Ofelia and the Others.

di OfeliaMontgomery
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. Georgia Adams (23, novembre, 1915) ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. Nora Day (8, agosto, 1807) ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. Delia Morton (4, maggio, 1892) ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. Arlene Douglas (24, marzo, 1961) ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. Rebekah Warner (21, novembre, 1984) ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


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14, ottobre, 2014
In quella notte buia il fruscio del vento tra le foglie verdi degli alberi era l'unico rumore udibile; in quella strada cupa non passava nemmeno una macchina, c'era un silenzio di tomba.
In lontananza si sentirono dei passi che squarciarono il silenzio, una ragazza dalla lunga chioma castana stava camminando sul ciglio della strada. Ogni tanto il vento le muoveva i capelli facendoli svolazzare sul suo viso che lasciavano intravedere due occhi bianchi e spalancati senza alcuna traccia di pupilla, rivolti verso il cielo. La ragazza dondolava trascinando il suo corpo per la lunga strada che portava al cimitero, sembrava essere in uno stato di trance da cui non riusciva a svegliarsi.
Il signor Nicholas Hudson, il guardiano del cimitero restò stupito nel vedere Ofelia Montgomery camminare per le strade della città, di notte e da sola.
– Signorina Ofelia che ci fa qui da sola? E per giunta così? – chiese l’uomo indicando l’abbigliamento strano della ragazza, portava ancora la camicia da notte ed era scalza.
– Non so chi sai questa Ofelia, il mio nome è Georgia Adams e sono venuta a trovare il mio defunto marito – parlò la ragazza con voce quasi metallica facendo qualche passo verso l’entrata del cimitero.
L’uomo la guardò schioccato poi correndo verso la sua macchina chiamò i genitori della ragazza e la polizia.
Passò un giorno intero prima che Ofelia si risvegliasse dal suo stato di trance e si ritrovasse in un bosco, ricoperta di foglie giallastre. I capelli erano un grumolo di nodi, foglie e fango.
– Ma che diamine? – si chiese da sola guardandosi in giro spaesata, dove diamine si trovava? E perché era lì?
Alzandosi da terra si spolverò con le mani la camicia da notte che da bianca era diventata marrognola per via della terra. Le foglie caddero leggere sul terreno senza emettere alcun rumore. Si mosse da quel punto alzando un paio di foglie rinsecchite dal terreno facendo un po’ di rumore che attirò l’attenzione di un uomo dall’aria stanca che la guardò stranito. Le sembrava un cacciatore perché stava tenendo un fucile in mano o magari era il suo rapitore? Non le importò molto in quel momento, voleva solamente tornare dalla sua famiglia.
– Aiuto, ti prego aiutami, perché sono qui? – tossicchiò la ragazza andando incontro all’uomo che la guardò sbigottito, poi si girò ed urlò a gran voce – Ho trovato Ofelia, è qui – e due agenti della polizia arrivarono di corsa sul posto.
– Ofelia, sono l’agente Howard, i tuoi genitori ti stanno aspettando, vieni con noi che ti portiamo da loro – disse l’agente porgendo una mano alla ragazza che afferrò subito e facendo dei piccoli passi si avvicinò a lui che le mise sulle spalle una coperta verdastra.
– Andrà tutto bene, forza andiamo – disse ancora l’uomo mettendo una mano sulla spalla della ragazza che sorrise incerta, uno spasmo di freddo la fece stringere ancora di più nella coperta di lana. Intanto il secondo agente era andato a chiamare i genitori della ragazza che da quando era sparita non avevano più parlato con nessuno, se non con i poliziotti per riuscire a ritrovare la loro figlia.
Ofelia fu portata fuori dal bosco dove ad aspettarla c’erano i suoi genitori che corsero subito verso di lei e l’abbracciarono, stringendola forte fra le loro braccia. La madre si staccò un po' da lei e con le lacrime agli occhi le parlò – Piccola mia era così preoccupata, chi ti ha portato lì? Ti ricordi qualcosa? – le accarezzò il viso con la mano tremante e le sorrise appena.
– Non lo so, non mi ricordo niente. Quanto sono stata via? – chiese a sua volta la figlia tremando leggermente, – Un giorno intero, quando ieri ero venuta a chiamarti per andare a lavoro il tuo letto era vuoto e tu non c’eri. Grazie a Dio sei sana e salva – rispose la madre tirando su col naso.
Ofelia sorrise abbracciandola – Andiamo a casa? Sono stanca e voglio farmi un lungo bagno – chiese con voce esile, il padre annuì – Certo tesoro, la macchina è infondo alla strada, non è tanto lontana, ma ce la fai a camminare fin lì o vuoi che ti porti in braccio? – chiese il padre accarezzandole la testa.
Ofelia scosse la testa – Grazie papà ma ce la faccio da sola – disse annuendo, la madre intanto le appoggiò le mani sulle spalle e stando dietro di lei in caso dovesse cadere, si incamminarono insieme verso la macchina. Il padre ringraziò i poliziotti e il cacciatore per l’aiuto e poi si incamminò anche lui avvicinandosi alla moglie e alla figlia.

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Capitolo 2
*** 2. ***


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Ofelia appena arrivò a casa ebbe una strana sensazione, come se non riconoscesse più la casa in cui viveva. Pensò che fosse dovuto per lo stress appena subito e anche per il fatto di essersi ritrovata in un bosco ricoperta di foglie e non riuscendo a capire come ci era arrivata. Salì diritta verso la sua camera dal letto, quando entrò nella stanza ritrovò tutto come l’aveva lasciata due giorni fa; completamente in ordine a parte il letto che era ancora disfatto. Entrò in bagno ed iniziò a preparare la vasca da bagno, aprendo l’acqua calda. Accese anche il mini stereo che teneva in bagno, così si sarebbe rilassata anche con la musica.
Mise in acqua 4/5 pugni di sale marino, qualche goccia di verbena (che per Ofelia erano micidiali contro allo stress) e qualche goccia di camomilla. Sfiorò l'acqua con due dita per controllare se fosse abbastanza calda; decise che la temperatura fosse perfetta così. Si svestì ed entrò nella vasca immergendo tutto il corpo, lasciando fuori solamente testa. Si mise sugli occhi due dischetti imbevuti di acqua di rose e si rilassò con la musica di sottofondo che aveva acceso poco prima di entrare in acqua.
Quando ebbe finito di rilassarsi uscì dalla vasca ed indossò il suo accappatoio di spugna di bamboo. Si strinse di più nell’accappatoio, questo le generò sulla pelle una piacevole sensazione di sofficità e di morbidezza. Si tamponò i capelli con un piccolo asciugamano poi si fece un turbante per raccogliere la chioma bagnata e lo pinzò con un mollettone per non farlo cadere.
Si avvicinò allo specchio e guardandosi si spavento nel vedere il suo riflesso, aveva un aspetto orribile. Le occhiaie erano ben visibili e per rimuoverle avrebbe dovuto dormire un giorno intero cosa che non sarebbe potuta accadere perché doveva lavorare. La pelle era pallida e opaca; toccandosi la fronte constatò di avere la febbre e maledì il fatto di non ricordarsi quello che era successo due giorni fa.
Tornando in camera, si diresse verso il cassettone dell’intimo e delle magliette che usava per casa.
Indossò un paio di slip e un reggiseno blu, color del mare. Prese una maglia bianca dal cassetto sotto a quello dell’intimo, era un po’ bucherellata ma per casa le andava benissimo ed indossò anche quella. Poi dirigendosi verso l’armadio prese un paio di pantaloni neri di una tuta e li indossò; le stava un po’ larghi ma per casa sarebbero andati bene.
Si andò a sedere sul letto e con il phon si asciugò i capelli passandoci in mezzo le dita per togliere eventuali nodi. Quando ebbe finito di asciugarli, li spazzolò per bene, poi legandoli in una coda disordinata si mise sotto le coperte e pregò di riuscire a riposarsi almeno un po’.
A svegliarla fu il frastuono che arrivò dal piano di sotto, la madre urlò imprecando contro ai bicchieri che le dovevano essere caduti per terra, rompendosi in mille pezzi.
La ragazza seccata da tutto quel casino si alzò ed infilandosi le scarpe uscì dalla finestra facendo un salto ed atterrando in piedi e poi iniziò a correre per schiarirsi le idee.
Fece la stessa strada che aveva percorso due giorni prima. Non ricordava nulla, fino a quando si fermò davanti al cimitero e gli tornò in mente ogni cosa.
Il signor Nicholas Hudson, il guardiano del cimitero restò stupito nel vedere Ofelia Montgomery camminare per le strade della città, di notte e da sola.
– Signorina Ofelia che ci fa qui da sola? E per giunta così? – chiese l’uomo indicando l’abbigliamento strano della ragazza, portava ancora la camicia da notte ed era scalza.
– Non so chi sai questa Ofelia, il mio nome è Georgia Adams e sono venuta a trovare il mio defunto marito – parlò la ragazza con voce quasi metallica facendo qualche passo verso l’entrata del cimitero.
La ragazza con passi lenti entrò nel cimitero e si diresse verso ad una tomba, la tomba di Walter Woods, nato il 18.12.1883 e morto il 23.11.1915.
– Oh tesoro mio quanto mi manchi – parlò Ofelia con un’altra voce accarezzando la lapide di quel uomo.
La ragazza si alzò di scatto sentendo dei rumori strani e guardandosi in giro controllò se ci fosse qualcuno – Tesoro mio ora devo andare, ho paura che mi abbiano trovata – disse afflitta Georgia da dentro il corpo di Ofelia, dando un’ultima occhiata alla lapida corse verso il bosco lasciandosi alle spalle il cimitero. Appena entrò nel bosco fu invasa dagli aromi dei pini e della resina che colava dalle loro cortecce; dall'odore di umido che saliva dalle foglie marce che stavano sul terreno, quello della legna bagnata e quello fresco del muschio. Ma fu colpita anche dal freddo gelido che c’era, ma rabbrividendo continuò lo stesso a camminare. Non sapeva nemmeno lei dove andare, era convinta di essere seguita da qualcuno che la voleva morta, ma da chi? Chi l’aveva trovata e la voleva morta? E perché?
– Signorina Ofelia? Signorina? Si sente bene? – chiese il custode picchiettando su una spalla della ragazza.
Ofelia tornò alla realtà e rendendosi conto di quello che aveva appena ricordato senza neanche rispondere al custode corse verso casa, sperando di avere o almeno trovare delle risposte.
 

 

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Capitolo 3
*** 3. Georgia Adams (23, novembre, 1915) ***


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23, novembre, 1915
– Io Georgia Adams accolgo te Walter Woods come mio sposo, con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre: nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita. – disse Georgia trattenendo a stento le lacrime, guardando il suo futuro marito davanti a lei.
 
– Io Walter Woods accolgo te Georgia Adams come mia sposa, con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre: nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita. – disse a sua volta Walter sorridendo dolcemente a Georgia prima di tornare a guardare il prete.
Il prete parlò ancora per un paio di minuti, fin quando non arrivò il momento dello scambio degli anelli. Una piccola bambina dai capelli dorati con indosso un vestitino azzurro in raso e tulle si avvicinò al prete tenendo fra le mani un piccolo cuscino di raso rosso con sopra gli anelli. Il prete prese il primo anello e lo mise sulla mano di Georgia. Fu la prima ad iniziare.
– Walter Woods ricevi quest'anello segno del mio amore e della mia fedeltà nel nome del padre, del figlio e dello Spirito Santo – disse la donna questa volta fra le lacrime, infilando l’anello nell’anulare sinistro dell’uomo.
– Georgia Adams ricevi quest'anello segno del mio amore e della mia fedeltà nel nome del padre, del figlio e dello Spirito Santo – anche lui fece lo stesso e mise l’anello nell’anulare sinistro sorridendo affettuosamente alla donna.
– Per il potere conferitomi dalla Chiesa vi dichiaro marito e moglie, ora puoi baciare la sposa – disse il prete chiudendo la bibbia.
Walter avvicinò il suo viso a quello della donna e le diede un dolce bacio sulle labbra. Georgia portò le braccia dietro al collo e si strinse di più a lui, ricambiando il bacio.
Partirono urli, fischi e applausi da parte dei famigliari e amici. Quando la neocoppia uscì dalla chiesa la gente iniziò a lanciare il riso facendolo finire anche tra i capelli della donna.
Georgia stava facendo fatica a scendere dalla scalinata della chiesa perché aveva paura di inciampare nel suo lungo vestito in seta bianca. Aiutata dal suo neomarito riuscì a scendere e a salire in macchina, una Lancia Theta di quell’anno.
Il ricevimento era stato fatto nella loro piccola casa ed era stata ripulita e risistemata per l’evento dalle donne del parentado. Avevano anche preparato il pranzo e fatta la torta nuziale secondo i gusti dei due sposini.
Dopo il pranzo ci furono dei balli. Gli ospiti si stavano divertendo a ballare a ritmo di musica, scatenandosi nella parte libera della sala. Intanto veniva servito altro cibo in caso qualcuno avesse ancora fame.
La ragazza si guardò in giro cercando il marito, si avvicinò a sua madre, Carmen, – Madre hai visto per caso Walter?Non lo trovo da nessuna parte – chiese Georgia alzandosi in punta di piedi per vedere se era nella ‘pista da ballo’.
La madre ridendo, leggermente brilla – Siete sposati da poche ore e già l’hai perso? Ah, come farai a tenertelo stretto per tutta la vita? – Carmen dando una pacca sulla spalla alla figlia se ne andò, correndo verso dei suoi amici di vecchia data.
Georgia trovò sua zia Ofelia guardarsi in giro preoccupata – Zia vi sentite bene? – chiese la ragazza appoggiandole una mano sulla spalla, – Sì, certo cara. Vai a divertiti – rispose la donna sorridendole prima di prendere un bicchiere di champagne dal tavolo allo fianco e berlo in un solo colpo.
La ragazza scuotendo la testa si allontanò in cerca del marito. Salì le scale, quelle che portavano al piano di sopra dove c’erano le camere da letto, il bagno e lo studio del padre. Per primo controllò il bagno, in caso si fosse sentito male. Diede un’occhiata dentro per vedere se c’era il marito, ma non lo trovò così uscì. Provò un’altra stanza, la loro camera da letto, da cui provenivano dei rumori strani. Aprendo di poco l’uscio della porta della camera trovò suo marito intento a fare cose poco caste con un’altra donna. Georgia stette a guardare fin quando non ebbe un raptus di rabbia ed andando a prendere la pistola che teneva suo padre nel suo studio, entrò nella camera da letto puntando la pistola contro ai mascalzoni – Mi fai schifo, ci siamo appena sposati e tu già mi tradisci con questa sgualdrina – esclamò disgustata Georgia puntando la pistola contro alla donna e sparando un colpo, prendendole in pieno la testa. L’uomo si alzò di scatto spaventato – Ti prego Georgia è stato solo un errore, non si ripeterà mai più. Te lo giuro – la supplicò Walter mettendosi in ginocchio.
– Avresti dovuto pensarci prima di tradirmi – disse con voce cupa Georgia prima di sparlargli un colpo al cuore e poi uno alla testa.
Georgia si guardò in giro, sangue e cervella erano sparse per la stanza, si sentì male. Le salì il vomito e un forte giramento di testa la fece sedere sul letto al fianco dei due traditori.
Rabbia, disprezzo, paura e rimorso la stavano distruggendo, non poteva vivere con questo segreto, no, non poteva.
– Perdonami Walter, ci vedremo all’inferno – disse la donna con voce strozzata dalle lacrime prima di infilarsi la pistola in bocca e spararsi. Il muro dietro di loro si imbrattò di sangue; il suo vestito che da bianco ormai era diventato rosso. Il suo corpo si era afflosciato sul letto vicino a suo marito e alla sua amante. Gli occhi della donna erano spalancati e delle lacrime scesero fino a bagnarle le guancie ormai bianche cadaveriche.
Si sentirono i rumori di passi veloci che salivano le scale e poi un urlo. La madre urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
– Georgia! No, ti prego – disse la donna correndo verso il corpo della figlia, la spostò dal letto e se la portò al petto. Iniziò a piangere ed accarezzandole i capelli impregnati di sangue la cullò fra le sue braccia – No, no, no…– disse disperata. Il marito non proferì parola ma anche lui come la moglie era sconvolto da omicidio-suicidio della loro adorata figlia.
 
