo ancora preparare miliardi di cose, quindi sarò breve (ci proverò!).
Caren ha già chiuso le cose con Eli, anche perché a volte un ragazzo può essere davvero perfetto, ma non essere abbastanza: lui l'ha presa relativamente bene, direi! Vi aspettate un suo ritorno, prima o poi?
Si scoprono altre cosette sulla protagonista, come il suo rapporto con i suoi genitori e i suoi sogni nel cassetto: spero davvero che anche lei riuscirà a conquistarvi :) Per ora credo si possa già capire che è abbastanza impulsiva, dato che ha lasciato la sua vita per rincorrere un amore in una città lontana da casa.
Pooooi, entrano in scena i suoi amici, ma soprattutto Henry: è lui il famoso ragazzo che l'ha portata a Worthing e ora tra di loro non c'è un bel rapporto, decisamente. È passato più o meno un anno da quando la loro storia è finita (più avanti scoprirete perchè, ma sono curiosa di sentire le vostre ipotesi) ed Henry le ha confessato di sentire la sua mancanza, a modo suo! Vi anticipo che lui ricomparirà molto presto!
Bene, credo di aver detto tutto! Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, anche dei nuovi personaggi :) O di qualsiasi altra cosa ahahah Questa storia mi fa essere più paranoica del normale!
Ah, dal prossimo capitolo entrerà in scena Lake, di nuovo :)

Vi ringrazio moltissimo per aver letto e recensito, per tutto l'appoggio che mi date :)
Per qualsiasi cosa mi trovate su
ask, twitter e facebook!
Un bacione,
Vero.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro - Hands ***




 
Capitolo quattro – Hands

 
I postumi della sbornia non sono mai piaciuti a Caren, come d'altronde non crede che piacciano realmente a qualcuno. Nemmeno il suo amato caffè riesce a farla riprendere, però, e questo la fa innervosire, perché tra poco deve essere al bar e lei si è appena svegliata.
Corre per la casa, maledicendosi con imprecazioni e sfoggiando le famose abilità multitasking di tutte le donne, quelle che solo Sue non possiede. Si spazzola i capelli mentre mangia qualcosa al volo, si lava i denti mentre si infila i jeans chiari, va in cerca della borsa mentre indossa il golfino color pesca e mentre striscia i piedi a terra nella speranza di farli entrare in quelle dannate converse bianche.
Esce e rientra due volte di casa, alla fine, perché la prima volta si è dimenticata il portafoglio, la seconda credeva di aver lasciato il telefono da qualche parte e in realtà l’aveva in mano.
Con la faccia struccata e le leggere occhiaie in bella vista, i capelli nè mossi nè lisci che non hanno un ordine, la testa che scoppia e dei ricordi troppo vaghi per essere precisi, Caren si trova davanti al "Morning Bar" tre minuti prima delle due, giusto in tempo per iniziare il turno di lavoro. La puntualità, ce l'ha nel sangue.
Entra nel locale con ancora il fiatone, guadagnato dall'aver corso come una disperata, dato che non poteva aspettare che un qualsiasi autobus si degnasse di passare. Prende un respiro profondo e sorride a Barbara, che sta in piedi accanto ad un tavolo, con un piccolo block notes tra le mani per le ordinazioni. La vita sottile e i fianchi larghi, coperti da un grembiule sfilacciato qua e là.
La ragazza si guarda intorno e si accorge che ci sono pochi clienti, tanto che solo tre tavoli sono occupati e non sono nemmeno tutti pieni.
Si dirige verso il bancone e si prepara per iniziare il turno, mentre Randy la saluta con affetto. «Jenkins! Che ti è successo? - chiede, circondandole le spalle con un braccio ossuto. Chissà perché si ostina a chiamarla per cognome, poi. - Sembra che un treno ti abbia presa in pieno!»
Caren sorride e cerca di legarsi il grembiule al collo. «Niente treno, solo una serata tra amici» spiega, afferrando uno strofinaccio per pulire la sporcizia su un tavolo.
«Amici? Guarda che io devo approvarli! Perché non li inviti qui, una sera?»
E Caren annuisce, ma, nonostante il tono scherzoso usato da Randy, è consapevole del fatto che lui fosse più che serio.
 
È solo il secondo giorno che lavora, ma ha già l'impressione che la vita nel bar abbia degli orari precisi: ci sono dei momenti in cui non c'è davvero nessuno e in cui tutto ciò che deve fare è riordinare il locale e lavare qualche piattino o tazzina; poi arriva il momento in cui rischia di impazzire, perché ha davvero troppe ordinazioni da prendere e perché i clienti sembrano sbucare come funghi dopo la pioggia.
Ora, per esempio, è seduta dietro il bancone e muove la gamba sinistra, accavallata sull'altra, a ritmo della canzone dei Queens che Randy adora e che sta ballando senza ritegno al centro del bar, con una scopa in mano e una sigaretta in bocca.
"Il cartello del divieto di fumo, l'ho messo io lì. Ma non vale per me, piccola Jenkins" è stata la spiegazione, seguita all'occhiata divertita da parte di Caren.
Barbara è sparita in cucina a fare chissà cosa e il "Morning Bar" è deserto, troppo caldo, ma stranamente piacevole da vivere.
Caren si guarda le mani bianche, chiedendosi perché a lei sia toccata una carnagione così insignificante, una di quelle che si brucia con il semplice sole di fine maggio: le chiude a pugno e gira i polsi, osservandosi le unghie mangiucchiate e smaltate di un azzurro acceso. Perché si ostini a usare smalti e basi, quando non ne è assolutamente capace, è ancora un mistero.
Lo scampanellio che accompagna sempre l'aprirsi o il chiudersi della porta le fa alzare lo sguardo per capire se ci sia davvero stato un movimento, in quei pochi metri quadri.
La sua gamba smette di muoversi e le mani si rilassano, perché Lake è appena entrato e ha dato una pacca amichevole sulla spalla sporgente di Randy.
Caren si alza velocemente dallo sgabello e aspetta che il ragazzo arrivi al bancone, che sembra essere la sua destinazione: ha gli occhi bassi e sta scrivendo qualcosa ad un vecchio cellulare. Cammina con calma, nei jeans neri e in un una t-shirt con una strana fantasia verde sul davanti, coperta da una giacca di pelle scura. Sembra conoscere il posto a memoria, perché si siede ad uno degli sgabelli alti senza alzare lo sguardo nemmeno una volta.
A Caren gira la testa per la sbornia della notte precedente e per il profumo aspro di Lake.
«Jenkins, lascia che ti presenti il tuo predecessore! - esclama Randy, avvicinandosi a loro e affiancando la ragazza, mentre Lake si sforza di guardarla, finalmente. – Questo buono a nulla ha lavorato qui da noi per due anni e mezzo, poi, due settimane fa, ci ha traditi con il negozio di Sam, qui di fronte» spiega, indicandolo con un cenno del capo. Le sue parole sono piene di affetto e di malcelata nostalgia.
«Ci conosciamo già» confessa Caren, con gli occhi fissi in quelli che ha di fronte. Vorrebbe riuscire a decifrare a pieno l'espressione del ragazzo, ma lui si limita a stare immobile e  ad osservarla in silenzio: non è stupito di vederla, almeno non sembra, e anzi, le dà l’impressione di essere leggermente incuriosito. Quando poi apre bocca, cambia completamente discorso. «Fammi il solito» dice semplicemente, rivolgendosi all'uomo, che annuisce con un sorriso.
Caren impara che "il solito" di Lake corrisponde ad una Heineken e ad un panino con pancetta e formaggio fuso. Capisce che molte volte pranza qui, quando ha questo turno al negozio, ma che di solito viene un po' prima: quel giorno è solo stato pieno di clienti.
Eppure, tutte queste piccole informazioni, le acquisisce da Randy. Quel Lake proprio non ne vuole sapere, di formulare una frase composta da più di cinque parole, e lei è anche rimasta in silenzio per tutto il tempo nella convinzione che magari non gli piacesse parlare con gli estranei: il fatto che lui sia così praticamente sempre, però, la rassicura, in un certo senso, e al tempo stesso la spaventa.
Quando la voce di Barbara, parecchio nervosa, chiama il compagno in cucina, Randy se ne va con gli occhi che si alzano al cielo e una mano che si massaggia il collo. I due ragazzi rimangono soli e il silenzio è smorzato solo dai piccoli rumori che lui produce mentre mangia - il tovagliolo che stropiccia quando si pulisce una mano, il fondo della birra che batte delicatamente sul bancone di legno, il piattino che sposta per poter raccogliere delle briciole cadute - e dall'intera discografia dei Queens.
Caren si trova a disagio, più che in imbarazzo: è curiosa di decifrare quegli occhi concentrati e assenti al tempo stesso, ma non sa proprio come fare. È impaziente, smaniosa di conoscere quello che solletica la sua curiosità.
Sospira e appoggia le mani sul bancone, mentre una stringe nervosamente lo stesso strofinaccio che sta diventando il suo migliore amico.
«Non sapevo che avessi lavorato qui - comincia, aggrappandosi ad uno dei pochi dati certi che possiede su di lui. Le labbra increspate in un sorriso esitante. - Pensavo che Randy e Barbara se la fossero sbrigata sempre da soli, chissà perché poi» aggiunge, abbozzando una risata nervosa, mentre si rende conto di quanto sia stata effettivamente infondata la sua supposizione.
Lake addenta un altro po' di panino e mastica per qualche secondo, spostando gli occhi stanchi su di lei solo all'ultimo. «C'è da fare, in questo posto. Più di quanto sembri» risponde, dopo aver deglutito ed essersi schiarito la voce un po' acuta.
Caren rimane quasi affascinata dai movimenti semplici e concisi di quel ragazzo, dal modo in cui le labbra accompagnano ogni parola e dalla fronte corrugata.
«Già» conferma, annuendo mentre continua a studiarlo. Il fatto è che vuole che Lake continui a parlare, vuole riuscire in quella impresa, quindi insiste, mordendosi il labbro inferiore. «Perché sei andato a lavorare lì, alla fine?» chiede - osa -, mentre lui beve l'ultimo sorso di birra e si pulisce la bocca con un nuovo tovagliolo che ha preso da solo da dietro il bancone. Sporgendosi in avanti si è quasi scontrato con il braccio di Caren, ma lei non si è mossa di un millimetro, quasi desiderasse quel contatto.
Che sia ancora ubriaca dalla sera prima?
Lake sposta gli occhi in quelli di lei e alza un sopracciglio folto. «Perchè mi piace di più» spiega, tornando a mangiare ciò che resta del suo panino. Caren si dà della stupida da sola, intanto, perché la domanda che ha fatto è stata davvero stupida e perché lui avrebbe potuto aggiungere alla sua risposta un marcato "evidentemente" che non avrebbe di certo stonato con il resto.
Eppure non l'ha fatto e, anzi, non c'era traccia di scocciatura, nella sua voce: ha semplicemente detto ciò che lei voleva sapere, senza troppe storie nè giudizi. Caren immagina che, se al suo posto ci fosse stato Eli, a quest'ora avrebbe riso di lei con il suo solito tatto.
A volte, quando le persone rispondono con la sinteticità di Lake, è perché non vogliono parlare di sè, ma danno comunque la possibilità agli altri di capirlo: lui, invece, sembra essere proprio così - "è fatto così" -, come se potesse parlare in quel modo anche se gli venisse comunicata la vincita di un milione di sterline. Apre la bocca e risponde ciò che deve, senza fronzoli e parole superflue: almeno, questa è l’impressione che dà.
Caren deve prenderci l'abitudine, perché lei è l'esatto opposto. Per questo non trova il modo di fermarsi, quando parla ancora. «È solo il secondo giorno che lavoro qui - dice, anche se non sa se a lui possa interessare o meno. - Sono ancora in prova. Spero solo che...»
«Randy e Barbara non prendono nessuno in prova - la interrompe Lake, stupendola. - Sei già assunta».
Caren aggrotta le sopracciglia e schiude le labbra, mentre ragiona su quelle semplici parole e mentre lo osserva masticare l'ultimo boccone prima di alzarsi dallo sgabello. Non sa come prendere quella piccola confessione, ma non può nascondere un certo moto di felicità: se quel ragazzo ha lavorato per così tanto tempo in quel bar, avrà le sue ragioni per dire qualcosa del genere, e lei si sente già in preda all'euforia nel pensare di avere un lavoro certo.
«Cosa fai?» chiede poi, riscuotendosi, quando Lake fa il giro del bancone, raccoglie le cose che ha usato per pranzare e inizia a mettere a posto. Più di una volta la sfiora, senza però guardarla, e lei non può che spalancare gli occhi nell'accorgersi di quanta esperienza abbia nel lavare velocemente tutto, nell'aprire il secchio del vetro che si incastra sempre - ma non con lui, a quanto pare -, e nel trovare senza problemi il posto di ogni cosa.
«Aspetta, ci penso io» lo ferma poi, rubandogli lo straccio lì vicino, prima che lui possa afferrarlo per pulire ancora.
Lake la guarda intensamente, quasi chiedendole in silenzio cos'abbia intenzione di fare, poi si muove e appoggia la propria mano destra su quella di lei, lentamente ma in modo determinato. I loro occhi non si perdono di vista nemmeno per un secondo, rendendo quel gesto banale di tutt’altra natura.
Caren si irrigidisce senza un motivo preciso: la sua pelle è calda, ruvida e con un piccolo callo alla base dell'indice. Le sue dita premono senza fretta e con delicatezza su quelle che hanno intrappolato, solo per distrarle, per obbligarle a lasciare la presa su quell'inutile straccio. E Caren obbedisce loro, si rilassa e protesta interiormente, quando il contatto tra di loro finisce, perché Lake sta pulendo il ripiano sul quale poco fa ha mangiato.
«Non ti toglierai mai questo dannato vizio, non è così?» esclama all'improvviso Randy, riemergendo dalla cucina e avvicinandosi a loro. La ragazza quasi sobbalza, perché per qualche secondo era rimasta chiusa nelle sue riflessioni, nelle sue attente osservazioni su ogni movimento di Lake: torna alla realtà quando il suo capo, se così si può chiamare, mette una mano sulla sua spalla e l'altra su quella del ragazzo.
«Se ci tieni tanto, a pulire, avresti potuto non lasciarmi con il culo scoperto» commenta Randy bonariamente, anche se dà l'impressione di essere rimasto abbastanza deluso dal cambio di lavoro del suo ex collega, nonostante probabilmente ne comprenda il motivo.
«Il tuo culo è coperto» risponde Lake, indicando con un cenno del capo Caren e scivolando via dalla presa dell'uomo per allontanarsi.
«Be', ora sì, ma ha avuto freddo per un po' di tempo, a causa tua» ribatte l'altro con la voce roca e divertita.
«Te lo riscaldo io, quel culo, se non lasci tornare quel ragazzo a lavoro!» lo rimprovera Barbara, comparendo alla sinistra di Caren e facendole un occhiolino.
Randy borbotta qualcosa e Lake alza una mano in segno di saluto, prima di uscire dalla porta con una sigaretta già tra le labbra e le iridi di cielo fisse sull’accendino appena tirato fuori dalla tasca.
La bionda avrebbe davvero voluto incrociare ancora una volta il suo sguardo, ma qualcosa le dice che avrà molte altre occasioni per farlo.
 
Sono le dieci di sera passate e Caren ha solo voglia di dormire, anzi, prima vuole farsi un bagno, rimanere in acqua, immobile, fino a far raggrinzire le mani, e poi buttarsi nel letto.
Quando entra in casa, sospira pesantemente e inizia a spogliarsi ancora prima di arrivare in camera o nel piccolo bagno: la borsa viene lanciata svogliatamente sul divano, il golfino cade sul tappeto marrone all'entrata, le scarpe vengono abbandonate nello stretto corridoio e i jeans cadono sul pavimento freddo del bagno, perché ci ha messo un po' di più a toglierli.
Si ferma davanti al lavandino e ci appoggia le mani sopra: respira profondamente e si guarda allo specchio, che la riflette fino a sotto il seno, coperto da un reggiseno semi-trasparente - così era scritto sulla confezione, ma in realtà è dannatamente trasparente -.
«Ma come siamo belle oggi, Caren» commenta ironicamente, avvicinandosi con il viso alla superficie riflettente, come se potesse correggere l'immagine che ha di fronte solo studiandola meglio. Gli occhi hanno assunto una sfumatura più scura - migliore - solo perché la lampadina del bagno è quasi fulminata ed emana una luce fiacca. Le occhiaie sono ancora lì e sono peggiorate, a causa del sonno non completamente recuperato. Il piccolo neo sul mento, spostato verso sinistra, le piace ancora di meno, e si ritrova ad odiare persino le sue sopracciglia chiare. Il naso leggermente all'insù sembra che stoni con il suo viso, da qualsiasi angolazione lei lo osservi.
In preda ad una vera e propria crisi di insoddisfazione, dettata più dalla stanchezza che da altro, sbuffa e gira la manopola dell'acqua calda della vasca, togliendosi intanto gli ultimi indumenti.
Il telefono squilla proprio mentre Caren sta infilando un piede nell'acqua, quindi corre a prenderlo in salotto e risponde, tornando in bagno subito dopo.
«Bob, ciao» dice con un sorriso, facendo poi una smorfia perché l'acqua è troppo bollente.
«Ren, hey - la saluta lui, con la sua voce profonda. - Come stai?»
«Sono stanca. Vorrei essere sposata con un ricco sfondato e non dover fare un cazzo dalla mattina alla sera»  si sfoga lei. E sì, è solo il secondo giorno di lavoro, ma lamentarsi non fa male a nessuno.
Bob ride e «ti abituerai» le assicura, mentre Caren si immerge completamente nella vasca e si appoggia con la testa al bordo bianco. I capelli si bagnano fino alla nuca, galleggiando sull’acqua in modo disordinato.
Il silenzio dall’altra parte della cornetta le suggerisce che il suo amico abbia chiamato con uno scopo ben preciso.
«Hai sentito Henry?» è infatti la domanda che poi le viene rivolta e alla quale non reagisce, cercando di ignorare la stretta alla bocca dello stomaco. Bob non è davanti a lei, quindi le basterà regolare il tono di voce per riuscire a nasconderla. A nascondersi.
Non ricorda molto di quello che è successo, solo le labbra di Henry sul suo collo e alcune parole confuse: abbastanza, insomma, da farle provare ribrezzo.
«No - risponde, per niente stupita dalla ben nota schiettezza del suo amico. - E non voglio farlo».
Robert non risponde, perché probabilmente sta cercando qualcosa di adatto da dire, quindi Caren sfrutta l'occasione per cambiare discorso. «Ho rivisto un ragazzo, oggi» confessa, chiudendo gli occhi.
La mano destra, quella che si è ritrovata sommersa da quella di Lake, troppo grande rispetto alla sua, si chiude a pugno spontaneamente.
«Un ragazzo? E chi è?»
«È strano.»




 


Buongiorno! Stavolta sono stata più che puntuale con questo capitolo e sono quasi fiera di me per aver resistito ahaha Non succede moltissimo, in realtà, ma entra in scena Lake: ho notato che vi ha colpito molto come personaggio (su ask c'è gente che mi chiede come sta haha) e a me fa un sacco piacere :)
Ovviamente tra lui e Caren non succede granchè, anche perché è effettivamente la prima volta che parlano sul serio: più che altro si capisce un po' di più il loro modo di rapportarsi e le loro diversità. Caren è sostanzialmente una chiacchierona ed è curiosa, tanto che lo studia per tutto il tempo e cerca di tirargli le parole fuori di bocca. Lake invece parla solo se necessario e non si scompone mai, nè risulta scocciato dalla ragazza! Che ve ne pare? È poco su cui basarsi, ma avranno modo di parlare ancora e ancora :)
Ah, lui lavorava al "Morning Bar" prima di Caren, quindi è un po' grazie a lui che lei ha un lavoro adesso :)
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto e vi chiedo in ginocchio di farmi sapere cosa ne pensate! Ho l'impressione che lo scorso capitolo non sia piaciuto molto, ma se c'è qualcosa che non va non esitate a dirmelo! Anzi!

Vi ringrazio per tutto, come sempre :)
Per qualsiasi cosa, mi trovate su
ask, facebook e twitter!
Un bacione,
Vero.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque - Just a syllable ***




 
Capitolo cinque – Just a syllable
 

Caren si gira a pancia in su sul tappeto persiano e incrocia le gambe, appoggiate al divano in pelle finta, color panna. Sue, di conseguenza, tiene alzata la testa per qualche secondo e poi la posa sul ventre piatto della bionda, puntando i piedi scalzi a terra e tenendo le mani in grembo.
Annah è rannicchiata sul divano, con il gomito puntellato sul bracciolo che le permette di sorreggersi il viso tondo con la mano. Su di lei è sdraiata Enriqua, che sta mangiando dei pop-corn mentre aspetta che lo smalto verde acqua sulle unghie dei piedi si asciughi.
Ginnie compare in salotto con altri biscotti e schifezze varie, rovesciando tutto a terra e aspettando che ognuna si serva da sè.
È appena tornata dallo studio dentistico in cui fa da assistente, e la sua mano destra odora ancora di quella strana sostanza che le è caduta sopra durante il turno, nonostante il sapone usato per lavarla via. È una ragazza bassa ed esile, con la pelle rosea che sembra finta: i capelli bruni e lisci come spaghetti sanno sempre quale sia il loro posto, provocando l'invidia delle amiche. Gli occhi blu sono piccoli e contornati da ciglia lunghe che non hanno mai bisogno del mascara - altra invidia -. La bocca sottile è armoniosa, anche con la voglia rossastra che pende dal labbro inferiore, ma il viso è allungato e leggermente squadrato, tanto che alcuni ragazzi stentano a definirlo grazioso.
«En, ricordati di quelle ripetizioni!» esclama all'improvviso la proprietaria di casa, Sue, come se avesse rischiato di dimenticarlo lei per prima.
La risposta è mugugnata, mentre la spagnola continua a mangiare senza sosta, e il discorso cade lì: evidentemente, nello strano silenzio che alberga in quell'ampio salotto, la mora si è impantanata nei pensieri riguardanti i suoi esami all'università di lingue.
«Ho bisogno di soldi. Di soldi e di un ragazzo» si lamenta Annah, quella con la vita sentimentale che lascia più a desiderare, tra di loro. Tutte sanno perfettamente che, fin quando non si deciderà a lasciare casa dei suoi genitori e a trovarsi un vero lavoro - un lavoro che non consista solo nel fare da baby-sitter al suo cuginetto di due anni tre volte al mese -, la sua richiesta di soldi non verrà esaudita. Eppure nessuna accenna al fatto, perché nessuna vuole intavolare l'ennesima discussione, che finirebbe con una risposta infastidita da parte di Annah e da rimuginazioni generali, come succede sempre.
Caren sorride, ma, prima che possa dire qualcosa, è Ginnie a parlare. Si siede a gambe incrociate sul tappeto e fa il solletico sotto i piedi ad En, che borbotta qualcosa riguardo lo smalto. «Tranquilla, siamo in due – la rassicura, sospirando. - Giuro che a quarant'anni, se nessuno ci avrà fatto il piacere di sopportarci, mi ci fidanzo io con te».
«E i soldi?» precisa la bionda tinta, sollevando quell'altro problema.
«Vivremo d'amore, che te ne fai dei soldi?» ribatte Ginnie, alzandosi velocemente e fiondandosi su di lei per abbracciarla e lasciarle sonori baci sulle guance, mentre Annah non contiene le risate.
«A volte penso che io e Vins dovremmo sposarci senza troppe storie» mormora Sue.
Caren non riesce a guardarla in faccia, ma può immaginarsi i suoi occhi sognanti da inguaribile romantica. «Se non vi sposate voi, non so chi potrebbe farlo» commenta, accarezzando i capelli ricci dell'amica.
«Ma poi penso al fatto che questa dannata università mi sta mandando fuori di testa – riprende Sue, come se l’altra non avesse parlato e inasprendo il tono. – Che sono fuori corso di un anno e che io ormai ne ho venticinque, di anni. Che Vins probabilmente verrà sbattuto fuori dall’ufficio, se non la smettono di licenziare gente a caso, e che il matrimonio costerebbe troppo dato che dobbiamo pagare l’affitto, la rata di quel catorcio di macchina che abbiamo e la mia vacanza alle Hawaii, che devo assolutamente fare se non voglio avere un esauriimento nervoso».
Per un attimo nel salotto regna il silenzio, dato che sono tutte sbigottite dal fiume di parole uscito dalla bocca di Sue con tanta enfasi. Si sente solo il suo sospiro rumoroso, alla fine, segno evidente e ben conosciuto della fine del suo sfogo.
Per questo Annah ruba un pop-corn ad Enriqua e glielo lancia in faccia all’improvviso, sorridendo. «E non rompere – le dice, facendo ridacchiare anche le altre. – Tanto sappiamo tutte che tra massimo quattro mesi riceveremo gli inviti al matrimonio. A proposito, se mi vorrai come damigella, sappi che il color pesca mi ingrassa».
«Guarda che ero seria!» la riprende Sue, ancora alla ricerca del pop-corn che l’ha colpita poco prima e che è misteriosamente scomparso. Caren fa una smorfia quando l’amica preme un po’ troppo sul suo stomaco con la testa, ma poi ride per l’imitazione che Annah fa dell’amica per esprimere il suo scetticismo.
«Al mio matrimonio, invece, sarete tutte vestite di lilla» interviene Enriqua, dopo aver deglutito l’ultimo boccone, mentre raccoglie con i polpastrelli delle dita le tracce di sale sul contenitore che tiene tra le mani.
«Il tuo matrimonio? E chi sarebbe il malcapitato?» domanda Ginnie, addentando una barretta al cioccolato.
«Johnny Depp, ovvio» risponde la spagnola, con un’espressione incredula che fa sorridere un po’ tutte.
«Johnny Depp non sa nemmeno che esisti» sospira Caren, mettendosi un braccio dietro la testa per poter avere una visuale migliore.
«Sì, in effetti avresti potuto scegliere qualcuno di più… Più accessibile, ecco» rincara Annah, guadagnandosi un pizzicotto scherzoso e falsamente offeso.
«Ma che razza di amiche siete? Dovreste supportarmi!»
«A proposito di supporto, io appoggio Caren e il ragazzo “non ho lo sbatti di parlare”» afferma Sue, tirandosi a sedere per guardare l'amica in faccia. Le sue iridi verdi e cangianti la scrutano in modo malizioso e divertito.
L'interessata spalanca gli occhi e deglutisce a vuoto. «Ma che stai dicendo?»
«Andiamo, hai detto che viene sempre al bar, no?» domanda retoricamente Ginnie, facendole un occhiolino.
Caren si chiede da quando loro sappiano tutte queste cose su di lei, o meglio, da quando abbiano iniziato a dispensare opinioni da vere amiche: sono sempre state tutte unite, certo, ma sempre per circostanze forzate, essendo nello stesso gruppo. L'amicizia, infatti, non ha mai raggiunto certi livelli - escludendo En -. Solo ultimamente sembrano molto più legate, ed è un po' strano. Strano e piacevole.
«Sì, ma è venuto solo altre tre o quattro volte, non sempre, come dici tu. E perché deve mangiare, non per me» precisa Caren, ripensando a Lake e a quelle visite inaspettate nell'arco di una settimana e mezza. La prima si era svolta senza che lei riuscisse anche solo a salutarlo, perché il bar era un via vai di gente. Le altre, invece, avevano accolto qualche parola scambiata tra un'ordinazione e l'altra. E - perché negarlo? - anche un paio di sguardi che non è ancora riuscita a dimenticare del tutto e che non le sono ben chiari.
Se Caren dovesse descrivere l'evolversi del loro rapporto, però, direbbe che non c'è stata proprio nessuna evoluzione: Lake è sempre il solito e il modo di approcciarsi a lei non è affatto cambiato.
«E qual è la differenza, scusa?» interviene Enriqua, sorridendole in modo ammiccante. Inutile dire che anche lei sia una sostenitrice di quella coppia improbabile. Gliel’ha confessato un paio di giorni prima, mentre si provava un paio di short in jeans chiaro nel camerino del negozio all’angolo della sua via: per fortuna la bionda era nascosta dalla tenda in spesso cotone blu, quindi la sua espressione stupita è rimasta un segreto.
Lei, infatti, nemmeno riesce a pensare a Lake come possibile ragazzo: sono diversi, fin troppo, e non ha ancora capito se l'attrazione che prova per lui sia vera o solo dettata da una curiosità fuori dal normale. In realtà, però, sta solo cercando di convincersi che sia per il secondo motivo, e no, non è vero che non ha mai fantasticato - in modo infantile - su che strana coppia formerebbero.
«Visto che tu ormai hai cambiato obiettivo, che ne dici di presentarmi quell'Eli che hai scaricato?» propone Annah, sfoderando di nuovo il suo bisogno di un ragazzo.
Le amiche ridono e Caren scuote la testa, arresa e divertita.
 
Il giorno dopo, Caren ha il turno di mattina e una strana sensazione allo stomaco: è inquieta e non sa nemmeno il perché. Forse, ad agitarla, è stata la chiamata persa di sua madre trovata sul cellulare.
Verso le due, ad un'ora dalla fine della sua giornata di lavoro, il bar si è svuotato lentamente e la ragazza sta parlando con Barbara mentre insieme sparecchiano i piccoli tavoli. La sua attenzione, però, si rivolge subito alla porta che si è appena aperta.
Lake entra e si dirige al suo posto al bancone, salutando con un generico "hey" rivolto a tutti e a nessuno in particolare.
«Cerco di farvi rimanere un po' da soli. Tu va' da lui, muoviti» le bisbiglia Barbara all'orecchio, dandole una pacca scherzosa sul sedere. Lei sobbalza, imbarazzata, e borbotta qualcosa, mentre vede la donna allontanarsi con aria soddisfatta e afferrare Randy per un gomito con la scusa di fargli controllare un qualcosa di rotto.
Caren inspira profondamente e guarda la schiena magra di Lake, curva sul bancone: come fa Barbara a sospettare un'attrazione tra di loro, se nemmeno lei la percepisce così chiaramente? E di sicuro è su di lei che si basa, perché quel ragazzo non sembra in grado di far trasparire nemmeno un indizio. Strano modo sarebbe il suo, comunque, di dimostrare interesse.
Scuote la testa e scaccia via quegli stupidi pensieri: nessuno si è invaghito di nessuno, e Barbara sta solo ingigantendo qualcosa che non esiste nemmeno.
«Il solito?» chiede a Lake, passando dall'altra parte del bancone ed indossando un sorriso che dovrebbe distrarla dal ragionamento di prima.
Guarda il ragazzo in faccia solo per vederlo annuire, con gli occhi socchiusi puntati su di lei. «Grazie» dice poi, inaspettatamente. Non che non l'abbia mai detto, anzi, è un tipo molto educato, ma è il modo in cui ha pronunciato quella parola, ad averla stupita.
L'ha fissata tanto intensamente da farle bloccare il respiro in gola, per non parlare dell'inclinarsi delle sue labbra: Caren annuisce e torna a respirare - con le mani che tremano leggermente per il nervosismo - quando inizia a preparargli il panino.
Sicuramente è in questo stato per tutte le frecciatine che le hanno lanciato le persone intorno a lei. Sì, sicuramente è per questo che continua a soffermarsi su ogni minimo movimento del moro.
«Come va oggi in negozio?» chiede poi, ancora di spalle. Ha bisogno di sciogliere quella tensione inspiegabile che la avvolge, e il modo migliore per farlo è parlare.
Non saprebbe spiegare di preciso cosa succeda quando quel ragazzo è nei paraggi, ma è come se ci fosse qualcosa nell’aria: ed è una similitudine scontata, lo sa, ma è anche l’unica che le viene in mente e che le sembra maledettamente giusta. Lake non si sbilancia mai, non fa mai niente che possa farle pensare di essere oggetto del suo interesse, infatti lei continua a ripetersi di non farsi illusioni e di rimanere con i piedi per terra: eppure, ogni volta che lui la guarda, o la sfiora, sente qualcosa che sembra fungere da collegamento tra loro due, qualcosa di estremamente vago e intenso al tempo stesso. Come se fosse sottinteso.
«Abbastanza noioso» è la risposta, simile a quelle alle quali lei ha imparato ad abituarsi.
Quello che Caren non si aspetta affatto, però, è di sentire altre parole pronunciate dalla sua voce bassa e un po' acuta, senza che lei le abbia provocate. Si volta verso il ragazzo, infatti, quando lui «ci sono stati pochissimi clienti - dice, con un'alzata di spalle. - Odio quando è tutto così tranquillo».
Caren osserva Lake in silenzio per qualche secondo, le dita sporche di pancetta e gli occhi sporchi del suo viso chiaro. «Non l'avrei mai detto» si lascia sfuggire, prima di voltarsi a finire il panino. Lui sembra la definizione, di tranquillo.
«Perché?» domanda il ragazzo, con un tono incuriosito.
Lei gli porta l'Heineken e il suo pranzo, poi rimane in piedi a guardarlo, pulendosi le mani sul grembiule. «Non parli quasi mai - dice soltanto, stringendosi nelle spalle e abbozzando un sorriso di chi azzarda una propria opinione. - Sei sempre così silenzioso che... Non so, non pensavo non ti piacesse la tranquillità».
Ha almeno un senso quello che ha detto?
Lake alza un sopracciglio e, al posto di iniziare a mangiare, appoggia i gomiti e gli avambracci sul bancone, osservandola con attenzione. Caren, però, sente il bisogno di fargli un'altra domanda, prima che lui apra bocca per dire qualsiasi cosa voglia dire.
«Perché parli così poco?»
Per qualche secondo i due rimangono in silenzio a guardarsi, come se sui loro volti ci potessero essere le risposte che entrambi cercano. Poi Lake stappa la bottiglia di birra e ne beve un sorso.
«Dovrei parlare di più?» chiede di rimando. Non è infastidito – cosa che sarebbe accettabile, dato che le frequenti chiacchiere della bionda risultano spesso essere invadenti -, anzi, tutto il contrario.
Dovrebbe? Caren non riesce proprio ad immaginarlo con una parlantina veloce o con tante cose da dire.
«No - risponde infatti, in un sussurro. - Era solo una curiosità».
Lui inclina la testa da un lato, lentamente, e si passa una mano sul petto, come se volesse rendere meno stropicciata la felpa nera che indossa. «Non mi piace parlare quando non ce n'è bisogno» spiega, arrendendosi alla domanda che gli è stata rivolta.
Caren, però, si sente improvvisamente a disagio; maschera tutto con una leggera risata, abbassando lo sguardo sui suoi piedi, e «allora immagino che io ti dia abbastanza sui nervi, dato che parlo in continuazione» dice, mordendosi l'interno della guancia.
«Non ho detto che non mi piaccia ascoltarti» la corregge Lake, obbligandola a riportare il suo sguardo nei suoi occhi. E Dio, quegli occhi la manderanno al manicomio.
Ascoltarti.
La ragazza non sa cosa rispondere – cosa che capita davvero raramente -, perché in effetti non si sarebbe mai aspettata quella sensazione alla bocca dello stomaco, dato che fino a mezz’ora prima stava quasi riuscendo a convincersi di provare solo curiosità nei confronti di Lake. Eppure, dopo quella semplice parola, è rimasta spiazzata: lui avrebbe potuto precisare che in realtà gli piace ascoltare le persone, ma ha palesemente deciso di modificare quell’ultima sillaba, di adattare l’intera frase a loro due, a lei.
È stato inaspettato, ma piacevole, e Caren ne è anche sollevata: ha sempre avuto il dubbio di stargli antipatica, essendo tanto diversa da lui in fatto di rapporti sociali, anche se non ha mai avuto delle vere e proprio prove, dato che lui non le ha mai risposto male o assunto un tono scocciato nel parlarle.
Ora che le sue paranoie sono state smantellate, però, non trattiene un sorriso sincero e lo guarda addentare il panino.
 
Mezz'ora prima Caren sapeva che Lake ha ventitré anni, perché Randy un giorno l'ha preso in giro dicendo "ventitré anni buttati nel cesso, visto che hai rinunciato alla gloriosa carriera in questo bar!".
Sapeva che Barbara l’ha incontrato in un supermercato, mentre lasciava un volantino ad una cassa, nel quale veniva chiesto aiuto al "Morning Bar".
Sapeva che lui scarta sempre il grasso della pancetta – quando loro non hanno tempo per toglierlo al posto suo - e che se il formaggio non è molto cotto non gli fa una grande differenza.
Sapeva che la suoneria del suo telefono è squillante in modo fastidioso e che è l'unica decente perché il cellulare è di mezzo secolo fa.
Sapeva dei suoi tatuaggi sul collo, sul viso e sulle mani.
E sapeva che il profumo di Lake è sempre lo stesso, sempre ugualmente forte e riconoscibile anche da lontano.
Mezz'ora dopo, adesso, Caren sa anche che Lake pratica un qualche sport, perché ha ricevuto una chiamata in cui gli veniva chiesto di partecipare ad una partita, quella sera stessa.
Sa che ha male ad un piede perché gli è scivolato di mano uno dei pesi in vendita nel negozio e che doveva mettere a posto.
E sa anche che ha altri tatuaggi sulle braccia, perché si è tolto la felpa per il caldo, rimanendo con solo una canottiera bianca: due teschi decorati in modi differenti ricoprono ognuno un braccio diverso, compresa parte della relativa spalla, e la parte superiore di una chitarra avvolta da piccole lingue di fuoco rosso possiede l'avambraccio destro. Avrebbe voluto studiarli meglio, ma non voleva essere indiscreta.
«Devo andare» si congeda il ragazzo ad un certo punto, pulendosi la bocca ed infilandosi di nuovo la felpa. Randy, che stava chiacchierando con lui di una partita di calcio alquanto importante, date le esclamazioni vivaci che ha utilizzato, si interrompe e si raddrizza, staccando le braccia dal bancone e tornando con la schiena dritta.
Caren, che invece ha appena finito di servire due clienti ad un tavolo lì vicino, si avvicina a Lake e raccoglie il piatto, il tovagliolo e la bottiglia, ignorando il suo sguardo stupito: ogni volta si tiene una specie di duello su chi debba pulire, tra loro due.
«Jenkins, te lo giuro: se non fossi troppo vecchio e troppo innamorato, ti farei la corte. Una donna che ha voglia di pulire è una donna da sposare!» esclama Randy, facendola sorridere.
Lei sta per dire che ne è lusingata, anche se il discorso è un po' maschilista, ma non ne ha la possibilità.
Non ci riesce proprio, perché, in un attimo, il braccio sinistro di Lake è intorno alle sue spalle, il proprio corpo è schiacciato contro il suo e il viso è così vicino al petto del ragazzo che se solo si voltasse potrebbe sfiorarlo con il naso. Sente il suo mento magro appoggiarsi sul suo capo, intrappolandola delicatamente.
«Stalle lontano, vecchio maniaco» dice lui semplicemente, stringendo per un attimo la presa su di lei per poi scioglierla con tranquillità.
Caren non ascolta la risposta di Randy, perché ha il cuore che batte rumorosamente e troppo velocemente nella cassa toracica, e perché le sembra ancora di sentire il calore del corpo di Lake mischiato a quel profumo che le annebbia i sensi.
Si riscuote quando sente la porta chiudersi. I resti del pranzo di Lake ancora tra le mani sudate e le gambe in un precario equilibrio a causa della posizione in cui è rimasta.
Solo allora si muove, tornando a respirare regolarmente, e si accorge dell'occhiata espressiva di Barbara, che subito dopo ride sommessamente.





 

Buonaseraaa! Avevo detto che avrei aggiornato domani, ma va beh, si sa che sono poco affidabile su queste cose hahah
Allooora, non c'è moltissimo da dire: la prima parte introduce meglio le amiche di Caren, che in realtà non sono mai state così unite. E ovviamente anche loro sanno di Lake e possiamo dire che lo "shippano" con lei ahah
È passata una settimana e si sono visti altre volte, ma solo in questo capitolo hanno l'occasione di parlare davvero di nuovo: Caren scopre altre cosette su di lui, e Lake ammette che gli piace "ascoltarla", quindi lascio a voi le ipotesi (:
Vorrei dire solo una cosa: non sottovalutatelo solo perché è silenzioso! Caren lo fa di sicuro ahahah Comunque già dal prossimo capitolo capirete di cosa parlo e darete una sbirciata all'altra faccia della medaglia di Lake :)

Vi chiedo per favore di farmi sapere cosa pensate di questo capitolo e del rapporto tra Caren e Lake, così da avere delle opinioni!
E vi ringrazio tantissimo per tutto l'appoggio che mi date e per i messaggi che mi mandate: mi rendete felicissima :)
Detto questo, me ne vado!
A presto!


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Capitolo 6
*** Capitolo sei - Unforgettable ***




 
Capitolo sei – Unforgettable
 

«Caren!» la chiama Barbara da qualche parte del bar. Lei si volta, con ancora la penna a tenere i capelli in uno chignon improvvisato e soprattutto disordinato, le maniche della camicetta bianca tirate su per il caldo e la scopa in mano.
«Caren, vai da Sam, per favore! - continua la donna, che si trova sulla porta della cucina, con una mano a strofinarsi la fronte sudata. - Lake non è venuto oggi e Dio solo sa quanto mi faccia innervosire quando non mangia».
Caren sorride esitante e annuisce, nonostante dentro di sè sia un po' combattuta.
Sono passati due giorni dall'ultima volta che si sono visti, da quel mezzo abbraccio giocoso che lei ha interpretato in maniera sbagliata, da quando il suo cuore si è comportato in modo strano in seguito alle sue parole. Certo, ci ha rimuginato su, ripentendo a se stessa che sta facendo le cose più grandi di quelle che sono, che Lake è comunque il migliore amico di Eli e sarebbe imbarazzante, che davvero non c'è niente di cui preoccuparsi.
Eppure, quando il ragazzo non è venuto a pranzo, lei ne è stata quasi sollevata, e poi si è sentita in colpa.
Ora, mentre prepara il solito panino e tira fuori la birra dal frigo, non sa cosa pensare.
«A tra poco» dice soltanto, sperando di essere sentita da qualcuno.
«Oh certo, grazie Jenkins. E prenditi una pausa, giá che ci sei» risponde Randy, con sforzo, mentre solleva una cassa di lattine di Coca-Cola.
Perfetto.
Esce dal bar stando attenta a non far cadere nulla, respira profondamente l'aria primaverile di fine aprile e attraversa la strada, dandosi coraggio da sola.
Ma coraggio per cosa, razza di stupida? si chiede subito dopo.
Davanti alla porta in vetro del negozio, che porta il nome impronunciabile di un atleta - glielo ha spiegato Barbara durante un momento di calma al bar -, sbircia all'interno, oltre il cartello che indica che il locale è chiuso per pranzo.
Entra con passo cauto, guardandosi intorno come se stesse esplorando un territorio pericoloso: è pieno zeppo di articoli sportivi, ovviamente, e per qualche secondo si incanta a studiarne alcuni. Cammina in mezzo a due file di prodotti, al fondo delle quali si trova un bancone: alla sua destra sono disposte ordinatamente biciclette di tutti i tipi e misure; alla sua sinistra, invece, si estende uno scaffale dedicato completamente al nuoto.
Quando arriva al fondo si volta e dà un'altra occhiata in giro. «Lake?» chiama, mettendosi in attento ascolto.
«Hmhm» è la risposta mugugnata, come se la sua bocca fosse occupata da qualcosa. Lei segue quel suono con la fronte corrugata, e trova il ragazzo a due scaffali di distanza: tra le mani tiene diversi palloni da calcio che sta cercando di sistemare al loro posto, mentre in bocca ha un pezzo di carta.
«Lake» lo chiama di nuovo, con aria divertita.
Lui lascia cadere a terra i palloni e prende tra le mani il foglietto per infilarlo in tasca, sospirando mentre si guarda intorno.
Con indosso i pantaloni di una tuta grigia e una canottiera nera, è sommerso da scatoloni aperti.
«Barbara era preoccupata» si giustifica Caren, avvicinandosi e porgendogli il pranzo.
Lake sposta lo sguardo da lei al panino, poi lo riporta nei suoi occhi, facendola fermare. «Appoggia lì» dice, indicando con un cenno del capo uno scaffale mezzo vuoto. Caren gli dà ascolto, poi si stringe nelle spalle mentre torna a guardarlo.
Lake ha le mani sui fianchi e la fronte leggermente imperlata di sudore, i capelli scompigliati e gli occhi più lucidi del solito, le scarpe da ginnastica bianche slacciate e le labbra socchiuse.
La ragazza si obbliga a soffermarsi su qualcos'altro, però, perché rischia di impazzire, anche a due metri di distanza da lui. «Cos'è tutta questa roba?» chiede incuriosita, sbirciando in una delle scatole.
«I nuovi arrivi» spiega lui – telegrafico come sempre -, voltandosi verso di lei, che annuisce.
Sospira e lo guarda avvicinarsi lentamente, con una mano tra i capelli: lui prende la birra, la stappa contro il ripiano in ferro con un rumore sordo e ne prende un sorso abbondante, che Caren si preoccupa di seguire lungo la sua gola pallida. Deglutisce anche lei, di riflesso: magari potrebbe mandar giù anche la tensione che è tornata ad attanagliarle lo stomaco.
«Credo che ti prenderebbe volentieri a schiaffi, Barbara - ride lei, ricordandosi la scena. - Sembrava una madre apprensiva».
«Ormai ci sono abituato» risponde, alzando le spalle come se avesse vissuto la stessa esperienza almeno altre cento volte. Poi «ne vuoi?» aggiunge, porgendole la bottiglia di birra. Lei la prende in mano, portandola alle labbra: intanto lo osserva in ogni suo movimento, ignorando il gusto amarognolo che sente in bocca e concentrandosi sugli occhi che le stanno di fronte ma che hanno smesso di guardarla.
Quando, subito dopo, viene ristabilito il contatto visivo all’improvviso, Caren è talmente colpita dal colore di quelle iridi che riesce a farsi andare di traverso la birra, facendone cadere qualche goccia sul grembiule da lavoro e sotto la camicetta.
Tossisce e «no, no, no» borbotta velocemente, controllando i danni e appoggiando la bottiglia sul ripiano al suo fianco. Non solo Lake avrà pensato che sia un’imbranata con i fiocchi, ma ha anche sporcato quello che più assomiglia ad una divisa: cerca di slacciarla, ma quel nodo di laccetti dietro al collo proprio non ne vuole sapere, di collaborare.
È Lake a ricoprire la distanza tra di loro con un solo passo e ad allungare le mani su quelle di lei, in modo da aiutarla: Caren inspira e trattiene in fiato, perché ha il viso vicinissimo alla rondine tatuata sul collo del ragazzo – vorrebbe sfiorarla con le dita – e il petto che si scontrerebbe contro il suo se solo riprendesse a respirare.
I brividi che le hanno provocato i polpastrelli di Lake sulla propria pelle cessano nel momento in cui i laccetti si lasciano finalmente sciogliere, permettendo a lui di allontanarsi con il grembiule in mano. Lei quasi si riscuote e muove le mani per aiutarlo, appoggiando alla fine quel pezzo di stoffa proprio accanto alla birra sullo scaffale.
«Giuro che di solito riesco a bere da una bottiglia senza troppi problemi» esclama, ridendo imbarazzata e controllando che la camicetta bianca non abbia subito troppi danni: in effetti ci sono solo tre piccole e circolari macchie a sporcarla, che forse nemmeno si notano molto.
Non udendo alcuna risposta o reazione, si decide ad alzare lo sguardo di fronte a sé, con un’espressione leggermente confusa da quel silenzio davvero troppo prolungato, anche per uno come Lake: e se stesse ancora cercando di bere qualcosa, a questo punto sputerebbe fuori tutto ancora una volta, probabilmente, perché ha di nuovo i suoi occhi fissi su di sé in maniera quasi insopportabile. Lui ha il viso rilassato e serio – chissà com’è quando sorride – e subito dopo ha la mano destra che si sposta senza esitazione verso Caren, facendola irrigidire: la avvicina al colletto della camicia e quasi lo sistema, anche se probabilmente non ce n’era bisogno.
Lei ha questa malsana idea in testa: è convinta che Lake abbia bisogno di un contatto qualsiasi, la maggior parte delle volte. Quasi sicuramente ha solo molta fantasia, ma ha l’impressione che lui cerchi spesso di sfiorarla con movimenti apparentemente innocui ma che non passano di certo inosservati ai suoi occhi più che attenti. Di conseguenza, non si stupisce di quel suo gesto, anzi, ne è quasi sollevata.
Lake non distoglie lo sguardo dal suo, come se ne nemmeno potesse, e Caren si morde il labbro, accettando il silenzio del ragazzo, quello che conosce troppo bene, ma corruga leggermente la fronte quando lo vede avvicinarsi ancora, un po' troppo. La sua presa sulla camicetta si fa più accentuata, quasi dovesse fungere un appiglio.
Lo guarda negli occhi, che da vicino sono quasi una tortura, perché non possono essere così profondi, così...
Così come, Caren non riesce a capirlo, perché Lake li ha chiusi nell'esatto momento in cui ha unito le loro labbra con urgenza: le bacia ripetutamente, a lungo, mentre circonda la vita della ragazza con un braccio, facendola indietreggiare, e con l'altra mano – adesso libera - le accarezza il collo.
Lei è senza fiato, ha la schiena contro lo scaffale di ferro che fa male, una gamba del ragazzo tra le sue, il cuore fuori controllo e la bocca aperta contro quella di Lake. Sa che non c'è niente di casto o dolce, in quel bacio, perché la mano che le sta stringendo un fianco è fin troppo sfacciata, ma non le interessa.
Lake continua a baciarla con enfasi, toccando tutto ciò che riesce del suo corpo. La fa gemere a bocca chiusa, quando le morde il collo per poi succhiarlo lentamente, e i suoi capelli vengono stretti in una presa quando la sua mano sale verso il seno di Caren, stringendolo senza troppa delicatezza.
È passione, quella. La riconosce, la percepisce in ogni muscolo e non sa se debba lasciarla vincere completamente, perché sa anche che potrebbe sfociare in qualcosa di non adatto ad un negozio di articoli sportivi.
Caren respira velocemente, ricambiando il favore mentre bacia la pelle tatuata del collo di Lake – finalmente -, con lui che la schiaccia contro lo scaffale, facendo cadere qualche pallina da golf che non li disturba affatto.
Il suo profumo è una vera e propria trappola, perché ha la capacità di stordire, unito all'odore di sigarette e al sapore della birra di poco prima, che riassapora quando tornano a baciarsi sfacciatamente. È convinta che sia anche colpa sua se lei non riesce ad opporsi a tutto quello.
Appena Lake porta una mano sulla coscia di Caren, stringendola e passando poi ad accarezzare qualcos'altro, di più intimo, Caren si sente decisamente sopraffare.
«Cosa... Cosa stai facendo?» riesce a chiedere, nel modo più banale del mondo, con la testa nell'incavo del suo collo e il suo respiro nell'orecchio. Lo chiede come se fosse solo uno spettatore esterno, come se non avesse nessuna colpa, lei. E non sta parlando solo di quell’ultimo gesto, ma di tutto. Proprio tutto.
Lake spinge la mano contro la sua intimità, facendole mordere un labbro per l'eccitazione, e «tu, invece, cosa stai facendo?» ribatte.
Caren vorrebbe dirgli che non lo sa, che le ha mandato il cervello a puttane e che non capisce niente, perché - diavolo! - lui è Lake! Non si aspettava di certo un comportamento del genere, non così all’improvviso, non senza almeno una conferma delle sue ipotesi, delle sue sensazioni: e invece eccoli lì, stretti l’uno all’altro contro ogni previsione.
«Ma tu non...»
Il ragazzo cerca i suoi occhi, appoggia la fronte alla sua e unisce ancora di più i loro corpi, facendole sentire anche la sua, di eccitazione. «Sono silenzioso, non asessuato» è il suo commento sussurrato, seguito da un bacio con morsi ed unghie, con labbra morbide ed occhi chiusi. È proprio allora che lei cessa di sentirsi un’illusa, nel ripensare alle emozioni che ha sempre provato in sua compagnia e che ha sempre etichettato come “esagerate” o “frutto dell’immaginazione”: evidentemente non le stava affatto sognando.
«Lake, sono io, Sam!» grida una voce, nell'esatto momento in cui la porta del negozio si apre.
«Oh, cazzo» mormora Caren, ancora stordita e in disordine, mentre il moro si scosta troppo velocemente, aggiustandosi la maglietta che lei ha superato per accarezzargli il ventre magro.
Lui la guarda in silenzio, con il petto che si muove su e giù ad un ritmo accelerato ed i pantaloni della tuta più gonfi di quanto dovrebbero.
Caren distoglie lo sguardo e si passa una mano tra i capelli, rendendosi conto solo adesso che lo chignon non esiste più per un motivo preciso. Raccoglie il grembiule dal ripiano in ferro e la matita che manteneva quantomeno in posizione i suoi capelli da terra.
«Devo tornare al bar - borbotta poi, mentre i passi di Sam si fanno più vicini. - Ci... Ci vediamo» aggiunge frastornata, senza osare guardarlo un'altra volta.
Sente i suoi occhi trafiggerle la schiena, ma lui ha appena trafitto qualcos'altro in lei, quindi sono pari.
 
