Eugène et sa poupée

di lili1741
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


prova

Giocavo a carte. Bevevo. Mi divertivo come chi per anni non ha fatto altro che recitare "padrenostri" e ricevere frustate, e finalmente assapora la Libertà. Avevo diciannove anni e per me allora la libertà consisteva in bere, dilapidare il mio già esiguo patrimonio ai tavoli da gioco delle feste dei nobili, frequentare turpi compagnie che aumentavano la riprovazione che gravava sulla mia famiglia a causa dei passati intrighi di mia madre, allora in esilio in Belgio.

Mi stordivo per dimenticare che il mio destino l'avevano deciso mia nonna e mia zia due anni prima, facendomi prendere i voti da sacerdote, senza tenere in alcuna considerazione ciò che volevo fare io.

Da sobrio, le loro voci acute e stridule echeggiavano continuamente nelle mie orecchie: Eugène, questa è la tua unica possibilità di combinare qualcosa nella vita. Sei gracile, quasi femmineo per via di quei tuoi capelli biondi e lunghi. Hai le spalle storte. Di nobile hai solo il cognome, de Savoie. Tua madre, quella sgualdrina, ha rovinato la nostra famiglia. Che altro potresti fare, se non il prete?

Ma dopo qualche bicchiere di vino rosso, di quello dolce e forte, mi sentivo libero di immaginare un futuro da condottiero, generale dell'esercito di Re Luigi XIV, onorato e riverito come un principe.

Quindi bevevo tutte le sere come se dovesse essere l'ultima giornata di festa della mia vita, e quella sera a palazzo Polignac non faceva eccezione. Incitato da mio cugino Armand, puntavo a carte i gioielli di mia madre, che un tempo le aveva donato il Re in persona, e mentre contemplavo per l'ultima volta quei lapislazzuli grandi come uova di quaglia passarmi tra le mani, ascoltavo il commediografo Dancourt, che recitava un suo componimento satirico sui paggi della corte di Francia.

Fu allora che nella grande sala delle feste dei Polignac entrò un giovane poco più grande di me, accompagnato da uno strano silenzio di reverenza e da qualche cenno di saluto. Pensai, commettendo così il peccato di bestemmia, che fosse un angelo. Nessuna definizione più profana gli si adattava. La sua pelle era candida come la porcellana, i suoi capelli lunghissimi e neri erano inanellati in riccioli che ricordavano le onde del mare di notte, i suoi occhi erano castani chiari, ricchi di riflessi verdi come un bosco incantato. E i suoi lineamenti... il suo viso da bambola mi ricordò la perfezione delle orazioni latine su cui tanto avevo faticato durante gli anni di studio.

La sua bellezza era capace di docere: un monito costante del fatto che, benché i beni terreni siano fuggevoli, la loro vanitas sia in grado di catturare le nostre anime peccatrici con la forza di una tempesta.

Che fosse nato per delectare era fuor di dubbio. La grazia con cui sorrideva, l'armonia del suo aspetto e lo sguardo con cui tutti i presenti tacitamente lo lodavano ne erano le prove più evidenti.

Ma non avevo incontrato mai nessuno prima di allora che fosse in grado di movere! Quel giovane sì, era dotato di una bellezza commovente, che faceva venir voglia di idolatrarlo come una divinità, o di pregare Iddio che lo facesse addormentare per sempre come Endimione, perché la sua bellezza non dovesse mai sfiorire.

"Chi è?" chiesi, stordito da quella apparizione e dal vino, ad Armand.

"Il principe Louis-Honoré de Bourbon-Montpensier. Dicono sia uno dei giovani più belli di Francia. Quella accanto a lui è la sua amante." rispose, indicando una graziosa damigella a cui egli dava il braccio.

Non aveva alcuna importanza. Che avesse pure un'amante, fosse anche Venere in persona. Che avesse pure una moglie. Io dovevo parlagli, o non avrei avuto pace. Volevo sapere quale anima era quella che aveva il privilegio di celarsi dietro a un aspetto così sublime. Volevo ascoltare la voce con cui dava corpo ai suoi pensieri. Volevo sapere se un essere così perfetto potesse soffrire, e per quali ragioni.

Mi alzai, barcollando appena, dal tavolo da gioco, e salutai per sempre la collana di lapislazzuli. Con un coraggio che solo il vino mi sapeva dare, facendomi dimenticare il mio aspetto scialbo e ben lungi dall'essere divino, mi recai a salutare il principe di Montpensier.

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


 

Grazie mille a emerald_01 e a Xibalba per le loro recensioni, e a coloro che hanno aggiunto questa storia ai preferiti. Mi piacerebbe molto sapere cosa ne pensano e spero di aver soddisfatto le loro aspettative con questo secondo capitolo!

La mia mano penzolava fuori dal finestrino della carrozza, mentre guardavo il cielo trapunto di stelle luminose. Ci vedevo doppio per il vino, ed era bellissimo: davanti a me c'erano due Dragoni, due Orse Minori, due Ercoli che si rincorrevano nel cielo.

"Eugène, quanto era bella la ragazza che era con lui, Anne de Blois!" biascicò Armand, seduto scompostamente davanti a me, con gli occhi semichiusi dalle pesanti borse dovute ai vizi ed alla stanchezza ed il naso rosso. "È una delle figlie riconosciute di Sua Maestà... forse siete fratelli! Ma, senza offesa, a lei è toccato in sorte un aspetto decisamente più regale del tuo."

"N-non sono figlio del R-re." balbettai io, mentre Armand rideva convulsamente. "S-solo gli idioti credono a questa diceria. Ad esempio i miei parenti."

"E lui, il principe di Montpensier? Polignac mi ha detto che lo chiamano la poupée , la bambolina, da tanto è bello. Ma tu certo lo conosci meglio di me, ormai! Di che avete parlato per tutta la serata?"

Tornai a guardare fuori dal finestrino le mie amiche stelle, mentre il cuore prese a battermi all'impazzata. Allora non era stato un sogno da ubriaco, avevo davvero parlato per tutta la sera con Honoré de Montpensier! Cercai di richiamare alla memoria ogni dettaglio di ciò che era successo. Polignac ci aveva presentati. Per un po' ci eravamo scambiati rapide occhiate e sorrisi imbarazzati, mentre gli altri conversavano di persone a noi ignote e Anne de Blois si lasciava corteggiare da mio cugino. Inaspettatamente, mi aveva convinto ad andare a prendere una boccata d'aria sul balcone con lui. Ero trasalito, ma avevo accettato.

Mi aveva raccontato una serie di aneddoti idioti su delle feste a cui era stato. Viso d'angelo, cervello di gallina. Ti è andata bene che a te è toccato il contrario! Avevo sentenziato tra me e me. Non ero sorpreso, avevo visto spesso persone bellissime rivelarsi frivole e vacue. Ma ora che avevo potuto saggiare che anche il principe di Montpensier era tra queste, potevo anche tornare al tavolo da gioco, nella speranza di riconquistare la collana. Non ero sorpreso, ma ero deluso...

Stavo per accampare una scusa qualunque per rientrare, quando una sua domanda mi colse di sorpresa.

"Voi parlate l'italiano, vero? Conoscete il poeta Chiabrera?"

Il suo sguardo, che era stato vacuo e distante per tutto il tempo in cui mi aveva raccontato quegli aneddoti, si era improvvisamente illuminato. Era ancora più bello della prima volta in cui lo avevo visto.