Pochi giorni dopo ci fu il funerale, i genitori di Walter non ebbero il coraggio di presentarsi. Dopo quello che aveva fatto il figlio. Georgia mancava a tutti, era una ragazza così solare e piena di vita. Nessuno si sarebbe mai immaginato che potesse uccidersi.
Erano tutti vestiti di nero, la madre aveva un velo davanti al viso, non voleva farsi vedere. La bara era messa al centro già pronta per essere seppellita. Il prete disse le ultime preghiere appoggiando sulla bara un fiore bianco. Fu seguito da tutte le persone presenti quel giorno ed appoggiarono anche loro dei fiori sulla bara di legno, per ultimi  lasciarono i genitori della ragazza che vollero stare soli con lei . Quando furono soli con la loro bambina piansero tutte le lacrime che avevano in corpo. Chiesero a Dio perché proprio la loro bambina? Perché lei fra tutte le altre?
Il padre appoggiò per primo il fiore pregando per l’anima della loro adorata figlia. Invece Carmen asciugandosi le lacrime con il dorso della mano si alzò in piedi ed appoggiò il suo fiore sulla bara della sua bambina. Sfiorò la bara con le dita, quasi se stesse accarezzando sua figlia – Mia cara Georgia ti aspetterò nella tua prossima vita – disse con la voce straziata dal dolore prima di andarsene via insieme al marito lanciando un’ultima occhiata alla bara prima di venir sotterrata dalla terra.

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Capitolo 4
*** 4. ***


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Ofelia arrivò davanti a casa sua con il fiatone e le gambe indolenzite, non aveva mai corso così velocemente nella sua vita. Decise di non entrare dalla porta d’ingresso perché di sicuro avrebbe trovato la madre, così decise di arrampicarsi su delle piante rampicanti sotto alla finestra della sua camera. Riuscì ad entrare in camera sua sana e salva, senza essere scivolata al suolo.
Rotolò al suolo, alzandosi si massaggiò il braccio poi uscendo dalla sua stanza controllò che suo padre non ci fosse. Quando costatò di essere sola, fece un salto senza emettere molto rumore e tirò la catena per aprire la botola che portava alla soffitta, fece scendere la scala e controllando ancora che non ci fosse nessuno salì. Chiuse la botola dietro di sé, tirando la catena e quando fu sicura di averla chiusa per bene, si alzò in piedi e si guardò in giro in cerca di qualcosa che le avrebbe fatto capire il perché di quel ricordo molto strano.
La soffitta odorava di polvere, di muffa e vernici. L'unica fonte di luce proveniva da un unico lucernario e il piccolo fascio di sole che filtrava all'interno illuminava l'ambiente in modo molto approssimativo. Impilati sul fondo della soffitta c'erano due mobiletti, una cassapanca, scatole di giocattoli di vecchio stampo, barattoli di vernice e la vecchia bicicletta della madre. La polvere regnava sovrana ed era su ogni cosa. Ofelia fece qualche passo facendo scricchiolare il pavimento di legno. Si avvicinò alla cassapanca e l’aprì, trovandoci dentro delle vecchie foto e lettere, datate anni e secoli indietro. Abbandonati dietro alla cassapanca c’erano dei vecchi quadri raffiguranti delle donne, ma con tutta la polvere che avevano sopra, Ofelia non riuscì a capire chi erano.
Gli spostò da quel punto, cercando di fare meno rumore possibile, poi gli appoggiò per terra e con uno straccio trovato sul mobiletto vicino alla cassapanca cercò di spolverare i quadri. Fece un po’ di fatica ma alla fine riuscì a pulire almeno il primo quadro. Si spaventò nel vederlo. Era identica a lei, cambiava solamente l’epoca. In fondo al quadro in basso a sinistra c’era scritto un nome e un anno. La donna si chiamava Nora Day e l’anno in cui fu dipinto era il 1807. Spolverò anche gli altri quadri, trovando sempre‘lei’ in altri anni e epoche. Nessun quadro raffigurava sempre la stessa lei. In ogni quadro c’era una ‘Ofelia’ diversa. Trovò anche la lei che si faceva chiamare Georgia Adams e l’anno in cui fu dipinto era il 1915. Le altre donne si chiamavano: Delia Morton - anno 1892; Arlene Douglas - anno 1961; Rebekah Warner - anno 1984.
Si portò una mano alla bocca per trattenere le urla. Non capiva più niente. Chi erano quelle donne e perché le assomigliavano tanto? E domanda più importante chi era lei? Quelli al piano di sotto erano davvero i suoi genitori?
Mille domande viaggiavano veloci nella testa della ragazza facendole venire un mal di testa fortissimo. Si sentiva la testa scoppiare. Odiava essere all’oscuro di cose così importanti.
– Sono morte tutte all’età di ventidue anni, speravo che almeno a te non toccasse subire quest’agonia invece mi sbagliavo – confessò la madre da dietro le spalle della figlia. Ofelia si girò di scatto spaventata perché non l’aveva sentita entrare talmente era scossa.
– Che cosa significa? – chiese sconvolta la ragazza indicando i quadri.
La madre sospirando si andò a sedere al fianco della figlia ed accarezzò i quadri con fare malinconico. – Loro sono te negli anni passati – spiegò la donna guardando la figlia dritta negli occhi – La prima a nascere fu Nora, quando nacque i miei poteri si trasferirono in lei perché via della luna rossa. Solamente quando c’è la luna rossa una rinata può donare i suoi poteri ai propri figli ed è quello che successe a me nel 1785 – continuò a spiegare.
– Una rinata? – chiese Ofelia non capendo.
– Una rinata è come te e com’ero io una volta. Noi moriamo e rinasciamo per l’eternità. Ma se in caso una rinata dovesse morire prima dei suoi ventidue anni non rinascerebbe più – rispose la madre accarezzandole una mano, Ofelia gliela scansò via e stringendo i pugni chiese alla madre di continuare a raccontare.
– Io sono nata nel 1569, il mio nome era Mary. Quando morì mia madre il suo potere si trasferì in me perché c’era la luna rossa, sennò sarebbe andato perso. Io morii nove volte prima di incontrare tuo padre nel 1782. All’età di ventidue anni diedi alla luce Nora e io trasferii i miei poteri in lei, ma rimasi comunque immortale – continuò a raccontare la madre spostandosi una ciocca di capelli che le era finita davanti agli occhi
– Anche mio padre è un rinato? – domandò Ofelia cercando di capire al meglio la storia.
– No, tuo padre è un risorto, cioè una persona che risorge dalla morte. Le donne sono le rinate, gli uomini sono i risorti. Possono risorgere una sola volta nella loro vita differentemente da noi rinate – rispose Lena, la madre, scoprendo la spalla sinistra dove mostrò una mezza luna tatuata – Le rinate che perdono, donano o comunque trasferiscono i loro poteri devono tatuarsi una mezza luna sulla spalla. Io me la sono fatta fare da tua zia. Lei è una veggente e maga ed è immortale come tutti noi – continuò a spiegare la madre.
– Quindi fammi capire, io sono una rinata. Tu mi ha trasferito i tuoi poteri. Papà è un risorto e la zia è una veggente. Ed infine siamo pure immortali. Dimentico qualcosa? Ah sì, tutte quelle ragazze dipinte nei quadri sono io in altre epoche – Ofelia fece un piccolo riassunto andandosi a massaggiare le tempie.
– Esatto – confermò la madre sorridendole prima di alzarsi e scendere al piano inferiore – Il pranzo è pronto, ti va di mangiare qualcosa? – chiese Lena stando in punta di piedi sulla scala.
– Sì va bene, metto apposto è arrivo – rispose con voce fioca scrollando le spalle.

 

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Capitolo 5
*** 5. ***


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Appena fu scesa dalla soffitta andò in camera sua ed appoggiò sulla scrivania le lettere che aveva preso dalla cassapanca. Dopo le avrebbe lette sicuramente.
Scese le scale e si diresse verso la cucina dove trovò la madre intenta a condire l’insalata, mentre il padre cambiava canale per sintonizzarlo sul telegiornale locale.
– Tesoro, tua figlia sa ogni cosa – dichiarò la moglie portando l’attenzione su Ofelia. Il padre guardò la figlia con gli occhi spalancati.
– Sì papà, so tutto. Mamma me l’ho raccontato e spiegato mentre eravamo in soffitta – confermò la figlia sedendosi al suo solito posto, al fianco del padre che stava a capotavola.
– E’ solo che non capisco una cosa…perché moriamo sempre a ventidue anni? – parlò ancora Ofelia guardando prima suo padre e poi sua madre.
– Essendo che abbiamo l’immortalità ci hanno punito in questo modo. Noi rinasciamo ma all’età di ventidue anni, appunto, moriamo in qualsiasi caso e momento – spiegò la madre sedendosi a tavola e servendo il pranzo.
– Ma è una cosa ingiusta. Io non invecchierò mai – esclamò delusa Ofelia.
– Puoi invecchiare ma arriverai solo al doppio della tua età, cioè quarantaquattro anni, ti fermerai e rimarrai così per sempre, come me d’altronde – replicò la madre mangiando una patata al forno.
– E come faccio? Non voglio morire tra due mesi – confessò infine la ragazza un po’ impaurita dal fatto che poteva morire, di nuovo.
– Devi rimanere incinta, è l’unico modo. Se rimarrai incinta il tuo potere si indebolirà per un po’, poi appena il bambino sarà nato si trasferirà in lui, sempre se ci sarà la luna rossa sennò dovrai aspettare il tuo ventitreesimo compleanno e vedere cosa succederà – spiegò ancora Lena guardando il marito.
– Rimare incinta? State scherzando? Vorrei ricordarvi che io sono single e di sicuro non mi faccio mettere incinta da uno che non conosco – dichiarò Ofelia guardando male i suoi genitori – Non c’è nessun’altro modo? Solo questo? – chiese ancora.
– Forse c’è un’altra soluzione. Devo chiamare mia sorella – rivelò Lena alzandosi da tavola per prendere il cellulare e comporre il numero di sua sorella.
‘Ciao Sarah, si sono io, possiamo parlare?’
‘Si certo. E’ successo qualcosa ad Ofelia?’
‘E’ proprio di questo che volevo parlarti. Ofelia sa tutto’
‘Oh signore, dammi cinque minuti e sono da te’
‘Va bene, ti ringrazio’
Lena chiuse la chiamata e riferì quello che le aveva detto sua sorella, che sarebbe arrivata al più presto. Quel ‘dammi cinque minuti’ era la verità perché era già arrivata e stava bussando alla porta d’ingresso.
– Arrivo – urlò Lena correndo verso la porta d’ingresso.
Quando aprì la porta si trovò la sorella con indosso un lungo vestito blu e sulle spalle uno scialle nero. Sulla testa portava un turbante blu scuro che andava ad intonarsi con il vestito. Il viso identico a quello di quattrocento anni fa. Lungi capelli castano chiaro incorniciavano il suo viso ovale. Grandi occhi color delle nocciole erano contornati da una quantità di matita e brillantini che la faceva sembrare una pazza. Entrò in casa con passo felino guardandosi in giro in cerca di qualcosa o qualcuno. Appena puntò gli occhi su Ofelia le si allargò un sorriso sul volto mentre delle piccole rughe formarono delle piccole ragnatele intorno agli occhi.
– Ofelia come sei bella – esclamò avvicinandosi alla ragazza pronta ad accarezzarla una guancia ma Ofelia si alzò di scatto e scanso la sua mano.
– Come se non sapessi come sono fatta – esclamò acida la ragazza – Non fare finta di non sapere come sono. Mi hai vista già altre cinque volte se non di più – continuò la ragazza con voce aspra.
– Wow sei proprio una tigre eh? – domandò scherzando sua zia andandosi a sedere al posto di Lena.
– Allora Lena, di cosa volevi parlarmi? – chiese la donna accendendosi una sigaretta. Se la portò alla bocca, accese la miccia, aspirò e lasciò che il fumo le riempisse i polmoni. Lena si sedette al fianco della figlia che si era riseduta al suo posto.
– Ofelia vorrebbe sapere se c’è un altro modo per non morire all’età di ventidue anni? – domandò Lena alla sorella sventolando le mani in aria perché la stanza si era riempita di fumo.
– Uhm fammi pensare – disse Sarah portandosi una mano sotto al mento con fare pensoso – C’è un rituale, ma è molto potente e difficile. Io non ho così tanto potere per poterlo compiere – spiegò la donna guardando la sorella e la nipote che sospirò – Non c’è qualcosa di meno difficile? Tipo passare i poteri a qualcun altro? – suggerì Ofelia grattandosi un braccio.
– Anche per fare quello ci vorrebbe più potere, ma penso che ci riuscirei a farlo. Ti servirà soltanto una persona disposta a prendere il tuo potere però terrei in considerazione la possibilità di trovarti un uomo con cui fare un bambino – rispose Sarah spegnendo la sigaretta nel posacenere, – Tua madre potrebbe prepararti degli incontri con dei risorti, magari trovi qualcuno disposto ad aiutarti – continuò la donna sorridendo ad Ofelia.
– Sì va bene farò così. Spero solo di riuscire a trovare qualcuno che sia disposto ad aiutarmi e a prendersi cura del futuro bambino – dichiarò Ofelia sospirando prima di appoggiare la testa sul tavolo frastornata.
– Bene, sono felice della tua decisione, almeno non ci saranno delle conseguenze. Tra l’altro l’anno prossimo sarà l’anno della luna rossa, quindi sei anche fortunata – esordì la zia battendo le mani.
– Fortunatissima – commentò sarcastica la ragazza prima di alzarsi e dirigersi verso la sua camera da letto esausta.

 

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Capitolo 6
*** 6. Nora Day (8, agosto, 1807) ***


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8, agosto, 1807
– Domani quando scoccerà il dodicesimo rintocco la nostra futura Regina sarà incoronata – urlò il Re facendo segno alla futura Regina di salire e sedersi sul suo trono al fianco del figlio.
– Nora Day signori e signore – urlò Re Albert quando la ragazza si fu seduta sul trono al fianco di Francis, il figlio.
Tutto il popolo applaudì dinanzi ai futuri Re e Regina che sorridevano felice salutandoli.
Re Albert fece tornare a casa tutti rimanendo da solo con il figlio e la figlia che non era molto contenta della decisione di suo fratello.
– Vi sta solamente usando per il nostro denaro, perché siete così cieco? – sbraitò Josephine muovendo i suoi capelli boccoluti nell’aria.
– Perché per una volta non potete essere felice per me? Io amo Nora, fatevene una ragione – esclamò furioso Francis contro alla sorella che indietreggiò spaventata.
– Sciocco – esclamò a sua volta la sorella prima di andarsene nella sua camera.
Il padre appoggiò una mano sulla spalla del figlio e la strinse – Non fare caso a tua sorella, è gelosa – disse tranquillo il padre prima di dargli una pacca sulla schiena ed andarsene via, lasciando il ragazzo da solo.
Francis fissò il suo trono, domani sarebbe diventato Re insieme alla sua Nora, la futura regina. Ne era così felice che uscì dal castello correndo. Andò a cercare Nora e la trovò intenta a raccogliere dei fiori nel grande prato dietro al castello.
– Nora – urlò il ragazzo andandole in contro, la tirò su prendendola per i fianchi e la fece volteggiare nell’aria. La risata cristallina di Nora echeggiava nell’aria.
– Francis non mi fate cadere vi prego – disse Nora ridendo.
Francis la riportò con i piedi sulla terra – Vi amo Nora, vi amo davvero – esordì il ragazzo sfoggiando un sorriso genuino.
– Oh, anche io Francis, anche io – ribatté la ragazza dolcemente appoggiando la testa sul petto del ragazzo. La differenza di altezza si notava parecchio quando stavano vicino. Lei era molto più piccola di lui.
– Domani diventeremo Re e Regina, ne siete felice? – domandò il ragazzo portando una ciocca di capelli della ragazza dietro all’orecchio.
– Ne sono felicissima, a differenza di vostra sorella. Sembra proprio che mi odi, ma non capisco cosa le ho fatto – confessò la ragazza cambiando l’espressione del viso da felice a triste.
– E’ solamente gelosa, non fateci caso – la rassicurò Francis accarezzandole il viso. Nora annuì sorridendogli arricciando il naso – Amo quando lo fate – commentò il ragazzo toccandole il naso. Lei rise arricciandolo ancora prima di spintonarlo ed iniziare a correre nel prato – Provate a prendermi – urlò la ragazza ridendo prima di allontanarsi ancora.
Francis incominciò a rincorrerla ridendo insieme alla sua amata che si arrampicò su un albero in una velocità assurda.
– Questo non vale Signorina Day, lei è piccola e svelta – dichiarò il ragazzo con il fiatone. Intanto Nora se ne stava sull’albero e guardava dall’alto il suo futuro Re e marito che cercava di arrampicarsi però senza riuscirci. La ragazza rise di gusto nel vedere quella scena.
– Il futuro Re di Maryland non riesce a salire su un albero. La domanda è: riuscirà ad arrampicarsi prima dello scoccare della mezzanotte? – domandò divertita la ragazza dondolando le gambe.
– Ah - ah, molto divertente signorina Day – esclamò Francis facendo finta di essersi offeso.
– Oh - oh, state attento, ora scendo – esordì la ragazza saltando giù dall’albero.
Quando fu saltata giù diede un bacio sulla guancia a Francis ed iniziò a correre di nuovo, fin quando Re Albert li richiamò per tornare al castello.
I due ragazzi entrarono nel castello spensierati, erano tranquilli e felici – Non sono di certo comportamenti da Re e Regina quelli che avete fatto là fuori – commentò arrabbiato il Re.
– Oh padre ci stavamo solo divertendo. Non capita mai di divertirsi davvero qui. Solamente alle feste poi per il resto dei giorni è una noia totale – ribadì il figlio portando le braccia al petto.
Il padre non commentò quello che aveva detto il figlio, ma guardò Nora e le sorrise – Josephine vi sta aspettando nella sua camera, vorrebbe fare pace con voi – disse Re Albert.
La ragazza annuì facendo un inchino – Vado subito – riferì Nora dando un bacio sulla guancia a Francis prima di andarsene.
Quando furono soli il padre sgridò malamente il figlio – Non puoi comportarti così, non ora che diventerai Re – ribadì prima di lasciarlo solo per la seconda volta nell’arco della giornata.
 
