Il sentimento é reciproco.

di ___Ace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Forse dovrei provare anche gli altri alcolici. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. Vietare l'entrata ai coglioni. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. Hangover. Hang-che? ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. Datti una calmata, Eustass-ya. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. Odio queste stronzate. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. Un letto sfatto e un tacito accordo. ***
Capitolo 7: *** Speciale Halloween. Ora tu, se lo vuoi, canta la Ballata della Zucca con noi. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6. L'officina era come una seconda casa. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7. Sorridere é per le persone insignificanti. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8. Se c'era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9. La stagione degli amori. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10. Le malsane idee di Rufy. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11. Forse potevo davvero essere forte e senza paura. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12. Un appartamento troppo piccolo per tutti. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13. Piccolo e dolce Eustass-ya. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14. Una cosa che capita. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15. Un Rosso Natale. (Speciale Natale). ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16. Disastro, Inferno, Paradiso e Buon Compleanno. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17. Tutto ciò che mi metteva in imbarazzo. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18. Mentre tutto scorreva. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 19. La promessa di una vita. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 20. Non ti avrebbe mai lasciato. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 21. Chi non muore si rivede. ***
Capitolo 24: *** Capitolo 22. Poi il buio. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 23. O si chiamavano sentimenti? ***
Capitolo 26: *** Capitolo 24. Il drago nel corridoio. ***
Capitolo 27: *** Epilogo. Un bel modo per perdersi. ***



Capitolo 1
*** Prologo. Forse dovrei provare anche gli altri alcolici. ***


Prologo.
Forse dovrei provare anche gli altri alcolici


«Ehi, Killer, spiegami cosa ci facciamo in questo posto per fighette»
Odiavo quei buchi per topi, dove tutti se ne stavano ammassati in mezzo ad una pista da ballo, gli uni addosso agli altri, senza possibilità di respirare o di rialzarsi se mai si aveva la sfortuna di inciampare in qualche lattina gettata a terra.
Tra tutti i posti del mondo, perché proprio quello? Se ci provavo con qualcuno mi denunciavano per violenza su minore.
Infatti, come a voler confermare le mie ipotesi, la maggior parte dei presenti erano ragazzini con gli ormoni a mille che giravano per il locale con in mano bicchieroni stracolmi di Dio solo sapeva quale superalcolico e si atteggiavano da duri, gonfiando il petto come galletti.
Ci penso io a far abbassare la cresta a questi qui, pensai scocciato, mentre mi sedevo stancamente su uno sgabello libero davanti al bancone del bar, seguito a ruota dal mio migliore amico.
«Non ti piace? E’ una delle discoteche più frequentate qui a Sabaody» si giustificò il biondastro.
«Frequentata da poppanti, a quanto pare» gli feci notare, indicando con un cenno del capo un ragazzino che ci era appena passato accanto, il quale aveva i pantaloni abbassati sotto al sedere e una maglietta attillata rosa. Il tutto completo di cappellino da baseball e occhiali da sole fosforescenti.
Ma a cosa cazzo gli servono gli occhiali a quello sbandato?
Killer si fece pensieroso, continuando a fissare quell’idiota montato, riflettendo sul da farsi.
«Beh, prova a guardarti intorno» insistette.
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo e ordinando una birra al barista per distrarmi e annacquarmi un po’ il cervello, sperando che, con l’alcool in circolo, mi risultasse più semplice apprezzare quella topaia dove le ragazze ballavano mezze nude sul palco.
Dopo il primo abbondante sorso, mi tornò alla mente un particolare che mi ero lasciato sfuggire.
«Ti faccio notare che, a parte il bimbetto di prima, indossano tutti una fottuta camicia» feci, allargando le braccia come a voler abbracciare tutta la sala e sottolineando quello che avevo appena detto. In qualche modo, tutti i ragazzi avevano una camicia che, anche se sgualcita o macchiata, spiccava da sotto i cappotti o dalle giacche.
«Io ti avevo detto di non vestirti come al solito» disse Killer, trattenendo un sorriso e sorseggiando la sua vodka.
Digrignai i denti offeso, notando come anche lui si fosse reso presentabile per l’occasione, anche se la sua camicia a pois lasciava parecchio a desiderare.
«Mi stai dando del pezzente?».
«Non ho detto questo».
Non me ne fregava niente se per entrare bisognava essere abbigliati in un certo modo, non dopo aver visto che razza di gente girava per la pista. I miei vestiti erano perfetti e comodi, non c’era altro da dire.
«Certo che anche tu avresti potuto darmi ascolto! Insomma, guardati: anfibi, jeans strappati, giacca in pelle e quei cosi in testa».
Assottigliai lo sguardo, fissandolo minaccioso e pronto a scattare come una molla.
«Cos’hanno i miei occhiali che non vanno?» chiesi velenoso.
Sembrò calmarsi e ricordarsi all’improvviso di un patto importante della nostra amicizia: non erano permessi commenti di cattivo gusto sui miei occhialoni da aviatore, qualunque cosa fosse successa.
Si prese un minuto per tranquillizzarsi e lasciar perdere il suo discorso sul mio modo di vestire, sapendo che sarebbe stata una battaglia persa come al solito.
«Niente, amico, ti risaltano i capelli» concluse alla fine, con un gesto disinteressato della mano per poi tornare a scolarsi il suo drink.
Ecco, così andava meglio.
Lo imitai e bevvi un'altra sorsata di quella birra chiara e costosa che mi avevano servito. Tutto sommato, anche se il posto lasciava un po’ a desiderare, il servizio e le bevande non erano male, anzi.
Forse dovrei provare anche gli altri alcolici, così, tanto per essere sicuro che non siano scadenti.
Mentre programmavo una sbronza da paura, tipica del venerdì sera, la mia attenzione venne attirata dagli incitamenti della folla alle mie spalle, perciò mi voltai incuriosito, cercando di distinguere le figure che si davano addosso a suon di pugni.
Wow, una rissa!
«Sembra che ci sarà da divertirsi» constatò il ragazzo accanto a me, passandosi una mano tra i capelli e scompigliandosi la lunga frangia che gli ricadeva davanti agli occhi.
Ghignai divertito, finendo la birra nel bicchiere e ordinando alla svelta qualcosa di più forte.
Se dovevamo buttarci nella mischia, allora era meglio darsi da fare in grande stile.
«Pronto per sballarti?» chiesi al mio amico, prima di scolarmi quello strano liquido blu che brillava nel bicchiere di vetro che mi avevano appena consegnato.
Per tutta risposta, Killer non aspettò oltre e bevve di schiena il cocktail esplosivo, imitato subito dopo da me.
Mi concessi un attimo per lasciar passare il classico e conosciuto bruciore alla gola e un brivido di eccitazione lungo la schiena per l’imminente divertimento.
Appoggiai con forza il bicchiere vuoto sul banco in legno davanti e me e mi tolsi la giacca nera, adagiandola malamente sullo sgabello, schioccandomi le nocche subito dopo.
Killer scoppiò a ridere, incespicando sui suoi passi e indicando la mia maglietta.
«Che c’è?» feci, mentre un sorriso idiota si dipingeva sul mio volto in risposta all’effetto dell’alcool.
«Non ti sei nemmeno cambiato quando sei tornato da lavoro, vero? Hai una macchia di olio di motore sulla maglia».
«Oh, si, esilarante» tagliai corto, dirigendomi verso la massa di gente che se le suonava di santa ragione per qualche futile motivo.
Se proprio ci teneva a saperlo, avevo anche una chiave inglese che mi aspettava ansiosamente, abbandonata nella tasca del giubbotto alle mie spalle.



 
 
 
Angolo Autrice.
Oggi  sono in vena di strafare. A quanto pare l’aver finito la scuola mi da un sacco di tempo che sfrutterò al meglio fino a che non troverò un lavoretto.
Anyway, un nuovo inizio, una nuova storia e indovinate un po’ chi abbiamo come protagonisti.
Se ci sono alcuni dubbi chiedete pure, ma tutto verrà spiegato con il seguito dei capitoli, quindi non preoccupatevi!
Che altro dire, tutto viene raccontato dal punto di vista di Kidd e, come vedrete, di Law.
Un abbraccio e un grazie a tutti, anche a chi legge in silenzio.
See ya,
 
Ace.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. Vietare l'entrata ai coglioni. ***


Capitolo 1.
Vietare l’entrata ai coglioni
 

Do you ever feel like breaking down? Do you ever feel out of place?

Ma tu guarda questi ragazzini in fase ormonale. Se la smettessero di tenere il cervello tra le gambe e iniziassero a ragionare seriamente non succederebbero questi casini.
Davanti ai miei occhi si stava svolgendo una delle classiche risse da quattro soldi tra diciottenni che, per gelosia o a causa del vasto e incauto uso degli alcolici, visti come un modo per attirare l’attenzione ed essere trasgressivi, iniziavano ad urlarsi contro, spintonarsi infastidendo le altre persone e prendendosi a cazzotti. Certo, era uno spettacolo da non perdere, ma ormai iniziavano a stancare.
Se qualcuno prendesse l’iniziativa di vietare l’entrata ai coglioni questo posto sarebbe anche passabile, pensai irritato, bevendo un altro sorso di vodka e fissando malamente uno dei bambocci che si atteggiava da duro.
Tsk, puzzeranno ancora di latte.
La storia era sempre la stessa: uno si avvicinava a una ragazza, le faceva la corte, ballava un po’ con lei e poi restava fregato quando il fidanzato di questa se ne accorgeva. Iniziava così il putiferio e la maggior parte delle liti.
Se fosse toccato a me avrei semplicemente consigliato al suddetto ragazzo di aprire gli occhi e tenere più sotto controllo la sua puttana, tutto qui. Si sarebbe incazzato? Meglio, voleva dire solo una cosa: avevo ragione io.
Mi guardavo a destra e a sinistra e quello che vedevo non mi piaceva per niente. I presenti superavano a fatica i vent’anni e quelli che lo facevano erano per lo più quarantenni bifolchi in cerca di qualche svago e di rimorchiare qualche oca ubriaca.
Poggiai il bicchiere vuoto sul bancone. Me ne sarebbe servito un altro se volevo almeno sperare di dimenticare dove mi trovavo e rilassarmi un po’.
Ma che razza di postacci frequentano Penguin e Bepo?
Proprio mentre li nominavo col pensiero, ecco apparire tra la folla intenta a ballare un tipo strambo con in testa il solito cappello con scritto il suo soprannome.
«Allora amico, ti piace il posto?» chiese entusiasta.
Sarebbe stata la prima e ultima volta che ci avrei messo piede spendendo i miei soldi per pagare l’entrata.
Feci una smorfia disgustata. «E’ orrendo. La prossima volta andiamo al Moby Dick come avevo proposto fin dall’inizio».
Mi guardò storto per qualche istante, giusto il tempo necessario per riprendersi e trovare il modo di ribattere.
«Hai ragione, è una merda» accordò infine, dopo averci pensato su con aria grave.
«Mi fa piacere che te ne sia accorto. Raduna gli altri, ovunque siano».
«Non so con quanta facilità riuscirò a trovarli, poco fa hanno intravvisto un gruppetto di ragazze e si sono lanciati in una delle loro mai riuscite imprese».
«Ovvero portarsele a letto?» azzardai annoiato.
«Esattamente» rispose con un’alzata di spalle.
Fa niente, pensai, tanto ormai era chiaro che avremmo dovuto passare il resto della serata in quella sottospecie di asilo per bambini, tanto valeva tentare di divertirsi.

Like somehow you just don’t belong and no one understands you.

Ebbi una folgorazione.
«Dì un po’, Penguin, ti ricordi l’ultima volta che ci hanno buttato fuori da un locale?» chiesi ghignando.
Sembrò cadere dalle nuvole, ma poi una lampadina si accese nella sua testa vuota e l’espressione stupita si trasformò presto in un sorriso malizioso.
«Eravamo talmente ubriachi che siamo saliti sul palco fingendo di essere lo spettacolo forte della serata e ci siamo spogliati completamente».
«Che ne dici di rifarlo?» domandai ammiccando.
Si sfregò le mani, «Offro il primo giro».
Quando fu chiaro che eravamo abbastanza allegri entrambi, dopo vari bicchieri di vodka e altre sostanze ignote di cui non ricordavo il nome, abbandonammo giacca e cappello in quello che era stato il nostro tavolo prenotato in precedenza e ci dirigemmo verso la pista.
Certo che ci stavano dando dentro con la rissa che avevano iniziato. Al centro della sala si era formato un gruppo indistinto di ubriaconi che agitavano i pugni per aria, colpendo chiunque capitasse a tiro o intralciasse i loro movimenti.
Il mio obbiettivo era raggiungere uno dei palchi presenti ai lati della console che sparava musica a tutto volume facendomi vibrare la testa e battere il cuore a ritmo, anche se tutto ciò era solo una sensazione. Per farlo, però, dovevo passare in mezzo alla bolgia di corpi sudati e ansanti, distrutti dalla fatica e dalla spossatezza che portava tutto l’alcool ingerito.
Almeno io ero ancora nel pieno delle mie forze.
Mi voltai alla ricerca del mio fedele compagno di avventure, ma non lo trovai alle mie spalle come avrebbe dovuto essere.
Con orrore, invece, mi accorsi che stava discutendo animatamente con due elementi dall’aria poco cordiale che continuavano a spintonarlo a destra e a sinistra, passandoselo a intermittenza come se fosse una palla.
Mi schiaffai una mano sul volto, esasperato dalla piega sbagliata che stava prendendo la serata.
Ritornai così sui miei passi e mi affiancai al mio compagno, mettendo fine allo stupido gioco che avevano iniziato i due ragazzi dall’aria sfatta che ora ci guardavano dall’alto in basso.
«E tu chi ti credi di essere?» fece il primo, faticando a tenere gli occhi aperti.
«Non ti deve interessare, marmocchio» sputai freddo. Sembravano più piccolo di noi e lo sovrastavo in altezza, perciò bastò un’occhiata di fuoco e un tono intimidatorio per farli sparire dalla mia vista e lontano dalla pista da ballo.
Bene, due idioti in meno a cui pensare.

Do you ever wanna run away? Do you lock yourself in your room?

«Penguin, erano due bambini. Per l’amor del Cielo, fatti rispettare!» sbuffai, riprendendo la mia avanzata verso un cubo libero, poco lontano da noi.
«Non volevo fargli male…» si stava giustificando lui, ma fu interrotto a metà frase da un idiota con i capelli rossi e un brutto muso corrucciato da schiaffi che, spintonato da qualche ignoto, era finito con l’urtare di spalle il mio povero e innocente amico.
E questo colosso da dove sbuca? Guarda com’è conciato, sembra appena uscito di galera. Ma lo sa che carnevale è passato da un pezzo?
Il diretto interessato si voltò a fissare con astio Penguin il quale, un attimo dopo, si ritrovò sollevato da terra e con il viso vicinissimo a quello minaccioso del suo aggressore, rosso di rabbia in tutti i sensi.
«Come cazzo ti permetti di venirmi addosso, microbo?» urlò minaccioso per sovrastare la musica che continuava a riempire le orecchie di tutti senza tregua, mentre la sfera stroboscopica e le luci psichedeliche illuminavano a ritmo la scena che si stava svolgendo indisturbata in mezzo alla sala, dove tutti avevano preso ad incitare i coinvolti e a ballare a determinati metri di distanza.

With the radio on turned up so loud that no one hears you screaming.

D’accordo, avevo mantenuto la calma e superato il fatto di trovarmi in un posto veramente squallido e poco serio; ero riuscito ugualmente a trovare il modo di passare sopra a tutto e a darmi alla pazza gioia ed ora mi si voleva privare addirittura di questo piacere?
No, decisamente non avrei tollerato altri intoppi, soprattutto non avrei permesso a nessuno di trattare così uno dei miei amici, nemmeno a quell’invasato.
«Non è serata, Evidenziatore, torna un’altra volta» dissi serio, afferrando saldamente il polso del ragazzone e iniziando a stringere, gelandolo con un’occhiata omicida.
Si voltò a guardarmi, sostenendo il mio sguardo senza la minima intenzione di cedere e sfidandomi a fare di meglio.
Mi stupì il suo comportamento coraggioso; non tutti riuscivano a tenermi testa, ma quel tipo doveva essere abituato alle minacce, perciò avrei dovuto impegnarmi e fare di meglio per convincerlo a togliersi di mezzo.
Osservai quell’energumeno che avevo avuto la sfortuna di incontrare: i capelli in disordine e un orrendo paio di occhiali con le lenti spesse era appoggiato sulla fronte, tenendo quei ciuffi rosso vermiglio alzati verso l’alto; la maglia sporca di nero, pantaloni neri, scarponi neri. Praticamente avevo davanti a me l’Uomo Nero in persona.
Avrebbe potuto spaventare i mocciosi qui intorno.
Sospirai, ormai era chiaro che non ci sarebbe stato nessun spogliarello gratuito, tanto valeva intrattenersi in un modo più sportivo e gratificante.
«Molto bene» sussurrai pacato, prima di sferrargli una ginocchiata sulla bocca dello stomaco, costringendolo a mollare la presa sul povero Penguin, il quale stramazzò al suolo riprendendo fiato e sistemandosi il colletto stropicciato della maglia.
Il brutto ceffo si massaggiò la pancia sorpreso, ma non così dolorante. Doveva essere uno di quelli super palestrati o abituati a ricevere colpi forti, dato che il mio ginocchio sembrava aver sbattuto contro un muro.
«Non avresti dovuto farlo» mi avvisò, avvicinandosi minaccioso e caricando un destro micidiale.
Alzai gli occhi al cielo, aspettando con calma che facesse la sua mossa.
Fantastico, ora devo pure sistemare questo esaltato. Per fortuna prima di iniziare ho bevuto, almeno non mi sentirò troppo in colpa quando gli spezzerò qualche osso.
«Ti spacco la faccia» affermò, preparandosi a colpire ancora dopo che ebbi schivato facilmente il primo colpo.
Ghignai, «Non preoccuparti, se ti faccio male ti ricucirò alla perfezione».
L’avrei usato come cavia da laboratorio per portarmi avanti con la pratica. Studiare medicina si era rivelato un vero spasso e svuotare quella sua testaccia rossa sarebbe stato un piacere immenso.
Persi di vista Penguin nell’esatto istante in cui iniziammo a picchiarci senza esclusione di colpi.
Quando mi abbassavo per schivare uno dei suoi pugni, approfittavo per recuperare dal pavimento qualcosa di utile da lanciargli addosso e il più delle volte il mio piano andava a segno, dandomi il tempo di reagire e colpirlo all’improvviso.
Riuscii a fargli un bell’occhio nero, ma in cambio mi ritrovai con un labbro rotto. Pazienza, non era nulla di grave, ma gli sarebbe costato caro questo affronto.
Rise sguaiatamente quando notò la mia espressione furibonda e in sangue che mi colava sulla camicia che fino ad allora era rimasta immacolata.
Sputai a terra, fissandolo con odio. Solo guardarlo mi faceva prudere le mani.

No you don’t know what it’s like when nothing feels alright. You don’t know what it’s like to be like me.

Scattai in avanti cogliendolo di sorpresa e, dopo una finta per distrarlo, lo colpii dove meno si aspettava, mettendolo fuori gioco.
Che ne dici, Albero di Natale? Fa male in mezzo alle gambe, vero?
Cercò in tutti i modi di non cedere al dolore, reggendosi a stento in piedi, ma alla fine fu costretto a crollare in ginocchio e a tenersi con delicatezza il cavallo dei pantaloni, mentre io mi godevo tutta la scena, sorridendo vittorioso.
«Cancellati quel ghigno dalla faccia, bastardo!» mi ordinò, tra un respiro e l’altro.
Trattenni una risata solo per non renderlo più ridicolo di quanto già non fosse. «Non prendo ordini da nessuno, Capelli di Fuoco. E ora scusami, ma devo andare».
A quanto pareva, all’entrata erano apparsi alcuni uomini della sicurezza e i gestori del bar stavano indicando la pista dove la rissa continuava a svolgersi regolarmente, attirando tanti spettatori quanti nuovi partecipanti. Di li a poco sarebbero stati sbattuti tutti fuori.
Non appena individuai Penguin dall’altra parte della mischia, mentre si teneva a debita distanza da possibili attacchi e coinvolgimenti, mi affrettai a raggiungerlo, sorpassando il mio dolorante avversario a terra e suggerendogli di mettere un po’ di ghiaccio sull’occhio pesto non appena fosse tornato a casa.
Mi mandò bellamente a quel paese, aggiungendoci vari e coloriti insulti, ma non avrei perso altro tempo prezioso con lui e, soprattutto, non mi sarei fatto buttare fuori dal locale per un casino che non avevo combinato io.
«Tutto bene?» mi sentii chiedere, una volta raggiunto Penguin.
«Tutto a posto» lo tranquillizzai, «Chiama gli altri e usciamo di qui. Digli che non mi importa se stanno scopando».
Il ragazzo si lasciò scappare una risata e, mentre recuperavamo le nostre giacche diretti verso l’uscita, mi accorsi con divertimento che il nostro rosso amico aveva preso a litigare con uno dei buttafuori.
Scossi piano la testa.
Razza di esaltato.

Welcome to my life.





Angolo Autrice.
Beh, a quanto pare i nostri ragazzi si sono incontrati finalmente e hanno già iniziato a fare scintille.
Ho voluto introdurre il testo di alcune canzoni, anche se non sarà così per tutti i capitoli, credo. Però mi piace troppo scrivere con l’idea di avere un sottofondo musicale e se avete qualche suggerimento da darmi o commenti da fare sapete dove trovarmi!
La canzone è Welcome to my life dei Simple Plan.
Grazie a tutti, recensori e lettori.
See ya,
Ace.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. Hangover. Hang-che? ***


Capitolo 2.
Hangover. Hang-che?

I got a hangover, wo-oh!

Sabato.
Adoravo il sabato.
Meglio ancora, veneravo il sabato, soprattutto la mattina.
La lenta e tranquilla mattina, durante la quale passavo le ore a dormire fino a tardi o a vomitare l’anima, liberandomi dall’alcool assorbito la sera precedente in circostanze che ricordavo a malapena e di cui non mi fregava un emerito cazzo.
Quel giorno, invece, le cose erano andate diversamente.
Avevo dormito male durante la notte a causa di un mal di testa pazzesco che mi martellava nel cervello senza sosta. Partiva dal sopracciglio sinistro e mi prendeva tutto il lato della testa, pulsandomi nella tempia e facendomi impazzire. In aggiunta avevo inzuppato le lenzuola con gli impacchi per il ghiaccio che mi ero premuto sull’occhio, sperando vivamente che il colpo ricevuto non fosse troppo evidente una volta passato il gonfiore. Come se non bastasse, mi era toccato camminare a gambe aperte dall’inizio della via del mio quartiere fino a casa, dove mi ero stravaccato sul divano, finendo per alzarmi immediatamente come se i cuscini fossero fatti di spilli.
Avevo l’inguine in fiamme, e non in senso buono o piacevole, al contrario.
Dopo una nottata infernale fui felice di svegliarmi alle dieci e mezza, anche se per i miei standard era dannatamente presto, notando con piacere che almeno la parte che più mi interessava sembrava essere guarita senza effetti collaterali sul mio fisico.
Quel maledettissimo figlio di puttana, pensai, mentre mi dirigevo silenziosamente in cucina, preparandomi ad una disperata ricerca delle cialde per fare il caffè. Ne avevo un assoluto bisogno se volevo affrontare la giornata senza scoppiare in scatti d’ira o di violenza.
Da quando Killer mi aveva iscritto a quel patetico corso di yoga le cose sembravano andare meglio del solito. Niente lamentele da parte dei vicini a causa di rumori molesti, niente visite di controllo indesiderate della polizia, niente animali zoppi. Tutto regolare.
Per quanto odiassi infilarmi una tuta e uscire di casa per presenziare a quelle lezioni noiose ed eterne, dovevo ammettere che avevano dato i loro frutti.
Quando ero a lavoro contavo fino a dieci prima di mandare a fanculo un cliente piuttosto esigente o assillante; nei luoghi pubblici mi trattenevo una volta su tre a fare gesti osceni o a spaventare un passante e mi ubriacavo solo il fine settimana, senza presentarmi all’officina di Franky ubriaco fradicio. Quello me lo concedevo solo in rare occasioni.

I've been drinking too much for sure.

Per questo tutta la rabbia che accumulavo e che mi trattenevo dal sfogare la liberavo i venerdì e i sabato sera, mentre ero fuori a festeggiare con qualche amico. L’occasione per tenersi in allenamento e fare un po’ a pugni si presentava sempre, come era successo quel venerdì.
Notando di sfuggita il mio riflesso sullo specchio del corridoio tornai sui miei passi per confermare i miei timori. Un segno violaceo spiccava come un’insegna al neon sulla mia faccia, facendo quasi pendant con i miei capelli aggrovigliati e in disordine.
Oh, giuro che lo ammazzerò per questo.
Strinsi i pugni e presi a respirare profondamente, calmando l’istinto omicida che iniziava a scorrermi nelle vene.
Calmati, forza, respira. Se lo rivedrai non dovrai ucciderlo. Pena la galera. Ricordatelo bene. Non devi ucciderlo, Kidd.
Non. Devi. Ucciderlo.
Tirai un pugno secco al muro.
Lo ucciderò eccome!
Con poche falcate raggiunsi la dispensa e cercai alla cieca qualcosa di consistente per fare colazione, oltre al mio più che meritato caffè che, forse, mi avrebbe aiutato a calmarmi.
Fortuna che Killer aveva fatto la spesa il giorno prima, ricordandosi di prendere qualcosa anche per me, dato che odiavo andare nei centri commerciali.
Un muffin al cioccolato mi sembrò l’ideale e, dopo averne agguantati due per sicurezza, mi avviai già più tranquillo verso la cucina.
Mentre la macchinetta si dava da fare per soddisfare i miei bisogni, aprii le finestre del soggiorno e illuminai anche le altre stanze, lasciando che i timidi raggi di sole che spiccavano da dietro alcuni nuvoloni scuri mi accecassero per qualche istante.
Non potevo fingere oltre, ero consapevole del fatto che avrei dovuto fare i conti con le conseguenze del mio comportamento sconsiderato.
Dopo che quello stronzo mi aveva messo al tappeto, giocando sporco chiaramente, erano arrivati quelli della sicurezza.
Che divertimento, avevo fatto a botte anche con loro, ignorando il dolore e la stanchezza, spalleggiato da Killer e da un altro paio di ragazzi che non conoscevo, ma che avevano l’aria di chi sapeva da che parte schierarsi. Mi erano stati simpatici da subito, il che era una cosa rara dato che io odiavo qualsiasi forma vivente sulla terra e non ero il classico tipo che faceva amicizia facilmente. Ma quei due, soprattutto quello con la zazzera verde, sembravano a posto.
Infatti, come se il Destino volesse darci l’opportunità di conoscerci meglio, quando arrivò la polizia, entrando nel locale a spada tratta, venimmo additati come causa principale della rissa e passammo una buona ora e mezza fuori al freddo, interrogati dagli agenti e da quell’impiastro di Smoker, il quale non ci lasciò andare tanto facilmente.
Mi conosceva da tempo ormai, per questo sprecava il suo tempo con me, ero il suo teppistello preferito, anche se non appena mi vedeva mi riempiva le orecchie di insulti su mia madre e sul Dio che aveva permesso la mia nascita.
Avevo iniziato all’età di quindici anni, lanciando uova addosso a macchine e case e incendiando le siepi dei vicini, usando la classica scusa del ‘dolcetto o scherzetto?’
Bei tempi quelli. Allora potevo cavarmela con una lavata di capo da parte di mia madre, ma a partire dalla maggiore età avevo passato le mie memorabili nottate in cella con l’accusa di disturbo della quiete pubblica e offese ad un pubblico ufficiale.
Tutto sommato mi volevano bene quelli della caserma, ne ero sicuro anche se non lo davano a vedere. Non che me ne importasse, ma mi piaceva pensarlo ridendoci sopra.
Zoro e Sanji, ecco come si chiamavano! Mi ricordai i loro nomi dopo il primo sorso di caffè.

I got an empty cup, pour me some more.

I due ragazzi, ubriachi marci, si erano presentati dopo che le forze dell’ordine se ne erano andate, stringendoci calorosamente la mano senza smettere di ridacchiare e spintonarsi tra di loro.
Quello biondo, Sanji, lavorava in un noto ristorante di Sabaody, un posto dove non avrei mai messo piede dato che il cibo costava un occhio della testa e tutti quelli che ci andavano erano ricconi. Zoro, la testaccia verde, studiava scienze e motoria all’università e insegnava scherma nel tempo libero.
Dopo un paio di battute sul pessimo abbinamento dei nostri capelli ci eravamo salutati con la promessa di ritrovarci quell’esatto sabato sera con i rispettivi amici.
Se evitavo di pensare al casino in cui mi ero cacciato per colpa di quel moccioso da strapazzo la serata non sarebbe stata affatto male.
Ma non ero capace di passare sopra agli affronti che mi venivano fatti e quelli come lui, quelli che si credevano superiori, non mi piacevano affatto.
Quel bastardo. Quando quel suo amichetto mingherlino mi era venuto addosso, o ero io che ero andato a sbattere contro di lui? Beh, poco importava. Quando mi aveva trattenuto dal disintegrare il moccioso avrei voluto incenerirlo in quel momento, ma qualcosa mi aveva stupito parecchio.
Ci eravamo guardati con sfida, ma nessuno dei due aveva abbassato lo sguardo.
Il che è parecchio strano, pensai, ingoiando in un boccone il secondo muffin, tutti hanno paura di me e con lui non dovrebbe essere diverso.
Non avrei mai creduto che con quelle manine da femminuccia potesse farmi del male invece, quando mi aveva conficcato le sue dita ossute nel polso mi aveva creato parecchio fastidio, tanto che avevo allentato la presa sul suo piccolo amico di poco.
Ma il colpo di grazia me l’aveva risparmiato per un secondo momento. Devo dire che, se non fossi stato il doppio di lui, con quel calcio mi avrebbe steso, ma aveva fatto male i conti con la mia stazza e la mia forza.
Ghignai divertito, sicuramente il suo ginocchio ne avrebbe risentito e poi potevo permettermi di esultare anche per un altro motivo: gli avevo rotto un labbro. Un passo avanti verso il mio malefico e perfetto piano per spaccargli del tutto la faccia.
In quel momento il telefono di casa decise di riempire l’aria con le sue note acute, facendomi tornare il mal di testa.
Imprecando sonoramente andai a rispondere, alzando la cornetta e grugnendo un infastidito ‘pronto?’.
«Buongiorno Kidd, com’è stato il tuo hangover?» fece Killer tutto allegro dall’altra parte.
«Hang-che? E buongiorno un cazzo» mi premurai di fargli sapere.
Mi sembrò quasi di poterlo vedere sospirare e alzare gli occhi al cielo mentre borbottava qualcosa riguardo alla mia scarsa conoscenza dell’inglese, ma gli badai poco perché sembrò ricordarsi il motivo per il quale mi aveva disturbato, evitando così di essere sommerso dai miei insulti. No, non li avrei mai trattenuti a quell’ora del mattino e con un mal di testa che minacciava di diventare sempre più pesante se non avessi trovato un rimedio al più presto.
«Volevo avvisarti che stasera ci aspettano tutti da Shakki, d’accordo?».
«Mpf. Si, va bene. Passo a prenderti?» gli chiesi. Quei gesti di cortesia non erano da me, ma per lui potevo anche fare un’eccezione.
«Ehm, non te lo ricordi?» fece titubante.
«Cosa?». Un brutto presentimento iniziò a farsi strada nel mio stomaco e non era perché dovevo andare a vomitare.
«Non devi dare in escandescenza, va bene? Ieri sera Smoker, per far si che ti dessi una calmata, ti ha ritirato la patente. Sei tornato in taxi».
O. Mio. Dio.
Rimasi immobile a fissare il muro di fronte a me, stringendo convulsamente il bordo del ripiano in legno sul quale era appoggiato il telefono. Mi accorsi distrattamente delle nocche che diventavano bianche a causa della pressione che stavo esercitando.
«Ehi, Kidd? Kidd, ci sei? Calmati amico, ricordati le lezioni per contenere la rabbia…».
«Io lo ammazzo!» urlai, sfogando la mia ira addosso al mobiletto che prese a vibrare sotto ai miei colpi insistenti.
«Ecco, appunto».
E di chi era la colpa di tutto questo? Di quel maledetto ragazzino strafottente.

I wanna keep it going, come on!




Angolo Autrice.
Ecco quello che ho deciso di definire capitolo chiave. E’ ciò che anticipa l’evento, la bomba, il momento tanto atteso. Comunque si, Kidd fa yoga e aspettate di vedere come si veste per l’occasione. E si, nella storia saranno introdotti dove più conviene altri personaggi conosciuti. Sanji e Zoro, come vedrete, sveleranno la loro utilità nel prossimo capitolo nel quale si entrerà nella storia e finirò di girarci tanto intorno dato che sono più ansiosa io di voi. 
Basta parlare, vi lascio un piccolo spoiler del prossimo capitolo:
 
“Ti chiami Eustass, giusto?” chiesi. Gli occhi nascosti dal frontino del cappello e il viso riparato dalle mani incrociate e appoggiate al mento.
Per tutta risposta, un grugnito arrivò alle mie orecchie e un cenno di assenso non sfuggì alla mia visuale protetta.
“Dimmi un po’”, iniziai, sciogliendo le dita e lasciando trapelare un ghigno malefico, “Come te lo sei fatto quel brutto livido?”.
 
*

Che strano colore, mi ritrovai a pensare, notando per la prima volta quelle pupille grandi e ambrate. Mi ricordarono stranamente casa mia e la sensazione di benessere che provavo a ritrovarmi tra quelle pareti con l’unica differenza che, in quel preciso istante, ero fra le braccia di quell’esaltato che non ci avrebbe messo molto a spezzarmi le ossa.
 
 


See ya,
Ace.





 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. Datti una calmata, Eustass-ya. ***


Capitolo 3.
Datti una calmata, Eustass-ya

In the middle of the night.

Fuori aveva iniziato a piovere, una pioggerellina leggera, ma fitta, di quelle che ti fanno pentire di non aver portato con te l’ombrello e che si insinuano nei vestiti facendoti provare caldo e freddo allo stesso tempo perciò, quando entrai, mi sentii subito meglio percependo il calore accogliente del riscaldamento e dell’atmosfera particolarmente gradevole.
Il locale non era grandissimo, ma era provvisto di grandi vetrate che lo rendevano arioso e illuminato di giorno. Sotto le vetrate erano allineati una serie di salottini con divanetti in pelle sintetica, mentre a ridosso delle pareti erano stati posizionati dei tavoli con panche ai lati. Il bancone del bar era infondo alla stanza e le pareti piastrellate, con rappresentazioni colorate e tappezzate di quadri e manifesti, con volute e tralci floreali. I mobili erano di un legno scuro come il pavimento. L'ambiente e l'atmosfera sembravano piuttosto piacevoli, con musica di sottofondo e non invadente; gruppi di giovani ai tavoli e una buona birra per chiunque ne facesse richiesta.
Praticamente era il posto perfetto per incontrarsi a bere qualcosa prima di passare la notte fra divertimenti di vario genere, in base alle preferenze.
Ero sicuro che mi sarei divertito quel sabato sera. Rufy aveva un modo tutto suo di intrattenere le persone e le sue trovate erano sempre le migliori. Non ci si annoiava mai con lui, poco ma sicuro. Suo fratello, Ace, condivideva l’appartamento con me, così aveva esteso l’invito anche agli altri due miei compagni di studi: Bepo e Penguin.
Era stato molto gentile da parte sua e, non appena eravamo arrivati, tutti ci avevano accolti a braccia aperte, facendoci posto al tavolo e scambiando i soliti convenevoli. Mi piacevano quei ragazzini. Nonostante fossero ancora al liceo e arrancassero per portare avanti gli studi erano sempre sorridenti e pronti a dare una mano. Mi stupivano e mi facevano sentire in imbarazzo che ero pronto a celare con un certo contegno a volte, ma li lasciavo fare, godendomi i loro bisticci, le sfuriate delle uniche due ragazze, ascoltando i resoconti delle loro spericolate avventure stradali, Usopp stava prendendo la patente in quel periodo e Rufy era stato bocciato per la seconda volta, e notando come tutti riuscissero a farmi sentire allegro, anche se continuavo sempre a mantenere un certo distacco.
Non era da me mettermi al centro dell’attenzione. Apprezzavo il loro interesse nei miei confronti, ma tutto aveva un limite e preferivo non lasciarmi coinvolgere troppo dai rapporti d’affetto. Come stavano le cose in quel momento mi andava benissimo.
«Ragazzi ordiniamo? Io ho fame!». Come al solito, Ace iniziò a far valere le proteste del suo stomaco brontolante, seguito subito dopo dal fratello, tale e quale a lui.
Mi permisi di lasciarmi scappare un sorriso. Non sarebbero mai cambiati quei due.
«Aspettate ancora un po’, tra poco dovrebbero arrivare altre due persone» si intromise Sanji, guardando distrattamente l’ora sul display del suo cellulare.
Nuovi individui da studiare, perfetto.
Se c’era una cosa che mi piaceva fare era mettere sotto interrogatorio le persone, soprattutto i nuovi arrivati. Psicologia era una delle mie materie preferite e mi divertivo sempre a indovinare il carattere e i gusti delle persone. Bastava un’occhiata attenta per capire tutto quello che mi serviva sapere della loro vita.
Mentre aspettavamo pazienti, osservai Bepo arrossire di fronte ai commenti di Nami e Robin le quali, ogni volta che incontravano il ragazzone accento a me, non la smettevano un attimo di accarezzare i suoi capelli, continuando a ripetere quanto fossero soffici e quanto lui sembrasse un orsetto adorabile.
La prima volta che le avevo sentite dire una cosa del genere avevo represso un brivido lungo la schiena. Povero Bepo, io non sarei mai riuscito a resistere ad una cosa del genere.
Il diretto interessato se ne stava mogio mogio tra le loro braccia, senza protestare e godendosi imbarazzato quelle attenzioni, mentre un Sanji piuttosto geloso gli lanciava occhiate assassine dall’altra parte del tavolo.
«Oh, eccoli» disse Zoro ad un certo punto, interrompendo le mie riflessioni e sbracciandosi per farsi notare da qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai di poco, giusto quel tanto che bastava per vedere con la coda dell’occhio di che razza di individui si trattava e dovetti stringere i denti e reprimere un moto di rabbia non appena riconobbi quell’orribile testaccia rossa alla quale avevo dato una bella lezione la sera precedente.

When the angels scream.

Ripensandoci bene, forse non era poi una situazione così tragica, al contrario, mi avrebbe permesso di stuzzicare quell’invasato e vendicarmi del labbro rotto che mi aveva procurato al quale ero stato costretto a mettere qualche punto la notte scorsa per evitare che la ferita si rimarginasse malamente.
Ci sarà da divertirsi, pensai, calcandomi con forza il cappello in testa, mentre Sanji e Zoro si alzavano e aggiravano le panche sulle quali erano stati seduti per dare il benvenuto ai nuovi ospiti.
«Ragazzi, loro sono Killer Slaughtering e Eustass Kidd. Ci siamo conosciuti ieri» spiegarono alla folla che li fissava sorpresi.
Trattenni una risata alla vista di quelle facce stupite e incuriosite.
Certo, é difficile non notare la chioma indomabile che si erge sopra a quella emerita testa di cazzo di, come si chiama, Eustass Kidd. Basterebbe anche solo il nome stesso a lasciare le persone a bocca aperta.
Ci stringemmo un po’ tutti e, quando mi ritrovai di fronte al poveraccio con l’occhio nero, capii che non avrei potuto rimandare l’uragano che era in arrivo, rovinando così il bel quadretto famigliare e il momento idilliaco. Così, prendendo un profondo respiro e gettando un’occhiata fuggente all’energumeno che avevo davanti, assicurandomi che fosse veramente lui, mi schiarii la voce, pronto ad usare il mio solito tono strafottente. Avevo il dono di far sembrare tutto quello che dicevo una presa in giro. E la cosa mi divertiva, mi divertiva parecchio.
«Ti chiami Eustass, giusto?» chiesi. Gli occhi nascosti dal frontino del cappello e il viso riparato dalle mani incrociate e appoggiate al mento.
Per tutta risposta, un grugnito arrivò alle mie orecchie e un cenno di assenso non sfuggì alla mia visuale protetta.
«Dimmi un po’», iniziai, sciogliendo le dita e lasciando trapelare un ghigno malefico, «Come te lo sei fatto quel brutto livido?».
Con queste parole mi levai il cappello e piantai i miei occhi nei suoi, leggendovi la sorpresa e subito dopo la rabbia, quella che animò i corpi di entrambi facendoci scattare in piedi pronti ad usare le mani per darci addosso, se necessario.
«Tu, rognoso bastardo!» tuonò con ira, sbattendo le mani sul tavolo e facendo rovesciare uno dei bicchieri dei ragazzi. Si trattenne dallo sferrare un pugno solo perché il suo compagno gli bloccò il braccio, intimandogli di calmarsi e di non fare troppo casino, altrimenti l’avrebbero sbattuto fuori.
Nel frattempo Penguin, che si era alzato nello stesso istante in cui lo avevo fatto io, percependo il pericolo, si rimise seduto, sempre tenendo lo sguardo fisso sul ragazzo imbestialito davanti a noi, il quale non la smetteva di dimenarsi per togliersi di dosso le mani dell’amico.
«Non capisci, quel moccioso mi ha preso a pugni» insistette, cedendo infine alle suppliche di Killer e sedendosi scomposto sulla sedia.
Il resto della compagnia era ammutolito e prestava attenzione allo scambio di battute con interesse malcelato e uno strano divertimento da parte di quell’incosciente di Rufy, seguito da suo fratello e da Nami, mentre Chopper, un ragazzo assieme al quale frequentavo alcuni corsi all’università, e Usopp sembravano sconvolti dalla ferocia del nuovo arrivato.
«E anche a calci aggiungerei. A proposito, come stanno i bassifondi?» sfottei, allontanandomi dal bordo del tavolo appena in tempo per non venire afferrato dalla morsa delle braccia di Kidd, il quale si era lanciato attraverso il tavolo per agguantarmi e mettermi a tacere.
«Bada a come parli o questa volta al posto della bocca ti spacco tutta la faccia» sibilò, ritornando al suo posto.
«Provaci» lo sfidai, sperando segretamente che lo facesse sul serio. Non vedevo l’ora di fargli rimangiare tutta quell’arroganza che dimostrava. Sarebbe stato un piacere metterlo fuori gioco. Di nuovo.

I want to live a life I believe.

Quando fu chiaro che non ci saremmo sopportati affatto in quelle condizioni, fu deciso che ci saremmo seduti ai lati opposti del tavolo, in modo da non darci fastidio e non azzannarci alla gola. Peccato, avrei tanto voluto riempirlo di botte fino a farlo svenire per poi amputargli un arto e darlo in donazione ai bisognosi in lista di attesa all’ospedale dove facevo il tirocinio.
Non mi risparmiai però nel dedicargli tutte le peggiori frecciatine di cui ero capace. Infatti, dopo aver ordinato qualcosa da mangiare, ovvero tutto ciò che la cucina offriva a causa dell’appetito dei due fratelli e di Zoro, passò una mezz’ora durante la quale non feci altro che sostenere lo sguardo omicida di quel buzzurro senza cervello. Nessuno dei due parlò o fece un movimento; restammo seduti e in silenzio, lui appoggiato allo schienale della sedia e con le braccia incrociate ed io nella stessa posizione iniziale, quella che usavo per concentrarmi meglio quando escogitavo qualcosa di meravigliosamente offensivo verso qualcuno.
Quella sera le mie attenzioni sarebbero state tutte per lui.
Appena arrivarono le prime pietanze sondai tutti i piatti presenti, trovando lo spunto per i miei commenti sarcastici, ma comunque apprezzati dalla maggior parte dei presenti, dato che i meno svegli scoppiarono a ridere senza ritegno.
«Ehi, Usopp, i tuoi pomodori hanno lo stesso colore dei capelli di qualcuno dei presenti. Che coincidenza».
Dopo aver notato un dito medio rivolto nella mia direzione, sorrisi beffardo e non mi feci scrupoli, sfottendolo senza pietà. Mi dispiaceva solo per il suo amico, Killer, il quale sembrava temere per la sicurezza di tutti mentre cercava di distrarsi, chiacchierando del più e del meno con gli altri per conoscerli meglio e intavolare una conversazione civile, scusandosi anche per il comportamento del suo amico.
Andai avanti così per tutto il tempo, senza tregua, fino a quando non venne deciso per voto unanime che la serata si sarebbe conclusa in un locale poco distante dove, da quello che avevo potuto capire, si esibiva Brook, un membro della compagnia di Rufy. Un altro scapestrato, fissato con la musica e determinato a sfondare come cantante e musicista.
Fuori, per bontà Divina, aveva smesso di piovere, ma in compenso si era alzato un venticello autunnale fastidioso, tanto che mi vidi costretto ad alzare il bavero del mio cappotto nero.
«Allora, ci troviamo tutti al pub?» chiese Nami, tirando fuori dalla sua borsa firmata le chiavi della macchina e avviandosi verso il parcheggio seguita poco dopo da Robin, Sanji e Zoro.
«Si, ci vediamo li tra poco» accordarono gli altri e poi anche Usopp e Chopper andarono a recuperare la loro vettura, se così si poteva chiamare una Mini verde bottiglia con il paraurti arrugginito.
Li guardai scettico, sicuro che, prima o poi, si sarebbero schiantati addosso a qualche albero o peggio, qualche pedone.
«Vi serve un passaggio? Posso fare due giri» si offrì Ace, vedendo che Killer e il balordo idiota non accennavano a muoversi.
«Non preoccupatevi, siamo in moto» affermò il biondino, sorridendogli grato per l’offerta, «A lui hanno ritirato la patente ieri se…». Un sonoro scappellotto si abbatté sulla sua testa, impedendo al ragazzo di spiegarsi, mentre l’irascibile rosso gli intimava di starsene zitto.
Mi lasciai scappare una risata e venni subito deliziato da un’occhiataccia maligna che non mi fece ne caldo ne freddo. Se voleva giocare a chi incuteva più timore che si accomodasse pure. Aveva già perso in partenza.
«Bada a non fare tanto lo spiritoso, Trafalgar» mi ammonì serio, lasciandomi perplesso nel constatare che aveva abbastanza neuroni per ricordare come mi chiamavo.
«E tu datti una calmata, Eustass-ya, o quei capelli te li faccio diventare neri a suon di calci nel culo».
Non appena pronunciai quelle parole mi ritrovai a terra, sopraffatto da un peso eccessivo e serrai gli occhi per la fitta subita alla tempia.
Mi sentii strattonare per la collottola della giacca e mi ritrovai rialzato all’altezza della faccia di Kidd, il quale mi fissava furente digrignando i denti come un animale.
Che strano colore, mi ritrovai a pensare, notando per la prima volta quelle pupille grandi e ambrate. Mi ricordarono stranamente casa mia e la sensazione di benessere che provavo a ritrovarmi tra quelle pareti con l’unica differenza che, in quel preciso istante, ero fra le braccia di quell’esaltato che non ci avrebbe messo molto a spezzarmi le ossa.
Invece, con mia grande sorpresa, si limitò ad urlarmi in faccia quanto mi trovasse stronzo e altezzoso, bestemmiando ogni tre parole e senza smettere un attimo di sbatacchiarmi a destra e a sinistra come un pupazzo.
Gli artigliai i polsi e strinsi forse, sapendo quanto le persone si infastidissero a contatto con la mia pelle fredda, sentendo le mie dita bloccare il flusso sanguigno nelle vene. Il trucco funzionò, facendo si che Kidd mollasse la presa su di me e si allontanasse scosso di qualche passo, imprecando nuovamente e assalito poi da Killer e da Rufy, il quale, in un momento di serietà, gli chiedeva gentilmente e con le buone maniere di non aggredire mai più uno dei suoi amici o se la sarebbe vista con lui.
Alzai gli occhi al cielo. Doveva sempre fare l’eroe quel ragazzino.
Bepo e Penguin mi aiutarono ad alzarmi, chiedendomi se fosse tutto a posto e tastandomi le gambe per controllare che non ci fosse nulla di rotto. La testa pulsava, ma non perdevo sangue. Mi sarei trovato con una forte emicrania il giorno seguente, niente di grave.
Ace, con tutta la diplomazia di cui era capace, si mise in mezzo con le braccia e i palmi rivolti verso due lati opposti, come a volerci tenere sotto controllo.
«Ragazzi, per favore» iniziò supplichevole, «Non so perché non andiate d’accordo, ma fate un piccolo sforzo e piantatela di comportarvi come due bambini».
Tsk, non è certo colpa mia se questo qui non sa contenersi, pensai scocciato. Tuttavia, dobbiamo raggiungere gli altri, ormai saranno già arrivati e non ho intenzione di rimanere qui al freddo in compagnia di quello svitato. E poi posso sempre sfotterlo quando Ace non è nei paraggi.
«E va bene, per me è tutto sistemato» affermai accomodante, sperando che anche il mio avversario intuisse il mio piano, rimandando il nostro scontro ad un momento più propizio.
Sembrò cogliere al volo il mio piano, il che mi fece ricredere sul fatto che non fosse dotato di un cervello funzionante e affermò lo stesso, calmandosi visibilmente.
«Mi fa piacere sentirvelo dire. Ora stringetevi la mano». Ace, per quanto fosse un bravo ragazzo, a volte era troppo pacifista e di conseguenza stupido.
Guardai schifato il rosso di fronte a me e lui fece altrettanto.
«Avanti o non ci muoveremo da qui fino a che non vi sarete decisi a trovare un accordo e sapete tutti quanto Rufy sia impaziente» minacciò, indicando il fratello minore alle sue spalle mentre si infilava le dita nel naso beato, seduto sul cofano di un furgoncino.
Sbuffai sonoramente, avvicinandomi di qualche passo, imitato dopo qualche attimo di esitazione da Kidd e, quando fummo faccia a faccia, lo vidi allungare controvoglia la mano verso di me, borbottando qualche imprecazione e fissandomi con gli occhi ridotti a due fessure.
Misi a dura prova la sua pazienza, sputandomi sul palmo della mano destra e stringendo la sua ghignando. Poi, senza dargli il tempo di replicare o insultarmi, gli voltai le spalle e mi avviai verso la macchina, affiancato in un lampo da Penguin e gli altri, lasciando quell’imbecille a cuocere nel suo brodo.

Time to do or die.






Angolo Autrice.
Fuoco e fiamme dato che, ogni volta che si incontrano, non riescono a fare a meno di scontrarsi, ma sono così fottutamente adorabili quando lo fanno. Passando alle spiegazioni che forse saranno utili: Sanji e Zoro servivano a questo, far si che i due ragazzi interessati si incontrassero e si mandassero a quel paese fin dal primo momento. Volevo dare un cognome a Killer. Non mi piaceva presentarlo solo come Killer, stonava, quindi, come avrete immaginato, Slaughtering in inglese vuol dire Massacratore. Non ho messo Butchering perché significa Macellaio, lol.
Detto questo, la canzone in questo capitolo è Do or Die dei Thirty Seconds to Mars.
Vi lascio anche stavolta uno spoiler dato che il prossimo capitolo è già pronto:
 
“Ehi Kidd, tu non vieni?” mi sentii chiedere.
“Odio queste stronzate” grugnii in risposta, deciso a non farmi coinvolgere in quelle sciocchezze per bambini.
“Hai paura di perdere, Eustass-ya?”.
Inarcai un sopracciglio scettico e squadrai la fonte del mio nervosismo, notando che batteva con divertimento la mano sul bordo del tavolo, indicandomi il posto libero accanto a lui.
Cosa stava insinuando? Che non avevo il coraggio di battere tutti e ubriacarmi gratuitamente?

Per commenti, consigli, idee e quant’altro, tutto ben accetto, sapete dove sono e grazie infinite a chi legge, recensisce o da anche solo un’occhiata! *_____________*
See ya,
Ace.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. Odio queste stronzate. ***


Capitolo 4.
Odio queste stronzate

Sfrecciavo per le strade a bordo della mia fantastica, stupenda e amata moto con Killer che mi implorava in tutte le lingue che conosceva di andare più piano o, almeno, di non passare tutti gli incroci con il semaforo rosso, rischiando di fare un incidente a detta sua mortale.

You and I will never die.

Non lo ascoltavo. Non sentivo nessuna delle sue parole cariche di paura e terrore. Se mai ci fossimo schiantati la colpa di tutto sarebbe stata solo e unicamente di quel moccioso saccente.
Chi si crede di essere? Gli faccio vedere io chi comanda, parola mia! La prossima volta non la passerà liscia e nemmeno i suoi patetici amichetti riusciranno a tenermi buono e a salvargli la pellaccia.
Quell’impiastro.
Qualche ora prima ero uscito di casa con tutti i buoni propositi per non fare casino e non prendere a pugni nessuno, tranquillizzando Killer e propenso a cercare di allargare le mie conoscenze ed essere un po’ più sociale. Quello era il compito della settimana datomi da quella svitata che mi ritrovavo come insegnante di yoga. Insisteva nel dire che circondarsi di persone amorevoli era una bella cosa e risultare cordiali era importante per instaurare le basi di un rapporto.
Per quel motivo avevo accettato di buon grado l’invito di Sanji e Zoro, sperando in una serata tranquilla e in una sbronza in compagnia ma, ovviamente, doveva andare tutto a rotoli.
La colpa non era mia quindi, io almeno ci avevo provato.
Non appena mi ero seduto al tavolo assieme a quei ragazzini mi ero subito sentito nervoso, come se qualcosa non andasse ed era bastato alzare gli occhi per ritrovarmi di fronte ad un tipo piuttosto smilzo, con un assurdo cappello in testa e una felpa gialla e nera. Non riuscivo a vedergli bene la faccia perché sembrava voler fare di tutto per nascondersi, forse per timore avevo pensato. L’avevo liquidato con disinteresse fino a che non aveva deciso di farsi avanti e parlare. Aveva qualcosa di famigliare, solo non capivo cosa e poi…
Accelerai ulteriormente e il contachilometri schizzò ad una velocità piuttosto sostenuta.
Si era tolto quel colbacco e aveva aperto bocca. Mi era bastato vedere quel ghigno da schiaffi e sentire quelle parole velenose per scattare, dimenticandomi di essere in un luogo pubblico. Anche la sera precedente non eravamo soli, per cui mi sentivo liberissimo di aggredirlo e finire quello che avevo iniziato e lasciato in sospeso, aggiungendo una bella dose di vendetta e soddisfazione personale per la sua insolenza.
Da una parte ero contrariato dall’averlo incontrato di nuovo, ma dall’altra continuavo a ripetermi che adesso avevo un nome e una faccia da ricordare così, se mai avessi deciso di organizzare un omicidio, avrei saputo chi cercare per poi farlo sparire nel nulla.
L’avrei fatto sul serio se non avesse smesso di comportarsi come se fosse migliore e superiore a me, prendendosi la libertà di sbeffeggiarmi davanti a tutti e ridicolizzarmi. E che schifo, avevo toccato la sua bava. Probabilmente aveva la rabbia o altre malattie incurabili.
In effetti sembrava malaticcio, con quelle occhiaie profonde e quell’aria perennemente pacata. Anche quando l’avevo atterrato sembrava non voler reagire. Forse si, era malato e probabilmente ora mi aveva contagiato.
E il mio nome é Eustass Kidd. Non Eustass-ya. Eustass-ya sto cazzo.
Mentre rimuginavo tra me e me, raggiunsi finalmente la periferia di Sabaody, un quartiere piuttosto malfamato e dove la sicurezza era solo una parola priva di vero significato. Le forze dell’ordine non mettevano mai piede da quelle parti, solamente quando avveniva un omicidio, ma per il resto non si scomodavano.
Il luogo ideale per far sparire qualcuno.
Scesi dalla moto con un cipiglio incazzato, ignorando le proteste del mio amico, il quale prese subito a lamentarsi e ad urlarmi dietro per il mio inesistente rispetto delle norme stradali e noncuranza del pericolo.
Quante storie, andavo solo a qualche chilometro sopra la media stabilita e, tanto per essere pignoli, non era successo nulla di grave. Almeno, non fino a quel momento perché, non appena ci ricongiungemmo agli altri, i quali ci aspettavano sotto al tettuccio spiovente della bettola malandata, il mio sguardo si incrociò per sbaglio con quello di quell’insopportabile moccioso e dovetti ricorrere a tutto il mio autocontrollo per non esplodere e dargli addosso come una furia.
Lo squarto. Lo eviro. Offrirò il suo corpo come sacrificio e ballerò intorno ai suoi resti, pensai macabro, mentre oltrepassavo la soglia, attento a non stargli troppo vicino e a non dargli le spalle. Per quanto ne sapevo avrebbe potuto aggredirmi o giocare sporco come l’ultima volta. Soprattutto, quegli occhi così, come dire, scuri non promettevano niente di buono. Al contrario, sembravano volermi risucchiare l’anima e trascinarmi nell’oblio.

It’s a dark embrace.

Il bar non era quello che si poteva definire lusso. Completamente fatto di travi di legno massiccio e ferro; il bancone degli alcolici spiccava al centro della sala mentre tutt’attorno stavano lunghe panche restaurate alla meno peggio e qualche tavolino sbilenco e mangiato dai tarli. In fondo alla sala era stato allestito un misero palcoscenico dove un ragazzo con i capelli afro, tutto pelle e ossa e con un paio di pantaloni a fiori stava accordando la sua chitarra elettrica, sostenuto da qualche curioso che lo interrogava sul suo operato.
Pazienza io che non mi ero mai interessato all’aspetto estetico e a come dovevo apparire agli occhi della gente, ma quello non aveva il minimo gusto in fatto di vestiti.
Ad ogni modo fu contento di vederci ed esultò entusiasta quando i suoi amici andarono a salutarlo e ad assicurarlo che sarebbero stati seduti in prima fila a fare il tifo per lui.
Ignorando quell’allegria generale e tenendomi in disparte, fulminando chiunque osasse avvicinarsi o urtarmi, persino i camerieri, aspettai che la smettessero di fare tutto quel baccano e che decidessero di accomodarsi da qualche parte, per quanto le sedie fossero sgangherate o traballanti. Alla fine optarono per un tavolo di medie dimensioni poco lontano dal palco e, agguantati un paio di sgabelli dalle postazioni vicine, riuscimmo a trovare tutti una comoda seduta.
Questa volta fummo ben attenti dal mantenere le distanze, lanciandoci comunque, di tanto in tanto, occhiate di puro odio a distanza, ma non persi tempo restandomene con le mani in mano. Raccolsi invece un paio di informazioni che mi sarebbero tornate utili, prima o poi, se mai avessi deciso di diventare un serial killer. Sorseggiando con finta noncuranza una birra ebbi modo di ascoltare parte della conversazione fra Killer e un idiota che si faceva chiamare Penguin, il quale andava in giro con un cappello che recava il suo nome. Stando a quello che diceva, lui e il bastardo, Trafalgar, frequentavano il terzo anno alla facoltà di medicina all’università.
Ecco perché il labbro che gli avevo rotto durante quella squallida rissa non era messo così in evidenza come avrebbe dovuto essere. Doveva esserselo fatto curare e medicare dai suoi colleghi, felici di poter mettere mano su della carne viva.
Repressi una smorfia schifata e mi scolai un altro sorso, lasciando vagare lo sguardo per la stanza e notando con stupore che il musicista, Brook, aveva appena iniziato a suonare e quello che prometteva il suo repertorio non era affatto scadente, anzi.
Reprimendo la fastidiosa sensazione di essere osservato e lottando con me stesso per non sbottare e mandare all’inferno quel medicastro, iniziai ad osservare curioso Rufy, una bomba ad orologeria che sprizzava energia da tutti i pori e che non stava ferma un minuto. Il ragazzino si era appena appollaiato su di una botte li vicino, parte integrante dell’arredamento, con la scusa di non riuscire a vedere bene l’esibizione dell’amico scheletrico. Si alzò in piedi varie volte, incitandolo ed urlando a squarciagola la sua approvazione, ottenendo in risposta svariati pollici sollevati da parte del diretto interessato.
«Ehi, Eustachio, ti stai divertendo?» mi chiese ad un certo punto, facendomi pulsare pericolosamente una vena sulla tempia.
Gli risposi con un ringhio che scambiò per un cenno di assenso, dato che mi batté una mano sulla spalla, felice della mia partecipazione.
Decisi di ignorarlo e di lasciarlo alle sue convinzioni, dopotutto andava ancora a scuola e sembrava non brillare di intelligenza propria perciò, per quella volta, l’avrei lasciato in pace. E poi era un tipo innocuo, non faceva altro che mangiare e ridere. Addirittura fu ben contento di salire sul palco con altri due suoi compagni, uno con un naso enorme e ingombrante e l’altro piccolino e di bassa statura con una faccia tonda e infantile, assieme ai quali improvvisò una danza oscena e imbarazzante che sembrò divertire i presenti, animandoli a fare il tifo e a brindare alla loro salute.
«Fanno sempre così, non vi preoccupate» spiegò Zoro, svuotando il terzo bicchiere, seguito a ruota da una delle due ragazza più ubriaca di lui.
«Ehi, tu non devi guidare?» biascicò, accortosi del suo stato e guardandola stranito.
«Nah, ci pensa Robin» lo tranquillizzò lei, ammiccando poi in direzione dell’amica in fondo al tavolo.
«Propongo una gara di bevute» se ne uscì il mio vicino e notai con orrore che si trattava nientemeno che di Killer. «Chi vince non paga il conto!» propose infine.
Cosa ci fa con una corona di fiori in testa? Quando gliel’hanno messa?
Troppo impegnato ad osservare ad occhi aperti quel suo strano ed insolito comportamento, non prestai attenzioni a coloro che si offrirono ben volentieri di partecipare, accomodandosi tutti in fila sulla stessa panca e lasciando i giudici dall’altra parte. La maggior parte di loro era già alticcia, ma sembravano ben intenzionati ad andare fino in fondo e vincere.
«Ehi Kidd, tu non vieni?» mi sentii chiedere.
«Odio queste stronzate» grugnii in risposta, deciso a non farmi coinvolgere in quelle sciocchezze per bambini.
«Hai paura di perdere, Eustass-ya?».
Inarcai un sopracciglio scettico e squadrai la fonte del mio nervosismo, notando che batteva con divertimento la mano sul bordo del tavolo, indicandomi il posto libero accanto a lui.
Cosa stava insinuando? Che non avevo il coraggio di battere tutti e ubriacarmi gratuitamente? Sciocchezze, io e l’alcool eravamo amici di vecchia data e il mio organismo ormai lo reggeva benissimo e senza troppa difficoltà. Avevo praticamente la vittoria in pugno.
Mi alzai dall’angolo in cui mi ero isolato, aggirai Rufy, attento a non urtare l’equilibrio precario della sua botte, e raggiunsi scocciato quell’imbecille, non risparmiandogli una meritata gomitata alle costole.
«Oh, scusa. Non ci stavo» mi giustificai, senza preoccuparmi del fatto che si capiva benissimo che l’avevo fatto a posta.
Assottigliò gli occhi e mi dedicò uno sguardo gelido, ma quel ghigno che gli incorniciava spesso la faccia non tardò ad arrivare, più malefico che mai.
Giurai che gliel’avrei fatto sparire a suon di pugni.
«Non giocare troppo col fuoco, Malpelo».
«Pronti?» domandò Robin, la ragazza mora, attirando l’attenzione su di sé e osservando tutti con aria tranquilla, sicuramente abituata a quelle scene.
Portai la mano al bicchiere che avevo di fronte. Non sapevo cosa ci fosse dentro, ma ero più che propenso a battere quel so-tutto-io e fargliela pagare a qualsiasi costo.
«Tappati quella boccaccia, Trafalgar!» sussurrai minaccioso.
«Via col primo round!».

In the beginning was a life, a dawning age.

Come ci ritrovammo a dover fronteggiare un gruppo di scocciatori che non la smettevano di provocarci a fare la prima mossa non lo ricordo bene.
Stavamo bevendo ininterrottamente da circa tre quarti d’ora e alternavamo boccali di birra con bicchierini di gin, vodka e rum, trovando sempre più divertente qualsiasi cosa ci capitasse di vedere.
Persino quello stronzo di Trafalgar mi risultava, se non simpatico, almeno più accomodante.
Sanji, imitando l’altro pagliaccio travestito, Penguin, era crollato da poco e se ne stava sdraiato sul ripiano del tavolo, lamentando un forte capogiro e una nausea crescente, con tanto di crampi allo stomaco. Il gruppetto di medici gli aveva assicurato che sarebbe bastato mettere la testa nel water e aspettare un po’, poi sarebbe passato tutto nel giro di cinque minuti.
Nel frattempo, Ace, Zoro, la ragazza disinibita, Killer, il medicastro ed io continuavamo ad ingerire litri e litri di alcool senza preoccuparci minimamente delle conseguenze.
Non avevo tenuto d’occhio la situazione come avrei dovuto e non mi ero accorto che quell’incosciente di Rufy aveva volontariamente offeso un membro di un altro gruppo poco distante dal palco. Stando a quello che diceva in nostro ragazzino, continuando a infierire e a farlo innervosire, l’altro aveva preso in giro Brook e la sua musica, facendo versi e sghignazzando con i suoi compagni.
Probabilmente era quello il motivo più plausibile per il quali li stavamo fronteggiando fuori dal locale, reggendoci in piedi a malapena e urlandoci contro qualsiasi tipo di insulto.
Mi girava leggermente la testa, ma riuscivo ancora a vederci bene e ad avere i riflessi pronti e i muscoli scattanti, pronto a usare le mani e la forza se fosse stato necessario. Lo stesso valeva per il resto degli sbandati che mi spalleggiavano. Ace non vedeva l’ora di difendere il suo amato e stupido fratellino; ovunque ci fossi io era ovvio che ci fosse anche Killer; la causa del battibecco, ovvero Rufy e un ghignante Trafalgar, senza la minima traccia di titubanza e tremolio alle gambe, perfettamente padrone della situazione.
Alzai le spalle, indifferente a quella sua mostra di autocontrollo e tornai a concentrarmi sui volti di quei guastafeste. Se non si fossero messi in mezzo avrei sicuramente vinto la gara, poco ma sicuro, ormai era chiaro che tutti stavano per cedere.
«Bene gente, ci penso io a sbarazzarmi di questi qui e vi farò il favore di darvi una mano in caso di bisogno» affermai, facendo un passo avanti e assumendo un’aria spavalda. Era chiaro che il più grosso ero io, il resto erano tutti piuttosto smilzi, perciò mi sembrò una buona azione prendere le loro difese e riservare tutto il divertimento per me. A conti ben fatti, non ero così egoista, mi preoccupavo solamente per la loro salute.
«Non ci pensare nemmeno! Li sistemo io!». Come se non ci fosse nulla di più importante al mondo, Rufy si precipitò al mio fianco, trattenuto a fatica dal fratello, e si tirò su le maniche del maglione rosso di due taglie più grandi, mostrando i pugni in segno di sfida.
«Non sperare di prenderti tutto il merito» aggiunse poi il medicastro, ghignando sadicamente in direzione dei nostri avversari, i quali non aspettavano altro che iniziare una classica rissa da bar, sperando forse di metterci al tappeto e lasciarci a marcire per terra. Peccato per loro che le cose non si sarebbero risolte così facilmente.
«Vi ho detto di farvi da parte» ripetei stizzito. Possibile che nessuno mi desse mai ascolto? Non avevano nessuna possibilità contro di loro, chiaramente abituati ad attaccar briga ma, evidentemente dovevano sbattere la testa più volte prima di imparare la lezione.
«Dammi ancora degli ordini Eustass-ya e giuro che sarai il primo ad essere preso a calci».
Stavo quasi per colpirlo e frantumargli le ossa, ma c’era qualcuno di più impaziente di noi che, a quel punto, decise che era arrivato il momento di smetterla di parlare e passare all’azione. Rufy prese l’iniziativa di sua spontanea volontà, cogliendo di sorpresa anche i brutti ceffi di fronte a lui i quali, stupiti che un adolescente così minuto e dall’aria infantile potesse avere tanto coraggio, si ritrovarono a ricevere pugni in faccia in pochi secondi.
Quello fu il segnale per tutti e presto diventò difficile distinguere i cattivi da i buoni, se si voleva metterla in questi termini. Noi, o meglio, la maggior parte, combatteva per il rispetto mancato all’amico musicista. Killer ed io eravamo solo gli imbucati, ma accettavamo con piacere una sana competizione, qualunque fosse la causa scatenante. Eravamo tipi spericolati, io soprattutto, e metterci alla prova ci divertiva e ci dava una scarica di adrenalina di cui non potevamo fare a meno. E poi, più eravamo capaci di difenderci, meno venivamo coinvolti e presi di mira da bulli da quattro soldi o ladri, rapinatori e quant’altro. La solita gentaglia che si incontrava frequentando spesso brutti posti.
Ad un certo punto udii un inquietante crack e un urlo straziato, girandomi appena in tempo per vedere un ragazzo crollare a terra sofferente, stringendosi un polso al petto, mentre l’autore del suo male lo fissava dall’alto, con le mani nelle tasche della giacca e un’espressione compiaciuta.
Quando si accorse di essere osservato, sollevò il capo piantando un paio di occhi grigi e soddisfatti nei miei, facendomi deglutire a fatica.
Cosa gli ha fatto quel bastardo? Con quello sguardo sarebbe anche capace di averlo ammazzato. Guarda che occhi da pazzo! E’ posseduto dal Demonio, senza dubbio.
Si strinse nelle spalle, indicandomi poi con un dito di fare attenzione a chi mi stava dietro, salvandomi appena in tempo dal ricevere una pesante sprangata sulla schiena data da un bidone della spazzatura dentro al quale ci feci finire, pochi istanti più tardi, il malcapitato che aveva osato anche solo provare a rendermi inoffensivo.
Con quel colpo si concluse tutto. Li avevamo battuti senza troppa difficoltà e senza subire pesanti danni. Rufy, a discapito di tutto, non aveva nemmeno un graffio. Ace, al contrario, era ansimante e piuttosto stanco per aver fatto il doppio del lavoro nel tentativo che sulle spalle del fratello più giovane non gravassero troppi uomini con l’intento di prendere di mira il più piccolo e, secondo loro, debole. Zoro e Sanji si sostenevano a vicenda, dandosi delle confortevoli pacche sulle spalle, ma sani e senza nulla di rotto a parte qualche ematoma violaceo che spuntava già sulla superficie delle loro facce. Killer, dopo un’attenta occhiata, sembrava ancora carico e deciso a continuare se ce ne fosse stato bisogno e continuava a ripetere a Penguin-nanerottolo, il quale sembrava essersi ripreso dal malessere precedente, che il taglietto appena accennato sopra al sopracciglio non aveva bisogno di nessuna sutura.
Era andata piuttosto bene alla fine.
Mi schioccai le nocche e feci un respiro profondo sentendomi subito più leggero. La tensione accumulata durante la settimana si era affievolita e mi sentivo già più propenso a calmarmi e a non farmi prendere la mano dagli scatti d’ira. Nessuno avrebbe potuto scalfire la mia apparente tranquillità, ero troppo rilassato e contento di aver rotto qualche setto nasale.
«Ehi, Eustass-ya, speravo in qualcosa di meglio da parte tua».
Chiusi gli occhi e digrignai i denti.
A quanto pare c’è qualcuno che può farmi incazzare anche in questo momento.

Time to be alive.

 

 

 
Angolo Autrice.
Quarto capitolo arrivato! Anche qui continua Do or Die dei Mars. Comunque si, Kidd ha come mezzo di trasporto un bolide nero super cattivo che venera e che ama spingere al massimo. Ovviamente una bella rissa non poteva mancare e se avete notato qualche similitudine tra questa scena e quella dell’incontro tra questi tre personaggi a Sabaody, quando litigano per eliminare i marines, beh ci avete visto giusto. Le parole si sono scritte da sole in realtà. Poi, quanto carino non è Penguin che, anche se ubriaco marcio, fa il suo dovere e si preoccupa per Killer?
Law ha rotto il polso ad uno degli avversari. Si, è sadico, ma figo.
Kidd ha gravi problemi di autocontrollo come vedremo nel capitolo 5.
Passiamo al piccolo spoiler, giusto per non rovinarvi tutto:
 
Allungai una mano e scostai un poco le coperte per vedere in faccia la realtà che, con forza e brutalità, si stava facendo strada dentro di me.
Dio, ti prego, prendimi adesso.

*

Non riuscii a trattenermi dal lanciare un imprecazione colorita, sussultando e scattando a sedere, urtando involontariamente il corpo accanto a me e facendolo piombare con un sonoro tonfo a terra.
“Cosa cazzo ci fai a casa mia, razza di imbecille?”.
 

Sapete dove trovarmi per qualsiasi cosa. E grazie sempre a tutti, dal primo all’ultimo, davvero.
See ya,
Ace.

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5. Un letto sfatto e un tacito accordo. ***


Capitolo 5.
Un letto sfatto e un tacito accordo

Sospirai beato, rigirandomi nel letto con un mugolio soddisfatto, grato del calore che fornivano le lenzuola felpate e il piumone di mezza stagione. Anche se era solo ottobre faceva già abbastanza freddo fuori e il tempo preannunciava un inverno gelido e nevoso.
Affondai il viso nel cuscino morbido e ignorai la sveglia, sperando di ritornare a dormire ancora un po’. Anche il dormiveglia non mi sarebbe dispiaciuto. Senza riflettere aprii gli occhi e sbattei più volte le palpebre per abituarmi alla luce fioca presente nella stanza, fissando lo sguardo sul comodino accanto al letto. Era tutto insolitamente silenzioso e dalle altre stanze non giungevano rumori molesti come pentole che sbattevano o le note di una radio accesa. Regnava la calma nell’appartamento che condividevo con i ragazzi, il che era strano, ma ipotizzai che forse erano solo tutti stanchi e troppo sbronzi per svegliarsi e girare per casa.
Decisi così che avrei passato la mattinata a poltrire, approfittando di quella splendida occasione per dormire fino a tardi, cosa che mi concedevo di rado, addormentandomi spesso ad improponibili ore della notte sulla scrivania con un volume di anatomia e una lampada a vegliare su di me.
Quando mi risvegliai, rendendomi conto di essermi riaddormentato senza accorgermene, potevo distinguere meglio le fattezze della camera da letto dato che, molto probabilmente, il sole era già alto nel cielo.
Guardandomi meglio intorno corrugai la fronte, chiedendomi quando avevo fatto tingere il soffitto di grigio. Forse era solo un gioco di luce. Il problema era che io non avevo nemmeno un piumone a scacchi rossi e neri, tantomeno il mio comodino consisteva in un’enorme cassapanca in legno d’ebano.
Mi stropicciai gli occhi con una mano per cercare di vederci meglio. Magari stavo ancora sognando e mi ero immaginato tutto ma, quando ormai mi ero deciso ad alzarmi e verificare tutto sotto un attento studio, qualcosa si mosse sotto alle coltri e mi fece immobilizzare sul posto.
Ma cosa diavolo…?
Quando un corpo rotolò verso di me e un peso che non avrebbe dovuto esserci fece pressione sulla mia schiena, schiacciandomi bellamente la faccia sul materasso mi sentii mancare il respiro.
Ero sempre stato un tipo calmo e capace di tenere la situazione sotto controllo, ma in quel momento qualcosa era sfuggito ai miei calcoli per la prima volta, lasciandomi interdetto.
Ma dove cazzo sono finito?
Un leggero russare arrivò alle mie orecchie, così sbuffai e alzai gli occhi al cielo, incapace di fare altro, stupito e ancora stordito dalla bizzarra ed inaspettata piega che aveva preso la giornata.
Andiamo, quanto dovevo aver bevuto la scorsa notte? Talmente tanto da ritrovarmi a casa del primo sconosciuto che mi aveva fatto il filo? Mio Dio, come ero caduto in basso. Pazienza, dovevo solo alzarmi lentamente e senza movimenti bruschi, raccogliere la mia roba e svignarmela il prima possibile per evitare situazioni imbarazzanti e spiegazioni che avrei preferito non dover dare. In un altro momento me ne sarei altamente fregato e avrei indossato la solita maschera da menefreghista, ma non ero dell’umore adatto. Sentivo che qualcosa non andava e avevo la netta sensazione che, se avessi scoperto la faccia di colui che mi dormiva addosso, mi sarei autopunito duramente.
Con tutta la calma e la gentilezza di cui ero capace feci forza sulle braccia, come faceva Ace quando decideva di mettersi a dieta e fare flessioni a caso, sollevandomi un centimetro alla volta e scrollandomi più piano che potevo di dosso quello che non poteva definirsi peso piuma.
Lo sentii sbadigliare e spostarsi di sua spontanea volontà, brontolando qualcosa di incomprensibile per poi beccarmi un calcio su un fianco, rischiando anche di finire fuori dal bordo del letto che scoprii essere da una piazza e mezza.
Mi passai una mano sul volto e poi fra i capelli, tirando leggermente le ciocche e digrignando i denti, dandomi mentalmente dello stupido per essermi cacciato in un guaio come quello.
Devo essermi lasciato andare parecchio per non ricordare nemmeno cosa é successo dopo la rissa.
L’unico ricordo che mi sembrava chiaro e non troppo sfocato era di aver accettato la proposta di uno dei ragazzi a bere ininterrottamente e gratis. Probabilmente Brook doveva essere stato entusiasta dell’esibizione e del successo ottenuto e aveva deciso di offrire lui per tutti. Si, mi ero dato alla pazza gioia per quel motivo, ne ero quasi certo.
E poi che ho fatto? Ho bevuto come un dannato, ma oltre a questo? Ah, la testa mi gira e ho le gambe bloccate da quelle di questo balordo che se non la smette di agitarsi gli amputo un braccio.
Mi voltai verso l’essere umano che mi respirava affianco per fulminarlo con una delle mie occhiate micidiali che, se avesse potuto vedere, l’avrebbero fatto dormire per sempre, ma dovetti cambiare un’altra volta le mie intenzioni non appena notai degli orribili ed inquietanti ciuffi rossi spuntare da sotto al lenzuolo.
No, maledizione! Non può essere…
Allungai una mano tremante e scostai un poco le coperte per vedere in faccia la realtà che, con forza e brutalità, si stava facendo strada dentro di me.
Dio, ti prego, prendimi adesso.
Invocai la morte appena mi resi conto effettivamente in che razza di casino mi ero cacciato.
Quella testaccia rossa di Eustass Kidd dormiva profondamente e senza la minima traccia di turbamento in volto, sfoggiando invece una perfetta espressione rilassata e soddisfatta.
Non riuscii a trattenermi dal lanciare un imprecazione colorita, sussultando e scattando a sedere, urtando involontariamente la massa informe accanto a me e facendola piombare con un sonoro tonfo a terra.
Se prima avevo pensato di darmela a gambe, ora desideravo ardentemente sparire, specie dopo averlo sentito proferire le prime bestemmie rivolte a qualunque entità in ascolto.
Fissai con orrore una mano spuntare oltre il bordo di quella sottospecie di branda da quattro soldi e aggrapparsi con forza ai primi stracci di stoffa che le capitarono a tiro, arrivando poi a sollevare il busto, le spalle, una faccia incazzata e una chioma fulva indomabile.
Non appena quegli occhi spiritati incrociarono i miei e capirono la situazione iniziò il delirio che avrei tanto voluto evitare più di ogni altra cosa al mondo. Ma ciò non era possibile, per cui tanto valeva che mi rimboccassi le maniche e che mi buttassi a capofitto in quella bufera per divertirmi e uscirne vincitore, come sempre.
«Cosa cazzo ci fai a casa mia, razza di imbecille?» urlò quel brutto muso da schiaffi davanti a me, alzandosi in piedi e lanciando per aria uno dei cuscini, sollevando una nuvola di piume.
Grazie al Cielo indossava i boxer.
Sfoggiai il mio ghigno più fastidioso, incrociando le braccia al petto e osservandolo mentre faceva una classica scenata da malato di mente, ergendosi minaccioso sotto il mio sguardo.
«Me lo sono chiesto anche io, Eustass-ya, anche se le circostanze parlano chiaro» dissi calmo, adocchiando le condizioni precarie del letto e alcuni vestiti lanciati a caso addosso ai ripiani presenti nella stanza. Per quanto avessi cercato di non pensarci, non appena mi ero reso conto di non trovarmi a casa mia, dove avrei dovuto essere, avevo capito che svegliarsi in un letto che non era il mio, ma quello di uno sconosciuto, in questo caso della fottuta testa rossa, voleva dire solo una cosa.
«Non mi verrai a dire che io e te abbiamo fatto sesso!» fece sconvolto senza tanti giri di parole, allargando le braccia in modo teatrale e lasciandole ricadere lungo i fianchi quando gli diedi la risposta che temevamo entrambi di sentire.
«Per quanto mi faccia schifo pensarlo, si». Non perdere l’autocontrollo e mantenere un certo distacco erano le soluzioni migliori.
Il silenzio che seguì fu parecchio imbarazzante e il fatto di non sentire le sue patetiche e prevedibili frasi da pazzo non mi diede quella dose di sicurezza di cui avevo bisogno. Insomma, se lui sclerava e dava di matto potevo benissimo gestirlo e trovare una soluzione, ma se si comportava diversamente, come una persona razionale, allora non avevo idea di come reagire di conseguenza.
Mi era bastata un’occhiata per capire con che tipo avevo a che fare e per spere come agire nei suoi confronti, come rispondere e come atteggiarmi. Lui e la tranquillità non andavano d’accordo, era ovvio. Preferiva le maniere forti, ma in quel momento sembrava deciso ad andarsene avanti e indietro per la stanza, passandosi convulsamente le mani fra i capelli, scompigliandoli ulteriormente. Il tutto davanti al mio sguardo sorpreso, mentre me ne stavo ancora seduto e al caldo.
All’improvviso decise di aprire bocca, sbottando infastidito.
«Non mi ricordo niente» ammise, sedendosi ai piedi del letto e dandomi le spalle, sbuffando come una locomotiva.
«Nemmeno io» sospirai, «E per fortuna, aggiungerei, probabilmente resterei traumatizzato dalla tua performance».
Si voltò per dedicarmi uno sguardo omicida e infastidito oltre ogni limite.
«Vedi di sparire al più presto dalla mia vista» sibilò acido, indicandomi la porta.
Sorrisi sornione, «Con piacere». Così dicendo mi liberai delle lenzuola e, senza curarmi del fatto di essere osservato, mi alzai e mi stiracchiai con tutta calma come un gatto, allungando le braccia verso l’alto e inarcando la schiena. Sapevo che mi stava studiando, ma mettere a disagio le persone faceva parte del mio carattere.
Raccolsi i pantaloni da terra e li infilai, cercando con lo sguardo la mia felpa e trovandola adagiata malamente su una sedia poco distante.
Mentre la raddrizzavo notai con la coda dell’occhio che quell’idiota non si era mosso dalla sua postazione e osservava la scena con una smorfia divertita che si allargava sempre di più sul suo viso. Il che mi fece scattare come una molla perché l’unico che poteva permettersi di ridere a costo degli altri ero io, perciò non gli avrei permesso di continuare a ghignare a mie spese.
«Che c’è Eustass-ya, non riesci a staccarmi gli occhi di dosso?» chiesi malizioso, con l’intenzione di farlo arrabbiare e perdere le staffe, così da poterlo beffeggiare ancora un po’ prima di andarmene.
Ignorando totalmente i miei commenti scosse la testa con finta esasperazione, decidendosi poi ad alzarsi e, con mia sorpresa, avvicinarsi e strapparmi con decisione la maglia dalle mani, lasciandola ricadere dove l’avevo recuperata poco prima.
Tornò serio e ci fronteggiammo per qualche istante, durante il quale non gli risparmiai un’occhiata furente di sfida.
Entrambi sostenemmo una gara di sguardi, scavando a fondo per cercare di capire le reciproche intenzioni e sperando di ricordare qualcosa, un minimo particolare magari, della notte trascorsa.
Non so cosa di preciso fece scattare entrambi, ma ad un certo punto ci lanciammo uno sulle labbra dell’altro in una lotta per la supremazia fatta di morsi e baci roventi.
Non era il momento di essere responsabili, per niente, e più tardi, quando ci avrei ripensato seriamente, avrei dato la colpa all’alcool ingerito ancora in circolo per avere una spiegazione plausibile e abbastanza credibile che giustificasse le mie azioni.
Non so se mi sconvolgesse di più il fatto di trovarmi di nuovo sdraiato a letto con quel bastardo esaltato o di dover ammettere che quei baci e quelle carezze così rudi e fatte per mettere in chiaro chi dei due comandava erano il mix migliore che avessi mai provato sulla pelle.
Mi sentii tirare i capelli e in risposta gli morsi una spalla, deciso a non farmi sopraffare e a fargli capire che non l’avrei lasciato vincere, non quella partita.
«Non provarci nemmeno, Trafalgar. A questo gioco comando io» sussurrò ghignando, ma potei benissimo percepire la sua determinazione e la promessa che quelle poche parole celavano. Non avrebbe ceduto e non ero intenzionato a farlo nemmeno io.
Sarebbe stata una battaglia alla pari.
Ormai ricordavo sempre più con chiarezza la dinamica di quell’insolito sabato sera. Avevamo bevuto tutti quanti, tanto che Kidd non ce la faceva nemmeno a salire in moto e a mantenersi in equilibrio, così avevo finito per accompagnarlo a casa a piedi, camminando in modo precario sulle mie gambe mentre lui si teneva appoggiato alla moto che spingeva con fatica tra una risata e l’altra. A quanto pareva gli alcolici e la birra avevano favorito l’intesa tra di noi e la simpatia reciproca, la stessa simpatia che era scomparsa non appena ci eravamo guardati negli occhi quella mattina, riscoprendo quel sentimento di fastidio nel ritrovarci nello stesso posto allo stesso momento. E per giunta sotto le stesse lenzuola.
Sentimento che persisteva, anche se stavamo disfacendo il letto più di quanto non avessimo già fatto poche ore prima.
Ricordavo vagamente che Ace, uno dei meno brilli, aveva portato a casa il suo piccolo fratellino, Bepo e Penguin, dando un passaggio anche all’amico del rosso con il nome da omicida, Killer. Per quel motivo mi ero ritrovato da solo, senza un mezzo di trasporto e ubriaco marcio assieme a quel demente, arrivando a seguirlo fino a casa sua, senza nemmeno aspettare di arrivare alla porta d’ingresso prima di baciarlo senza un valido motivo, cogliendolo alla sprovvista e venendo ricambiato subito dopo.
Perché me lo ricordavo perfettamente, era tutto nitido. Avevo iniziato io quel delirio, ero stato io a baciarlo. Ogni azione era partita da me e sperai vivamente che avesse dimenticato quel particolare e che avesse prestato più attenzione a quello che era successo dopo, dentro casa, dal corridoio fino alla sua stanza. Ricordavo anche quello.
«Alzati» ordinò ad un tratto, interrompendo la scia di morsi che mi stava lasciando sul collo e scendendo dal letto, strattonandomi per un braccio.
«Non avrai intenzione di sbattermi addosso al muro spero, perché non te lo permetterò» affermai categorico, avvisandolo per tempo che non avrei fatto la parte della bambola nelle sue mani di nuovo. Poteva dimenticarselo. Quella notte era stata solo un’eccezione.
Ghignò prima di darmi le spalle, trascinandomi dietro di sé, «Te lo ricordi allora».
«Togliti quell’espressione compiaciuta dalla faccia, Eustass-ya. Non si ripeterà».
«Tu dici?».
 
* * *

Psichiatria: mosaico di nozioni articolate che si arricchisce continuamente di nuove tessere, recitai mentalmente.
La biblioteca dell’università era sempre stato un luogo perfetto per studiare, soprattutto il mercoledì pomeriggio, quando era praticamente deserta dato che quasi nessuno si fermava dopo i corsi a ripassare qualche materia per recuperare degli esami o semplicemente per portarsi avanti col programma. Per quanto mi riguardava era piacevole quel silenzio e quella tranquillità gratuita, senza gente che ti correva intorno litigando per il telecomando e senza sentire i pugni continui che sbattevano sulla porta del bagno per incitare chi era dentro a muoversi e uscire. Era esattamente ciò che succedeva in appartamento e non potevo lamentarmi: se volevo fare economia e non spendere troppo, arrivando all’università in poco tempo la mattina e vivere in modo indipendente dovevo sopportare in silenzio e accettare la confusione che creavano i miei tre coinquilini.
Il peggiore era Penguin. Sembrava che nelle sue vene scorresse un fiume di energia rinnovabile, facendo si che il diretto interessato avesse sempre voglia di fare qualcosa di eccitante, come correre per la casa con i pattini; imparare il karate seguendo lezioni su internet e sferrare colpi ai soprammobili presenti nel salotto; ascoltare musica alle tre del mattino e cucinare ogni giorno ricette di altri paesi, rischiando di far venire una gastroenterite a tutti.
Quello era uno dei motivi principali per cui spesso saltavo il pranzo o la cena, mangiando solo qualcosa a colazione e un frutto durante il giorno con alcune eccezioni quando uscivamo a prendere una pizza in compagnia.
Si, avevo un leggero disordine alimentare, ma potevo gestirlo e fino ad allora non avevo avuto problemi gravi. Potevo resistere benissimo in quelle condizioni.
Mi spaventava a volte, non era sempre stato così iperattivo, al contrario. Era, come dire, un tipo responsabile. Adorava i bambini, piaceva agli adulti e per questo era sempre lui quello che manteneva le relazioni con i vicini e andava alle riunioni di condominio ma, da quando era cambiato, dovevamo fare a turno. Insomma, non avevo ben capito cosa gli fosse accaduto, lui diceva solo che nella vita non voleva essere colto impreparato, ma da un anno sembrava deciso ad essere aggressivo e pronto all’azione in qualsiasi istante.
Bepo era il più tranquillo forse. Aveva un’indole calma e accondiscendente e ci sosteneva sempre nelle nostre imprese o nei nostri progetti, aiutando chi aveva bisogno e dimostrandosi sempre cordiale e gentile. Anche lui aveva preso a seguire Penguin nella sua assurda idea di fare karate, dimostrandosi molto disciplinato e portato per lo sport, tanto che aveva preso a seguire un corso serio e utile in una delle palestre di Sabaody, poco fuori dal centro della città.
Per quanto riguardava Ace non sapevo bene come descriverlo. Era come un fratello maggiore per tutti: pacifico, protettivo, affezionato ai suoi amici e frequentava l’ultimo anno all’università. Insegnava kick boxing nel tempo libero e la cosa lo appassionava molto e gli dava soddisfazione. Durante le feste, invece, si improvvisava piromane, procurandosi una numerosa scorta di fuochi d’artificio che, la maggior parte delle volte, esplodevano prima di venire accesi, ma non mancavano mai di fare scintille e luci colorate.
Ci chiedevamo spesso dove li trovasse o chi glieli vendesse, ma era sempre stato zitto su questo punto e dava a tutti risposte vaghe e ambigue per mantenere un velo di mistero in tutto ciò. Ci avevamo fatto l’abitudine ormai, bastava solo che non si facesse troppo male rischiando di perdere una mano, un braccio o sfigurarsi la faccia. In quel caso avrebbe avuto tre medici in casa ad occuparsi di lui.
A concludere il quadretto c’ero io e, per quanto mi trovassi bene in loro compagnia, cercavo sempre di non intralciarli e lasciare che svolgessero le loro attività senza intoppi, stando spesso all’università per studiare, senza disturbare o venire disturbato.
Andava bene, ci trovavamo spesso d’accordo e in sintonia, ognuno era libero di andare e venire quando voleva e a qualsiasi ora e se c’erano problemi eravamo pronti a darci reciprocamente un aiuto. Dalla nostra parte avevamo un’amicizia che durava da molti anni ormai: Bepo, Penguin ed io ci conoscevamo da quando eravamo piccoli e Ace si era unito a noi solo da un pezzo ormai, legando subito con tutti e conquistando anche la mia solita diffidenza per gli sconosciuti, sopportando senza fastidi il mio cinismo e il senso dell’umorismo sarcastico che sfoggiavo di solito. Non si sentiva a disagio tra di noi e la mia solita freddezza non lo disturbava. Si sentiva un po’ inquieto quando ero infastidito.
Non arrabbiato, figuriamoci. Arrabbiarsi significava perdere il controllo e a me non succedeva mai. Per il resto andava tutto bene.
Chiusi il libro di medicina e finii di annotare gli ultimi appunti, ammucchiando le mie scartoffie, penne e matite e mettendo tutto nello zaino notando che l’orologio appeso alla parete segnava le sei passate. Non era tanto tardi, forse potevo arrivare a casa con gli ultimi raggi di luce, prima che il sole tramontasse all’orizzonte.
Salutai un paio di studenti del quarto anno che stavano ultimando un progetto e uscii dall’edificio, chiudendomi il cappotto e alzando il bavero, pronto per tornare a casa. Feci per calcarmi il cappello in testa, ma ricordai che l’avevo perso durante il fine settimana. Dovevo ritrovarlo al più presto o non sarei più riuscito a dormire la notte.
Era stata una giornata tranquilla, come al solito. Niente intoppi o contrattempi; il sole era insolitamente alto e rendeva l’aria autunnale meno gelida rispetto agli ultimi giorni; lungo la strada alcuni venditori ambulanti offrivano cibi e specialità calde e le persone si affrettavano per le strade a tornare a casa da lavoro.
Era un giorno stupido il mercoledì. Noioso ed inutile.
L’appartamento in cui abitavo non distava molto dalla facoltà, perciò ogni giorno facevo una passeggiata all’aperto, senza bisogno di usare l’auto. Meno la sfoggiavo, meglio era e a nessuno passava per la mente l’idea di rubarmela.
Ero piuttosto geloso delle mie cose e difficilmente le prestavo agli altri.
Svoltai a sinistra seguendo il marciapiede e raggiungendo il mio quartiere dove quattro stabili e un paio di casette si fronteggiavano, affiancati da un modesto parco e da una serie di negozi di alimentari e cianfrusaglie.
Attraversai la strada e raggiunsi l’edificio di tre piani che ospitava il mio appartamento, preparandomi ad una doccia calda e rilassante, una cena a base di cibo da asporto per poi stravaccarmi su una poltrona a leggere qualcosa.
Era una bella immagine e, mentre vagliavo i possibili libri da sfogliare salendo le scale, il telefono iniziò a vibrare nella tasca posteriore dei jeans.
«Pronto?» risposi, senza controllare il display e tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla mentre cercavo di infilare la chiave nella toppa. Era una delle regole principali della convivenza con gli altri: chiudere sempre la porta a chiave, anche se in casa c’era qualcuno. Per farla breve, Bepo aveva una specie di fobia degli estranei e malintenzionati.
«Ho trovato il tuo dannato cappello» fece una voce scocciata dall’altro capo.
Un piccolo sorriso fece capolino sul mio viso, nascosto dal collo alto del giubbotto, mentre sospiravo sollevato alla buona notizia ricevuta.
«Come sei stato gentile a dirmelo, Eustass-ya» sfottei. Un modo come un altro per ringraziarlo senza doverlo fare apertamente e in modo diretto. Non era nel mio stile e di certo non gli avrei dato quella soddisfazione.
«Vaffanculo. La prossima volta che ci vediamo dovrai pregarmi per riaverlo» grugnì stizzito, riattaccando subito dopo.
Alzai gli occhi al cielo ghignando, lieto del fatto di aver ritrovato una delle cose a cui tenevo di più al mondo, anche se l’idea di doverlo lasciare nelle mani di quello scapestrato fino alla fine della settimana mi lasciava un po’ a disagio. Per quanto ne sapevo avrebbe potuto decidere di farmi uno scherzo di cattivo gusto e farmelo ritrovare a pezzi. Se così fosse stato avrei ridotto in brandelli lui stesso.
Entrai in casa e chiusi la porta, lasciando le chiavi sulla mensola appesa al muro e tolsi cappotto e sciarpa prima di adagiare lo zaino a terra. Odiavo il disordine e mai avrei fatto come Penguin ed Ace, ossia lasciare le scarpe davanti all’ingresso e cartelle e abiti sparsi per il corridoio. Non abitavamo in un porcile ed ero ancora sicuro che i miei compagni non fossero maiali, non del tutto almeno, anche se stavo iniziando a riconsiderare l’ipotesi mano a mano che il tempo passava.
«Ciao Traffy!» urlò una voce alta e allegra che conoscevo troppo bene. A quanto pareva avrei dovuto dire addio alla tranquilla serata che avevo programmato dato che Rufy era venuto a farci visita per salutare il fratello e passare un po’ di tempo in sua compagnia.
Rispondendo al saluto e sorvolando sul fatto che il ragazzino stesse facendo uno spuntino seduto comodamente sul divano in soggiorno, spargendo briciole ovunque, notai un nuovo messaggio sullo schermo del telefono che adagiai sul tavolino in centro al salotto.
Vedi di riportarmi i joystick per la playstation. So che li hai presi tu, bastardo.
Ghignai e ignorai la richiesta, lasciando il povero Eustass in preda alla rabbia per non poter giocare e passare il tempo a bruciarsi quei pochi neuroni che gli rimanevano nel cervello.
Era passato più di un mese ormai da quella fottuta sera, quando avevo dormito da lui. Successivamente, senza sapere di preciso come, avevamo stabilito con un tacito accordo che una volta alla settimana ci incontravamo e passavamo qualche ora assieme. Praticamente, la maggior parte delle volte, il weekend lo passavamo a scopare e a entrambi stava bene così. Gli insulti non erano diminuiti, forse erano addirittura aumentati e peggiorati, ma la cosa non mi creava problemi. Era un gioco malsano, ma estremamente divertente.
Scrissi una risposta veloce per poi spegnere il telefono e godermi la serata senza le lamentele di quell’idiota.
Cercali su eBay. Potrei guadagnare qualche soldo se li vendessi, Eustass-ya.