"Conosco solo la sua poesia intitolata 'Belle rose porporine'..." risposi, colto alla sprovvista. " Ma so che è un poeta molto famoso, non è così?"

Honoré aveva riso. Una risata molto malinconica, che era entrata nel profondo del mio cuore.

"Gli ho mandato da leggere alcune delle mie poesie. Dice che sono belle, che dovrei provare a pubblicarle. Ma non penso che lo farò. Sarebbe strano per un principe del mio rango pubblicare poesie, non credete?"

Ci mettemmo a discutere a lungo di letteratura, di arte, di musica. Mi ero sbagliato su di lui, tacciandolo di stupidità. La sua cultura superava di gran lunga la mia, basata solo sullo studio dei testi sacri e di Aristotele. Scriveva poesie. Madrigali, strofe anacreontiche... era un poeta classicista, scriveva in italiano ed in francese. Mi raccontò dei suoi sogni di gloria letteraria, di eternità per mezzo della parola. Io gli rivelai le mie aspirazioni ad un'eroica carriera militare. Non rise, non mi disse che il mio aspetto fragile e delicato non era certo quello di un soldato. Sorridendo, mi disse che avrebbe cantato le mie vittorie nelle sue poesie.

Gli occhi mi diventarono lucidi, per il vino e per la commozione. Era la prima persona che non mi schernisse e che credesse in me. Per evitare che se ne accorgesse, mi volsi a guardare il giardino di palazzo Polignac, con le sue bellissime aiuole fiorite e la luce della luna che si riversava come una cascata argentata su di noi. Ero felice di trovarmi lì, con lui, su quella splendida terrazza. Grazie a lui quella ordinaria serata di degradazione aveva acquistato un senso profondo ed ineffabile.

Sentii allora la sua mano fredda e delicata posarsi sulla mia spalla.

"Abate de Savoie, vogliate scusarmi, ma devo andare. Il mio palazzo è molto distante da qui." Il suo volto mezzo illuminato da quella debole luce mostrava un'espressione molto grave. "Ci sarete alla festa di Sua Maestà, tra una settimana a Versailles, vero? Io vorrei proprio rivedervi."

"Certo, certo. Ci sarò." avevo detto, guardando ancora la sua bella mano sulla mia giacca.

"Bene." aveva risposto sorridendomi. "Mi avete promesso che ci sarete. Io vi aspetterò." Dopo aver detto queste parole, se n'era andato, lasciandomi solo e pensieroso sul balcone.

"Ci siamo detti le solite stupidaggini." risposi però ad Armand, arrossendo. "I soliti aneddoti sulle feste: Tizio che ha vomitato addosso a Caio, la marchesa di Vattelapesca che ha perso tutto il mobilio a carte."

"Eugène, non dirmi che ti sei innamorato!" aveva strillato con voce acuta, ridacchiando. "Pensavo che tu fingessi soltanto di essere un sodomita, proprio come io e Dancourt quando fingiamo di baciarci!"

"Sei sbronzo marcio, Armand." ribattei, ancora più rosso in volto. "Smettila di vaneggiare. Faccio finta come fate voi. Altroché bambolina..."

Armand però si era addormentato, e russava sonoramente stravaccato sui sedili della carrozza, rovinando il velluto cremisi con il fango di cui erano ricoperti con i suoi stivali sporchi.

Si comporta proprio da idiota, a volte... pensai. Ma la mia mente ed il mio cuore erano in subbuglio, ripensando a ciò che mio cugino aveva detto. Cercai di convincere me stesso che desideravo solo l'amicizia di Honoré, nient'altro che la sua amicizia. Ma la mia esperienza mi rivelava che non era così. Avevo numerosi amici, e non mi era mai capitato di arrossire o trasalire quando qualcuno di loro mi guardava negli occhi. Non mi batteva il cuore quando pensavo ad uno di loro assente. Non mi era mai capitato di sentire dentro al mio petto quella sensazione di vuoto, come se potessi contenere al mio interno tutto l'infinito, che sentivo in quel momento e che mi rendeva così euforico e sensibile.

Era possibile che quello fosse Amore?

Ripensai alla promessa di essere presente alla festa del Re che avevo fatto ad Honoré. Il giorno della festa, sarei dovuto in realtà andare a visitare la mia abbazia, fonte delle mie sole rendite. Dovevo andare a fare i miei interessi, a controllare che i terreni venissero usati nel modo più fruttuoso possibile.

Decisi che avrei rinunciato alla visita all'abbazia. Che mi ingannassero pure nel darmi il denaro dovuto. Io dovevo rivedere Honoré, era una forza potentissima ed irrazionale a ordinarmi di farlo, e non ammetteva repliche.

Avrei rinunciato al mio vantaggio per quel giovane stupendo. Per la sua bellezza, ma anche per il suo fascino, per la sua personalità dolce e malinconica, per la gioia che provavo quando ero vicino a lui. Perché forse la sua mano si sarebbe poggiata di nuovo sulla mia spalla, ed avrei di nuovo dimenticato per un attimo, senza dovermi ubriacare, tutti i miei affanni e le mie tristezze.

Era possibile che quello fosse Amore? Qualunque cosa fosse, era la cosa più bella che mi fosse mai capitata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


 

Innanzi tutto grazie a Xibalba e a Dicembre per avermi fatto superare per la prima volta il "muro" delle due recensioni: per me è veramente una soddisfazione. Per Dicembre: questa volta riporto un po' di più i dialoghi tra Eugène ed il principe;) Però, essendo un racconto in prima persona, sono comunque dal suo punto di vista, in un certo senso. Come vedrete questo capitolo è lungo (ma anche la narrazione che al momento risulta superflua serve poi per il seguito) e visto che anche il prossimo si preannuncia tale ho una domanda per chi legge: meglio che lo divida in due parti o va bene lungo così?

Grazie a chi mi segue e buona lettura!

La festa si teneva nei giardini di Versailles ed i tavoli erano stati disposti per l’occasione tutt’intorno alla fontana di Nettuno, dietro la quale era stata posta a suonare un’orchestrina d’archi.

Il Re con tutta la sua famiglia pranzava nel maestoso tavolo centrale, e fu lì che io ed i miei parenti dovemmo recarci per porgergli i nostri saluti.

Io avevo diritto, in qualità di ecclesiastico, ad avvicinarmi per primo al suo scranno d’oro, ma prima che potessi farlo la voce di mia nonna paterna, duchessa Borbone-Soissons, mi raggiunse maligna alle spalle : "Ve ne prego, non fate sfigurare ulteriormente la nostra famiglia. Non sopporterei di vedervi ubriaco quest’oggi."

"Farò del mio meglio, signora Duchessa." Le sussurrai, facendo attenzione a non chiamarla ‘signora Nonna’, cosa che mi aveva espressamente vietato. Era convinta che io non fossi suo nipote, ma un altro dei bastardi del Re.

Gli sguardi della famiglia reale erano tutti posati su di me. Re Luigi mi scrutava attentamente con aria divertita, probabilmente chiedendosi anche lui se io fossi veramente il frutto della sua relazione con mia madre. La Regina Maria Teresa mi guardava con il suo sguardo perennemente vacuo e malinconico. La Principessa Palatina, cognata del Re, mi riservava come di consueto occhiate di autentico disprezzo, senza che io avessi mai fatto nulla per meritarmele. L’unico volto gentile che potevo vedere intorno a me era quello del Duca Philippe d’Orléans, fratello del Re e marito della Principessa, che mi sorrideva con affetto.