Nora si stava dirigendo verso la stanza di Josephine ma venne fermato dal Re, la prese per un braccio facendola sobbalzare per lo spavento – Oh Nora scusatemi non volevo spaventarvi, mi è stato riferito che mia figlia vi sta aspettando sulla torre, seguitemi – disse l’uomo girandosi dall’altra parte sorridendo malignamente.
– Certo – disse gentilmente Nora ignara dei piani del Re e sua figlia.
Si diressero verso le scale che portavano alla torre, erano pallide e grigie fatte di pietra. Incominciarono a salire le scale, erano molto in salita, i muri di pietra iniziavano a farsi sempre più stretti, tanto che dovettero mettersi in fila per uno. Alla ragazza mancava il fiato e temeva di rimanere incastrata.
– Stia calma Nora, siamo quasi arrivati ancora qualche passo e troverà una porta – parlò il Re continuando a salire su per la lunga scalinata.
Come aveva detto Re Albert trovarono una porta che era già aperta. Nora la oltrepassò trovandosi Josephine che sorrideva mentre guardava il cielo. La vista da lì sopra era stupenda. Si vedeva ogni cosa, persino il piccolo laghetto dove Francis e Nora si erano incontrati la prima volta.
– Josephine, vostro padre mi ha detto che volevate parlarmi – disse Nora avvicinandosi alla ragazza che girando il viso verso di lei, si spaventò nel vedere l’espressione di puro odio che aveva nei suoi confronti.
Indietreggio cercando di tornare al piano inferiore ma Re Albert la fermò stringendola fortemente fra le sue braccia per non lasciarla scappare.
– Non potete scappare. Ora mi ascolterete, capito? – sputò acida Josephine puntandole un coltello alla gola. Nora annuì spaventata, le lacrime erano già scese e le avevano bagnato le guancie candide.
– Perché? Cosa vi ho fatto di male? – chiese sconvolta fra le lacrime.
– Voi non siete giusta per mio fratello. E poi so benissimo che voi volete solo il trono e i soldi – rispose perfida Josephine.
Nora iniziò a singhiozzare – Io non voglio niente di tutto ciò. Io amo veramente Francis – le urlò in faccia.
– Lo amereste anche se fosse povero? Senza neanche un centesimo per potervi mantenere? – domandò passandole il coltello su un braccio ferendola leggermente. Il braccio iniziò a sanguinare e la ragazza urlò dal dolore.
– Sì, sì, anche se fosse povero e senza un centesimo lo amerei – urlò disperata.
– Non vi credo – ribatté Josephine tirando la ragazza verso di sé, liberandola dalle forti braccia del Re. La spinse verso il bordo della torre – Siete una bugiarda, una ladra ed un’approfittatrice – continuando ad allontanarla dalla porta, la sua unica via per libertà.
– No, no, no – sussurrò la ragazza fra le lacrime, aveva gli occhi arrossati e le labbra gonfie e tremavano per il pianto.
– Sì – gridò Josephine spingendo la ragazza così forte da farla cadere dalla torre.
Cadde dalla torre urlando il nome di Francis, si schiantò al suolo rompendosi ogni ossa del corpo. La ragazza era ormai in una pozza di sangue. Una lacrima le scese bagnandole le guancie fino ad arrivare alla bocca insanguinata. Il suo ultimo pensiero fu Francis, il suo adorato Francis.
Una domestica sentendo il tonfo uscì e la trovò. Urlò fortissimo, così tanto da svegliare tutti nel castello. Il primo ad uscire fu Francis che trovando la sua Nora in una pozza di sangue scoppiò in lacrime.
Josephine e Re Albert assistettero alla scena sorridendo malignamente – Nessuno deve scoprire che siamo stati noi. Nessuno dovrà mai scoprirlo, soprattutto Francis – disse la ragazza guardando il padre dritto negli occhi che annuì serio.
 
Il giorno seguente non ci fu l’incoronazione ma il funerale dalla povera Nora. I genitori della ragazza erano in lacrime. Erano disperati, avevano perso la loro unica figlia.
Dissero tutti che fu un suicidio, ma i genitori di lei e Francis non ci crebbero. Era impossibile. Nora era sempre felice e spensierata, non aveva mai avuto problemi che potessero portarla al suicidio.
Re Albert e Josephine furono bravissimi a mascherare il loro omicidio. Finsero di essere tristi per la perdita di una ragazza così dolce, come la definì Re Albert.
La misero in una barca piena di fiori bianchi. La madre aveva preparato ogni cosa, non voleva che nessun’altro toccasse sua figlia. Fu davvero difficile per lei vedere sua figlia in quello stato, ma si fece coraggio per Nora e preparò tutto.
Accesero un focolare e buttandolo dentro alla barca, la lasciarono andare in mare. La ragazza prese fuoco mentre il mare se la portava lontana. Piansero tutti quel giorno, o almeno quasi tutti. Josephine e Re Albert finsero tutto il tempo.
Quando i genitori di Nora furono soli si abbracciarono stretti – Piccola mia ci vedremo presto in un’altra tua vita – sussurrò la donna piangendo.
Francis quello stesso giorno si tolse la vita impiccandosi nella sua camera da letto. Lasciò un foglio con su scritto solamente ‘Ci vedremo presto tesoro mio’.

 
 

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Capitolo 7
*** 7. ***


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Ofelia quel pomeriggio andò a lavorare. La sua piccola bottega di erboristeria era stata chiusa anche per fin troppo tempo, la madre non aveva avuto testa per riaprirla.
La ragazza in quel momento stava servendo una cliente che le aveva chiesto un detergente intimo.
– Deve usare questo: Aloevera2 Detergente Intimo Ultradelicato; deterge e aiuta a contrastare secchezza, prurito e irritazioni intime – spiegò Ofelia spostandosi una ciocca ribelle da davanti agli occhi.
– Lo prendo subito – disse la signora tirando fuori il borsellino dalla sua borsa.
– Certo signora, sono 9 dollari – riferì Ofelia passando il prodotto nello scanner – Basta così? – chiese ancora la ragazza.
La donna annuì dando ad Ofelia 10 dollari, – Ecco a lei il suo resto e non dimentichi lo scontrino – disse Ofelia mettendo il prodotto in un sacchetto di plastica per poi consegnarlo alla signora.
– Il prossimo – gridò Ofelia guardando la lunga fila di clienti. Passò tutto il pomeriggio a servire i suoi clienti, fin quando non arrivò l’orario di chiusura, cioè le 20.00.
Ofelia stava per chiudere la bottega ma un ragazzo dagli occhi di ghiaccio e dai capelli neri corvino la fermò – Ho un bisogno urgente di questa crema – parlò velocemente mostrandole il biglietto con il nome della crema.
– Può venire domani, ora siamo chiusi – informò Ofelia chiudendo a chiave la porta della bottega.
– La prego – supplicò il ragazzo facendo incontrare i suoi occhi color ghiaccio con quello color nocciola di lei.
Ofelia sospirò strappando dalle mani del ragazzo il foglio – Solo cinque minuti e che non ricapiti più, ci sono gli orari scritti proprio lì fuori – disse la ragazza riaprendo la bottega ed entrandoci dentro. Accese la luce ed aspettò che il ragazzo entrasse dentro per poi chiudere la porta.
– E’ già venuto altre volte qui? È registrato oppure no? – chiese Ofelia accendendo il computer dietro al bancone bianco.
– In verità mi sono trasferito questa mattina, mi hanno detto che qui c’era una buona bottega di erboristeria e diciamo che mi sono perso prima di riuscire trovarvi – spiegò il ragazzo alzando le spalle.
Indossava un lungo cappotto nero che lo faceva sembrare ancora più slanciato. Un paio di pantaloni di jeans leggermente strappati facevano intravedere i peli delle gambe.
Alle mani portava dei guanti che tolse proprio in quel momento andando ad appoggiarli sul bancone. Le mani erano molto screpolate e si vedeva chiaramente che gli davano fastidio.
– Mi può dire il suo nome e cognome? –
– Evan Allen –
– Età? Numero di cellulare o telefono?– chiese Ofelia inserendo i dati nel computer – Mi perdoni per tutte le domande, ma servono per la registrazione. Stia tranquillo sono private – spiegò la ragazza alzando gli occhi e puntandoli verso il ragazzo che si stava grattando le mani.
 – Se continua così le irrita solamente, aspetti qui – disse Ofelia andando a prendere un tubetto di crema nello sgabuzzino – Mi dia le mani – disse lei.
Il ragazzo gli porse le mani e si lasciò spalmare la crema dalla ragazza. Gliela spalmò lentamente senza fare troppa pressione e senza irritare ancora di più la pelle.
– Ecco fatto. Ora non si gratti più signor Allen – disse Ofelia sorridendogli gentilmente.
– La ringrazio signorina Montgomery – la ringraziò ricambiando il sorriso, – Comunque ho ventidue anni, non ho né il cellulare né il telefono di casa, io e la tecnologia siamo due cose diverse – riferì ridendo. Aveva una risata dolce ed un sorriso bellissimo, poté costatare la ragazza.  Il sorriso di Ofelia si allargò ancora di più dopo averlo visto ridere poi rise anche lei – Non importa, uhm non manca niente, ma se in caso vuole farsi portare a casa i prodotti mi deve dire dove abita e la via – disse controllando il computer.
– Non ce n'è sarà bisogno ma grazie – disse gentilmente il ragazzo.
– Va bene, allora per la crema sono 9 dollari – disse Ofelia mettendo la scatola in un sacchetto di plastica e consegnandolo al ragazzo.
Evan le diede nove dollari giusti poi prese il sacchetto e le sorrise – Spero di vederti ancora Ofelia, giusto? – chiese gentilmente il ragazzo.
– Sì, Ofelia. Beh mi trovi sempre qui oppure in giro – rispose Ofelia sorridendo prima di spegnere il computer.
Uscirono dalla bottega insieme, Evan indossò i suoi guanti poi si guardò in giro spaesato, non sapeva nemmeno lui dove andare. Ofelia se ne accorse subito – Vuoi un passaggio a casa? E’ meglio non andare in giro da soli alla notte, soprattutto in questa cittadina – riferì gentilmente.
Lui annuì gentilmente – Grazie, in realtà non so nemmeno da che parte girarmi quindi ti ringrazio davvero – disse Evan sorridendo cordialmente ad Ofelia.
Salirono sulla macchina di lei, era piccolina, ma accogliente ed era abbastanza fredda e profumava di pulito. Partirono subito, Ofelia accese anche il riscaldamento per riscaldare un po’ la macchina. Giudò per una decina di minuti poi Ofelia fermò la macchina. Erano arrivati davanti all’edificio in cui si era appena trasferito Evan. Era alto, grigio e faceva quasi venire i brividi da quanto era tetro quel posto.
– Tu vivi qui? –
– Sì, è un problema? –
– No, è solo che prima che lo ristrutturassero era un manicomio quindi mi fa un po’ strano venire qui – spiegò la ragazza scrollando le spalle.
– Manicomio o non manicomio era l’unico edificio dove gli appartamenti costavano poco, quindi va più che bene – disse il ragazzo slacciandosi la cintura di sicurezza poi aprì la portiera della macchina ma prima di uscire si girò verso la ragazza sorridendole e disse – Ciao Ofelia, ci vediamo in giro –.
Evan uscì dalla macchina ed incamminandosi nell’oscurità di quell’edificio e spari nel buio lasciando Ofelia da sola in quel parcheggio desolato.

 

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Capitolo 8
*** 8. ***


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17, ottobre, 2014
Ofelia stava dormendo tranquilla nel suo letto fin quando non sentì una voce chiamarla, Ofelia, Ofelia vieni qui.
La ragazza si alzò dal letto, balzando giù senza fare rumore e poi dirigendosi verso il bagno, si fermò davanti allo specchio. L’immagine dall’altra parte si muoveva da sola, non era il suo riflesso ma era un’altra lei. La ragazza oltre lo specchio le sorrise – Così sei tu l’ultima rinata – esordì con voce flebile l’altra lei – Io sono quella morta prima di te, il mio nome Rebekah Warner – continuò a parlare il riflesso.
– Come sei morta e perché? – domandò frettolosamente Ofelia perché voleva sapere ogni cosa.
Rebekah rise leggermente – Quante domande – disse spostandosi una ciocca di capelli dietro all’orecchio – Abbiamo sempre avuto dei capelli stupendi – continuò toccandosi in continuazione la folta chioma.
– Rispondi alle domande, come sei morta? E perché? – ridomandò Ofelia portando le braccia al petto.
Rebekah sospirò – E va bene! Mi hanno sparato in testa – disse alzando le spalle – Ho minacciato la persona sbagliata, ecco tutto – continuò appoggiando una mano sullo specchio riflettendolo verso Ofelia.
– Perché hai minacciato una persona? – chiese sempre più curiosa Ofelia appoggiando la sua mano sullo specchio andando a coprire quella di Rebekah.
– Oh..vuoi proprio sapere tutto eh? Comunque…facevo la prostituta e mi servivano soldi. Un giorno entrò nel club un uomo molto ricco e chiese di me così lo accontentai, sai cosa intendo. Dopo quella notte, iniziai a pedinarlo e scoprì che aveva una famiglia. Lo minacciai di dire tutto sua moglie, ma lui non voleva saperne di cedere. Gli dissi che se non mi avesse dato la somma che volevo, quella stessa sera sarei andata a dirlo a sua moglie. Ma lui fu più furbo di me e ordinò ad un suo sicario di uccidermi. Il suo sicario venne a casa mia dicendomi che il suo capo non aveva intenzione di pagare la somma, allora io gli disse che le foto le avrei portare proprio in quel momento dalla moglie, ma lui fu più veloce, mi spinse facendomi cadere dalle scale, picchiai la testa sul pavimento e mi feci male ad una gamba. Non riuscivo ad alzarmi, il dolore alla gamba era insopportabile, così mi trascinai fino ad arrivare vicino ad un tavolino dove c’era appoggiata una lampada. Ero sul punto di prenderla, ma non ci riuscii perché mi sparò un colpo in testa. Ecco tutto – finì il suo racconto facendo una smorfia – Che vita di merda – esclamò ancora Rebekah.
– Oh mio dio – esclamò Ofelia portandosi una mano alla bocca sconvolta – Davvero eri una prostituta? Ma nostra madre dov’era? – domandò scossa.
– Ahhh, la storia con nostra madre era un po’ complicata. Io non volevo niente. Non volevo farmi mantenere da loro e così scappai di casa a quindi anni – rispose sospirando stanca.
– Oh, mi dispiace. Posso chiederti com’è possibile con te riesco a parlare e con le altre no? –
– Ti potrebbe succedere anche con le altre. Io volevo davvero parlarti quindi sono riuscita a collegarmi a te, senza farti del male. Non come quello che ti ha fatto Georgia il giorno in cui ti sei trovata nel bosco. Lei è entrata in te, in quel momento non eri più Ofelia ma Georgia –
– Vorresti dirmi che loro possono usare il mio corpo quando vogliono? –
Il nostro corpo. Comunque no, solamente quando vogliamo parlare con te. Per Nora, Delia e Georgia è molto più difficile trovare un contatto con te perché loro sono nate moltissimo tempo fa. Mentre io e Arlene riusciamo a contattarti senza farti del male, solamente perché siamo nate un po’ più vicine a te. No, forse Arlene potrebbe farti del male ma involontariamente –
– Wow che casino – esclamò Ofelia massaggiandosi le tempie.
– Tesoro con chi stai parlando? – domandò una voce femminile da fuori, Ofelia guardò impaurita la porta poi tornò allo specchio, ma il riflesso era tornato il suo, non c’era più Rebekah.
– Con nessuno mamma. Avevo solamente un po’ di mal di testa. Ora torno a letto – parlò la ragazza appoggiando la testa contro alla porta.
– Va bene, buonanotte tesoro – disse dolcemente la madre. Ofelia sentì sua madre allontanarsi con passi veloci, quando fu certa che la sua camera fosse vuota uscì, andando ad infilarsi sotto alle coperte pronta a rimettersi a dormire, anche se dopo quello che aveva scoperto non aveva molto più sonno.
 