«Copriti il collo con qualcosa, prima che Randy se ne accorga. Sa essere molto geloso.»
«Barbara, io...»
«Tesoro, è di Lake che stiamo parlando. Anzi, mi stupisco del fatto che abbiate resistito così a lungo.»
«Ma...»
«Pensa a divertirti! Hai per caso qualcosa da perdere?»
 
Quando Caren prende in mano il telefono e riconosce il numero, che non ha più in rubrica ma in testa sì, spalanca gli occhi ed ignora la chiamata.
Lo fa per quattro volte, sdraiata sul divano di casa con la tv accesa e sintonizzata su un vecchio film in bianco e nero. Alla quinta chiamata, però, sbuffa sonoramente e risponde.
«Ma che vuoi, Henry?» sbotta. È strano chiamarlo di nuovo per nome.
«Non ero ubriaco la sera al pub, ero serio» dice la sua voce, resa un po' più acuta dalla linea.
Caren chiude gli occhi e «invece io ero ubriaca marcia, ed è un bene che non mi ricordi cosa mi hai detto» ribatte, mentendo solo in piccola parte. Quasi si innervosisce ancora di più, se pensa a come lui ci metta sempre - ancora - del tempo a confessare qualcosa, dato che da quella sera sono passati diversi giorni.
«Smettila, di fare l'acida - la riprende, con la sua solita sfrontatezza. - Voglio solo parlarti».
«Fottiti» ringhia lei, attaccando la chiamata.
Le fa saltare i nervi, come sempre. La fa innervosire e le fa venire voglia di prendere a pugni qualsiasi cosa le capiti a tiro. È il solito sbruffone irrispettoso, non crede che cambierà mai.
Il telefono squilla di nuovo e Caren quasi urla esasperata, con le mani a coprirle il volto. Schiaccia il tasto verde e la sua voce si alza di molto. «Fottiti, ho detto!»
«Possiamo parlare?» chiede lui, imperterrito e con più calma.
Sembra di essere tornati ai tempi in cui erano ancora una coppia: la scena non era affatto diversa, il più delle volte.
«Ma di che diavolo vorresti parlare, Henry? Sei del tutto impazzito?»
«Sì, forse sì, perché  non ti ho mai sopportata quando facevi la stronza come ora, eppure voglio ancora parlarti!»
La cosa divertente è che Henry non ha mai capito come prenderla o riprendersela, eppure c’è sempre riuscito, anche con i suoi modi del tutto discutibili. Forse perché in lui c’è dell’altro, altro che gli ha permesso di farsi amare incondizionatamente da Caren.
«Be', indovina un po'? A me non va per niente!»
«Car, per favore - riprova lui, sospirando. Probabilmente si sta passando una mano tra i capelli, come al suo solito. - Non ti costa niente, non sai nemmeno cosa voglio dirti».
«Posso immaginarlo, tranquillo. E ti odio, perché è passato quasi un anno!»
«Ho capito, vuoi urlarmi addosso. Va bene, puoi farlo: dimmi solo l'ora e il posto, poi potrai anche picchiarmi» spiega lui.
«Sei patetico. Mi parli come se avessi solo sbagliato a comprare i cereali» sussurra Caren, indignata.
«No, sto solo cercando di parlarti di persona! Credi che non sappia cos'ho fatto? Ci convivo ogni giorno e me ne sono pentito, e tu devi credermi!»
«Tu devi conviverci? Tu?! Dio, sei sempre il solito egocentrico! Gira sempre tutto intorno a te e tutti devono fare quello che vuoi, non è così? Allora sai che ti dico? Vieni domani alle tre al Morning Bar, io finisco il turno e poi ti mando a 'fanculo anche di persona, visto che ci tieni tanto!» urla, attaccando poi la chiamata.
Ha il respiro accelerato e gli occhi lucidi, perché sta per piangere anche se non vorrebbe. Ancora una volta, è riuscita ad urlargli contro la sua frustrazione ma non a rifiutare di incontrarlo, come se ne fosse irrimediabilmente attratta.
Riprende il telefono e compone il numero di Enriqua: appena l'amica risponde, lei lascia andare la lacrime, senza dire altro.
 
La stessa notte, tra le coperte leggere nel più totale disordine, Caren continua a girarsi e rigirarsi nel letto.
Non riesce a dormire e, purtroppo, sa anche il perchè.
È sballottolata da un'emozione all'altra e preferirebbe annegare nello sconforto più totale, piuttosto che essere così confusa.
Non può fare a meno di pensare allo scaffale dedicato al golf. Alle mani di Lake che non sapeva potessero essere così forti, così indelebili. Al respiro sul suo collo. Ai baci che sente ancora sulle labbra. Al modo in cui lei era disposta a concedersi a lui senza troppe storie.
E non riesce a non pensare ad Henry, a come anche le sue, di mani, siano state indelebili, un tempo. A quanto l'amasse e a quanto ci abbia messo, a dimenticarlo. A quanto lo odi e a quanti schiaffi riuscirà a tirargli il giorno dopo.
Non riesce proprio a non pensare, ed è terribilmente stanca.





 
 

Buoooongiorno! Oggi è il mio compleanno e mi sono concessa di scrivere un po', anche se questo capitolo era solo da correggere, soprattutto perché finalmente ho quattro giorni di vacanza VERA ahhaha
Ma comunque, sono un po' preoccupata per questo capitolo, o meglio, per la reazione che avrete voi nel leggerlo: avevo detto di non sottovalutare Lake e di non lasciarsi abbindolare dalle sue poche parole, e questo ne è il motivo. Ovviamente per me è tutto più chiaro e più "normale" perché è il mio personaggio, quindi so perfettamente cosa gli passa per la testa, ma so che per voi può essere abbastanza strano e inaspettato il suo comportamento, esattamente come lo è per Caren!
Creco che voi e lei dobbiate solo capire Lake, i suoi modi di fare e come preferisce agire, e qualche indizio l'avete già :) Non gli piacciono le parole quando non servono, e dall'introduzione della storia ho cercato di indirizzarvi sul "linguaggio non verbale che lui usa". È molto... passionale (?) e non ho voluto modificarlo: credo che in molte situazioni la parte del corteggiamento vero non esista proprio, è inutile fingere hahah Quindi spero davvero di non avervi deluse e aspetto con ansia le vostre impressioni!
E poi c'è Henry: alcune di voi non lo vedono affatto di buon occhio ahaha In realtà non è male come sembra e vorrei precisare che il suo modo di parlare con Caren non è dettato dal suo essere stronzo o irrispettoso: più che altro, sono stati insieme parecchi anni, hanno avuto un rapporto molto stretto e quindi il loro modo di relazionarsi è molto più netto e cristallino, privo di qualsiasi "freno" che si avrebbe con persone a cui si è meno legati! Spero di essere stata chiara hahaha Comunque, nel prossimo capitolo ci sarà un confronto tra di loro e si inizierà a capire cosa è successo in passato!
Spero davvero che vi sia piaciuto tutto (ah, mi scuso per i mille nomi dello scorso capitolo hahah) e fatemi sapere le vostre opinioni, VI PREGO!

Ringrazio tutte per quello che fate per me, perché non avrei mai immaginato che la storia sarebbe piaciuta tanto :)
Un bacione,
Vero.


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Capitolo 7
*** Capitolo sette - Everything's gonna be fine ***




 
Capitolo sette – Everything’s gonna be fine
 

Alle sei del mattino, Caren ha il viso che riflette la notte insonne appena trascorsa, e l'acqua calda della vasca non vuole proprio uscire. Ma lei chiude gli occhi e pensa "andrà tutto bene".
Un’ora dopo, inizia il turno di lavoro al bar e la macchinetta del caffè sembra essere morta - almeno fino a quando le magiche mani di Randy non la riparano in meno di trenta secondi -, ma Caren chiude gli occhi e si ripete "andrà tutto bene".
Alle dieci e mezza, sua madre la chiama di nuovo e lei decide di rispondere per evitare altri problemi. Stanno pochi minuti al telefono e la voce dall'altra parte della cornetta sembra essere più fredda del solito, ma la ragazza sospira e "andrà tutto bene".
Alle undici e venti, prende una storta clamorosa mentre torna dietro il bancone con un vassoio per fortuna vuoto tra le mani. Stringe i denti, impreca mentalmente, poi sorride a Barbara che è corsa in suo aiuto e "andrà tutto bene".
All'una e mezza, Lake entra nel bar leggermente affollato e si siede al solito posto, mentre Caren prende le ordinazioni ad un tavolo occupato da una silenziosa nonnetta in compagnia di quello che sembra il nipote. Quando poi lo vede, la schiena coperta da una giacca di jeans e i capelli arruffati, cambia il ritornello nella sua testa: "non andrà bene proprio niente".
Non può evitare di pensare a ciò che è successo soltanto il giorno prima, quello che non l’ha fatta dormire la notte per le troppe rimuginazioni: e di certo è pazza o è colpa della stanchezza, se riesce ancora a sentire le mani di Lake su di sé.
Sospira e arriva dietro il bancone, dove Randy sta già preparando il panino con pancetta e formaggio. «Hey» saluta, accompagnandosi con un cenno della mano. Lake le rivolge un cenno del capo e non si spinge oltre, mentre lei quasi lo ringrazia mentalmente: non sente di avere le forze necessarie ad intraprendere una reale – anche se povera – conversazione con lui, soprattutto perché deve conservarle per quella che dovrà avere nel pomeriggio con Henry.
Nonostante non dica altro, però, rimane comunque qualche secondo a scrutare i suoi lineamenti, costringendosi a torturarsi una mano con l'altra per impedire al ricordo della pelle di Lake sotto le sue dita di invaderla.
Barbara le porta dei bicchieri e delle tazzine da lavare, riscuotendola dalla sua analisi dettagliata della mascella magra del moro, quindi Caren è ben felice di tenersi occupata, sebbene il lavandino sia pericolosamente vicino al ragazzo che sta mangiando tanto tranquillamente.
Lo scrosciare dell'acqua non è una buona distrazione, però, soprattutto perché gli occhi di Lake sono più insistenti di quanto sembrino, tanto che lei si trova a lavare tre volte lo stesso bicchiere pur di non dover alzare lo sguardo davanti a sè.
Quando proprio non può più indugiare oltre, si asciuga le mani ed inspira profondamente, guardandolo finalmente in quelle iridi blu: dal nulla, riesce a pensare che lei ha già assaggiato le sue labbra, morso la sua pelle e stretto i suoi capelli tra le dita, che si è lasciata sfiorare con più o meno delicatezza e che le è piaciuto avere il suo corpo contro il proprio, ma che non l'ha mai visto sorridere.
«Caren» la saluta improvvisamente una voce, distraendola dai suoi pensieri e spezzando il loro contatto visivo.
La ragazza si volta, pietrificata, e boccheggia qualcosa nel ritrovarsi Henry di fronte, proprio al fianco di Lake. I capelli rossicci sono resi più chiari dalla luce che entra dalle vetrine, ma i suoi occhi – quei maledetti occhi – sono più scuri del solito e, cosa ben peggiore, sono su di lei.
«Henry – mormora incredula, corrugando la fronte. - Che ci fai, qui? Sono a malapena le due» dice, riferendosi al largo anticipo con il quale si è presentato. Non è ancora pronta ad un confronto con lui: e forse non lo sarà mai del tutto, ma ora, in questo momento, lo è ancora meno.
Lui si passa una mano sul mento con un leggero strato di barba e «ti conosco - spiega, con aria divertita ma non beffarda. - Avresti potuto dirmi una cazzata». Sfila le mani dalla giacca di un verdone scuro e si guarda per un attimo intorno, come se volesse ricavare una prima impressione del posto.
Caren alza un sopracciglio e stringe i pugni. «E quindi hai deciso di venire qui un'ora prima? - sbotta, cercando di controllare il tono di voce. - Come se fossi io la bugiarda, tra i due» aggiunge sprezzante, trattenendosi dal tirargli uno schiaffo. I suoi occhi si alzano al cielo e per un attimo si fermano su Lake, che ha un'espressione confusa sul volto, ma non troppo, mentre osserva la scena in silenzio: quasi sicuramente sta solo studiando le loro espressioni e le loro parole tenendo per sé le proprie impressioni, come al suo solito.
«Non mi sembra il caso di parlarne qui» precisa Henry, incrociando le braccia sul bancone  con un sospiro.
«Non guardarmi così, non smonterò prima dal lavoro solo per parlare con te.»
 
Invece, cinque minuti dopo, Caren sta posando il grembiule al suo posto con un certo nervosismo e Lake la sta fissando con serietà, mentre lei esce dal bar seguendo Henry. Non si dicono una parola, mentre percorrono i pochi metri che li separano dalla strada meno affollata e placidamente riscaldata da un timido solo primaverile.
Quando poi la porta si chiude con un tonfo metallico dietro di loro, lui non le fa fare un altro passo, perché si volta ed apre la bocca. «Non lo farei di nuovo - inizia. - Se potessi tornare indietro, non lo farei».
La ragazza incrocia le braccia al petto con fare annoiato, anche se forse l’ha fatto anche per intrappolare dentro di sé il formicolio al di sotto della cassa toracica. «Cerca nel tuo repertorio un'altra frase ad effetto, sono sicura che potresti fare di meglio.»
«Non si tratta di questo, lo sai benissimo.»
«Ah no? E di cosa si tratta, sentiamo? - ribatte Caren, infastidita, alzando la voce. - Cosa diavolo pensi? Di avere il diritto di chiamarmi dopo tutto questo tempo e di riempirmi di belle parole? Pensi davvero che io sia così ingenua da cadere tra le tue braccia ancora una volta? O che abbia la voglia di ascoltare le tue patetiche parole?»
«E allora che cazzo ci fai qui?» quasi urla lui, di rimando. Le sopracciglia gli si inarcano come quando è troppo nervoso e sta cercando di trattenersi.
«Tu sei pazzo!» sbotta lei, percorrendo quel metro che la divide dalla porta del bar. Riesce ad abbassare la maniglia, ma la presa di Henry la costringe a girarsi e ad abbandonare l'impresa. Alcuni clienti li stanno guardando, e forse sentendo, ma lei non riesce proprio a dare importanza alla cosa.
«Voglio chiederti scusa, ma tu continui ad urlarmi contro!» la rimprovera, con le guance arrossate per la tensione.
«Certo che ti urlo contro! Te lo meriti, perché mi fai schifo! Perché sono stata io a dover dormire in un letto vuoto per un intero mese senza sapere dove fossi! Pensavi che un bigliettino sul tavolo e quattro parole in croce sarebbero stati abbastanza per darmi delle spiegazioni? E vaffanculo, delle tue scuse non me ne faccio niente, dopo quello che ho dovuto sopportare! Stavamo insieme da tre anni, io ho lasciato tutto per te, e guarda come mi hai ripagata!»
La gola le fa male per quanto ha urlato, i piedi si muovono automaticamente mentre la portano ad un paio di metri di distanza sul marciapiede – più lontana da lui -, e gli occhi le bruciano per lo sforzo di non piangere.
«Mi dispiace» le sussurra all'orecchio, stringendola in un abbraccio da dietro. Ogni centimentro del suo corpo sembra fatto apposta per intrappolarla.
«Tu... Tu mi hai lasciata da sola» sono le parole flebili che escono dalla bocca di Caren, troppo scossa per impiegare un tono di voce più alto o più deciso, o per descrivere in altri termini ciò che è successo. I ricordi sono troppi e troppo dolorosi, si incastrano dentro di lei con molta più forza di quanta ne riesca a sopportare.
Non hanno mai affrontato questo discorso, non in questo modo, almeno: all’epoca, lei era occupata a curare quella ferita insopportabile e non riusciva a combattere contro il silenzio di Henry, nemmeno al suo ritorno.
«Mi dispiace - ripete lui, senza lasciarla andare. - Non ho scuse, ma sono sincero quando dico che mi manchi. Car, mi senti? Mi manchi, Cristo Santo».
Lei chiude gli occhi arrossati e trattiene un singhiozzo, poi si agita tra le braccia di Henry e riesce a scostarsi da lui, da quella pelle che brucia e da quelle mani che la fanno tremare.
Raccoglie un po' di forza dentro di sè e lo guarda dritto negli occhi. «Ti odio, Henry. Te lo giuro, ti odio con tutta me stessa e ne sono felice. Sono finalmente capace di farlo e tu non riuscirai a prendermi in giro di nuovo, a rendermi debole. Non me ne frega niente di quello che dici, non me ne frega niente di te, quindi vattene e lasciami in pace.»
Il suo tono di voce è appena udibile, perché la stanchezza è molta ed è ancora di più il dolore. Come aveva predetto, non avrà mai le forze di affrontare questa discussione con lui, perché forse lui non sarà mai in grado di capire la gravità di quello che ha fatto, le conseguenze che ha causato in lei: e in fondo è normale, perché non c’è stato per un mese e quando è tornato era come se non l’avesse fatto – occupato com’era a presentare a tutti la sua nuova ragazza portata a Worthing da chissà dove -, ma come può Caren trovare le energie necessarie a raccontargli tutto quello che non sa? Tutto quello che lei ha dovuto combattere?
La bocca del ragazzo si schiude per dire qualcosa, ma Caren non ha voglia di starlo a sentire, quindi lo supera facendo attenzione a non toccarlo nemmeno. Cammina a testa bassa, mentre cerca di asciugarsi il volto dalle lacrime, mentre cerca di arrestarle: avrebbe voluto riuscire a guardarlo in faccia con il disprezzo che si merita e avrebbe voluto mostrarsi forte davanti alla persona che l’ha fatta tanto soffrire, ma in mezzo a questi sentimenti che la sconvolgono, riesce ad essergli quasi grata per non averla fermata.
 
Quando rientra nel bar, ignora le domande preoccupate di Randy e Barbara: raccoglie il suo grembiule – la vista appannata e la punta del naso leggermente arrossata -, ignorando anche lo sguardo di Lake, che è ancora seduto lì, e se lo lega dietro al collo con le mani che non stanno ferme, mentre si dirige frettolosamente verso il piccolo bagno riservato al personale.
Si chiude la porta alle spalle e finalmente si concede di piangere, sfogandosi di tutta la rabbia che prova. Si siede sulla tavoletta abbassata del gabinetto e raccoglie le ginocchia al petto, affondandoci il viso.
Si sente una stupida perché non dovrebbe stare in quello stato, perché gli ha urlato che non l'avrebbe indebolita di nuovo, mentre non si è accorta che era già successo.
Si sente stupida perché c'è stato un attimo in cui ha sentito l'impulso di dimenticare tutto e baciarlo lì, su quel marciapiede. Perché non lo odia, nemmeno un po’, nemmeno quanto basta. Ed è sbagliato.
Si sente una stupida perché solo una stupida potrebbe trovarsi in una situazione del genere.
Prende un pezzo di carta igienica e si asciuga il viso, poi si alza e se lo lava con l'acqua ghiacciata del lavandino, tanto ghiacciata da fare quasi male e bene, perché allo stesso tempo le impedisce – anche se solo per un secondo – di pensare ad Henry.
Ringrazia il cielo che non ci sia uno specchio, in quei quattro metri quadri, perché non ci tiene, a vedere in che stato sia: può già immaginarselo, perché non deve essere diverso da quello che aveva dopo la partenza di Henry, quasi un anno prima. Eppure, qualsiasi esso sia di preciso, l’unico aggettivo adatto a descriverlo sarebbe un “patetico” scritto a lettere cubitali.
Quando la porta si apre lentamente, lei sobbalza impercettibilmente e si aspetta che sia uno dei suoi colleghi o un cliente che ha sbagliato bagno, invece si trova davanti Lake, che entra richiudendosi la superficie di legno rovinato e cigolante alle spalle.
Caren lo guarda con le mani ancora appoggiate al lavandino: si aggrappa a quegli occhi in cerca di chissà cosa, ma si innvervosisce ancora di più, perché non riesce proprio a decifrarli, nè ha la voglia di provarci più a fondo.
Lake respira lentamente e ha bisogno di fare un solo passo per arrivarle di fronte, dato lo spazio angusto nel quale si trovano: Caren si vergogna, di farsi vedere  così, si trova patetica e non sa nemmeno cosa dire, perché non capisce se le faccia piacere averlo lì, con il suo profumo a coprire a stento la puzza tipica dei bagni. Sa solo che ha il respiro accelerato, una lacrima sulla guancia, gli occhi lucidi e la voglia di abbracciarlo.
Lui non dice niente, come sempre. Non dice niente e si avvicina ancora, senza interrompere lo sguardo che stanno condividendo. Allunga la mano tatuata e la porta tra i capelli di Caren, intrecciandoli alle sue dita in modo tanto leggero da farle chiedere se l’abbia fatto davvero o se sia solo ciò che lei vorrebbe succedesse.
La ragazza singhiozza sommessamente e chiude gli occhi, per riaprirli solo quando l'altra mano a lei familiare le prende il mento per sollevarlo: l'attimo dopo, le labbra di Lake sono di nuovo sulle sue, in una copia sbiadita e più dolce di quello che è successo il giorno prima.
Caren si rilassa e si lascia baciare delicatamente, beandosi di quel lato di Lake, che riesce a farla calmare almeno un po'. Adesso non le importa più sapere se effettivamente sia felice o meno di vederlo, le importa solo di rimanere così: anche con mille dubbi per la testa e qualcosa da affrontare al di fuori di quello squallido bagno, non fa niente.
Dopo qualche secondo, con il cuore di Caren a battere talmente forte da bastare per entrambi, nel punto in cui i loro petti si incontrano, Lake si allontana e si appropria di nuovo dei suoi occhi, impiantando in loro centinaia di parole che non è nella sua natura pronunciare.
Non le è mai capitato di essere rassicurata in quel modo, così semplicemente: sembra che ogni movimento del ragazzo, ogni più piccolo movimento, sia studiato per darle conforto in maniera infallibile, come se tutto di lui agisse in sua funzione. Eppure, per quanto assurda e azzardata, è questa l’impressione che lei ha, perché le iridi di Lake stanno guardando lei come se non potessero fare altrimenti, così intensamente da farle tremare le ginocchia. Perché le sue dita stanno accarezzando lentamente la sua pelle come se fosse il loro terreno naturale, quello che conoscono alla perfezione e sanno come trattare. E perché persino la sua maglietta, alla quale lei si è aggrappata debolmente, sembra essere di un tessuto che si adatta ai palmi delle sue mani e solo ai suoi.
«La mia pausa è finita» mormora poi lui, flebilmente e a pochi millimetri dalle sue labbra. Il respiro caldo sulla sua pelle e il naso che sfiora il suo. È quasi una scusa, ma allo stesso tempo una raccomandazione: è sempre difficile dare una spiegazione certa dei comportamenti di Lake, ma per adesso, confusa e debole com’è, Caren sembra intendere quelle sue cinque parole come un “devo andare, ma tu cerca di non piangere”.
Annuisce lentamente, nonostante una parte di lei abbia cercato di convincerla a fare il contrario: arriva a chiedersi se ci sarà mai un momento in cui nessuno dei due dovrà andare e cosa proverebbe a sapere che lui potrebbe restare. Si sentirebbe ancora più al sicuro di adesso?
Lo osserva allontanarsi senza dire niente, senza pregarlo di rimanere, accontentandosi della stretta per un attimo più accentuata tra i suoi capelli.
Quando la porta si richiude dietro di lui, Caren sente ancora il suo profumo su di sè e ha la sensazione che lui la stia ancora accarezzando, portandola via da quel vorticare di pensieri nel quale era immersa fino a pochi minuti prima.
 
Enriqua la va a prendere a lavoro, alle tre in punto: si è sforzata di essere in orario solo per rendere felice l'amica.
L'abbraccia calorosamente, quando la vede uscire dal bar con gli occhi leggermente gonfi e un sorriso triste sul viso.
«Hijo de puta!» impreca tra sè e sè, ripensando alla telefonata di Caren, al racconto che le ha fatto venire mille istinti omicidi mai del tutto sopiti.
«Fammi distrarre» la implora la bionda, sciogliendo l'abbraccio mentre lancia un'occhiata al negozio dall'altra parte della strada. Buffo come, a quelle parole, i suoi occhi si siano spostati incosapevolmente verso ciò che forse sanno meglio di lei potrebbe farla sentire meglio.
«Sono a tua completa disposizione» esclama En, con un sorriso disponibile ad illuminarle il volto.
«Vuoi che chiami anche Bob?» aggiunge poi.
Caren scuote la testa energicamente. «No, Bob andrebbe ad ucciderlo. Da troppo tempo aspetta l'occasione di farlo» ammette, senza trattenere una piccola risata.
«Hai ragione, meglio evitare - replica l'altra, storcendo il naso perfettamente dritto in una smorfia. - Bene, allora direi che oggi sei nelle mie mani!»
Caren sorride e non sa se esserne felice o preoccupata.





 
 

Buoooonasera :) Innanizutto scusate per il ritardo, ma sono stata un po' impegnata e l'università non mi aiuta di certo! Il capitolo era già scritto da un pezzo, però ho dovuto modificarlo un po'!
Allooora, ecco il tanto atteso confronto tra Henry (non vi ispira molta fiducia eh? hahah) e Caren: so benissimo che è tutto molto confuso, perché loro due hanno urlato parlato dando tutta la loro storia per scontata, ma qualcosina è uscito fuori: Henry se ne è andato per un mese da casa, lasciando Caren con un bigliettino e senza farsi sentire, e quando è tornato era in piacevole compagnia! Nel prossimo capitolo ci saranno altri particolari che vi aiuteranno a capire tutto meglio :) Comunque, Caren non l'ha per niente dimenticato, penso si sia capito, perché alla fine la loro è stata una storia importante e il modo in cui si sono allontanati è stato improvviso, drastico e inspiegato, in un certo senso: è anche la prima volta che affrontano davvero l'argomento, quindi direi che potete capire il suo stato d'animo!
Detto questo, passiamo all'altra coppia: Caren e Lake fdjska Ho notato che lui vi è piaciuto molto nello scorso capitolo e non potete sapere quanto mi abbia fatto piacere :)) Qui torna ad essere il ragazzo silenzioso di sempre, e si capisce sempre di più quanto preferisca agire piuttosto che spendere il tempo in chiacchiere!
Non mi dilungo oltre e spero davvero che mi farete sapere cosa pensate di questo capitolo e del comportamento dei vari personaggi :)

Grazie mille per tutto quello che fate/dite/scrivete! Mi rendete felicissima :)

Per qualsiasi cosa, scrivetemi pure su
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Capitolo 8
*** Capitolo otto - And now? ***




 
Capitolo otto – And now?

 
La settimana seguente, Caren la passa tra il bar, la televisione rotta in salotto e la missione "Salviamo Ren" portata avanti da Enriqua: un misto  di telefonate prima di andare a dormire, minuti passati insieme tra gli impegni dell’una e dell’altra, e abbracci soffocanti.
Ha cercato di non pensare troppo, per quanto non sia stato affatto facile, e di impedire ad Henry e alle sue parole di condizionarla. E non può negarlo, ha anche cercato di soffocare la mancanza di Lake.
Non si vedono da sei giorni, esattamente: Caren ha avuto un paio di giorni di riposo - uno è stata obbligata a prenderlo da Barbara, dopo il suo incontro con Henry, e l'altro le spettava di diritto -, e Lake non si è fatto vedere, a causa di turni diversi dai suoi. O almeno questa è la sua ipotesi.
La verità è che si aspettava qualcosa, da lui, anche se non saprebbe definire cosa esattamente, il che è stupido ed infantile, perché non ne ha alcun valido motivo: insomma, un paio di baci non impongono nessun dovere, giusto?
Adesso, a distanza di una settimana, Caren sta ancora rimuginando sul peso sullo stomaco che sente, quando ad ora di pranzo non deve più preparare il solito panino, non deve più affrontare i silenzi di Lake ed i suoi occhi.
«Patetica. È solo una settimana» mormora tra sè e sè, pulendo troppo energicamente il bancone.
Non c’è molta gente al bar, a parte una coppia di fidanzatini all’angolo di fianco alla finestra ed un gruppetto di amici in cui l’età media è trenta o trentacinque anni: fuori c’è il sole e il caldo sta finalmente per arrivare.
«Ehm, tutto bene?» chiede pacatamente Barbara, mettendole una mano sulla spalla. Lei quasi si spaventa, ma sospira e «sì» sussurra soltanto, senza guardarla in faccia.
«Non mi sembra.»
Caren raddrizza la schiena e si morde le labbra. Aspetta qualche secondo prima di parlare, i capelli sciolti e il maglioncino blu che si è rivelato troppo pesante per quel mattino di inizio maggio.
«Sai per caso se oggi Lake lavora?» domanda infine, senza credere di averlo davvero fatto.
La voglia di vederlo è diventata insopportabile, e lei ha bisogno di provvedere, se non vuole impazzire.
Barbara alza un sopracciglio e ridacchia con la voce stridula. «Fa il secondo turno, se non sbaglio: dovrebbe finire alle 19:30» spiega, riprendendo a pulire la macchina del caffè come se per tutto il tempo avesse solo aspettato di darle quell’informazione.
 
Appoggiata alla parete bianca, con l'intonaco rovinato ed ingrigito, inspira profondamente e picchietta il piede a terra, con la suola degli stivaletti bassi e marroni che fa rumore.
Sono le 19:37, è arrivata lì troppo presto – meglio non dire da quanto - e il suo viso è coperto da un leggero strato di fard, che però la condanna comunque alla sua solita carnagione candida. La canottiera bianca, leggermente larga, continua a scendere un po' troppo e la giacca in tessuto beige la protegge dall'arietta fresca che è comparsa all'improvviso.
Passa una mano sulla coscia destra, fasciata da un jeans scuro, e chiude gli occhi per qualche secondo.
Quando li riapre, li fissa sull'insegna luminosa del "Morning Bar", dall'altra parte della strada.
Per un istante è tentata di tornare a casa o comunque di allontanarsi il più possibile in un tempo da record, ma è una sensazione che dura davvero troppo poco, purtroppo: c’è una parte di lei che è fin troppo ostinata a rimanere in quella esatta posizione, in attesa. Inoltre, anche se avesse assecondato quel suo istinto facilmente debellabile, non avrebbe fatto in tempo ad allontanarsi senza essere vista.
Lake, infatti, è appena uscito dalla porta in vetro del negozio: una palla da basket sotto il braccio, una felpa nera che Caren gli ha già visto addosso e dei pantaloncini di un verde lucido che gli lasciano scoperte le gambe magre e pallide.
La ragazza quasi trattiene il fiato, osservando il viso al quale ha più volte pensato, anche senza volerlo realmente: è illuminato dal lampione che sta ad un metro circa da loro, e ogni particolare risalta inesorabilmente a causa del chiaro-scuro.
Lui chiude a chiave la porta ed inizia ad abbassare le serrande, producendo un rumore assordante che per un attimo riesce a distrarre Caren dal battito del proprio cuore, dedito a manifestare la punta di felicità che sta provando nell’averlo di nuovo davanti.
Non l'ha vista, e lei ne approfitta per capire cosa dire o cosa fare. Quando poi si schiarisce la voce, facendo un passo verso di lui ed uscendo dal cono d'ombra nel quale si era rifugiata, Lake si spaventa, spostandosi con un piccolo salto di lato.
«Ma che cazzo» impreca, con gli occhi leggermente spalancati e assurdamente scuri.
Caren si lascia scappare una piccola risata e guarda la sua espressione rilassarsi, mentre lui si passa una mano sul collo.
«Sei tu» mormora Lake, tra il sollevato e l'apatico. Lei annuisce e aspetta che chiuda completamente il negozio: non si stupisce più del suo tono di voce, perché ha quasi imparato ad interpretarlo andando oltre le apparenze. Se prima lo avrebbe definito freddo e distaccato, ora riesce a capire che non è assolutamente tale, se lo si associa ad ogni più piccolo movimento ed ogni singola espressione di Lake mentre parla.
È più rilassata, ora che ce l'ha davanti, e deve trattenersi dall'allungare una mano per far fronte all'impulso di sfiorargli la linea dura della mascella.
Il familiare silenzio tra loro due non esita a presentarsi, disturbato solo dal rumore dello zippo grigio mettalico di Lake, che si sta accendendo una sigaretta facendo attenzione a non far cadere la palla.
«Hai da fare?» gli chiede, posizionandosi meglio la larga cinghia della borsa sulla spalla.
Gli occhi del ragazzo, purtroppo, sono più scuri del normale a causa del buio che li circonda: eppure è facile capire che si siano soffermati nei suoi, assottigliandosi mentre lui aspira del fumo.
«Vado al campo a fare due tiri» spiega, mentre Caren ipotizza che lo sport che pratica sia proprio il basket.
Abbassa lo sguardo e «ah» dice soltanto, leggermente delusa. Avrebbe dovuto tener conto della possibilità che lui potesse avere degli impegni, dopo il lavoro, e che magari avesse avuto voglia di passare il proprio tempo libero per gli affari suoi, al posto di stare con lei.
«Mi accompagni?» è la domanda che segue, la stessa che fa riscuotere Caren, che lo guarda dritto negli occhi prima di sorridere apertamente e annuire. Dire che non se l’aspettava è dire poco, eppure è una sopresa piacevole e capace di scacciare gran parte dei suoi dubbi.
Lake si volta e inizia a camminare con il suo solito passo lento, mentre lei lo affianca con un'espressione serena sul viso. Probabilmente, se qualcuno – se lui - la vedesse in quello stato, penserebbe che sia esagerata e alquanto infantile, ma poco importa.
Quando il braccio sinistro del ragazzo si sposta sulle spalle di Caren, per avvicinarla al proprio corpo, lei si stupisce, ma ne è sinceramente felice: ormai è quasi sicura che un contatto tra di loro, di qualsiasi tipo,  sia inevitabile e in grado di farla stare bene nel modo più semplice e allo stesso tempo strano che esista.
«Come stai?» sussurra lui con la bocca sulla sua fronte, con il respiro caldo sulla sua pelle, la stessa che rabbrividisce per un istante. Il tono è tranquillo e quasi caloroso.
Caren proprio non ci riesce, a non sorridere: lo fa con la consapevolezza o la speranza di non poter essere vista, e si sente libera di circondare la vita esile di Lake con un braccio, riuscendo ad accarezzare il suo fianco ossuto.
«Meglio - ammette, sospirando. Decisamente meglio, adesso. - Tu?»
«Bene» è la risposta, seguita da un leggero bacio sulla tempia.
Caren non sa cosa le stia succedendo, esattamente: sa solo che ha il battito cardiaco un po' più veloce, ma non troppo, il fumo della sigaretta che la avvolge e la pelle di Lake che brucia sotto le sue dita. Ha anche voglia di fermarsi, voltarsi verso di lui e guardarlo dritto in quelle iridi, che cercano di celarsi con indifferenza nella notte a cui assomigliano tanto, prima di baciarlo: ma a questo cerca di non pensarci.
Sa che stanno camminando tra i respiri lenti e le poche parole sulla giornata  appena passata, ma ancora lontana dall'essere conclusa.
Sa che quel ragazzo non le ha chiesto spiegazioni sulla sua presenza lì, limitandosi ad accettarla e a cercarla, invitandola ad andare con lui: e soprattutto, sa che è come se non fosse la prima volta che lo fanno, come se fosse normale, quasi una routine della quale non c'è da stupirsi.
E chi è lei per mettere in dubbio una sensazione così genuina e confortante?
 
È difficile stabilire se Lake sia davvero tanto bravo a basket, o se sia solo un'impressione, visto che lei è una schiappa. E non solo in quello sport, ma praticamente anche in tutte quelle attività che richiedano un qualsiasi sforzo fisico.
Lo osserva da bordo campo, seduta sul cemento irregolare con le gambe incrociate: lui continua a correre, saltare, palleggiare e, quando non fa canestro, a sospirare. Padroneggia la palla come se non avesse fatto altro per tutta la vita, e Caren ne è affascinata, perché la pelle di Lake è resa ancora più chiara dall'unico lampione che si trova dall'altro lato del campo e che emana una luce ocra e flebile; perché le sue mani le ricorda grandi, ma sembrano davvero piccole rispetto a quella sfera arancione con la quale giocano senza pietà; perché le sue labbra si stringono per lo sforzo, quando salta; e perché non pensava che le sue braccia magre offrissero dei muscoli tanto fini e definiti, proporzionati al suo corpo.
Ha voglia di accarezzarli.
Si alza e si avvicina a lui, che sta palleggiando nell'area del canestro che conoscerà a memoria, dato che nessun segno sporca il cemento sotto i loro piedi.
«Posso provare?» chiede stringendosi nelle spalle, con le mani in tasca e gli occhi sul suo viso leggermente sudato.
«Sei capace?» ribatte lui, guardando il canestro e poi lei. Lo sguardo curioso e provocatorio.
«Penso di no» ammette, storcendo il naso e ridendo, mentre osserva la palla tornare tra le mani di Lake dopo l’ennesimo palleggio. In un attimo però se la trova addosso, perché le è appena stata lanciata in compagnia di un «fammi vedere» divertito.
Caren ci prova davvero, a fare canestro: va a ripescare gli insegnamenti delle lezioni di educazione fisica del liceo, facendo attenzione a dimenticare invece il viso severo e a dir poco sgradevole del vecchio professore. Posiziona le mani nel modo che ricorda essere il più giusto - o che spera lo sia -, prende la mira e lancia, aiutandosi con un piccolo salto con il quale di sicuro si è dimostrata un po’ goffa.
Il problema è che ci ha provato, ma ha fallito miseramente, perché la palla ha mancato il canestro di un paio di metri e ora sta rimbalzando fuori dal campo, sull'erba umida. L'imbarazzo e la stizza per quel tiro, però, sono rimpiazzati subito da qualcos'altro.
Prima ancora che la ragazza riesca a gonfiare le guance o incrociare le braccia al petto come una bambina, infatti, Lake la stravolge con una risata: si è piegato leggermente in avanti e ha gli occhi ridotti a delle fessure, mentre anche il naso si arriccia di conseguenza. Caren è immobile, con lo sguardo su di lui e un sorriso incredulo sul volto: non può credere che Lake stia davvero ridendo, perché non gli ha nemmeno mai visto un sorriso sul viso, quindi la scena che ha davanti è a dir poco inaspettata.
Eppure le sue orecchie accolgono con piacere e divertimento il suono che scaturisce dalle labbra aperte del ragazzo, un suono acuto e strano, in disaccordo con il suo solito tono di voce calmo o con la sua serietà. Potrebbe essere definita una risata buffa, la sua. Una risata che capisce subito le piacerebbe sentire più spesso, molto più spesso.
«Michael Jordan, sei tu?» domanda Lake, dopo una manciata di secondi, prendendola in giro e cercando di affievolire la sua ilarità, ma senza grande successo.
Caren gli tira una pacca scherzosa sul braccio e  «insensibile» borbotta, velando un sorriso di finta offesa, mentre lui si avvicina per abbracciarla.
 
Dopo circa un'ora e mezza - o due? -, sono ancora sotto il canestro, la palla è ancora tra l'erba e la testa di Caren è sulle gambe tese di Lake.
Con il busto tirato su che la sovrasta, lui sta fumando - fuma più di quanto lei pensasse -, ma ha la mano sinistra tra i capelli biondi della ragazza, che sfiorano il cemento. Ogni tanto muove impercettibilmente le dita, quasi giocando e accarezzandola.
Non vorrebbe azzardare troppo, ma Caren è quasi convinta che lui non possa fare a meno di avere un contatto con lei, o forse anche con gli altri. Cerca sempre un pretesto – anche insignificante – per lambirla, e lei finge di non dare importanza alla cosa, ma in realtà aspetta con ansia di scoprire sempre nuovi modi di conoscere il suo corpo, nuove carezze e nuovi sfioramenti delicati. Ed è proprio in questi momenti che lei capisce quanto effettivamente Lake abbia ragione nel dire che spesso parlare non serve a niente.
Nel tempo passato con lui, ha imparato che non non importa che sia di poche parole, perché riesce a farle sapere tutto quello che vuole e che dovrebbe conoscere: la sua passione per il basket - nata quando aveva praticamente sei anni, ma mai trasformata in qualcosa di più per paura di macchiarla di presunzione -, la sorella Tracy che vive a Dublino con il marito e il figlio di appena un anno, il sogno di aprire una palestra, la madre con il diabete - "compra i biscotti di nascosto: quelli con la glassa sopra, hai presente? È impressionante" - e lo stipendio un po' troppo basso ma che si aggiunge al gruzzoletto che ha in banca.
Ha capito che potrebbe rimanere sdraiata sul cemento per altre ore, solo ascoltando la sua voce calma. Che parla mille volte più di lui, anche se riesce a sentirsi ascoltata ad ogni parola, anche dopo uno dei suoi soliti discorsi fatti di fantasticherie e voglia di dire. E ha capito che probabilmente Lake la chiamerà "Jordan" ancora per molto tempo.
«Comunque grazie. Per quel giorno in bagno» sussurra ad un certo punto Caren, dopo qualche minuto di silenzio. Alza gli occhi sul suo viso e lo guarda fumare con lo sguardo perso davanti a loro. Non hanno ancora accennato all’argomento, e lei sente il bisogno di farlo.
Lui finalmente le presta la sua attenzione e «cosa ti ha fatto?» chiede semplicemente, aspettando una sua risposta ma senza metterle pressione. E la sua domanda è precisa: non è stata un vago “cosa è successo?”, ma qualcosa di più profondo e netto. Lake sembra essere già sicuro che, qualsiasi cosa sia accaduta, l’abbia ferita e le sia stata inflitta da Henry tutt’altro che involontariamente: è così facile capirlo?
Caren sospira ed osserva il cielo sopra di loro: sono poche le stelle che si vedono, ma riesce a concentrarsi su una di esse, quella più luminosa.
Non è sicura di essere in grado di raccontare tutta la storia, forse perché non l’hai mai fatto con nessuno perché tutti la conoscevano già, o forse perché buttarla fuori a parole la renderebbe più reale, dopo esser stata relegata nella sezione “brutti ricordi” della sua mente per così tanto tempo. Eppure decide di provarci lo stesso: inspira profondamente e deglutisce quella decisione.
«Henry era nel mio stesso corso di biologia, quando ci siamo conosciuti al penultimo anno di liceo – comincia, in attento ascolto di se stessa, pronta a notare qualsiasi cenno di debolezza. – Un progetto insieme, poi una colazione e alla fine ci siamo ritrovati a vivere la solita storiella di due semplici studenti alle prese con il primo amore. Dopo il diploma io contavo di iscrivermi a scienze politiche, ma non sapevo assolutamente che lui avesse cambiato idea: al posto di seguire la carriera che il padre gli offriva nella sua azienda pubblicitaria, mi propose di andare via. Era già stato a qui a Worthing per far visita a certi parenti, e aveva un paio di amici disposti ad aiutarlo: chiamami stupida, ma io accettai subito di seguirlo».
Fa una pausa per riascoltare quelle parole nella sua mente, che ora, a distanza di anni, sembrano davvero insensate: all’epoca le sembrava di star vivendo l’avventura di una vita, con il ragazzo che tanto amava e lontana da ogni costrizione di responsabilità. Era libera e terribilmente innamorata.
«Sei stata coraggiosa» è il commento di Lake, che in qualche modo la stupisce. È un così bravo ascoltatore, da far dimenticare della propria presenza.
«E stupida – ripete Caren, sospirando. Poi chiude gli occhi per un attimo e torna a fissare quella stella sopra di loro. – Ero felice, sai? E ammetto di esserlo stata per parecchio tempo, perché alla fine avevo trovato un semplice lavoro in un call center che non era il massimo, è vero, ma che mi permetteva di pagare l’affitto insieme ai soldi che Henry guadagnava al supermercato dove faceva da cassiere. Avevo conosciuto Enriqua, quella di cui ti ho parlato, e avevo Henry. Stavo bene, in fin dei conti, ma forse è proprio questo che avrebbe dovuto preoccuparmi».
Un’altra pausa.
A Caren piace parlare: si trova a suo agio con le parole, perché riesce ad usarle come meglio crede senza troppe difficoltà, cosa che invece non vale anche per i suoi atteggiamenti, a volte troppo impacciati e goffi, o semplicemente troppo istintivi. Preferisce avere il controllo di una frase ben strutturata e rielaborata, anziché avere a che fare con un movimento di troppo o un respiro più corto degli altri.
Per questo il suo racconto non lascia alcun particolare all’immaginazione, e forse le fa bene: forse, dopo tutto quel tempo, ha solo bisogno di parlare di ciò che ha taciuto per il troppo dolore, di essere compresa da qualcuno come Lake.
Ascolta il fumo uscire lentamente dalle labbra di Lake, poi riprende. «Una mattina di circa un anno fa, mi sono svegliata ed Henry non era a letto – spiega, assottigliando gli occhi nel ricostruire la scena nella sua mente. – Di suo c’era solo un bigliettino sul tavolo in salotto: c’era scritto che era partito, anche se non precisava per dove, che aveva bisogno di tempo per pensare perché non capiva più i propri sentimenti e che non avrei dovuto cercarlo. Fino al giorno prima andava tutto bene, capisci?»
Caren sente la mano di Lake stringersi tra i suoi capelli. «Io comunque l’ho chiamato lo stesso, l’ho chiamato così tante volte da arrivare a conoscere perfettamente l’intonazione di ogni lettera pronunciata dalla sua segreteria telefonica. Alla fine è passato un mese, e lui è tornato: l’ho scoperto solo perché me l’ha detto Vins, un nostro amico. A quanto pare era stato in giro per l’Europa, e chissà da quale paese si era portato dietro la sua nuova ragazza – dice severamente, ripensando a lei e ai suoi capelli neri come la pece, quasi quanto i suoi occhi. – Ovviamente si sono lasciati dopo neanche due settimane, ma era evidente che Henry avesse fatto chiarezza sui suoi sentimenti, anche se non ha mai avuto le palle di dirmelo direttamente. Nemmeno io le ho avute, d’altronde: semplicemente non ci siamo parlati più, come se fossimo due semplici estranei senza nessun passato».
Le ha fatto bene parlare di quella storia, non c’è dubbio, ma allo stesso tempo sente il cuore lacerarsi sempre di più: è impressionante come riesca ancora a riprovare sulla propria pelle il dolore che la lancinava solo un anno prima.
Dopo circa un minuto di silenzio Lake dà un colpetto con l'indice sulla sigaretta, facendo cadere la troppa cenere accumulata, poi prende un tiro e guarda la ragazza, che nello stesso istante è tornata ad osservarlo. «Ti manca?» domanda semplicemente, senza commentare l’intera storia. Evidentemente sa che non ce n’è bisogno.
«Mi è mancato per tanto tempo - ammette la bionda, abbassando la voce. - Per così tanto che ora non so più se sia solo una specie... Una specie di abitudine» spiega, confessando quel piccolo segreto che le fa aggrottare leggermente le sopracciglia. In fondo sarebbe una bugiarda, se dicesse che non ci pensa più agli occhi di Henry, al suo modo di guardarla come se volesse farle capire di averla in pugno, al suo modo di baciarle la spalla quando voleva svegliarla.
Lake la osserva per qualche secondo, spostando la mano sinistra fino ad accarezzarle l’attaccatura dei capelli con il pollice. Getta la sigaretta e si piega su di lei, arrivando a così pochi milimetri dalle sue labbra schiuse, che la ragazza è costretta a respirare la sua stessa aria ancora impregnata di fumo.
«Ti manca, in questo momento?» chiede ancora. Le parole quasi inudibili e gli occhi che la inchiodano, che vogliono suggerirle la risposta, anche se non è necessario.
Caren si sente mancare il fiato, ha le mani che tremano impercettibilmente e l'osso sacro che non sopporta più il cemento sotto di sé. «No» sussurra soltanto, stupendosi della sensazione di sollievo che prova nell'ammettere quella verità.
Le labbra di Lake si inclinano all'insù, e lei non se ne stupisce nemmeno, perché ormai sa che i suoi sorrisi bisogna solo saperli provocare e che ci vuole molto meno di quanto si pensi. Quello di cui si sorprende, invece, è il caos che nasce al centro del suo petto, quando quel sorriso muore sulle proprie labbra, che da troppo tempo non saggiavano le sue.