"I miei omaggi, Vostra Maestà" dissi rivolto al Re, inchinandomi profondamente e baciando la sua mano carica di anelli preziosi, la stessa mano con cui aveva toccato mia madre... mi ritrovai a pensare, ma cercai di reprimere il mio intimo disgusto sfoderando il mio sorriso più adulatorio.

"Ah, ecco finalmente il nostro Abatino!" esclamò, sorridendo maliziosamente. "Che ne dite di pranzare al mio tavolo, oggi? Voglio avere un’occasione per guardarvi bene, visto che non venite mai a Corte."

"Non chiederei un onore più grande..." dissi io, inchinandomi di nuovo ed arrossendo per la sua inaspettata benevolenza, mentre il resto della corte mi guardava con invidia. Un attendente mi accompagnò fino al mio posto a sedere, proprio accanto al Duca d’Orléans che mi indirizzò un altro sorriso, mentre il resto della mia famiglia, dopo aver omaggiato il Re, veniva condotta ad un altro tavolo, tra i borbottii di mia nonna e di mia zia, Luisa di Baden.

Da quel bellissimo tavolo centrale, su cui troneggiava un centrotavola d’oro zecchino raffigurante il mito della nascita di Apollo e Diana colmo di frutta esotica, potevo scorgere perfettamente tutti gli invitati a quel fastosissimo pranzo.

Subito cercai con lo sguardo il principe di Montpensier, e lo trovai ad un tavolo poco distante dal mio, che conversava con Mademoiselle de Blois e mio cugino Armand.

Di nuovo, come la prima volta in cui lo avevo visto, il cuore mi sobbalzò nel petto. Mi sembrava ancora più bello di allora, perché in quella settimana di lontananza il tempo aveva cancellato dalla mia mente il vivido ricordo di tutti i particolari del suo aspetto sublime, che ora apparivano ai miei occhi nel loro più fulgido splendore. Egli mi rivolse una breve occhiata d’intesa, poi riprese a parlare con i commensali.

Mentre le numerosissime e raffinate portate del pasto ci venivano servite al suono delle musiche del compositore di Corte Lully, e fiumi di vini pregiati di ogni tipo venivano versati nei nostri calici, Sua Maestà mi rivolgeva continue domande sui miei interessi e sulla vita scapestrata che gli avevano raccontato che conducevo.

"Dunque siete un buon bevitore, Abatino? Allora forse siete veramente figlio mio!" esclamò ad un certo punto vedendomi affascinato da tutte quelle bevande deliziose che in un’altra occasione avrei bevuto smodatamente, e scoppiò poi in una fragorosa risata, mentre la Regina sua moglie gli rivolgeva, tra l’indifferenza generale, uno sguardo truce.

"Louis, non credo avreste potuto generare un figlio così poco appariscente neanche se vi foste sforzato..." Sibilò poi la Principessa Palatina, scoccandomi un’altra occhiata di disprezzo.

"Non prendetevela Eugène" mi disse confidenzialmente il Duca Philippe. "In realtà credo vi sia affezionata, anche se ha un modo un po’ burbero di dimostrarlo."

"Vi ringrazio, Monsieur." Gli risposi freddamente. Cercavo di fingere indifferenza per gli acidi commenti che in famiglia o a Corte a volte ricevevo, ma non potevo fare a meno di esserne ferito come se fossero stati piccoli aghi avvelenati.

"A proposito..." soggiunse il Duca a bassa voce, perché solo io potessi sentirlo. "Mi dicono che avete interesse per la vita militare."

Arrossii. A dispetto del suo aspetto effemminato e fatuo, in passato il Duca era stato un eccellente generale. Era stato destituito dall’incarico perché il Re suo fratello si era ingelosito dei suoi successi e per colpirlo ulteriormente, e fargli capire chi aveva il potere, il suo giovane amante, il cavaliere di Lorena, era stato esiliato. Ma il giudizio di quell’uomo, che aveva ripetutamente battuto gli Olandesi, era per me molto importante.

"Non dovete dire nulla, Eugène" mi prevenne, prima che potessi rispondergli alcunché. "So che siete molto intelligente. Se vi allenerete nella scherma e leggerete molti trattati sulla guerra, forse ce la farete. Anch’io non avevo alcuna esperienza quando sono sceso per la prima volta in battaglia, e nessuno avrebbe scommesso un soldo su di me. E invece..."

"Grazie ancora, Monsieur." Ebbi il tempo di dirgli, pieno di riconoscenza per il suo appoggio, prima che il Re aprisse le danze.

Era quello il momento che aspettavo sin dall’inizio e per cui avevo rinunciato alla visita dell’abbazia. Mentre i gentiluomini rivolgevano le più raffinate galanterie alle dame, per invitarle a ballare con loro il minuetto, mi dileguai tra la folla di nobili, fingendo anch’io di dirigermi verso una damigella.

Cercavo Honoré de Montpensier e lo trovai a metà strada tra il tavolo regale ed il suo.

"Vi aspettavo" mi disse con un sorriso dolce. "Venite con me, vi faccio fare un giro dei giardini." Prima che potessi chiedergli se era sicuro di non voler ballare nemmeno la prima danza, mi afferrò per una manica e mi condusse via.

Mi lasciai guidare per ore da lui tra quelle magnifiche fontane, tra labirinti in cui ci divertivamo ad entrare e a perderci per poi ritrovarci con sollievo, tra bellissime statue degli dèi e degli eroi antichi. La musica delle danze ci cullava ed accompagnava le nostre risate e le nostre conversazioni profonde e commoventi sul Bene, sul Bello, sull’Amore miste a storie buffe ed impertinenti. Honoré mi faceva da guida spiegandomi i soggetti di fontane e statue e raccontandomi com’era la vita a Corte.

"Voi dunque vivete qui a Versailles? Come siete fortunato a vivere tra queste meraviglie! La vostra famiglia dev’essere molto potente per aver ottenuto quest’onore." Esclamai, mentre mi illustrava le bellezze della fontana di Latona.

"Ah, sì," rise lui. "Una famiglia molto potente e ricca! Ma voi certo mi battete: oggi avete pranzato alla tavola di Sua Maestà in persona! Adesso dovrete fare i conti con l’invidia di tutti i cortigiani!" Scoppiammo entrambi a ridere, poi lui mi prese nuovamente per un braccio e mi condusse fino all’interno del palazzo attraverso una porta secondaria.

"Venite, voglio farvi vedere una cosa." Mi sussurrò con aria complice. Il suono dei nostri passi e delle nostre risa soffocate echeggiò per i corridoi pieni di specchi e di fiori dorati della reggia. Ogni cosa al suo interno era una magnifica espressione di potere e di eleganza, ma la stanza in cui Honoré mi condusse, nonostante fosse molto più sobria, batteva tutte le altre con la sua semplice maestà.

"Eccoci. La Biblioteca Reale." mi disse, fiero come se fosse stato lui il proprietario di tutti gli antichi e preziosi volumi conservati lì. Non avevo mai visto così tanti libri insieme, e mi aggiravo per la stanza pieno di stupore ed ammirazione. I libri erano divisi per genere letterario. Una sezione era dedicata al teatro: i tragici greci, Molière, Racine... Honoré guardava con amore quelle opere, accarezzandole attraverso i vetri delle teche.

Trovai poi la sezione dedicata alle opere di argomento militare, dove accanto ai più moderni trattati sulla guerra erano conservati i volumi di Cesare, Tucidide, Livio...

"Mio Dio! Che bellezza!" esclamai.