Riuscì finalmente ad addormentarsi, ma un dolore allucinante la svegliò dal suo sonno. Una fitta fortissima le attraversò la schiena facendola piegare in due, tanto da farle mancare il fiato. Provò a chiamare sua madre, ma le uscì un suono strozzato. Sembrava che le stessero rompendo ogni ossa del corpo. Un dolore allucinante. Cercò di alzarsi dal letto, ma l’unica cosa che fece fu un frastuono assurdo perché la lampada che teneva sul comodino si frantumò al suolo.
La madre sentendo quei rumori scorse subito in camera della figlia, dove la trovò rigida e con gli occhi bianchi.
– Madre – parlò Ofelia, ma il suono che uscì dalla sua bocca era metallico, proprio come l’era successo con Georgia.
– Chi sei? – domandò la madre avvicinandosi al letto.
– Madre, sono Nora – rispose facendo tossire sangue ad Ofelia – Sono stati Re Albert e sua figlia ad uccidermi. Non mi sono suicidata – tossì ancora muovendo a scatti il braccio fino a portarselo al viso. Si toccò con una mano la bocca e si spaventò nel vedere il sangue – Madre chi sono le altre fanciulle con me? Ho paura – domandò Nora impaurita.
– Oh tesoro – disse rattristata la madre accarezzando il viso gelido della figlia – Nora, figlia mia devi liberare Ofelia sennò morirà e ricordati che ti vorrò sempre bene – continuò Lena guardandola tristemente prima di darle un bacio sulla testa. Nora annuì con le lacrime agli occhi poi li chiuse e tornò Ofelia che si alzò di scatto tossendo fortissimo.
– Shh piccola mia andrà tutto bene – le sussurrò la madre cullando fra le sue braccia. Ofelia scoppiò in un pianto di paura e disperazione stringendosi di più alla madre. Lena le sussurrò in continuazione andrà tutto bene fin quando non si addormentò fra le sue braccia.

 

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Capitolo 9
*** 9. Delia Morton (4, maggio, 1892) ***


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4, maggio, 1892
– Delia mi potresti passare l’ortica? Ti ringrazio – chiese la madre, Elizabeth, pestando la portulaca nel mortaio.
Delia e la madre Elizabeth avevano una piccola bottega di erboristeria che tenevano sempre aperta per aiutare gli abitanti in caso stessero male. Usavano solamente piante e oli per le loro medicazioni e medicine.
– Madre dobbiamo andare a raccoglierla perché ne è rimasta pochissima – rispose la figlia consegnandole l’ortica.
Il tintinnio della campanella appesa sopra alla porta le fece girare, si trovarono una donna bassa e grassottella con il viso ricoperto di rughe. Davanti alla bocca portava un fazzoletto nero che usava quando tossiva.
– Signora Underwood – esclamò Elizabeth guardando la donna – Di cos’avete bisogno? – chiese smettendo di pestare l’infuso.
La donna si avvicinò al bancone di legno ed appoggiandoci sopra un sacchetto di stoffa nera parlò – Ho bisogno di qualcosa contro al mio raffreddore, ho provato la medicina che mi ha consigliato il dottore, ma non vuole passare. Avete qualcosa? – tossicchiò portandosi il fazzoletto davanti alla bocca.
– Certamente, mia figlia le preparerà subito la crema – disse Elizabeth sorridendo alla donna poi guardò la figlia e le disse di cominciare a farlo.
Delia iniziò a prendere gli ingredienti: due fusti di portulaca; un piccolo mazzetto di fiori di glicine essiccati; un paio di semi di idraste e una boccetta di olio di pino.
Iniziò a pestare gli ingredienti nel mortaio, prima il glicine, poi i semi di idraste ed infine i fusti di portulaca e ogni tanto metteva delle gocce di olio di pino per ammorbidire il tutto, fino a farli diventare una crema. Iniziò ad utilizzare il pestello con un dolce e costante movimento rotatorio sulle pareti del mortaio e lo lavorò fino a quando non raggiunse una crema omogenea e ben amalgamata. Quando ebbe finito il tutto ne mise una buona quantità dentro ad un vasetto di vetro che consegno poi alla signora Underwood.
– La deve sparlare sotto al collo oppure ne mette una piccola quantità sotto al naso prima di andare a dormire – spiegò Delia sorridendo gentilmente alla signora.
– Vi ringrazio. Vanno bene le monete, è tutto quello che ho per ora? – chiese la donna aprendo il sacchetto e svuotandolo sul bancone.
Delia le contò, erano cinque monete d’oro, – Vanno più che bene signora Underwood – rispose annuendo e prendendole in mano per poi ritirare in una piccola scatola di metallo.
– Grazie davvero, buona serata – ringraziò la donna uscendo dalla piccola bottega, – Salve signora Underwood, buona giornata anche a voi – dissero in coro Delia e Elizabeth.
Quando fu uscita del tutto Elizabeth sospirò – Stiamo finendo quasi tutto, domani mattina dovremo andare a raccogliere un po’ di fiori e piante – dichiarò portandosi le mani nei capelli.
– Va bene madre – disse Delia stringendosi nelle spalle.
Delia e Elizabeth lavorarono tutti il giorno fin quando l’orologio del campanile della cittadina non scoccò otto rintocchi. Erano le otto di sera e le due donne finalmente potevano tornarsene a casa a riposare.
Chiusero per bene la bottega e si diressero verso la loro piccola casetta in mezzo al bosco. Non era molto lontana dal centro della cittadina, ma era isolata. Non c’erano altre case intorno, solo la loro.
Passarono per un sentiero che portava dritte verso la loro casa, appena entrarono, la trovarono vuota. Il padre era ancora a lavoro, faceva il fornaio in una piccola panetteria in città.
Le due donne si andarono a sdraiare un attimo per riposarsi le ossa. Dopo essersi riposate si alzarono entrambe, Delia si mise a leggere un libro sedendosi su una piccola poltrona vicino alla finestra invece la madre scese al piano inferiore, si diresse verso la cucina ed iniziò a preparare la cena. Fece la pasta al ragù, quella che piaceva tanto alla figlia e al marito.
Delia stanca di leggere si mise a guardare fuori dalla finestra, era davvero buio, si faceva persino a vedere il sentiero se non si aveva una con sé una lanterna. La città era illuminata da dei lampioni invece nel bosco non ce n’era neanche uno.
– Delia è arrivato tuo padre, scendi – urlò la madre facendosi sentire chiaramente.
La ragazza si alzò dalla poltrona e scendendo dalle scale facendo attenzione a non cadere si diresse verso la cucina e appena vide il padre gli saltò in braccio.
– Mi sei mancato – sussurrò la ragazza, il padre la strinse forte a sé ed le accarezzò i capelli – Anche tu – ribatté dolcemente lui.
La famiglia Morton mangiò tranquilla, ridendo e scherzando. Quando ebbero finito di cenare andarono a dormire perché la mattina seguente si sarebbero dovuti alzare molto presto.
Le prime a svegliarsi furono le donne che lasciando dormire l’uomo di casa, uscirono per andare a raccogliere l’ortica nel bosco lì intorno.
Non ci misero molto a trovarla perché era ovunque. La trovarono ai fianchi dei sentieri e intorno a molti alberi. Ne raccolsero tantissime, così tante che per almeno due mesi erano sicure di avere la scorta.
– Tesoro ne abbiamo raccolta abbastanza, andiamo al mercato ora – disse la madre pulendosi le mani su uno straccio che portava sempre con sé.
Delia annuì mettendo nella cesta l’ultima piantina – Va bene andiamo adesso, così almeno riusciamo anche ad aprire il negozio per le otto – disse la ragazza incamminandosi verso la città insieme alla madre.
Appena arrivarono al mercato, si trovarono le strade piene di gente, si sentivano gli uomini parlare del loro lavoro, mentre le donne sceglievano il cibo da comprare, dal latte alla frutta. I bambini invece giocavano insieme correndo fra la gente.
Le due donne si diressero subito verso la bancarella del fioraio – Salve signor Osborne – salutò gentilmente Elizabeth guardando i meravigliosi fiori che Alfred Osborne aveva esposto sulla bancarella davanti alla sua bottega. – Salve signora Morton e salve anche a voi signorina Delia – disse gentilmente il fioraio sistemandosi gli occhiali sul naso.
– Salve – rispose la ragazza.
La madre prese in mano una pianta di glicine – Alfred ho un grande ordine da farvi – disse la donna annusando il fiore.
– Ditemi pure – prese un foglio e una penna pronto a scrivere quella che le diceva la donna.
– Allora mi servirebbero una buona quantità di piante di: glicine, portulaca, rafano e l’agrimonia – elencò la donna guardando la figlia che parlò – Non dimenticate il trifoglio, vi ringrazio –.
Elizabeth annuì – Giusto me ne stavo dimenticando, grazie tesoro – disse la donna accarezzando i capelli a Delia.
– Madre vado a fare un giro, torno fra poco – disse la ragazza incamminandosi fra la gente.
Camminò per un paio di minuti fermandosi solamente quando notò un piccolo uccellino ferito che stava annegando dentro alla fontana mentre i bambini rideva indicandolo.
Delia camminò velocemente verso la fontana tirando fuori dall’acqua l’uccellino e scoccando uno sguardo di fuoco ai bambini che corsero via con la coda fra le gambe. Gli accarezzò l’ala ferita e lo asciugò con il suo vestito. Cercando di non farsi vedere da nessuno fece cadere qualche gocciolina di un infuso che teneva come ciondolo dentro ad una boccetta di vetro sull’ala dell’uccellino. L’infuso l’aveva preparato lei qualche giorno prima per provare a creare una nuova medicina. Delia lanciò in aria l’uccellino che sbattendo velocemente le ali riuscì a prendere il volo ed allontanarsi dalle strade tornando nei boschi.
Una donna da lontano vide tutto e facendo passa parola con le sue amiche pettegole ben presto la gente seppe quello che Delia aveva fatto.
Delia poi tornò indietro dalla madre e l’aiutò a portare a casa la merce, insieme a due uomini che lavoravano per il signor Osborne.
Si fece buoi e il padre tornò a casa pronto per cenare con la sua famiglia, ma un frastuono fuori dalla loro casa glielo impedirono.
Elizabeth andò ad aprire la porta preoccupata, si trovò davanti il sindaco della cittadina –Signor Barton cosa ci fate qui? Cosa sta succedendo? – chiese sconvolta la madre. Ben Barton entrò in casa spintonando la donna, fu subito seguito da due uomini belli tozzi che presero di forza Delia portandola fuori dalla casa.
– No, cosa fate! Lasciate immediatamente mia figlia – urlò la donna correndo fuori seguita dal marito.
I due uomini la ragazza facendola cadere in malo modo, la gente della cittadina si mise intorno a lei per non farla scappare.
– Cosa state facendo? Lasciate stare mia figlia – gridò ancora la donna facendosi spazio fra la gente.
– Vostra figlia è stata accusata di stregoneria – disse chiaro e tondo il sindaco Barton.
– Cosa? State scherzando? Mia figlia non è una strega – esclamò furiosa la donna andando ad abbracciare la figlia.
Il padre passò fra la gente spintonandola ed arrivò al centro, dove la moglie e la figlia stavano abbracciate.
– L’ho vista con i miei occhi – disse una donna bassa e molto grassa, dal viso cattivo.
– L’hanno vista Elizabeth, mi dispiace – disse fingendosi dispiaciuto il sindaco.
– Cos’avete visto? Cosa? – chiese urlando il padre.
– Ha guarito un uccellino solamente accarezzandolo –
– Non dica fesserie, è una cosa impossibile. Mia figlia è una comune mortale –
Delia stava tremando fra le braccia della madre che le fu strappata via dalle mani – No! – urlò la donna cercando di riprendersi la figlia, ma entrambi i genitori della ragazza furono fermati dai due uomini al servizio del sindaco.
Delia scalciava e urlava il nome dei suoi genitori mentre veniva legata con delle corde molto resistenti intorno ad un albero. Misero intorno alla ragazza della paglia per far si che il fuoco prendesse subito.
– Madre! Padre! – strillò la ragazza prima che il sindaco ordinò di dare fuoco alla paglia che prese fuoco immediatamente. Il fuoco salì fino alla gonna della ragazza che strillava e si contorceva mentre bruciava. Costrinsero i genitori a guardare in ginocchio la loro figlia bruciare. – Delia! Delia! Basta vi prego – urlava disperata la madre fra le lacrime. Il padre cercò di alzarsi ma fu subito colpito in pieno viso da uno dei due uomini al servizio del sindaco.
– Dio libera questa povera ragazza dalla stregoneria e da Satana – urlò il sindaco guardando la ragazza smettere di urlare e di respirare. Delia si accasciò contro al tronco dell’albero ormai morta e la pelle si era annerita. Un uomo spense il fuoco ed avvicinandosi alla ragazza la sfiorò, facendola sgretolare e diventare cenere per il vento.
I genitori della ragazza urlarono disperati fra le lacrime, la loro adorata bambina, la loro dolcissima Delia messa al rogo per una cosa non commessa.
– Piccola mia ci vedremo nella tua prossima vita e te lo prometto ti proteggerò da ogni cosa e persona – sussurrò la donna fra le lacrime prima di dare un’ultima occhiata all’albero bruciato.

 

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Capitolo 10
*** 10. ***


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La mattina seguente Ofelia andò a lavorare senza aver fatto colazione. Non se la sentiva di mangiare, era ancora frastornata dalla sera prima. Appena aprì la bottega, iniziò a lavorare e cercando di non pensare a niente serviva i clienti.
Evan si presentò alla bottega e sorridendole la ringraziò per la crema e per il passaggio, – Volevo chiederti se stasera ti andrebbe di cenare con me? – chiese gentilmente quando fu il suo turno.
– Non esco con i miei clienti – rispose con gentilezza, facendo passare un altro cliente.
Ofelia andò nello sgabuzzino a prendere le creme che la signora che stava servendo, le aveva ordinato.
Fu seguita da Evan che si appoggiò alla porta della stanza e guardava la ragazza cercare negli scaffali le creme.
– Hai finito di fissarmi? Ti ho già risposto, non esco con i miei clienti – esordì la ragazza sbuffando.
Il ragazzo incrociò le braccia portandosele al petto – Non sono esattamente un tuo cliente, sono venuto qui solamente una volta – spiegò Evan sorridendo furbo.
Ofelia gli scoccò uno sguardo di fuoco – Già, per di più se venuto quando stavo per chiudere – disse seria prendendo l’ultimo tubetto di crema per le mani che serviva alla sua cliente.
Evan rise – Giusto, scusami – si scusò passandosi una mano fra i capelli, – Allora uscirai con me o no? – chiese ancora facendo sbuffare Ofelia.
– Se ti dico di sì, la smetterai di rompermi le scatole e mi lascerai finire di lavorare? –
– Certamente. Ti passo a prendere alle otto, a stasera – rispose Evan andandosene via, lasciando la ragazza da sola in mezzo ai suoi prodotti.
Ofelia tornò dai suoi clienti, di Evan nessuna traccia, se ne era andato. La ragazza passò nello scanner le quattro creme e poi fece il conto.
– Sono 36 dollari – controllò bene la ragazza mettendo in un sacchetto di plastica le creme prima di consegnarle alla cliente.
– Eccoli giusti, giusti – disse la donna porgendo in mano ad Ofelia i soldi e prendendo il sacchetto la ringraziò ed uscì dalla bottega.
Ofelia lavorò tutto il giorno, chiuse la bottega due ore prima così avrebbe avuto tempo per farsi una doccia e prepararsi per la serata con Evan.
 