 
 

Buooooonasera (: Perdonatemi per il leggero ritardo ma l'università e la mia vita mi si sono rivoltate contro e stanno cercando di distruggermi ahahah Spero che sia valsa la pena aspettare!
In realtà non ho molto da dire su questo capitolo: giusto nello scorso una di voi mi ha detto che avrebbe voluto vedere Lake al di fuori dello scenario del bar, e avrei voluto dirle che sarebbe successo presto, ma vabbe ahhaha In realtà lui è sempre uguale, anche se pian piano penso (spero) che alcuni suoi comportamenti siano sempre più chiari: c'è ancora qualcosina da scoprire su di lui! Anche Caren non si stupisce più delle sue poche parole e del suo tono a volte un po' distaccato, nonostante non facciano assolutamente parte di sè, e potete già vedere quanto lei sia diversa :)
Comunque, Lake ha i suoi modi di fare (quasi non si accorge di essere sparito per una settimana praticamente, anche se alla fine si nota il suo interesse) e a quanto pare è anche un buon ascoltatore: finalmente la storia tra Caren ed Henry è più chiara, YAY, quindi magari ora lo odierete sul serio ahahaha Però non voglio dire molto perché mi piacerebbe sapere le vostre impressioni :)

Vi ringrazio moltissimo per tutto, come sempre! E spero che vi sia piaciuto leggere questo capitolo, nonostante non succedano grandi sconvolgimenti! Fatemi sapere la vostra opinione se ne avete voglia :)

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Adios, 
Vero :)

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Capitolo 9
*** Capitolo nove - Lunch ***




 
Capitolo nove – Lunch
 

Tre giorni dopo, il cielo di Worthing è più azzurro del solito e il clima è più caldo di quanto dovrebbe, di quanto gli abitanti siano abituati a sopportare in quel periodo dell’anno.
A Caren invece non dispiace avere le guance riscaldate dal sole e i capelli più luminosi e biondi del solito, mentre passeggia distrattamente tra le bancarelle confusionarie del mercato della città. Alla sua destra, un uomo paffuto e con la barba lunga più o meno venti centimetri di un grigio brizzolato sventola in aria confezioni di calzini, mentre alla sua sinistra un gruppetto di persone si accalca intorno ad una signora minuta e forse troppo anziana, che cerca di guadagnare il più possibile grazie alle sue capacità artistiche, grazie ai quadri che dipinge sul momento. Nell’aria si mischiano diversi profumi e – purtroppo – anche un certo odore di sudore, talvolta.
Sono le dodici e un quatro, la piccola piazza è affollata e frenetica, e Caren non ha nemmeno comprato qualcosa: ha solo voglia di osservare ancora qualcuno, di sorridere per una faccia buffa o per un bambino nel passeggino che adocchia qualsiasi cianfrusaglia rientri nel suo campo visivo. Casa sua era troppo vuota, quella mattina, e questo è il risultato.
Si sistema meglio il golfino color panna che ha lasciato scoperto un po’ troppo dei jeans neri e stringe la coda di cavallo che le intrappola i capelli, schivando una bambina che corre per raggiungere il padre in mezzo a tutta quella gente. Tra poco dovrà tornare a casa per preparare qualcosa da mangiare, ma se la sta prendendo con molta calma perché è il suo giorno libero: Barbara e Randy hanno chiuso il bar per far visita ai parenti di quest’ultimo ad Eastbourne, quindi lei ha diverse ore per sé e per il profumo di Lake nella sua testa.
Assottigliando gli occhi e alzandosi sulle punte dei piedi protetti dalle converse basse, spia una bancarella di bigiotteria e si rende conto che, effettivamente, è da un po’ che si ripropone di comprare un paio di orecchini che si abbinino al vestito che Enriqua le ha regalato senza un motivo. Proprio quando fa il primo passo verso di essa, però, va a sbattere contro qualcuno e per poco non cade rovinosamente a terra: per fortuna il signore dietro di lei – al quale lei ha pestato un piede indietreggiando – la afferra per le braccia con uno sguardo tra il rimprovero e la preoccupazione, mentre un’altra mano la trattiene per il golfino, che è probabilmente la prima cosa che è riuscita ad acchiappare.
Caren si scusa velocemente con il passante, sorridendo dispiaciuta, e recupera l’equilibrio solo per poi spalancare gli occhi per la sopresa.
«Caren?»
Le iridi di Eli le ricordava meno scure, lo ammette, e i suoi capelli sono più corti dell’ultima volta in cui si sono visti. Le sorride incredulo, con un sopracciglio alzato e la carnagione olivastra che lo rende ancora più bello grazie alla luce del sole. Indossa una camicia a quadri rossi e neri con i primi bottoni fuori dalle asole e dei pantaloni scuri che lo fanno sembrare ancora più magro: sembra in gran forma, oltre a sembrare una specie di modello da copertina di Vogue.
«Eli – mormora Caren, cercando di surclassare lo stupore. – Hey!» riprende poi, con più entusiasmo.
«Mi aspettavo di incontrare chiunque, ma di certo non te» scherza lui, donandole di nuovo quella risata che è ormai diventata familiare.
«Sospresa! – ribatte la ragazza, gesticolando un po’ imbarazzata. Come ci si comporta in questi casi? – Come stai?»
«Oh, bene – risponde, passandosi una mano tra i capelli e voltandosi alla sua sinistra per una signora di mezza età che gli ha dato una spallata involontariamente. Torna a sorriderle. – Tu, invece? Anzi, guarda, perché non ci spostiamo da qui? Un posto più tranquillo sarebbe l’ideale, a meno che tu non debba fare ancora qualche compera».
«E dove vorresti andare?» chiede curiosa.
Eli ha ancora le labbra inclinate verso l’alto. «Ti offro il pranzo, ti va?»
Caren deglutisce e ricambia il sorriso in maniera esitante: non può negare di avere un certo presentimento riguardo questo invito, perché in fondo sa di non essere indifferente al ragazzo che le sta di fronte, ma allo stesso tempo non crede che accettarlo potrebbe fare del male a qualcuno.
Senza che possa rispondere, è lui stesso a riprendere. «Conosco un posto proprio qui vicino» precisa, quasi volesse convincerla.
E lei si morde l’interno della guancia, prima di accettare.
Poco dopo, stanno camminando sui ciottoli grigi e regolari di un marciapiede: non hanno più tutta quella gente intorno e possono procedere senza dover fare i conti con spintoni o anziani che con i loro carrellini della spesa intralciano il passaggio. Caren sta mettendo da parte il lieve disagio per quell’incontro inaspettato, poco alla volta, lasciando spazio al senso di tranquillità che la presenza di Eli le ha sempre e comunque infuso: è convinta che potrebbero essere ottimi amici, o forse amici lo sono già. Più o meno.
«Allora, non mi hai risposto: come te la passi?» la interroga lui, girando il volto verso di lei. Le mani dietro alla schiena e l’incedere tranquillo e rilassato.
«Molto bene, grazie – risponde. Vorrebbe sapere perché, a quell’affermazione, il viso di Lake le si è disegnato nella mente. Cosa starà facendo in quel momento? – Strano a dirlo, ma è così» aggiunge. Sono poche le volte in cui può esserne certa, per questo non trattiene un sorriso sincero.
«Allora abbiamo qualcosa da festeggiare» è il commento che segue.
«E tu? Hai qualcosa da festeggiare, invece?»
«Io? – ripete Eli, assumendo un’aria pensierosa. – Vediamo… Ah, sì: ricordi quando ti ho parlato del mio lavoro in quell’ufficio? Be’, alla fine me l’hanno data, quella promozione» spiega, con gli occhi vivaci e felici.
«Congratulazioni, allora» esclama Caren, posandogli una mano sul braccio.
Subito dopo la ritrae, sentendosi anche una stupida per quel comportamento infantile. Lui comunque sembra non dargli importanza, anche se, una manciata di secondi dopo, dà l’impressione contraria: forse ha notato l’esitazione nei gesti e nelle parole della ragazza.
«Senti, Caren, non vorrei che fraintedessi – esordisce. Di nuovo ha una mano tra i capelli. Non mostra più il solito sorriso, ma mantiene un’espressione serena, quasi rassicurante. – Ti ho invitata a pranzo solo perché mi ha fatto piacere rivederti: non voglio che tra di noi ci sia imbarazzo per quello che è successo o che non è successo, anzi, mi piacerebbe che restassimo amici. Certo, non sto dicendo di non essere più attratto da te, perché… Voglio dire, sei ancora bellissima. E divertente e…»
«Eli, hey, ho capito - lo interrompe Caren, soffocando una risata che lui asseconda. E l’imbarazzo di cui lui ha appena parlato si insinua tra loro solo per sparire poco dopo. – Sarà un pranzo tra amici» afferma, sorridendo.
Ha apprezzato molto le parole di Eli, o meglio, il suo voler mettere in chiaro la situazione: effettivamente lei ci aveva pensato, alla possibilità che lui potesse sperare in un qualcosa di più, ma a questo punto può definitivamente stare tranquilla.
«Un delizioso pranzo, aggiungerei – precisa lui. – Perché io sto morendo di fame».
 
Eli è sempre il solito. Non che sia passato così tanto tempo dal loro ultimo appuntamento e non che questo lo sia stato, ma forse è Caren ad aver cambiato il modo di vederlo: per quanto si diverta in sua compagnia, a volte stenta a stargli dietro, con tutti i suoi discorsi e la sua voglia di parlare per forza di qualcosa, anziché mangiare in tranquillità anche solo per un minuto. Si stupisce persino, nel constatare che ha addirittura la lingua più lunga della sua.
È Lake ad averla condizionata? La verità è che non può fare a meno di paragonarli, forse perché sono migliori amici, forse perché si è abituata ai dialoghi con il moro. Si chiede persino come facciano ad essere così uniti quando - è evidente - sono l'uno l'opposto dell'altro.
Magari il loro rapporto funziona perché si completano: le parole incessanti di Eli potrebbero riempire i silenzi di Lake, che in fondo ha capito essere un buon ascoltatore; la sua voglia di parlare di sè e la sua esuberanza potrebbero compensare la riservatezza dell'amico. Insomma, gli eccessi del castano potrebbero riempire la voragine di differenze tra i due, creando un'amicizia tanto bizzarra quanto solida.
Caren ci ha anche pensato, a Lake: per un attimo, mentre il cameriere portava via i piatti del primo per prepararli al secondo di carne, si è chiesta se quella sua uscita con Eli avrebbe potuto infastidirlo in qualche modo. Subito dopo, però, ha scosso la testa e si è messa il cuore in pace: ciò che li lega è talmente vago, incerto e indefinito, da farle dubitare che Lake possa davvero provare disagio nel saperla a pranzo con un altro. E forse vorrebbe che fosse il contrario.
Eli sembra intrufolarsi nella sua testa, quando le fa una domanda che sembra scaturire dai suoi stessi pensieri. «E Lake? L’hai più visto, dato che lavorate così vicini?»
Caren deglutisce a vuoto e sposta lo sguardo su di lui, al posto di guida. Si è offerto di accompagnarla a casa, nonostante lei abbia protestato parecchio, e non le ha permesso di rifiutare l'offerta: non era d’accordo a farle prendere l’autobus, nonostante l’avrebbe lasciata a pochi passi da casa, soprattutto perché ormai la sua macchina è di nuovo in gran forma.
La sua domanda, che per lui deve essere stata una pura e curiosa formalità, le ha messo una certa inquietudine addosso: è facile capire come Lake non abbia assolutamente accennato a lei, dato che Eli non sa nemmeno se si siano rivisti. Non le dà propriamente fastidio, forse perché immagina quanto Lake possa essere riservato o forse perché capisce che il castano potrebbe rimanerci male, nel sapere che il suo migliore amico ha un certo tipo di rapporto con la ragazza che gli interessa - Caren non è così ingenua, ha decifrato con successo gli sguardi ammiccanti e malinconici del castano durati per tutto il pranzo, e, nonostate lui le abbia assicurato di voler essere solo un amico, stenta a credergli -. Non le dà fastidio, ok, ma un po' le dispiace.
«L'ho intravisto solo qualche volta, sai, dalla vetrina» mente, annuendo e abbassando lo sguardo sulla borsa sulle sue gambe.
L’ho spiato dalla vetrina, si corregge.
E l’ho baciato e lui ha baciato me.
E mi ha accarezzata dopo averlo fatto.
E per fortuna Sam è arrivato in negozio proprio quando stavamo per spingerci oltre in mezzo agli scaffali di articoli sportivi.
Però sì, l’ho anche intravisto dalla vetrina.
«Credo che ti piacerebbe» esclama Eli, facendola quasi strozzare con la sua stessa saliva. Lei maschera la sua reazione come può, con un paio di colpi di tosse, e cerca di non ridere.
«Chi lo sa?» risponde soltanto, sorridendo e voltandosi per guardare fuori dal finestrino. 
Dopo un paio di minuti, trascorsi in silenzio, arrivano a destinazione.
Eli spegne il motore e sospira, forse arreso all'idea che, per quanto abbia rischiato di essere fermato per circolare al di sotto del limite di velocità e per quante deviazioni abbia fatto, sono arrivati a casa di Caren, alla fine.
Lei si è accorta di tutto, ma ha ritenuto che non dire nulla fosse l'idea più giusta: preferisce fingere di essere cieca, piuttosto di ammettere ad alta voce che quello non sia stato un pranzo tra amici, per lui. Sa perfettamente che le buone intenzioni del ragazzo si sono volatizzate molto velocemente, ma non vede il motivo per cui farglielo notare, dal momento in cui non ha fatto nulla per dimostrarlo palesemente.
«Allora... Be', grazie di tutto» esclama dopo qualche attimo di silenzio imbarazzato, riferendosi sia al conto pagato da Eli, sia al passaggio, sia al paio d'ore passate insieme, che, in fin dei conti, sono state divertenti.
Il castano appoggia un polso sul volante e si volta a guardarla, un'espressione indecisa ed esitante. «Grazie a te - risponde, mordendosi un labbro. - Magari potremmo rifarlo, tra un po' di tempo» aggiunge, senza riuscire a trattenersi.
Caren inspira profondamente e sorride intenerita. «Magari, sì» conferma, nonostante abbia i suoi dubbi a riguardo.
Non si avvicina per baciarlo su una guancia rasata, perché c'è qualcosa, nei suoi occhi, che le consiglia di non farlo, se vuole che lui si trattenga dal rompere quel confine invisibile tra l'amicizia e il qualcosa in più. Quindi scende dall'auto senza tante cerimonie, proprio come avrebbe fatto dopo un pomeriggio con Bob.
Anche se Bob non l’avrebbe mai fermata con un «non scherzavo oggi, sei davvero bellissima». Ma la verità, forse, è che Eli non è proprio capace di non lasciar trasparire i suoi reali pensieri, nè di mentire in modo efficace.
 
La televisione in salotto è stata riparata e il divano non è mai stato così comodo.
Caren ha le guance rosse per il caldo, i piedi scalzi e un vecchio pigiama in cotone bordeaux che le sta anche un po' largo. I piatti della cena sono ancora nel lavandino e chissà quando avrà voglia di lavarli.
Tiene il cellulare stretto tra le mani, come se stesse aspettando una chiamata, e guarda lo schermo luminoso della tv senza prestargli davvero attenzione.
Il fatto è che vorrebbe sentire Lake, o, ancora meglio, vorrebbe vederlo. Ma non ha il suo numero, né se l'è sentita, di presentarsi di nuovo fuori dal negozio: ha avuta la tentazione, non può negarlo, ma ha anche cercato di resistere con tutte le sue forze.
Ogni giorno si ritrova ad essere più bisognosa di quel ragazzo, delle sue piccole cose e delle sue poche parole, e non sa proprio come gestire la situazione. Tanto per iniziare, infatti, non sa nemmeno cosa siano, effettivamente, lei e Lake.
I suoi pensieri vengono distratti da una chiave nella serratura: strabuzza gli occhi e poi se li massaggia con i pugni chiusi, aggiustandosi i capelli informi che fino a poco prima erano sparsi sul divano.
Enriqua non ci mette molto a fare la sua comparsa: dopo aver sentito la porta d’ingresso chiudersi, Caren la guarda camminare avanti e indietro di fronte al divano. Indossa i pantaloni della tuta, le ciabatte enormi e pelose che usa per casa e un maglione largo. Una mano tra i capelli corvini e l'interno della guancia tra i denti.
«En? Che ti prende?» le chiede, corrugando le sopracciglia. Ottiene in risposta un solo sguardo, di sfuggita.
«En?» ripete, iniziando a preoccuparsi. La faccia della spagnola è a dir poco sconvolta, e il fatto che non abbia ancora parlato è sintomo della gravità della situazione, qualunque essa sia.
«Siediti, almeno» le consiglia Caren, dopo circa un minuto.
Enriqua si ferma - gli occhi puntati sul pavimento del salotto, quasi spalancati -, rimane immobile per dei secondi interminabili e poi sposta i suoi occhi pece in quelli molto più chiari dell'amica. «Ha detto che pensa di amarmi» sussurra, come se fosse in stato di shock.
«Chi?» domanda la bionda, sorpresa.
«Bob.»
«Bob?»
«Sì.»
«Ma stiamo parlando dello stesso Bob?»
«Sì. Sì, cazzo. E ha detto che pensa di amarmi. Ma come diavolo gli viene in mente? E poi cosa significa? O mi ama o non mi ama - sbotta Enriqua, riprendendo a camminare avanti e indietro, sotto lo sguardo confuso e sbalordito dell'amica. - È assurdo. Sto sognando: tirami il telecomando in testa e dimmi che sto sognando».
Caren non sa davvero cosa dire. Insomma, la sua amica ha ragione, è assurdo: Bob non ha mai dato nessun segno di interesse nei confronti di Enriqua, in tre anni di amicizia. Mai uno sguardo più intenso o una parola di troppo, mai niente: e non l'ha nemmeno mai detto a lei, il che è forse ancora più strano.
«En, sembri sotto shock - la prende in giro, sorridendole. - E lo ammetto, un po' lo sono anche io, però è meglio se ora ti siedi e mi dici con calma cos'è successo».
La mora arresta i suoi movimenti compulsivi e torna a guardare Caren, con gli occhi spalancati. «No. No, non posso - dice, torturandosi le mani l'una con l'altra. - Devo andare, devo tornare lì e dirgli che è un fottuto stupido» esclama con più decisione, dirigendosi a grandi passi verso la porta.
«Lì dove? En, aspetta!» la richiama l'amica, inutilmente, mentre la segue.
Enriqua sta già correndo giù per le scale e lei sa che sarebbe inutile provare a fermarla.
Torna dentro casa sospirando.
«Cazzo di Bob» ridacchia, sdraiandosi di nuovo sul divano.




 
 

Buooooooosalve!
Mi scuso mille volte per questo ritardo ma giuro di non aver avuto tempo per scrivere questo capitolo! Ho dovuto praticamente cambiare tutta la prima e la seconda parte, perché rileggendo quello che avevo scritto quest'estate mi faceva un po' tutto schifo! In realtà anche ora non mi piace per niente, ma vabbè ahahaha Il fatto è che è un capitolo di passaggio, quindi non c'è nulla di "interessante" e non c'è Lake, ouch.
MA, c'è sempre un ma, nel prossimo capitolo lui tornerà e ci sarà da divertirsi :)
Detto questo, non ho molto da dire: Eli è ricomparso ed è un poveretto, nel senso che ci prova a fare l'amico, ma alla fine non è che sia molto bravo a nascondere le cose haha E Caren ha accettato di andare a pranzo con lui perché alla fine non c'è niente di male, no? Saranno tutti di questo parere? E soprattutto, che ne pensate del fatto che Eli non sappia di lei e Lake? :)
Enriqua si commenta da sè, e come potete aver capito è un personaggio molto "frenetico": spero vi piaccia!

Scusate ancora per il ritardo e spero di non avervi deluse troppo con questo capitolo! Datemi le vostre impressioni, per favore, perché ne avrei davvero bisogno!
Ma soprattutto grazie a tutte per tutto! Siete meravigliose :)

Come sempre, mi trovate su
ask, twitter e facebook.
Un bacione,
Vero.

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci - Nothing ***




 
Capitolo dieci – Nothing
 

Il primo giorno, Caren continua a sperare fino alla fine del suo turno di vedere Lake, eppure non succede. Il bar è pieno di gente, più del solito, ma lei è stata attenta ad ogni cliente entrato, senza scorgere l'unico che le interessasse davvero.
Alle tre, quando per lei è ora di tornare a casa, il telefono squilla tra le sue mani proprio mentre è tentata di attraversare la strada ed entrare nel negozio: è Enriqua, che le dice di essere andata a letto  con Bob dopo essere stata a casa dall'amica, la sera prima. Ma "non so perché" spiega, sospirando.
Per questo abbandona il progetto iniziale solo per raggiungerla.
 
Il secondo giorno, Caren sta servendo un cliente con un cappuccino ed un'insalata, accompagnata da un panino con cotoletta e maionese, quando la porta si apre con il solito scampanellio lasciando entrare Lake.
Si ferma a guardarlo e respira profondamente, mentre non può fare a meno di sorridere quando incontra il suo sguardo. Il sorriso, però, si spegne subito per lasciare spazio ad una certa inquietudine: gli occhi di Lake l'hanno vista, ma l'hanno ignorata, destinandole una freddezza che non le hanno mai mostrato. Nemmeno quando si sono incontrati la prima volta in macchina di Eli.
Scuote la testa e finisce di servire il cliente, pensando di essere solo un po' paranoica. Torna al bancone e posa un vassoio di tazzine raccolte da un tavolo che si è appena liberato.
C'è Barbara, a servire Lake: la donna le lancia un'occhiata confusa, che lei ricambia solo per poi rivolgerla al ragazzo, che sta ben attento a non guardarla nemmeno per sbaglio.
Qualcosa non va, è evidente: Caren se ne accorge perché le labbra di Lake sono dure e tese, perché le sue iridi si impongono di fissare il bancone sotto le sue mani - strette a pugno - nonostante vogliano dimostrare tranquillità, perché i muscoli poco definiti - coperti da una t-shirt blu un po' rovinata - non sono per niente rilassati.
Se ne accorge perché Lake non la guarda e lei vorrebbe solo che lo facesse. O, almeno, vorrebbe capire cosa glielo impedisce.
Data la tensione, è proprio Barbara a tentare di romperla. «Allora, come va in negozio?» gli chiede, finendo di preparare il panino.
«Metti tutto in una busta, mangio lì» dice solo il ragazzo, alzandosi in piedi e tirando fuori dalla tasca dei jeans chiari i soldi necessari a pagare. E nonostante il suo tono non si sia diversificato più di tanto dal solito, è facile riconoscere una nota di fastidio al suo interno, di nervosismo.
Caren è immobile, mentre lo osserva sbalordita: non pensava che un suo comportamento del genere avrebbe potuto destabilizzarla a tal punto, ma forse è solo il non sapere cosa sia successo.
«Muoviti, vai a parlargli» le sussurra Barbara all'orecchio, con Lake che si allontana tranquillamente senza aver salutato nessuna delle due.
Senza averla guardata, di nuovo.
 
«Lake, aspetta!» lo chiama Caren, attraversando la strada per seguirlo. Lui però non sembra avere intenzione di fermarsi, perchè non si fa problemi ad entrare nel negozio, lasciando la porta a sbattere dietro di sè.
Lei non sa proprio cosa pensare e forse nemmeno come comportarsi: non lo conosce così bene da poter azzardare ipotesi o soluzioni. Ha quasi il timore di sbagliare qualcosa.
«Lake, ma che ti prende?» esclama, imitandolo. Nel dubbio, decide di essere se stessa, qualsiasi saranno le conseguenze.
Ora si trova tra lo scaffale del nuoto e le biciclette, mentre il ragazzo armeggia con qualcosa alla cassa.
«Cos'è successo?» chiede ancora, non avendo ricevuto risposta. Lake sospira, ma la ignora. Ancora.
Gli si è piazzata di fronte e non sa se essere spaventata da quella situazione o solo innervosita. I capelli sciolti un po' in disordine e il grembiule bordeaux del bar ancora addosso, a segnarle il collo con i laccetti.
«Lake.»
Perché non parli?
«Guardami, almeno.»
Il moro la accontenta, ma i suoi occhi la fanno quasi indietreggiare: non perché sembrino pericolosi, ma solo perché sono diversi, distanti, incapaci di tranquillizzarla per qualcosa che ancora non capisce. Ed è strano, perché di solito sa che in loro può trovare la serenità che le viene tolta dallo stress del lavoro o da chissà cos’altro.
«Voglio mangiare da solo» sono le parole di Lake, mentre le sue mani tirano fuori il cibo dalla busta preparata da Barbara.
«Prima dimmi cos'hai» si impunta Caren, avvicinandosi ancora e allungando una mano sul bancone per fermare quella del ragazzo, che al contatto non la ritrae, ma la guarda con rancore.
Passano un paio di minuti interminabili, pieni di parole non dette e tensione, pieni di attesa e domande, del cuore accelerato di Caren e dei respiri lenti e profondi di Lake.
«Come vuoi» sussurra poi lei, ormai al limite della sopportazione. È orribile stargli davanti senza riuscire a capire cosa ci sia di sbagliato, cosa sia successo.
Si volta e si allontana.
Ha il petto pesante e mille pensieri per la testa, mentre afferra la maniglia della porta per uscire.
«Dirò ad Eli che lo saluti» sono le parole che le arrivano alle orecchie, parole appena mormorate e calme, ma evidentemente destinate a ferirla, in qualche modo.
Caren alza un sopracciglio e finalmente capisce tutto un po' meglio: si gira e osserva Lake, che la sta guardando - finalmente - da davanti al bancone.
«È per questo che ti comporti così? Per Eli?» domanda lei, corrugando la fronte. Vorrebbe correggersi e dire "solo per questo", ma si trattiene dal farlo.
«Lascia perdere» la congeda il moro, scuotendo la testa e dandole le spalle.
«No, non lascio perdere proprio un bel niente - lo contraddice Caren, avvicinandosi a grandi passi a lui, che intanto si è voltato per guardare le sue mosse. - Se hai un problema hai solo da dirlo, non c'è bisogno di ignorarmi». Non sopporta lasciare le cose in sospeso: ha sempre pensato che mettere tutto in chiaro fosse la mossa migliore e non ha intenzione di cambiare atteggiamento proprio ora, proprio con Lake.
«Io non ho nessun problema» ribatte lui, tranquillamente. I suoi occhi celano fin troppe cose e la bionda non riesce a capire perché non possano essere lasciate libere: lo invidia, tuttavia, perché è estremamente abile nel nascondere e mostrare solo ciò che vuole. Lei non riuscirebbe mai a farlo.
«Ah, no?» lo riprende, infatti, incrociando le braccia al petto.
Quando Lake si accende una sigaretta, quasi fingendo di essere solo, Caren si arrende definitivamente alla sua impulsività, innervosita dalla finta nonchalance del suo interlocutore. «Io ed Eli siamo solo andati a pranzo insieme, non c'è stato niente di più. Siamo solo...»
«Oh, ma per favore - la interrompe lui, assumendo un'espressione scettica ed infastidita. - Non finire nemmeno la frase. Ho dovuto sopportarlo mentre mi diceva quanto gli fosse mancato passare del tempo con te e mentre mi assicurava che ti avrebbe convinta ad uscire di nuovo, perché di sicuro non l’avresti rifiutato una seconda volta. Quindi no, non direi che siete solo amici».
Caren corruga la fronte ancora di più e schiude le labbra secche, sbalordita da quelle parole: sente la rabbia ribollire, e un moto di stizza nei confronti di Eli e di quelle frasi non veritiere. Come è possibile che lui abbia frainteso così disastrosamente i suoi comportamenti? E perché le aveva mentito riguardo il voler mantenere con lei un rapporto di amicizia?
«Be', mi dispiace per lui, ma non penso proprio che ci sarà mai qualcosa tra di noi. Per tutto il tempo ho ignorato i suoi sguardi e le sue allusioni, quindi sì, io mi sono comportata da amica! E tu avresti potuto parlarne con me, chiedermi delle spiegazioni, prima di iniziare a comportarti come un bambino!»
I toni di voce ormai sono alterati, e non se l’aspettava: né si aspettava quel fiume di parole rivolto contro di lei.
«Come un bambino? Non hai capito un cazzo» risponde Lake, tagliente. La sigaretta si sta consumando senza il bisogno che lui ne aspiri del fumo.
«Invece ho capito! - precisa Caren, spinta dalla voglia di chiarire, di arrivare ad un punto di incontro. - Ho capito che ti ha dato fastidio sapere del nostro pranzo insieme, soprattutto perché Eli ti ha raccontato solo quello che ha visto lui. Ma mi hai comunque ignorata, al posto di dirmelo. Ed io avrei potuto spiegarti sin da subito che da parte mia non c'è assolutamente nessun interesse nei suoi confronti: tu dovresti saperlo!»
«Cosa dovrei sapere? Hai accettato di uscire con lui senza problemi e sai meglio di me cosa prova per te. Quindi, dimmi, cosa dovrei sapere?»
La ragazza scuote la testa leggermente, guardandolo come se potesse fargli capire qualcosa solo con quel semplice gesto. Forse perché fino ad allora è sempre stato così, tra di loro.
«Non c’è bisogno che te lo dica io» sussurra, stringendo le mani a pugno. Dovrebbe davvero saperlo.
«A quanto pare mi sbagliavo» ribatte lui, con un tale distacco da metterla a disagio.
Caren sta perdendo la pazienza, e non ne ha nemmeno molta. «Ma che diavolo stai dicendo? - quasi urla. Lake sta mettendo in dubbio tutto, qualsiasi cosa quel tutto sia, per una sciocchezza, un’incomprensione. - Ti ho detto che è stato solo un pranzo tra amici!»
«Amici intimi, dato che lui è arrivato a pensare di poterti baciare quando più ne ha voglia!» Lake non è mai stato tanto alterato, non ha mai usato un tono di voce così alto, né ha mai parlato così tanto. I capelli spettinati e il braccio destro che gesticola, stando attento alla sigaretta.
In situazioni del genere sembra cambiare totalmente: abbandona il suo essere silenzioso e butta tutto fuori. Resiste per parecchio tempo, ci gira intorno, ma, quando finalmente apre bocca, non ha più freni.
«Se la pensi davvero così, allora spiegami perché non l'ho baciato, quando mi ha accompagnata a casa! Ne ho avuto l'occasione, sai?» Certo, la sua è una provocazione, ma è anche la verità.
«E tu spiegami perché gli hai detto che mi hai solo intravisto dalla vetrina. Andiamo, che cazzo significa? - esclama lui di rimando. È arrabbiato, lo si vede dalla piega che gli si è formata tra gli occhi, dal modo in cui tende le labbra per il nervosismo. Caren si chiede se anche lui noti il suo stato d'animo solo osservandola. - È evidente che non volevi che lui lo sapesse.»
La ragazza ha il fiato accelerato e la mente in subbuglio: comprende la gelosia di Lake, ma non tutto il resto, perché proprio non capisce come lui possa pensare che lei abbia assecondato le attenzioni di Eli, le stesse che ha più volte ignorato e deviato.
«Stai dicendo cose senza senso» mormora lei, passandosi le mani tra i capelli.
È così stancante litigare con Lake.
«Senza senso?» ripete lui, facendo un ampio passo verso di lei e arrivandole troppo vicino. Il suo profumo la priva delle forze.
«Sì, senza senso! Perché mi stai accusando, quando dovresti starmi a sentire! E non vedo perché tu sia tanto incazzato con me, quando è il tuo migliore amico a provarci, ma alla fine è proprio questo il punto! Nemmeno tu gli hai detto niente, se no magari lui non mi avrebbe nemmeno invitata a pranzo e di certo non mi avrebbe chiesto di te!» urla Caren, cercando di ignorare più che può quella vicinanza asfissiante.
«Non gli ho detto niente, ma almeno non gli ho mentito» ribatte Lake, continuando ad incolparla.
«E questo ora cosa vorrebbe dire? Non sopporti che io sia andata ad uno stupido pranzo con lui, e poi ti preoccupi di una bugia che gli ho detto? - La ragazza ha gli occhi socchiusi per la confusione e la rabbia. Ha il cuore che fa rumore e che la distrae dai suoi stessi pensieri, e gli occhi persi in quelli di Lake. Vorrebbe che riuscissero a decifrarla come sanno fare tanto bene, ma sembrano essere offuscati. - E poi, sentiamo, cosa avrei dovuto rispondergli? Dimmelo, per favore, perché io proprio non lo so!»
Eccolo lì, il suo bisogno di avere un piccolo chiarimento. Ed eccola lì, la sua impulsività che le fa sputare fuori tutto ciò che pensa, anche quello che dovrebbe tenere per sé.
«Mi hai anche nascosto il fatto di esserci uscita insieme…»
«Non è stato un appuntamento!» lo interrompe, esasperata, e rendendosi conto che lui non stava per rispondere alla sua domanda.
«Non mi hai detto di esserci uscita insieme e dopo quello che mi ha raccontato lui ti aspetti che io creda che per te è solo un amico?» continua imperterrito, ferendola. Caren sa che Eli è il suo migliore amico, sa che è ovvio che riponga più fiducia in lui, ma pensava di meritarne almeno un po’, almeno un briciolo.
«Non te l’ho detto per il semplice fatto che sei scomparso, occupato com’eri a rimuginare, e perché non ho neanche il tuo dannato numero di telefono!» si sfoga, gesticolando.
Lake inspira profondamente e serra la mascella, poi parla con un tono calmo e piatto. «Hai ragione, lascia perdere. Puoi uscire con lui, provocarlo e dirgli quello che vuoi, tanto io e te non siamo niente».
Caren respira lentamente, cercando di mascherare meglio che può la ferita che quelle ultime parole le hanno inflitto con così poco riguardo.
Niente.
È questo che pensa di loro? È questo a cui tutto si riduce?
E in fondo lei cosa si aspettava?
Avrebbe dovuto contare fino a mille o ad un milione, prima di immaginare che per Lake significasse davvero qualcosa oltre che un divertente passatempo per intervallare una vendita e l’altra in negozio: perché nonostante questa scenata di gelosia – sempre se non sia stato solo l’orgoglio a farlo parlare -, Caren non può che valutare i fatti, quelli importanti. Di nuovo, non ha nemmeno il suo numero di telefono. Non sa dove abita. Si sono visti fuori dal lavoro solo una volta. Cosa si aspettava?
E magari lui non dà molta importanza alle parole, ma lei sì, e quelle che gli ha appena sentito pronunciare sono troppo dure da mandare giù.
«Devo ancora mangiare» continua poi lui, in un sottile invito ad andarsene.
La ragazza allora serra la mascella e «vaffanculo, Lake» dice, voltandosi per uscire dal negozio.
 
«Secondo me è solo geloso marcio» sospira Barbara, sgranocchiando delle patatine.
È passata circa un'ora dall'incontro tra Caren e Lake: c'è un solo cliente - che ha chiesto un semplice caffè solo per accompagnare la lettura del giornale - e la bionda non ha ancora smaltito tutta la tensione. Ora è appoggiata con la schiena al bancone, mentre il suo capo occupa uno sgabello di fianco alla macchina del caffè.
«Geloso di me, che non sono niente?» ribatte Caren, con gli occhi sul parquet e il labbro inferiore tra i denti.
«Andiamo, non devo spiegartelo io che l'ha detto solo per fare lo stronzo» la corregge la donna, con la bocca piena. Caren lo sa, che quella è una possibilità, ma sa anche che quelle parole tanto dolorose non si allontanano molto dalla verità. In fondo, anche se avesse voluto dire qualcosa ad Eli, non avrebbe saputo come definire il rapporto tra lei e Lake.
Quello che più l'ha colpita, però, non è la rabbia con la quale Lake gliel'ha rinfacciato, ma il fatto che lei ne sia consapevole e ne soffra: non può nascondere a se stessa quanto desideri avere qualcosa di più, da lui, di un semplice pranzo passato al bar.
«E comunque stai tranquilla, è stata solo una scaramuccia tra piccioncini: sai quante ne abbiamo passate io e Randy? Siamo riusciti a litigare per una notte intera su una ricetta di cucina» spiega Barbara, sorridendo in modo nostalgico e provocando la risata di Caren.
Quest'ultima rimane in silenzio per qualche secondo, poi decide di esporre un suo dubbio. «Perché hai sempre pensato che tra di noi ci fosse qualcosa? Anche quando nemmeno io ne ero certa?»
La donna si alza dallo sgabello con una smorfia di dolore, tenendosi la schiena con una mano. «Era evidente - risponde, stringendosi nelle spalle e sorridendo. – Non è mai venuto così spesso al bar. E poi è stato Lake a farmelo capire».
«Ti ha detto qualcosa?» esclama Caren allarmata, senza riuscire a celare l'entusiasmo e l'imbarazzo.
«Lui che dice qualcosa del genere? - domanda l'altra, divertita. Subito dopo scuote la testa e riprende. - No, non mi ha detto niente. Ma poi ti ha guardata, ed io ho capito».





 
 

Buonasera :) Avete passato un buon Halloween? Spero di sì!
Questo capitolo non ha subito molte modifiche, rispetto a quello che era in partenza, quindi spero lo stesso che vi piaccia! Viene fuori un nuovo lato di Lake, decisamente diverso dal solito: come avrete notato, quando è arrabbiato tende a tenere tutto dentro per un po' (in questo caso due giorni) e poi a buttare tutto fuori. E in questi casi parla anche parecchio ahahha
Cosa pensate della loro discussione? Eli ha evidentemente frainteso tutto e si è sfogato con il suo migliore amico, che non l'ha presa affatto bene: Lake durante il litigio tira fuori alcuni problemi, ma in realtà è uno solo quello che lo preoccupa. Sono curiosa di sapere se l'avete capito :)
E Caren, be', lei viene colta di sorpresa da tutto questo e dal temperamento di Lake, anche perché lo ascolta mettere in dubbio tutto e definire "niente" quello che invece lei pensava fosse qualcosa. Ovviamente aspetto le vostre impressioni a riguardo, perché sono davvero curiosissima :)

Vi ringrazio infinitamente per il vostro supporto e i complimenti! Un bacione, alla prossima!


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Capitolo 11
*** Capitolo undici - Telephone number ***




 
Capitolo undici – Telephone number
 
 
Sono le undici e trentasette, è giovedì sera e Caren è in preda ad un nervosismo compulsivo che la obbliga a passare l'aspirapolvere in tutta casa. Per la seconda volta.
Ha i capelli in una coda alta che è sul punto di sciogliersi e che le lascia libere alcune ciocche più corte sul viso. Un paio di pantaloncini di un verde scuro e una maglia a maniche lunghe nera, che ha appositamente preso di molte taglie in più solo per poterla usare come pigiama. Ha i piedi coperti da un paio di calzini bianchi che le arrivano alle caviglie e il viso struccato, con un occhio rosso perché lo shampoo ci è finito dentro.
Canticchia qualcosa, un motivetto che ha sentito alla radio sull'autobus, e ci mette un po', a sentire il suono fastidioso del citofono. La prima volta non si è nemmeno accorta di quel trillare metallico, la seconda ha  corrugato la fronte e si è fermata, senza però spegnere l'aspirapolvere, e la terza si è finalmente convinta di aver effettivamente sentito il citofono suonare.
Non ha idea di chi potrebbe essere, a quell'ora, anche perché Enriqua usa le chiavi e Bob l'avrebbe prima avvertita, come sempre.
«Io» è la semplice risposta che ottiene, quando chiede chi sia. E le si gela il sangue nelle vene, perché non vede Lake da due giorni, perché è arrabbiata – ancora? -, ma le manca, e perché che diavolo ci fa a quell'ora a casa sua? Per un attimo si chiede anche come possa essere arrivato fin lì, ma poi le torna in mente il loro primo incontro e l’unica cosa che fa è stupirsi della sua memoria.
Rimane immobile davanti alla porta, stringendo tra i palmi delle mani le maniche lunghe della maglia e tra i denti il labbro inferiore. Ha il cuore che le batte più velocemente e mille cose da dire, le stesse sulle quali ha rimuginato per ore ed ore.
«Non ci credo» mormora tra sè e sè, passando una mano sui capelli tirati all'indietro e rendendosi conto del suo aspetto solo quando il campanello di casa suona. Al pensiero di avere Lake a mezzo metro da lei, sente l’impulso di mettere di nuovo a posto tutta casa – “smettila di fare l’esaurita, ed abbi un po’ di contegno” – e di scappare in bagno per darsi una sistemata, anche se non ne avrebbe un vero motivo.
Si riempie i polmoni d'aria, mentre allunga la mano per abbassare la maniglia, ma, quando la porta è aperta, ha appena il tempo di intravedere gli occhi blu di Lake.
Non riesce a vedere come sia vestito, come abbia sistemato i  capelli o se le sue labbra siano screpolate come sempre, perché Lake ha portato le mani sul suo collo, facendola rabbrividire per quanto sono fredde. Ha occupato le sue labbra con le proprie, con urgenza, con impazienza. Ha chiuso la porta con un piede e poi ha stretto Caren a sè, come se avesse bisogno solo di quello.
E Caren, tutta quell'aria che ha inspirato pochi secondi prima, non sa più dove sia finita. Non capisce nemmeno cosa stia succedendo, esattamente, ma sa che sta ricambiando quel bacio tanto atteso, passando una mano tra i capelli neri di Lake, come per assicurarsi che tutto quello sia reale. Una piccola parte di lei ha addirittura cercato di respingerlo inizialmente, ma appunto, era solo una millesima parte rispetto al resto.
Subito dopo la sua schiena è schiacciata contro il muro al fianco della porta, è inarcata verso l'addome di Lake e si lascia accarezzare - marchiare - dalle mani del ragazzo, che hanno scavalcato la maglia senza esitazione.
Caren ricorda di essere stata arrabbiata con Lake, fino a pochi minuti prima: ricorda di averlo maledetto più volte, quando lui non è venuto a ritirare "il solito" al bar, di aver ripercorso la loro discussione nella sua mente ancora e ancora e di aver concluso sempre con uno sbuffo infastidito o malinconico, in modo alternato. Ricorda, ma non ha più importanza, perché è convinta che questo sia il loro modo di chiedersi scusa a vicenda. Lo sente, ne è sicura.
Fino a quel momento aveva disperatamente cercato di immaginare come si sarebbe evoluta la situazione, chiedendosi se avesse dovuto fare lei il primo passo o se, semplicemente, un giorno avrebbe visto quel ragazzo varcare la soglia del bar e rivolgerle uno sguardo di quelli che la fanno sentire nuda e a suo agio al tempo stesso. Ma adesso ha capito: sa che per loro, per lei e Lake, non c’è altro modo per comunicare al meglio se non stringersi e mordersi. Perché lui sa farlo meglio e perché lei è stanca di parlare. Perché alla fine hanno già urlato, e non è servito a niente, e perché cosa importa tutto il resto se adesso va bene così?
Bisogna fare attenzione – per quanto difficile – quando si ha a che fare con Lake: Caren ci sta provando con tutta se stessa, nonostante abbia diverse distrazione con cui fare i conti, e non è facile. Eppure, vuole riuscirci a tutti i costi perché sa che il modo in cui lui la stringe, la accarezza o respira su di lei, cambia impercettibilmente di volta in volta. Potrebbe giurare che la carezza lasciata delicatamente sul suo collo sia stata una scusa, che la presa ferrea tra i suoi capelli sia un rimprovero e che gli occhi chiusi e la fronte corrugata siano segni di un sollievo un po’ tormentato: sa che Lake sta semplicemente sintetizzando il loro litigio e le sue emozioni senza usare nemmeno una parola.
Lake ha il respiro accelerato che si infrange sulla pelle della ragazza, ha il bacino premuto contro il suo e una mano che si è appena chiusa sul suo seno. L'odore delle sigarette è più forte del solito, ma è parte del suo profumo, di quello che Caren si sta imprimendo nella memoria ogni giorno che passa, quindi non è affatto fastidioso. È proprio lei a scostarsi dal muro, per farlo camminare all'indietro fino al divano: non ci pensa nemmeno, ad interrompere il contatto tra le loro bocche aperte, sfacciate, bisognose. Nè oppone resistenza quando Lake afferra i lembi del suo maglione troppo largo per sfilarglielo velocemente. I suoi polpastrelli ruvidi che la fanno rabbrividire.
Mugola qualcosa, mentre si sdraia sulla stoffa morbida del divano e mentre il ragazzo le si posiziona sopra, con una gamba tra le sue e le labbra sul suo petto. Caren fa scivolare le mani avide sulla schiena di lui, fino ad arrivare all'orlo dei pantaloni: non ha avuto il tempo di riconoscerli, ma ora sa che sono dei jeans e che hanno tre bottoni, al posto della cerniera, tre maledetti bottoni che la fanno quasi innervosire per quanto oppongono resistenza. Forse stanno cercando di avvertirla? Di rimproverarla?
È sbagliato cedere alla tentazione di avere Lake, o è solo troppo presto e troppo bello per essere vero? Dovrebbe fermarsi a pensare e fare le cose con calma? Ritrarsi e stabilire dei limiti? E perché dovrebbe? In fondo sono entrambi abbastanza grandi e responsabili da poter decidere ciò che è meglio per loro senza gravi ripercussioni: e se tra un’ora tutto sembrerà terribilmente assurdo e sbagliato, che importanza avrà? Quello che conta è che adesso, in questo preciso istante, le loro pelli a contatto sono ciò che di più giusto possa esistere.
Lake la coglie alla sprovvista, quando si allontana dal suo viso passandosi la lingua sulle labbra, ormai umide e segnate dai morsi: alza il busto e si toglie il maglioncino grigio, facendolo cadere ai piedi del divano e non lasciando il tempo alla ragazza di ammirare il suo corpo. Caren accetta volentieri l'ennesimo bacio, lo cerca perché ne ha bisogno, ma non riesce a resistere all'impulso di accarezzare ogni centimetro di quella pelle bianca e tatuata, di tracciare il contorno di ogni vertebra e costa, di ogni muscolo.
Pochi minuti dopo - quanti, è proprio impossibile saperlo - Caren ha addosso solo più il reggiseno e Lake i boxer bianchi. Dalla mente è sparita ogni traccia di dubbio, rimpiazzata dal desiderio e dal battito cardiaco troppo veloce e determinato a farsi sentire, a portare una testimonianza delle emozioni che cerca di gestire. Sta ansimando a bocca chiusa perché il ragazzo la sta torturando, con quelle dita sulla sua intimità.
«Non voglio che tu esca con Eli» sussurra Lake sul suo collo, con una possessività che la fa rabbrividire. È un'ordine, una rischiesta alla quale non può disobbedire.
«Non voglio che lui possa pensare certe cose su di te» continua, insistendo con i movimenti delle sue dita, tanto che Caren non riesce a rispondere, a pensare lucidamente. Sa solo che sono le prime parole che si scambiano da quando lui è letteralmente piombato in casa sua, e sono maledettamente penetranti, perché la colpiscono con una forza sconcertante, nonostante non la stupiscano affatto.
La ragazza deglutisce, cerca dell'aria della quale nutrirsi, perché si sente soffocare sotto i baci di Lake: è come se fossero fuoco che consuma ogni scorta di ossigeno intorno a sè, acquisendo potere e lasciando su di lei delle cicatrici che Caren non riesce a riparare, perché non respira, non ragiona. Perché quei baci la stanno stordendo, e perché ora lui si è tolto i boxer e lei ha divaricato le gambe per farlo posizionare meglio, mentre si infila il preservativo.
«Cosa siamo io e te?» stenta a chiedere, con la gola secca e le labbra sul collo di Lake, sulla sua clavicola.
Ha bisogno di una risposta, di una conferma di quello che ipotizza, perché lei lo sa, che non sono niente. Lo percepisce. E lo spera.
Il ragazzo le morde il lobo dell'orecchio ed entra in lei con un'unica spinta, perché non c'è posto per la delicatezza e la dolcezza, per il tempo e per il timore. Ci sono solo il contatto, le pelli nude che sudano, si conoscono e si adattano, i brividi e il bisogno. Ci sono solo Lake e Caren su un divano, a darsi le risposte che cercano nell'unico modo che sembra funzionare.
Lake la guarda negli occhi, ancora dentro di lei e con i muscoli delle braccia tesi per lo sforzo di sostenerlo: lei ci si perde, in quegli occhi, perché la sua resistenza è sparita nel momento in cui si è sentita sopraffare dalla sensazione di averlo in sè, così vicino, così suo.
Si aggrappa alle sue spalle magre e muove il bacino verso il suo, senza però ottenere il risultato sperato: Lake è ancora fermo, ansimante e con i capelli in disordine.
«Quando ti ha chiesto di me – sussurra lui, portando una mano sul suo viso e accarezzandole la guancia con il pollice. – Tu dovevi dirgli che sei mia» continua alla fine, spingendosi all'improvviso in lei e facendola gemere a bocca chiusa.
E Caren lo sa, che quella è la risposta alla sua domanda.
Sa che il problema non è tanto l’aver accettato l’invito di Eli o l’avergli mentito, ma non il avergli detto la verità. Quella stessa verità che lei sente nelle ossa, ma che  aveva temuto non rispecchiasse la realtà. Quella stessa verità che Lake ha appena lasciato uscire dalle sue labbra con la frustrazione di chi pensava che fosse abbastanza chiara, anche senza doverla specificare. Quella stessa verità che, durante la discussione, le urla e le mani che tremavano, lei aveva creduto fosse solo nella sua testa e che per questo aveva messo in dubbio, portando Lake all’esasperazione: perché evidentemente per lui le parole sono davvero inutili, quando si tratta di marcare un’emozione o un battito cardiaco di troppo, quindi perché sprecarle?
E mentre Caren si convince che, sul serio, loro non sono “niente”, si sente addirittura una stupida per averlo anche solo pensato. Per avere dato retta alle parole di Lake, anziché al suo modo di guardarla e di sfiorarla, di sentirla e di averla.
 