"Sono contento che vi piaccia. Io amo questa stanza." Disse Honoré, che si trovava al mio fianco. "Ho un regalo per voi, a proposito. Forse vi sembrerà una sconvenienza, ma volevo mostrarvi il mio affetto e la mia riconoscenza. Voi mi capite come nessun altro sembra fare." Dalla tasca interna della giacca estrasse un piccolo libretto rilegato e me lo porse. "È un florilegio. Una raccolta di poeti d’amore latini. Dategli un’occhiata. Sono le Muse dei miei componimenti.."

Lo ringraziai ed aprii il libretto. Quei poeti, inadatti all’educazione di un religioso, mi erano sempre stati proibiti ed era la prima volta che leggevo i loro versi dolci ed appassionati. Mentre contemplavo quelle parole commoventi, mi accorsi che Honoré si era accostato alle mie spalle ed i nostri corpi si sfioravano. Potevo sentire il suo respiro ed i suoi riccioli mi solleticavano il collo.

Il mio cuore batteva all’impazzata e mi chiedevo per quanto ancora avrei potuto sopportare quel vortice di emozioni violentissime che si agitava nel mio animo.

"Mio Dio..." invocai a bassa voce, in maniera blasfema.

"Questi poeti sono eccellenti quanto voi siete bello." Mi sussurrò Honoré in un orecchio. Fremetti. "Non dite di no, Eugène, ve ne prego. Ai miei occhi, voi siete bellissimo." Il tono della sua voce era serio ma tentava di essere scherzoso come quello delle conversazioni licenziose tanto in voga nei salotti dei nobili.

Il libro mi cadde dalle mani. Mi girai verso di lui e lo guardai negli occhi. Lui... era tutto ciò che desideravo. Era molto più di quanto avessi mai sperato. Pensai che il suo affetto avrebbe per la prima volta riempito la mia vita, regalandomi ciò che per tanto tempo mi era stato negato. Tutto avrebbe acquistato un nuovo e profondissimo senso grazie a lui.

"V-vorrei proprio essere degno della vostra riconoscenza, Honoré" balbettai, rosso in volto per l’emozione. "Ci proverò in ogni modo..."

"Ma non dovete preoccuparvi." Disse lui, accarezzandomi le labbra e stringendomi contro di sé. Aveva ancora sul viso quello sguardo malizioso e divertito, ma anche lui era arrossito ed il suo cuore batteva forte, tanto che lo potevo sentire attraverso gli abiti. Sembrava un angelo, ma era un uomo fragile come me: un’infinita tenerezza nei suoi confronti m’invase. "Voi per me siete già un amico, più che un amico... ma tu lo vuoi, Eugène? Vuoi essere per me più che ogni altro amico?"

"Sì!" esclamai vittorioso, ma con voce tremante. "Sì, sì... Voglio quello che vuoi tu, Honoré!"

Mentre ancora vacillavo stupito per la forza delle parole che ci eravamo appena scambiati, sentii le sue labbra morbide posarsi sulle mie. Mi feci strada tra esse e ci scambiammo un lungo, tenero bacio. Avevo già baciato molti uomini: Dancourt, mio cugino Armand ed altri nostri giovani e dissoluti amici. Quei baci dati come penitenze al gioco d’azzardo o come goliardie tra i fumi dell’alcool erano però ben diversi da questo, più volgari, più frettolosi. Il nostro era un bacio lento, quasi casto. Un vero bacio.

Ma non appena le nostre labbra si staccarono sentimmo la voce di un paggio che nel corridoio chiamava a gran voce: "Signor Principe! Principe di Montpensier!"

"Devo andare." Sussurrò lui nel mio orecchio, dimenticandosi del tono spregiudicato con cui aveva parlato prima, poi mi diede un bacio sulla fronte. "Ci vediamo presto. Te lo prometto, piccino."

Mi lasciò solo nella stanza, con l’impressione di avere ancora una volta sognato tutto, sebbene questa volta mi fossi mantenuto sobrio.

Crudele! Te ne vai via dopo avermi dato un solo bacio, quando a me non ne basterebbero neanche cento! Fu l’unica cosa sensata che riuscii a pensare.

Mi accasciai contro un muro e mi sedetti sul freddo pavimento di marmo, con un sorriso ebete stampato sul viso. Pensai a ciò che avevo studiato e letto riguardo all’Amore: tutti i grandi del passato lo avevano descritto come una forza in grado di vincere tutto. Non potevo più nascondere a me stesso che il mio sentimento era Amore. Ma ero felice e tutto il resto mi appariva insignificante davanti a tanta felicità: il Re, la Corte, la carriera ecclesiastica, il mio stesso onore...

"Honoré, ma poupée!" dissi ridendo tra me e me, mentre guardavo dalla finestra il meraviglioso giardino in fiore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


 

 

Alla fine questo capitolo si è rivelato essere abbastanza corto e di transizione, sarà il prossimo ad essere molto prolisso. Saranno due capitoli un po' tetri ma del resto c'è scritto che la storia è drammatica!

Grazie a chi mi segue e alle nuove persone che mi hanno aggiunto ai preferiti, che spero mi diranno cosa pensano del prosieguo della storia.

Per Xibalba: Sono proprio curiosa, quindi appena puoi fammelo sapere che ci tengo molto!

Per Anthilia: sono contentissima che tu apprezzi i personaggi ed ancora di più l'ambientazione. Non è un periodo che interessi a tutti, anzi credo che l'anno 1683 non dica molto a nessuno. Ma alla fine ogni periodo ha qualcosa di affascinante.

Per circa tre settimane però non ebbi alcuna notizia di Honoré. Non mi scrisse e non si presentò ad alcuna festa a Corte o a casa di amici a cui fossi presente anch’io. A quelle in cui invece non c’ero io, venivo a sapere che lui era presente. Mi stava evitando.

Provai una vergogna infinita per ciò che era successo. I miei sentimenti per lui erano un peccato agli occhi di Dio, una sconvenienza agli occhi del mondo, uno smacco per la mia virilità. Come mi era saltato per la testa di mettermi a sospirare e fremere per un giovane come un fanciulla? Un conto era fingere, come era di moda nei turpi ambienti che frequentavo, di avere relazioni omosessuali, ma spasimare veramente per un uomo era ben diverso.

Più ancora, mi vergognai di aver creduto che un giovane splendido come lui potesse provare qualcosa per me.

"Perdonami o Signore, perché ho peccato più per superbia che per lussuria. E la superbia è il peggiore dei vizi." Dicevo nelle mie preghiere.

Eppure nei momenti più inaspettati accadeva che qualcosa mi facesse ripensare a lui, e mi accorgevo di sentire ancora le vertigini come al primo nostro incontro, ma quel senso di infinitezza che provavo al mio interno si era trasformato da fonte di gioia in fonte di tormento. Mi sembrava che quel vortice potesse risucchiarmi da un momento all’altro e distruggermi per sempre. Le giornate trascorrevano monotone e dolorose, senza che io riuscissi a dimenticarmi di lui.

In una di quelle giornate arrivò a palazzo de Savoie un messo imperiale proveniente da Vienna, che recava una lettera per noi. Tutta la famiglia scese in cortile ad accoglierlo, con un tetro presentimento nel cuore.

"Signora Duchessa" disse il messo a mia nonna, con un'espressione lugubre sul volto. "Il maggiore Louis-Jules de Savoie è morto valorosamente combattendo contro i Turchi infedeli."