Ofelia arrivò a casa stanca, salutò i suoi genitori, spiegandogli anche che quella sera sarebbe uscita con un ragazzo. I suoi genitori erano felici di questa cosa, ma anche preoccupati perché era umano e non un risorto.
Ofelia salì le scale ed entrò in camera sua, si diresse verso il bagno e svestendosi entrò nella doccia. Aprì l'acqua e si gettò sotto il getto caldo che le andò a bagnare la sua pelle liscia. Si rilassò appoggiandosi contro alla parete della doccia poi iniziò a lavarsi per bene, partendo dai capelli e poi tutto il corpo. Quando ebbe finito restò ancora ferma sotto al getto fin quando non sentì una voce chiamarla da fuori, era Rebekah che la cercava.
La ragazza uscì avvolgendosi nel suo accappatoio poi pulendo con una mano lo specchio appannato, guardò l’altra lei che le sorrideva dal riflesso.
– E’ molto carino il ragazzo con cui devi uscire stasera – disse Rebekah felice.
Ofelia rise – Moolto carino, devo dire – disse facendo ridere anche l’altra lei.
– Già. Posso solo dirti tre cose? – chiese Rebekah spostandosi i capelli da una parte.
– Sì, certo – rispose Ofelia sorridendole.
– Primo: divertiti con lui. Secondo: non ci andare a letto subito e terzo: stai attenta, va bene? – disse Rebekah elencandole le tre regole.
Ofelia rise mentre si tamponava i capelli – Certo, starò attenta. E puoi starne sicura non ci andrò a letto con lui, almeno non subito – commentò le regole di Rebekah sorridendo.
– Brava ragazza – esclamò Rebekah prima di sparire di nuovo.
Ofelia rise poi uscendo dal bagno, si diresse verso l’armadio per tirare fuori un vestito da usare quella sera.
Ofelia indossò un abito viola con un po’ di scollatura che esaltava il suo decolletè e un paio di tacchi neri abbastanza alti. Si truccò gli occhi di viola e le labbra di rosa un po’ scuro e si mise sulla parte sinistra della testa un fiore, anch’esso viola. E i capelli li aveva fatti leggermente mossi.
Si guardò ancora nello specchio e quando fu sicura di essere pronta guardò l’orologio, erano le 19.45, doveva andare a prendere Evan. Prese le chiavi della sua macchina e uscì da casa velocemente. Una volta uscita, una ventata d’aria fredda le trapassò il corpo facendola rabbrividire, anche se indossava anche la giacca.
Salì in macchina e partì. In pochi minuti arrivò davanti all’edificio e trovò Evan aspettarla appoggiato con la schiena al muro del palazzo.
Ofelia fece strombazzare il clacson e fece segno ad Evan di salire in macchina. Il ragazzo corse subito verso di lei ed entrò in macchina.
– Brr che freddo che fa stasera – disse sfregandosi le mani guantate una contro all’altra per riscaldarsele poi guardò Ofelia e rimase esterrefatto da tutta quella bellezza – Sei meravigliosa – disse gentilmente sorridendole. Le guance di Ofelia si tinsero di rosso – Grazie, anche tu sei molto bello – disse lei ricambiando il complimento.
Indossava un completo blu. La giacca era blu scura in tessuto gessato come anche i pantaloni, la cravatta di seta raffinata e i mocassini in pelle nera traslucida. I capelli erano perfettamente pettinati, sembrava quasi un uomo d’affari.
– Grazie – ringraziò Evan sorridendole.
Ofelia ricambiò il sorriso e poi partì, destinazione: ristorante red moon.

 

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Capitolo 11
*** 11. ***


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Dopo circa venti minuti arrivarono davanti al ristorante Red Moon. Ofelia parcheggiò l’auto nell’unico posto libero nel parcheggio poi uscì dalla macchina insieme ad Evan ed entrarono nel ristorante. Il ristorante era un locale con arredamento moderno. I colori predominanti erano il nero, il bianco e il rosso. Le poltrone erano in pelle rossa e i tavoli invece erano bianchi e neri e se visti dall’altro sembravano formare una scacchiera. Sul lato destro del locale c’era una parete trasparente piena di cristalli. Le posate erano in argento e i bicchieri erano di cristallo.
Come sotto fondo nel locale c’era una musica rilassante. Molta gente era già seduta ai loro tavoli e mentre chiacchieravano, mangiavano tranquilli.
Una cameriera dai lunghi capelli ramati e dal vestito leggermente troppo corto si avvicinò a loro e sorrise.
– Avete una prenotazione? – chiese la cameriera squadrando da capo a piedi Ofelia e guardando con adorazione Evan.
– Si, Allen – rispose Evan scoccandole un sorriso, prima di seguirla insieme ad Ofelia al loro tavolo. Il tavolo in cui stavano loro era vicino alla parete di cristalli, Ofelia ne rimase esterrefatta – E’ bellissimo. Abito qui da sempre e non sono mai venuta in questo ristorante – confessò la ragazza arrossendo un po’ prima di sedersi aiutata da Evan che le spostò la sedia.
– Grazie – disse la ragazza dolcemente. Lui annuì sorridendole poi andò a sedersi davanti a lei.
Ofelia aveva il cuore in gola, tremava e sudava dall'emozione. Era il suo primo appuntamento dopo tanto tempo. Non ne aveva uno dai tempi del liceo.
– Sono davvero emozionata – disse la ragazza scuotendo i suoi lunghi capelli.
– Anche io – rispose lui sorridendole poi le appoggiò una mano su quella di lei.
La cameriera tornò e chiese se avevano scelto cosa ordinare, ma la verità era che non avevano nemmeno dato un’occhiata al listino. La cameriera disse che sarebbe tornata dopo e se ne andò, lasciando i due ragazzi da soli nel loro imbarazzo.
Ofelia prese un listino e diede un’occhiata al cibo e alle bevande. Evan fece lo stesso e come la ragazza scelsero la pasta alla carbonara come primo per il secondo la bistecca fiorentina con un po’ d’insalata come contorno. Il ristorante era italiano ed era gestito da italiani e da inglesi.
La cameriera era tornata e prese le ordinazioni e se ne’andò, lasciando un cesto di pane. Stettero zitti per un po’ poi Evan ruppe il silenzio – Da quanto tempo lavori nella bottega? – chiese il ragazzo cercando di smorzare l’imbarazzo.
– Da quando ho diciotto anni. Prima era di mia madre poi è passata a me – rispose Ofelia sorridendo.
– Bello. Io sono qui perché sono scappato dalla mia famiglia – spiegò lui spezzando un pezzo di pane e portandoselo alla bocca.
– Perché? Volevano che facessi qualcosa che non ti andava? – domandò Ofelia curiosa mangiando anche lei un pezzo di pane.
– Esatto. La mia famiglia non ha un passato non molto felice. E’ molto macabro il passato della mia famiglia e io non voglio avere a che fare con quello. Se ti dicessi quello che facevano non mi crederesti mai –
– Oh ti posso assicurare che anche la mia famiglia è strana e abbiamo anche noi un passato non molto felice e bello. Quindi racconta – la incitò la ragazza mentre la loro cena arrivava.
La cameriera gli servì poi li lasciò da soli ed Evan sospirando continuò il suo racconto.
– I miei genitori sono dei cacciatori di persone sovrannaturali –
– Persone sovrannaturali? –
– Sì, non ci crederai, ma esistono persone che possono rinascere e risorgere – spiegò Evan sospirando.
Ofelia si alzò di scatto scioccata e scappò dal ristorante, lasciando Evan sconvolto e da solo nel locale.
Il ragazzo sbattendo un pugno sul tavolo lasciò un paio di banconote lì e poi alzandosi corse verso l’uscita del ristorante. Ofelia stava per entrare in macchina ma fu fermata da Evan che la prese per un braccio, facendola girare verso di lui – Fermati. Cos’ho detto di male? – chiese sconvolto.
La ragazza scoppiò a piangere e gli tirò due pugni sul petto – Stammi alla larga oppure voi uccidere anche me? E’ per questo che ti sei avvicinato a me? – chiese la ragazza singhiozzando.
– Sei una di loro? Sei una rinata? – chiese a sua volta Evan scioccato.
– Sì –.

 

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Capitolo 12
*** 12. Arlene Douglas (24, marzo, 1961) ***


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24, marzo, 1961
– Bene Arlene. Ora cambia posa – urlò il fotografo scattando foto alla pin up.
La ragazza cambiò posa, andando a sedersi su una sedia di legno con lo schienale rivolto verso il fotografo. Appoggiò una mano sopra all'altra e poi le poggiò entrambe sul bordo dello schienale e sorrise.
Il fotografo fece altri scatti poi quando ebbe finito appoggiò la sua macchina fotografica sul tavolo al suo fianco.
– Arlene abbiamo finito,  puoi pure andare, grazie – disse gentilmente l’uomo sorridendo alla ragazza.
Arlene annuì scoccando un sorriso al fotografo prima di uscire dallo studio fotografico. La ragazza si diresse verso il porto. Arlene insieme ad un gruppo di sue amiche pin up avevano deciso di andare incontro ai soldati che sarebbe attraccati al porto da lì a poco. Tornavano dalla guerra. Tornavano dalle loro famiglie.
Le amiche di Arlene civettando si avviarono verso il porto. Arlene stava al fianco di Sophia, la sua più cara amica.
Arlene era l’esatto di Sophia. Arlene aveva una folta chioma di capelli castani e splendidi occhi azzurri, brillanti e lucenti. Arlene era minuta, arrivava a malapena a un metro e sessanta. Invece Sophia aveva  una fluente chioma di capelli nero corvino, occhi azzurri come diamanti e arrivava a un metro e settanta di altezza.
– Sono così emozionata. Non vedo l’ora di vedere i nostri soldati – esordì Sophia appoggiando la testa contro a quella di Arlene – Se incontrerai qualcuno prima del tuo ventiduesimo compleanno, giuro e dico giuro che ti porto con me in Spagna e ci facciamo una lunga e bella vacanza –.
Arlene rise picchiettando il braccio dell’amica – Ma se mancano pochissime ore al mio compleanno – esclamò la ragazza continuando a ridere.
– Ohhh…hai mai sentito parlare di amore a prima vista? – chiese scherzosa Sophia.
Arlene e Sophia si conoscevano da quando avevano sei anni, erano andate a scuola insieme poi avevano iniziato a fare le pin up all’età di diciassette anni. Arlene apparve per la prima volta su un cartellone pubblicitario all’età di diciotto anni insieme a Sophia.
– Si Sophia, so cos’è l’amore a prima vista – ribatté Arlene fermandosi di fronte al porto.
– Quindi preparati a trovare l’amore della tua vita, come farò io – ribadì Sophia entusiasta.
Sophia non stava più nella pelle di conoscere i soldati. La ragazza aveva sempre sognato di trovare l’amore della sua vita come si vedeva nei film. Voleva diventare una brava mamma e una brava cuoca per i suoi figli e per suo marito, stanco, dopo essere tornato a casa dal lavoro.
– Sì certo, mia cara Sophia – commentò sarcasticamente Arlene prima di girarsi indietro per vedere se le altre ragazze erano già arrivate. Tonya la salutò con un cenno di mano prima di ritornare a guardare il mare, aspettando l’arrivo dei soldati e dei marinai.
Dopo un paio di minuti che per le ragazze sembravano secoli arrivò la nave che portava i soldati e i marinai.
Attraccarono la nave al porto e tutti i passeggeri compresi i soldati e i marinai scesero dall’imbarcazione.
I soldati scesero dalla nave marciando verso la piazzola dove appoggiarono il carico che portavano in spalla.
Arlene rimase affascinata da tutto quello, ma soprattutto da un uomo dai capelli castani e lucenti e dagli occhi color caramello brillanti.
In pochi secondi tutta la piazzola si riempi di famigliari dei soldati e dei marinai o semplicemente persone che li ringraziavano per i loro lavoro.
Arlene sorrise vedendo Sophia intenta a guardare maliziosa un soldato che tra l’altro ricambiava lo sguardo.
– Va’ Sophia, va’. Prima che mi rinfacci di non averti dato la possibilità di trovare il tuo amore – disse Arlene spingendola leggermente. Sophia la guardò con espressione dolce poi con la bocca mimò un grazie prima di sparire nella folla.
Arlene si guardò in giro in cerca delle sue altre amiche, ma erano tutte impegnate a parlare con soldati o marinai.
Quella sera ci sarebbe state una festa in un piccolo luna park per ringraziare i soldati e tutte le sue amiche sarebbero andate. Lei ancora non aveva deciso.
– Salve bellissima signorina – disse una voce maschile dietro alle spalle della ragazza. Arlene si girò, trovandosi il soldato dagli occhi di caramello che le sorrideva – Salve – ricambiò il sorriso, le sue guance si tinsero leggermente di rosso.
– Come vi chiamate dolcissima fanciulla? – chiese il soldato baciandole una mano.
– Mi, mi chiamo Arlene, signore. E voi come vi chiamate? – rispose Arlene imbarazzata.
– Arlene che nome meraviglioso proprio come voi. Il mio nome è Sebastian – disse Sebastian sorridendole dolcemente.
– Oh Sebastian, vi ringrazio per il complimento – disse la ragazza portandosi entrambe le mani sulle guance ormai accaldate.
– Sapete nel mio armadietto tenevo una vostra foto, eravate molto bella, ma di persona lo siete ancora di più – si complimentò con la ragazza prendendole una ciocca di capelli per poi portargliela dietro all’orecchio.
– Oh…basta con tutti questi complimenti, mi fate arrossire – disse la ragazza felice e imbarazzata.
Non si era mai sentita così prima di all’ora. Che esistesse davvero l’amore a prima vista?
Non aveva nemmeno mai avuto un fidanzato, non aveva mai trovato quello giusto. Che sia Sebastian?
Sentiva il cuore battere a mille, lo sentiva battere nelle orecchie così forte che aveva paura che da un momento all’altro sarebbe scoppiato. Aveva un ansia fortissima tanto da farle venire dei crampi allo stomaco. Che significasse questo ‘avere le farfalle nello stomaco’? Si stava davvero innamorando? Era davvero la persona giusta per lei?
– Signorina Arlene ci siete ancora? – chiese passandole una mano davanti agli occhi mentre rideva.
La ragazza tornò al presente e arrossendo rispose – Si, scusatemi, stavo pensando alla festa di questa sera. Voi ci sarete? –.
– Certamente. Volete andare insieme a me a questa festa? – chiese gentilmente Sebastian porgendole una mano.
– Certo, ne sarei davvero felice – rispose Arlene prendendogli la mano e stringendola nella sua.
Insieme a tutti gli altri si diressero verso il luna park, dove c’era appeso uno striscione con su scritto ‘Bentornati nostri salvatori’
C’erano le montagne russe, due ruote panoramiche, un autoscontro e tante bancarelle di dolci e giocattoli.
Il luna park era luminoso e pieno di colori. Sembrava un arcobaleno.
– E’ così colorato – commentò affascinata Arlene guardandosi in giro.
Sebastian le mise una mano intorno alla vita e l’avvicinò di più a lui. La ragazza rise – Sebastian non scappo, puoi stare tranquillo. Posso darvi del tu? – chiese Arlene toccandosi i capelli che si erano spettinati per via dell’aria notturna.
– Certamente, dammi pure del tu. Io posso fare lo stesso? – rispose Sebastian guardandosi in giro, il ragazzo notò due uomini indicare Arlene mentre la guardavano con sguardo malizioso.
– Certo. Sebastian sapete, sai per caso che ore sono? – chiese Arlene guardandosi in giro in cerca della sua amica Sophia.
– Mancano pochi minuti alla mezzanotte, perché? Dovete andare dal vostro principe? – chiese scherzoso Sebastian ridendo.
Arlene le diede un colpetto sul braccio e scosse la testa – No. Dopo la mezzanotte sarà ufficialmente il mio ventiduesimo compleanno – rispose la ragazza portandosi entrambe le mani sui fianchi poi arricciò il naso teneramente.
– Oh…compiete gli anni e non lo passate con la vostra famiglia? –
– Non sono qui. Sono da mia zia fuori città –
– Capisco –.
Sophia arrivò di corse e scusandosi con Sebastian si portò via Arlene per farle conoscere dei ragazzi che volevano il suo autografo sul loro poster.
Arlene arrossendo e prendendosi altri complimenti firmò i poster dei due uomini.
– Vi posso abbracciare? – chiese uno dei due uomini sorridendo buffamente.
– Si, certo – rispose Arlene abbracciandolo. L’uomo la strinse forte a sé poi la lasciò andare – Vi ringrazio. Siete davvero stupenda – espresse lui sorridendo.
Arlene piegò la testa leggermente in avanti, come per fare un cenno rispettoso. Prese i bordi del suo vestito a pois tra il pollice e le prime due dita di entrambe le mani, tenendo i mignoli estesi. Allargò delicatamente la gonna ad ogni lato poi si abbassò, facendo un inchino per poi tornare con grazia alla posizione originale.
– Grazie mille per i complimenti, davvero. Siete davvero dolce. Arrivederci – disse dolcemente Arlene poi prendendo a braccetto Sophia si andarono a prendere un dolcetto.
– Hai perso il tuo soldato? – chiese Sophia mangiandosi una caramella. Arlene si girò per cercare Sebastian e lo trovò appoggiato ad un lampione. La ragazza gli fece segno di avvicinarsi e poi gli sorrise dolcemente.
Sebastian si avvicinò mettendosi al fianco di Arlene – Lei è Sophia, la mia migliore amica. Sophia, lui è Sebastian – presentò i due gentilmente.
– Sophia ti posso rapire per un po’ Arlene? – chiese educatamente Sebastian sfoggiando un sorriso. L’amica annuì e lasciò che Sebastian la portasse via.
– Vuoi andare sulla ruota panoramica? – chiese Sebastian indicandola poco più avanti. Arlene annuì felice. Fecero la fila e poi quando toccò a loro, Arlene non stava più nella pelle. Era felice, davvero felice.
Quando furono saliti e la giostra partì, Sebastian ruppe il silenzio – Arlene devo dirti una cosa molto importante – disse serio facendo sparire anche la felicità della ragazza.
– Cosa? Avete una famiglia? – chiese la ragazza rattristata.
– Avevo una moglie e morta quest’anno – rispose l’uomo controllando il suo orologio da polso. Era passata la mezzanotte da due minuti.
– Buon compleanno Arlene – disse dolcemente il ragazzo dandole una collana che tirò fuori dalla tasca del suo completo.
– Oh che bella – esclamò felice la ragazza dando un bacio sulla guancia a Sebastian.
– Posso farti una domanda? –
– Certamente –
– Tu fai così con tutti i tuoi fans? Li abbracci e li baci? Non hai paura che ti possano fare del male – chiese Sebastian mettendole la collana intorno al collo.
Arlene l’accarezzò contenta – Perché dovrei avere paura? Sono tutti così dolci con me – rispose alzando le spalle.
– Infatti, magari hanno altri piani ed è per quello che fanno i carini con te – espresse Sebastian stringendo la collana fino a toccare il collo della ragazza.
– Sebastian cosa fai? Mi strozzi così – tossì la ragazza portandosi le mani sul collo.
– Mi dispiace Arlene. Ti sei fidata della persona sbagliata – disse cupo Sebastian mentre stringeva ancora più forte la collana contro al collo della ragazza.
Arlene stava soffocando, scalciava e cercava di divincolarsi, ma le forze pian piano la stavano abbandono. Fin quando non si mosse più del tutto e smise di respirare.
– Mi dispiace e buon compleanno – le sussurrò all’orecchio della ragazza ormai morta con sguardo da psicopatico.
Quando il giro finì, Sebastian portò fuori Arlene tendendola in braccio poi la scaricò in un angolo come se fosse spazzatura.
– E un’altra pin up è andata – disse macabro Sebastian prima di andarsene da lì.
 