 


Angolo Autrice.
Eccolo in orario perfetto, come vi avevo promesso. E, per la prima volta, ho deciso di dedicarlo a qualcuno. Quindi Grazie FlameOfLife, questo è per te.
Basta smancerie, adesso vi chiedo un attimo per spiegarvi una cosa. Allora, qui si passa per uno spazio temporale. Law si risveglia a casa di Kidd dopo una soddisfacente serata e i due iniziano una relazione malsana. E’ troppo presto per chiamarla così, quindi sono, in poche parole, diventati amici di letto. Da quel risveglio è passato più o meno un mese, quindi da inizio ottobre siamo alla prima metà di novembre, e la cosa va ancora avanti e continuerà ad essere così.
Per adesso.
Spero di essermi spiegata bene e che il capitolo sia piaciuto ^^ niente canzoni questa volta, non ci saranno sempre.
Ora vi lascio miei seguaci, andate in pace e buona serata! Oh, e un Grazie a tutti, nessuno escluso!

See ya,
Ace.
 

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Capitolo 7
*** Speciale Halloween. Ora tu, se lo vuoi, canta la Ballata della Zucca con noi. ***


-Speciale Halloween-
Ora tu, se lo vuoi, canta la Ballata della Zucca con noi

Bimbi e bimbe di ogni età, ecco qualcosa che vi stupirà!

Tutti credevano che quel vestito fosse osceno, scontato, da pezzenti. Una vera e propria sciocchezzuola.
Io lo trovavo carino. Si, semplicemente carino. Non troppo ingombrante o complicato, ma semplice, facile da mettere e da togliere. In più si accompagnava in modo impeccabile al mio soprannome.
Penguin.
Mi chiamavano così perché a volte dondolavo sui talloni come un pinguino. E anche perché i miei colori erano il bianco e il nero. Oh, quasi dimenticavo, il pinguino era anche l’animale che mi piaceva più di tutti in assoluto, nonché il mio totem, come mi era stato confidato da uno sciamano quando ero un adolescente credulone. In più avevo un cappello con su scritto a caratteri cubitali Penguin e un altro con le alette del suddetto essere vivente, completo di occhi e becco che indossavo durante le mie uscite di tanto in tanto in inverno.
Così, quella sera, non avevo voluto essere originale, ma bensì banale e prevedibile, indossando un fottuto costume col petto bianco, le pinne al posto delle maniche, scarponi neri e una deliziosa codina nera che scendeva dalla base della schiena e lungo le gambe. Più il cappello.
Armato di lanterna, buonumore e una bizzarra borsa di pezza arancione a forma di zucca, iniziai a fare il giro dell’isolato per il classico ‘dolcetto o scherzetto?’, incontrando gli altri bambini del quartiere e unendomi a loro, dividendoci il bottino in parti uguali e sporcandoci la faccia di cioccolato.
Da quando mi ero trasferito li, dividendo l’appartamento con i miei compagni di corso, nonché migliori amici, avevo preso il vizio, ogni anno, di passare parte di quella festa con i miei vicini e, anche se mi ritrovavo seduto sulla veranda di una casa a raccontare storie dell’orrore a dei bambini delle elementari che mi guardavano con occhi adoranti, mi andava bene.
Gli altri andavano sempre e solo in discoteca a rimorchiare e ubriacarsi e spesso tornavano con qualche setto nasale rotto, nocche sbucciate e una sbronza colossale, ma non potevo costringerli a rinunciare al loro divertimento. Perciò era stato deciso di comune accordo che, non appena i bimbi venivano richiamati per il coprifuoco dai genitori, ben felici di lasciarli in custodia ad un ragazzo all’apparenza responsabile, io mi sarei disfatto di ogni vestito imbarazzante e li avrei raggiunti ovunque si trovassero. In questo modo tutti eravamo felici.
E funzionava alla grande l’organizzazione.
Quell’anno, stanco di vestirmi da Stregone, Cavaliere Nero, Scheletro e atre cavolate, avevo scelto di essere me stesso.
«Un fottuto pinguino» aveva constatato Law con sarcasmo, guardandomi dall’alto in basso e sperando che stessi scherzando e che non avessi sul serio l’intenzione di andare in giro conciato in quel modo.
Avevo alzato le spalle e l’avevo salutato, uscendo di casa e scendendo in strada dove una decina di bambini tra cui Streghette, Batman, Uomini ragno e Fantasmini mi attendevano impazienti con quei faccini allegri ed entusiasti.

Su, venite è proprio qui! E' il paese di Halloween!

Ed ora stavamo gironzolando lungo il marciapiede, poco distante dalle nostre abitazioni, mentre tutt’attorno a noi brillavano zucche decorate con facce spaventose, sorridenti e tristi. Disegni erano appesi alle finestre delle case e alcuni spaventapasseri erano stati piantati fuori in giardino con abiti stracciati per incutere timore e fare scena. Il posto più terrificante rimaneva il parco poco distante dal quartiere, giusto dall’altra parte della strada. Un posto incantevole durante l’anno, ma nessuno si azzardava ad andarci durante la notte di Halloween da quando un vicino aveva giurato di aver visto svolazzare un fantasma. Che fosse vero o no poco importava, da quel momento era diventato off limits la notte del trentuno ottobre di ogni anno. Qualcuno gironzolava con i genitori; i più grandicelli andavano in giro ridendo e scherzando e noi, povere anime, cercavamo un modo per convincere una vecchia signora bisbetica a darci qualche cioccolatino o caramella al posto di frutta andata a male.
«Signor Penguin! Signor Penguin! La nonnina non vuole aprirci» si lamentò una bimba con dei lunghi boccoli biondi e con un paio di occhi azzurri, risaltati dalle guance paffute e rosee che gonfiò arrabbiata mentre mi strattonava per un lembo del vestito per attirare la mia attenzione.
«Calma bambini, forse la Signora è andata a dormire. Possiamo provare più avanti, che ne dite?» cercai di spiegare nell’intento di calmarli.
«Ma la luce è accesa!».
«Lanciamole le uova come nei film!».
«Si! Oppure bruciamole la casa!».

Questo è Halloween, spaventoso Halloween. Dacci un dolce o il terrore ti attanaglierà.

«Ragazzi, ma dove le imparate queste cose?» chiesi allibito e preoccupato. Se non li tenevo buoni una volta cresciuti avrebbero potuto farli a me scherzi del genere.
«Sentite, facciamo così: lasciamo la nonnina in pace e continuiamo per un altro po’ e al ritorno vi darò i dolci che ho a casa. Va bene?».
L’idea sembrò piacere molto dato che i piccoli monelli, con qualche lamentela, si incamminarono verso l’abitazione seguente, dimenticandosi presto di quell’inconveniente e tornando ad essere sorridenti e a sgranocchiare qualche lecca lecca o dolciume.
Sospirai sollevato, seguendoli e tenendoli d’occhio, soprattutto due maschietti dall’aria troppo vispa e furba. Dovevo tenerli sotto costante controllo, ero sicuro che nascondessero delle uova marce o carta igienica, anche se continuavano a fare finta di nulla deliziandomi con sorrisi angelici.
Non mi fregano, sono stato giovane prima di loro. Quei due non me la raccontano per niente giusta…
Meditando sul modo migliore per far vuotare il sacco a quei mocciosi non mi accorsi che si erano fermati in mezzo alla via, così finii per inciampare su uno di loro che, fortunatamente, si scansò all’ultimo momento prima che gli finissi addosso, ruzzolando a terra sull’asfalto.
Mi sbucciai i palmi delle mani, ma non era grave, solo qualche piccolo graffio, e cercai di mettermi seduto per togliermi di dosso i granelli di polvere e i sassolini che si erano appiccicati al vestito, alzando il capo per chiedere spiegazioni per quell’improvvisa fermata.
Solo allora notai che i piccoli si stringevano gli uni addosso agli altri, vicinissimi a me e guardando un punto fisso davanti a loro dal quale provenivano risatine e parole bisbigliate. Seguii il loro sguardo e vidi un gruppo di ragazzi, più o meno della mia età, farsi avanti nel buio, dritti verso di noi.

Urla anche tu! Fuggi via da qui! Lì, davanti a te, dentro quel bidone c'è una brutta faccia che ti assalirà.

Mi rialzai con disinvoltura, mantenendo la calma per non innervosire ulteriormente i bambini e raccolsi la borsa da terra, osservando con la coda dell’occhio il gruppo farsi avanti, illuminato a poco a poco dalla luce di un lampione poco distante.
Non sembravano avere cattive intenzioni, ma i loro costumi facevano venire i brividi e addosso a loro sembravano ancora più minacciosi, specie quello del ragazzo biondo in prima fila, il quale indossava una maschera che gli nascondeva tutto il viso a strisce blu e bianche con dei forellini per respirare e vedere. Sulle mani aveva attaccate delle protesi ben costruite di metallo, finto e non pericoloso sperai, che si divideva in lame splendenti ed inquietanti. Un costume ben fatto, molto realistico, ma non era un po’ troppo per una stupida festa? Dove credevano di andare conciati in quel modo? A uno di loro non serviva nemmeno un travestimento, bastava guardarlo in faccia per iniziare a tremare, mentre gli altri vestiti da zombie metallari era meglio lasciarli perdere del tutto.
Continuando a mantenere il mio sangue freddo feci spostare i bambini sul lato del marciapiede, sussurrando loro di non preoccuparsi e di comportarsi bene e in modo educato.
«Forza, fate spazio, lasciateli passare» intimavo, mentre il gruppo di sbandati ci passava accanto, guardandoci dall’alto in basso e sghignazzando in modo poco educato. Un po’ di cuore per i miei seguaci non ce l’avevano? Erano così piccoli ed indifesi che avrebbero potuto smetterla di fare i gradassi per un momento.
Ad infrangere le mie speranze fu il tipaccio il cui viso era l’esatto ritratto della crudeltà, accompagnato da una chioma rossa come il fuoco, che con una manata scansò uno dei due Fantasmini, facendolo cadere col sedere a terra. I suoi amichetti corsero subito ad aiutarlo e si strinsero in cerchio attorno a lui, guardandomi imploranti affinché facessi qualcosa.
Deglutendo a vuoto presi un respiro profondo e mi schiarii la voce, attirando l’attenzione del rosso e dei suoi compagni e fermando la loro andatura menefreghista.
E adesso che faccio? Sono da solo e non mi va di morire davanti a queste povere creature, li scandalizzerei a vita. E poi, ammettiamolo, non sono di certo io quello più coraggioso qui.
«Scusami, potresti chiedere scusa al bambino? Immagino tu non l’abbia fatto a posta», sarcasmo pesante, «Ma l’hai fatto cadere».
Il diretto interessato mi lanciò un’occhiata assassina e iniziò ad avvicinarsi di qualche passo con un cipiglio misto tra l’essere incazzato e infastidito dalla mia insinuazione. Non prometteva affatto nulla di buono e più si avvicinava più mi sentivo piccolo e impotente, anche se cercavo di fare di tutto pur di apparire impassibile e perfettamente a mio agio.
A mio agio un cazzo! Per fortuna i bimbi non possono sentirmi, non sono termini adatti a loro ma, diavolaccio! Sono messo male! Questo mi ammazza!

Questo è Halloween! Putrido! E macabro! Hai paura? Se tu vuoi scappar via qui si rischia la pazzia ed un attacco di licantropia!

«Vuoi ripetere, microbo?» sussurrò a pochi centimetri dal mio viso, mentre alle sue spalle i suoi amici se la ridevano osservando la scena con le mani in mano.
Deglutii a fatica mentre pensavo a qualcosa di diplomatico da dire, senza grandi risultati.
«Il b-bambino. E’ c-caduto…» balbettai.
«E allora?».
Stava già alzando un pugno grosso come un mattone ed io avevo già chiuso gli occhi, pronto e rassegnato a ricevere il colpo, quando qualcosa, o qualcuno, venne in mio soccorso, salvandomi da quell’inferno.
«Avanti amico, autocontrollo. Ricordi?».
Il rosso si fermò con il braccio a mezz’aria e tentennò per qualche istante prima di sbuffare sonoramente, fulminarmi nuovamente con lo sguardo e girare i tacchi per allontanarsi con falcate veloci, seguito subito dopo dalla sua combriccola.
Li fissai sbalordito mentre sentivo i ragazzini dietro di me sospirare e rilassarsi.
«Ti prego di scusarlo» fece una voce metallica accanto a me.
Troppo preso dalla paura non mi ero accorto che il tipo con la maschera e le falci attaccate ai polsi si era avvicinato per controllare il mio stato di salute e mi ritrovai faccia a faccia con lui, se così si voleva dire.
L’uomo che mi stava di fronte mi superava con la sua stazza e avrebbe potuto facilmente mettermi al tappeto. Oltre agli accessori alquanto esagerati vestiva con un’orrenda camicia a pois anni Sessanta e con dei jeans sbiaditi e strappati in più punti, mentre un ciuffo di capelli biondi gli ricadeva sulle spalle larghe e sicuramente palestrate.
Mi sentii strano, come in imbarazzo. La stessa sensazione di insicurezza, mista a timidezza che si provava di solito quando ci si trovava davanti a qualcuno che segretamente ti piaceva.
Troppo vicino, troppo vicino. Oddio, che succede al mio stomaco? Eh? Ma cos… No. No! Il basso ventre no, dai, pensai.
«Sai, a volte è molto impulsivo, ma non ti avrebbe mai fatto del male».
Incapace di rispondere mi limitai ad annuire, incuriosito da quella personalità nascosta e, soprattutto, non del tutto sicuro delle sue parole. Sapevo riconoscere un bullo quando lo vedevo, e quello era esattamente il classico tipo attaccabrighe e amante delle risse e del casino. Esattamente ciò che detestavo.
«Bene, sarà meglio che vada prima che mi lascino troppo indietro. Buona serata piccoletto». Con queste parole e un’aria scherzosa se ne andò anche lui, lasciandomi perplesso e con l’idea che, sotto a quella maschera, lui stesse sorridendo divertendosi a mie spese.
Strinsi i pugni e digrignai i denti una volta che si fu allontanato e che l’effetto anestetizzante che mi causava fu svanito, ridandomi il possesso della mia lucidità.
Maledizione! La prossima volta non vi andrà così bene. Ve la farò vedere io, parola mia!
«Signor Penguin, sei stato forte a non svenire davanti a quei bruti». Il bambino vestito da Batman diede iniziò ad una serie di complimenti che fecero salire la mia autostima ad un livello spaventoso e che avrebbe rischiato di farmi diventare l’essere più vanitoso presente sulla terra.
«Si, si è verissimo! Sei il mio eroe!».
«Da grande mi fidanzerò con il Signor Penguin».
Decisi che era meglio godersi la serata con i bambini e finire il giro degli isolati con il sorriso sulla faccia e gongolando per le loro attenzioni. Poi avrei raggiunto gli altri e mi sarei ubriacato fino a svenire.
Chissà se avrei mai rivisto quel tipo.
Beh, anche se mi capiterà l’occasione non lo saprò. Non ho visto la sua faccia.
«Signor Penguin lanciamo i sassi addosso alle macchine?».
«Ma insomma, ma come vi vengono certe idee?».

Quanti orrori attorno a te. Senza ribrezzo che vita è? Tutti qui viviamo così nel paese di Halloween.





Angolo Autrice.
Ritardo di un giorno, ma ieri ho dovuto organizzare una festa, immaginate di cosa lol, e non ho avuto il tempo per fare nulla! Questo è un pezzo speciale per Penguin e Killer e mi è sembrato carino metterlo. Praticamente nell’ordine cronologico questo avvenimento è successo un anno prima del loro ufficiale incontro, compreso quello in discoteca di Kidd e Law. I due, così vestiti non si sono riconosciuti al bar, ma il piccolo Penguin ha già iniziato a preoccuparsi della salute di Killer.
Da notare che la chioma rossa colpisce ancora e ha chiamato Penguin con il nomignolo microbo, come è successo anche in discoteca, quando tutto è iniziato. La canzone è This is Halloween dal film Nightmare Before Christmas.
Penso sia tutto. Domani arriva il Capitolo 5, promesso. E per chiarimenti, incomprensioni o altro mi trovate sempre.
Grazie a tutti e un abbraccione, spero abbiate passato un Halloween da paura, lol.

See ya,
Ace.


 

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Capitolo 8
*** Capitolo 6. L'officina era come una seconda casa. ***


Capitolo 6.
L’officina era come una seconda casa

«Bravo Kidd, ottimo lavoro!».
«Mpf, grazie» grugnii imbarazzato, non sapendo bene come comportarmi e decidendo di dare le spalle al mio capo e tornarmene a lavorare. A quanto pareva un coglione ubriaco aveva sbandato ed era andato a sbattere con la sua Lotus contro il muretto di un ponticello in periferia, sfondandolo e rischiando seriamente di finire nel fiume dove si sarebbe di sicuro schiantato dato che la portata d’acqua non era così voluminosa.
Così toccava alla miglior officina della città rimetterla in sesto, se così si voleva dire. Era ridotta veramente male, quasi quanto il proprietario che non avrebbe più potuto usarla.
Confiscata dalla polizia per guida in stato di ebbrezza, più ritiro della patente. Sfigato, pensai ghignando e girando attorno a quell’ammasso di ferraglia verde militare.
Sarebbe stato un lavoraccio rimetterla a nuovo, ma adoravo i casi disperati. Erano una sfida e più difficili e malconci erano, più mi divertivo a cimentarmi, imparando dai miei sbagli e migliorando le mie abilità.
La meccanica mi era sempre piaciuta, era la mia materia preferita a scuola e grazie al lavoretto part time che mi aveva offerto Franky quando ero solo un ragazzino mi ero potuto permettere di frequentare i corsi all’università per tre anni, ottenendo una laurea breve e venendo assunto poi a tempo indeterminato. Lavoravo in mezzo ai motori, sostituendo pezzi, apportando modifiche, impegnandomi nell’unica cosa che mi piaceva davvero fare e che mi dava soddisfazione a differenza del mondo schifoso che mi circondava.
L’officina era come una seconda casa e i colleghi erano la mia unica famiglia. Il gestore, un tizio un po’ svampito, ma pieno di vitalità, dagli strambi capelli azzurri che acconciava ossessivamente con tonnellate di gel, era sempre allegro e non si arrabbiava quasi mai, fatta eccezione per quelle volte che mi presentavo a lavoro ubriaco marcio, quando mi sembrava che la vita non avesse più senso.
Aveva sempre chiuso un occhio e mi accoglieva tra quelle mura come un figlio adottivo di cui occuparsi. Lui ci viveva in quella topaia, rappresentava tutto quello che possedeva e a cui teneva moltissimo. Si curava di tutto e di tutti, come un bravo capo e, sotto sotto, con profondo affetto.
E poi c’era Killer.
Il bambino che giocava con me per le strade sterrate e polverose di un paesino di campagna e che riusciva sempre a stupirmi con le sue trovate geniali, come quando aveva installato un motore a scoppio su una vecchia bicicletta. Il risultato non era stato dei migliori, ma l’idea era buona. Ricordavo ancora la sua faccia piena di sogni e speranze quando aveva visto per la prima volta un motorino. E ancora più contento lo era stato quando ne aveva comprato uno tutto suo.
Eravamo cresciuti insieme, lui ed io, e da buoni amici ci eravamo trasferiti in città in cerca di fortuna e arrangiandoci come potevamo. Per un periodo avevamo condiviso un appartamento, poi lui aveva instaurato una relazione affettiva e avevamo deciso di vivere ognuno per conto proprio per comodità, ma sempre a pochi chilometri di distanza. Giusto un centinaio di metri se volevamo essere precisi.
Anche se alla fine le cose non erano andate bene con la sua persona, non si era abbattuto, come sempre. Era forte e si era presentato il giorno dopo in officina invitando tutti a bere e a festeggiare il suo stato nuovamente single.
Era uno a posto lui, forse l’unico sulla faccia della terra che riuscivo a sopportare e che non trovavo insulso come gli altri esseri viventi.
Eravamo come fratelli.

I crashed my car into the bridge, I watched I let it burn!

«Ehi, alza il volume. Mi piace questa canzone».
Spostandomi la chiave inglese da una mano all’altra andai ad alzare il volume dello stereo adagiato sopra al tavolo da lavoro dove tenevamo tutti gli attrezzi, sghignazzando per i gusti commerciali del ragazzo biondo la cui testa spariva dentro al cofano di una vecchia carretta parcheggiata accanto al mio ammasso di ferraglia. La mia sfida del giorno.
«Che hai? Racconta praticamente la storia di quell’auto. E’ perfetta» constatò, lanciando un’occhiata a quello che rimaneva di una fiammante e veloce Lotus, ora con il motore a pezzi come il povero cuore del suo disattento proprietario.
La osservai meglio, indeciso da dove cominciare.
Dovrò ricostruirla da capo, immaginai rassegnato, pronto a rimboccarmi le maniche e a passare i prossimi mesi a ricongiungere i pezzi di quel puzzle fatto di cilindri, candele, marmitte e quant’altro.
Era un peccato che una macchina del genere dovesse subire certi trattamenti. Sarebbe stato molto meglio spingerla al limite della sua velocità in una strada dritta e spremerle il motore fino a farla esplodere. Quella sarebbe stata una fine gloriosa per un’auto che si rispetti.
«Amico, quella non è la tua Golf?».
Richiamato all’attenzione da Killer, guardai ad occhi sbarrati l’arrivo di una Golf nera e in ottime condizioni, anche se si trattava di un vecchio modello, entrare nel parcheggio in ghiaia sul retro dell’officina riservato ai dipendenti, sollevando una nuvola di polvere e seguita a ruota da una volante della polizia.
Mi passai nervosamente una mano sul viso, respirando profondamente per non dare di matto e trattenermi dal mandare a quel paese il commissario più stronzo di tutte le caserme di Sabaody: Smoker.
La cosa si fece più difficile quando notai che uscì dall’abitacolo con un sigaro in mano e con il solito cipiglio incazzato che non gli spariva mai dalla faccia. E poi quello violento ero io. Se c’era qualcuno che aveva bisogno di fare yoga quello era lui, altro che storie.
Mollai la chiave inglese a terra, giusto per evitare di averla a portata di mano se mai avessi perso la pazienza, e mi pulii le mani con uno straccio prima di andargli incontro, fulminandolo con lo sguardo per poi aggirarlo e fiondarmi sulla mia adorata macchina.
Ci avevo speso tutti i miei risparmi e doverne fare a meno per più di un mese mi era costato molto. Usare la moto non era sempre una buona idea, nonostante il brivido della velocità. Quando pioveva era una palla.
«Spero tu abbia imparato la lezione, mocciosetto» mi avvertì il poliziotto alle mie spalle, mentre aprivo le portiere per far uscire tutto il fumo passivo che, come temevo, era rimasto dentro per imbrattarmi i sedili che avevo rivestito in pelle per completare il design super aggressivo di quella vecchia amica.
Lo guardai in cagnesco, ricevendo in cambio un’occhiata ammonitrice mentre un dito della mano che reggeva quel sigaro di marca scadente era puntato contro di me.
«Abbiamo notato anche alcune modifiche. Ne sai qualcosa?».
Provai a trarlo in inganno con uno dei miei falsi sorrisi angelici, roba che non mi si addiceva per niente e che mi faceva sembrare un coglione. Ma per salvarmi il culo e per ingraziarmi il piedi piatti ero pronto a fare questo sacrificio. Mi avevano detto più volte che non funzionava e che sembrava piuttosto che avessi inghiottito una fetta di limone, ma tentare non nuoce.
«Non so davvero di che parli» risposi, anche se era ovvio che quel bastardo non si sarebbe di certo bevuto le mie stronzate.

I threw your shit into a bag and pushed it down the stairs.

Alzò gli occhi al cielo e poi gettò a terra il mozzicone rimastogli in mano, schiacciandolo con disinvoltura con la punta del piede.
«Ti faccio fare questa fine se ti becco oltre il limite. Chiaro?».
«Fottiti» sussurrai stizzito, dandogli le spalle e tornando a controllare lo stato di salute della Golf, infischiandomene altamente delle sue minacce e lasciando che raggiungesse il suo collega che lo stava aspettando nell’altra macchina.
Quando se ne fu andato mi rilassai e mi permisi di lasciarmi andare ad un sospiro di sollievo, lieto per il ritorno della mia fidata compagna di scorribande. Rappresentava tutti i miei risparmi fatti con anni di sacrificio, lavoro e studio e adesso potevo permettermela e mantenerla con lo stipendio per il lavoro di meccanico.
Mi ritenevo abbastanza soddisfatto e in pace con me stesso. Se da una parte ero un disadattato sociale, dall’altra mi mantenevo in modo onesto. Andava bene, tutto sommato.
«Vedo che è ritornata» fece Killer alle mie spalle, asciugandosi il sudore dalla fronte con la manica della tuta grigia e logora che indossava, scompigliandosi la frangia bionda e lunga che gli ricadeva sugli occhi vispi.
«Già, più in forma che mai» assicurai, impaziente di provarla su strada, cosa che avrei sicuramente fatto una volta finito il turno, correndo tutta la notte se fosse stato necessario per recuperare il tempo perso.
«Mi fa piacere» disse sincero, «Ora diamoci da fare con la Lotus e magari più tardi vediamo se riusciamo ad aggiungere al tuo motore qualche incentivo in più» propose ammiccando, rientrando nell’officina dove lo seguii poco dopo, allegro e di buonumore come non lo ero da tanto.
«Sai Killer? Oggi penso proprio che sia una giornata positiva».
Praticamente ogni settimana aveva le sue giornate e le mie si dividevano in positive e negative. Solitamente le negative comprendevano tutti e sette i giorni e quelle in cui mi sentivo meno propenso alla violenza e soddisfatto della vita erano rare. Forse una al mese o anche più. Era difficile per me mantenermi calmo quando ero propenso ad odiare tutti e ad agire di impulsi e istinti, fermandomi a riflettere solo dopo aver combinato un casino.
Per questo Killer mi aveva iscritto a yoga, nonostante le mie proteste e si era offerto per farmi da supporto per aiutarmi a sviluppare un ferreo autocontrollo.
Avevo difficoltà a contenere la rabbia, era vero, solo che dal mio punto di vista non era una cosa tanto grave. Insomma, bastava solo che la gente non mi provocasse facendomi scattare come una belva. Il problema era che, anche se le persone non si avvicinavano a me per paura, bastava che mi guardassero dall’alto in basso o che mi giudicassero per come apparivo e il danno era fatto. Non mi era mai interessato dell’opinione degli altri, in effetti, mi andavo bene così com’ero, solo non volevo essere deriso.

I don´t care! I love it!

Ma, e non solo secondo il mio amico, era arrivato il momento di farmi aiutare se volevo evitare di finire al fresco per un periodo di tempo indeterminato dato che per le risse e per il disordine pubblico ero portato.
«Questa è una buona notizia, vediamo di non rovinarla».
Ci rimettemmo a lavoro, ognuno concentrato a svolgere il proprio compito e chiacchierando di tanto in tanto per non annoiarci troppo, anche se cercare di sistemare quel catorcio era una vera impresa che portava via tempo e pazienza. Tanta pazienza.
Mantenni comunque la calma e cercai di fare del mio meglio, smontando i pezzi e facendo un inventario di tutto quello che era da rottamare e quello che poteva essere salvato, annotando in un foglio con la mia scrittura disordinata e incomprensibile tutto quello che mi serviva per lavorarci e renderla nuovamente un gioiello da mettere sul mercato.
A pomeriggio inoltrato il lavoro procedeva regolarmente e, tra una pausa caffè e l’altra, si avvicinava la sera e il mio meritato riposo.
«Buongiorno Signore, posso aiutarla?».
Dall’ufficio la voce di Franky arrivava forte e chiara mentre si presentava gentilmente ad un cliente dell’ultimo minuto.
«Chi è stavolta?» domandai sovrappensiero da sotto alla Lotus.
«Non ne ho idea, non l’ho visto perché ero in magazzino, ma quando sono tornato ho notato una R8 parcheggiata davanti all’ingresso».
«Porca puttana!» mi lasciai scappare, schivando per un pelo uno schizzo di olio per il motore dritto in faccia.
«Dev’essere uno pieno di soldi» ipotizzò Killer, sbirciando dalla porta che dava sull’area riservata e all’ufficio del capo e degli affari amministrativi e burocratici.
«Ehi ragazzi! Mi serve uno libero per fare una revisione!» urlò Franky.
«Vado io, tu finisci pure».
Non fui sicuro di aver sentito bene le parole di Killer per via della musica, ma non ci badai e, con un’alzata di spalle, continuai il mio lavoro sdraiato a terra sotto all’auto, canticchiando di tanto in tanto il ritornello della canzone che ormai davano alla radio per la terza volta in quella giornata.
Guarda qua che macello! Ci sono perdite ovunque. Ma chi gli ha dato la patente a quell’idiota? Guida peggio di me e di mia nonna che ha novant’anni e che sgomma comunque meglio di un diciottenne! Roba da distruggerlo interamente il ponte, altro che buttare giù il muretto.
Sbuffando per tutte quelle complicazioni chiesi al mio collega di passarmi una chiave particolare per vedere se riuscivo a salvare e fissare alla bell’è meglio un pezzo non del tutto distrutto, ringraziandolo quando mi passò l’attrezzò senza farmi aspettare troppo.
«Mi passeresti anche lo straccio sopra al cofano? Qua sotto è un disastro».
Sentii i passi spostarsi e per un secondo mi sembrò di notare un paio di Vans nere aggirarmi, ma si trattò solo di un istante, tanto che ignorai la cosa, sicuro di aver confuso le stracciate Converse di Killer.
La pezza mi arrivò dritta sul muso e sentii chiaramente una risata soffocata, cosa che mi indispettì parecchio dato che nessuno la dentro, conoscendo il mio carattere irascibile, si permetteva di farsi beffe di me. Non mi piacevano nemmeno i piccoli scherzi innocenti, li detestavo. Semplicemente non volevo essere oggetto di scherno. Mica ero un fottuto clown, anche se da piccolo tutti mi prendevano in giro per il colore dei miei capelli che richiamavano l’aspetto tipico di quei stupidi pagliacci da quattro soldi.
«Vedi di non fare troppo lo spiritoso» avvisai, certo di farlo smettere. Sapeva quanto fossero importanti le giornate positive ed era il primo ad incitarmi a continuare quello stupido corso per casalinghe disperate e con problemi esistenziali.
«Così è qui che lavori, Eustass-ya».
Al suono di quella voce strafottente lanciai un’imprecazione, dimenticandomi dov’ero e alzandomi di scatto da terra, sbattendo in pieno la fronte contro i cilindri di quell’auto infernale, lanciando ulteriori maledizioni verso la madre di ignoti e ricordandomi questa volta di scivolare sul pavimento e uscire.
Appoggiato bellamente alla fiancata della Lotus si ergeva la figura inconfondibile di quello stronzetto altezzoso di Trafalgar, il quale mi stava rivolgendo uno sei suoi più odiosi ghigni strafottenti, guardandomi con aria divertita.
«Che cazzo ci fai tu qua?» sbottai, ormai incazzato e con il malumore che saliva alle stelle.
Era maledettamente sconcertante il modo in cui quel ragazzino viziato riuscisse a farmi perdere le staffe anche solo con una delle sue occhiate saccenti. Se poi apriva bocca per graziarmi di uno dei suoi soliti commenti allora non c’era più scampo per nessuno. Andavo semplicemente fuori di testa, impossessato da un istinto omicida nei suoi confronti. Sembrava che sapesse perfettamente come fare per farmi imbestialire e la cosa lo divertiva assai. Doveva per forza essere di un altro mondo, quello dei demoni magari.

You´re on a different road, I´m in the Milky way.

«Ho portato la mia auto a fare alcuni controlli. Sai, le solite cose» spiegò distrattamente, mentre si guardava intorno incuriosito.
«Mi stai dicendo che l’Audi parcheggiata fuori è tua?» chiesi, mascherando il mio stupore nonché vivo interesse per qualsiasi macchina con un alto numero di cavalli.
E quel bastardo quando pensava di dirmelo che aveva un bolide del genere per le mani? Ormai era un po’ che mi girava attorno, facendomi infuriare e pagandone le conseguenze a letto, ma una cosa del genere e per giunta di mia competenza poteva anche avermela detta.
«Direi di si» confessò semplicemente, per niente toccato dalla mia reazione.
«Fammi capire, come mai non ho mai visto il tuo brutto muso qui prima di oggi?» gli domandai, massaggiandomi la fronte dove percepivo chiaramente pulsare il sangue.
Possibile che ogni volta che era nei paraggi io dovessi ritrovarmi con qualche livido o ematoma sparso per il corpo? Al diavolo lui e tutta la sfiga che si portava appresso.
«Beh, quando Penguin mi ha detto dove lavoravi ho pensato di cambiare carrozziere e venire a farti visita. Non sei contento?» fece malizioso, sondando il mio aspetto dall’alto in basso e soffermandosi sul colletto della giacca che indossavo per lavorare aperto sul petto.
Fui tentato di ghignare per quella sua debolezza, ma qualcosa in particolare nelle sue parole mi aveva colpito ed ero intenzionato a fare chiarezza visto che ragionavo bene solo quando avevo tutta la situazione sotto controllo.
«Aspetta, cosa centra il nanerottolo? Che ne sa lui di che cazzo faccio per vivere?».
Si strinse nelle spalle. «L’ha saputo da Killer-ya e poi l’ha detto a me» chiarì, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Rimasi spiazzato a fissarlo per un minuto buono, sbattendo le palpebre e ripensando a quello che mi aveva appena detto con una faccia da fesso.
«Puoi ripetere?» mi decisi a dire, incapace di prendere in considerazione l’ipotesi che mi si era formulata nella mente dopo la sua rivelazione. Andiamo, non poteva proprio essere che Killer se ne andasse in giro a raccontare i fatti miei, per giunta all’imbecille col cappello che viveva sotto lo stesso tetto del medicastro che veniva regolarmente sbattuto dal sottoscritto senza lamentarsi troppo.

You want me down on earth but I am up in space.

Sorrise sghembo, «Non lo sai? Quei due ogni tanto escono per una birra».
«Brutto bastardo!» imprecai allora, tirando un pugno al fianco dell’auto senza preoccuparmi minimamente della carrozzeria ormai a brandelli.
«Io o lui?».
«Tutti e due!» risposi, «Perché non me l’ha detto?».
«Forse perché voleva evitare la scenata che stai facendo ora» precisò sarcastico, «E poi, a dir la verità, Penguin non l’ha detto nemmeno a me».
Inarcai un sopracciglio, forse Killer non era andato del tutto perduto.
«E allora come fai a dire con certezza che…».
«Conosco il mio coinquilino e capisco quando mi nasconde qualcosa. E’ bastato metterlo un po’ sotto pressione per farlo vuotare il sacco» spiegò, non lasciandomi finire la frase e schiodandosi dalla sua posizione per avvicinandosi a braccia incrociate fino ad arrivare a fronteggiarmi, dovendo comunque alzare il capo per guardarmi in faccia dato che lo superavo con la mia stazza.
«Ce l’ho ancora con te per la botta di poco fa» precisai ringhiando, scoccandogli un’occhiata torva che lo fece alzare gli occhi al cielo, infischiandosene della minaccia mortale che incombeva su di lui.
Incosciente, sei nel mio territorio. Mi basta una chiave inglese o una spranga per smaltarti al muro.
«Ci vediamo più tardi per una botta come si deve, ti va?».
Rimasi spiazzato e a bocca aperta, incapace di abituarmi a quella sua sfacciataggine. Certo che era proprio fuori dal comune quel medicastro. Se ne andava in giro con quell’aria pacata e controllata, senza curarsi degli altri e pensando solo a fare il suo dovere. L’esatto mio contrario. Serio, all’apparenza educato, cordiale, tranquillo, sicuro di sé e col sangue freddo. Poi, appena poteva, si trasformava e diventava un lurido pezzo di merda, con la lingua biforcuta peggio di quella di un serpente e di sicuro più velenosa. Con un’occhiata poteva gelarti e farti venire i brividi, con una frase poteva farti crollare il mondo addosso o abbatterti l’autostima, rivoltando tutto il tuo essere e sfottendoti fino alla morte come se non ci fosse un domani. Non si arrabbiava, non perdeva la calma, ma forse era questo ciò che più odiavo di lui. Quel suo modo di essere sempre un gradino al di sopra degli altri. Al di sopra di me. Nonostante tutte le mie minacce riusciva sempre a tenermi testa e zittirmi con quei sui insulti velati e con quel tono di voce che faceva sembrare tutto una presa per il culo.
E a proposito di questo, altro aspetto che non capivo era come si permettesse di darmi le spalle quando se ne andava da casa mia, mostrandomi fiero quel fondoschiena che si portava in giro nei pantaloni e che spesso e volentieri mi veniva voglia di sfondare. Non solo a suon di calci a dire il vero.
E poi era così diretto e schietto da mettermi in imbarazzo, ma su questo ci somigliavamo, solo che io non ero portato per le chiacchiere. Quello che volevo me lo prendevo senza troppe cerimonie.
Con un sopracciglio alzato lo guardai sollevarsi in punta di piedi e sfiorarmi le labbra con le sue prima di salutarmi e avviarsi verso l’uscita, diretto a vedere come stava andando il lavoro con la sua auto.
«Ehi, stronzo» lo chiamai, afferrandolo per la manica del giubbetto nero che indossava prima che fosse fuori dalla mia portata e sbattendolo malamente contro la vecchia carretta sfasciata.
Mi chinai su di lui e gli intrappolai le labbra in un bacio famelico, bloccandolo tra il peso del mio corpo e quello che rimaneva del cofano della Lotus, godendomi quella sua visita inaspettata, ma tutto sommato piacevole.
Lo lasciai andare poco dopo, assicurandomi che ricevesse un morso piuttosto significativo.
«Questo è un bacio, non quella roba di prima. Ricordatelo» dissi, voltandomi dalla parte opposta alla sua e tornando al mio lavoro.
Cazzo, erano tempi moderni quelli, nessuno si stupiva più nel vedere due uomini a contatto, poteva benissimo darci dentro e non fare tanto il prezioso come suo solito.
Lo sentii ghignare ma lasciai perdere. Mi sarei occupato di lui più tardi, questo era certo.

You´re from the 70´s but I´m a 90´s Bitch!





Angolo Autrice.
Si, lo so, aspetto sempre l’ultimo minuto prima di pubblicare, portate pazienza, non so se cambierò mai. Comunque, questo racconta una parte della vita quotidiana di Kidd e ci dice qual cosina su di lui, ma scaveremo più a fondo mano a mano che la storia continua. In poche parole dovete continuare a starmi dietro per scoprire le stranezze che si celano dietro a questi due.
Beh, se avete domande o qualcosa non vi è chiaro vi prego di farmelo notare e provvederò ad illuminarvi.
Basta, me ne vado e, stavolta, un piccolo spoiler ve lo lascio:

“Non ti facevo così capace, ragazzino” disse ghignando e i suoi occhi scivolarono per un istante a fissare le mie labbra, svelandomi la via che stavano prendendo i suoi pensieri e le sue intenzioni.
Lo capivo, era ciò a cui non avevo smesso di pensare da quando mi ero ritrovato intrappolato tra lui e la cucina, ma che avevo abilmente nascosto. Però era anche vero che avevo fame e che il timer del forno stava scattando proprio in quel momento, segnando la fine della cottura e annunciando a tutti che era pronto.
Così dovetti calmare i suoi bollenti spiriti e ricordargli che avevo ancora io il coltello dalla parte del manico.
“Ho fatto molta pratica con i cadaveri, Eustass-ya. Vuoi offrirti volontario per una prova su carne viva?” proposi con innocenza.
 
Grazie a tutti, dal primo all’ultimo. Grazie, grazie, grazie!
See ya,
Ace.

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 7. Sorridere é per le persone insignificanti. ***


Capitolo 7.
Sorridere è per le persone insignificanti

Guardai per l’ennesima volta la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore dell’auto e, più mi osservavo con occhio indagatore, più non riuscivo a capire da dove spuntasse quella strana smorfia che non voleva saperne di scomparire dalla mia faccia.
Non aveva nessun senso. Nonostante le mie labbra fossero serrate in una linea sottile, continuava ad esserci una piccola increspatura tendente a sinistra, come se fosse un ghigno trattenuto. Infatti, quello che cercavo di fare era cancellarlo, estinguerlo, estirparlo alla radice perché non era umanamente possibile una cosa del genere.
Eppure era li, sul mio viso, a darmi un’aria da imbecille suonato. Lo guardavo e non mi riconoscevo tanto la cosa era assurda. Quella inconsueta posizione della bocca non riuscivo proprio a concepirla, per quanto mi sforzassi.
E non voleva saperne di andarsene.
Pensavo al sangue visto durante il tirocinio in ospedale, ai pazienti morti, agli incidenti mortali e ai casi disperati che arrivavano in pronto soccorso dandomi modo di vedere cose improbabili e traumi mai visti prima su cui, un giorno, avrei messo le mani e fatto l’impossibile per riuscire dove tutti fallivano.
Ma niente. Non c’era verso che quel, quel…
Che quella cosa scomparisse dal mio volto.
Non stavo increspando le labbra, come quando ero indeciso se deliziare qualcuno con le mie perle di sarcasmo e non era nemmeno un ghigno, quell’espressione che tanto mi caratterizzava e che mi veniva così spontanea ogni volta che iniziavo a sfottere o a far notare cose ovvie a persone stupide, dimostrando di essere scaltro, intelligente e un fottuto maniaco perfezionista, convinto di meritare tutta l’attenzione e la ragione del mondo.
Forse era un blocco facciale.
Si, decisamente.
Perché era totalmente fuori discussione che potesse anche lontanamente trattarsi di…
Un sorriso.
No, no, no. Non esiste. Io non sorrido. Mai. Sorridere è per le persone insignificanti, per quelli che si accontentano di tutto e che sprecano le loro risate per qualsiasi stupidaggine, senza rendersi conto che dovrebbero custodire gelosamente una tale espressione per qualcosa di veramente speciale. Invece non lo capiscono e sorridono sempre. Sorridono ad uno sconosciuto, cosa che non si dovrebbe fare; sorridono al momento del saluto, quando dovrebbero dire semplicemente ciao o arrivederci; sorridono quando non sanno cosa dire o sono in imbarazzo. Ma che mentalità è? Se sei in imbarazzo ti limiti a fissare malamente quello che ti sta davanti per spaventarlo e spostare l’attenzione su qualcos’altro! Ma non si può sorridere sempre.
Come facevo io. Non sorridevo e tutta la mia vita scorreva senza problemi o intoppi. Dimostravo serietà, disciplina e rispetto all’università e con i miei docenti; evitavo di dare ascolto alle sciocchezze dei miei compagni ed amici e mi limitavo a commentare con cinismo tutto ciò che gli altri trovavano buffo.
Il sorriso era per le persone che ancora credevano in qualcosa, che non avevano perso la speranza nei loro sogni e nei loro idoli, qualunque essi fossero. Cosa potevo pretendere io, dopo aver visto morire mia madre e dopo aver aiutato la polizia a spedire in galera mio padre con l’accusa di omicidio e spaccio di droga? Dove potevo trovarla la forza di sorridere ancora? Cosa poteva valere così tanto per smuovermi dalla mia bolla di ghiaccio e scaldarmi abbastanza da farmi dimenticare il torpore che mi avvolgeva l’anima?
Nella vita non c’era niente che valesse un sorriso, a meno che non fosse speciale oltre ogni dire.
Per questi motivi in quel momento mi sentivo preoccupato e impreparato ad una cosa del genere. Non riuscivo ad accettare il fatto e non mi era facile scendere a patti con questa nuova circostanza, ma dovevo farlo per forza, dato che era già la terza volta che mi scoprivo a, come dire, sghignazzare tra me e me quando nessuno era nelle vicinanze.
Perciò dovevo affrontare la questione e accettare che tutta questa allegria fosse frutto di quello che mi stava capitando in quell’ultimo periodo.
No, non ce la faccio. Non ci credo, è inammissibile. Cazzo!
Il problema?
Quello scalmanato di Eustass Kidd. Quell’essere che era piombato nella mia tranquilla e pacata vita come una bomba ad orologeria, esplodendo e sconvolgendo la mia esistenza, rivoltando come un calzino le mie sicurezze.
Quando mi rendevo conto che lui era nei paraggi mi sentivo ardere. E non di passione o di voglia di scopare, no, quello accadeva dopo qualche bicchiere di vodka liscia, ma di impazienza. Esatto, impazienza nel prendermi gioco di lui e di vederlo perdere il controllo, diventando una bestia indomabile e impazzita, pronta a tutto pur di dimostrare la sua forza, la sua virilità, il suo orgoglio che non ammetteva battutine, insulti o sconfitte. Ed era così facile farlo scattare. Bastava una parola, uno sguardo derisorio, un ghigno appena accennato e subito credeva di essere preso in giro. La faccia che faceva era impagabile. Si voltava a guardarmi con occhi sbarrati e increduli davanti a tanta sfrontatezza, boccheggiava per qualche istante, come se non trovasse le parole adatte e poi scoppiava il finimondo. Si alzava di scatto e mi afferrava per la collottola della maglia se era seduto; mi spintonava facendomi cadere a terra se stavamo camminando; mi fronteggiava stringendo i pugni e puntandomi contro l’indice ammonitore se eravamo in presenza di altri; insomma, così tante sfumature e modi di fare da studiare e tanti comportamenti, sensazioni, stati d’animo da capire. Era tutto così interessante e…
E basta.
La maggior parte delle volte lo importunavo apposta, giusto per notare quella scintilla di rabbia e offesa accendersi nei suoi occhi e renderli ardenti.
Come i baci che ci scambiavamo.
Non c’era niente di lento, timido, dolce. Erano aggettivi che nemmeno lontanamente mi sognavo di aspettarmi e, sinceramente, mi avrebbero fatto sentire fuori posto. Si trattava, invece, di tutto uno scontro, una lotta per la supremazia, una danza di morsi, spintoni, graffi e strette micidiali che toglievano il respiro.
Kidd toglieva il respiro.
Anche solo con uno sguardo. Minaccioso o non.
Per quegli occhi ambrati passavano un sacco di emozioni e di pensieri. Non si fermavano mai, nemmeno per fissare il vuoto come succedeva spesso a me, quando mi perdevo nelle mie riflessioni. Erano attenti, all’erta, scocciati, incazzati la maggior parte del tempo, maliziosi e divertiti. E ammonitori quando mi dava un ultimatum, avvertendomi di non provare ad insultarlo oltre, altrimenti avrei subito la sua furia.
Stronzate, fargli perdere le staffe era il mio obbiettivo primario ogni volta che lo incontravo, perciò andavo fino in fondo senza esitare.
Pazienza che poi mi sbattesse al muro, non era così male.
Cosa aveva di tanto particolare lui da non riuscire a fare a meno di stuzzicarlo, cercarlo, infierire sul suo umore sempre scorbutico e sui suoi modi di fare così bruschi, maleducati ed incivili? Era una persona qualsiasi, normale, comune. D’accordo, si vestiva in modo del tutto particolare e che incuteva timore ai passanti, pieno di borchie, lacci in cuoio e cazzate moderne varie, per non parlare di quella chioma rosso fuoco. Come se avesse appiccato in testa un incendio indomabile. Forse poteva essere definito un po’ fuori dal comune, ma non era niente di speciale.
Non era così importante da meritare un sorriso. Un mio fottutissimo sorriso. Niente lo valeva, perché quella testaccia rossa si? Perché cazzo stavo sorridendo ora?
Le labbra si erano schiuse in un sorriso sincero e faticavo a frenare i sussulti di qualche risata. In parte ci stavo riuscendo bene, non fosse stato per lo sguardo che brillava di qualcosa di nuovo, qualcosa a cui non volevo dare un nome e che non avevo voglia di sondare come facevo di solito fissando le altre persone.
Non morivo dalla voglia di sapere cosa ci avrei trovato perché temevo di scoprirlo. Avevo paura, paura che il gioco non valesse la candela, che tutto sarebbe sparito, che il Destino si sarebbe preso quella cosa che aveva meritato un mio piccolo ed innocente sorriso e che se la portasse via, come aveva fatto nella mia infanzia. Prima o poi tutto sarebbe svanito nel nulla. Lo sapevo, ne ero convinto, ma continuavo a sorridere.
Mi morsi l’interno di una guancia per non andare oltre.
Va bene sorridere, ma ridere no. Assolutamente.
Parcheggiai l’auto in uno spiazzo di terra dietro la modesta casetta a un piano di mattoni rossi, attento a non avvicinarmi troppo allo steccato che delimitava il canale che scorreva a pochi metri di distanza. Spensi i fari e scesi dalla macchina, inspirando l’aria fresca di novembre a pieni polmoni e godendomi la vista che si aveva da quella posizione.
Certo che per essere un poveraccio, quel deficiente si era scelto un posto proprio carino in cui vivere. In un quartiere non troppo malfamato, appena in periferia e circondato dal verde e da alberi secolari infinitamente alti e frondosi che in quel periodo dell’anno sembravano dare vita a tutte quelle case in laterizi con i vari colori delle foglie secche. Niente male davvero.
Camminai fino ad arrivare alla porta d’ingresso. L’auto mi premuravo di lasciarla sempre sul retro, nascosta da sguardi indiscreti dato che volevo evitare qualsiasi furto o danneggiamento. Al diavolo me e la mia passione per quel ferro vecchio e la velocità.
Non bussai e non suonai il campanello, come avevo preso il vizio di fare, sicuro di trovare aperto e così fu. Entrai con calma, venendo subito accolto dal calore del riscaldamento acceso, chiudendomi la porta alle spalle e scrollandomi di dosso il freddo che si era insinuato attraverso i vestiti. Mi tolsi le scarpe e il cappotto, appendendolo all’attaccapanni all’ingresso e salendo i tre scalini che portavano in una piccola, ma accogliente, entrata. A sinistra c’era il salotto arredato con mobili semplici, ma di buon gusto, cosa parecchio strana conoscendo il proprietario, e si notava perfettamente un enorme televisore collegato a molteplici cavi e un paio di joystick posizionati con cura sul ripiano del tavolino in legno chiaro situato al centro della stanza e circondato da due divani ad angolo in pelle beige.
Ghignai al pensiero di poterli rivendere su internet come avevo già tentato di fare, venendo poi costretto ad usarli come merce di scambio per avere indietro il mio cappello preferito. Quella sera, per evitare disastri, l’avevo direttamente lasciato a casa, di conseguenza ora non c’era niente che potesse obbligarmi a restituirli una volta rubati.
Stavo valutando la possibilità di farlo, quando qualcosa, o meglio, qualcuno ebbe la brillante idea di bestemmiare ad alta voce, facendomi alzare gli occhi al cielo e scuotere il capo sconsolato.
Concedendomi un respiro profondo e armandomi di tanta pazienza, svoltai a destra verso l’ampia cucina dove il colore predominante era il bianco che la rendeva piena di luce, nonché molto apprezzata secondo i miei gusti. Non mi piacevano le stanze buie e quella era la mia preferita in assoluto in tutta la casa.
Appoggiandomi a braccia conserte allo stipite della porta osservai divertito una scena che non avrei mai creduto di poter vedere.
Il buon vecchio Eustass se ne stava chino sui fornelli, intendo a litigare con la manopola del gas e con in mano una presina da forno e un coltello da macellaio che stonava con l’ilarità della situazione.
Sopra alla maglia bianca a maniche corte, dalla quale spuntavano definite le scapole e la forma slanciata della schiena, e ai pantaloni osceni a macchie gialle su uno sfondo nero, indossava un grembiule con raffigurate delle carote. Il senso di tutto ciò non mi era chiaro, ma mi era bastata un’occhiata per capire che il fumo che usciva dal forno non prometteva niente di buono. Soprattutto con il gas acceso. E questo non lo dicevo solo perché dividevo la casa con un dinamitardo che si divertiva a far esplodere fuochi d’artificio sul tetto dell’appartamento.
«Eustass-ya vuoi per caso far saltare in aria baracca e burattini o sei semplicemente un cuoco negato?» feci, annunciando la mia presenza con tutta la disinvoltura di cui ero capace, come se la cosa che avevo davanti agli occhi fosse normale.
Colto alla sprovvista il ragazzo sobbalzò e si voltò di scatto, rovesciando sul ripiano della cucina un sacchetto di farina e facendo rotolare a terra due cipolle. Il tutto si concluse con l’accendersi del fornello che con una fiammata andò a bruciacchiargli un avambraccio, facendolo sussultare e allontanarsi di qualche centimetro, urtando poi una sedia e inciampando sui suoi stessi passi, finendo finalmente a terra.
Io non sorridevo mai. Non era nella mia indole, non lo facevo e non volevo cominciare a farlo. Soprattutto, ero sicuro che nulla meritasse la mia completa attenzione.
Ero convinto, ma alla luce degli ultimi avvenimenti, combattendo con me stesso, avevo dovuto ricredermi.
Perché in quel momento ero piegato in due, con le lacrime che pungevano sugli occhi serrati e che cercavo di aprire con fatica, mentre tentavo inutilmente di trattenermi, senza riuscirci e ridendo a crepa pelle per l’orribile figuraccia che stava facendo morire di vergogna il povero ragazzone poco distante da me.
Non ricordavo nemmeno da quanto tempo non ridevo così, senza pensieri, per il solo gusto di farlo, e mi sentivo così bene che nemmeno feci caso alla faccia stupita e sorpresa di Kidd, il quale mi fissava da terra con due occhi spalancati e grandi quanto il piattino di una tazza, incredulo nel vedermi così normale, diverso, semplice, da come ero di solito.
Non riuscì a resistere neppure lui e si unì a me dopo poco, ridendo ancora più sguaiatamente mentre mi accasciavo al suolo, appoggiato alla porta e intento a cercare di calmare gli spasmi e di asciugarmi gli occhi umidi con la manica della maglia che indossavo.
Non ci credevo, quel figlio di puttana aveva fatto crollare una delle certezze che mi accompagnavano da anni in pochissimo tempo e per una stupidaggine.
«Non ti credevo capace di ridere, Trafalgar» fece ansimando, rotolando su un fianco e mettendosi seduto, massaggiandosi distrattamente il braccio scottato.
Sospirai e guardai il soffitto con ancora l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«Nemmeno io, a dire il vero, ti credevo così maldestro» scherzai, incapace di trattenermi e senza preoccuparmi del fatto che, forse, avrebbe potuto arrabbiarsi davvero questa volta.
Non mancò di mandarmi a quel paese in effetti, ma non la tirò per le lunghe e, dopo essersi alzato con un abile movimento, tornò ad occuparsi della sua cucina. O meglio, del tentativo di cucinare.
«Non stare sulla porta, non ti mangio se entri» accennò distratto, recuperando le cipolle da terra per poi lavarle ed iniziare a tagliuzzarle in modo esperto, stupendomi non poco.
«Per adesso» aggiunse poi, ghignando malizioso.
Ignorando quella sua frecciatina lo raggiunsi, restando comunque a distanza di sicurezza. Più volte il bastardo aveva minacciato di uccidermi e vederlo con un coltello in mano mi faceva temere per la mia incolumità.
«Non ti ho sentito arrivare».
«Non mi sono annunciato».
«Avresti dovuto farlo».
«Mi sarei perso tutto questo» dissi ammiccando. Come risposta si mise a tagliare il secondo ortaggio con forza e precisione, come se stesse immaginando di avere la mia testa in quel tagliere.
Decisi che era meglio allontanarsi per dargli tempo di calmarsi, così andai a controllare il forno, aprendolo giusto un po’ per far uscire tutto il calore e abbassando la temperatura, facendo si che un buon profumo di lasagne si disperdesse nell’aria.
Dall’aspetto non sembra male, pensai, osservando attentamente il cibo nella teglia mentre cuoceva e diventava sempre più invitante, come può saper cucinare un’idiota come lui?
«Spostati» grugnì, scostandomi con una mano e andando ad aprire il frigorifero per recuperare due pomodori maturi.
Lo osservai mentre iniziava a tagliare il primo, stando attendo a non sporcarsi troppo.
Più lo guardavo e più mi sembrava impossibile. Eppure appariva sicuro di quello che stava facendo. Le mani non tremavano, il taglio era preciso e pareva che conoscesse bene i vari passaggi. E il comportamento non lo tradiva, dato che io ero un bravo lettore. Non stava fingendo, era davvero capace di preparare un’insalata.
«Che hai da fissare?» domandò, lanciandomi un’occhiata veloce per poi tornare a concentrarsi sul cibo che stava preparando evidentemente per cena.
Alzai le spalle e guardai altrove senza rispondere, trovando molto interessante la tavola imbandita per due e sentendomi stringere immediatamente lo stomaco da una sensazione decisamente estranea.
Mi morsi un labbro, ritrovandomi a disagio per il casino psicologico che si stava creando nella mia mente. Prima mi riscoprivo capace di ridere e mi rendevo conto che la chiave di tutto era proprio quello stronzo, aggressivo e insopportabile Eustass Kidd, poi mi accorgevo che stava preparando la cena per due persone. E quella sera ero solamente io a ritrovarmi li in sua compagnia. Quindi, se non avevo fatto male i conti, stava cucinando per me. Non l’aveva mai fatto prima. Anzi, prima non avevo nemmeno mai avuto il tempo di mettere piede in stanze che non fossero la sua camera da letto o il corridoio dell’entrata.
Credetti di sentirmi male, invece mi scoprii solo un po’ imbarazzato e, in un certo senso, lusingato. A casa era Penguin a cucinare, ma non era la stessa cosa dato che lo faceva per tutti e in modo discutibile, causando spesso attacchi di vomito e mal di stomaco pazzeschi. Adesso era diverso. C’era qualcuno che si stava dando da fare unicamente per me e tutto ciò era così inaspettato e alquanto difficile da credere, tenendo presente che ogni volta che andavo da lui non rimanevo per più di qualche ora e, soprattutto, non passavamo mai la notte assieme. Una volta ci era bastata, mi ripetevo quando me ne andavo.
«Sai cucinare». Non era una domanda la mia, solo la risposta che avevo deciso di dare a tutto ciò. Lui sapeva preparare da mangiare e in un momento di pazzia aveva deciso di darmene prova, forse per dimostrarmi che non era un completo disastro come spesso sostenevo.
Borbottò qualcosa di incomprensibile prima di far scivolare i pezzetti rossi della verdura nel contenitore che aveva preparato davanti a lui e dove erano andate a finire le cipolle in precedenza, passando poi al secondo pomodoro prima di giustificarsi dicendo che si era sempre arrangiato, anche da piccolo.
Rimase con il coltello a mezz’aria, mentre sul suo viso appariva un’espressione indecisa, valutando qualcosa che a me sfuggiva, come una delle sue solite insensate e assurde idee.
Quando si voltò a guardarmi capii che avrei dovuto aspettarmi di tutto dalle parole che stava per pronunciare.
«Vuoi provare?» chiese, animato da chissà quale buonumore.
Mi rifiutai categoricamente, ammettendo senza vergogna di non essere molto bravo e che alla cucina ci pensavano sempre i miei coinquilini mentre io ero solo in grado di prepararmi un piatto di pasta.
«Sbaglio persino a dosare il sale» mentii. Tutto pur di evitare quell’offerta, o invito, o presa per il culo per avere l’opportunità di beffeggiarmi come avevo fatto io prima, ma non volle sentir ragioni.
Con la sua solita e discutibile gentilezza mi agguantò per un braccio e mi trascinò davanti al bancone, incurante delle mie lamentele, posizionandosi dietro di me e poggiando le mani sul ripiano in modo tale da non farmi scappare.
«Ora prendi il coltello» ordinò, avvicinando il viso alla mia spalla per supervisionare il mio operato.
Sbuffai, ma feci comunque come aveva detto, trattenendomi dall’infilzargli un arto con la lama, ideando di usare come scusa la mia goffaggine e incapacità di cucinare. Non se la sarebbe comunque bevuta dato che avevo una mano incredibilmente ferma ed ero già capace di fare una sutura completa senza problemi. Avrei persino potuto squarciarlo e poi ricucirlo in modo perfetto, rimettendo insieme i pezzi, ma per il momento avrei evitato.
«Con una mano tieni fermo il pomodoro e con l’altra inizi a tagliarlo a fette» spiegò, abbandonando quell’aria scocciata che aveva sempre quando si trovava a discutere in modo quasi civile con me, sostituendola con un tono più calmo e rilassato.
Potrei fare te a fette, pensai, ma non con cattiveria. Infatti, ad accompagnare i miei pensieri fu un maledetto sorriso che non riuscii a frenare. Avrei dovuto abituar mici, era chiaro.
«Così?» chiesi, tagliando di netto l’ortaggio. Scoprii che non era così impegnativo e che era esattamente come il lavoro di un chirurgo, solo non su un corpo umano. Incoraggiato da questa scoperta continuai, riducendolo in fettine sottili che con maestria gettai nella terrina di fronte a noi assieme al resto, poggiando poi con ordine il coltello e il tagliere e osservando con la coda dell’occhio la sorpresa farsi strada negli occhi di Kidd.
Con uno sbuffo che doveva sembrare una risata sarcastica mi bloccò le braccia con fermezza e mi fece voltare in modo da ritrovarmi faccia a faccia con lui, impossibilitato a sottrarmi a quello sguardo penetrante e divertito.
«Non ti facevo così capace, ragazzino» disse ghignando e i suoi occhi scivolarono per un istante a fissare le mie labbra, svelandomi la via che stavano prendendo i suoi pensieri e le sue intenzioni.
Lo capivo, era ciò a cui non avevo smesso di pensare da quando mi ero ritrovato intrappolato tra lui e la cucina, ma che avevo abilmente nascosto. Però era anche vero che avevo fame e che il timer del forno stava scattando proprio in quel momento, segnando la fine della cottura e annunciando a tutti che era pronto. Avrebbe dovuto aspettare, anche per il semplice fatto che io non vedevo una cena del genere da parecchio, a parte la pizza da asporto che ordinavo e che segretamente mangiavo in camera mia in compagnia di un libro.
Così dovetti calmare i suoi bollenti spiriti e ricordargli che avevo ancora io il coltello dalla parte del manico.
«Ho fatto molta pratica con i cadaveri, Eustass-ya. Vuoi offrirti volontario per una prova su carne viva?» proposi con innocenza.
«Ah, va’ al diavolo, stronzetto». Detto questo tornò ad essere il solito brusco, impaziente, capriccioso ed insopportabile Kidd, minacciandomi di mettere del veleno nel mio piatto e sotterrarmi in giardino dove nessuno mi avrebbe trovato. Poi avrebbe dato fuoco alla macchina e l’avrebbe gettata nel fiume che scorreva accanto a casa sua.
Nel frattempo, ascoltando i suoi sproloqui e immaginandolo con una tanica di benzina in mano mentre appiccava il fuoco e ballava attorno all’auto, mi sedetti a tavola, puntando il gomito sulla superficie di legno e appoggiando la testa sulla mano, osservando quell’impiastro mentre finiva di tagliare l’insalata per poi condirla e sbattermela davanti agli occhi con poca grazia, tornando ad occuparsi delle lasagne e sfornandole.
Ero sempre stato una persona schiva, convinta di non sorridere e permettendomi solo dei ghigni strafottenti e adatti a qualsiasi occasione.
Forse, da quel momento in avanti, avrei potuto concedermi qualche piccolo attimo di tregua per lasciare che un sorriso mi si dipingesse sul volto, come in quel momento, mentre quella testa rossa si dava da fare per non rompere qualche piatto con i suoi modi decisamente poco adatti in un contesto simile.
«Cazzo. Trafalgar, dammi una mano!».
«Perché mai, Eustass-ya? Te la stai cavando così bene nei panni dell’adorabile mogliettina».




Angolo Autrice.
Sabato. Adoro anche io il sabato come Kidd, ma passiamo alle cose importanti. Mi sono innamorata di questo capitolo e immagino la risata di Law come un qualcosa di anormale da associare a lui, ma tremendamente adorabile. Si limita a qualche sorrisetto beffardo quando è in compagnia, o ad un classico ghigno sadico, ma stasera si lascia andare e scoppia a ridere.
Kidd sa cucinare e, non appena vi svelerò qualcosa sulle sue malsane origini, capirete perché. Praticamente nel prossimo capitolo. E ce lo vedo davanti ai fornelli con quella chioma vermiglia.
Ho introdotto un po’ il passato di Law, turbolento, burrascoso, incasinato, ma scenderò nei dettagli più avanti, spiegando anche alcuni problemi e disagi a lui associati.
Che altro dire, spero di avervi strappato un sorriso con questa scena quotidiana tra i due e spero vi sia piaciuto **
Per qualsiasi cosa sapete dove sono e ringrazio sempre tutti quanti. Grazie!
Va bene, piccolo spoiler:

Le avevo tollerate nel migliore dei modi durante i mesi passati ma, quando una di loro mi aveva dato uno schiaffo malizioso sul culo, mi ero schiarito la voce e avevo messo un punto a quelle sceneggiate, dicendo in modo che tutte capissero e trattenendomi dal dare di matto, che mi piacevano gli uomini, che si, ero quello che si definiva gay e che non avrei portato a letto nessuna di loro.
Quasi dimenticavo, chiarii anche che volevo che la smettessero di rifilarmi banconote nella tasca della giacca sperando che mi accorgessi dei loro sguardi arrapati.
 


See ya,
Ace.


 

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Capitolo 10
*** Capitolo 8. Se c'era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre. ***


Capitolo 8.
Se c’era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre

Avevo imparato ad arrangiarmi e ad essere più o meno autosufficiente all’età di dieci anni, quando, secondo il parere degli adulti, ero abbastanza grande per rimanere a casa da solo, arrangiarmi nei compiti e comportarmi bene senza cacciarmi nei guai. Facevo del mio meglio, all’epoca, rinchiudendomi nella mia stanza a leggere riviste d’auto e a giocare con le costruzioni quando era brutto tempo e uscire a giocare, infischiandomene del resto, quando in campagna splendeva il sole e i ragazzini del quartiere uscivano in strada per ritrovarsi tutti assieme.
La mia infanzia l’avevo passata così, a costruire e smontare macchinine giocattolo, a creare robot con i bulloni delle vecchie auto, a montare e truccare il mio primo motorino e a sbucciarmi le ginocchia quando correvo in bicicletta su una ruota sola. Avevo imparato a gestirmi, a cucinare, a prendermi cura della casa, a difendermi se i bambini più grandi provavano a rubarmi la merenda a scuola; mi tenevo in forma correndo, sollevando pesi, sviluppandomi e crescendo a vista d’occhio.
Mi arrangiavo ed ero piuttosto bravo.
I miei genitori lavoravano tutto il giorno ed erano a casa solo la domenica, momento sacro in cui dovevo fare il bravo, non mangiare come un selvaggio, aiutare in cucina quando preparavo la cena per loro tutte le sere, sparecchiare, andare a trovare l’unica vecchia nonna decrepita che mi era rimasta e che stava a dieci metri da casa, non dire parolacce, non litigare con i cugini e ‘accidenti, Kidd, porta rispetto per tuo padre’.
Poi ero cresciuto, diventato maggiorenne e avevo trovato un lavoro, potendomi così permettere di trasferirmi nella casetta che mi aveva lasciato in eredità una vecchia bisnonna, troppo gentile e con il prosciutto sugli occhi per non rendersi conto di stare lasciando il suo patrimonio ad un perfetto coglione, vivendo da solo, andando a scuola e mantenendomi orgogliosamente con le mie forze.
Mi si poteva dire tutto, ma nella vita quello che avevo me lo ero guadagnato senza l’aiuto di nessuno, dei miei soprattutto.
A mia madre si illuminavano gli occhi quando mi vedeva o parlava di me. Era fiera di avermi come figlio, anche se i suoi modi a volte mi lasciavano in imbarazzo nonostante il legame di sangue che mi scorreva nelle vene, mentre mio padre era un fottuto stronzo. Avevo preso più da lui che da mamma, il mio carattere scorbutico e facilmente irritabile lo dovevo solo a lui e ai suoi modi poco affettuosi. Certo, non era tipo da perdersi in convenevoli, abbracci e carezze, ma aveva sempre lavorato per potersi permettere il meglio e non far mancare niente alla sua famiglia.
Su questo dovevo dargliene atto, ma non glielo avrei ma e poi mai detto o si sarebbe vantato per il resto della sua vita, facendomi sentire inferiore.
Ormai ero abituato a vivere da solo, pensando a me stesso, senza pensieri e preoccupazioni inutili e facendo quello che più mi andava tra quelle quattro mura di casa.
Cucinavo, giocavo, tenevo la musica alta, mi ubriacavo, apportavo modifiche all’abitazione costruendo muretti per delimitare il mio territorio, aggiungendo un caminetto nel soggiorno, ridipingendo i muri e altri lavoretti che avevo imparato a fare negli anni e che non mi pesavano, dato che sapevo arrangiarmi al meglio.
Rientravo quando volevo, giravo nudo per casa se non mi andava di vestirmi, lasciavo tutto in disordine, spostavo mobili e nelle occasioni speciali si festeggiava tra amici.
Vivevo da Dio, in poche parole.
E potevo permettermi di scopare in santa pace senza dovermi rifugiare in qualche buco o ritrovarmi a casa di uno sconosciuto con cui accidentalmente decidevo di passare la notte. Per questo, quando quell’inquietante individuo di Trafalgar Law arrivava da me, non c’erano problemi e la serata, o pomeriggio che fosse, passava tranquilla, senza fretta o intoppi, dandoci l’opportunità di avere tutto il tempo a nostra disposizione, dato che una volta non mi bastava mai.
Anche in quell’occasione era andata così, solamente che avevo deciso di mangiare qualcosa prima di divertirmi.
Non si trattava di un invito a cena come aveva insinuato lui tra un boccone e l’altro, facendomi infuriare parecchio, assolutamente. Avevo trovato la pasta per le lasagne e gli ingredienti necessari per caso e avevo deciso di consumarli una volta per tutte visto che avevo qualcuno con cui condividere il cibo. Cioè, io mi dimostravo, per una volta tanto, gentile e lui che faceva? Trovava il coraggio di aprire bocca per far uscire un sacco di stronzate. Perfetto, potevo ritenermi offeso.
Un invito, che stupidaggine. Gli avevo chiesto di venire prima solo per evitare che si raffreddasse tutto, dovendo poi buttare via e sprecare una specialità delle mie. Era difficile da capire, o ero io che sbagliavo? Non mi era minimamente passata per la testa un’intenzione del genere. Così sdolcinata poi da far venire il voltastomaco.
Disgustoso.
«Eustass-ya, non avrei mai detto che fossi un tipo da cenette romantiche» aveva detto quel miserabile, facendomi incazzare talmente tanto che in un secondo avevo afferrato il coltello per la carne da dentro al cassetto della cucina e gliel’avevo puntato contro minaccioso, trovandolo in posizione di difesa con in mano la teglia ormai vuota delle lasagne e un’espressione che non prometteva nulla di buono.
Ci eravamo guardati in cagnesco per un po’, studiandoci attentamente e registrando ogni nostra mossa, pronti a scattare se uno dei due avesse dato segno di voler iniziare una battaglia senza fine, dove non c’era mai un vero e proprio vincitore. O forse si, c’era in realtà, ma non poteva definirsi tale, dato che, odiavo pensarlo, era come se fossimo due metà di un intero.
Dio mio. Dio mio, che… Che schifo!
Non in quel senso, per carità, semplicemente, per giustizia, lui aveva il potere di zittirmi e vincermi con quelle sue battutine pungenti, mentre io mi potevo sbarazzare di lui e atterrarlo in un attimo, se parlavamo di prestazioni fisiche. Andiamo, ero il doppio, abituato a fare a pugni, anche se il piccoletto, dovevo ammetterlo, se si impegnava sapeva menare abbastanza. Da non dimenticare che, come avevo immaginato, aveva dislocato il polso a uno di quei ragazzi fuori dalla taverna la prima notte che avevamo passato assieme e dalla quale poi era iniziato tutta quella scocciatura.
A proposito di questo.
Se ne stava andando, di nuovo.
Dopo esserci calmati e aver abbassato le armi e finito di cenare, aveva insistito per aiutarmi a sparecchiare, spiegandomi che a casa sua si davano il turno e che non gli piaceva restare con le mani in mano. Dopo avergli dato un consiglio su come poteva passare meglio il tempo, ovvero intrattenermi con un lavoretto di bocca mentre io finivo di sistemare i piatti e dopo aver schivato un coltello volato, a detta sua, casualmente, verso la mia direzione, lasciai perdere e lo lasciai fare. Senza motivo, per dire qualcosa, mi aveva raccontato alcuni aneddoti sui suoi coinquilini e su quello che di solito facevano la sera per passare il tempo. Inutile dire che in una gabbia di matti come la loro non avrei mai voluto metterci piede.
Poi mi aveva chiesto dov’era il bagno e mi sembrò strano, dato che passava per casa mia tutte le settimane, ma mi resi conto solo in quel momento che lui, in realtà, la casa non la conosceva affatto se non per la camera da letto. Senza dire una parola gli avevo fatto strada, indicandogli la porta e, quando stava per entrarci, si era voltato a guardarmi con la testa leggermente inclinata e incoraggiandomi con lo sguardo a seguirlo.
«Tu non vieni?» aveva sussurrato.
Senza derisione, senza ghigni, senza sbuffi e senza proteste da parte di entrambi, l’avevo raggiunto e, poco dopo, avevo lasciato scorrere l’acqua della doccia fino a farla diventare calda sulle nostre pelli già bollenti.
E adesso, come ogni volta del resto, raccolse le sue cose in silenzio, con movimenti calcolati e attenti a non fare rumore per svegliarmi. Non stavo dormendo in realtà, ma mi sentivo stanco e assonnato, probabilmente in dormiveglia. Doveva essere tardi, forse le due di notte, e mi chiesi per la millesima volta perché non restava a dormire e ripartiva la mattina dopo. Per l’università? Per non far preoccupare i suoi amici? Sicuramente no, quei tizi erano uno peggio dell’altro e Trafalgar era un tipo che sapeva badare a se stesso, di certo lo sapevano.
Solo, ero curioso di sapere perché continuava a scappare nel bel mezzo della notte come se fosse un ladro.
 
* * *

Sabato. Il sabato non lavoravo e, anche se era il giorno che veneravo più di tutti, facevo una cosa che solamente pensarla mi faceva incazzare. L’aspetto comico era che ero costretto a farla proprio per evitare di perdere il controllo nei momenti più tesi e stressanti in cui non volevo fare altro che prendere e spaccare qualcosa.
Yoga.
Fanculo Killer che mi aveva convinto a iscrivermi a quel dannato corso che, secondo me e tutti coloro a cui lo chiedevo fingendomi disinteressato, non volevo di certo che tutto il mondo lo sapesse, era un’enorme cagata.
Attraversai la strada dopo aver parcheggiato poco lontano dalla palestra e mi calcai bene in testa il cappuccio del piumino nero e pesante che indossavo per non venire riconosciuto, affrettandomi ad entrare dalla porta sul retro dello stabile acanto all’edificio con su scritto Sabaody’s Energym.
Il corso, grazie al Cielo e per bontà Divina, si teneva in un luogo diviso dalla sede centrale, per comodità e perché gli svariati corsi che si svolgevano erano parecchi e non c’era spazio per tutti in un unico edificio, inoltre, organizzare e far combaciare tutti gli orari, doveva essere sicuramente un calvario.
A me andava benissimo, in questo modo non rischiavo di incontrare gente che conoscevo e mantenevo al sicuro il mio vergognoso e umiliante segreto.
Raggiunsi lo spogliatoio maschile e appoggiai lo zaino logoro e rattoppato alla meglio da mia madre, la quale lavorava come sarta per una delle più importanti case di moda dell’Isola, ma non si degnava di perdere tempo a ricucire gli stracci del suo figlioletto, la stronza.
Estrassi una bottiglia d’acqua e una fascia azzurra che mi passai tra i capelli per evitare che mi ricadessero sulla fronte e mi cambiai i pantaloni.
Una persona normale sarebbe venuta direttamente in tuta, ma nemmeno morto mi facevo tutto il tragitto, anche se si trattava di pochi metri a piedi da dove mi trovavo al parcheggio, con addosso quell’orrenda tenuta. Era un obbrobrio e una mancanza di rispetto persino per i gay.
Ma quelle erano le regole, quindi mi trovavo costretto a portare un paio di pantaloni di cotone, troppo, troppo stretti, con un motivo floreale e una canottiera tinta unita che si intonava alla calzamaglia. Inutile dire che sembravo un emerito idiota, per non parlare dei miei capelli che si intonavano perfettamente al bordeaux della maglia.
La prima volta che mi avevano messo tra le mani quella roba avevo deciso che lì non ci avrei mai più messo piede, ma Killer mi aveva tanto pregato di provare a resistere almeno un mese che, alla fine, avevo accettato, ingoiando bestemmie e improperi. Inutile dire che, col tempo, ero stato costretto a continuare, dato che mia madre lo era venuto a sapere e adesso avrebbe fatto carte false affinché non smettessi.
Entrai nell’ampia stanza con il pavimento in legno e le pareti rivestite di specchi dove un gruppo di signore sulla quarantina chiacchierava fitto fitto, lanciando qualche risolino acuto.
Assottigliai lo sguardo e avanzai lentamente, attento ai loro movimenti e fissandole circospetto. Loro erano stato il mio più grande incubo. All’inizio credevo di diventare lo zimbello del corso, essendo l’unico uomo presente, invece, non appena quelle arpie mi avevano visto, si erano avvicinate mestamente, sondandomi con uno sguardo profondo e sfacciato e, come per magia, me le ero ritrovate addosso, incapace di togliermele di torno.
Non appena mi videro si voltarono a salutarmi, chiamandomi ad alta voce affinché le raggiungessi.
Maniache, pensai, mentre mi sentivo le guance andare a fuoco sotto quei loro sguardi adoranti. In poche parole, quelle casalinghe, donne insoddisfatte, non facevano altro che guardarmi il pacco, facendomi sentire nudo anche con i vestiti addosso.
Sono peggio di Trafalgar, queste qui, ne sono certo. Sarebbero disposte a tutto pur di una scopata. Altro che lui che fa tanto il prezioso prima di lasciarsi andare, sto stronzo.
Le avevo tollerate nel migliore dei modi durante i mesi passati ma, quando una di loro mi aveva dato uno schiaffo malizioso sul culo, mi ero schiarito la voce e avevo messo un punto a quelle sceneggiate, dicendo in modo che tutte capissero e trattenendomi dal dare di matto, che mi piacevano gli uomini, che si, ero quello che si definiva gay e che non avrei portato a letto nessuna di loro.
Quasi dimenticavo, chiarii anche che volevo che la smettessero di rifilarmi banconote nella tasca della giacca sperando che mi accorgessi dei loro sguardi arrapati.
Mi avevano guardato sbalordite e, per un primo momento, deluse, ma poi si erano riprese ed erano diventate, se possibile, più assillanti, affascinate dall’idea di avere un amico maschio con cui sfogarsi e al quale raccontare tutta la loro vita e la delusione che provocavano i loro mariti.
«Kidd, caro, che bello rivederti! Devo raccontarti un sacco di cose» iniziò una, seguita poi dalle altre.
Sbuffai sonoramente, alzando gli occhi al cielo. Io andavo lì per migliorarmi e plasmare il mio animo combattivo in qualcosa di più pacato e loro mi rendevano la cosa estremamente difficile per i miei nervi già propensi alla violenza.
Fortunatamente arrivò il nostro insegnante, altro essere vivente insopportabile che ci aveva provato con me.
Insegnava danza, soprattutto, ma nel tempo libero di dedicava anche alla yoga e ad altre discipline insulse, così ero capitato sotto il suo insegnamento e, non appena mi ero dichiarato dell’altra sponda, come dicevano quelle donne sessualmente frustrate, aveva preso a farmi il filo fino a quando, una sera, era entrato in sala tutto contento dicendo di essere innamorato, smettendo di darmi noia e di rischiare di essere tirato sotto dalla mia auto in un moto di stizza.
Si faceva chiamare Mister Two, quel cretino, si truccava ed era pignolo oltre ogni dire.
«In posizione gente, forza, forza!».
Strinsi i pugni e feci un respiro profondo, contando, per sicurezza, fino a venti. Lo facevo ogni volta prima di iniziare, pregando qualsiasi entità per non andare fuori di testa.
Le lezioni duravano un ora e mezza e si tenevano due volte la settimana, ovvero il sabato e il martedì, dopocena. Mi andava bene, almeno non perdevo ore importanti durante il giorno e non dovevo saltare il lavoro, anche se avevo i miei dubbi sull’utilità di tutto ciò, dato che nell’ultimo mese mi ero ritrovato più volte a voler spaccare la faccia a qualcuno.
Probabilmente, anzi, senza dubbio, la colpa era di Law, il quale sembrava godere di un assurdo divertimento quando mi vedeva reagire male alle sue battute sarcastiche. Sembrava che la sua esistenza consistesse in questo: urtarmi i nervi. Ed ero sempre più convinto che fosse stato mandato dal Diavolo in persona per rovinarmi la vita. Quello non era un uomo, ma una maledizione. La peste, una spina nel fianco, anzi no, nel culo.
Il Malocchio, cazzo! Il Malocchio, un Demone, un, che ne so, una testa calda! Ancora peggio, è una catastrofe. La mia catastrofe, quello che mi farà finire in manicomio, ne sono certo. Ecco qual è il suo piano.
«Piega di più quelle gambe, Kidd» fece Mister Two, passeggiando per la sala e controllando l’impegno che tutti stavano mettendo nel piegare le gambe dietro al collo. Inutile dire che era una cosa imbarazzante oltre ogni dire e che stavo tentando in tutti i modi di non assumere quella posizione. Non mi sarei più potuto guardare lo specchio altrimenti.
Una baldracca è, altro che storie. Una baldracca, bagascia e sgualdrina.
«Kidd, si può sapere dove hai la testa oggi?».
Grugnii un seccato 'niente' come risposta e cercai di fingermi il più esausto possibile, beccandomi così dieci minuti di pausa ed evitando di far crollare ulteriormente il mio già minato orgoglio. Presenziare a quelle lezioni mi abbatteva l’autostima in un modo incredibile e mi costava molto abbassarmi a fare tutto ciò, ma Killer insisteva tanto e continuava ad assicurarmi che avrebbe funzionato. Mi fidavo di lui, perciò avrei continuato e ce l’avrei messa tutta per arrivare fino alla fine, ma tutto aveva un limite e mettermi con le chiappe al vento, per giunta rese in bella vista da quei pantaloni attillati non l’avrei di certo sopportato.
Quando Dio decise che il tempo della mia ultima lezione settimanale era scaduto, mi affrettai a raggiungere gli spogliatoi, iniziando a spogliarmi durante il tragitto in modo da potermi infilare di fretta la felpa, la giacca e i jeans e volatilizzarmi da quella gabbia di matti ai quali, secondo il mio sincero e schietto parere, serviva solamente una bella notte di puro e gratificante sesso per risolvere i problemi e tornare ad essere allegri.
Cosa che sarebbe piaciuto fare anche a me, ma quella figa d’oro sembrava troppo pigro per chiamarmi e vederci qualche volta in più e io, di certo, non sarei mai andato a cercarlo, abbassandomi a lui e dandogli l’occasione di rinfacciarmelo fino al giorno della mia morte, quando mi sarei finalmente liberato del suo ghigno.
Uscii dalla porta di servizio giusto quando quelle vecchie svitate raggiungevano lo spogliatoio in compagnia di quell’insegnante stravagante, sempre intento a ripetere e mostrare passi di danza classica.
Roba da non credere.
Raggiunsi l’auto, la mia amata, fidata e venerata auto, salii e accesi il riscaldamento, preparandomi a partire e tornare a casa dove avrei potuto rilassarmi, svagarmi e fare quello che più mi piaceva: giocare ad Assassin’s Creed.
Quando il telefono prese a squillare ancora non avevo messo in moto, perciò mi sembrò normale rispondere, dato che non avevo altro da fare, così estrassi il cellulare dalla tasca e, senza riflettere o pensarci due volte, risposi animatamente, aspettandomi che fosse Killer oppure Zoro per sapere se quella sera avessi intenzione di uscire.
L’ultima persona che mi aspettavo di sentire, invece, pensò bene di scombinarmi i piani e farmi gelare il sangue nelle vene.
«Biscottino, ceni con noi stasera, vero?».
In un primo momento rimasi spiazzato, sentendomi improvvisamente senza aria e incapace di reagire. Poi ringrazia il Cielo perché, se avessi deciso di partire, a quest’ora sarei già finito fuori strada e avrei causato un incidente mortale per altre persone. Poi ebbi la tentazione di tirare giù il Paradiso, ma tenni a mente che ero appena uscito da yoga e che lo scopo era quello, ridurre gli scatti d’ira.
Eh no, fanculo il mondo, è una congiura contro la mia sanità mentale!
«Ehm, veramente devo uscire più tardi, sai com’é…» provai a dire, grattandomi convulsamente la testa e scompigliandomi i capelli per l’ansia.
«Non voglio sentire scuse. Ti aspetto per le otto, intesi pasticcino?» fece una voce categorica che non ammetteva repliche dall’altro capo e udii dei distinti rumori di pentole e piatti che sbattevano. Stava già preparando da mangiare a quanto pareva.
«Va bene, a dopo allora» mormorai sconfitto, «Mamma».
Se c’era qualcuno più bastardo di mio padre, quella era mia madre.
Una donna esuberante, appariscente, che non si dimenticava facilmente quando la si vedeva. Sicura di sé, imponente, scassa palle come qualsiasi altra madre sulla faccia della terra. Dire che in casa comandava lei era un eufemismo. Lei era la sovrana, l’imperatrice, la regina incontrastata, colei che dettava legge e che impartiva gli ordini, non accettando scuse o risposte negative. E guai a chi disobbediva.
Me ne ero andato di casa appena ne avevo avuto l’occasione non perché fosse un cattivo genitore, ma per il semplice fatto che vivere sotto il suo stesso tetto era soffocante e impensabile. Appena mi vedeva mi stritolava in un abbraccio e non mi lasciava andare fino a quando non ricambiavo come si doveva. Che imbarazzo. Mai nessuno avrebbe dovuto vedermi fare una cosa del genere. La mia reputazione sarebbe andata a farsi fottere assieme al mio orgoglio.
Io ero un duro accidenti, non era possibile che mia madre pretendesse ancora di essere abbracciata, baciata, venerata e, soprattutto, insistere nel vedermi presenziare almeno una volta al mese alla sua stupida cena di famiglia.
Mi passai una mano sul volto esasperato, imboccando una stradina di ghiaia lunga un chilometro prima di intravvedere un paio di casette spuntare tra i rami frondosi di alcune querce che delimitavano la tenuta dei miei, lontana dalla strada principale, dal centro città e dalla fastidiosa presenza di vicini e curiosi.
Parcheggiai di fronte all’entrata, preparandomi al peggio e recuperando le ultime energie e l’ultimo spiraglio di calma che mi era rimasto, sperando di non impazzire e di superare la tortura che mi aspettava al di là della portone.
Scesi dall’auto e mi avviai lungo il vialetto con lo stesso entusiasmo di un detenuto che si appresta a salire sul patibolo per la sua esecuzione, guardandomi intorno e notando come il giardino fosse sempre ben curato, le aiuole in ordine e i cespugli di rose rigogliosi anche se il tempo non era dei migliori.
Tutto merito della nonna, pensai, scuotendo il capo e ricordando all’improvviso che, molto probabilmente, ci sarebbe stata anche la vecchia quella sera.
Angosciato e ormai arreso all’idea di un’imminente serata infernale con i miei parenti, suonai il campanello e attesi qualche istante, curioso di scoprire quale uragano sarebbe piombato ad aprire, investendomi in pieno e intrappolandomi in una stretta ferrea, ma allo stesso tempo famigliare.
«Tesoro sei arrivato!» sentii urlare all’interno attraverso i muri, ascoltando come la voce si facesse sempre più vicina e acuta.
«Mamma» ghignai, nell’esatto istante in cui la porta si aprì e sull’uscio apparve una massa di capelli ricci e voluminosi che accompagnavano una donna alta e dai lineamenti fieri e marcati sul cui viso risaltavano un paio di occhi grandi, evidenziati dal trucco nero e pesante come il rossetto viola che spiccava sulle sue labbra schiuse in un sorriso amorevole.
«Oh, il mio piccolo bambino! Finalmente sei arrivato!» fece con voce nasale, stritolandomi tra le braccia come avevo previsto e scompigliandomi i capelli, facendomi temere che li volesse strappare via, tanta era la forza esercitata.
Incapace di parlare, soffocato da tutto quell’affetto rivolto unicamente a me, aspettai con pazienza e sacrificio che la smettesse di esprimere tutto il suo sentimento e amore materno per il suo unico e viziato figlio per poi divincolarmi e sfuggire alla sua presa, riprendendo a respirare e sistemandomi alla meno peggio i ciuffi che mi ricadevano sulla fronte.
«Guarda come sei dimagrito! Forza, entra e aiuta la mamma a cucinare. Stasera ci penso io a rimetterti in sesto». Con queste parole mi spinse dentro casa, togliendomi dalle mani la giacca e appendendola distrattamente all’attaccapanni posizionato all’ingresso, iniziando a farmi una serie di infinite domande sulla mia salute, sulla casa e sul lavoro, lasciandomi a malapena il tempo necessario per riflettere e formulare una frase concreta, dato che si rispondeva da sola alla maggior parte dei quesiti che lei stessa poneva.
Così la lasciai fare, percorrendo il corridoio d’entrata con le pareti tappezzate di quadri e foto, raggiungendo l’ampia e spaziosa cucina al centro della quale spiccava un lungo tavolo in legno scuro, apparecchiato per tre. Mi sedetti sul ripiano accanto ai fornelli e la guardai trafficare con il pollo e con tutte le pietanze in fase di preparazione che aveva davanti a lei.
Mentre si aggirava per la stanza intenta e indaffarata, come se dovesse cucinare per un reggimento e non per tre persone soltanto, mi lasciai avvolgere dalla familiarità dell’ambiente accogliente e pieno di ricordi. Quella donna aveva ragione nell’insistere a volermi a casa per cena qualche volta, così mantenevo vivo il contatto con quello che era legato alla mia infanzia che con piacere mi ricordava ogni volta che la incontravo o che veniva a farmi visita. Almeno tutta la sua insistenza non era dettata solo dal suo desiderio di non perdermi di vista e di continuare a tenermi d’occhio, anche se cercava di nascondere quell’aspetto dietro alla scusa della facciata affettiva.
La osservai infornare le patate, con quelle calze a rete che sempre l’avevano caratterizzata e la collana di perle che papà le aveva regalato per il loro anniversario di matrimonio allacciata ed esibita orgogliosamente al collo.
Era sempre lei, la donna che quando ero piccolo mi portava a lavoro con sé e mi lasciava disfare tutti gli abiti fuori moda che non le servivano più. Mi proteggeva con le unghie e con i denti ed era gelosa, molto gelosa. E possessiva. E anche sempre più difficile da sopportare mano a mano che gli anni passavano. Inutile dire che aveva fatto una strage quando avevo deciso di rendermi indipendente e andare a vivere con Killer prima di abitare da solo in città.
Ormai era passato, ma continuava ad essere la solita donna risoluta, intraprendente e forte.
La Grande Ivan, pensai, sorridendo per il soprannome che colleghi, amici e ammiratori le avevano dato e con cui ancora si riferivano a lei quando la nominavano o la incontravano per caso. Era il suo carattere buono e disponibile che aveva contribuito a renderla famosa, oltre al lavoro e alla causa da lei sostenuta per i diritti e l’accettazione da parte della società nei confronti degli omosessuali e dei, come venivano chiamati, travestiti.
Aveva combattuto duramente e alla fine aveva raggiunto un buon traguardo e continuava tutt’ora a portare avanti quel suo progetto, sostenuta da un gran numero di persone volontarie e affezionate a lei e al suo buon cuore.
Mi chiesi per un attimo come avrebbe reagito quell’insolente di Trafalgar nel conoscerla e avere a che fare con una stronza quasi quanto lui. Quasi, perché nessuno superava il livello di quel ragazzino. Nessuno.
«La nonna? Non viene questa sera?» domandai, dimenticandomi certe idee e accorgendomi solo allora che una presenza ingombrante e la solita voce gracchiante mancavano nella stanza.
«Ha prenotato un volo all’ultimo minuto diretto chissà dove. Ha detto che voleva svagarsi un po’» spiegò Ivan, arrotolandosi le maniche dell’abito per essere più agevolata nei movimenti senza rischiare di sporcarsi.
«A novant’anni?» le feci notare, alzando un sopracciglio sarcastico e guardandola stupito. Anche se non poteva vedere la mia espressione fu come se l’avesse immaginata. Scoppiò a ridere e scosse la testa, come a voler dire che quella vecchia era piena di energie e nessuno l’avrebbe fermata. Non per niente l’avevo rinominata nella mia mente con il nomignolo di Vecchiarda.
Lasciai perdere l’argomento con un’alzata le spalle, guardando l’orologio appeso al muro e chiedendomi quando sarebbe arrivato l’ultimo componente della famiglia.
«Tuo padre arriverà presto. Sa bene che non gli conviene tardare» mormorò, seguendo il mio sguardo fino alla parete di fronte, celando una minaccia nelle sue parole, ne ero certo. E, anche se quell’uomo era un emerito bastardo, non si sarebbe mai azzardato ad incappare nelle ire di quella donna dall’aspetto gentile e intimidatorio allo stesso tempo. Avevo provato una volta a non presentarmi in orario ad una delle sue cene e non era finita nel migliore dei modi.
Quando ormai mancavano pochi minuti all’ora stabilita e Ivan stava per scaldarsi, infastidita dal possibile ritardo di suo marito, il rumore delle gomme di un’auto che avanzavano fuori in cortile la fece rilassare all’istante, mentre io scattavo in piedi, serrando i pugni e preparandomi ad uno dei soliti battibecchi con quell’uomo autoritario e scassa palle.
Mamma mi lanciò uno sguardo ammonitore, pregandomi silenziosamente di comportarmi bene e di mantenere la calma, mentre la porta d’ingresso si apriva e il rumore dei passi pesanti accompagnati dagli scarponi di mio padre arrivava forte e chiaro alle nostre orecchie.
Apparve in cucina pochi minuti dopo, con i capelli bianchi e il solito cipiglio incazzato a disegnargli la faccia; la camicia aperta sul petto allenato come d’abitudine e la giacca della divisa in mano, gettata poi in malo modo su una sedia. Anche se vigeva la regola che in cucina non si fumava, l’odore passivo di sigari mi arrivò ugualmente alle narici.
«Moccioso» mi salutò con un cenno del capo, passandomi accanto per andare a sedersi a capotavola e urtandomi volontariamente con una spallata.
«Stronzo» grugnii a denti stretti, sedendomi il più lontano possibile da lui. Quando ero piccolo gli ero sempre accanto e lo seguivo ovunque, venendo addirittura sgridato a volte per intrufolarmi in caserma all’età di otto anni solo per salutarlo prima di andare a scuola.
Adesso, invece, era una lotta continua. Non perché avessimo litigato o per qualche torto subito, semplicemente il suo caratteraccio l’avevo ereditato tutto e adesso difficilmente passavamo qualche secondo senza insultarci o punzecchiarci a vicenda.
«Kidd, porta rispetto a tuo padre» fece mamma, continuando a darci le spalle e controllando se la pasta fosse cotta.
L’altro allora ghignò vittorioso mentre io, per tutta risposta, gli mostravo il dito medio e lo mandavo bellamente a fanculo, facendogli perdere quella pazienza che anche in lui scarseggiava.
«Te la faccio vedere io, razza di mascalzone!» iniziò a dire, slacciandosi i polsini della camicia e mostrando i pugni con fare minaccioso e totalmente incazzato, imitato all’istante da me.
«Smoker, tocca mio figlio e non arriverai a domani!».