Caren ha appena rinunciato a capire quanto tempo sia passato, esattamente.
Respira profondamente e apre gli occhi, trovandosi davanti la pelle chiara del petto di Lake.
Ha il braccio sinistro sul suo addome, a seguire ogni suo respiro lento e regolare, una gamba sulle sue e la testa sulla sua spalla ossuta. Indossa il suo maglione grigio, perché aveva freddo e perché voleva.
Lake la tiene stretta a sè - anche perché il divano non è fatto per due - e respira profondamente tra i suoi capelli.
Lei si muove con delicatezza e bacia i tatuaggi del ragazzo, quelli che conosceva già e quelli che ha scoperto da poco: la rondine sul collo, il nome di sua madre sul pettorale sinistro, la piccola croce sul cuore e il viso stilizzato di una bambina sul pettorale destro. Poi bacia la sua clavicola sporgente, la sua mascella, e arriva fino alla sua bocca, sulla quale sorride quando riceve un piccolo morso scherzoso.
Si muove ancora e riesce a sdraiarsi sul suo corpo coperto solo da lei e dai suoi boxer, appoggiando il mento sulle mani sovrapposte che nascondono proprio il tatuaggio a forma di croce: lui la guarda con gli occhi socchiusi, con un'espressione serena sul volto, mentre le accarezza il fianco, la schiena, i capelli, il braccio. Il cuore.
«Perchè non hai detto niente ad Eli?» chiede Caren, buttando fuori il suo piccolo dubbio.
Ormai ha capito il ragionamento fatto da Lake, il motivo di tutta quella rabbia e il perché abbia reagito in quel modo, ovviamente in accordo con il suo carattere: per lei, per la quale le parole sono essenziali ed esplicative, quelle di Lake erano quasi incomprensibili e assurde, durante quel litigio. Non era riuscita a capire cosa stessero in realtà nascondendo e a cosa si stessero invece aggrappando solo per l’esasperazione di non essere chiare: aveva frainteso la loro causa, affibiandola semplicemente alla gelosia e all’orgoglio, mentre c’era dell’altro. Qualcosa di più.
Adesso, a distanza di tempo e dopo gli ultimi avvenimenti, Caren capisce che Lake si era forse sentito ferito dalle sue parole, dalla sua confessione riguardo il non saper cosa avrebbe potuto rispondere ad Eli, quando evidentemente per lui era chiaro e cristallino. Per questo non ritorna sull’argomento, o almeno ci gira un po’ intorno, perché non c’è nient’altro da dire o da spiegare.
È così diverso da lei – la schiettezza in persona - da farla stupire: bisogna cavargli le parole di bocca e, in ogni caso, potrebbero arrivare dopo ore o addirittura giorni.
Lake è tornato quello di sempre, adesso, infatti la sua risposta corrisponde ad una scrollata di spalle, in accordanza con i movimenti che la sua posizione gli consente.
Caren alza un sopracciglio con curiosità. «Credi che ci rimarrà male?»
«Sì» dice lui dopo qualche secondo, con un tono di voce  basso e lento, quasi assorto. Lei quasi se la immagina, l'espressione di Eli, mentre fa i conti con ciò che il suo amico gli ha nascosto, quello che anche lei gli ha nascosto. Effettivamente non deve essere facile per Lake dover dire al suo migliore amico qualcosa del genere, soprattutto se conosce esattamente i suoi sentimenti: e lei che era saltata a conclusioni affrettate, credendo che il suo silenzio determinasse una sminuizione del loro rapporto…
«Sai, per un attimo ero stata tentata di dirgli la verità – inizia, con gli occhi fissi sull'indice destro, con il quale sta disegnando qualcosa sulla sua pelle diafana. - Poi però mi è mancato il coraggio, e ho pensato che be'... Tu non avevi accennato all’argomento, anche se è il tuo migliore amico, e quindi forse non c'era davvero nulla da confessare» ammette. Non le importa di sembrare una bambina insicura, perché ha stranamente voglia di scoprire tutte le sue carte.
Le dispiace sul serio per Eli, perché lei stessa non vorrebbe mai trovarsi al suo posto, ma in quel momento, tra le braccia di Lake, è talmente spensierata e giusta, da non riuscire proprio ad immedesimarsi in lui e a sentirsi in colpa.
Lake non ribatte nulla, e lei non può che sorridere, quando capisce che è come se invece l'avesse fatto: il moro, infatti, proprio nel momento in cui Caren ha finito di parlare, l'ha stretta un po' di più a sè, circondandola con le sue braccia e rassicurandola. Un semplice gesto con il quale ha voluto smentire quel suo ragionamento.
L'attimo dopo, lui allunga il viso verso il suo e la bacia a lungo, lentamente.
«Allora glielo dirai? - chiede poi lei, con la fronte appoggiata alla sua e un sorriso malizioso ad illuminarle il volto. - Che sono tua?» continua, concedendosi di essere un po' presuntuosa e sentendo uno sfarfallio allo stomaco al suono di quelle parole. Non riesce a togliersi il sorriso dal volto, ma non le importa.
Lake si sposta facendo attenzione a non farla cadere dalla piccola superficie del divano: le stringe un fianco e le accarezza un coscia, mentre la copre con il suo corpo magro.
Mormora qualcosa in conferma sulla sua guancia, sfiorandole il seno. Poi la bacia di nuovo, come se non ne avesse mai abbastanza, e Caren respira profondamente, pronta a dargli tutto ciò di cui non si è ancora saziato, perché in fondo nemmeno lei ne ha abbastanza.
«Sii mia di nuovo.»
 
Lake è in piedi di fronte al divano e sta fumando con calma e con i capelli in disordine.
Ha indossato i jeans scuri - e anche lui ha litigato con i bottoni, proprio come Caren -, ma ha ancora il petto nudo ed i piedi coperti solo dai calzini scuri. Gli occhi sono delle fessure, mentre aspira il fumo, increspando le labbra morbide intorno alla sigaretta: se l'è girata poco fa, sotto gli occhi attenti della ragazza. Anche lei ci ha provato, ma tutto quello che ha ottenuto è stato un qualcosa di indefinito e storto – «queste non sono roba per te, ma con quelle mani ci sai comunque fare» -, la risata acuta di Lake ed il suo scuotere la testa.
Caren è seduta  al tavolo accanto alla finestra e indossa solo l'intimo e il maglione largo, il suo: ormai la coda precaria di prima ha cessato di esistere e le sue iridi sono fisse sul ragazzo che sta ad un paio di metri da lei.
«Jordan, devo andare» annuncia Lake, recuperando la sua maglia dal divano e avvicinandosi a lei. Le porge la sigaretta e si riveste, poi la riprende tra le dita e va in cerca delle scarpe.
Caren annuisce, e - nonostante un po' le dispiaccia doverlo salutare - accetta la sua decisione di buon grado. Si stringe nelle spalle e appoggia il mento sulle ginocchia, raggomitolate al petto. La stanza è illuminata dalla luce gialla del lampadario che chissà se piace a qualcuno, e la finestra li divide dal buio delle tre di notte.
«Me lo dai, il tuo numero?» domanda Caren, guardandolo mentre si allaccia le Vans blu, seduto a terra. Non c'è alcuna traccia di imbarazzo nella sua voce, perché non ne prova affatto: è solo giusto, chiedere qualcosa del genere. E sì, in situazioni normali è il ragazzo a farlo, ma in questa, di situazione, è di Lake che si parla.
«Te l'ho già memorizzato sul telefono» risponde, spostando lo sguardo su di lei e alzandosi in piedi. Caren spalanca gli occhi e corruga la fronte, completamente stupita da quelle parole.
«Eri in bagno» dice lui, rispondendo alla sua domanda silenziosa, mentre ormai è ad un passo da lei.
«Ah» esclama soltanto la bionda, piacevolmente sorpresa da quella sua iniziativa: dire che non se l'aspettasse è dire davvero poco. E in fondo non le importa di ragionare in modo infantile, se pensa che avere il numero di telefono di Lake nella propria rubrica le sembra un’ufficializzazione del loro rapporto, al quale forse è meglio non dare ancora una definizione, perché l’importante è che ci sia e che si senta.
Abbozza un sorriso, all’ipotesi che Lake abbia fatto quel gesto dopo che lei, in negozio, gli ha rinfacciato il fatto che non potesse nemmeno contattarlo in alcun modo al di fuori del lavoro.
«A domani» la saluta Lake, interrompendo i suoi pensieri e sorridendole in modo divertito, prima di chinarsi verso il suo viso.
Caren lo bacia più volte, al posto di lasciarlo andare via, perché già le mancano, le sue labbra screpolate.





 

Buooooongiorno mondo! Come state? Io faccio finta di stare bene mentre mi sento in colpa per non aver ancora iniziato a studiare, ma sono dettagli ahahha
Comunque, passando al capitolo: scusate se vi ho fatte aspettare un giorno in più, ma l'ho corretto più o meno mille volte e continuerei a farlo, ma è meglio se la smetto! Non so cosa aspettarmi da voi, sinceramente, perché Lake è davvero un personaggio strano, quindi in ogni capitolo vengono fuori lati di lui che magari non ci si aspetta e che possono stupire: che fosse passionale si era già detto, ma non so, magari voi avreste preferito che questo capitolo si svolgesse in modo diverso! Non esitate a dirmelo, per carità :)
Il chiarimento avviene in pieno stile Lake, mentre la discussione era evidentemente in "stile Caren" ahaha (Spero di evidenziare quanto vorrei la differenza tra i due!) E si capisce (credo e spero!) un po' di più quale fosse il vero problema di Lake: molte di voi hanno messo in risalto la sua gelosia, ma io vi avevo accennato che c'era dell'altro! Il fatto è che, oltre ad essere un tipo abbastanza geloso, si era infastidito per il comportamento di Caren: per lui era evidentemente che fossero "una coppia" - concedetemelo -, quindi quando scopre che lei ha semplicemente detto ad Eli di averlo intravisto dalla vetrina, è stato come se avesse sminuito tutto. È evidente che, per come è fatto lui, fosse tutto abbastanza palese, mentre, per come è fatta lei, era tutto abbastanza vago e incerto. Non so se mi sono spiegata ahaha Diciamo che gli ha dato più fastidio questo, che l'uscita con Eli in sè e per sè! Se ho scritto una serie di fesserie o non sono stata chiara fatemelo sapere, perché vi capirei ahahah
Comunque, in questo capitolo le cose vengono chiarite tra di loro, Lake le dice esplicitamente che è "sua" e lo scambio dei numeri di telefono è simbolico, se così si può dire: Caren è diversa da lui, e ha bisogno di conferme e sicurezze (e di parole!).
Insomma, fatemi sapere i vostri pareri, perché sono un po' preoccupata, se devo essere sincera hahah Soprattutto, che ne pensate del fatto che siano stati a letto insieme? In fondo l'avrebbero fatto anche in negozio se non fosse entrato Sam, ma dettagli hahah Ah, ho lasciato il rating giallo della storia perché non sono scesa nei dettagli, c'è qualche accenno, ma ditemi pure se per voi dovrei cambiarlo!

Grazie infinite per tutto, come sempre! Lo scorso capitolo vi è piaciuto molto e io ne sono davvero felicissima, quindi altre mille volte grazie :)
Un bacione,
Vero.


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Capitolo 12
*** Capitolo dodici - Home, sharp home ***




 
Capitolo dodici – Home, sharp home
 
 
La stazione è tranquillamente vuota, alle dieci e mezza del mattino. Il cielo ospita ancora il sole tiepido di maggio, che sbuca dalle costruzioni della città grigia.
L’unico treno fermo ad un binario è malandato e ricoperto di scritte realizzate con bombolette a spray, probabilmente fuori uso, dato l'aspetto malconcio.
Caren è seduta su una panchina in ferro nero arrugginito agli angoli, con le gambe accavallate e fasciate da un pantalone in tessuto beige. Ha le mani sottili in grembo e si ripara dalla temperatura un po' troppo bassa del mattino grazie ad un giubottino di pelle nero.
I capelli sciolti ondeggiano verso sinistra ad ogni sferzata di vento, rischiando di colpire il viso di Bob.
Lui ha gli occhi più piccoli a causa della stanchezza, perché quella notte ha lavorato per ore e ore al locale, aspettando che anche gli ultimi ragazzi più ubriachi tornassero a casa e lasciassero il posto in disordine ma finalmente in pace: ha chiacchierato con i suoi colleghi e poi, come da tradizione, è andato con loro a prendere un cornetto caldo nell’unico luogo aperto anche prima dell’alba. E nonostante abbia potuto dormire solo un paio d’ore, ha insistito oltre ogni limite per accompagnare la sua amica alla stazione di Worthing, passandola a prendere in macchina e ignorando le sue proteste che si porta dietro da due giorni, ormai. Non l’avrebbe fatta andare da sola, dato che Enriqua lavora e Lake pure.
Sbadiglia spesso, ma ripete a Caren di smettere di sentirsi in colpa. La fronte lucida e i capelli che stanno crescendo, il petto largo modellato dalla t-shirt verde militare e le gambe muscolose allungate davanti a sé.
«È un po' che non usciamo insieme» se ne esce poi Caren, voltandosi a guardarlo con un sorriso malinconico.
Lui sospira, con la schiena appoggiata alla panchina, e «lo so, scusa - risponde. - La notte lavoro e il giorno sono un cadavere che cammina, se non dormo».
«Se poi aggiungi Enriqua, che ti fa stancare ancora di più...» allude la bionda, lasciando la frase in sospeso, mentre la sua piccola risata viene coperta dalla voce metallica degli altroparlanti, che la informa che il suo treno sta per arrivare. Direzione Swindon, ad un paio d'ore di viaggio.
«Sì, mi fa stancare parecchio» ammette Bob, divertito, passandosi una mano grande sulla nuca. Ora Caren riesce a cogliere qualcosa, nel suo sguardo: chissà se c'è sempre stato, chissà se è stata lei a non accorgersene mai.
È la prima volta che accennano all'argomento: è passata una settimana e mezza dalla sua dichiarazione alla bella spagnola, forse due, e hanno dovuto aspettare tutto questo tempo per discuterne, finalmente. Le loro abituali chiamate sono state sempre troppo veloci e frettolose negli ultimi tempi, a causa dei rispettivi impegni lavorativi o meno, quelli che hanno impedito loro anche solo di vedersi per un caffè.
«Non me l'aspettavo proprio, sai?» gli confessa la bionda, accoccolandosi tra la sua spalla e il suo petto. Quel petto teso e mai scosso da respiri agitati, che l’ha sempre accolta di buon grado.
«Sono bravo a nascondere le cose. Molto bravo, a dir la verità» spiega lui, accarezzandole i capelli, che lei sta cercando in tutti di modi di non far appiccicare al viso a causa del vento.
«Così fai quasi paura» ride lei, facendosi imitare. Poi nessuno dice più niente, entrambi pensierosi e ancora assonnati, anche se per motivi diversi.
Caren non può davvero pensare che i suoi due migliori amici abbiano instaurato una specie di relazione, nonostante En sia ancora parecchio confusa: non aveva mai guardato Bob sotto quell'aspetto, ma poi si è ritrovata nel suo letto - non solo una volta -, mentre l’affetto quasi fraterno si trasformava in qualcos'altro. Chissà come si evolveranno le cose, tra di loro.
«Devo andarci piano, con lei. Vero?» chiede Robert, con aria assorta e consapevole.
Caren annuisce sul suo petto, senza esitazioni. «Molto piano - mormora, pensando alla vulnerabile En, vittima di qualsiasi sconvolgimento. - Non sa nemmeno lei cosa stia facendo, o perché».
«Ho in mente un perché abbastanza plausibile, ma non voglio forzare le cose» risponde il ragazzo, lasciandola alzare, quando il treno in perfetto orario inizia a frenare di fronte a loro.
«Se è stata con te, vuol dire che un minimo le piaci. Questo te lo posso assicurare» lo rassicura lei, recuperando il piccolo trolley al suo fianco.
«È proprio quel minimo che mi preoccupa - ribatte Bob, ridacchiando e stringendola in uno dei suoi abbracci. – E non pensare che me ne sia dimenticato: devi ancora aggiornarmi su quel Lake, o come si chiama» aggiunge, bonariamente.
Caren affonda il viso sulla sua spalla – leggermente in imbarazzo -, alzandosi in punta di piedi per far fronte alla differenza d'altezza, e sorride sinceramente. «Grazie ancora per avermi accompagnata.»
«Tranquilla. E buona fortuna con i tuoi» risponde, facendola sospirare.
 
La cosa che le è sempre piaciuta di più, della sua vecchia casa, è la vicinanza alla stazione: cinquecento metri lungo una strada poco affollata, una svolta a sinistra ed eccola lì, la villetta a schiera in mattoni scuri ed infissi in mogano.
Caren si ferma davanti al familiare cancelletto in ferro grigio topo e si immerge nei ricordi, sospirando subito prima di fare qualche passo nel vialetto. Il suo stato d'animo è sempre lo stesso, a metà tra la nostalgia e il disagio: non torna spesso a casa, ma quando succede non sa mai cosa aspettarsi. O meglio, non sa cos’altro aspettarsi.
Mentre suona il campanello, infatti, quasi trattiene il fiato, in attesa: percepisce chiaramente la tensione che le tortura ogni cellula del corpo, anche se deve ammettere che ad ogni ritorno a casa essa si affievolisce sempre di più. È il padre ad aprire la porta, salutandola con un caldo sorriso.
James Jenkins ha quarantasette anni, i capelli brizzolati e folti, gli occhi piccoli di un verde scuro, e un paio di occhiali sottili che tiene quasi sempre sulla punta del naso dritto. Il pizzetto che a Caren non è mai piaciuto contorna le sue labbra sottili, e le mani grandi e callose sono quasi il doppio di quelle della figlia.
«Papà» sorride lei, stringendosi nelle spalle. L'uomo le lascia un bacio prolungato sulla guancia e «com'è andato il viaggio?» le chiede, facendosi da parte per farla passare.
La gentilezza in qualsiasi occasione è la sua caratteristica principale, anche se non deve essere sottovalutata: dietro quello sguardo confortevole e benevolo, infatti, si nasconde un uomo determinato e dalle opinioni ben definite, sempre pronto a farsi valere e a impedire a chiunque di prendersi troppe libertà. È sempre stato lui, il più comprensivo tra i suoi genitori, quello disposto a cercare un compromesso e a mettere da parte gli errori per mantenere unita la famiglia: sua madre, invece, ha ereditato una mentalità ferrea e un orgoglio altrettanto solido dal suo, di padre.
Marie Samantha Spencer è in salotto, seduta sulla poltrona di fronte al caminetto che tanto adora e davanti al quale Caren apriva i regali di Natale, con il viso paffuto di bambina illuminato dal bagliore del fuoco: i capelli sono ancora biondi, anche se aiutati dalla tinta alla quale si aggrappa per non ammettere il passare del tempo, me gli occhi sono contornati da piccole rughe che in qualche modo la rendono ancora più bella. È sempre stata una bella donna, una di quelle che attirano gli sguardi degli amici del marito e che le altre donne invidiano per il girovita stretto nonostante i suoi quarantacinque anni e per le mani sottili e ancora giovani sempre ben curate. Ed è bella anche dentro, con l’intensità dei suoi sentimenti a volte opprimenti ma rassicuranti e con la sua forza, quella con la quale anche suo marito ogni tanto si scontra: Caren, anche da piccola, ha sempre pensato che sua madre vivesse ogni emozione più intensamente degli altri e che se ne lasciasse distruggere, nascondendolo a tutti dietro un sorriso composto e i movimenti controllati.
«Cara, è arrivata» annuncia James, entrando in salotto e accarezzando la schiena della figlia come per darle coraggio. Sa benissimo quale sia il rapporto tra le due donne che ama di più al mondo, e cerca sempre di fare da mediatore: anche adesso, con il sorriso sulle labbra e la piccola valigia di Caren in una mano.
Marie si volta e si specchia in quegli occhi d’oro liquido che sua figlia ha ereditato da lei, inclinando le labbra all’insù non troppo forzatamente: si alza dal divano e si passa le mani sul golfino color panna che percorre le forme ancora attraenti che possiede. «Caren» dice semplicemente, andandole incontro.
E Caren fa lo stesso, sorridendo di rimando. «Auguri, mamma» esclama, baciandole la guancia morbida.
È quello il motivo che l’ha spinta a sfruttare il fine settimana per raggiungere la sua vecchia casa: il compleanno di sua madre è uno degli eventi che la portano da quelle parti durante l’anno, oltre le altre festività e piccole vacanze. È tradizione festeggiarlo con i suoi nonni materni, e Caren è ancora legata a quella piccola routine, nonostante tutto: Marie stessa non può negare di provare piacere nell’avere sua figlia a casa – l’unica che riconosca come tale -, nonostante non voglia darlo a vedere.
 
Sua nonna Camille accarezza il braccio del marito, Sebastian, masticando l’arrosto preparato dalla festeggiata e tanto buono da far girare la testa. Ha i capelli bianchi e corti, quasi quanto quelli del suo compagno, ma ha le labbra carnose che baciano sempre le guance di Caren e gli occhi azzurri affettuosi che amano ancora come una giovinetta. Suo nonno invece ha lo sguardo più duro e le rughe sulla fronte molto accentuate, che lo fanno sembrare sempre arrabbiato: ha le mani grandi con le quali non si vergogna di accarezzare in pubblico il corpo leggermente in sovrappeso della moglie, facendola indispettire, e la barba di qualche centimentro che si porta dietro da una decina d’anni.
Sarebbero venuti anche gli zii Ferdinand e Nancy, con i loro figlioletti troppo piccoli per rendere la casa abbastanza tranquilla, se non fosse stato per il lavoro: la cena non è stata rimandata semplicemente perché Caren sarebbe potuta essere lì solo quei paio di giorni.
Ed è proprio di questo che stanno parlando, con le pance ormai quasi piene. «Nancy, quella povera donna, fa troppi straordinari: scommetto che il suo ufficio non sopravviverebbe due minuti, senza di lei» commenta Camille, fiera di sua nuora e demoralizzata al tempo stesso.
«Gli straordinari portano soldi» le fa presente James, con un’aria arresa, seduto a capotavola. Alla sua destra Caren e la moglie, alla sua sinistra i suoceri.
«Lo capisco, ma la famiglia è ugualmente importante» è la risposta, non colpevolizzante come sembrerebbe. – Non voglio rimproverarla, dico solo che dovrebbe tenere un po’ di tempo libero per lei, per i suoi figli. Ferdinand è un uomo, ma i bambini hanno bisogno di lei e lei ha bisogno di loro».
Nessuno risponde a quell’affermazione purtroppo molto veritiera, perché si andrebbe ad incespicare in un terreno difficile e non del tutto esplorato: Caren è molto fiera di sua zia, del coraggio con cui affronta la vita e dei sacrifici con i quali cerca di aiutare il suo devoto marito a mandare avanti la famiglia. Le manca. Le mancano tutti.
«Piuttosto, la mia nipotina come se la cava con il lavoro? – chiede poi Camille, cercando di rallegrare l’atmosfera. Caren deglutisce nervosamente il boccone che ha in bocca e beve un po’ d’acqua. – È stancante? Hai degli orari abbastanza flessibili? E ti rimane almeno un po’ di tempo per dedicarti ai tuoi amici?»
Ecco le solite domande da nonna nostalgica e fin troppo curiosa. La ragazza ha un po’ di timore, perché quell’argomento è sempre un po’ spinoso da affrontare, soprattutto con sua madre presente: fino ad ora è andato tutto bene, a parte alcuni sguardi leggermente più freddi e ancora arrabbiati, ma ha l’impressione che non riuscirà a sfuggire a lungo ai rimproveri della sua famiglia, o comunque di una parte di essa.
«Ho tutto il tempo che voglio, nonna – la rassicura Caren, mostrando un sorriso che serve più a se stessa che agli altri. – I turni sono di otto ore, come sempre, e Randy e Barbara mi lasciano molti giorni liber-»
«Randy e Barbara?» la interrompe Marie, guardandola con aria interrogativa.
«Sì, i proprietari del bar» conferma lei, chiedendosi se si debba aspettare una reazione alla nomina del suo posto di lavoro, per niente apprezzato da sua madre.
«E ti trovi bene? Se penso che in giro potrebbero esserci persone come tuo nonno alla tua età, che faceva il galletto con-»
«Camille» la riprende Sebastian, scuotendo il capo e bevendo un po’ di vino. Il suo tono è duro ma divertito.
«Che c’è? Vorresti dire che non è vero?»
«E quanto ti pagano questi Randy e Barbara?» domanda sua madre, ignorando la conversazione bonaria tra i suoi genitori. Il suo sguardo è nervoso  e le labbra sono rigide, mentre James sospira, guardandola con aria di rimprovero.
Caren stringe i pugni impercettibilmente, sulla tovaglia candida. Gli occhi fissi sul piatto ormai vuoto di fronte a sé. «Quello che mi danno mi basta» dice soltanto, a disagio per quella domanda con secondi fini e all’idea di dover molto probabilmente discutere davanti ai suoi nonni, in un’occasione che non dovrebbe prevedere altro se non risate e spensieratezza.
Marie emette uno sbuffo simile ad una risata. «Immagino» sibila, scocciata.
«Marie» la richiama il marito, inclinando il capo di lato.
«Non dirmi “Marie” con quel tono, James – ribatte lei, con la voce che inizia ad alterarsi. – Vorresti dirmi che l’impiego in un misero bar è ciò che vorresti per tua figlia?»
Caren lo sapeva. Sapeva che si sarebbe arrivati presto al nocciolo della questione.
Inspira profondamente e alza lo sguardo su sua nonna, che le sta di fronte e che le sorride nervosamente, quasi a voler fingere che non stia succedendo nulla.
«Dobbiamo proprio parlarne adesso? Di nuovo?» risponde James, mentre sua figlia lo ringrazia in silenzio in almeno dieci lingue diverse.
«Sì, dobbiamo. Dobbiamo, perché sono stanca di fingere che tutto questo mi vada bene.»
«Mamma, smettila» interviene Caren, iniziando ad innervosirsi.
«Dovrei smetterla? A quest’ora staresti studiando per una laurea, per qualcosa che ti avrebbe permesso di ottenere un lavoro vero, con dei buoni guadagni e altrettanto buone soddisfazioni. Invece guardati: pensi di poter fare la barista per tutta la vita?»
I suoi occhi azzurri la trapassano gelidamente e le fanno venire i brividi sulla schiena, sia per la rabbia sia per i rimorsi che non riesce comunque a disdegnare.
«È la mia vita - si limita a rispondere Caren, vedendosela passare davanti come in un vecchio film. Vorrebbe aggiungere che quei sogni che le scuotevano il petto a diciott’anni ci sono ancora. – E sai benissimo che questo lavoro mi serve per pagarmi l’università alla quale conto di iscrivermi» aggiunge, voltandosi alla sua destra per incontrare lo sguardo irato di sua madre.
«A quest’ora non avresti dovuto spaccarti la schiena a servire dei clienti, se non fossi scappata con quel-»
«Va bene, mamma! – sbotta Caren, punta sul vivo. Si alza in piedi, facendo strisciare rumorosamente la sedia sulle mattonelle chiare del pavimento. – Cosa vuoi che ti dica? Che mi pento di essermene andata? Vuoi che ammetta che hai sempre avuto ragione e che ho sprecato una grande opportunità? Credi che non lo sappia? Tra me ed Henry le cose non hanno funzionato, è vero, ma non cambierei nessuna scelta che ho fatto, nonostante le conseguenze!»
Ha gli occhi lucidi, Caren. Gli occhi lucidi e il cuore che batte all’impazzata per quello sfogo che forse è stato inappropriato ma che proprio ci voleva. Sente lo sguardo dei suoi parenti su di sé, inesorabilmente, e osserva il viso di sua madre mentre viene attraversato e plasmato da emozioni diverse e contrastanti.
Poi sospira e si passa una mano tra i capelli sciolti sulle spalle. Non vuole più urlare. «Ti chiedo solo di smetterla di giudicarmi – ricomincia. – Nonostante tutto sto cercando di riprendere in mano la mia vita e di inseguire le mie ambizioni, perché ci sono. Ci sono ancora, mamma. E le sto raggiungendo con le mie forze. Potresti almeno essere fiera di questo».
Caren sente il proprio nome uscire dalle labbra del padre come in un sussurro. Vede suo nonno portare una mano sulla schiena della moglie e increspare le labbra, da capofamiglia rispettoso che non vuole immischiarsi in faccende che lo riguardano entro certi limiti. Percepisce il respiro preoccupato di sua nonna e si accorge degli occhi lucidi della madre, che la guardano sconvolti.
Poi serra la mascella e i pugni e volta le spalle a tutti, dirigendosi verso le scale per raggiungere quella che era la sua stanza. Mentre si allontana con un peso sul petto e le mani che tremano, sente James mormorare un  «lasciala stare, almeno per ora» che probabilmente è rivolto a Marie.
 
Stesa sul suo vecchio letto, Caren accavalla le gambe e  sospira arricciandosi una ciocca di capelli intorno all'indice sinistro. Intorno a sé, la sua – può ancora considerarla tale? – stanza è uguale a come l’ha lasciata: leggermente più infantile di quanto ricordasse, ma ancora spaziosa e accogliente. Le foto attaccate alla bacheca sopra la sua scrivania e i poster sulla parete che le sta di fronte, occupata per metà dall’armadio.
Alla sua destra, la finestra è aperta e le tendine chiare svolazzano all’interno a causa dell’aria fresca che entra, che le entra anche nelle ossa.
Sospira per l’ennesima volta, stanca di pensare e pensare e pensare. I suoi nonni se ne sono andati da poco, e lei si è sentita in dovere di andarli a salutare, facendo attenzione a non intrattenersi troppo per evitare sua madre: Camille l’ha abbracciata forte solo per rassicurarla con poche parole mormorate all’orecchio, e Sebastian l’ha fatta scomparire tra le sue braccia in un gesto un po’ rozzo ma ugualmente affettuoso. Poi è tornata in camera, prima che i suoi genitori potessero richiamarla, e si è immersa nelle sue rimuginazioni.
Adesso il cellulare è stretto nella sua mano destra ed è appoggiato all'orecchio: quando sente la voce calda e tranquilla di Lake, tutto il peso della giornata scompare.
Sorride spontaneamente e chiude gli occhi. «Hey» mormora, girandosi su un fianco e raggomitolando le gambe al petto, come una bambina. Immagina di avere le braccia di Lake intorno a sé, a stringerla: è assurdo come possa sentirne la mancanza anche solo dopo un giorno.
«Dove sei?» le chiede lui, dopo qualche secondo. La ragazza sa per certo che quel suo respiro più profondo è stato causato dall’accendersi una sigaretta: vorrebbe essergli vicino per osservare le sue labbra contrarsi intorno al filtro e i suoi occhi assottigliarsi, sentire l’odore di fumo e divertirsi a distinguerlo dal profumo della sua pelle lattea.
«Nel letto - mugugna lei, sbadigliando. – Non passerò il resto della serata a guardare la televisione con loro. Con lei. La cena mi è bastata».
«È successo qualcosa?» domanda Lake, mentre lei vorrebbe solo abbracciarlo.
«Ne parliamo quando torno, va bene? Ora non mi va.»
Non le va perché non vuole piangere e ripensare ad Henry e allo sguardo di dolore di sua madre di quando lei se ne era andata di casa, o a quelli che le ha rivolto quasi ad ogni loro incontro. Non vuole pensare alle incomprensioni e alla nostalgia.
Dall'altra parte del telefono proviene solo un suono d'assenso, che a Caren basta per sentirsi meglio. La rassicura, il fatto di poter contare su di lui al suo ritorno, e crede di potersi addormentare con la sua voce nell'orecchio, o con i suoi silenzi a farle da ninna nanna.
Affonda il viso nel cuscino, rendendosi conto di quanto sia diventata sdolcinata. «E tu? Cosa stavi facendo?» chiede, a bassa voce, cercando di cambiare discorso e di distrarre i suoi pensieri.
«Sono appena uscito dalla doccia, stavo per andare a dormire.»
«Ah, scusa: non volevo disturbarti, e non pensavo che andassi a dormire alle... – Stupida: Lake oggi aveva il doppio turno in negozio, quindi è ovvio che ora sia stanco. Dà una veloce occhiata alla sveglia sul comodino e poi riprende. - Alle dieci. Insomma, se vuoi ci sent...»
«Perché non vieni qui?» la interrompe Lake, senza cambiare tono e obbligando Caren ad immaginarsi il modo in cui a lui piace parlarle sulla pelle.
La bionda sorride e si stringe il labbro inferiore tra i denti. «Riesci ad aspettare fino a domani sera?» ribatte, impaziente. Poi "io no" aggiunge nella sua mente.
«Fammi compagnia» risponde solo il ragazzo, evitando di proposito la sua domanda. Caren se ne è accorta, che Lake parla solo di quello che vuole.
Sorride ancora e annuisce, nonostante sappia che lui non può vederla.





 
 
Buoooonasera! È strano per me aggiornare a quest'ora, ma mi sono detta "o adesso, o mai più"!
Innanzitutto mi scuso per il ritardo, ma sono molto impegnata ultimamente e i capitoli già scritti sono finiti, quindi mi ci vuole un po' più di tempo! Spero comunque che l'attesa sia valsa la pena :)
Non ho moltissimo da dire, se non che in questo capitolo c'è un breve momento Robert-Caren, per dare spazio anche alla loro amicizia, e l'approfondimento della famiglia di Caren, con tutto ciò che implica: la madre, come forse la maggior parte delle madri, vuole il meglio per lei e si è legata al dito la sua scappatella con Henry, che in qualche modo ha compromesso il suo futuro. Spero che la scena vi sia piaciuta, così come i vari personaggi, ognuno con la sua piccola caratterizzazione :)
Nella parte finale, invece, Lake e Caren: è passata circa una settimana e mezza dalla loro riappacificazione, e direi che le cose vanno abbastanza bene! Ma ci sarà ovviamente ancora qualche problemuccio! (Non potete capire quanto mi faccia piacere sapere quello che pensate su Lake! È una grandissima soddisfazione :))

Vi ringrazio immensamente per tutto! Ho notato che anche lo scorso capitolo vi è piaciuto molto, e ne sono davvero felice! So che questo è di tutt'altra natura, ma spero comunque che non vi dispiaccia :) Aspetto le vostre opinioni!

Un bacione,
Vero.

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici - Speaking eyes ***




 
Capitolo tredici – Speaking eyes
 
                              
Caren ha già un po’ di nausea, al solo pensiero di dover di nuovo prendere il treno: quel poco che ha mangiato a pranzo continua a scuoterle lo stomaco, facendole credere più volte di essere sul punto di vomitare. Non le è mai piaciuto viaggiare, proprio perché patisce anche i tragitti più brevi.
Suo padre è pronto ad accompagnarla alla stazione, nonostante lei abbia cercato di convincerlo a rimanere a casa: sono circa le tre del pomeriggio e Swindon è coperta da un cielo biancastro a causa della coltre di nubi non molto minacciose. La casa dei suoi genitori è silenziosa, perché si sentono ancora gli effetti della discussione della sera prima, e Caren sta cercando di capire come dovrebbe comportarsi.
Mentre James si avvicina alla porta d’ingresso per raccogliere il cappotto dall’attaccapanni, lei si stringe nelle spalle e va incontro alla madre, che è appena uscita dalla cucina: Marie ha i capelli biondi sciolti sulle spalle, sulle quali formano una piccola onda, e gli occhi lucidi – lo sono davvero? -, un po’ stanchi.
Con le braccia incrociate al petto e le labbra tese, guarda la figlia con un’espressione quasi indecifrabile: Caren, però, lo sa che entrambe stanno valutando la situazione e stanno cercando le parole giuste da usare. Da usare per salutarsi, per perdonarsi. Da usare per dirsi che in fondo si vogliono bene come nemmeno riescono a sopportare.
Per tutto il giorno non hanno fatto altro che scambiarsi sguardi eloquenti, senza però trovare il coraggio di fare o dire davvero qualcosa: ma, adesso che un treno sta aspettando Caren per portarla di nuovo lontana, non possono più fuggire.
Marie sospira, inclina il capo da un lato e addolcisce lo sguardo, aprendo lentamente le braccia per invitare la sua unica figlia a trovarci rifugio e – forse – perdono: Caren sorride a labbra chiuse, cercando di mettere da parte la rabbia e di lasciarsi pervadere dalla nostalgia, e si avvicina a sua madre per stringerla tra le braccia esitanti.
«Mi dispiace» riesce a sussurrare nel suo orecchio, con gli occhi chiusi e un certo imbarazzo. Sa di non essere l’unica ad aver commesso degli errori, ma di una cosa è certa: la scenata della sera prima è stata troppo avventata, e lei avrebbe dovuto contenersi.
Marie la stringe un po’ di più. «Dispiace anche a me» risponde a bassa voce.
Poi si allontana lentamente e guarda Caren negli occhi così simili ai suoi, tenendole le spalle con le mani ancora giovani. «Vorrei solo che tu fossi felice.»
«Lo sono» la rassicura Caren, mentre il suo pensiero si proietta automaticamente verso un paio di occhi blu e l’odore di una sigaretta appena accesa. E non sta mentendo: felice, lo è per davvero.
Marie annuisce, ma sanno entrambe che non ci crede e che, per lei, la felicità è ben altra: sanno entrambe che ora si stanno salutando in questo modo, ma che gli screzi tra di loro richiedono ancora qualche tempo per risanarsi. Il loro rapporto compromesso da anni di lontananza e rancori, incomprensioni e frustrazione, deve essere levigato e addolcito ancora un po’, prima di poter tornare forte e sano come un tempo.
Ma per ora va bene così. Fin quando altre discussioni non porteranno ad un vero chiarimento, va bene così.
«Fa’ buon viaggio.»
Un quarto d’ora dopo, James Jenkins sta passeggiando avanti e indietro davanti alla panchina sulla quale Caren è seduta in paziente attesa. Il tabellone segna un ritardo di venticinque minuti del treno che sta aspettando, ma la cosa non la disturba eccessivamente: non fa molto freddo, fuori, e forse suo padre riuscirà a dire quelle parole che sta evidentemente trattenendo tra le labbra strette e gli occhi assottigliati. È da un po’ che non parla, che si limita a lanciarle qualche occhiata di sfuggita, ma ha i suoi tempi e il treno deve ancora arrivare.
La ragazza ne approfitta per inviare un messaggio ad Enriqua, che dovrà andarla a prendere alla stazione per portarla a casa, per avvisarla del piccolo ritardo: appena sistema in telefono in borsa, però, suo padre tossicchia e le si ferma davanti. La guarda dall’alto con la sua aria autoritaria e stranamente bonaria, un mix tanto strano quanto rassicurante: poi si mette le mani in tasca e sospira.
Caren corruga la fronte e «papà» sussurra, involontariamente, come se stesse cercando di spronarlo.
«Io sono fiero di te» dice lui tutto d’un fiato, stupendola e riferendosi al suo sfogo della sera precedente.
«Papà…» E questa volta è un flebile ringraziamento, che però non può essere approfondito, perché le parole di James – trattenute fino ad allora – tornano a farsi sentire.
«E anche tua madre lo è – aggiunge infatti. – La verità è che le manchi, anzi, manchi un po’ a tutti. E lei forse avrebbe solo voluto che sua figlia andasse via di casa in un momento… Diverso. Più lontano e più sicuro, per qualcosa che lei avrebbe potuto usare per giustificare la tua assenza, qualcosa che avrebbe potuto farle dire “è giusto così, lasciala andare”. Ed è vero, avresti potuto affrontare le cose in maniera diversa, pensarci su e decidere con calma, ma, nonostante tutto, siamo entrambi fieri della persona che sei diventata, degli sforzi che stai facendo: voglio che tu lo sappia.»
Improvvisamente, a Caren viene da piangere e il ritardo del treno è insopportabile.
 
È riuscita a farsi una doccia, con Enriqua seduta sulla tavoletta abbassata del gabinetto – “non rompere, ti ho vista nuda mille volte” – e la sua voce a coprire lo scrociare dell’acqua calda sulla sua pelle tesa ed impaziente. La sua amica si è sentita in obbligo di raccontarle minuziosamente quei pochi giorni che non hanno passato insieme, come se fossero stati mesi interi, e di aggiornarla sui suoi progressi con Robert, se così possono essere chiamati: in realtà, la bella spagnola si sta solo e semplicemente convincendo sempre di più di provare davvero qualcosa per lui, qualcosa che supera la fisicità e i brividi causati dalle sue mani grandi su di sé. E poi, “Ren, persino il sesso è perfetto, capisci? Sono fottuta”.
Poi Caren ha mangiato un panino mentre cercava di vestirsi ed è uscita di casa giusto in tempo per arrivare in orario davanti al negozio in cui lavora Lake, quello di cui prima o poi imparerà il nome. Scendendo dalla macchina ha salutato Enriqua, con la promessa di non farla diventare zia, e si è stretta nella giacca di pelle per soffocare un sorriso.
Aveva detto a Lake che sarebbe arrivata in stazione alle dieci di quella stessa sera, tanto che lui le aveva proposto di andarla a prendere, ma ora sono quasi le sette e mezza e il suo turno di lavoro sta per finire: Caren sa che oggettivamente è una sorpresa da poco, ma non riesce a trattenersi, e – chissà – magari a Lake farà piacere trovarla lì.
I  minuti passano troppo lentamente, le mani piccole di Caren fremono e il “Morning Bar” davanti a lei le suscita una certa nostalgia: è tentata di fare irruzione nel negozio, ignorare qualsiasi eventuale cliente tra una palla da basket e una tuta da sci e fiondarsi dietro il bancone per ritrovare le labbra di Lake e i suoi tatuaggi. Per questo si limita a muovere ritmicamente la gamba destra e a spostare il peso da un piede all’altro ogni manciata di secondi, al posto di dare retta al suo istinto.
Poi, proprio come la prima volta che lei lo ha aspettato in quel punto esatto, la porta si apre e Lake ne esce fuori con uno sbuffo stanco: Caren si è nascosta di proposito nel cono d’ombra che le permette di osservarlo, di avere un margine di tempo per soffermarsi sul suo petto magro coperto da un maglioncino troppo largo e di un azzurro sporco, sulla linea della mascella dura che riflette lo sforzo di abbassare le serrande. Sorride, lei, mentre si mordicchia il labbro inferiore. Si alza quasi sulle punte, prima di fare un paio di passi avanti e abbracciare Lake di slancio, che – di nuovo come la prima volta – si spaventa per quell’attacco inaspettato da parte di Caren.
Lui spalanca gli occhi e indietreggia di un passo, mentre la ragazza gli cinge il busto con le braccia e affonda il viso sul suo petto, il cui profumo è migliore di quanto ricordasse.
«La smetti di apparire così, dal nulla?» la rimprovera bonariamente Lake, prima di stringerla a sé e posare un bacio tra i suoi capelli. Respira su di lei, e Caren potrebbe azzardare, dicendo che sta anche sorridendo, su di lei.
«È più forte di me» si giustifica semplicemente, alzando il volto verso il suo e ignorando l’accelerare del suo cuore quando le loro iridi si incontrano di nuovo, dopo due giorni. Le manca il fiato, ma cosa importa?
«Dovevi tornare stasera» esclama lui, avvicinandosi per premere la fronte contro la sua. Gli occhi socchiusi, quasi indagatori, e la voce bassa.
Caren sente il suo respiro sulla propria pelle e continua a sorridere. «Potresti semplicemente dirmi che sei felice che sia tornata prima e…»
E Lake preme le proprie labbra sulle sue, spingendola contro il suo petto.
Glielo dice.
 
Lake abita in un appartamento al primo piano dall’altra parte della città: è un quartiere tranquillo, il suo, forse solo un po’ più piccolo degli altri e con un età media leggermente più alta. I palazzoni grigi contrastano con le villette un po’ più moderne e con il verde dei giardini che li precedono, e c’è sempre lo stesso vecchietto seduto sulla stessa panchina alla luce dello stesso lampione, ogni sera: si chiama Maurice, ha la barba bianca e fin troppo lunga, le guance scavate e i vestiti ben stirati e abbinati. Non si sa perché passi la maggior parte delle sue giornate in quel posto, ma è gentile e saluta qualsiasi persona gli passi davanti, quasi si sentisse completamente a suo agio, a casa.
Caren, la prima volta che è entrata nell’appartamento di Lake, ha notato gli spazi piccoli ma relativamente ordinati. L’asse del ferro da stiro con ancora dei panni su di esso, in attesa, e la vecchia televisione circondata dai cavi dei videogiochi – “il giorno in cui riuscirai a battermi a Fifa, ti darò dieci sterline, giuro” – e dell’impianto audio. Le poche fotografie di Lake da bambino, con gli occhi grandi e il sorriso sdentato, le mani paffute e la mamma che lo guarda con rimprovero. Il letto disfatto ad una piazza e mezza, che se anche fosse stato in ordine avrebbe comunque risentito della loro presenza, e il bagno con una vasca stranamente più lunga di quelle che lei abbia ma visto.
Adesso, la cucina poco più grande della sua è riscaldata da una luce bianca che per i primi secondi dopo esser stata accesa ronza sempre un po’: il lavandino è vuoto, pulito, e sul tavolo attaccato alla parete c’è solo una bottiglia d’acqua mezza vuota accanto ad il cestino della frutta. Caren è in piedi davanti ai fornelli, mentre prepara un thè caldo in attesa di Lake, con i piedi coperti solo dai calzini bianchi e le guance arrossate per la temperatura un po’ troppo alta causata dai termosifoni accesi.
Lui è sotto la doccia: si sente l’acqua scorrere velocemente e ogni tanto anche il flebile profumo del bagnoschiuma. Appena sono entrati in casa, infatti, Lake si è congedato e si è allontanato, scomparendo per qualche minuto nella sua stanza prima di chiudersi in bagno: ovviamente Caren capisce la sua stanchezza e la voglia di rigenersarsi, ma c’è dell’altro che le fa imbronciare le labbra e mordersi l’interno delle guance.
Conosce a memoria i comportamenti di Lake, il tempo massimo oltre il quale non riesce a non toccarla, il modo in cui deve sfiorarla anche solo distrattamente e i baci sul collo che preannunciano dell’altro. Eppure quella sera nota una certa distanza tra di loro, delle carezze in meno: c’è qualcosa di impercettibile e di diverso nel loro rapportarsi, qualcosa che probabilmente lei sta solo immaginando o ingigantendo, ma che riesce a sentire fin sotto la pelle.  Forse è lei ad aspettarsi troppo, comunque, e forse loro sono solo stanchi, ma ha la netta impressione che Lake si stia divertendo a tenere le distanze, quelle che lui ha sempre odiato. È come se si trovasse nel bel mezzo di un gioco, sadico e subdolo.
Qualche minuto dopo, stringe tra le mani una tazza quasi bollente di thè e ha gli occhi incantati sulle mattonelle color panna della parete che le sta davanti. Il bacino appoggiato ad un mobile della cucina e le gambe incrociate. Lake la riscuote dai suoi – non – pensieri, entrando silenziosamente nel suo campo visivo.
È a piedi nudi ed indossa solo dei pantaloni della tua grigi, in tessuto pesante e a vita bassa: Caren davvero non ci riesce, a non soffermarsi sul suo addome piatto e sui suoi tatuaggi, sui suoi capelli ancora umidi e sulle labbra arrossate. Gli occhi sottili e su di lei. Però non gli dice niente, lasciando che lui si serva il thè senza sfiorarla – di nuovo – e si sieda accanto al tavolo, di fronte a lei.
Serra le labbra per non parlare, per non comportarsi da paranoica e nostalgica ragazzina alle prime armi, anche se è ben consapevole di essere sul punto di scoppiare: vorrebbe solo recuperare quel paio di giorni che ha vissuto lontana da lui, nonostante non siano stati molti, e stringersi a lui per fare il pieno del suo calore e del suo respiro. Ma allo stesso tempo vuole dare l’impressione di non averne così bisogno, di essere capace di accontentarsi o anche solo di tener testa alle sue provocazioni.
Poi, quando Lake si alza dalla sedia dopo innumerevoli minuti di silenzio, Caren raddrizza la schiena e lo guarda posare la sua tazza nel lavandino al suo fianco, inspirando profondamente ma in modo sommesso. Ha le iridi fisse sul suo viso, in attesa di qualcosa, di qualsiasi cosa, e sta seriamente iniziando a perdere la pazienza. E lui lo sa, ne è certa, soprattutto perché si è voltato lentamente verso di lei e si è passato la lingua sulle labbra, prima di sorridere in modo beffardo: è a pochi centimetri da lei – accidentalmente -, tanto che basterebbe davvero poco per rubargli un bacio, ma forse è proprio per questo che – altrettanto accidentalmente – le sfiora un fianco con la mano, prima di girarsi per uscire dalla cucina.
Caren, a questo punto, trattiene l’istinto di mandarlo a quel paese ma non quello di fermarlo per un polso e obbligarlo a guardarla in faccia, con le dita che fremono per quel semplice contatto, forse in attesa di qualcos’altro. Si guardano negli occhi per un paio di secondi, tanto vicini da permettere ai loro corpi di sfiorarsi ma non abbastanza.
Poi, «finalmente» sussurra soltanto Lake, prima di portare le mani sulle sue guancie e baciarla con ancora un sorriso e con tanta foga da costringerla ad indietreggiare, ad appoggiarsi di nuovo al mobile. Anche Caren sorride, circondandogli il collo con le braccia e lasciandosi plasmare dalle sue carezze, delicate fino ad un certo punto: la schiena inarcata a premersi contro il petto bianco del ragazzo e il respiro già accelerato, in una gara con il battito cardiaco.
Geme qualcosa quando lui le morde una spalla, stringendole le cosce in una morsa per metterla a sedere sul bancone: forse ha appena rovesciato il barattolo dello zucchero o del caffè, ma poco importa, dal momento che sta lottando con la bocca di Lake per un po’ di ossigeno. E quando la suoneria del suo cellulare squilla improvvisamente in salotto, non ha nemmeno il tempo di pensare effettivamente di andare a rispondere, perché le mani di Lake si appoggiano sul legno che la sorregge, quasi a volerle impedire di muoversi, e il suo bacino le si spinge contro, decisamente per non farla scappare.
«Finalmente» ripete lui flebilmente, sulle sue labbra, solo per poi baciarla di nuovo, ma con più dolcezza.
 