Il corpo della ragazza fu trovato due giorni dopo in mezzo alla spazzatura, la prima a ricevere la notizia fu Sophia che scoppiò subito a piangere. La polizia le fece delle domande. Le chiese con chi era stata e se sapeva come si chiamava.
Sophia spiegò che il soldato con cui stava passando la serata Arlene si chiamava Sebastian e che non sapeva altro. La polizia disse alla ragazza che la sua amica era stata assassinata da qualcuno, perché intorno al collo aveva un segno di strangolamento.
Sophia annuì distrutta tornandosene a casa, dove trovò Sebastian con in mano un coltello e con lo sguardo da pazzo.
– Sei stato tu ad uccidere la mia migliore amica. Perché? – urlò furiosa Sophia correndo in cucina. Sebastian le corse subito dietro e le si piazzò davanti, ma Sophia fu più furba e lo accoltellò al cuore. – Questo è per Arlene. Anche se so che tornerà in vita e non si ricorderà più di me –.
Il corpo di Sebastian giaceva a terra in una pozza di sangue. Sophia chiamò la polizia e disse tutto quello che aveva fatto. L’aveva fatto per difendersi. La polizia non l’arrestò e la donna se ne andò da quella città per sempre ma prima andò al funerale della sua migliore amica..
I genitori di Arlene dopo una settimana seppero della morte della loro figlia. Tornarono in tempo per il suo funerale. E per la quarta volta persero la loro bambina. Uccisa al suo ventiduesimo compleanno. Per quanto ancora avrebbero sopportato quella vita? Per quanto ancora?
– Piccola mia, mi dispiace così tanto – disse la madre piangendo sulla lapide della figlia – Mi dispiace, è tutta colpa mia. Ti sarei dovuta stare vicina, invece non c’ero. Non ti ho potuto salvare – continuò singhiozzando.
– Fiorellino ci vedremo nella tua prossima vita – disse il padre appoggiando un fiore sulla lapide prima di portare via da lì la moglie distrutta.

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Capitolo 13
*** 13. ***


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Ofelia era ancora immobile contro alla sua macchina e respirava affannosamente. Era nervosa e delusa. Incontrava un ragazzo e lui cos’era? Un cacciatore.
– Ofelia, davvero io non voglio farti del male – disse Evan con voce bassa avvicinandosi alla ragazza.
– Stammi lontana. Non ti avvicinare – esclamò spaventata puntando un dito contro al ragazzo.
Non si era mai sentita così in vita sua. Forse si una volta, il giorno in cui si era ritrovata nel bosco. Spaventata e disorientata. Non voleva morire. Non voleva diventare come tutte le altre lei. Degli spiriti intrappolati dentro al loro corpo per sempre.
Ofelia si stava sentendo strana, sentiva Rebekah chiamarla da dentro al loro corpo. Ofelia sentì un forte dolore alla testa come se gliela stessero martellando. Sentiva un dolore lancinante. Si portò entrambe la mani sulla testa e si piegò in due dal dolore.
– Ofelia – esclamò Evan preoccupato avvicinandosi ancora di più a lei.
– Non toccarmi. Ti prego – disse con voce fioca appoggiandosi con la schiena contro alla macchina. Rebekah stava provando ad uscire. Voleva uscire lei. Non l’aveva mai fatto prima, le era apparsa solamente nel riflesso.
– Ofelia devo chiamare qualcuno? – chiese preoccupato Evan reggendola in piedi.
La ragazza scosse la testa – Ti prego portami a casa tua – disse tossendo sangue. Il ragazzo preoccupato fece quello che Ofelia le aveva detto. La poggiò delicatamente sul sedile del passeggero e lui andò a sedersi sul posto del guidatore. Fece partire la macchina ed accelerando uscì dal parcheggio del ristorante. Aumentò la velocità per arrivare a casa sua il più presto possibile.
Ofelia si stava contorcendo dal dolore. Le pulsava la testa in un modo pazzesco. Rebekah continuava a spingere per uscire. – Rebekah ti prego smettila, mi stai facendo male – disse tenendo premute le mani contro alla testa.
– Chi è Rebekah? – chiese Evan accelerando ancora di più.
In poco tempo arrivarono a casa sua. Evan la fece uscire dalla macchina e poi prendendola in braccio la portò nell’edificio.
Per loro fortuna l’appartamento di Evan era al primo piano. Non ci misero tanto ad arrivare davanti alla porta dell’appartamento. Evan aprì la porta con la chiave e con un calcio la spalancò ed appoggiò Ofelia sul divano del suo piccolo appartamento. Adagiandola lentamente.
La ragazza respirava a fatica. Quando tossiva sputava sangue. Rebekah le stava facendo del male. Voleva uscire a tutti i costi. Ofelia sentiva le sue forze abbandonarla. Lentamente. Pian piano divenne tutto nero e al posto di Ofelia apparve Rebekah con un sorriso amaro sul viso.
– Ofelia ti senti bene? – chiese Evan tornando dal bagno per poi appoggiarle sulla testa un asciugamano bagnato.
– Non sono Ofelia. Dovresti sapere chi sono. Tuo padre non ti ha parlato di quello che mi ha fatto? – rispose Rebekah con voce maliziosa.
– No. Dov’è Ofelia? – chiese Evan scuotendo la ragazza – Come faccio a farla tornare? – domandò ancora guardando Ofelia/Rebekah.
Rebekah rise – Sta bene. Ha preso il mio posto per un po’. Tranquillo la farò tornare – disse la ragazza pulendosi con l’asciugamano la bocca sporca di sangue.
Rebekah sentiva Ofelia chiamarla da dentro al loro corpo. Ofelia sentiva tutto quello che diceva l’altra lei. Sentiva anche i suoi pensieri. Ti prego non ucciderlo. Pensò Ofelia trasmettendolo a Rebekah che scosse la testa – Tranquilla Ofelia, per ora non l’uccido – disse a se stessa.
– Cosa centra mio padre con te? – chiese ad un tratto Evan che si sedette sul tavolino del salotto, di fronte alla ragazza.
– Tu non lo sai? Non sai che mi ha fatta uccidere da uno dei suoi sicari? – chiese acida spostandosi i capelli di lato.
Evan la guardò sconvolta e scuotendo la testa rispose – No. Non ne sapevo niente. Quando sei morta? –.
Rebekah si sdraiò sul divano stando su un fianco – Tuo padre mi ha fatta uccidere nel 1984. Tuo padre era venuto a letto con me perché ero una prostituta. L’ho minacciato e mi ha fatto uccidere. A quei tempi non sapevo che fosse un cacciatore, ma quando oggi a cena ti ho guardato meglio, ho notato che hai gli stessi occhi di tuo padre. E allora ho capito che anche tu lo eri – spiegò la ragazza sospirando.
– Io non ero neanche nato a quei tempi. Sono nato nel 1989 e mio padre non ha mai parlato di questa cosa con me. Magari ne parlò con mio nonno, ma non con me – ribatté Evan portandosi una mano fra i capelli.
Rebekah rise – Giuro che se fai del male ad Ofelia. Ti ammazzo con le nostre mani. Ci siamo capiti? – disse seria la ragazza prima di scomparire. Ricomparve Ofelia che iniziò a tossire fortissimo. Si portò una mano davanti alla bocca perché le veniva da vomitare. Alzandosi di scatto si diresse verso la cucina e vomitò nel lavandino.
Georgia non era stata per così tanto tempo fuori come aveva fatto Rebekah. L’aveva prosciugata delle sue forze. Si sentiva stanca e debole. Voleva solo dormire.
– Ofelia sei tu? – chiese Evan accarezzandole la schiena. Ofelia annuì stando con la testa sopra al lavandino in caso vomitasse ancora.
– Evan voglio dormire – disse Ofelia sciacquandosi la bocca.
– Certo, puoi dormire in camera mia. Io dormirò sul divano – ribatté gentilmente aiutandola a camminare. Era davvero debole. Le gambe le tremavano. Evan lo capì e la prese in braccio portandola in camera sua e adagiandola lentamente sul letto. Evan era sul punto di uscire ma Ofelia lo fermò tirandolo per un braccio – Evan…non è colpa tua. Non si decide in che famiglia nascere – disse tossendo fortemente. Evan si girò verso di lei e sorridendole la coprì con il piumone – Lo so. Ofelia te lo giuro non ti farò del male. Io non lo sapevo che eri una rinata, lo giuro – disse accarezzandole il viso.
Ofelia annuì scoccandoli un sorriso dolce – Dormi con me? – chiese spostandosi i capelli in un lato proprio come aveva fatto Rebekah. Evan la guardò dolcemente – Sì, certo –.

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


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La mattina seguente Ofelia si svegliò con un forte mal di testa e un senso di vomito che la portò ad alzarsi e correre in bagno a rimettere. Cosa non lo sapeva nemmeno lei. Dato che ieri sera non aveva neanche mangiato. Si sciacquò il viso e poi tornò in camera, dove Evan dormiva ancora. Era così bello e tenero mentre dormiva. Con quella faccia da cucciolo.
Ofelia tornò nel letto e coprendosi con le coperte si girò su un fianco e chiuse gli occhi per poi riaddormentarsi.
Evan si svegliò e girandosi verso Ofelia sorrise nel vederla ancora lì. Dormiva beatamente, per fortuna, dato che non aveva fatto altro che girarsi e rigirarsi quella notte.
Il ragazzo si alzò dal letto, muovendosi lentamente per non svegliare Ofelia. Quando fu sceso dal letto, si diresse verso il bagno e si fece una bella doccia calda.
Ofelia si svegliò poco dopo sentendo il rumore della scrosciare dell’acqua della doccia. Si alzò dal letto e dirigendosi verso il bagno, bussò sul vetro della doccia.
– Ne hai ancora per molto? Vorrei fare una doccia anche io, così poi posso andare a lavoro – chiese gentilmente Ofelia da fuori.
Evan spense l’acqua e aprendo di poco la porta scorrevole tirò fuori la testa – Cinque minuti e poi sarà tutta tua – rispose il ragazzo bagnando il pavimento perché l’acqua gli sgocciolava dalla testa.
Ofelia annuì poi uscì dal bagno, si diresse nel soggiorno e si guardò in giro. Sulla parete sinistra si trovava un divano letto da una piazza e mezza di pelle nera, dove la sera prima Evan l’aveva adagiata e dove era apparsa Rebekah. C’era un tavolo bianco dove consumare i pasti ed un mobile dispensa di legno dove riporre le provviste. C’era anche un piccolo mobiletto che Evan aveva utilizzato come scarpiera. L'angolo cucina conteneva il lavandino, il piano cottura, il frigorifero e la lavatrice. Era ancora spoglia. E a quella stanza serviva proprio una bella ripassata di pittura. Evan uscì dal bagno con indosso solamente un asciugamano alla vita e si diresse in camera a vestirsi.
Ofelia corse in bagno e togliendosi i vestiti entrò nella doccia. L’acqua calda le bagnò la pelle facendole venire i brividi. Si lavò velocemente poi quando uscì dalla doccia si avvolse in un accappatoio. Notò che appoggiato sul lavandino di vetro verde c’erano dei vestiti puliti. Ringraziò mentalmente Evan per averglieli portati.
Indossò la maglia di Evan. Le stava molto grande e le arrivava a metà coscia. Non provò nemmeno ad indossare i pantaloni perché sapeva già che le sarebbero stati larghissimi. Uscì dal bagno con indosso solamente la maglia e un paio dei boxer larghi di Evan.
Evan era intento a preparare la colazione mentre canticchiava qualcosa. Appena notò Ofelia le sorrise – Ti stanno molto larghi? – indicò i vestiti tornando poi a cucinare il bacon e le uova.
– Si, un po’ – rispose Ofelia ridendo leggermente poi si andò a sedere a tavola dove c’era già una brocca di succo d’arancia, due bicchieri e due piatti con coltello e forchette.
La ragazza si verso in un bicchiere il succo d’arancia e poi ne bevve un sorso – Mi dispiace per quello che è successo ieri. Non riuscivo a controllarla. Voleva davvero uscire – si scusò Ofelia scuotendo la testa.
Evan rise – No, mi ha fatto capire molte cose. La prima è sicuramente di non fidarmi più della mia famiglia. Mi hanno mentito per così tanto tempo. Hanno ucciso così tante rinate e risorti. Non riesco a sopportarlo, non ci sono mai riuscito. E’ per questo che me ne sono andato – spiegò il ragazzo servendo ad Ofelia la colazione.
– Non capisco perché ci debbano uccidere. Cosa facciamo di male? – chiese Ofelia inforchettando un pezzo di bacon e portandoselo alla bocca.
Evan si servì da solo poi andò ad appoggiare la pentola nel lavandino e infine si sedette di fronte ad Ofelia e le sorrise – Secondo loro siete dei mostri che devono essere uccisi. Dal primo all’ultimo – rispose sospirando.
– Non siamo noi i mostri! Io sono morta cinque volte. Per la più delle volte sono stata uccisa, solamente una volta mi sono suicidata perché avevo ucciso mio marito – esclamò Ofelia – Oddio è così strano dirlo. Ero io, ma non ero io – continuò mangiando un pezzo di uovo.
Evan rise scuotendo la testa – E’ davvero strano. So di voi rinate, ma come funziona con i risorti? Sono come voi? – chiese mangiando anche lui. Ofelia scosse la testa – I risorti possono risorgere solamente una volta nella loro vita. Se muoiono, uhm…all’età di trenta anni per esempio, quando risorgono, risorgono con quell’età. Invece noi rinate, rinasciamo di nuovo, da capo. Nasciamo dalle nostre madri rimaste immortali e non più rinate. E’ strano eh? – spiegò la ragazza lentamente.
Evan annuì – E’ molto strano. Ma è vero che esistono anche le veggenti? Ho sentito parlare mio padre con mio nonno di questa cosa –.
– Si è vero. Ma c’è ne sono molte poche. Le hanno uccise quasi tutte –
– Capisco – Evan guardò l’orologio – Devo andare a cercare lavoro, se vuoi rimanere, stai pure – disse alzandosi da tavola per poi andare a svuotare il piatto nella spazzatura e metterlo nel lavandino.
– Tranquillo, devo andare anche io. Devo ancora andare a casa a cambiarmi e prepararmi – spiegò la ragazza alzandosi anche lei da tavolo, andò a prendere i suoi vestiti e salutando Evan uscì dal suo appartamento, lasciando il ragazzo da solo.