 


Angolo Autrice.
I’m back! Allora, cosa dite? Piaciuta la sorpresa barra scandalo barra infarto? Si, perché nemmeno io riesco a capacitarmi del fatto di aver veramente accoppiato Smoker e Emporio Ivankov. Potrei aver storpiato per sempre questi personaggi, ma ho le mie motivazioni!
Innanzitutto, la strettissima somiglianza di Kidd con Smoker. Avanti, sono perennemente incazzati e pronti a scattare in qualsiasi momento, così mi sono presa la libertà di creare tra loro un grado stretto di parentela. E Smoker, secondo me, ci può anche stare come padre.
Ivan. A parte che adoro il suo personaggio, mi piaceva l’idea che Kidd potesse avere come madre qualcuno che lo chiamasse con nomignoli affettivi imbarazzanti e che se lo spupazzasse in ogni momento. Daaaaaai, non è così male. 
Detto questo passiamo al resto, per esempio alla lezione di Yoga! Finalmente l’ho descritto e, data la stranezza della situazione, mi è sembrato simpatico creare una situazione imbarazzante tra Eustass-ya e le sue compagne di corso arrapate. Si, loro volevano portarselo a letto e mangiarlo vivo, sia chiaro, come l’intento iniziale di Mister Two, personaggio che mi è simpaticissimo e contro di lui non ho proprio niente.
Che altro dire? La parte iniziale riguardante Kidd spiega il motivo per il quale lui sappia cucinare ed arrangiarsi, cosa che aveva lasciato Law perplesso la sera prima. E ho anche lanciato le basi per un qualcosa che si evolverà nei prossimi capitoli. Intanto Kidd si chiede perché Trafalgar faccia di tutto per attenersi alle regole da loro mai stabilite. Piiiiiccolino.
Grazie a tutti coloro che mi lasceranno un ricordino e a quelli che leggono tranquilli, spero che questo vi abbia fatti divertire.
Abbraccioni e spoiler:
 
“Sapete, credo che lui sia coinvolto in loschi affari, al contrario di voi con problemi di cuore” ipotizzò Bepo.
“Ma dai? Sul serio?” fece sconcertato l’idiota di turno con la faccia dentro al frigo, mentre io, con le braccia incrociate e il viso corrucciato, fulminavo qualsiasi cosa con lo sguardo.
 “Lo sapete quanto lui ami le esplosioni. Potrebbe essere passato al lato oscuro”.
“In questo caso piloterà un aereo e si farà esplodere andandosi a schiantare contro un monumento famoso? Magari la prigione di Impel Down, sai che figata!”.
Mi schiaffai una mano sul viso, incapace di sopportare oltre.
“Smettetela di blaterare. Ace ha la ragazza, punto. Non c’è nessun attentato sotto e non è un terrorista!” sbottai.
“La ragazza? Ma stai scherzando?”.
“Non ha mai avuto una ragazza”.
“Gli sarà venuta voglia” rifletté allora Penguin, seduto a terra e con il mento appoggiato alla mano in una posa pensierosa.
*
“Presentati allora” feci con tono ovvio. Qual’era il problema? Dove stava la difficoltà?
“Come se fosse facile” farfugliò da sotto la stoffa, prima di scaraventarla a terra in un moto di stizza. “Non capisci Law, lui è così…”.
“Non lo voglio sapere”.
“E’ da perdere la testa”.
 
See ya,
Ace.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 9. La stagione degli amori. ***


Capitolo 9.
La stagione degli amori

E’ una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in cerca di moglie. Per quanto al suo primo apparire nel vicinato si sappia ben poco dei sentimenti e delle opinioni di quest’uomo, tale verità é così radicata nella mente delle famiglie dei dintorni, da considerarlo legittima proprietà dell’una o dell’altra delle loro figlie.
«Bepo! Dove diavolo ti sei cacciato razza di orso con due zampe!».
«Oh Dio mio» mormorai esasperato, alzando gli occhi al cielo e sprofondando ulteriormente nella soffice poltrona gialla che i miei coinquilini mi avevano regalato il natale scorso, approfittando del fatto che il colore delle pareti dell’appartamento, dipinte di un arancione tenue, non stonassero con la stoffa di quella che era diventata la mia seduta preferita.
Era domenica sera, il giorno dopo avevamo tutti lezione al mattino e ci saremo ritrovati per giunta nella stessa classe, come se vivere sotto allo stesso tetto non bastasse.
Considerando che mi ero preso molto avanti con lo studio e che fossi dotato di una preparazione e di una conoscenza di gran lunga superiore a quella dei miei docenti, avevo deciso di dedicarmi un po’ di svago per leggere uno dei miei libri preferiti, sorvolando sul fatto che la famosissima opera di Jane Austen fosse stata scritta in quell’epoca per sollevare il morale alle povere ragazze zitelle e per dare loro un po’ di speranza per il futuro roseo che non avrebbero mai avuto a quei tempi. Sul serio, non mi toccava minimamente e quella era la decima volta che lo iniziavo da capo.
Capii che avevo fatto male i miei conti quando Penguin entrò nel salone con i capelli bagnati che gli ricadevano sugli occhi e all’altezza delle spalle, solleticandogli il collo e costringendolo a grattarsi, gocciolando ovunque.
«Penguin, bagni il tappeto» gli feci notare, mostrando il mio disinteresse per i suoi problemi con un cenno annoiato della mano e tornando a leggere da dove avevo lasciato.
«Cosa? Ah si, scusa. Bepo!» riprese a chiamare.
«Ora la moquette» sospirai, girando pagina e lasciando scorrere lo sguardo sulle frasi scritte su quella carta ruvida che ormai conoscevo a memoria.
«Cazzo» brontolò tra i denti, scomparendo nel corridoio che portava alle camere da letto e ritornando poco dopo con un asciugamano rosa in testa. Non volli nemmeno soffermarmi a pensare da dove sbucasse quella cosa improponibile. Era un insulto persino per lui.
Iniziò a girare per l’appartamento sbattendo le porte, aprendo cassetti, sbuffando come una furia e rischiando di scivolare a terra, rompendosi l’osso del collo quando passò sopra all’acqua che era colata sul pavimento davanti al divano e sotto il mio sguardo che cercavo di mantenere concentrato.
Solitamente non perdevo mai il controllo. Succedeva solo quando mi ritrovavo chiuso in casa con l’unica compagnia di quel’esaltato che poteva fare concorrenza ad Eustass Kidd in persona.
Beh, forse non proprio, pensai sarcastico, mentre mettevo un segnalibro fra le pagine e riponevo con cura il volume sul tavolino in vetro al centro della sala.
Mi passai stancamente una mano sul volto, scompigliandomi i capelli già in disordine e costatando che era da parecchio che non mi radevo la barba. Più tardi ci avrei pensato, sempre se non mi fossi incazzato nel frattempo.
«Penguin, dimmi cosa stai cercando prima di distruggere la casa».
Il ragazzo si fermò nel bel mezzo della sua andatura indaffarata, voltandosi e fissandomi con un paio di occhi grandi e inquieti, nei quali iniziò a farsi strada la speranza che, forse, avrei potuto aiutarlo.
«Bepo ha nascosto la roba. Sai dove l’ha messa?» chiese, avvicinandosi pericolosamente con uno sguardo da pazzo e le fauci spalancate con una lingua rossa a penzoloni. Per un istante sembrò un cane con la rabbia ed io dovetti trattenermi dalla voglia di dissezionarlo. All’università ci avevano fatto fare pratica solo su una rana e mi sarei rifiutato di farlo su qualsiasi altro animale, ovvio, ma Penguin non lo era, perciò niente mi tratteneva dall’agire, solo un forte senso di giusto e sbagliato.
Anche se non ero più tanto convinto che fosse sbagliato eliminare una spina nel fianco.
Bastò un’espressione seria e un’occhiata gelida e ammonitrice per far si che si desse una calmata e che si scusasse per la reazione esagerata. A volte superava il limite e dava di matto quando, per il suo bene e per fermare quella sua insana dipendenza, i ragazzi gli nascondevano il ricettario che utilizzava la maggior parte delle sere, quando non riuscivamo a farci trovare con il cibo da asporto già in cucina, per preparare dei piatti di diverse origini e sapori. In sé non mi sarebbe nemmeno dispiaciuto assaggiarli, non fosse stato che quell’incosciente non seguiva mai le istruzioni e le dosi, creando così dolci ipercalorici, manicaretti troppo salati e zuppe con ingredienti di dubbia provenienza. Diceva che gli piaceva dare un tocco personale a tutto.
Grazie tante per il pensiero, ma vaffanculo lo stesso.
Così Bepo aveva iniziato, quando riusciva a sottrarre il libro maledetto dalle grinfie di Penguin, a nasconderlo in posti noti a tutti tranne che al diretto interessato e si premurava di cambiare il nascondiglio ogni giorno per evitare che l’altro lo scoprisse troppo presto.
Il libro delle ricette era passato alla storia quando Ace aveva tentato di dargli fuoco con un accendino, riuscendo a distruggere solo l’introduzione. Un risultato piuttosto negativo e misero, ma fu abbastanza per darci modo di vedere la fissazione di Penguin per quell’affare. Sembrò impazzire quando se lo ritrovò tutto bruciacchiato tra le mani e non ci rivolse la parola per un mese intero, rifiutandosi persino di cucinare. Inutile dire che quello fu il periodo in cui mangiai il cibo migliore della mia vita, alternando pizzerie e ristoranti.
Poi gli era passata, ma ormai eravamo tutti convinti che la sua fosse una vera e propria dipendenza, così il ricettario era stato soprannominato ‘roba’, per ricordargli che, anche se in modo molto diverso e più sano, era un drogato.
«No, non so dove sia» mentii. Sapevo benissimo dov’era nascosta. In un posto dove Penguin non si sarebbe mai sognato di andare a guardare per timore di non rivedere mai più la luce del sole.
Camera mia.
«Balle. Avanti, dimmelo» insisté, portando le mani ai fianchi e battendo impaziente un piede a terra.
Per tutta risposta gli dissi che avevo già ordinato la cena e che sarebbe arrivata di li a poco, quindi avrebbe fatto meglio ad andarsi a vestire perché io non avevo la minima intenzione di scomodarmi dal mio posticino caldo e accogliente. Per sottolineare meglio le mie parole, agguantai un cuscino e una coperta dal divano e mi coprii, dipingendo in pochi attimi l’immagine del relax, iniziando a poltrire.
Quando aprì la bocca per insultarmi e mandarmi a quel paese, alzai l’indice nella sua direzione e lo feci zittire all’istante, facendogli morire le parole in gola.
«Sai cosa succede se lo fai» cantilenai con un macabro sorriso.
Mi lanciò un’occhiata truce per poi darmi le spalle e ritirarsi in camera sua sbattendo la porta con violenza. Mi sembrò di avere a che fare con un’adolescente in fase ormonale e con problemi relazionali, ma lasciai perdere e tornai a ghignare soddisfatto per la vittoria.
Penguin era da sempre uno dei miei migliori amici, ma aveva imparato a sue spese cosa succedeva quando qualcuno tirava troppo la corda con me perché se decidevo di dire no, era no e basta. Gli scocciatori non li sopportavo, per questo, quando non otteneva quello che voleva da me, se ne andava sempre imbronciato. Era tipico del suo carattere e il fatto che fossimo amici gli bruciava ancora di più, visto che sperava ogni tanto di spuntarla usando un qualche immaginario bonus affettivo. Il problema era che non aveva ancora capito che per me non c’erano eccezioni.
Una massa di riccioli biondi, talmente chiari da far sembrare il proprietario un albino, spuntò dalla porta semi aperta dello sgabuzzino vicino all’entrata dove tenevamo scope, aspirapolvere e scarpe.
«Se n’è andato?» sussurrò una voce bassa e tremolante, mentre un sorriso si faceva strada sul suo volto quando annuii verso la sua direzione.
Bepo uscì con tutta la sua stazza dall’armadio delle scope, dentro al quale era costretto a nascondersi fingendo di essere fuori casa quando Penguin decideva di assillarlo con qualche sua trovata, e si spolverò la felpa bianca e morbida, raggiungendomi in soggiorno e sedendosi sul divano accanto alla mia poltrona.
«Grazie per non aver parlato. L’ultima volta che ha cucinato non ho dormito per tutta la notte» si lamentò disperato, toccandosi d’istinto la pancia al ricordo dell’orribile esperienza vissuta.
«Potresti rifiutarti di mangiare» provai a dire, cosa che facevo sempre io per evitare problemi.
Mi lanciò un’occhiata sarcastica e allo stesso tempo preoccupata. «Come fai tu?».
«Touché» feci, con l’ombra di una smorfia sul viso, «Ma evito tanti problemi, ammettilo».
«Ti fai del male, Law, e lo sai. Da quanto non mangi in modo sano e decente?».
«L’altra sera ho cenato da Eustass-ya» mi difesi, stringendomi nelle spalle, come se la cosa non fosse così grave come la stava facendo sembrare. Sorrisi impercettibilmente davanti a quel ricordo.
«Si, e hai vomitato tutta la notte perché il tuo corpo non è riuscito a digerire tutto quel cibo, dato che ti nutri con poco e male» mi sgridò, «Inoltre stai sempre a studiare e dormi, si e no, cinque ore se tutto va bene».
«Questo non è vero» feci glaciale, guardando altrove. Forse solo in parte, ma non sopportavo quando ricevevo la ramanzina dai miei compagni sul modo in cui decidevo di tirare avanti. Per le cose secondarie come dormire e mangiare potevo fare a meno, l’obbiettivo primario era eccellere negli esami e darmi da fare con i corsi all’università per laurearmi e coronare il mio sogno diventando un chirurgo di fama mondiale, impeccabile, all’avanguardia e capace di sfidare la Morte e batterla al suo stesso gioco.
«Spero tu sappia quello che stai facendo» si limitò a dire, vedendo che, come al solito, non stavamo andando da nessuna parte e non mi avrebbe convinto di certo a fare come diceva. Non ci riusciva mai e se non avevo io un motivo per farlo, allora non sarebbe mai stato capace di farmi cambiare.
In quel momento arrivò Penguin a completare il quadretto, entrando in salotto con una vestaglia e un paio di pantofole dei Simpson, con la faccia di Homer ad avvolgergli i piedi. Improponibili, ma i suoi gusti erano sempre stati a dir poco strani, quindi non mi stupii e lasciai che si fiondasse addosso a Bepo, inchiodandolo sul divano e minacciandolo di morte se non gli avesse rivelato dove tenesse nascosta quella sua fottuta roba.
Quando suonò il campanello stavano ancora litigando come due bambini, così fui costretto ad alzarmi e a raggiungere l’uscio dove una ragazza con un berretto da baseball in testa e i capelli tinti di rosa aspettava per fare la sua consegna.
«Sono venti in tutto» disse allegra e con un sorriso smagliante.
Pagai il conto usando il portafogli di Penguin, così, giusto per vendetta personale per essermi dovuto scomodare dalla mia postazione e per avermi fatto passare la voglia di leggere, lasciandole addirittura la mancia, e la salutai educatamente prendendo con me le tre pizze che ci avrebbero sfamato quella sera.
Per fortuna che Ace è fuori, aggiunsi mentalmente, altrimenti avrei dovuto ordinarne tre solo per lui. Beh, ma che problemi mi faccio, tanto pagavano gli altri.
Svoltai a sinistra e ignorai quei due mocciosi troppo cresciuti che dal divano erano passati al pavimento, e mi diressi in cucina dove apparecchiai il tavolo, distribuendo il cartone su ogni posto e iniziando a mangiare la mia parte con gusto, accendendo la televisione e sintonizzando il canale sulle ultime notizie.
I due ragazzi, non appena si accorsero della voce del giornalista sopra le loro teste, smisero di litigare e osservarono prima l’uomo sullo schermo, poi me ed infine la mia fetta di pizza.
La cucina dava sul salone e potevamo guardare comodamente i canali restandocene comodi a colazione, pranzo e cena.
«Ehi, non si offre?» chiese un indignato Penguin, il quale liberò Bepo all’istante e si fiondò a tavola. Non voleva ammetterlo, ma anche lui si sentiva sollevato e tranquillo quando non doveva trovarsi ad affrontare temperature del forno, fornelli e grammi di farina da dosare per preparare le sue stranezze culinarie. Il perché si ostinasse a farlo non era chiaro a lui come non lo era a noi.
«Buon appetito!» disse a bocca piena, ingoiando in un sol boccone un intero pezzo, mentre l’altro ragazzo iniziava a tagliare la sua cena con calma e senza fretta.
Passammo vari minuti in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri e dovetti ricorrere più volte al mio autocontrollo per ignorare gli sguardi preoccupati che mi lanciava di tanto in tanto Bepo con la coda dell’occhio. A suo modo cercava di prendersi cura di me, ma non era grave come pensava, davvero. Io mangiavo, e parecchio anche, solo non in modo regolare. Se saltavo il pranzo recuperavo al pomeriggio e se non cenavo, pazienza, mi rifacevo a colazione il giorno seguente, passando alla caffetteria dell’università. Insomma, non ero bulimico o anoressico, semplicemente a causa dei corsi e dello studio avevo dovuto riorganizzare i miei orari e arrangiarmi come potevo.
«Che fine ha fatto Ace?» chiese ad un tratto Penguin, accorgendosi solo allora che qualcuno mancava all’appello, «E’ già la terza volta che non cena con noi».
Dovrebbe fare più attenzione, pensai, fingendomi indifferente all’argomento, questi due iniziano a sospettare qualcosa. Mi toccherà metterlo in guardia se tiene così tanto alla sua riservatezza. Certo che poteva inventarsi una scusa migliore quando l’ho beccato a sgattaiolare fuori di casa la prima volta.
«In effetti è strano» aggiunse Bepo facendosi pensieroso, «Spero solo che non stia combinando qualche guaio.
Io, invece, spero si sia reso conto che non ho creduto minimamente alla sua trovata geniale. Andiamo, chi andrebbe mai ad uno spettacolo di poesia? Ace no di certo, si addormenterebbe ancor prima di entrare nel locale.
«Ora che ci penso è da un po’ che tutti si comportano in modo strano. Non trovi anche tu, Law?». Penguin, con la sua solita sfacciataggine, mi lanciò un’occhiata eloquente, sollevando le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e lasciandomi intendere che voleva avere delle risposte riguardo un certo argomento: gli stramaledetti affaracci miei.
«E cosa ci sarebbe di strano?» domandai, stando al gioco. Sapeva che non ero solito parlare della mia vita privata, tanto meno di come passavo il mio tempo libero e, sopra ogni cosa, non andavo a dire in giro che mi vedevo con quel disadattato sociale di Kidd.
Lui e Killer, quel simpatico e benedetto capellone che sembrava sopportarlo Dio solo sapeva come, avevano preso l’abitudine di presenziare alle nostre uscite i sabato sera, invitati una volta da Sanji, un’altra da Zoro, una da Penguin e, addirittura, da Rufy stesso. Erano, per qualche misteriosa ragione, entrati nelle sue grazie, così me li dovevo sorbire ogni volta che decidevamo di passare una serata tutti in compagnia. In quelle occasioni tutto era come la prima volta: ci fulminavamo con lo sguardo; io mi dedicavo al mio sport preferito, ossia farmi beffe di lui e causare le risate generali, sempre discrete per paura delle sue reazioni, e trovavo sempre nuovi nomignoli da affibbiargli, giusto per non farlo sentire ignorato o in disparte. Ero gentile, dopotutto, ed educato. Che a fine serata, chissà come, mi ritrovassi, volente o non, a casa sua quello era un caso a parte e non un’anima faceva domande.
Non sapevo bene quale fosse il termine adatto da usare e per il momento non avrei mai parlato o anche solo pensato a verbi impegnativi come frequentare. Troppo pesante, troppo intimo, troppo…
Troppo serio.
Andiamo, erano tempi moderni, nessuno mai si sarebbe andato a legare le mani in una relazione stabile e duratura che, in realtà, non sarebbe mai stato facile mantenere con un testardo come quel rosso incandescente.
A dire la verità non avevamo mai parlato di questa cosa, semplicemente lasciavamo la questione come stava e non affrontavamo l’argomento. Gli accordi erano questi: andavo da lui, scopavamo e ritornavo a casa. Semplice, facile da fare, non richiedeva grossi cambiamenti nel mio orario settimanale e, soprattutto, mi permetteva di tenermi il più lontano possibile dal venire coinvolto sentimentalmente. Mantenevo le distanze per questo motivo.
Una relazione non era ciò che volevo.
Avevo paura che, se avessimo iniziato a passare più tempo insieme, se ci fossimo incontrati per caso o se ci fossimo dati appuntamento così, senza uno scopo, ma soltanto per il bisogno di vederci, di sapere che eravamo un qualcosa di concreto e non solo un semplice e sporco piacere fisico, non ce l’avrei più fatta ad allontanarmi una volta scomparso tutto.
Non eravamo destinati a durare, niente durava, ed io avevo già le mie cicatrici da sopportare; non avevo bisogno di altro a cui pensare e per cui soffrire. Ero stanco.
E forse, continuando così, avrei smesso di sperare inconsciamente di essere considerato più che un oggetto da quell’invasato.
Perché quel bastardo mi piaceva. Mi piaceva più di quanto mi potessi permettere e volessi ammettere.
«Oh niente, solamente il fatto che una sera a settimana sparisci dall’appartamento e torni a casa con un sorriso grande da un orecchio all’altro. E la prima volta che ti ho visto con quell’espressione non ho creduto ai miei occhi. Diciamocelo, tu non sorridi mai. Aggiungiamo anche che dietro tutto questo c’è Eustass Kidd e la cosa diventa a tutti gli effetti incredibile!».
Fulminai Penguin con la peggiore occhiata assassina per tutto il suo discorso da saputello, meditando sulle varie possibilità che avevo di fargli soffrire le pene dell’inferno prima di ucciderlo e sbarazzarmi di lui per sempre.
Per un momento pensai che anche Bepo avrebbe potuto fare la stessa fine, quando provò a dare ragione all’altro ragazzo ma, accortosi che il mio umore non era dei migliori, preferì restarsene zitto e abbassare il capo, concentrandosi sul suo piatto e finendo la cena. Si salvò per un soffio.
Quando Penguin si decise a guardarmi con la faccia di chi sa di avere la situazione in pugno, gli dedicai un ghigno malefico, sfoderando il mio asso nella manica per punzecchiarlo a mia volta nel vivo.
«Parliamo di te ora» iniziai, facendogli intendere che non aveva via di scampo, «Tu e Killer-ya avete già concluso o hai fatto come tuo solito, comportandoti da ragazzino timido e impacciato, presentandoti solo come un buon amico e incapace di volere di più? Perché finirà come al solito di questo passo: lui se ne andrà con un altro e tu rimarrai a bocca asciutta».
Godetti nel vedere la sua faccia sbiancare e l’espressione vittoriosa che aveva lasciare spazio ad uno sguardo perso e una smorfia di pura tristezza.
Penguin era così. In un certo senso eravamo simili perché entrambi avevamo paura di quello che i sentimenti potevano causare, l’unica differenza era che io mi tenevo alla larga da questi dandomi comunque da fare, mentre lui non riusciva mai ad esprimersi come avrebbe voluto, perdendo così l’occasione di trovare una persona con cui stare bene.
Parlando in quel modo sapevo di averlo ferito, ma non ero riuscito a sopportare l’idea che tutti in quella casa si stavano facendo, ossia che il fatto di passare del tempo con Kidd mi rendesse felice.
Era sbagliato. Era tutto sbagliato, non avevano capito niente.
«Questa potevi risparmiartela» mormorò sommessamente, giocherellando con gli avanzi sul cartone della pizza.
Sbuffai e risposi con un’alzata di spalle, «Potevi evitare di provocarmi».
«Siete patetici, tutti e due!» sbottò allora Bepo con un furore che ne io ne l’altro ragazzo gli avevamo mai visto usare.
Brandì una forchetta come se fosse un’arma micidiale e la puntò verso di noi con aria importante.
«Penguin dovresti darti una svegliata e tirare fuori le palle, dato che sei la persona più fuori di testa che conosca. Andiamo, voi due siete stata l’attrazione nudista in un locale, ve lo siete dimenticato? E tu, Law, sei un povero illuso se speri di andare avanti così senza innamorarti!».
Lo guardammo allibiti per un tempo indeterminato. Non riuscivo a trovare nulla da ribattere e, per la prima volta, Bepo aveva saputo farsi rispettare e zittire due delle persone più difficili da sopportare e con la battuta acida sempre pronta e a portata di mano.
Quando si rese conto della sua sfuriata si sentì in imbarazzo, le guance si tinsero di rosso e, ricomponendosi, ci guardò con occhi desolati, iniziando a profilarsi in una serie di scuse per quanto riguardava il suo comportamento maleducato e indelicato. Davanti a quella scena Penguin iniziò ad urlare, insistendo sul fatto che non poteva prima sgridarci e poi scusarsi, mentre io ero semplicemente troppo impegnato a pensare ai miei problemi per dare ascolto alla loro pazzia.
Che avesse ragione il ragazzo bonaccione accanto a me?
Innamorarmi.
Odio Eustass-ya. Odio tutto di lui. E’ scorbutico, impaziente, senza cervello, pazzo, Malpelo, stronzo e senza un minimo di autocontrollo! Insopportabile oltre ogni dire. Ed io sono un emerito coglione visto e considerato che non riesco a troncare i rapporti. Perché diavolo gli ho lasciato il mio numero poi? Perché continuo ad andare da lui quando mi chiama? Da quando faccio quello che gli altri mi dicono?
«Scusa, scusa, scusa!» ripeteva nel frattempo Bepo.
«Dammi la roba e poi ne riparliamo» propose allora Penguin, salendo sopra al tavolo per raggiungere il suo coinquilino e ottenere ciò che voleva.
«Non stavamo parlando di Ace?» provai a ricordargli, tanto per cercare di sviare l’argomento e riportare un po’ di calma in quella casa che ormai ne aveva viste di tutti i colori. Nel vero senso della parola dato che una parete del soggiorno era coperta da impronte di mani, piedi, una faccia spiaccicata e schizzi verdi, blu, rossi e viola. Ognuno aveva lasciato la sua firma in una calda giornata estiva, quando avevamo deciso di ridipingere le pareti. Il nostro capolavoro, però, era uno smile stilizzato, fatto nel tentativo di creare un Jolly Roger tutto nostro, piuttosto originale.
«Può saltare in aria! Datemi la mia roba!» piagnucolava Penguin, infischiandosene di tutto e iniziando a girare per la cucina, aprendo tutti gli scomparti e rovistando dietro le pentole dove avevamo nascosto una volta il ricettario maledetto.
«Sapete, credo che lui sia coinvolto in loschi affari, al contrario di voi con problemi di cuore» ipotizzò Bepo, rimettendosi seduto e sistemandosi il colletto della camicia che l’altro ragazzo aveva spiegazzato a furia di saltargli addosso nel tentativo di farlo parlare.
«Ma dai? Sul serio?» fece sconcertato l’idiota di turno con la faccia dentro al frigo, mentre io, con le braccia incrociate e il viso corrucciato, fulminavo qualsiasi cosa con lo sguardo.
Problemi di cuore un paio di palle. Non siamo ragazzine in fase adolescenziale, nonché la peggiore.
«Lo sapete quanto lui ami le esplosioni. Potrebbe essere passato al lato oscuro».
«In questo caso piloterà un aereo e si farà esplodere andandosi a schiantare contro un monumento famoso? Magari la prigione di Impel Down, sai che figata!».
Mi schiaffai una mano sul viso, incapace di sopportare oltre.
«Smettetela di blaterare. Ace ha la ragazza, punto. Non c’è nessun attentato sotto e non è un terrorista!» sbottai.
«La ragazza? Ma stai scherzando?».
«Non ha mai avuto una ragazza».
«Gli sarà venuta voglia» rifletté allora Penguin, seduto a terra e con il mento appoggiato alla mano in una posa pensierosa.
«Sembra che sia iniziata la stagione degli amori anche se è inverno ormai».
«Bepo, dacci un taglio» mormorai minaccioso. Era il mio ultimo avvertimento, dopo di che non avrei più risposto delle mie azioni e, quando Ace avrebbe fatto ritorno, avrebbe avuto il suo bel da fare nell’aiutarmi a seppellire quei due in giardino.
Deglutì a fatica e fece segno di chiudersi la bocca con la zip, alzandosi per ripulire, lavare i bicchieri e le posate e mettere in ordine quello che l’iperattivo Penguin aveva ribaltato.
Io me ne tornai in salotto, diretto verso la mia poltrona e con tutta l’intenzione di estraniarmi dal mondo.
Ovviamente, se volevo sperare in una cosa del genere, dovevo per forza rinchiudermi in camera e chiudermi a chiave. Solo allora sarei stato sicuro di essere lasciato solo e in pace. Purtroppo per me il Destino non voleva così e il televisore di fronte a me si oscurò mentre un DVD veniva inserito e le luci si spegnevano.
«E’ tanto che non giochiamo a costruire les barricades con il sottofondo de Les Miz» ammiccò Penguin, prendendo posto sul divano e ammucchiando accanto a sé vari cuscini e coperte che avrebbero servito a fare da barricate, il tutto impilato in equilibrio precario sopra ai divani dai quali avremmo finto di cantare per poi crollare a terra senza vita quando i francesi avrebbero sparato.
La prima volta che l’avevamo fatto era successo per caso, durante il film, e da allora, ogni volta che decidevamo di rivederlo, era d’obbligo rifare la stessa scena. L’avevamo ripetuto talmente tante volte che era diventata una tradizione, tanto che lo consideravamo addirittura un gioco. L’ideale quando non sapevamo cosa fare a casa.
Una volta avevamo provato persino a imitare il film Fight Club. Inutile dire che non era finito molto bene.
Alzai gli occhi al cielo e lasciai che le canzoni del film riempissero la stanza, attirando l’attenzione di Bepo e facendolo correre per non perdersi l’inizio. Lui adorava quella nostra trovata un po’ infantile ma, in un certo senso, divertente.
Ho a che fare con degli idioti, pensai, prima di sbattere un bracciolo rimovibile della poltrona in faccia a Penguin e iniziare così un’imprevista battaglia di cuscini.
 
* * *

L’appartamento era silenzioso e buio a quell’ora tarda della notte; i erano balconi chiusi, la televisione spenta, il soggiorno miracolosamente non distrutto e in ordine, fatta eccezione per qualche cuscino ancora sparso qua e la sotto al tavolino e al divano. I cartoni delle pizze erano stati gettati nella spazzatura, i piatti lavati e rimessi al loro posto, non una virgola fuori luogo.
Tutto calmo e tranquillo come succedeva di rado e solo quando i coinquilini più vivaci erano a letto a dormire un sonno profondo popolato di sogni.
O fuori per un appuntamento.
Il classico tintinnio delle chiavi e lo scattare secco della serratura mi risvegliarono dal mio dormiveglia, facendomi tornare lucido all’istante e non più avvolto nel torpore. Feci un respiro profondo, stiracchiandomi lentamente e rendendomi conto di aver perso del tutto la sensibilità a entrambe le gambe a causa della posizione rannicchiata che avevo assunto per diventare un tutt’uno con la mia poltrona.
Avrei dovuto chiacchierare con Ace da li, non c’era altra soluzione.
Lo sentii aprire lo sgabuzzino e riporre il cappotto e le scarpe prima che una luce si accendesse ed illuminasse la stanza, rivelando la sua figura infreddolita e assonnata, ma in ogni caso entusiasta e di buon umore.
Ghignai. A quanto pareva le cose si erano fatte interessanti.
Quando attraversò il salotto per dirigersi verso la sua camera sobbalzò nel vedermi davanti a lui, intento a indicargli il divano accanto a me, invitandolo con una mano a sedersi e guardandolo con un’espressione diretta a fargli capire che non l’avrei lasciato andare fino a che non mi avesse raccontato tutto.
«Law, che ci fai ancora in piedi?» chiese guardingo, ma avvicinandosi comunque, sapendo che con me non aveva speranze di filarsela a nascondersi e lasciare le cose in sospeso.
«Pianificavo un omicidio. Come è andata la tua serata? Ti sei divertito ad ascoltare poesie?» feci sarcastico, calcando bene l’ultima parola e curioso di vedere quanto avrebbe retto quella farsa. Sapeva che non me l’ero bevuta la sua più grande, insulsa, pessima e patetica balla. Se mi avesse detto che usciva per trafficare illegalmente fuochi d’artificio forse non ci avrei dato così tanto peso ed interesse. Ma poesie? Per l’amor del Cielo, quello si che andava oltre l’inverosimile.
«D-direi di si» mormorò, visibilmente in imbarazzo e consapevole di essere stato scoperto, «E’ stato molto interessante ed istruttivo. Sai, i miei professori vogliono che mig...».
«Ace».
Mi guardò per un istante negli occhi, mordendosi un labbro indeciso, ma poi si arrese.
«E va bene, ti dirò tutto».
«Ti ascolto». Mi accomodai meglio, lasciando che riordinasse le idee e che iniziasse a raccontarmi di quelle sue capatine segrete che tanto aveva cercato di nascondere al mio intuito allenato e infallibile.
«Vado davvero in un locale dove danno spazio a quella roba noiosissima, ma in quel posto, ecco, c’è una persona che mi fa piacere vedere e così approfitto per parlarle» confessò.
Ci avevo visto giusto quindi. Quante storie per una ragazza, avrebbe potuto dirlo subito, di certo nessuno avrebbe avuto nulla da ridire.
Forse l’aveva fatto per Penguin, quell’idiota. Temeva che sarebbe andato in giro a dirlo a tutti, specie al suo piccolo e adorato fratellino, il quale non avrebbe di certo evitato di pretendere di conoscere immediatamente la persona con la quale il maggiore si frequentava. Sarebbe successo il finimondo, come tutte le volte.
«Sai, lui lavora lì come barista e chiacchieriamo molto quando ci sono questi eventi, dato che i clienti sono tutti concentrati ad ascoltare quelle quattro parole scritte a caso, dimenticandosi di ordinare da bere» disse, accennando ad un sorriso e, sicuramente, ricordando qualche buffa scena alla quale aveva assistito durante quegli incontri che di casuale da parte sua non avevano nulla. Mi domandavo solamente se si potessero considerare veri e propri appuntamenti dato che il mio coinquilino fingeva di andare in quel locale per caso, tanto per non destare sospetti sul ragazzo che gli interessava.
Perché mi ero accorto di quel lui che aveva usato, quasi sussurrato per paura o vergogna, ma non ci avevo dato peso. Nessuno lo avrebbe mai giudicato per i suoi sentimenti o per il suo modo di essere, io per primo.
«E da quanto vi frequentate?» domandai. Se volevo avere delle risposte dovevo porre le giuste domande e quella mi avrebbe permesso di capire se si trattava di qualcosa di serio oppure no, almeno per il momento.
«In realtà lui non sa nemmeno chi sono. Certo, mi riconosce, parliamo del più e del meno, ma tutto finisce qui» ammise abbattuto, sdraiandosi per tutta la lunghezza del divano e afferrando uno dei cuscini ancora a terra per coprirsi il volto.
Non bastavano le scenate di Penguin, il quale, quando una sua relazione mai iniziata andava a finire male, era l’esatto ritratto della disperazione e passava giorni e giorni in depressione, chiedendomi aiuto come se fossi uno psicologo. Adesso ci si metteva pure Ace a fare la parte del complessato pieno di paranoie.
«Presentati allora» feci con tono ovvio. Qual’era il problema? Dove stava la difficoltà?
«Come se fosse facile» farfugliò da sotto la stoffa, prima di scaraventarla a terra in un moto di stizza. «Non capisci Law, lui è così…».
«Non lo voglio sapere».
«E’ da perdere la testa».
Parlammo all’unisono, io con gli occhi rivolti al cielo, stanco di sentire sempre le solite cose uscire dalla bocca di quei poveri cuori infranti, mentre lui aveva un’aria sognante e perfettamente idiota.
«Almeno sai come si chiama? Così possiamo dare un nome a questa tua nuova fissazione».
Ignorando la mia solita acidità e il mio intento di sfotterlo, come facevo con chiunque, scattò a sedere, appoggiando i palmi sulle ginocchia incrociate sul divano e sfoggiando un sorriso carico di speranze e sogni e dondolandosi avanti e indietro come un malato di mente.
«Si chiama Marco, ma tutti lo chiamano La Fenice» confessò con gli occhi che brillavano e accompagnando la frase con un sospiro sognante.
«E viene soprannominato in questo modo perché è rinato dalle ceneri?» ipotizzai scherzando, appoggiando il mento ad una mano e fissandolo incuriosito e divertito da quella stranezza.
«A dire il vero è l’unico sopravvissuto ad un incendio che ha raso al suolo l’orfanotrofio in cui viveva».
Ci guardammo in silenzio per un lungo istante.
«Solo una persona con un passato del genere può avere una relazione stabile con un dinamitardo come te, amico mio».
«E’ quello che ho pensato anche io!» sbottò, saltando in piedi e prendendo a girare per la stanza, animato da chissà quale forza malefica interiore.
Sono uno peggio dell’altro. Penguin non ha il fegato di fare il primo passo con qualsiasi ragazzo verso il quale prova interesse e ora Ace. Non lo facevo un tipo che rimaneva a guardare, lo credevo più coraggioso e pronto all’azione.
«Sai, dovresti presentarti e chiedergli di uscire. Le persone normali fanno questo» decretai, dandogli la soluzione che cercava, che tutti cercavano quando decidevano, o venivano obbligati, di parlare con me, «Lascia perdere la poesia e passa ai fatti. Scommetto che accetterà».
«Tu dici, Law? E se dovesse dire di no?».
«Almeno non dovrai più ascoltare sonetti» gli feci notare, alzandomi per sgranchirmi le gambe e il resto del corpo prima di dirigermi verso la mia camera per concedermi qualche meritata ora di sonno. Anche quella sera avevo fatto tardi. Fantastico.
Mi seguì anche lui, continuando a blaterare su quanto gli piacesse il taglio di capelli del ragazzo, sui suoi occhi, i modi di fare pacati, le sue battute, e altre sciocchezze simili.
Sperai di riuscire a prendere sonno dopo tutto quello che avevo dovuto stare ad ascoltare, cercando vivamente di farle entrare per un orecchio e poi lasciarle uscire immediatamente dall’altro.
Delle ragazzine. Io ho a che fare con delle sciocche ragazzine, pensai rassegnato.
Prima che mi chiudessi la porta alle spalle, Ace decise che quello era il momento migliore per ricordarsi di qualcosa di importante, sotto il suo punto di vista, e richiamò la mia attenzione porgendomi una domanda che mi rese impossibile prendere sonno.
«A proposito, non te l’ho nemmeno chiesto, il tuo appuntamento dell’altra sera con Kidd come è andato? Tutto bene?».
Non lo disse con voce derisoria o con cattive intenzioni, si preoccupava solo per me data la natura violenta di quell’essere. Era comprensibile sotto un certo aspetto, ma non potei fare a meno di digrignare i denti e sentirmi punto nel vivo del mio orgoglio e della mia personalità fredda e ghiacciata.
Dannazione, come gli vengono certe idee in mente?
«Non era un appuntamento» sibilai, sperando di essere chiaro e di non doverlo più ripetere a nessuno e sentire sparate del genere su quell’argomento.
«Avete cenato insieme, pensavo che forse …».
«E tu come lo sai?» chiesi, voltandomi di poco e scoccandogli un’occhiata glaciale da sopra la spalla, trattenendo a stento l’irritazione per quelle insinuazioni.
«Beh, Penguin ha accennato qualcosa a riguardo, quando non c’eri» si giustificò, rendendosi conto di aver detto troppo e facendosi piccolo piccolo, inoltrandosi sempre più all’interno della sua stanza per paura della mia reazione e dell’espressione omicida che si era appena dipinta sul mio volto.
Dimenticai Ace nell’esatto istante in cui fece il nome di quell’emerito idiota che mi ritrovavo come amico e come compagno di corso, nonché coinquilino e, con poche falcate, raggiunsi la camera del diretto interessato, spalancando la porta con appesi alcuni poster di cantanti e facendola sbattere addosso alla parete.
Lo sentii sussultare per lo spavento sotto ad un ammasso di coperte, ma non fece in tempo a fare domande o a rendersi conto del guaio in cui si trovava perché mi fiondai su di lui con l’intendo di soffocarlo con il suo stesso cuscino o con qualsiasi altra cosa mi fosse ritornata utile.
Di solito mi limitavo alle minacce e ad incutergli timore dato che non mi abbassavo ad usare le mani, consapevole del pericolo di potergli fare male davvero e deciso ad evitarlo. Il fatto era che ero sempre stato un tipo calmo e convinto che passare alle maniere forti fosse solo l’ultima possibilità da prendere in considerazione, ma in quel momento il mio autocontrollo sembrava essersi azzerato del tutto, lasciandomi solo con un forte prurito alle mani.
Praticamente il mio solito modo di essere e la mia personalità erano stati messi a dura prova in quegli ultimi tempi. Prima sorridevo e adesso mi lasciavo andare agli istinti. Tutto ciò, però, invece che farmi piacere mi faceva preoccupare. Se fosse successo un anno prima o anche solo un paio di mesi fa, la cosa non mi avrebbe minimamente toccato, anzi. Quello che mi preoccupava, invece, era il fatto che il motivo per il quale ero scattato come una molla, oltre alla scoperta di saper ancora come sorridere, era sempre a causa quell’invasato, montato e arrogante Eustass-ya.
«Dì un’altra volta che io e Kidd usciamo assieme e sarò costretto a farti molto male, Penguin!» lo minacciai, tra una cuscinata in faccia e l’altra.
Fu solo quando cadde dal letto e riuscì a sfuggire alla mia presa, gattonando verso l’uscita, che trovò il fiato e il tempo di ribattere.
«Adesso vi chiamate anche per nome? E’ una cosa seria allora» scherzò, fiondandosi fuori dalla stanza non appena si accorse del mio sguardo, mettendo un piede in fallo nel calpestare il tappeto e scivolando a terra lungo il corridoio.
«Ma che succede?» sbadigliò un assonnato Bepo, disturbato dai rumori molesti che stavamo facendo, mettendo appena la testa fuori e stropicciandosi gli occhi.
«Penguin ne ha combinata una delle sue facendo arrabbiare Trafalgar» fece Ace con voce monotona, abituato a quello scenario, appoggiato al muro con le braccia incrociate e osservando divertito la scena, indeciso se intervenire in soccorso del ragazzo che stavo immobilizzando a terra e minacciando di morte istantanea, incurante delle sue proteste e deciso a ricorrere alla mia arma segreta.
Avevo sempre un asso nella manica, o meglio, nei pantaloni, ed ero pronto ad usarlo con maestria e senza esitazione, come in sala operatoria.
«Tutto normale quindi» asserì Bepo.
«Tutto normale».
«Non restate a guardare, questo psicopatico ha un bisturi in tasca!».




Angolo Autrice:
Okay, Buon qualsiasi cosa a tutti! Spero stiate bene e che il capitolo riguardante la vita casereccia dei quattro coinquilini vi sia piaciuto e vi abbia strappato qualche sorriso.
Che dire, il capitolo inizia con le prime righe del capolavoro di Jane AustenOrgoglio e Pregiudizio. Venerate questa donna e il suo genio, grazie.
Come avrete immaginato e da quello che vi ho spiegato nel capitolo precedente, Law non segue un’alimentazione tanto giusta, nonostante studi medicina, ma, come ci tiene a sottolineare, lui mangia, solo a orari differenti e per la maggior parte schifezze.
Penguin è ossessionato e malato di mente. Nah, poveretto, non così tanto, ma ce lo vedo attivo e un po’ fuori dal comune :D
Bepo è coccoloso e non esce mai dalle righe, a parte nei casi estremi per far valere le sue ragioni come a tavola! Bravo ragazzo, continua così!
Aaaaaaace! Ace che si finge un cliente di passaggio e si sorbisce poesie e sonetti romantici solo per poter vedere Marco e parlarci. E poi fa di Trafalgar il suo consigliere personale. A qualcuno doveva pur dirlo di essersi preso una cotta. 
QUASI DIMENTICAVO: les barricades sono le barricate nel musical meraviglioso di Les Miserables, appunto Les Miz. Non so cos’altro dire, come sempre se ho dimenticato qualcosa potete farmelo sapere o chiedere.
Ringrazio tutti quanti, dal primo all’ultimo, vi meritate tanti abbraccioni **
Spoileeeeeeer:
 
“Eustass-ya, non mi saluti nemmeno?” mi pungolò, vedendo che non ero intenzionato a voltarmi.
“Ciao?” feci, stringendomi nelle spalle e fissandolo interrogativo, non capendo bene cosa si aspettasse che dicessi dopo la scenata di poco prima. Che diavolo voleva ancora da me? Mi aveva esasperato abbastanza per quel giorno.
Rimase fermo a guardarmi, l’indecisione dipinta sul suo volto mentre si mordeva un labbro, forse mentre vagliava le varie battutine acide del suo repertorio da piaga della società.
“Se non hai altri commenti, io avrei di meglio da fare” conclusi, prima di lanciargli un ultima occhiata tagliente e dirigermi verso l’uscita.
“Non mi è dispiaciuto vederti”.

 
See ya,
Ace.


 

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Capitolo 12
*** Capitolo 10. Le malsane idee di Rufy. ***


Capitolo 10.
Le malsane idee di Rufy

Il lunedì, per quanto lo detestassi, era arrivato e aveva trascinato con sé un tempaccio da lupi che preannunciava l’inizio di un inverno dannatamente e fastidiosamente freddo e nevoso, come di consuetudine.
Avevo passato la mattinata in officina con il riscaldamento al massimo alle prese con quell’auto sfasciata che mi causava parecchi grattacapi da quando era arrivata. Fino a quel momento ero riuscito solamente a smontare tutti i pezzi del motore e a ordinare l’occorrente necessario per i ricambi e le modifiche. Non lo credevo possibile, ma era ridotta ad un rottame. Era persino inutile sistemarla, tanto valeva comprarne una nuova. Ad ogni modo, quello era il desiderio del proprietario e finché aveva i soldi per pagare io eseguivo gli ordini senza lamentarmi. O meglio, senza farlo in modo diretto perché con Killer avevo la possibilità di sfogarmi e pronunciare tutti gli improperi che volevo contro chiunque.
Quel giorno, però, il mio compagno fidato d’infanzia e gioventù era ammalato e non era venuto a lavoro. Tutta colpa dell’uscita dello scorso sabato sera, quando avevamo dovuto aspettare per una buona mezz’ora Zoro nel punto che avevamo accordato per il ritrovo. Mi stava simpatico, nulla da dire, ma non aveva il minimo senso dell’orientamento, bisognava ammetterlo. Eppure avrebbe dovuto conoscere la città ormai, come faceva a perdersi ancora per le vie del centro?
Così Killer si era beccato un raffreddore con i fiocchi e aveva deciso che, per rimettersi al più presto, avrebbe saltato uno o due giorni in officina per riposare e trovare un modo efficace per guarire e tornare in pista assieme a me. Anche perché senza di lui mi ritrovavo solo e avevo tutto il tempo per annoiarmi e rischiare di incazzarmi per un nonnulla piuttosto facilmente.
La pausa pranzo era iniziata da poco e avevo due ore e mezza da riempire. Solitamente la passavo al bar assieme al mio migliore amico e a Franky, o qualche altro collega, ma quel giorno sembrava che tutti avessero altro da fare, lasciandomi solo con un panino e una birra. Di restarmene chiuso in carrozzeria non se ne parlava proprio, così avevo deciso di prendere la giacca e uscire a fare quattro passi nonostante tirasse un vento freddo, giusto per non morire di noia, cercando un posto nuovo dove svagarmi e passare il tempo che scorreva lento e inesorabile.
Senza prestare attenzione alla strada che facevo, camminai per un po’ con le cuffie nelle orecchie e un po’ di sano e rilassante alternative rock come base musicale, visto che non mi sentivo particolarmente cattivo in quel momento, guardandomi attorno senza troppo interesse alle persone o agli edifici che superavo con calma e senza fretta.

There you go. You're always so right, it’s all a big show, it's all about you.

Fu senza rendermene conto che raggiunsi il quartiere universitario dove da entrambi i lati della strada si affacciavano scuole, istituti e facoltà nei pressi dei quali di aggiravano ragazzi che per la maggior parte erano studenti e professori.
Passai affianco ad uno dei primi palazzi e constatai che si trattava senza dubbio della facoltà di ingegneria, quella che tanto mi sarebbe piaciuto frequentare in modo completo. Rimasi a guardare l’ingresso dal quale usciva un via vai di gente diretta al bar poco lontano o a casa dopo aver terminato i corsi e mi chiesi cosa si provasse ad aggirarsi tra quelle mura e presenziare alle lezioni, avendo a che fare tutti i giorni con la meccanica. Non sarebbe stato affatto male, decisi poco dopo, riprendendo a camminare e lasciandomi alle spalle quel piccolo sogno che richiusi prontamente nel cassetto. Non avevo tempo per lo studio e lavorare all’officina mi impegnava tutti i giorni della settimana. In più mi serviva lo stipendio se volevo continuare a mantenermi e a permettermi una casa e qualche sfizio. Un sacrificio dovevo pur farlo.
Estrassi il lettore musicale dalla tasca del giubbotto e cambiai brano, distogliendo per un attimo gli occhi dal marciapiede e ritrovandomi ad andare a sbattere addosso a qualche mocciosetto l’istante successivo, pestandogli i piedi e ricevendo in cambio una gomitata accidentale al fianco.
Bene, la mia calma andrà a farsi fottere in questo esatto momento.
«Eustachio! Ma sei tu!» constatò una voce allegra e acuta, mentre un paio di braccia mi artigliarono le spalle e mi strinsero in un abbraccio improvvisato e ossuto. Riconoscendo il proprietario di quel corpo mi sentii gelare il sangue e feci di tutto per allontanarlo e riprendere il controllo.
«Ragazzino, che ci fai da queste parti? Non dovresti essere a scuola?» chiesi scocciato, superandolo e riprendendo la mia strada, ma venendo comunque affiancato da un saltellante Rufy pieno di energia, completo di paraorecchie, guanti e un sorriso enorme sul viso.
Ghignò divertito prima di spiegarmi che quel giorno non era andato al liceo perché aveva dormito fino a tardi, decidendo così di prendersi una giornata di pausa dai libri, che mai apriva, e approfittare del tempo libero per andare a salutare uno dei suoi più cari amici e chiedergli aiuto con le materie che non riusciva a capire.
Law.
Repressi un moto di rabbia nel sentirgli pronunciare quel nome e, con un cipiglio ancora più incazzato, mi strinsi nelle spalle e aumentai la velocità, senza però riuscire a distanziare quel piccolo rompiscatole, il quale sembrava deciso a seguirmi e a starmi attaccato come una sanguisuga.
«Anche tu stai andando a trovare Traffy?» domandò sorridente, «Possiamo andarci insieme».
«No» grugnii in risposta, «Non so nemmeno dove si trova». Ed era vero, non avevo idea di quale fosse la sua università, sapevo solo che studiava medicina ma il resto non mi interessava minimamente. Non parlavamo molto della nostra vita, non ci raccontavamo aneddoti o le esperienze fatte prima di conoscerci, non eravamo… Insomma, non avevamo quel tipo di rapporto, ecco. E poi, mi trovavo da quelle parti solo di passaggio, alla ricerca di un posto dove pranzare quindi, a conti fatti, incontrare quel saccente non mi interessava affatto e non era nei miei piani. Per cosa poi, sentirmi rinfacciare a vita il fatto che ero andato a fargli visita a scuola? Giammai.
«Lo so io. Vieni, da questa parte!». E, afferrandomi per un gomito, ignorando le mie proteste e non facendosi impressionare dal fatto che avevo puntato i piedi a terra, deciso a non muovermi, mi trascinò lungo la strada fino ad un paio di edifici più avanti, in uno spiazzo circondato da una siepe ben curata all’interno del quale spiccavano in tutto il loro splendore le mura bianche della facoltà di medicina.
Cosa ho fatto di male oggi, cosa? Non ho ancora investito nessuno e non ho nemmeno avuto il tempo di litigare con Killer, quindi perché il Karma deve punirmi?
Nervoso e con le labbra stirate in una smorfia contrariata, lasciai che quel marmocchio, così diverso dal fratello maggiore, continuasse a tirarmi da una parte all’altra, chiedendo informazioni ai ragazzi di passaggio per scoprire se qualcuno di loro sapesse indicargli la classe di Trafalgar. Fino a quel momento, grazie alla Provvidenza, nessuno aveva saputo aiutarci.
«Che strano» mormorò Rufy, imbronciandosi e fermandosi in mezzo al cortile davanti alle scalinate dell’ingresso dell’edificio. Si guardava attorno, fissando una ad una le finestre sulla facciata principale, decidendo cosa fare per portare a termine la sua missione di ricerca.
Accanto a lui continuavo a battere il terreno con la punta di un piede, fremendo per la voglia di fare dietrofront e andarmene da quel posto al più presto, evitando figuracce e situazioni imbarazzanti. Perché ne ero certo, quel medicastro non avrebbe perso un minuto del suo tempo per sfottermi e fare battutine sul fatto che mi fossi presentato lì senza l’intento di scopare, come di comune accordo.

You think you know what everyone needs. You always take time to criticize me.

«Entriamo!» decise ad un tratto, partendo spedito verso l’entrata e obbligandomi ad inseguirlo se non volevo restarmene da solo in mezzo a quel branco di studenti dalle facce inquietanti e tutti vestiti uguali come forse dettava il regolamento.
Se da fuori l’università sembrava grande, l’interno lo era ancora di più. L’ampio atrio dava su una hall illuminata dalla luce artificiale sul soffitto e subito a sinistra c’era quella che dedussi essere la segreteria con un cartello in bella mostra che recava la scritta ‘Informazioni’.
«Potremmo chiedere a quella donna se sa qualcosa» bofonchiai, indicando a Rufy la segretaria con i capelli verdi e un paio di occhiali tondi abbassati sugli occhi che, da dietro il bancone, rovistava un pacco di scartoffie con l’aria di chi non ne può più di fare quel lavoro.
«Si, forse hai ragione» accordò il piccoletto, facendomi segno di seguirlo prima che qualcuno bloccasse il nostro cammino deciso verso la ragazza.
Davanti a noi apparve una faccia che ormai avevo imparato a riconoscere e Rufy, una volta resosi conto di chi si trattasse, alzò le braccia in aria e, con una risata, salutò un ragazzo dall’aria pacata e gentile, anche se un po’ stupita nel ritrovarsi davanti due suoi conoscenti che non facevano affatto parte del corpo studenti della facoltà.
«Bepo! Finalmente una faccia famigliare!».
Alternando lo sguardo da me alla palla di vita davanti a lui, Bepo ci chiese cosa ci facessimo lì durante la pausa pranzo e per giunta insieme.
Certo, anche io al suo posto sarei rimasto di stucco nel vedere un energumeno con i capelli rossi e una faccia che prometteva solo guai, desideroso solo di sparire da quelle mura e con lo sguardo intento a fulminare qualsiasi persona gli passasse accanto fissandolo con occhi sgranati e curiosi, in compagnia di uno studente del liceo con una massa corporea tre volte inferiore a quella del compagno e con un’espressione spensierata e leggermente idiota. Chiunque ne sarebbe rimasto toccato.
«Stiamo cercando Traffy» esclamò energicamente Rufy e in quel momento mi resi conto che ormai ero fregato, dato che sicuramente il coinquilino di quel bastardo sapeva esattamente dove si stesse nascondendo. Magari in un’aula dimenticata dal mondo intento a dissezionare cadaveri.
Disgustoso, pensai, ignorando un brivido di freddo lungo la schiena.
Scossi energicamente il capo, cercando di far intendere allo studente di medicina che non doveva rispondere a quel ragazzino e gli feci addirittura segno che gli avrei torto il collo se solo avesse fatto una parola, ma non fui abbastanza svelto o esplicito.
«E’ al secondo piano, aula centotrentacinque. Prendete le scale, sono laggiù» spiegò Bepo, sorridendoci gioviale e contento di esserci stato utile, salutandoci mentre quell’esaltato di Rufy si dirigeva a gran velocità su per le scale con me al suo seguito, più frustrato che mai e con la mente impegnata a maledire quel ragazzo che, ignaro del male che mi stava causando, ci aveva fornito le indicazioni che stavamo cercando da venti minuti buoni. Sapevo che non era cattivo e che era votato al bene, ma non potei fare a meno di odiarlo in quell’istante.
«Sappi che non la passerai liscia, orsetto» minacciai, passandogli accanto e vedendo come sbiancava, iniziando a scusarsi chinando il capo.
«Eustachio, muoviti! Sei così lento!».
Sospirai rassegnato, cercando di ignorare quell’infantile con il giubbetto rosso e i capelli neri che faceva due gradini alla volta per andare più veloce, tanto era impaziente e su di giri per la situazione.
Raggiunto il secondo piano non fu difficile localizzare la presunta classe di Trafalgar e, giusto un attimo prima di varcare la soglia con la porta aperta e il numero centotrentacinque attaccato sulla parete accanto, pregai qualsiasi entità esistente in ascolto che il ragazzo non fosse in classe, dandomi la possibilità di potermene andare il più in fretta possibile da quel posto.
Ovviamente pregavo troppo poco e non ero un bravo e fedele credente per poter pretendere che la mia grazia fosse esaudita all’istante.
Riuscii a scorgerlo anche da lontano, seduto in ultima fila e appoggiato comodamente allo schienale con un pacchetto di biscotti in una mano e un libro nell’altra. Indossava una camicia grigia, al contrario di tutti gli altri che la portavano bianca, e la cravatta blu a righe allentata sul colletto aperto con i primi bottoni sbottonati. E io che lo facevo uno studente modello. In quel momento si stava spostando qualche ciocca scura e spettinata che gli ricadeva sugli occhi, disturbando la sua lettura. Aveva l’aria stanca, o forse lo sembrava solo per le occhiaie più marcate del solito, ma per il resto appariva abbastanza in forma.
A volte, quando mi capitava di osservarlo senza che se ne accorgesse, mi chiedevo cosa gli passasse per la testa quando se ne rimaneva in disparte e in silenzio, lasciando vagare lo sguardo nel nulla, senza rendersi conto di estraniarsi dal mondo. Più il tempo passava e più avevo l’impressione che qualcosa in lui non andasse. Ovvio, l’avevo pensato fin dall’inizio che quello la non era umano, ma c’era qualcos’altro, ne ero certo. Era come se stesse male, ma faceva di tutto per non darlo a vedere. Ero capace anche io di accorgermi quando qualcuno non funzionava bene, insomma, alternava un colorito cadaverico due giorni si e uno no ed era magro, forse troppo.
Il perché mi facessi tutte quelle domande sulla sua salute non me lo sapevo spiegare, forse temevo di venire contagiato, ma ormai era tardi per tirarmi indietro dato che con lui ci andavo a letto da un pezzo. Magari era per questo, mi sembrava normale, dopotutto, notare certe cose quando si viene a contatto per un certo periodo di tempo con una persona.
«Traffy!».
Rufy, urlando e attirando l’attenzione di buona parte degli studenti che passeggiavano nei corridoi pranzando e chiacchierando animatamente, attraversò la classe fino all’ultimo banco accanto alla finestra allargando le braccia e saltando praticamente sopra al banco del povero studente che sembrava aver appena visto un fantasma, tanto era impallidito nel sentirsi chiamare all’appello.
Sogghignai divertito. A quanto pareva Trafalgar non era solito ricevere visite e, sapendo com’era fatto Rufy, temeva che potesse combinare qualche guaio irreparabile, mettendo lui stesso nei casini.
Dopo un attimo di esitazione, però, davanti ai mille sorrisi del ragazzino, Law sembrò calmarsi e tranquillizzarsi, riprendendo la sua espressione pacata, abbandonando il libro e puntando i gomiti sul tavolo per appoggiare il mento alle mani, dedicando al suo amico un sorrisetto carico di domande e curiosità.
«Rufy, come mai da queste parti?» chiese, osservando come l’altro afferrasse una sedia dalle postazioni vicine e si sedesse a gambe incrociate, dondolandosi avanti e indietro e spiegando l’andamento della sua mattinata e di come gli fosse venuta l’idea di andare a fargli compagnia durante la sua pausa pranzo. A quelle parole, anche restando a debita distanza appoggiato allo stipite della porta, sentii chiaramente il suo stomaco brontolare e, animato da una nuova eccitazione, lo vidi aprire lo zaino che fino a quel momento si era portato sulle spalle e che era passato inosservato, estraendo un paio di sacchetti contenenti entrambi due panini imbottiti al massimo con carne e altre schifezze varie.
Ricordai solo allora che l’intestino di Rufy, come quello del fratello, era un pozzo senza fondo, visto e considerato quanto fosse difficile sfamarli. La maggior parte delle volte un pasto completo non bastava affatto.
«E’ venuto anche Eustachio con me» si ricordò, tra un morso e l’altro, indicandomi distrattamente con una mano e facendomi smettere di respirare, mandando in frantumi la mia ultima possibilità di risultare invisibile.
Non appena pronunciò quello che nella sua mente bacata era il mio nome storpiato, l’espressione di Law si trasformò in un ghigno di puro divertimento, mentre i suoi occhi sfrecciavano nella direzione indicatagli fino ad incontrarsi con i miei nei quali infiammava la frustrazione e la rabbia per quella situazione così scomoda alla quale non ero riuscito a fuggire.
«Toh guarda, Eustass-ya» fece con il chiaro intendo di deridermi, sollevando un sopracciglio e osservandomi dall’alto in basso.

So shut up, shut up, shut up! Don't wanna hear it. Get out, get out, get out! Get out of my way. Step up, step up, step up! You'll never stop me. Nothing you say today is gonna bring me down.

Strinsi i denti. Ormai il danno era fatto e andarmene avrebbe significato segnare e sottolineare la mia sconfitta, perciò mi staccai di malavoglia dalla porta e mi avviai tra i banchi, sempre fulminando con lo sguardo quella seccatura e sfidandolo a prendersi ancora gioco di me con una delle sue solite frasi canzonatorie.
Afferrai la prima sedia che mi capitò a tiro e me la trascinai dietro fino a quando non li raggiunsi, facendo stridere le gambe di ferro sul pavimento di proposito in modo da rendere chiaro quando tutto ciò mi desse fastidio, ignorando le occhiate curiose e sconcertate dei pochi studenti presenti nella classe. Bastò dedicare loro un’occhiataccia e un ringhio basso per spaventarli e farli uscire da lì all’istante.
Li raggiunsi e voltai la sedia al contrario, in modo tale da potermi sedere a gambe aperte e appoggiare i gomiti sullo schienale, lanciando malamente il sacchetto di carta contenente il mio pranzo nel banco vuoto vicino al suo.
«Qual buon vento» disse, osservando la scena con la solita aria impassibile, senza premurarsi di nascondere nel tono di voce tutto il divertimento e la malsana allegria che provava nel vedermi nell’ultimo luogo sulla faccia della terra dove si aspettava di trovarmi.
«Vedi di non farti strane idee, Trafalgar» precisai furente, «Sono qui solo perché questo impiastro mi ci ha costretto». Misi subito in chiaro le cose, prima che potesse anche solo passargli per la mente il pensiero che io avessi deciso di mia spontanea volontà di andare a fargli una cordiale visita.
«Non ho insinuato niente» rispose, imitando Rufy e riprendendo a mangiare, ignorandomi bellamente e comportandosi come se tutto ciò non lo toccasse minimamente. Come se il fatto che mi trovassi lì o meno non cambiasse nulla.
Questo mi fece incazzare oltre ogni maniera e riversai tutta la tensione sul panino che mi ero portato a casa, divorandolo come un disperato e facendo concorrenza alla poca grazia di Rufy, il quale era appena passato al secondo giro.
Io spreco il mio tempo e metto a dura prova la mia pazienza e lui che fa? Se ne frega? Razza di ingrato presuntuoso! D’ora in poi passerò la pausa pranzo rinchiuso in officina, così evito di imboccare strade sbagliate e incontrare gente che meno vedo meglio sto.
Perché ero l’unico al quale tutto ciò sembrava strano e inaccettabile? Nonché altamente offensivo. Era come se non mi prendesse sul serio in considerazione, come se ciò che facevo e dicevo gli interessasse meno di zero. Quando si trattava di me tutto appariva più attraente, mentre io passavo in secondo piano, ad aspettare che quello stronzo si decidesse a guardarmi e a stare a sentire tutti gli insulti che meritava. Invece no, mi liquidava con uno sguardo, con un ghigno, con un’espressione di sufficienza o disinteressata e tornava ad occuparsi di altro. Persino quel bamboccio di Rufy, intento a sporcarsi il viso di salsa senza smettere di parlare e di ripetere quanto fosse contento di essere lì invece che a scuola, appariva degno di nota in confronto a me.
Probabilmente anche avere davanti agli occhi un qualcosa di morto sarebbe stato più interessante in quel momento, come in qualsiasi altro del resto. Quando avevo a che fare con quel moccioso era sempre così: a lui non importava quanto potessi arrabbiarmi e urlargli contro quanto lo odiassi perché tutto ciò non lo toccava neanche di striscio, anzi, per qualche strana ragione nota solo a lui e alla sua mente contorta sembrava trarne divertimento. Era di sicuro la prima persona che, dopo avermi conosciuto, non avesse cercato in tutti i modi di evitarmi o non rivedermi mai più. Non lo spaventavo e non aveva paura di essere preso a pugni e venire disintegrato, come il ragazzino spavaldo di fianco a lui. Erano persone fuori dal comune, come me. A pensarci bene tutta la loro compagnia aveva qualcosa di diverso dalla gente normale. Andavano sempre e continuamente alla ricerca di guai, non avevano il minimo rispetto per nessuno ritenuto inferiore o cattivo e punivano qualsiasi bruto che arrecasse offesa a qualsiasi membro del loro gruppo. Si proteggevano a vicenda, erano rumorosi, strambi, diversi. In qualche modo, forse, anche speciali.

You think you're special, but I know and I know and I know and we know that you're not.

«… ed è stato mentre cercavo l’università che ho incontrato Eustachio, così gli ho chiesto se voleva venire con me e ha acconsentito subito» stava finendo di spiegare Rufy, apportando senza rendersene conto alcune modifiche nella sua versione dei fatti, mettendomi nei guai fino al collo, tanto che, non appena udii le sue parole, il boccone mi andò di traverso.
«Ma davvero?» fece Law, guardandomi di sottecchi. Il ghigno perennemente presente sul volto. Se la stava spassando da matti, ne ero certo, ed io non potevo fare altro che negare, negare fino alla morte nonostante fosse ormai chiaro a entrambi che avevo poco da ribattere. Ci aveva già pensato Rufy a continuare ad aggiungere il resto, ovviamente cambiando tutti i fatti e volgendoli a mio sfavore.
«Abbiamo incontrato Bepo e ci ha detto dove potevamo trovarti. Poi abbiamo preso le scale e ci siamo fiondati qui immediatamente!». Parlava al plurale, dimenticando che io avevo combattuto fino all’ultimo per evitare quell’incontro, e mi chiesi se lo stesse facendo apposta, anche se guardandolo bene non ci avrei poi giurato. Avevo capito ormai che quel piccoletto agiva d’istinto e non faceva mai male a nessuno di proposito. Preferiva invece soccorrere tutti i poveri reietti, deboli ed indifesi alla disperata ricerca di aiuto. Un buon samaritano, ecco cos’era, perciò quello che stava dicendo lo diceva solo perché gli mancava qualche rotella nel cervello poco sviluppato che si ritrovava nella testa molto probabilmente vuota.
«Eustass-ya, spero tu non abbia spaventato troppe persone».
«Potrebbero morire di paura se vedessero quello che sono capace di farti, Trafalgar» ribattei piccato, mentre lui colse al volo il doppio senso che avevo creato senza volerlo.
«Non ti facevo così portato per l’esibizionismo, ma non importa, mi adatterò».
«Ti spacco la faccia, brutto moccioso!». Scattai in piedi e, dopo essermi tolto bruscamente di mezzo l’intralcio della sedia, sovrastai Law con i pugni alzati, pronto a colpirlo e infischiandomene altamente dell’espressione che da stupita passò ad una tremendamente seria sul viso di Rufy, stonando molto con il suo tipico comportamento infantile.
La fonte dei miei problemi sospirò esasperata, alzandosi lentamente e con movimenti calcolati, sollevando poi il capo e piantando un paio di occhi assurdamente grigi nei miei con così tanta sfrontatezza da urtarmi ulteriormente i nervi già tesi. Oltre a questo, ebbe la faccia tosta di mostrarmi il dito e farmi capire dove potevo andarmene.
«Provaci e in pochi secondi ti butto fuori di qui a calci» mormorò con un tono apparentemente pacato, ma che sapeva fortemente di minaccia.
Vedendoci uno di fronte all’altro e intenti a fronteggiarci con le peggiori intenzioni in mente, Rufy decise di abbandonare momentaneamente il suo spuntino per alzarsi e avvicinarsi a noi, facendo schioccare le nocche per farci intendere che, se mai avessimo deciso di colpirci, lui non si sarebbe tirato indietro e non si sarebbe fatto pregare prima di sferrare uno dei suoi pugni.
Così vicini e pronti a scattare al primo movimento dell’avversario potevo sentire l’aria carica di elettricità circondarci, mentre una dose di adrenalina mi scorreva veloce nelle vene.
Prima di iniziare la zuffa, però, volle almeno provare a calmare le acque per evitare una litigata che sarebbe finita male per tutti. Di certo non potevo aspettarmi che i presenti di fronte ad una rissa non andassero a chiamare i professori e avvisassero la sicurezza. Mi avrebbero sbattuto fuori, impedendomi di ritornare e Trafalgar sarebbe stato sospeso per un po’.
Sorrisi sghembo, quella si che era una bella soddisfazione, non ché una piccola rivincita personale per tutto quello che avevo dovuto sopportare da quando l’avevo conosciuto.
Una vera e propria disgrazia quella fatidica e maledetta sera.
«Ragazzi io sono pronto, ma sarebbe meglio se vi calmaste, altrimenti le condizioni in cui usciremo di qui non saranno tanto gradevoli» disse, sghignazzando tra sé davanti a quell’idea.
Law assottigliò lo sguardo, fulminandomi per qualche altro istante, decidendo poi che non valeva la pena rischiare così tanto quel giorno. Di occasioni ce ne sarebbero state tante e molto presto.
«Dovremo rimandare la nostra discussione ad un momento più propizio, a quanto pare» ghignò, i canini in bella vista come se avesse voluto ringhiarmi contro.
Grugnii qualche insulto verso la madre di ignoti per poi rimettermi a sedere, imitato subito dopo dagli altri due ragazzi.
«E’ stato divertente» mormorò Rufy quando le acque si furono calmate, spostando lo sguardo da me al suo amico e cercando il nostro sguardo e il nostro appoggio.
Lo guardai scettico, chiedendomi come potesse trovare eccitante arrivare a fare a pugni con delle persone che conosceva. Probabilmente il suo cervello doveva lavorare al contrario del normale, altrimenti non avrei saputo spiegarmi quel suo modo di fare spensierato e incapace di capire quando una situazione si faceva delicata. Per lui tutto era un gioco.
Trafalgar roteò gli occhi al cielo, scuotendo il capo, ma sorridendo davanti ai comportamenti privi di logica di quel ragazzino pelle e ossa, ma forte e carico di energia con una probabile fonte infinita che gli permetteva di restare attivo ventiquattro ore su ventiquattro.
«Dobbiamo rifarlo e vedere chi vince!» propose entusiasta e senza la minima traccia di scherzo negli occhi. Ovviamente doveva prendere tutto come se fosse una sfida, mentre io non avevo smesso un istante di guardare Law con il vivo intento di commettere un omicidio e ucciderlo. Prima o poi l’avrei fatto se avessimo continuato in quel modo.
«Perché no» sussurrò il diretto interessato, sostenendo il mio sguardo con l’intento di mettermi a disagio e farmi cedere. Aveva sbagliato persona se credeva che mi fossi arreso lasciandolo vincere a quel giochetto.
Eh certo, assecondiamo le malsane idee di Rufy, non c’è niente di meglio che prenderci tutti a cazzotti in faccia! Deficienti!
«Venerdì prossimo allora, è deciso!».
Pazzi, ve la farò vedere io. Avete appena segnato la vostra condanna.
«Tu che ne pensi Eustass-ya? Te la senti?».
«Ridi pure fino a che hai tutti i denti» sbottai stizzito.
«Come siamo nervosi».
Non riuscivo a credere che per lui fosse tutta una presa in giro. Ma come faceva? Come riusciva a mantenere il controllo in ogni momento senza mai scoppiare? Avrei fatto di tutto pur di vederlo impazzire e quel giorno giurai che, prima o poi, sarei riuscito a costringerlo a perdere le staffe.
Fosse l’ultima cosa che faccio, mi ripromisi.
La tensione sembrò allentarsi quando una campanella iniziò a suonare come un ossesso, facendo si che gli studenti ritornassero nelle rispettive aule e che i padroni delle sedie che Rufy ed io avevamo preso in prestito tornassero a reclamarle, anche se si mantennero a debita distanza per non rischiare troppo.
«Traffy ciao, ci vediamo domani se non è un problema, dovrei studiare per una verifica di fisica» fece Rufy, grattandosi imbarazzato la zazzera di capelli neri e ricordandosi solo in quel momento il motivo per il quale aveva deciso di venire a trovarlo, oltre a l’intento di scombussolare irrimediabilmente la mia giornata. «E salutami Ace!».
«Certo, non preoccuparti» asserì l’altro, senza perdermi di vista un istante.
Feci altrettanto, deciso a non mollare sul più bello, ma quando Rufy sparì dal mio campo visivo mi vidi costretto a dargli le spalle e dirigermi a grandi passi verso l’uscita, ignorando alcuni ragazzi entrati in quel momento che si spostarono impalliditi nel vedere uno sconosciuto farsi largo tra di loro senza il minimo tatto, più che intenzionato a lasciarsi dietro parecchi metri di distanza.
Il ragazzino aveva già raggiunto le scale che portavano al piano di sotto e feci appena in tempo a vedere il suo giubbetto rosso sparire dietro l’angolo, prima di sentirmi richiamare in mezzo al corridoio ormai deserto.
Fermai la mia andatura e raddrizzai le spalle, ma non mi voltai, curioso di vedere fino a dove si sarebbe spinto quel bastardo che aveva deciso di uscire dalla classe all’ultimo momento per attirare la mia attenzione e dirmi quello che non aveva avuto il tempo, o non aveva voluto, dire prima.
«Eustass-ya, non mi saluti nemmeno?» mi pungolò, vedendo che non ero intenzionato a voltarmi.
Mi lasciai scappare un piccolo sorriso che non vide, dandomi il tempo di nasconderlo subito dopo e sostituirlo con un ghigno strafottente che esibii non appena mi girai a guardarlo.
«Ciao?» feci, stringendomi nelle spalle e fissandolo interrogativo, non capendo bene cosa si aspettasse che dicessi dopo la scenata di poco prima. Che diavolo voleva ancora da me? Mi aveva esasperato abbastanza per quel giorno.
Rimase fermo a guardarmi, l’indecisione dipinta sul suo volto mentre si mordeva un labbro, forse mentre vagliava le varie battutine acide del suo repertorio da piaga della società.
«Se non hai altri commenti, io avrei di meglio da fare» conclusi, prima di lanciargli un ultima occhiata tagliente e dirigermi verso l’uscita. Ormai a quell’ora Rufy doveva essere già fuori ad aspettarmi e non avrebbe lasciato passare tanto tempo prima di venirmi a cercare per trascinarmi fuori di peso, così come aveva fatto per portarmi fino a lì.
«Non mi è dispiaciuto vederti».

It's like I'm the one you love to hate. But not today.

Quella frase ebbe il potere di stordirmi più di quanto volessi, arrivandomi dritta alle orecchie anche se era stata pronunciata in tono sommesso e veloce, forse per evitare di proposito che la comprendessi ma, a quanto pareva, avevo sentito tutto perfettamente ed ero certo di non essermi sbagliato per quanto sembrasse assurdo il fatto che fosse uscita proprio dalla sua bocca.
Girai di scatto la testa per guardarlo mentre un sorriso carico di aspettativa si faceva strada a forza sul mio viso, ma tutto ciò che feci in tempo a vedere fu il profilo delle sue spalle prima che scomparisse dentro all’aula, chiudendo la porta e celandosi a me.
Rimasi a fissare il punto in cui era sparito, fuggendo per l’ennesima volta davanti ad una situazione scomoda e in sospeso, lasciandomi con un turbinio di mille domande in testa. Il perché si comportasse in quel modo non mi era chiaro, ma ero deciso a scoprirlo e a rinfacciarglielo dato che ogni volta che non ci trovavamo a litigare lui prendeva e se ne andava, come se avesse paura di ritrovarsi senza armi efficaci per irritarmi e rimanere scoperto, senza la sua solita facciata strafottente e sarcastica.
Avrei risolto la questione molto presto, deciso ad ottenere almeno una vittoria morale contro di lui, dato che sembrava un abile oratore e mettermi nel sacco gli riusciva facilissimo.
Proprio mentre avevo deciso di volatilizzarmi da lì, un uomo sulla cinquantina e i capelli radi si stava dirigendo verso la classe centotrentacinque e stava per entrare, quando scelsi all’ultimo minuto di fermarlo e chiedergli un piccolo favore.
«Mi scusi, lei chi sarebbe?» provò ad informarsi l’uomo, studiandomi dall’alto in basso e facendo un’espressione contrariata di fronte al mio abbigliamento poco elegante.
Lavoro in un’officina, coglione. Che ti aspetti?
Ignorando quel suo atteggiamento schizzinoso, mi avvicinai a lui per dargli un incarico semplice e veloce che avrebbe potuto portare a termine non appena varcata la soglia.
«Riferisca a Trafalgar che, a causa dei miei impegni, mi vedo costretto ad anticipare il nostro incontro e lo aspetto per dargli ripetizioni oggi stesso» ordinai, cercando di incutergli quel po’ di timore che gli serviva per convincerlo a non dirmi di no e a fare come gli avevo detto.
«C-certo, sarà fatto» promise balbettando, afferrando la sua valigetta e affrettandosi ad entrare in classe, richiudendomi subito dopo la porta in faccia.
Ghignai, quello era esattamente l’effetto che avevo sperato e quello stronzetto nemmeno immaginava cosa lo aspettava quella sera.
Non è stato poi un totale spreco di tempo. Questa volta ho vinto io, pensai tra me e me, iniziando a fischiettare allegro e tornandomene, finalmente, a lavoro.

Don't tell me who I should be. Don't try to tell me what's right for me. Don't tell me what I should do. I don't want to waste my time, I'll watch you fade away.



 
Angolo Autrice.
Yep, sono qui e sono ancora viva, anche se stanca morta e con gli occhi che si chiudono, ma abbastanza in forze per non abbandonare questa long.
Well, inizio col citare in questo capitolo i Simple Plan con la canzone Shut up.
Qualcuno in questo capitolo comincia a lasciarsi un po’ andare? Che dite? Era ora? Si, anche secondo me e vi prometto che sono previste taaante coccole a breve u.u quindi preparatevi, mettetevi comodi e attendete, il bello deve ancora cominciare.
Spero che l’allegria del tornado Rufy vi abbia coinvolti, ovviamente non pensa mai prima di agire, storpia tutti i nomi e fa sempre quello che gli passa per la testa, mietendo una lunga serie di vittime di cui ne viene a fare parte anche Eustass-ya.
(Seriamente, quanti lo ritengono un figo da paura? Io si!).
E così vanno a trovare Law, il quale non si aspetta di certo una visitina così improbabile e assurda, invece è quello che succede e sembra apprezzare la cosa, nonostante i vari battibecchi e soliti disguidi. E che fa Kidd? Come pensate abbia reagito nel sentirsi dire che la sua visita non è stata un completo dispiacere?
Mi auguro che il capitolo con la compagnia di Rufy vi sia piaciuto, davvero. Un grazie a tutti, recensori e lettori e tanti abbracci ^^
Spoileeer:
 
Perché dovevano mettersi a ballare Gangnam Style sopra al bancone del bar? Con i baristi che, invece di essere sconcertati e cacciarli a calci, li lasciavano fare perché i clienti sembravano apprezzare lo spettacolo e li incitavano a continuare. C’era la pista con le casse, l’impianto stereo, le luci, una console e tanta gente sudata, ubriaca e sballata che ne faceva buon uso. Allora, perché esibirsi in quel modo, quando potevano mischiarsi con il resto dei presenti? E senza nemmeno essere sbronzi!
*
“Non sei nessuno per potermi dire cosa fare. E ora vattene, lasciami in pace!”. L’ultima frase mi uscì più come un lamento e mi morsi forte un labbro per non cedere, non in quel momento, non davanti a lui.
Dannazione, perché non se ne andava come facevano tutti?
“E se lo fossi?” sbottò, prendendomi alla sprovvista e facendomi spalancare gli occhi per lo stupore che quella domanda mi aveva provocato.
“Se fossi quel nessuno” aggiunse con un filo di sicurezza in più, avanzando di un passo sulla ghiaia e avvicinandosi ulteriormente, “Che faresti?”.
 

Abbastanza interessante?
See ya,
Ace.

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 11. Forse potevo davvero essere forte e senza paura. ***


Capitolo 11.
Forse potevo davvero essere forte e senza paura

Dunque è così che stanno le cose? E tutto l’entusiasmo di pochi giorni fa, che fine ha fatto? Non avevamo deciso di fronteggiarci e spaccarci la faccia a suon di pugni, sbucciarci le mani a furia di colpirci e stramazzare al suolo sfiniti e senza un vero vincitore? Dove sono finite tutte quelle chiacchiere sul fatto di vedere chi é il migliore? Sparite tutte in un istante davanti ad un boccale di birra e ad un doppio cheeseburger? Sul serio, ragazzi? Magnifico, davvero magnifico. E io che speravo di sfogare la tensione con della sana competizione.
Fissavo annoiato e leggermente seccato come, davanti ai miei occhi e sotto il mio sguardo disgustato, Rufy stesse animatamente divorando il suo terzo panino con tanto appetito da farmi venire il sospetto che il suo intestino non avesse affatto fine o una capacità massima da rispettare. Ingeriva tutto, tutto. E ancora aveva il coraggio di chiedere al cameriere un’altra porzione e guai a chi provava a rubargli il cibo dal piatto!
Accanto a lui, Ace era a un passo dall’imitarlo e iniziare ad ingozzarsi come un pazzo da un momento all’altro, assecondando la caratteristica principale della loro famiglia, attirando curiosi che piazzavano scommesse su quanto avrebbero resistito prima di sentirsi male e finire all’ospedale per intossicazione o gastroenterite, diabete e quant’altro. Sciocchezze, quei due avevano uno stomaco di ferro e nulla poteva scalfirlo, nemmeno una bomba.
Sospirai rassegnato, calcandomi il cappuccio della felpa nera e anonima in testa nel tentativo di eclissarmi perché quella era una situazione estremamente imbarazzante e superava il limite del normale. Mi premurai anche di spostare la sedia un po’ più lontano dai due fratelli ingordi, lasciando che Robin si divertisse a fotografarli di tanto in tanto, abituata a vedere quello scempio e non stupendosi più davanti a certe scene. Era troppo persino per loro che di figure di merda ne facevano a palate e certo, anche io avevo contribuito a volte, ma adesso esageravano.
E gli altri. Gli altri!

Oppa Gangnam Style. Gangnam Style.

Perché dovevano mettersi a ballare Gangnam Style sopra al bancone del bar? Con i baristi che, invece di essere sconcertati e cacciarli a calci, li lasciavano fare perché i clienti sembravano apprezzare lo spettacolo e li incitavano a continuare. C’era la pista con le casse, l’impianto stereo, le luci, una console e tanta gente sudata, ubriaca e sballata che ne faceva buon uso. Allora, perché esibirsi in quel modo, quando potevano mischiarsi con il resto dei presenti? E senza nemmeno essere sbronzi!
Usopp, Chopper, quel piccoletto perdeva la testa quando beveva e faceva qualunque cosa gli venisse proposta, Bepo e Brook stavano imitando, piuttosto bene anche, quello stupido balletto che ultimamente stava spopolando in giro, mentre le note della canzone avevano raggiunto fama internazionale. Saltellavano sul legno del banco, muovendo le braccia a ritmo prima davanti a loro e poi in aria, assumendo pose assurde e ridendo come pazzi senza la minima vergogna.
Non li conosco. Non li conosco, mi ripetevo come un mantra. Perché devono fare queste scenate? Uno con un cappello a forma di renna in testa, l’altro con le bretelle ai pantaloni, un altro con i capelli afro e… Bepo, Dio mio, come ti sei ridotto!
In pista, invece, Sanji stava dando il meglio di sé ballando sopra ad uno dei cubi posti ai lati dell’enorme e sofisticata console, facendo roteare sopra ala sua testa la giacca nera che si era tolto e venendo accerchiato da un gruppetto di ragazze che gli giravano attorno come facevano le api con i fiori. Mandava baci a destra e a sinistra, felice come un bambino a cui viene fatto il regalo più bello del mondo. Ai miei occhi, invece, sembrava solo un damerino con la testa in mezzo alle gambe, pazienza che sapesse cucinare divinamente.
Al contrario di lui, Zoro era un tipo più serio e meno espansivo, almeno fino a quando non alzava il gomito, cosa in cui era un vero maestro, e si metteva a bisticciare con la sua compagna fissa di bevute con la quale era meglio non avere debiti. Lui e Nami erano seduti al bar proprio sotto ai loro amici ballerini ed erano impegnati a bere, incuranti degli sguardi stupiti dei presenti che non credevano possibile che una donna riuscisse a resistere così tanto dopo una serie infinita di shots, bicchierini, boccali e fiumi di alcool. Giù di schiena, un bicchiere dietro l’altro mentre osservavano la scena davanti a loro e si reggevano la pancia per le risate. I visi arrossati e le lacrime agli occhi. Zoro provava a ripetere le parole della canzone, ma finiva per ingarbugliarsi e scoppiare a ridere nel bel mezzo della frase, provocando altra ilarità e facendo mancare il fiato a Nami. Se c’era qualcuno capace di reggere gli alcolici senza svenire, vomitare o andare in coma, quelli erano loro due.
Quella non è una femmina, ma una spugna e lui una botte.
Mi guardai attorno di nuovo, ignorando meglio che potevo le due teste vuote che non facevano altro che masticare e indicare i loro amici sparsi per il locale, ridendo di tanto in tanto e mantenendo quell’aria allegra e spensierata che sempre li caratterizzava. Erano riusciti a contagiare persino Bepo, il quale non mi abbandonava mai e non si lasciava andare troppo alle distrazioni, mantenendo sempre un’aria composta, anche se sorridente. Purtroppo quella sera avevo perso pure lui. Non sapevo come, ma aveva iniziato a bere sempre di più, ascoltando le stronzate che gli rifilava Penguin sul fatto che gli sarebbero bastati quattro passi all’aria aperta per sentirsi meglio; invece, il bastardo lo sapeva e lo aveva fatto apposta, non era affatto vero. Così aveva messo nel sacco il povero ragazzo albino e se l’era trascinato dietro, lasciandolo in balia della confusione e facendolo montare sopra quel bancone assieme a quegli sconsiderati senza un minimo di rispetto per la loro reputazione.
Fu quando lo vidi muovere il bacino avanti e indietro che capii che la stima che nutrivo per lui era appena andata perduta, evaporata in meno di un secondo.
Mi schiaffai una mano sul volto per non guardare oltre quello scempio. Quel poveretto si sarebbe ritrovato il giorno dopo a dover fare i conti con un’amnesia da dopo sbornia ed io non avevo intenzione di essere presente quando avrebbe ricordato tutto, sentendosi morire per i gesti compiuti. Non sembrava, ma era parecchio timido e pudico, il signorino.
Altro che orsetto adorabile come dicono Nami e Robin, è diventato un maniaco!
Sbirciai tra le dita per assicurarmi che quello strazio fosse giunto a termine non appena la canzone toccava le ultime note, ma mi sbagliavo di grosso se credevo che avessero smesso solo per farmi un piacere. Come a volersi prendere gioco di me, nessuno smise di fare quello che stava facendo e, partito un nuovo brano, tutti ripresero da dove avevano lasciato, ballando, bevendo e mangiando.
Erano una causa persa, ormai, dovevo farmene una ragione. Quella serata sarebbe scivolata via così, nel divertimento, e nessuno avrebbe fatto a botte o rovinato l’atmosfera con litigi inutili. Un po’ ero contento, almeno mi sarei risparmiato una perdita di tempo e una scocciatura per sopportare l’eccitazione di Rufy e le sparate colossali di Eustass-ya.
A proposito, che fine aveva fatto quello stronzo?
Il luogo dove avevamo deciso di ritrovarci quella sera era il famoso Moby Dick, gestito da una delle famiglie più ricche e potenti della città, nonché di proprietà del sindaco, il Signor Edward Newgate. Un brav’uomo, assolutamente, ma forse un po’ troppo festaiolo. Si diceva che aveva avuto molti figli, alcuni anche adottati, e che fosse di animo buono e di cuore e gentile, interessato ai problemi della città e vicino ai cittadini. Nessuno lo metteva in dubbio e tutti lo amavano e rispettavano per questo.
All’interno sembrava di essere catapultati nella nave di un pirata: pareti e pavimenti rivestite da assi in legno scuro o chiaro, spesso e ben lucidato; tavoli massicci come le sedie e lunghe panche per chi decidesse di festeggiare in compagnia; quadri, ritratti, oggetti antichi, reperti storici di tutti i tipi erano appesi alle pareti e un’ancora vera e piuttosto grande faceva la sua bella figura davanti all’entrata, accogliendo i visitatori. Si divideva, inoltre, in due parti: una adibita e organizzata per servire da mangiare e l’altra, ampia e capace di contenere un gran numero di persone, era stata trasformata in una discoteca a tutti gli effetti.
Data la grandezza del Moby Dick e capendo che standomene seduto al tavolo con quei tre non avrei risolto niente e avrei rischiato di essere riconosciuto da qualcuno, decisi che era meglio dileguarsi finché ero in tempo e, magari, trovare un posticino tranquillo e isolato dall’altra parte del banco bar, lontano da dove quegli idioti si stavano esibendo facendo andare di traverso i drink a quelli che se li ritrovavano davanti al naso.
Alzandomi di tutta fretta e avvisando Robin che andavo a farmi un giro, approfittai per lanciare qualche occhiata nei dintorni, alla ricerca di tre persone che non vedevo da un po’ e che mi facevano stare in pensiero, conoscendo la loro natura scatenata.
Appena eravamo arrivati, incontrandoci tutti nel parcheggio del locale a qualche centinaio di metri di distanza, la situazione non si era prospettata delle migliori. Questo perché, non appena avevo messo piede fuori dall’auto, quella di Ace per la precisione, non avevo nemmeno avuto il tempo di alzare la testa e salutare tutti che mi ero sentito strattonare per il bavero del cappotto, ritrovandomi un paio di occhi infuocati a fissarmi e a rimproverarmi silenziosamente, mentre una serie di imprecazioni facevano da sottofondo a quello che quello sguardo voleva veramente dirmi.
Con calma e non senza un certo fastidio avevo afferrato il polso che mi teneva addossato alla fiancata dell’auto e me l’ero scostato di dosso poco dopo, raddrizzando le spalle e fronteggiando quella massa di capelli fulvi dai quali spuntavano un paio di occhialoni con le lenti spesse adagiati sopra ad una fascia nera.
E poi quello con problemi esistenziali sarei io, avevo pensato, ricordando per un momento le ramanzine di Bepo sul fatto che non mangiassi regolarmente. Era un aspetto che si poteva curare, il mio, il suo cattivo gusto nel vestire, invece, no.
Davanti a me, come mi ero aspettato, c’era quell’invasato di Kidd il quale, per la prima volta, aveva tutte le ragioni per essere incazzato o offeso con me, anche se, per quanto mi riguardava, non era un problema mio.
Non ero obbligato a fare niente e nessuno si poteva permettere di dirmi come essere.
Per cui non mi sentivo in colpa a non aver colto il suo invito, rifilatomi dal professore di anatomia quel lunedì scorso, quando aveva deciso di sconvolgere l’equilibrio delicato della mia già instabile vita, venendo a salutarmi all’università.
Rufy l’aveva fatto altre volte e, quando accadeva, non mi dispiaceva. Mi faceva sempre piacere quando i miei compagni di classe rimanevano a guardare quell’idiota che non faceva altro che ingozzarsi e parlare come stava facendo a tavola in quell’esatto momento.
Ma, quando mi aveva indicato la porta, facendomi notare che non era solo e che con lui c’era qualcun altro, qualcuno di impensabile e con una faccia che rivelava che avrebbe preferito essere sotterrato all’istante, piuttosto che trovarsi lì, per un attimo non ci avevo creduto ed ero rimasto a guardarlo, incapace di capire per quale assurdo motivo fosse venuto anche lui. Non lo aveva mai fatto, il patto non lo prevedeva. O ero solo io a insistere nel voler mettere un freno a tutto?
Lui non era esattamente il tipo che prendeva decisioni del genere, non faceva visite di cortesia, preferiva scopare e basta e a me stava bene. Niente contatti, niente legami, liberi di fare ciò che volevamo.
Perché allora le cose stavano cambiando precipitosamente? Prima la cena e adesso pranzare insieme? No, non potevo permetterlo, era troppo.
Mi serviva del tempo per prendere le distanze e iniziare a non cercarlo, smettere di andare da lui, non accogliere i suoi inviti e evitare di starci assieme mi sembrava un buon inizio. Non mi ero semplicemente fatto sentire e l’avevo lasciato in pace, come volevo stare io. Per quel motivo era incazzato quella sera, era ovvio, chiunque lo sarebbe stato.
No invece, una persona a cui non fregava niente dell’altra non se la sarebbe mai presa, anzi, avrebbe fatto finta di nulla e lui, per quanto ne sapevo, non si lasciava coinvolgere da certe cose. Se ne fotteva altamente, non si abbassava a chieder spiegazioni, a parte quando i suoi piani andavano storti e finiva col non ottenere ciò che voleva. Eppure l’aveva presa male, ma male davvero.
Infatti mi aveva evitato tutto il resto del tempo, dandomi le spalle nel parcheggio, stando in compagnia di quei ragazzini che sembrava voler sopprimere ogni volta che li incontrava, spaventandoli in un primo momento, ma venendo poi accettato, preso in considerazione e introdotto nei loro argomenti. Era arrivato persino, anche se con i suoi soliti modi da psicopatico che ce l’ha col mondo, a parlare con Penguin, persona che, da quel che avevo capito, non gli andava a genio per ragioni a me non chiare.
Solo una volta avevo provato a cercare il suo sguardo per capire cosa gli passasse per la testa e, vedendo come mi evitava, come sembrava interessato alle chiacchiere di chi gli stava vicino, quando invece, ci avrei giurato, non gliene fregava un emerito cazzo, lasciai perdere e non ci provai più. Era stato già abbastanza difficile abbassarsi a trovare un contatto, figuriamoci tentare di nuovo. Io non ero di certo una persona che si sbatteva troppo per gli altri. Se voleva tenere il broncio come i bambini affari suoi, io non avevo nessun tipo di obbligo nei suoi confronti e se avevo deciso di starmene a casa tutta la settimana senza passare da lui per una misera e squallida scopata avevo tutto il diritto di farlo senza rendere conto a nessuno, tanto meno a lui. Cosa si aspettava da me? Eravamo stati chiari anche se non ne avevamo mai discusso apertamente: niente legami, niente appuntamenti, niente di niente. Solo sano sesso e poi ognuno per la sua strada.
Perché, allora, lui sembrava intenzionato a non rivolgermi la parola e io non avevo quasi toccato cibo, quando potevo approfittare del fatto che non cucinasse Penguin?
Ero rimasto a pensarci e ripensarci per tutta la cena, senza prestare attenzione al resto e, quando Killer aveva deciso di andarsi a sgranchire le gambe in pista, chiedendo chi avesse voglia di fare altrettanto, la testaccia rossa e il mio coinquilino erano stati i primi a dire di si e ad aggregarsi a lui, alzandosi da tavola e avviandosi verso la bolgia di gente che sembrava sprizzare energia da tutti i pori.
Affondai le mani nelle tasche dei jeans chiari che avevo indossato e mi diressi apparentemente tranquillo verso il bar, alla ricerca di qualche sgabello vuoto e rispondendo con un cenno di diniego al saluto di Zoro e all’invito di Nami ad unirmi a loro e agli innumerevoli brindisi che stavano facendo in onore di chissà cosa. Forse alla Divinità greca del vino e degli ubriaconi.
Alzando gli occhi al cielo superai i quattro ragazzi, grandi, vaccinati e coglioni, che si erano improvvisati ballerini e, per mio sconcerto e orrore, erano sulla strada giusta per fare anche da spogliarellisti, ma sperai si fermassero molto prima di levarsi anche solo i pantaloni. Lasciatimeli alle spalle sondai il terreno, adocchiando poco lontano un posto libero, giusto al terminare del ripiano bar, isolato, senza nessuna presenza inquietante, pericolosa o troppo ubriaca vicino.
Mi lasciai cadere con un sospiro stanco sullo sgabello, appollaiandomi sopra ad esso e stringendomi nelle spalle, iniziando a fissare le nervature del legno d’ebano con il quale era stato fatto il bancone, notando come qualche piccolo delinquente ci aveva inciso un nome, una data o altre sciocchezze simili.