Il mondo crollò addosso alla casata dei Savoie-Soissons. Mia nonna a quella notizia emise un lieve gemito, poi svenne cadendo sul nudo terreno con un tonfo sordo. I miei fratelli maggiori si precipitarono a sollevarla da terra e la portarono a sdraiarsi nel palazzo, con le guance rigate di lacrime. Le mie sorelline, ancora nel cortile, piangevano in maniera straziante e prima che potessi fare nulla per consolarle mi accorsi di essere caduto in ginocchio a terra, con gli occhi così colmi di lacrime che la mia vista era completamente annebbiata.

Non c'era più il cortile, né il messo, né il pianto dei miei familiari. Nella mia mente c'era posto solo per mio fratello, il mio adorato Louis-Jules, che circa un anno prima aveva ottenuto un comando militare dall'Imperatore Leopoldo per combattere contro i Turchi, e che ora sapevo che non avrei mai più rivisto.

Louis-Jules... il più amato dei miei fratelli, da me come da tutta la famiglia... il più bello, il più ardito, il più buono di noi... il meno meritevole di morire prematuramente.

Soltanto cinque anni prima eravamo una famiglia felice. Vivevamo tutti insieme in quello stesso palazzo, che allora però non era per me una prigione, ma un luogo di dolce quiete e memorie piacevoli. Louis-Jules trascorreva le sue giornate nei giardini a prepararsi per la sua futura vita da soldato e mi insegnava a tirare di scherma come nostro padre aveva insegnato a sua volta a lui.

Ben presto diventai così bravo nell'uso della spada da batterlo: la prima volta che accadde mio fratello, per nulla geloso, si rivolse ridendo a mia madre, che sedeva a leggere "La principessa di Cléves" su una poltrona in un angolo del giardino, con queste parole: "Maman, hai visto che bravo? il piccolo Eugène diventerà lo spadaccino più valente di Francia, se non farà il prete!"

"Certo che lo diventerà." aveva risposto lei, lieta di vedere i miei progressi. "Eugène diventerà tutto quello che vorrà."

Quell'istante di infantili gioie ed illusioni era così vivido al momento nella mia mente che potevo ancora vederli davanti a me, lei e lui, mia madre e mio fratello. Avevano gli stessi riccioli castani, la stessa grazia nel muoversi, gli stessi lineamenti armonici e dolci (nostra nonna non sembrava aver mai notato la somiglianza tra Louis-Jules e la mamma, e non si rendeva conto di lodare in lui la bellezza della donna che chiamava prostituta, e di criticare in me l'aspetto fragile e l'espressione perennemente sbigottita tipica dei Savoia e di suo figlio). Il mondo me li aveva tolti entrambi proprio in quel cortile. Avevo visto mia madre per l'ultima volta proprio in quello stesso punto. Era vestita con un elegante abito di broccato rosso e, bellissima e piangente, mi aveva abbracciato mentre diceva con voce implorante: "Non ho avvelenato vostro padre. Te lo giuro, bambino mio. Tu mi devi credere!". Ora venivo a sapere proprio lì che mio fratello, il più caro dei miei fratelli, era morto in una nuvolosa giornata del maggio viennese, tra la polvere e le grida di battaglia dei Turchi, i maledetti infedeli.

Tutti erano ritornati nel palazzo a piangere quel lutto, io solo giacevo ancora su quella terra fredda e nera, incapace di muovermi e con la gola dolorante per i lamenti che erano così profondi da non riuscire a sgorgare da essa.

Sentii una mano massiccia posarsi sulla mia spalla. Alzai il volto, e vidi il messo imperiale porgermi una lettera.

"È dell'Imperatore Leopoldo" mi disse. Il suo contegno rivelava che anche lui stava soffrendo per quella morte.

"Eravate uno degli uomini di mio fratello?" gli chiesi, mentre prendevo la lettera e spezzavo lo spesso sigillo di ceralacca scarlatta.

"Sì, signor Duchino." I suoi occhi erano diventati lucidi ed il rude soldato abbassò lo sguardo per cercare di nascondermelo. "Un giovane così buono e un comandante così dedito ai propri sottoposti..."

Fui commosso dalla tristezza di quello sconosciuto che provava un così grande affetto per mio fratello. Mi alzai e lo abbracciai, piangemmo uno sulla spalla dell'altro come due commilitoni, come se avessimo condiviso le fatiche di mille battaglie.

Quando quell'abbraccio si fu sciolto, il messo biascicò: "Perdonatemi, signor Duchino, non avrei dovuto permettermi..." e risalì sul suo cavallo, che partì al galoppo lasciando nel nostro cortile una piccola scia di polvere.

Rimasi ancora più solo nel cortile, stringendo nel pugno la lettera dell'Imperatore, che non era destinata a me ma a mia nonna e a mio fratello maggiore, e che mai avrei dovuto aprire.

"Noi ci uniamo al lutto della famiglia Savoie-Soissons per la perdita del maggiore Ludwig Julius..." lessi per sbaglio mentre guardavo il sigillo irreparabilmente spezzato. Non potei fare a meno di aprirla del tutto e leggerne il contenuto.

"Noi ci uniamo al lutto della famiglia Savoie-Soissons per la perdita del maggiore Ludwig Julius, uno dei più nobili e onesti ufficiali delle Nostre truppe. Il Maggiore ha scelto di essere sepolto qui a Vienna, vicino ai suoi uomini ed al campo di battaglia sui cui ha compiuto le sue imprese e Ci auguriamo che un giorno voi possiate venire a rendere omaggio alla sua tomba, accolti con gli onori dovuti ad una famiglia nobile come la vostra ed imparentata con un giovane così straordinario. Egli è stato un uomo giusto e buono, un figlio per Noi e un fratello per gli Arciduchi Josef e Karl. Abbiamo un debito nei confronti del vostro illustre casato, per averci donato uno dei suoi figli migliori.

Leopold von Habsburg S. R. I. Rex Bohemiae & Hungariae, Dux Austriae..."

La notizia era pessima. Il corpo di mio fratello sarebbe rimasto a Vienna ed io non avrei mai potuto piangere sulla sua tomba, nonostante l'invito dell'imperatore. Ma l'affetto che l'uomo più potente della terra gli dimostrava in quella lettera mi garantiva che essa non sarebbe mai rimasta priva di fiori.

Fui commosso dal fatto che Leopoldo d'Asburgo si fosse preoccupato di scrivere di suo pugno quella lettera per confortarci e per onorare mio fratello. Re Luigi avrebbe scritto parole simili per un suo giovane ufficiale? La sola ipotesi mi sembrava assurda: il nostro Sovrano non aveva certo tempo per i cadetti delle casate cadute in disgrazia!

Il Sacro Romano Imperatore era un uomo migliore di lui. E mio fratello Louis-Julius era stato l'uomo migliore sulla faccia della terra.

Et in aeternuum frater, ave atque vale...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** capitolo quinto ***


 

Domenica parto per una settimana, quindi ci aggiorneremo tra un po':(

Ad ogni buon conto sono ben lieta che due scrittrici brave come Dicembre e Xibalba mi seguano e mi recensiscano. Grazie di tutto cuore!

Per Xibalba: grazie mille per l'appoggio costante e ricordati che devi dirmi a chi somiglia il mio stile quando ti viene in mente perché sono curiosissima! Del fratello in effetti non si parlava prima, ma anche lui, da morto, avrà il suo ruolo in seguito.