Caren ormai si è assicurata – più volte – di quando le sue preoccupazioni siano state solo frutto di esagerazione e di quanto tutto quello fosse solo stato un gioco per farla spazientire: lui gliel’ha anche confessato, di quanto si sia divertito a guardare le sue guance farsi sempre più rosse per l’impazienza, nonostante tutto quello sia costato un bel po’ anche a se stesso, e di quanto fosse tutto un modo per vendicarsi della sua sorpresa al negozio. Non ha più alcun dubbio e forse nemmeno alcun pensiero, mentre raggomitola le gambe al petto, seduta sul divano del salotto. Non sa quando ci siano arrivati, esattamente, ma sa che ne è valsa la pena.
Lake è sdraiato al suo fianco, con una sigaretta tra le labbra e i pantaloni della tuta addosso, mentre lei gli ha rubato una t-shirt dall’asse del ferro da stiro per non rimanere nuda. Caren gli accarezza i capelli, stringendoli delicatamente tra le dita e facendolo sbuffare quando per scherzo glieli tira un po’ di più.
Appena si piega verso il suo viso, pregustando il sapore di nicotina delle sue labbra, il suo telefono decide di squillare di nuovo: sospira e rotea gli occhi infastidita, prima di alzarsi dal divano e andare alla ricerca del telefono. Quando lo trova, crede di avere le allucinazioni: sullo schermo, infatti, lampeggia il nome “Henry”.
Corruga la fronte e schiude la labbra come se volesse esprimere a voce i suoi dubbi, le sue domande e – perché no? – anche le sue imprecazioni: nonostante non abbia voglia di rispondere, la parte più curiosa di lei la spinge a premere il tasto verde e ad accettare la chiamata. Non è la prima volta che Henry prova a telefonarla, ma fino ad ora la sua pazienza e la sua determinazione l’hanno protetta e mantenuta sulla retta via. Fino ad ora, appunto.
«Cosa vuoi?» dice soltando, guardando Lake dall’altra parte del salotto mentre si mette a sedere, stupito da quel suo tono freddo e distaccato.
«Ciao anche a te» ribatte Henry, meno beffardamente di quanto lei si aspettasse.
«Henry, cosa vuoi?» ripete, spostando lo sguardo sulle proprie unghie mangiucchiate.
«Una risposta – è la spiegazione, che le fa alzare un sopracciglio. – Non ti decidevi a farti viva, così ho pensato di anticiparti».
«Ma di cosa stai parlando?» chiede Caren, domandandosi se il ragazzo dall’altra parte della cornetta sia del tutto impazzito. Che risposta gli deve? Credeva di aver definitivamente chiuso il rapporto con lui, cicatrici e dolori a parte: è vero, non può negare di avere lo stomaco sottosopra nel risentire la sua voce, ma adesso i ricordi sono un po’ più sopportabili e Lake attenua tutto il resto.
Sente l’abbozzo di una risata incredula, che la stupisce non poco. «Sapevo che non te l’avrebbe detto» borbotta Henry, rivolto più a se stesso.
«Puoi smetterla di fare allusioni e dirmi una volta per tutte che cosa vuoi?» insiste lei, spazientita. La curiosità, il nervosismo e il cuore che riscopre le sue ferite creano un mix spiacevole, dentro di lei.
«Non rispondevi alle mie chiamate, a nessuna delle mie innumerevoli chiamate…» comincia, quasi con tono di rimprovero, ma la ragazza lo interrompe. «E vuoi biasimarmi per questo?»
«Così sono passato dal bar, ieri, visto che non eri nemmeno a casa – riprende lui, ignorando quel suo commento al quale probabilmente non saprebbe nemmeno come rispondere. – La barista…»
«Barbara?»
«Non so il suo nome.»
«Barbara.»
«Sì, ok, Barbara – sbuffa lui, dall’altra parte del telefono, forse chiedendo di poter finire il suo racconto. – Be’, lei mi ha detto di chiedere ad un certo Lake, un ragazzo che era lì al bancone.»
Caren sorride divertita, pensando alla scena, ma subito dopo si incupisce. Non sapeva che Lake ed Henry si fossero incontrati, né che Henry avesse chiesto di lei.
«Mi ha detto che eri fuori città, anche se “non erano cazzi miei”, per citare le sue parole – continua lui, imitando con scarsi risultati la voce di Lake. – E quando gli ho chiesto di dirti che avevo bisogno di parlarti, lui mi ha assicurato che l’avrebbe fatto. È evidente però che non abbia mantenuto la parola, cosa di cui sospettavo. Per questo ti ho chiamata: ho bisogno di vederti».
Caren ha gli occhi spalancati e fissi davanti a sé. È sconvolta dal fatto che Henry abbia ancora parole da rivolgerle e con le quali farle male, sconvolta dal fatto che c’è sempre una parte molto fastidiosa di sé che è disposta ad ascoltarlo, e sconvolta dal comportamento di Lake, che le ha taciuto una cosa del genere.
«Io… Ci penserò» dice soltanto, a bassa voce, premendo il tasto rosso di fine chiamata mentre Henry protesta qualcosa. Ci penserà più tardi, a cosa fare con lui, ma per ora ha bisogno di spegnere il telefono e di chiarire alcune cose con Lake. Lake che dal divano la sta guardando intensamente, come se sapesse già cosa aspettarsi: la sigaretta quasi finita tra le dita e i capelli neri disordinati.
«Perché non mi hai detto di Henry?» chiede Caren senza aspettare oltre, impaziente di venire a capo di quella faccenda.
Lui si inumidisce le labbra.
«Perché non mi hai detto che è venuto a cercarmi e che ha chiesto di parlarmi?» continua lei, avvicinandosi lentamente. Il suo tono di voce è tranquillo, perché non vuole essere accusatorio. Non ancora, almeno. Non che Henry debba avere tutta quella importanza, ma è una questione di principio: Lake non ha il diritto di decidere per lei, a prescindere di quanto le sue decisioni possano essere giuste o meno.
«Lake» sussurra, pregandolo di parlare. Magari stava solo aspettando il momento giusto, magari stava per dirglielo.
Ma lui la guarda dal basso senza muovere un muscolo, come se tramite un solo sguardo stesse cercando di farsi capire e di capire lei.
«Puoi rispondere, per favore?» insiste, leggermente infastidita da quel suo silenzio prolungato. Ok che è un tipo silenzioso, ma ci sono dei limiti.
Lake si alza in piedi sospirando e superandola per spegnere la cicca nel posacenere. «Perché non volevo che tu lo sapessi» dice solamente, ancora di spalle. La pelle nuda e i muscoli contratti, mentre si sistema i pantaloni della tuta. No, non stava affatto cercando il momento giusto per dirle di quell’incontro.
«Qeusto l’ho capito – sospira la ragazza, seguendolo. – Non ho capito il perché: avresti dovuto dirmelo, anche se si tratta di Henry. Non puoi tenermi nascost…»
«Cosa vuoi che ti dica? – la interrompe Lake, voltandosi per guardarla in faccia con le iridi scure e per niente tranquille. La sua voce non è alta, ma è nervosa. – Cosa vuoi sentirti dire? Che so quanto tu tenga a lui nonostante tutto e dopo tutto questo tempo? Che non importa quante parole sprecherai per dirmi il contrario, perché ricordo perfettamente i tuoi occhi di quel pomeriggio in cui è venuto al bar? Provi ancora qualcosa per lui, Caren, ed io non farò da tramite tra voi due, mi dispiace».
Caren schiude le labbra per dire qualcosa, poi sbatte le palpebre più volte e ascolta il suo cuore pompare sangue più velocemente. Osserva Lake in ogni suo particolare del volto, valutando la sfumatura delle sue iridi e anche la forza con la quale sta stringendo i pugni.
Si avvicina a lui e alza il viso per incrociare meglio il suo sguardo, poi porta lentamente le mani sul suo collo, fino ad arrivare alle guance magre. Accarezza la sua pelle con delicatezza.
«Dici di ricordare i miei occhi di quel pomeriggio – sussurra, modulando la voce per darle un’impronta più sicura. – Ma cosa ti dicono i miei occhi adesso? Mentre guardano te?»
Lui stringe la mascella, che si contrae sotto le sue mani leggermente fredde. Non risponde.
«Non ho intenzione di sprecare nessuna parola, come hai detto tu – continua Caren, determinata. – Non ho intenzione di mentirti: non è vero che provo ancora dei sentimenti per lui, perché non lo amo, e non è vero che non provo niente, perché lui è Henry, e avrà sempre un certo significato per me. Positivo o negativo che sia. Ma tu… Tu devi guardarmi e devi capirmi, Lake: ne sei capace, quindi fallo».
E Lake assottiglia gli occhi e inspira profondamente, studiandola. Poi si spinge verso di lei e la bacia lentamente, forse cercando di seguire il suo consiglio, di comprenderla nel modo in cui riesce meglio: Caren ha davvero bisogno che lui le creda, perché no ha altro da offrirgli.
È vero, Henry non è ancora parte del suo passato: per quanto voglia convincersene, per quanto si ostini a ripetere il contrario nella speranza che diventi la realtà, non può negare come quegli occhi scuri e impertinenti abbiano ancora del potere su di lei. Forse perché le ha fatto male come mai nessuno prima d’ora, forse perché la fine della loro storia è stata così improvvisa e illogica da essere ancora incredibile, forse perché ha bisogno di un chiarimento vero, uno che non sia fatto solo di urla o di insulti. Ci sono un migliaio di forse, e tra tutti questi lei non riesce a distinguere la verità.
Nonostante tutto, però, sa che quello che prova per Lake è reale.
Quando lui appoggia la fronte sulla sua, respirando sul suo volto, ha gli occhi tanto intensi e pensierosi da risultare più scuri del solito. «Andrai a parlarci?» le chiede flebilmente, ma senza traccia di paure o rabbia. Il tono è piatto e quasi formale, di pura curiosità. Il fatto che non abbia insistito sui reali sentimenti di Caren la incoraggia almeno un po’, però: non vuole che lui ne dubiti.
«Non lo so» sussurra lei lentamente.
E Lake serra di nuovo la mascella, ma non risponde nulla.
Così, tra tutti i forse nella testa di Caren, ne nascono altri: perché forse avrebbe dovuto percepire la stretta delle mani di Lake sui suoi fianchi farsi più serrata per una frazione di secondo, e forse avrebbe dovuto accorgersi del suo fiato trattenuto senza far rumore. Forse avrebbe dovuto decifrare meglio il suo sguardo e scavare più a fondo nel suo silenzio tanto familiare e allo stesso tempo sempre diverso, nuovo. Forse avrebbe dovuto ricordarsi che Lake non parla molto, ma dice tutto. 





 


Heeeilà gente! I know, sono in ritardo, ma ormai molte di voi sanno quanto la mia vita sia incasinata, quindi abbiate pietà!
Questo capitolo... non so, non so come descriverlo ahahah Mi atterrò ai fatti, che forse è meglio:
innanzitutto, il rapporto tra Caren e la madre non è solo fatto di litigi e incomprensioni. Si vogliono molto bene, anche se hanno modi diversi di dimostrarlo, e la loro piccola riappacificazione è tanto fittizia quanto importante: importante perché serve loro per non lasciarsi con il broncio o comunque con ulteriori rancori da sommare a tutti gli altri, e fittizia perché il reale problema ha bisogno di ancora un po' di tempo per essere risolto davvero! Spero di essere stata chiara: il padre di Caren dà anche un altro indizio sulla rabbia di Marie, tra l'altro :)
Poi, poi, poi: Caren fa una piccola sorpresa a Lake (ormai si sa che lei per 'ste cose è patita hahha) e lui si diverte - o si vendica - tenendola un po' sulle spine. By-passo il momento tenerezza e arrivo ad Henry: ovviamente, non ci si poteva aspettare che Caren lo dimenticasse così facilmente, nonostante Lake sia molto d'aiuto. Le cose tra di loro sono ancora complesse e da chiarire, quindi Henry ha ancora una certa importanza! E spero che si capisca il motivo per cui Lake non dice niente a Caren del suo incontro con Henry: giusto o sbagliato che sia stato, Lake ha in un certo senso "paura" di ciò che Caren potrebbe scegliere. Ma non voglio dire altro! Mi piacerebbe che foste voi ad interpretare la reazione - o non reazione - di Lake, tenendo conto del suo carattere geloso/silenzioso e chissà cos'altro :) (piccolo suggerimento: non datelo per scontato!) Cosa vi aspettate che succeda? 
Ok, mi sto perdendo in troppe chiacchiere hahahah Vi ringrazio moltissimo per tutto! Siete davvero meravigliose e io non so più come ringraziarvi!!
Spero davvero che anche questo capitolo vi sia piaciuto, e spero che mi farete sapere i vostri pareri :)

Un bacione,
Vero.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici - And that's enough ***




 
Capitolo quattordici – And that's enough
 
 
Annah, con i suoi capelli appena tinti di un rosso troppo acceso, addenta la brioche alla marmellata e mugugna qualcosa in segno di approvazione, sorridendo a bocca piena mentre Sue, al suo fianco, la imita per prenderla in giro. Quest’ultima, poi, torna subito a controllare il cellulare con gli occhi tendenti all’azzurro perché il sole si riflette al loro interno: Vins dovrebbe arrivare lì a momenti e lei sta solo aspettando che l’orologio sullo schermo del suo iPhone segni l’ora tanto attesa.
Caren continua a girare il caffè ormai quasi freddo che le sta davanti, in una tazzina ricoperta di cartine geografiche e abbastanza grassoccia: i capelli biondi sciolti e raccolti sulla spalla sinistra, la t-shirt larga e bianca che le riserva un minimo di riparo dal caldo asfissiante che regna nel bar, e il labbro inferiore stretto fra i denti. Si riscuote solo quando il gomito magro di Ginnie le entra delicatamente nel fianco, accompagnato da un sorriso benevolo da parte della proprietaria.
Il “Sunshine” è un bar in centro, in cui Caren e le sue amiche si sono date appuntamento più volte di quante Annah si sia tinta i capelli – il che è tutto dire. Ormai conoscono a memoria il menù con prezzi modici e caratteri eleganti, il ragazzo sulla trentina d’anni che lavora dietro il bancone e le scritte sulle pareti dei bagni nell’angolo a destra.
«Andiamo Ren, sembra che tu stia per andare al patibolo» esclama Ginnie alla fine, cercando di tirarla su di morale. I suoi occhi blu la guardano come se potessero incoraggiarla semplicemente così, con un battito di ciglia lunghe in più. E forse non hanno torto.
Caren sospira e prende un sorso di caffè, solo per poi posare la tazzina sul piattino bianco, perché si è raffreddato davvero troppo. «Be’, più o meno» borbotta, schiarendosi la voce e abbandonandosi contro lo schienale della sedia in plastica grigia.
«Secondo me dovresti prenderla con filosofia - commenta Annah, leccandosi l’indice macchiato di marmellata. – Insomma, vai lì, gliene dici quattro, magari gli tiri anche uno schiaffo, gli fai capire quanto sia stato un povero coglione e te ne vai a testa alta. Henry deve ficcarsi in quella testa pacata che si ritrova che non può ottenere sempre tutto quello che vuole, e che tu non sei un giocattolino nelle sue mani».
Annah ha ragione. Eppure, come si fa a fingere di aver superato la rabbia e il dolore, come si fa a recitare la parte della persona superiore, se dentro si crolla a pezzi per un solo sguardo? Caren lo sa, che tutti i suoi buoni proposito andranno perduti, nel momento in cui Henry dirà una parola di troppo o la sfiorerà come era solito fare. E manca mezz’ora al loro incontro, quindi proprio non sa come altro prepararsi a tutto quello che potrebbe succedere e a tutto quello che teme di più.
«Oppure, al posto di picchiarlo – interviene Sue, ravvivandosi i boccoli neri e alzando un sopracciglio, - potresti parlargli da persona civile. Sai benissimo che è di questo che avete bisogno, di parlare: non di urlarvi contro o di insultarvi, perché l’avete già fatto almeno un milione di volte. Lui ti deve delle spiegazioni, per quanto patetiche possano essere, e tu devi ascoltarle e magari nemmeno considerarle, ma devi farlo. Hai bisogno di mettere la parola “fine” a tutto questo, e non potrai mai farlo se non affronterai una volta per tutte quello che è davvero successo tra di voi».
Caren sospira, di nuovo, ma non risponde, limitandosi a torturarsi le mani che già tremano un pochino. È vero, ha bisogno di avere delle spiegazioni, perché in fondo le ha aspettate per tanto – troppo – tempo, ma se le facessero ancora più male? Riuscirebbe a sopportarle?
«Secondo me devi solo tranquillizzarti – aggiunge Ginnie, senza mancare un sorriso. – Vedrai che andrà bene: sei così preoccupata solo perché questa storia tra di voi va avanti da troppo tempo e perché hai paura che non possa ancora finire, ma io credo che tu sia più forte di quanto credi. Quindi fai scomparire quel broncio e fammi vedere con che faccia da culo andrai a sbattere in faccia ad Henry il suo essere un pezzo di merda».
Ridono un po’ tutte, al tavolo, e anche Caren si lascia andare per qualche secondo. «Gli staranno fischiando le orecchie, secondo voi?» chiede retoricamente, scuotendo la testa, divertita dall’affetto delle sue amiche nei suoi confronti, dimostrato con gli insulti ad Henry.
«Oh, di sicuro, ma che importa?» risponde Annah, passandosi il tovagliolo sulle labbra e alzando le spalle.
«Piuttosto, Lake cosa ne pensa?» domanda Sue, appoggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi leggermente in avanti, con la scollatura della maglietta leggera che si abbassa un po’ troppo. E infatti, «ti vedo anche i capezzoli» commenta Ginnie, indicandole il seno con un cenno del capo e costringendola a sistemarsi.
Caren, in questo modo, ha un po’ di tempo per respirare a fondo e nascondere i brividi che il pensiero di Lake le ha provocato. Sono passati tre giorni da quando lei ha scoperto delle intenzioni di Henry, e due da quando ha confessato a Lake di voler cogliere l’occasione per chiarire le cose con quel ragazzo: non può dimenticare gli occhi azzurri che l’hanno guardata con distacco, per qualche secondo, né l’inclinarsi rigido delle labbra che si sono rilassate solo dopo molti baci. Caren sa che Lake le vorrebbe impedire di vederlo, sa che il suo silenzio che va avanti esattamente da nove ore – ovvero da quando ha risposto al suo messaggio del buongiorno – ne è una prova, ma sa anche che non è un bambino, e che vuole lasciarla agire come meglio crede. A suo rischio e pericolo.
«Lui… È d’accordo» sussurra, senza incrociare lo sguardo delle sue amiche.
«Ci sono tanti modi di essere d’accordo» precisa Sue, leggermente più cupa.
«Lo so – conferma Caren, lentamente. – A lui va bene» ripete, però, senza spingersi oltre.
Perché Lake non è d’accordo, non come vorrebbe.
Ginnie si accorge della tensione dell’amica e decide di intervenire. «Andrò a chiedere il numero al barista» annuncia.
 
Caren non voleva andare a casa di Henry, perché sapeva che sarebbe stato strano e a dir poco assurdo, perché sapeva che lei sarebbe stata a disagio e perché – insomma! – è casa di Henry. Eppure, non ha opposto resistenza, perché sa anche che, per il discorso che devono affrontare e per le urla che probabilmente verranno di conseguenza, un luogo pubblico non va bene.
Così, con un groppo fermo in gola e un silenzio a dir poco imbarazzante ad avvolgerla, si guarda intorno per mettere a fuoco alcuni particolari di quell’appartamento che non ha mai visto prima. Non sapeva nemmeno che Henry avesse traslocato, né che avessero iniziato a piacergli le foto di famiglia sulle mensole.
Deglutisce a vuoto e cerca di non pensare allo sguardo impertinente e fisso che si sente addosso. Vorrebbe iniziare la discussione e dire le cose come stanno, ma non ce la fa: è stata in silenzio da quando si sono incontrati fuori il “Sunshine” e non crede di essere capace a fare qualcosa di diverso, non in quel momento, almeno.
Ma Henry è sempre stato più bravo di lei in questo, con le parole e i discorsi quasi sempre opportuni. E di sicuro si è sempre fatto meno problemi di lei nel rompere le situazioni di tensione. «Car-»
«Non mi chiamare Car» lo interrompe subito lei, rigida sul divano in pelle beige e con gli occhi fissi sul muro chiaro che le sta di fronte. Subito dopo, si stupisce per essere riuscita ad aprire bocca.
Forse può farcela. Forse può continuare a non guardarlo e a parlare come un automa.
«Ti ho sempre chiamata così» ribatte lui, quasi con un tono offeso, quasi non si aspettasse quella distanza.
«No, mi chiamavi così nel nostro letto, ma ora le cose sono un po’ diverse» precisa lei a denti stretti, cercando di ignorare la fitta al centro del petto causata da quel ricordo. Fa male, molto, e lei cerca di attutire il tutto con il pensiero del soprannome che Lake usa con lei, quel “Jordan” mormorato sulla sua pelle e tra i suoi capelli.
Henry non risponde, ma sospira. Caren, con la coda dell’occhio, può vederlo passarsi le mani leggermente sudate sui jeans chiari e stracciati, mentre sta seduto sulla poltrona di fronte al divano. Ha i piedi nudi e una canottiera verde militare, gli occhi scuri terribilmente suoi e i capelli ramati più disordinati del solito.
«Possiamo arrivare al punto? – chiede lei in un sussurro, serrando la mascella come per trattenere l’impazienza di uscire da quella casa. – Sono stanca».
Stanca di te e della voglia che ho di fissarti negli occhi.
Stanca di non riuscire ad odiarti del tutto.
Stanca del rumore che fai mentre respiri per il nervosismo.
Stanco del mio stupido cuore.
Stanca di tutto.
«Ok – acconsente lui, inaspettatamente. – Però guardami».
Caren si irrigidisce ancora di più, se possibile, e si dà della patetica: come è possibile che si lasci abbattere così da una persona che non merita niente, da lei? Come è possibile che si lasci indebolire in quel modo? Dovrebbe avere un minimo di orgoglio personale e non avere problemi nel sostenere il suo sguardo.
Così ci prova. Muove lentamente la testa e ferma le proprie iridi nelle sue, con cautela.
Si sente completamente scoperta, fragile, ed è proprio questo che l’ha sempre spaventata di Henry: l’enorme potere che ha su di lei, nonostante tutto. Sempre.
«Dimmi la verità» gli chiede, mascherando l’ordine con un tono deciso che dovrebbe renderla più forte.
Henry si inumidisce le labbra e si passa una mano tra i capelli. Poi annuisce. «Non ti amavo più» dice soltanto.
E Caren trattiene il respiro, incapace di lasciarlo andare per paura di non poterne più ricavare dalla stanza in cui si trova. Chiude gli occhi e corruga la fronte, poi li riapre e si impone di mantenere il controllo.
Non è una novità, quella che ha appena sentito, perché una persona che si comporta come si è comportato Henry non può avere amore nelle proprie vene. Non può tenere ad una persona e allo stesso tempo lasciarla senza una parola, solo per tornare dopo un mese e con una nuova ragazza al proprio fianco. Eppure, le fa comunque mancare il fiato, perché, cazzo, immaginarlo è un conto, ma sentirselo dire è tutta un’altra cosa.
«O almeno così credevo» aggiunge Henry, senza staccare i propri occhi dai suoi nemmeno per un secondo.
«Così credevi? – ripete Caren, allibita. – Cosa significa? Cosa vorresti dire? Che ti stavi sbagliando e che non avresti dovuto farlo?»
«No, no. O meglio sì, avrei dovuto agire diversamente. – la corregge lui, scuotendo la testa come se si fosse espresso male. – Ma non è questo».
«E allora cos’è, Henry?»
«Sono stato un codardo, ok? – riprende Henry, portandosi una mano grande al centro del petto, come in un’ammissione di colpe. – Non ti amavo più, è vero, ma quando me ne sono reso conto non sono riuscito a dirtelo. E come avrei potuto?»
Caren non risponde, né si muove di un solo millimetro. Ha paura che qualsiasi sua azione, anche un’inspirazione di troppo, potrebbe farla scoppiare. Ha già gli occhi lucidi.
«L’hai detto tu stessa: hai lasciato tutto per me. Non sapevo come dirti che i miei sentimenti erano cambiati».
«Quindi hai pensato che la cosa migliore da fare fosse scappare via e-»
«Non ho mai detto di aver fatto la cosa giusta» la interrompe lui, con lo sguardo serio.
«Esatto, perché non è stato giusto, Henry. Non è stato giusto lasciarmi in quel modo, sparire completamente e tornare con… Con un’altra, un mese dopo. Non è stato giusto io-»
«Mi dispiace» esclama Henry, fermando il suo fiume di parole perché adesso anche lui può vedere i suoi occhi arrossarsi.
«Avrei preferito che tu mi sbattessi in faccia la verità.»
«Lo so.»
«Non dire che lo sai! – sbotta Caren, alzandosi in piedi e stringendo i pugni lungo i fianchi. – Tu non sai un cazzo! Te ne stai qui a parlarmi con tranquillità, mentre ti meriteresti di patire quello che tu hai fatto a me!»
Henry continua a guardarla, come c’era da aspettarsi, ma non dice una parola. E forse è meglio così.
«Avresti potuto dirmi che tra di noi le cose non andavano più bene, e io sarei stata male lo stesso, ma sarebbe stato diverso! Invece no, mi hai mentito per chissà quanto tempo, hai vissuto con me e poi te ne sei andato e io… Io ho dovuto raccogliere i pezzi di quello che avevi lasciato di me! Sei tornato e non ti sei nemmeno degnato di dirmi una parola, di darmi una fottuta spiegazione per quel tuo comportamento! E adesso, dopo quasi un anno, vieni a chiedermi scusa, dicendo che lo sai. Cosa sai, Henry? Cosa pretendi di sapere?!»
«Mi dispiace» ripete lui, così a bassa voce che Caren quasi non lo sente, con i propri respiri profondi a scuoterle il petto. Il battito cardiaco ormai è fuori controllo: come si fa a metterlo a tacere?
Lei chiude gli occhi e si passa una mano tra i capelli, cercando di non piangere. Non vuole farlo, anche se forse ne ha bisogno: vuole solo dimostrarsi forte e in grado di affrontare una discussione di quel genere. Dovrebbe prima convincere se stessa, però.
Quando alza le palpebre, sobbalza leggermente nel ritrovarsi Henry davanti, troppo vicino. Lui allunga una mano lentamente verso di lei e «mi dispiace» ripete. E Caren ha il tempo di guardarlo per un paio di secondi, prima di essere sopraffatta da un singhiozzo al quale ne consegue un altro, e poi un altro ancora. Prima di dover ammettere la sua sconfitta e di sentire le braccia di Henry avvolgerle il corpo senza alcuna esitazione nel farlo, come se ne avesse ancora tutto il diritto.
Vorrebbe divincolarsi e allontanare il viso dal suo petto che ha ancora lo stesso profumo, vorrebbe urlare ancora un po’ e imporre delle distanze, ma non fa niente di tutto quello: rimane inerme, a piangere sulla sua canottiera e su tutti i suoi sbagli. A confrontare il calore delle sue braccia con quello che ridipingeva ogni tanto nei suoi ricordi, a maledirlo e a pensare che è così diverso da quello di Lake.
Lake.
«Provo ancora qualcosa per te» sono le parole che le arrivano all’orecchio, appena sussurrate ma udibili quanto basta per ferirla ancora una volta.
Fa un passo indietro velocemente, sbattendo contro il divano e tornando a respirare, mentre Henry rimane fermo a poca distanza da lei, con quella frase scritta negli occhi, sul viso, come se fosse un mezzo per torturarla.
Caren boccheggia qualcosa e tira su col naso, asciugandosi il viso. «Ancora? – ripete, incredula, con la voce rotta. – Hai appena detto di aver smesso di amarmi, Henry. Non puoi provare ancora qualcosa per me».
Non può perché è illogico e perché il solo pensiero la fa tremare.
«Di nuovo, allora – si corregge lui. – Provo di nuovo qualcosa per te».
E lei ha le gambe che tremano perché no, non è possibile.
«Ti diverti a prendermi in giro?» domanda flebilmente, serrando i pugni.
«Credi che mi divertirei nel farlo? – ribatte Henry, quasi offeso. – Non pensare che di te non me ne importi niente, perché non è così. Il fatto che io me ne sia andato in quel modo non vuol dire che… Ho sbagliato, lo so: ma perché credi che sia stato via per un mese? Come credi che avrei potuto trovare il coraggio di guardarti di nuovo in faccia? E quella ragazza? Lei non era altro che-»
«Per favore, smettila» lo interrompe Caren.
«La verità che non posso decidere io quali sentimenti provare. Non posso decidere se sentire o meno la tua mancanza, nonostante quello che ti ho fatto e nonostante io mi sia comportato da stronzo. Non posso decidere di non guardarti mentre usciamo con gli altri e di sentirmi uno stupido. Quindi sono qui, a chiederti di perdonarmi e di darmi… Di darmi un’altra possibilità.»
Caren lo guarda con gli occhi spalancati, increduli. Non riesce a capire se quelle parole siano reali o se siano solo frutto di un incubo, e ha paura di darsi una risposta.
Scuote la testa.
«Non sono qui per questo» sussurra, distogliendo lo sguardo.
«Per perdonarmi o per darmi un’altra possibilità?»
«Ho accettato di vederti solo perché avevo bisogno di capire, ma tutto il resto… Henry, tutto il resto è troppo.»
«Puoi almeno perdonarmi?» chiede lui, avvicinandosi un po’ di più, un po’ troppo.
Caren lo conosce molto bene, di conseguenza conosce alla perfezione ogni sua espressione. Sa capire quando sta solo giocando e quando non ha altre parole da usare per farsi credere. E in quel momento, mentre le respira sul volto, sa che sta facendo leva sulle sue presunte debolezze, ma che è sincero, purtroppo. Purtroppo perché questo significa che la sta prendendo in giro, di nuovo.
«Allontanati» lo prega, premendo le mani esitanti sul suo petto. Non riesce a pensare, perché il profumo di Henry si mischia inesorabilmente a quello di Lake.
«Avrei potuto farlo – mormora, tenendo gli occhi fissi sul pavimento tra i loro piedi. – Se tu mi avessi chiesto scusa e avessi capito i tuoi errori, avrei potuto sforzarmi e dirti che andava bene, che avrei cercato di perdonarti e di dimenticarti. Invece ti sei dimostrato l’egoista di sempre, perché hai appena messo in dubbio tutte le parole che mi hai rifilato fino ad ora.»
Adesso lo guarda negli occhi, godendo della sua espressione leggermente confusa.
«È vero, mi hai detto che ti dispiace, mi hai detto tutto quello che avresti dovuto dire un anno fa, ma poi ti sei tradito ed io stavo anche per crederti. Tu… Tu sei venuto a cercarmi solo perché vorresti ricostruire qualcosa con me, solo perché ti sei accorto di provare di nuovo qualcosa e purtroppo ti conosco abbastanza bene da sapere che non stai mentendo. Il punto è che, se così non fosse stato e se avessi continuato a non amarmi, non saresti mai tornato da me. Non mi avresti mai chiesto scusa. Non avresti mai ammesso i tuoi sbagli. Tutto questo… Tutte queste tue parole sono solo un mezzo per arrivare ad un tuo scopo, e mi dispiace dirtelo, ma non lo raggiungerai. Non con me.»
Caren respira lentamente e si sente svuotata. Dopo tutto il trambusto di poco prima, dopo tutte le ferite che ha sopportato e incassato, dopo tutte le speranze e la confusione, ha finalmente chiaro il vero intento di Henry. Si chiede come abbia fatto a non accorgersene prima, a non pensarci, nonostante fosse così evidente, e questa domanda le rimbomba in testa impedendole di arrabbiarsi o di mostrare alcuna emozione.
«No, io-»
«Vorrei solo che la smettessi di farmi del male – sussurra, interrompendolo. – Non ho fatto nulla per meritarmelo». Poi si volta e ignora i richiami di Henry, deboli perché anche lui ha un limite e perché nemmeno si accorge di quello che fa.
All’aria aperta, Caren respira a fondo e sente gli occhi bruciarle, mentre li chiude per ritornare in sé.
Sa perfettamente che Henry vorrebbe qualcosa da lei, su questo non ha mentito: ma pensava – illusa – che le sue scuse potessero essere sincere, che dopo tutto quel tempo lui avesse capito quanto avesse sbagliato e che, anche se con un immenso ritardo, volesse fare ammenda. Invece, le si è avvicinato solo per avere qualcosa in cambio, per romperla un po’ di più.
Henry non è mai stato cattivo, semplicemente non si rende conto di cosa i suoi comportamenti possano implicare e di quanto impatto abbiano su Caren.
 
Nel letto, con la serranda abbassata e la luce del tramonto che entra flebilmente dalla porta che dà sul salotto, Caren ha il viso struccato e gli occhi un po’ gonfi. È appena tornata a casa dopo essere andata da Enriqua, che ha sfoggiato i termini spagnoli più fini che conosca per trovarne uno adatto ad Henry. Eppure, lei non sta meglio.
Non sa perché le faccia ancora tanto male, probabilmente è per l’orgoglio ferito, quello che lui aveva già calpestato una volta e che ora ha torturato un po’ di più. Ma non vuole pensare alla possibilità che i sentimenti nei suoi confronti siano ancora lì da qualche parte, in attesa di tenderle un agguato.
Lei non vuole Henry. Non saprebbe nemmeno come fare ad accettarlo di nuovo nella sua vita e non vuole trovare una soluzione: vuole solo dimenticarlo e voltare pagina, perché tanto non ne vale la pena.
Proprio mentre sospira sulla stoffa del suo cuscino, il campanello di casa suona rumorosamente, spazzando via il silenzio al quale si era abituata. Corruga la fronte e rimane immobile: non ha voglia di vedere nessuno, è troppo stanca.
Eppure, il campanello suona ancora e, dopo la terza volta, ad esso si aggiunge anche la voce bassa di Lake. Non sta urlando, è solo un richiamo, il suo. E Caren si alza immediatamente, mettendosi seduta sul materasso: cosa deve fare? Deve lasciarsi vedere in quello stato? Deve lasciargli assistere agli effetti di Henry su di lei? Deve essere egoista e ammettere che l’unico di cui avrebbe proprio bisogno in quel momento è solo Lake?
Appoggia i piedi nudi sul pavimento tiepido e si avvicina alla porta di casa, lentamente. Nel salotto regna di nuovo il silenzio, ma riesce quasi a percepire la presenza di Lake dietro quella superficie lignea.
Quando abbassa la maniglia, trattiene il respiro e cerca di assumere un’espressione meno sconvolta, anche se sa con certezza che la sua maschera non lo ingannerà. Lui, d’altra parte, rimane immobile sulla soglia, ancora fuori dal suo appartamento: la guarda negli occhi con la fronte leggermente corrugata, poi si sofferma sulle labbra e sui capelli. Sulle mani che le tremano un po’, anche se cerca di non darlo a vedere. Sul suo corpo coperto solo da quella maglia che usa come pigiama e che le arriva a metà coscia. Poi serra la mascella e i pugni e quello basta.
Caren espira bruscamente e viene invasa da un singhiozzo, abbassa le palpebre e il capo e si vergogna di se stessa. Lake aspetta un paio di secondi prima di muoversi, prima di fare un passo verso di lei e di circondarle il busto con le braccia magre. Respira pesantemente tra i suoi capelli e la stringe come non ha mai fatto prima, anche se è doloroso.





 
 

Buongiorno meraviglie! Non so come iniziare questo spazio autrice, quindi andrò direttamente al punto ahhah
Henry e Caren: lo so che lo odiate, lo so ahahah Ma, come dico sempre, a me va bene così: i personaggi di una storia non sono diversi dalle persone reali, fanno anche loro delle cazzate pazzesche e anche loro sanno essere giusto un po' odiosi! Spero di essere stata chiara nel presentare Henry, comunque, perché non vorrei che venisse frainteso: lui non è affatto uno stupido, e ha confessato di essere sparito in quel modo per mancanza di sentimenti e di coraggio, perché effettivamente ce ne sarebbe voluto molto per guardare Caren negli occhi e dirle di non provare più nulla, dopo tutto quello a cui lei aveva rinunciato per lui. Henry sa anche molto bene quali siano stati i suoi errori, il problema è che li tira fuori solo quando si rende conto di provare "di nuovo" qualcosa per lei: uguale, è molto egoista. La nostra Caren, ovviamente, era già abbastanza sconvolta da tutto il resto, quindi non ha reagito bene, una volta comprese le sue vere intenzioni. Ripeto, non voglio che pensiate che Henry sia solo ed esclusivamente un approfittatore, il fatto è che è solo un po' incosciente: le sue scuse erano sincere, ma sono arrivate solo quando facevano comodo a lui, mentre per un anno sono rimaste nascoste solo per mancanza di coraggio.
Poi, poi, poi: come ho scritto su Facebook, non capisco perché mi sia venuto in mente di scrivere di un personaggio come Lake hhaah Sul serio, me ne sto innamorando e questo non va bene! Spero che il momento finale vi sia piaciuto e sia stato chiaro: lascio a voi interpretare la sua reazione nel vedere Caren in quello stato! Ovviamente loro stessi avranno da parlare su quello che è successo!
Cosa pensate che succederà d'ora in avanti? Siete in grado di fare delle previsioni? :)

Vi ringrazio di tutto, come sempre, e un grazie particolare anche a
vampirestories che ha segnalato la storia per le scelte :)
Non vedo l'ora di leggere le vostre opinioni!
Un bacione,
Vero.


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Capitolo 15
*** Capitolo quindici - What do you want? ***




 
Capitolo quindici – What do you want?
 
 
Il giaccone verde militare di Lake è ancora un po’ freddo per la temperatura esterna, ma Caren si aggrappa ad esso come se fosse la cosa più confortevole del mondo. Forse perché, così facendo, può avvicinarsi meglio a lui, forse perché sa di lui e forse anche perché può nasconderci il viso umido per le lacrime. Non le piace il pensiero di mostrarsi così debole e facilmente influenzabile, soprattutto se la causa di tutto è Henry.
Lake le incastra la mano destra tra i capelli e si allontana leggermente per guardarla negli occhi, ma non la bacia. Lei, d’altra parte, ha paura di chiederglielo.
Caren tira su con il naso e sbatte le palpebre, poi cerca di sopravvivere alle iridi irrequiete che le stanno di fronte e gli accarezza il collo con le dita esitanti. Sa perfettamente cosa stia pensando, o almeno lo crede, e vorrebbe poter fare qualcosa a riguardo.
Lake serra le labbra e continua a guardarla, prima di lasciare il suo corpo e fare qualche passo verso il centro del salotto. Lei rimane immobile per qualche istante, con i brividi a percorrerle le gambe nude per quell’improvviso distacco, poi si passa una mano tra i capelli e chiude la porta, rimasta aperta fino ad allora.
Quando si volta, Lake è seduto sul divano. La schiena curva e i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Il giaccone abbandonato sul bracciolo e gli occhi sottili.
Caren prende posto al suo fianco, cautamente e quasi cercando di non far rumore, chiedendosi perché si senta in colpa nei suoi confronti. È come se l’avesse tradito in qualche modo, come se il tormento derivato dall’incontro con Henry potesse dimostrare qualcosa ai suoi occhi. Il fatto è che, per quanto lei sostenga di non essere ancora innamorata di Henry, ma solo legata a lui, non può negare che le apparenze facciano intendere ben altro.
Lake inspira profondamente e continua a guardare a terra. «Cos’è successo?» è la sua semplice domanda.
E cos’è successo? Tutto e niente, alla fine.
Gioca un po’ con l’orlo del suo maglione ed incrocia le gambe sul divano, preparandosi a rispondere. «Sono stata una stupida, di nuovo» dice soltanto, con la voce ed il capo bassi. E lui non interviene, lasciandole il tempo di continuare e di trovare il coraggio per farlo, assieme alle parole. «Henry… - Si interrompe, mordendosi il labbro inferiore e alzando lo sguardo su Lake, che la sta osservando come solo lui potrebbe. Aspetta qualche secondo, poi riprende. – Mi dispiace. Mi dispiace che tu debba vedermi in questo stato, e non voglio obbligarti ad ascoltarmi parlare di lui. Io… So cosa stai pensando, che io sia ancora presa da Henry e che questa ne sia solo la prova, ma non è così. Sono solo arrabbiata e-»
«Caren – esclama Lake, serio, ponendo fine a quell’ammasso di frasi frettolose e impazienti. – Cos’è successo?»
Caren stringe le labbra in una linea dura e corruga leggermente la fronte, combattuta. Non sa come riordinare i concetti nella propria testa e non sa come presentarli a Lake senza farsi fraintendere, né ha idea di come reggere il suo sguardo attento su di sé.
«Mi ha chiesto un’altra possibilità» esclama alla fine, studiando il viso che le sta davanti. Lake non si muove e non distoglie gli occhi dai suoi, ma stringe i pugni. «E mi ha chiesto scusa. Dice che sa di aver sbagliato, che si è comportato in quel modo solo perché aveva smesso di amarmi e non sapeva come dirmelo, né avrebbe avuto il coraggio di guardarmi in faccia se fosse riuscito a farlo. Dice di provare… Di provare di nuovo qualcosa per me, ed io so che non sta mentendo, ma non mi interessa. Non voglio dargli un’altra possibilità. Quello che mi fa incazzare è che mi sono di nuovo illusa, capisci? Per l’ennesima volta mi sono lasciata trattare da stupida, per l’ennesima volta ho lasciato che lui avesse più potere su di me di quanto dovrebbe averne. Mi ha chiesto scusa e mi ha chiesto di perdonarlo, solo perché ha un secondo scopo, perché vuole tornare con me. Ed io speravo che dopo tutto questo tempo si fosse semplicemente reso conto di dovermi una spiegazione, invece no, si tratta di nuovo di lui. Sempre e solo di lui.»
Prende un respiro profondo e si porta i capelli dietro le orecchie, solo per non rimanere ferma e così scoperta. Non sa nemmeno perché abbia buttato tutto fuori in quel modo, quando due minuti prima aveva confessato di sentirsi a disagio nel dover fare ascoltare quelle cose a Lake, ma non ha potuto farne a meno: lui, con il suo silenzio e la sua attenzione, ha la capacità di farla sciogliere dalle catene di riluttanza che si impone.
Lake sbatte le palpebre e si inumidisce le labbra, mentre Caren gliele fissa con il desiderio di sfiorarle a bruciarle lo stomaco: lui non l’ha ancora nemmeno toccata, dopo quell’abbraccio sull’uscio della porta, e di sicuro un motivo c’è, per questo lei non osa sporgersi per baciarlo, anche se sa bene essere l’unica cosa di cui abbia realmente bisogno.
Quando Lake inspira a lungo e torna a guardare il pavimento ai suoi piedi, Caren chiude gli occhi per qualche secondo e pensa a cosa fare: non saprebbe interpretare con successo ciò che sta avvenendo in quella stanza, ma vorrebbe davvero farlo. Avrebbe mille cose da dire, ma, di nuovo, non sa come esporle. Per evitare di peggiorare tutto, quindi, decide di stare zitta.
«Vado… Vado a mettermi dei pantaloni. Ho freddo» sussurra debolmente dopo qualche minuto buono, alzandosi dal divano più per scappare alla morsa che le impedisce di respirare a dovere, piuttosto che per i brividi lungo il suo corpo. L’idea di avere Lake così vicino e allo stesso tempo così distante, di non poterlo sfiorare, di non riuscire a decifrare il suo silenzio e di non sapere come affrontarlo, la mette estremamente a disagio.
Mentre cammina verso la sua stanza, il viso è ormai asciutto e gli occhi sono solo un po’ rossi. Il pensiero di Henry si è affievolito, forse perché Caren ha pianto abbastanza e l’ha insultato fino al punto di salvarsi dall’esplodere per la rabbia e il dolore: nonostante questo, non può certo dire di essere tranquilla, anzi, si sente sull’orlo di un urlo stressato e a pieni polmoni.
Apre le ante dell’armadio in legno chiaro e rimane in piedi a fissare i vestiti davanti a sé, anche se il suo intento era solo quello di recuperare un pantalone della tuta. Si morde l’interno della guancia, poi abbassa le palpebre: non sta più pensando allo scopo che l’ha portata lì, ma solo a tutta quella situazione, a tutta quella confusione che fino a poco tempo prima credeva di aver definitivamente evitato.
Trattiene a stento un grido, quando sente delle mani posarsi possessive sui suoi fianchi. Lake ha il petto e l’addome contro la sua schiena e la bocca sul suo collo, che ha scoperto spostandole i capelli sull’altra spalla. Caren finalmente respira di nuovo, nel vero senso della parola, e sente il cuore più leggero e allo stesso tempo più propenso a farsi sconvolgere da quelle dita che ormai la conoscono bene, da quei baci che non le lasciano mai scampo. Quando Lake le morde la pelle, lei si volta per guardarlo negli occhi e si lascia torturare le labbra senza protestare e senza tirarsi indietro, perché lo stava aspettando da troppo tempo e perché la aiuta.
È strano pensare a come una persona possa adattarsi al corpo di qualcun altro, quasi diventando complementare ad esso, ma a Caren piace adattarsi a Lake. Muoversi tra le sue braccia solo per incastrarsi meglio a lui, sfiorarlo per fargli contrarre i muscoli e lasciarsi plasmare sotto le sue mani callose. Così, quando lui fa dei passi indietro tirandola con sé, senza lasciarla respirare e senza aprire gli occhi, lei lo accontenta. Si sdraia sul suo corpo, appena sono sul suo letto, e rabbrividisce quando Lake le accarezza il ventre, scavalcando il maglione e mordendole il lobo di un orecchio. Poi inarca la schiena contro il materasso con le lenzuola già in disordine, quando lui la sposta per invertire le posizioni, per sovrastarla e farla sentire ancora più piccola e sua di quanto già non sia.
«Lake» sussurra Caren, muovendo il capo all’indietro mentre lui le bacia il collo, la mascella, il mento. Mentre lui è già senza maglia e mentre lei è già senza fiato. «Non sei… – comincia, solo per poi essere interrotta dalle labbra che conosce a memoria e che non sono più secche. – Non sei arrabbiato?» riesce finalmente a chiedere, con gli occhi a cercare quelli blu in cui si divertono a perdersi.
Arrabbiato per cosa? Si domanda subito dopo tra sé e sé, ma è questa la sensazione che ha avuto, che Lake, con le sue espressioni serie e le sue poche parole – di meno del solito – pronunciate a denti stretti, fosse infastidito, deluso o chissà quale altro aggettivo con una connotazione negativa. E si dà anche una risposta: arrabbiato per lei che piangeva davanti a lui, per i suoi occhi rossi a causa di qualcuno – di Henry – che non la merita, per la sua testardaggine e per i “te l’avevo detto” che in fondo non le ha mai ancora detto, per il suo corpo fragile tra le sue braccia che si sono aperte nonostante tutto, per la paura.
Lake smette di baciarla e la guarda negli occhi, con il respiro affannato e le labbra dischiuse, leggermente arrossate. Poi si abbassa ulteriormente su di lei, alzandole il maglione con le mani un po’ fredde e baciandole l’addome piatto. «Dimmi cosa vuoi che faccia - sussurra sulla sua pelle, per poi tornare a torturarle una clavicola. – Dimmi cosa vuoi sentire» continua, con l’impazienza ad impregnargli la voce bassa e con una mano a scendere tra le sue gambe.
E Caren glielo dice, «te» gli dice.
 