I've been up in the Air, out of my head. Stuck in a moment of emotion I've destroyed. Is this the end I feel?

Ordinai qualcosa da bere, non troppo forte, ma nemmeno tanto leggera. Se volevo arrivare ad alleggerire il peso sullo stomaco, liberare la mente e sorridere come un deficiente dovevo pur iniziare da qualcosa, e quello di ubriacarmi era il modo migliore e meno dannoso che conoscevo per dimenticare un po’ di problemi e buttare nel cesso il senso di oppressione che provavo.
Che m’importa se è incazzato, continuavo a pensare, sperando di auto convincermi che stavo facendo la cosa giusta. Quante persone mi detestano per vari e inutili motivi? Tante, e allora? Una in più deve per forza fare la differenza? Non penso proprio. Io non gli devo niente, tantomeno delle scuse! Figuriamoci poi, non mi sognerei mai di fargliele. A uno come lui nemmeno morto, mi amputo una mano piuttosto che passare il resto dei miei giorni a sentirmi rinfacciare il fatto di aver ceduto.
Il drink arrivò veloce e altrettanto velocemente finì giù per la mia gola, infiammandomi e dandomi una scossa lungo tutto il corpo. Ecco cosa ci voleva, un altro paio di bicchierini e tutto si sarebbe sistemato, per il momento almeno, permettendomi di rilassarmi un po’ e mandare a fanculo i miei problemi. Quella sera si stavano divertendo tutti, perché io non potevo lasciarmi alle spalle il mio personale casino e fare lo stesso? Non ero costretto a rovinarmi l’umore solo perché avevo preso la decisione migliore per me stesso.
Appoggiai il bicchiere sul bancone e mi voltai verso la pista, senza sapere bene dove guardare, vedendo che Sanji non si era mosso da dove l’avevo mollato l’ultima volta e che le ragazze erano aumentate, così come i giovani che avevano deciso di iniziare a ballare e saltare come canguri, urlando a squarciagola.

Tonight, we are young! So let's set the world on fire, we can burn brighter than the sun!
Woooaaah!

Guarda dov’è finito quell’essere.
Mi sentii quasi sollevato nell’inquadrare il cappello di Penguin aggirarsi sopra alla passerella improvvisata con i tavoli ai lati della sala, illuminato a intermittenza da luci colorate, soffuse, bianche e nere, mentre una sfera stroboscopica simile alla luna girava sopra a tutte quelle teste.
Si stava divertendo parecchio a giudicare dall’espressione che sfoggiava e, dopo qualche minuto che lo osservavo, mi accorsi che non era da solo nell’incitare la folla ad agitarsi sempre di più. Ad aiutarlo c’era Killer-ya con una massa di capelli biondi che ondeggiavano in tutte le direzioni, ricadendogli sugli occhi e coprendogli più volte la faccia esaltata e divertita. Rimasi a fissali mentre, con qualche sforzo, attiravano l’attenzione del cuoco situato dall’altro lato rispetto a loro e lo invitavano a raggiungerli, venendo esauditi dopo poco. Ora erano in tre a darci dentro, facendo segno al dj di alzare il volume e continuare a fare il suo mestiere, volgendo le braccia verso il soffitto, saltando e cercando di parlare tra loro mettendo una mano al lato della bocca per riuscire sovrastare tutto quel chiasso.
Perché dovessero mettersi sempre in mostra non lo capivo, ma almeno loro non erano caduti così in basso come gli altri quattro al bar. Diedi le spalle alla zona discoteca e mi arrischiai a guardare verso il bancone, pentendomene subito dopo quando scoprii che a fare altra scena si era aggiunto pure Rufy.
Ora la banda di idioti è al completo, pensai sarcastico, bevendo un altro sorso e fissandoli in malo modo.
Cominciavo a sentirmi più leggero, ma non bastava. Mi serviva un altro giro, al massimo due, per essere sicuro di essere sulla strada giusta. Non ero ai livelli di Nami e Zoro, ma sapevo reggerlo anche io l’alcool e di certo un paio di bicchieri non erano sufficienti a stendermi. Per quello ci voleva ben altro.
Certo, magari qualcuno che offre per tutti e la giusta compagnia. Un paio di risate, qualche drink più pesante, poi birra, ancora superalcolici, altra birra e il gioco è fatto. Fatto e strafatto, tanto da non ricordare nemmeno come si cammina e chi si ha davanti, finendo col commettere un errore madornale dietro l’altro e andare a letto con…
«Fammi spazio, stronzo».
«Eustass Kidd» mormorai, quasi sorridendo nel sentire lo sgabello accanto al mio spostarsi bruscamente e ricevendo una gomitata dritta sul fianco, fatta per incitarmi a spingermi più in là e lasciare spazio al corpo robusto del ragazzo alto due metri che sembrava aver appena deciso di ricordarsi che esistevo.
Giocherellando col bicchiere che tenevo tra le mani voltai di poco la testa e lo osservai mentre si ordinava da bere una vodka liscia.
Aveva i capelli scompigliati, tanto che, dato il loro insolito colore, sembravano prendere fuoco, ed era in maniche corte. Probabilmente veniva dalla pista dove era stato a saltare come un marsupiale dell’Australia assieme al resto dei decerebrati senza neuroni che continuavano indisturbati la in mezzo. Il petto si alzava e abbassava velocemente, calmandosi via via che i minuti passavano e un ginocchio fasciato da un paio di jeans scuri fremeva a ritmo della musica.
Era difficile e altrettanto strano immaginarsi quell’essere mentre ballava. Più ci provavo, più mi sembrava bizzarro e impossibile, eppure il suo aspetto parlava chiaro, nonché la sete che aveva visto e considerato che si scolò l’alcool in pochi secondi come se fosse acqua fresca.
Aggrottai le sopracciglia, rendendomi conto che non avrebbe mai smesso di stupirmi con la sua stramberia.
«Dì un po’, che cazzo te ne fai inchiodato qua?» domandò ad un tratto, mantenendo un tono distaccato e piuttosto scocciato, voltandosi però a guardarmi stranito, appoggiando un gomito al bancone e sostenendosi il capo con la mano.
«Bevo» fu la mia unica ed immediata risposta, mentre mi portavo alle labbra il bicchierino di vetro e lasciavo che le ultime gocce di rhm mi scivolassero sulla lingua. E quel gesto, per quanto mi riguardava, poteva interpretarlo come voleva, ma era dato semplicemente per provocarlo.
Eustass Kidd era una persona semplice sotto un certo punto di vista. Se qualcuno non faceva come diceva lui, si incazzava e riempiva di cazzotti la suddetta persona. Aveva difficoltà a relazionarsi con la gente comune e sembrava odiare chiunque si dimostrasse capace di tenergli testa ma, allo stesso tempo, apprezzava l’impegno dell’avversario, volendolo comunque vedere morto. Aveva strane manie omicide, vero, ma a parte questo sembrava parecchio legato ai pochi amici che gli stavano intorno. Fino ad allora l’avevo visto andare d’accordo solo con Killer, se si escludevano gli insulti che a volte i due non si risparmiavano. Non sapevo se potevo considerarlo amico di Rufy e della nostra allegra combriccola, ma per il momento non si era rifiutato di deliziarci con la sua presenza durante le nostre uscite per cui avevo dedotto che, per quando potessimo stargli sulle scatole, sopportarci non era così difficile. Ad ogni modo, quando trovava un degno rivale, non perdeva occasione per attaccar briga e, non so se per mia fortuna o sfortuna, aveva deciso che io ero un degno grattacapo e meritavo la sua attenzione, in quanto moccioso viziato, chirurgo del cazzo, saccente e stronzo, appellativi che mi affibbiava spesso quando mi minacciava di morte.
C’erano solo due problemi: il primo era che, quando iniziava una guerra, non era contento fino a che non vinceva e distruggeva il suo avversario; il secondo, e questo riguardava la sua salute in primo piano, era che aveva scelto me come avversario. Scelta sbagliata che l’avrebbe condannato.
Perché anche io, quando qualcuno mi dava sui nervi, ero deciso a schiacciarlo. E non come faceva lui, no, molto peggio. Non serviva dare di matto per essere forti, nemmeno saper come tirare un pugno ben assestato. Per fare male bastavano e avanzavano le parole, l’arma peggiore che l’uomo aveva. Una frase poteva distruggere moralmente una persona e lui, per mio sommo divertimento, era uno che se la prendeva subito anche solo per un ghigno, figuriamoci quando iniziavo a parlare.
«Questo lo vedo anche io» abbaiò stizzito, ordinando una birra e spaventando un cameriere per il tono rabbioso in con cui lo disse.
«Preferiresti che ti dicessi che ho intenzione di esibirmi pure io sopra al bancone del bar?» gli chiesi allora, anche se la faccia schifata con cui mi espressi servì a fargli capire che non avevo la minima intenzione di rendermi ridicolo e fare una scenata del genere, al contrario di qualcuno di mia conoscenza.
«Non eri tu quello che si era spogliato davanti a tutti dopo aver bevuto come un bastardo?» mi sentii domandare allora, ritrovandomi davanti una faccia divertita e un sorriso malizioso quando mi voltai di scatto a guardarlo.
E lui come cazzo lo sa?
Roteai gli occhi nell’istante successivo, mentre mi rendevo conto dell’evidenza e la consapevolezza si faceva strada dentro di me. Eustass-ya veniva dalla pista e, di certo, era stato fino a poco prima in compagnia di quello sciagurato di Penguin e Dio solo aveva idea di che cosa quell’infame gli fosse andato a raccontare su di me e sulle nostre bravate.
«Penguin» sussurrai, notando come Kidd annuiva vivacemente. Avrei dovuto fare una chiacchierata a quattrocchi con il mio coinquilino e minacciarlo con le cattive, dato che non aveva ancora recepito il messaggio di non andare a raccontare in giro i fatti miei.
«Sai, Trafalgar, se decidessi di rifarlo, a me farebbe piacere» disse con noncuranza, marcando però l’ultima parte della frase per lasciarmi intendere dove voleva andare a parare. Non poteva riferirsi altro che a quello che gli avevo detto alla facoltà prima di salutarlo e rientrare in classe. Il mio primo e madornale errore in assoluto, dopo essermi risvegliato a casa sua e non essermene andato immediatamente, si intende.
Non volevo dirlo ad alta voce. Inizialmente avevo formulato tutto come un semplice pensiero, lasciandolo vagare a briglia sciolta nella mia mente, mettendomi poi nel sacco da solo. Avevo aperto la bocca e lasciato che quelle parole che mi ronzavano in testa da un po’ formassero un’affermazione di senso compiuto, raggiungendo il suo finissimo udito, cosa che funzionava solo quando gli faceva comodo, ovvero ogni volta che qualcuno dava l’impressione di voler condividere qualche informazione imbarazzante sul mio conto, informazioni che gli servivano per ribaltare la mia indifferente facciata da vincitore che tanto detestava. Avrebbe fatto di tutto per abbattermi.
Avevo parlato velocemente, esprimendomi in un modo incasinato, ma abbastanza spontaneo, chiaro e tondo da permettergli di riuscire a raccogliere ogni singola sillaba. Che altro avrei dovuto fare, quindi, se non togliermi subito da quell’impaccio? Allora la classe era stata la mia salvezza, ma quando il professore era entrato, avvisandomi che uno strano tizio dai capelli rossi mi aspettava per darmi ripetizioni quello stesso giorno, beh, avevo deciso che no, non gli avrei permesso di avermi a sua disposizione per sentirmi rinfacciare quello che mi ero pentito di aver detto e anche solo pensato subito dopo che il danno era stato fatto.
Ero salito al settimo cielo quando mi aveva offerto su un piatto d’argento la scusa per sfotterlo fino alla morte, dato che era venuto a trovarmi, di sua spontanea volontà come sosteneva Rufy, portandosi dietro il pranzo per farmi compagnia. Nulla di ciò era vero, lo immaginavo, ma ricamarci sopra lo avrebbe fatto incazzare ancora di più, rendendomi euforico nel vederlo rodersi il fegato.
E poi tutto era andato in fumo, rivoltandosi contro di me. Ma se pensava di avermi in pugno si sbagliava di grosso e gliel’avrei fatto capire in quell’esatto istante. Nessuno mi metteva i piedi in testa. Nessuno.
«Cosa stai insinuando, Eustass-ya?» feci calmo, sfoggiando la mia solita maschera pacata e intoccabile.
«Lo sai benissimo. O vuoi forse negare di aver detto, piuttosto chiaramente, che ti ha fatto piacere vedermi alla tua facoltà l’altro giorno?» sghignazzò, «Non ti facevo un tipo così sentimentale» aggiunse anche, soddisfatto per come si stava volgendo la conversazione. Peccato per lui che non sarebbe durata quella positività che girava apparentemente a suo favore.
«Ho detto che non mi dispiaceva averti visto, non che mi aveva fatto piacere. C’è differenza, caro Eustass, impara a prestare attenzione alle parole degli altri. Sai, potresti fraintendere». Dopo questo smacco, conclusi il tutto dedicandogli un sorrisetto strafottente che lo fece zittire e trasformò la sua allegria in frustrazione.
«Lo so io cosa hai detto!» si inalberò, «Puoi negare quanto vuoi, ma tienilo a mente» ghignò, avvicinandosi e riducendo gli occhi a due fessure, «Io ho sentito benissimo».
«Pensala come vuoi» gli dissi educatamente, o lo sarei stato, se solo non gli avessi rivolto un mio tipico sorriso di autosufficienza che lo fece scuotere il capo e riprendere a scolarsi il boccale di birra sotto al mio naso.
Fremeva e stava cercando di mantenere la calma, fulminando qualsiasi cosa su cui gli capitasse di posare gli occhi. Una mano era chiusa a pugno con così tanta forza che le nocche stavano diventando bianche mentre con l’altra stringeva convulsamente il bicchiere, come se volesse frantumare il vetro in mille pezzi. Si stava trattenendo e il luccichio infuocato nel suo sguardo ne era la prova.
Perché quella faccia? Perché controllarsi? Ormai lo conoscevo bene, sapevo come reagiva quando le cose andavano per il verso sbagliato. Quindi che iniziasse pure ad insultarmi o anche aggredirmi, non mi sarei di certo stupito e nemmeno tirato indietro. Almeno così avrei sfogato una parte di quel tormento che mi portavo dietro dall’inizio della settimana.
Ma qualcosa non andava. Per la prima volta Kidd sembrava intento a riflettere sul da farsi e questo, per qualche strano motivo, non mi faceva sentire tranquillo. Lui non pensava, agiva e poi rifletteva su ciò che combinava. Si lasciava andare, senza eccezione, senza costrizioni, era libero. Adesso, invece, sembrava quasi combattuto, indeciso sul da farsi.
Perché? Perché deve essere così difficile? Colpiscimi e basta e facciamola finita!
Bevve l’ultimo sorso, scolandoselo di schiena tutto d’un fiato e poi sbatté malamente il bicchiere sul bancone, lasciando trapelare un po’ di quell’agitazione che sembrava bloccarlo e mandarlo in confusione.
Si alzò in piedi e, dopo aver lasciato una banconota accanto al contenitore delle salviette, finalmente si decise a guardarmi.
Combattei con me stesso per non lasciar trapelare la marea di sensazioni che provai non appena i nostri occhi si incrociarono, iniziando una piccola guerra privata, mentre quelle pupille ambrate e decise sondavano le mie, grigie, interdette e tempestose, alla ricerca di qualcosa, un accenno al mio tentennamento magari.
Non potevo permetterglielo, non aveva alcun diritto di sondarmi così a fondo, di scavarmi nell’anima e di mandare in frantumi quella facciata di indifferenza che con tanta fatica e sacrificio, dolore e tristezza avevo costruito. Non era possibile che, con uno sguardo, riuscisse a leggere così in profondità quello che volevo nascondere, che non volevo ammettere, che temevo di affrontare. Non poteva e non glielo avrei lasciato fare.
Prima ancora che potessi aprire bocca per freddarlo e allontanarlo da me con uno dei commenti più offensivi e crudeli che conoscevo, mi precedette, lasciandomi per un attimo senza parole.
«Sai che penso? Penso che tu stia scappando da questo come un codardo senza nemmeno provare a combattere».

But just because it burns doesn’t mean you’re gonna die. You’ve gotta get up and try, try, try.

Ed ecco qui come una frase può essere così tagliente da arrivare dritta al petto e mozzarti il respiro senza la minima pietà.
Detto questo mi superò e si incamminò verso la pista, lasciandomi a fissare il vuoto mentre il respiro si faceva irregolare e un’onda di insicurezza mi investiva, trascinandomi via, lontano.
Io. Io sto scappando? Io sono un codardo? No, no questo non dovevi dirlo, non dovevi proprio.
«Che diavolo ne sai tu?» trovai la forza di ribattere, anche se la voce sembrava essere scomparsa e la gola era secca e arida come il deserto, ma feci abbastanza affinché mi sentisse prima di allontanarsi troppo, riuscendo ad attirare la sua attenzione. Anche se non potevo vederlo perché tenevo il capo chino, fisso sulle mia mani abbandonate in grembo, potevo percepire che mi fosse vicino, forse al mio fianco.
«Non sai niente» continuai glaciale, «Niente, chiaro? Perciò non permetterti mai più di giudicarmi in questo mondo dove tutti sono imputati e peccatori».
Senza attendere una risposta da parte sua, desideroso solo di andarmene e restare solo e con una gran voglia di urlare fino a sentire la gola bruciare, le corde vocali stridere e i polmoni esplodere, scesi dallo sgabello e partii spedito verso l’uscita, infilandomi tra i cumuli di gente e facendomi strada a spintoni, ignorando gli insulti e i mormorii scocciati di coloro che si sentivano spingere di lato all’improvviso. In poco tempo riuscii ad aggirarli tutti e mi ritrovai fuori, dove uno schiaffo di aria fredda mi colpì brutalmente il viso, facendomi rabbrividire all’istante mentre si insinuava sotto ai vestiti, sotto la pelle e fin dentro le ossa.
Pensai distrattamente al cappotto ancora dentro, abbandonato in una delle sedie al tavolo assieme ai documenti, portafogli, soldi e quant’altro, ma lasciai perdere. In quel momento avevo di peggio su cui riflettere. Innanzitutto dovevo allontanarmi. A piedi sarebbe stata una bella scarpinata fino a casa, soprattutto con quel freddo maledetto, pungente come lame affilate che si insinuavano nella carne.
Strinsi i denti e serrai la mascella per non esplodere proprio lì, dove ancora tutti potevano vedermi. Quando tutto il mondo mi era contro, quando davvero non ne potevo più, quando anche io volevo essere una persona normale, quando non esisteva più una minima goccia di autocontrollo, solo allora anche io mi lasciavo andare come chiunque altro. Mi arrabbiavo, urlavo, distruggevo qualsiasi cosa, iniziando dalla mia espressione calma e pacata. Non ne rimaneva nulla, se non un volto sfigurato dal dolore, dalla frustrazione, dall’ingiustizia e da tutto quello che ero costretto a portarmi dentro.
E nessuno mai doveva vedermi. Vedere quanto fossi debole e vulnerabile, come non riuscissi a rimettere in ordine i tasselli di quel puzzle che era la mia vita incasinata. Quei momenti di delirio erano rari. Una volta erano più frequenti, mi aggredivano in qualsiasi ora del giorno, all’improvviso, facendomi sentire male, a pezzi, e mi lasciavano vuoto, senza nulla a cui aggrapparmi. Col tempo, crescendo, avevo imparato a controllarmi, a farmi scivolare tutto addosso, a non pensare. A chiudere tutto in un cassetto e dimenticarlo.
Funzionava, le cose andavano meglio e potevo permettermi di stare tranquillo.
Ultimamente, però le mie sicurezze erano state messe a dura prova, il mio mondo stava cambiando, qualcosa di nuovo si stava creando uno spazio nella mia vita e tutto ciò non ero capace di gestirlo. Quel qualcosa era troppo forte, troppo travolgente e improvviso, irruento e difficile da allontanare per poter mantenere salda la presa e tenere a bada la paura.
Era vero, tutto vero. Avevo paura e perciò scappavo. Scappavo ed evitavo di affrontare i problemi che si presentavano con tutte quelle novità.
Era una cosa troppo grande e non potevo reggerla. Per quanto mi sarebbe piaciuto non ne avevo la forza. Continuavo a ripetermi che, se avessi provato a sostenerla, tutto mi si sarebbe rivoltato contro, avrei sbagliato e anche quel, quel… Quell’affetto sarebbe svanito. Quella complicità, quella sfida continua, quella voglia di vedersi, provocarsi, cercarsi, quello che avevo con Eustass-ya non ci sarebbe più stato. Perché tutto, prima o poi, doveva finire. Nulla durava, così come la famiglia, anche l’amore aveva un suo termine e, la maggior parte delle volte, era doloroso. Ed io non avevo intenzione di avere un’altra cicatrice da aggiungere al mio cuore, ne avevo troppe e non c’era posto per i tentativi o per le prove.
Non c’era più spazio per nient’altro, per questo motivo non volevo approfondire quel complicato rapporto che avevamo iniziato. Andava bene fino a che le nostre vite non iniziavano ad intrecciarsi l’una con l’altra, quello che stava appunto succedendo in quei giorni.
Mi sarei spezzato. E rimettere assieme me stesso non era facile. Sapevo di essere un tipo complicato, nemmeno io avrei voluto avere a che fare con me, figuriamoci gli altri. Appena capivano che razza di persona ero se ne andavano e come poterli biasimare? Chi mai lo vorrebbe un disadattato sociale? Dovevo rassegnarmi all’inevitabile.
Preferivo restarmene da solo, lontano da tutti, almeno mi proteggevo ed evitavo sofferenze inutili e che non avrebbero fatto altro che distruggermi definitivamente.
Avanzai rapidamente verso il parcheggio, non sapendo bene dove andare, volendo solo allontanarmi il più possibile, quando udii un trambusto alle mie spalle, gente che si lamentava e porte che sbattevano. Ignorai tutto, infossando la testa nelle spalle e concentrandomi sui miei passi, uno dopo l’altro, veloci e silenziosi. Passi che scappavano.
«Stai fuggendo di nuovo» mi fece notare una voce stranamente calma dietro di me, tanto che mi vidi costretto a fermarmi e concedermi un respiro profondo prima di rispondere e togliermi di mezzo quell’impiccio una volta per tutte.
«Non sono affari tuoi, Kidd» soffiai, più freddo del vento, rimanendo immobile e voltando solo la testa, quel tanto che bastava per osservarlo con la coda dell’occhio da sopra la spalla. Era più vicino di quanto pensassi e solo allora percepii il suo respiro arrivarmi alle orecchie. Quell’idiota era uscito senza nemmeno prendersi la briga di coprirsi e ora tendeva i muscoli per ignorare il gelo della notte.
«Non sei nessuno per potermi dire cosa fare. E ora vattene, lasciami in pace!». L’ultima frase mi uscì più come un lamento e mi morsi forte un labbro per non cedere, non in quel momento, non davanti a lui.
Dannazione, perché non se ne andava come facevano tutti?
«E se lo fossi?» sbottò, prendendomi alla sprovvista e facendomi spalancare gli occhi per lo stupore che quella domanda mi aveva provocato.
«Se fossi quel nessuno» aggiunse con un filo di sicurezza in più, avanzando di un passo sulla ghiaia e avvicinandosi ulteriormente, «Che faresti?».
«Cosa stai dicendo?». Lo sguardo fisso davanti a me, nemmeno mi resi conto di aver parlato.
Ignorando la mia voce e il tono incrinato con cui gli risposi, mi afferrò saldamente per un braccio e mi costrinse a voltarmi, facendomi ritrovare davanti ad un paio di occhi caldi e determinati come non li avevo mai visti prima.
«Sappi che io non fuggirò» disse semplicemente e, con poche parole, riuscì a fare breccia nel mio animo distaccato e solitario, smuovendo quella massa ghiacciata che mi intorpidiva e riscaldandomi nel profondo.

Do you know that there’s still a chance for you cause there’s a spark in you.

In quel momento un barlume di speranza si fece prepotentemente strada nel mio cuore, strappandomi un timido sorriso così genuino che non avrei mai pensato di potergli rivolgere.
«Hai una vaga idea di quello in cui ti stai imbarcando?» gli chiesi, giusto per precauzione, tormentandomi le mani e non sapendo bene come comportarmi. Bastò un’occhiata per capire che nemmeno lui era tanto pratico in questo genere di circostanze, ma rimanere li impalati a guardarci, fremendo per creare un contatto, mi sembrava sciocco, così sollevai le braccia con l’intenzione di avvolgergliele attorno al collo mentre anche lui decideva il da farsi e mi attirava con un veloce movimento contro il suo petto, facendomi sentire come se tutto potesse aggiustarsi, mentre tutte le insicurezze che mi avevano attanagliato lo stomaco svanirono non appena ci stringemmo in un abbraccio un po’ impacciato, ma sincero e spontaneo.
Forse potevo davvero essere forte e senza paura.
«Sarai anche un bastardo» ammise, appoggiando il mento tra i miei capelli e allacciando le dita dietro alla mia schiena, «Ma so di non essere così docile nemmeno io».
«Tu sei molto peggio, è questo che volevi dire» lo corressi, sentendomi di conseguenza stringere più forte e beandomi di quel piccolo e inaspettato istante di benessere gratuito di cui non credevo che una persona violenta come Eustass Kidd fosse capace di farmi provare.
«Non pensare che questo cambi le cose, ho ancora intenzione di ucciderti» chiarì, anche se tutta quella situazione e i nostri gesti dicevano il contrario, ma non glielo feci notare.
Per una volta avrei lasciato a lui l’ultima battuta.

And I have finally realized what you need.





Angolo Autrice.
Allora, non voglio annoiarvi o strafare, ma ho davvero tante cose da dire e quindi cercherò di riassumere come posso. Partiamo con le canzoni che probabilmente avrete riconosciuto, per ordine abbiamo:
Gangnam Style, PSY.
Up in the Air, Thirty Seconds to Mars.
We are young, Fun. 
Try, Pink.
Firework, Katy Perry.
Madness, Muse.
Passando al capitolo adesso: cosa ne pensate?
Mi sono mangiata le unghie scrivendolo e sono un po’ sclerata nel cercare di mantenere la vicenda e le reazioni in linea con il carattere e la personalità dei personaggi. Quindi, in poche parole, vi chiedo gentilmente un’opinione, soprattutto sull’ultima parte, quando i nostri ragazzi escono dal loro guscio di indifferenza e si espongono, trovandosi davanti ad una decisione da prendere e a un rapporto da chiarire. Ci terrei molto a sapere cosa ne pensate, se è troppo o troppo poco; se dovevo evitare oppure no, insomma, qualcosa.
Come spiegazione al loro avvicinamento, che secondo me era anche ora, povere anime, vi dico che un po’ di tenerezza? Dolcezza? Ci stavano a mio parere. Non troppo sdolcinati, ma nemmeno così distaccati da fare fatica a guardarsi. Kidd già da un po’ sospettava qualcosa e voleva vederci chiaro, mentre Law, anche se faceva di tutto per mentire a se stesso, i cambiamenti nella sua vita li vedeva eccome. Bastava solo una spinta per togliersi il magone e, che cazzo, abbracciarsi e smetterla di fare i preziosi orgogliosi.
Ad ogni modo, sta a voi giudicare il tutto, io sono qui e se avete qualcosa da farmi notare sarò felice di ascoltarvi per migliorare.
Ora mi sembra più che giusto passare alle cose ruffiane e dedicare il capitolo ad una persona così gentile, paziente e adorabile che non smetterò mai di ringraziare per tutti i consigli e la costanza con cui mi vizia. G R A Z I E, FlameOfLife, sono sempre in debito.
Un grazie, ovviamente e con la stessa intensità, va anche a tutti coloro che leggono e che recensiscono!
Anyway, ho notato che alcuni, me compresa, adorano Ace, (Come si fa a non amarlo?), perciò dal prossimo capitolo vi prometto una bella entrata in scena di lui e qualcun altro e cercherò anche di inserirlo più spesso, dato che questa long coinvolge più personaggi. E’ un casino, ma li ammiro tutti, quindi non riesco a fare a meno di regalare loro un qualche spazio.
E’ un po’ tardi per dirlo, ma le coppie, per chiarezza, sono: Kidd/Law; Ace/Marco; Penguin/Killer. Per ora queste sono quelle definite, mentre Zoro/Nami è solo accennata dato che, come amici, si stanno divertendo un sacco. Non so cos’altro succederà, probabilmente aggiungerò qualcosa, ma vedrò andando avanti a scrivere.
Uhm, penso sia tutto. Vi lascio quattro spoiler adesso, visto che il prossimo capitolo è un po’ particolare: i punti di vista sono differenti.
 
1.
Mi era sembrato un miracolo, un’apparizione per la precisione, intravvederlo a pochi metri di distanza, in mezzo alla bolgia di gente scatenata e piena di energie, mentre chiacchierava con alcune persone tenendo in mano un bicchiere pieno di chissà che cosa e gesticolando con l’altra. Per un minuto buono ero rimasto in totale contemplazione, con la bocca aperta, gli occhi spalancati e immobilizzato davanti al bancone del bar.
Oh, Dio mio, pensai tra me e me mentre non riuscivo a staccare gli occhi dal suo profilo, quell’uomo sarà la mia rovina, ne sono certo.
 
2.
Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
 
3.
Avanti, facciamo presto. “Penguin, mi dispiace, sei un bravo ragazzo, ma non sei il mio tipo. Non prendertela, non è colpa tua, sono io che non me la sento di andare oltre, scusami. Possiamo rimanere amici se ti va”. La solita frase programmata, nulla di nuovo e ora forza, il colpo di grazia.
Cosa avevo di sbagliato che non andava? Certo, ero fissato con certe cose, avrei dato l’anima pur di fare qualche sutura, ma non ero cattivo. E non ero da buttare via, come tutti invece facevano e continuavano a fare. Mi sentivo uno straccio a volte e l’unica cosa che volevo era un’occasione, una speranza, qualcosa o qualcuno che non mi mettesse da parte e che capisse che con me erano gli altri a dover fare il primo passo. Quella sera era stata un’eccezione e mi era costata cara. L’unica volta che mi buttavo dovevo perdere un amico.
 
4.
“Ace esce con qualcuno” dichiarò allora uno dei miei migliori amici, nonché ragazzo che stimavo molto e di cui mi fidavo.
Lo guardai a bocca aperta, assimilando le informazioni ricevute e voltandomi a rallentatore quando un ragazzo con i capelli corvini e scompigliati, lo sguardo assonnato e i vestiti stropicciati fece il suo ingresso in salotto, salutando tutti e sbiancando poi di fronte alla mia espressione apatica.
“Rufy, che ti succede?” mi chiese Ace, visibilmente preoccupato.
“Ace, perché non mi hai detto che ti sei innamorato?”.
 

E qui concludo e vi auguro un buon fine settimana. 
See ya,
Ace.


 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 12. Un appartamento troppo piccolo per tutti. ***


Capitolo 12.
Un appartamento troppo piccolo per tutti

Come fosse successo tutto ciò ancora non ne ero certo e non riuscivo a capacitarmene, ma l’essermi ritrovato davanti agli occhi proprio quel ragazzo aveva contribuito a mandarmi il cervello in blackout totale, facendo apparire le due birre che mi ero scolato in precedenza come un semplice analcolico.
Mi era sembrato un miracolo, un’apparizione per la precisione, intravvederlo a pochi metri di distanza, in mezzo alla bolgia di gente scatenata e piena di energie, mentre chiacchierava con alcune persone tenendo in mano un bicchiere pieno di chissà che cosa e gesticolando con l’altra. Per un minuto buono ero rimasto in totale contemplazione: con la bocca aperta, gli occhi spalancati e immobilizzato accanto al bancone del bar, dimentico di mio fratello e del resto dei miei amici. Non mi importava più nulla e, se li avessero sbattuti fuori per il troppo esibizionismo, non sarei corso in loro aiuto perché ero troppo impegnato a tentare di calmare il battito accelerato del mio cuore che sembrava aver preso vita propria galoppando a tutta birra nel mio petto.
Oh, Dio mio, pensai tra me e me mentre non riuscivo a staccare gli occhi dal suo profilo, quell’uomo sarà la mia rovina, ne sono certo.
Fino a pochi attimi prima stavo ridendo a crepapelle davanti al teatrino che quel pazzo di Rufy e gli altri suoi subordinati, i quali lo seguivano sempre e ovunque come se fosse il loro Capitano, stavano portando avanti, esibendosi come fanno i ballerini professionisti. L’unica differenza era che loro erano scoordinati, incapaci e tremendamente divertenti e buffi, tanto da ottenere la simpatia del caposala e il permesso per continuare a fare scena davanti ai clienti che, richiamati dal gran baccano e dal numero di persone ammassate al bar ad osservare lo spettacolo, si facevano avanti numerosi. Quella sera il locale avrebbe fatto il botto, poco ma sicuro.
Ero in piedi di fianco a Zoro, intento a scolarsi l’ennesimo bicchiere, quando mi ero voltato a dare un’occhiata in giro, giusto per vedere come procedeva la situazione altrove, in mezzo alla pista. E allora l’avevo visto, con quel ciuffo biondo simile ad un ananas che lo caratterizzava e che lo rendeva, senza ombra di dubbio, unico, e con uno sguardo vispo e interessato a quello che gli stavano dicendo le persone che gli stavano affianco, facendolo sorridere di tanto in tanto.
Ero rimasto a fissarlo come un idiota, ma non mi importava di come potevo apparire agli occhi degli altri, solo non riuscivo a fare a meno di guardarlo dato che non l’avevo mai visto al di fuori del locale dove lavorava come barista, quindi senza la solita divisa composta da maglia nera e pantaloni che raramente scorgevo al di là del bancone che ci separava. Quella sera, per mia fortuna, potevo rimirarlo libero dal grembiule e dagli impegni lavorativi, notando come gli donasse quella camicia viola chiaro con il colletto aperto e un paio di jeans che gli fasciavano i muscoli tonici delle gambe. Se mi avessero chiesto cosa avevo da fissare con così tanto coinvolgimento avrei fatto il suo nome senza pensarci due volte.
Fin dal primo momento in cui ero capitato nel suo bar mi ero subito sentito fremere davanti a lui e a quel viso così serio e concentrato a dare il meglio di sé, ma capace di contagiarti con il suo buonumore e quella particolare espressione, un misto tra il divertito e l’interessato quando stava a sentire le mie lamentele sull’università e sui miei coinquilini. Mi era venuto spontaneo, le volte successive, chiacchierare e lui non si tirava di certo indietro. Faceva domande, sorrideva e stava attento e se arrivavano altri clienti li serviva e poi ritornava da me, facendomi riprendere da dove avevo lasciato. All’inizio era stato piuttosto distaccato, sulle sue diciamo, ma col tempo io avevo preso coraggio e non mi ero dato per vinto e lui aveva finalmente iniziato ad aprirsi.
E basta.
La sera, se non passavo di lì al pomeriggio, restavo al bancone a parlare per un paio d’ore e poi me ne andavo, salutandolo ed esultando dentro di me quando mi diceva che mi avrebbe aspettato per la prossima serata di poesie o per un caffè. Perché, secondo lui e a detta di quello che mi ero inventato come scusa, mi recavo nel suo locale dopo cena solo per quello.
Certo, potevo passare per un perfetto cretino, ma era l’unico modo per non fargli capire che, in realtà, l’unica ragione per cui presenziavo e mi sorbivo tutta quella salsa di sonetti e frasi senza un filo logico era perché dovevo vederlo e assicurarmi che si, non me l’ero sognato e che esisteva davvero.
Ero patetico e me ne rendevo conto, inoltre avrei tanto voluto dare ascolto ai consigli di Law, ma non ero sicuro che invitarlo a uscire fosse l’idea migliore da prendere in considerazione. Insomma, Marco mi aveva dimostrato di essere più grande di me e di conseguenza più maturo, figuriamoci se non aveva di meglio da fare oltre che ad accettare l’invito del primo ragazzino che passava. Farmi tutti quei complessi non andava bene, lo sapevo, e se Law mi avesse visto avrebbe sicuramente alzato gli occhi al cielo e poi sarebbe andato lui stesso dal ragazzo in questione e lo avrebbe avvisato del fatto che qualcuno di sua conoscenza era interessato ad uscirci assieme. Conoscendolo sarebbe anche stato capace di fare il mio nome e di trascinarmi a forza davanti a lui, facendomi fare la figura dell’idiota.
Però ne varrebbe la pena, mi dissi, guardalo, è così attraente. Con quel modo di fare così disinvolto e sicuro. E quegli occhi poi! D’accordo, i capelli sono strani, ma non gli stanno male, sono carini, ci ho fatto l’abitudine. Non l’ho mai visto così libero, ha un sorriso da un orecchio all’altro e come cammina… Dio, potrei saltargli addosso. No, aspetta, perché è sempre più vicino? E con chi sta parlando ora? Ma che cazz…?
«Ace?» mi sentii chiamare, mentre davanti ai miei occhi un paio di dita schioccavano nell’intento di attirare la mia attenzione e sottrarmi dal turbinio dei miei pensieri dentro al quale ero piombato.
«M-Marco!».
Sbattei le palpebre e capii all’istante che quella in cui mi trovavo era una situazione a dir poco imbarazzante, inoltre avevo appena fatto una figuraccia.
Figuraccia è troppo poco. Ho fatto una figura di merda, punto.
«Va tutto bene?» fece il ragazzo davanti a me, sollevando un sopracciglio curioso e accennando ad un sorriso mentre nella sua mente raggiungeva sicuramente conclusioni sbagliate, «Sei ubriaco?».
«N-no, no, certo che no. Ecco, mi ero solo, ehm, distratto» farfugliai, passandomi nervoso una mano tra i capelli e grattandomi la nuca. Solo io potevo rendermi ridicolo in quel modo, persino Rufy avrebbe saputo fare di meglio senza rischiare di sembrare completamente suonato.
«Capisco» disse e, per mia fortuna, cambiò discorso, come se non fosse successo nulla e per questo gli fui immensamente grato. «Mi fa piacere vederti, non avrei mai pensato di incontrarti qui».
Una seconda possibilità! Dio, grazie!
«Già, che coincidenza, vero? Nemmeno io l’avrei mai detto» mormorai. Per quanto cercassi di risultare calmo e indifferente non ci riuscivo e le frasi mi uscivano sconnesse e impacciate, mostrando il mio nervosismo.
«Sei qui in compagnia?». Marco, invece, era completamente calmo e dava mostra di saper esattamente cosa dire e come comportarsi, come sempre del resto, mantenendo gli occhi puntati sui miei che, costantemente, lasciavo vagare attorno a noi in un disperato tentativo di non arrossire. Le mie reazioni, nonostante tutto, sembravano divertirlo e non scocciarlo come temevo.
«Si, con alcuni amici. Loro sono qui dietr…». Stavo per voltarmi e indicargli il gruppo di sbandati che continuava a ballare indisturbato sul bancone a pochi centimetri di distanza, ma all’ultimo ci ripensai, decidendo che forse era meglio non tirare troppo la corda e rischiare di farlo scappare a gambe levate nel vedere che razza di gentaglia frequentavo. A complicare le cose bastava la timidezza che si era appena impossessata di me.
«A dire il vero li ho persi di vista» mentii, «Saranno in giro da qualche parte».
Sono esattamente alle mie spalle, meglio filarsela finché sono impegnati ed evitare di essere interrotto sul più bello.
«Tu invece?» gli chiesi, staccandomi dal ripiano al quale ero appoggiato con la schiena e facendo qualche passo più lontano, verso la pista, fingendo indifferenza e cercando di nascondere le mie vere intenzioni.
«Oh si, anche io, ma sembra che tutti mi abbiano abbandonato» confessò, bevendo un sorso dal bicchiere che aveva in mano, ma per niente dispiaciuto di essere rimasto solo, «Meglio così, i miei amici sono persone un po’ particolari» sogghignò.
«Ti capisco benissimo» ammisi sospirando.
Non saranno mai peggiori di mio fratello, i miei coinquilini e un paio di ragazzini del liceo messi assieme. Quelli sono pazzi, nessuno li batte.
«Vieni spesso qui?» domandò.
«Qualche volta. A mio fratello piace il posto».
«Hai un fratello? Davvero? Non me l’avevi mai detto» fece stupito, «E come si chiama?».
Merda. Che gli dico? Si, ho un fratello minore che ha rischiato più volte di finire al riformatorio per la sua mania di difendere gli indifesi e picchiare i bulli. E’ un completo disastro a scuola; mangia per dieci, anzi, venti; è infantile, spensierato e senza una briciola di attenzione per il pericolo. Vuole comprare una barca e girare il mondo per arricchirsi, come facevano i pirati, ma non ha ancora capito che il suo sogno è piuttosto complicato, ed io non ho cuore di farglielo notare. Abbraccia chiunque e fa amicizia in fretta, ma trascina nei guai tutti quelli che gli danno corda. Per il resto cosa posso dirti? E’ meglio che tu non lo conosca, altrimenti potresti decidere di non avere più niente a che fare con la mia famiglia e con me.
«Si chiama Rufy, è più piccolo di me ed è piuttosto imprevedibile come persona, non so se mi spiego».
«Anche io ho dei fratelli, perciò so benissimo cosa vuoi dire, non ti preoccupare». E, nel consolarmi, mi diede una pacca sulla spalla, facendomi salire la pressione e accelerare i battiti cardiaci. Stavo andando a fuoco, completamente. Faceva caldo la dentro o ero io che non stavo bene? E Marco, accidenti a lui, era così dannatamente sexy. Non poteva, doveva essere illegale apparire in quel modo e fare un effetto così devastante sulle persone con cui si approcciava.
«Ah, beh, allora siamo sulla stessa barca». Non sapevo che altro dire e non sapevo cosa fare, come muovermi, e se mi azzardavo a guardarlo in faccia mi sentivo fremere dalla voglia di mandare al diavolo tutto il mondo e le buone maniere per un secondo, baciarlo e poi fare finta di niente, magari beccandomi un rifiuto, ma almeno mi sarei sentito bruciare il sangue nelle vene. Me lo sarei fatto bastare, anche se ciò avrebbe significato non vederlo più.
Per un attimo Marco sembrò indeciso su cosa dire, ma poi finì quello che era rimasto del suo drink e appoggiò il bicchiere vuoto su uno sgabello dietro di sé, voltandosi a guardarmi e sfregandosi le mani.
«Allora, ti va di farmi compagnia? Andiamo a fare un giro in pista, magari riusciamo a ritrovare qualcuno dei nostri compagni» propose, prendendomi alla sprovvista e facendo quello che io non avevo il coraggio di fare, ossia invitarlo a fare un giro.
«Volentieri!» accettai con entusiasmo mal celato e lo vidi trattenere una risata. Rosso in viso, abbandonai la mia birra a metà, sicuro che qualcun altro se la sarebbe scolata senza troppi scrupoli, e lo seguii dove tutti stavano ballando spensierati, ringraziando Dio e tutti i suoi Angeli per la piega che stava prendendo la serata e per la botta di fortuna che mi era capitata.

* * *

Vista e Thatch sembravano due bambini al parco divertimenti. Si aggiravano per il locale con occhi luccicanti e sorrisi grandi da un orecchio all’altro, intenti a salutare gente a destra e a manca, cosa del tutto naturale visto e considerato che erano le persone più sociali e amichevoli che avessi mai incontrato. Non c’era quindi da stupirsi che avessero una lunga lista di amici e conoscenti alle spalle. Ad ogni modo, oltre a regalare convenevoli ai presenti, si divertivano un mondo a cercare di attaccare bottone con le belle ragazze che incrociavano durante i loro giri di ricognizione, le quali, dopo essere state abbordate, non potevano fare a meno di cadere ai piedi delle galanterie del più robusto, Vista, e scoppiare a ridere di fronte alla simpatia di Thatch che, con il suo savoir-faire e i suoi modi sempre spontanei e coinvolgenti, le faceva cadere tutte ai suoi piedi.
Per quanto di compagnia fossero, però, non riuscivo a capire del tutto quel loro smaniare per il posto, la musica, le donne e tutto quel divertimento dettato più dall’alcool assunto in precedenza che dal resto. Sarà che mi ero un po’ stancato di tutto ciò lavorando come barista e costantemente a contatto con quell’aspetto di vita, ma non mi facevo condizionare di certo dalla noia e cercavo di godermi la serata che, tutto sommato, si stava svolgendo per il meglio assieme ai miei due amici, nonché fratelli acquisiti.
«Ragazzi non so voi, ma io me la sto spassando alla grande!» trillò Thatch una volta attraversata tutta la pista, non senza una certa difficoltà, e aver raggiunto un punto abbastanza tranquillo poco lontano dalla zona bar dove si poteva parlare senza il rischio di non essere capiti per via della musica alta.
Sorrisi davanti a quella sua allegria e mi passai distrattamente una mano tra il ciuffo di capelli, ravvivandoli e scuotendo il capo come facevo di solito per scacciare via la stanchezza. Non sembrava, ma io avevo lavorato fino a tardi la notte scorsa e, avendo dormito poco, la pesantezza agli occhi cominciava a farsi sentire, ma ero deciso a resistere. Come avevo detto, non volevo rovinarmi il mio momento di pace.
«Senti un po’, ananas ambulante, stavamo pensando di attaccare con un karaoke di gruppo. Ti unisci a noi?».
Ignorando l’orrendo nomignolo che mi era stato affibbiato da quando avevo deciso di tagliarmi i capelli in quel modo, inorridii a quella proposta, ricordando le orrende figure fatte negli anni passati, quando avevamo appena compiuto la maggiore età e ci davamo alla pazza e sfrenata gioia senza preoccuparci delle nostre reputazioni. Ora eravamo tutti più grandi e maturi e mi andava bene gironzolare per i locali notturni e ubriacarmi qualche volta, ma l’era delle cazzate mi sembrava giusto lasciarla ai più giovani e svampiti con la voglia di strafare.
«Declino l’offerta, andate voi» affermai categorico, senza la minima intenzione di lasciarmi convincere e coinvolgere in quella stupidaggine.
«Oh, andiamo!» si lamentò il ragazzo bruno, «Solo una canzone. Non possiamo permettere a quei novellini di rubarci la scena!» insisté poi, alzando un braccio e indicando un punto alle mie spalle da dove proveniva un gran vociare e un rumore di applausi alternati a incitazioni.
Mi voltai con sguardo scettico, seguendo la sua indicazione e, lo ammetto, rimasi forse un po’ spiazzato davanti ad un gruppo di bizzarri ragazzini che si stavano divertendo come matti a saltare e a ballare in modo scomposto sopra al bancone del bar, facendo facce buffe e sberleffi ai presenti e infilandosi cannucce nel naso, scatenando altre risate.
E lui vuole rendersi ancora più ridicolo? Non esiste proprio.
«Scordatelo» risposi, tornando a guardarlo con l’ombra di un sorriso divertito in viso e alzando gli occhi al cielo, facendo finta di nulla davanti alla sua espressione delusa e interessandomi a ciò che mi stava intorno alla ricerca di uno spiraglio di salvezza. Magari qualcuno che conoscevo e non vedevo da tempo mi avrebbe servito la scusa giusta per levarmi di torno quei due impiastri.
Non ero molto speranzoso a riguardo, e già mi stavo immaginando sopra al palco a cantare a squarciagola un motivetto idiota, per questo fui sorpreso e sollevato nell’intravvedere al bancone una figura famigliare che sembrava essere stata messa lì apposta solo per salvarmi.
Salutai Thatch e Vista, liberandomi di loro con poche parole e lasciandoli a bocca aperta per poi dirigermi con passo svelto verso la persona in questione, più che intenzionato a intavolare una conversazione normale e sentendomi all’improvviso pieno di forze e sveglio come non mai. Non avrei mai pensato di incontrarlo fuori dall’ambiente lavorativo; Sabaody era grande e piena di luoghi alternativi dove passare la serata in compagnia, quindi ritrovarsi nello stesso posto allo stesso momento poteva essere considerato un colpo di fortuna e la cosa non mi dispiaceva per niente.
Dopotutto, quel ragazzino mi era simpatico.
Si era presentato al pub un tardo pomeriggio anonimo e qualunque, entrando dalla porta principale facendo scattare il campanellino che annunciava l’arrivo di un nuovo cliente e scrollandosi di dosso l’acqua piovana che l’aveva sicuramente colto di sorpresa mentre se ne tornava a casa a piedi e senza l’ombrello. Si era tolto il cappotto pesante e bagnato, sbuffando sonoramente e imprecando tra i denti mentre si avvicinava a grandi passi verso il bar dietro al quale me ne stavo comodamente adagiato io. Si era seduto su uno degli sgabelli posizionati li di fronte e aveva sospirato stancamente, poggiando pesantemente i gomiti sul banco e sostenendosi il viso con le mani. Aveva l’aria stanca e scoraggiata, tanto che mi ero impietosito davanti a quello sguardo scuro e fisso a terra, decidendo così di smuovermi dalla mia posizione a braccia conserte e andando alla macchinetta del caffè per offrirgliene una tazza bollente. Era ciò che gli serviva, ne ero sicuro.
Infatti, dopo avergliela messa sotto al naso, calda e fumante, il ragazzo sembrava essersi accordo di stare in un luogo pubblico e aveva alternato lo sguardo da me alla bevanda senza capire, così gli avevo rivolto un sorriso complice, assicurandogli che quello lo offriva la casa.
Sembrava caduto dalle nuvole, tanto che passò qualche secondo di troppo prima che si decidesse a concentrarsi sul caffè e non su di me, iniziando a sorseggiarlo con calma, ancora stupito e preso alla sprovvista.
Mi aveva lanciato occhiate di sfuggita per tutto il tempo ed io non avevo smesso di sorridergli cordiale, divertendomi a immaginare cosa gli fosse successo per sembrare così scosso e circospetto. Era un gioco che facevo spesso e che mi aiutava a passare il tempo, quello di indovinare la vita dei vari clienti che si presentavano al bar. Mi divertiva e a volte mi stupivo della mia fantasia troppo fervida.
Una volta finita la bevanda, se l’era scolata tutta senza troppe storie, mi aveva rivolto uno sguardo diretto finalmente, al quale avevo risposto con altrettanto interesse, attendendo un qualche tipo di reazione da parte sua. Come mi aspettavo, poco dopo comparve sulle sue labbra un sorriso appena accennato, seguito da un grazie che mi fece sentire pienamente apprezzato.
Capitava spesso che qualche povera anima arrivasse al locale con una faccia da morto e mi faceva sempre piacere darmi da fare per risollevare il morale di tutti. La vita era più bella se vissuta con allegria, così cercavo di dare a quelle persone un motivo per non essere tristi e spesso ci riuscivo, sentendomi bene per aver fatto una buona azione.
Da quel giorno il ragazzo aveva preso a passare di lì regolarmente, almeno una o due volte la settimana, quel tanto che bastava per ricordarmi la sua faccia e conoscerlo meglio, anche se difficilmente si dimenticava un tipo come lui.
Sul serio, non avevo mai conosciuto nessuno di più allegro, spensierato, frenetico e goloso, e sicuramente la lista di aggettivi che avevo in mente per descriverlo era lunga, ma questi mi sembravano i principali. Forse solo un altro particolare poteva rappresentare meglio il suo essere, ma non sapevo bene per quale motivo. Ecco, lui sembrava infiammato. Costantemente. Sembrava sempre avere qualcosa da dire, da fare o da vedere; non stava mai fermo e si muoveva in continuazione, anche se risultava allo stesso tempo gentile e niente affatto scortese; a volte sembrava calmarsi ed essere colto da un’improvvisa quiete e sonnolenza, ma si riprendeva subito dopo; adorava i fuochi d’artificio, dato che non parlava d’altro e il fuoco lo affascinava. Diceva che era caldo, e quindi apprezzato dalle persone, ma allo stesso tempo temuto perché poteva bruciare e fare del male. Questi aspetti contrastanti gli piacevano immensamente, tanto da suscitare anche la mia curiosità e facendo si che, ogni volta che passava, mi ritrovassi chino sul bancone ad ascoltare le sue stramberie per nulla annoiato, anzi, forse mi faceva persino piacere averlo lì.
Ace era certamente così: bello, scoppiettante e caldo. Era il fuoco.
Gli arrivai di fronte, tagliando le distanze tra noi con pochi passi, e lo salutai cordialmente, non riflettendo sul fatto che, effettivamente, non ci eravamo mai presentati in modo ufficiale e il suo nome lo sapevo solamente perché un giorno aveva ricevuto una telefonata e dall’altra parte del telefono una voce acuta e tremendamente alta aveva urlato il suo nome come se dovesse consumare tutta l’aria che aveva in corpo. A parte questo, un giorno avevamo iniziato a rivolgerci l’uno all’altro con i rispettivi appellativi e da allora non avevamo smesso.
Rimase a fissarmi inebetito, con gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta, assomigliando ad un pesce che si ritrova improvvisamente sul banco del pescatore e non più in acqua.
Evitando di pensare al fatto che, molto probabilmente, il ragazzo poteva avere un qualche interesse particolare nei miei confronti e trattenendomi dal metterlo ulteriormente a disagio facendoglielo notare, mi costrinsi a limitarmi a chiamarlo schioccandogli le dita davanti agli occhi per farlo tornare in qualche modo tra i vivi, riuscendo nell’impresa e ritrovandomi di fronte ad un volto rosso per l’imbarazzo e dallo sguardo nervoso e inquieto.
«M-Marco!» biascicò, quasi strozzandosi con le sue stesse parole e tastandosi freneticamente i capelli corvini.
A quel punto sorrisi, incapace di farne a meno. Ace era così genuino e a volte aveva l’aria talmente innocente e infantile che era impossibile non restarne colpiti.
«Va tutto bene?» gli chiesi cortesemente. Quanto mi costava mantenermi distaccato senza poter uscire dalle righe. Anche durante i nostri primi incontri non gli prestavo molta attenzione, ma col tempo era riuscito ad attirare completamente il mio interesse per i suoi sproloqui e le sue strambe idee. Se non fosse stato così giovane avrei potuto chiedergli di uscire qualche volta; non che in quelle circostanze non potessi farlo, ma temevo che le cose non sarebbero state semplici e basilari come era di consuetudine per me. E poi, probabilmente, quello che sentiva era semplicemente curiosità e attrazione fisica.
Tornando con la mente alle sue spiegazioni e mettendo da parte il mio groviglio di pensieri, ascoltai come cercava di togliersi dai guai, affermando di essersi distratto e dandomi la possibilità di conversare un po’, giusto per rilassarci. Non vedevo l’ora di scoprire cosa aveva da raccontarmi di nuovo e di interessante.
A quanto pareva era lì con alcuni amici che aveva perso di vista e aveva pure un fratello più piccolo, cosa che mi sorprese visto che non ne aveva mai fatto parola prima di allora, ma mi fece piacere saperlo e notare come gli fosse affezionato. Anche se non fece un gran discorso su di lui, il fatto che fossero molto legati si vedeva benissimo. Non mi stupii nel constatarlo, avevo già immaginato che fosse un ragazzo piuttosto amichevole e socievole, bastava vedere come non si faceva problemi a lasciarsi andare e chiacchierare fino allo sfinimento, senza annoiare comunque nessuno. Il carattere ideale per passare una serata a divertirsi.
«Allora, ti va di farmi compagnia? Andiamo a fare un giro in pista, magari riusciamo a ritrovare qualcuno dei nostri compagni» proposi infine, decidendo che, dopotutto, non c’era niente di male se passavamo un po’ di tempo assieme come amici e trattenni una risata davanti al suo entusiasmo mal celato nell’accettare la mia offerta, evitando di farlo sentire troppo in imbarazzo e avviandomi con lui verso la pista, chiacchierando e commentando la serata e trovandomi d’accordo con il suo punto di vista su parecchi aspetti.
Fortunatamente non trovammo traccia dei miei amici, altrimenti sarebbe stato molto difficile dover mettere loro in testa che lui ed io eravamo solo conoscenti e non qualcos'altro come, sicuramente, avrebbero preso ad insinuare vedendoci assieme e vicini nel tentativo di farci strada in mezzo alla bolgia di persone impegnate a ballare.
Quella sera mi divertii davvero. Ace era una compagnia fantastica: spensierato e coraggioso al punto giusto, ma non esagerato come lo erano Thatch e tutto il resto della mia famiglia. Non aveva paura di mettersi in mostra, ma nemmeno fremeva per avere tutti gli occhi puntati su di sé, cosa che apprezzai molto, sentendomi in linea con i suoi pensieri e potendomi sentire libero di essere me stesso senza dovermi preoccupare di non accontentare qualcuno. Potevo sentirmi vivo.

Love you every minute cause you make me feel so alive. Alive.

Era tutto perfetto. Non sentivo la stanchezza, non avevo la minima voglia di andarmene a casa, non avevo sonno; preferivo invece restare lì a godermi quella nuova amicizia che, nonostante tutto, ero contento di aver instaurato, constatando che anche al di fuori del mio baretto riuscivamo ad intenderci.
Dopo aver passato parecchio tempo a saltare come disperati in mezzo alla pista, rubammo una bottiglia di vino che era rimasta abbandonata su uno dei tavoli imbanditi in precedenza per una cena numerosa e ce la scolammo tutta, decidendo poi di finire in bellezza al bar, incontrando per caso un amico di Ace, un certo Zoro, e fermandoci a bere in sua compagnia, dovendoci poi interrompere quando capimmo che contro di lui non avevamo speranza di vincere nessun tipo di gara alcolica.
Alla fine avevamo barcollato, tra una risata e l’altra, fino all’uscita e, una volta recuperate le giacche, uscimmo nel parcheggio a prendere delle profonde boccate d’aria per dare la possibilità alle nostre povere e pesanti teste di ritornare a funzionare nel modo giusto, permettendoci di ragionare e di smettere di ridere per delle vere sciocchezze.
«D’accordo Ace, ora basta, siamo seri» dissi, cercando di assumere un’aria all’apparenza pacata e convinta, riuscendoci solo per pochi secondi perché, contagiato dalla poca volontà del moro accovacciato a terra accanto a me, ripresi a ridere immediatamente, dandogli delle scherzose pacche sulla testa, sperando di obbligarlo a smettere di fare l’idiota.
Si alzò in piedi a fatica, cercando di difendersi e rispondendo al mio attacco con altrettanto entusiasmo, chiedendomi comunque di finirla di giocare per lasciargli il tempo di riprendere fiato e asciugarsi gli occhi che minacciavano di lacrimare da un momento all’altro.
«E piantala, razza di scemo» mormorava affannato, usando per difendersi entrambe le braccia e prendendo a spettinarmi quel ciuffo biondo che tanto adoravo, facendomi scattare e rinsavire all’istante, dandomi la giusta motivazione per bloccargli i polsi che agitava in aria e intimargli di non toccarmi i capelli. Volevo risultare minaccioso, ma l’effetto fu del tutto nullo e sprecato con lui e la sua indole disobbediente e testarda.
«Sei peggio di una femmina» mi prese in giro con un sorriso canzonatorio e un sopracciglio alzato a mo’ di sfida. Da ubriaco, quella sua particolare espressione, mi costrinse a mordermi un labbro per non morire dalla risate.
«Ah, la metti così?» domandai una volta ripreso il controllo, sfidandolo a mia volta e avvicinandomi ghignando, impedendogli di liberarsi le mani e stringendogli più forte le braccia con l’intento di metterlo al tappeto.
Vedendosi in trappola, ma non sentendosi in pericolo, alzò il mento per fronteggiarmi, nonostante fossi più alto, e puntò lo sguardo nel mio assumendo un’espressione fiera, o lo sarebbe stata se non avesse avuto quel sogghigno a storpiargli le labbra sottili.
Furono queste ultime ad attirare la mia attenzione, facendo si che mi concentrassi un secondo di troppo su di esse per poi agire all’istante senza pensare minimamente a un bel niente.
E, anche se per poco, anche se con la mente annacquata dall’alcool, anche se non era una mia reale intenzione, anche se c’erano un sacco di motivi contro e nessun pro, quando Ace ricambiò il bacio mi sentii ardere completamente, come se un fuoco vivo mi stesse bruciando dall’interno.

And we gonna let it burn, burn, burn, burn.

* * *

«Forza, più forte! Più forte!».
Mi stavo divertendo da pazzi a saltellare, camminare e ballare su quei tavoli messi in fila a mo’ di passerella improvvisata e tutto ciò era reso migliore dal fatto che non ero solo. A pochi centimetri da me un sorridente Killer animava la folla e cantava senza sosta le canzoni che, a quanto pareva, conosceva a memoria, muovendo le braccia e molleggiandosi a ritmo sulle gambe.
Quel ragazzo era pieno di vita, sicuro si sé e travolgente. Ecco, si, l’aggettivo giusto per descriverlo era proprio quello: travolgente. Riusciva a coinvolgere tutti nelle sue idee e nelle sue proposte, persino quella testaccia vuota di Kidd, garantendo il divertimento e buttandosi sempre per primo nella mischia, pronto a prendere per un braccio e a trascinarsi dietro chiunque.
Per questo mi era facile, in quel momento, fare quello che faceva e lasciarmi andare completamente, ritrovandomi di tanto in tanto addosso a lui e sentendomi il suo braccio attorno alle spalle quando voleva che saltassimo assieme, rischiando di cadere uno sull’altro, ma ciò non importava. La sala sembrava girare ininterrottamente, il pavimento sembrava fatto d’acqua ed eravamo entrambi piuttosto allegri per gli shots di poco prima e tutto ci risultava divertente, ma non mi sarei allontanato da lì nemmeno se cadere significava rompersi l’osso del collo.
«Avanti Penguin, fammi vedere che sai fare» mi urlò ad un tratto nelle orecchie per sovrastare la musica alta che proveniva dalle casse che accerchiavano tutta la pista.
Sfruttando la base di quel momento improvvisò qualche passo di danza, facendomi intendere che quello che voleva era una sfida all’ultimo passo. Dire che vederlo ballare era imbarazzante era dire poco, ma io, di certo, non mi sarei tirato indietro. Da quando, un anno prima, ad Halloween un gruppo di brutti ceffi mi aveva quasi fatto morire di paura avevo smesso di recitare la parte dell’indifeso e mi ero dato da fare per non dovermi più trovare in una situazione del genere, rischiando magari che qualcun altro si facesse male per la mia inettitudine. Così avevo iniziato a fare karate, a modo mio, s’intende, perché se avessi seguito un corso vero e proprio non avrei potuto giocare sporco. E per strada i cattivi di certo non rispettavano le regole. Avevo anche smesso di essere timido e, se avevo qualcosa da dire, lo dicevo e basta. In questo aspetto Law era stato un vero maestro e modello da imitare, anche se non mi spingevo mai oltre il limite come faceva lui praticamente sempre. Anche volendo non avrei mai raggiunto il suo livello.
Oltre al mio cambiamento interiore mi ero cimentato in diverse discipline, sviluppando un interesse nel provare qualsiasi cosa nuova mi si presentasse di fronte. Una di queste era stata la danza moderna che, quella sera, mi tornò utilissima.
Ghignai in risposta alla performance del biondo, capace ma non troppo, e mi sistemai il frontino del berretto in testa, prima di iniziare la mia esibizione, smontando e ricomponendo nella mia testa tutte le coreografie che avevo imparato durante i mesi estivi.
Accanto a me Sanji applaudiva ed esortava i presenti sotto di noi a fare il tifo mentre Killer rimaneva spiazzato e sorrideva tra sé e sé, rendendosi conto di non avere speranza davanti alle mie piroette e Moon Walk che imitai, scatenando il putiferio nella sala.
Quando esaurii il mio repertorio avevo il fiatone, ma mi sentivo soddisfatto e sicuro di poter fare qualsiasi cosa, persino superare l’ostacolo dell’insicurezza che mi frenava dal chiedere a Killer di uscire con me non solo per una birra, ma lasciandogli intendere quello che tutti avevano capito, cioè che ero talmente cotto di lui da pendergli praticamente dalle labbra.
L’effetto della vincita e dell’euforia, però, durò solo pochi minuti perché, non appena si avvicinò per congratularsi, visibilmente colpito, mi ritrovai con la gola secca e i polmoni senza l’aria necessaria per respirare.
«Niente male, davvero».
Killer era una persona unica. Aveva una pazienza infinita visto il modo in cui sopportava il caratteraccio del suo amico, Kidd, ed era anche molto socievole, nonché simpatico e una serie infinita di aggettivi con cui avrei potuto tessere le sue lodi. Inoltre, per essere entrato nelle grazie del rosso e perennemente col ciclo, doveva avere qualcosa di speciale.
Lo so io cos’ha: è perfetto. Anche con questa orribile maglia a pois e quei capelli lunghi, sta benissimo in ogni caso. Posso morire felice quando mi prende in considerazione.
In quel momento mi stava parlando, ne ero sicuro. Mi aveva messo una mano sulla spalla e aveva avvicinato il suo volto al mio per farsi capire meglio, ma non me ne stavo rendendo conto. Il problema era che mi sentivo come ipnotizzato da quel viso nel quale, di tanto in tanto, appariva un sorriso così contagioso che era difficile non ritrovarsi a ridere come babbei senza nemmeno un motivo, ma solo per l’allegria che infondevano.
Sono quasi sicuro che stia aspettando una risposta, ma non so che dirgli. Non ho capito niente. Forse dovrei scusarmi, chiedergli di ripetere, ma sembrerei ancora più stupido di quanto già non dimostro. Avanti, ora gli parlo, magari lo invito a uscire di nuovo per bere qualcosa con la solita scusa di essere preoccupato per Law e quel suo psicopatico amico. Nah, forse dovrei baciarlo e basta. Si, penso che potrei. Anzi, lo farò! Si, lo farò…
Impossessato da una determinazione sconosciuta, ignorai lo sguardo preoccupato del ragazzo e, con un rapido movimento della mano, gli afferrai il colletto della maglia e gli stampai un forte bacio sulla bocca, alzandomi in punta di piedi per riuscire a raggiungerlo e assicurandomi di mordergli un labbro prima di staccarmi e riprendere fiato.
Mi resi conto di quello che avevo fatto solo quando vidi lo stupore e la sorpresa farsi strada nei suoi occhi nascosti dalla lunga frangia e desiderai con tutto me stesso che un baratro si aprisse sotto i miei piedi per inghiottirmi all’istante.
Penguin, coglione! Che cazzo hai fatto? Sei fuori di testa?
«I-io… Io…».
Me ne devo andare e di corsa! Via, devo sparire. Dannazione, cosa ho fatto? Cosa? Come ho potuto essere così stupido! Cosa mi hanno messo nel bicchiere per indurmi a fare questo? Droga? Sedativo per cavalli? No, quello no, altrimenti starei dormendo ora. Oh, ma che cazzo!
Mi divincolai dal braccio che pesava ancora sulla mia spalla e saltai giù dal tavolo, dal lato opposto della pista, perciò evitai di cadere sopra alle persone ammassate, e mi defilai tra la folla lungo le pareti che circondavano la sala, deciso a scomparire del tutto, magari diventando un tutt’uno con il muro.
Dovrei sbattere la mia testaccia addosso al muro, invece! Sono fottuto. Fottuto, non c’è altro da fare. Ho combinato un casino.
Raggiunsi un angolo del locale piuttosto tranquillo, appena dietro alla console dove la musica sembrava addirittura più forte e dove c’erano solo un paio di tavoli vuoti, piatti e bibite abbandonate dalla cena precedente. Mi sedetti sul bordo di uno di essi e mi tolsi il cappello, passandomi una mano tra i capelli scompigliati e sudati, nascondendomi il viso.
L’ho baciato. Davanti a tutti. E c’era persino Sanji e chissà chi altro. Ho baciato Killer, l’ho fatto davvero. Che coglione, che coglione!
Alzai la testa verso il soffitto, facendo un respiro profondo per calmarmi e tenere a freno l’ansia, chiudendo gli occhi e pregando che tutto fosse solo un sogno, tentato dal prendermi a pugni da solo.
Sono finito. Law mi sfotterà a morte, Kidd mi spezzerà le ossa, per non parlare degli altri! Mi prenderanno in giro senza sosta e Killer non vorrà più parlarmi. Eravamo amici, mi sembrava di stargli pure simpatico e andava bene tutto sommato. Invece che faccio? Lo bacio. Bene, bravo, applausi. Sei un folle, Penguin, hai vinto il premio per il più coglione dell’anno!
Intento com’ero nel mio momento di autocommiserazione mi accorsi di non essere solo nell’esatto istante in cui mi sentii sfiorare la mano con cui reggevo il cappello.
Feci un balzo, colto impreparato e urtando con un fianco il legno del tavolo, ritrovandomi davanti e a pochi centimetri di distanza Killer, il quale, ignorando la mia reazione spaventata e il mio goffo tentativo di svignarmela da lui aggirandolo, mi intrappolò tra il tavolo e il suo corpo, poggiando deciso le mani ai lati e costringendomi a rimanere lì, ad attendere la mia fine a capo chino per non dargli a vedere il mio sguardo rassegnato e abituato a venire rifiutato.
Avanti, facciamo presto. «Penguin, mi dispiace, sei un bravo ragazzo, ma non sei il mio tipo. Non prendertela, non è colpa tua, sono io che non me la sento di andare oltre, scusami. Possiamo rimanere amici se ti va». La solita frase programmata, nulla di nuovo e ora forza, il colpo di grazia.
«Penguin…» iniziò a dire, stranamente calmo e cercando i miei occhi sfuggenti.
Lui è buono, cercherà di non farmi rimanere troppo male. E’ sempre così gentile con tutti, pensai tristemente, mentre attendevo inesorabile il momento in cui mi avrebbe abbandonato.
Cosa avevo di sbagliato che non andava? Non ero un brutto ragazzo e non ero impossibile da trattare come Law o incorreggibile come Rufy. Certo, ero fissato con certe cose, avrei dato l’anima pur di fare qualche sutura, ma non ero cattivo. E non ero da buttare via, come tutti invece facevano e continuavano a fare. Mi sentivo uno straccio a volte e l’unica cosa che volevo era un’occasione, una speranza, qualcosa o qualcuno che non mi mettesse da parte e che capisse che con me erano gli altri a dover fare il primo passo. Quella sera era stata un’eccezione e mi era costata cara. L’unica volta che mi buttavo mi ritrovavo a perdere un amico.
«Si, lo so» lo interruppi, volendogli alleggerire il peso visto che lui non era come gli altri. E poi non volevo dimostrarmi troppo deluso. L’avrei presa bene, gli avrei sorriso e gli avrei assicurato che non sarebbe più successo, che ero ubriaco e che non doveva sentirsi in obbligo con me per nessuna ragione. Avrei salvato il salvabile. Non volevo allontanarlo per un errore, mi sarebbe dispiaciuto troppo, anche se continuare a vederlo avrebbe reso più difficile tutto quanto. «Non preoccuparti, ti capisco e non devi dire nulla, davvero. Non accadrà più. Scusami, ma non so cosa mi sia preso, deve essere stato per quello che ho bevuto, le luci, il casino e…».
E mi ritrovai zittito dalle sue labbra e imprigionato tra sue braccia che mi avevano artigliato i polsi così, senza preavviso, lasciandomi senza parole e incapace di reagire. Anche se avessi potuto muovermi, non l’avrei mai fatto in ogni caso, non quando era Killer a baciarmi di sua spontanea volontà, non quando mi passava una mano sulla base del collo per avvicinarmi di più a lui e approfondire quel contatto che mi stava sciogliendo le gambe e togliendo le forze.
«Questo non è stato perché sono ubriaco, sia chiaro» mormorò, per poi riprendere da dove aveva lasciato.
Penguin sei un fottuto genio! Sul serio, ti meriti un monumento, una statua, una targa in tuo onore. Benedetto quel momento di vuoto in cui la tua mente ti ha abbandonato e hai deciso di baciarlo. Benedetti gli stupefacenti e tutte le schifezze che ti hanno messo nel bicchiere. Gloria agli spacciatori!
«Pensi che ora potremo uscire per altro, oltre che per prendere una birra?» domandai, staccandomi a fatica da lui per guardarlo in faccia e vedere come sorrideva divertito, con una punta di malizia nello sguardo.
«Non vedo l’ora, piccoletto».

* * *

Mi sono divertito un sacco! Dobbiamo ritornarci assolutamente in questo posto, è unico! E come cucinano bene! E c’è tanta carne buona e non ci hanno nemmeno sbattuto fuori per il casino e per i balli! Che bello! E poi tutti sono rimasti contenti, viste le loro facce allegre! Nami dice di aver vinto un sacco di soldi ed è felice; Sanji ha l’aria sognante; Chopper e Usopp sono crollati a dormire, ma hanno un sorriso enorme sulla faccia! Robin è sempre contenta e gli amici di Traffy sono euforici! A proposito, Traffy dov’è? Non c’è nemmeno Eustachio a dire il vero. E Ace? Fratellone!
Guardai a destra e a sinistra, ma non c’era traccia dei tre ragazzi. Sinceramente l’unico che riuscii a trovare fu Zoro, addormentato al bancone del bar con un bicchiere di birra ormai vuoto mentre russava rumorosamente, incurante dei camerieri che iniziavano a ripulire per chiudere il locale.
Era tardi, forse le quattro del mattino, e tutti iniziavano ad andarsene a casa. La musica si faceva sempre più bassa e si iniziavano ad intravvedere i primi segni di sporcizia lasciati cadere per terra.
Era ora di andare e, dato che non riuscivo a trovare nessun’altro dei miei compagni, capii che avrei dovuto fare una bella passeggiata per il ritorno, magari mi sarei fermato a dormire da Ace visto che il suo appartamento non era poi così distante.
«Forza Zoro, è ora di andarcene» feci allegro, afferrando il ragazzo per un braccio e iniziando a strattonarlo per svegliarlo e trascinarlo fuori. Il mio intento non risultò facile, ma continuai con impegno ad urlargli nelle orecchie e a prenderlo a ceffoni in testa sperando di riuscire a fargli aprire almeno un occhio. Tutti sapevano quanto il suo sonno fosse a prova di bomba.
«Gneh, che vuoi?» biascicò con la voce impastata e guardandomi stralunato.
Gli sorrisi ampiamente e poi lo aiutai ad alzarsi e a reggersi in piedi, passandogli un braccio dietro alla schiena e conducendolo fuori dal locale dove una ventata di aria fredda ci investì in pieno e contribuì a fargli riacquistare un po’ di lucidità.
«Rufy sono stanco, non possiamo riposarci un po’?» mormorò Zoro, socchiudendo gli occhi sotto alle palpebre pesanti e sbadigliando come un leone stravaccato sotto al sole della savana.
Ghignai tra me e me, avviandomi lungo il quartiere per raggiungere la strada principale dalla quale sarebbe bastato dirigersi verso nord per circa un kilometro e poi svoltare a sinistra e poi a destra, tagliare per un campo di papaveri, saltare un fosso, scavalcare un muretto e proseguire per un centinaio di metri. E il gioco era fatto!
Ace sarà felice di ospitarmi, non mi dice mai di no. E poi hanno un sacco di spazio in quell’appartamento. Io posso dormire con lui e lasciare Zoro comodamente sul divano, dove non disturba. E quando ci svegliamo possiamo fare tutti colazione assieme! Magari Penguin può cucinarci qualcosa di buono, è sempre così bravo e all’avanguardia! Ovviamente, nessuno batte Sanji, mi spiace.
Di buonumore e per niente stanco riuscii a coprire buona parte della distanza che mi separava dall’abitazione di mio fratello, chiacchierando con Zoro che rispondeva a monosillabi, ma era comunque una compagnia, significava che non era del tutto perduto e, anche se inconsciamente, muoveva le gambe arrancando un passo alla volta sul marciapiede illuminato.
Me la ricorderò per sempre questa serata! E’ stata la più bella in assoluto! E che salto che ho fatto per attraversare il fosso! Devo assolutamente riprovarci e chiamare anche Chopper e Usopp!
Percorsi gli ultimi metri con il buonumore alle stelle, avanzando a grandi falcate e immune alle sferzate del vento invernale che cercavano senza successo di scalfire la mia espressione allegra.
Arrivai davanti all’edificio ed entrai dalla porta di servizio trovando la chiave dentro ad un vaso di fiori finti li vicino. Ace diceva che potevo usarla quando mi trovavo in difficoltà. Quello era uno di quei momenti infatti, dato che per arrivare a casa del nonno ci avrei messo un eternità e almeno così avremo passato del tempo insieme.
Salii le scale e persi cinque minuti a recuperare Zoro che, messo un piede in fallo, era scivolato sugli scalini ed era finito sul pianerottolo del secondo piano, rotolando come un sacco di patate, ma non si preoccupò minimamente di lamentarsi, anzi, continuò a mormorare frasi sconnesse rimanendo inerme sul pavimento freddo.
Quando raggiunsi il terzo piano tirai un sospiro di sollievo e, sempre sorridente, suonai due volte il campanello, fremendo per l’attesa e non vedendo l’ora di saltare in braccio a Ace o al primo coinquilino che avrebbe aperto la porta.
E, anche se venne ad aprirmi una persona che non mi aspettavo di vedere, non mi lasciai intimorire comunque e abbracciai Eustachio con la stessa energia e affetto che avrei riservato a qualsiasi altro amico. Ormai potevo comportarmi così anche con lui, era di famiglia da un pezzo, quindi meritava lo stesso trattamento di favore che serbavo a tutti. L’unico problema era che non riuscivo a capire bene come si chiamava, ma non mi aveva mai corretto, quindi avevo dedotto che il modo in cui mi rivolgevo a lui andasse bene e gli piacesse anche se non era esatto.
«Levati di torno, moccioso!» iniziò a inveire, posando le braccia sulle mie spalle e facendo forza per cercare di allontanarmi, ma tutti sapevano che era impossibile fuggire dalle mie strette, dato che era come venire intrappolati in un groviglio di gambe, mani e piedi. Infatti, nonostante i suoi sforzi, nemmeno lui riuscì a liberarsi.
«Buongiorno Rufy» fece Law, spuntando dalla cucina con una tazza di caffè in mano, un’espressione sorniona e una voce all’apparenza tranquilla ma con una punta di divertimento che non riuscì a nascondere del tutto.
«Trafalgar! Toglimelo di dosso!» continuava a inveire l’altro.
«Non ti agitare e facci l’abitudine Eustass-ya, Rufy è un tipo espansivo».
«Si può sapere perché abbraccia tutti questo qui?».
«Perché gli va di farlo».
«Ciao Traffy!» urlai ad alta voce e, abbandonando il corpo simile ad un armadio di Eustachio, partii diretto verso di lui, più che deciso a saltargli addosso e a stringerlo forte, ma mi fermò quando ero a pochi passi di distanza, mettendo una mano in avanti con il palmo aperto e spiegandomi pacato che non stava tanto bene.
«Non è un cazzo vero!» si infervorò il ragazzo alle mie spalle, «Stai benissimo, stronzo!».
Lo ignorai. Se Traffy diceva che stava male allora io gli credevo e lo rispettavo. L’avrei abbracciato un’altra volta.
«Dì un po’ Rufy, perché Zoro è a terra a dormire davanti all’ingresso?» mi chiese poco dopo, sorseggiando la sua bevanda fumante e indicando con un cenno del capo il peso morto di cui mi ero dimenticato e che avevo lasciato cadere non appena si era aperta la porta.
«Oh, già, l’ho portato qui per farlo riposare. A dire la verità anche io volevo dormire, ma non ho più visto nessuno alla festa e così mi sono incamminato» raccontai, mentre trascinavo Zoro per un piede fino al divano, dove lo adagiai alla meno peggio e, puntualmente, lui iniziò a russare come un carro armato.
«Non ti ha accompagnato Ace?».
«Uh? No. Credevo fosse a casa. Non è qui?» chiesi perplesso, sgranando gli occhi e fissando lo sguardo in quelli grigi di Traffy, il quale negava con la testa, appoggiandosi alla parete del muro e rivolgendosi poi al nostro amico in comune che da qualche mese aveva iniziato ad uscire con noi facendomi sempre sbellicare dalle risate per le litigate tra lui e il moro.
«Eustass-ya, tu l’hai visto per caso?».
Eustachio grugnì un seccato no come risposta e si diresse verso il salotto borbottando improperi per quanto riguardava lo storpiamento del suo nome, gettandosi di peso nel divano opposto a quello di Zoro e facendolo sbattere contro al muro con un rumore sordo.
«Manca anche Penguin» notò allora Traffy, spostandosi per farmi spazio e lasciare che mi dirigessi in cucina ad aprire il frigo a caccia di uno spuntino prima di mettermi a letto.
«Come mai voi siete qui a casa?» domandai sovrappensiero, prendendo al volo il cartone del latte e iniziando subito a rovistare dentro alla dispensa per trovare anche i biscotti che a casa di Ace non mancavano mai. In realtà non mancava mai nulla e non si moriva mai di fame considerando tutto il cibo che consumavano il mio fratellone e i suoi coinquilini.
«Tra poco ce ne andiamo anche noi».
Trovai i biscotti e li raggiunsi in salotto dove c’era Eustachio intento a cercare di afferrare una gamba di Traffy per farlo cadere, il quale gli passava davanti per andare ad accomodarsi sulla sua poltrona gialla che mi piaceva tanto.
«E dove andate?» insistei, spostando lo sguardo da uno all’altro. Quei due erano in costante lotta e non smettevano mai di punzecchiarsi a vicenda. O meglio, Law non perdeva occasione per provocare quel tipo tutto muscoli e con i capelli rossi il quale, senza pensarci troppo, iniziava ad innervosirsi e a ringhiare minaccioso. Tutto sommato, ne ero certo, non si odiavano affatto. Erano amici, si vedeva, non potevano fare a meno di starsi lontani, come se uno fosse il pianeta e l’altro il suo satellite che gli gravita attorno.
Queste cose le so perché le ho studiate l’altro giorno. Per essere dei bravi navigatori e saper seguire le rotte giuste sfruttando le stelle bisogna conoscere certe cose sugli astri, pensai orgoglioso.
«A fare un giro».
«A scopare».
Risposero in coro per poi lanciarsi reciprocamente delle occhiatacce: Capelli Rossi era divertito e ghignava di fronte allo sguardo severo che gli lanciava l’altro.
«Non credo di aver capito bene» ammisi, grattandomi la testa e sedendomi con il cibo in mano nell’angolino del divano dove Zoro riposava ormai beato.
«Meglio così» affermò Law con un cenno svogliato della mano.
Sospirai, lasciando perdere il discorso e sgranocchiando i biscotti di cioccolato, bevendo di tanto in tanto una sorsata di latte direttamente dal cartone.
Chissà dov’è Ace, di solito ritorna sempre con noi. Spero non gli sia successo nulla di male. Strano però, tutti si sono volatilizzati, la prossima volta dovremo cercare di non perderci di vista. Magari possiamo legarci con una corda!
Per passare il tempo durante l’attesa, presi il telecomando e cominciai a vedere cosa facevano per televisione a quell’ora, tenendo il volume basso su richiesta di Traffy perché, a quanto pareva, Bepo era già nella sua stanza a dormire pacifico.
Ad un certo punto degli strani rumore provenienti dal corridoio attirarono la nostra attenzione, risvegliandomi dal dormiveglia in cui ero caduto e incuriosendo anche Law e Eustachio, il quale si alzò dal divano e si avvicinò alla porta d’ingresso, appoggiandoci sopra un orecchio e corrugando la fronte.
Lo raggiunsi con un paio di falcate veloci, scavalcando il tavolino del salotto e schiantandomi contro di lui, beccandomi uno sguardo infastidito al quale risposi con un sorriso e un’alzata di spalle. Sembrava che qualcuno stesse battendo con una mano addosso alla parete esterna, ridendo sommessamente e parlando a bassa voce.
«Forse è arrivato Ace» ipotizzai, affrettandomi ad aprire senza riflettere sul da farsi.
Prima che Eustachio riuscisse a fermarmi mi ritrovai davanti agli occhi Penguin e Killer mentre si baciavano abbracciati a pochi centimetri di distanza da me. Quando si accorse della mia presenza e di quella di Eustachio alle mie spalle, Penguin, preso alla sprovvista, fece un salto all’indietro diventando un tutt’uno con il muro di fronte mentre, accanto a lui, il suo amico pieno di capelli iniziava a ridere come un matto, inginocchiandosi addirittura a terra.
«Ma guarda un po’ qui». La voce inconfondibile di Traffy mi giunse alle orecchie e, voltandomi verso di lui con mille domande che mi ronzavano in testa, lo vidi sogghignare mentre fissava il suo coinquilino in un modo che mi inquietò parecchio. Appoggiato allo stipite della porta, invece, Kidd guardava la scena dall’alto della sua stazza con un sopracciglio alzato e un sorriso canzonatorio, divertito da quello che si stava volgendo sotto i suoi occhi attenti e svegli.
«N-non farti strane i-idee, Law» balbettò Penguin, avvicinandosi lentamente e venendo affiancato subito dopo da Killer, il quale, come a voler contraddire quello che era appena stato detto, gli cinse la vita con un braccio attirandoselo contro.
Inclinai il capo, osservando com’era bello vederli così affiatati e affezionati l’uno all’altro. Si vedeva chiaramente che si volevano bene.
Penguin si coprì il viso con una mano, lamentandosi del fatto che ci fossi pure io a guardarli, così cercai lo sguardo di Traffy per chiedergli spiegazioni e lui, con pazienza, mi aiutò a capire che i nostri amici, come avevo immaginato, andavano molto d’accordo, ma erano timidi e si vergognavano a farsi vedere così vicini.
«Ma Casco di Banane sembra contento di abbracciare Penguin» feci notare, ignorando il tono incazzato e minaccioso con cui il diretto interessato chiese dei chiarimenti riguardo al soprannome che gli avevo appena affibbiato.
Eustachio scoppiò a ridere in quell’esatto istante, dandoci le spalle e rientrando nell’appartamento; persino Law trattenne a stento uno sbuffo simile ad una risata, mentre faceva cenno agli altri di entrare e non rimanere sull’uscio con quell’aria imbarazzata.
«Immagino vi siate divertiti parecchio stasera» disse con noncuranza quando i due ragazzi ci superarono diretti verso le camere da letto. Penguin guidava Killer tenendolo per mano.
«Buonanotte» riuscì a dire Eustachio tra una risata e l’altra, quando i due sparirono dentro ad una stanza e si chiusero la porta alle spalle.
Dormono anche loro assieme come me e Ace. Devono per forza essere amici per la pelle, tanto da considerarsi addirittura fratelli! Nessuno ha amici come i miei, nessuno. Sono i migliori!
Gongolando davanti all’idea di una grande famiglia felice all’interno della quale tutti si volevano bene ed erano pronti ad aiutarsi reciprocamente non mi accorsi dello scambio di sguardi allusivi tra Eustachio e Traffy, i quali avevano preso a sghignazzare malignamente, pensando a chissà cosa.
«Sembra che dovremo trovare un altro posto dove rilassarci e stare in pace» stava dicendo il rosso, massaggiandosi pensieroso il mento.
«Soprattutto quando anche Ace deciderà di uscire allo scoperto» concordò Traffy, facendomi drizzare le orecchie.
«E’ un appartamento troppo piccolo per tutti» continuò Kidd, ma fu costretto a interrompersi perché mi intromisi nella loro conversazione chiedendo spiegazioni su quello che avevano appena detto di mio fratello che non mi era chiaro.
«Non lo sai?» ghignò Law con uno strano luccichio sinistro negli occhi. Sicuramente il riflesso delle lampade accese sul soffitto.
Lo fissai spaesato. A cosa si stava riferendo?
«Ace esce con qualcuno» dichiarò allora uno dei miei migliori amici, nonché persona che stimavo molto e di cui mi fidavo. Lui ed io avevamo fatto un accordo che avremo onorato per sempre: avevamo deciso che non avremo permesso a nessuno di fare del male al mio amato fratellone, il quale era anche un suo caro amico, e ci eravamo impegnati a fare di tutto per vederlo felice.
Mi fidavo di Traffy, era buono e sicuramente sarebbe diventato il chirurgo più bravo e forte del mondo!
Lo guardai a bocca aperta, assimilando le informazioni ricevute e voltandomi a rallentatore quando un ragazzo con i capelli corvini e scompigliati, lo sguardo assonnato e i vestiti stropicciati fece il suo ingresso in salotto, salutando tutti e sbiancando poi di fronte alla mia espressione apatica.
«Rufy, che ti succede?» mi chiese Ace, visibilmente preoccupato.
Io? Io sto benissimo!
«Ace, perché non mi hai detto che ti sei innamorato?».





Angolo Autrice.
Well, well, well. Io spero vivamente che vi sia piaciuto perché mettermi nei panni di quattro persone completamente diverse tra di loro e una più particolare dell’altra è stato un vero suicidio, sappiatelo. Forse Rufy potevo evitarlo, ma non ho resistito, anche se provare a pensare con la sua testa è estenuante. Avrei dovuto scrivere solo la parola CARNE! Anyway, io ci ho provato, sta a voi decidere. Che fatica comunque, però mi sono divertita molto dato che li adoro tutti.
Poi, beh, le canzoni sono due. Alive e Burn, che stavo ascoltando mentre scrivevo la parte di Marco e l’ho trovata adatta per quel momento.
Ora, per chi cade dalle nuvole ho iniziato una raccolta che racconta degli incontri al bar di Ace e Marco che qui non vengono descritti (Troppi, sono davvero troppi e tutti diversi!), quindi se avete voglia dateci un’occhiata, magari accadono cose che non vi aspettate *O* alla fine si congiungeranno ai fatti che accadono nella long, ma per ora sono solo all’inizio. Quindi, se avete tempo, voglia, pazienza, cercate It’s all about you.
Uhm, non ho altro da aggiungere, forse uno spoiler magari:
 
L’avevo guardato in faccia e l’unica cosa che avevo visto nei suoi occhi era stato il gelo.
Non era l’unico con gli scheletri nell’armadio ed io di certo non ero uno stinco di santo, considerando l’alto numero di persone che avevo spedito all’ospedale in condizioni poco buone per la loro salute, perciò ero l’ultimo che lo potesse giudicare. Inoltre, l’unica cosa che mi stava facendo prudere le mani era il senso di rabbia che provavo nei confronti di quel figlio di puttana che gli era capitato come padre.
*
Mi sentivo la testa leggera, senza brutti pensieri, senza difficoltà e problemi; ogni cosa era al suo posto. Io mi sentivo al mio posto. Stavo bene. Non c’era nulla di sbagliato, niente che potesse scalfirmi in quei momenti di pura follia. Noi eravamo la follia stessa. Tutto di noi gridava di starci lontano, eravamo uno l’opposto dell’altro, così diversi eppure così simili, vicini, segnati. Speciali.
 