Per Dicembre: Sono contenta che ti sia piaciuta la cosa dei peccati! In effetti non è molto originale perché anche Dante li mette in quest'ordine ed Eugène che è un prete colto lo sa, ma il significato profondo della cosa è proprio quello che hai detto tu. Complimenti!

Grazie infine ad Aily che mi ha aggiunto agli scrittori preferiti (cavolicchio!) e a coloro che leggono questa storia.

Bevevo. Ma non giocavo più. Non andavo più alle feste. Non rispondevo alle lettere di Armand, Dancourt e degli altri amici. Se anche il Re in persona mi avesse scritto, preoccupandosi dei cadetti delle famiglie in disgrazia ancora in vita e dimostrando così di essere un uomo migliore dell’imperatore Leopoldo d’Asburgo, la sua lettera sarebbe finita a bruciare nel caminetto come tutte le altre.

Nulla mi interessava più, tranne bere fino a stordirmi per non sentire l’infelicità che prendeva possesso del mio animo. Non mi curavo del sapore di ciò che bevevo come avevo sempre fatto, non prediligevo più il vino rosso, dolce e di qualità: l’importante era che la bevanda fosse forte ed agisse in fretta. Spesso mi sentivo male per questa mia condotta sregolata e distruttiva, e vomitavo e svenivo agli angoli delle stanze del palazzo ma nessuno dei miei parenti, anch’essi logorati dal dolore per quel lutto, si curava di me. Ed a volte, lo confesso, al ricordo della morte di Louis-Julius si mescolava quello dell’abbandono del principe di Montpensier.

Una mattina mi svegliai di soprassalto dopo un incubo ed in fretta mi alzai e mi vestii, preoccupato di rivedere quelle immagini mostruose se mi fossi addormentato di nuovo.

Mi sedetti su di una poltrona della mia camera che era rivolta verso la finestra. Pioveva a dirotto e l'alba era grigia e malinconica. Avevo forti dolori alla testa dovuti all'ubriacatura del giorno precedente, che mi impedirono di ricominciare a bere subito di prima mattina.

Fui costretto a rimanere lucido e a pensare alla mia vita. La stanchezza e l'indifferenza di tutti nei miei confronti mi avevano reso emaciato, scontroso e tendente a pensare di essere vittima di persecuzioni. Sono più brutto che mai, pensai. Ho le occhiaia, gli occhi rossi, le guance scavate. Ma non ha più alcuna importanza. Nulla più la ha.

Fui risvegliato da questi pensieri dalla vista di una figura su di un cavallo baio che sfidava la pioggia cavalcando fin dentro al nostro cortile. La curiosità sull'identità di quella figura fu in me presto soffocata dall'indifferenza. Chiunque essa fosse, non era affar mio. Nessuno poteva voler cercare me, se non per darmi qualche brutta notizia, quindi non avrei mosso un dito per accogliere il visitatore.

Mi rituffai nei miei pensieri meschini, quando qualcuno bussò alla porta della mia camera .

"Non voglio vedere nessuno!" gridai, stizzito. La mia voce rauca sembrava un rantolo, ma il mio interlocutore sembrò aver capito perché per qualche istante non diede più segni di vita.

Dopodiché si sentirono nuovi colpi alla mia porta.

"No, ho detto!" ripetei, questa volta con voce ancora più flebile.

"Eugène, t'imploro..."

Fu come una secchiata d'acqua gelida in pieno viso. Quella voce dolce e virile allo stesso tempo non poteva che appartenere ad una sola persona.

Dio mio, sarà bagnato fradicio, dopo aver fatto un viaggio così lungo sotto questa pioggia! Fu la prima cosa che pensai, ritrovando una tenerezza che pensavo fosse perduta per sempre.

"Entrate, Honoré." dissi, mentre mi avvicinavo alla porta per aprirgli di persona.

La porta si aprì e nella mia stanza entrò una figura avvolta in un mantello zuppo di pioggia e di fango, che subito si sfilò. Sotto di esso apparve Honoré, con i capelli scarmigliati e bagnati ed un'espressione disperata sul volto eburneo.

"Siete tutto bagnato." gli dissi con voce acida. Il ricordo del suo comportamento crudele era tornato tutto d'un colpo nella mia mente, sebbene temperato dalla compassione che mi suscitava il suo corpo bellissimo scosso dai tremiti di freddo. "Tenete questi panni e asciugatevi un po' i capelli. Poi penserò a dei vestiti da darvi: mio fratello Philibert è alto pressapoco come voi, ma è meno esile. I suoi vestiti dovrebbero andarvi."

"Grazie..." sussurrò spossato, fissandomi per qualche istante con sguardo contrito.

"Allora, a cosa devo l'onore, signor Principe?" sibilai. Aveva un bel coraggio a ripresentarsi da me dopo avermi fatto soffrire le pene dell'Inferno, ma non potevo nascondere a me stesso che la sua presenza mi ridava speranza ed una pur tenue voglia di tornare a vivere degnamente.

"Perdonatemi" disse in lacrime, dopo aver scorto al mio braccio la fascia nera del lutto. "Voi avete subito una perdita ed io vengo a torturarvi con le mie sciocchezze... State bene, Eugène? Il vostro aspetto è così malandato!"

Fui felice che qualcuno finalmente s'interessasse a me e notasse il degrado in cui versavo. Fui felice che qualcuno fosse disposto ad ascoltare il mio dolore ed a lasciarmi esprimere il senso di inutilità che sentivo nella mia vita.

"No, non sto bene. Mio fratello è morto e voi mi avete ingannato vergognosamente. Non è rimasto nessuno che mi abbia a cuore e per cui la mia vita valga qualcosa."

"Mio Dio, mio Dio, perdonatemi!" mi implorò Montpensier, mentre due lacrime scendevano lungo le sue guance già bagnate di pioggia. Cercò di abbracciarmi ed in un primo tempo opposi resistenza, ma poi mi abbandonai a quella stretta, felice di avere una presenza al mio fianco dopo tanti giorni di reclusione volontaria e commosso dall'affetto che dimostrava di avere ancora per me.

"Io vi devo dire tutto." singhiozzò, mentre le sue lacrime calde cadevano sempre più copiose sulle mie spalle doloranti. "Io vi ho mentito, dicendovi che la mia era una famiglia ricca. Non volevo che pensaste che io fossi interessato solo ai vostri soldi. Credevo che voi foste ricco e potente: vi avevo visto giocare bellissimi gioielli a baccarat e avevate pranzato allo stesso tavolo del Re."

"Ma io non ho un soldo!" gli dissi.

"Lo so, l'ho scoperto poco dopo la festa a Versailles. E vi confesso che per questo motivo ho pensato che sarebbe stato meglio non rivederci mai più. Sono stato un meschino approfittatore, lo ammetto, ma mio padre è malato e i nostri unici possedimenti sono vittime di una carestia. Avremmo bisogno di qualcuno che ci aiuti ed avevo scoperto che voi non avreste potuto farlo. Ma poi ho capito che non ce la facevo ad evitarvi. Io volevo rivedervi, non importava che foste povero come me. Io vi voglio bene, Eugène. Voi siete stato il mio conforto."

Ormai anche io piangevo, senza neanche saperne il motivo. Credo che quel pianto fosse una somma delle violente emozioni che si erano susseguite nell'ultimo mese. Un pianto di dolore, di solitudine, di stanchezza, di gioia.

"Siete venuto qui per dirmi questo?" gli chiesi con voce scossa dai singhiozzi ed un sorriso appena accennato.