Ormai fuori è buio, ma la stanza è illuminata dal lampadario che è stato comprato più per il suo prezzo economico, che per senso estetico. Da quanto è tutto immerso nel silenzio? Da quanto Caren sta contando i loro respiri, cercando di sincronizzarli? E da quanto Lake le sta accarezzando il ventre con le dita leggere, facendo su e giù senza mai fermarsi?
«Parlami» sussurra lei improvvisamente, senza spostare il viso dal suo petto, né la gamba dal posto in mezzo alle sue. Con il braccio sinistro abbandonato sul suo addome, ascolta il suo battito cardiaco che scandisce il loro tempo.
È una richiesta, la sua. Ormai sa quale sia il mezzo di comunicazione che Lake preferisce, ma sa anche che a volte non basta: per quanto lei abbia capito che no, non è arrabbiato - perché se no non avrebbe fatto l’amore con lei, né l’avrebbe guardata negli occhi solo per coglierne il piacere e i “per favore, continua” -, ha anche capito che c’è dell’altro, di sicuro. E vuole saperlo: vuole sapere esattamente e in ogni dettaglio ciò che Lake sta pensando, senza dover tirare ad indovinare e senza vivere nel rischio di sbagliare ad interpretare un suo gesto o un suo respiro di troppo. Ci ha già provato, a fare a modo suo, ma continua a sfuggirle qualcosa.
Sente Lake sospirare e muoversi impercettibilmente sotto di lei. «Lo sai già» risponde flebilmente, stringendo un po’ di più la presa sul suo corpo ancora nudo, ma coperto dalle lenzuola.
Caren si morde le labbra e alza lo sguardo e il viso vero di lui, cercando le sue iridi. «Vorrei sentirtelo dire» ribatte, lasciando l’argomento sospeso nell’aria. Qualsiasi cosa sia, voglia sentirtela dire.
Nessuno parla per i successivi minuti, anche se entrambi aspettano: lei aspetta di sapere, lui aspetta di trovare le parole giuste e la voglia di pronunciarle.
«Come fai ad esserne sicura? – chiede poi, guardandola da sotto le ciglia scure e corte. – Come fai ad essere sicura di non provare ancora qualcosa per lui? Guardati, ti ha fatta a pezzi. Ora pensi di essere solo delusa dal suo secondo fine, ma ho una domanda: se avesse insistito di più, se ti avesse impedito di andare via e ti avesse parlato fino a convincerti, tu cosa avresti fatto? Cosa avresti provato?»
Caren trattiene il fiato e continua ad osservarlo, immobile. Non sa cosa dire, e questa volta non perché ci siano troppi pensieri tra i quali scegliere: è semplicemente sconvolta, perché non ha mai pensato a quell’eventualità. Se Henry, a casa sua, avesse perseverato e l’avesse abbracciata di nuovo e accarezzata con le mani e con altre parole, lei come avrebbe reagito? Nel profondo, sa di non potersi dare una risposta indiscutibile, e in un attimo vede crollare tutte le sue certezze.
«Se lui ti fosse davvero indifferente, non potrebbe ridurti in questo stato» continua Lake, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi.
E in fondo ha ragione, ma magari non è completamente vero. Magari Caren ne ha risentito così tanto solo perché è un capitolo doloroso della sua vita. Magari è sul serio colpa della rabbia e del rancore. Magari andrà tutto bene e magari va già tutto bene. Eppure, Lake le ha destinato un piccolo, fastidioso e non trascurabile dubbio: se Henry avesse osato e provato a baciarla, lei avrebbe avuto la forza – e la voglia – di respingerlo? Vorrebbe dire che sì, ce l’avrebbe fatta, ma sa di non poterlo fare con sicurezza. E questo la preoccupa, la spaventa.
«Ma forse… Forse è solo perché-»
«O forse non vuoi ammettere di non averlo ancora dimenticato» la interrompe Lake, in un sussurro a denti stretti, serrando la mascella e spostandosi per mettersi a sedere.
Caren lo guarda tenendo il lenzuolo a coprirle il seno, con i capelli in disordine e la pelle che deve abituarsi ad essere di nuovo sola. Osserva la sua schiena nuda mentre si infila i boxer, recuperati da terra, e la sua spina dorsale curva per la posizione, esposta per la sua costituzione troppo magra. «Lake» mormora, in un richiamo quasi supplichevole.
Lo segue con gli occhi mentre si allontana con solo i jeans consumati addosso, per uscire dalla stanza, e sospira sonoramente quando si rende conto che è tutto un fottuto casino. Si passa una mano dietro al collo e si muove lentamente per vestirsi. Una volta indossato il solito maglione nero e quei pantaloni della tuta che alla fine ha preso davvero, cammina a piedi nudi per casa fino ad arrivare in salotto.
Lui è appoggiato con i gomiti al davanzale della finestra, aperta per lasciare uscire il fumo della sigaretta che ha acceso da poco. Le gambe incrociate e i capelli che per quanto sono scuri si confondono con il cielo notturno al di fuori. Caren si passa la lingua sulle labbra ed inspira un po’ di coraggio, un po’ di sicurezza, prima di avvicinarsi al ragazzo e sfiorargli la schiena. I muscoli che reagiscono impercettibilmente a quel contatto, Lake che espira ma che non dice niente.
«Mi dispiace» sussurra sulla sua pelle, appoggiando le mani sui suoi fianchi.
Mi dispiace di non poter negare con convinzione le tue ipotesi.
Mi dispiace di essere così irrimediabilmente debole.
Mi dispiace di non capire nemmeno cosa sento.
Mi dispiace mi dispiace mi dispiace.
«Non ho intenzione di rivederlo – aggiunge, stringendosi con il petto contro la sua schiena, fino a strofinare su di essa la guancia sinistra. – Voglio solo lasciarmi tutto alle spalle e dimenticarmi di lui. Lake, voglio andare avanti.»
Con te.
Non sta mentendo. A prescindere da quale sia la verità sui suoi sentimenti nei confronti di Henry – verità che chissà quando riuscirà a raggiungere -, ha solo bisogno di superare quel periodo della sua vita, quel dolore e quei ricordi. Non vuole riviverli, né doverli affrontare nel tentativo di recuperare il rapporto con una persona che nemmeno lo merita. E lei lo sa, che Lake potrebbe aiutarla, perché lo sta già facendo.
Gli bacia una costa e chiude gli occhi, aspettando una risposta, verbale o meno.
Lake respira profondamente, ancora di spalle, e rimane in silenzio.
«Lo giuro» sussurra Caren, appellandosi all’unico mezzo che ha a disposizione.
«Non-» Lui si volta di scatto verso di lei, gettando la sigaretta dalla finestra e fissando gli occhi scuri nei suoi. «Non giurare» riprende, seriamente. Caren corruga leggermente la fronte e gli dà ascolto: non ripete quelle parole, né lo contraddice, ma le pensa e ne è convinta. Annuisce subito dopo, portando di nuovo le mani sul petto di Lake, sui suoi tatuaggi che si muovono seguendo il suo respiro, poi si alza sulle punte con lentezza: si avvicina al suo viso quasi avesse paura di un rifiuto, accarezzandogli il collo e tenendo lo sguardo nelle sue iridi, come se potesse coglierne una sfumatura più eloquente delle altre, o un indizio.
Sussurra di nuovo il suo nome e si lascia attraversare da un brivido, quando Lake le stringe i fianchi per avvicinarla di più a sé. Solo allora, quasi avesse appena ricevuto il consenso tanto atteso, si prende la libertà di baciargli le labbra. Delicatamente, senza urgenza.
E lo bacia, ancora e ancora, cercando di farlo tornare da lei.
«Dimmi cosa vuoi» sussurra sulla sua bocca, citando quella stessa richiesta che lui le aveva fatto nel suo letto, prima di darle tutto. E Lake porta le mani tra i suoi capelli, con possessività, solo per poi spingersi contro di lei. «Cosa vuoi?» insiste Caren, approfondendo quei baci sfuggenti e continui.
Lake allora le afferra le cose e la solleva da terra, facendo alcuni passi avanti per farla sedere sul tavolo e posizionarsi tra le sue gambe. Le prende la mano destra, troppo piccola rispetto alla sua, e se la fa scivolare sul petto, sull’addome, sull’orlo dei jeans. Ha le labbra sul suo collo – di nuovo – e i boxer abbassati sulle ginocchia, le dita che marcano il seno di Caren e gli occhi socchiusi. E sì, in fondo è meglio non giurare, ma per ora va bene così.





 
 

Saaaaaaaaaalve! Cercherò di essere breve, per due semplici motivi: primo, perché non voglio annoiarvi; secondo, perché sono appena stata dimessa dall'ospedale (ieri ho subito un piccolo intervento, ma sto bene :)) quindi sto morendo di sonno ahahha Penserete che io sia un po' masochista nel pubblicare lo stesso, ma il fatto è che da domani dovrò ricominciare a studiare per l'esame di martedì, quindi non avrei tempo di scrivere/aggiornare!
Detto questo, passiamo al capitolo: Lake e Caren all the way, e mi dispiace se non è venuto come avrei voluto! Avrete notato che i loro sono più gesti, che parole: il fatto è che io ci ho provato, ci ho provato davvero a scrivere più dall'ottica di Lake e di far capire alcune cose semplicemente dai loro comportamenti, ma non so se ci sono riuscita hahaha
Innanzitutto, alcune di voi hanno già notato che Lake è andato da lei nonostante tutto, nonostante la sua gelosia e i suoi sospetti riguardo Henry, e fin qua ci siamo: vi do solo un consiglio, state attente a quando Lake fa qualcosa o meno, a quando la tocca oppure no, perché dice molto di più in quel modo :)
Comunque, vuole sapere cosa è successo, e all'inizio Caren non è molto propensa a raccontarglielo, anche se poi alla fine cede e amen! A quel punto, Lake, dopo un certo silenzio, la va a cercare in camera sua, in tutti i sensi, e in qualche modo cerca di tranquillizzarla, a modo suo: nonostante questo, si capisce come lui non sia per niente convinto delle motivazioni di Caren, tanto da mettere il dubbio anche a lei. Ora, io so che Caren è un po' confusionaria, però alla fine è difficile distinguere sentimenti ancora vivi da ricordi e rancori: o no? Di conseguenza, nel momento in cui si trova ad immaginare un possibile bacio di Henry, va completamente in palla perché non è sicura di cosa avrebbe fatto. E, aggiungerei, Lake questo lo sa bene!
Oddio sto facendo un casino ahahaha Vedete? È molto più semplice descriverle con i fatti, certe cose hahahaah La cosa essenziale che vorrei dire, è che il loro cercarsi e poi allontanarsi è dovuto ad una specie di arrendevolezza: entrambi sanno che il loro rapporto è in bilico, nonostante Caren voglia convincersi del contrario e Lake voglia sperare di no, quindi in un certo senso si "consolano" ma non si lasciano definitivamente! Ditemi che sono stata chiara, vi prego ahhahaah Se no, scrivetemi pure ed esponetemi tutti i vostri dubbi!!
Vi avviso: presto - prestissimo - succederà un po' un casino, quindi ci sarà da divertirsi - o no? - :)
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se è molto essenziale! E spero anche che mi farete sapere cosa ve ne pare, perché ci tengo abbastanza, a questo punto della storia :)

Un bacione e grazie immensamente per tutto!!!

 
 

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici - Summit ***




 
Capitolo sedici – Summit
 
 
Alle nove e mezza di sera, il “Morning Bar” è leggermente più chiassoso del solito. Fuori ormai è buio, ma gli spazi interni sono illuminati dalle varie lampade a muro che, sulle pareti, si alternano ai familiari ritratti dei grandi della musica. C’è solo un tavolo vuoto, nell’angolo, e Caren è affecendata ma attenta.
Mentre serve i clienti e carica la lavastoviglie, può facilmente distinguere la voce acuta di Sue e la risata profonda di Bob. L’ilarità instancabile di Enriqua e i commenti maliziosi di Annah. La mano di Vins che tamburella sul tavolo, al ritmo dell’ennesima canzone dei Beatles della quale Randy non si stancherà mai, e i rimproveri composti ma leggeri di Ginnie.
Sono tutti lì, seduti intorno a due tavoli avvicinati per creare abbastanza spazio e in attesa che Caren finisca il turno: Sue ha finalmente passato quell’esame di spagnolo con il quale stava combattendo ormai da un anno, e “Vaffanculo, stasera voglio ubriacarmi”. Il problema, però, è che, tra tutto quel chiasso, c’è un’altra voce ben riconoscibile, fin troppo: è chiara, a volte più forte delle altre e di sicuro più insistente. È quella di Henry.
Sue, che sa cosa sia successo tra lui e Caren, ha di proposito evitato di coinvolgerlo in quel piccolo programma improvvisato, ma Vins non è mai stato ugualmente previdente: da buon ingenuo quale è, non è riuscito a mentire alla zelante persuasione di Henry, quando ha trovato una sua chiamata sul cellulare mentre entrava nel “Morning Bar”. Il risultato è stato il sussulto di Caren e una certa tachicardia, alla vista di Henry che raggiungeva il gruppo poco dopo, e lo sguardo dispiaciuto di Sue, accompagnato da un leggero schiaffo sul braccio del suo ragazzo, in segno di rimprovero.
Adesso, Caren deve combattere con le mani che ogni tanto le tremano e con la paura che prima era sostituita dall’impazienza di finire di lavorare. Lo sta ignorando, è vero: lo ha ignorato quando l’ha salutata con un sorriso largo e gli occhi brillanti, quando ha fatto la sua ordinazione – e lei, come una stupida, si ricorda ancora quali siano i suoi gusti – e quando le ha fatto delle domande innocue ma che comunque non vanno bene, non per lei. Si sta sforzando di non guardarlo mai e di avvicinarsi solo nel caso debba portare qualcosa al tavolo, ma cosa succederà dopo? Cosa succederà quando non avrà più la scusa del turno al bar e dovrà stare per forza con lui – con gli altri – in un pub che non le darà via di uscita? Sarà forte abbastanza?
Questo non lo sa, né vuole darsi una risposta: sono passati due giorni da quando l’ha visto e non contava di incontrarlo molto presto, o almeno non quella sera. E lei vorrebbe solo che scomparisse, che non fosse mai entrato da quella porta e che non la guardasse mai, come invece fa in continuazione. Vorrebbe sentirsi forte, libera.
«Jenkins, perché non stacchi? – la richiama Randy all’improvviso, mentre asciuga con un panno dei bicchieri di vetro e mentre Caren pulisce una macchia di birra sul bancone. – I tuoi amici sono arrivati in anticipo, non farli aspettare».
Caren lancia un’occhiata ad Enriqua, che si è alzata in piedi per raccontare uno dei suoi aneddoti che fanno ridere Bob a bocca aperta e che ogni tanto fanno vergognare Ginnie, poi sorride e riporta lo sguardo sul suo capo. La barba leggermente più lunga e due piercing in più all’orecchio destro. «Manca mezz’ora» dice soltanto, scuotendo la testa e alzando le spalle. E in fondo le piacerebbe accettare la sua proposta, ma proprio non può. Non deve.
«Appunto, prop-»
«Ma ti vuoi levare?» lo interrompe Barbara, scocciata, con le mani suoi fianchi magri di Randy e la faccia stanca. Sta cercando di passare – invano –, tanto che anche Caren tenta di farsi più piccola per lasciare più spazio a sua disposizione, appiattendosi contro il bancone.
«E tu pensi di poterti calmare, o hai bisogno di una camomilla?» la riprende lui, facendosi da parte.
Barbara sbuffa e si massaggia le tempie. «È che sei sempre in mezzo, e i clienti non si servono da soli. Se-»
«Cristo, quando fai così…»
Randy lascia la frase in sospeso e si allunga verso di lei per metterle le mani sul collo e le labbra sulla bocca, in un bacio nervoso e dispettoso, ma anche ricco di quell’intimità che ormai condividono.
Caren sorride intenerita e ridacchia, quando Barbara si allontana con le guance rosse e alcune parole non molto dolci sulla punta della lingua.
«Dicevo… - ricomincia Randy, come se non fosse successo nulla. – Proprio perché manca solo mezz’ora, potresti finire prima. Io e la pazza, lì, ce la caveremo anche senza di te» scherza, indicando con un cenno del capo la sua compagna.
«Lo so, ma-»
Caren non finisce la frase – che comunque avrebbe contenuto una scusa solo per evitare Henry ancora per un po’ – e si volta alle sue spalle, perché il campanello sopra la porta del bar ha appena suonato e perché Lake è appena entrato.
Nonostante il suo cuore si stia già mettendo in moto per farle provare quel turbinio di emozioni che Lake le provoca, non può che immobilizzarsi e trattenere il respiro: si era dimenticata di lui. Si era dimenticata di avergli chiesto di passare dal bar, prima di uscire con Eli e gli altri, per conoscere i suoi amici. E ora è lì e c’è anche Henry.
Si morde le labbra e lo osserva, mentre lui si guarda intorno e si avvicina a capo basso verso il bancone: i capelli neri sono più ordinati del solito e gli occhi, colpiti dalla luce tiepida delle lampade a muro, sono ancora più chiari. Indossa i jeans scuri che hanno una tasca posteriore bucata e le vans dello stesso colore, sporche come sempre: il maglioncino blu notte contrasta con la sua pelle chiara e le labbra carnose sono una tentazione già troppo forte.
«Penso che staccherò adesso, allora» dice lei improvvisamente, iniziando a togliersi il grembiule e facendo il giro del bancone. Mormora un grazie riconoscente e Randy le sorride, poi si passa una mano tra i capelli biondi e un po’ arruffati ed è già di fronte a Lake.
«Hey» lo saluta, mentre sente la tensione scivolare via e il cuore farsi sempre più rumoroso.
Lake inclina le labbra in un sorriso e allarga le braccia per accoglierla sul suo petto, cosa che Caren non esita a fare. «Jordan, posso rimanere poco – spiega, baciandole il collo una volta, due volte, tre. – Eli mi aspetta qui fuori tra dieci minuti». E Caren annuisce ma gioca con le sue labbra, prima di rispondergli: le ha morse per l’ultima volta solo poche ore prima, ma non è mai abbastanza.
È felice che Eli non se la sia presa troppo per la loro storia: Lake le ha raccontato che di certo non gli ha fatto piacere, sapere di aver combattuto una battaglia persa in partenza, per di più contro il suo migliore amico e per la sua ragazza. Eppure, Eli è una persona buona e Caren l’ha sempre sospettato: la sua attrazione nei suoi confronti non era così intensa da fargli perdere il senno, né da ostacolare la sua amicizia con quello che reputa un fratello. “Beato te” ha detto infatti a Lake, dopo essersi un po’ arrabbiato e prima di sorridergli in segno di riconciliazione.
«Va bene – dice Caren, con le braccia a circondargli il busto. In realtà non va così bene, perché la sua presenza avrebbe potuto aiutarla ad affrontare quella di Henry, ma questo non vuole dirlo, perché si renderebbe ancora troppo debole di fronte a lui. – Vieni, te li presento» annuncia poi, con un groppo in gola che non sa bene come gestire e la mano che cerca quella di Lake, fredda e forte.
Ha solo il tempo di fare qualche parso verso i suoi amici, però, prima di doversi fermare perché Lake ha fatto lo stesso. Lo sguardo fisso davanti a sé e la fronte corrugata, che riflette il nervosismo. «Che cazzo ci fa lui, qui?» chiede a denti stretti, mentre Caren capisce che deve aver visto Henry.
Sospira profondamente e lo guarda negli occhi. «È arrivato poco fa, io non sapevo che sarebbe venuto. Vins si è fatto scappare di essere qui con gli altri ed eccolo qua» spiega, sperando di non far trasparire l’agitazione che questo le provoca.
«Caren…»
«Lo so – lo interrompe lei, avvicinandosi un po’ di più al suo viso. – Anche io vorrei che non ci fosse.»
Lake espira bruscamente e lancia di nuovo un’occhiata ad Henry – di sicuro – prima di chiudere gli occhi per qualche secondo e inumidirsi le labbra. «Viene con voi anche dopo?» domanda, con la voce bassa e la mano che cerca di lasciare quella di Caren, anche se lei non glielo permette.
«Sì… Sì, penso di sì.» Purtroppo.
Prima che lui possa dire qualcosa, perché è evidente che sia la sua intezione, lei si alza sulle punte e gli accarezza il collo con le mani, la bocca con le labbra. «Ignoralo – mormora. – Proprio come faccio io».
Lake è irrequieto, ma le stringe i fianchi in segno di minaccia e di preghiera, lasciandosi sfiorare e torturare.
Caren non sa come tranquillizzarlo, perché in fondo non sa come farlo nemmeno con se stessa e perché ormai conosce le sue paure, proprio come le proprie: è logico che non si senta sicuro ad avere Henry intorno a lei, né a sapere che passeranno un’intera serata insieme. Forse teme di vederla di nuovo in lacrime, forse teme di non vederla proprio più.
Magari potrebbe rinunciare ad uscire, chiedere scusa a Sue e rimanere a casa, giusto per non forzare la sua debolezza e per non far agitare Lake, ma, prima che possa proporlo, è proprio Lake a fare un passo avanti. «Andiamo» dice, senza guardarla e dirigendosi verso il tavolo dei suoi amici.
Adesso, la mano, gliela sta stringendo senza esitazione.
Enriqua è già in piedi, quando loro si avvicinano. «Eccovi qui! Ci chiedevamo quanto ci avreste fatto aspettare!» esclama, con la solita “s” pizzicata per il suo accento e gli occhi già lucidi per l’alcool. Bob sorride a Caren, intanto, con un braccio allungato sullo schienale della sedia di En.
«Dovevano salutarsi, i piccioncini» rincara Annah divertita, prendendo un sorso di birra dal suo boccale.
Caren a questo punto alza lo sguardo su Lake, che osserva uno alla volta tutti i suoi amici, e si chiede cosa stia pensando. Poi scuote la testa per qualche altra battuta e lo presenta come Lake, senza nessuna definizione: non perché non sia il suo ragazzo, ma perché in fondo si sa già e perché non vuole che Henry lo prenda come un dispetto.
«Oh, noi due ci conosciamo già» esordisce proprio Henry, come se Lake avesse davvero avuto voglia di stringerli la mano. Gli sorride falsamente, bevendo dalla sua bottiglia di birra rossa e senza interrompere il contatto visivo, mentre il moro stringe Caren a sé, con un braccio intorno al suo fianco. La ragazza, con le labbra costantemente tra i denti per la tensione, cerca con tutta se stessa di tenere il suo sguardo su Lake o almeno sui suoi amici: desidera con ogni fibra del suo corpo che finisca tutto molto presto.
«Purtroppo» precisa Lake, con un sopracciglio alzato e la bocca ridotta ad una linea dura. Sta fremendo per la rabbia e probabilmente vorrebbe dimostrare la sua riluttanza nei suoi confronti come piace a lui, con i gesti. Mentre En ridacchia per quel commento e Vins improvvisa un colpo di tosse, Henry – fortunatamente – decide di non ribattere. Sorride, di nuovo e come sempre, e scuote la testa.
Subito dopo, alza lo sguardo e «Car – chiama, facendola tendere come la corda di un violino. Caren spera che Lake non se ne sia accorto, perché sarebbe difficile convincerlo del fatto che quella reazione non sia dovuta a dei veri sentimenti ma solo al nervosismo. E sa che Henry ha di nuovo usato quel soprannome perché è dispettoso, perché si sta divertendo. – Allora? A che ora finisci il turno?»
Lake serra la mascella e stringe la presa sul suo fianco. «Ti ho già detto di non chiamarmi Car – lo ammonisce Caren, cercando di dimostrarsi più distante possibile. – Comunque ho appena finito» risponde, prima di voltarsi e allontanarsi, senza un apparente motivo.
«Io devo andare» le dice Lake, passandosi una mano tra i capelli. Gli occhi che esprimono tutto quello che lei probabilmente saprebbe dire solo a parole.
No, tu non te ne vai, vorrebbe ribattere Caren.
«Posso non andare con loro – esclama invece, con decisione. – So che ti dà fastidio che ci sia anche lui ed io-»
«No – la interrompe Lake, serio. – Non preoccuparti.» Poi si avvicina a lei, cosa che Caren di certo non si aspettava, anche se ci sperava, e inclina la testa leggermente di lato. Le accarezza i capelli, con una mano sulla nuca, e appoggia la fronte alla sua. Quando Caren si tende in avanti per accettare un suo bacio, godendosi il suo profumo e il suo respiro sulla propria pelle, lui però indietreggia. Fa un cenno del capo a Randy e alza una mano per salutare Barbara, ma non la guarda più, né dice altro.
Caren lo osserva allontanarsi con il cuore in agitazione e le mani insoddisfatte, perché hanno bisogno di ancora un po’ di quel contatto che tanto le fa star bene. L’attimo dopo, Enriqua è al suo fianco, ad impedirle di rimuginare troppo su quello che è appena successo, o che non è successo.
«Ma come, se ne è già andato?» chiede, con una punta di delusione nel tono di voce.
L’amica annuisce e «Non vengo – annuncia. – Non è una buona idea.»
La spagnola alza gli occhi al cielo e le afferra le braccia, per guardarla meglio negli occhi. «Ascoltami bene: se stasera non vieni con noi, gliela darai solo vinta. Henry penserà che sei troppo debole o, che Dio ce ne scampi, ancora innamorata, e chissà cos’altro. Perché invece non gli dimostri di essergli superiore? Fregatene e divertiti: lui è solo un deficiente e non dovrebbe avere il potere di impedirti di uscire con i tuoi amici. Avanti, tira fuori le palle!»
 
Quattro ore dopo, Caren è appoggiata al muro del “Summit”, un pub al centro di Worthing, e la testa le gira anche se ha gli occhi chiusi. Ha terribilmente caldo e le manca l’aria, ma è abbastanza lucida da sapere che il vestito che si è infilata nella macchina di Annah è salito un po’ troppo ed è da sistemare.
Uno dei bodyguard che controllano l’entrata del locale la guarda insistentemente da qualche minuto, non con secondi fini, ma semplicemente perché non ha un bell’aspetto: l’ultima volta che è andata in bagno, lo specchio le ha restituito un’immagine poco composta del suo viso. I capelli che non sono più ordinati nella coda improvvisata per il caldo, causato dalla folla di gente, e la matita leggermente sbavata.
Ha bevuto davvero tanto, forse troppo, e il divertimento è sempre stato direttamente proporzionale. Tranne quando Ginnie è scomparsa e si è creato un po’ di scompiglio, che si è risolto quando Vins l’ha ritrovata seduta in braccio ad uno sconosciuto con la bocca sul suo collo. All’inizio non pensava che sarebbe stato così, non pensava che sarebbe riuscita ad evitare Henry e a sgomberare la mente per concentrarsi su quanto cazzo vuole bene alle sue amiche, ma probabilmente è merito dell’alcool.
Pensa che sia merito dell’alcool anche Henry che esce dal locale e che si guarda intorno, con la camicia azzurra con i primi bottoni fuori dalle asole, i jeans chiari e la pelle umida di sudore perché anche lui è lontano dall’essere sobrio, gli occhi che la cercano e le labbra socchiuse. Però no, non è così, e quando Caren lo capisce, stringe la cinghia della borsetta che tiene a tracolla e cammina via. O barcolla.
Sente il rumore dei suoi tacchi sul cemento e si chiede se il bodyguard la stia ancora tenendo d’occhio, come se fosse importante. Svolta l’angolo e si trova in un vicolo, dove ha la possibilità di rabbrividire e di maledirsi perché non berrà mai più così tanto.
Quando la figura di Henry compare ad un paio di metri da lei, Caren non la riconosce subito ed è costretta a chiudere gli occhi, perché è sicura che chiunque sia non è possibile che abbia due contorni. Poi, però, si rende conto della situazione, in uno strano e fugace momento di lucidità, e sa di dover andare via, allontanarsi.
Il vicolo ha una sola uscita, quindi inciampa in avanti e cerca di camminare seguendo una linea retta, provando a non guardare Henry. Per tutta la serata è riuscita a far finta che non esistesse – anche se con fatica -, quindi perché non continuare? I suoi occhi su di lei l’hanno infastidita, all’inizio, ma poi sono stati confinati lontano dalla sua attenzione. Le sue parole, invece, sono presto passate dall’essere fastidiose, all’essere ignorate.
Il problema è che ok, è ubriaca, ma lui si sta davvero avvicinando con passi veloci e terribilmente sbagliati. Le si è davvero parato di fronte quando lei ha cercato di superarlo, non solo fisicamente, e la sta davvero baciando. Con le mani calde e grandi sul suo collo, ha le labbra sulle sue e continua a sussurrare il suo nome come se non potesse farne a meno. E Caren, che ha rischiato di cadere all’indietro per tutta quella foga, non sa perché si sia aggrappata a lui, anziché preferire il cemento freddo o addirittura una fuga degna da film: non sa perché stia ricambiando quel dannato bacio che sa di qualcosa di lontano ma ingiustamente vivo, né perché si stia lasciando guidare contro il muro dietro di sé.
È strano ritrovarsi immersa in un qualcosa che solo un anno prima era il suo pane quotidiano, il suo rimedio ad ogni problema e il motivo dei suoi sorrisi: forse è per questo che il suo corpo agisce di conseguenza, quasi spinto dall’abitudine che si risveglia sempre di più, e cerca di raggiungere le sensazioni che una volta quel tipo di contatto era in grado di suscitare. Si adatta a quello di Henry, premendosi contro di lui, e Caren sospira e geme, quando le stringe con forza una coscia per alzarla da terra.
Nonostante la confusione e i sensi che ogni tanto la tradiscono, di poche cose è certa: Henry ha ancora lo stesso profumo e lo stesso sapore, lo stesso modo di incastrarle le mani tra i capelli e lo stesso vizio di morderle il lobo delle orecchie, e sa ancora in quali punti sfiorarla o come adattarsi alle sue labbra. Ma è Caren a non essere la stessa, perché sì, effettivamente quello che sta succedendo le sta mandando in pappa il povero cuore che ha, ma no, non è l’alcool che le fa pensare a Lake.
«Lake» mormora, con gli occhi chiusi e le mani sul petto di Henry, per spingerlo via.
Ormai l’ha capito: lei, di Henry, non sa che farsene. Deve essere così, perché se no avrebbe sentito qualcosa di più, avrebbe sentito lo stomaco accartocciarsi e non solo sobbalzare, avrebbe avuto ancora le mani tra i suoi capelli e di sicuro non avrebbe avuto gli occhi di Lake davanti a sé. Per tutto quel tempo è stata così confusa dall’improvviso ritorno del ragazzo che per un po’ ha vissuto con lei e che si è lasciato vivere, da avere anche il dubbio di covare ancora dei sentimenti nei suoi confronti, nel profondo, sentimenti che si ostinava a cestinare appena cercavano di risalire a galla. Ma adesso, con l’alcool che le dà la forza che lui è in grado di toglierle, sa che questo bacio non è niente, non vale niente e non le ha fatto provare niente.
«Resta con me - ribatte Henry, respirando sul suo viso, mentre lei continua a dimensarsi goffamente. – Car, per favore. Quel Lake… Sappiamo entrambi che sono io, quello che vuoi».
«No» sussurra lei, anche se vorrebbe dire molto di più. Vorrebbe ammettere che fino a poco prima lo sospettava, ma che ora è sicura del contrario: nonostante la sbronza, nonostante le vertigini, il senso di colpa nei confronti di Lake è reale, palpabile. Lo è anche la voglia di vederlo e la mancanza che sente. Lo è il desiderio delle sue mani e la paura del suo giudizio. Lake è reale, Henry è solo un vecchio demone, un fantasma che ha temuto per troppo tempo, ma che ora si è sconfitto da solo.
Un altro colpo sul suo petto e Caren riesce a liberarsi, in precario equilibrio ma ancora in piedi. «Lasciami in pace» borbotta, più o meno conscia di quanto quelle parole possano essere poco credibili. Si allontana con la pelle d’oca sulle gambe e con una mano a sfiorare il muro di mattoni per non inciampare, e continua a camminare anche mentre la voce di Henry si fa di nuovo sentire. «Tornerai da me! Hai capito? Car, tornerai da me!»
Ma Car non c’è più.
In compenso, Jordan ha bisogno di trovare Lake. Per questo motivo, al posto di voltare a destra e tornare verso l’entrata del “Summit”, va dalla parte opposta, frugando a caso nella borsetta alla ricerca del cellulare. Nella sua mente offuscata e allo stesso tempo determinata, prevale incontrastata la volontà di chiamarlo e vederlo, baciarlo e rassicurarlo.
 
Quando Lake accosta bruscamente lungo la strada, Caren è seduta a terra e al suo fianco c’è il bodyguard del pub. Quest’ultimo, infatti, l’ha vista allontanarsi da sola - anche se ha fatto solo pochi metri - e ha creduto che fosse opportuno controllarla, dato che Worthing sarà anche una cittadina tranquilla, ma lei è comunque ubriaca fradicia e sono comunque le due di notte.
Ha la testa appoggiata al muro dietro di sé e gli occhi che non rimangono aperti, ma è sveglia e sente le voci intorno a sé.
«Cos’è successo?» chiede Lake, piegandosi su di lei con le mani nervose e il respiro accelerato, perché è stato svegliato in piena notte e ha la preoccupazione e l’adrenalina a mischiarsi nelle vene. La voce di Caren, al telefono, era confusa e terribilmente insolita, senza parlare delle parole che ha mormorato e che hanno piantato un macigno sul petto di Lake.
«Non lo so – ammette l’uomo, passandosi una mano sulla nuca pelata e poi sul pizzetto nero. – È uscita dal locale e si è allontanata, poi un ragazzo l’ha raggiunta e, quando lui se ne è andato, è venuta qua. Ho provato a portarla dentro, a chiederle se fosse sola o con degli amici, ma ha borbottato che stava aspettando qualcuno e poi si è messa a dormire. Non volevo lasciarla sola.»
«Hai fatto bene, grazie» esclama Lake, con il macigno che si appesantisce e il cuore che un po’ scalpita. Caren ormai è creta nelle sue mani, mentre si fa mettere in piedi senza protestare. Le piacciono così tanto le sue mani.
«Hai bisogno di aiuto?» gli chiede il bodyguard, spostando una ciocca di capelli dal viso della ragazza.
«No, grazie. Ora la porto a casa – risponde Lake, quasi atono, sforzandosi di non farla cadere. – Era qui con degli amici, ma li avverto io.»
«Ok, fate attenzione.»
Poi Lake e Caren rimangono da soli. Lui la aiuta a camminare fino alla macchina, senza parlare, e lei cerca di non addormentarsi di nuovo, anche se, appena in auto, non può combattere oltre.
 
Non ricorda bene come sia entrata in casa, o meglio, sa che l’ha accompagnata Lake e che l’ha sorretta per tutte le rampe di scale, che ha appena chiuso la porta e che l’ha fatta sedere sul divano per toglierle le scarpe, ma non ricorda i passaggi precedenti, né si sforza per farlo.
Ha la testa pesante e lo stomaco completamente in subbuglio, però ha anche delle parole sulla punta della lingua. «Ti ho tradito» mormora infatti, con la bocca impastata e le labbra che si inclinano in un abbozzo di sorriso, perché vogliono aggiungere un “ma”, anche se poi non viene nemmeno pronunciato.
Le mani che stavano armeggiando con i suoi tacchi si immobilizzano, e Caren non ha la forza di aprire gli occhi. Dopo qualche secondo, è senza scarpe ed è di nuovo in piedi, con un braccio intorno al busto e il profumo che finalmente è di Lake ad invaderla.
Mentre si siede sul letto e si lascia sfilare il vestito, cerca di riformulare i propri pensieri e di espirmerli a parole, provando ad appellarsi a quella minuscola briciola di lucidità che potrebbe ancora farle dire a Lake che lo vuole con tutta se stessa, che ormai ne è sicura. Eppure, per quanto si sforzi, proprio non ci riesce.
Così si abbandona sul materasso, permettendo a Lake di infilarle quel maglione che usa come pigiama e di coprirle il corpo rallentato con la coperta. Cerca con una mano il suo braccio e lo afferra, muovendosi verso di lui. «Non te ne andare, rimani qui» biascica, mentre sente il sonno conquistare sempre più centimetri di sé.
Ma Lake le prende la mano e gliela mette sotto il lenzuolo, non dice niente e Caren può solo contare i passi che li allontanano. L’ultima cosa che sente è lo sbattere furioso della porta di casa. 





 
 

Buongiorno a tutti (:
Dovevo assolutamente aggiornare oggi, o tra le feste e il resto vi avrei fatto aspettare troppo!
Da dove cominciare? La piccola irruzione di Henry non ha di certo fatto piacere a Caren, nè tantomeno a Lake: i timori di entrambi, poi, si sono concretizzati al "Summit", dove è successo un po' l'inevitabile. Vorrei precisare una cosa, riguardo quel bacio e la consapevolezza di Caren: forse ad alcune di voi potrà sembrare un po' insolito, nel senso che comunque lei era parecchio sconvolta ogni volta che aveva a che fare con Henry, ma in fondo è proprio questo il punto. Da quando lui si è fatto vivo, lei ha vissuto nella paura e nei ricordi di un amore passato e che le ha fatto più male di qualsiasi altra cosa: si è riempita la testa di "se" e "ma", dei sospetti di Lake e delle parole di Henry, e ovviamente era logico ipotizzare che i sentimenti ci fossero ancora, soprattutto in una situazione così confusa e improvvisa. Durante quel bacio, però, si è semplicemente trovata di fronte alla realtà: non ha provato nulla, se non un senso di familiarità e quasi nostalgia, e anzi, ha pensato sempre e solo a Lake, cosa che conferma ben altri tipi di sentimenti! Questo comunque non esclude che Henry avrà sempre un ruolo importante nella sua vita. Insomma, spero di essere stata chiara, ma immagino che farete anche voi il vostro commento (:
Riguardo Lake... Be', ovviamente la va a prendere, nel momento in cui lei, ubriaca marcia, lo chiama alle due di notte: e già quando il bodyguard accenna ad un ragazzo con lei, si insospettisce, figuriamoci cosa deve aver provato quando Caren ha ammesso di averlo tradito. (In realtà era l'inizio di un discorso in cui avrebbe voluto spiegargli di essere ormai sicura di volere solo lui, ma l'alcool ha un po' deviato quella intenzione, quindi Lake ha carpito solo quello.) Nonostante questo, continua a cambiarla e la sistema nel letto, ma - ovviamente - non rimane con lei.
Spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, così come i comportamenti dei vari personaggi! Questa volta Lake non è difficile da decifrare :) Per favore, fatemi sapere cosa ne pensate o quali sono le vostre previsioni riguardo cosa accadrà :)

Grazie di tutto, come sempre. Vi sono davvero riconoscente per tutto l'appoggio che mi date :)
Un bacione,
Vero.

Ah, BUONE FESTE :)

 

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette - Words ***




 
Capitolo diciassette – Words
 
 
Quando Caren apre gli occhi, il suo cellulare sta vibrando insistentemente da qualche parte, con la suoneria ad arrivarle ovattata alle orecchie. Mormora qualcosa, portandosi una mano alla fronte come se potesse far cessare quel fastidioso mal di testa con un semplice contatto: subito dopo, però, si mette a sedere con uno scatto ed un sussulto. Si guarda lentamente, accertandosi di essere in pigiama proprio come pensava, e con lo sguardo ripercorre i passi e le azioni di quella notte. È davvero successo.
«No, cazzo - sussurra incredula, corrugando la fronte e lasciando il cuore a battere più velocemente per la sensazione di disagio che l'ha appena invasa. - No, no, no no» continua a ripetere, mentre ignora i giramenti di testa e la nausea, solo per raggiungere dei vestiti puliti e fiondarsi nel bagno a darsi una sciacquata. Non le importa quante volte ancora Enriqua proverà a chiamarla, perché le chiamate perse sono effettivamente - e sfortunatamente - tutte da parte sua, perché non può perdere tempo. Sotto la doccia, ha l'opportunità di ripensare a quanto stupida sia stata la sera prima e a che gran casino abbia combinato: i ricordi sono ovviamente molto sbiaditi, ma ce ne sono alcuni - proprio quelli - che sembrano essere più forti dei residui della sbornia. In un lampo confuso, è di nuovo con la schiena contro la perete del "Summit" e con le labbra su quelle di Henry, tra le mani premurose di Lake e davanti a lui mentre gli dice di averlo tradito.
Le viene da vomitare.
È consapevole di come quella sua frase sconnessa possa esser stata fraintesa, perché effettivamente lei non era lucida per formularla meglio, nè per aggiungere ciò che più le premeva che lui sapesse: proprio per questo deve trovarlo. Deve poterlo guardare negli occhi, deve farsi credere, deve averlo con sè.
 
Come temeva, Lake non risponde al telefono.
Sul posto di lavoro non c'è, e Caren si morde il labbro inferiore furiosamente.
Sono quasi le due, e Caren inizia a fare amicizia con la sua segreteria telefonica.
Non c'è nemmeno a casa, e Caren vorrebbe prendere a pugni il citofono e poi anche se stessa.
Non sa più dove cercarlo, ma ne ha un estremo bisogno: si sente terribilmente in colpa e allo stesso tempo sollevata per non aver più il fantasma di Henry a tormentarla, tanto da non sapere a quale emozione dare spazio. Per ora, però, il pensiero di aver probabilmente perso Lake le fa mancare il fiato, e questo è tutto quello su cui riesce a concentrarsi. Nella sua testa, c'è spazio solo per quel tarlo fastidioso e insistente, che la sottopone ad una lenta tortura.
Vorrebbe avere dei ricordi chiari e precisi, ricchi di dettagli ma soprattutto di indizi: vorrebbe aver ben presente il viso di Lake mentre la trova raggomitolata su un marciapiede o mentre lei gli confessa in modo equivocabile ciò che è successo al “Summit”. Vorrebbe sapere quanto gli abbia fatto male, ma può solo immaginarlo e pentirsene.
Mentre passeggia per Worthing, con il cellulare rigorosamente attaccato all'orecchio, le viene un'idea e finalmente sa dove andare. O almeno spera di essere sulla strada giusta. Come ha fatto a non pensarci prima?
Non ci mette molto ad arrivare al campo da basket dove lei e Lake erano stati, la prima volta che si erano visti fuori dal bar, nonostante il ritardo dell'autobus e un po' di infimo traffico. Già da lontano, cerca di assottigliare gli occhi - le tempie che ancora le pulsano per il mal di testa e il viso struccato e pallido - e di avvistare i capelli corvini che vorrebbe solo stringere tra le mani.
E lui è lì, esattamente al centro del campo, a palleggiare con lo sguardo su quella sfera arancione e un po' rovinata che Caren sa essere la sua fonte di sfogo. Sospira pesantemente e accelera il passo, cercando di formulare un discorso che abbia un senso e che non sia solo pieno di "perdonami" e "mi dispiace": glielo deve e sa già che non sarà facile, ma ci proverà con tutta se stessa, perché ne vale la pena.
Ha voglia di gridare il suo nome a pieni polmoni, solo per sfogarsi e fargli capire il suo stato d'animo, ma ha quasi paura di incontrare i suoi occhi, paura di quello che potrebbe trovare al loro interno. Perciò si avvicina lentamente, con i passi leggeri e le mani che stringono nervosamente la cinghia della borsa nera che tiene sulla spalla destra: ad un paio di metri da lui, ne osserva la schiena contratta e parzialmente nascosta dalla canottiera bianca e sudata. Le braccia magre sporche di inchiostro e i pantaloncini viola che più volte gli ha visto addosso.
Caren tiene le palpebre abbassate per qualche istante, poi inspira a lungo e si dà coraggio. «Lake» quasi sussurra.
Lui si immobilizza e blocca la palla tra le mani. Non risponde, nè si volta a guardarla, anche perché sicuramente l'ha già riconosciuta e sicuramente non vuole avere niente a che fare con lei.
«Lake» ripete, facendo qualche passo avanti. La sua voce tremolante sembra quasi una preghiera, una supplica che però non viene accolta.
Lentamente, gli passa di fianco, inspirando il suo profumo ormai mischiato al leggero odore di sudore, e si ferma proprio davanti a lui. Alza lo sguardo nel suo, ma a questo punto avrebbe preferito rimanergli alle spalle, dato che la sfumatura dei suoi occhi la sta uccidendo, per quanto è colma di rancore. Nonostante questo, sa di meritarselo, quindi non interrompe il contatto visivo, quasi a volergli offrire tutto il suo rimorso, tutta la sua voglia di spiegare e rimediare: Lake, però, non reagisce in alcun modo.
Caren serra la mascella e cerca di non pensare al suo stomaco accartocciato su se stesso sia per il post-sbornia sia per il dolore: ha bisogno di toccarlo, di sentire la sua presenza e di farsi sentire, perché sa che mille parole non varranno ugualmente, per lui. Allunga un braccio esitante, continuando a mantenere le iridi fisse in quelle torbide che le stanno davanti.
«Non toccarmi» dice Lake, anzi, quasi lo ringhia. E Caren può sentire il proprio cuore contorcersi con una smorfia di sofferenza, perché se Lake rifugge un contatto vuol dire che la situazione è ormai peggiore di quanto lei temesse: in altre condizioni, con altre persone e in un contesto diverso, quella semplice frase sarebbe stata pronunciata per rabbia, per astio, e nessuno ci avrebbe rimuginato troppo su. Ma loro sono Caren e Lake, ed è stato proprio lui a inclinare le labbra per far uscire una sillaba alla volta: questo significa che l'ha chiusa fuori, che le ha imposto un confine invalicabile che non è mai stato così tortuoso.
Con ancora la mano sospesa a mezz'aria, lei boccheggia qualcosa e non sa come comportarsi: è senza parole - lei! - e non può nemmeno sfiorargli le braccia per dargli un po' di conforto, o per guadagnarne per se stessa.
«Vattene» continua Lake, continuando ad indossare quella maschera di serietà che respinge iperterrita qualsiasi tentativo altrui di decifrarne i segreti.
Caren scuote la testa e sussurra un "no" stentato, stringendo i pugni lungo i fianchi. Come potrebbe andarsene e lasciarlo solo? E restare sola?
«Vattene» ripete lui, questa volta con più decisione, lasciando trasparire un lampo di rabbia dalla sua mascella tesa. È sull’orlo di abbattere tutto il suo contegno, lo si può capire dai suoi movimenti ridotti al minimo indispensabile e al loro nervosismo: proprio come quando avevano discusso per quel pranzo con Eli, Lake sta trattenendo tutto dentro di sé, ma non lo farà ancora per molto.
«Non me ne vado - ribatte lei, ostinata, mentre lotta contro se stessa per mantere la calma e non lasciarsi sopraffare dalle emozioni. - Non puoi chiedermelo» aggiunge, anche se non è così.
«Non ti voglio qui! - urla Lake, facendola indietreggiare di un passo. - Perché cazzo non vuoi capirlo?»
Qualsiasi suo tentativo di nascondersi dietro una malcelante indifferenza è ormai andato in fumo, come previsto: è crollato, riversando fuori di sè ogni briciola di frustrazione che gli sta tendendo i muscoli e che sta facendo respirare Caren più velocemente. Ma evidentemente è troppo da sopportare, per questo si volta con la palla sotto il braccio e cammina via velocemente.
Lei sbatte le palpebre più volte e impiega qualche istante a metabolizzare la sofferenza con la quale si è appena scontrata e che ha provocato con le proprie mani, così come il fatto che lui se ne stia andando.
«Lake, ti prego, ascoltami» prova a fermarlo, correndogli dietro e bloccandogli di nuovo la strada. Lui espira profondamente e guarda oltre il suo corpo, come se non ne sopportasse nemmeno la vista.
«Non ti ho tradito-»
«Ma per favore» sbuffa lui, avanzando per superarla. Caren, però, alza le mani tra di loro, quasi a volergliele appoggiare sul petto per fermarlo, ma non lo tocca, improvvisamente spaventata dall'idea.
«Non ti ho tradito, nel senso che non ci sono andata a letto - si corregge. Eppure, anche così è una grande contraddizione. - Stanotte io... Non volevo dire quello, volevo dire che mi ha baciata e che io ho ricambiato, ma ero ubriaca e subito dopo l'ho respinto perché non-»
«Non le voglio le tue stronzate. Non ti voglio ascoltare e non me frega un cazzo di quello che è successo o di quante volte ti ha ficcato la lingua in gola» è la risposta sputata tra i denti e accompagnata dalle sopracciglia corrugate, nervose.
«Invece mi devi ascoltare - riprova lei, con il corpo a fremere ad ogni fallimento ad ogni respiro agitato di Lake. - Devi farlo perché io non voglio Henry, io... Ormai l'ho capito, l'ho sentito... mentre mi baciava. Pensavo a te e questo... Questo significa tutto, v-»
«No, questo significa solo che eri talmente ubriaca da non distinguere nemmeno con chi te la stavi facendo!» sbotta lui, gesticolando. Le vene del collo, proprio sotto la rondine tatuata, iniziano a ingrossarsi, e lei non è nemmeno più in grado di formulare una frase di senso compiuto. Persino le sue fidate parole la stanno mettendo in difficoltà.
«Non è vero! È proprio per questo che l'ho respinto, che ti ho chiamato, anche se ero ubriaca e anche se non mi reggevo in piedi! Sapevo che eri tu quello che volevo, non Henry, nè il suo ricordo!»
Ormai i toni di voce sono alterati, quasi come se fossero direttamente proporzionali al grado di convincimento.
«Ma che cazzo stai dicendo?! - la rimbecca Lake, sovrastandola. – Sei uscita con loro e ti sei ubriacata pur sapendo che lui ci sarebbe stato per tutta la sera, che ci avrebbe provato spudoratamente come ha sempre fatto-»
«Se non volevi che andassi, avevi solo da dirmelo!»
«Io non sono il tuo baby sitter! - Lake ha gli occhi infuocati dal dolore e dalla rabbia, e per Caren sono una punizione che va ben oltre i livelli di sopportazione. - Devi essere tu a capire i tuoi limiti, tu a capire fin dove puoi spingerti! Cosa ti aspettavi?! Che ti chiedessi di stare a casa per paura che potesse succedere qualcosa?! Sarebbe stato troppo facile, non credi? Avrebbe solo rimandato l'inevitabile, perché cazzo se me lo aspettavo, che da un giorno all'altro ci saresti ricaduta!»
«Ah, è così? E dov'è finita la tua fiducia? Hai mai creduto ad una sola parola di quello che ti ho detto?!»
Caren sa perfettamente che quello non è il momento adatto per fare la vittima, ma è più forte di lei: le parole di Lake le danno l’impressione che lui non abbia mai creduto fino in fondo alle sue o alle sue rassicurazioni. E ok, sa anche che sarebbe stato legittimo, ma pensava che tra di loro ci fosse sincerità e rispetto: mentre gli parlava di Henry, con il cuore in mano e stando attenta a non promettere niente che avrebbe potuto non mantenere, credeva che Lake avesse fiducia in lei. A questo punto, invece, è come se lui l’avesse solo assecondata, con leggerezza e in attesa di un suo inevitabile sbaglio.
«No!» è la risposta gridata e accompagnata da un passo avanti.
Caren inspira a fatica e serra le labbra, insieme ai pugni. Va contro la sua natura e non risponde, troppo impegnata a valutare la delusione che inizia a pervarderle le vene e a tenere a bada la consapevolezza di meritarselo. È combattuta tra due stati d’animo opposti, ma che a quanto pare possono coesistere ed essere ancora più distruttivi.
Poi cambia idea e decide di spezzare quel silenzio carico di tensione. «Non ti ho mai mentito» sussurra, abbassando lo sguardo. Perché tu non mi hai mai creduto?
È la verità: non gli ha mai dato false speranze, né si è crogiolata in grandi illusioni, anzi, si è sempre fatta più problemi di quanto sarebbe stato lecito. Dentro di sé ha sempre saputo, con più o meno convinzione, di non provare amore per Henry, non più: che poi lui facesse di tutto per confonderla, usando come arma il loro passato e il suo dolore, era un altro discorso.
Lake le sta di fronte con la mascella serrata, tanto che i denti quasi stridono tra di loro, ed il suo petto continua a muoversi velocemente e a scandire i secondi di silenzio e di pensieri. «Vorresti dirmi che sono io quello che ha sbagliato, tra noi due?» chiede, assottigliando gli occhi e passandosi la lingua sulle labbra screpolate.
Caren torna a guardarlo, ma non parla.
«Eppure sei tu quella che mi ha rempito di parole e poi, alla prima occasione, si è fatta il suo ex in un cazzo di vicolo mentre era ubriaca fradicia! – esclama, con la rabbia ad aumentargli il tono di voce. – E mi hai chiamato, mi hai chiamato dopo esser stata con lui… Magari nemmeno ti ricordi di essertelo scopato!» Le sopracciglia folte gli si aggrottano in un’espressione di disgusto.
«Ti ho già detto che non è successo niente oltre quello stupido bacio! – lo contraddice Caren, senza sapere quali altre parole usare. – È vero… Lake, aspetta! È vero, non avrei dovuto bere così tanto e non avrei dovuto assecondarlo, ma non ero lucida ed è successo tutto così velocemente, io… Ho sbagliato, ma mi è servito per capire finalmente che avevo ragione, che non voglio avere Henry di nuovo nella mia vita.»
Ormai gli occhi le bruciano per lo sforzo di trattenere le lacrime e di esprimere quella verità alla quale lui si ostina a non credere.
«Perfetto – esclama Lake, scuotendo la testa con le labbra increspate da un sorriso incredulo. – Adesso per capire i propri sentimenti c’è bisogno di questo. Allora ben venga! Ora sei sicura? Perché se hai ancora qualche dubbio posso accompagnarti da lui, eh? Che ne dici?!»
«Smettila! – urla Caren, sbattendo un piede a terra mentre la prima e indiscreta lacrima le solca il viso. – Smettila! Credi che io sia felice di quello che ho fatto? Che mi sia divertita? Ti sbagli, ti sbagli di grosso! So di aver sbagliato e ti sto chiedendo scusa per questo, ma so anche che è te che voglio. Solo te!»
Caren respira profondamente e sente il petto più leggero, anche se le sembra di non aver detto niente di nuovo: è costretta a fare i conti con una decina di emozioni diverse, che si divertono a prendere il sopravvento l’una dopo l’altra facendola sentire sull’orlo di un’esplosione. Lake è accecato dalla rabbia e non è più in lui: non sa più come prenderlo, come farlo calmare e come farsi credere, anche se si sta offrendo in tutta la sua sincerità, anche se sta ammettendo i suoi errori e gli sta urlando contro di non volere nessun altro. Ed è geloso, lo è di sicuro, perché, se il solo pensiero di lei a pranzo con Eli lo ha mandato in bestia, come può sentirsi adesso? Caren è consapevole di tutto questo e del fatto che è lei ad essere nel torto, ma è anche frustrata, perché non comprende come faccia Lake a non capire che c’è dell’altro, che ci sono loro due e che Henry non c’è più.
«Sai una cosa? Non mi interessa – dice lui, questa volta con più calma. Eppure è come se stesse urlando a pieni polmoni, perché i suoi occhi parlano più di lui. – Le tue sono solo parole: lo sono sempre state. Non te ne rendi nemmeno conto ed io sono stanco: quante volte ho dovuto sopportare di vederti a pezzi per un altro? Quante volte ti ho vista piangere e dirmi che no, figurati se provavi ancora qualcosa per lui? E quante volte ho cercato, con tutto me stesso, di crederti? Come pretendi che ora io mi fidi di te? Chi mi dice che domani quel coglione non si ripresenterà alla tua porta e tu ti renderai conto di amarlo? Non mi interessa di quello che dici, non mi interessa più, perché fino ad ora mi hai sempre dimostrato il contrario» conclude, voltandosi subito dopo senza esitare nemmeno un istante di fronte ai suoi occhi arrossati o ai suoi singhiozzi sommessi.
Caren sente tutto dentro di sé scricchiolare e iniziare a cedere. «Lake!» lo richiama, facendo un passo avanti. Vorrebbe correre e stringerlo a sé, baciargli il collo e sentire le sue mani su di sé, in un muto perdono, ma sa che non succederà. Non ora di sicuro.
«Lake, per favore!» riprova, con la voce rotta. Lui, però, continua a camminare, ad allontanarsi imperterrito e deciso. Si porta via i suoi occhi carichi di tutto, proprio tutto, e le sue labbra che sono una lama a doppio taglio. Porta via se stesso e Caren lo sente, tanto che è costretta a piegarsi su se stessa e a chiudere gli occhi, mentre si siede sul cemento fresco e terribilmente privo di consolazione.