Un abbraccione da orso e un graaazie grande grande a tutti!
See ya,
Ace.
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 13. Piccolo e dolce Eustass-ya. ***


Capitolo 13.
Piccolo e dolce Eustass-ya

«Ace, perché non mi hai detto che ti sei innamorato?».
Le cose si stavano facendo più interessanti di quanto avessi mai potuto immaginare. Eppure, dopo tutto quello che era successo con Trafalgar, pensavo che le sorprese fossero finite, lasciandomi tranquillo con il tempo di dormire fino a tardi e poi, beh, iniziare quel qualcosa che, senza dubbio, si stava creando tra me e quel bastardo sadico.
Si era divertito come un matto a farmi sputare il rospo e sentirmi dire a voce alta il motivo per il quale insistevo così tanto per essere quel nessuno di cui aveva bisogno. Non aveva smesso un secondo di fissarmi e di ghignare mentre, seduto sul divano di casa sua accanto a me, i piedi comodamente distesi sulle mie gambe, aspettava con impazienza che mi decidessi a parlare e a spiegarli il perché del mio comportamento di quella sera.
«Perché non mi hai semplicemente lasciato andare? Sarebbe stato tutto più facile» mi chiedeva, e poi ancora «Perché, Eustass-ya. Dimmi perché».
Perché. Perché. Perché.
Maledetto stronzo, avevo tanto desiderato strozzarlo e farlo sparire dalla circolazione, ma quello che mi aveva promesso per il giorno seguente mi aveva talmente lusingato da trattenermi dal commettere qualche pazzia.
Il perché era semplice e chiaro nella mia testa, solo non volevo dirglielo per nessun motivo al mondo. Troppo imbarazzante e smielato, non era di certo da me una roba del genere così schifosamente dolce da far venire il diabete.
Fu con enorme sforzo, alla fine, che sotto tortura arrivai ad ammettere a me stesso che forse c’era la remota possibilità che mi stessi affezionando a lui. Questo era il massimo che potevo permettermi e se non era abbastanza affaracci suoi, non era un problema mio. Era certo, però, che non mi sarei mai espresso in modo tale, assolutamente, dovevo pur mantenerla una punta di orgoglio e dignità.
«Non voglio dividere le mie cose con nessuno, è questo il motivo» avevo grugnito in risposta, venendo subito messo alle strette dalle sue insinuazioni che, sicuramente, si era già preparato in precedenza per mettermi a disagio.
«Quindi, stando alle tue parole» aveva detto mellifluo e con una faccia da schiaffi, «Sei geloso, possessivo e mi ritieni di tua proprietà?».
Chiariamo che io non avevo detto niente di tutto ciò e che lui non aveva fatto altro che ricamarci sopra e piantare castelli in aria, fare viaggi mentali e pare assurde. Come poteva una persona fraintendere così tanto? Da dove le tirava fuori tutte quelle insinuazioni senza fondamenta? Il suo cervello doveva per forza funzionare al contrario, doveva essere così, altrimenti non avrei saputo spiegarmi tutte quelle pare che si stava facendo venire in mente solo per provocarmi.
Non gliel’avrei permesso, non in quel momento, non quando, per una volta, le cose sembravano andare per il meglio su tutti i punti, senza eccezioni, senza litigi, senza frecciatine o altro. Tutto era tranquillo, soprattutto lui, e quel velo di tristezza che sembrava essere piombato sui suoi occhi e sul suo umore era sparito senza lasciare traccia, sostituito da un perenne sorrisetto che di gioviale non aveva niente, ma almeno non era il suo solito ghigno strafottente e di superiorità. Era qualcosa di innocente, qualcosa di mai visto e che mai gli avrei associato. Gli dava un’aria contenta.
E questo mi bastava. Mi bastava davvero.
Se c’era una cosa che mi ero ripromesso di fare e mantenere quella sera, era l’intenzione di non lasciare che quello spiraglio di buonumore lo abbandonasse. Per nessun motivo lo avrei permesso, anche a costo di tatuargli quell’espressione con l’inchiostro indelebile. Doveva sorridere e, per quanto la mia indole fosse malvagia, ero certo che se lo meritasse, soprattutto dopo quello che aveva passato.
Ed io che mi chiedevo come mai fosse sempre così schivo nei miei confronti. Ora che conoscevo i fatti capivo che chiunque avrebbe reagito come lui, io per primo, forse anche peggio e, se avessi avuto una vaga idea di quello che aveva dovuto subire, forse mi sarei deciso ad agire prima.
Non appena mi aveva dato contro, uscendo in tutta fretta dal locale con una faccia che dire distrutta era dire poco, non ci avevo pensato due volte a mollare tutto e seguirlo per impedirgli di fare qualche cazzata, vista la sua reazione alle mie parole. Certo, un po’ era colpa mia che l’avevo pungolato sul vivo dandogli del codardo, ma era quello che pensavo dopotutto. Una persona che evitava coinvolgimenti, che si teneva a distanza, che non si esponeva anche quando tutto di lei diceva il contrario era da considerare codarda. E, di questo ne ero certo, Trafalgar non era il tipo che scappava di fronte alle difficoltà, anzi, le fronteggiava a testa alta e con un dito medio alzato per far capire meglio le sue intenzioni a chiunque si ritrovasse davanti. Era combattuto e aveva deciso di nascondersi perché il suo passato lo obbligava a farlo, non perché lo volesse. Anche uno stupido se ne sarebbe accorto, infatti mi era stato chiaro fin dall’inizio che ciò che desiderava non era andarsene, ma restare. Questa verità avrei potuto sbattergliela in faccia, se solo ci avessi pensato prima.
A prima vista Trafalgar Law dava l’idea a chiunque lo incontrasse di essere un ragazzo normale. Era piuttosto alzo e smilzo, ma solo all’apparenza da quello che avevo potuto constatare perché, a quanto pareva, il bastardo nascondeva la sua buona dose di fasci muscolari che potevano reggere benissimo ai miei colpi. I capelli erano neri, come il lieve accenno di barba e il pizzetto sul mento, senza sfumature, nessuna tonalità più chiara, solo semplici fili neri e morbidi al tocco. Non che mi ci soffermassi più di tanto ad accarezzarli, lo sapevo e basta.
«Hai caldo, Eustass-ya, o devo dedurre che tu stia arrossendo?».
Aveva una vista da far invidia a un falco e non gli si poteva nascondere niente, nemmeno quell’improbabile e tenue rossore che mi aveva imporporato il viso per neanche un secondo. Lui l’aveva notato, come sempre. Il viso era definito e regolare, con una bocca sottile e un piccolo naso al centro mentre, a dare il tocco finale alle sue espressioni e a svelare la piega dei suoi pensieri, erano quegli occhi grigi come l’inverno, a volte circondati da delle lievi occhiaie, ma spesso vigili, attenti, intimidatori, scettici. E caldi. Nonostante tutto, riuscivano ad essere caldi, anche se non voleva darlo a vedere.
E i tatuaggi. Law aveva una serie inquietante e macabra di tatuaggi sulle falangi delle dita e sulle braccia. Sulle nocche si era fatto scrivere ‘DEATH’, morte, davanti al quale avevo represso un brivido la prima volta che me l’aveva spiegato, mentre gli altri non erano così male. L’enorme cuore tribale che aveva sul petto poteva avere una miriade di significati e molto spesso mi soffermavo ad osservarlo, arrivando alla conclusione che non me ne sarei mai fatto uno, anche se a vedere i suoi non sarebbe stata una scelta orribile.
A conti fatti e nonostante l’apparenza, di normale, invece, non aveva proprio niente. Possedeva il potere di riuscire a mantenersi serio e pacato per la maggior parte del tempo, infatti dovevo ancora vederlo perdere le staffe e arrabbiarsi, cosa che, a detta sua, non faceva mai. Spesso si concedeva un ghigno canzonatorio e malizioso che annunciava l’arrivo di una delle sue velenose battutine che rivolgeva volentieri verso coloro che non gli andavano a genio. Oltre a questo nelle risposte era molto schietto e non perdeva tempo in inutili giri di parole. Probabilmente non gli stavo ancora del tutto simpatico, visto che continuava a punzecchiarmi e a deliziarmi dei suoi commenti aspri, ma non mi cambiava la vita. Dopotutto, il sentimento era reciproco.
Una cosa che non sembrava sopportare era prendere ordini, per questo non faceva mai quello che gli dicevo e si comportava come se nessuno gli fosse superiore, facendomi incazzare e obbligandomi a dargli una lezione che sembrava non voler imparare. In poche parole, era una spina nel fianco, una maledizione.
La mia maledizione, considerando gli ultimi avvenimenti.
Si, ero possessivo e non mi andava che la gente toccasse le mie cose. Lui ci scherzava sopra, ma non aveva idea di quanto potessi essere possessivo e ossessionato, ma anche su questo rimasi zitto, altrimenti avrebbe iniziato una serie di sproloqui insistendo nel dire che ero geloso di lui e stronzate simili.
Per essere precisi e voler citare una frase che aveva detto lui stesso: ero geloso delle mie cose, non di lui, c’era differenza.
Così l’avevo raggiunto, convinto di poterlo fermare, e così avevo fatto. Vederlo lì, intento a tremare, la testa stretta nelle spalle, disperatamente solo, aveva contribuito a smuovere qualcosa dentro di me e a farmi agire senza rimanermene da una parte e con le mani in mano. Le parole mi erano uscite di bocca da sole, di getto, senza riflettere, come se fossero già state pronte e attendessero solo di essere pronunciate, liberate.
Aveva un disperato bisogno di qualcuno che restasse, che fosse vero, che non se ne andasse, che fosse reale e che riempisse quel vuoto che aveva dentro di sé e che lo stava logorando pezzo dopo pezzo. Quel qualcuno ero io. Io ero il suo nessuno.
Afferrarlo per un braccio e stringermelo contro mi era sembrata la cosa più giusta da fare in quel momento, nascondendo il viso tra i suoi capelli in modo da celargli un sorriso soddisfatto che non ero riuscito a trattenere quando l’avevo sentito ricambiare il gesto, lasciandosi finalmente andare e decidendo di rimanere e affrontare tutto. Non ci eravamo mai abbracciati in quel modo, per il semplice bisogno di farlo, per affetto, e forse non l’avremo rifatto tanto presto, tenendo conto che a certe cose ero allergico.
Dopo di che eravamo rientrati al Moby Dick giusto il tempo di recuperare i nostri cappotti e andarcene in un posto tranquillo. Non appena avevo messo in moto la macchina ero più che convinto di filare dritto a casa mia, ma ad un tratto iniziò a farmi da navigatore fino a che non arrivai in un quartiere piuttosto illuminato e pieno di casette e giardini ben curati. Mi fece parcheggiare in un parcheggio riservato di fronte ad un edificio di medie dimensioni e, senza aggiungere altro, aveva estratto un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca e mi aveva fatto entrare e salire le scale fino al suo appartamento dove non ero mai stato.
Era spazioso più di quanto avessi immaginato, adatto alle esigenze di quattro ragazzi, uno più bizzarro dell’altro, e non mi stupii di ritrovarmi davanti ad una parete piena di colori, impronte di mani e piedi, il profilo di una faccia e una sottospecie di smile giallo che, da quello che mi aveva detto Trafalgar, era considerato come il loro simbolo di famiglia, una specie di Jolly Roger fatto male, ecco.
Si era diretto in cucina, lasciando la giacca all’entrata e facendomi cenno di seguirlo per poi accomodarmi in una delle sedie in legno con i cuscini azzurri a scacchi, ritrovandomi a pensare che quel posto non era male. Si era sistemato bene, quell’impiastro.
Dandomi le spalle aveva iniziato a trafficare con una moca e le cialde per il caffè, tenendosi occupato mentre, con un respiro profondo, iniziava a raccontarmi quella parte della sua vita che ancora lo spaventava e lo faceva fuggire.
Ascoltai in silenzio come, da bambino, fosse stato costretto ad assistere alle scene in cui suo padre picchiava la madre, lasciandola spesso senza sensi e svenuta a terra con solo lui accanto a cercare di risvegliarla con l’angoscia sempre crescente di non riuscire a farle aprire gli occhi.
«Ogni volta avevo il terrore che fosse l’ultima. Temevo che non ce la facesse più» aveva sussurrato, riempiendo due tazze con gesti meccanici.
L’uomo era immischiato in un giro losco di affari e manteneva la famiglia con denaro sporco, spesso macchiato con sangue di altre persone, e, quando il piccolo Trafalgar era cresciuto abbastanza, aveva provato ad inserirlo nel giro della malavita, ricevendo immediatamente dal ragazzo una risposta negativa. Aveva riprovato altre volte e senza successo, fino a quando era arrivato a minacciare di fare molto male alla madre. Allora Law aveva ceduto subito, chinando il capo, tutto pur di non perdere quella donna che l’aveva sempre protetto con tutta se stessa, ma aveva fatto male i conti.
Dopo aver studiato per bene gli affari e i movimenti del padre e dei suoi complici, aveva deciso di andare alla polizia e denunciarli tutti, dal primo all’ultimo, accordandosi con i poliziotti che li avrebbe tenuti informati sui movimenti di quel verme e che, non appena si sarebbe introdotto meglio nel giro, avrebbe dato l’allarme per aiutarli a cogliere tutti con le mani nel sacco. Era un buon piano, mi aveva detto con un sorriso amaro sul volto, appoggiato con le braccia incrociate al bordo del ripiano della cucina, tutto calcolato nei minimi particolari, niente lasciato al caso. Suo padre, però, sospettando qualcosa, l’aveva fatto pedinare da uno dei suoi uomini e aveva scoperto tutto. Così, quando Law era arrivato a casa, aveva trovato quel maledetto ad aspettarlo con la vita di sua madre tra le mani, uccidendola con un colpo di pistola al cuore nell’istante in cui il ragazzo correva in suo aiuto.
Non avevo detto una parola durante il racconto ed ero rimasto a guardarlo immobile, incapace di fare o dire qualcosa. In effetti non c’era niente che potesse alleviare il suo dolore, non una parola, non un gesto, nulla avrebbe cancellato il passato.
«Non ci ho pensato due volte e l’ho aggredito buttandolo a terra» aveva detto con tono piatto e senza nessun sentimento, «Ha reagito in tutti i modi: sfregiandomi il viso, spezzandomi le ossa, cercando di uccidermi, ma non gli è servito». Un ghigno soddisfatto gli solcò il viso per qualche secondo, «Ho resistito fino a che non l’ho immobilizzato contro una parete, iniziando a colpirlo forte, sempre più forte. E poi tutto si è fatto buio, come se la mia mente fosse andata in standby. Non ricordo nulla di quegli attimi, solo che quando riaprii gli occhi vidi le mie mani e i vestiti imbrattati di sangue».
L’avevo guardato in faccia e l’unica cosa che avevo visto nei suoi occhi era stato il gelo.
Non lo uccise, ma lo conciò male e poi chiamò la polizia che arrivò entro pochi minuti, portando l’intera famiglia all’ospedale, anche se per la madre era troppo tardi. Il padre finì in carcere e Law passò un lungo periodo in convalescenza, poi in un collegio fino alla maggiore età, iscrivendosi all’università non appena ne ebbe l’occasione e dividendo l’appartamento con gli amici d’infanzia che non l’avevano abbandonato e con quelli che aveva conosciuto negli anni.
Oltre a questo mi aveva anche spiegato che, non appena era diventato maggiorenne, l’avevano informato di un fondo intestato a nome suo che sua madre gli aveva lasciato prima di morire. Con quello e con l’assicurazione dei suoi era riuscito a trovare un buon appartamento abbastanza economico e a riscattare una vecchia auto di suo padre, rivendendola e ottenendo in cambio quella che teneva gelosamente nascosta in garage. Dopotutto, un po’ stronzo e approfittatore lo era stato, ma nulla di male se confrontato con il lavoraccio del genitore.
Alla fine del racconto mi aveva guardato finalmente, studiando la mia reazione e, immaginavo, aspettandosi di trovare ribrezzo, terrore o disgusto nei miei occhi ma, a giudicare dal sorriso che gli increspò le labbra dopo alcuni minuti, non trovò nessuna traccia di tutto ciò.
Infatti non era l’unico con gli scheletri nell’armadio ed io di certo non ero uno stinco di santo, considerando l’alto numero di persone che avevo spedito all’ospedale in condizioni poco buone per la loro salute, perciò ero l’ultimo che lo potesse giudicare. Inoltre, l’unica cosa che mi stava facendo prudere le mani era il senso di rabbia che provavo nei confronti di quel figlio di puttana che gli era capitato come padre.
E fu in questo modo che passammo le ore successive in salotto a parlare di quella marea di problemi che ci avvolgeva, impedendoci di vivere e andare avanti con la nostra vita e iniziare a pensare solo al meglio, invece che continuare ad essere legati al passato. Non sarebbe stato facile, soprattutto con un tipo come lui, ma almeno avevamo fatto il primo passo, l’uno verso l’altro, il resto poi sarebbe venuto da sé.
«Eustass-ya, pensi di baciarmi o aspettiamo che i tuoi capelli cambino colore?» mi aveva chiesto ad un tratto, appoggiando la terza tazza di caffè della serata sul tavolino di fronte a noi e mettendosi seduto sul divano, in attesa che facessi la prima mossa.
L’avevo guardato con un misto di stupore e fastidio per il fatto di dovermi subire quelle sue frecciatine di cattivo gusto, ma non avevo perso troppo tempo prima di passargli una mano dietro al collo e attirarlo verso di me con l’ombra di un ghigno sul volto e incollando le sue labbra alle mie, dimenticando tutti i casini di cui avevamo parlato fino ad allora e pensando che da quel momento in poi le cose avrebbero potuto migliorare parecchio.
Baciare Trafalgar era come una sfida: un continuo scontrarsi di baci frenetici e morsi. Opporre resistenza fino all’ultimo, quando il piacere prendeva il sopravvento e l’unica cosa che aveva importanza era il bisogno quasi disperato di sentirsi uniti, vicini, completi. Che vinca il migliore, dunque.
Se fosse dipeso da me l’avrei preso volentieri sul divano e all’istante, ma appena provai a sbottonargli i pantaloni venni scaraventato a terra nel giro di pochi secondi, ritrovandomi a fissare dal basso il ghigno di quel bastardo mentre mi spiegava che presto sarebbero arrivati anche gli altri e che quello non era il posto migliore per lasciarsi andare.
Al diavolo lui e i suoi coinquilini, era tutta la sera che parlavamo di superare le barriere, affrontare tutto a testa alta e, per l’appunto, lasciarsi andare, e adesso mi chiedeva di aspettare solo perché non voleva dare spettacolo? Cosa credeva, che i suoi amici non avessero mai visto un film porno?
Così aveva lasciato che mi rialzassi da solo mentre lui andava a preparare dell’altro caffè e a riempire per la quarta volta le nostre tazze. Di certo, quando saremo arrivati a casa mia, dormire non sarebbe stata la nostra priorità assoluta, non dopo tutta quella caffeina che avevamo bevuto, alternando discorsi, baci, qualche insulto e una cuscinata in faccia che, per la precisione, mi ero beccato io.
Fu in quel momento che il campanello dell’appartamento aveva iniziato a suonare ininterrottamente, attirando la nostra attenzione e facendo alzare gli occhi al cielo a Trafalgar che, probabilmente, aveva già capito di chi si trattasse, chiedendomi poi di andare ad aprire. Dandogli le spalle e avviandomi verso la porta non avevo notato il suo sorrisetto malefico, perciò ero stato colto totalmente alla sprovvista quando quell’impiastro di Rufy mi saltò addosso con l’intento di abbracciarmi, anche se la sua stretta sembrava più la morsa di un boa affamato.
Credevo che le acque si fossero calmate dopo la sua apparizione, invece il livello di incredulità tocco l’apice quando, aprendo la porta d’ingresso, trovammo Killer e Penguin-nanerottolo appiccicati e impegnati a baciarsi senza pudore. Quella vista mi aveva tolto dieci anni di vita, mentre Law aveva un’aria che dire sadica era dire poco. Dio solo sapeva cosa gli stava passando per la mente.
Credevo di averle viste tutte, invece adesso ero proprio curioso di scoprire come si sarebbe risolta la situazione tra i due fratelli, ora che Ace aveva fatto il suo ingresso con l’aria sfatta e Rufy lo fissava in attesa di una qualche risposta.
«M-ma di che cosa stai parlando?» fece il maggiore, visibilmente in imbarazzo e cercando di sorridere spensierato per mascherare l’evidente nervosismo che l’aveva colto in pieno davanti a noi.
«Traffy mi ha detto che ti vedi con qualcuno» si giustificò il più piccolo con uno sguardo innocente, indicando colui che aveva dato inizio a tutto e che, accanto a me e con le braccia conserte, si godeva divertito la scena e il disagio causato al povero Ace.
Quest’ultimo, infatti, lo fulminò con uno sguardo accusatorio prima di negare tutto con tanto sentimento da rendere fasulla ogni singola parola e di questo se ne rese conto anche Rufy, dato che iniziò a sorridere senza sosta, sghignazzando davanti ai vani tentativi del fratello nel cercare di convincerlo dell’assurdità della cosa.
«Stava solo scherzando» disse, ostentando indifferenza, «Non è vero?».
Trafalgar, per tutta risposta, si strinse nelle spalle prima di dirne una delle sue che, per una volta, non erano dirette a punzecchiare me.
«Come è stato il bacio, Ace?».
Il ragazzo sbiancò davanti a quella insinuazione, mentre io ero troppo occupato a capire da cosa l’avesse dedotto. Inutile dirlo, gli esseri umani erano come libri aperti per Law: non gli si poteva nascondere niente. Gli bastava un’occhiata attenta e sapeva farti un resoconto della personalità di chiunque, persino i suoi gusti e le sue preferenze, orientamento sessuale e religione compresi. Poteva essere un vantaggio in certi casi, ma anche una tremenda seccatura se si avevano segreti da tenere al sicuro.
«E tu come diavolo lo sai?» sbottò sconcertato il povero ragazzo, tappandosi subito dopo la bocca con entrambe le mani quando capì di essersi messo nel sacco da solo, dando la certezza di cui il moro accanto a me aveva bisogno. Infatti ghignò vittorioso subito dopo.
«Come immaginavo» sussurrò, «Quanta lingua ci ha messo?».
«Per l’amor del Cielo, Law! Non davanti a lui!», si lamentò, indicando il piccoletto che, con una faccia da schiaffi, inclinava la testa di lato con l’aria di chi non sta capendo niente.
«Fratellone, mi dici di chi si tratta?».
«Senti un po’, Trafalgar, penso sia ora di andare» affermai a quel punto, fissando allibito il piccolo Rufy attaccarsi alle gambe del fratello e pregandolo con una faccia speranzosa di raccontargli tutto, non disturbato dal fato che Ace tentasse in tutti i modi di scrollarselo di dosso, aggirandosi per la stanza con passi pesanti e trascinandoselo dietro.
«Per una volta sono d’accordo con te, Eustass-ya» mormorò, soddisfatto del suo operato e scomparendo lungo il corridoio verso il quale si erano diretti poco prima anche Killer e l’altro idiota, ritornando poco dopo con uno zaino in spalla e un giubbotto tra le braccia.
«Andiamo?».
«Law, non credere di svignartela così facilmente!» stava dicendo in quell’istante Ace, trattenuto a terra dal fratello che gli stava seduto sul petto, impaziente di sentire la sua storia e di saperne di più sulla sua vita privata.
«Buon riposo» lo sfotté il medicastro, mentre si dirigeva verso l’uscio e mi faceva cenno di seguirlo, lasciandomi passare per primo, «Ciao Rufy».
«Ciao Traffy! Ciao Eustachio!» rispose il ragazzino, salutandoci allegramente con una mano prima che la porta si chiudesse alle nostre spalle.
«Sei proprio un demonio, Trafalgar» gli feci notare, scendendo con calma le scale e compatendo un po’ Ace, il quale, sicuramente, avrebbe avuto una bella gatta da pelare ora che quel moccioso chiacchierone sapeva della sua relazione.
«Ce n’è anche per te, Eustass-ya, non preoccuparti» mi avvisò sorridente.
Non sia mai che si dimentichi di farmi incazzare, pensai sarcastico, prima di illuminarmi di un’idea niente affatto malvagia.
«Tra poco ti farò passare la voglia di scherzare, parola mia».
«Lo spero vivamente».
 
* * *

«Dove diamine sono finite le chiavi!».
«Impaziente?».
«Chiudi quella cazzo di bocca e cancellati quel ghigno dalla faccia».
Rovistai freneticamente tra le tasche per l’ennesima volta, deciso a riguardare anche in macchina se necessario.
«Eustass-ya?».
«Che vuoi?».
Law sollevò un dito davanti ai miei occhi dal quale pendevano un mazzo di chiavi argentate e tintinnanti e me lo sventolò sotto al naso, inarcando un sopracciglio e sorridendomi beffardo.
«Le chiavi» disse semplicemente, godendosi la mia reazione nel togliergliele di mano e dargli le spalle nuovamente per aprire la porta di casa mia, facendo scattare la serratura ed entrando finalmente al caldo.
«Dovresti scriverti un promemoria o uno di questi giorni ti ritroverai chiuso fuori e sarai costretto a chiedere a me dove trovare la chiavi di casa tua» sfotté, mettendomi fra le mani il cappotto e lo zaino per poi superarmi, dirigendosi in salotto e lasciando cadere dietro di sé la sciarpa che aveva al collo e la felpa che aveva indossato quando eravamo arrivati a casa sua per stare più comodo. E, come a voler evidenziare il tutto, prima di girare l’angolo mi lanciò uno sguardo malizioso con la coda dell’occhio, cosa che mi fece fremere per l’eccitazione.
Sorvolai sul fatto di essere stato usato come attaccapanni solo perché aveva già iniziato a spogliarsi da solo e, se prima di sparire dalla mia visuale era già a torso nudo, chissà cosa avrei mai trovato quando l’avrei raggiunto.
Ha capito chi comanda, era ora. Ci è voluto un po’ ed è stata una battaglia estenuante, ma alla fine gli è entrato in quella testaccia che con me non deve tirarla tanto lunga. E’ così estenuante quella sua testardaggine.
Sogghignando soddisfatto lasciai tutto all’ingresso, scarpe comprese, e chiusi a chiave, affrettandomi a raggiungerlo e restando deluso e interdetto nel trovarlo con ancora addosso i pantaloni mentre si rannicchiava comodamente sul divano.
«Qualcosa non va?» chiese con un’espressione angelica, cosa che, a differenza di me, a lui riusciva benissimo, anche se sapeva esattamente qual’era il problema
Le mie sopracciglia saettarono verso l’alto di fronte al suo comportamento, poi sbuffai, raggiungendolo con poche falcate e sovrastandolo, bloccandolo in un angolo del divano più che deciso a obbligarlo a spogliarsi all’istante. Cosa che, ovviamente, non fece dato che il signorino mi ripeteva sempre che non prendeva ordini da nessuno e bla bla bla, una mazzata in testa e via. Così fui costretto a gettarmi di peso addosso a lui e prendere l’iniziativa.
Chi fa da sé fa per tre. Proprio vero, se solo stesse fermo…
«Al diavolo, Trafalgar! Piantala di divincolarti».
«Non puoi obbligarmi, lo sai» mormorò a denti stretti, guardandomi torvo e opponendo resistenza in ogni modo, firmando la sua condanna e non lasciandomi altra scelta che passare al contrattacco sfoderando la mia arma segreta.
«Ah no?» dissi, mantenendo con una mano la pressione sul suo petto per impedirgli di alzarsi e cercando con un braccio dietro di me e alla cieca l’arma di cui avevo bisogno, trovandola qualche istante dopo e colpendolo di sorpresa, lasciandolo esterrefatto con gli occhi sgranati e increduli.
«Non l’hai fatto sul serio» sibilò minaccioso, scandendo le parole una ad una.
Per tutta risposta e con una faccia divertita gli tirai un’altra cuscinata in pieno viso, lasciandolo senza fiato e iniziando a ridere davanti alla sua reazione inerme.
Poi fu il delirio.
Non potevo di certo sperare che il mio gesto rimanesse impunito, perciò Trafalgar, con i suoi trucchetti e le sue mani gelate riuscì a liberasi e ad appropriarsi di un cuscino per poi partire all’attacco e prendermi a cuscinate senza tregua, ricevendone altrettante e scoppiando a ridere quando qualche piuma scappata dall’imbottitura si posò sui miei capelli scompigliati e diretti in tutte le direzioni. Inutile dire che aveva iniziato a prendermi in giro, facendomi montare la rabbia e prendere sul serio quella partita, più che intenzionato a distruggerlo. Per quanto tentassi di metterlo alle strette, però, riusciva sempre a defilarsi all’ultimo momento, colpendomi alle spalle e mirando sempre più spesso alla mia testa. L’unico modo per liberarmi di quella situazione scomoda era ingannarlo, perciò, quando mi colpì per l’ennesima volta, mi sdraiai sul divano, lasciandogli il tempo di salirmi sullo stomaco ed esultare con un ghigno e uno sguardo altezzoso per essere riuscito a battermi. Fu in quell’esatto istante che gli bloccai le braccia lungo i fianchi, ribaltando le posizioni e imprigionandolo tra me e i cuscini.
«Hai perso» cantilenai, godendomi quell’attimo di vittoria e congratulandomi con me stesso per metterlo sempre alle strette negli scontri fisici. Poteva essere più intelligente e più scaltro di me, ma non sarebbe mai riuscito a battermi nel corpo a corpo, poco ma sicuro e lo sapeva anche lui. Chissà poi quanto gli rodeva questa consapevolezza.
«Tutto muscoli e niente cervello» mormorò per niente abbattuto e, non appena mi accorsi di una scintilla sospetta nei suoi occhi, fu troppo tardi. Era riuscito a liberarsi un braccio e a recuperare uno dei cuscini sparsi per terra, ricominciando a colpirmi in viso e, nel tentativo di difendermi da quel colpo basso, scivolammo dal bordo del divano finendo a terra.
Giusto un attimo prima di toccare il pavimento e rischiare di rompergli qualcosa con tutto il mio peso, con uno strattone lo riportai sopra di me e irrigidii le spalle non appena sentii l’impatto, sbattendo la testa e lasciandomi scappare una serie di improperi coloriti e poco educati.
«Merda, che male!» inveii con una smorfia di dolore, massaggiandomi la nuca e ignorando il formicolio che sentivo alla spalla sinistra. Non era nulla di grave, ma cazzo se era fastidioso. Fortuna che con tutte le volte che ero caduto dalla moto mi ero irrobustito e ormai non mi spaventava più il pericolo, ma se al posto mio avessi lasciato quel moccioso, sicuramente non sarebbe stato lo stesso risultato considerato il suo mucchietto d’ossa.
Aprii gli occhi per controllare che tutto fosse a posto, ritrovandomi quelli seri e immobili di Trafalgar a pochi centimetri intenti a scrutarmi a fondo, alla ricerca di qualsiasi accenno di complicanze. Ignorò la mia mano che aveva preso, senza un preciso motivo, ad accarezzargli i capelli e continuò a sondarmi, talmente attento e concentrato da sembrare di aver smesso di respirare.
«Stai bene». Non sembrava una domanda, ma nemmeno una convinzione.
Increspai le labbra, indeciso se ghignare o sorridere davanti alla sua preoccupazione, «Ci vuole ben altro per mettermi al tappeto».
«Beh, in realtà ci sei appena finito» fece ironicamente, riferendosi all’enorme tappeto che rivestiva parte del pavimento del salotto sopra al quale ero sdraiato, abbandonando quell’aria scrupolosa da saputello dell’università e ritornando ad essere il solito stronzo approfittatore.
Per quanto riguardava il mio gesto altruista, probabilmente la caffeina doveva avermi fatto un brutto effetto, qualcosa come scatti improvvisi degli arti o la perdita del controllo delle articolazioni, altrimenti non mi sarei mai sognato di prendere il suo posto e beccarmi una botta in testa, rischiando di restarci secco.
«Fottiti» risposi, cercando di scrollarmelo di dosso, ma senza riuscirci. Non ne avevo tutta l’intenzione e dopotutto sembrava stare comodo su di me.
«Potevi lasciarmi dov’ero» mi fece notare, incrociando le braccia al petto e facendomi gelare il sangue nelle vene quando capii che stava per iniziare con i suoi soliti sproloqui e castelli in aria. Cosa stesse immaginando in quella mente diabolica non lo sapevo e non ci tenevo nemmeno a scoprirlo, sinceramente.
«Il caffè mi rende iperattivo. Sai com’è, mi muovo involontariamente» cercai di spiegare corrucciato, sapendo fin dall’inizio che non sarebbe servito a niente dato il modo in cui sulle sue labbra si allargava un sorriso carico di divertimento e aspettativa davanti alle mie patetiche scuse nel tentativo di cambiare discorso e sviare l’attenzione altrove.
Indifferente al mio continuo blaterale, si avvicinò nuovamente al mio viso fino a sfiorarmi il naso con il suo e, scompigliandomi gentilmente i capelli già disastrati mi deliziò di una delle sue solite trovate che avrebbero messo in imbarazzo chiunque, senza la minima eccezione.
«Piccolo e dolce Eustass-ya» gongolò sornione, zittendo la serie di insulti che stavo per rivolgergli per quell’affermazione smielata con un bacio a fior di labbra, prima leggero, poi sempre più ipnotico, facendomi dimenticare il motivo per cui volevo ammazzarlo e ricordandomi quello che avevo intenzione di fargli nell’esatto istante in cui eravamo arrivati a casa.
Senza interrompere il contatto, mi puntellai sui gomiti per rialzarmi, trascinandomi dietro anche il ragazzo sopra di me e lasciando che avvinghiasse le gambe attorno ai miei fianchi mentre, una volta in piedi, mi dirigevo euforico verso la mia stanza.
Aprii la porta socchiusa con una spinta e avanzai deciso verso il letto, lasciandoci cadere Law senza troppa grazia e delicatezza, godendomi la sua espressione corrucciata e l’occhiata infastidita che mi scoccò prima che aggredissi di nuovo le sue labbra. Mi costava una certa fatica stargli lontano quando nelle nostre vene prendeva a scorrere l’adrenalina; era più forte di me ed era essenziale toccare ogni parte del suo corpo, baciare ogni lembo di pelle, sfiorargli le mani, il viso, i capelli, tutto pur di rendermi veramente conto che ciò era reale, che quella persona mi stava accettando davvero senza pregiudizi e senza rabbrividire davanti al mio essere.
Mi sentivo la testa leggera, senza brutti pensieri, senza difficoltà e problemi; ogni cosa era al suo posto. Io mi sentivo al mio posto. Stavo bene. Non c’era nulla di sbagliato, niente che potesse scalfirmi in quei momenti di pura follia. Noi eravamo la follia stessa. Tutto di noi gridava di starci lontano, eravamo uno l’opposto dell’altro, così diversi eppure così simili, vicini, segnati. Speciali.
«Kidd» sussurrò Law, mordendomi un labbro ed intrappolandomi il viso tra le sue mani che andarono poi a stringersi sul collo, come se volesse togliermi il respiro, come se volesse impedire tutto quel contatto.
«Sta zitto per una volta» dissi, azzannandogli la gola e sentendolo fremere sotto il mio tocco.
Quello era per me tutto ciò che mi era sempre mancato. Non per il sesso, non per lo sfogo, non per una distrazione, ma per quella strana cosa, sensazione o sentimento che mi scaldava fin dentro l’anima e mi lasciava con il sorriso, facendomi sentire non più solo, non più incompreso, al buio, senza una luce, ma accettato, voluto. E desiderato.
E ne lui ne nessun altro avrebbe mai dovuto sapere che era esattamente ciò che volevo. Ciò di cui avevo bisogno.
I vestiti sgualciti, strattonati per essere tolti e venire lanciati lontano, da qualche parte nella camera; la frenesia nei gesti: piccole carezze, lievi, veloci, baci a fior di labbra, tenerezza e gentilezza mascherati dalla fretta, dall’imbarazzo, dalla stranezza perché tutto ciò stonava incredibilmente con le nostre personalità. Eppure c’era dolcezza. Nascosta, ma c’era.
All’inizio non avrei mai immaginato di potermi ritrovare in quel letto proprio con lui, con quel presuntuoso, ma era così, era ciò che succedeva da mesi ormai. E lui mi guardava, cercava il mio sguardo con il suo, scavandovi affondo alla ricerca di chissà cosa, leggendovi ogni mia emozione, nonostante facessi di tutto per evitare quel contatto per paura di lasciar trapelare troppo.
«Eustass-ya, guardami».
No, non chiedermelo.
Era la sua frase preferita. La diceva sempre, ogni volta che entravo in lui e che mi lasciavo sfuggire un gemito soffocato, affondando il viso nella sua spalla e ascoltando come, sotto di me, cercasse inutilmente di fare lo stesso, ma senza grandi risultati. Proprio come in quel preciso istante.
Me lo diceva una volta sola ed io non gli davo retta, mai. Lo evitavo, portando l’attenzione altrove, su altri gesti, movimenti, e lasciando inesaudita quella sua unica e all’apparenza innocente richiesta.
Quella volta, però, mattina o notte che fosse, mentre fuori albeggiava, con un sospiro tremante allacciai i miei occhi con i suoi e trattenni il respiro davanti a quella grigia tempesta di tuoni e fulmini rossi come il fuoco che animava entrambi. Perché il piacere bruciava.
Non avrei creduto di averne il coraggio, invece lui era lì, ed io non avrei voluto essere altrove se non in quella stanza non più fredda, ma accogliente.
Lo guardai ma non vidi una persona persa, fatta a pezzi da un rapporto dettato solamente dall’istinto e dal bisogno, ma un carattere nuovo, solido, che sarebbe stato forte e capace di continuare a durare.
Comunque, anche se continuavo a ritenerlo solo un sadico stronzo, anche se sapevo che la nostra guerra non sarebbe mai finita, anche se tutti e due eravamo ormai al limite, stanchi e stremati, non mi fermai perché a quello che avevamo in quel momento ci tenevo davvero.
E quando chiuse gli occhi, inarcando la schiena e stringendo le braccia attorno alle mie spalle, abbracciandomi stretto e affondando le unghie nella pelle, capii che quel ragazzo per me era troppo e temetti per un istante di non meritarlo, sentendomi perso e spaesato.
«Va tutto bene, Kidd» sussurrò sommessamente, strofinando il viso addosso al mio collo, come se volesse nascondersi e non essere osservato mentre pronunciava quelle parole, affondando le dita tra i miei capelli e accarezzandoli lentamente, calmandomi e rasserenandomi.
Sospirai, stringendo nei pugni le lenzuola e tendendo i muscoli, rovesciando la testa all’indietro e sentendo fremere ogni nervo, tendine o parte del corpo quando raggiunsi l’apice, capendo che, anche se all’inizio appariva tutto come un gioco, dopo quella sera potevo smettere di cercare di trovare una risposta plausibile a quella situazione e iniziare a sperare che quel momento non finisse perché il tutto diveniva niente quando lui se ne andava.
Cosa volevo dire con questo?
Sorrisi, rilassando le membra e cercando i suoi occhi come lui aveva fatto molte altre volte in precedenza, trovandoli poco dopo socchiusi e sfuggenti, ma pieni di vita. Quel moccioso poteva avere tanti aspetti fastidiosi ma, nonostante tutto, era inutile continuare a prendere in giro persino me stesso: non volevo che se ne andasse. Avevo trovato qualcuno di simile a me, capace di mandarmi in bestia e, allo stesso tempo, tenermi testa e darmi del filo da torcere. Combattevamo sempre, ogni minuto, ogni ora passata in compagnia era dedicata agli insulti più ingegnosi e originali, rischiando l’esaurimento nervoso. Eppure era lui quello di cui avevo bisogno.
«Che hai da ridere?» chiese, fingendosi indifferente. Purtroppo per lui l’espressione rilassata e il tono stranamente calmo e privo della sua tipica sufficienza lo tradirono, facendomi ghignare ulteriormente, al che si rassegnò, roteando gli occhi e sbuffando, ma accennando ad un piccolo sorriso anche lui, giusto per assecondarmi.
«Sono distrutto» confessò stancamente dopo esserci dati una sistemata e accomodati meglio nel letto sfatto e ridotto in pessime condizioni. Pensandoci bene, forse potevamo stare un po’ più attenti le prossime volte.
«Meglio se dormi un po’» proposi, fissando distrattamente il soffitto con un braccio adagiato sotto alla testa e l’altro avvolto attorno alla sua schiena, intento ad attirarlo contro il mio petto. Era una cosa del tutto normale per me, pensavo solo a farlo stare comodo dato che il materasso non era così grande, ma evidentemente doveva sempre dire la sua e rovinare ogni momento con la sua linguaccia.
«Ti stai proprio rammollendo vedo» sfotté, «Pensavo volessi ricominciare da capo invece che fare il ruffiano».
«Sono stanco anche io, cosa credi?». Certe volte mi risultava molto difficile trattenermi dal soffocarlo con le mie stesse mani. Aveva la capacità di essere insopportabile quando voleva e non doveva nemmeno impegnarsi tanto. Massacrare mentalmente le persone sembrava la sua dote naturale.
Sollevò di poco il capo, inarcando un sopracciglio e guardandomi sardonico, «Povero Eustass-ya, inizi inevitabilmente a perdere colpi».
«Trafalgar, ti avverto, non risponderò delle mie azioni».
Dovevo immaginare che non si sarebbe lasciato intimidire e che avrebbe continuato a farsi beffe di me con le sue insinuazioni da quattro soldi che non facevano divertire nessuno. Nessuno tranne lui a quanto pareva, dato che sembrava esserci nato con la battutina pronta per ogni occasione.
«Eppure ti credevo più resistente, lo sai?».
Digrignai i denti prima di ignorare quelle che sarebbero state le sue ultime frecciatine sarcastiche e sovrastarlo, cogliendolo alla sprovvista ed esultando di fronte alla confusione momentanea che sostituì il suo cipiglio altezzoso quando gli immobilizzai i polsi sopra alla testa.
«Ti farò rimangiare ogni singola parola, Trafalgar» soffiai, vicinissimo al suo viso e intenzionato a fargli capire che con me non si scherzava.
Così, infischiandomene della sua stanchezza e delle sue inutili proteste e tentativi di fuga, lo costrinsi a rimare a letto per tutto il resto della mattinata, domandandomi se saremo mai riusciti a stabilire un vincitore e un vinto tra le nostre dispute.







Angolo Autrice.
Beeene, sono tornata e, beh, spero che anche questo vi sia piaciuto dato che avrei preferito sotterrarmi anziché pubblicarlo, ma va bene così.
Allora, cosa dire? Se non è chiaro, all’inizio, le frasi che Law e Kidd si rivolgono sono in corsivo perché sono avvenute in un lasso di tempo che non ho descritto, ma che ho riportato alla luce come ricordo del nostro adorato Malpelo. Trafalgar gli racconta il suo passato, non bello, non facile da digerire, ma decide comunque di esporsi e sperare in meglio. Infatti Kidd supera la prova e si merita tanti bacini.
Per la seconda parte, dopo i bisticci adorabili di Ace e Rufy, tesori belli, i nostri ragazzi complessati se ne vanno a casa e, dopo estenuanti lotte con i cuscini, Kidd decide di essere cavaliere e sacrificare la sua schiena come scudo al povero e indifeso un paio di palle Trafalgar, il quale si scopre improvvisamente ruffiano e definisce quello sbandato dolce. Scusate, ma io l’ho trovato adorabile oltre ogni limite, anche se spero di non essere scivolata nell’OOC quando ho deciso di lasciare che si coccolassero amorevolmente a nanna. 
Penso sia ora di chiudere, ma grazie a tutti coloro che passano, leggono, sbirciano e recensiscono. Se mi lasciate un ricordino vi sarò grata ^^
Uno spoiler lo meritate:
 
“Abbiamo un po’ di regali da fare”.
Ci fu un momento di silenzio e per un attimo credetti che se ne fosse ritornato in camera. Alla fine, invece, era rimasto lì, immobile e con una faccia incredula, fissandomi come se avessi appena detto un’eresia.
“Col. Cazzo”.
*
“Andiamo, che ti dovrei dire? E’ stato solo un bacio, dannazione!”.
“Appunto!” urlai, ritrovandomi faccia a faccia con lui in pochi secondi e fronteggiandolo senza timore nonostante fosse più alto di qualche centimetro, tirando fuori il vero Ace, quello che non temeva nulla.
*
“Che fine ha fatto la mia maglia? Avevi così tanta fretta di farla sparire?”.
Sentendomi preso in causa e cercando di nascondere la pelle d’oca negai categoricamente di aver avuto quell’intenzione e passai i cinque minuti successivi a cercare il suo straccio colorato. Se mai avessimo deciso di uscire insieme gli avrei fatto un discorsetto riguardante l’abbinamento dei colori e la poca eleganza delle maglia e pois. Andiamo, facevano pena!
 

Un abbraccione grande!
See ya,
Ace.


 

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Capitolo 16
*** Capitolo 14. Una cosa che capita. ***


Capitolo 14.
Una cosa che capita


Si potrebbe scrivere un poema o addirittura un intero manuale sui benefici che comporta il fatto di rimanere a letto a poltrire per ore o anche tutto il giorno. Il cuscino morbido su cui si affonda la faccia; le lenzuola, felpate magari; coperte su coperte e il piumino per non rischiare che nemmeno un centimetro di pelle rimanga scoperto e al freddo durante i gelidi mesi invernali. Sotto le coltri, al caldo, a lasciare vagare la mente nell’infinito sistema nervoso, ponendosi mille e più domande, facendo supposizioni, meditando ed estraniandosi completamente dal resto del mondo. Oppure si può semplicemente dormire, cosa che stava facendo quel montato dato che aveva voluto fare di testa sua e non lasciarmi nemmeno un momento di tregua per tutta la mattinata. Poi era crollato, ed io con lui, stremati fino alle ossa. Sarei volentieri rimasto a sonnecchiare, ma un cellulare aveva preso a squillare come un tormento e, piuttosto che incappare nelle ire del rosso, mi ero alzato per rispondere, trovando l’aggeggio poco dopo sotto all’armadio assieme ai miei pantaloni.
Dovevano essere le quattro o le cinque del pomeriggio, ma poco importava, a lui bastava continuare a rimanere in modalità larva; poi si sarebbe sicuramente alzato e avrebbe preteso la colazione, o la cena, mentre io mi ero ritrovato a decidere come continuare la mia apparentemente perfetta esistenza non appena avevo avuto modo di realizzare il tutto.
Dicevo apparentemente perché non mi piaceva esagerare e nemmeno vantarmi quando le cose giravano per il verso giusto. Bastava un nonnulla per mandare tutto a puttane, perciò preferivo ritenermi nel normale e non eccessivamente felice. E poi, il fatto di essermi sentito come se avessi trovato il mio posto nel mondo quando mi ero risvegliato stretto e soffocato dal petto di Kidd e con la sua faccia rilassata accanto, preferivo tenerlo per me.
Dovevo tenermi pronto a tutto anche perché, ammettiamolo, portare avanti un rapporto con un elemento imprevedibile come lui non era di certo facile. Per essere precisi, lui non rappresentava l’icona della tranquillità e della stabilità di una coppia.
Infatti, come a voler sottolineare quell’aspetto, quando gli strappai il piumino con forza dalle mani e la luce fioca che prima non era presente e che illuminava quelle quattro pareti gli colpì il viso, facendogli bruciare gli occhi e costringendolo a nascondersi sotto al cuscino, radunò il resto delle coperte rimaste e le strinse con forza per evitare di perdere anche quelle. Un simpatico e repentino dito medio fu poi indirizzato verso di me.
«Avanti stronzo, è ora di alzare il culo» ordinai, poggiando le mani sui fianchi e fissandolo dall’alto.
Se avesse potuto mi avrebbe volentieri dato un pugno per il modo aggressivo e barbaro con cui avevo deciso di reclamarlo dal mondo dei sogni, ma la stanchezza era ancora presente nel suo corpo addormentato, quindi rinunciò e si limitò a borbottare insulti da sotto tutta quella stoffa.
«Non ho capito» ammisi, non troppo interessato sinceramente, privandolo delle coperte e lasciandolo al freddo. Quando poi gli tolsi dalle mani anche il cuscino non resistette oltre e mi diede il buongiorno che mi meritavo per il mio comportamento, con aggiunta di interessi.
«Vai a farti fottere, stavo dormendo!» urlò inviperito.
«Qualcuno si è svegliato male» ghignai, dandogli le spalle e intimandogli di vestirsi alla svelta senza perdere altro tempo. Avevamo un paio di commissioni da fare e non ero intenzionato a lasciarlo a casa. Che gli piacesse o no, doveva venire con me senza fare troppe storie e senza nemmeno pensare di iniziare a lamentarsi come suo solito. Era una cosa che andava fatta e non avrei accettato un no come risposta solo perché era troppo pigro per muoversi.
«Maledizione» imprecò a denti stretti, alzandosi svogliatamente dal letto e seguendomi in corridoio, volgendo le braccia verso il soffitto per enfatizzare il suo umore poco paziente mentre io non lo degnavo nemmeno di uno sguardo e andavo dritto in cucina a preparargli un po’ di caffè nella speranza di corromperlo.
«Cosa diavolo vuoi?» sbottò impaziente, appoggiandosi allo stipite della porta e passandosi una mano sul viso stanco per stropicciarsi gli occhi. I capelli, invece, erano un disastro. Sorvolai sul fatto che non si fosse nemmeno preoccupato di mettersi addosso una maglia o, almeno, un paio di pantaloni e che preferisse gironzolare allegramente con un paio di boxer addosso.
«Tra poco è natale» dissi semplicemente, come se quell’unica frase bastasse a spiegare il mio comportamento.
Mi guardò storto e con una smorfia sarcastica. «E allora?».
Gli rivolsi un occhiata con la quale gli feci capire che dubitavo fortemente della presenza di un cervello funzionante dentro quella sua zucca rossa, tornando poi a concentrarmi sulla moca.
«Abbiamo un po’ di regali da fare».
Ci fu un momento di silenzio e per un attimo credetti che se ne fosse ritornato in camera per chiudersi a chiave e darmi a intendere che non aveva la minima intenzione di ascoltare oltre. Alla fine, invece, era rimasto lì, immobile e con una faccia incredula, fissandomi come se avessi appena detto un’eresia.
«Col. Cazzo» sillabò seccamente e regalandomi un sorrisetto beffardo da schiaffi.
Sorrisi. Avevo immaginato una reazione del genere, per questo mi ero già preparato un piano di scorta per convincerlo.
«Va bene. Allora niente sesso per tutto il periodo natalizio» minacciai con leggerezza, fingendo indifferenza. «Nemmeno a capodanno» aggiunsi, per essere sicuro di rendere chiaro il mio messaggio.
Il pugno scocciato che diede alla porta mi fece capire che avevo appena ottenuto un’uscita al centro commerciale.
 
* * *

If I had to I would put myself right beside you. So let me ask would you like that?

Mi sentivo un po’ idiota in quel momento e, se non mi fossi deciso ad entrare all’istante, probabilmente non l’avrei più fatto e me ne sarei tornato a casa con la coda tra le gambe come un perdente, dovendomi subire le battutine di Law, quel maledetto traditore, e le innumerevoli domande di Rufy. Quindi, per salvaguardare la mia sanità mentale, era meglio se mi davo una mossa e compievo quei passi fatidici che mi mancavano per varcare la soglia e affrontare faccia a faccia il problema che mi affliggeva da un po’ di tempo.
Marco.
Presi un bel respiro profondo, sistemandomi meglio il berretto di lana e la sciarpa che portavo al collo per proteggermi dal freddo pungente di quel pomeriggio, avanzando a scatti come un robot e lasciando che l’ansia si mangiasse il mio stomaco già in subbuglio senza tentare di contrastarla.
Entrare al caldo e venire investito dal profumo di dolci e cioccolata con panna fu un vero sollievo e servì a calmarmi almeno in parte, tanto che riuscii addirittura a sorridere quando notai dietro al bancone il motivo della mia presenza lì, il quale mi dava le spalle tutto intento a preparare un’ordinazione per poi portare a termine il suo compito e accorgersi finalmente di me.
Vederlo agitare la mano nella mia direzione come se tutto fosse normale, inoltre, mi diede un briciolo di speranza in più, tanto che mi rilassai visibilmente e mi avvicinai senza farmi attendere oltre, prendendo posto come d’abitudine davanti a lui e non potendo fare a meno di arrossire quando il mio sguardo si posò per errore sulle sue labbra, scatenando una serie di vividi ricordi della sera precedente.
«Speravo proprio di vederti passare oggi» disse con il solito tono gentile, indicando con un cenno del capo la macchinetta dietro di lui. «Caffè?».
«Si, grazie» ribadii, ancora su di giri per l’effetto che le sue parole mi avevano causato. Tutto ciò era sicuramente un buon segnale, ora non restava altro che tastare il terreno e chiedergli di uscire. Ormai il passo più difficile era fatto, quello di rompere le barriere, anche se non era previsto, però avevo praticamente risolto il mio incognita più grande.
Quel giorno, però, tutta la fortuna che mi aveva assistito negli ultimi mesi aveva deciso di abbandonarmi al mio Destino.
«Volevo parlarti» fece ad un tratto, dopo un minuto buono di silenzio durante il quale aveva cercato di mantenersi il più calmo possibile, anche se avevo notato il nervosismo che trapelava dai suoi gesti e dal suo sguardo poco convincente e combattuto.
Questo tono non mi piace, riuscii a pensare, sentendomi stringere lo stomaco, non mi piace per niente.
Cercando di non agitarmi lo intimai a continuare, mordendomi l’interno di una guancia e piantando lo sguardo dentro alla tazza non appena me la porse, osservando come la bevanda bollente fumava e immaginando di immergermi e annegarci dentro quando iniziò a scusarsi per il suo comportamento avventato, assicurandomi oltretutto che non l’avrebbe fatto mai più.
«Davvero, mi sento così stupido» stava dicendo, «Spero tu possa dimenticarlo, di solito non sono così impulsivo con le persone che conosco appena. E ti prego non sentirti in imbarazzo, l’unico che dovrebbe vergognarsi sono io con la mia testaccia vuota».
Non era arrabbiato, nemmeno offeso, dispiaciuto o altro. Si spiegava in un modo fastidiosamente pacato e per giunta il nervosismo aveva lasciato spazio al divertimento, come se tutto fosse un’enorme barzelletta da raccontare agli amici e scherzarci sopra. Perché si scusava? E, soprattutto, perché insisteva nel ribadire che dovevo dimenticare tutto? Qualcosa non andava. Qualcosa mi stava sfuggendo.

And I don’t mind if you say this love is the last time. So now I’ll ask do you like that?

No, sinceramente mi era tutto perfettamente chiaro, solo che mi rifiutavo di crederci, di accettarlo e di ammettere che, dentro di me, l’avevo sempre saputo che sarebbe andata a finire in questo modo schifoso.
Le pareti sembravano improvvisamente volermi schiacciare e mi sentivo mancare l’aria, quasi come se soffocassi così, senza rendermene conto e desiderando solo di volatilizzarmi, mi alzai dallo sgabello, cercando freneticamente nelle tasche del giubbotto che nemmeno avevo tolto qualche spicciolo che lanciai sul bancone per poi dirigermi dritto verso la porta, uscendo in strada e ignorando la leggera nebbiolina che si era alzata e che ora circondava l’ambiente, senza comunque sconfiggere la lucentezza delle lucette colorate e delle varie decorazioni natalizie che pendevano dai negozi, dagli edifici e dalle case. Le finestre, addirittura, sembravano vomitare costantemente lumini rossi e verdi mentre un Babbo Natale ciccione salutava i passanti con un braccio meccanico, appeso all’insegna del bar.
Sospirai, notando come il respiro si condensava a contatto con il freddo e ripetendomi che, dopotutto, non potevo di certo aspettarmi altro, anche se continuavo a chiedermi il perché di tutta quella scena ieri sera per poi finire con un bacio che, per quello che mi riguardava, non mi era dispiaciuto affatto. Ovvio, io non avevo aspettato altro nonostante fossi consapevole che non potevo pretendere subito tanta confidenza dato che, per essere pignoli, non ci conoscevamo così bene. Ero stato felice, però, quando aveva annullato le distanze tra di noi e nemmeno a lui, ne ero certo, dicesse pure tutto quello che voleva, era andata tanto male, mica ero così inesperto. A conti fatti, però, era ovvio, lo era sempre stato, solo che non avevo voluto vederlo: ero stato un diversivo, un qualcosa di nuovo. Un cazzo di passatempo, se così volevamo metterla.
«Sono proprio un cretino» borbottai, udendo poi il campanello della porta che si apriva e distinguendo dei passi che scendevano svelti le scale.
Non ebbi nemmeno bisogno di voltarmi a controllare, sapevo benissimo di chi si trattava.
«Ace» chiamò Marco, cercando di essere gentile e allo stesso tempo convincente, «Avanti, dimmi cosa c’è».
Mi morsi un labbro, indeciso. Non volevo dirglielo, sarebbe stato come ammettere tutto ed espormi troppo, anche se dopo quella scenata avevo poco da nascondere, ma ormai non avevo molta scelta e forse, se mi avesse spiegato per quale ragione aveva deciso di allontanarmi nonostante fosse chiaro a entrambi che assieme riuscivamo ad andare d’accordo e che provare a conoscerci seriamente non costava nulla, avrei potuto capirlo e mettermi l’anima in pace. Quello che volevo era una valida spiegazione.
Così mi voltai a guardarlo, deciso a fare chiarezza.
«Perché mi hai baciato?» sputai fra i denti, stringendo i pugni lungo i fianchi, «Perché quel bacio? Cosa significava?».
Mi guardò spaesato, corrugando la fronte ed esitando qualche istante durante il quale mi sembrò di vedere l’indecisione scorrere nei suoi occhi, ma poi riprese il controllo e mi rispose, mandando in frantumi con una sola frase tutto ciò che di meglio mi ero aspettato e avevo sperato.
«Beh, era un bacio come un altro» spiegò, non capendo che il tono di voce spensierato con cui aveva pronunciato quelle parole era come una lama infilzata in profondità nel petto. Il colpo di grazia, però, arrivò dopo.
«C’era l’alcool, la musica, il casino e poi là fuori tu eri così vicino ed è successo. Cose che capitano alle feste, no?».
Lo fissai, immobile e con la netta sensazione che tutto ciò era sbagliato. Mi ero illuso, avevo immaginato tutto e frainteso ogni suo gesto. Quel bacio non era stato niente. Una cosa che capita.
Una cosa che non dovrebbe succedere per nulla al mondo, invece! Al giorno d’oggi la gente dispensa baci a destra e a sinistra come se non avessero alcun valore, solo per il gusto di scambiare la loro saliva con quella di sconosciuti. Perché è di questo che si parla. Divertimento. Divertimento e mononucleosi, ecco cosa. Ci si bacia così, senza motivo, senza pensare al male che si può causare e ai sentimenti dell’altra persona che, magari, sognava quel momento da una vita. Il modo giusto per rovinare tutto.
«Ho capito» feci gelido e impassibile, guardandolo dritto negli occhi e accennando a un sorriso amaro che di amichevole non aveva nulla. Se Law fosse stato presente sarebbe stato fiero di me e del mio sangue freddo. Dopotutto, avevo avuto un buon maestro.
Gli diedi le spalle e ritornai sui miei passi, deciso a mettere più distanza possibile tra me e lui. Non volevo più vederlo ne sentire la sua voce. Non sarei più andato al pub a cercarlo e se l’avessi incontrato per caso l’avrei evitato come la morte. Non poteva pretendere che lasciassi perdere, non quando era chiaro come il sole quello che provassi nei suoi confronti. Persino un idiota come Rufy aveva capito quanto quel ragazzo mi piacesse senza conoscerlo di persona e quanto tenessi al rapporto che stavamo instaurando. Troppo forse, e per questo mi ero lasciato andare, dimenticandomi di non abbassare la guardia, lasciandomi prendere la mano e smettendo di avere sempre la solita aria coraggiosa e spavalda che mi caratterizzava in qualsiasi situazione e relazione. Quello, invece, era riuscito a smontarmi e a mettermi nel sacco solo con uno sguardo e un paio di sorrisi. E i modi di fare, il carattere, il calore che emanava. Tutto.
«Aspetta, Ace» iniziò a dire, «Ace, dai, non volevo dire questo…».
Lascia perdere, lascia perdere, lascia perdere, mi ripetevo, serrando la mascella a affrettando il passo. Non potevo continuare a farmi illusioni e a permettergli di condizionarmi in quel modo quando era ovvio che per lui ero solo un ragazzino con una cotta idiota per uno più grande. Perché era questo che rappresentavo: un moccioso. Ed era così frustrante sapere che di certo lui aveva di meglio da fare: una compagnia di amici, ragazzi maturi e non come me, magari addirittura un fidanzato, mentre io speravo tutte le sere che, prima o poi, si accorgesse della mia esistenza.
«Ace, fermati!». Mi sentii afferrare per un braccio ma mi divincolai alla svelta dalla presa, girandomi verso di lui e alzando le mani in segno di difesa, come a volergli indicare di fermarsi e di non andare oltre.
«Marco, davvero non preoccuparti. Va tutto bene. Io ho capito e non ho nessun problema» gli assicurai distaccato, guardandolo da sotto il frontino del cappello e notando come scuoteva il capo in un gesto di diniego, sospirando esasperato.
«No invece, altrimenti perché avere questa reazione?» fece a sua volta, lanciandomi un’occhiata sarcastica.
Avrei tanto voluto fare buon viso a cattivo gioco, essere superiore, ma proprio non ce la facevo, non potevo. Per quanto poco ci conoscessimo mi ero spinto troppo oltre per dimenticare e fare finta di nulla come invece avrei dovuto. Volevo dimostrargli di non essere infantile, ma in quel momento desideravo solo spaccare la faccia a qualcuno, lui compreso.
«Senti, lasciami stare, okay?» gli intimai, indietreggiando e iniziando a voltargli di nuovo le spalle per andarmene.
«Andiamo, che ti dovrei dire? E’ stato solo un bacio, dannazione!».

Something’s getting in the way, something’s just about to break. I will try to find my place so tell me how it should be.

«Appunto!» urlai, ritrovandomi faccia a faccia con lui in pochi secondi e fronteggiandolo senza timore nonostante fosse più alto di qualche centimetro, tirando fuori il vero Ace, quello che non temeva nulla. «Non hai ancora capito che per me non si è trattato solo di questo? Sul serio non ti è mai passato per la mente che delle poesie non me ne fregasse un emerito cazzo e che mettessi piede in quel tuo fottuto locale unicamente per vederti? Sei così cieco, Marco?».
L’espressione stupita che lo colse lo fece anche zittire all’istante e boccheggiare nel non sapere cosa rispondere di fronte alla mia schiettezza, nonché cruda verità.
Respirai profondamente, ma ciò non mi calmò affatto e, anche se sbattergli in faccia la realtà dei fatti, la mia realtà, era servito a farmi sentire più leggero, continuavo ad essere arrabbiato.
«Ace, io… Io non so…» provò a dire, ma preferii tagliare corto e mettere fine a quella scenata che era andata anche troppo oltre. Mi ero già reso abbastanza ridicolo per quanto mi riguardava e tutto ciò era così frustrante e odioso.
«Lascia perdere, non ha importanza. Dopotutto, sono cose che capitano» feci velenoso. Con queste parole mi avviai e non mi voltai indietro, incamminandomi per la strada e allontanandomi il più in fretta possibile e dimenticarmi di quell’orribile giornata, sperando disperatamente di non doverlo riaffrontare mai più perché non avrei retto un’altra volta ad un confronto del genere.

As I burn another page, as I look the other way. I still try to find my place so tell me how it should be.
 
* * *

«No».
«E questo?».
«Neanche».
«Allora quello. Non sembra male».
«Nah».
«Eustass-ya, smettila di fare lo stronzo e impegnati, stiamo parlando del regalo per Killer-ya. Quel simpatico metallaro con i capelli lunghi che ti sopporta tutti i giorni senza mai chiedere di essere risarcito, ricordi?».
«Sta zitto Trafalgar».
Alzai gli occhi al cielo, ormai al limite della sopportazione. Convincere Kidd ad accompagnarmi a fare spese per natale non era stato difficile; avere la sua attenzione e far si che gli piacesse qualcosa, invece, si stava rivelando arduo e complicato: non gli comodava nulla! I regali per i miei coinquilini, anche se non li meritavano affatto per i loro comportamenti da impiccioni curiosi degli ultimi giorni, avevo dovuto sceglierli tutti io mentre lui se ne andava in giro tranquillo e indisturbato, curiosando qua e la e perdendosi per una mezz’ora buona dentro al negozio di videogiochi, fissando con intensità l’ultimo capitolo di Assassin’s Creed e, ne ero sicuro, meditando nella sua mente di rubarlo e tornare a casa con quel fottuto dischetto per play station.
«Potresti almeno dirmi cosa gli piace, così mi arrangio a trovargli io qualcosa?» gli chiesi esasperato, afferrandolo per un lembo del giubbetto bordeaux con una pelliccia di chissà quale animale come girocollo e facendogli fare un passo indietro per far si che si ritrovasse faccia a faccia con il mio sguardo scocciato e al limite della sopportazione.
Mi dedicò un ghigno di scherno, facendomi notare che me l’ero cercata da solo quella situazione e ricordandomi che lui avrebbe preferito rimanere a casa a dormire invece che ‘rompersi il cazzo’, testuali parole, e vagabondare per negozietti come i vecchi pensionati.
Mollai la presa e gli scoccai un’occhiata ammonitrice, pensando già ad un modo per vendicarmi di lui e di quel suo comportamento irrispettoso ed infantile, nonché capriccioso. Non mi sembrava di chiedere troppo, inoltre era di un suo caro amico che stavamo parlando. Se per lui non si interessava minimamente, allora io dove finivo? Nell’ultimo gradino della sua scala di interessi?
Tornai a guardare le vetrine, infischiandomene della sua presenza e lasciandolo indietro quando ebbi un’illuminazione e mi fiondai all’interno di un negozio dall’aria bizzarra, trovando esattamente quello che stavo cercando e che sarebbe stato adatto e gradito dal nuovo fidanzato di Penguin. Un set di coltelli da macellaio che si accompagnava al suo particolare cognome, adatti per qualsiasi cenone di natale o festicciole simili mi sembrava il pensiero perfetto e migliore che potesse venirmi in mente. A proposito, quei due avevano da spiegarmi un paio di cosette ora che ci pensavo meglio.
Arrivai alla cassa e aspettai il mio turno con un malsano sorriso stampato in faccia fino a quando non vidi un energumeno incazzato che sbuffava come un toro entrare e farsi largo tra i clienti per raggiungermi e piazzarsi accanto a me con uno sguardo feroce.
«Perché cazzo sparisci senza dire niente, coglione?» urlò, senza curarsi di abbassare la voce e non prestando attenzione alle persone comuni che gli lanciarono sguardi incuriositi, stupiti e sconcertati, tornando a farsi i propri affari quando il rosso chiese loro ‘cosa cazzo avevano da fissare’.
Rimanendo impassibile e sordo davanti ai suoi insulti, sorrisi cordialmente alla commessa e le chiesi se gentilmente poteva farmi un pacchetto regalo. Nel mentre, Kidd, prese a giocherellare con i portachiavi esposti.
«Possiamo andarcene dopo? Mi sono stufato di gironzolare a vuoto» brontolò stizzito quando era evidente che la ragazza alla cassa non aveva ancora terminato di incartare il regalo con un’adorabile carta a pois che mi ricordò le camicie improponibili del biondo.
«Eustass-ya, piantala» feci categorico, non ammettendo repliche e scambiandomi un’occhiata complice con la simpatica signorina dai buffi vestiti alternativi ed estroversi e con il trucco agli occhi pesante.
Lei sorrise e, con l’intento di conversare e rendersi disponibile, chiese:
«Siete fratelli? Io il mio a volte faccio fatica a sopportarlo» mi confessò, riferendosi ai nostri bisticci continui e accompagnando la frase con una risata particolare, ma del tutto normale se consideravo le voci che ero costretto a sentire stando in mezzo a Rufy e alla sua allegra combriccola di pazzi.
«In realtà è il mio ragazzo, quindi è doppiamente rompi coglioni» dichiarai disinvolto, godendomi l’espressione sorpresa della ragazza e ancora di più quella scandalizzata di Kidd.
Perona, così c’era scritto sul suo cartellino appuntato alla camicia nera e viola, si congratulò nello stesso istante in cui Eustass-ya dava in escandescenza, chiedendomi se fossi diventato matto all’improvviso.
«Ora calmati, tesoro» sogghignai malefico, prendendolo a braccetto e facendo il ruffiano per metterlo alle strette e in imbarazzo, prendendomi anche la mia piccola vendetta personale per il modo in cui se ne era fregato dei regali, «O chissà cosa penserà la venditrice».
«Ma vaffanculo tu e la commessa!» urlò di nuovo, facendo zittire tutti e scrollandosi di dosso il mio braccio come se avessi la peste, dirigendosi svelto verso l’uscita accompagnato dalle canzoncine natalizie in sottofondo e facendomi pensare con divertimento ai vari modi in cui avrei potuto prenderlo in giro visto il modo in cui i suoi capelli intonavano perfettamente con l’atmosfera festosa e tutte le lucette che ci andavano dietro.
«La prego di scusarlo».
«Ma si figuri. E se posso permettermi: siete così carini» trillò lei, sorridendo come un’esaltata e porgendomi il pacco.
Ringraziai e salutai, augurando a tutti un buon natale e uscendo per mettermi alla ricerca di quello svitato che trovai seduto su una panchina lungo la galleria del centro commerciale a qualche metro di distanza mentre fulminava qualsiasi cosa con lo sguardo torvo e un ringhio trattenuto in una smorfia minacciosa. Un bimbo che provò a sedersi accanto venne terrorizzato e fatto scappare via nel giro di qualche secondo.
Lo raggiunsi gongolante e poggiai le borse lasciandole cadere pesantemente sulla seduta, attirando la sua attenzione e facendo si che mi guardasse in faccia, mostrandomi il suo disappunto e la confusione che gli avevano causato le mie azioni.
«Credi di spaventare anche me?» chiesi sarcastico, sedendomi vicino a lui e fissandolo da sotto il cappello.
Tornò a guardare di fronte a sé, pensieroso, cosa del tutto anormale nel suo comportamento, ma aspettai con pazienza che mi spiegasse cosa lo aveva turbato tanto. Era vero, non avevamo ufficializzato niente, ma era stato lui a farsi avanti la sera prima, impedendomi di andarmene e offrendosi come valido motivo per farmi restare. Per quanto assurdo potesse sembrare, quel gesto e lui stesso erano abbastanza per convincermi a smettere di scappare.
Reprimendo l’idea che si fosse pentito di tutto e che in quelle ore successive ci avesse ripensato, continuai ad aspettare un qualcosa da parte sua.
«Hai davvero intenzione di presentarmi al mondo come tuo fidanzato?» chiese ad un tratto, senza guardarmi direttamente in faccia. Fino a qualche mese prima avrei fatto una smorfia nell’udire quella frase e quello che essa implicava.
«E tu?» domandai retorico a bassa voce, «Vuoi che lo faccia? Anche dopo quello che ti ho raccontato?».
La paura che non mi accettasse non se ne era andata e forse mai lo avrebbe fatto, nonostante io continuassi ad apparire spavaldo, sicuro e deciso. Sarebbe sempre rimasta in un angolino, nascosta magari, o dimenticata, ma ci sarebbe stata comunque. Era dunque sbagliato cercare di avere delle certezze? In quel modo lo avevo messo alla prova per assicurarmi che tutto fosse a posto, come lo avevamo lasciato, senza la presenza di novità scomode o dolorose da dover sopportare dopo essere passato dalla solitudine alla compagnia di qualcuno che mi capisse e che non rabbrividisse di fronte al mio lurido passato, a volte troppo pesante persino per me. Tutto quello che gli avevo raccontato a riguardo, tutto quello che avevo dovuto sopportare e soffrire in silenzio, era una cosa che non avevo mai detto ad anima viva, eccetto le persone che mi conoscevano da anni. Non aveva senso rispolverare vecchie ferite tanto profonde a persone che andavano e venivano e che non avrebbero durato più di un mese con me. Mi sembrava un argomento troppo personale per condividerlo con gente estranea.
Eustass-ya, invece, era stato l’eccezione alla regola, perciò dovevo esserne sicuro, dovevo sentirmelo dire chiaramente che era tutto sistemato e che non mi disprezzava per il modo in cui avevo agito in uno scatto d’ira e desolazione. Volevo solo sentirmi accettato, per una volta. Una sola.
Sentii un braccio appoggiarsi sulle mie spalle e una mano afferrarmi la nuca per voltarmi e farmi ritrovare faccia a faccia con un divertito e ghignante Eustass-ya che, con un’espressione che mi diede i brividi, incollò le sue labbra alle mie, dettando le regole del bacio e prendendo lui il comando.
Quando si staccò e vide che una coppia di vecchiette ci stava indicando con fare scandalizzato, scuotendo il capo in segno di diniego, rivolse loro un gesto osceno con la mano, indicando dove andare a farsi fottere con un sorriso folle che nascondeva l’emozione di quella nostra consapevolezza.
«Che avete da guardare? E’ solo il mio ragazzo».
 
* * *

Fuori il sole stava lentamente calando, lasciando piano piano che la sera fredda e piena di stelle avvolgesse Sabaody come in un lento e inesorabile abbraccio. Probabilmente tra pochi giorni avrebbe nevicato e le strade sarebbero state impraticabili per un po’, mentre le case, gli alberi e qualunque altra cosa si sarebbe tinta di bianco. Personalmente non vedevo l’ora. Adoravo la neve, forse addirittura la amavo. Era soffice, scendeva sotto forma di fiocchi leggeri che svolazzavano nell’aria e ti si appiccicavano sui vestiti di lana. Ti arrossava le guance e il naso e il divertimento che portava non aveva eguali. Quante battaglie avevamo fatto io e i ragazzi negli anni scorsi? Quante volte eravamo scivolati a terra per una lastra di ghiaccio invisibile? Quante risate avevamo scatenato? Speravo davvero che iniziasse a nevicare, soprattutto ora che il natale si stava avvicinando.
Tutte le mie riflessioni passarono in secondo piano quando un movimento sotto alle coperte attirò la mia attenzione, svegliandomi completamente dal dormiveglia e facendomi sbattere le palpebre più volte per orientarmi all’interno della stanza.
Ero quasi sicuro che si trattasse di camera mia, quasi però, perché il groviglio di lenzuola dentro al quale ero intrappolato non mi permetteva di muovermi come invece avrei voluto fare. Mi sentivo solo al caldo e stavo stretto, mentre il suono famigliare di respiro regolare mi giunse chiaro alle orecchie e mi costrinse a voltarmi verso la fonte del rumore. Già immaginavo di chi si trattasse, ma volli ugualmente controllare e un sorriso gioioso si fece strada sul mio volto quando notai dei lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino. In quel momento mi sembrò quasi di scoppiare dalla felicità che, finalmente, mi era stata concessa.
Se me l’avessero detto qualche settimana prima non ci avrei mai creduto, ma i ricordi della sera passata erano chiari nella mia testa: avevo baciato Killer. L’avevo baciato, mi ero dato del coglione e poi era stato lui a cercarmi e a riprendere quello che io avevo iniziato. Tralasciando il fatto di essere stato beccato in flagrante dalle ultime persone che avrei mai voluto incontrare al ritorno, era stata la nottata più bella della mia vita. Una volta rinchiusi in camera non avevamo fato altro che baciarci, baciarci e baciarci, come se il mondo dovesse finire e noi non avessimo altre occasioni per farlo. Poi ci eravamo addormentati per la stanchezza, vicini, con le gambe incrociate e i visi che si sfioravano. Non avrei potuto chiedere di meglio come inizio e risvegliarmi con lui accanto mi sembrava un sogno vero e proprio. Addirittura faticavo a crederci.
Un mormorio indistinto mi fece chiudere gli occhi all’istante e affondai la faccia nel cuscino quando una mano strinse più forte e in modo possessivo la mia schiena, facendomi rotolare sul materasso e scontrarmi con un petto nel quale vibrò una leggera risata.
La luce sul comodino si accese con un piccolo clic ed io mi arrischiai a dare un’occhiata timida da sotto al lenzuolo che mi ero agilmente tirato sopra alla testa, percorrendo con lo sguardo le spalle del ragazzo e risalendo fino ad incontrare i suoi occhi sotto alla frangia scompigliata e disastrata.
«Buongiorno» sorrise Killer.
«Ehm» provai a dire, ma per qualche strana ragione le parole mi rimasero incastrate in gola, abbandonandomi nel più completo imbarazzo e facendomi arrossire di botto, ne ero certo. Lo capivo benissimo quando non ero a mio agio: sentivo caldo e le guance mi andavano inevitabilmente a fuoco.
«Dormito bene, piccoletto?».
«Ehi, non chiamarmi in quel modo!» ribattei, animato da chissà quale coraggio e richiudendo subito dopo la bocca, sentendomi ancora più sciocco.
Killer rise davanti alla mia confusione e, senza darmi il tempo di reagire, mi strinse in un abbraccio da orso rischiando seriamente di soffocarmi. Poteva fare concorrenza a Bepo in fatto di effusioni affettive. Ad ogni modo risposi al gesto, abbracciandolo a mia volta come potevo e sentendomi così bene fra quelle braccia che desiderai non dovermi più alzare per continuare a sentirlo così vicino e tutto per me.
«Devo dire che mi hai stupito ieri» disse ad un tratto, disegnandomi distrattamente con le dita dei cerchi sulla spalla, «Non avrei mai pensato che fossi tu a prendere l’iniziativa. Credevo di dover penare un altro po’ prima di poterti anche solo avvicinare in quel modo».
«Oh beh, sinceramente sono rimasto colpito da me stesso persino io» confessai.
«Sul serio, cosa ti ha spinto a farlo?».
Ci riflettei per un attimo, vagliando le risposte e cercando di ricordare cosa aveva dato il via a tutto. Non ero più tanto sicuro di essere stato drogato, quindi poteva essere colpa, anzi merito, solo dell’alcool, o l’eccitazione per la gara di danza, oppure, molto probabilmente, il fatto che fossi riuscito a smettere di pensare alle conseguenze e mi fossi semplicemente deciso a fare un passo nel vuoto senza sapere cosa aspettarmi.
«Forse ero stanco di sentirmi invisibile» risposi invece, con una calma e una semplicità disarmanti.
Restammo in silenzio per alcuni minuti, ognuno perso nei propri pensieri, fino a quando dei rumori molesti provenienti dalla cucina attirarono la nostra attenzione dandoci un valido motivo, anche se con dispiacere, per alzarci dal letto e cercare di renderci presentabili.
Liberarci delle coperte fu un piccolo problema, ma alla fine riuscimmo a disfarci completamente delle lenzuola arrotolate attorno ai nostri corpi e potemmo alzarci, venendo immediatamente colpiti entrambi dalle vertigini e dal senso di nausea che comportava un classico dopo sbornia con i fiocchi. Non credevo di aver bevuto così tanto; forse la mia intraprendenza e l’abbassamento delle mie inibizioni era davvero merito dell’alcool. Se così fosse stato avrei dovuto diventare un alcolista molto tempo prima.
«Che fine ha fatto la mia maglia?» stava chiedendo Killer, accucciato accanto al letto e intento a spiare sotto al materasso se ci fosse qualcosa di suo per poi rivolgermi una scherzosa frecciatina. «Avevi così tanta fretta di farla sparire?».
Sentendomi preso in causa e cercando di nascondere la pelle d’oca negai categoricamente di aver avuto quell’intenzione e passai i cinque minuti successivi a cercare il suo straccio colorato. Se mai avessimo deciso di uscire insieme gli avrei fatto un discorsetto riguardante l’abbinamento dei colori e la poca eleganza delle maglie a pois. Andiamo, facevano pena!
Una volta trovato il suddetto indumento, finito chissà come e per caso nel cestino dell’immondizia che tenevo accanto alla scrivania, gli feci strada con l’intento di uscire dalla stanza, ma venni fermato prima di abbassare la maniglia della porta dalla sua mano che si posò cautamente sopra alla mia.
«Penguin» mi chiamò con calma, al che io risposi alzando lo sguardo verso il suo in attesa che continuasse.
Seguì un breve silenzio, spezzato solo dal nostro respiro e da un sonoro tonfo proveniente dall’altra parte dell’appartamento che mi fece domandare cosa diavolo stavano combinando gli altri. Quello che causava disastri domestici, di solito, ero io o Ace, a seconda di come ci girasse la giornata.
«Potremo uscire qualche volta, che ne dici?» chiese a bruciapelo, prendendomi alla sprovvista ma dandomi un altro motivo per sorridere e sentirmi al settimo cielo.
«So che ci siamo baciati e che, dopo che abbiamo dormito assieme, la situazione non dovrebbe essere difficili da capire» spiegò, «Ma vorrei, insomma…».
«Fare le cose con calma» conclusi per lui, alleggerendo l’atmosfera e facendo si che si rilassasse e che la smettesse di stringermi convulsamente il polso per il nervosismo.
Sembrò sollevato e, dopo avermi posato un casto bacio sulle labbra, mi incitò ad uscire e a fargli strada, tanto che approfittai all’istante dell’occasione per dargli le spalle e impedirgli di notare l’espressione idiota che mi stava possedendo in quell’istante per la dolcezza del suo gesto nei miei confronti.
C’era poco da fare, ero euforico e niente poteva farmi smettere di sorridere ed esultare interiormente, nemmeno Zoro che, in mezzo al salotto, stava dormendo con la faccia spiaccicata a terra e le gambe stese sul divano con Bepo accanto a lui che pareva appena uscito da una tomba vista l’aria da zombie che aveva.





Angolo Autrice.
D’accordo ragazzi, sono di fretta e prometto che correggerò tutti gli errori stanotte o domani mattina!
Solo qualche parola sul capitolo.
Dunque, ci tengo a citare il nome della canzone che accompagna il pezzo tra Ace e Marco. Il titolo è The Diary of Jane, Breaking Benjamin. Ad ogni modo, si, tra i due non andrà tutto rose e fiori, mi dispiace. Li amo tantissimo, ma non ce la facevo proprio a rendere tutto arcobaleni e unicorni rosa. Un po’ di tristezza, stallo, strazio, come volete, ci stava e loro sono state le vittime.
Kidd e Law sono ghdyuagvdfyuik. Grazie ai commenti di Perona. Grazie alle vecchie bifolche. Grazie a Oda che spero mi regali i diritti sui personaggi così fantasticamente bastardi e fottutamente innamorati, anche se preferirebbero scannarsi vivi piuttosto che ammetterlo.
Killer e Penguin sono cuccioli, non hanno fatto niente, lol. So che Penguin di solito è visto come un piccolo maniaco, ma portate pazienza, almeno ha tolto la maglia al suo ragazzo xD
Beh, sicuramente domani aggiungerò qualcosa, ora filo!
Un grazie a tutti, siete troppo meravigliosi e io sono troppo… insomma, non vi merito!
Un abbraccione!

See ya,
Ace.

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Capitolo 17
*** Capitolo 15. Un Rosso Natale. (Speciale Natale). ***


Capitolo 15.
Un Rosso Natale.
-Speciale Natale-

«Allora, riprendiamo da capo. Chi si offre?».
Il problema era il solito tutti gli anni: chi si sarebbe vestito da Babbo Natale?
Questa tradizione, imbarazzante, straziante e orribile tradizione per essere chiari, aveva preso vita all’incirca quattro anni prima quando, per sfortuna di tutti, durante una cena di Natale, Rufy aveva guardato fuori dalla finestra e aveva visto un uomo vestito di rosso e con la barba folta e bianca girare per le case del quartiere distribuendo regali ai bimbi che vi abitavano. Non c’era stato verso di fargli capire che quell’uomo non avrebbe mai accettato di unirsi a noi per festeggiare e che non ci avrebbe fornito nessun tipo di dono, non a dei ragazzi maggiorenni e mezzi sbronzi. Il ragazzo aveva ignorato tutti i nostri avvertimenti ed era sceso in strada a parlare con il povero travestito che cercava solo di fare il suo lavoro al meglio, ovvero portare gioia ai piccoletti del vicinato, e di certo non si aspettava di venire importunato da un adolescente con il moccio al naso e le idee stravaganti ed infantili. L’uomo era rimasto tanto scandalizzato da giurare che non avrebbe mai più rimesso piede in quella parte di città, lasciando i figli dei vicini nella piena tristezza e causando a noi non pochi problemi. Per non beccare qualsiasi tipo di denuncia per disturbo della quiete e, soprattutto, per evitare anche che Rufy venisse portato via dagli assistenti sociali, avevamo pattuito con il resto degli abitanti di quella via che ci saremmo presi noi la responsabilità ogni anno di fare Babbo Natale e portare regali ai più piccoli. Ovviamente mio fratello non l’aveva passata liscia per la sua marachella ed era stato il primo, l’anno successivo, a dover indossare il costume e fare il lavoro più duro. Non erano passata nemmeno mezz’ora che qualcun altro era stato costretto a prendere il suo posto, dato che il giovane non aveva intenzione di dividere i suoi dolci e il resto del contenuto del sacco con gli altri.
Vestirsi come il vecchio era il minimo, la seccatura più grande e che ci preoccupava, invece, era il fatto che Rufy si fosse innamorato talmente tanto dell’idea da pretendere che, durante la cena della vigilia di Natale, dopo aver distribuito tutti i doni, il povero malcapitato dovesse rimanere vestito e continuare la sua parte persino dentro l’appartamento dove eravamo soliti festeggiare.
Quell’anno, in quell’esatto momento e a meno di due giorni dalla vigilia, stavamo cercando di scegliere chi avrebbe dovuto patire le pene dell’inferno, anche se nessuno era disposto a sacrificarsi, nemmeno se in palio c’era il più bello dei regali.
«Penguin? Tu non l’hai ancora fatto» feci notare al ragazzo col berretto davanti a me, il quale stava seduto su una sedia della cucina con i piedi incrociati sopra al tavolo. Avevamo appena finito di addobbare l’appartamento, le stanze e la porta d’ingresso. Pure l’albero era al suo posto, così come il presepe con le pecore giallo fosforescente e le statuine che avevano visto tempi migliori di quelli.
Non appena pronunciai il suo nome iniziò subito a scuotere il capo in segno di diniego, fornendoci come scusa il fatto di essere appena riuscito a fare passi da gigante con Killer e che per quel motivo non voleva di certo rischiare di ‘mandare tutto a puttane’, come disse espressamente, vestendosi come un ‘dannato vecchio pedofilo’.
Bepo alzò gli occhi al cielo, già fuori dalla lista nera per essersi tolto da quell’impiccio l’anno precedente. La sua performance era stata una delle migliori e quella con meno incidenti considerando il suo carattere paziente e troppo malleabile.
«Law cosa ne pensa?».
Bastò un’occhiata eloquente da parte mia per mettere a tacere la proposta di Penguin, facendogli tornare alla memoria la strage che aveva combinato quel sadico. Trafalgar era stato quello che il primo anno aveva preso, stranamente di sua volontà, il posto di Rufy. Inutile dire che dopo quel Natale nessuno aveva più osato lasciare gironzolare a briglia sciolta per il quartiere i propri animali domestici, cani o gatti che fossero.
Potevamo chiederlo al resto di liceali incalliti che presenziavano al cenone ma, a parte il fatto che Sanji e Zoro avevano già fatto la loro parte, non ero tanto sicuro che domandarlo a quelli che restavano servisse a toglierci dai guai. Rimanevano sempre uno peggio dell’altro e, per quanto noi universitari con un po’ di cervello in più desiderassimo evitare la maggior parte dei problemi, non uscivamo mai del tutto indenni dalla notte di Natale.
«Ace, avanti, fallo tu, ti prego!» implorò allora il ragazzo, unendo i palmi e cercando disperatamente di convincermi, senza ottenere nemmeno un cenno affermativo. L’avrei fatto volentieri, sul serio, ma non ero proprio dell’umore adatto per stamparmi in faccia un sorriso, nemmeno finto, e andare a suonare campanelli cantando canzoncine allegre. Tutt’altro, volevo solo mandare tutti a quel paese, infilarmi un cappotto e andare a fare lunghe e infinite passeggiate con la musica nelle orecchie pur di sentirmi lontano dal mondo. Per quanto cercassi di non pensarci e di lasciar correre, le parole di Marco erano state dure da digerire e, a dire il vero, bruciavano ancora un po’.
Ma chi voglio prendere per il culo, non faccio altro che darmi dello stupido da giorni ormai. Dovevo reagire diversamente, o almeno aspettarmelo e prepararmi in anticipo. Dio, se solo ripenso a quello che mi ha detto mi prudono le mani. ‘Una cosa che capita’. No, non potevo fare finta di niente, non dopo tutto quel tempo passato in quel maledetto bar a parlare e straparlare con lui! Come ha potuto essere così indifferente? Come ho potuto io essere così coglione!
«Ehi, mi stai ascoltando?».
Ah, fanculo Marco!
«No, cosa c’è?» feci, leggermente infastidito. Mi dispiaceva rispondere male e comportarmi da ragazzina mestruata, ma sapevano benissimo che non erano loro il mio problema e mi capivano senza fare troppe domande, per questo Bepo non si lasciò scoraggiare dalla mia risposta acida e continuò con il suo discorso, riformulando la domanda.
«Chiedevo se quest’anno non potevamo evitare tutto questo».
«Sai quanto ci tiene Rufy» dissi con tono arrendevole e rassegnato al peggio, «Farà il diavolo a quattro se non lo accontentiamo».
Se non fosse stato per quella peste con il mio stesso sangue, a quell’ora avremmo già smesso di fare cazzate da un pezzo, ma lui era onnipresente e se non lo accontentavamo finivamo per rovinarci tutte le feste, capodanno compreso. Ancora ricordavo quando, su consiglio spassionato, ma non troppo, di Law, avevo rivelato a Rufy che Babbo Natale non esisteva per davvero. Il disastro, le piaghe d’Egitto e la fine del mondo mi ero aspettato, invece, a discapito di tutto e alla faccia del mio coinquilino, il piccoletto non era impazzito e non ci era nemmeno rimasto male. Aveva semplicemente detto che finché l’avrebbe visto aggirarsi per le strade di Sabaody avrebbe continuato a crederci. Sapeva benissimo che ogni anno uno della compagnia era obbligato a vestirsi, ma non gli importava e continuava a sorridere come un bambino innocente ogni volta che vedeva il cappello rosso e un regalo sotto l’albero con su scritto il suo nome a caratteri cubitali. A lui bastava e, dopotutto, quella sua gioia la trasmetteva in parte a me che avrei tanto voluto essere come lui in quei momenti: spensierato e felice per qualsiasi cosa, anche per una singola risata.
Perciò decisi che sarei stato io a scarpinare sotto la neve quella volta. L’avrei fatto per mio fratello e per l’affetto e la devozione che mi dimostrava ogni giorno, senza sosta e gratuitamente.
«Fermi tutti!» urlò Penguin all’improvviso e nell’esatto istante in cui stavo per aprire bocca e rassegnarmi alla malasorte che mi aveva preso di mira in quel periodo. A quanto pareva gli era venuta una brillante idea a giudicare dal contorto sorriso che gli apparve sul volto.
«Ho l’uomo che fa per noi!» proclamò solennemente, alzandosi di scatto e rovesciando la sedia sul pavimento. Non perse tempo a rimettere in ordine perché corse in salone a recuperare il suo cellulare e a digitare alla velocità della luce un numero sul display, portandosi poi l’apparecchio alle orecchie e attendendo che la persona dall’altra parte a noi sconosciuta rispondesse.
«Killer? Sono Penguin».
«Conosce già il numero a memoria?» mi sussurrò Bepo, chiedendo spiegazioni.
Lo guardai stringendomi nelle spalle, «Lo conosce dal primo momento in cui l’ha ottenuto».
«Ascolta, secondo te abbiamo qualche possibilità di convincere Kidd a vestirsi da Babbo Natale?».
«Cosa?» chiedemmo in coro Bepo, io e persino Killer dall’altro capo del telefono, la quale voce ci giunse chiara e forte fino in cucina. Che idee venivano in mente a quell’idiota? Ovvio che Eustass non avrebbe mai accettato di rendersi ridicolo scendendo così in basso. Già faticava a comportarsi civilmente, figuriamoci se lo mettevamo a distribuire regali ai più piccoli. Li avrebbe spaventati a morte con i suoi modi rozzi. Non che avessi qualcosa contro di lui, ormai era un amico, anche se leggermente inquietante, ma non ero nessuno per giudicare e poi, volendo vedere la cosa da tutti i punti di vista, nessuna persona normale avrebbe potuto instaurare una relazione seria con Law. L’unica pecca era che la sua natura violenta non era la cosa migliore da mettere in mostra e non ero sicuro che obbligarlo ad accettare fosse una buona idea e il modo adatto per tenerlo buono e tranquillo. In quello ci riuscivano solo Killer, conoscente suo di vecchia data e Trafalgar. E il metodo in cui quest’ultimo riusciva a corrompere il rosso non volevo saperlo per nessun motivo al mondo.
«Ci sarà pure un modo per convincerlo! Lo conosci meglio di tutti noi e certamente sai anche qual è il suo punto debole». Ci fu un attimo di pausa, poi la discussione riprese. «Pensaci bene, so che c’è qualcosa, deve esserci, quindi parla!».
Dopo una decina di minuti fatta di insinuazioni, domande, leggere e velate minacce e promesse di risarcimento danni, Penguin sorrise vittorioso e salutò quel benedetto ragazzo, assicurandogli che non avrebbe dovuto preoccuparsi di niente e che ci avrebbe pensato lui a fare il lavoro sporco. Riattaccò e si voltò verso di noi con un luccichio sinistro negli occhi.
«So come convincere il fidanzatino di Trafalgar» dichiarò orgoglioso, sporgendo il petto come un gallo nel pollaio.
Alzai un sopracciglio scettico mentre Bepo si preoccupava di far notare al nostro coinquilino che, se mai Trafalgar l’avesse sentito parlare in quel modo, non avrebbe avuto vita lunga.
«Sciocchezze» liquidò la faccenda con un cenno della mano, «Tornando alle cose serie: Killer mi ha assicurato che Kidd accetterà sicuramente di vestire i panni di Babbo Natale».
«Posso sapere come? Non sembra esattamente il tipo di persona che si fa mettere i piedi in testa tanto facilmente, soprattutto per certe cazzate» gli feci notare, poggiando stancamente il mento su una mano e guardandolo in modo scettico. Avevo bisogno di un po’ d’aria e il modo in cui mi osservarono i due ragazzi, leggermente preoccupati, mi diede la conferma. Stavo uno schifo, senza dubbio.
«Fidatevi e aiutatemi a tirare fuori gli scatoloni con il necessario per vestirlo» ghignò, nascondendoci qualcosa di troppo, «Sarà senza dubbio un Rosso Natale per tutti».
 