 

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Capitolo 15
*** 15. Rebekah Warner (21, novembre, 1984) ***


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21, novembre, 1984
– Rebekah c’è un cliente che chiedete di te – urlò da dietro al bancone Sharon mentre serviva un bicchierino di whisky al signore di fronte a lei.
Rebekah scese lentamente  dal cubo e con passo da felina si avvicinò al bancone – Dov’è? – chiese la ragazza prendendosi una bottiglia di birra per poi berne  un sorso.
– E’ nella camera rossa – rispose Sharon, il capo dello strip club.
Rebekah annuì scoccandole un sorriso prima di dirigersi verso la camera al piano superiore. Camminava tranquilla nel corridoio dello strip club sorseggiando la birra, il rumore dei suoi tacchi sul pavimento risuonava all'interno del club.
Appena arrivò davanti alla porta rossa fece un profondo respiro e poi entrò nella stanza, dove trovò un uomo dagli occhi di ghiaccio e dai capelli neri corvino che gli sorrideva malizioso.
Perché era capitata proprio in un posto così? Perché era così orgogliosa? Non riusciva nemmeno a chiedere aiuto ai suoi genitori. Non riusciva nemmeno a chiedergli qualche dollaro per poter pagarsi l’affitto arretrato. Beh d'altronde era scappata di casa a quindici anni. Appunto per quello, per non essere mantenuta dai suoi genitori. Ma da quando era spaccata lavorava in quel club così squallido. Era diventata una sgualdrina da quattro soldi. Riusciva a malapena a pagare l’affitto, ma non sapeva dov’altro chiedere per un lavoro, quindi le toccava stare in quel posto.
Rebekah guardò l’uomo e gli  sorrise – Niente baci sulla bocca. Venticinque dollari per una sega. Cinquanta dollari per un pompino. Cento dollari per una scopata. Cinquecento dollari per tutta la sera – elencò la ragazza mettendosi sulle gambe di quel uomo dagli occhi di ghiaccio.
L’uomo tirò fuori dal borsellino cento dollari che porse a Rebekah. La ragazza li prese subito e se li mise nel reggiseno. Rebekah poté anche notare che aveva un bel po’ di soldi nel borsellino, quindi era ricco o almeno benestante.
– Bene allora divertiamoci – disse Rebekah buttandosi sull’uomo.
Rebekah gli tolse la maglietta e la buttò per terra, lui le tolse il reggiseno in lingerie e lo lanciò infondo al letto. Rebekah gli baciò il petto, per poi salire verso il collo dove gli lasciò baci bagnati.
L’uomo dagli occhi di ghiaccio ribaltò la situazione e si mise sopra di lei e le tolse l’intimo in lingerie abbinato al reggiseno che si trovava ormai infondo a letto. Lei fece lo stesso, gli sbottonò i jeans e poi glieli tolse buttandogli per terra ed infine gli tolse anche i suoi boxer neri. L’uomo appoggiò le mani sulle ginocchia della ragazza e le allargò le gambe. L’uomo vide che era eccitata e sorrise. Tornò a baciarle la pancia, il seno, il collo e intanto le allargava ancora di più le sue gambe per poi  entrare dentro di lei con un’unica spinta e iniziò a spingere velocemente poi aumentò sempre di più. La ragazza urlava dal piacere mentre l’uomo usciva e rientrava velocemente dal suo corpo.
Quando entrambi furono sfiniti, lui uscì dal suo corpo, si rivestì e se ne andò, lasciando Rebekah sfinita sul letto.
Rebekah dopo quella performance tornò a ballare su un palo mentre uomini assetati di lei, le lanciavano soldi e la incitavano a continuare.
Quando finì di lavorare erano circa le tre di notte. Uscendo dallo strip club una ventata d’aria fredda la investì portando la ragazza a stringersi ancora di più nel suo cappotto.
 
Il giorno seguente con i soldi che aveva ricavato andò a fare la spesa perché era rimasta a corto di cibo.  Al bancone del pesce incontrò l’uomo dagli occhi di ghiaccio intento a scegliere cosa prendere, – Salve – salutò Rebekah sfoggiando un sorriso. L’uomo alzò gli occhi dal bancone per puntarli sulla donna, nello stesso momento che lo fece, arrivò la moglie che gli scoccò un bacio sulla bocca per poi mostrargli la torta che aveva preso per il suo compleanno.
Rebekah assistendo alla scena sorrise furbamente poi se ne andò mentre pensava ad un piano per ricattarlo. Poi si ricordò che le stanze del club erano tutte video sorvegliate, così chiamò Steve per chiedergli se quella sera, prima del lavoro poteva darci un’occhiata. Steve accettò poi chiuse la chiamata.
Rebekah continuò a fare la spesa e ogni tanto lanciava delle occhiate all’uomo dagli occhi di ghiaccio.
 
Quando quella sera andò a lavoro fu accolta da Steve che non facendosi vedere da nessuno portò Rebekah nella stanza della sorveglianza. Rebekah chiuse velocemente la porta dietro di sé e poi avvicinandosi ai computer gli guardò tutti, controllando il ‘6’ che era quello che mostrava la camera rossa.
– Mi spieghi a cosa ti serve questa cosa? – chiese Steve digitando sulla tastiera del computer centrale.
– Devo avere delle prove – rispose Rebekah giocherellando con una ciocca di capelli mentre guardava quello che faceva Steve.
– Che prove? E per cosa? – chiese insistente Steve entrando nella cartella dei filmati del sesto computer e andando alla sera precedente.
– Devo ricattare un uomo. È molto ricco ed è anche sposato. Mi servono soldi per vivere. Mi servono sennò verrò sfratta dalla mia stessa casa – spiegò la ragazza guardando dritta negli occhi l’amico.
Lui distolse lo sguardo e tornò a guardare i video della sera prima fino ad arrivare a quella di Rebekah – Tu sei pazza. Ma ti dico solo una cosa: stai attenta – disse Steve premendo invio per masterizzare il video su un dvd.
Quando ebbe finito di masterizzare, consegnò il video a Rebekah – Sta’ attenta – disse ancora porgendogli in mano il dvd.
– Te lo prometto e grazie ancora – disse Rebekah abbracciando l’amico poi uscì dalla stanza della sorveglianza e ritirando in borsa il dvd, si andò a cambiare.
 
Quando ebbe finito di cambiarsi, si diresse verso il bar dove c’era Sharon che l’aspettava con un bottiglia di birra.
– Tieni, bevi e ubriacati – disse dandole in mano la birra. Rebekah ne bevve subito un sorso. Quella sera faceva un freddo cane e per Rebekah stare in lingerie rossa e nera non l’aiutava. Clienti entravano e uscivano dall’entrata facendo entrare aria fredda in continuazione. Il riscaldamento era quello che era, dato che Sharon non si decideva a chiamare qualcuno per aggiustarlo.
– Vai nella camera gialla, c’è un tizio che aspetta qualcuna. Tonya e Sam sono già occupate, pensaci tu – disse seria Sharon andando a servire dei liquori a due tizi appena entrati.
Rebekah entrò nella stanza gialla, dove trovò un uomo brutto e tozzo, ma purtroppo doveva farlo per prendere un po’ di soldi per poter vivere. L’unico compito di Rebekah era dargli piacere, non poteva contraddire il suo cliente.
Rebekah iniziò a masturbarlo, ma l’uomo la bloccò, la prese dai polsi con quelle mani grosse e sudaticce e girò la situazione mettendosi sopra di lei, quasi soffocandola, essendo il triplo di lei ed iniziò a penetrarla rozzamente. Le sfuggì un gemito, non appena lo sentì venire. Non duravano mai molto quelli come lui.

Tieni i tuoi cento dollari sgualdrina le disse prendendo il portafogli e sganciandole i soldi che le doveva per poi rivestirsi velocemente ed uscire dalla stanza come se niente fosse successo.
Rebekah si fece un doccia veloce per togliersi via l’odore di sudore di quel uomo disgusto. Si rivestì velocemente e tornò a lavorare, come tutte le sere d’altronde.
 
Il giorno seguente Rebekah uscì di casa presto per andare a fare un corsa. Un corsa che le serviva a rilassarsi e a non pensare al lavoro.
Correndo per il parco incontrò l’uomo dagli occhi di ghiaccio, controllò che non ci fosse sua moglie, quando lo ebbe constato,  si diresse verso di lui.
– Salve. Le devo parlare ed è meglio che mi ascolta – disse minacciosa Rebekah scontrandosi con lo sguardo di quell’uomo che alzò involontariamente le sopracciglia.
– Voglio 200.000 dollari in contanti, se non vuoi che tua moglie scopra quello che hai fatto con me – continuò la ragazza ancora più minacciosa.
L’uomo rise – Con quali prove uh? E poi tornatene da dove sei venuta troia – ribatté cupo lui.
– Ci sono dei video. E comunque con la ‘troia’ ci sei andato a letto – ribadì Rebekah stringendo fortemente la sua tracolla.
– Puoi anche scordartelo, io non ti darò neanche un centesimo – commentò acido l’uomo andandosene via.
– Se non mi darai la somma che voglio, questa stessa sera andrò a dire a tua moglie di noi – urlò incattivita la ragazza prima di svoltare l’angolo e ricominciare a correre.  
 
Per la fortuna di Rebekah aveva la serata libera. Si fece un bel bagno caldo, accompagnata dalla voce soave di Freddie Mercury che usciva dal suo malridotto giradischi.
Si rilassò nella vasca da bagno, fin quando sentì bussare alla porta di casa sua. Rebekah uscì con malavoglia dal vasca ed asciugandosi il corpo, indossò un vestito e con ancora il turbante in testa, fatto con un asciugamano, scese al piano di sotto pronta ad aprire la porta d’ingresso.
– Si, un attimo – urlò la ragazza mentre aprì la porta d’ingresso, dove si trovò un uomo alto almeno un metro e novanta, muscoloso e con il viso cattivo.
– Chi lei? – chiese Rebekah appoggiandosi alla porta. L’uomo sorrise maligno, – Il signor Allen mi ha mandato qui per dirle per l’ultima volta che non le darà un centesimo – disse serio incrociando le braccia al petto.
Rebekah rise – Wow, manda gli altri al suo posto? Che uomo coraggioso – disse la ragazza prendendo in giro il ‘signor Allen’.
– Dì  pure al tuo capo, che se non mi da i soldi, porto i video alla moglie anche in questo preciso momento – disse Rebekah chiudendo la porta d’ingresso, ma il sicario del signor Allen entrò in casa con una forza disumana e spingendola, la fece cadere a terra spaventata.
Rebekah corse al piano di sopra e cercò qualcosa con cui colpirlo, ma non ci riuscì perché il sicario la prese da dietro e la spinse giù dalle scale. La ragazza rotolò, sbattendo la testa sulle scale. Quando atterrò sul pavimento, picchiò fortemente la testa e si fratturò una gamba. Rebekah gemette dal dolore insopportabile che aveva alla  gamba e strisciandosi verso al salotto, cercò di arrivare al tavolino dove c’era appoggiata una lampada. Voleva usare la lampada per difendersi da quell’uomo, ma non ci riuscì perché il sicario si piazzò sopra di lei, schiacciandola sul pavimento con il piede. La ragazza gemette dal dolore mentre cercava di divincolarsi da quella morsa, però senza riuscirci. Il sicario estrasse dalla cintura una pistola e le sparò un colpo alla testa uccidendola. Poi uscì di corsa dalla casa e la lasciò lì, ormai morta.
La trovò Steve dopo due giorni che non si presentava a lavoro. Rimase sconvolto nel trovarla con il cervello spappolato. Le aveva detto di stare attenta. Non le fecero il funerale, ma la polizia avvertì solamente i genitori della ragazza, dicendo loro che era morta la loro figlia. Quando la polizia riagganciò la chiamata, i due genitori stettero abbracciati mentre piangevano addolorati. Un’altra loro figlia era morta, ancora.