 
 

Buoooooongiorno!
Come avete passato le vacanze? Spero meglio di me, sinceramente hahah 
Ma comunque, passiamo a questo capitolo: premetto che mi è stato un po' difficile scriverlo, forse perché Caren e Lake sono fin troppo diversi, quindi in certe cose ho dovuto fare più attenzione, ma spero che non sia venuto troppo una cagata come temo!
Non credo ci sia molto da commentare: Lake è evidentemente MOLTO arrabbiato, ma soprattutto stanco. E Caren non sa come fare o cosa dire per ottenere il suo perdono o anche solo per spiegarsi. Voi cosa ne pensate?
Ovviamente ci saranno altri confronti, più o meno "intensi" come questo, e ricomparirà anche Eli, del quale non mi sono affatto dimenticata :)
E niente, mi piacerebbe sapere le vostre impressioni/ipotesi!
Vi ringrazio, come sempre, di tutto e vi lascio i miei contatti, per qualsiasi cosa:
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Un bacio,
Vero.

 
 

 

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto - Break-even point ***




 
Capitolo diciotto – Break-even point
 
 
Sono le quattro e mezza del pomeriggio e Caren vorrebbe con tutta se stessa che il “Morning Bar” fosse affollato, pieno di persone esigenti che la farebbero sgambettare da una parte all’altra del locale senza darle l’opportunità di fermarsi a pensare. Invece è costretta a stare seduta dietro il bancone, sullo sgabello che minaccia di farla cadere perché ha una gamba in legno molto meno stabile delle altre: l’ultimo cliente se ne è appena andato, dopo aver preso un semplice caffè macchiato che non l’ha per niente distratta, e lei è rimasta di nuovo sola con i suoi logoranti pensieri.
Randy è in precario equilibrio su una scala in metallo a cinque pioli, con le braccia magre tese verso l’alto e gli occhi sottili, mentre cerca di aggiustare un altoparlante in un angolo che ha smesso di funzionare la sera prima. Ogni tanto si fa sentire con un borbottio infastidito o qualche imprecazione, muovendosi nervoso sulla scala che cigola.
Barbara le sta di fianco, con i fianchi larghi appoggiati al bancone e le braccia incrociate al petto, mentre sbadiglia e sbatte le palpebre più volte per combattere la stanchezza: tra meno di un’ora lascerà il bar in mano al suo compagno e a Caren, per andare a riposare dopo aver iniziato il turno alle sette del mattino e per poi tornare più tardi quella stessa sera. A volte Caren proprio non riesce a capire come facciano a reggere certi ritmi, come facciano a non aver bisogno di un aiuto in più, oltre lei.
«Quindi, fammi capire – esordisce Barbara, portandosi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio sinistro e corrugando leggermente la fronte. – Ieri è stata l’ultima volta che vi siete visti o comunque parlati?» chiede, andando a toccare proprio quel tasto dolente.
Caren tiene lo sguardo basso, sulle sue Superga grige e un po’ malandate, e fa finta di non aver sentito il disagio colpirla in pieno viso. «Hmhm» risponde soltanto, increspando le labbra.
Non che non abbia chiamato Lake, figuriamoci. L’ha chiamato e richiamato, sperando di ottenere una risposta o – nel caso migliore – un incontro per parlare o urlare ancora: eppure, dopo aver premuto il tasto verde del telefono per dieci volte, sparpagliate nell’arco della giornata, e dopo aver scritto quei tre messaggi che ha dovuto eliminare per ricordarsi quanto siano stati patetici, ha smesso di cercarlo.
«È giusto che io gli lasci dello spazio, no?» domanda esitante, a bassa voce. La verità è che l’ha capito da troppo poco tempo, dato che fino alla sera prima non si è staccata dal telefono nemmeno per andare in bagno, eppure le è già insopportabile questa storia dello spazio. Come fa a dargliene? Non ne è capace.
Barbara ha appena finito di ascoltare la storia più o meno dettagliata di quello che è successo due giorni prima, in silenzio e con le espressioni del volto a parlare al suo posto, perché ha insistito molto per sapere la causa di quelle accennate occhiaie sotto gli occhi castani della sua dipendente.
«Evidentemente è quello di cui ha bisogno» risponde la donna, annuendo convinta.
«Sì…» sospira Caren. Lo sa che è colpa sua e, insomma, cosa può pretendere? Sa anche che dovrebbe smettere di essere così apprensiva e impaziente, che dovrebbe accettare le conseguenze delle proprie azioni, però si innervosisce mentre il suo corpo freme per farle presente che c’è dell’altro: ha sbagliato, ha commesso un errore e Lake ha ragione, ma perché non lei non riesce a dimostrare quello che sente dentro? È smaniosa di farlo perché non riesce più a contenerlo, ma non può lasciarlo uscire perché Lake non lo vuole accettare.
«Mi dispiace tesoro, questa volta hai fatto un po’ un casino – continua Barbara, addolcendo la voce in quella che dovrebbe essere una rassicurazione che nasconde un rimprovero. – Vedrai che riuscirai a riprendertelo, però. Lake è solo molto impulsivo e testardo, lo sai meglio di me, ed è evidente che tu non lo stia prendendo in giro, per quanto lui ora possa pensare che sia così».
«Non mi permette di dimostrarglielo – ribatte Caren, alzando finalmente lo sguardo per incontrare gli occhi attenti che la scrutano dall’alto. – Vorrei solo che-»
«Cliente in arrivo!» la interrompe Randy, con la voce un po’ alta per avvertirle ma comunque impastata perché sta tenendo tra i denti un giravite.
Entrambe spiano verso la vetrina e Caren per poco non cade per davvero da quel dannato sgabello. Non può essere vero, deve essere uno scherzo. Si alza di scatto e mormora un “no” che sembra più un respiro preoccupato, mentre Barbara assottiglia lo sguardo e «Quello l’ho già visto», commenta.
Certo, certo che l’ha già visto.
«È Henry» conferma Caren, deglutendo mentre il ragazzo si avvicina sempre di più alla porta. Senza pensarci due volte, cammina a passi svelti oltre il bancone e raggiunge la porta prima che lui possa entrare: fuori l’aria è tiepida ma lei rabbrividisce lo stesso, Henry la guarda stupito e fa un passo indietro mentre lei ne fa uno avanti, per invitarlo implicitamente ad allontanarsi dall’entrata. Qualsiasi cosa stia per succedere, non vuole che succeda sotto gli occhi di Randy e Barbara.
«Cosa fai qui?» gli chiede, guardandosi intorno e stringendosi le mani sulle braccia lasciate scoperte dalla t-shirt che all’interno del bar era sufficiente. Hanno fatto qualche passo lungo il marciapiede: Henry ha i capelli arruffati e gli occhi sfrontati come sempre, un maglione largo e nero che gli cade morbido sui fianchi magri e un paio di jeans scuri che contrastano con il bianco delle sue Nike.
«Cosa ci faccio qui? – ripete lui, inclinando le labbra in un sorriso. – E me lo chiedi?»
«Devi smetterla – lo riprendere lei, fiera della sua determinazione. Si sente un po’ più forte nello stargli davanti, forse perché ha affrontato quella confusione che la teneva in pugno fino a qualche giorno prima, forse perché ora sa cosa si prova a baciargli di nuovo la bocca. – Devi smetterla di sbucare dal nulla senza nemmeno avvertire: limitati a starmi lontano come hai fatto durante l’ultimo anno, per favore».
È riuscita davvero a dirlo?
«Se ti chiamassi tu non mi risponderesti, quindi così è molto meglio – spiega Henry, con una tranquillità che un po’ la destabilizza. Perché non capisce le parole che lei continua a ripeterle? – E comunque non credo che tu voglia davvero che io ti stia lontano, di certo non dopo l’altra sera».
Ecco, appunto.
«Henry… - sospira Caren, prendendo una boccata d’aria. È un po’ a disagio, ma è un disagio diverso da quello delle altre volte, più propositivo e meno arrendevole o spaventato. – L’altra sera ho fatto un gigantesco sbaglio, ok? Quel bacio non è significato niente, tu non significhi più niente per me, quindi vorrei solo che mi lasciassi in pace. Puoi… Puoi farlo?»
Il cuore le batte un po’ più forte mentre realizza di aver davvero pronunciato quelle parole con una decisione che non credeva di poter sostenere: si sente così stupida per essersi lasciata confondere ed ingannare dal ricordo di Henry, dal loro passato, da aver voglia di schiaffeggiarsi e poi schiaffeggiare lui.
Henry serra la mascella e alza un sopracciglio, poi si distrae guardando alla sua sinistra, verso la strada poco trafficata. «Ah, eccolo qui» esclama, aprendo le braccia in segno di accoglienza e le labbra in un saluto beffardo e falso.
Caren sbatte le palpebre e corruga la fronte, si volta e vede Lake attraversare la strada con passi veloci che lo vogliono guidare verso di loro: non sapeva nemmeno che fosse in turno, o che dalla vetrina del negozio avesse visto Henry. Trattiene il fiato e si muove spontaneamente in avanti: Lake ha gli occhi sottili puntati sul ragazzo che le sta di fianco, ha i pugni stretti e i jeans strappati abbinati ad una canottiera bianca che gli lascia scoperte le braccia candide e tatuate. A cosa sta pensando? Ha frainteso tutto?
Sta ancora cercando di digerire l’intruglio di emozioni che l’ha investita nel rivederlo, anche se solo dopo un giorno, quando tutto avviene in un secondo: i suoi occhi hanno appena il tempo di seguire la scena, che Lake si fionda su Henry e lo aggredisce con un pugno in pieno viso. Lo afferra per il maglione e lo fa indietreggiare fino al muro dietro di lui per colpirlo di nuovo, approfittando di averlo colto alla sprovvista.
«Lake, no!» grida Caren, avvicinandosi a loro con il respiro mozzato in gola e le mani che tremano perché non sa cosa fare. Eppure lui non si ferma e, mentre l’altro cerca di riprendersi da quegli impatti sonori e dolorosi appoggiandogli i pugni sul petto per allontanarlo, Lake lo sbatte di nuovo contro il muro. Le iridi torbide che sì, alla fine possono davvero essere profonde come un lago scuro, e i movimenti nervosi, carichi di rabbia.
«Che c’è? – sputa Henry, reagendo con più forza e combattendo contro la presa che lo sta costringendo contro i mattoni scuri. – Credi ancora di avere dei diritti su di lei anche se l’altra sera me la sono portata a letto?»
Caren spalanca gli occhi e sente la rabbia percorrerle velocemente il corpo, rischia quasi di unirsi a Lake in quell’infantile comportamento aggressivo e vendicarsi, ma sa che c’è un’altra priorità: lui, infatti, ha emesso un respiro sonoro di dolore o forse solo di ira allo stato puro.
Un altro pugno, un altro ancora.
«Basta!» riprova lei, mettendogli una mano sulla spalla e provando a separarlo da Henry, provando a farsi ascoltare.
Un altro pugno.
«Smettetela!»
Stranamente riesce a farsi ascoltare, anche se non è pienamente certa che sia stato merito suo: Lake si allontana bruscamente, svincolandosi altrettanto bruscamente dalla sua presa, e continua a tenere lo sguardo fisso su quello che sembrava tanto il suo avversario su un ring, prima di voltare le spalle ad entrambi e attraversare di nuovo la strada.
Non si è soffermato su Caren nemmeno per un secondo.
«Pezzo di merda» scatta Henry, pulendosi il labbro inferiore sporco di sangue e facendo un ampio passo avanti come per raggiungere la causa del suo zigomo arrossato. Caren si muove esattamente nello stesso momento, piantandosi davanti alla sua figura e cercando di mantenere un certo grado di tranquillità: lo trattenie con le mani piccole sul suo petto ansante, con lo sguardo fisso su di lui e il cuore rivolto verso qualcun altro.
«L’unico pezzo di merda qui sei tu – dice soltanto, mentre lui continua a muovere gli occhi da lei al negozio alle sue spalle, dove probabilmente Lake è già entrato. – Quindi per favore, vattene via» lo prega, con la voce ridotta ad un sussurro troppo agitato. Vorrebbe così tanto colpirlo in pieno viso per quel gesto così vendicativo, per quelle falsità rivelate al momento sbagliato.
«Che cazzo significa “vattene via”? Quello è un fottuto psicopatico!» ringhia lui in risposta, passandosi la lingua sulla ferita al labbro.
«E tu cosa sei? Gli hai mentito! Perché diavolo devi sempre mandare tutto a puttane? – quasi grida, tenendo ancora le mani sul suo petto. Non vuole perdere completamente la pazienza, perché è impaziente di correre da Lake e spiegargli tutto e non ha tempo da perdere. – Vattene via».
Henry respira profondamente, con il viso contratto in un’espressione di incredulità e rabbia cieca, poi la guarda intensamente e sputa alla sua sinistra qualche goccia di sangue prima di pulirsi la bocca con una mano e una smorfia di dolore.
«Vaffanculo - sussurra con disprezzo, allontanandosi da lei e permettendole di tornare a respirare. – Andate a ‘fanculo tutti e due».
 
Dalla vetrina può già vederlo intento a sistemare qualcosa accanto agli scaffali dedicati al calcio, anche se sembra più pensieroso che dedicato al suo dovere: Caren chiude gli occhi e cerca di mantenere il respiro il più regolare possibile, perché sa che le serviranno sia ossigeno che energie. Come può Henry aver davvero detto quella gigantesca menzogna? Perché è sicura che lo sia: quella sera era ubriaca, è vero, ma può ricordare chiaramente l’incontro con Henry. È tutto confuso e mancano dei pezzi, ma no, non ha fatto sesso con lui in quel vicolo.
Quando entra nel negozio, non vede Sam né clienti. Lake si volta per guardare chi sia appena arrivato, ma torna subito dopo ai guantoni da portiere tra le sue mani: sono a qualche metro di distanza, ma si può già notare il suo petto che è ancora scosso da respiri nervosi, o le nocche della mano destra arrossate.
Caren fa dei passi lenti e forse anche fin troppo piccoli, probabilmente tentando di reperire le parole adatte da dire: alla fine, però, riesce a pronunciare solo le essenziali.
«Henry ti ha mentito – dice flebilmente, ormai a nemmeno un metro da lui. Sul suo viso dalla carnagione così chiara, c’è un marcato graffio che occupa gran parte del suo zigomo. I suoi occhi la evitano. – Tu sai che è così» continua. Deve saperlo.
Eppure Lake non risponde, posa i guantoni al loro posto e le dà le spalle per dirigersi verso la cassa.
«Lake» lo richiama.
«Ho dei clienti» sono le sue rapide parole, appena mormorate. Caren sospira, camminando dietro alla sua schiena contratta.
«Non è vero – lo contraddice, guardandosi di nuovo intorno. In quella corsia sono le uniche due persone, ed è quasi sicura che non ci sia nessun altro nell’intero negozio. – E tu non puoi davvero credere ad Henry anziché a me» aggiunge. La solo eventualità le procura uno strano senso di delusione e rancore.
Lake si ferma all’improvviso, tanto da farla quasi sobbalzare, poi si volta e fa un paio di passi per arrivarle di fronte: i loro visi si sfiorano e lei è costretta a trattenere il respiro per quella vicinanze inaspettata.
Per un attimo si immerge nelle iridi blu che la sovrastano, che la rimproverano e che la guardano con disappunto. «Perché non dovrei credergli? – sussurra a denti stretti, faticando a mantenere la calma. – Per quanto sia un coglione, ha sempre giocato a carte scoperte. Tu invece? Puoi dire lo stesso di te?»
Quelle parole si conficcano direttamente al centro del suo petto, con una tale irruenza da farla sentire smarrita.
«Adesso stai esagerando…» commenta lei con un filo di voce. Ha le labbra socchiuse e la fronte aggrottata.
«Mi scusi? – li interrompe una voce. – Queste maglie sono taglia unica?»
Nessuno dei due si volta verso il cliente che alla fine c’è davvero, perché sono troppo intenti a scrutarsi e a parlarsi tramite un solo sguardo.
«Ho dei clienti» ripete Lake, prima di allontanarsi per continuare il suo lavoro.
E mentre Caren lo vede indossare la maschera della professionale cordialità, mentre si trova a stringere i pugni fino a sentire le unghie imprimersi sulla sua pelle, percepisce l’incredulità trasformarsi in un pura rabbia: Lake non può metterla in secondo piano rispetto alle parole di Henry, non dopo tutto quello che è successo. O forse è proprio tutto quello che è successo a fargli credere di avere questo diritto?
Le sembra impossibile che lui riesca a dubitare di tutto quello che c’è stato tra di loro, per un unico sbaglio che in fin dei conti ha anche portato a qualcosa di positivo: adesso è lei a non aver più voglia di parlare, di provare a spiegare ciò che prova e che pensa di avergli sempre concesso su un piatto d’argento.
Incontra ancora una volta gli occhi di Lake, che la cercano di sfuggita mentre il loro proprietario prova a tenersi occupato con le richieste di quel cliente, e ha solo voglia di andar via. Si volta deglutendo e serrando la mascella, con il petto che è talmente pesante da renderle difficile respirare a pieno, per poi uscire da quel negozio e cercare conforto nell’aria di quel pomeriggio.





 
 

Buonasera a tutti/e :)
Allora, cercherò di essere abbastanza veloce, anche perché non credo ci sia molto da commentare!
Henry non poteva di certo starsene al suo posto, figuriamoci ahahah Diciamo che è molto testardo e sicuro di sè quanto cieco, quindi non si fa problemi ad insistere con Caren: lei in qualche modo cerca di mettere finalmente dei confini alla loro relazione, cosa che avrebbe dovuto fare tempo prima, ma interviene Lake. Non so voi, ma io me lo sono immaginato mentre li vede incazzato nero dalla vetrina del negozio ahahha Comunque, a parte la mia immaginazione, ancora una volta esce fuori l'impulsività e la corporalità (?) di Lake, e si aggiunge un tassello a tutta la vicenda: Henry mente spudoratamente, un po' per marchiare il territorio un po' per averla vinta. E be'... Il resto parla da sè! Lake dimostra ancora meno fiducia in Caren e ora anche lei è alquanto arrabbiata: insomma, è un po' un casino ahhaha
Fatemi sapere cosa ne pensate :) Io vi annuncio che mancano ancora pochi capitoli alla fine, anche se non so esattamente quanti!
Vi ringrazio, come sempre, di tutto e vi lascio i miei contatti, per qualsiasi cosa:
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Un bacio,
Vero.

 
 

 

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove - What we have become ***




 
Capitolo diciannove – What we have become
 
 
Caren serra la mascella fino a sentir male ai denti, poi sbuffa sonoramente e appoggia con un pizzico di rabbia lo strofinaccio sul bancone. Non c’erano più macchie già dieci passate fa, ma lei ha continuato a pulire energicamente quella superficie senza nemmeno rendersene conto.
È terribilmente nervosa. E arrabbiata. Furiosa, anzi. Ma c’è una parte di lei che si sente anche colpevole, arresa. Ognuna di quelle emozioni, sommate alla stanchezza per non aver dormito nemmeno un minuto quella notte e per l’avere iniziato il turno alle sette del mattino, con le occhiaie a farle compagnia, la rende tesa come una molla sul punto di scattare.
Randy continua a guardarla con una sfumatura di preoccupazione negli occhi e ogni volta che le passa di fianco assottiglia i propri e si impegna per studiarla a fondo: non che ci sia molto da capire, dato che è tutto molto palese. Le unghie mangiucchiate di Caren – più del solito, il che è tutto dire – parlano chiaramente, così come il suo piede che nei momenti di calma del bar batte velocemente a terra solo per scaricare la tensione. Ogni fibra del suo corpo magro e minuto esprime ciò che Lake le sta infliggendo.
Non che sia solo colpa sua, questo è ovvio, ma a tutto c’è un limite. Caren sa di esser stata la prima a sbagliare, lo sa lo sa e lo sa, ma anche lui non si è risparmiato dal commettere alcuni errori. Non le ha mai creduto, per esempio, nonostante lei stesse facendo di tutto per costruire qualcosa con lui. Ha preso a pugni Henry, e anche se se lo meritava, non è un atteggiamento lodevole. Ha creduto a quello che lui stesso ha definito un coglione, crede ancora che Caren abbia fatto sesso con lui. Ed è sparito dalla circolazione da ben due giorni, giorni nei quali anche lei si è rintanata nella sua routine quotidiana solo per rancore e ripicca: la ferisce il fatto che non sia considerata degna di un briciolo di fiducia o della possibilità di spiegare e parlare e magari litigare e urlare.
Però adesso ne ha abbastanza. Lake deve darle un’opportunità, che lo voglia o meno, e lei la otterrà.
Sospirando con determinazione, si volta per afferrare il pane da farcire con pancetta e formaggio – tanto formaggio, perché sa che a lui piace di più così. Poi appoggia il tutto su un piattino coperto da un tovagliolo bianco e apre il frigorifero per recuperare una Heineken fresca e con il vetro carico di goccioline di condensa. È mezzogiorno e tre quarti, Lake ovviamente non è venuto a pranzare al “Morning Bar” e lei ne ha appena fatto la scusa per avvicinarlo: per un attimo pensa di essere una codarda, quando si accorge di aver bisogno di un pretesto per farlo, ma fugge da quel pensiero e si maschera di imperterrito coraggio.
«Hey, Randy – esclama, tenendo il piatto e la birra su un vassoio e avvicinandosi al suo datore di lavoro, che sta riordinando un tavolo appena liberatosi. – Posso assentarmi qualche minuto?» domanda, indicando con un cenno del capo un punto non tanto indefinito all’esterno.
L’uomo alza un sopracciglio scuro e si gratta la pancia magra. «E va bene – sospira, come un padre che vede finalmente la figlia prendere in mano la situazione. – Però non metterci troppo, perché c’è bisogno di te.»
Caren annuisce e sorride riconoscente, poi si volta ed esce dal bar.
Fa caldo e la t-shirt nera che indossa sotto il grembiule bordeaux le permette di non patirne troppo, aiutata dalla coda alta nella quale tiene stretti i capelli biondi. Avrebbe indossato un paio di shorts, se non fosse stato eccessivo, quindi deve accontentarsi dei jeans chiari a sigaretta.
Mentre appoggia la mano sulla maniglia della porta d’ingresso del negozio di Lake, sente il cuore battere un po’ più forte, eppure cerca di ignorarlo e di muoversi con fierezza, entrando in silenzio in quello spazio familiare. Non vede nessuno, perché è orario di pausa, ma sa che da qualche parte deve esserci lui, perché l’ha visto arrivare quella mattina – l’ha spiato – e perché sa che non lascerebbe mai il negozio incustodito.
Non lo chiama, comunque, anche se di sicuro la sua presenza è stata annunciata dal chiudersi della porta dietro di sé, e si limita a camminare tra gli scaffali ordinati.
Lake quasi la spaventa quando compare dalla porta che sta dietro al bancone e che conduce al retro. Ha i capelli neri alzati in un ciuffo disordinato, probabilmente dalle mani grandi e callose che ci passa sempre in mezzo. Le labbra carnose sono più rosee del solito e la canottiera bianca che indossa gli lascia scoperti i tatuaggi sulle braccia magre. E quegli occhi, quei dannati occhi blu sono su di lei, inesorabilmente. Così freddi da fare male.
Caren, immobile davanti al bancone, sente tutto il coraggio e la rabbia scomparire sotto quello sguardo che la sto logorando. Dov’è finita la sua determinazione? Come ha potuto lasciarsi schiacciare dalla sola presenza di Lake, dall’accenno nell’aria del suo profumo aspro e dai ricordi che Caren ancora conserva?
È per questo che schiude le labbra e trattiene il respiro, mentre quasi può sentire il suo, controllato e di sicuro più regolare del proprio. Vorrebbe parlare, o almeno ricordarsi come si fa, ma riesce solo a pensare a quanto lo sguardo che stanno condividendo con ostinazione sia doloroso e ricco di una distanza che non vorrebbe provare: è impensabile che si siano ridotti in quello stato e non è importante chi abbia sbagliato cosa, perché Lake le manca così tanto da farsi odiare.
Le labbra serrate che le stanno ad un metro e mezzo di distanza non si muovono nemmeno impercettibilmente, e chissà se stanno solo cercando di trattenere parole che non vogliono fare uscire. Ma quel silenzio viene interrotto dal tintinnare della bottiglia di Heineken sul vassoio, a testimoniare che le mani di Caren un po’ hanno tremato, per un motivo o per un altro. Così lei cerca di ricomporsi e deglutisce per scacciare via la secchezza dalla gola, fa un esitante passo in avanti tenendo lo sguardo basso e appoggia il vassoio sul bancone della cassa.
Stringe i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, quando li riporta lungo i propri fianchi, e solo a quel punto alza di nuovo gli occhi in quelli di Lake. E vorrebbe proprio dirglielo: “Incomincio ad odiare i tuoi cazzo di silenzi insensati”, vorrebbe dirgli.
“Perché continui a guardarmi così?”
“Cosa stai cercando di dirmi?”
“Mi odi?”
“Ti manco almeno un quinto di quanto tu manchi a me?”
“Non capisci?”
Eppure tutto quel vorticare di domande e di dubbi e di pensieri si risolve in un sommesso singhiozzo. «Mi dispiace così tanto» sussurra soltanto, così flebilmente da rendere ogni sillaba confusa. E non importa se è andata in quel negozio per arrabbiarsi e obbligarlo a parlare. Non importa se non è l’unica ad aver commesso degli errori. Nulla ha importanza, perché in quel momento riesce solo a sentire quanto il suo corpo abbia bisogno del contatto con quello di Lake. Quanto le manchi la sua risata strana e acuta nelle orecchie mentre sono a letto. Quanto detesti quello che sono diventati. Quindi sì, le dispiace, ma non solo per aver baciato Henry, le dispiace per loro, per tutto.
Però Lake ancora non parla. Non parla ma serra la mascella e quasi si sporge in avanti, anche se si immobilizza subito dopo come se avesse cambiato idea. E quando alla fine apre bocca, fa più male del previsto. «Ti dispiace di esserci andata a letto?»
Caren sbatte le palpebre più volte, allibita da quella domanda che non riesce a concepire. «Cosa? - dice in un soffio, mentre assiste al fraintendimento di ogni sua parola e comportamento. – Non l’ho fatto, te l’ho già detto».
«E a lui hai detto che non deve più avvicinarsi a te? Che non deve più toccarti?» continua l’altro, rimanendo fermo nella sua rigidità e nel suo precario contegno. Caren riconosce il modo in cui la sua voce sta mantenendo un tono piatto solo per non urlare, il modo in cui tutto il suo corpo si sta tendendo per non cedere a chissà quale tentazione, il modo in cui i suoi occhi si ostinano a scrutarla in cerca di una conferma e con l’intento di rimproverarla, di farle percepire sulla propria pelle ciò che stanno sopportando.
«Sì, io… - borbotta lei, corrugando la fronte. Subito dopo si corregge. – Lo stavo facendo, ma poi tu hai avuto la brillante idea di fare a pugni e-»
«E in questi due giorni cosa ti ha impedito di parlargli?» la interrompe, come se sapesse già dove andare a parare. Caren rimane in silenzio per rimuginare su quella  domanda, perché effettivamente non sa cosa rispondere: non ha proprio pensato ad Henry, in quele quarantotto ore, se non per offenderlo mentalmente, perché i pensieri avevano un unico fulcro e quel fulcro era Lake. La sua priorità era stata quella di trovare una situazione per loro, non per lei ed Henry.
«Appunto» sussurra Lake, seriamente.
Caren corruga la fronte, confusa. «Cosa vorresti dire?»
«Quante volte devo ripeteterlo? – sibila lui, ancora più nervoso. – Delle tue parole io non me ne faccio niente. Tutte le tue scuse e le tue promesse non valgono nulla se non sono supportate da fatti. E quali sono i fatti? Eri completamente ubriaca quella sera e Dio solo sa quanto tu effettivamente non ricordi, oltre quel bacio: e già quello è insopportabile, eppure c’è qualcuno che sostiene di sapere qualcosa in più. E tu pretendi che io non gli creda, perché è qualcuno che tu dici di non volere e di odiare, ma come faccio a credere a te, se non hai ancora fatto niente per allontarlo? In tutto questo tempo e persino ora, non hai fatto niente. Come faccio a crederti, se tutto quello che mi dai sono parole?»
Caren ripete nella sua mente tutto ciò che Lake ha appena pronunciato con lentezza e rancore. Lo rielabora e lo internalizza, analizzandone ogni significato e intonazione.
«Sei solo un ipocrita – risponde, scombussolata dalla rabbia e da qualcos’altro. – Dici a me che le mie sono solo parole, quando quelle di Henry cosa sono? Hai una sola stupida prova del fatto che abbia detto la verità, oltre le tue supposizioni? Dovrei essere io la tua conferma, io che ti ho detto sin da subito quello che era successo, ma evidentemente non ti basto. E allora va bene, andrò da Henry e metterò fine a questa storia una volta per tutte – e perdonami se in questi giorni sono stata più occupata a pensare a noi, che a lui. Ma sono proprio curiosa di ascoltare la scusa che userai per respingermi ancora una volta, quando tornerò» conclude, con un autocontrollo che la stupisce e che forse ha stupito anche Lake, che si limita a guardarla con un’espressione concentrata e fintamente calma.
Caren non aspetta una sua risposta, sia perché in quel momento è troppo nervosa sia perché è molto probabile che non arriverà, quindi si volta e cammina via. Come previsto, Lake non la ferma, ma forse è meglio così.
 
Alle tre del pomeriggio Caren si precipita fuori dal bar e si scioglie i capelli sulle spalle, gettando un’occhiata al negozio dall’altra parte della strada e mordendosi un labbro. Finalmente il suo turno di lavoro è finito e lei può fare ciò che deve: non ha intenzione di avvertire Henry, perché vuole coglierlo di sorpresa proprio come a lui piace tanto fare con lei, e per fortuna ricorda ancora la strada per casa sua, meno difficile di molte altre.
Darà a Lake la dimostrazione che vuole: e se da una parte lo capisce, perché comunque ha ragione nel pretendere un chiarimento a riguardo, dall’altra la fa terribilmente innervosire. È stanca di essere sminuita in quel modo, soprattutto dal momento che è sincera e che ciò che prova per lui è vero e tangibile. Perché è l’unico a non accorgersene? Persino Henry si è sentito minacciato dalla loro storia, tanto da sentirsi in dovere di ricorrere a quella subdola bugia che alla fine ha avuto l’effetto desiderato.
Alla fermata dell’autobus – ancora un paio di mesi e forse riuscirà a permettersi un’auto usata – ripercorre mentalmente il discorso che dovrà tenere da lì a poco, consapevole di quanto dovrà essere fermo e irremovibile, in modo da evitare qualsiasi contraddizione o sbagliata interpretazione. All’improvviso, però, il cellulare nella sua borsa inizia a vibrare: non può nascondere che una parte di sé stia sperando che sullo schermo appaia  il nome di Lake, anche se rimane subito delusa.
Preme il tasto verde e risponde con la fronte corrugata. «Mamma?»
 
È tornata a casa subito dopo quella telefonata – Henry avrebbe dovuto aspettare -, ancora confusa e sorpresa. Marie Samantha Spencer infatti ha deciso di fare una pazzia, se così si può chiamare, e seguire il suo istinto da madre che l’ha portata fino a Worthing dalla figlia: la piccola spiegazione riguardo quel programma completamente improvvisato è stata il bisogno impellente di parlarle.
Caren non sa se sia successo qualcosa, perché effettivamente è la prima volta che sua madre si avvicina anche solo lontanamente a Worthing, tanto che è quasi preoccupata: forse i suoi genitori hanno discusso?
Proprio mentre si interroga sul motivo di quella visita inaspettata, riordinando ancora una volta il piccolo salotto, il citofono di casa suona fastidiosamente e l’agitazione si impadronisce di lei.
Corre ad aprire, mormorando il piano al quale abita, e si sistema la t-shirt come se potesse rendersi più presentabile o come se alla madre potesse importare: la mette a disagio il pensiero che lei stia per entrare per la prima volta in casa sua, pronta a vedere con i propri occhi le scelte della figlia e pronta – perché no? – a giudicare.
Quando Marie sale gli ultmi gradini delle rampe di scale, Caren la sta aspettando appoggiata all’uscio della porta. «Hey» la saluta, abbozzando un sorriso imbarazzato che viene subito ricambiato.
«Ciao Caren» esclama la donna, stringendo la mano destra intorno alla cinghia della sua borsa bianca elegante. Mentre si sporge per baciarla su una guancia, sente il suo profumo familiare e non molto forte: indossa quei pantaloni color pece che le piacciono tanto e che le mettono in risalto le forme sopravvissute al tempo, un golfino in cotone bianco e qualche bracciale dorato che tintinna ad ogni suo movimento. È sempre stata molto elegante e altrettanto bella.
«Non c’era bisogno che prendessi un taxi, potevo venire io alla stazione» le dice Caren mentre si fa da parte per lasciarla entrare. Marie, infatti, l’ha chiamata per sapere il suo indirizzo esatto in modo tale che dalla stazione sarebbe potuta arrivare in minor tempo alla sua destinazione: perché tutta quell’impazienza? Perché non avvertire prima, senza rischiare che Caren fosse a lavoro o da qualche altra parte? Forse anche lei aveva voluto usare l’effetto sorpresa proprio come la figlia pensava di fare con Henry?
«Con quale macchina? – risponde la donna, guardandosi intorno stando immobile nel centro del salotto. Grazie per la precisazione. – Non mi andava di camminare o di prendere gli autobus» continua.
Caren sospira e alza un sopracciglio, mentre sente la tensione percorrerle il corpo e farsi spazio in quei metri quadri improvvisamente insufficienti per respirare.
«Posso offrirti qualcosa? Vuoi… vedere la casa?» chiede allora, per interrompere il silenzio imbarazzato e insopportabile, infilando le mani nelle tasche dei suoi jeans chiari e affiancando sua madre, che con gli occhi così simili ai suoi sta scrutando la cucina – stranamente – ordinata.
«Magari dopo» annuisce Marie, indicando con un cenno del capo il divano come a chiedere il permesso di sedersi. Caren la fa accomodare e le si siede accanto, con le mani strette tra le cosce per nascondere la sua agitazione.
Il fatto è che i secondi passano fin troppo lentamente, così come i minuti, e nessuno si decide ad aprire bocca.
«Di cosa volevi parlare?» domanda infine Caren, stanca di aspettare e di torturarsi il cervello con mille interrogativi.
Marie si volta a guardarla e si passa una mano smaltata di rosso tra i capelli biondi e lucenti. Si inumidisce le labbra e respira lentamente. «Sai cosa mi dicevi quando avevi circa cinque anni?» esordisce, con la voce stranamente tremolante che un po’ fa tremare anche la ragazza.
Caren sbatte le palpebre ma non risponde, perché non ce n’è bisogno. Infatti è sua madre a riprendere il discorso. «Dicevi che saresti rimasta a casa con me fino ai tuoi trent’anni: poi te ne saresti andata, ma solo perché io sarei stata troppo vecchia per prendermi cura di te - spiega con un sorriso nostalgico sulle labbra sottili. – Poi sei cresciuta e a dieci anni avevi ancora quell’idea in mente, con la differenza che sapevi già cosa fare quando saresti stata grande: volevi raccontare le cose» continua, citando le sue stesse parole.
Caren sorride intenerita da quei ricordi un po’ sfocati, ma comunque accoglienti: ricorda bene quando aveva scritto dietro un fax arrivato per il padre la storia di una tartaruga che non riusciva ad uscire dal giardino dei suoi padroni, nonostante volesse a tutti i costi scappare per raggiungere la sua mamma. James l’aveva sgridata molto per quella piccola bravata.
«Hai sempre avuto le idee molto chiare su come avresti voluto vivere la tua vita, anche se eri così piccola da non sapere cosa significasse davvero – aggiunge Marie, con la voce bassa e immersa nei ricordi. – E quando hai finito il liceo… Quando hai deciso di abbandonare tutti i sogni che avevi, tutte le decisioni che avevi rispettato fino ad allora, per seguirne un altro che non era altrettanto solido e affidabile, io ho visto vacillare quello stesso futuro di cui tu parlavi sempre.»
Ed ecco il punto della questione.
Caren si muove nervosamente sul divano, deglutendo a vuoto. Non ha intenzione di interrompere sua madre, perché non le sembra giusto: qualsiasi cosa abbia da dire, sembra abbastanza determinata, tanto che ha preso il primo treno per Worthing senza pensarci due volte. Forse è finalmente arrivato il momento in cui riusciranno a chiarire la questione una volta per tutte: per quanto faccia male sentire quelle parole, Marie sta comunque usando un tono di voce diverso dal solito, privo di accuse o rimproveri. Sincero.
«Non mi è mai piaciuto quell’Henry, lo sai anche tu – riprende la madre, abbassando per un attimo lo sguardo. – Ha sempre avuto qualcosa che non mi convinceva, ma in fondo era normale che qualunque ragazzino si avvicinasse a mia figlia avesse qualche difetto. Eppure arrivai ad odiarlo sul serio, quando ti convinse a seguirlo in questo posto. E so che è davvero immaturo per una donna della mia età, so che tu eri innamorata e credimi, potrà sembrare strano, ma so anche quanta importanza abbia l’amore.»
Caren pensa subito agli sguardi che sua madre e suo padre condividono dopo tutti quegli anni.
«Ho sbagliato a reagire in quel modo, quando te ne sei andata - sono le parole che seguono e che mettono un macigno sul petto della ragazza, che si sta ancora torturando le mani. Ricorda ancora le urla e le lacrime, i rimproveri e la delusione nei suoi occhi. – Penso spesso a cosa siamo diventate e mi chiedo se avrei dovuto comportarmi diversamente. Se avrei dovuto dire una parola di meno o al contrario parlare un po’ di più. Se avrei dovuto essere più comprensiva o ancora più rigida. E non so ancora se io sia stata una buona madre in questo, ma voglio solo che tu sappia che qualsiasi sbaglio io abbia fatto, l’ho fatto per te. Per vederti felice e realizzata.»
Sua figlia ha gli occhi lucidi e le parole con le quali le piace giorcare incastrate da qualche parte dentro di sé, perché la sincerità di Marie la sta sconvolgendo nel modo più naturale e tortuoso del mondo. Non si sarebbe mai aspettata un discorso del genere, né pensava di essere pronta ad affrontarlo.
«La verità è che forse io ci speravo davvero nel tuo programma di rimanere a casa con noi ancora per molto tempo. Vederti andare via così all’improvviso, allo sbaraglio e senza alcun punto di riferimento se non l’appartamento che tu ed Henry avreste condiviso, mi spezzava il cuore. Sono stata egoista, è vero, perché tu sei mia figlia ed io non pensavo di doverti lasciare andare così presto. E sono stata troppo orgogliosa per ammettere che in fondo, dopo tutto quello che avevi passato, dopo la rottura con Henry, stavi comunque mettendo ordine nella tua vita. Il tuo lavoro in quel bar ancora non mi piace e penso ancora che tu avresti potuto avere molto di più, ma se insisto così tanto su queste cose è solo perché io voglio il meglio per te - conclude con la voce sempre più flebile e le lacrime sempre più insistenti. – Ormai devo accettare le tue scelte passate, per quanto io possa non riuscire a condividerle. Sono stanca delle telefonate piene di imbarazzo e sono stanca di litigare. Rivoglio la mia bambina.»
E Caren a quel punto come potrebbe non abbracciarla con tutta la forza che ha nelle braccia? Come potrebbe non piangere sulla sua spalla magra mentre sente l’amore per quella donna risvegliarsi e sconfiggere tutti i rancori che per troppo tempo le hanno tenute separate? Come potrebbe non accettare quella implicita richiesta di perdono?
«Ti voglio bene, mamma – mormora sul suo maglioncino delicato, chiudendo gli occhi mentre si gode il tepore di quell’abbraccio. – E ho così tante cose per cui chiederti scusa: anche io sono stata troppo testarda per cercare di capirti.»
«Va tutto bene» ribatte Marie, accarezzandole i capelli. «Va tutto bene.»
«Lo so che hai sempre voluto il meglio per me, anche se per tanto tempo riuscivo solo a vedere i nostri litigi» continua Caren, tirando su con il naso. Vorrebbe aggiungere che se si sta impegnando così tanto per tornare all’università e per avere un buon futuro è anche per lei, per renderla fiera e per dimenticare lo sguardo di delusione che le aveva rivolto quando era partita con Henry: in fondo, però, non riesce proprio a dirlo e forse Marie lo sa già.
Improvvisamente si sentono delle chiavi nella serratura e Caren rompe l’abbraccio asciugandosi il volto. Non ha il tempo di realizzare che potrebbe essere Enriqua, che l’amica entra con i capelli scuri e ricci disordinati intorno al volto e i tacchi alti che battono sul pavimento, mentre cerca di chiudere la porta con delle buste in mano, probabilmente frutto di uno shopping sfrenato. «Gli ho detto mille volte che fare sesso nello squallido bagno di un altrettanto squallido bar mi fa schifo, eppure è testardo come un mulo, santo cielo!» esclama, ancora prima di accorgersi che la sua amica non è sola.
Caren spalanca gli occhi e guarda subito sua madre, che è a dir poco sconvolta, ma anche un po’ divertita.
«E alla fine lo hai accontentato?» ribatte Marie, contro ogni previsione.
Enriqua si volta nel sentire quella voce sconosciuta e sbarra le iridi grandi e vivaci, sussurrando un velato «Mierda!» che fa ridere le altre due.




 
 

Buonaseeeeeeeeeeera :)
Lo so, sono in un vergognoso ritardo, ma non ho davvero avuto tempo per scrivere e quindi pubblicare! Comunque stamattina mi sono rimboccata le maniche e ho iniziato questo capitolo, quindi eccolo qui! Spero di essermi fatta perdonare almeno un po' :)
Che dire? Lake è proprio testardo: in qualche modo hanno entrambi ragione e torto, ma ormai si sa che lui si sofferma molto su alcuni particolari. Non dico altro perché tanto sarà lui stesso a spiegare tutto!
Non avevo in progetto questa visita inaspettata di Marie, ma mi sembrava giusto concedere un lieto fine a madre e figlia :) Spero vi sia piaciuto, con tanto di figura del cavolo di Enriqua hahaah
Posso già dirvi che mancano solo più due capitoli alla fine della storia, anche se mi sembra ieri di averla iniziata!
Vi ringraziodi tutto come sempre e vi lascio i miei contatti, per qualsiasi cosa:
ask - facebook - twitter

Un bacio,
Vero.

 
 

 

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Capitolo 20
*** Capitolo venti - Set me free ***




 
Capitolo venti – Set me free
 
 
Caren scende dall'auto di Enriqua con ancora il sorriso sul volto per la conversazione che si è conclusa da poco riguardo reggiseni push-up e tanga, una conversazione che non pensava avrebbe potuto introdurre di fronte a sua madre, seduta nei sedili posteriori. Dà un'occhiata all'entrata della stazione e sospira tirandosi su i jeans chiari, mentre Marie la segue sul marciapiede ed Enriqua continua a salutarla nonostante lo abbia già fatto tre volte.
«Non c'è bisogno che mi accompagni dentro - esclama Marie, avvicinandosi alla figlia con la borsa sulla spalla. - Il treno passa tra un quarto d'ora» continua, schiarendosi la voce. Ha passato la notte a Worthing, perché alla fine la strampalata amica di Caren le è piaciuta più del previsto e perché si è ritrovata incastrata in un invito a cena che non poteva rifiutare. Caren, dopo quella sincera riappacificazione, semplice quasi quanto il rancore che entrambe avano cresciuto e nutrito ma che è quasi scomparso, ha sentito il bisogno di passare del tempo con lei che non fosse sporcato dal passato, del tempo che potesse riconciliarle nel modo più naturale possibile: e alla fine, ha dormito sul divano per offrirle il proprio letto e avere l'occasione di far colazione con lei la mattina successiva.
«Va bene - sospira Caren, stringendosi nelle spalle coperte dal golfino bordeaux. - Allora ci vediamo tra un po'» aggiunge.
Marie annuisce e i capelli dorati ondeggiano seguendo quel movimento. Ha deciso di non truccarsi, quella mattina, e il viso privo di qualsiasi traccia di ombretto o rossetto è ancora più bello e maturo del solito. «Spero che da oggi in poi ci rivedremo più spesso - confessa, con la voce leggermente più bassa. - Sono sicura che tuo padre sarà felice di venirti a trovare.»
Caren sorride e si sporge in avanti per abbracciare sua madre. «Salutamelo» sussurra ad occhi chiusi. Dopo tutti quegli anni, deve ancora abituarsi al nuovo rapporto rinato dalle ceneri di quello che entrambe hanno rovinato: l'idea di avere i suoi genitori a Worthing non la spaventa più come poco tempo prima, anzi, la rende quasi impaziente.
«Sarà fiero di me per questa storia, e poi si arrabbierà per non avergli detto niente» scherza Marie, accarezzando la schiena della figlia e arretrando di un passo per poterla guardare in faccia. In effetti James è all'oscuro di quello che è successo nelle ultime ventiquattro ore: sua moglie gli ha propinato la scusa di voler andare a trovare una cugina di secondo grado, spinta dal fatto che lui non avrebbe potuto seguirla a causa del lavoro. Non gli ha mentito per cattiveria, ma semplicemente per sicurezza:  sapeva che ammettere di voler chiarire le cose con Caren una volta per tutte avrebbe creato dello scompiglio, e James avrebbe fatto di tutto per seguirla, incoraggiarla o chissà cos'altro, intaccando la sua determinazione già precaria.
«Sì, si arrabbierà di sicuro - conferma Caren, abbozzando una risata con la quale cerca di smorzare la nostalgia per quella del padre. - Fa' buon viaggio e... Be', fammi sapere quando arrivi».
Marie allunga una mano e afferra il braccio della figlia per stringerlo delicatamente in un gesto affettuoso. Non parla però, mentre le sue labbra si inclinano in un sorriso che vale più di mille parole: non sarebbe da lei, che ha già osato troppo mettendosi allo scoperto solo poche ore prima, e non sarebbe da loro. Si scambiano semplicemente uno sguardo complice, che racchiude tutto il loro sollievo e i loro sospiri di realizzazione, l'affetto e la nostalgia.
Caren ricambia il sorriso e, mentre la madre si volta per entrare nella stazione, espira profondamente con gli occhi un po' lucidi mentre la osserva allontanarsi.
Quando rientra in macchina, Enriqua sta canticchiando una canzone che non conosce e sta già ingranando la marcia per ripartire, nonostante il traffico sia intenso e le impedisca di immettersi in strada con facilità.
«Ok, ora posso dirtelo - sbotta la spagnola, afferrando con decisione il volante e abbandonando l'idea di muoversi dal parcheggio. Il piede ancora premuto sulla frizione per non far spegnere il motore e gli occhi vispi fissi di fronte a sè. - È possibile che anche io mi stia innamorando di Bob, no?» chiede a bruciapelo, come se avesse appena visto un fantasma.
Caren corruga la fronte e spalanca gli occhi per la sorpresa: non che sia il contenuto a stupirla, quanto più il modo in cui è salito a galla, così inaspettatamente. Si schiarisce la voce e si muove sul sedile per rivolgersi verso l'amica. «Ehm, sì. Credo proprio di sì» risponde lentamente.
Enriqua disinserisce la marcia e sospira profondamente, scuotendo impercettibilmente il capo per spostare un ciuffo di capelli scuri dal proprio volto. «Il fatto è che non riesco a capire se mi... piaccia così tanto solo perché è bravo a letto, e fidati, è molto bravo-»
«Magari salta questi dettagli» la interrompe Caren, arricciando il naso per quella informazione non cercata. Non è la prima volta che l'amica le parla di queste cose, ma ogni volta si sente a disagio nel ritrarre ciò che per lei è un fratello in certe situazioni.
«Ok, ma comunque hai capito il concetto, no? Voglio dire, a volte penso che sia solo per quello perché quando facciamo sesso sono la persona più felice del mondo e lui mi sembra l'uomo della mia vita: il punto è che mi sento allo stesso modo anche quando siamo vestiti e non ci tocchiamo nemmeno» spiega meglio Enriqua, continuando a guardarsi intorno.
«Vuoi dire che potresti avere un orgasmo anche solo nell'averlo vicino? Perché se è così allora Bob è davvero bravo» scherza Caren, per metterla un po' più a suo agio dato che la vede mordicchiarsi nervosamente le guance.
Enriqua finalmente ride liberamente, piegandosi leggermente in avanti  e tirandole una pacca scherzosa sulla coscia. «Non intendevo quello, idiota» ribatte divertita.
«Lo so - la rassicura Caren, portando una mano sulla sua spalla magra. - Ma ti sei già data la risposta» aggiunge addolcendo il tono di voce.
L'altra si volta a guardarla per la prima volta da quando hanno intavolato quel discorso. «E come funziona? Glielo devo dire? Ma se poi non è così? Se-»
«En, calmati - la interrompe sorridendo. - Non devi dirglielo subito se non ne sei sicura: credo che arriverà un momento in cui non avrai più dubbi e a quel punto sì, a Bob farebbe piacere sentirtelo dire».
Enriqua sbuffa e schiaccia energicamente la frizione per mettere la prima .«Quel dannato ragazzo mi sta rovinando la vita» borbotta.
E lei non lo dice, ma anche quello può essere una conferma per il dubbio dell'amica.