* * *

Quel pomeriggio stava per diventare perfetto.
Ero a casa mia, al caldo e in vacanza; avevo appena finito di mangiare un mega panino e una bottiglia di birra vuota faceva la sua bella figura sopra al tavolino del salotto. Tutto tranquillo e tutto come doveva essere, soprattutto con la compagnia giusta.
«Kidd» mormorò Trafalgar, mentre subito gli tappavo quella sua boccaccia con un bacio frenetico e affamato. Sapevo che se l’avessi lasciato parlare avrebbe trovato il modo di smontarmi e rovinarmi l’umore buono con cui avevo deciso di concludere la giornata.
«Il telefono» riuscì a dire, facendomi notare solo allora una suoneria che strimpellava da qualche parte nella stanza.
Sbuffai seccato, lasciandolo scivolare malamente sul divano e mettendomi alla ricerca di quel maledetto cellulare con la sua risata divertita in sottofondo. Se la telefonata non fosse stata di estrema importanza avrei ucciso chiunque ci fosse stato dall’altro capo con le mie stesse mani.
«Pronto?» risposi con tono minaccioso e scazzato, sentendo poi la voce di Killer e imponendomi di calmarmi.
«Come va, amico?» chiese. La sua voce mi risultò stranamente incrinata e nervosa, ma pensai di essermela solo immaginato.
«Vieni al sodo, ho da fare» chiarii, lanciando un’occhiataccia significativa e infuocata a Law che, alle mie spalle, mi fissava il fondoschiena con due occhi maliziosi e il volto appoggiato al bracciolo del divano.
«Ehm, ecco. Non so come dirtelo. Vedi, la cosa è che…».
«Killer muoviti o ti butto giù. Cosa cazzo c’è?».
«DevivestirtidaBabboNatalelavigilia» sputò tutto d’un fiato senza che io capissi un accidenti.
«Parla più piano, non ti capisco» grugnii infastidito e ormai al limite.
«Devi vestirti da Babbo Natale la vigilia» scandì infine, dopo un respiro profondo.
A quelle parole non mi degnai nemmeno di rispondere e riattaccai con un’alzata di spalle, pensando che doveva essere tutto matto oppure ubriaco fradicio anche solo per pensare di farmi fare una roba del genere. Stava sicuramente scherzando.
«Ci sono problemi, Eustass-ya?» mi chiese Law con finto interesse.
«Killer ha blaterato qualcosa riguardo al fatto che io dovessi vestirmi da Babbo Natale» spiegai, rendendomi conto di quanto la cosa risultasse assurda e impensabile, nonché impossibile. Mai, e mi ripetei, mai avrei accettato una simile proposta. Era fuori discussione.
Mentre perdevo tempo a cercare di trovare un senso alla chiamata del mio migliore amico non notai l’espressione ambigua, ma preoccupante, che fece quel bastardo che era riuscito da poco a coinvolgermi in una relazione stabile. Io, il grande Eustass Kidd ridotto ad avere un fidanzato. Qualche tempo fa sarebbe stata la barzelletta del secolo.
Il telefono squillò ancora e, su sua precisa e insolita richiesta, mi ritrovai a rispondere e a sentire nuovamente la voce di Killer che, questa volta, andò al sodo come gli avevo chiesto in precedenza, spiegandomi senza tanti giri di parole la sua proposta e facendomi immobilizzare all’istante e digrignare i denti per lo squallore della sua maledetta minaccia. Come si permetteva di farmi ciò dopo tutti quegli anni di amicizia?
«Non oserai» sibilai seccamente.
«Scusami Kidd, ma non mi lasci scelta. Accetta o dirò a tutti del tuo corso di yoga».
«Figlio di puttana» ringhiai, attirando l’attenzione di Law che si alzò dalla sua postazione per saltellare vicino a me e osservarmi attentamente, mentre una mano scivolava languida dentro i miei pantaloni.
«Lo prendo come un si?».
«Sappi che questa me la paghi, stronzo!» detto questo riattaccai e scaraventai il telefono da qualche parte contro il muro sotto lo sguardo stupito e accigliato del moro al quale non diedi nemmeno il tempo di fare domande perché mi avventai su di lui, trascinandolo di peso sul pavimento e riprendendo da dove avevo lasciato, solo con più fretta e rabbia.
«Cattive notizie?» provò a scherzare, anche se immaginavo che già sapesse di cosa si trattava.
«Per te sicuramente».
 
* * *

Light me up with me on top lets falalalalalalala. Light me up with me on top lets falalalalalalala.

Era la notte della vigilia di natale, uno dei giorni che preferivo in assoluto anche se nessuna anima era vissuta abbastanza da poter raccontare questa mia particolare preferenza in giro. Come ogni anno il nostro appartamento si era trasformato in una piccola fabbrica di decorazioni di ogni genere come luci colorate; tre alberi di natale di diverse grandezze e bizzarre stelle appese; un presepe antiquato; una tavola stracolma di dolci, cibo e schifezze varie come panettoni, torte e stuzzichini; numerosi regali erano ammassati in un angolo del salotto e tutti si aggiravano per le stanze provvisti di cappello rosso e bianco e una birra in mano, intenti a sghignazzare o a cantare a squarciagola delle fastidiosissime canzoncine natalizie che lo stereo stava riproducendo in quel momento.
Era così ogni anno: dato che io e gli altri tre ragazzi che vivevano sotto il mio stesso tetto eravamo gli unici ad avere una casa propria senza dover sottostare alle regole di adulti o genitori, il resto della compagnia, capeggiati da quello squilibrato di Rufy, si sentivano in dovere di auto invitarsi a passare le feste da noi e a darsi alla pazza gioia senza sentirsi in trappola, liberi di fare tutto il chiasso che desideravano e accampandosi con i sacchi a pelo nel soggiorno fino all’arrivo del nuovo anno. Come dargli torto, probabilmente avrei fatto lo stesso pure io, ma quelli esageravano e non avevano affatto il senso di ciò che era lecito o no. Ad ogni modo erano comunque i benvenuti essendo persone che conoscevamo da tempo e verso i quali avevamo sviluppato una sorta di pazienza e capacità di sopportazione infinita.
In quel momento mi trovavo in terrazzo assieme a Brook, Bepo, Nami e Robin e stavo osservando con un ghigno divertito come Rufy scortava un ragazzone alto e muscoloso il doppio di lui verso ogni casa del quartiere con l’intento di aiutarlo a portare regalini ai figli dei vicini e interpretare la parte dell’elfo aiutante. Il tutto era così incredibile che non mi stupii nello scorgere il resto dei miei amici con il viso incollato alle finestre del soggiorno mentre guardavano la scena con altrettanto divertimento. Certo, non era cosa da tutti i giorni vedere quell’esaltato e scorbutico di Eustass Kidd vestire i panni di una delle leggende più belle e vecchie della terra. Il diretto interessato stava appunto scarpinando in mezzo al metro e mezzo di neve caduto la sera prima e gli abiti sembravano un tutt’uno con i suoi capelli, coperti per il momento da un buffo cappello lungo e morbido che gli ricadeva costantemente davanti agli occhi. Mi sembrava di sentirli i suoi insulti e tutte le maledizioni che lanciava per spostarselo e trasportare, nel frattempo, un vecchio sacco con all’interno i regali che i genitori delle piccole pesti che abitavano li vicino ci avevano portato affinché fosse il vero Babbo Natale a consegnarli per loro. Questa era una parte del patto stipulato alcuni anni fa dopo il disastro combinato da Rufy.
Come se fosse stato chiamato, il ragazzino voltò il capo verso l’alto nella nostra direzione e fece ciao con la mano a tutti, sghignazzando felice e attirando l’attenzione dell’energumeno per niente contento che stava qualche passo indietro rispetto a lui. Incuriosito dal gesto di Rufy, si mise anche lui a guardare verso l’appartamento e ciò che vide non gli piacque affatto dato che in un secondo scaraventò a terra il sacco con i regali per dirigersi a passo di marcia verso casa, tenendo sempre uno sguardo minaccioso e che prometteva terribili e imminenti torture puntato verso di noi, in particolare verso una delle finestre dove stava appoggiato Killer. Come lo avesse convinto a farsi deridere in quel modo non l’avevo ancora capito.
A quel punto, il più piccolo iniziò a rincorrerlo per poi saltargli in groppa, aggrappandosi stretto al suo collo e obbligandolo a fermarsi, nonostante Kidd tentasse in tutti i modi di ribaltarlo senza però riuscirci. Non gli era ancora chiaro che quando Rufy puntava la sua preda per gli abbracci nessuno gli scampava, mai.
Dopo vari minuti passati a battibeccare, tra insulti, risate, urla, minacce e preghiere, Eustass-ya ritornò sui suoi passi dandoci le spalle e riprendendo da dove aveva lasciato con il suo accompagnatore ricoperto di neve al seguito. Perché tutti riuscivano a convincerlo con poco, mentre io ero costretto ad usare le maniere forti e tragiche?
Restammo a goderci il teatrino per un altro po’, scoppiando a ridere quando i due attaccarono a canticchiare Jingle Bells davanti a due gemelli all’inizio sorridenti, poi sempre più impauriti ed infine nascosti dietro alle gambe dei loro genitori, i quali ringraziarono e presero i regali di fretta, sbattendo la porta in faccia all’elfo troppo cresciuto e a Babbo Natale troppo incazzato per i loro gusti. Immaginando come sarebbe finita, e dopo aver scattato qualche foto incriminante seguendo il consiglio di Robin, rientrammo in salotto al caldo per continuare a festeggiare nell’attesa della mezzanotte e del rientro dei due avventurieri.
«Ehi Zoro, i tuoi capelli intonano perfettamente con l’albero» sfotté Nami ad un certo punto, quando il ragazzo in questione si sedette accanto al pino finto che avevamo comprato, suscitando le grasse risate di Usopp e Chopper.
«Che hai detto?» rispose l’altro piuttosto infastidito e pronto ad usare le mani, dimentico forse che avrebbe dovuto scontrarsi con una donna, e per giunta non una qualunque, ma la più aggressiva in circolazione.
«Fatti sotto, ti accendo come una lampadina» lo sfidò per l’appunto lei, per nulla impaurita dal tono minaccioso appena rivoltole e già pronta a suonargliele come al solito.

The only place you wanna be is underneath my Christmas tree. Light me up with me on top lets falalalalalalala.

Mi allontanai da loro prima di venire preso in causa e, soprattutto, per evitare che chiedessero a me di separare quei due che ormai la stavano tirando un po’ troppo lunga con le loro inutili liti. Se Zoro fosse stato un po’ più sveglio e attento, avrebbe sicuramente notato che l’interesse che entrambi avevano l’uno per l’altra non era così invisibile, anzi, forse se ne erano accorti tutti, ma pazienza, non erano cose che mi riguardavano.
In cucina, intanto, Penguin si stava dando alla pazza gioia nel regolare il timer del forno nel quale aveva appena piazzato a cuocere un vassoio di velenosi e micidiali biscotti fatti da lui, ma questo il suo caro amico, o come voleva definirlo, Killer non lo sapeva e guardava con ammirazione la pasta frolla scaldarsi, emanando un profumo invitante, ma dalla sostanza nociva per lo stomaco di chi non era abituato a bombe caloriche del genere. Per un attimo fui tentato di avvisarlo, ma vedere il primo così orgoglioso e contento del suo operato e l’altro tanto ansioso di assaggiare i manicaretti in fase di preparazione smontarono il mio sarcasmo e le mie intenzioni poco gentili, così me ne tornai in salone dove trovai due ragazzi imbarazzati, capitati per caso sotto al vischio, rossi come pomodori.
Forse dovrei dire: rossi come Eustass-ya. Si, suona meglio, pensai sogghignando e godendomi l’espressione imbronciata di Nami che faceva di tutto pur di non guardare il suo cavaliere negli occhi. Inutile ripeterlo, Zoro era proprio una causa persa.
Oltre a loro, gli altri stavano piazzando scommesse sulle possibilità di vita che avrebbe avuto Rufy una volta tornato e quanto fosse stato arrabbiato il rosso da uno a dieci.
«Cento» dissi senza nemmeno riflettere e ottenendo il consenso del resto dei partecipanti. Solo allora notai che quasi tutti erano in maniche corte o con addirittura la camicia sbottonata. Faceva così caldo? Intercettando e capendo il filo dei miei pensieri, Robin si premurò di rispondermi gentilmente, spiegandomi che qualcuno doveva per sbaglio aver alzato il riscaldamento e, ora che me lo faceva notare, mi resi conto che faceva più caldo del solito li dentro. Meglio così, nessuno avrebbe patito il freddo e quando i due impiastri sarebbero rientrati non ci avrebbero messo molto scaldarsi e a dimenticare il gelo. Per non sentirmi fuori luogo, mi tolsi il maglione che indossavo e rimasi in camicia pure io.
Passammo una mezz’oretta tranquilli, approfittando dell’assenza momentanea del fratellino di Ace per mangiare il più possibile e lasciando che l’atmosfera natalizia ci avvolgesse. Questo non stava ad indicare che diventavamo magicamente tutti buoni, affatto, perché Zoro e Sanji non persero mai l’occasione per mettersi a bisticciare; io non mi risparmiavo battutine sarcastiche nei confronti degli ospiti e Penguin, in un momento di astinenza, si mise a correre per la casa in cerca della sua roba. Semplicemente, i più esibizionisti come Brook e Usopp, iniziarono a raccontare storielle assurde con un sottofondo di chitarra mentre tutti ascoltavano con il sorriso sulle labbra quelle sciocchezze che il nasone credeva di darci a bere.
Tutto sembrò precipitare quando Killer volle assaggiare per primo i biscotti appena sfornati di Penguin, rischiando seriamente di strozzarsi e rimanerci secco se Bepo ed io non fossimo intervenuti con un’aspirina a portata di mano e un capiente bicchiere d’acqua per farlo rinvenire. Lo avevamo previsto, quindi non fu difficile evitare il peggio anche se, quando Penguin dichiarò, trattenendo i singhiozzi, che non avrebbe mai più messo a rischio la vita di qualcuno cucinando, io e gli altri due miei coinquilini ci guardammo come se fosse appena avvenuto un miracolo. Così, dopo aver rimesso in piedi il povero malcapitato, gli stringemmo a turno calorosamente la mano, ringraziandolo davanti alla sua espressione sbigottita. Ovvio che non stava capendo quanto il suo sacrificio dettato dall’affetto ci aveva favorito l’esistenza, così mi presi la briga di spiegargli per filo e per segno quello che lo aspettava se mai avesse deciso di fare sul serio con quella mina vagante e senza controllo di Penguin.
Impegnato com’ero nel descrivere una delle cene più disastrose mai preparate in quell’appartamento, non mi resi conto del trambusto proveniente dal salotto fino a quando Rufy non volò in cucina con le guance rosse e un sorriso enorme stampato in faccia per fiondarsi come un animale sulle pietanze che Sanji si era premurato di preparare per tutti. A quell’entrata ebbi la certezza che, se lui era tornato, ciò significava che anche Capelli di Fuoco non avrebbe tardato a fare in suo ingresso più incazzato che mai, ma mi sbagliai perché nessun altro mise piede in quella parte della casa.
«Rufy dimmi un po’» feci curioso, «Che fine ha fatto quello squinternato di Babbo Natale?».
Il moro, con il viso completamente dentro ad un sacchetto di patatine, mi indicò il salotto dicendo qualcosa a bocca piena che non capii, perciò mi scusai con Killer-ya e seguii le indicazioni fino a trovarmi davanti ad un Bepo indaffarato nel pulire le impronte di neve lasciate all’ingresso mentre Ace, con il suo amato e vecchio cappello da cowboy arancione in testa, si dilettava con un ghigno che non prometteva nulla di buono ad accendere il fuoco nel camino, come se non fosse già abbastanza caldo. Oltre a questo e agli altri membri della compagnia intenti a svuotare il sacco e ad accaparrarsi i regali rimasti, non c’era traccia dell’irascibile rosso per quel che potei notare.
Mi strinsi nelle spalle e pensai bene di andarmi a sedere nella mia poltrona rimasta intaccata fino a quel momento, pensando che, molto probabilmente, Kidd doveva aver scoperto che l’idea di farlo travestire era partita proprio dal nanerottolo, come lui lo chiamava, e aveva quindi deciso di ammazzarlo, andandolo a cercare. Meglio così, mi avrebbe fatto solo un favore sbarazzandosi di lui, anche se non ero così sicuro che il metallaro in cucina l’avrebbe presa bene.
Il fuoco nel camino si accese con una fiammata piuttosto potente e pericolosa per chiunque si fosse trovato li vicino, ma non per quel piromane di Ace che, a petto nudo e su di giri come un bambino, batteva le mani e riponeva il suo inseparabile accendino in una tasca posteriore dei jeans con le ginocchia strappate. Il moro si voltò alla ricerca dell’approvazione di qualcuno e fu contento di vedere che condividevo i suoi intenti di incendiare l’appartamento mostrandogli una mano con il pollice sollevato.
«Posso sapere perché non indossi una maglia?».
«Perché, per dato di fatto, sono troppo sexy per indossarne una» rispose ammiccando.
«Ti trovo piuttosto scoppiettante stasera» dissi allora, quando si sedette per terra rivolto verso di me a gambe incrociate sopra al tappeto che avevamo messo apposta per quell’occasione.
«E non sono l’unico che va a fuoco a quanto pare» ghignò, indicando un punto alle mie spalle.
La cosa mi preoccupò parecchio quando, prima di voltarmi, vidi Killer e Rufy con due facce sbalordite e gli occhi ormai fuori dalle orbite fissare il corridoio che sapevo stare alle mie spalle, esattamente dove c’erano le nostre camere da letto. Capii il perché dei loro sguardi e del divertimento di Ace quando anche io li imitai, voltandomi pigramente per vedere l’ultima trovata della serata.

Ho ho ho, under the mistletoe yes everybody knows we will take off our clothes.

Mi aspettavo Usopp in mutande o Brook con un occhio nero per aver importunato le due ragazze, ma nulla di tutto ciò era successo e faticai a mantenere totalmente la calma nel vedere chi si stava godendo tutte le attenzioni in quell’istante.
Kidd se ne stava appoggiato allo stipite della parete con un ghigno da far invidia al peggiore dei diavoli. Si era liberato del cappello che lo infastidiva, della sciarpa pesante, della barba finta e ispida e di qualsiasi altra cosa in quel contesto inutile. Quanto inutile fosse l’uso di una camicia normale non lo sapevo ed era un’altra storia, dato che indossava la giacca rossa del costume con i risvolti bianchi aperta sul petto per mettere in risalto il torace scoperto. Le braccia abbandonate lungo i fianchi e le mani nelle tasche dei pantaloni rossi che finivano spiegazzati all’interno di un paio di anfibi neri che non aveva voluto togliere e sostituire con quelli vecchi del completo da Babbo Natale. I capelli scompigliati e una fascetta nera poggiata sulla fronte per evitare che alcune ciocche gli finissero sugli occhi attenti che studiavano con particolare interesse la mia reazione.
Mi morsi forte un labbro per non dargli nessun tipo di soddisfazione. Quel bastardo, oltre a mettere in dubbio l’orientamento sessuale degli etero presenti, praticamente sprizzava sesso da tutti i pori.
Buon natale a me, pensai.
«Per fortuna sono impegnato, altrimenti avrei avuto un bel da fare stasera» si esaltò, indicando con un cenno del capo tutti i presenti in sala, soprattutto le ragazze che, sentendosi prendere in causa, si schiarirono la voce e, come gli altri, tornarono a fare finta di nulla.
Alzai gli occhi al cielo davanti a quella frecciatina e ignorai volutamente il commento riguardante la sua situazione sentimentale per non fermarmi a pensare se il fatto di avergli sentito dire di essere impegnato mi avesse fatto piacere o meno. Lui non riusciva a non essere al centro dell’attenzione e nessuno si era di certo risparmiato di scannerizzare per bene quella sua apparizione. Certo, del suo aspetto si poteva dire tutto ma non che fosse sprovvisto di fascino. E questo, purtroppo, lo sapeva e usava la cosa a suo favore, spesso contro di me, ogni volta che ne aveva l’occasione.
«Pensi di restartene in posa come un cretino per tutta la sera o ti unisci a noi?» chiesi seccamente, alzandomi dalla poltrona per andargli incontro a braccia conserte, squadrandolo da capo a piedi e cercando di mantenere un certo contegno. «Che fine ha fatto la barba? Ti donava» sfottei.
«Oh, falla finita» disse sorridendo, «Ammettilo che non vorresti fare altro che scoparmi».
«Potrei averci pensato» ribattei, stando al gioco e arrivando ad una spanna dal suo viso. «E comunque, scoparti è troppo poco». Mi scocciava parecchio dover alzare il capo per guardarlo dritto in faccia, ma era più alto di me ed io non potevo fare niente in questo caso.
«E’ già qualcosa. E ora dimmi: non mi merito un premio per essermi sottoposto a questa cazzata?».
Sgranai gli occhi e attribuii il calore che sentii irradiarsi nelle guance al riscaldamento acceso e al camino a pochi passi da noi. Vedendo però il suo divertimento per il mio ormai evidente imbarazzo decisi di sfidarlo per non perdere la partita.
«E io non ne merito uno per averti risparmiato di indossare un finto naso rosso e le corna da renna che si illuminano? Anche se, lascia che te lo dica, saresti stato uno spettacolo».
Per tutta risposta, ignorando le mie battutine acide, i suoi occhi individuarono le mie labbra per poi attirarmi a sé con un movimento veloce del braccio.
«Assolutamente si» sussurrò vittorioso prima di baciarmi con decisione davanti a tutti.
Risposi al bacio con altrettanta enfasi e, quando mi lasciò andare, un ghigno piuttosto inquietante e maligno increspò le labbra di entrambi quando notammo che i nostri amici si erano rifugiati in cucina per evitare di assistere alla scena. Solo allora mi ricordai che Rufy era piuttosto tonto riguardo all’argomento; sicuramente Ace aveva provveduto ad attirare la sua attenzione sul cibo e così avevano fatto anche gli altri.
Proprio quando Eustass-ya aveva deciso di approfittare del momento e spintonarmi addosso alla parete per intrappolarmi e togliermi qualsiasi via di fuga, il campanello alla porta suonò, attirando la nostra curiosità e mandando a monte le intenzioni del rosso che sbuffò un’imprecazione a mezza voce.
Gli rivolsi un’occhiata interrogativa prima di chiedergli se avesse invitato qualcuno a mia insaputa.
«Non ho chiamato nessuno» grugnì in risposta con un’alzata di spalle prima di abbandonarmi in entrata per togliersi dall’impiccio e dirigersi in cucina a mangiare, o meglio bere, qualcosa.
Indugiando con un’occhiata al suo fondoschiena andai ad aprire, immaginando di dovermi scusare per il baccano con uno dei vicini del piano di sopra, invece mi ritrovai davanti un perfetto estraneo che ero certo di non aver mai visto prima, nemmeno per caso, neanche quando Bepo ed io avevamo pedinato Penguin per scoprire con chi si vedesse i pomeriggi che spariva da casa.
«Buonasera» feci, lasciando libero sfogo ad un’espressione poco amichevole, dandogli comunque del lei visto che il tipo che mi stava di fronte aveva tutta l’aria di essere qualche anno più vecchio di me. «Posso aiutarla?».
L’ignoto sembrava in imbarazzo, ma non pareva avere cattive intenzioni, soprattutto non era vestito come un assistente sociale, quindi non era di certo lì per Rufy, così mi rilassai e cercai di rimediare alla scortesia del mio comportamento andandogli incontro vedendo che sembrava non sapere cosa dire.
«Non credo di conoscerla, ma se mi dice di cosa ha bisogno forse potrei esserle utile».
«Ehm, ecco io sto cercando una persona» disse finalmente, passandosi nervosamente una mano fra i capelli corti, «Ace abita qui?».
Sbattei le palpebre, ma non feci domande. Mi limitai piuttosto a lasciarmi scappare un sorrisetto malizioso quando capii cosa stava succedendo e come stavano le cose, chiamando a gran voce il nome del ragazzo e informandolo che alla porta c’era qualcuno che lo cercava.
«Arriva subito» assicurai al ragazzo sulla soglia, rientrando e scontrandomi con il mio inquilino in questione una volta girato l’angolo alla cui domanda su chi ci fosse alla porta risposi ammiccando, consigliandogli vivamente di coprirsi e lasciandolo ad affrontare il suo, ne ero certo, più bel regalo di Natale.
 
* * *

«M-Marco!».
Ace apparve davanti ai miei occhi con addosso un buffo cappello arancione, una maglietta a maniche corte, dei bizzarri jeans strappati in più punti, come se qualcuno avesse appena finito di farci dei tagli con le forbici e delle Converse altre e nere con alcune cinghie attaccate.
Incapace di trattenermi davanti al suo strano abbigliamento e alla sua espressione sorpresa, tornai con la mente ad un nostro particolare incontro avvenuto in maniera molto simile. «E’ la seconda volta che mi saluti così» ricordai, sorridendo dolcemente.
Rimase immobile davanti alla porta, guardandomi come se avesse appena visto un fantasma ed io ebbi il tempo di chiedermi se non avessi sbagliato a presentarmi a casa sua senza nemmeno avvisarlo per…
Per cosa? Cosa pensavo di ottenere così? Il suo perdono? Dopo il modo meschino in cui mi sono comportato? Cosa mi è passato per la testa dieci minuti fa, dannazione!
Non sapendo cosa dire e vedendo che nemmeno lui sembrava incline a dare inizio alle spiegazioni, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era scusarmi immensamente per il disturbo per poi tornarmene alla macchina e andarmene, lasciandogli l’opportunità di godersi il natale con la sua famiglia e non con mille pensieri per la testa. Sicuramente gli avevo già causato troppi problemi e capitargli davanti la porta di casa era stato un gesto egoista da parte mia dato che alla sua possibile reazione e alla sua felicità non avevo minimamente pensato, concentrato com’ero sui miei sensi di colpa e sul desiderio di rivederlo.
Stavo appunto per sparire dalla sua vista dopo essere rimasto a fissarlo per quei lunghi minuti di imbarazzo, quando decise di sciogliere quel silenzio così pesante e fastidioso per entrambi, anche se l’unico che aveva il diritto di essere infastidito dalla mia presenza e da quello che essa comportava era solo lui, giustamente.
«Come mi hai trovato?». Una domanda lecita, dopotutto, ma non c’era tempo per le spiegazioni di poco interesse.
«Non ha importanza» risposi di getto. In quel momento, davanti alla sua espressione indecifrabile, non ero più tanto sicuro di potermi permettere una seconda possibilità. Cosa volevo ottenere alla fine? Non mi ero forse ripetuto fino allo sfinimento che Ace non faceva per me, che era troppo giovane e che era solo un ragazzino? Per quale motivo allora avevo deciso di presentarmi a casa sua senza preavviso, lasciando la mia famiglia a festeggiare senza di me una delle feste più importanti dell’anno?

Here, here, here, the best time of the year.

Improvvisamente, quando mezz’ora prima ci avevo riflettuto, tutto ciò che lo riguardava mi era sembrato così urgente che mi ero ritrovato in auto senza nemmeno rendermene davvero conto.
«Io credo che…» iniziai a dire, vedendo come si fece attento all’istante, alzando il capo e guardandomi negli occhi con quelle sue iridi scure e intense. Non c’era traccia dello sguardo allegro, vivace e amichevole che tante volte mi aveva rivolto e che tanto mi mancava. «Credo che ora dovrei andare» decretai infine, accennando ad un sorriso di scuse e indietreggiando di qualche passo.
«Uh? Ehi, ma tu sei Marco!».
Una testolina nera accompagnata da una voce allegra ci colse di sorpresa e, mentre Ace impallidiva e sembrava cadere dalle nuvole, un ragazzino che riconobbi come suo fratello sbucò alle sue spalle e si fece spazio per passare, spintonando il maggiore di lato con una gomitata accidentale alle costole e spingendolo contro la parete.
«Ciao Rufy» feci cortesemente sotto lo sguardo allibito del più grande che sembrava aver capito come avevo fatto a scoprire l’indirizzo del suo appartamento non appena Rufy mi afferrò per le maniche della giacca, iniziando a tirare per trascinarmi all’interno con forza.
«Sapevo che saresti venuto! Vieni entra, ci sono tante cose buone da mangiare e poi magari puoi farmi uno dei tuoi deliziosi waffle!» trillò senza smettere di tirare.
«Voi due vi conoscete?».
Ace sembrava aver appena ricevuto uno schiaffo, tanto che non tentò nemmeno di fermare il fratello che continuava imperterrito con la sua impresa, mentre io avevo solo bisogno che si calmasse per potergli spiegare la situazione e dirgli tutti i bei discorsi che mi erano venuti in mente durante il tragitto, ma che avevo completamente dimenticato non appena mi era apparso davanti con quella maglia spiegazzata, segno che forse l’aveva appena indossata di fretta, che lasciava intravvedere pochi, ma sufficienti, centimetri di pelle di un fianco. Abbastanza per mandarmi in confusione.
Cercai in tutti i modi di fermare il flusso di discorsi che stava uscendo dalla bocca del più piccolo, tanto che mi aggrappai persino allo stipite della porta per impedirgli di trascinarmi all’interno con lui, ma alla fine non ci fu modo di zittirlo e di rifiutare quel suo invito, anche se aveva tutta l’aria di essere una pretesa, e fui costretto così a seguirlo dentro casa, passando per un breve corridoio e ritrovandomi all’interno di un salone abbastanza ampio da contenere un consistente gruppo di persone. Non immaginavo, però, che ce ne fossero così tante.
Successe tutto velocemente, tanto che faticai a seguire tutta la scena, soprattutto, avevo perso di vista Ace e nelle mani del fratello non mi sentivo per niente tranquillo. Infatti il piccoletto lasciò andare la stoffa del mio giubbotto e, saltellando felice e spensierato, urlò a squarciagola per farsi sentire dal resto dei presenti.
«Ehi, ragazzi! E’ arrivato Marco, il futuro ragazzo di Ace! Ha detto che passerà la serata con noi!».
Sospirai rassegnato e cercando di contenere l’imbarazzo nell’ascoltare quelle sue insinuazioni, ma sorrisi ugualmente e, dopo che Rufy sparì dalla mia visuale, inghiottito da una serie di volti nuovi e dall’aria fin troppo allegra per essere ritenuta sobria, i quali si presentarono uno alla volta stringendomi la mano e sorridendomi in modo malizioso, enigmatico, amichevole e inquietante, mi sentii freddare nell’incontrare finalmente gli occhi seri di Ace che mi osservavano da un angolo della stanza per capire le mie intenzioni.
«Sa cucinare davvero bene!» stava dicendo Rufy ad un ragazzo biondo che fumava tranquillamente una sigaretta e mi osservava con occhio critico.
«Che strani capelli».
«Non sapevo che Ace frequentasse qualcuno, sono davvero contenta!».
«E così saresti tu la famosa Fenice».
Quelle parole catturarono la mia attenzione ma, non appena intercettai lo sguardo del mio interlocutore mi sentii gelare davanti a quegli occhi che sembravano intenti a farmi uno scanner completo. Il tizio che mi aveva aperto la porta aveva l’aria vagamente minacciosa solo per il modo sicuro e leggermente strafottente con cui mi guardava. Non superava, però, l’aria minacciosa di un rosso a pochi passi da noi, il quale guardava tutta la scena con una faccia schifata, anche se il suo abbigliamento attutiva un po’ la sua aggressività. Certo, erano persone che a prima vista impressionavano abbastanza, ma ero abituato a vedere di tutto, perciò, scrollando le spalle e scacciando quel senso di estraneità, gli rivolsi un sorrisetto appena accennato e gli porsi la mano.
Il moro ghignò altrettanto e rispose al gesto quasi subito.
«Non sembri sapere quello che stai facendo, ma non sembri nemmeno uno stupido» disse senza mezzi termini, «Meglio così, forse hai una qualche speranza di rimanere vivo dopo una serata in nostra compagnia».
Un lampo di pazzia di attraversò gli occhi, ma riuscii a mantenere comunque una facciata piuttosto composta. Dopotutto, loro non sapevano di cosa fossero capaci i miei fratelli e una banda di ragazzini potevo benissimo gestirla.
Una volta individuato Ace, l’unico che si manteneva lontano da tutto, sgusciai via dal gruppetto che si era creato attorno a me e mi avvicinai a lui quel tanto che bastava per parlargli e dargli pure la possibilità di buttarmi fuori a calci.
«Tuo fratello si è presentato al bar» chiarii immediatamente e questo bastò per scagionarmi.
«Dovevo immaginarlo» fece rassegnato, passandosi stancamente una mano sul volto per coprire un sorriso tutto sommato amorevole nei confronti del piccolo. «Ti chiedo scusa se ti ha creato problemi, ma non lo sapevo».
«No, non preoccuparti. E’ stato divertente» gli assicurai.
Calò di nuovo il silenzio, spezzato soltanto dagli schiamazzi e dalle risate provenienti da qualche parte nell’appartamento. Quelli che avevo sentito poco dopo erano rumori di vetri infranti?
Ero andato da lui con l’intenzione di dirgli che mi dispiaceva per quello che gli avevo detto, ma che c’era un valido motivo per tutto ciò. La verità era che all’inizio non mi faceva ne caldo ne freddo vederlo nel mio locale; lui era come un qualsiasi altro cliente, nulla di più. Col tempo, però, con quella sua perenne spensieratezza e quel sorriso a labbra serrate così carico di simpatia, voglia di vivere e amicizia mi aveva messo al tappeto. Non c’era niente di male nell’ essere amici, mi ero detto, quando avevo deciso di assecondare quel suo carattere così aperto e socievole, e non me ne ero pentito affatto. La sua compagnia era piacevole, chiacchierare con lui mi veniva spontaneo e più lo conoscevo più lo trovavo interessante e particolare. Non era un semplice giovane qualsiasi, no, era molto più di quello che dava a vedere. E poi avevo iniziato a notare i particolari che in un primo momento mi erano sfuggiti, come le lentiggini, le onde leggere dei capelli che gli solleticavano il collo infastidendolo, le spalle larghe, l’altezza e il fisico sviluppato che mi ricordava costantemente che Ace, in realtà, non era più un ragazzino. Ace era un uomo ormai e a me piaceva. Piaceva da impazzire.
Questa scoperta mi aveva sconvolto. Non che non volessi andare oltre, ma per il semplice fatto che una persona fosse riuscita a farmi un tale effetto come nessuno prima era riuscito. Solitamente non ero mai preso così tanto da qualcuno e non mi invaghivo facilmente. D’accordo, forse non mi invaghivo affatto e l’essermi trovato così attratto da lui mi aveva fatto fare marcia indietro, costringendomi a insistere che quel bacio non aveva significato niente quando invece non ero mai stato così tentato di continuare fino a farlo supplicare di smettere. Allora l’avevo allontanato di mia spontanea volontà, restandoci doppiamente male quando avevo visto che il mio interesse era ricambiato da parte sua e sentendomi un completo schifo quando non l’avevo più visto mettere piede al pub. Speravo sempre che il campanello annunciasse il suo arrivo, invece, quando alzavo lo sguardo speranzoso, lui non c’era mai.
Prima che iniziassi a spiegargli le mie motivazioni venni preceduto sul tempo, e di nuovo, da Rufy.
«Marco vieni, Brook sta per iniziare a cantare!».
Non potendo dire di no ad un entusiasmo del genere venni strappato nuovamente dai miei intenti, mentre alle mie spalle Ace sembrava voler incenerire qualsiasi cosa attorno a lui.
Andare lì era stata la cazzata peggiore di tutte.

Oh, oh a Christmas, my Christmas tree is delicious.







Angolo Autrice.
Dio, questi capitoli diventano sempre più lunghi, ma non riesco a spezzarli a metà, perciò scusatemi, spero di non annoiarvi troppo e di rendere le vicende abbastanza interessanti da non farvi sbadigliare ogni tre righe! Dunque, cosa dire? Beh, il Natale è passato ormai, ma non potevo anticipare nulla perché qui le cose se non hanno un minimo di filo logico non mi piacciono, perdonatemi. Spero che sia valsa la pena farvi aspettare, di certo Eustass-ya non immaginava di finire vestito da Babbo Natale con Rufy come Elfo e tanto meno Ace si aspettava una visitina di Marco ** Trafalgar, invece, oltre ad essere il più fiol in assoluto, sono certa che sapeva fin da subito che la notte di Natale l’avrebbe passata sotto le coperte. GRAZIE a tutti e un abbraccione!

See ya,
Ace.


 

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Capitolo 18
*** Capitolo 16. Disastro, Inferno, Paradiso e Buon Compleanno. ***


Capitolo 16.
Disastro, Inferno, Paradiso e Buon compleanno

Il Disastro. Ovunque guardassi l’unica cosa che mi saltava agli occhi era il disastro che regnava nell’appartamento da giorni ormai. Cuscini sparsi ovunque, alcuni con le piume che fuoriuscivano dalle cuciture; tende usate come coperte improvvisate; il tappeto dell’ingresso appeso al muro in una scarsa imitazione di un arazzo orientale; sacchi a pelo in ogni angolo, persino sotto al tavolo in cucina; vestiti sparsi per le stanze e biancheria intima di dubbia provenienza penzolava dalla lavatrice nel bagno, la quale sembrava vomitare stoffa da quanto era ricolma. Una serie di bottiglie di birre differenti, vuote per l’appunto, era esposta in equilibrio precario sul balcone di una delle finestre in soggiorno; il lavello pieno di piatti da lavare; bombolette spray colorate quasi finite, quasi perché i proprietari non avevano ancora terminato il loro lavoro artistico che faceva mostra di sé sulla parete opposta a quella già dipinta; cartoni di pizza e cibo da asporto in ogni angolo e persone umane che si aggiravano come se niente fosse in mezzo a tutto quel caos. L’unica cosa che sembrava intaccata era il frigorifero.
Almeno i miei fuochi d’artificio erano ancora integri e aspettavano solo me per esplodere e ammaliare chiunque avesse avuto la fortuna di vederli quella notte. Fino ad allora, però, sarebbero rimasti nascosti abilmente dentro un sacco per l’immondizia ben posizionato dentro allo sgabuzzino. E guai a chi avrebbe osato metterci le mani!
«Ciao Ace».
«Buongiorno Killer».
A quanto pareva gli ospiti erano saliti di numero quell’anno e sembravano anche loro ben disposti a passare tutte le vacanze nel nostro appartamento assieme ai restanti diavoli per i quali, ormai, tutto ciò era diventato una specie di rituale, abitudine o sacra tradizione. Intendiamoci, a me non dispiaceva affatto, anzi, più eravamo e più il divertimento era assicurato, soprattutto con elementi come, appunto, Killer, un metallaro davvero simpatico e molto paziente, e Kidd, un po’ meno paziente, ma abbastanza pazzo da andarci perfettamente d’accordo dato che condivideva il mio punto di vista sulle esplosioni e sembrava parecchio interessato quando parlavo dei miei progetti per i fuochi d’artificio dell’ultimo dell’anno. Erano ragazzi particolari, senza dubbio, ma chi non lo era in quella casa di matti? Almeno mi tenevano piuttosto indaffarato e difficilmente mi ritrovavo senza far niente e con la mente libera di andarsene per i fatti suoi e pensare.
Avevo passato un Natale piuttosto movimentato e abbastanza difficile, sotto un certo aspetto, da superare. Come avrei potuto reagire altrimenti, ritrovandomi davanti la porta dell’appartamento, proprio la notte della Vigilia, nientemeno che Marco in persona? Un po’ di tensione da parte mia era stata ovvia e più che giusta, anche perché non avrei saputo come altro comportarmi.
Quell’impiccione di Rufy l’aveva pagata cara non appena il biondo se ne era andato, con la promessa fatta a quell’impiastro e agli altri idioti che mi ritrovavo come amici di passare a farci visita anche a capodanno, ovvero quel giorno stesso. A quanto pareva, nonostante l’imbarazzo iniziale, era riuscito a cavarsela benissimo e aveva tenuto testa a tutti con il sorriso sulle labbra, persino Law non era riuscito a metterlo alle strette o a farlo scappare a gambe levate con le sue occhiate e i suoi commenti sadici e, a volte, piuttosto velenosi verso chiunque si dimostrasse più stupido di quanto già non era. Mi aveva stupito molto, a dir la verità, quella sua calma e quello sguardo che mai sembrò sorpreso o schifato davanti alle trovate non proprio geniali e ai comportamenti poco maturi di mio fratello e della sua compagnia. Al contrario, sembrava voler costantemente scoppiare a ridere, anche se cercava di trattenersi come meglio poteva.
Per tutta la serata, da quando era arrivato e fino a quando se ne era andato, verso le due del mattino circa, con un cappello rosso in testa e un vassoio pieno di dolci in mano, gli ero stato a debita distanza, anche se non avevo potuto evitarlo del tutto come avrei voluto invece.
Allo scoccare della mezzanotte ero stato costretto dalla buona educazione e dallo spirito natalizio che Rufy andava decantando come un ossesso a stringergli la mano, augurandogli con lo sguardo basso un sommesso ‘Buon Natale’, mentre la mia mano libera si stringeva in un pugno nervoso. Non so se l’aveva notato, non lo guardai in faccia, udii solo il suo augurio in risposta e poi le sue dita che scivolavano via dalle mie, lentamente, senza fretta. In quel momento avevo desiderato di apparire distaccato e sciogliere subito quel contatto, ma non ne ero stato capace e avevo lasciato che tutto finisse con lentezza esasperante. Quanto ero stato idiota, quanto!
All’inizio mi ero sentito come in trappola. Non volevo vederlo, ma un’altra parte di me era contenta di saperlo lì la notte di Natale, invece che con la sua famiglia. Doveva essergli costato molto lasciare i suoi fratelli per venire da me e questo aveva contribuito un po’ a farmi sentire meno ferito quando ci avevo riflettuto. Infatti, non appena il venticinque dicembre era ufficialmente arrivato, avevo smesso di estraniarmi e avevo lasciato che il calore del momento ci riavvicinasse, anche se non parlammo più di tanto.
Mi ero sforzato, davvero, e avrei fatto del mio meglio se davvero ci fossimo rivisti, ma non sarei stato io ad andare a cercarlo, non più. L’avevo fatto abbastanza e per troppo tempo senza ottenere niente in cambio e non avrei commesso lo stesso errore. Avrei continuato per la mia strada e, se lui avesse voluto incrociarla, non l’avrei allontanato, ma nemmeno mi sarei messo in gioco per primo.
Così avevo passato le ore successive visibilmente più calmo e meno teso e di questo, i più svegli, se ne erano accorti. Law per primo, dato che non perse l’occasione per avvicinarsi silenziosamente a me e darmi una scherzosa gomitata su un fianco, indicando con il capo e un sorriso malizioso la figura slanciata di Marco che, abilmente, prendeva la mira e sparava con una pistola a pallini contro alcune bottiglie di plastica e varie lattine vuote allineate sul balcone, centrandole tutte e facendole ricadere a terra.
«Hai intenzione di restartene qui tutto imbronciato o pensi di lasciarti andare?» mi aveva detto, appoggiandosi al muro e incrociando le braccia al petto, imitandomi.
Avevo alzato gli occhi al cielo e avevo scosso il capo, rispondendogli che non ero in vena di festeggiamenti, non quando mi trovavo sotto al naso il centro dei miei problemi. Fu lui ad aprirmi gli occhi e a farmi prendere in considerazione il fatto che Marco avesse sacrificato la sua famiglia per stare con me. Per un’altra opportunità. E, forse, non l’avrei nemmeno mai capito se non fosse stato per il brillante coinquilino che mi stava di fianco. Infatti bastarono poche sue frasi per alleviare un po’ quel macigno che mi opprimeva il petto, dopo di ché era andato tutto migliorando gradatamente, se così si voleva dire.
Kidd e Rufy, stranamente alleati, si erano organizzati per attentare alle nostre vite e avevano approfittato della distrazione di tutti per riempire qualsiasi recipiente o contenitore con dell’acqua, miracolosamente calda, che avevano poi avuto la grazia di spruzzarci addosso senza pietà. Quelli che subirono di più furono Brook, fradicio fino ai calzini; Nami, per niente contenta della piega che aveva preso la situazione; Rufy stesso, incapace di difendersi quando Zoro e Sanji si erano impossessati di una bottiglia per vendicarsi; Usopp e la mia maglia.
«Dammela, vado a prendertene un’altra».
Senza riflettere sul fatto che Trafalgar non faceva mai gentilezze del genere se non per qualche subdolo scopo o per avere qualcosa in cambio, mi tolsi la maglietta senza pensarci troppo e gliela porsi, passandomi distrattamente le mani sulle braccia umide e dirigendomi automaticamente accanto al camino per asciugarmi almeno un po’, dato che freddo non ne avevo. L’appartamento era praticamente un forno.
«Dì un po’, hai intenzione di cavare un occhio a qualcuno?».
«Come scusa?».
«Oh, ora è tutto chiaro».
Quello era stato il discorso più contorto e incomprensibile che avessi mai avuto con Kidd, dato che non avevo capito cosa intendesse e a cosa si stesse riferendo, ma quando affermò di aver capito quel non so cosa di cui stava parlando guardò davanti a sé e annuì comprensivo, mettendosi a sghignazzare e allontanandosi verso Law che gli stava dando le spalle. Guardando nella direzione che mi aveva indicato notai che Marco aveva appena distolto lo sguardo da me, iniziando a grattarsi imbarazzato quell’assurdo ciuffo di capelli biondi e, anche se credevo di sbagliarmi, mi sembrò di vederlo arrossire. Che Kidd si stesse riferendo al fatto che fossi a torso nudo e che qualcuno se ne fosse accorto? Preferii non pensarci per non dovermi arrovellare il cervello con strane ipotesi e per proteggermi dal farmi inutili illusioni.
«Scusami il disturbo, non era mia intenzione venire qui a creare scompiglio» mi aveva detto Marco prima di andarsene, una volta sulla soglia della porta e con la punta bianca del buffo cappello che gli ricadeva da un lato del collo.
«Non preoccuparti, scusaci tu se ti abbiamo traumatizzato» gli avevo risposto, trovandomi di nuovo solo con lui e stranamente meno arrabbiato o triste di quello che avevo immaginato e che mie ero aspettato.
«Niente che non abbia già visto» scherzò, «Ora sarà meglio che vada. Grazie per, beh, per…». Non aveva aggiunto altro ed era rimasto in silenzio lasciando la frase a metà, anche se dal suo sguardo capivo benissimo che stava cercando le parole adatte da aggiungere. Così eravamo rimasti a guardarci e, anche se solo per un misero istante, i suoi occhi si erano posati sulle mie labbra ed io mi ero sentito un brivido scorrere come un fulmine lungo tutta la schiena. Solo allora, anche se nessuno dei due pareva voler rompere quel silenzio, prese un profondo respiro per poi salutarmi.
«Buonanotte Ace». E lo aveva detto in un modo così semplice, così dolce, così bello che mi aveva fatto male, male perché mi ero maledettamente innamorato di lui, nonostante sapessi che non sarebbe cambiato nulla tra di noi.
«B-buonanotte» gli avevo risposto, maledicendomi per il mio tentennamento e guardandolo allontanarsi.
Sospirai stancamente, scompigliandomi i capelli per impormi di non ripensarci più e sbadigliando sonoramente mentre entravo in cucina dove Sanji si stava dando da fare con lo spremiagrumi e la colazione. Una cosa buona nel passare le vacanze con loro era il fatto che tutti facevano qualcosa di utile per gli altri. Ci prendevamo cura a vicenda, come una grande famiglia e, sapendo che quella sera saremo stati tutti assieme a festeggiare l’inizio di un nuovo anno, uniti come sempre, sorrisi rinfrancato, permettendo all’eccitazione generale che aleggiava nell’aria e negli animi di chi era già sveglio di coinvolgermi e darmi un motivo per tornare ad essere allegro. Non importava se Marco ci sarebbe stato o meno, quelli che contavano erano mio fratello, i miei amici e la mia famiglia, coloro che mi volevano bene per quello che ero, coloro per i quali valevo qualcosa e che non mi avrebbero mai abbandonato.
«Ace?». La testolina di Rufy fece capolino da dietro la porta e i suoi occhi profondi e imploranti si posarono sui miei, «Sei ancora arrabbiato con me per la storia di Marco? Perché se è così vado a dirgli che stasera non facciamo nulla».
A sentire le sue parole scoppiai a ridere. Primo perché in quei giorni gli avevo tenuto un po’ il muso per fargli capire che doveva smettere di fare sempre di testa sua, anche se sapevo che era difficile fargli cambiare idea, e secondo perché non sarebbe stato cortese ritirare l’invito fatto ad una persona. Pensandoci bene, anche se mi costava molto ammetterlo, perciò cercavo di non farci troppo caso, covavo ancora la piccola speranza che le cose si potessero risolvere per il meglio.
«Vieni qui, idiota» feci scherzoso, venendo investito all’istante dall’abbraccio stretto e affettuoso di quello scalmanato, sentendomi amato e al mio posto.
«Mi farò perdonare, vedrai» promise Rufy con entusiasmo, «Farò capire a quella testa d’ananas quanto sei speciale e cosa si sta perdendo!».
Prima che potessi dargli uno scappellotto in testa, arrivò anche Law a dargli man forte con addosso i pantaloni del pigiama e una maglia piuttosto grande per essere sua.
«Rufy ha ragione» disse, iniziando a ghignare già di prima mattina, «Se solo sapesse cosa si perde sotto le coperte».
«Dannazione, dateci un taglio!».

* * *

L’Inferno. Quella giornata era stata niente meno che l’Inferno. Il modo peggiore di vivere l’ultimo dell’anno era toccato proprio a me, che di pazienza e buona volontà non ne avevo affatto.
Ero stato scelto per accompagnare il gruppo destinato agli acquisti per la festa imminente, nonostante sapessero benissimo che io odiavo letteralmente i centri commerciali. Troppa gente stupida, troppi vecchi e, soprattutto, troppi mocciosi. L’unica cosa buona che era successa era stata la possibilità di scegliere gli alcolici per la serata, quindi mi ero dato alla pazza gioia assieme a Killer mentre gli altri pensavano alle quantità industriali di cibo che avrebbero dovuto comprare se non volevano rimanere a stomaco vuoto per colpa di Rufy, un impiastro senza precedenti. Il mio compare ed io non avevamo badato a spese e avevamo preso tutto il necessario per dimenticare persino i nostri nomi e ritrovarci il giorno dopo dentro ad una vasca da bagno con un sombrero in testa. Sicuramente quella notte sarebbe successo l’impensabile.
Infatti, in quell’esatto momento, sembravano già tutti più che intenzionati a strafare. L’appartamento aveva mantenuto le decorazioni natalizie e vi era stato aggiunto solo qualche festone in più, oltre ai coriandoli, trombette fastidiose e gadget a tema, mentre quel pomeriggio, assieme a Ace e Zoro, avevo terminato i graffiti su una parete libera del salotto. Un capolavoro, per la precisione, dato il mio talento innato per imbrattare le strade con disegni, simboli, scritte e quant’altro.
Sanji stava finendo di preparare la cena e, per fortuna di tutti e sotto richiesta esplicita di Bepo e Trafalgar, aveva bandito Penguin-nanerottolo dalla cucina; le due ragazze in abiti che avrebbero dovuto essere illegali tanto erano succinti, stavano discutendo con Brook per scegliere la musica; Usopp e Chopper, consigliati da Rufy, decidevano a cosa sfidarsi dopo cena sfogliando una lista infinita di giochi di dubbia moralità e per niente sicuri. Guardandomi ancora attorno notai Killer che metteva a disposizione del cuoco il suo tanto apprezzato regalo di natale, ovvero il famoso set di coltelli per il quale tanto mi aveva ringraziato, anche se non era tutto merito mio, dovevo ammetterlo.
Il campanello suonò in quel momento e, sapendo già di chi si trattasse, mi schiodai dal divano, assicurandomi di mettere in pausa la partita a cui stavo giocando, diretto verso la porta. Quando la aprii mi ritrovai davanti un completo idiota, anche se non potevo di certo dirglielo in faccia, con degli occhiali da sole stile vintage e un ciuffo di capelli azzurri brillantinati che avrebbe fatto impallidire tutto il cast di Grease. Sapendo che il mio capo era solito passare le feste da solo, non avendo famiglia o parenti vicini, l’avevo invitato non appena avevo ottenuto il consenso da parte dei padroni di casa e lui, per ringraziare tutti, stava sulla soglia con una cesta enorme di vivande e bottiglie di vino che, sicuramente, sarebbero state svuotate nel giro di qualche ora.
«Ciao Franky» lo salutai, incitandolo ad entrare, «Come te la passi?».
«Sto Suuuper, fratello!». Quell’uomo, quando non era a lavoro, aveva un modo piuttosto espansivo e amichevole con cui relazionarsi, per questo ero certo che non avrebbe avuto problemi a fare conoscenza con il resto dei presenti. Infatti, dopo solo una mezz’ora da quando erano avvenute le presentazioni, stava già ridendo e scherzando con tutti mentre io me ne ero tornato a giocare con il mio nuovissimo videogioco.
«Non avevi detto che non ci avresti mai giocato perché ti faceva schifo?».
«Chiudi il becco, Trafalgar» grugnii stizzito. Quell’impiastro mi aveva regalato per natale Assassin’s Creed Black Flag, cosa che avevo desiderato non appena avevo saputo della sua uscita, ma di certo non avrei potuto dirgli che quello era stato il regalo più bello che avessi ricevuto da quando avevo dieci anni e avevo trovato sotto l’albero un robot da costruire. Figuriamoci, si sarebbe dato un sacco di arie, mi avrebbe preso in giro e non avrebbe smesso un secondo di assillarmi e soffocarmi con quelle sue dannate frecciatine. Ero stato tentato di regalarmi dei tappi per le orecchie per non starlo a sentire, solo che alla fine avevo lasciato perdere, sicuro che me ne sarei pentito.
«Eustass-ya?».
«Ma che vuoi? Non vedi che sto squartando quel pezzente di un ammiragl…».
Protestare non sarebbe servito a niente perché quell’insolente fastidioso mi aveva afferrato per i capelli, tirandoli leggermente, e mi aveva zittito con un bacio piuttosto esplicito, tanto che decisi di abbandonare momentaneamente la missione suicida che stavo conducendo per sentire cosa aveva da proporre con quel gesto.
«Non è ancora mezzanotte» gli feci notare, afferrandogli il mento tra le mani e scostandolo un po’ per guardarlo in faccia mentre ghignava divertito.
«E allora?».
«D’accordo, andiamo ad anticipare i botti».
«Ehi Rufy, fai un’imitazione di Kidd!».
«Si, si, fallo!».
A quelle parole Law sembrò perdere totalmente l’interesse nei miei confronti e, appoggiando il volto allo schienale con l’aria di chi sapeva esattamente quello che stava per succedere, si voltò a guardare il gruppetto di ragazzi che si erano riuniti accanto al camino e che, su richiesta di Usopp, incitavano il più matto di tutti a fare una mia imitazione.
Li fulminai con lo sguardo uno ad uno mentre Rufy annuiva convinto e chiedeva al nasone di prestargli i suoi occhiali, mentre si leccava una mano per passarsela tra i capelli in modo da sollevarli in aria nell’intento di farli assomigliare ai miei. Come se non bastasse, anche se non potevo vederlo in faccia, ero certo che quel bastardo di Trafalgar stesse godendo come una puttana nel vederli prendermi in giro così apertamente. Per poco non distrussi il joystick lanciandolo contro la parete. Intanto Rufy si era messo tra le dita forchette e coltelli e, evidenziandosi le labbra con il rossetto prestatogli da Robin, assunse un’espressione che voleva essere omicida e iniziò a sfottermi senza ritegno, facendo scoppiare a ridere tutti, Law compreso il quale, ignorando il mio scatto d’ira, affondò il viso nei cuscini per trattenersi.
«Ucciderò chiunque riderà di me» disse quel babbeo, con una smorfia malefica e una voce rauca e profonda che servì solo a rendere il tutto più comico e assurdo.
«Infatti adesso ti ammazzo, moccioso!» tuonai, afferrando il piccoletto per la collottola della maglia e alzandolo da terra con l’intento di lanciarlo fuori dalla finestra. Il quel momento arrivò Sanji dalla cucina con le mani che trasportavano vassoi pieni di buon cibo e, non appena vide la scena che si stava svolgendo, non mancò di dire la sua.
«Ohi, Rufy, non giocare con le posate!».
«Sanji, non assomiglio a Eustachio?» rispose invece l’altro.
Dopo un’attenta occhiata da parte del biondo, anche lui fece un cenno di assenso trattenendo un sorrisetto ilare per poi dirigersi verso il tavolo e continuare il suo servizio.
«Ace, posso frantumare le ossa a tuo fratello?» domandai ad uno dei ragazzi che meno mi stava antipatico. Tra loro, lui sembrava il più propenso a mettersi nei guai, nonostante fossero tutti delle teste calde. Mi diede il permesso con un’alzata di spalle e un’espressione allegra mentre il minore non faceva altro che sghignazzare non sentendosi minimamente in pericolo.
«Ti credi tanto spiritoso?».
«Fatti avanti, tanto ti polverizzo, wowowo» ebbe il coraggio di ribattere, sempre imitando il mio tono aggressivo e continuando ad essere fonte di risate. La mia faccia, invece, era furibonda e fremevo d’impazienza per la voglia di prenderlo a pugni come un sacco da boxe.
Proprio quando stavo per perdere ogni briciolo di lucidità la cena fu annunciata e tutti si affrettarono a sedersi a tavola con l’intenzione di non rimanere con il piatto e lo stomaco vuoto. Persino Rufy si divincolò dalla mia presa con un’abilità innata e si fiondò a sedersi, iniziando ad afferrare carne a destra e a manca sotto i sorrisi e la spensieratezza di tutti.
Sbuffando senza sosta li imitai anche io e il mio nervosismo si abbassò di qualche punto quando, una volta finito di mangiare, il clown improvvisato riprese a fare l’imitazione dei presenti, Trafalgar compreso. Quello si che servì a farmi tornare il ghigno in faccia mentre, accanto a me, il diretto interessato se ne stava imbronciato con le braccia incrociate al petto e un cipiglio che prometteva solo guai.
«Eustass-ya è un idiota» stava dicendo il piccoletto con il cappello del chirurgo in testa e solo allora Law diede segno di apprezzare la cosa, anche se, ovviamente, questo non fece altro che indispettirmi di nuovo. Assomigliava anche troppo a quel sadico stronzo che continuava a sghignazzare senza ritegno e la frase era così famigliare che non mi stupii nel constatare che non la diceva solo in mia presenza ma ogni volta che poteva screditarmi. Quando però mi stavo arrendendo all’inevitabile tortura che quel ragazzino stava portando avanti, quest’ultimo se ne uscì con una battuta piuttosto interessante se si teneva conto che stava ancora continuando ad imitare Trafalgar, il quale si zittì all’istante.
«Quel rosso isterico di cui stai parlando è il mio ragazzo, quindi tieni a freno la lingua, Penguin».
Sulle mie labbra prese forma un sogghigno soddisfatto mentre Ace, seduto davanti a me, tossicchiava per nascondere un l’imbarazzo e lanciava occhiate preoccupate prima a Law e poi a suo fratello che, inconsapevole del guaio in cui si stava cacciando, non sembrava capire la gravità della situazione e continuava a mettermi al corrente di certi discorsi piuttosto interessanti.
Allora mi voltai con il busto verso Trafalgar che aveva tutta l’aria di voler essere inghiottito dal pavimento, anche se, ovviamente, orgoglioso com’era, mantenne fino alla fine una faccia seria e uno sguardo di ghiaccio, nonostante le sue labbra, sebbene serrate, fremessero lievemente.
«Il tuo ragazzo, eh?» dissi semplicemente in modo fintamente casuale e guardandolo in attesa di una sua qualche risposta velenosa o tentativo di smentita.
Non disse nulla invece e si limitò solo a sospirare in modo teatralmente esasperato per poi spiegare più pacato possibile che, come ogni volta, Rufy aveva frainteso e storpiato tutto ciò che era arrivato alle sue orecchie, stuzzicando la sua attenzione.
«Veramente io avevo detto ‘in un’altra vita quel rosso isterico di cui stai parlando, Penguin, non era un ragazzo, ma una Drag Queen’» spiegò, riacquistando un po’ di quella spavalderia che lo caratterizzava e ammiccando in direzione del suo amico nanerottolo che rispose al volo con un cenno affermativo del capo, come se volesse confermare le parole del moro.
Quello esasperato dovevo essere io, altro che lui.
Una volta che tutti si furono alzati ed ebbero spostato i loro interessi altrove e non più soltanto sulla capacità piuttosto carente di Rufy nell’imitare i suoi amici, soprattutto dopo che osò troppo nell’imitare Nami e la sua fissazione per i soldi, infilandosi addirittura due arance dentro la maglia per evidenziare meglio la sua femminilità e beccandosi in risposta un violento ceffone, io potei seguire indisturbato quel demonio da strapazzo e bloccargli la strada una volta nel corridoio che dava alle camere da letto.
«Hai qualcosa di non stupido da dire, Eustass-ya?» sfotté il bastardo, voltandosi a guardarmi con le mani in tasca e l’aria rilassata, per niente toccata dalla mia iniziativa e dall’espressione poco cordiale che stavo sfoggiando.
Chiusi la porta del bagno che stava aprendo, tenendola bloccata con un braccio, e gli fui a meno di un centimetro di distanza, chinandomi un poco per essere faccia a faccia con lui e lanciargli un’occhiataccia torva, davanti alla quale, come al solito, non fece una piega. Se possibile, il suo ghigno si allargò ulteriormente.
«Non mi sembra di averti dato il permesso di sfottermi quando ti pare e piace» gli feci notare seccamente. Quel discorso lo avevamo affrontato migliaia di volte e mai ero riuscito a ficcargli in testa che con me non doveva tirare troppo la corda. Col fuoco non si giocava, ma sembrava intenzionato ad infischiarsene e a non volerlo proprio capire.
«E di fotterti si, invece?» domandò malizioso, o lo sarebbe stato se sono non avesse inarcato un sopracciglio in modo sarcastico e non mi avesse scoccato uno sguardo derisorio. Non smetteva di prendersi gioco di me per il semplice motivo che le mie reazioni lo divertivano ed io, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a mantenere la calma e schizzare male era più forte della mia buona volontà.
Mi schioccai le nocche e digrignai i denti, «Vedi di darci un taglio, moccioso» ringhiai, «Oppure…».
«Oppure cosa?» sibilò in risposta, guardandomi con due occhi di ghiaccio velatamente minacciosi.
«Finirò per farti a pezzi io».
«Ti ho già massacrato una volta, Eustass-ya, non farmelo rifare».
«E’ passato un po’ di tempo da allora».
Si passò lentamente una mano fra i capelli neri, scompigliandoli leggermente, «Se insisti tanto…» iniziò a dire, ma non concluse mai la frase perché, fingendo indifferenza, mi indirizzò ad un tratto un calcio che, se non avessi fermato, mi avrebbe fatto sbattere violentemente la testa contro il muro.
«Non male, ma non è abbastanza». Gli afferrai la caviglia con suo stupore e diedi uno strattone deciso che lo sbilanciò e lo fece cadere in avanti, direttamente addosso a me e, come avrebbe detto qualsiasi antagonista in un film, tra le mie grinfie.
«Va’ al diavolo» imprecò, cercando, inutilmente, di liberarsi, cosa che non gli sarebbe risultata per niente facile e non ci sarebbe riuscito nemmeno tanto presto.
«Che fretta c’è? Abbiamo un conto in sospeso tu ed io». Così dicendo lo spinsi senza tante cerimonie nella prima stanza che trovai e chiusi a chiave. Il bagno sarebbe rimasto occupato per un bel po’.
 
* * *

In Paradiso. Io sarei sicuramente finito in paradiso per la mia infinita pazienza.
Sapevo che non era una buona idea, le idee di Thatch non erano mai buone per l’esattezza e non avevano nemmeno un buon finale, ma questa volta non era tutta farina del suo sacco, dato che l’invito di passare da quelle parti anche la sera di capodanno mi era stato fatto da Rufy e dalla sua allegra compagnia al completo, quindi ero leggermente propenso a sperare per il meglio. Che poi la decisione di accettare o rifiutare fosse stata solo mia questo era vero, ma qui entrava in scena quell’impiastro e, prima che me ne potessi rendere conto, mi ero ritrovato in macchina con lui diretto nientemeno che a casa di Ace con una faccia che dire corrosa dall’ansia e dal dubbio era dire poco. Accanto a me Thatch, al contrario, era radioso come un fiore in primavera e non faceva altro che canticchiare le canzoni che davano alla radio e ripetere quanto ci saremo divertiti quella sera. Non aveva ancora capito che lui se ne sarebbe ritornato a casa sua e non avrebbe contribuito a mettermi nei casini con la sua linguaccia e la sua presenza. Mi stava accompagnando solo perché non ero riuscito a togliermelo di dosso e a fargli abbandonare il suo proposito di guidare perché, secondo lui, io avevo bevuto troppo per non rischiare di fare un incidente. Due birre non avevano mai ucciso nessuno, almeno così credevo, e se avessi saputo cosa mi aspettava quella notte mi sarei sicuramente scolato due bottiglie di vodka liscia da solo.
«Piantala con quel muso lungo, mica stiamo andando a morire» si lamentò ad un tratto, guardandomi con la coda dell’occhio mentre faceva un sorpasso piuttosto rischioso in curva. Per scaramanzia e per abitudine mi portai distrattamente una mano al basso ventre. Con lui al volante non si poteva mai sapere.
Per grazia di qualche entità che non aveva ancora determinato la mia ora, arrivammo sani e salvi nel quartiere giusto dove parcheggiammo poco distante dall’appartamento in questione. Decidermi a scendere dalla macchina, però, fu un bel paio di maniche.
«Dio mio, Marco, sei proprio un rotto nel culo!».
«Tu sei un palo nel culo, invece» ribattei con sarcasmo per evidenziare quanto fosse impossibile.
«Beh, modestamente» iniziò a vantarsi con fare malizioso, così decisi che, piuttosto di aspettare che iniziasse uno dei suoi discorsi sulle prestazioni sessuali di tutta la famiglia, uscii dall’auto sbattendo scocciato la portiera e mi diressi a passo svelto verso l’edificio dove, al terzo piano, si potevano scorgere luci multicolore e dei coriandoli volare fuori da una delle finestre aperte. Notai, però, che Thatch seguitava a starmi dietro e camminava a pochi passi da me con l’aria allegra e festosa, tanto che fece finta di nulla davanti alla mia faccia interrogativa. Dove credeva di andare?
Fermai la sua avanzata premendogli una mano sul petto prima che mi sorpassasse e gli chiesi che razza di intenzioni aveva. Sarebbe dovuto tornare diretto a casa dopo avermi accompagnato e non esisteva che rimanesse anche lui. Non erano i patti.
«Ti accompagno su, mi assicuro che tutto sia normale e poi me ne vado» assicurò sorridente e con due occhi innocenti che non mi incantarono minimamente. Sapevo che non me la raccontava giusta, ma non avevo tempo da perdere a litigare con lui, così lasciai che mi seguisse fino al terzo piano con la speranza che mantenesse la sua parola e che non mi scombinasse niente. Non avevo tenuto conto, però, del fattore Rufy.
Ad aprire quella sera fu proprio lui e si presentò a noi con un cappello di paglia in testa, un paio di occhiali ai quali erano attaccati un naso, dei baffi e delle sopracciglia finte che lo facevano sembrare un vecchietto rachitico. Non appena mi riconobbe si tolse tutto e mi dedicò un sorriso ampio, trattenendosi a stento dal saltarmi in braccio perché alle sue spalle spuntò la faccia curiosa di Ace, il quale sembrò impallidire quando ci vide, anche se non ne ero del tutto certo perché si trovava in penombra a causa della poca luce nel corridoio d’entrata. Quella volta la maglia aveva proprio dimenticato di indossarla.
«Marco!» stava dicendo intanto con entusiasmo il più piccolo, guardandomi come se fossi un’apparizione e, per mia sfortuna, attirando l’attenzione di Thatch vicino a me che ebbe la bella idea di rivelare la sua presenza entrando in scena con una risata tutt’altro che tranquillizzante. Una cosa in cui sembrava essere un mago era capire al volo come stavano certe cose.
«Uh? E tu chi sei?» chiese Rufy con aria perplessa, grattandosi una guancia e fissando il castano che, con le mani sui fianchi, si chinava su di lui con un ghigno divertito.
«Sono Thatch, il fratello di Marco che, per la cronaca, vuole portarsi a letto quello che immagino essere il tuo fratellone».
Fu così che Thatch e Rufy divennero amici inseparabili.
Ace si precipitò ad agguantare il piccoletto per le spalle e lo spinse con energia nell’altra stanza dove tutti sembravano concentrati in una gara di tiro a segno a giudicare dal rumore di spari, mentre io mi limitavo a fulminare quello che si definiva uomo accanto a me con un’occhiata che di amore fraterno non aveva proprio nulla, anzi, se solo gli sguardi avessero potuto uccidere!
«Ehm, ehilà ragazzi!» improvvisò Ace, grattandosi convulsamente la testa e cercando di non dare a vedere l’evidente imbarazzo che stavo provando pure io, «Che piacere vedervi».
«Oh, lo immagino» ammiccò Thatch, non capendo che l’unica cosa che doveva fare era starsene zitto come un morto.
«Ace falli entrare! Thatch ti va di giocare con noi? Si? Dai, vieni!». E, per mia immensa sfortuna e con grande piacere di quello che non avrei più chiamato fratello, Rufy riuscì ad afferrare un braccio dell’imbecille che mi aveva accompagnato, tutto felice per l’andamento della situazione, e lo trascinò all’interno dell’appartamento dove lo presentò al resto dei presenti con il suo solito entusiasmo, mentre il nuovo arrivato salutava tutti e spiegava il suo grado di parentela senza sentirsi fuori luogo.
«Si, sono il fratello di Marco e, con ogni probabilità, il futuro cognato di Ace».
«Quindi tu ed io saremo in qualche modo imparentati?».
«Puoi dirlo forte ragazzino! Sempre che tuo fratello sia intenzionato a stare con il mio».
«Sicurissimo! Non parla d’altro ormai!».
Mi schiaffai una mano sul viso, sospirando disperato, tanto che un lamento mi uscì di bocca mentre, sulla soglia, Ace scaricò la tensione tirando un pugno seccò al muro e sembrava andare a fuoco tanto era arrossito.
Quando l’attenzione nelle altre stanze si spostò altrove trovai il coraggio, dopo la difficile scelta tra rimanere o andarmene all’istante, di aprire bocca e cercare di sistemare almeno un po’ le cose, anche se sembrava un’impresa impossibile dopo la più grande e colossale figura di merda che avevo mai fatto in vita mia. E, con una famiglia come quella in cui vivevo io, ne avevo fatte veramente tante.
«Io…» iniziai, per poi sospirare affranto, scuotendo il capo, «Non so cosa dire».
«Nemmeno io a dire il vero» farfugliò Ace, allibito quanto me, «Vorrei sotterrare mio fratello minore».
«Credimi, io non voglio fare altro da una vita» gli assicurai, riuscendo a strappargli un piccolo sorriso e alleggerendo un pochino la tensione causata dalle insinuazione che i due nuovi e grandi amici avevano fatto su di noi.
«Senti» disse, dopo qualche altro minuto di pesante silenzio durante il quale ci eravamo guardati i piedi, indecisi su come affrontare il tutto, «Visto che ci sei approfitterò per chiarire una cosa».
Deglutii a fatica, cercando di ignorare lo stomaco in subbuglio. Gli feci comunque cenno di continuare e, dopo un profondo respiro, riprese da dove aveva lasciato.
«So che probabilmente mi ritieni un semplice ragazzino con la testa fra le nuvole e senza il minimo senso del dovere e la giusta percezione del mondo» disse pacato, ma deciso, «Ma sappi che non sono uno stupido e che il mio interesse nei tuoi confronti non è, scusa, non era una cosa passeggera o semplice curiosità, altrimenti avrei smesso di passare al bar e cercare con tutte le mie forze di farmi notare da te parecchio tempo fa».
Dire che rimasi spiazzato nell’udire il suo discorso, il primo, vero e serio discorso che gli avevo mai sentito fare, era dire poco. Mi lasciò completamente senza parole e senza la minima idea su cosa ribattere per fargli capire che se ero lì quella notte era per una buona causa, anche se doveva averlo capito. Nessuno avrebbe mai fatto tanto se non per una valida ragione. Quello che mi tratteneva, però, erano le sue parole pronunciate al tempo passato, nonostante il lieve tentennamento che mi era parso di percepire.
«Ma sei stato molto chiaro nell’esprimere quello che pensi a riguardo» aggiunse, mordendosi un labbro e abbassando per un momento lo sguardo, «Ed io ti rispetto. Il mio comportamento è stato esagerato e fuori luogo, ma ti assicuro che non si ripeterà. Puoi stare tranquillo, davvero». Quando rialzò gli occhi mi rivolse un sorriso che mi sembrò costargli parecchio, anche se fece di tutto per non darlo a vedere. Non ci riuscì, purtroppo. I suoi sorrisi erano ciò che più mi avevano colpito di lui, sapevo quindi riconoscere quando erano sinceri e genuini. Questo, invece, aveva tutt’altro sapore.
«Amici?» chiese, ostentando allegria, quando in realtà tutto di lui gridava tristezza. Era l’esatto riflesso dell’umore triste e abbattuto che aveva la prima volta che ci eravamo visti ed io, per risollevargli il morale, gli avevo offerto un caffè. Per quanto in quel momento volessi fare l’impossibile per fargli tornare quella solarità che sempre lo caratterizzava, non presi nessuna iniziativa. Se il suo desiderio era di rimanere amici allora l’avrei rispettato. Dopotutto, non potevo pretendere altro dopo il modo in cui mi ero comportato e alla fine saremo rimasti dei semplici conoscenti, anche se non era ciò che volevo, non più almeno. Se l’amicizia mi fosse bastata avrei smesso di pensare a lui molto prima di allora.
«Amici» sussurrai, cercando di risultare contento e stringendogli la mano.
«Ma dove sono finiti quei due?» farfugliò qualcuno nel salone.
«Si stanno chiarendo, ne avranno per un po’ quindi». Ovviamente Thatch non sembrava ancora intenzionato a chiudere il becco.
«Cosa intendi dire?». Sperai almeno che non si mettesse a spiegare per filo e per segno le sue insinuazioni poco caste al fratellino di Ace, altrimenti non sarebbe passato molto tempo prima che ci sbattessero fuori casa. Lui, di certo, se lo meritava per tutto il casino che aveva combinato.
 
* * *

«Buon Compleanno!» urlammo tutti non appena scoccò la mezzanotte e i fuochi d’artificio di Ace iniziarono a sfrecciare con un sibilo alti nel cielo scuro, illuminando il buio della notte e il tetto dell’appartamento dove ci eravamo recati per festeggiare l’inizio del nuovo anno e, soprattutto, il compleanno di uno dei nostri scapestrati amici. Per la precisione il piromane di turno che ci fissava sorpreso e con un sorriso che andava via, via allargandosi davanti agli applausi e ai festoni che gli lanciammo addosso, per non parlare della bottiglia di spumante che venne stappata in suo onore e che lo investì come un’onda dalla testa ai piedi rendendolo fradicio. A giudicare dalla sua espressione non se lo aspettava e, dopo essersi stropicciato gli occhi ci rivolse uno sguardo carico di ringraziamenti e di affetto, tanto che fu difficile persino per me mantenere il mio solito cipiglio ghignante. Dopotutto, Ace era forse una delle persone migliori che avessi mai conosciuto.
«Tantissimi auguri fratellone!» urlò Rufy, saltando al collo del fratello nonostante fosse gocciolante e mezzo arrostito a causa degli unici due fuochi andati a vuoto. Inutile dire che ciò non tenne a bada nessuno e, uno dopo l’altro, addirittura tre o cinque alla volta, gli si fecero attorno per abbracciarlo e, in questo modo, rischiarono anche di soffocarlo.
Nami e Robin lo riempirono di baci; Franky, con il quale aveva subito legato, e Killer gli diedero un’amichevole pacca sulla spalla e Kidd fece altrettanto, rischiando però di mandarlo a sedere per terre data la forza che mise in quel gesto all’apparenza affettivo. Non voleva fargli male intenzionalmente, era solo il suo modo per esprimere la sua amicizia. Chopper, Usopp e Brook gli girarono attorno e gli strinsero la mano, destra e sinistra contemporaneamente; Zoro e Sanji lo presero un po’ in giro e tentarono di tirargli le orecchie, mentre Bepo Penguin ed io, quando fu il nostro turno, ci avvicinammo a lui con un pacchetto regalo ben incartato che gli porgemmo sotto agli occhi, incitandolo ad aprirlo.
Insistendo nel dire che non c’era bisogno di disturbarsi e che a lui bastava la nostra amicizia, era sempre stato un tipo piuttosto semplice e sentimentale e, ripeto, per questo un po’ stupido, scartò il regalo con imbarazzo dato che tutti gli sguardi erano puntati su di lui e la sorpresa fu tanta che temetti di vederlo piangere per la felicità.
«Questa… Questa é… E’ davvero…» faticò a dire.
«Penso proprio di si» concluse Penguin per lui allegramente, sollevando i pollici fasciati dai guanti in segno affermativo. «Sapevamo che ci tenevi molto, così abbiamo chiesto a Rufy di trovarla e l’abbiamo riparata».
Si trattava nientemeno che di una grossa collana con delle perle lisce e rosse che Ace portava con sé fin da quando era bambino. Avendolo noi conosciuto quando ormai era già un ragazzo fatto, finito e spericolato, non avevamo potuto vedergliela attorno al collo perché, stando a quello che ci raccontò, si era rotta e lui non era più riuscito ad aggiustarla. Non l’aveva comunque buttata via e l’aveva tenuta a casa di suo nonno per tutto quel tempo, dimenticando però dove l’avesse nascosta e rattristandosi ogni volta che ci pensava. Allora avevamo ingaggiato Rufy chiedendogli di impegnarsi in quella ricerca dato che viveva ancora sotto lo stesso tetto del vecchio Garp essendo ancora minorenne e, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, l’aveva trovata in cantina sotto alle assi del pavimento e ce l’aveva portata in gran segreto.
«Volevamo farti una sorpresa e Law sapeva che ci tenevi molto» aggiunse Bepo, annuendo dolcemente, cosa tipica del suo carattere gioviale, mentre Ace alzò lo sguardo, puntandolo verso di me e l’amicizia che mi trasmise valeva più di mille parole.
Mi strinsi nelle spalle e sorrisi spavaldo, rispondendo al suo ringraziamento silenzioso. «Non c’è di che».
La indossò subito e non smise un attimo di ridacchiare fra sé, rigirandosi tra le dita le pesanti perle con gli occhi che brillavano per l’emozione. Gli altri non potevano saperlo, tranne forse Rufy, ma quella collana era l’unico ricordo che gli era rimasto di sua madre, per questo ci era così affezionato.
I fuochi d’artificio, nel frattempo, esplodevano sopra le nostre teste grazie al congegno da lui inventato, l’Automatic Fire Due, il secondo prototipo spara-fuochi che aveva programmato dopo il fiasco di quello che ci aveva presentato l’anno precedente. A quanto pareva sembrava aver capito cosa era andato storto e aver sistemato i difetti dato che filava che era una meraviglia e migliaia di scintille si frangevano nell’oscurità.
Anche se non erano affari miei, non potei fare a meno di notare come Thatch, il famoso fratello di Marco di cui Ace mi aveva accennato lo stesso giorno in cui lo aveva conosciuto per caso al bar dove lavorava il biondo, abbracciasse il festeggiato senza esitazioni, sollevandolo da terra di qualche centimetro e stritolandolo tra le sue braccia come se fosse stato una piovra. Dietro di lui stava Marco, il quale aveva un’espressione sperduta. Infatti, quando il moro smise di soffocare il mio coinquilino, questo si fece avanti e chiese spiegazioni. Evidentemente non era al corrente del fatto che il primo giorno dell’anno fosse anche il compleanno di quel piromane.
«Non hai nulla da dirmi?» lo sentii chiedere in tono scherzoso.
«Ecco, beh, a proposito di questo…».
Ormai ero sempre più convinto di essere destinato a condurre una vita circondata da persone dalla personalità imprevedibile e assurdamente strana e particolare, insomma, erano uno peggio dell’altro. Per non parlare di quell’esaltato di Eustass-ya. A proposito, dov’era?
Adocchiare una chioma fulva non fu difficile e fu solo questione di secondi. Il diretto interessato era intento a girare attorno all’affare infernale di Ace, guardandolo e studiandolo con aria critica e interessata. Non era la prima volta che lo vedevo così attratto da qualcosa che riguardasse la meccanica, non per niente lavorava in un’officina, ma ero convinto che il suo interesse fosse più profondo.
«Dì un po’, non hai mai pensato di seguire un corso a riguardo?» chiesi disinvolto quando gli fui alle spalle, facendolo sussultare anche se non mi degnò nemmeno di un’occhiataccia.
«Che diavolo stai dicendo?».
«Semplicemente che saresti ancora in tempo per studiare la materia, se ti piace».
Ci rifletté per qualche minuto, continuando a gironzolare in tondo e stupendomi parecchio dato che lui non si fermava mai a riflettere su quello che gli altri dicevano o sui consigli che riceveva, soprattutto se le proposte venivano da me. Iniziai a sperare che forse l’anno nuovo stava portando dei cambiamenti positivi in lui.
«Nah, non ho tempo da perdere con libri e stronzate varie come fai tu» sbottò infine, mandando in frantumi le mie speranze anche se, a giudicare dallo sguardo vagamente indeciso che colsi in lui, non ne era del tutto convinto. Questo mi permise di non darmi subito per vinto.
Ora la sua attenzione era totalmente rivolta verso di me e il buonumore sembrò tornargli all’istante dato il sorriso che gli si dipinse in volto mentre, con le mani nelle tasche del giaccone, mi raggiungeva con poche falcate arrivandomi vicino e sovrastandomi con la sua stazza, sapendo benissimo che dover alzare il capo verso l’alto per guardarlo mi dava un certo fastidio, nonostante non volessi ammetterlo.
In quel momento, con sorpresa di tutti, ricominciò a nevicare dopo due giorni di stallo e nuvoloni grigi che avevano ricoperto sole, luna, stelle e tutto quello che gli andava dietro. I fiocchi scendevano inesorabili e piuttosto frequenti e, sicuramente, di lì a qualche ora sarebbe stato tutto ricoperto di bianco e il giorno seguente si sarebbe presentata l’occasione ideale per una battaglia a palle di neve epica.
«Beh» borbottò Kidd, spolverandosi il naso sul quale si era posata un po’ di soffice neve, «Alla fine l’anno nuovo è arrivato».
«Davvero? Non me ne ero accorto» scherzai, vedendolo sbuffare e adocchiando un certo rossore imporporargli le guance. Se gliel’avessi fatto notare avrebbe sicuramente dato la colpa al freddo anche se era avvolto dal giubbotto, dai guanti e da una sciarpa pesante.
«Stai cercando di farmi gli auguri, Eustass-ya?» ipotizzai, venendo al dunque per lui e rendendogli le cose facili una volta tanto. Non era mai stato bravo ad esprimere certe cose e, molto spesso e per mio divertimento, ero io a completare le frasi per lui mettendolo inevitabilmente in imbarazzo.
«Più o meno» mugugnò, spostando lo sguardo altrove e strofinando la punta di un piede sul cemento.
«E vorresti anche dirmi che sei contento di iniziarlo con me?».
«Tzé, ti piacerebbe!» sbottò, non tollerando le mie insinuazioni e infervorandosi, mentre io non la smettevo di sghignazzare davanti ai suoi scarsi tentativi di essere gentile. Tentativi che, quando metteva in atto, mi facevano stranamente piacere.
«Ragazzi! Buon anno! Vi voglio tanto bene!». Rufy, con tutto l’entusiasmo di cui era capace, si tuffò tra noi e passò le sue braccia sulle nostre spalle, ridacchiando contento e ripetendo quanto contassimo per lui e come lo rendessimo sempre allegro e sorridente.
«Siete i migliori e non conosco nessuno più innamorato di voi due!».
«Ma che cazzo dice questo!» iniziò a urlare Eustass-ya con orrore, staccandosi subito dall’abbraccio improvvisato e dandoci le spalle, venendo poi inseguito da Rufy che prese ad imitarlo e a sbuffare come un treno, scalciando la neve appena caduta e sollevando polvere bianca suscitando le risate di tutti.
«Moccioso, sul serio, finiscila!» sbraitava intanto Kidd, minacciandolo puntandogli un dito contro.
Alzai gli occhi al cielo e scossi il capo, mentre un sorrisetto faceva capolino sul mio volto. Mi abbassai il frontino del cappello in modo da celarlo agli altri.
«Proprio un bel modo per iniziare l’anno nuovo» sussurrai, sinceramente convinto di quello che dicevo.












 
Angolo Autrice.
Ma ciao :D
Allora, il primo è Ace che fa una bella panoramica sull’appartamento, gli amici e la serata movimentata di Natale. Marco è andato li senza preavviso e questo, poco da fare, è un bel gesto. Cioè, ha lasciato in ballo Barbabianca&Co per Ace, dai, un po’ tregua se la merita! E poi Ace è innamorato, ma quanto caro è ** Però le cose non si sono del tutto sistemate, ma vedremo più avanti.
Entra in scena Franky oggi, mi dispiaceva lasciarlo in disparte :D
Kidd. Kidd, io ho seri problemi con te, sul serio. Nessuno ti eguaglia, nessuno! Questo fantastico Rosso Malpelo gioca a Black Flag. Ovviamente non prende bene l’iniziativa di Rufy :D vi è piaciuta? Ma almeno ha una piccola rivincita quando si rinchiude nel bagno con Trafalgar per… niente, giocare a nascondino.
La parte che mi sono divertita da matti a scrivere è stata quella di Marco e Thatch. Scusate, ma stavolta hanno il primo premio, cioè, dai, sono perfetti. Parliamo di Thatch, parliamone vi prego! E’ un genio. Un. Fottuto. Genio. Tra lui e Rufy non so chi sia meglio, o peggio :D vi sono piaciute le battute? Spero di aver strappato sorrisi stavolta ^^
Marco si trova ad ascoltare il discorso di Ace che non fa una piega e che, ancora una volta, gli sbatte in faccia che il sentimento che provava non era una stupidaggine o qualcosa di passeggero. Lui, ovviamente, ci rimane male, ma non disperate, se avete notato o anche solo immaginato bene la scena, avrete capito che ad Ace, parlare al passato, costa tanta fatica e dolore.
Tocca a Law. Ce n’è anche per te! Beh, è stato davvero un bel pensiero il regalo fatto a Ace, io credo, e ho voluto far capire quanto, anche se non lo da a vedere, il ragazzo tenga i suoi amici. E anche a Kidd, awww ** ma questi son particolari. Infatti il Rosso è contento di passare capodanno con lui, si si ^^ poi arriva Rufy e manda tutto in fumo, ma pazienza, va bene così :D
Che dire, non posso mettervi gli spoiler perché il capitolo non è pronto. Ecco, l’ho detto, ma lo sarà! Accontentatevi di sapere che, beh, l’ho iniziato e tipo sarà molto imbarazzante.
E per farmi perdonare vi dico anche questo: ho deciso come concludere la long. So cosa accadrà e so anche come arrivare alla fine. Quindi, beh, pazientate ancora un po’ e sarete ricompensati **
Con questo vi saluto e vi ringrazio infinitamente per tutto, dal primo all’ultimo, recensori e lettori. Grazie davvero.

See ya,
Ace.