 

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Capitolo 16
*** 16. ***


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Ofelia appena entrò in casa fu accolta dalla madre che preoccupata le chiese dov’era finita ieri sera e che era molto preoccupata. Ofelia si scusò per non averli avvertiti e per averli fatti preoccupare. La ragazza era sul punto di appoggiare il piedi sul primo gradino quando una forte fitta le attraversò il corpo e capì che Nora voleva uscire.
Ofelia si accasciò sul pavimento mentre il dolore continuava ad aumentare, la madre le corse incontro e la strinse fra le sue braccia, mentre la ragazza lasciava il posto a Nora.
– Madre, madre – chiamò Nora tossendo mentre stava fra le braccia della madre. Lena le accarezzò dolcemente i capelli – Piccola mia mi manchi tantissimo – disse la madre bagnando anche il viso di Nora con le sue lacrime che scesero copiose, bagnandole le guance.
– Madre anche voi, moltissimo – disse Nora sorridendo dolcemente alla madre.
– Sei da sola? – chiese la madre continuando ad accarezzarle i capelli, Nora scosse la testa – Con me c’è anche quella che si fa chiamare Delia, ma chi è? E perché è identica a me? – chiese a sua volta la ragazza spaventata.
La madre le fece shh nell’orecchio e continuando ad accarezzarle il viso le spiegò tutto. – Nora tu sei morta nel 1807 e dopo di te rinacque Delia, poi Georgia, Arlene, Rebekah, oh Rebekah ed infine Ofelia che è ancora viva. Tu, piccola mia, eri una rinata, cioè una persona che rinasce ogni volta che muore e tutte quelle fanciulle che vedi con te, sono le tu degli anni successivi. Sono morte tutte all’età di ventidue anni come te d’altronde. Siete tutte insieme dentro al corpo di Ofelia, la tu di ora. Del presente. Non devi avere paura di loro. Loro sono te e sono brave come te. Capito? –.
Nora ascoltò tutto in silenzio e trattenendo il fiato – Quindi ora sono dentro al corpo di Ofelia, giusto madre? – chiese la ragazza toccandosi il viso, le labbra, il naso e gli occhi.
– Si tesoro mio è così. Tu puoi scambiarti per poco tempo con Ofelia per poter parlare con noi oppure puoi apparirle allo specchio, se vuoi parlarle, anche se penso che per te sia più difficile essendo la prima – le rispose Lena baciandole la testa.
– Quindi posso ritornare? Non mi abbandonerai, vero? – chiese Nora guardando con le lacrime agli occhi la madre che scosse la testa, – Mai, non ti abbandonerò mai, piccola mia – rispose la donna sorridendole dolcemente.
Nora annuì sorridendo poi chiuse gli occhi e al posto di tornare Ofelia, apparve Delia che si guardò in giro spaesata.
– Madre questa non è la nostra casa, perchè siamo qui? – chiese Delia alzandosi in piedi di scatto e correndo fuori di casa.
Lena la guardò schioccata mentre lasciava la loro casa. – Mark, Delia è scappata – urlò la donna mentre usciva di casa per rincorrere la figlia. Il padre uscì di corsa da casa e seguendo la moglie entrarono nel bosco. Corsero per circa venti minuti, si fermarono solamente quando trovarono Delia in ginocchio davanti all’albero in cui fu bruciata molti anni fa. La ragazza era intenta a piangere mentre stringeva i pugni sulla sua maglietta. Lena le si avvicinò da dietro e sedendosi al suo fianco, l’abbracciò, – Piccola devi tornare a casa, non puoi stare qui – le sussurrò stringendola forte. Il padre si avvicinò anche lui e appoggiando una mano su quella della moglie, abbracciò la figlia.
– Sono morta, sono morta davvero. Mi hanno bruciata, mi hanno uccisa – urlò fra le lacrime. Delia continuava a piangere incurante degli spasmi che ogni singhiozzo le provocava. La madre le accarezzava dolcemente la schiena per tranquillizzarla.
– Quindi è tutto vero quello che hai detto a Nora? Siamo tutte la stessa identica persona, solo che di epoche diverse – dichiarò la ragazza alzandosi da terra con le gambe tremolanti. Il padre l’aiutò a sorreggersi poi la prese in braccio e la portò in casa. Quando arrivarono a casa, ad accoglierli ci fu lo sguardo spaesato di Ofelia che chiese cosa fosse successo.
La madre le spiegò che Delia e Nora avevano comunicato con loro e che aveva detto ad entrambe la verità. Ofelia sorrise poi facendosi aiutare dal padre a portarla in camera, se ne andò a dormire. Toccò alla madre andare a lavorare quel giorno. Ofelia voleva che la bottega venisse aperta, anche perché la gente contava su di lei.
 
Ofelia se ne stava in camera sua, sdraiata sotto alle coperte, quando sentì dei piccoli colpi provenire dalla finestra. Svogliatamente si alzò dal letto e guardò che cosa fosse. Invece era ‘chi fosse.’ Era Evan che le lanciava dei sassolini contro alla finestra. Ofelia aprì la finestra e sporgendo di poco la testa, urlò il suo nome. Evan le sorrise – Scusa se ti disturbo, ma avevi dimenticato questo a casa mia – disse lui facendole vedere il fiore viola che portava in testa.
– Aspettami lì, ora scendo – disse Ofelia tirando indietro la testa, prese la sua vestaglia ed indossandola, scese al piano inferiore. Corse per andare ad aprire la porta. Era eccitata, ma per cosa?  Forse perché Evan le piaceva? E molto anche?
Quando aprì la porta si trovò un Evan tutto sorridente, – Ciao – disse sfoggiando un sorriso dolcissimo.
– Ciao – disse timidamente Ofelia facendolo entrare. Evan si girò verso di lei e le porse il suo fiore, Ofelia lo prese subito e lo strinse fra la mano.
– Non vai a lavorare oggi? – chiese Evan guardando attentamente Ofelia che indossava un pigiama a fiorellini e una vestaglia rosa pallido.
– No, perché oggi sono uscite due vecchie ‘me’ e sono molto stanca – rispose Ofelia spiegandogli la situazione.
Lui le sorrise ed avvicinandosi a lei, strofinò il suo naso contro quello di Ofelia e le diede un dolce bacio a fior di labbra. Dopo di quello se ne diedero un altro, un altro ancora e poi altri cento. Evan le accarezzò il viso poi staccandosi di poco da lei, la guardò negli occhi e le sorrise – Ora ti senti meglio? – chiese dolcemente. Ofelia annuì ancora frastornata per il bacio, ma felice.

 

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Capitolo 17
*** 17. ***


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– Wow, cioè loro possono uscire quando vogliono? Possono usare con il tuo corpo? – chiese Evan mentre accarezzava una coscia coperta dal vestito ad Ofelia. Se ne stavano sul letto della ragazza a parlare del loro passato.
– Beh, il corpo è anche loro. Comunque non possono uscire proprio quando vogliono, perché le sento che ci provano. Quando sono debole riescono ad uscire di più e quando dormo perché sono indifesa – spiegò Ofelia spostando di lato tutti i capelli, lasciando scoperto il collo e la spalla destra.
– Tu e Rebekah fate la stessa cosa con i capelli – constatò Evan accarezzando una guancia alla ragazza facendola arrossire.
– E ho la passione per le erbe come Delia – ribatté Ofelia avvicinandosi ad Evan e scoccandogli un dolce bacio sulle labbra.
Stettero sdraiati quasi tutta la mattinata a parlare. Fin quando Evan non si alzò dal letto, e guardò il suo orologio da polso che segnava le 12.36.
– Ti va di andare a fare un picnic? – le chiese dolcemente prima di avvicinarsi a lei e prenderle il viso fra le mani, per poi darle un lungo e dolce bacio sulle labbra.
Ofelia roteò sul letto e pensandoci un po’ rispose – Sì, perché sono affamata – rise, prima di alzarsi dal letto per poi prendere un vestito a fiori ed entrare in bagno.
– Ofelia, vado a prendere qualcosa al supermercato poi torno, okay? – urlò Evan dalla camera da letto per farsi sentire della ragazza che stava in bagno.
– Va bene, non metterci tanto – urlò a sua volta Ofelia, da dentro il bagno.
Evan scese al piano inferiore e poi uscì di casa, lasciando Ofelia in bagno intenta a cambiarsi. Ma entrambi i ragazzi non sapevano di essere seguiti e spiati da qualcuno, qualcuno in particolare.
 
Evan era entrato nel supermercato e prendendo un carrello, iniziò a prendere qualcosa da mangiare. Prese dei tramezzini, da quelli con il tonno a quelli con il prosciutto. Due bottiglie d’acqua naturale e due birre - sempre se Ofelia la beveva - e una crostata di frutta. Pagò il tutto e uscendo con i sacchetti della spesa, si diresse verso casa Montgomery, pronto per il suo picnic con Ofelia.
 
Intanto Ofelia si stava preprando nel suo bagno. Indossò il vestito a fiori che aveva preso dalla camera. Un vestito nero con fiori bianchi con le maniche a ¾. Si sistemò i capelli, passandoci il phon per tirarli un po’ perché sembrava un leoncino spettinato. Si passò una linea di matita sugli occhi e sotto. Una passata di lucidalabbra per darle un po’ di lucentezza ed infine un po’ di mascara sulle ciglia per allungarle. Uscì dal bagno, controllando che Evan non ci fosse e correndo verso la sua scarpiera, prese un paio di ballerine nere e comode e le indossò.
Appena suonarono al campanello, Ofelia corse giù, cercando di non cadere dagli scalini ed andò ad aprire la porta d’ingresso. Evan era vicino alla macchina che caricava la spesa che aveva fatto. Ofelia lo chiamò e lui si girò facendole segno di venire. Ofelia chiuse dietro di sé la porta poi correndo si avvicinò alla macchina e salì sul posto del passeggero.
Evan entrò in macchina ed accendendola partirono, pronti per il loro picnic romantico.
– Ho preso anche una coperta in caso il tempo dovesse cambiare – disse Ofelia indicando i sedili posteriori.
– Hai fatto bene –.
 
La persona che stava seguendo i ragazzi, appena loro girarono a sinistra per andare nelle aree per i picnic, lui svoltò a destra diretto fuori città.
Guidò velocemente per arrivare alla sua destinazione. Una villa circondata da un grande giardino e un alto cancello in ferro battuto. Era bella, elegante ed enorme di un colore grigio topo. La grande scalinata che conduceva al porta d'ingresso era ornata da fiori colorati che faceva capire che c’era di mezzo il tocco di una donna. Il cancello si aprì lentamente, mentre l’uomo in macchina entrava nel giardino della grande villa. Passò per il sentiero e quando fu vicino alla villa, parcheggiò l’auto vicino ad un’alta siepe.
L’uomo scese dalla macchina e togliendosi gli occhi da sole, si mise apposto il suo completo per poi dirigersi verso l’entrata della villa.
Fu accolto da una cameriera anziana dai capelli bianchi e dall’andatura lenta. L’uomo disse alla cameriera che non serviva il suo aiuto e che sarebbe andato da solo nello studio del suo capo.
Bussò alla porta e quando sentì con voce forte un avanti, entrò nello studio – Signore Allen, suo figlio sta uscendo con una rinata, Ofelia Montgomery – disse l’uomo buttando sulla scrivania del signor Allen delle foto ritraenti suo figlio Evan con la rinata. Il signor Allen ne prese una e spalancando gli occhi parlò con voce alta – Questa è Rebekah, credevo che fosse una semplice prostituta, non una rinata –.
Il suo sicario scosse la testa poi indicò Ofelia – No, Rebekah era una rinata e ora suo figlio ci sta insieme. Ne sono sicuro perché l’ho vista mentre due lei già morte uscivano per parlare con i genitori –  spiegò l’uomo con voce cattiva.
Il signor Allen sospirò grattandosi la barba – Uccidila e uccidi anche la sua famiglia, così non avremo più problemi con questa famiglia – ordinò con voce autoritaria prima di sbattere le mani sul tavolo. Si alzò di scatto e dirigendosi verso una mobilia di vetro, prese una bottiglia di whisky, se la versò in un bicchiere di cristallo e ne bevve un sorso, guardando malvagiamente il suo sicario che era pronto per il suo prossimo incarico.


 

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Capitolo 18
*** 18. ***


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Appena furono arrivati nella zona per i picnic, cercarono il posto per posare la cesta con le cose da mangiare e le coperte. Mentre camminavano, andando piano piano, avevano osservato l'ambiente magnifico che li circondava: il parco e la zona picnic erano enormi con numerosi alberi di pino secolari, alti e con molte pigne, che creavano ombre sul terreno.
Alcune stradine di terra battuta attraversavano nelle varie direzioni, la pineta.
Il terreno era soffice e ricoperto da un tappeto di aghi di pino secchi e di piccole pigne. In lontananza si intravedeva tra i rami i giochi per i bambini, nella parte del parco e un po’ più in alto l'azzurro del cielo sereno. Tutto era incredibilmente bello e il profumo dei pini entrò nelle narici dei due ragazzi. Però lo stomaco di Ofelia e Evan, cominciò a brontolare. Giunsero in una zona pianeggiante e pulita, allestirono il loro pic-nic con tovaglia, bicchieri di plastica, tovagliolini e tutto il resto, compreso il cibo e il bere.
Evan e Ofelia mangiarono in silenzio, la tranquillità che c’era in quel posto era stupenda. Si stavano rilassando. Ogni tanto serviva un po’
– Come facevi a conoscere questo posto? – chiese Ofelia mangiandosi un tramezzino al tonno.
– Mia nonna mi portava qui quando ero piccolo, è un posto stupendo – rispose Evan sorridendole dolcemente.
– Tua nonna sapeva quello che tuo nonno faceva? E quello che fa tuo padre? – chiese ancora Ofelia mentre il vento le passò fra i capelli, facendoli svolazzare nell’aria.
Evan ci pensò su un po’ poi rispose – Non lo so. Non ne ho idea, ma penso che lo sappia – sussurrò l’ultima frase, abbassando lo sguardo sul tavolo di legno.
Ofelia annuì – Parliamo di altro, quante ragazze hai avuto? – chiese la ragazza facendo un risolino.
Evan scoppiò a ridere, – Penso cinque, dalle medie a ora, tu signorina Montgomery? – chiese lui, scoccandole un sorriso.
Ofelia si scostò i capelli dal viso a mo’ di vip, – In questa vita neanche uno – lo disse ridendo, prima di divenire rossa come un peperone.
Evan rise, scuotendo la testa – E nelle altre vite? – chiese bevendo un sorso di birra.
– Allora,  Nora stava con Francis; Delia con nessuno, ma in precedenza era stata insieme a due ragazzi; Georgia si era spostata con Walter ed aveva avuto solo lui; Arlene non aveva mai avuto nessuno e l’unico che gli piaceva, era uno psicopatico che l’ha uccisa e Rebekah, beh Rebekah è un caso a parte – rispose Ofelia tenendo il conto con le dita.
– Beh ora tu hai me, se mi vuoi – disse Evan avvicinandosi ad Ofelia con il viso, la ragazza sorrise e avvicinandosi a sua volta, gli diede un dolce bacio sulle labbra. Un bacio che sapeva di tonno e maionese, per via dei tramezzini mangiati in precedenza.
– Ti va di giocare a palla? Dovrei averne una in macchina – chiese Evan alzandosi dalla panchina di legno, attaccata al tavolo e dirigendosi verso l’auto.
– Va bene, ti aspetto qui – urlò Ofelia mentre Evan continuava ad allontanarsi.
Ofelia iniziò a sentirsi strana, sentiva Rebekah. La sentiva chiaramente, ma l’altra lei non voleva uscire, voleva semplicemente parlarle nella loro mente. E ci riuscì, Ofelia venne risucchiata nella sua mente. C’erano solo lei e Rebekah, una di fronte all’altra in un’oscurità infinita, che poi si trasformò in una stanza piena di specchi.
– Ofelia perché ti stai mettendo in pericolo uscendo con lui? – chiese Rebekah stando davanti alla ragazza. Erano in una stanza fatta di specchi, in cui loro venivano riflesse all’infinto per l’eternità. Vedere in continuazione la proprio morte, riflessa negli specchi.
– Evan è diverso. Lui mi piace – rispose Ofelia alzando le spalle, guardandosi in giro. Guardò uno specchio in cui mostrava la morte di Rebekah. Si vide lo sparo, il buco in testa, il sangue che colava a rivoli sul pavimento e scivolava fra i capelli di Rebekah. Ofelia dovette distogliere lo sguardo da quella morte orribile, perché iniziò a sentirsi male. Ma facendo così, si ritrovò davanti ad uno specchio, riflettente lei stessa in quel momento. Il conto alla rovescia per il suo ventiduesimo compleanno continuava ad andare indietro. Mancavano esattamente cinquantasette giorni al suo ventiduesimo compleanno, il quindici dicembre.
– Il tempo scorre – disse cupa Rebekah apparendo alle spalle di Ofelia che si voltò spaventata.
– E’ il mio tempo? Morirò nel giorno del mio compleanno?– chiese scossa Ofelia continuando a guardare il suo riflesso ancora intatto, con qualche frammento del riflesso della morte di Rebekah.
– Io sono morta cinque giorni dopo il mio compleanno. Anche le altre erano vicine, a parte Arlene che è morta il giorno del suo compleanno. Non puoi fottere la morte. Se per te sceglie quel determinato giorno, quello sarà – spiegò Rebekah allontanandosi dallo specchio e camminando vicino ad uno specchio che rifletteva la sua morte – Vedi? Io sono morta nel giorno prestabilito dalla morte – disse toccando lo specchio e al centro di esso apparve una data, la data della sua morte.
– E’ tutto così ingiusto. E’ tutto così sbagliato. Io non voglio morire, ancora e ancora – piagnucolò Ofelia, poi si bloccò di colpo sentendosi chiamare da fuori. Evan la stava chiamando.
– Devo andare – disse velocemente Ofelia chiudendo fortemente gli occhi.
– Sta’ attenta – disse Rebekah scomparendo.
Evan stava scuotendo Ofelia, quando finalmente tornò dal viaggio fatto nella sua mente. Ofelia si guardò in giro frastornata. Le girava la testa e stava trattenendo a stento le lacrime. Sarebbe morta il giorno del suo compleanno, doveva fare qualcosa al più presto. Doveva chiedere aiuto ad Evan. Doveva farlo per non morire.
– Ofelia stai bene? Cos’è successo? – chiese Evan preoccupato, accarezzandole una guancia.
– Sto bene, ora pensiamo solo a divertici – rispose seria Ofelia, guardando attentamente il cielo azzurro, mentre pensava a come dirlo al ragazzo.

 

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