Al "Morning Bar", Caren ha iniziato da poco i quindici minuti a disposizione per la cena: sta facendo un turno diverso dal solito perché la mattina ha dovuto accompagnare la madre alla stazione, quindi finirà più o meno per le nove. È seduta su uno scatolone nel piccolo magazzino nel retro del locale, ha una panino al prosciutto tra le mani e una lattina di thè alla pesca accanto a lei: le luci al neon rivestono tutti gli oggetti accatastati meticolosamente di una patina biancastra, che risalta anche sulle pareti con l'intonaco chiaro un po' rovinato.
Ha appena preso un altro morso di panino quando il telefono le vibra nella tasca dei jeans stretti, quindi si affretta a masticare e si contorce su stessa per riuscire a recuperarlo nonostante l'ostacolo del grembiule. 
Corruga la fronte quando legge chi la sta chiamando e prima di premere il pulsante verde, deglutisce velocemente e tossicchia per schiarirsi la voce, leggermente agitata.
«Eli?» risponde, con un'intonazione che lascia trasparire tutta la sorpresa che la sta invadendo.
«Caren, hey! - risponde l'altro con la spensieratezza che lei aveva un po' dimenticato. La sua voce è leggermente diversa, ma solo perché filtrata dalla linea telefonica. - Come stai? È un po' che non ci si sente» aggiunge. Caren non sa se aspettarsi degli insulti da parte sua per come si sono evolute le cose tra di loro, anche perché, da quanto ne sa, lui non ha sofferto particolarmente per la relazione tra lei e il suo migliore amico: però, se non è questo il motivo della chiamata, a cosa è dovuta?
«Sì, un bel po' - annuisce Caren, discretamente. - E io sto bene, grazie. Tu invece?»
«Oh, non mi lamento: ho appena finito di lavorare e mi si incrociano gli occhi per le ore che ho dovuto passare davanti allo schermo di un computer, ma potrei stare peggio» risponde, sicuramente con un sorriso ampio ad illuminargli il volto olivastro. Le è sempre piaciuto questo suo lato costantemente sereno e disinvolto, pronto a scherzare in qualsiasi momento.
Caren comunque abbozza una risata e «Immagino», commenta. Che razza di risposta è? Alza gli occhi al cielo e trattiene un sospiro, mentre scuote la testa guardando il panino che ha ancora in mano: le domande riguardo la conversazione che stanno avendo le impediscono di concentrarsi sulle più banali regole di socializzazione.
Eli si schiarisce la voce dall'altra parte del telefono e per qualche secondo nessuno dei due parla. «Probabilmente non ti aspettavi una mia chiamata e forse ti sto anche disturbando, o non mi vorresti nemmeno sentire-»
«Non mi disturbi affatto - lo interrompe Caren, pronta a rimediare. - E mi fa piacere che tu abbia chiamato» lo rassicura. Perché in fondo è vero: il loro allontanamento è stato dovuto più ad un certo livello di imbarazzo derivato dalla piega delle cose, che da un'antipatia o chissà cos'altro.
«Oh, ok, meno male allora - ride lui, facendola sorridere apertamente. - Il fatto è che non ho nemmeno chiamato per me stesso: non che io non voglia parlare con te, voglio dire, certo che mi fa piacere parlare di nuovo con te, ma non ho chiamato solo per questo» dice a stento, evidentemente in imbarazzo.
Caren ascolta attentamente e cerca di capire dove lui voglia andare a parare. «Non ti seguo» ammette, ancora sorridendo.
Eli sospira. «Si tratta di Lake» annuncia, con un tono grave che non gli si addice per niente e che fa scomparire qualsiasi traccia di serenità dal viso di Caren.
«Lake?» ripete lei, deglutendo a vuoto. È successo qualcosa?
«Sì, be'... Io lo so che non sono affari miei e che non dovrei immischiarmi, ma lui è il mio migliore amico e certe cose me le dice, quindi so bene cosa c'è stato tra di voi e cosa c'è ancora, anche se a volte è un po' imbarazzante - spiega, con la voce leggermente nervosa di chi sta facendo qualcosa che sa non dovrebbe fare. - E anche se non conosco te alla perfezione, dal poco che ho visto so che non sei una cattiva persona».
Caren inarca le sopracciglia ed è sempre più confusa, ma non lo interrompe.
«Non voglio prendere le parti di nessuno, non sarebbe giusto e non ne avrei nemmeno il diritto, ma a prescindere da quello che è successo, so che Lake è un grande testardo e che è davvero dura farlo smuovere quando si mette in testa una cosa» continua, mentre Caren si trova completamente d'accordo su quella descrizione. Da come sta parlando, Eli sembra essere a conoscenza di ciò che è successo con Henry, ma lei non sa ancora se aspettarsi una sgridata per il proprio errore o un incoraggiamento a riappacificarsi con Lake.
«E io vorrei chiederti solo una cosa: ovviamente sei libera di mandarmi a quel paese, visto che non sono proprio affari miei, ma volevo chiederti di insistere - riprende. Caren quasi trattiene il fiato mentre si lascia cullare dal tono rassicurante di Eli, del quale ha dubitato contro ogni logica. - Se tieni a lui, insisti, perché Lake non ha bisogno di molto altro, anche se vuole convincersi del contrario a tutti i costi» conclude.
Caren inspira profondamente e per una manciata di secondi resta in silenzio, rimuginando su quelle parole che in realtà hanno solo espresso un suo presentimento: quante volte ha pensato di intestardirsi e placcare Lake fin quando non sarebbe riuscita a farsi perdonare? E quante volte ha abbandonato l'idea solo per orgoglio e rabbia?
«Caren? - la chiama Eli, esitante. - Stai per attaccarmi il telefono in faccia?» chiede, leggermente preoccupato. E lei scarica un po' di tensione abbozzando una risata sincera.
«No, non ti attaccherò il telefono in faccia - lo rassicura, sorridendo. - Anzi, ti ringrazio per il consiglio. Ho pensato più volte di insistere fino a farlo stancare, ma sono stata troppo stupida nel non insistere abbastanza» confessa piano, abbassando lo sguardo sulle proprie converse bianche e sporche. Sente le mani fremere per la voglia di raggiungere Lake, adesso più che mai.
«Sei ancora in tempo» risponde Eli, a bassa voce.
Caren annuisce lentamente, pensando e ripensando e sentendo il cuore pieno di gratitudine per il gesto di Eli. «Perché lo fai?» gli chiede all'improvviso, senza specificare o scendere nei dettagli, perché sanno entrambi a cosa si stia riferendo. Non molte persone avrebbero avviato quella chiamata se nella sua stessa situazione, perché probabilmente avrebbero fatto prevalere l'egoismo e una punta di rancore.
«Perché Lake parla ancora di meno, e tu sai quanto poco parli già di suo - sospira Eli, divertito. Poi fa una piccola pausa e la sua voce si smorza in serietà. - E perché voglio dimostrarti che non ce l'ho con te per come sono andate le cose tra di noi: era qualcosa che volevo dirti da un bel po' di tempo» ammette, stupendola.
Caren ha seriamente voglia di abbracciarlo, perché è così buono da far risalire a galla tutti i sensi di colpa che aveva soffocato quando le cose tra lei e Lake stavano prendendo forma. «Grazie Eli, davvero - mormora, sincera come mai prima d'ora. - Anche se adesso mi sento una persona ancora più orribile perché non ti ho nemmeno mai chiesto scusa per-»
«Hey, non devi chiedermi scusa: va bene» la interrompe lui, riacquistando la serenità di pochi minuti prima.
«Non so sul serio cosa dire» confessa l'altra, stringendosi nelle spalle. Si sente così insignificante di fronte al buon cuore di Eli, che qualsiasi cosa la sua lingua voglia pronunciare sembra completamente banale e futile.
«Non devi dirmi niente, infatti: solo... Cerca di riprenderti Lake o io sarò stato messo da parte per niente» esclama ridendo, anche se forse quella battuta nasconde una verità ben più radicata.
Caren sorride imbarazzata e si passa il dorso di una mano sulla fronte in un gesto nervoso. «Lo farò» assicura semplicemente.

Questa volta ha deciso di avvertire Henry, un po' perché voleva essere sicura di trovarlo in casa e di non dover rimandare ancora il loro incontro, un po' perché si era resa conto di non ricordare poi così bene la strada. Allora gli ha mandato un messaggio, senza anticipare il motivo della sua visita ma mantendendo un atteggiamento distaccato, e ha aspettato che Henry rispondesse velocemente e con poca punteggiatura, come al solito.
Adesso sono le dieci di sera passate, lei non è mai stata così veloce a prepararsi e gli autobus non sono mai stati così puntuali: tutto sembra favorire la fine della storia tra Henry e Caren.
Lei respira a fondo e suona il citofono, senza dover aspettare nemmeno dieci secondi per l'aprirsi diretto del cancelletto in ferro arrugginito agli angoli. Lo richiude dietro di sè e cammina decisa verso il portone, tenendo gli occhi sui propri piedi mentre sale fino al terzo piano. Gradino dopo gradino.
Henry è sulla porta di casa, appoggiato all'uscio con la spalla destra e con indosso un maglione largo e grigio chiaro. È scalzo e i jeans scuri gli stanno leggermente larghi sulle gambe magre. Si passa una mano tra i capelli ramati e disordinati, poi si inumidisce le labbra e le rivolge un cenno di saluto con il capo, ma senza sorridere: ha ancora il labbro inferiore arrossato intorno al taglio causato dal pugno di Lake e un livido violaceo sullo zigomo sinistro.
Caren lo imita, spiazzata dalla mancanza di malizia nei suoi gesti, ed entra nell'appartamento quando lui si fa da parte per farla passare. Si stringe nelle spalle guardandosi intorno e si ferma al centro del piccolo salotto, in attesa di un gesto o di una parola. Henry le passa di fianco dopo aver chiuso la porta, ma non la invita a sedersi nè apre bocca: è diverso, strano, come se fosse vuoto di tutta l'insistenza che le ha sempre dimostrato.
Allora Caren ne approfitta per sfoggiare la sua, di determinazione, senza nemmeno togliersi la giacca di jeans o fare un altro passo in avanti. «Io voglio davvero che tu mi lasci in pace» dice seriamente, guardandolo negli occhi scuri e immobili. In che altro modo potrebbe dirglielo?
Henry serra la mascella e respira profondamente. «È per quel coglione, non è vero?» commenta con le labbra plasmate dal disgusto, dalla rabbia. C'è anche del dolore?  
Lei scuote piano la testa e la voce di risolve in un sussurro. «No» risponde: vuole essere sincera e soprattutto decisa. È vero, Lake è la persona della quale lei ha bisogno, l'unica che brama, ma non si tratta solo di questo: ammettere il contrario vorrebbe dire dare un'altra speranza ad Henry, un altro particolare al quale aggrapparsi, invece deve capire che non è così. Deve capire che è lui il problema, ciò che Caren non vuole più, ma non solo per merito o colpa di qualcun altro.
«Ti ho amato molto, Henry, lo sai - riprende, con il cuore a disagio nell'immergersi nei ricordi di una felicità che hanno condiviso e costruito pezzo dopo pezzo. - Ti ho amato più di me stessa, ma ora non è più così e Lake non c'entra niente: si tratta solo di me e te. Io non posso dimenticare quello che abbiamo passato, nè quello che ci ha divisi, ed evidentemente non voglio nemmeno farlo. Mi hai detto di essertene andato perché non mi amavi più e perché non sapevi come dirmelo: io me ne sto andando per lo stesso motivo, ma te lo sto dicendo» aggiunge, con i pugni stretti lungo i fianchi. Non può nascondere un certo dolore all'altezza del petto, ma non se ne vergogna: non è un dolore legato ad un sentimento, ma ad un capitolo della sua vita che è stato più lungo e importante del previsto, allo sguardo che Henry le sta rivolgendo.
«Se lui non ci fosse stato, tu saresti tornata da me» insiste Henry a denti stretti, sull'orlo di urlare. Caren ricorda il modo in cui lui si arrabbia, riconosce i segnali e sa anche come gestirli in qualche modo.
Fa un passo avanti ed espira velocemente. «Perché ti ostini a metterlo in mezzo? Te l'ho già detto: si tratta di noi, di te. Io... Io non riesco nemmeno a riconoscere la persona della quale mi ero innamorata» ribatte Caren. Non vede più gli occhi scherzosi e dolci di Henry, quelli che le avevano chiesto di uscire la prima volta o che l'avevano guardata innumerevoli volte mentre era nuda nel suo letto. Non vede più la sua premura, il sorriso che l'aveva legata indissolubilmente ad un amore più forte della sua resistenza iniziale. Non vede più il suo Henry, ma solo qualcuno che ha il suo stesso profumo e le sue stesse mani, qualcuno che ha preso il suo posto scalzandolo con la forza.
«E perché non ci riesci, secondo te? - sbotta Henry, gesticolando e alzando la voce, mentre la vena del suo collo si ingrossa leggermente ad ogni parola. - Ma non capisci, cazzo? Eri tu che mi rendevi così! Eri tu a rendermi migliore! E guarda adesso cosa è rimasto!»
Caren indietreggia di un passo a quelle parole, agli occhi che le stanno davanti. Si confronta con quella nuova verità e cerca di metabolizzarla, di accettarla e valutarla. «Hai fatto tutto da solo - sussurra, ancora spiazzata. - Non è colpa mia se sei cambiato» aggiunge. In fondo è stato lui ad allontanarsi, è stato lui a rendersi peggiore con le proprie mani.
«Io ho bisogno di te per tornare quello di prima» mormora Henry, avvicinandosi con le iridi che lasciano trasparire del tormento. È così fragile rispetto alle altre volte in cui si sono confrontati, da confondere. Che tutti i suoi assurdi tentativi di riconquistarla fossero solo un disperato bisogno di riaverla?
«Henry, no - dice lei piano, fin tropo flebilmente. - Devi smetterla, devi andare avanti, ma senza di me».
Lui fa un altro passo e le arriva praticamente di fronte. «Per favore.»
«No - ripete Caren, appoggiandogli le mani sul petto caldo e spingendole via delicatamente. Non sa quale reazione scatenerà ciò che sta per dire, ma è necessario. - Io sono migliore senza di te».
Henry schiude le labbra sottili e la guarda in silenzio, evidentemente ferito da quelle parole, e Caren sa di doverne approfittare: per quanto le faccia male doverlo spingere oltre il suo limite - nonostante tutto - deve infierire sulla sua debolezza prima che si trasformi in forza.
«Lasciami andare» continua, con la voce rotta perché per un attimo ha visto nelle sue iridi il vecchio Henry e perché allo stesso tempo la possibilità di essere di nuovo libera è totalizzante.
Henry vorrebbe dire qualcosa o forse urlarla, glielo si legge in faccia: tutti i suoi muscoli sono tesi, nervosi, e il suo respiro è più veloce e profondo del normale. Non è ancora chiaro il perché non si stia comportando come la solito: forse dentro di sè sa che questo addio è definitivo, forse si sta arrendendo pian piano, forse anche lui si è reso conto di non poter fare più niente per riavere l'amore di Caren perché ha già fatto troppo per perderlo.
L'unica cosa che fa, invece, è avvicinarsi di nuovo a lei ma molto lentamente, quasi con cautela. Le respira per un attimo sul volto e poi la circonda con le braccia forti e tanto familiari, immergendo il volto tra i suoi capelli e respirando fra di essi, mentre Caren si muove solo dopo qualche secondo di sorpresa, stringendogli il maglioncino sulla schiena e chiudendo gli occhi.
«Scusa - sussurra Henry al suo orecchio, con quel tono di voce che significa solo arrendevolezza. - Scusa per tutto quello che ti ho fatto passare». E Caren ha gli occhi lucidi anche se coperti dalle palpebre che fanno da sipario, il cuore che batte un po' più veloce e la porta della gabbia che l'ha imprigionata fino ad ora che vacilla.
«Non l'hai mai meritato» aggiunge Henry in un soffio, stringendola un po ' di più.
Caren trattiene un sommesso singhiozzo e affonda il viso sul suo petto. «Grazie» riesce a dire, finalmente libera. Poi si alza sulle punte e gli bacia una guancia, prolungando volutamente il contatto con la sua pelle.
Henry la svincola da quell'abbraccio - dal passato - e le sta di fronte con gli occhi che non rimangono un attimo fermi, correndo sul suo viso come se volessero assorbirne ogni più piccolo dettaglio.
«Ciao, Henry» sussurra lei, stringendosi nelle spalle.
L'altro non risponde, ma annuisce piano.
Caren si volta con le spalle e il cuore leggeri e cammina lentamente fuori dall'appartamento, lontano da Henry, pronta a tuffarsi in qualcosa di nuovo che porta un altro nome e un altro paio d'occhi.




 
 

Buongiorno!!
Capitolo appena finito di scrivere e che spero davvero che vi sia piaciuto!! Cercherò di essere breve perché ho del lavoro da sbrigare:
1. Enriqua è sempre la solita e vabbè, prima o poi riuscirà ad essere un po' meno ninfomane hahah
2. Eli! Avevo detto che sarebbe ricomparso e infatti eccolo qui: spero abbiate apprezzato il suo gesto, anche se può sembrare un po' da impiccioni. Il fatto è che ha un grande cuore e questo è il risultato: senza contare che un parere da una persona tanto legata a Lake non può di certo dispiacere alla nostra Caren! In più, ci sono diversi motivi per cui ha agito così: per aiutare il suo amico, per dimostrare a Caren di non covare rancore e anche perché se i due si lasciano lui si è "sacrificato" per niente hahah Che ne fite?
3. HENRY! So che lo odiate, ormai me l'avete detto in tutte le salse: a me invece piace, forse perché è un po' la mia creatura hahaha Non so se ci sono riuscita, ma ho cercato di far trasparire quanto lui sia cambiato rispetto a quando stava con Caren: lei stessa non lo riconosce più e anche voi più volte mi avete chiesto come abbia potuto innarmorarsi di una persona come lui! Le sue azioni così estreme sono state dettate un po' dalla sua imprudenza menefreghista, un po' da un vero bisogno di Caren. Ma su questo non mi esprimo oltre perché vorrei sapere cosa pensate voi! Ho preferito non inscenare l'ennesimo litigio tra di loro perché credo che sarebbe stato troppo forzato, quando in realtà non ce n'era bisogno: spero non vi sia dispiaciuto!
Mi scuso per l'assenza di Lake, ma GIURO che nel prossimo capitolo verrà compensata :)

Vi ringrazio di tutto come sempre: siete sempre di più a seguire questa storia (il prossimo è l'ultimo capitolo DDD:) e ho notato che lo scorso capitolo vi è piaciuto molto, quindi sappiate che mi rendete sempre molto felice e soddisfatta :) E niente, vi lascio i miei contatti, per qualsiasi cosa:
ask - facebook - twitter

Un bacio,
Vero.
 

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Capitolo 21
*** Capitolo ventuno - Epilogue ***




 
Capitolo ventuno - Epilogue
 
 
«Sei sicuro di averla messa al massimo?» chiede Barbara, sventolandosi una mano davanti al volto mentre con l'altra si appoggia al bancone appena pulito.
«Sì» borbotta Randy, dondolandosi avanti e indietro sui piedi posteriori di una delle sedie del bar. Ha gli occhi fissi sul telefono tra le sue mani e la faccia un po' più stanca del solito.
Caren, con gli avambracci sulla macchina per il caffè e le spalle ricurve per la posizione, alza lo sguardo al soffitto e si sofferma sulle ventole del lampadario - nuovo di zecca - che secondo Barbara potrebbero andare più veloci. Sono le due e trentacinque del pomeriggio, il suo turno sta per concludersi e la temperatura è davvero troppo alta, per essere ancora primavera: il locale è vuoto da più di mezz'ora ormai e loro hanno finito tutto ciò che c'era da fare, quindi sono costretti ad aspettare e a sentire l'umidità afosa appiccicarsi sulla loro pelle.
«Guarda che gira troppo piano» continua Barbara, leggermente spazientita. I capelli legati in una coda bassa non vogliono rimanere al proprio posto e gli occhi vispi sono fissi sul compagno.
«Ti ho già detto che più di così non va» ribatte lui biascicando per la stanchezza.
«Cosa ti costa ricontrollare?»
«Fallo tu, se ci tieni tanto.»
«Lo sai che ho paura delle altezze, non essere stupido.»
«Allora credo che tocchi a me, ma indovina un po'? Non ne ho voglia e non ce n'è motivo. È già al massimo.»
«Randy.»
«In persona!- esclama lui esasperato, sbuffando e tornando con tutti e quattro i piedi della sedia a terra. Stavolta guarda Barbara negli occhi e, nonostante il tono scocciato, sembra anche divertito. - Credi che non sappia il mio nome? Oggi l'hai ripetuto almeno cento volte e ormai dovresti sapere che mi piace se lo fai solo quando siamo a letto» continua, facendo ridere Caren e guadagnandosi un'occhiata minacciosa da Barbara, che si premura di lanciargli uno straccio sul volto solo per nascondere il mezzo sorriso che la stuzzica.
Cinque minuti dopo, Caren non riesce a capire se il caldo eccessivo le stia procurando delle allucinazioni o se dalle vetrine stia davvero avvistando i suoi amici dirigersi verso l'entrata del bar. Eppure può distinguere chiaramente le spalle larghe di Bob e la voce chiassosa di Enriqua, i tratti infidamente simili di Vins e Sue, i capelli biondo platino di Annah e la carnagione di porcellana di Ginnie. Ci sono proprio tutti e non sa come interpretare questa visita inaspettata, nonostante stia già sorridendo.
Appena la porta si apre con uno scampanellio, il bar precedentemente immerso nella calma si riempie di chiacchiere ed esclamazioni, di saluti e di "Volete qualcosa da bere?": Vins prende la parola e propone di offrire per tutti - il che è strano, perche Vins non offre mai.
«A cosa devo questa sorpresa?» chiede Caren a Bob, dandogli una piccola gomitata nel fianco per attirare la sua attenzione, prima che si sieda intorno al tavolo. Il ragazzo le bacia affettuosamente una guancia, forse cercando di compensare il poco tempo passato insieme ultimamente.
«Non spetta a me dirlo - risponde lui alzando le spalle. Ha il viso fin troppo sorridente. - Tu come stai? Tutto chiarito?»
«No, non ancora. Io... - Si interrompe con un sospiro e appoggia le mani sui propri fianchi. Non vuole proprio parlarne. - Perché continui a sorridere come un ebete?» gli chiede cambiando discorso, mentre lui quasi scoppia a ridere.
Caren scuote la testa per la mancanza di una risposta e si prende qualche secondo per osservare il resto di loro: Enriqua, già seduta accanto a Bob, continua a stringere tra le mani un fazzoletto stropicciato. Che abbia detto al suo ragazzo dei propri sentimenti? Questo spiegherebbe gli occhi leggermente arrossati: l'idea però non la stuzzica più di tanto, perché Robert le avrebbe sicuramente confidato una tale svolta nel loro rapporto. Ginnie, dall'altra parte del tavolo, sta ridacchiando con Annah senza alzare troppo la voce e gesticolando come mai prima d'ora: entrambe continuano a sorridere, come se anche loro non potessero farne a meno. Caren non capisce se l'euforia di Ginnie sia dovuta almeno in parte all'appuntamento avuto con il barista che ha conquistato solo poco tempo prima, al "Sunshine".
«Bob? - chiede poi all'improvviso, modulando il volume della propria voce e sporgendosi verso il suo orecchio. - Henry non viene?»
La sua è una domanda legittima, se così si può dire: solitamente il gruppo, quando si riunisce, si riunisce al completo con i corrispondenti pro e contro. Inoltre, ora che ha notato la sua assenza - e il fatto che ci abbia messo un po' di tempo la solleva - è curiosa di avere una conferma.
Per la prima volta, Bob si veste di una maggiore serietà. «No - sospira, passandosi una mano sui capelli cortissimi. - È partito, ma non chiedermi per dove perché non lo so. Nessuno lo sa».
Caren vorrebbe dire che quella situazione le ricorda qualcosa di vagamente familiare, che Henry dovrebbe imparare a non scappare ma a rimanere e ad affrontare i problemi che comunque è costretto a portarsi dentro, eppure non ne ha il tempo, perché Sue si schiarisce la voce a capotavola e si alza in piedi strusciando la sedia a terra rumorosamente. Il suo viso è raggiante e i suoi occhi mescolano il verde brillante che li caratterizza con una felicità che non può essere fraintesa. Vins, al suo fianco, le passa un braccio afettuoso intorno alla vita e si inumidisce le labbra, mentre indietreggia di poco per permettere a Randy di posare il vassoio di bibite.
«Ren, dobbiamo dirti una cosa» esclama Sue, stringendosi nelle spalle per l'impazienza. Di cosa parla? E questo significa che gli altri sanno già tutto o che è qualcosa che riguarda soltanto lei?
«Ehm.. Ok?» risponde Caren, corrugando la fronte con un leggero sorriso sulle labbra.
Per un attimo Vins e Sue si guardano negli occhi con la stessa e identica espressione sul volto, poi la ragazza si volta di nuovo verso la sua amica, ma le parole che vorrebbe pronunciare vengono precedute dalla voce alta di Annah. «Avanti, faglielo vedere!» la incita, afferrando subito dopo la bottiglietta d'acqua che si è fatta portare - "Oh, da oggi sono a dieta!".
«Shh!» la rimprovera Enriqua, fremendo sulla sedia, mentre Caren la osserva velocemente rendendosi conto della sfumatura serena dei suoi occhi.
«E va bene, va bene» esclama Sue, riattirando l'attenzione su di sè. Caren sbatte le palpebre, sempre più confusa, e aspetta in silenzio con le labbra leggermente schiuse.
Qualche istante dopo, mentre la dentatura bianca di Sue compare grazie ad un sorriso largo e sincero, lei alza la mano davanti al proprio petto tendendola verso l'amica: sull'anulare sinistro, un anello di fidanzamento circonda il dito sottile.

Caren inspira profondamente e stringe per un secondo i pugni, come a ricavarne un po' di forza o coraggio. Ormai ogni fibra che la compone freme al pensiero di ciò che le manca per essere completa e lei è disposta a tutto pur di ottenerlo di nuovo. 
Suona il citofono e attende con il labbro inferiore tra i denti e i capelli che si muovono delicatamente a causa degli sporadici aliti di vento caldo. Nonostante sia pomeriggio inoltrato la temperatura non si è abbassata di molto, permettendole di uscire a maniche corte.
«Chi è?» risponde la voce di Lake, facendola rabbrividire nonostante sia resa diversa dal filtro meccanico che si frappone tra di loro.
«Sono Caren» dice lei, alzandosi per un attimo sulle punte. Stringe la cinghia della borsa tra le mani e aspetta con la bocca schiusa, speranzosa. Dopo una manciata di secondi, pensa addirittura che Lake non voglia farla salire perché il silenzio è assordante ed eloquente, eppure, proprio quando sta per perdere le speranze, il portone si apre e lei può tornare a respirare.
È già qualcosa. Non l'ha respinta e questo può essere un buon segno: evidentemente è disposto ad intrattenere un confronto che per tutto quel tempo è sfuggito loro di mano o non c'è proprio stato. 
Caren sale velocemente le scale e quando arriva davanti all'appartamento di Lake ha quasi il fiatone, ma si impone di non darlo a vedere: lui non la sta aspettando sulla porta, che però è socchiusa e aspetta solo di essere aperta e di richiudersi dietro qualcosa che potrebbe rinascere.
Il salotto è sempre un po' disordinato e pieno zeppo di oggetti personali che sono inutili ma che sono comunque ricordi: Lake è in piedi tra il divano e la tv e si sta accendendo una sigaretta mentre tiene gli occhi socchiusi. I pantaloni blu della tuta hanno ancora un piccolo buco su un lato e la t-shirt nera gli sta un po' larga, ma mette in risalto la sua pelle diafana.
«Ciao» sospira Caren a bassa voce, facendo qualche passo lento in avanti. Spera di poter incontrare il suo sguardo, ma deve rinunciarci quando quello segue l'accendino che viene posato sul tavolino lì vicino. Non sa se quel silenzio sia un invito a parlare o l'ennesimo velato rifiuto, ma poco le importa, perché questa volta non si lascerà condizionare dai suoi comportamenti.
Dopo un respiro profondo, inizia a parlare. 
«So che per te le parole non sono importanti, ma hanno comunque un loro valore - comincia, attirando finalmente gli occhi di Lake nei suoi. Sono spenti e attenti al tempo stesso, mentre le labbra sono increspate intorno alla sigaretta e il viso è parzialmente coperto dal fumo che espira ritmicamente. - E per una volta, vorrei che tu ascoltassi cosa ho da dire, così come io per tutto questo tempo ho dovuto acccontentarmi dei tuoi silenzi e dei tuoi gesti.»
Lui non la interrompe, ma dalla sua espressione non traspare nulla. Caren fa un altro passo in avanti, pronta ad avvicinarsi sempre di più al suo corpo man mano che le parole usciranno dalla propria bocca.
«Ieri sono andata da Henry e ho fatto quello che dovevo: gli ho fatto capire che non sarà più parte della mia vita, se non nei miei ricordi, e lui l'ha finalmente accettato. Ho sempre voluto mettere un punto a quella storia ed è vero, sono stata troppo debole e spaventata per farlo sin dall'inizio, ma per quanto fossi confusa e influenzabile non ho mai pensato di tornare con Henry. Te l'ho sempre detto e forse non sono stata brava a dimostrarlo perché ho commesso degli errori, eppure ero sincera: non ti ho mai mentito, proprio perché desideravo darti solo la verità, e vorrei che tu mi avessi creduto, al posto di fingere che andasse tutto bene. Avrei potuto sforzarmi un po' di più, avrei potuto essere più forte, invece mi sono appoggiata ad una persona che non si fidava di me e che forse non riesce a farlo nemmeno ora. Non so perché tu sia sempre stato così prevenuto nei miei confronti, perché non mi abbia mai concesso il beneficio del dubbio, e questo mi ferisce, perché non credo di averlo meritato. - Caren fa una piccola pausa e respira piano, inumidendosi le labbra e tenendo lo sguardo in quello di Lake, che la sta osservando continuando a fumare quasi distrattamente. Ormai gli è di fronte, può sentirne il profumo. - Non merito nemmeno di essere etichettata come quella che ha fatto sesso con il suo ex in un vicolo mentre era ubriaca: non l'ho fatto, non l'avrei mai fatto e tu in fondo lo sai. Dovresti saperlo, perché io ho sempre cercato di farti capire quanto per me tu sia importante, anche mentre impedivo ad Henry di baciarmi ancora una volta e mi pentivo di quella stupida notte l'attimo dopo, anche mentre ti chiedevo scusa e mentre tu preferivi credere ad Henry, anziché a me. Nonostante tutto, sono venuta qui perché cazzo, Lake, perché non vuoi perdonarmi? Perché non vuoi nemmeno provarci? Tutto questo è assurdo, abbiamo sbagliato entrambi eppure non riusciamo neanche a parlare: io non posso fare più niente per dimostrarti quello che provo, non posso usare più nessuna frase o parola, e sono stanca di provarci senza alcun risultato. Io voglio che tu mi creda. Lo pretendo, perché sono stata una stupida ma lo sei stato anche tu e perché mi manchi più di quanto vorrei. Io pretendo che tu torni da me.»
Ha concluso con la voce che un po' ha tremato, ma non le importa. Non è riuscita a portare a termine il discorso che ha ripetuto nella sua mente una decina di volte, perché si è lasciata trasportare dai sentimenti che cova dentro e che sono fuoriusciti sotto forma di una preghiera travestita da pretesa.
La sigaretta di Lake è quasi finita ed è ancora incastrata tra l'indice e il medio della sua mano destra: c'è talmente tanto silenzio che, se facessero più attenzione, riuscirebbero a sentire il crepitio della carta e del tabacco che bruciano.
Caren sotto il suo sguardo si sente soffocare, ma sta cercando di rimanere impavida e di ignorare il cuore che batte più forte per l'attesa snervante. Vorrebbe afferrargli le spalle magre e scuoterlo per far uscire delle parole dalla sua bocca, poi vorrebbe baciarla e implorarla. Non può fare nessuna di queste cose - non ancora almeno - quindi si limita a spingere le unghie nei palmi delle proprie mani e a mordersi le labbra.
«Hai finito?» le chiede all'improvviso e a bassa voce. Fa un ultimo tiro e prima di espirare il fumo spegne la sigaretta nel posacenere sul tavolino. Subito dopo torna a guardarla lentamente, mentre lei corruga appena la fronte per decifrare quella domanda che può nascondere significati opposti.
«Posso parlare io?» aggiunge Lake, facendo un passo avanti. Li dividono pochi centimetri e i loro visi sono protesi l'uno verso l'altro, ma senza fare movimenti azzardati. Caren sente il proprio corpo risvegliarsi per quella vicinanza: vorrebbe toccare il suo, ma sa che sarebbe un gesto avventato.
Lake non aspetta una sua risposta, nè si muove di un millimetro. «Ho dovuto difendermi in qualche modo - inizia quasi in un sussurro, muovendo le labbra lentamente e tenendo gli occhi di un blu sporco in quelli impazienti e confusi di Caren. - Pensi che non ci abbia provato, hm? Pensi che non abbia provato in tutti i modi a fidarmi di te? Ma come avrei potuto farlo? Forse non ricordi in che stato eri quel giorno che Henry si è presentato al bar e tu ti sei rinchiusa nel bagno a piangere, ma io lo ricordo bene: quella volta ho capito che avrei dovuto fare attenzione, che avrei...»
Lake si interrompe sospirando per quella che sembra frustrazione e Caren vorrebbe pregarlo di continuare, spinta dalla voglia di sapere e di capirlo fino in fondo. Non è la prima volta che lui riporta a galla quell'episodio e non è la prima volta che dimostra di averlo tatuato nella mente, ma a differenza di quanto lui crede, anche lei ha ancora ben impresso nella memoria quel momento: la fragilità che l'aveva scossa, però, è ora una sensazione quasi estranea. «È questo il tuo problema - prende la parola, senza aspettare che sia lui a finire il discorso. È intenzionata a dire qualsiasi cosa le passi per la testa. - Vedi solo quello che vuoi. È vero, quel giorno ero a pezzi e lo sono stata innumerevoli altre volte, ma ti ho sempre spiegato il perché: ti ho sempre spiegato che era dolore che mi portavo dietro da troppo tempo e che non ero mai riuscita a far uscire, che Henry mi aveva ferita in modo tale da impedirmi di essere forte, almeno con lui. Però perché non vedi nient'altro? Perché non ti accorgi che quello stesso giorno sei stato tu a farmi sentire meglio? E che in tutte le altre occasioni ho cercato te per stare bene? Non credi che se avessi voluto sarebbe stato molto più facile lasciarti da parte e tornare da Henry? Non credi che io ti abbia dimostrato in qualche modo di non voler andare da nessuna parte?»
«Te ne sei andata, invece - ribatte Lake, stringendo i pugni e anche la mascella. Parla piano, guardandola serio con le iridi dure. - Ogni volta che non hai messo un punto a quella dannata storia, te ne sei andata. E io ho sempre dovuto aspettare che tornassi, che la smettessi di piangere per un altro: ho dovuto raccoglierti da un marciapiede quando non ti reggevi in piedi, solo per scoprire che eri stata con lui. Non voglio più farlo, non voglio più aspettarti».
Possibile che Lake abbia sofferto così tanto per quella situazione? Caren ripercorre velocemente tutti gli istanti passati insieme, tutte le sue reazioni e gli sguardi malcelati insieme alle parole taciute: ovviamente sa che Henry è sempre stato un tasto delicato, ma in qualche modo non ha mai notato tutta la paura di Lake, non ha mai colto la sua profondità. Come ha fatto ad essere così cieca? Probabilmente la loro diversità in fatto di comunicazione ha determinato un fraintendimento: lei, così attaccata alle parole e così superficiale nei confronti dei gesti, probabilmente non si è accorta di ciò che lui ha sempre cercato di dimostrarle senza però riuscirci.
Caren deglutisce con le labbra schiuse e alza una mano per portarla sul viso di Lake, sulla guancia destra che si irrigidisce al contatto delicato, accanto agli occhi che per un attimo si chiudono per proteggersi da chissà quale sensazione. «Sono qui» sussurra, come a contraddire qualsiasi parola appena pronunciata, come a dirgli che non deve aspettarla perché c'è già. Non sa più come farglielo capire e le sembra impossibile che lui ancora non ci creda: glielo urlerebbe, se avesse la sicurezza di non essere presa per pazza. 
«Dimmi ancora una volta che ha mentito - mormora Lake, con ancora la sua mano sul volto. - Dimmi che è stato solo un bacio.»
Lei respira piano e ritrae la mano. «Lo sai già - risponde a bassa voce. - E tu dimmi che mi credi».
Le labbra di Lake si irrigidiscono per un paio di fuggevoli secondi, mentre i suoi pugni si stringono lungo i fianchi. È estenuante pensare che lui abbia ancora dei dubbi o delle paure, che delle semplici parole - le stesse che disprezza e sottovaluta - siano state capaci di distruggerlo e di distruggere loro un po' di più. 
Non ricevendo risposta, Caren decide di cambiare approccio.
«Toccami» gli ordina, osservando con attenzione qualsiasi cambiamento di espressione o di sfumatura delle sue iridi. Ha bisogno di sentire le sue dita sulla propria pelle e forse lui ha lo stesso bisogno, perché è evidente che come sempre le parole non gli bastino.
Eppure non si muove, così Caren si sente in dovere di accarezzargli una mano e poi di stringerla per portarsela sul collo scoperto, delicatamente. Per un attimo chiude gli occhi e smette di respirare, abituandosi ancora una volta alla sensazione dei polpastrelli ruvidi di Lake su di sè. Aspetta qualche secondo sperando che lui reagisca, che come lei senta ciò che indissolubilmente li lega.
Lake serra la mascella e muove impercettibilmente le dita, poi respira lentamente e sposta la mano verso il basso, accarezzandole il petto con il dorso, il seno e l'addome piatto che è fin troppo coperto. Il suo tocco è esitante, come se fosse sull'attenti, pronto a captare qualsiasi segnale di familiarità o di cambiamento. Entrambi sanno quanto quel semplice contatto sia fondamentale, sanno che può valere più di mille altre cose e che fino ad allora Lake l'ha evitato come per definire un confine e un distacco. Quando quel giorno al campo da basket le ha proibito di toccarlo, ha segnato una frattura ben più profonda di quella che si sarebbe creata in altre occasioni.
Caren attende non molto pazientemente per qualcosa di più, quel qualcosa che li ha sempre caratterizzati e che negli ultimi giorni le è mancato in modo asfissiante. E quando lui le passa un braccio intorno alla vita, stringendole il fianco destro con forza, quasi sorride per il sollievo e la felicità e i "grazie" che vorrebbe proprio urlare. Resta inerme intrappolata nella sua presa e si concentra sui loro petti che quasi si sfiorano, sul suo viso che si avvicina al proprio quasi con tormento.
La mano sinistra di Lake si sposta tra i suoi capelli e li stringe in modo da farle sollevare il volto un po' di più, mentre le osserva le labbra intensamente. Chissà se riesce a sentire le preghiere che Caren sta recitando dentro di sè affinché la baci una volta per tutte, mettendo fine ad una pena che ha scontato ormai in abbondanza.
«Ma non capisci che il solo pensiero che lui ti abbia toccata è insopportabile? - dice Lake a denti stretti, senza muoversi ulteriormente, mentre Caren porta una mano sul suo braccio come a tenersi a lui per non cadere. - Non capisci che la sola possibilità che ti avesse presa... Non capisci?»
È stata paura, la sua? Dopo aver saputo di quel bacio che Caren vorrebbe solo cancellare, forse le parole di Henry non hanno fatto altro che rincarare la dose stuzzicando una eventualità troppo dolorosa? Probabilmente è per questo che Lake ha reagito in quel modo, respingendola in blocco senza volersi soffermare un po' di più sulla realtà dei fatti: probabilmente la possibilità di vedere concretizzarsi le sue paure l'ha paralizzato, facendogli preferire la strada più semplice, quella del completo distacco. A questo punto è più probabile che non fosse davvero disposto a credere ad Henry, ma che si costringesse a farlo per proteggersi.
Ho dovuto proteggermi in qualche modo.
«Non deve esserci nessun altro - aggiunge Lake, a soli pochi millimetri dalla sua bocca, in una tortura che va oltre qualsiasi aspettativa. Le sue parole fanno tremare Caren, che stringe un po' più forte il suo braccio, come a supplicarlo in silenzio. - Non posso dividerti con qualcun altro» continua.
«Io non voglio nessun altro» sussurra lei, portando l'altra mano tra i suoi capelli neri, finalmente libera di sentirli di nuovo tra le proprie dita. In quell'incastro di braccia e petti che ancora non si toccano, si stanno tenendo a vicenda come a non volersi più lasciare, come a dire "guarda che non te ne puoi andare".
A quel punto Lake inspira velocemente e appoggia la fronte alla sua, stringendo un po' di più la presa sul suo collo e facendo battere più forte - troppo forte - il cuore di Caren. «Mi dispiace - dice lei per l'ennesima volta, ripetendo le stesse parole che ultimamente ha dovuto pronunciare fin troppe volte. - Mi dispiace per tutto». Riuscirà mai a smettere di scusarsi?
Qualsiasi siano le sue intenzioni, però, non può metterle in atto perché nulla potrebbe allontanarla dalle labbra di Lake che in un attimo sono sulle sue. Nulla potrebbe evitarle di gemere qualcosa, come in un verso di dolore causato dalla frenesia che quel contatto le sta suscitando dentro. E nulla, assolutamente nulla, potrebbe farle interrompere quel momento che lei ancora non riesce a capire se sia reale.
Eppure il respiro di Lake sul proprio viso lo sente davvero, così come il proprio battito cardiaco è troppo intenso per poter lasciare spazi ad eventuali dubbi, e la felicità che sente dentro - fin nelle ossa - non potrebbe essere così piacevole in una semplice scena immaginaria. Quindi Caren si preme contro il corpo che la sta chiamando e torturando al tempo stesso, inarcando la schiena perché la mano di Lake ci si è posata sopra con le dita premute contro la stoffa della maglia. 
«Questi ultimi giorni... - sussurra Lake sulla pelle del suo collo, mordendola delicatamente subito dopo. - Hanno fatto schifo... - continua lento, spostandosi verso la base del suo orecchio e facendola rabbrividire. - Senza di te.»
Caren, ad occhi chiusi e con il respiro accelerato, non può trattenere la bozza di un sorriso. Probabilmente è una reazione fuori luogo e un po' presuntuosa, ma è inevitabile, perché dimostra il sollievo derivante dall'aver smentito la possibilità di aver definitivamente perso Lake.
Stranamente incapace di articolare verbalmente uno qualsiasi dei vorticanti pensieri che la stanno invadendo, Caren si limita a cercare di nuovo le labbra che tanto brama e che chissà quando si stancherà di baciare per rifarsi delle volte in cui non ha potuto farlo.
Finalmente le è concesso di sentirlo ancora.
Finalmente può chiudere gli occhi e godersi la sensazione che la bocca morbida di Lake provoca in lei, senza doverla soltanto ripercorrere in un ricordo.
E forse dovrebbero parlare ancora un po', forse dovrebbero approfondire il discorso ed esprimere chiaramente tutto ciò che provano e che si aspettano l'uno dall'altra, ma che bisogno c'è? In questo è d'accordo con lui, perché cosa potrebbe esserci di più esplicativo del respiro che stanno condividendo? Della mancanza che entrambi stanno cercando di ricolmare disperatamente? Quali parole potrebbero usare per descrivere quello che stanno attraversando e perché bisognerebbe descriverlo, quando lo stanno vivendo così vividamente?
Comunque Caren, anche se non lo dice, ormai sa distinguere nitidamente quello che sente, quello che le scuote ogni centimetro di pelle non appena Lake le si avvicina. Potrei amarti. È questo che pensa, infatti, mentre si lascia sfilare la maglia e mentre accarezza il suo addome al di sotto della t-shirt, sfiorandogli poi la schiena contratta. È la verità, potrebbe davvero farlo: magari non subito o magari sta già iniziando, ma non può davvero immaginare di alleviare i propri sentimenti, perché riesce a prevedere solo una loro intensificazione. Con Lake al proprio fianco, non potrebbe essere altrimenti, non per lei.
Potrei amarti, pensa ancora. O l'ha detto ad alta voce? Forse l'ha sussurrato tra un bacio all'altro, perché può sentire distintamente quanto la presa di Lake sul proprio corpo si sia intensificata in una reazione di risposta, come il suo respiro stia accelerando. Eppure non le sembra di aver mai smesso di baciare le sue labbra per pronunciare qualcosa, nonostante in ogni più piccola parte di sè continui a percepire rimbombare quelle due parole, ancora e ancora.
Potrei davvero amarti.
O forse è stato Lake a dirlo.




 
 

Buoooongiorno!
LO SO, mi odiate perché vi ho fatto aspettare fin troppo per questo capitolo (che poi è anche discutibile.....), ma come molte di voi sanno ultimamente non ho molto tempo e Lake mi ha fatto un po' disperare hahaha Insomma, mi dispiace per il ritardo, ma spero davvero che l'attesa sia stata ricompensata!
Che dire? La prima parte è molto tranquilla, perché è una semplice scena di vita quotidiana, se non fosse per le piccole novità: Ginnie si sta accasando, Annah forse ha capito di doversi mettere a dieta, Enriqua non ha ancora detto nulla a Bob, Henry non ha ancora imparato a gestire i propri problemi (piccino, voglio bene anche a lui! dalle recensioni allo scorso capitolo ho notato che ha acquistato molti punti ai vostri occhi, quindi ne sono felicissima :)), e Sue e Vins si sono fidanzati :) Loro due li vedo molto come una di quelle coppie che stanno insieme da anni e che staranno insieme mille volte tanto ahaha
E per passare al tanto atteso confronto tra Lake e Caren, be', ho dovuto sudare per scriverlo! Non starò a commentare ogni cosa che si sono detti, perché credo che finirei per essere ripetitiva: voglio solo precisare alcune cosette. Come anche Caren dice, forse entrambi avrebbero dovuto soffermarsi un po' di più sui loro problemi, ma è anche vero che una coppia come loro ha altri modi di affrontare le cose. Lake avrebbe potuto fare il solito discorso d'amore appassionato e bla bla bla, ma è di Lake che stiamo parlando e non sarebbe stato da lui: senza contare il fatto che ho cercato di rimanere con i piedi per terra, nel senso che nella realtà non sempre si ha il coraggio o la voglia di perdersi in discorsi profondi da romanzo rosa, quindi ho preferito adattare al loro modo d'essere anche la loro riappacificazione :) Spero che l'abbiate apprezzata, anche se avrei voluto fare di meglio! Riguardo la parte finale, quel "potrei davvero amarti", be', vorrei leggere quali sono le vostre ipotesi: se è stato Lake a dirlo o Caren, o se qualcuno l'ha davvero detto o meno! Sono curiosa :)

Non mi sembra vero che questa storia sia davvero finita! Sembra ieri il giorno in cui l'ho iniziata!! E non mi sembra vero nemmeno che vi sia piaciuta così tanto! Non so davvero come ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me e per questi personaggi, per tutte le meravigliose parole e tutti i messaggi che mi avete mandato :) Grazie, grazie, grazie! È stato un piacere scrivere questa storia e avere delle lettrici come voi :)

E niente, vi lascio i miei contatti, per qualsiasi cosa:
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Un bacio,
Vero.

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