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Capitolo 19
*** Capitolo 17. Tutto ciò che mi metteva in imbarazzo. ***


Capitolo 17.
Tutto ciò che mi metteva in imbarazzo

«Ma vaffanculo, coglione!» urlai dal finestrino abbassato dell’auto, con una mano furiosamente incollata al clacson e intento a maledire in più lingue l’idiota che mi aveva appena tagliato la strada rischiando di venirmi addosso e sfasciarmi l’auto. Inutile dire che se ci avessi trovato anche un singolo e minuscolo graffio l’avrei scovato in qualunque nascondiglio e gli avrei spezzato le gambe con una mazza da baseball. Se solo Trafalgar non avesse insistito per fare la parte della principessina, obbligandomi ad andarlo a prendere all’università, a quell’ora sarei stato già a casa a rilassarmi e a godermi il mio meritato riposo del lunedì sera.
Dopo le feste non era stata poi una gran cosa ricominciare da capo a lavorare tutti i giorni ed io mi ero abituato troppo bene a poltrire a letto fino a mezzogiorno passato. In più, gennaio era ormai agli sgoccioli, ma la neve non ne voleva proprio sapere di andarsene, artigliandosi invece sempre più alle strade, ai tetti delle case e a qualsiasi superficie esterna. In tutta la città nevicava praticamente da due giorni.
Sbuffai infastidito mentre parcheggiavo dall’altra parte della strada, lanciando occhiate torve a tutti coloro che uscivano dalla facoltà con l’obbiettivo di individuare quel bastardo saccente e desideroso di tornarmene al caldo della mia dimora il prima possibile e, magari, lui avrebbe potuto anche farmi compagnia.
Ah no, aspetta, mi ricordai improvvisamente, alzando gli occhi al cielo e imprecando, deve studiare per il prossimo esame, ma che cazzo. Quei libri glieli faccio ingoiare prima o poi.
Smisi di borbottare tra me e me quando adocchiai una figura magrolina avvolta in un cappotto nero scendere la scalinata che portava all’entrata principale e riconoscendo all’istante il dottorino da strapazzo per il suo insulso, e perennemente presente nella sua testa, cappello a macchie. Che stronzata, anche quello avrei dovuto farlo sparire, giusto per vendicarmi di tutti i colpi bassi che aveva subito il mio orgoglio in quegli ultimi tempi.
Proprio nel momento in cui lo vidi alzare gli occhi verso di me notai, con un certo fastidio, che un ragazzino più basso e di qualche anno più piccolo richiamò la sua attenzione, raggiungendolo di corsa e fermandosi accanto a lui con il fiatone. Portava uno stupido berretto con il frontino e un paio di occhiali da sole, a detta mia inutili con un tempaccio come quello che c’era. Ad ogni modo, l’intruso iniziò ad attaccare bottone e a chiacchierare animatamente con Law sotto il mio sguardo e la mia pazienza che si andava esaurendo molto in fretta, tanto che mi ritrovai ad artigliare il volante per impedirmi di scendere e portare il culo di quel bastardo in macchina di peso.
Dopo dieci minuti buoni di attesa, lunghi ed interminabili, finalmente il piccoletto decise di congedarsi saltellando via con un sorriso soddisfatto stampato in faccia, non prima di aver dato un’amichevole pacca sulla spalla a Trafalgar che, in risposta, lo salutò sventolando la mano e ridacchiando tra sé.
Quando mi raggiunse i miei capelli e il mio nervosismo stavano andando a fuoco, tanto che non gli diedi nemmeno il tempo di sedersi e chiudere la porta, investendolo di domande.
«Si può sapere chi cazzo era quello e che cosa voleva?». Ovviamente non pensai minimamente di calmarmi e interrogarlo con pacatezza, no, praticamente gli scaraventai addosso un sacco di insulti mentre guidavo per le strade in un modo per niente diligente, ma che per me era normale, soprattutto non trovavo sbagliato accanirmi come un dannato per fargli sparire quel cipiglio divertito che stava sfoggiando senza la minima preoccupazione.
Quando smisi di urlare improperi, dandogli tre secondi esatti per rispondermi, pensò bene di farmi pentire del mio comportamento avventato e niente affatto controllato, come invece avrebbe dovuto essere e che non mi premuravo mai di adottare. Forse, se l’avessi fatto, a quell’ora non mi sarei ritrovato così nella merda.
Mi rivolse un’occhiata maliziosa e accompagnò il tutto con una singola parola pronunciata in tono burlone e strafottente. «Geloso?».
Rimasi spiazzato e zittito, tanto che rischiai di andare dritto e non fare una curva perché ero impegnato a fulminarlo con lo sguardo mentre lui se la rideva tutto contento.
«Non è come sembra, d’accordo?».
«Certo che no, Eustass-ya».
«Andiamo, ti sembro forse geloso?».
Il mezzo sorrisetto che fece e il luccichio nei suoi occhi bastarono come risposta alla mia domanda.
«Non sono geloso! Non me ne può fregar di meno di te e delle tue stronzate!» ribattei seccato, cercando di risultare il più convincente possibile. Sapevo che era inutile, ma ci avrei sempre provato ugualmente a smentirlo, nonostante quella sua odiosa faccia da schiaffi che sembrava capire sempre tutto prima e meglio degli altri.
«Si chiama Shachi ed è venuto a ringraziarmi per averlo aiutato in anatomia. Ora non ha più problemi come all’inizio dell’anno» spiegò sogghignando e continuando a guardarmi, anche se io stavo facendo di tutto per concentrarmi sulla strada e fare finta che lui non esistesse e che non fosse così maledettamente stronzo.
«Devo ammettere che quel ragazzino ci sapeva proprio fare quando gli davo ripetizioni» fece con noncuranza, stiracchiandosi e punzecchiandomi con un’orribile frecciatina maliziosa, giocando con i doppi sensi. Cioè, a me diceva che doveva studiare per un esame e che non aveva tempo di fare sesso e poi se la spassava in giro? No, non gliel’avrei permesso e fanculo tutti i suoi studi, quella sera non avrebbe letto nemmeno una riga di anatomia, squartamento, sangue e schifezze varie.
Ridi fin che puoi, razza di battona con un culo illegale. Aspetta di vedere dove ti porto adesso e cosa ti faccio. Non dimenticherai mai questa giornata, mai, nemmeno tra cent’anni! Ma pensa, pur di tapparti quella boccaccia sono disposto a sacrificare pure la mia sanità mentale!
Feci inversione di marcia in una piccola stradina, passando sopra a qualche marciapiede o giardino che fosse e tornando indietro per la strada principale, diretto nientemeno che il più lontano possibile da casa sua. Questo gesto gli fece corrugare la fronte e lo fece stare zitto e pensieroso per un po’, lasciandomi il tempo di godere per la bella idea avuta e decidere come fargliela pagare per quell’orrendo quarto d’ora che mi aveva fatto passare e per la battuta infelice. Perché scherzava, era ovvio. Doveva stare scherzando.
«Eustass-ya» disse dopo un po’, «Io abito dall’altra parte della città».
«Lo so» ghignai, imitando il suo tono da sapientone e facendolo sbuffare, «Ma noi andremo da un’altra parte».
«Ah si? E dove di grazia?». Si stava scocciando e il tono sarcastico e poco gentile che usò mi diede la conferma. Ancora non immaginava cosa lo aspettava quella sera; gli avrei fatto passare l’inferno e, dato che ero convinto che lui fosse un demonio, ero sicuro che non ci sarebbero stati problemi nel presentargli il Diavolo in persona. Dopotutto, si sarebbe sentito a suo agio in un ambiente così ostile.
«Eustass-ya» mi chiamò categorico, pretendendo una spiegazione. Ormai avevamo passato anche casa mia, quindi doveva aver capito che non era quella la nostra destinazione, ma un’altra, ben diversa e ben lontana dalle sue idee.
Ghignai sadicamente e, per una volta, fui felice di vederlo leggermente preoccupato di non avere la situazione sotto controllo. E non l’avrebbe avuta per il resto della serata. Dunque era così che ci si sentiva a dirigere le vite degli altri stando sempre un passo avanti a loro? Uhm, potevo anche abituarmici; la sensazione mi dava un senso di potere che mi avrebbe annebbiato la mente nel giro di poco tempo.
Gli rivolsi un’occhiata inquietante, ma non tanto quanto la frase che ne seguì. «Preparati bastardo, stai per conoscere i miei».
Il quasi incidente che seguì non mi fece demordere dai miei intenti e, una volta constatato che le ruote della macchina non avessero subito nessun danno, essendosi ritrovare a inchiodare di colpo e a slittare su per un marciapiede, ripartimmo a tutto gas verso la dolce e tranquilla dimora della mia malata e difficilmente sopportabile famiglia.
Trafalgar aveva avuto un mezzo infarto e per la prima volta il suo viso si era contratto in una smorfia di puro odio mista a sbigottimento quando aveva capito dove stessimo andando e, senza preoccuparsi delle conseguenze, aveva guardato in faccia la Morte e si era aggrappato al volante, facendomi sbandare pericolosamente. Se non avessi tirato prontamente il freno a mano, a quell’ora potevamo già esserci rotti l’osso del collo entrambi.
«Eustass-ya, apri questa cazzo di porta!». Stava impartendo quell’ordine da circa una mezz’ora, ma non avrei mai acconsentito a togliere il blocco automatico alle portiere per dargli modo di scendere e tornarsene indietro a piedi. Anche se l’idea di vederlo saltare dall’auto in movimento a quella velocità non mi sarebbe affatto dispiaciuta.
«Cos’è moccioso, hai paura?» sfottei, riprendendomi la mia personale rivincita e gonfiando il petto con orgoglio e malcelata soddisfazione personale. Come mi sentivo potente!
Ero certo che mai si sarebbe aspettato da me una decisione del genere, considerando che non ero affatto il classico tipo di persona che, non appena poteva, faceva conoscere il fidanzato ai genitori. Per la verità non avevo nemmeno mai avuto un vero e proprio fidanzato, cioè, che schifo. Ma con Trafalgar era stato diverso, tutto, letteralmente. E avevo anche la vaga sensazione che il bastardo avesse pianificato tutto per mettermi nel sacco, conoscendo la sua indole malvagia, ma non avevo le prove, quindi mi toccava vivere col dubbio. Ad ogni modo, nonostante il mio cervello mi stesse urlando di non commettere quell’enorme e colossale cazzata, non lo ascoltai e continuai deciso per la mia strada, più che intenzionato a vendicarmi. Si poteva dire che subirmi una serata all’insegna dell’imbarazzo fosse un sacrificio necessario se dall’altra parte potevo godermi la faccia devastata di quello stronzo sommersa di domande e indecisa su cosa rispondere. Oh si, sarebbe stato un vero spasso!
L’unica cosa che mi preoccupava e che cercavo di ignorare era la sconosciuta e imprevedibile reazione di mia madre. Dio solo sapeva se avrebbe dato in escandescenza o meno! Conoscendola non avrebbe fatto storie, insomma, non per niente era una sostenitrice dei diritti degli emarginati sociali. Un figlio gay non poteva farle ne caldo, ne freddo, no?
Lo spero proprio, pensai dubbioso.
Smoker, invece, non avrebbe rotto il cazzo, ne ero certo; al contrario non avrebbe perso tempo a sfottermi e a punzecchiarmi, ma quello lo faceva da una vita, quindi potevo anche sopportarlo. Quanto lo potesse sopportare Law, invece, non lo sapevo e non vedevo l’ora di scoprirlo.
La mia vendetta sarebbe arrivata e se credeva che questa cena di famiglia improvvisata significasse qualcosa di schifosamente romantico, beh, si sbagliava di grosso.
Digrignò i denti e l’occhiata furente che mi scoccò sembrava promettere una terribile tempesta di insulti o insinuazioni velenose in arrivo. «Sai, non pensavo che il nostro rapporto contasse tanto per te» sibilò aspro, «Mi presenti addirittura i tuoi genitori, che tenero».
Ecco, appunto.
In quel momento dovetti lottare contro me stesso per non fermare la macchina, scendere, staccare un pezzo del paraurti per prenderlo a mazzate, ucciderlo, rinchiuderlo nel baule per poi seppellirlo dietro casa e fare come se niente fosse. Prosciugai tutta la mia forza interiore per limitarmi a masticare bestemmie e ingoiare qualsiasi tipo di maledizione, indirizzandogli occhiate assassine alle quali lui rispondeva con altrettanto astio e ira. Alla fine, però, avevo ancora io il coltello dalla parte del manico e, grazie al Cielo, me ne ricordai prima di commettere sciocchezze e permettergli di riprendere il comando della situazione.
«Intanto preparati a passare una serata in compagnia di mamma e papà, tesoro» ringhiai, facendo una faccia disgustata nel pronunciare l’ultima parola, ma poco importava, «E per la cronaca: non conti proprio un cazzo!». Non riuscii a non fare chiarezza su quel piccolo particolare. Era impossibile, per quanto mi sforzassi, ogni volta che Trafalgar mi pungeva sul vivo con le sue battute, dovevo per forza ribattere e negare tutto. Sapevo che così non facevo altro che divertirlo, ma, sul serio, non riuscivo a controllarlo.
«Oh, non dire così, ferisci i miei sentimenti» fece l’altro, fingendosi offeso e imitando una crisi isterica, sbuffando subito dopo e rivolgendomi un chiaro e comprensibile invito ad andare a fanculo alzato il dito medio.
«Brutta bagascia!» sbottai.
«Metallaro mestruato».
«Ti odio, Trafalgar!».
«Il sentimento è reciproco, Eustass-ya».
Matto. Io sarei diventato matto e, se prima ero fermamente convinto che con il mio comportamento e le mie azioni poco altruiste non avrei nemmeno visto in lontananza le porte del Paradiso quando sarei trapassato, ora iniziavo a credere che sopportare quell’essere diabolico fosse sufficiente a farmi meritare non solo il Purgatorio, non unicamente il Paradiso, ma niente meno che il seggio alla destra del Signore. Santo Dio, di certo dovevo stargli parecchio sulle palle se mi aveva affibbiato alle calcagna quella vipera di dottore.
«Me la pagherai Kidd» soffiò letale mentre entravo nella stretta stradina di sassi, «Giuro su tua madre che me la pagherai cara».
In lontananza si potevano notare le luci accese della casa dei miei e di quelle adiacenti. Fortunatamente per me, anche se non lo diedi a vedere, la macchina di Smoker ancora non c’era.
«Aspetta di conoscerla» ghignai sadicamente, parcheggiando l’auto, spegnendo il motore e lasciandolo libero di scendere, anche se ormai non poteva più scappare.
Uscì all’aperto con un diavolo per capello e, seguendo i miei movimenti con uno sguardo assassino, aspettò che lo affiancassi prima di incamminarsi con me lungo il vialetto in ghiaia che portava all’ingresso sotto un portico dove ancora alcune lucette natalizie facevano mostra di sé. Non disse nulla e, nel momento in cui suonai il campanello, sfregandomi le mani nei guanti, l’aria omicida che gli era aleggiata attorno fino ad allora scomparve e i lineamenti del suo viso si rilassarono. Tutto ciò non mi fece sentire affatto tranquillo e un dubbio si insinuò nella mia mente.
Esattamente un secondo prima che la porta si aprisse fece in tempo a dedicarmi un ghigno sadico, come a volermi dire ‘te la sei cercata, idiota’.
«Chi è?» stava dicendo intanto una voce squillante e dal timbro nasale mentre l’uscio si apriva di qualche centimetro e un occhio esageratamente truccato spiava attraverso la fessura.
Sbuffai, «Mamma son…».
«Tesorooo!». Non feci in tempo a finire la frase che un uragano vestito di viola uscì di casa e mi saltò addosso, stritolandomi in una morsa d’acciaio e riempiendomi di baci umidicci che mi lasciarono sicuramente l’impronta del rossetto. Alle mie spalle giurai di poter sentire Trafalgar trattenere una risata.
«Pasticcino, ma potevi avvisarmi! E che bello, mi hai fatto una sorpresa, come sei dolce!».
Strinsi i denti e sperai di non arrossire: quello era esattamente ciò che avrei voluto evitare. «Mamma, ti prego…» feci in tono lamentoso.
«Ma chi c’è lì con te? Vieni avanti su. Oh, ma come sei giovane e bello! Sei un amico di Kidd? Piacere caro, io sono sua madre, mi chiamo Ivan».
Se quella donna avesse potuto, avrebbe stritolato anche il moccioso tra le sue spire, ma si trattenne solo per buona educazione, ne ero certo. Sperai solo che le presentazioni tra loro avvenissero nel modo meno imbarazzante possibile.
Il moro avanzò di un passo, mostrandosi meglio alla luce del portico e, porgendo la mano a Ivan, le sorrise amabilmente. Cosa che, per la precisione, non gli avevo mai visto fare e che gli riusciva dannatamente bene, tanto da apparire un bravo e rispettabile ragazzo, quando invece era un fottuto e maledetto impiastro. Quello era un diavolo che giocava a fare la parte dell’angioletto.
«Molto piacere Signora» disse in modo gentile, «Io sono Trafalgar Law, il fidanzato di suo figlio».
Sbarrai gli occhi e lo guardai come se mi avesse appena vomitato addosso coriandoli. Era impazzito? Gli sembrava il modo di dire una cosa del genere senza prima avvisare la vecchia? E con quella fottuta calma poi!
Infatti Ivan rimase in silenzio a guardarci con sorpresa, spostando lo sguardo da me a lui e boccheggiando come una trota. Sperai solo che non decidesse di avere un infarto proprio in quel momento, sarebbe stato troppo per i miei poveri nervi.
A discapito di tutto reagì piuttosto bene, forse anche troppo perché iniziò ad urlare contenta come un ossesso e, dato che prima si era trattenuta dal farlo per rispetto delle buone maniere, saltò in braccio a Trafalgar congratulandosi con lui e abbracciandolo come se fosse suo figlio, dimenticandosi di me e pregandolo di accomodarsi in casa e di mettersi a suo agio perché loro avevano molte cose di cui parlare.
Fu la serata più orribile, imbarazzante e da suicidio della mia vita, tanto che più volte mi chiesi se ne fosse valsa la pena, dato che potevo inventarmi qualcosa di meno tragico per i mio orgoglio per vendicarmi di quel pezzente che si stava lavorando mia madre peggio di uno strizza cervelli. Sul serio, ero rimasto allibito e sconvolto dalla facilità con cui erano diventati amici quei due, entrando in perfetta sintonia e mettendosi persino a cucinare assieme sotto alla mia faccia sconvolta e incazzata, ignorando i miei improperi, i miei sbuffi seccati e persino i pugni che tirai contro il muro uscendo dalla stanza per ritirarmi in salotto e allontanarmi il più possibile da loro.
Quando era rientrato Smoker, poi, avevo toccato il fondo.
Aveva fatto il suo ingresso come di consuetudine facendo un baccano assordante e, non appena aveva saputo che avrebbe avuto ospiti, aveva subito assunto un’espressione scazzata e poco cortese, ma gli era bastato stringere la mano a Trafalgar, che nemmeno in quel momento batté ciglio, e il suo umore prese tutta un’altra piega. Inspiegabilmente sorrise in un modo inquietante e non fece altro per il resto della serata, alleandosi con mia madre, cosa che non accadeva praticamente mai, e aiutandola a ricordare aneddoti stupidi e, sotto il loro punto di vista, divertenti sulla mia infanzia e le sciocchezze che avevo combinato da piccolo assieme a Killer. Insomma, una classica cena con i genitori dove tutti i segreti più imbarazzanti della mia vita vennero rispolverati a mie spese, rivoltandosi contro di me e facendomi rischiare un serio esaurimento nervoso. Trafalgar, invece, era tutto contento, ne ero certo, perché stava facendo scorta di informazioni per sfottermi non appena l’occasione gli si fosse presentata. Dovetti quindi rassegnarmi all’inevitabile, sicuramente aveva abbastanza notizie per prendermi per il culo e minacciarmi a vita. Se avesse voluto avrebbe anche potuto ricattarmi.
In quel momento, grazie a qualche divinità in ascolto nel Cielo, la grande stronza di Ivan ci aveva spediti fuori al freddo e sotto la neve che non voleva saperne di smettere di imbiancare la città in attesa del dolce, così approfittai per prendere una boccata d’aria e sbollire la rabbia, sperando con tutto me stesso che quel bastardo che mi seguiva a pochi passi di distanza non si azzardasse ad aprire la bocca.
«Quindi tu da piccolo…» iniziò a dire con voce strafottente.
Mi voltai verso di lui con un indice ammonitore alzato e in bella vista, «Sta zitto, Trafalgar! Sta. Zitto».
Ghignò sadicamente e con gli occhi che brillavano per il divertimento, così cercai di ignorarlo dandogli le spalle e sbuffando sonoramente. Alla fine quella che mi era parsa un’ottima idea si era rivoltata contro di me, obbligandomi a sopportare tutto ciò che mi metteva in imbarazzo senza potermi salvare.
Mentre alzavo lo sguardo verso la notte scura e dominata dalle stelle, nonostante la neve che cadeva lenta e inesorabile, qualcosa di freddo e compatto si abbatté sulla mia testa e dei fiocchi gelidi e bagnati finirono per scivolarmi attraverso i vestiti e lungo la schiena, facendomi rabbrividire.
Mi voltai lentamente, pregando Dio di mantenermi calmo perché, se quell’idiota aveva anche solo osato colpirmi con una maledetta e insulsa palla di neve, non ci avrei pensato due volte a spezzargli tutte le ossa, una ad una.
Non feci nemmeno in tempo a minacciarlo che subito un altro colpo mi investì, in piena faccia questa volta, accompagnato da una risata sfacciata e da un commento sarcastico da parte di Trafalgar.
Sospirai stancamente, accucciandomi a terra e iniziando a fare un bel mucchio, ghignando quando il ragazzo che fino ad allora si era divertito a punzecchiarmi smise di ridacchiare, facendosi di colpo serio e avvisandomi con un tono serio di non provarci nemmeno a colpirlo. Inutile dire che non lo ascoltai minimamente, continuando il mio lavoro e formando una massa consistente di neve che raccolsi tra le mie mani, puntando poi lo sguardo nel suo e calcolando nel frattempo le distanze. Non dovevo mancare il bersaglio e la mia concentrazione gli fece aggrottare la fronte per la preoccupazione. Gliel’avevo ripetuto spesso che con il fuoco non si scherzava.
«Eustass-ya, no» fece categorico, intimandomi a desistere dalla mia intenzione.
Continuai a fissarlo fermamente e determinato, cercando di farlo innervosire, ma la fortuna era dalla mia parte perché sull’uscio della porta apparve mia madre, richiamando la nostra attenzione e, quindi, anche quella di quel subdolo traditore che godeva nel colpirmi alle spalle.
«Ragazzi, il dolce vi aspetta. Ma che? Kidd! Cosa diavolo ti passa per la testa? Incivile!».
«Dannazione, questa me la paghi!» sbraitò nello stesso istante Law, il quale aveva distolto l’attenzione da me per voltarsi verso Ivan e prestarle ascolto. Un errore che gli era costato caro perché non ci avevo pensato due volte a sommergerlo di neve, centrandolo in pieno e rendendolo fradicio. Per uno scherzo del Destino aveva dimenticato il cappello dentro casa, così che i suoi capelli si inumidirono nel giro di qualche secondo, finendo per scompigliarsi in tutte le direzioni e dandogli un’aria da animale abbandonato e spelacchiato.
Ovviamente non prese bene la cosa perché digrignò i denti e, prendendo la rincorsa, mi piombò addosso con tutta la forza che aveva, cogliendomi di sorpresa perché non mi aspettavo di certo una reazione del genere, dopotutto non schizzava mai in quel modo, così finimmo a terra in un groviglio di braccia e gambe. Per qualche strana ragione mi ritrovai con il viso premuto sulla neve mentre la risata isterica di mia madre andava via, via scemando, scomparendo dietro alla porta. Doveva aver capito che in quelle condizioni il dolce per noi avrebbe aspettato.
«Ti piace tanto la neve, Kidd? Bene, eccoti un incontro ravvicinato!» stava dicendo intanto quel piccolo insolente, azzardandosi persino a infilarmi cumuli di neve dentro al cappotto. Che cazzo aveva intenzione di fare? Congelarmi per studiare l’animazione sospesa di un corpo?
Con uno scatto di reni riuscii a togliermelo di dosso, mettendomi seduto e rialzandomi il più in fretta possibile per evitare di essere atterrato di nuovo. Lui fece lo stesso, ma nell’istante in cui alzai lo sguardo per vedere dove fosse, un’altra palla di neve mi colpì in faccia. Di nuovo.
Quel ragazzo avrebbe avuto vita breve, questo era sicuro perché avrei provveduto io a farlo scomparire dalla mia vita e da quella degli altri; infatti, non appena lo individuai, gli scagliai contro altra neve. Il tiro non andò a segno perché lo stronzo si spostò all’ultimo secondo e la lastra di ghiaccio andò a infrangersi contro la fiancata della mia auto.
Una risata aleggiò nell’aria e la mia ira raggiunse il limite. Iniziammo così una battaglia senza esclusioni di colpi, bagnandoci da capo a piedi, ma non importava, non sentivamo nemmeno il freddo pungente della sera tanto eravamo impegnati a combattere. Con mio sommo piacere ripagai Trafalgar con la stessa moneta, afferrandolo per le spalle durante un suo tentativo di allontanarsi e mettersi a riparo e facendolo finire a terra con un solo movimento del braccio per poi sopraffarlo e coprirlo di neve fresca.
«Oh si, adoro la neve» sfottei con sarcasmo, intento ad allargargli il colletto della maglia dopo avergli sbottonato con un po’ di fatica il cappotto e infilandogli quei fiocchi bianchi in modo tale da metterli a contatto con la sua pelle.
Rabbrividì più volte, tentando di liberarsi e non ci sarebbe riuscito tanto presto se non fosse stato per l’interruzione di Smoker che, con poca grazia, ci chiedeva di smettere di fare i ragazzini ed entrare in casa perché, a detta sua, sembravamo dei poppanti.
«Ti è andata bene, bastardo, ma non farlo mai più» sussurrai minaccioso mentre mi alzavo, spingendolo indietro e facendolo finire nuovamente con il culo a terra quando tentò di fare altrettanto. Mi lanciò un’occhiata furente, maledicendomi in modi piuttosto originali, aspettando che mi allontanassi di qualche passo per poi rimettersi in piedi agilmente. Mi parve di sentire il suo cellulare squillare, ma quando lo estrasse dalla tasca alzò le spalle e lo spense senza rispondere. Probabilmente era Penguin-nanerotto, quindi niente di importante. Allora si spolverò un po’ la giacca, affiancandomi poi lungo il vialetto verso casa e, anche se le dita non si intrecciarono mai, lasciammo comunque che le nostre mani continuassero a sfiorarsi.
 
* * *

Ormai il peggio era passato, avevo sostenuto praticamente l’intera sessione di esami e potevo finalmente concedermi un po’ di tempo libero per stare con mio fratello e i miei amici con cui praticamente non ero più uscito a causa dello studio. I miei coinquilini ed io avevamo passato un mese piuttosto duro, in effetti, ritrovandoci tutti e quattro relegati in appartamento, ognuno nella propria stanza, a studiare con costanza. Grazie al Cielo quel periodaccio stava volgendo al termine per tutti.
Per cui, in quel momento, mi stavo godendo una più che meritata cioccolata con panna al mio solito posto nel locale di Marco che avevo ripreso, all’inizio con un po’ di titubanza, ma poi sempre più con convinzione, a frequentare. Dire che i tasselli stavano tornando lentamente al loro posto era dire poco perché, con mio stupore, stava andando tutto per il meglio. Certo, c’erano state situazioni piuttosto imbarazzanti, ad esempio quando ero caduto dallo sgabello per la sorpresa di vederlo spuntare dal nulla davanti a me e venendo soccorso all’istante, ritrovandomi le sue mani a vagare libere sul mio viso e sentendomi arrossire per il calore che emanavano. Da non dimenticare poi l’enorme figuraccia che avevo fatto quando gli avevo praticamente confessato che conoscevo il posto di tutti gli oggetti, tazze, bicchieri, canovacci e vassoi perché lo osservavo e lui, con nonchalance, mi aveva risposto dicendomi che non mi credeva così interessato a ciò che lo riguardava. In quel momento avevo tanto voluto sotterrarmi vivo, ma ciò era stato impossibile, così mi ero limitato ad arrossire, di nuovo, e a lasciare che i nostri sguardi sostituissero le parole non dette. Il limite lo avevo toccato quando, in risposta ad una sua domanda innocente, gli avevo detto che di me o con me poteva fare tutto quello che voleva. Ovviamente aveva frainteso completamente il significato delle parole, ma dettagli.
Sospirando con un mezzo sorriso, scuotendo leggermente il capo nel ricordare tutte le situazioni tremendamente imbarazzanti che avevo vissuto in quelle ultime settimane, sorseggiai la mia adorata bevanda, circondato dal piacevole chiacchiericcio delle voci dei presenti che quel giorno affollavano la caffetteria, facendo fare i salti mortali alla povera testa d’ananas che si trovava costretta a correre da un tavolo all’altro senza un attimo di tregua, raccogliendo ordinazioni e servendo da mangiare e da bere nello stesso tempo.
Che lavoraccio, pensai, infilando in bocca una cucchiaiata di panna, certo che potrebbe farsi aiutare da qualcuno almeno in giornate come queste.
Il barista in questione ritornò dietro al bancone camminando a passo spedito e rispondendo all’occhiata dispiaciuta che gli rivolsi con uno sbuffo stanco e quasi disperato. Era ufficiale: non sapeva più come mandare avanti la baracca e gli ci voleva una pausa.
Stavo appunto per entrare in scena con una delle mie solite stupidaggini, giusto per strappargli con le pinze una risata e risollevargli il morale, ma, con un’imprecazione a mezza voce piuttosto colorita che arrivò chiara e comprensibile alle mie orecchie, sparì in cucina dove Thatch si stava facendo in quattro per cucinare una serie infinita di piadine, panini e sfornare contemporaneamente dolci, biscotti e una lunga lista di altre pietanze. A quanto pareva i clienti dovevano aver patito la fame per essere affamati in quel modo.
Dopo cinque minuti Marco non era ancora ritornato e la cosa iniziava a preoccuparmi. Non perché non potessi vivere senza averlo sotto agli occhi, intendiamoci, anche se sarebbe stata un’idea allettante, mi preoccupavano però le facce scocciate di un paio di persone che attendevano alla cassa per pagare il conto e andarsene.
A fare in culo, aggiunsi mentalmente, infastidito dalla poca educazione che sembravano mostrare, borbottando tra loro con delle facce da schiaffi. Fu in quel momento che decisi di prendere in mano la situazione e salvare il fondoschiena a quel pennuto da strapazzo, alzandomi dal mio posto, aggirando il bancone e appropriandomi senza permesso di un grembiule di scorta che sapevo stare in uno scomparto sotto al lavello. Lo indossai di fretta e mi presentai alla cassa con un sorriso tirato e la voglia matta di far pagare doppio a quei due impiastri che, non appena mi videro, mi squadrarono da capo a piedi con aria scettica e chiedendomi lo scontrino trattenendo a stento un tono burbero.
In qualche misericordioso modo riuscii ad arrangiarmi e, una volta consegnato loro il resto, aggiunsi persino uno dei cioccolatini in esposizione assicurandogli che era un omaggio della casa. La reazione fu istantanea e passarono da una faccia scazzata ad un’espressione allegra nel giro di un secondo, ringraziandomi con mille sorrisi e dandomi del bravo ragazzo. Poco mi importava dei loro complimenti, la buona notizia era che in quel modo il locale non aveva subito danni, evitando malelingue e non perdendo due clienti, anche se racchie e bisbetiche.
Ripetei l’operazione per alcuni altra gente successiva fino a che non ci fu un fugace momento di stallo durante il quale mi accorsi di una presenza alle mie spalle. Già immaginando di chi si trattasse, mi voltai, pensando ad una buona scusa da fornirgli, incontrando lo sguardo sorpreso di Marco con un mezzo sorriso a dipingergli il volto. A giudicare dalla sua posa tranquilla non sembrava arrabbiato o offeso dal mio tentativo di soffiargli il posto, aspettava però una risposta.
«Ehm, ecco, due vecchie ti stavano maledicendo, così ho pensato di salvare la tua reputazione e il locale» gli spiegai, cercando di rendere la cosa comica, il che mi riuscì anche abbastanza bene, «Spero non ti dispiaccia».
Scosse il capo con convinzione e, accennando al grembiule arancione che avevo indossato, trovò il modo di farmi sentire ulteriormente nel giusto.
«Ti sta bene, sai?».
«G-grazie» mormorai, mordendomi un labbro e passandomi una mano fra i capelli, ricordandomi all’improvviso che avevo una cioccolata da finire così iniziai a sciogliere i nodi dei laccetti in stoffa, ma venni bloccato a metà del mio operato da Marco che, cogliendomi impreparato e lasciandomi totalmente spiazzato, pensò bene di uscirsene con una delle proposte più improbabili che mi sarei mai aspettato.
«Potresti lavorare qui» disse, inconsapevole di stare provocando un’esplosione dentro di me, «So che con l’università devi stare dietro allo studio, ma potresti farlo durante i tuoi giorni liberi e le sere in cui il bar è aperto» spiegò con calma, come se stesse scegliendo le parole adatte per convincermi. Nella mia mente intanto spiccavano solo le parole lavoro, Marco, insieme.
«Prendilo come un lavoretto par time» stava dicendo senza staccare gli occhi dai miei che continuavano a guardarlo increduli, «Ovviamente non sei obbligato, ma mi servirebbe una mano e, beh, di te mi fido e poi sei cliente fisso da un pezzo ormai».
Dio, lavorare con lui, nel suo locale, tutte le volte che voglio. Praticamente avrei l’occasione di vederlo tutti i giorni, parlare, scherzare e ridere fino a star male. E tutta la cioccolata che posso bere clandestinamente!
«Pensa, avresti la cucina a tua disposizione» scherzò, come se mi avesse appena letto nel pensiero.
Cazzo, si! Accetto, va benissimo, non potrei chiedere di meglio!
Volevo rispondere, cercavo di trovare le parole esatte ma ero come bloccato, incapace di emettere persino un singolo suono. Era tutto così nuovo e inaspettato che ero rimasto completamente senza nulla da dire. Avrei dovuto ringraziarlo, stringergli la mano, abbracciarlo, fare i salti di gioia, ma non riuscivo a fare altro che restarmene lì, immobile e in silenzio davanti al suo sguardo speranzoso che si stava, via, via spegnendo. Gli stavo dando l’impressione sbagliata, quel tentennamento mi stava uccidendo. Dovevo reagire, fare qualcosa, qualsiasi cosa.
«Ma se non puoi non preoccuparti, ti capirei» fece, accennando ad un sorriso e grattandosi imbarazzato la nuca, cercando di nascondere la delusione che non sfuggì alla mia attenzione. Marco poteva anche essere bravo a celare le sue emozioni dietro ad una facciata pacata e all’apparenza disinteressata, ma l’avevo osservato per troppo tempo per non capire quando qualcosa non andava in lui, inoltre vedere che quella proposta l’aveva fatta con interesse e sincera convinzione mi fece prendere la decisione che ormai si era già fatta strada nella mia mente, solo che non avevo ancora avuto il coraggio di dirla ad alta voce per timore di… di cosa?
Ci eravamo conosciuti per caso; col tempo avevamo sviluppato una simpatia reciproca e avevamo imparato ad andare d’accordo, sempre e comunque, con i nostri battibecchi e discorsi assurdi; incontrarci in quel bar era diventata una specie di abitudine, così come studiare da lui, le chiacchiere, gli sguardi, i sorrisi; mi ero innamorato; avevamo litigato; l’avevo odiato e perdonato; mi aveva dimostrato che a me, dopotutto, ci teneva; eravamo diventati amici e i nostri sguardi bruciavano di pura passione ogni volta che avevano l’occasione di incrociarsi. Avere paura non aveva più senso ormai, sarebbe stato come non vivere la vita per timore di morire.
«Accetto» risposi con sicurezza e determinazione, sorridendo davanti all’espressione stupita e successivamente sollevata e contenta che fece, trovandosi lui nella posizione di non saper bene cosa dire.
«Perfetto» disse alla fine, porgendomi la mano che strinsi con decisione e trattenendo a stento l’emozione. Sentivo di volerlo stupire e aiutare; volevo rendermi utile e farlo impallidire davanti alla mia bravura. Non avevo mai fatto il barista o il cameriere, ma imparavo in fretta. Sicuramente sarebbe stata una passeggiata.
«Ho un po’ di tempo libero, se sei d’accordo posso iniziare subito» proposi, guardandolo speranzoso ed esultando davanti alla sua risposta affermativa.
«Ho visto che sai già tutto praticamente» commentò, ammiccando in direzione del mio grembiule e della cassa. Il riferimento al fatto che l’avessi osservato talmente tante volte da sapere dove teneva le cialde per il caffè e i pacchi di scorta dello zucchero ero sicuro che fosse sottointeso in quella frase.
«Si, beh, ho tirato a indovinare» mentii spudoratamente, giusto per salvare le apparenze ed evitare l’imbarazzo che avrei dovuto mettere in conto dato che da quel giorno in poi ero ufficialmente un suo dipendente e, di sicuro, di situazioni assurde ce ne sarebbero state a valanghe.
Marco mi dedicò uno sguardo piuttosto scettico, il quale sembrava dire a caratteri cubitali e lampeggianti ‘non mi incanti nemmeno se ti impegni, ragazzino’. In quel momento decise di fare la sua immancabile apparizione anche Thatch che, inconsapevole di tutto, era appena diventato il mio collega.
Il moro si fermò a metà strada, osservandoci con occhio critico e accorgendosi di un fatto piuttosto strano, ovvero il grembiule che indossavo.
Con l’aria di aver capito vagamente come stavano le cose e con un sorriso leggermente inquietante da psicopatico fece la sua fatale domanda.
«Lasciami indovinare: ti ha offerto un lavoro» decretò, azzeccando in pieno e impazzendo non appena Marco ed io annuimmo affermativamente con il capo.
Fece appena in tempo ad appoggiare sul ripiano un vassoio ricolmo di biscotti al cioccolato per poi afferrarmi per le spalle e abbracciarmi come un orso, soffocandomi con la sua stazza e, passandomi un braccio dietro al collo, strofinò convulsamente un pugno fra i miei già disastrati capelli, facendomi stringere i denti mentre mi arrivavano alle orecchie tutte le sue congratulazioni.
«Grazie a Dio una buona notizia! Ci pensi? Lavoreremo assieme e ci vedremo praticamente sempre! Pensa a quanto ci divertiremo! E magari quando hai il turno al mattino la sera prima potresti fermarti a dormire da Marco, tanto a lui non dispiace, vero fratellino?».
«Thatch» disse solamente Marco e il tono minaccioso che usò non me l’ero di certo immaginato, ma fui felice di constatare che servì a far si che il suo amato fratello mi lasciasse andare e, dopo una serie di insinuazioni di dubbia moralità, se ne ritornò tutto allegro e felice in cucina dove sarebbe rimasto per un bel po’, lasciandomi il tempo di riordinare le idee e abituarmi a quella nuova occupazione.
«D’accordo, allora: da dove vuoi cominciare?» chiese il pennuto, passandosi una mano sul viso per i disastri che combinava sempre quel cuoco sfacciato tanto simile a Rufy sotto quell’aspetto.
«Non saprei». Poi ci pensai su e decisi che avrei fatto pratica con i vassoi quando il locale sarebbe stato vuoto per evitare di rompere qualcosa già il primo giorno. «Potrei prendere le ordinazioni e stare alla cassa quando serve per adesso».
«Mi sembra una buona idea. Allora muoviti, fila a lavorare!» fece categorico e in quel momento mi resi conto che si sarebbe divertito un sacco a farmi sgobbare come uno schiavo. Avrei dovuto prevedere che avrebbe abusato del suo potere per punzecchiarmi.
«Certo vecchietto, tu riposa nel frattempo» sfottei con un ghigno e, dopo aver aperto un cassetto da dove estrassi un bloc notes, mi avviai verso i tavoli, sorridendo quando Marco mi minacciò di dimezzarmi la paga.
 
* * *

Lo sporco segreto di Ace non era durato nemmeno ventiquattro ore all’interno delle mura domestiche e il giorno dopo tutta l’allegra e balorda compagnia di sbandati e reietti della società di cui, ancora non mi ero reso conto come, ero entrato a far parte pure io era al corrente della novità che causò non poco scalpore negli animi di tutti.
Portuguese D. Ace era un ragazzo adorabile, forse un po’ spericolato, ma dall’animo nobile, coraggioso e gentile. In un’altra vita ero sicuro che fosse stato un eroe a tutti gli effetti, ma aveva un unico difetto: era uno stupido. Non perché mancasse di intelligenza, ma per il semplice fatto che si fidava troppo delle persone, non riflettendo prima di agire. Infatti aveva sbagliato completamente a mettere al corrente Penguin del suo nuovo lavoro perché, nel giro di qualche ora, metà dei nostri amici era stata informata e l’altra metà ne era venuta a conoscenza intorno e non oltre le dieci del mattino seguente rispetto alla sera del fatidico annuncio. Povero stolto, non avrebbe mai dovuto fare una confessione del genere a una delle persone più pettegole che conoscevo, ma il problema era suo ed io, oltre ad avergli dato del completo idiota, mi ero dichiarato disinteressato alla cosa e avevo semplicemente seguito la massa, ovvero Rufy che, una volta appreso il tutto, aveva deciso di nominare il bar di Marco il nuovo punto di ritrovo della nostra combriccola. Niente da ridire su questo e, dopotutto, il posto non era affatto male e rispecchiava abbastanza la personalità di Marco all’apparenza simile alla mia, pacata e annoiata, anche se ero certo che non appena ne aveva l’occasione si lasciava andare senza troppi problemi.
Era un venerdì sera e, come d’accordo, stavamo tutti sorseggiando qualcosa seduti a due tavoli che avevamo unito per l’occasione e guardavamo divertiti il nostro amico prendere le ordinazioni e svolgere i suoi compiti con il sorriso più allegro che gli avessi mai visto sfoggiare stampato in faccia. Nonostante lavorasse lì da poco, notai che Marco non gli dava alcuna dritta e non aveva nemmeno bisogno di riprenderlo o fargli notare alcuni errori perché, semplicemente, non ne faceva. Era come se lavorasse in quella caffetteria da mesi e non da giorni, il che mi fece intuire che doveva esserci qualcosa sotto perché, conoscendo quel pollo del mio coinquilino, era impossibile che svolgesse le sue mansioni in un modo così impeccabile.
Oltre a questi particolari l’atmosfera era abbastanza piacevole.
Tra tutti avrei osato dire che Rufy era il più felice dato che, ogni volta che lo sguardo gli cadeva sul fratello maggiore e su quell’assurda testa d’ananas, sorrideva con devoto affetto verso i due, entusiasta della bella notizia per la quale aveva telefonato a casa nostra alle tre del mattino, insistendo fino a che Bepo non era andato a rispondergli tutto assonnato e pretendendo di parlare con Ace, tirandolo giù dal letto e tenendolo al telefono per un’ora buona.
«Questi waffles sono fantastici» disse Nami ad un tratto mentre Zoro, che per caso si trovava seduto accanto a lei, faceva scomparire in un boccone il suo dolce, concordando pienamente con la ragazza.
L’idiota con i capelli rossi, un paio di occhialoni assurdi, una camicia a quadri con le maniche arrotolate fino ai gomiti e un paio di anfibi neri borchiati vicino a me fece il suo apprezzamento imitando il tizio con i capelli verdi, leccandosi persino le dita sporche di cioccolato.
«Eustass-ya sei proprio un animale» sospirai esasperato, inarcando un sopracciglio e guardandolo con uno sguardo misto tra lo scettico e lo schifato.
Mi rispose con un’alzata di spalle e un’occhiata per niente amichevole, «A letto non ti lamenti mica però».
Dovevo aspettarmela una sparata del genere, ma su questo punto non potevo ribattere, dopotutto lo scherzetto della battaglia a palle di neve me l’aveva fatto pagare con gli interessi, anche se tutto sommato non mi era andata così male se consideravo che una notte come quella che mi aveva fatto passare era stata senza dubbio una delle migliori. Ovviamente, questo non l’avrebbe mai saputo.
Qualcuno dei presenti si schiarì la voce in imbarazzo davanti al nostro scambio di battute, ma non ci feci molto caso, ormai le nostre dispute erano un classico e quasi nessuno si stupiva più di tanto, tranne quando iniziavamo a prenderci a pugni o a fare riferimenti sessuali abbastanza espliciti. In poche parole quando sparivamo dalla circolazione per un po’ era sempre la cosa migliore che potevamo fare, così nessuno rimaneva scioccato. Mi riverivo al povero Chopper che, essendo considerato il più innocente della compagnia, si trovava spesso a impallidire davanti a certe scene o insulti piuttosto pesanti e coloriti. Fortuna che ci pensava Robin a portarlo il più lontano possibile o a tappargli le orecchie in quelle occasioni. A proposito di lei, mi sbagliavo o il mio nuovo carrozziere di fiducia aveva preso a farle il filo?
In ogni caso non importava, la cosa bella era che quella sera eravamo tutti insieme appassionatamente e tutta l’attenzione e le domande curiose e decisamente poco caste di tutti erano rivolte a Ace e a quello che avevo definito il suo quasi-fidanzato o mezzo scopamico, anche se non era ancora chiaro a nessuno se quei due avessero effettivamente una relazione o si divertissero semplicemente a tirarla per le lunghe e a fare finta di nulla.
In quel momento, ad interrompere le mie riflessioni senza un filo logico, fu un deficiente patentato che rispondeva al nome Thatch, appena sbucato magicamente dalla cucina con in mano un vassoio in cui spiccavano degli invitanti manicaretti e diretto tutto sorridente verso di noi. Non appena ci raggiunse mise il tutto al centro del tavolo sotto le facce affamate dei presenti e, sfregandosi le mani, ci augurò un buon appetito, cogliendoci alla sprovvista e sedendosi assieme a noi dopo aver preso una sedia altrove.
«Posso unirmi a voi, vero?» chiese, quando ormai si era già sistemato tra me e quel pozzo ambulante di Rufy, il quale si dimostrò ben felice di fare spazio al nuovo arrivato, invitandolo persino a passare il resto della serata in nostra compagnia.
Alzai gli occhi al cielo, quello era esattamente ciò che avrei voluto evitare ma, ovviamente, il moccioso doveva sempre fare di testa sua.
«Uh, che c’è amico? Qualcosa non va?» mi sentii chiedere e mi vidi costretto a rivolgere al castano, con i capelli cotonati da far concorrenza a Franky, un’occhiata poco gentile. Non lo conoscevo bene e quelli troppo vivaci faticavo a ritenerli simpatici. Persino con Rufy, quando l’avevo conosciuto, le prime volte cercavo di tenermelo alla larga, allergico a tutto quel buonumore. Erano passati anni da allora, probabilmente la costante compagnia del piccoletto mi aveva fatto bene perché non mi sentivo poi così ostile, ma preferivo mettere subito in chiaro le cose. Forse, col tempo, l’avrei accettato con meno fatica, ma per il momento non se ne parlava.
«Non sono tuo amico e non ho intenzione di perdermi in chiacchiere. Tutto chiaro?» feci on disinteresse, dimostrandogli la mia poca voglia di stringere amicizia.
Mi fissò per qualche istante senza perdere l’aria allegra e, facendo andare di traverso il boccone a la maggior parte dei ragazzi, dimostrò di essere a tutti gli effetti la versione troppo cresciuta dell’imprevedibile, sboccato, infantile e impossibile Rufy.
«Con tutto il sesso che fai con quel tizio dall’aria instancabile non dovresti essere così acido, ma immagino sia solo perché non mi conosci. Fa niente, lo terrò a mente, amico».
Eustass-ya si piegò in due dalle risate, sporgendosi poi verso Thatch e scambiandosi con lui un pugnetto complice, seguito a ruota da quei traditori di Penguin e Bepo. Pure Rufy, il quale era parecchio all’oscuro di determinati argomenti e stili di vita, si mise a sghignazzare, mentre Chopper si tappava le orecchie e Sanji faceva di tutto per tenere la testa nel piatto. Per quanto riguardava la mia reazione, invece, fu piuttosto indescrivibile. Quel bastardo aveva appena segnato la sua condanna.
Prima che potessi fargli rimpiangere di essere nato, per sua maledettissima fortuna, arrivò Ace che, toltosi il grembiule, avvisò tutti che il suo turno era terminato e che, per quella sera era libero dagli impegni, assicurandoci che potevamo partire quando volevamo.
Ovviamente dovemmo aspettare che tutti finissero di mangiare, in questo modo anche Marco si ritrovò libero di mandare tutti a casa e chiudere il locale.
«Oh no, caro mio» sbottò Thatch categorico, strappando le chiavi dalle mani del fratello e mettendosele in tasca, «Non pensare nemmeno di squagliartela, tu adesso vieni via con noi».
«Noi?» sibilai seccato. Da quando quell’impiastro era stato invitato ad aggregarsi al nostro già numeroso gruppo? E poi, a dirla tutta, di idioti ne avevamo abbastanza, non avevamo bisogno di teste calde in più, per quello bastavano Eustass, Killer, Ace e Rufy. Riflettendoci potevamo aggiungere anche Penguin, Zoro e Sanji. D’accordo, si faceva prima a dire tutti.
Il mio commento non sfuggì alle sue orecchie perché mi dedicò un’altra delle sue battutine.
«Non preoccuparti, se vuoi tu e il rosso potete starvene qui a divertirvi. Mi sa che ne hai bisogno».
«Hai trovato qualcuno che ti tiene testa» sussurrò Kidd soddisfatto, afferrando il suo giubbotto e dandomi una spallata prima di uscire a prendere una boccata d’aria con Killer che ghignava sotto i baffi. Bastò un’occhiata truce per farlo impallidire e ciò mi calmò abbastanza. Vedere che incutevo ancora timore fu una buona cosa per il mio orgoglio appena scalfito.
«Non serve» stava dicendo intanto il biondo, «Sono piuttosto stanco». Lamentarsi e inventare scuse, o verità che fossero, non bastò a convincere Thatch e Rufy; così, dopo una decina di minuti, eravamo tutti in strada a chiacchierare, avanzando proposte su dove andare a passare la serata.
«Potremo andare da papà, che ne dite?» fece la mia nuova spina nel fianco, attirandosi addosso sguardi incuriositi e interrogativi. Accanto a lui, invece, Marco si schiaffò una mano sul viso, cercando inutilmente di pestargli un piede per farlo tacere. La cosa suscitò la mia curiosità, cosicché mi misi in ascolto, aspettando di sentire il seguito.
«Il Moby Dick, non lo conoscete? Si? Bene, in poche parole il gestore è il nostro adorato babbo» spiegò con noncuranza e parlando come se la cosa fosse la più ovvia e prevedibile del mondo.
Le bocche dei presenti toccarono il pavimento, me compreso, dovetti ammetterlo, dato che fu una bella sorpresa fare due più due e trarre le conclusioni alle quali giunse pure Ace.
«A-aspetta» fece sbiancando, rivolgendosi direttamente a Marco, il quale sembrava avere tutta l’aria di chi non desiderava altro che sparire, «Il sindaco di Sabaody è tuo padre?».
Bingo! Pensai sarcastico, godendomi la scena imbarazzante tra i due.
«Ehm, si?» mormorò il poveretto interrogato, accennando ad un sorriso timido e insicuro.
«Non ci posso credere!» sbottò Ace, alzando le braccia al cielo e arrivando ad un passo da una crisi isterica. Un’occhiata d’intesa a Penguin e Bepo bastò per farli scattare e affiancare il ragazzo, calmandolo e incitandolo a fare profondi respiri per calmarsi e non dare di matto. Certo che le sorprese non finivano mai in quell’ultimo periodo.
«Questi due sono figli della massima autorità del paese e tuo padre è il capo della polizia. Che coincidenza, non trovi, Eustass-ya?» dissi, pensando ad alta voce, rivolgendomi principalmente al rosso che, irrigidendosi a quelle parole, si ritrovò con gli occhi di tutti addosso quando si voltò a guardarci visto che era di spalle quando l’avevo interpellato.
«Sei il figlio di Smoker?».
«Ma dai, Fumoso è tuo padre? Sai che è il mio poliziotto preferito? Mi fa stare sempre davanti quando mi riporta a casa dalla centrale».
«Potresti chiedergli di annullarmi una multa?».
«Tenere chiusa quella tua boccaccia è troppo difficile per te, Trafalgar?» sputò Kidd, ignorando le domande degli altri e scoccandomi un’occhiata incazzata con quei suoi occhi di un insolito color ambra che, dannazione, tanto mi piacevano.
Mi strinsi nelle spalle, ghignando indifferente, «Mi è scappato» mi scusai, per niente dispiaciuto in realtà, ma questo per lui era ovvio, ormai mi conosceva. Anzi, ci conoscevamo entrambi abbastanza da capirci al volo.
«Ehi, anche voi vi spogliate con lo sguardo come fanno Marco e il ragazzino? Wow, che alchimia» constatò Thatch, facendo vergognare di esistere i due ragazzi chiamati in causa e ottenendo, a sua insaputa, la mia approvazione per la giusta intuizione. Eustass-ya ed io combattevamo le nostre battaglie private in silenzio, ma con tanta intensità che chi ci vedeva era costretto a spostare lo sguardo altrove. Restavamo solo lui ed io. Sempre.
«Tutto questo è così romantico» si intromise Brook con aria sognante.
«Forza allora, tutti al Moby Dick!» esplose Rufy, avviandosi verso le auto e trascinandosi dietro tutti quanti.
Kidd ed io ci ritrovammo presto alla fine della coda, uno di fronte all’altro e senza interrompere il contatto visivo.
Fu lui a rompere il silenzio, avvicinandosi un po’ per prendermi il viso tra le mani e, con lentezza esasperante, chinandosi a baciarmi leggermente. Non era un gesto che faceva spesso perché implicava l’essere gentili, calmi, pazienti e una diabetica dose di dolcezza, cosa che stonava parecchio col suo carattere, ma quello era il suo modo per esprimere quel qualcosa che avevamo. Una volta ogni tanto poteva permetterselo ed io potevo accettarlo.
Eustass Kidd era un maledetto stronzo, psicopatico e intrattabile, con grossi problemi di autocontrollo ma, nonostante tutti quei difetti, era l’unica persona che mi aveva accettato per quello che ero veramente, senza chiedere nulla in cambio. Lui mi aveva fatto smettere di scappare, costringendomi ad affrontare la Vita faccia a faccia e ad andare avanti lasciandomi tutto il resto alle spalle.
Lui era il mio tutto e il mio nessuno.
Puntualmente dovette rovinare quel momento, mordendomi a tradimento un labbro e incamminandosi poi per raggiungere il resto degli sbandati con un ghigno vittorioso in faccia. Quella volta era stato più svelto di me.
Sospirando esasperato iniziai a seguirli, corrugando la fronte quando il telefono iniziò a squillarmi nella tasca dei pantaloni. Un’occhiata al display mi mostrò un numero che non avevo salvato in rubrica, ma che continuava a chiamarmi da qualche giorno a quella parte. Così, per togliermi l’impiccio, decisi di rispondere una buona volta e mettere fine a quella seccatura.
«Pronto?» domandai seccato.
Dall’altro capo una risata che mai avevo dimenticato mi gelò il sangue, mozzandomi il respiro e immobilizzandomi sul posto.
In quell’esatto istante il mondo sembrò perdere metà della sua bellezza.
«Ciao Law».












Angolo Autrice.
Buonsalve a tutti ^^ spero stiate bene e siate pronti per leggere alcune note che fanno sempre bene.
Dunque, oggi iniziamo con Kidd, eterno bastardo super fiol che, con l’intento di vendicarsi di Trafalgar, pensa bene di portarlo dalla cara Ivan e da Smoker, commettendo il suo errore più madornale, ma dettagli. Era ovvio che Law non si sarebbe di certo fatto intimorire da un poliziotto e da una donna eccentrica. Figuriamoci! Oltre al danno la beffa perché il nostro rosso non poteva non essere investito da una pioggia di palle di neve! Oh, quanto li ho amati, non potevo non mettere la scena! Soprattutto quando si sfiorano le manine **
Anyway, passiamo ora a Ace! Ecco la novità: il suo nuovo lavoretto a stretto contatto con Marco. Oh si, io non oso immaginare cosa combineranno la dentro! E si, ormai penso sia chiaro che tra loro le cose si stanno facendo interessanti, lo spiega bene Ace stesso che, ogni volta che può, non perde l’occasione di mangiarsi il barista con gli occhi e viceversa. Devo tenerli buoni. Devo. Poi, ovviamente, chi non vorrebbe avere Thatch come collega?
Passando a Law. Ecco, forse lui non vorrebbe trovarsi nello stesso luogo con quel pazzo ch sembra avere la lingua abbastanza lunga da mettere in difficoltà pure uno con la sua abilità nello sfottere le persone. Ma perdoniamolo, sono tutte insinuazioni simpatiche e, da una parte, abbastanza vere dato che lui e Kidd passano più tempo a letto che fuori casa, ma va bene! A me va benissimo!
I due hanno i loro momenti di litigio dove si insultano, cose che capitano e più che normali per loro, ma a volte si ritagliano un piccolo attimo per, beh, come si può dire? Mi vengono in mente verbi troppo impegnativi. In poche parole si dimostrano qualcosa. il tratto dominante del loro carattere è il peggio del peggio, ma, secondo me, a volte ritengo sia normale lasciarsi andare a piccole cose, quindi ho inserito quel bacio che, per la precisione, è finito per diventare una disputa a chi morde l’altro per primo.
Ultima cosa: chi ha telefonato a Law? 
Ringrazio tutti per essere passati, per continuare a seguire e per le recensioni. Siete tutti essenziali e Grazie, Grazie per tutto.


See ya,
Ace.

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 18. Mentre tutto scorreva. ***


Capitolo 18. Mentre tutto scorreva.

 

Nothin' goes as planned. Everything will break.

 

Qualcosa non andava, qualcosa mi sfuggiva da un po’ di giorni, solo non  riuscivo a capire cosa di preciso. Dire che era cambiato tutto nel giro di un istante era dire poco e, per quanto mi sforzassi di essere attento, di prendere in considerazione ogni singola situazione, non trovavo nessuna soluzione a quella strana sensazione di malessere che si era annidata dentro di me, nascondendosi nel profondo, ma senza andarsene e facendosi sentire nei momenti meno opportuni.

Da un po’ Trafalgar si comportava in modo strano, più strano, e non sembrava avere l’intenzione di dare spiegazioni a nessuno, mantenendosi distante e piazzando ridicole scuse sullo studio e l’università per non uscire, rispondere al telefono o anche solo parlare. Si rinchiudeva in camera e da lì non usciva se non per strette necessità, così almeno mi aveva detto Killer, informato da Penguin, il quale era ancora più preoccupato. A detta sua, il medicastro non aveva mai avuto problemi nel prendersi avanti con i progetti scolastici e gli esami li aveva passati con ottimi voti.

Ma allora, perché allontanarsi e isolarsi in quel modo?

Mi passai stancamente una mano sul viso, scompigliandomi i capelli e cercando di riprendere a mangiare il mio pasto, ma la verità era che non avevo affatto fame e l’idea di ingozzarmi per forza mi dava la nausea, così gettai tutto nei rifiuti e misi il piatto nel lavello. Più tardi l’avrei lavato, quando sarei tornato da lavoro dato che la mia pausa finiva tra circa un’ora.

Quel giorno ero tornato a casa perché avevo un brutto presentimento e, quando stavo in quel modo, non mi sbagliavo mai. C’era una strana elettricità nell’aria e mi sentivo costantemente irrequieto, come se i miei nervi percepissero il pericolo. Mi sembrava di essere osservato a volte, ma poi mi guardavo attorno e mi riscoprivo solo, al sicuro, e allora mi domandavo per quale maledetta ragione non riuscissi ad essere del tutto rilassato e menefreghista come al solito.

Mi chiedevo che razza di fine avesse fatto Trafalgar e cosa cazzo gli stesse passando per la testa, soprattutto cosa significavano tutte quelle balle che mi rifilava per evitare di vedermi.

L’ultima volta che eravamo stati assieme era stato lo scorso venerdì, quando ci eravamo ritrovati tutti per la prima volta nel locale dove Ace aveva iniziato a lavorare e non mi sembrava che ci fossero stati problemi, anzi, aveva sempre mantenuto la solita faccia da schiaffi e l’atteggiamento da irriverente bastardo, ma oltre a questo tutto mi era apparso in ordine e a posto. L’unica possibilità poteva essere stato il bacio che ci eravamo scambiati, diverso dal solito, ma non nuovo. Insomma, non era certo il genere di gesto che ci si aspettava da uno rude e poco fine come me, ma ormai avrebbe dovuto conoscermi e capire che, nonostante tutto, non ero completamente un insensibile e a volte, rare per chiarezza, non mi dispiaceva dimostrarglielo, ricordandogli che di me poteva fidarsi.

Poi era accaduto tutto di fretta: mi ero allontanato un attimo per raggiungere gli altri e, quando anche lui si era avvicinato, avevo capito che era successo qualcosa di brutto. Andiamo, era impallidito e non gli avevo mai visto un’espressione seria e impenetrabile come quella che aveva sfoggiato in quel momento. Sembrava aver eretto un muro invalicabile di ghiaccio. Aveva detto di sentirsi poco bene e tutti gli avevano creduto, io compreso data la faccia cadaverica che aveva, ma non ne volle sapere di farsi riaccompagnare da nessuno, nemmeno da me, preferendo chiamare un taxi e salirci a bordo senza salutare o aggiungere altro oltre che un misero ‘starò bene’.

 

People say goodbye in their own special way.

 

Allora avevo creduto che non volesse farsi vedere debole o qualche altra stronzata legata al suo orgoglio e amor proprio, ma poi la situazione era andata complicandosi ed ero ormai convinto che non si trattasse di una malattia, al contrario, sembrava che tutto fosse molto più grave. Me lo confermava il suo silenzio di quei giorni: non mi aveva mai cercato, nemmeno per avvisarmi che stava meglio o per chiedermi scusa. Si, perché ero anche piuttosto incazzato dato il suo comportamento idiota ed egoista. Che cazzo, contava così poco la mia opinione? Non ero forse una delle persone che più gli erano vicine? E, per essere chiari, non ero io quel suo stramaledetto fidanzato che tanto si era divertito a presentare in giro?

Volevo sapere che diavolo stava accadendo e capire come mai, tutto d’un tratto, decideva di ignorarmi e fare come se non esistessi; come se non fossi un dannato nessuno, quando era chiaro che per lui ero quel tipo di nessuno. Soprattutto volevo proprio che venisse a dirmi le cose chiaramente e direttamente in faccia, senza rinchiudersi nel suo silenzio e mutismo e lasciarmele intendere.

Perché, per quanto assurdo potesse sembrarmi e per quanto cercassi di scacciarla a forza dai miei pensieri, l’idea che Trafalgar avesse deciso di non voler avere più niente a che fare con me, lentamente, si stava facendo sempre più presente nella mia mente e mi stava logorando semplicemente perché non vedevo altra motivazione plausibile per il suo comportamento da stronzo. Perché avrebbe dovuto ignorarmi così? Perché andarsene in quel modo senza dire una sola e maledetta parola? Perché non mi cercava? Cosa avevo fatto di sbagliato?

Non lo sapevo e questo mi tormentava giorno e notte. L’insicurezza, il fatto che potesse essersi reso veramente conto di tutti i miei difetti, che potesse essersi stancato di avere a che fare con un testardo e miserabile come me. Dopotutto era lui quello intelligente, quello bravo, quello bello e pieno di soldi, perché perdere tempo, quindi? Non ero altro che un vandalo, un pezzente se confrontato con lui.

Ma non volevo ancora arrendermi del tutto a quella teoria, doveva esserci per forza una valida spiegazione a tutto quel casino, senz’altro c’era ed io, come al solito, ero troppo cocciuto e stupido per vederla. Allora, perché Trafalgar non mi sfotteva e mi spiegava la questione come sempre? Perché quella volta doveva essere così diverso? Se solo pensavo alla brutta piega che avrebbe potuto prendere quella storia nella peggiore delle ipotesi mi sentivo vagamente male, non riuscivo a concentrarmi e ad immaginarmi come avrebbe potuto essere. Era come se tutto quello che avevo programmato, dato per scontato, tutto ciò che fino a poco tempo prima avevo creduto possibile, in quel momento avrebbe potuto sgretolarsi in briciole davanti ai miei occhi e risultare falso, irraggiungibile.

 

All that you rely on and all that you can fake.

 

Forse era colpa mia. Forse era per qualcosa che avevo fatto tempo addietro e che non era più riuscito a sopportare, decidendo di darmi una lezione e lasciarmi da solo a riflettere, ma non capiva che in quel modo non faceva altro che irritarmi di più e mandarmi fuori di testa? Non era esattamente la soluzione migliore quella, lo preferivo quando mi faceva entrare in zucca le cose a suon di battutine acide, insulti e schiaffi. Oh si, il bastardo usava gli artigli quando voleva, a suo rischio e pericolo, e senza troppi scrupoli.

Non ricordavo di aver mai fatto niente che potesse creare problemi, a parte gli improperi che gli urlavo dietro quando ero incazzato; i dispetti; le vendette attuate uno contro l’altro; il sale nel caffè e l’acqua del water nel bicchiere dello spazzolino, questa era stata una sua idea, tutto era regolare. Per noi comportarci in modo orribile era normale, quindi non mi capacitavo del perché del suo comportamento così assurdo.

Certo, non ero perfetto, non lo ero mai stato, ma se volevamo dirla tutta nemmeno lui era l’icona della meraviglia. Andiamo, io sarò anche stato un disadattato sociale, un incivile, ma lui era uno psicopatico, malato con la medicina. Tra i due chi era quello preso meglio?

Nonostante tutto doveva essere successo qualcosa che l’aveva in qualche modo turbato, non c’era altra risposta. Dopotutto non era strano solo nei miei confronti, persino i suoi coinquilini, per quanto stupidi, si erano accorti che qualcosa era cambiato e, nel giro di una giornata, mi avevano tutti telefonato chiedendomi spiegazioni, scoprendo che persino io non sapevo cosa cazzo avesse quella prima donna col ciclo.

Avevano quindi capito che la colpa, quella volta, non era mia e la scoperta aveva complicato ulteriormente le cose dato che nessuno aveva la minima idea di come comportarsi e come fare per tirarlo fuori da quella stanza prima che decidesse di lasciarsi morire.

 

And nobody here's perfect. Oh, but everyone’s to blame.

 

Il telefono di casa suonò in quel momento, riscattandomi dai miei pensieri e dal torpore che mi aveva assalito le membra quando mi ero sdraiato sul divano a rodermi il cervello, così, inciampando nel tappeto e bestemmiando tanto da far impallidire tutte le religioni esistenti, raggiunsi l’apparecchio e risposi con stizza.

“Passo da te tra dieci minuti” mi avvisò una voce fin troppo famigliare dall’altro capo, cogliendomi di sorpresa e lasciandomi senza parole per un minuto buono, durante il quale cercai di riprendermi il prima possibile per ribattere per le rime.

“Cosa ti fa pensare che sia a casa?” risposi burbero, stringendo la cornetta nelle mani. Finalmente si era deciso di ritornare tra i vivi.

Bene, si innalzino cori di Alleluia!

“Hai risposto al telefono” spiegò in tono saccente, “A tra poco”. E riattaccò senza dire altro, lasciandomi nella completa confusione per quelle sue stramberie che non avrebbero smesso mai di stupirmi.

Avrei dovuto essere sollevato da quella notizia, ma non mi sentivo affatto tranquillo. Qualcosa nella sua voce mi aveva allarmato: non stava bene, era chiaro e il tono che aveva usato per informarmi era lontano anni luce da quello canzonatorio e spensierato con cui soleva sfottermi in casi come quello. Un tempo saremmo rimasti a battibeccare per una buona mezz’ora, invece in quel momento era bastato neanche un minuto per concludere.

Presi un respiro profondo e mi preparai ad aspettarlo con le braccia incrociate e un cipiglio decisamente poco cordiale, il mio tipico assetto da battaglia, quello con cui praticamente andavo in giro prima di conoscerlo, quando ancora le persone, per quanto buone fossero, non mi stavano affatto simpatiche. Così aspettai il suo arrivo, intenzionato ad andare fino in fondo in quella faccenda e a vederci chiaro.

Scacciai per l‘ennesima volta il pensiero che quella fosse la fine. Non avevo motivo per crederlo, lui non era il tipo che si comportava in quel modo per una sciocchezza. Era uno stronzo, ma non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere, non in quella maniera, non quando ci eravamo spinti così oltre, non quando avevo preso una decisione così importante. Non poteva farlo.

 

Oh you're in my veins and I cannot get you out.

 

* * *

 

Quella sera mi sentivo proprio stanco, tanto che avrei potuto prendere sonno sul bancone e non mi sarei stupito affatto se fosse successo davvero dopo una giornata pesante come quella che avevo passato.

All’università avevo avuto lezione le prime ore del mattino, dovendomi alzare abbastanza presto per presenziare e non perdermi il nuovo argomento; all’ora di pranzo avevo fatto in tempo a mangiare solo una mela perché poi ero schizzato di tutta fretta, a piedi per la precisione, alla caffetteria per non arrivare tardi a lavoro. Era stato tutti inutile, cinque minuti di ritardo, di nuovo, non me li levò nessuno e, nonostante Marco non mi rimproverasse mai per così poco, mi dispiaceva non riuscire ad essere efficiente in tutto. Ad ogni modo il pomeriggio ero stato totalmente immerso tra i clienti, per la maggior parte ragazzi, dato che la notizia del mio nuovo impiego si era sparsa a macchia d’olio tra le mie conoscenze e tutti avevano preso a passare da quelle parti per salutarmi e curiosare in giro, affezionandosi al posto accogliente, al servizio impeccabile e all’ottimo menu, diventando automaticamente nuovi clienti. Quindi non avevo fatto altro che volare da un tavolo all’altro con le ordinazioni, battere scontrini ed evitare le insinuazioni sessuali di Thatch quando mi rifugiavo in cucina per mangiare un boccone di nascosto. Oltre a questo, Marco aveva ben pensato di mettermi ai lavori forzati e riordinare l’ala dedicata alle poesie in previsione dell’imminente evento che, in quel momento, stava avvenendo sotto al mio sguardo annoiato. Fortunatamente non c’era così tanta gente quella sera e, con mia grande felicità, nessuno sembrava intenzionato a ordinare da bere, lasciandomi il tempo di riprendere le forze nell’angolino remoto del bar, dove mi sedetti, appoggiando i gomiti al bancone e accoccolandomi con la testa su di essi, sbadigliando sonoramente. Se mi concedevo un riposino di cinque minuti non sarebbe morto nessuno, figuriamoci e, se ero fortunato, non si sarebbero nemmeno accorti di niente.

 

And that I find my corner. Maybe tonight I'll call you.

 

Il sonno mi colse non appena chiusi gli occhi e da quella posizione non mi schiodai per un pezzo, inconsapevole dei tentativi di Thatch di spremermi la panna sulla faccia o di svegliarmi di soprassalto, tentativi che, per la precisione, vennero tutti impediti dall’animo troppo gentile e altruista di Marco che, vedendomi così esausto, aveva deciso di lasciarmi riposare e arrangiarsi da solo, tenendo sotto stretta sorveglianza il fratello irrequieto fino a quando non fu sicuro di averlo sbattuto fuori non appena il bar si fu svuotato.

Per quanto mi riguardava, non avevo fatto altro che dormire placidamente e senza pensieri.

Dei leggeri, ma insistenti, colpetti alla schiena mi strapparono dal mondo dei sogni, facendomi mugugnare qualcosa di indistinto e sbattere le palpebre per scacciare gli ultimi residui di sonno, in modo da vederci meglio. La prima cosa che notai fu Marco che, sempre tenendomi una mano sulla spalla, mi sorrideva gentilmente, blaterando qualcosa riguardo l’ora. Prima di ricollegare il cervello, mi consessi un attimo per immaginare come sarebbe stato svegliarmi sempre col suo sorriso affianco.

Notando la poca luce all’interno della sala e non udendo il classico chiacchiericcio delle persone o il monotono ritmo di quelli che leggevano poesie, una brutta consapevolezza si fece strada nella mia mente e fu così che indirizzai lo sguardo verso l’orologio appeso alla parete davanti a me, scoprendo che il mio pisolino era durato la bellezza di due ore.

“Dio, sono quasi le tre” mormorai, passandomi le mani sul viso fino ad arrivare ai capelli, spostandomeli dalla fronte nel vano tentativo di riprendere almeno un po’ di contegno. Se volevo farmi licenziare quella era la strada giusta. Dormire a lavoro, fantastico, mi mancava solo quella.

“Veramente sono le tre e un quarto” mi corresse Marco, appoggiandosi con la schiena al bancone in modo da guardarmi in faccia mentre parlava. Non sembrava arrabbiato, non lo era mai quando combinavo qualche guaio ma, nonostante tutta la sua pazienza, mi sentii veramente uno schifo. Insomma, lui mi offriva un lavoro in cui mi chiedeva semplicemente di aiutarlo quando ce n’era più bisogno ed io che facevo? Poltrivo, ecco cosa e non volevo che si facesse idee sbagliate su di me perché ci tenevo davvero a rendermi utile e a fare del mio meglio per non deluderlo. Sembrava però che, per quanto mi impegnassi, il Destino mi remasse contro.

“Sono un idiota” dichiarai, guardando dritto di fronte a me perché non sapevo ancora come fare per affrontarlo e chiedergli di perdonarmi. Per l’ennesimo pasticcio.

Ridacchiò prima di rispondere, togliendosi intanto il grembiule e appoggiandolo dietro di sé, “Nah, eri solo stanco, non c’è niente di male. Non sei ancora abituato a fare turni del gen…”.

“Marco, ti prego” feci acido, zittendolo e prendendolo alla sprovvista. Non ce l’avevo con lui, ma con me stesso, “Smettila di difendermi, così è peggio”.

Rimase in silenzio per un attimo, rispondendomi alla fine con la solita calma. “Va bene. Che vuoi che faccia?”.

Baciami.

“Ma che ne so!” sbottai, “Insomma, guarda, non c’è più nessuno e tu hai già sistemato tutto, spento le luci, abbassato le serrande e hai persino pulito tutte le stoviglie! Quello dovevo farlo io! E a quest’ora avresti potuto essere già a letto, invece sei qui a farmi da balia per un mio errore” conclusi, sentendomi incredibilmente più leggero, anche se stupido. Dovevo essere impazzito per avere una reazione del genere, probabilmente ero ancora mezzo addormentato o quello era un brutto sogno. Come poteva anche solo passarmi per la testa di rispondere in modo così irrispettoso al mio capo? D’accordo che, ormai, più che il mio datore di lavoro era un amico, ma questo non implicava che avessi il diritto di comportarmi come uno schizzato.

Eppure non mi sembrava di aver bevuto, quindi non potevo nemmeno dare la colpa di tutto a una sbornia con i fiocchi perché in servizio non mi azzardavo a bere. Festeggiamenti indetti da Thatch a parte e indimenticabili figure di merda.

 

After my blood turns into alcohol.

 

“Dovresti arrabbiarti” sussurrai, più a me stesso che a lui, “Me lo meriterei, dopotutto”.

Lo sentii sbuffare e mi voltai appena in tempo per vederlo alzare gli occhi al cielo prima che mi scompigliasse i capelli con una mano, ridendo della mia espressione sorpresa e dandomi dell’idiota.

“Sei proprio un ragazzino” aggiunse poi, sapendo quanto detestassi quel nomignolo. Ancora non gli era chiaro che doveva smetterla di chiamarmi in quel modo. In ogni caso rimandai le discussioni perché ci tenevo a chiarire una cosa che ritenevo piuttosto importante.

“Senti, sto solo cercando di dire che non voglio approfittare della tua pazienza, davvero, e non voglio nemmeno che tu pensi questo di me. Cioè, puoi pensare quello che vuoi, ovvio ma, quello che cerco di spiegarti è che, praticamente…”.

“Ace, sta zitto” disse Marco, sorridendomi e guardandomi come se fossi la cosa più buffa sul pianeta. Di certo dovevo esserlo per forza dato che quel sorrisetto non gli era mai scomparso dalla faccia da quando avevo aperto gli occhi.

“Io non penso affatto che tu stia approfittando della nostra amicizia, ci mancherebbe, e credimi quando ti dico che non hai fatto nulla di grave. Sul serio, se dovessi scegliere chi sgridare, il primo della lista sarebbe Thatch”.

Sorrisi involontariamente e lui sembrò sollevato, assicurandomi che era tutto a posto e che dovevo smetterla di preoccuparmi per sciocchezze come quelle.

“Grazie” feci, sinceramente grato per tutta la disponibilità che dimostrava nei miei confronti e per un sacco di altre cose. In quei giorni avevo scoperto che lavorare lì mi piaceva da matti, mi divertivo e non mi annoiavo mai, soprattutto perché, se non c’erano clienti, potevo chiacchierare tranquillamente con Thatch o con Marco e con loro le risate e il buonumore erano assicurati.

Fece un cenno disinvolto con la mano, “Non c’è di che, figurati”.

E poi avevo l’opportunità di poterlo guardare ogni volta che ne avevo voglia; bastava che mi voltassi a destra o a sinistra e lo trovavo sempre, in alcuni casi non se ne accorgeva, mentre in altri lo ritrovavo intento a fissarmi pure lui. Era come una specie di calamita: non potevo evitare di cercarlo e di sorridere ogni volta che mi rendevo conto che avevamo un sacco di tempo a nostra disposizione.

Non gli avevo mai detto quanto mi faceva piacere passare a salutarlo quando ancora non conoscevo il suo nome, non ne avevamo mai parlato. A pensarci bene, non sapeva nemmeno che mi programmavo tutti i pomeriggi in modo da tenermi libero la maggior parte del tempo per riuscire ad andare a trovarlo. Per non parlare di quanto adorassi la sua cioccolata o i waffles, ma quelle erano solo piccole cose. Avrei dovuto dirgli di come mi ero sentito la prima volta che ci eravamo visti, quando mi aveva offerto quella tazza di caffè che ormai consideravo solo ed esclusivamente mia. Infatti, da quando lavoravo lì, avevo pensato bene di tenerla da parte, come se fosse un qualcosa di speciale. E per me lo era davvero, proprio come lo era lui. Mi aveva praticamente stravolto la vita con quella espressione apparentemente disinteressata, si poteva dire che era stato proprio quel suo comportamento distaccato a mettermi in moto con l’intento di riuscire a strappargli un sorriso, una parola, qualsiasi cosa pur di avere la sua attenzione, pur di arrivare a valere qualcosa per quel ragazzo che celava tutto dietro una facciata di menefreghismo. Forse avrei dovuto anche spiegargli com’era stato bello e dannatamente perfetto quel nostro bacio, anche se aveva portato con sé un effetto devastante. Avrebbe dovuto sapere che avevo persino creduto di odiarlo e mi sembrava carino metterlo al corrente di tutte le maledizioni che gli avevo lanciato prima di capire i miei sbagli. Avevo compreso che le cose si sarebbero sistemate da sé e così era stato. Aveva mai provato a immaginare come mi ero sentito lusingato quando aveva deciso di sua spontanea volontà di passare la vigilia di Natale e capodanno con persone che con la sua famiglia non c’entravano nulla? Aveva una vaga idea di cosa aveva significato per me quell’abbraccio sotto la neve? E chissà se si era accorto come e con che occhi lo guardavo a volte.

Forse in quel momento avrei dovuto essere io ad abbracciarlo. Un semplice gesto per ringraziarlo come meritava.

 

No, I just wanna hold you.

 

Dopo tutto quello che avevamo passato, però, ancora non ero abbastanza coraggioso e così sospirai, guardando altrove e interrompendo il contatto visivo che, fino ad allora, era rimasto intatto. Probabilmente aveva avuto tutto il tempo di leggermi l’anima, dato che mi ripeteva spesso che per lui ero un libro aperto. Meglio così, mi sarei risparmiato un discorso impacciato e incomprensibile.

“Sarà meglio che vada” esalai infine, accennando ad un sorriso e alzandomi dallo sgabello, stiracchiandomi con le braccia verso l’alto e venendo colto all’improvviso da un altro sbadiglio mentre il pennuto sghignazzava con ironia.

Rivolgendogli un’infantile linguaccia mi avviai verso la porta e, quando fui a metà strada, pensò bene di farmi notare un particolare piuttosto interessante e necessario alla mia intenzione di ritornarmene in appartamento.

“Ace” cantilenò, “Il tuo cappotto”.

Cercai di ignorare l’effetto che mi fece quella sua espressione da sbruffone e, a testa bassa, lo raggiunsi in poche falcate, determinato a non guardarlo per nessuna ragione al mondo e a recuperare in fretta la giacca abbandonata nello sgabello accanto al mio che prima non avevo notato. Probabilmente prima di svegliarmi aveva anche provveduto a lasciarmela a portata di mano.

“Allora b-buonanotte” borbottai appena gli fui accanto, sporgendomi per prendere il cappotto, ma non arrivandoci mai.

Proprio in quell’istante Marco si staccò dal bordo del ripiano bar, afferrandomi per un braccio e facendomi fare un passo indietro, verso di lui. Credetti che il suo intento fosse quello di abbracciarmi e ne fui sinceramente contento, quello che non mi aspettavo, invece, era di sentire le sue mani accarezzarmi gentilmente il viso prima che le sue labbra si posassero dolcemente sulle mie, straziandomi lentamente mentre si muovevano calme, ma decise.

Non era un bacio prepotente, non mi stava trattenendo, non mi stava nemmeno costringendo; ancora una volta si preoccupava per me, lasciandomi libero di colpirlo, di allontanarlo; lasciandomi la possibilità di scegliere, di decidere cosa fare. Mi stava dando il tempo per reagire, continuando a baciarmi, ma senza pretendere nulla in cambio, infatti la mia espressione era ancora stupefatta e incredula, anche se tutto il resto del mio corpo fremeva nel desiderio di avere di più. Perché ormai non mi bastava vederlo due o tre volte la settimana; non mi bastava parlarci assieme; le nostre chiacchiere non mi soddisfavano e i nostri sguardi non erano mai abbastanza. Lavorare assieme si era rivelata una bella novità e credevo che sarei stato contento, invece mi ero ritrovato a volere, a pretendere sempre di più. Sempre.

Nonostante mi fossi ripetuto mille volte che le piccole cose mi sarebbero andate bene, in quel momento quello che avevo non era abbastanza, ormai era chiaro, e ignorare il fuoco che sentivo bruciare dentro di me ogni volta che ci trovavamo vicini mi stava divorando piano, piano. Come in quell’attimo: quel bacio mi stava distruggendo, o meglio, l’avrebbe fatto sicuramente se l’avessi fermato.

 

Give a little time to me, we'll burn this out.

 

Mi sentii male quando sciolse il contatto, trovandomi ancora immerso nei miei pensieri e con l‘aria di chi non ha del tutto realizzato la situazione. Aprii la bocca per pronunciare anche solo una sillaba, ma dovetti chiuderla. E riaprirla. E chiuderla di nuovo. Probabilmente credette che il mio comportamento fosse dovuto da un rifiuto, così lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi e, non senza un certo imbarazzo, tentennò qualche secondo nello scegliere cosa dire. Alla fine chiuse gli occhi, volgendo il capo verso il soffitto, e sussurrò un’unica parola, sorridendo amaramente.

“Scusami”.

“Mi stai chiedendo di mostrarmi indifferente dopo questo?” gli domandai in un mormorio sommesso. Temevo di rovinare tutto se avessi alzato la voce, quando attorno a noi l’unico rumore erano i nostri respiri e il battito impazzino del mio cuore che mi rimbombava in testa incessantemente. Una cosa era certa: la situazione tra noi era cambiata di molto e quella volta non gli avrei permesso di nascondersi, assolutamente. Ormai eravamo in bilico, da una parte o dall’altra dovevamo pur cadere. Perché, allora, non farlo assieme?

Non sostenne il mio sguardo e lo spostò altrove come faceva quando ci trovavamo improvvisamente troppo vicini per sembrare solo impegnati a conversare. Succedeva spesso quando parlavamo e, non appena ci accorgevamo di aver superato le distanze stabilite dalla buona educazione, non riuscivamo mai a risultare disinvolti.

“Non ci riesco” decretai, non stupendomi nel vederlo fraintendere le mie parole, “Non ci riesco proprio”.

Prima che potesse rendersene conto, gli presi il volto tra le mani e lo baciai, provando di nuovo la fantastica sensazione di ardere.

Una strana euforia esplose dentro di me quando mi sentii afferrare per i fianchi e avvicinare ulteriormente al suo corpo. Dio, quanto l’avevo sognato quel momento.

Poi, quando fu Marco a riprendere il contatto e a renderlo più profondo, corsi ad afferrare le sue spalle e pensai semplicemente che quello che provavo era fuoco vivo senza ogni dubbio.

 

We'll play hide and seek to turn this around.

 

Tutto ciò era il delirio totale, mi sentivo quasi in estasi. Quante volte mi ero chiesto che effetto facesse abbracciarlo? Quante? Talmente tante che avevo perso il conto. Quel corpo era perfetto, Marco era perfetto, non c’era altro da aggiungere. Mi teneva in considerazione, mi ascoltava e non sminuiva le mie trovate, a detta mia geniali, ma che al resto del mondo risultavano stupide. Mi incoraggiava a mettermi in gioco, a non mollare mai. E così avevo fatto con lui, nonostante tutto, non avevo mai smesso di sperare che qualcosa cambiasse, che si accorgesse di me, che mi considerasse. Solo allora mi ero reso conto che, in realtà, l’aveva sempre fatto.

Mi allontanai di qualche centimetro per riprendere fiato e venni investito da uno sguardo carico di significati e parole non dette, tanto che ne rimasi incantato. Intanto le mie mani non avevano smesso un attimo di stringere il colletto della sua camicia, mentre le sue sembravano avere tutta l’intenzione di strapparmela.

“Resta da me” disse in un sussurro, stringendomi di più a sé e, quasi automaticamente, il cavallo dei miei pantaloni diventò misteriosamente più stretto, tanto che mi ritrovai senza fiato e risposi con un cenno affermativo del capo per evitare ulteriori inconvenienti.

Dopo aver chiuso a chiave l’entrata, dato che io non me ne sarei andato, spegnemmo le luci rimanenti e poi lo seguii farmi strada lungo un corridoio sul retro, arrivando davanti a delle scale che portavano direttamente al secondo piano.

“Beh, puoi permetterti il lusso di dormire fino all’ultimo minuto” scherzai, tanto per alleggerire la tensione. Sinceramente stavo solo cercando di calmarmi dato che non escludevo la possibilità di essere colto da un improvviso infarto, tanto il mio battito cardiaco era su di giri. Non sapevo bene come comportarmi e mi sentivo esattamente come spesso si divertiva a descrivermi: un ragazzino.

“E’ piuttosto comodo, in effetti” concordò Marco, aprendo la porta di casa sua e invitandomi ad entrare con la sua solita tranquillità, perfettamente padrone di se stesso.

Con il cuore in gola misi piede dentro l’appartamento, gradendo infinitamente il calore che emanava il riscaldamento acceso e sentendomi subito a mio agio, nonostante l’entrata fosse buia e priva di illuminazione. Il pennuto provvide subito a questa mancanza e fece scattare l’interruttore, illuminando immediatamente la stanza; dopo di che mi prese il cappotto e, assieme ad un mazzo di chiavi e alcuni telecomandi per l’allarme, lo ripose in uno stanzino poco lontano, incitandomi a precederlo e ad accomodarmi pure in salotto.

Mi piaceva quel posto, ce lo vedevo perfettamente aggirarsi tra quelle mura bianche con il soffitto di un azzurro sfumato e tutto il resto in ordine, rispecchiava parecchio la sua personalità posata e calma. Quanto fosse calmo a letto, però, ancora non lo sapevo e mi risparmiavo dal prestare ascolto ai pettegolezzi di Thatch per rispetto nei suoi confronti e perché, spesso, erano rivolti a far arrossire me.

Ah, maledizione, devo smetterla di ascoltare quell’idiota e le sue storie! pensai, scuotendo il capo e afferrandomi il viso con le mani, cercando di non lasciarmi prendere dal panico e di tranquillizzarmi. Non c’era niente di cui preoccuparsi, ero con Marco e sarebbe andato tutto bene. Non era quello che avevo sempre desiderato? Era arrivato il mio momento, quindi perché essere nervoso? Davvero non riuscivo a capirlo e più ci pensavo più mi sentivo inadeguato.

E se non gli piacessi? Pensa che casino! Magari non, cioè, forse dovrei, che ne so, comportarmi in un determinato modo? E domani che succederà? Dovrò andarmene? Sul serio, dovrò farlo? Io non…

“Ehi”.

Come riuscisse sempre ad apparire dal nulla ancora non mi era del tutto chiaro, probabilmente era una sua dote naturale, come l’essere dannatamente attraente, nonostante un taglio di capelli assurdo. Ad ogni modo non c’era spazio per le battute, non in quel momento, non quando cercava di capire se mi sentissi bene o se fosse il caso di fermarsi prima di andare troppo oltre.

Sapevo che, se solo gliel’avessi chiesto, mi avrebbe lasciato andare, ma, davvero, era l’ultima cosa che volevo. Quello che mi premeva, in quel momento, era poterlo baciare ancora, e ancora, e ancora.

 

And all I want is the taste that your lips allow.

 

Oh, fanculo tutto.

Smisi di pensare e crearmi problemi dove non ce n’erano e agii d’istinto, voltandomi verso di lui e circondandogli il collo con le braccia senza dargli tempo di aggiungere altro, assaggiando di nuovo quelle labbra su cui tanto avevo fantasticato.

“Ace” mugugnò, cercando di riprendere fiato, “Ne sei proprio sicuro?”.

“Che domande!” sbottai, alzando gli occhi al cielo e togliendomi la maglia da solo, facendolo ridere per la frenesia dei miei gesti.

“Hai così tanta fretta?” scherzò, imitandomi e sorridendo davanti alla mia aria sognante quando anche la sua camicia finì alle sue spalle.

“Chiudi il becco, ti prego” quasi lo implorai. Non c’era nulla che valesse tanto quanto quel momento, nulla. E di certo non avevo intenzione di rinunciarvi.

Mi attirò a sé, portandosi a un soffio dal mio viso, “Sai una cosa? Non vedevo l’ora” mi confessò prima di riprendere da dove avevamo lasciato.

Non arrivammo mai alla sua camera da letto quella notte, ma non aveva importanza. Avrei fatto il giro turistico della casa il mattino seguente, o quando saremo stati in comodo perché, per quel momento, avevamo cose ben più interessanti da fare. Soprattutto, dovevo pur dimostrargli che non ero affatto un ragazzino.

 

My my my my give me love.

 

* * *

 

“No”.

“No?”.

“No, semplicemente non ci credo” dichiarò, incrociando le braccia al petto senza muoversi di un passo e fissandomi così intensamente da insinuarsi nella mia testa e scavarmi fin dentro nell’anima. Cosa che dovevo assolutamente impedirgli se volevo togliermi da quell’impiccio una volta per tutte.

“Non è possibile che dopo tutto quello che abbiamo passato tu adesso…”.

“Passato cosa, Eustass-ya?” gli chiesi con voce calma e distante miglia da quel luogo, risultando comunque il più sarcastico possibile, “Abbiamo semplicemente continuato a vederci per scopare, che altro c’è da dire? Ti mancherà il sesso? Non preoccuparti, troverai di sicuro qualcun altro che sappia soddisfarti”. Doveva pur esserci un modo per sbarazzarmi di lui e smetterla con quella storia durata ormai troppo a lungo. Ci avevamo provato e d’accordo, era stato divertente all’inizio, ma ero arrivato al limite. Ogni cosa finiva, prima o poi.

 

When you try your best but you don't succeed.

 

“E per quale motivo dovrei andare in cerca di un’altra puttana, sentiamo?” ribatté scettico, poggiando le mani sui fianchi e scoccandomi un’occhiata furente. Perfetto, finalmente si stava arrabbiando e, quando questo accadeva, significava che avrebbe presto perso le staffe e smesso di ragionare prima di parlare.

Ci avevo riflettuto a lungo su quello che stavo per fare ed ero arrivato alla conclusione che fosse tra tutte la soluzione migliore per ognuno. Certo, non avevo chiesto l’opinione di nessuno e avevo deciso tutto da solo, non curandomi affatto di quello che gli altri avrebbero avuto da dire, ma facendo semplicemente ciò che mi pareva più giusto e adatto alla mia situazione. Dopotutto, non ero mai stato bravo con i rapporti a lunga durata.

Così quel giorno avevo deciso che era arrivato il momento di chiarire bene le cose una volta per tutte e avevo chiamato quell’idiota montato di Eustass-ya in tutta fretta perché temevo che, se ci avessi pensato meglio, mi sarebbe mancata la determinazione per farlo. Quindi mi ero precipitato da lui nel giro di qualche minuto, trovandolo all’ingresso ad aspettarmi dove, per l’appunto, ci trovavamo in quel preciso istante, intenti a scannarci con lo sguardo, uno di fronte all’altro, come di consuetudine. C’era, però, una sola e importante differenza quella volta: non si trattava dei nostri soliti litigi, più adatti ad una coppia sposata che a dei ragazzi della nostra età, ma bensì di qualcosa di più difficile da inculcare in testa a quello svitato.

“Perché mi sono stancato” ammisi, trattenendo a stento l’esasperazione e non curandomi dei suoi occhi innaturalmente fuori dalle orbite per lo stupore delle mie parole. Tutto ciò non mi toccava minimamente, non mi importava nulla se gli sembrava assurdo o uno scherzo, perché non lo era affatto. Quei mesi erano stati uno spreco di tempo prezioso, l’avevo capito solo allora e troppo tardi. Mi era tutto indifferente, lui compreso, e le sue accuse mi scivolavano addosso senza scalfirmi minimamente. Se la sarebbe cavata, senza dubbio, e mi avrebbe dimenticato nel giro di poco tempo come avrei fatto io.

“Stronzate, Trafalgar! Dimmi che cazzo significa tutto questo!” sbottò, intestardito a voler trovare un significato plausibile a tutto ciò. Possibile che fosse così ottuso? Non c’era nulla da capire, a parte il fatto che, semplicemente, non volevo più continuare quel malsano rapporto che era venuto a crearsi tra di noi. Ne avevo avuto abbastanza ed ero arrivato al punto in cui stargli dietro era diventato tremendamente stancante. Era peggio di un moccioso.

Tutto quello, però, sembrava non volerlo capire. Quanto a fondo ci eravamo spinti in quella relazione per trovarmi così in difficoltà a metterle fine? Non chiedevo altro, solo concludere in fretta quella tortura.

 

When you get what you want but not what you need.

 

“Eustass, fattene una ragione” sputai secco, “Per me non conti più niente”.

Il colpo fu così veloce e inaspettato che non me ne resi conto fino a quando non sbalzai contro la parete, ritrovandomi con uno zigomo dolorante e due occhi fiammeggianti di rabbia piantati nei miei senza lasciarmi via di fuga. Era sempre così, un violento e un manesco. Ed io, maledizione, ero così debole.

“Non. Ti. Credo” sillabò minaccioso. Era determinato a non accettare le mie decisioni e, se volevo avere la possibilità di scrivere una volta per tutte la parola fine, ero praticamente costretto a sbattergli in faccia la cruda e vera realtà dei fatti, sicuro che in quel modo l’avrei ferito irrimediabilmente e nel modo peggiore di tutti.

Pazienza, c’erano cose peggiori di un cuore spezzato.

Gli dedicai il mio ghigno più maligno, mentre il mio viso assumeva un’espressione di pura sufficienza e menefreghismo. Volevo che vedesse chiaramente quanto poco mi importasse di lui e delle sue stupide ed inutili lamentele. Così, dopo essermi assicurato di avere tutta la sua attenzione, gli rovesciai addosso un’occhiata di disprezzo.

“Sono stato a letto con un altro, caro Eustass-ya” scandii lentamente e in modo chiaro, con voce quasi derisoria, sottolineando il fatto che non me ne importasse minimamente, anzi, tutto ciò mi divertiva, “E di te non ho più bisogno”.

Il tempo sembrò fermarsi, scandito solamente dal suo respiro ansante e dal mio cuore che, incontrollato, batteva a briglia sciolta nel mio petto, come se volesse uscire.

La sua espressione era illeggibile, come se il suo viso fosse stato di pietra e la luce che fino ad allora aveva brillato come una fiamma viva nei suoi occhi si spense nell’esatto istante in cui smise di tenermi affisso al muro, lasciandomi quindi scivolare con i piedi per terra mentre mi dava le spalle, stringendo convulsamente e con forza i pugni lungo le braccia.

Il solito sentimentale.

Quando si voltò quasi mi sentii sprofondare nell’oblio per la scarica di disgusto che mi rivolse con uno sguardo micidiale e carico d’odio, rancore, risentimento e qualcos’altro di più profondo e personale. Abbandono, forse? Rifiuto? Mi liberai di quella sgradevole sensazione con una scrollata di spalle, sentendomi comunque vagamente stanco e spossato. Mi ripetevo che quella era la cosa migliore, che non potevo essermi sbagliato. Non ero nel torto, non dovevo e non potevo esserlo.

 

When you feel so tired but you can't sleep. Stuck in reverse

 

“Vattene” sussurrò, apparentemente calmo, ma con l’aria di chi è appena stato svuotato di qualsiasi emozione o sentimento, “E se oserai rimettere piede nella mia vita giuro che ti ucciderò con le mie stesse mani”.

Senza smettere di ghignare, senza smettere di apparire intoccabile come sempre, senza perdere il mio disinteresse e senza abbassare lo sguardo dal suo, intenzionato a vincere quella partita fino all’ultimo, raccolsi la mia giacca e mi avviai verso la porta a passo lento, maledicendomi per la debolezza del mio cuore che, incurante delle mie decisioni, continuava a battere impazzito, tanto che, da un momento all’altro, avrei potuto benissimo ritrovarmelo tra le mani, pulsante, vivo e carico di sofferenza.

Non una parola uscì dalla sua bocca, tanto meno dalla mia e, dandogli le spalle dopo un ultimo sguardo, uscii da quella casa e raggiunsi l’auto, mantenendo un’espressione ghignante e uscendo dal quartiere, immettendomi nella strada principale.

Non sarei tornato subito in appartamento, no, prima avevo un’altra tappa da fare così, nel giro di una quindicina di minuti, raggiunsi un parco pubblico in periferia, spesso molto tranquillo e silenzioso, soprattutto a quell’ora in cui tutti se ne stavano a casa a mangiare o a fare un pisolino.

Solo dopo che ebbi parcheggiato poco lontano dalle fronde sempreverdi dei pini ancora innevati, incamminandomi fra quei sentieri con le mani affondate nelle tasche nell’intento di scaldarle, raggiungendo una vecchia panchina abbandonata, mi permisi di smetterla con quel sorriso che tanto mi era costato sfoggiare, facendomi serio e togliendomi il cappello, in modo da non celare più i miei occhi al resto del mondo e sperando di trovare conforto nel lieve venticello invernale.

Solo allora abbassai completamente le mie difese, lasciando che la valanga di desolazione che mi ero tenuto dentro fino a pochi istanti prima, permettendole di straziarmi nel profondo, mi investisse senza pietà, soffocandomi con la sua pesantezza. Ed era così opprimente, così dolorosa che persi totalmente il controllo sul mio corpo e sulle mie emozioni.

 

And the tears come streaming down your face. 

 

Le mie mani tornarono gelide a contatto con l’aria fredda e, tremanti, corsero a coprire i miei occhi. Nonostante i miei sforzi, però, non passò molto prima che mi ritrovassi con le ciglia, le dita e le guance inondate d’acqua salata. Un gusto amaro e famigliare.

Mi sentivo morire, tanto che mi ritrovai accasciato a terra, senza nemmeno sapere come ci ero finito, con le braccia intente a stringermi con forza il petto per la desolazione che provavo e per cercare di alleviare almeno in parte quel dolore infernale che sentivo bruciarmi nell’amina, nei polmoni, nel cuore fino alla testa.

Ero un mostro, un essere orribile e avevo appena allontanato per sempre dalla mia vita l’unica persona che avesse mai dimostrato un po’ di umanità nei miei confronti, l’unica che non era scappata davanti al mio passato, l’unica che mi aveva accettato e che non si era tirata indietro anche quando aveva saputo quanto schifo facessi come esse umano, come uomo, e quanto fossi incapace di esprimermi quando si trattava di sentimenti.

L’avevo abbandonato nel peggiore dei modi e non l’avrei riavuto mai più. Avevo appena rinunciato a tutto, tutto ciò per cui valesse la pena sorridere. Io, che di sorrisi non sapevo nulla, ma che avevo imparato come mi facessero sentire bene ogni volta che quel capelli rossi me ne rivolgeva uno, anche se per un attimo, anche se poi mi mandava a fanculo.

Avevo perso Kidd e niente avrebbe mai preso il suo posto. Niente e nessuno.

 

When you lose something you can't replace.

 

Non avrei mai pensato di ritrovarmi in quelle condizioni, inginocchiato a terra e appoggiato ad una misera panca, intento a piangere tutto il dolore che mi ero portato dentro quei giorni. Non uno solo, ma tutti gli sbagli di una vita, della mia vita, a partire dall’infanzia. Ne avevo fatta di strada da allora e, crescendo, avevo imparato che al mondo solo poche cose meritavano davvero la mia attenzione, o anche un minimo accenno di interesse. Fino ad alcuni mesi prima la mia esistenza gravitava unicamente attorno alla medicina, alla scienza, al diventare il miglior chirurgo di tutti i tempi, ma poi le cose erano cambiate nel giro di una notte, stravolgendo la mia vita, me compreso, e ricostruendomi da capo.

Perché era questo che Kidd aveva fatto: mi aveva svuotato di tutta la merda che mi portavo appresso con una forza e una determinazione invidiabili e difficili da attribuire a uno come lui e mi aveva rimesso a nuovo, un poco alla volta, con impazienza e con modi alquanto discutibili, ma ce l’aveva fatta. Si era offerto come ancora di salvezza ed io mi ci ero aggrappato con tutto me stesso nella speranza che forse mi ero sbagliato, forse anche io mi meritavo uno spiraglio di felicità dopotutto e non ero destinato a vivere nell’oblio del passato. Avevo davvero creduto di potercela fare, di poter respirare a pieni polmoni una boccata d’aria pulita e cancellare con essa tutto ciò che mi inquinava.

Purtroppo, però, non era così che doveva andare. Probabilmente qualcuno lassù mi odiava e aveva deciso che per me era arrivato il momento di smetterla di vivere in un miraggio, in un qualcosa che, prima o poi, doveva svanire e riportarmi alla realtà.

Il risveglio da quel sogno che tanto avevo desiderato potesse essere vero, sfortunatamente, era avvenuto nel modo più orribile, traumatico e pauroso di tutti. Il mio incubo personale aveva trovato la via per infettare anche il mio presente con il suo veleno e questo, questo era ciò che più mi spaventava.

“Sai, Law, ho riflettuto molto durante questi anni passati in quel buco dove mi hai spedito, e ho anche pensato a come distruggerti. Oh, non ti preoccupare, lo farò nel modo più divertente e doloroso possibile, mi conosci. Ho saputo che condividi un appartamento con Penguin e Bepo, vero? Me li ricordo quei ragazzini, erano sempre così timidi e impauriti quando mi incontravano. L’altro ragazzo, invece, non lo conosco. E’ un tuo nuovo amico? Ho scoperto che si chiama Ace e che è il nipote di un ex agente della polizia, uno di quelli che spesso venivano a ficcanasare nei miei affari oltretutto. Da quel che ho sentito suo fratello è una mina vagante, ma sono entrambi così giovani! Che peccato sarebbe se succedesse loro qualcosa. Tu che ne pensi? Non ci sono troppi incidenti e troppe vittime al giorno d’oggi? Quante disgrazie accadono. Ma non pensiamo al peggio per adesso e raccontami un po’ come stai, figliolo. Oh? Non rispondi? Beh, al tuo posto anche io sarei rimasto di pietra, ma lascia che ti dica che muoio dalla voglia di conoscere questo Eustass Kidd di cui ho tanto sentito parlare. Stando a quello che si dice in giro è il tuo fidanzato. Sbaglio? No? Chi tace acconsente. Ho qui alcune sue foto e a prima vista sembra proprio un piantagrane. Ha l’aria del tipico rissaiolo, con quell’espressione sempre corrucciata. Mi domando come vi sopportiate. Immagino comunque che eliminarlo non sarà semplice, ma… Come dici? Devo stargli lontano? Bingo! Finalmente una reazione da parte tua, figliolo! Quindi è proprio vero: hai ancora un cuore tenero e debole. Molto bene, molto bene! Ora ascoltami attentamente: se non vuoi che al tuo ragazzo capiti qualcosa di brutto, come una bella pallottola in testa, dovrai allontanarlo da te. Fallo uscire dalla tua vita, feriscilo, spezzagli il cuore e, di conseguenza, calpesta il tuo, Law. In questo modo, con te già distrutto per metà, la mia vendetta sarà ancora più godibile”.

Questo era il patto che avevo stretto col Diavolo quella sera.