"Non solo per questo, ma ormai non ha più importanza. Avete ben altro a cui pensare ora, non avrei dovuto disturbarvi. Spero che un giorno saprete perdonarmi, pensando che io vi voglio bene. Ma vi capirei se ciò non accadesse, visto che anch'io ho difficoltà a perdonarmi."

Mi guardò per qualche altro istante, come se non si sapesse decidere ad andarsene.

" Addio, Eugéne!" disse poi, riprendendo il mantello fradicio e muovendosi verso la porta.

"No, fermatevi!" gli ingiunsi. Un sentimento dolce e magnifico era sorto dentro di me, un sentimento che la mia istruzione religiosa mi aveva insegnato a considerare il più nobile di tutti, ed io lo espressi con tre semplici parole: "Io vi perdono."

Honoré si girò, incredulo e sorridente, asciugandosi le lacrime dal viso.

"Ditemi per cosa siete venuto. Io vi voglio aiutare e vorrei che potessimo tornasse ad essere amici. Solo amici, niente più. Due amici che si aiutano a vicenda."

Il sorriso di Honoré si allargò ancor di più mentre con un cenno gli indicavo di sedersi sulla poltrona accanto alla mia. Sembrava un bambino che avesse ritrovato il giocattolo preferito che credeva di aver perduto per sempre. Con un'aria sollevata sul volto si sedette morbidamente, mentre delle sue lacrime non rimanevano che i solchi lungo le guance.

"Ditemelo. Potervi aiutare sarà la mia ragione di vita, dato che non ne ho altre." gli ripetei lentamente e a bassa voce, felice di quella conversazione così intima ed illecita proprio all'interno del mio palazzo, come se fossi finalmente riuscito a scavarmi una nicchia di calore e gioia all'interno delle sue mura fredde.

"Io non so quanto sia il caso..." disse rosso in volto, anche lui quasi sussurrando.

"Ve ne prego. Avete detto che sono stato il vostro sostegno: vorrei esserlo ancora, e non vi chiedo nulla in cambio se non che non mi evitiate più."

"Se voi riuscirete ad aiutarmi dimostrerete che io non valgo un vostro mignolo. Io vi sarò obbligato per tutta la vita, Eugène. Sarei il servo più felice della terra."

Passai una mano intorno alle sue spalle, ed Honoré appoggiò la sua testa sul mio petto, bagnandomi con i suoi riccioli neri. Mi sembrò davvero un bambino, una creatura più fragile e bisognosa di me, ed io me ne sarei preso cura.

"Ero a Versailles l'altro ieri, e si teneva una festicciola per i membri della Corte, come se ne tengono due o tre volte alla settimana. La Principessa Palatina propose di giocare al gioco dei pegni ed io mi ritrovai coinvolto mio malgrado." mi rivelò d'un fiato. "Sapete come funziona, no? Ogni partecipante dà in pegno qualcosa e lo può riprendere solo se risponde ad un indovinello fattogli da un altro partecipante. Ve la faccio breve, Eugène. Ho dovuto dare in pegno questa collana di smeraldi che appartiene a mia madre."

Honoré tirò fuori da un involto una collana splendida ed antica, bella come neanche nessuna delle collane di mia madre era.

"Ma è qualcosa di incredibile..." mi stupii.

"Mia madre è una Farnese, italiana come voi. Questa collana fu donata ad una sua antenata da papa Borgia."

"Ma se l'avete ancora voi vuol dire che avete risolto l'indovinello!" obiettai.

"Magari fosse così... Semplicemente alla festa non c'è stato il tempo di finire il gioco, ma oggi si terrà un'altra festa e la Principessa Palatina mi farà il suo indovinello, ed io non lo indovinerò mai. Non avrei mai dovuto dare in pegno questa collana, ma a Corte non sempre si può fare quello che si vuole. Bisogna dimostrare di poter spendere ed elargire anche quando in realtà non si può." rispose, affondando tristemente il suo viso nel mio petto.

Mi abbracciò anche lui e la sua mano si sistemò sul mio collo, ormai riscaldatasi al fuoco del mio caminetto. La collana con i suoi scintillii d'un verde intenso stava a metà tra le sue gambe e le mie, ed i suoi bagliori si riflettevano sui nostri visi a seconda di come le fiamme del caminetto guizzassero, cullandoci.

"Io sono bravo con gli indovinelli." lo confortai, anticipando la sua richiesta di soccorso. "Se la Principessa lo permetterà, giocherò al posto vostro."

"Grazie..." sussurrò, stringendomi ancora di più a sé, ma con dolcezza. "Il duca d'Orléans dice che siete molto intelligente e che non vi ha mai visto perdere al gioco dei pegni. Ma ancora non mi capacito del fatto che mi aiuterete. Vostro fratello è appena morto e voi pensate a me..."

"Io soffro molto per la perdita subita." ammisi. "Ed è per questo che non voglio che voi ne subiate una, Honoré. E se poi dovessi farcela e voi foste davvero per sempre legato a me, allora questo mi basterà per vivere felice."

Quella mattina uscii dal palazzo per la prima volta dalla morte di mio fratello. Io ed Honoré salimmo insieme sulla mia carrozza, dopo che io gli ebbi dato nuovi vestiti asciutti. Insieme. Insieme... era l'unica cosa che contava. Non ero solo, e non lo era lui, né più lo sarebbe stato.

Mi prenderò io cura della mia bambolina, pensai con un affetto quasi paterno nei suoi confronti, mentre lo guardavo sulla carrozza ricambiare il mio sguardo con dedizione, come se in quei giorni di lutto non fossi diventato più brutto ma anzi più avvenente.

Ed ogni tanto, mentre mi guardava, dalle sue labbra cremisi usciva meccanicamente come una filastrocca infantile una parola sussurrata: "Grazie... grazie... grazie..."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


"Galileo per tenere lontani i visitatori indesiderati riceveva soltanto coloro che riuscivano a rispondere a questa domanda: perché i numeri 5, 10, 12, 9, 4, 7, 3, 1 sono stati disposti in quest'ordine?"

La Principessa Palatina mi aveva sottoposto questo indovinello, dichiarando con una risata malevola che io, essendo un prete e per di più italiano, avrei dovuto sapere tutto su Galileo.

Ci pensai a lungo, mentre fissavo il volto implorante di Honoré, quello fiducioso del Duca di Orléans, quello curioso del Re.

Ripetei quei numeri nella mia mente un centinaio di volte, poi, per immedesimarmi meglio in Galileo, li ripetei in italiano.

Cinque, dieci, dodici.... Cinq, dix, douze....

"S-sono in ordine alfabetico..." sussurrai. Poi lo ripetei più forte: "Galileo dispose i numeri in ordine alfabetico!"

Il sorriso crudele della Principessa venne spazzato via ed ella dovette ammettere: "Avete indovinato, Abatino..."

"Caspita, questo ragazzo è più sveglio di quanto pensassi" esclamò il Re, mentre suo fratello mi tributava un applauso, seguito da tutti i presenti in quella sala delle feste di Versailles.

Honoré mi gettò le braccia al collo e mi promise che non mi avrebbe più abbandonato. Il giorno dopo mi invitò nel suo palazzo di campagna ed io partii, dimentico della famiglia e dell'abbazia.

Posso dire che quella villa povera ma che rivelava i segni di un passato splendore fu il nostro "nido d'amore". In quella villa promisi ad Honoré che lui sarebbe stato meorum finis amorum, come disse Orazio, il mio primo ed ultimo amore.

Piano piano smisi di bere, di giocare d'azzardo, di fare stupidaggini con i miei amici. Scoprii che cosa fosse l'honnête vie, l'ideale di una vita onesta e serena, ed iniziai a leggere La Rochefoucauld, Racine, S. Francesco di Sales. Stavo diventando adulto, o forse la mia nuova vita con Honoré era talmente bella che non necessitavo più di riempirla con passatempi rischiosi e stupidi?

Ma un giorno, dopo mesi di felicità, Honoré mi disse che sua madre gli aveva trovato una moglie, un donna ricca e più vecchia di lui che lo avrebbe sposato nonostante lui fosse così povero, e che avrebbe salvato le sorti della sua casata.

"Dio mio, ci deve essere un'altra soluzione!" esclamai a quella ferale notizia.

"Ci ho pensato per giorni, Eugène, e l'unica soluzione è che tu chieda un comando militare al Re. Se il Re accetterà, tu avrai abbastanza soldi per mantenere entrambi."

"E se non accettasse?" ebbi il coraggio di chiedere, in un sussurro.

Honoré mi prese la testa tra le mani, ed accarezzandomi le guance disse: "Allora temo che non ci potremo più rivedere, amore mio..."

"Ma se io fallisco, puoi sempre chiedere tu un comando al Re!" provai a farlo ragionare.

Scoppiò in lacrime.

"Tu non mi ami, se mi chiedi una cosa del genere! Io sono un poeta, come puoi pretendere che possa vivere tra le distruzioni della guerra? Io non ti ho mai chiesto di stravolgere ciò che sei per me, non ti chiedo di diventare cardinale anche se sarebbe più facile, perché so che tu non la volevi seguire la carriera ecclesiastica...."

Fu il mio turno di prenderlo tra le braccia e di tranquillizzarlo come un fanciullo.

"Va bene, va bene... otterrò quel comando militare." gli promisi.

Mi confidai con Armand, mio cugino ed il mio più caro amico, che in realtà aveva già capito tutto di me ed Honoré. Anche lui aveva messo la testa a posto e sperava di ottenere una carica dal Re per poter sposare la sua figlia illegittima, la Mademoiselle de Blois che aveva conosciuto lo stesso giorno in cui io avevo conosciuto Honoré.

"Non te la prendere con Honoré." mi disse Armand, con una saggezza che non sapevo possedesse. "A chi è così bello non si può chiedere che di produrre bellezza. Morirebbe di dolore se dovesse andare in guerra."

Ci preparammo, passammo i pomeriggi a tirare di scherma finché non ci sembrò che la nostra spada fosse il prolungamento del nostro braccio, ci rovinammo gli occhi a furia di leggere e rileggere qualunque manuale di tattica e strategia, finché non elaborammo personali teorie su quale fosse la posizione migliore per combattere contro un nemico in superiorità numerica, contro un nemico meglio armato, contro un nemico che tiene un passo montuoso.

Ed infine arrivò il giorno fatidico. Mi presentai dal Re con ogni mia speranza in mano, fidando nell'interesse che aveva avuto in quegli ultimi mesi per me.

Ma il Re rifiutò.

Accampò ogni qualunque scusa: "Siete troppo giovane, siete poco appariscente, siete già un abate..." ma la verità che il Re non osava dire era che non poteva dare un comando al figlio di una presunta avvelenatrice, anche se lui sapeva bene che mia madre non aveva avvelenato nessuno.

Questa doveva essere la fine. Del mio amore, delle mie speranze, della mia felicità. Percorsi a ritroso i corridoi di Versailles che mi avevano visto qualche minuto prima camminare fiducioso verso un futuro di gloria con un groppo in gola e le membra intorpidite.

"Eugène, venite qui un attimo, vi prego!" sentii una voce da una stanza del palazzo, poi vidi la testa del Duca di Orléans fare capolino da una porta.

Lo seguii senza opporre resistenza: non avevo niente che mi attendesse a casa per cui ritornare al più presto.

"Mi dispiace..." mi disse Monsieur. "Ma voi non vi arrenderete così, vero?"

"E cosa dovrei fare?" gemetti. Il Duca mi guardò con compassione ed affetto.

"Io non vi dovrei dire quello che sto per dirvi, è tradimento. Ma io credo che voi dovreste tentare di ottenere un comando dall'Imperatore Leopoldo, come vostro fratello..." sussurrò, con voce appena percettibile.

"Mi aiuterete?" gli chiesi. In Austria non avrei più visto Honoré, ma probabilmente neanche in Francia. Se non potevo avere lui, almeno volevo avere la vita che avevo sognato fin da bambino.

"Certo che vi aiuterò, piccino. Io vi ho sempre voluto aiutare, soltanto che voi non vi siete mai accorto di me. Vi siete mai chiesto perché mia moglie vi odi tanto?" confessò.

Lo guardai come non lo avevo mai guardato prima: era vero, io non mi ero mai accorto di cosa ci fosse dietro la sua gentilezza per me, per un ragazzino bruttino e di una famiglia caduta in disgrazia.

"Perdonatemi!" gli chiesi, ma lui mi sorrise benevolo.

"Non importa." disse. "Io vi voglio bene e vi aiuterò. Vincete come io non ho potuto più fare dopo le Fiandre, vincete i Turchi per me."

"Grazie" gli risposi commosso, protendendomi a dargli un bacio sulla guancia.

Ora mi chiamano Eugenio von Savoie, perché non sanno, come non so io stesso, se io sia italiano, austriaco o francese. Sono fuggito dalla Francia travestito da donna, su una carrozza con lo stemma dei Duchi d'Orléans, con il dolore della perdita dell'Amore nel cuore ma anche tanta, tanta speranza. Il mio obiettivo era morire da valoroso per il Kaiser che mi aveva accolto, ridandomi la vita. M'immaginavo la lettera che avrebbe scritto allora:"Noi ci uniamo al lutto della famiglia Savoie-Soissons per la perdita del maggiore Eugen ..." ma mi sbagliavo.

Ho fatto di più. Sono diventato il suo Feldmaresciallo ed oggi, a Zenta, ho sconfitto definitivamente i Turchi che da quattordici anni, dal 1683, anno in cui morì mio fratello, minacciavano l'Impero. Non voglio più morire per lui, ma vivere per vincergli altre battaglie, anche se dovessero essere battaglie contro il paese che mi ha rifiutato, la Francia. Io sono fedele a lui quanto lo sono alla memoria del mio Honoré, sebbene siano tipi di fedeltà diversa. Mi chiama figlio, ed io lo chiamo padre. L'Europa ha gli occhi rivolti su di me, il vincitore dei Turchi.

Mi manca solo una cosa nella vita, ma è qualcosa a cui ormai ho rinunciato. Gliel'ho promesso e così sarà: Honoré è stato il mio primo, il mio ultimo, il mio grande amore.

Perdonatemi la fine precipitosa: il mio progetto era una storia molto più lunga, ma io ho perso l'ispirazione ed i lettori credo la voglia di seguire. Eugenio è esistito davvero ed è stato, almeno secondo Napoleone, uno dei più grandi generali della storia dell'umanità. Ebbe una gioventù burrascosa e si dice che in quel periodo abbia avuto relazioni con altri uomini. Poi non ha più avuto relazioni, né con donne né con uomini. Per questo mi sono immaginata questa storia d'amore con Honoré, l'unico personaggio inventato di questa storia.

Un grazie enorme a chi mi ha seguito.

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