Dovevo assicurarmi che arrivasse ad odiarmi a tal punto da non volermi più vedere, ne sentire nominare. Doveva detestarmi e disprezzarmi, cancellarmi per sempre dalla sua vita. Doveva dimenticarmi e non cercarmi mai più. E tradire la sua fiducia, anche se per finta, era l’unico modo per assicurarmi la sua salvezza, per tenerlo al sicuro e lontano dai guai. Non doveva per forza sapere come stavano realmente i fatti, non avrebbe mai dovuto scoprirlo; era meglio se mi credeva un maledetto bastardo, piuttosto che vederlo prendere parte alla causa e mettersi in mezzo in affari che non lo riguardavano. Perché sapevo che l’avrebbe fatto, sapevo che avrebbe insistito per starmi vicino e aiutarmi ad affrontare la cosa, ma non potevo permetterglielo. Non potevo rischiare di metterlo in pericolo continuando a stare con lui, ci tenevo troppo per essere così egoista e, soprattutto, non volevo un’altra morte sulla coscienza.

Kidd non avrebbe dovuto morire, non per colpa mia; io non lo meritavo, non valevo così tanto come lui che con quel suo comportamento da stronzo era arrivato a significare tutto per me. E questo, quel figlio di puttana che credevo morto, l’aveva capito e aveva sfruttato la cosa a suo vantaggio.

Se non avessi preso le distanze da tutti quelli che amavo lui li avrebbe uccisi uno ad uno sotto ai miei occhi.

 

When you love someone but it goes to waste.

 

E faceva male, malissimo sapere di non avere altra scelta se non quella di arrangiarmi, come avevo sempre fatto. Affrontare i demoni del passato di nuovo, più solo che mai, senza nessuno a cui appoggiarmi. Ma era un sacrificio che ero pronto a fare. Lui voleva me, gli altri non c’entravano. Kidd non c’entrava e, ora che non aveva più niente a che fare con me, sarebbe stato in salvo, lontano da ogni pericolo. Così doveva essere, così doveva andare. Sarebbe andato avanti con la sua vita, sarebbe finito in galera un paio di volte, certo, ma sarebbe stato felice e, chissà, forse si sarebbe innamorato di nuovo, un giorno, e sarebbe stato felice. Se lo meritava per aver sprecato il suo tempo con una causa persa come me.

Mi morsi un labbro con forza per soffocare un gemito di dolore, ma fu tutto inutile e il respiro mi uscì come un lamento straziante. Tremavo, tremavo e non riuscivo a smettere, nemmeno se mi concentravo e cercavo di tranquillizzarmi. Quella sensazione che per anni era stata lontana ora mi sembrava così famigliare che, per un doloroso istante, credetti di ritrovarmi nella mia vecchia casa con mia madre senza vita davanti ai miei occhi ancora troppo giovani e innocenti per sopportare quella vista.

Non avrei permesso per nessun motivo al mondo che accadesse di nuovo. Nessuno avrebbe più dovuto morire per me.

Separarmi da Kidd era stata la decisione più difficile che avessi mai dovuto affrontare e, se non fossi stato così un bravo attore, non ce l’avrei fatta a sopportare il suo sguardo duro, ma avrei ceduto molto prima, raccontandogli tutto e chiedendo perdono, perché da solo non potevo farcela. Alla fine ci ero riuscito, l’avevo messo in salvo, anche se in quel modo mi ero spezzato a metà e privato di qualsiasi emozione.

Che cosa strana era l’amore, ti calpestava e ti lasciava a terra fulminato.

Avevo sempre creduto di essere al di sopra di certe cose ma, a quanto pareva, nemmeno io ero sfuggito a quel sentimento così complesso, eppure capace di scaldarmi il cuore.

 

Could it be worse? 

 

Poteva andare peggio. Presto sarebbe tutto finito e allora avrei smesso di pensare, di sentire dolore, di soffrire. Il mio cuore non avrebbe più battuto all’impazzata per uscirmi dal petto, si sarebbe semplicemente fermato una volta per tutte.

Sapevo a cosa andavo in contro, dopotutto quello che stavo passando era il frutto di una vendetta appena messa in atto contro di me e, alla fine, l’ultima punizione sarebbe stata la morte stessa.

Ma andava bene, davvero, se c’era una cosa che non mi preoccupava minimamente in quel momento era la Morte. Figuriamoci, quello era il minimo e l’avrei accettata a braccia aperte, accogliendola come una vecchia amica o come una benedizione, avrei accettato tutto pur di avere la certezza che i miei amici e Kidd fossero al sicuro.

Respirai profondamente e una fitta al pezzo mi mozzò il fiato, tanto che mi strinsi ulteriormente tra le braccia per placare quello strazio che sembrava essere solo all’inizio.

Ci si sentiva così quando si perdeva qualcosa? Era quello l’effetto che facevano i sentimenti? Mi stavo davvero spezzando come il mio cuore?

E così, mentre tutto scorreva, io mi sentivo morire.

 

Lights will guide you home and ignite your bones. And I will try to fix you.

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
Va bene, ehm, iniziamo dalle cose semplici. Per fare chiarezza, stavolta mi sono basata tanto sulle canzoni, sono state il mio pane quotidiano per una settimana perché ho tipo scritto tre capitoli per prendermi avanti.
Uhm, dunque, partiamo con Kidd che è preoccupato. Si, preoccupato. Avete presente quelle brutte sensazioni che vi prendono lo stomaco e che non riuscite a scacciare? Quelle che avvisano l’arrivo di qualcosa di brutto. Ecco, lui si sente così. E, credetemi, parlo per esperienza, quelle sensazioni non portano mai niente di buono. E’ come se sapessi già che tutto sta per andare a puttane. Il peggio è che, alla fine, non puoi farci niente. Ed è orribile. Quindi lui sta passando un momentaccio e, quando Law chiama, si sente peggio perché nota il cambiamento.
Alleggeriamo un po’ il tutto e passiamo a Ace? Che dite? Si, dai. Allora, ripetiamo i botti di capodanno dato che, FINALMENTE, è successo qualcosa! Ow, yep, non avete letto male e le vostre menti poco caste possono immaginare tutto ciò che vogliono ** spero solo di avervi soddisfatti, come ho già detto, ho un blocco e non riesco a scendere troppo nei particolari, mi dispiace, scusatemi immensamente. Ad ogni modo spero solo che le emozioni compensino, mi affido a quelle. Mhm, c’è altro? se dimentico qualcosa fatemelo sapere, va’ ^^
Ritorniamo alle note dolenti.
Law.
Ascoltate la canzone che ho scelto per lui, vi prego e pensateci. Pensateci perché c’è una frase che, mentre scrivevo, mi ha distrutta e avrei voluto prenderlo e abbracciarlo fino a farlo smettere di stare in quel modo ma, odiatemi pure, ho dovuto lasciarlo così: spezzato.
Chi credeva che all’inizio fosse serio, a proposito, quando allontanava Kidd? Volevo mettere la spiegazione nel prossimo capitolo, ma poi veniva fuori un casino, quindi eccola e, sorpresa! Ve lo ricordate il padre che Law ha spedito in carcere? Bene, è tornato per vendicarsi, Capitan Ovvio, e la sua idea è quella di isolare suo figlio per poi, beh, vedremo per cosa.

A proposito, è la prima volta che mi cimento in una cosa del genere perché di solito sono tutta farfalle e arcobaleni e unicorni rosa, so gay **, quindi volevo chiedervi un parere generale sul tutto perché, insomma, non vorrei pasticciare ^^
Altro? Uhm.
Yup, gli Spoiler Free:
 
Cercai di capire cosa stavo provando in quel momento, muovendomi nella desolazione che mi aleggiava attorno, scrutando in ogni meandro della mia testa e andando alla ricerca in mezzo ai mille pezzi in cui tutto il mio essere era stato dilaniato dal male. Guardai in ogni angolo, setacciai ogni buco della mia coscienza, ma non trovai da nessuna parte quel sentimento che sembrava sparito.
In me non vi era la benché minima traccia di perdono.
*
“Se gli dovesse…” si bloccò, scuotendo il capo e correggendosi, “Se vi dovesse succedere qualcosa, allora quel bastardo avrebbe davvero la vittoria in pugno e questo non glielo permetterò anche a costo della mia stessa vita”.
“E q-quindi che vuoi f-fare?” balbettai, tirando su col naso e abbassandomi il frontino del cappello sugli occhi.
“Gli darò quello che vuole” concluse atono, alzandosi e avviandosi per ritornarsene in camera, lasciandomi con un infinito senso di tristezza e impotenza.
“Me”.
*
Come potevo, quindi, rischiare che venisse fatto loro del male? Avrebbe voluto dire mettere in pericolo anche le vite dei loro cari, come quella di Rufy, di Zoro e Sanji, le ragazze e il resto di sbandati che, ne ero certo, non meritavano la fine. E poi c’era Kidd nella lista e avrei fatto di tutto purché non gli accadesse nulla.
“Siete dei completi idioti, ma è anche vero che come amici siete i migliori”.
 
Spero davvero di aver reso l’effetto che volevo, in caso contrario prometto che cercherò di fare del mio meglio la prossima volta.
Grazie a tutti per il sostegno e per qualsiasi altra cosa. Grazie ai vecchi e ai nuovi lettori. Grazie.
Un abbraccio grande e restate sintonizzati,
See ya,
Ace.

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Capitolo 21
*** Capitolo 19. La promessa di una vita. ***


Capitolo 19. La promessa di una vita.

 

Attorno a me regnava un fastidioso e opprimente silenzio. Nulla si muoveva, nulla faceva sentire la propria presenza, non riuscivo nemmeno a udire il mio respiro. Ero come estraniato dal mondo, tagliato fuori in un’altra dimensione. A quanto pareva il corso di yoga era servito in parte a qualcosa di positivo: evadere con la mente dal corpo per non sentire.

Ci stavo riuscendo, davvero, e all’inizio non mi era sembrata così scadente come cura al mio problema, ma poi le cose avevano iniziato a complicarsi, rendendo tutto più difficile.

Sdraiato a terra al centro del salotto, circondato dal casino dei mobili ribaltati e di tutti gli oggetti sparsi per la stanza, frantumati in mille pezzi, vagavo con la mente a miglia e miglia di distanza, pensando a tutto e a niente nello stesso istante, cercando con tutto me stesso di non perdere la testa, di lasciar correre, ripetendomi che andava bene, che non doveva importarmi, che, infondo, me l’ero sempre aspettato e che da quel momento in poi sarei stato libero per sempre da una piaga immonda.

La terapia funzionava, era come essere rinchiusi in una bolla, sottovuoto, ma non mi salvava dal dolore che stavo provando e che mi scorreva nelle vene in un flusso continuo, passando dal cuore e avvelenandomi lentamente, artigliandomi le viscere e scavandosi un rifugio per non abbandonarmi e continuare indisturbato a distruggermi piano, piano, dall’interno.

Alla fine era successo davvero, per quanto ancora non ci credessi. Tutto si era spezzato, rotto, andato in pezzi. Il sipario era calato su tutta quella farsa e, per quanto avessi lottato, per quanto avessi cercato di essere forte, mi aveva distrutto dentro.

Cosa avevo fatto di sbagliato per dargli motivo di tradirmi in quel modo? Non ne avevo idea, ma ero sicuro di non aver meritato quella punizione. Ero un maledetto bastardo, lo sapevo, ma non poteva avermi riservato un trattamento del genere; non ero uno straccio, ma una persona come tutte le altre anche io, con dei sentimenti, per quanto potesse sembrare impossibile.

E lui, senza la minima pietà, li aveva calpestati. Stracciati. Se ne era completamente fregato e ci aveva sputato sopra con noncuranza, come se contassero meno di zero. Come se io stesso non avessi alcun valore.

Continuare a cadere in trance ormai non aveva più effetto perché la mia testa aveva ripreso a funzionare così, lentamente, mi alzai dal pavimento freddo, vagando per i corridoi come un fantasma, muovendomi con gesti automatici e ritrovandomi nel giardino sul retro che confinava con il piccolo fiumiciattolo che attraversava quella zona della periferia. L’aria era fredda e il terreno era ancora coperto dalla neve mentre gli alberi spogli davano una triste visione di se stessi con i rami secchi e irrigiditi dal gelo. Non sentivo nemmeno il vento sfiorarmi la pelle delle braccia scoperte e insinuarsi dentro i vestiti, non rabbrividii neanche per un istante. Mi scivolava tutto addosso senza scalfirmi minimamente.

Ma se fuori potevo apparire semplicemente come uno che cercava di prendersi la polmonite, dentro di me una tempesta di dolore, sofferenza e odio mi stava dilaniando.

 

I have fallen to my knees.

 

Mi cedettero le gambe e mi ritrovai inginocchiato a terra appena fuori l’uscio della porta e, in breve tempo, i pantaloni iniziarono a inumidirsi a contatto con la neve.

Avevo odiato Trafalgar fin dal primo momento in cui l’avevo incontrato. Silenzioso, spaccone e con l’atteggiamento da difensore dei deboli; solo dopo avevo scoperto che, in realtà, a lui piaceva schiacciare le persone non appena ne aveva l’occasione. Già all’inizio aveva subito dato segno di volermi mettere i bastoni tra le ruote e ci era anche riuscito oltretutto ma, a quanto pareva, non gli era bastato. Per qualche assurdo scherzo del Destino me l’ero ritrovato tra i piedi ed ero stato costretto a sopportare la sua brutta faccia tosta, quel caratteraccio da saccente e le arie da superiore che si dava come se tutti dovessero baciare la terra su cui camminava. Alla fine, poi, per colpa di qualche bicchiere di troppo, mi ero ritrovato con lui nel mio letto e fra le sue gambe.

Strinsi i pugni, pensando a denti stretti che quello era stato senza ombra di dubbio il peggior errore della mia vita. Avevo agito da completo idiota, ammaliato da nemmeno io sapevo cosa perché non riuscivo più a trovare un aspetto positivo di lui; non aveva niente, non provavo niente, solo un gran desiderio di colpirlo fino a vederlo stramazzare a terra in fin di vita, esattamente quello che avrei dovuto fargli quella maledetta sera, quando aveva lui messo in ginocchio me durante una stupidissima rissa da quattro soldi.

E l’aveva appena rifatto a giudicare dalla mia attuale situazione.

Un sorriso amaro si affacciò sul mio volto mentre stringevo con forza i pugni fino a far sbiancare le nocche. Non sapevo proprio cosa avrei fatto da quel momento in poi, come avrei passato le mie serate e il fine settimana. Sarei ritornato a bere come un dannato? Probabilmente si e anche peggio di prima. Avrei lavorato fino a tardi per far passare il tempo senza avere più il desiderio di ritornare a casa, come facevo quando avevo la consapevolezza che presto sarebbe arrivato qualcuno a farmi visita. Sarebbe tutto cambiato, io stesso sarei diventato un essere diverso, volgendo al peggio e ritornando a condurre una vita spericolata. Dopotutto, era da tanto che non mi mettevo nei guai finendo per fare una visitina inaspettata in caserma al mio vecchio genitore.

Sentivo la rabbia montare ad ogni minuto che passava, l’orgoglio ferito bruciava peggio del fuoco e l’umiliazione per essermi spinto così oltre e così a fondo in quello schifo di rapporto mi faceva sentire un vero scarto. Ero stato rifiutato, nel peggiore dei modi, messo da parte come qualcosa di usato che ha perso l’importanza.

Mi sentivo così: ero stato rifiutato, anzi no, peggio, abbandonato come un cane senza la possibilità di dire la mia, senza l’opportunità di difendermi, di capire, di parlare, di ammazzarlo di schiaffi e fargli recuperare la ragione perché no, non mi capacitavo e non riuscivo a credere che tutto quel tempo trascorso e condiviso assieme l’avesse messo da parte nel giro di pochi giorni. Era impossibile che mi avesse snobbato senza il minimo rimpianto perché, dicesse pure quello che gli pareva, io per lui ero stato tutto.

 

As I sing a lullaby of pain.

 

Mi stavo crogiolando nel dolore. Tutto attorno a me sembrava fermo, immobile, solo io sembravo l’unico pezzo che stonava in quella scenografia. Magari si fosse trattato di tutta una messa in scena, allora il mio stato d’animo non sarebbe stato reale. Invece, a conti fatti, per Trafalgar era stato davvero tutto un gioco di cui, alla fine, si era stancato. Io non gli servivo più, non sapeva che farsene di uno come me, di un violento e stupido ragazzo immaturo che non avrebbe mai potuto competere con lui e la sua schiera di amichetti perfetti.

Io non ero così, non ero il tipo che passava gli anni migliori della vita sui libri per arrivare in alto, non lo ritenevo necessario. Mi accontentavo di quello che avevo, non vivevo sotto i ponti e stavo bene così. Di cos’altro avrei avuto bisogno? Sarebbe tornato tutto come prima.

Mi morsi forte un labbro al pensiero che la mia esistenza da quell’ora in avanti sarebbe stata estremamente vuota perché, dentro di me, da qualche parte ben nascosta, sapevo esattamente non di cosa, ma di chi avevo bisogno.

Perché Trafalgar mi era entrato nelle vene come un virus e mi aveva infettato il sistema, arrivando a raggiungere il cuore, quell’inutile muscolo di cui avrei fatto volentieri a meno in quell’istante, quando una fitta di dolore mi trafisse senza preavviso, facendomi sussultare e spalancare gli occhi come se mi fosse appena stata tolta l’aria.

Quanto avrei dato per potermelo strappare via e lanciarlo lontano, per non sentire, per non provare niente. Dannazione, era assurdo il modo in cui i sentimenti e le emozioni fossero collegate ad un organo pulsante e piccolo. A pensarci bene, la vita di chiunque dipendeva da quel minuscolo muscolo; se quello smetteva di funzionare andava tutto a puttane. Come il mio mondo, il quale era appena diventato nient’altro che cenere.

C’era stato un tempo di stabilità tra noi e, nonostante la strana e contorta routine, le cose andavano bene. Voleva che fossi il suo nessuno, non voleva scappare e andarsene; mi rivolgeva soltanto ghigni sadici, ma sapevo che quando mi dava le spalle era perché voleva celarmi i suoi sorrisi; mi guardava negli occhi quando lo facevo mio e nel silenzio di quegli attimi mi permetteva di leggergli l’anima.

E poi mi aveva buttato via.

Battei i pugni sul terreno ghiacciato e indurito dalla stagione fredda, sentendomi cogliere da una scossa di rabbia che mi investì come un’onda anomala, impossessandosi di me e annebbiandomi la mente.

Così iniziai a gridare con tutto il fiato che avevo, liberando tutta la mia frustrazione e sentendo come tutto il peso che avevo in corpo mi abbandonasse. Urlai, urlai contro il cielo, contro la vita, contro il fato che mi aveva riservato quello schifo. Tutto il dolore, tutto l’odio che provavo, tutta la sofferenza che mi stava opprimendo si mescolarono e mi fecero impazzire per un attimo. Quella era la triste canzone che mi accompagnava, tutto ciò che mi riempiva le orecchie, l’unico rumore che mi stava facendo esplodere la testa.

 

I'm feeling broken in my melody.

 

Stavo andando in mille pezzi, ogni parte di me era come se si stesse staccando per allontanarsi. Avrei tanto voluto che succedesse davvero, avrei tanto voluto poter fermare quel momento, bloccare quello scoppio che mi stava rovinando, fermare quell’attimo, ma non sapevo come fare e non potevo. Forse nemmeno volevo. Forse me l’ero meritato. Doveva essere la giusta punizione per farmi imparare ciò che mai avrei dovuto dimenticare: l’amore non esisteva. Era solo una storia che raccontavano gli stolti. L’unico pregio era il sesso, il resto era spazzatura. Ti coinvolgeva per un po’ di tempo e poi ti abbandonava tutto d’un tratto, lasciandoti all’improvviso senza una ragione per andare avanti. Ti uccideva in mille modi diversi.

Io ero stato tradito. Tradito come non mi era mai successo prima. Tradito e ferito nel profondo come nessuno mai aveva osato fare, nemmeno per sbaglio. Questo andava oltre una spalla lussata, un labbro rotto o le nocche sbucciate. Era peggio delle costole incrinate, di un colpo alla testa, di un incidente. Questo era persino peggio di un proiettile.

Era una vera e propria pugnalata alle spalle.

Ed io mi sentivo maledettamente morto dentro.

Continuai a urlare e quando sentii il fiato mancarmi allora mi fermai un istante per ricaricarmi e ricominciare da capo perché non trovavo altro modo per sfogarmi. L’aria mi bruciava nei polmoni, le corde vocali erano sul punto di strapparsi esattamente come era successo al mio animo e tutto sembrava sul punto di incrinarsi e rompersi in modo irrimediabile. Di certo al mio cuore era appena successo questo dopo aver resistito a lungo. Un colpo secco, un sussulto che mi mozzò il respiro ed ecco la fine. Un brivido di freddo mi percorse violentemente la spina dorsale e arrivò al cervello dove ogni pensiero correva a briglia sciolta senza un ordine preciso, proiettando immagini a caso e spezzoni di ricordi che avrei dovuto cancellare e dimenticare per sempre. Quando nella mia mente rividi l’immagine di Trafalgar piegato in due dalle risate nella mia cucina mi sentii mancare e una fastidiosa sensazione iniziò a premermi e a pungermi gli occhi, inumidendoli.

 

As I sing to help the tears go away.

 

Con un gesto stizzito mi passai una mano sugli occhi e scacciai la tristezza. Non mi sarei abbassato a tanto per un verme, non mi sarei reso ulteriormente ridicolo e mai più l’avrei ricordato con affetto. Da quel momento, per me, Trafalgar Law era morto. Rimaneva solo il ricordo di un vile, di un codardo e di un traditore della peggior specie.

Mi rialzai con un cipiglio scuro in volto, respirando pesantemente e stringendo i denti per non riprendere a urlare.

Cercai di capire cosa stavo provando in quel momento, muovendomi nella desolazione che mi aleggiava attorno, scrutando in ogni meandro della mia testa e andando alla ricerca in mezzo ai mille pezzi in cui tutto il mio essere era stato dilaniato dal male. Guardai in ogni angolo, setacciai ogni buco della mia coscienza, ma non trovai da nessuna parte quel sentimento che sembrava sparito.

In me non vi era la benché minima traccia di perdono. Non c’era un briciolo di affetto, di compassione o di ragione alla quale appellarsi per tentare di rimettere in sesto le cose. Mi sentivo completamente vuoto, stanco e indifferente.

Per il resto non c’era spazio, non v’era più nulla.

 

Then I remember the pledge you made to me.

 

Pensavo che le cose sarebbero andate diversamente, credevo che insieme avremo potuto farcela, tra alti e bassi, ma che gli ostacoli non avrebbero rappresentato un problema per due caratteri come i nostri. Eravamo qualcosa di unico, di mai visto, di schifosamente speciale. Eravamo noi, avevamo un nostro qualcosa e stavamo bene.

A quanto pareva, però, non era bastato. Trafalgar non ci sarebbe più stato per me, avrei continuato da solo per la mia strada, come al solito, come ero stato abituato, senza l’aiuto di nessuno. Non ne avevo bisogno, me la sarei cavata benissimo con le mie forze. Mi sarei rimesso in piedi e avrei continuato a camminare a testa alta senza paura di niente e di nessuno. Non mi sarei più fatto abbindolare come uno sciocco, non avrei più dato interesse a chi non lo meritava, nessuno sarebbe più riuscito a colpirmi. Una volta era bastata. Avevo visto come erano destinate a finire le cose e non volevo rivivere mai più una sensazione del genere. Mai, mai più.

 

I hear the words you say.

 

Non sarebbero bastate le parole per riaggiustarmi, a nulla avrebbero servito le scuse, le preghiere, niente mi avrebbe riportato a com’ero una volta dopo che la promessa di una vita era stata infranta. Sarei tornato ad essere quello di un tempo, un bastardo piantagrane a cui non fregava un emerito cazzo del resto del mondo con un’unica differenza: non mi sarei più fidato di nessuno e non avrei permesso ad anima viva di avvicinarsi troppo a me. Sarei stato il Diavolo in persona, dopotutto, avevo avuto un buon maestro, no?

Inconsciamente avevo sperato di potercela fare, di arrivare ad ottenere quello che la maggior parte delle persone aveva e che le rendeva felici. Mi ero sentito bene in quei mesi, a modo mio s’intende, ma mi era parso che qualcosa fosse cambiato in meglio e ero arrivato persino a credere che insieme avremo potuto…

Cristo, quanto sono stato coglione! Non avremo mai vissuto così vicini. Non avrebbe mai accettato ed io non avrei mai avuto il coraggio di chiederglielo. A cosa sarebbe servito? Ad ammazzarci prima nel sonno?

Mi passai stancamente una mano tra i capelli, ritrovandoli fradici di neve. Alzai così lo sguardo verso il cielo e scoprii che aveva appena iniziato a nevicare. Meglio così, il freddo, magari, avrebbe attutito in parte il mio dolore. Avevo proprio bisogno di qualcosa che lo lenisse perché continuare a sentirmi male mi ricordava che tutto ciò non era stato un brutto sogno, ma che Trafalgar era davvero riuscito a rubarmi e a strapparmi il cuore.

E’ stato meglio così, dopotutto, almeno mi sono risparmiato il disagio di mettermi in imbarazzo e i soldi che avrei dovuto sborsare per riprendere gli studi.

 

To never walk away from me and leave behind the promise of a lifetime. 

 

Credevo davvero che non te ne saresti mai andato.

 

* * *

 

Tornare a casa a piedi dall’università a quell’ora mi faceva sempre un certo che. D’accordo, le giornate avevano iniziato ad allungarsi grazie al Cielo, ma la neve non voleva saperne di lasciarci in pace e grossi nuvoloni grigi e scuri sorvolavano la città e gettavano ombre sulle strade, sui vicoli bui e nascondevano la tiepida luce del sole.

Rabbrividii e mi strinsi nella giacca, calcandomi bene il cappello in testa e sistemandomi la sciarpa davanti al viso per tenere almeno bocca e naso al caldo mentre, accanto a me, Bepo si divertiva a lasciare impronte dove il bianco rivestimento del marciapiede non era ancora stato calpestato.

Lo osservai per qualche istante con una faccia dubbiosa e pensierosa: quel giorno mancava una persona all’appello e non era mai accaduto che saltasse un corso pomeridiano se non fosse stato strettamente necessario. Forse nemmeno in quel caso avrebbe dato buca a un paio d’ore di lezione. Per questo non riuscivo a mettermi l’anima in pace davanti al fatto che Trafalgar fosse rimasto a casa sia quella mattina che quel pomeriggio. Molto probabilmente, se si fosse trattato di una volta nella vita non avrei fatto storie, ma era successa la stessa cosa il giorno prima e quello prima ancora. Una sera era tornato a casa con una faccia che dire cadaverica era dire poco, aveva fulminato chiunque gli si era piazzato davanti chiedendogli cosa fosse successo e poi si era chiuso nella sua stanza e da lì non era più uscito. Ne per mangiare, ne per andare all’università, ne per altro. Se metteva piede fuori da quella sua specie di laboratorio che chiamava Room lo faceva di notte quando tutti dormivano per farsi una doccia o per bere qualcosa. Poi si eclissava di nuovo.

In un primo momento avevo creduto che gli fosse andato male un esame, ma avevo scartato subito l’ipotesi quando avevo visto i suoi voti: il massimo in ogni test, quindi non poteva trattarsi di quello, ma di qualcosa di più grave. La seconda opzione a cui avevo pensato grazie al consiglio di Bepo era che, probabilmente, doveva aver litigato con Kidd, così avevo approfittato della scusa per chiamare Killer e fargli il quarto grado sul suo compare, scoprendo che anche lui si comportava in modo strano, più strano del solito, bestemmiando contro chiunque e rischiando di sfasciare un auto invece di aggiustarla ma, a detta sua, quelle cose non erano del tutto anomale, se non per il fatto che avesse smesso di parlare. Stando a quello che mi aveva detto, il rosso apriva bocca solo per insultare la madre di qualcuno o per ricordare la sua presenza a suon di parolacce, improperi e quant’altro. E guai a chi gli chiedesse della nostra compagnia o di Law.

A quel punto avevo dedotto che i due avevano litigato di brutto, ma non mi sembrava così grave all’inizio. Trafalgar era una persona matura, di certo avrebbe trovato il modo per sistemare le cose, mi ero detto, invece non era cambiato nulla e in tre giorni mi sembrava che la situazione fosse degenerata. Com’era possibile che uno come lui reagisse in quel modo quasi esagerato? Tra tutti era sempre stato quello meno isterico e teatrale, per cui doveva per forza esserci qualcos’altro sotto, solo che non riuscivo proprio a capirlo.

Nel frattempo avevamo raggiunto il nostro quartiere tranquillo e non corrotto dal bullismo, o meglio, non ancora, perché avevo la certezza che, non appena i bambini che abitavano lungo la via fossero cresciuti un po’, avrebbero pensato bene di combinare qualche guaio e animare le vite degli abitanti della zona con scherzi di cattivo gusto. Ad ogni modo avevamo ancora qualche anno di pace assicurata, quindi potevo starmene tranquillo e non temere l’attacco improvviso di alcuni teppistelli appostati in qualche angolo nascosto dietro casa.

Attraversammo la strada principale ed entrammo in quella secondaria che portava agli appartamenti, affrettando il passo per raggiungere l’atmosfera calda e accogliente che ci stava aspettando per ripararci dal freddo pungente della sera che iniziava a farsi sentire.

Fu quando ci trovavamo a circa un centinaio di metri dalla porta d’ingresso dell’edificio che notai una cosa che, in qualche modo, attirò particolarmente la mia attenzione. Le case del vicinato erano tutte costruzioni modeste, così come le palazzine nei dintorni, compresa la nostra, anche se gli appartamenti erano piuttosto spaziosi, ma ero certo che tutti coloro che vi abitavano fossero persone con un reddito nella norma e non tanto spropositato da potersi permettere un’auto lussuosa come quella che stava parcheggiata poco lontano da noi. Era la prima volta che la vedevo, quindi non poteva essere di qualche parente dei nostri vicini; troppo appariscente, costosa e nuova per avere a che fare con la coppia di vecchietti del secondo piano e con la padrona di casa del primo, quella che allevava gatti randagi, a meno che non avesse vinto alla lotteria.

Perciò la fissai incuriosito, dando una gomitata al mio compagno e indicandola con un cenno curioso del capo. Il ragazzone, dopo una lunga occhiata, alzò le spalle e ipotizzò che forse si trattava di qualcuno che aveva perso la strada.

In un altro momento gli avrei dato ragione e avrei liquidato la faccenda nel giro di un attimo se non fosse stato per un particolare che, per fortuna o altro di simile, non sfuggì al mio sguardo incuriosito e sfacciato. Uno dei finestrini posteriori era abbassato e, mentre stavamo superando la vettura, riuscii a scorgere chi vi fosse a bordo, restando di sasso, tanto che Bepo fu costretto a strattonarmi per una spalla per trascinarmi via il più in fretta possibile perché mi ero inchiodato sul marciapiede e da lì non sembrava che avessi intenzione di muovermi. Proprio mentre varcavamo la soglia di casa la macchina mise in moto e si allontanò, lasciandomi con un sacco di domande in testa e un’orrenda sensazione di disagio.

“Penguin, non si fissano le persone, lo sai, è da maleducati” stava dicendo il ragazzo mezzo albino, salendo le scale e sgridandomi in modo pacato come faceva sempre.

“Senti un po’” lo interruppi, “Tu hai visto chi c’era dentro?”.

“Di sfuggita, perché? Lo conosci?” mi chiese, raggiungendo il terzo piano e estraendo le chiavi dalla tasca dello zaino.

Mi morsi un labbro con lo sguardo perso nel vuoto. Erano passati talmente tanti anni che mi sembrava assurdo, ma era anche vero che io non dimenticavo mai una faccia, soprattutto se questa apparteneva a qualcuno che non mi piaceva per niente. D’altra parte, però, anche solo pensare a quel nome mi sembrava impossibile. Law aveva risolto il problema molto tempo addietro e da allora non avevamo avuto più notizie di quella gente. Per quanto ne sapevamo potevano anche essere morti tutti, quella si sarebbe stata una liberazione.

“No, non lo conosco proprio” mentii infine, convincendomi che probabilmente mi ero sbagliato e mi ero lasciato influenzare dai brutti ricordi e dall’umore tetro del nostro coinquilino che, per l’appunto, se ne stava ancora rinchiuso in camera.

La serata trascorse come di consuetudine, con l’unica differenza che eravamo solo in tre a cena e mangiavamo in religioso silenzio quello che Ace aveva preparato. Da un po’ avevamo stabilito la regola di cucinare a turno, evitando il più possibile che io mettessi mano ai fornelli e la cosa, sinceramente, non mi dispiaceva. Cucinare non mi era mai piaciuto, lo facevo più per svago o per passare il tempo ma, da quando avevo conosciuto Killer e avevo quasi rischiato di intossicarlo con i miei biscotti, avevo preferito mollare tutto e trovare altro con cui intrattenermi.

“Non pensate sia il caso di portargli qualcosa? Sono giorni che non mangia” propose Ace con l’aria preoccupata e lanciando di tanto in tanto occhiate in direzione della zona notte.

Bepo sospirò affranto, scuotendo il capo. Tra tutti lui era quello che più si preoccupava di più per il nostro compagno e saperlo in quello stato lo faceva stare male. Per quanto riguardava me, invece, avrei buttato giù la porta e l’avrei trascinato in cucina per le orecchie se solo non avessi avuto la certezza che mi avrebbe steso nel giro di poche mosse.

“Quando vorrà qualcosa da noi, uscirà” affermai infine, sicuro di quello che dicevo, convincendo gli altri e chiudendo l’argomento, anche se la brutta sensazione che sentivo andava, via, via intensificandosi e ciò non mi piaceva affatto perché il mio sesto senso era infallibile.

Una volta finito di cenare aiutai a spreparare e, quando fu chiaro che se avessi continuato a stare davanti al lavello non avrei fatto altro che rompere tutte le stoviglie, mi spedirono a calci in salotto. Non riuscivo a concentrarmi e continuavo a rivedere nella mente la faccia dell’uomo nella macchina, ripercorrendo la sua figura elegante e composta e lo sguardo nascosto da un paio di occhiali da sole scuri e impenetrabili. Non potevo esserne sicuro, speravo di sbagliarmi, ma le fattezze combaciavano e, anche se era invecchiato, assomigliava terribilmente a una delle persone che più mi avevano spaventato quando ero piccolo e giocavo sotto casa di Trafalgar assieme ad altri ragazzini. Al solo pensiero mi venivano ancora i brividi.

“Penguin, si può sapere che hai? Sei così distratto!” si lamentò Ace, lanciandomi addosso un cuscino, ma sorridendo davanti alla mia espressione sperduta e dispiaciuta.

“Lascia perdere” fece, agitando una mano e afferrando al volo la sua giacca, “Io esco, ci vediamo più tardi”.

“E dove vai?” cantilenò Bepo, sporgendosi dalla cucina con un bicchiere e un canovaccio in mano, anche se entrambi sapevamo benissimo qual’era la destinazione del moro che, arrossendo davanti a quella domanda, borbottò qualcosa di incomprensibile a mezza voce.

“Salutami Marco” urlai, prima che si chiudesse la porta alle spalle e sentendo Bepo ridere divertito. Per fortuna c’era ancora qualcuno di spensierato e allegro dentro quella casa, altrimenti non sapevo proprio come avrei fatto a sopportare tutto quel senso di depressione che aleggiava nell’aria ultimamente.

Contrariamente a quello che speravo, anche Bepo mi lasciò presto da solo, andando a dormire più o meno verso le dieci. Quanto a me, invece, rimasi sveglio senza la minima traccia di stanchezza fino a mezzanotte passata, quando decisi di imbrogliare il tempo e prepararmi una tisana nella speranza di venire colto dal sonno e potermene andare a letto, dimenticando quella giornataccia.

Trafficando con il pentolino dell’acqua l’atmosfera attorno a me cambiò improvvisamente e tutto si fece più silenzioso in conseguenza all’arrivo di una persona che, Dio solo sapeva come, riusciva ad apparire dove voleva senza avvisare nessuno con il minimo rumore, cogliendo chiunque di sorpresa. Con mio piacere, però, convivere con essa mi era servito ad abituarmi alle sue stranezze, tanto che avevo imparato a prestare più attenzione a ciò che mi circondava e ad usare i sensi a mia disposizione per rendermi conto dei cambiamenti. Se fossi stato distratto, per esempio, non mi sarei accorto che la televisione in salotto era stata spenta, segno che qualcuno era passato di lì.

Non fu difficile quindi immaginare chi si fosse appoggiato allo stipite della porta alle mie spalle.

“Giusto in tempo per bere qualcosa. Avanti, siediti”.

Poco dopo il rumore di una sedia che veniva spostata mi arrivò alle orecchie e, dopo aver riempito due tazze di tisana fumante, mi voltai per metterle sul tavolo, trovandomi davanti esattamente la persona che mi ero aspettato che, con le mani incrociate a sorreggere il mento, mi fissava con un ghigno stampato come di consuetudine sulle labbra. Personalmente lo preferivo quando sorrideva.

“Devo parlarti” disse, circondando con le dita la tazza davanti a lui e fissandola pensieroso, scegliendo con cura le parole con cui iniziare il suo discorso.

“Anche io” lo avvisai, attirando la sua attenzione e intuendo in suo invito a parlare per primo così, con un respiro profondo, mi accomodai meglio e gli esposi i miei dubbi, sperando vivamente che smentisse tutto e che trovasse una spiegazione logica alle mie paure come aveva sempre fatto.

“Forse mi sono sbagliato, ma i-io credo di aver visto Vergo” mormorai a bassa voce per timore che tutto ciò potesse essere accaduto sul serio ma, quando vidi il ghigno di Law allargarsi, capii che stava per abbattersi su di noi un uragano di guai.

Fu così che Trafalgar mi svelò il segreto che l’aveva tenuto lontano da noi tutti quei giorni. Suo padre era tornato e aveva l’intenzione di creare un gran casino, tutto in modo teatrale e dannatamente drammatico, come piaceva a lui. Era uscito di galera alla fine, solo il Diavolo sapeva come, e aveva raccolto informazioni su di noi negli ultimi anni, rintracciandoci e studiando il modo migliore per sbarazzarsi di noi. O meglio, di suo figlio. Gli altri, me compreso, erano solo punti deboli che poteva usare a suo piacimento per piegare Law al suo volere.

“Probabilmente ha incaricato Vergo di tenerci d’occhio” stava spiegando in quel momento con una voce fastidiosamente calma, “Non mi stupisce più di tanto, sinceramente. E’ sempre stato il suo braccio destro”.

“E si può sapere cosa pensi di fare adesso? Da quello che mi hai detto ti vuole morto. Io direi di chiamare la polizia e…”.

No” sibilò prima ancora che finissi la frase. “L’ho già fatto una volta e non ha funzionato. Non perderò altro tempo con quegli incapaci. Mi arrangerò”.

“E come, facendoti ammazzare?” sbottai, alzandomi in piedi e fremendo per la rabbia. Se aveva intenzione di fare tutto da solo e prendersi la responsabilità anche per noi si sbagliava di grosso. Non gliel’avrei lasciato fare, ne io ne nessun altro, soprattutto una persona piuttosto irascibile. Di certo lui non gli avrebbe mai permesso di mettersi in pericolo in quel modo così azzardato e da pazzi. Per quanto mi riguardava non volevo avere un amico martire.

“Kidd non sarà mai d’accordo!” affermai vittorioso, sicuro delle mie idee e all’oscuro di tutto quello che era successo in quei giorni bui.

“Lui ed io non stiamo più insieme, Penguin” sussurrò, abbassando per un istante lo sguardo e lasciando trapelare una punta di dolore nel pronunciare quella poche parole, “E non dovrà sapere nulla. Chiaro?”.

“Perché?”. Non riuscivo a capacitarmi di tutto ciò. Si trovava in serio pericolo con un pazzo mafioso psicopatico che gli dava la caccia giocando al gatto e al topo e tutto quello che gli veniva in mente di fare era allontanare tutti coloro che potevano aiutarlo? Che ragionamento contorto e insensato era?

“Credi che se ne starebbe con le mani in mano?” domandò retorico al quel punto, trattenendo a stento l’irritazione e la preoccupazione che gli leggevo negli occhi, “Non capirebbe e preferisco che rimanga all’oscuro di tutta la faccenda, almeno così sarà al sicuro. Capisci, Penguin? Non posso rischiare la sua vita, se dovesse morire io non avrei più niente per… Beh, lo sai, no?”. Mi rivolse un piccolo sorriso davanti al quale mi sentii male. Male perché Law stava facendo tutto quello per noi, per le persone che amava. Si stava sacrificando per permetterci di vivere, di essere al sicuro e di non correre pericoli. Si stava offrendo volontario alla Morte per risparmiarsi il dolore di altre perdite a lui troppo care e importanti.

Mi morsi un labbro per trattenere le lacrime.

“Se gli dovesse…” si bloccò, scuotendo il capo e correggendosi, “Se vi dovesse succedere qualcosa, allora quel bastardo avrebbe davvero la vittoria in pugno e questo non glielo permetterò, anche a costo della mia stessa vita”.

“E q-quindi che vuoi f-fare?” balbettai, tirando su col naso e abbassandomi il frontino del cappello sugli occhi.

“Gli darò quello che vuole” concluse atono, alzandosi e avviandosi per ritornarsene in camera, lasciandomi con un infinito senso di tristezza e impotenza.

Me”.

 

* * *

 

La sveglia nella camera affianco suonò come da copione alle dieci in punto e poco dopo i passi di chi balzava giù dal letto o di chi direttamente rotolava con la faccia a terra arrivarono alle mie orecchie sottoforma di leggeri tonfi attutiti dalle pareti della mia camera.

Era arrivata l’ora di alzarmi anche per me e, con la mia solita calma, emersi da sotto le coperte, sospirando e avvertendo la vaga sensazione di non sentirmi affatto rigenerato, come se l’aria non arrivasse ai polmoni e li lasciasse vuoti e secchi. Poco importava, se le cose sarebbero andate come avevo previsto, presto non avrei avuto più bisogno di respirare.

Mi tolsi il pigiama che avevo indossato solo per abitudine, anche se non avevo chiuso occhio nemmeno per un minuto durante tutta la notte, e indossai le prime cose che mi capitarono a tiro, sparse sul pavimento da giorni nel caos che regnava sovrano tra quelle quattro mura. Certo che avevo proprio dato libero sfogo al peggio di me dopo gli ultimi avvenimenti.

Una felpa e un paio di jeans furono il meglio che riuscii a trovare, poi mi misi un paio di vecchie Vans bucherellate e con la stoffa ormai sbiadita, ma che non mi decidevo a buttare per affetto e, soprattutto, perché quelle scarpe mi avevano portato parecchia fortuna. Sembrava assurdo, ma era così e sostituirle con un paio di nuove mi dispiaceva.

Un’occhiata allo specchio affisso alla parete mi diede modo di notare un paio di profonde occhiaie, ma non ci badai molto, sarebbe bastato lavare il viso con dell’acqua fredda e ogni traccia di stanchezza sarebbe sparita e così feci, ignorando gli sguardi stupiti dei ragazzi quando mi videro uscire dalla mia stanza tutto vestito e intenzionato a comportarmi come al solito. Quel giorno, però, non sarei andato all’università, non avrei passato il pomeriggio con loro e, per quanto mi riguardava, da quella sera in poi non li avrei nemmeno più rivisti.

Li raggiunsi più tardi in cucina dove stavano tutti in silenzio, intenti a mangiucchiare qualche biscotto inzuppato nel latte e tenendo gli occhi bassi fino a che non mi schiarii la voce per attirare la loro attenzione e compiere l’ultimo gesto di gratitudine e amicizia nei loro confronti, ovvero metterli in salvo e assicurarmi che avrebbero continuato a stare bene, sempre.

“Ragazzi, voglio che facciate una cosa per me” dissi pacato, guardandoli uno ad uno e soffermandomi per qualche istante sugli occhi umidi di Penguin che, con prontezza, pensò bene di passarsi una mano sul viso per darsi un contegno, immaginando quello che avrei detto.

“Per un po’ di tempo evitate di tornare qui” imposi, cercando di risultare chiaro e deciso, “Andate dove volete, passate qualche giorno dai vostri parenti; Ace, torna da Garp e tu, Bepo, sono sicuro che potrai stare con Penguin a casa di Killer-ya, ma mi raccomando: non mettete piede nell’appartamento” conclusi categorico e serio.

Le proteste che seguirono furono solo un breve intoppo che avevo messo in conto e che riuscii a soffocare nel giro di breve tempo. Dovevano fare come avevo detto, non c’era altra soluzione. Quel luogo non era più sicuro e Penguin me ne aveva dato la conferma mettendomi al corrente del fatto che gli uomini di quel criminale ci stavano sorvegliando. Dio solo sapeva da quanto tempo lo stessero facendo e, a conti fatti, dovevano aver studiato bene la zona e tutto il resto, quindi avevo ragione di credere che andarsene per qualche giorno fosse la cosa migliore per tutti. Forse, se avevo fortuna, una volta tolto di mezzo me, quel bastardo li avrebbe lasciati in pace e se ne sarebbe andato all’Inferno.

“Per quale ragione dovremmo andarcene? E si può sapere tu cosa hai in mente?” si stava lamentando Ace, trattenendo a stento il fastidio di essere all’oscuro del mio piano.

“Vi spiegherà tutto Penguin” gli assicurai, lanciando un’occhiata significativa al diretto interessato e aspettando che annuisse con un cenno arrendevole del capo. “Ora devo andare”.

Diedi loro le spalle e mi avviai verso l’entrata, sentendo un gran trambusto in cucina mentre recuperavo giacca e cappello dallo sgabuzzino, ritrovandomi poi sull’uscio della porta con Bepo a sbarrarmi la strada e Ace a braccia conserte che mi squadrava dall’alto in basso con l’aria di chi non ha la minima intenzione di scendere a compromessi.

“Law, dicci cosa succede” fece minaccioso e quasi scoppiai a ridere davanti alla sua espressione ferma e convinta. Non c’era che dire, gli avevo davvero insegnato bene a come farsi rispettare e ascoltare. Per quanto riguardava Penguin, invece, lui se ne stava con le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa bassa, consapevole che non avrebbero ottenuto nulla in quel modo perché avevo preso la mia decisione già da un pezzo.

Sospirando in modo teatralmente esasperato aggirai il ragazzone moro che, come mi ero aspettato, non fece nulla per fermarmi e impedirmi di aprire la porta; non mancò, però, di tentare il tutto e per tutto.

“Qualunque cosa sia noi possiamo aiutarti, lo sai! Perché non vuoi fidarti?”.

Chiusi gli occhi e provai a immaginare a come sarebbero andate le cose se solo gli avessi permesso di starmi accanto. Forse sarei riuscito a guadagnare un po’ di tempo, ma non molto. Se avessimo avvisato la polizia si sarebbero messi tutti in allerta e quel maledetto non ci avrebbe pensato due volte a sparire nell’ombra, ideando un nuovo piano d’attacco. Allora, non appena avremo abbassato la guardia, lui sarebbe tornato, colpendoci uno alla volta, ovviamente tenendomi per ultimo come punizione per non averlo ascoltato, uccidendo gli altri senza pietà nei modi più crudeli possibili. Cosa avrei ottenuto, quindi? Sarei morto lo stesso, solo con la consapevolezza di aver perso qualsiasi cosa, qualsiasi persona importante per me e non potevo permetterlo. Non di nuovo, non ce l’avrei fatta.

Sospirai, voltandomi verso di loro e ricordando come, da piccoli, Bepo, Penguin ed io avevamo fatto un patto, ovvero essere amici per la pelle. Io non volevo abbassarmi a fare una simile sciocchezza, ma loro avevano insistito tanto e con degli sguardi da cuccioli bastonati che alla fine avevo ceduto, accontentandoli e dando inizio ad un nuovo e stupido gioco nel quale io ero il Capitano e loro i miei subordinati e assieme combattevamo il male e le ingiustizie. Dichiaravamo di essere pirati buoni e forti, i Pirati del Cuore ci chiamavamo. Crescendo, però, eravamo diventati più simili ai corsari che saccheggiavano città per divertimento, essendo tutti e tre amanti dei guai, ma non avevamo mai dimenticato quei giorni in cui tutto era bello e luminoso. Ace, invece, si era unito a noi più tardi, ma aveva presto conquistato la nostra simpatia e si era integrato benissimo, come se avesse sempre avuto a che fare con noi, come se ci conoscesse da una vita. Come potevo, quindi, rischiare che venisse fatto loro del male? Avrebbe voluto dire mettere in pericolo anche le vite dei loro cari, come quella di Rufy, di Zoro e Sanji, le ragazze e il resto di sbandati che, ne ero certo, non meritavano la fine. E poi c’era Kidd nella lista e avrei fatto di tutto purché non gli accadesse nulla.

Rivolsi loro il mio classico ghigno di sufficienza, l’ultimo per quanto ne sapevo.

“Siete dei completi idioti” mi premurai di chiarire, scuotendo il capo e sfottendoli, anche se quello che pensavo delle loro scarse facoltà mentali non era affatto una novità, ma mi sentivo in dovere di ringraziarli in qualche modo per tutto quello che avevano fatto per me e per l’affetto che mi avevano dato nonostante avessi messo in dubbio più volte il fatto di meritarlo. Un’eccezione potevo farla, gliela dovevo.

“Ma è anche vero che come amici siete i migliori”.

Furono le mie ultime parole e, dopo che la porta si fu chiusa dietro di me, mi avviai giù per le scale fino a raggiungere il garage a noi destinato dove la mia auto era rimasta parcheggiata troppo a lungo. Era arrivato il momento di fare un giretto.

Salii in macchina e misi in moto, sicuro che i kilometri e le due ore che mi separavano dalla mia destinazione sarebbero volati nel giro di poco tempo a bordo di quella vettura che custodivo con gelosia.

Sorrisi per la prima volta dopo giorni quando ripensai al compleanno di Eustass e alla sua faccia sbalordita non appena gli avevo lanciato le chiavi dell’Audi, lasciandogli il posto del conducente libero e dicendogli che per quel giorno aveva il permesso di divertirsi quanto voleva, ovviamente senza fare o causare incidenti.

Quella giornata era stata epica e dire che mi era mancato il respiro per le risate era un eufemismo. Decisamente era stata una delle migliori in assoluto, per non parlare della sbronza che avevo preso la sera a casa sua assieme a tutti gli altri. Non mi ero mai ubriacato tanto e il disastro che avevamo combinato non lo ricordavo nemmeno, ma era meglio così, di certo non avrei più avuto il coraggio di guardarmi allo specchio se mi fosse venuto in mente.

Le cose da allora erano cambiate in fretta, ma almeno avevo un paio di ricordi piacevoli da conservare e rivivere durante il tragitto verso il porto, situato dall’altra parte dell’arcipelago. L’ultimo mio viaggio, per la precisione, dato che le speranze di ritorno erano estremamente basse.

Ad ogni modo smisi di pensarci. Non avevo rimpianti e sapevo che fino ad allora avevo vissuto al meglio le mie giornate con persone che non avrei mai creduto di incontrare, ma di cui ero grato al Cielo per avermele fatte conoscere. Lo facevo per loro, solo per l’amicizia e l’affetto che mi avevano dimostrato. Meritavano il meglio e l’avrebbero ottenuto, ne ero certo. Quindi no, non mi dispiaceva affatto andare incontro alla Morte, nemmeno mi spaventava. Saperli al sicuro per me era abbastanza.

Schiacciai l’acceleratore e uscii dalla città, diretto ad affrontare una volta per tutte il mio incubo peggiore e a mettere un punto al mio passato.

Doflamingo, sto arrivando”.

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
Salve ragazzi, come state? Mi dispiace, ma la depressione continua anche per questo capitolo, I’m sorry.
Ma andiamo con ordine. Il titolo è tratto dalla canzone stessa, ovviamente, e anche oggi tutto inizia con Kidd e con il suo stato d’animo. Non l’ha presa bene, ma proprio no. E come avrebbe dovuto reagire altrimenti? Riflettiamo un attimo. Stai con una persona da tempo, ti abituai alla sua presenza, inizi a capire come vanno le cose, tutto diventa normale, tutto inizia a far parte della tua vita e non ti aspetti che qualcosa possa andare storto. Poi, senza preavviso, senza avere la possibilità di capire, di spiegare, di dire qualcosa, di lottare, ti ritrovi da solo, senza niente in mano. E, credetemi, non poter scegliere, non poter decidere per se stessi è la cosa peggiore. E’ come una porta sbattuta in faccia, tutto finisce. Punto. Spero di essermi spiegata. Tornando a Kidd, conoscendo il suo carattere e aggiungendo tutto questo, una reazione disperata mi sembra giusta, anche se lui, giustamente, decide di non aver più nulla a che fare con i sentimenti e l’affetto, (non parlo volutamente di Amore perché è una parola azzardata nella Kidd/Law, anche se noi sappiamo che si vogliono bene). Quindi, dopo aver provato la terapia dello yoga, sempre in mezzo sta cosa assurda, non riesce più ad arginare il dolore e si prende un momento per lasciarsi andare, per abbassare le sue difese, da solo, senza nessuno che lo giudichi. Urla, si arrabbia, si sfoga e decide che no, non c’è perdono in lui. Per quanto gli riguarda, Trafalgar è morto. Alla fine, se avete notato, fa riferimento in modo un po’ ambiguo a qualcosa. Gli studi, intanto, che forse avrebbe voluto riprendere, come aveva pensato anche Law a capodanno, notando la sua passione per la meccanica, e un’altra cosa, vivere vicini. Che volesse ridurre ulteriormente le distanze tra loro? Magari ci aveva pensato solo una volta e poi aveva messo da parte l’idea ma, chissà, se le cose avessero continuato ad andare bene, magari, in un futuro…
E poi c’è Penguin. Penguin che, oltre a tutte le sue preoccupazioni, si impegna per capire cosa succede a Law. E, come se non bastasse, il suo occhio acuto si accorge di una cosa molto importante ed essenziale: una macchina sospetta, troppo lussuosa e mai vista. Grazie a Dio è un curiosone e non indugia nel dare una sbirciatina all’interno, trovandoci dentro… si, nientemeno che lui, Vergo.
Momento Commento: personalmente ho goduto come non so cosa quando Law l’ha ridotto in mille pezzi, cioè, che smacco.
A parte questo, Penguin inizia a farsi mille pare e, fortunatamente, ha la possibilità di parlarne col diretto interessato e capire cosa diavolo sta succedendo. Come la prende? Beh, schizza un po’ male, insomma, il suo migliore amico è in pericolo e non vuole l’aiuto di nessuno e lui non sa che fare per aiutarlo. Insomma, Trafalgar non è certo un caratterino facile visto che quello che decide è legge, risulta quindi difficile contraddirlo. Ovviamente non vuole tirare in ballo la polizia perché, se ben ricordate, quando ha collaborato con loro, da piccolo, le cose sono finite male per la madre, anche se il padre è finito i galera. Si, va bene, adesso è uscito, quindi non ha risolto proprio niente affidandosi a loro.
Poi Law si sveglia, il grande giorno è arrivato e qui, mi dispiace dirlo, inizierà il conto alla rovescia. Poche parole ai suoi compagni per spiegare brevemente la situazione e ordinare loro di andarsene perché, se ha visto giusto, l’appartamento è controllato e chi può dirlo, magari qualche trappola è stata piazzata in quel tempo, quindi meglio non rischiare. Dehehe, mi sento già male, scusate.
‘Come amici siete i migliori’. Una cosa del genere non l’ha mai detta, ma mi sembrava carino vederlo ringraziare i suoi compagni per tutto quello che hanno fatto per lui in quegli anni. Sarà un bastardo, ma un cuore, come tutti, ce l’ha anche lui. Salta in macchina e via, verso il porto, luogo dell’appuntamento dove tutto si deciderà. Una serie di dolci ricordi come compagnia, non so voi, ma mi sento straziare.
E ora si, potete dirlo e urlarlo ad alta voce quello che avete insinuato per due settimane perché, dannazione, DOFFY IS COMING! OMG!
Il miglior cattivo a mio avviso di tutto One Piece fino ad ora, con una mente fottutamente geniale e maledettamente crudele. Bisogna dargliene atto, è un vero boss. Non sto dicendo che sto dalla sua parte, per carità, che muoia male, ma ha un comportamento, un atteggiamento e un portamento da far impallidire chiunque. E’ una specie di Joker di Batman. Fantastico come antagonista. Ovviamente è un mio parere ^^
Quindi si, Doffy e tutti i suoi amici Dofflaminchioni dovevano starci, LOL.
Ora vi lascio gli Spoiler Free e me ne vado che ho parlato abbastanza ^^
 
“Cerca di convincerlo” disse, prima che scendessi dall’auto, “Conoscendo Kidd, se quello che gli ha fatto Law per metterlo al sicuro è vero, non sarà facile convincerlo”.
“Lo so, ma dovrà ascoltarmi per forza”.
“Non la prenderà bene”.
“Non mi interessa, qui c’è in ballo la vita del nostro amico ed io non ho intenzione di lasciarlo morire, nemmeno se devo beccarmi qualche pugno in faccia”.
*
Ma era a questo che servivano i super eroi, no? E guarda caso io ero proprio quello che faceva al caso suo: bello, forte e incazzato oltre ogni limite.
Mi alzai dalla panca nella sala d’attesa e raggiunsi i due ragazzi che erano a un passo da ingaggiare una rissa con dei poliziotti e, spintonando tutti di lato con un paio di spallate ben assestate, mi parai davanti al vetro della portineria e fulminai con lo sguardo un ragazzino mingherlino con degli orrendi capelli rosa e gli occhiali tondi.
“Chiama quel bastardo di Smoker e digli di portare immediatamente qui il culo!”.
*
Se ripenso a quando Rufy gli ha rubato il cappello io… Oh, cazzo! Rufy!
“Marco devo tornare indietro!” feci tutto d’un fiato, invertendo la marcia in mezzo alla strada il prima possibile e ripercorrendo la strada al contrario, diretto all’appartamento.
“Cosa? Ace, non fare cazzate, mi hai appena detto che potrebbe essere pericoloso!” mi richiamò Marco dall’altro capo del telefono, ma non l’avrei di certo ascoltato, non quando in pericolo c’era pure la vita di mio fratello.
“Mi dispiace”.
 
Come sempre un ringraziamento speciale a tutti, sul serio, non riesco nemmeno a trovare le parole adatte, quindi vi basti sapere che vi apprezzo e vi adoro tantissimo! Spero di avervi soddisfatti anche questa volta e di non avervi annoiati ^^ per qualsiasi cosa sapete dove trovarmi.
Un abbraccione a tutti! Cala il sipario e restate sintonizzati!
See ya,
Ace.

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Capitolo 22
*** Capitolo 20. Non ti avrebbe mai lasciato. ***


Capitolo 20. Non ti avrebbe mai lasciato.

 

“Che cosa facciamo adesso?” domandò Bepo con l’aria triste e disperata, le guance ancora rigate dalle lacrime che aveva versato in precedenza mentre, con una certa difficoltà, gli avevo spiegato la gravità della situazione.

“Mi pare ovvio: dobbiamo seguirlo!” stava urlando Ace in preda ad un attacco di coraggio misto a isteria. Non si capacitava di dover lasciare tutto nelle mani del suo coinquilino.

Sospirai, cercando di mantenere la calma per trovare una soluzione a quel problema. Dovevamo aiutarlo, ovvio, e dovevamo farlo anche in fretta se volevamo sperare di avere una possibilità di riuscita in tutto quel disastro.

“Non mi ha detto dove è diretto” sibilai velenoso, sentendomi assurdamente simile a Law con quel comportamento astioso e sulle spine. Incredibile quanto quel ragazzo fosse riuscito a influenzarci con il suo caratteraccio e quanto, nello stesso tempo, ci fosse stato utile imparare da lui. Se non fosse stato per la sua costanza nello spronarmi a non arrendermi, probabilmente a quell’ora Killer non mi avrebbe mai degnato di uno sguardo.

Aspetta un momento, pensai, fermando la mia andatura e bloccandomi in mezzo al soggiorno, dobbiamo avvisare lui, il rosso drogato e il resto dei compari!

“Fermi, fermi tutti!” dissi, mettendomi le mani sulla testa e dirigendomi in un turbinio di domande e frasi sconnesse verso la porta, afferrando le chiavi e intimando agli altri due di alzare le chiappe e affrettarsi a raggiungere le macchine.

“Cos’hai in mente di fare?” mi stava chiedendo Ace mentre scendevamo le scale, saltando i gradini due a due per fare prima e arrivando in garage col fiatone, tutti affannati.

“Bepo” chiamai, piazzandogli in mano un mazzo di chiavi che non appartenevano a noi, “Questa è una copia delle chiavi dell’auto della padrona del palazzo. Cosa? Non chiedermi come le ho avute, è irrilevante! Si tratta di quella vecchia carretta verde con i freni mal funzionanti, prendila e fila alle scuole superiori per avvisare tutti i piccoletti di non passare da noi fino a nuovo ordine e di tenersi in allerta. No, non voglio sentire storie, nessuno ti denuncerà per furto! E poi abbiamo problemi più gravi!”. Una volta messo a tacere, assicurandogli che gli avrei presto fatto avere notizie, Bepo se ne andò poco dopo per portare a termine la missione che gli avevo affidato. Mi rivolsi poi al moro, ordinandogli di accompagnarmi all’officina dove lavoravano Killer e Kidd, spiegandogli che con loro mi sarei diretto alla polizia nella speranza di combinare qualcosa. Se avevamo fortuna, saremo riusciti a rintracciare Trafalgar e a mettere al fresco quel criminale.

“E io che faccio nel frattempo?” mi domandò durante il tragitto, passando col rosso e rischiando di investire un passante.

“Tu andrai da Marco e lì resterai. E guai a te se ti cacci in qualche pasticcio mentre io sono via! Di eroe ce ne basta uno” lo avvisai con un tono che non ammetteva repliche. Ero certo l’idea di starsene ad aspettare con le mani in mano non gli andava a genio, ma era necessario in quel momento mantenersi calmi e stare attenti e vigili. Non sapevamo se gli uomini di Doflamingo ci stessero controllando, quindi se ci dimostravamo il meno sospetti possibile, forse l’avremo scampata. Di conseguenza, nessuno avrebbe detto nulla se Portuguese D. Ace fosse filato dritto a lavorare.

“Cerca di ottenere la sua attenzione” disse, prima che scendessi dall’auto, “Conoscendo Kidd, se quello che gli ha fatto Law per metterlo al sicuro è vero, non sarà facile convincerlo”.

“Lo so, ma dovrà ascoltarmi per forza”.

“Non la prenderà bene”.

“Non mi interessa, qui c’è in ballo la vita del nostro amico ed io non ho intenzione di lasciarlo morire, nemmeno se devo beccarmi qualche pugno in faccia. Ora vai e sta attento” lo salutai, scambiando con lui uno sguardo d’intesa e lasciandolo ripartire poco dopo, sperando vivamente di riuscire a sistemare le cose nel migliore dei modi.

Bene, a noi due adesso, mi dissi, voltandomi a guardare l’officina e dirigendomi a grandi falcate verso l’ingresso dove incontrai Franky intento a controllare alcune scartoffie burocratiche.

“Ehi fratello, tutto okay?” mi chiese sorridendo, ma non avevo tempo per i convenevoli, così andai subito al sodo.

“Killer e Kidd? Ci sono?”. In un’altra occasione mi sarei fiondato direttamente da loro, ma non conoscevo il posto, nonostante il biondo me ne avesse parlato, così dovetti fermarmi a chiedere indicazioni a quel tizio strambo che mi indicò subito la via da prendere con un cenno della mano. Non stetti ad ascoltarlo oltre e raggiunsi il retro da dove provenivano un gran baccano e delle urla piuttosto inquietanti. Di certo non mi aspettavo di ritrovarmi davanti ad uno spettacolo del genere.

Kidd, il viso stirato in una smorfia sadica e una luce pazza negli occhi, con tanto di una specie di sega elettrica o circolare in mano, stava distruggendo la carrozzeria arrugginita di una vecchia auto e, poco lontano da lui, Killer gli lanciava improperi contro, pregandolo di smettere e insistendo nel dire che non era quello il modo di ragionare e affrontare la cosa, ma sembrava che il rosso fosse più che intenzionato a non ascoltarlo e ad infischiarsene dei suoi consigli.

Dio, è preso peggio di quanto pensassi.

“Ehi, ragazzi” urlai, attirando l’attenzione di Killer e, per un momento, anche quella di Kidd il quale, non appena mi riconobbe, mi rivolse uno sguardo omicida e un ghigno di puro odio. Non gli ero mai stato simpatico e ora che Trafalgar l’aveva lasciato di certo non avrebbe fatto i salti di gioia sapendomi lì. Almeno spense quell’affare che faceva un rumore assordante, dandomi modo di riuscire a sentire le parole del ragazzo biondo che mi stava venendo in contro con una faccia piuttosto preoccupata e le mani alzate come a volermi difendere dalle ire del suo amico.

“Penguin, che ci fai tu qui?”.

“Non ho tempo per spiegarti, ma devo parlare con lui, è importante” dissi con determinazione e feci per superarlo, diretto verso quella testaccia rossa, ma Killer mi posò una mano sull’addome per bloccarmi e rivolgermi uno sguardo esasperato e ormai arreso.

“Non credo sia una buona idea, in questo momento non è al meglio delle sue facoltà”.

“Oh, lo so benissimo, ma dovrà ascoltarmi ugualmente!” sbottai, alzando la voce nel pronunciare le ultime parole in modo da farmi sentire da Kidd e attirare la sua attenzione. Stranamente ci riuscii perché si voltò verso di noi, allargando le braccia in modo teatrale e sorridendomi con fare sarcastico.

“Sono tutto orecchi, Signor Nanerottolo” sfotté con malcelato sadismo. Ma che diavolo era successo, erano stati tutti contagiati dal pessimo senso dell’umorismo di Law?

Alzai gli occhi al cielo e avanzai di qualche passo, schiarendomi la voce e sistemandomi il cappello, preparandomi mentalmente a una discussione con i fiocchi, forse la più difficile che avrei mai dovuto affrontare in vita mia.

“Eustass, mi serve il tuo aiuto” iniziai, stringendo i pugni quando lo sentii ridere davanti alla mia richiesta e al mio portamento serio, ma feci comunque finta di nulla, sperando in un risultato positivo, “Si tratta di Trafalgar. E’ successo un…”. Se speravo di potergli parlare in modo civile, mi sbagliavo di grosso.

Mi fu di fronte nel giro di un istante, puntandomi contro un dito minaccioso. “Non nominare più quel bastardo in mia presenza, chiaro?” ringhiò, tanto che fui tentato di mettermi a digrignare i denti in risposta a quel suo scoppio d’ira. A pensarci bene, cos’altro potevo aspettarmi da uno come lui? Raccolsi tutto il mio coraggio e, gonfiando il petto e drizzando le spalle, lo fronteggiai senza alcuna paura e più che intenzionato a fargli abbassare la cresta. “Trafalgar” ripetei, in modo da evidenziare bene il fatto che le sue minacce non mi intimidivano affatto, “E’ nei guai e se tu non fossi così stupido ti accorgeresti da solo dell’evidenza”.

“Cosa hai detto?”.

D’accordo, forse mi ero lasciato un po’ prendere la mano, ma era stato più forte di me. Insomma, dopotutto quell’idiota era davvero convinto che Law avesse deciso di troncare con lui per un altro. Un altro, assurdo, quella scusa rasentava il ridicolo. Non si rendeva conto che quel povero ragazzo non era il tipo da comportamenti del genere? Anche dopo essere venuto a conoscenza del suo passato credeva che fosse capace di ferire in quel modo le persone? Certo, era un emerito stronzo nel relazionarsi con gli altri, ma non si sarebbe mai sognato di tradire coloro ai quali teneva. E, per quanto mi dispiacesse ammetterlo, Kidd era un coglione se aveva creduto alle parole che quella volpe gli aveva rifilato perché, per quanto incredibile e improbabile fosse, quel teppista era in qualche contorto modo diventato il centro del mondo per Law.

Per questo mi portai a un soffio dal suo viso per ripetergli quello che sembrava non entrargli nella zucca. “Sei uno stupido”.

“Kidd, fermo!”.

Fu solo grazie a Killer che evitai una, sicuramente fatale, botta in testa. Quel maledetto nascondeva una chiave inglese nei pantaloni e l’aveva vibrata in aria senza la minima esitazione, fortuna che aveva mancato il bersaglio, dato che mi ritrovai a rotolare a terra assieme al biondo che, borbottando qualche insulto verso mia madre, mi domandava se ero per caso impazzito ad affrontarlo così apertamente.

“Neanche fossi Trafalgar Law!” aggiunse poi, riferendosi al fatto che solo lui aveva il fegato di fronteggiare il rosso, riuscendo a tenergli testa. Quei due erano due fuochi contrastanti e, ne ero certo, se mai avessero dovuto scontrarsi, i risultati sarebbero stati soltanto due: o si sarebbero distrutti a vicenda, o si sarebbero uniti, diventando una cosa sola. Questa teoria non me l’avrebbe smontata nessuno.

“Dannazione, se solo mi ascoltaste!” inveii contro entrambi, iniziando a perdere le staffe vedendo che sembravano così ottusi da non voler capire, “Law in questo momento sta rischiando grosso e lui che fa? Si comporta come un bambino!”.

“Bada a come parli, nanerottolo” mi ammonì, agitando contro di me quell’aggeggio in ferro dall’aria piuttosto pesante e letale. E Franky si fidava a lasciargli maneggiare un attrezzo del genere? Non doveva essere illegale per un bullo del suo calibro?

“Se solo tu aprissi quelle orecchie!” urlai, dirigendomi verso di lui, ma venendo trattenuto per le spalle da Killer, il quale sembrava stare impazzendo nel tentativo di calmare il suo migliore amico e il suo praticamente quasi ragazzo contemporaneamente.

“Mi pareva di averti detto che non voglio sentire parlare di quel verme. Non mi interessa. E’ nei guai? Meglio, la cosa non mi riguarda!”.

“Ti riguarda eccome!” sbottai, riuscendo a liberarmi dalla stretta e raggiungendo il rosso che mi aveva appena dato le spalle. Gli posai una mano sul braccio per fermarlo e far si che mi guardasse, cosa che, per mia sorpresa, fece senza scansarmi e farmi volare a terra. “Sul serio, ha bisogno di te. Non puoi abbandonarlo proprio ora!”.

“Come ha fatto lui?” ribatté il ragazzo, puntando il suo sguardo nel mio e facendomi vedere per la prima volta quanto dentro di sé si sentisse ferito e straziato. Il dolore dell’abbandono si rifletteva chiaramente nel suo animo in subbuglio e allora gli perdonai tutte le scenate che stava facendo. Dopotutto, Kidd era solo una persona innamorata alla quale era stato spezzato il cuore.

“Ha detto chiaramente che non gli servo, quindi non mi scomoderò ne oggi, ne mai” sibilò poi, ritornando serio e guardandomi con rabbia, “Per me non è altro che una lurida puttana. Che chieda pure aiuto al suo nuovo giocattolino”.

Non potevo tollerare, però, un insulto del genere, non se si riferiva a lui in quel modo davanti a me. Scagliargli un pugno con tutta la forza e la tensione che avevo accumulato in quelle ventiquattro ore fu più semplice e veloce di quanto mi aspettassi, tanto che colsi Kidd di sorpresa, il quale voltò il viso di lato per il colpo ricevuto e boccheggiò per qualche istante, incapace di credere davvero a quello che avevo appena fatto. Dietro di me, Killer, si tappò la bocca con una mano, guardando allibito e con gli occhi spalancati la scena, sicuramente invocando gli Dèi affinché mi risparmiassero la vita dopo quel mio gesto avventato.

Mi resi conto che non avrei avuto un’occasione migliore di quella per parlare, così approfittai della loro sorpresa e feci un solo e unico nome che, come mi aspettavo, diede l’effetto sperato, catturando l’interesse di entrambi, quello di Kidd in particolare, il quale si zitti dagli insulti che stava per lanciarmi e si immobilizzò sul posto. Ebbi così modo di spiegargli brevemente quello che era successo e che Law aveva omesso di dirgli, raccontandogli della telefonata, della macchina parcheggiata sotto casa e delle minacce.

“Doflamingo è tornato” ripetei per sottolineare il concetto, “E ha tutta l’intenzione di distruggere Trafalgar. Se ha fatto quello che ha fatto è stato solo per proteggerti e per allontanarti così da non dover mettere a rischio la tua vita. Capisci? E’ stato costretto! Se fosse dipeso da lui, credimi, non ti avrebbe mai lasciato”.

Calò il silenzio e nessuno osò parlare per un po’. Dentro di me fremevo perché stavamo perdendo tempo prezioso, ma ero anche consapevole che gli servisse qualche minuto per elaborare la cosa e aprire finalmente gli occhi su quella che era la realtà dei fatti. Quando però, dopo un respiro profondo, mi diede le spalle, incamminandosi verso una cassetta degli attrezzi abbandonata accanto all’auto che stava sfasciando prima del mio arrivo, mi sentii un fallito perché pensai che se ne sarebbe infischiato di tutto, tornandosene a lavoro come se niente fosse e lasciandomi da solo a risolvere quel casino.

Persino Killer gli chiese di ripensarci e di smetterla con tutto quel rancore, ma quella stramaledetta testa di cazzo sembrava intenzionata a non darci ascolto e ad andare avanti per la propria strada.

Stavo per aggredirlo di nuovo, quando, dopo essersi accucciato a frugare in quella scatola di latta, si alzò con in mano due chiavi inglesi abbastanza spesse e pesanti da mandare in coma chiunque intralciasse il loro cammino. Le fece roteare tra le dita con un’agilità impressionante, e preoccupante, per poi infilarsele nella cintura dei pantaloni e rivolgerci un ghigno niente affatto raccomandabile.

“Andiamo a fare il culo a questo figlio di puttana” dichiarò deciso e con una strana luce assassina negli occhi davanti alla quale repressi un brivido lungo la schiena persino io, ma che approvai comunque e pienamente. Se volevamo avere una qualche possibilità di riuscire nella nostra impresa dovevamo essere più determinati che mai e pronti a tutto, anche a spedire qualcuno all’altro mondo.

“Ci sto anche io” si fece sentire Killer, sorridendo in modo spavaldo e affiancandomi, “E’ da parecchio che non ci divertiamo come si deve”. Nel dirlo mi sfiorò una mano con la sua per attirare la mia attenzione, così mi voltai a guardarlo, alzando il capo per allacciare i nostri sguardi e sorridergli grato. Saperlo lì con me in quel momento significava tanto e mi ripromisi che, se mai ce l’avessimo fatta, mi sarei fatto perdonare per la vita movimentata che gli stavo facendo passare invece di essere una persona normale.

“Allora, sentiamo, qual è il piano?” si intromise Kidd, incrociando le braccia al petto e incalzandomi a rispondere, ansioso di partire. Finalmente un po’ di iniziativa da parte sua.

“Andiamo alla polizia” spiegai, “Non resisteranno alla prospettiva di catturare un criminale come Doflamingo e allora rintracceremo Law usando il GPS nel suo cellulare dato che alle chiamate non risponde. E poi” mormorai, rivolgendo un sorriso complice al rosso, “Non diranno mai di no al figlio del capo, o sbaglio?”.

Ottenni in risposta un’occhiata distaccata, ma che poi si trasformò presto in una meno astiosa. Se non l’avessi conosciuto bene avrei giurato di essere appena entrato nelle sue grazie.

“Non male, nanerottolo. Diamoci una mossa”.

 

* * *

 

Alla centrale c’era il delirio più totale. Penguin non faceva altro che urlare come un ossesso agli addetti alla segreteria che voleva, anzi, pretendeva di parlare con il capo in assoluto, mentre Killer cercava di calmarlo per evitare che lo mettessero al fresco per offesa a pubblico ufficiale, dato che il piccoletto non si risparmiava dall’usare un linguaggio colorito.

Per quanto riguardava me, invece, mi sentivo tutto scombussolato, sottosopra, e cercavo in qualche modo di fare ordine nel groviglio di pensieri che mi stava facendo scoppiare la testa.

Quindi la sua era stata solo una messinscena, una presa per il culo, per tenermi all’oscuro di tutto ed evitare che facessi qualche cazzata mettendomi nei guai e rischiando la vita. Aveva preferito farsi odiare ma sapermi comunque al sicuro, sano e salvo, piuttosto che rendermi partecipe del suo problema e rischiare che mi uccidessero. Quale pazzo avrebbe mai fatto una cosa così assurda, idiota e maledettamente altruista?

Aveva fatto tutto per assicurarsi che nessuno si facesse male, sacrificandosi per noi, me compreso, e andando incontro alla fine solo e unicamente per evitare che ci accadesse qualcosa di male. Ed io che credevo di non valere nulla.

Avevo sempre pensato, e ne ero convinto anche allora, che Trafalgar non fosse altro che una battona calcolatrice e sfrontata, scassa cazzo, saccente e dannatamente attraente. Tutto di lui emanava stronzaggine e bastardaggine; bastava guardarlo una volta negli occhi per sentirsi delle inutilità e, se si provava ad andargli contro, ci pensava lui a far abbassare la cresta e a rimettere al giusto posto chiunque: ossia un gradino più in basso di lui. Per quanto mi riguardava, potevo affermare orgogliosamente che con me aveva fallito miseramente. Per quanto fastidioso potesse essere stato non era mai riuscito a smontare il mio ego smisurato. Certo, doveva sempre avere l’ultima battuta e mi faceva incazzare come una bestia sette giorni su sette ma, a parte le dispute, se le cose fossero andate diversamente, se non avesse avuto un padre coglione, probabilmente non si sarebbe liberato di me così facilmente.

Assieme eravamo come un’equazione distruttiva: il risultato era il caos più totale, nessuno aveva intenzione di cedere e lasciare il dominio all’altro, entrambi lottavamo per prevalere ma, anche se mi rifiutavo ad ammetterlo, era chiaro ormai a tutti che facevamo finta di detestarci, nonostante gli insulti e i dispetti fossero piuttosto pesanti e di bassa moralità. Due esseri contrastanti e poco portati alla pace e alla tranquillità, tanto che, di questo ne ero certo, il Paradiso potevamo sognarcelo, a meno che lui non fosse riuscito a passare per buona condotta per aver salvato molte vite con il suo gesto da martire e con l’intenzione di voler diventare un medico. Fanculo, non era giusto tutto a lui, perlomeno il Purgatorio poteva essere nostro. Almeno non mi sarei annoiato nell’Aldilà.

Quanto ero stato cieco. Come potevo anche solo aver pensato e creduto di non contare niente quando eravamo un sostegno l’uno per l’altro? Tutto quello che avevamo passato e vissuto insieme non me l’ero sognato, era successo veramente e lui non aveva affatto messo tutto da parte, gettando via i ricordi, no. Lui aveva semplicemente accettato di offrire la sua vita per proteggermi, in nome di quel qualcosa che avevamo condiviso in quei mesi, ma ancora non sapeva che aveva fatto male i suoi calcoli. Io mi difendevo da solo e non necessitavo certo di protezione. L’unico che sembrava avere un disperato bisogno di aiuto, in quel momento, era lui.

Ma era a questo che servivano i super eroi, no? E guarda caso io ero proprio quello che faceva al caso suo: bello, forte e incazzato oltre ogni limite.

Mi alzai dalla panca nella sala d’attesa, raggiungendo i due ragazzi che erano a un passo da ingaggiare una rissa con dei poliziotti e, spintonando tutti di lato con un paio di spallate ben assestate, mi parai davanti al vetro della portineria e fulminai con lo sguardo un ragazzetto mingherlino con degli orrendi capelli rosa e gli occhiali tondi.

“Chiama quel bastardo di Smoker e digli di portare immediatamente qui il culo!” gli dissi nel modo più minaccioso possibile, sussurrando le parole e caricandole di fastidio.

A quanto pareva funzionò alla grande, dato che il microbo, non appena mi aveva visto arrivare, aveva attaccato il vivavoce per informare il suo capo della brutta fine che stavano per fare i suoi uomini se non si fosse sbrigato ad arrivare. Infatti, nel giro di qualche secondo, il vecchiaccio con la pettinatura da figo, ovvero con i capelli rasati ai lati secondo la moda giovanile del momento, fece il suo ingresso accompagnato da una nuvola tossica di fumo e con il suo solito cipiglio scazzato e scorbutico. Non appena mi vide sbuffò seccato, congedando i suoi uomini e mandando in pausa il ragazzino dall’aria terrorizzata che si dileguò in un attimo.

“Sentiamo, cosa cazzo sei venuto a fare qui, razza di impiastro?”. Dal suo tono si poteva facilmente notare il suo immenso amore paterno, tanto che fui tentato di abbracciarlo, sapendo quanto detestasse certi gesti, ma mi trattenni giusto perché quello non era il momento di perdersi in stupidaggini, così mi limitai a spiegargli il problema, sfottendolo giusto un po’ per non annoiarlo.

“Trafalgar si è messo nei guai e ci serve il tuo aiuto per evitare di creare troppo scompiglio, papino”.

Mi guardò schifato per un istante, “Law nei guai? Non sembrava tanto un moccioso come te”.

Ignorai la frecciatina solo perché le priorità erano altre, ma me la legai comunque al dito, lasciando la parola a Penguin che tra tutti era quello che avrebbe saputo meglio cosa dire per ottenere l’attenzione e l’approvazione ad intervenire della polizia, toccando i tasti giusti e fornendo le informazioni principali.

Joker?” mormorò Smoker pensieroso, aspirando una boccata di fumo mentre il nanerottolo continuava a raccontargli e ad elencargli tutti i reati da lui commessi. Joker era il nome con cui il padre di Law si faceva chiamare nel suo giro di malavitosi da quel che venni a comprendere in seguito.

“Me lo ricordo quel pezzo di merda, ci ha dato parecchia noia a suo tempo. E’ stato un sollievo per tutti quando l’hanno catturato. Ho paura, però, che non sappiate quanto è successo due anni fa”.

“Perché, che è successo?” chiese Penguin, mentre Killer ed io ci facevamo più vicini per ascoltare.

“L’hanno rilasciato da Impel Down per buona condotta. Stronzate, quello è solo riuscito a corrompere alcuni funzionari interessati alla faccenda. Per il suo avvocato tirarlo fuori da quel buco è stato un gioco da ragazzi”.

“Possibile che non ne abbiano parlato i giornali?”.

Smoker si strinse nelle spalle, scuotendo il capo in modo poco convinto, “Era stato tutto programmato a dovere. Evidentemente non voleva che la notizia si spargesse; non è che si sia fatto molti amici in questi ultimi tempi e sono parecchi a volerlo morto”.

“Bene, andiamolo a prendere allora” dichiarai, come se la cosa fosse già risolta. Bastava rintracciarlo, imbottirlo di pugni, salvare Trafalgar e ritornare a casa dove ci avrei pensato io a dare una lezione a quel saccente.

“Calma testa rossa, non è così semplice” mi richiamò mio padre, facendomi innervosire ulteriormente, “Prima di tutto, da quel che ho capito, non sapete dove sia e secondo, non abbiamo la minima idea di cosa abbia intenzione di fare e di quanti uomini disponga”.

“Ci permetta di usare il sistema di ricerca della polizia per localizzare il nostro amico, la prego” si lamentò Penguin, scongiurando quel soldato tutto d’un pezzo e insistendo così tanto da portarlo all’esasperazione, ma convincendolo a fare un tentativo. Nel frattempo, mentre noi eravamo impegnati nella ricerca, lui avrebbe contattato i suoi superiori per ottenere un mandato, il permesso di cattura e varie cazzate che, a detta mia e anche sua, non servivano a niente.

“Allora, una volta inserito il numero, il computer dovrebbe rilevare in poco tempo il punto esatto dove si trova ora quell’incosciente”.

“E se non dovesse funzionare?”.

“Killer” dissi, non ammettendo opzioni del genere, “Funzionerà”.

Deve funzionare, pensai poi tra me e me, io e quel bastardo dobbiamo andare all’università assieme facendo la stessa strada ogni fottuta mattina e mi deve far guidare di nuovo la sua maledetta macchina, quindi che non provi minimamente a farsi ammazzare perché lo resusciterò con riti poco ortodossi per ucciderlo con le mie stesse mani.

“Sta cercando!” esultò Penguin, incollando il viso allo schermo, venendo prontamente allontanato da questo non appena lo afferrai per la collottola della maglia che indossava per farmi spazio e vederci meglio. Davanti a noi il motore di ricerca stava caricando il sistema fino a che qualcosa non andò storto e un avviso che segnalava un errore apparve lampeggiando.

Prima che distruggessi con un pugno tutti quegli aggeggi tecnologici, Killer pensò bene di riavviare la ricerca e riprovare.

“Amico, devi stare calmo. Lo troveremo” mi disse nel tentativo di rincuorarmi. Non si rendeva conto che se non fossimo riusciti a raggiungerlo in tempo per aiutarlo non me lo sarei mai perdonato. Se solo fossi stato meno orgoglioso e più attento forse, a quell’ora, le cose avrebbero potuto andare diversamente e lui non si sarebbe ritrovato da solo ad affrontare tutto quel peso che, ne ero certo, lo stava opprimendo. Avrei tanto voluto fargli sapere che non lo odiavo affatto e che non pensavo quello che avevo detto. Poteva rimettere piede nella mia vita ogni volta che gli andava, poteva persino sfottermi a morte se ciò avesse servito a farlo tornare indietro.

“Ehi, r-ragazzi, l-o sta localizzando!” balbettò Penguin con incredulità, incapace di mantenere la calma e alzandosi in piedi con uno scatto, puntando il dito verso il computer che, incurante della nostra ansia crescente, elaborava i dati e apriva una mappa completa della città e dintorni fino ai confini col mare dove, nella Statale Cinquantasei, apparve un puntino rosso in movimento.

“Trovato!” ghignai vittorioso.

“Sta andando verso il porto” constatò qualcuno alle nostre spalle.

“Allora dobbiamo muoverci” affermai con determinazione, pronto ad agire da solo se fosse stato necessario e se la polizia si fosse rivelata inutile come al solito. A volte mi chiedevo perché mio padre continuasse a lavorare alla centrale visto che detestava il sistema di corruzione e inettitudine che sembrava regnare tra la maggior parte degli ufficiali. Forse perché credeva ancora di poter cambiare le cose e migliorarle, ma mi doleva ammettere che il suo era un sogno piuttosto ambizioso e duro da far avverare.

“Non ti ho detto poco fa che non é così facile come appare?” sbuffò Smoker, guardandomi dall’alto in basso come faceva sempre quando ero piccolo e combinavo qualche disastro.

“Non m’importa” mi premurai di chiarire, fronteggiandolo e notando con piacere che ormai l’avevo quasi raggiunto per quanto riguardava l’altezza, “Un ragazzo sta rischiando la vita per salvarne altre e questo mi basta come motivazione per agire. Quanto folle sia il suo intento è un altro discorso, ma non lo lascerei mai affrontare la cosa da solo”. Affrontare mio padre mi era sempre piaciuto ma, tra tutti, quella era la prima volta che lo facevo per una buona e giusta causa e per questo mi sentii fiero di me stesso e di come avevo deciso di comportarmi. Per un momento pensai che in un’altra vita dovevo essere stato un buon poliziotto, magari un soldato dell’esercito, oppure uno delle alte sfere.

Nah, probabilmente ero un pirata della peggior specie, riflettei più tardi.

Smoker mi fissò per qualche istante, sondandomi col suo sguardo attento e dedicandomi un sorrisetto compiaciuto, quello che mi rivolgeva quando mi intrufolavo in caserma per salutarlo invece che andare a scuola. Significava che vedermi non era poi una così grande seccatura.

“Devi essergli proprio affezionato” mormorò tra sé, mentre dietro di me i due ragazzi presenti tossicchiavano per celare l’imbarazzo. Quanto a me, mi vidi costretto a stringere i pugni e a guardarlo in cagnesco.

“Pensa se lo sapesse la mamma” ipotizzò subito dopo, facendomi sbiancare.

“Non oserai” soffiai guardingo, rilassandomi solo quando liquidò la faccenda con un gesto veloce e disinteressato della mano.

“Forza, andate sul retro” ordinò, afferrando la giacca bianca della divisa e indossandola con orgoglio, “Le altre pattuglie stanno aspettando solo noi”.

Penguin si mise a saltare per la buona notizia e, artigliando il braccio di un sorridente Killer, lo trascinò verso la direzione indicatagli dal poliziotto, mentre io mi concedevo un istante per ringraziare mentalmente tutte le Divinità e i Santi in ascolto. Riflettendoci, forse anche il mio vecchio meritava un piccolo apprezzamento.

“Senti, papà…” iniziai a dire, venendo bloccato immediatamente e ritrovandomi a sorridere quando mi sentii afferrare per il cappuccio della felpa e condurre verso i parcheggi delle volanti della polizia.

“Chiudi il becco, moccioso”. E, mentre mi caricava in macchina come se fossi stato il peggiore dei criminali, lo vidi ghignare soddisfatto.

 

* * *

 

“Ace, ti prego, calmati e ricomincia da capo”.

Non appena Penguin era sceso dalla macchina, pronto ad affrontare a testa alta quell’energumeno di Kidd, ero subito ripartito, diretto alla caffetteria dove avrei dovuto lavorare tutto il giorno, solo che ero troppo nervoso e in ansia per aspettare oltre, così avevo preso il cellulare e avevo chiamato Marco per metterlo al corrente della situazione durante il tragitto. A quanto pareva, però, forse gli avevo esposto il problema in modo un po’ troppo isterico, tanto da lasciare frasi a metà, fornire una lista infinita di nomi di persone che nemmeno io conoscevo e descrivendo come avremo ritrovato il suo cadavere se le cose si fossero messe male.

“Cosa della frase ‘Law è in serio pericolo’ non ti è chiaro?” domandai sospirando e suonando il clacson a un ciclista poco convinto che sembrava voler attraversare da un momento all’altro, esattamente quando stavo per sfrecciargli accanto.

“Ehm, tutto? Sul serio, Ace, devi calmarti. Del tuo discorso ho capito si e non tre parole!”.

“Testa d’ananas” sbottai.

“Ragazzino, non farmelo ripetere”.

Per quanto sexy potesse sembrare non mi andava di vedere Marco incazzato, quindi preferii rimandare la scoperta a un indefinito giorno del mio, anzi del nostro, futuro, perché ero convinto che in qualche modo ci fosse entrato anche lui, e, prendendo un profondo respiro, trovai la forza per rilassarmi leggermente e riprendere da dove avevo lasciato, raccontandogli brevemente dello psicopatico genitore del mio coinquilino, del suo soggiorno in galera e della sua vendetta pianificata in quegli anni, con l’unico obbiettivo di far fuori tutti. Questo, in particolare, fece preoccupare il pennuto che, dubbioso, mi chiese se non fosse il caso di avvisare le forze dell’ordine.

“Ci hanno già pensato Penguin e gli altri. A quest’ora dovrebbero essere arrivati in caserma, salvo imprevisti”. Dovevano per forza riuscire in quella parte del piano, altrimenti potevamo dire addio alla testa del nostro caro amico e anche alle nostre per quanto mi riguardava.

Dall’altro capo ci fu un lieve trambusto al quale seguì un’imprecazione a mezza voce. Delle urla si trasformarono in modo contorto in una risata e mi sentii gelare il sangue quando riconobbi la voce scherzosa di Thatch che, probabilmente dopo aver rubato il telefono dalle mani del proprietario, mi salutò con entusiasmo.

“Ace, porta immediatamente il tuo culo sfasciato qui, hai capito? Tu ed io abbiamo molte cose di cui parlare”. I riferimenti allo stato di salute del mio didietro non erano in nessun modo puramente casuali, ma il tono velatamente minaccioso sperai di essermelo immaginato. Soprattutto, se avevo fatto bene i miei conti e se quella piaga che Marco aveva come fratello aveva davvero una specie di sesto senso infallibile per certe cose, probabilmente doveva aver intuito che il pennuto ed io avevamo fatto grandi progressi nella nostra contorta relazione. Che poi, al nostro primo risveglio insieme, ci fossimo dedicati a mettere sottosopra la sua cucina iniziando una battaglia all’ultimo lancio di vivande poco importava. Nemmeno il fatto che Thatch ci avesse beccati stesi a terra intenti a baciarci mi preoccupava più di tanto, insomma, l’avrebbe scoperto in ogni caso e le domande che ora mi stava rivolgendo avrei comunque dovuto metterle in conto. Le avevo evitate miracolosamente per troppo tempo e la fortuna non sarebbe sempre stata dalla mia parte.

“Ehi? Mi hai sentito? Ti ho chiesto, per l’ennesima volta, com’è a letto quell’idiota! E non provare a cambiare discorso!”. In sottofondo udii parole sconnesse e tanti, tanti insulti provenire dal diretto interessato, probabilmente allontanato in qualche losco modo dalla cucina.

“Se te lo dico mi passi Marco?” domandai, proponendogli quel patto che, in un altro momento, non avrei mai stipulato, ma il tempo stringeva ed io non mi sentivo affatto tranquillo. Era come se mi stessi lasciando sfuggire qualcosa e ciò mi innervosiva non poco, quindi dovevo disfarmi dei giochetti contorti e perversi del castano il prima possibile e a qualsiasi costo, anche la mia dignità.

“Affare fatto!”.

“Bene”. Presi un respiro profondo e mi preparai a segnare per sempre la fine della mia tranquillità mentale, “Il miglior sesso della mia vita” esalai tutto d’un fiato, chiudendo gli occhi per poi riaprirli l’istante dopo, ricordandomi che stavo guidando, mentre i miei timpani venivano messi a dura prova dalle grida esaltate ed entusiaste di Thatch, il quale sembrava sul punto di mettersi a piangere dalla gioia, tanto era su di giri. Che altro avrei potuto dirgli? Che era stato un fiasco? No, assolutamente, sarebbe stata un’eresia! Era stato fantastico e, wow, non avevo fatto altro che chiedermi per quale dannato motivo non mi fossi fatto avanti prima. Mi sarei risparmiato un sacco di frustrazione e docce fredde se solo avessi avuto un po’ di coraggio in più. Ad ogni modo, ne era valsa del tutto la pena e non avrei cambiato nulla se avessi dovuto tornare indietro. Andava bene così e non avrebbe potuto essere migliore la nostra prima volta. Quelle successive, poi, erano andate ancora meglio.

Il baccano venne interrotto all’improvviso e una voce più pacata e leggermente incuriosita mi fece sorridere quando mi domandò se sapessi il motivo per il quale Thatch stava cantando a squarciagola canzoni d’amore, disegnando cuoricini su un bloc notes.

“Sarà scemo” risposi, rimandando il più a lungo possibile lo sporco segreto che avevo appena condiviso con quel pazzo e ritornando all’argomento che mi premeva di più.

Stando alle parole di Law avrei dovuto allontanarmi dall’appartamento per un po’, almeno fino a nuovo ordine, come spiegai anche al biondo, il quale sembrava sul punto di ammattire con tutte quelle informazioni e avvisi di minaccia. Gli spiegai come casa mia non fosse più ritenuta sicura e del piano non del tutto improvvisato di Penguin. Gli feci anche un piccolo resoconto sulla relazione stranamente stabile e apparentemente duratura tra il mio inquilino e il rosso iracondo, e di come il primo avesse deciso di lasciare il secondo per assicurarsi di metterlo in salvo. In quella parte del racconto non riuscii a trattenere una nota triste e malinconica, pensando a quanto doveva aver sofferto Trafalgar nel sopportare tutto quel peso. In confronto a lui, il mio affetto per Marco poteva benissimo passare per una stupida cotta adolescenziale.

“Quindi adesso dove andrai a dormire?” mi sentii chiedere dopo un minuto di silenzio.

“Uhm, penso da mio nonno” sbuffai. L’idea di ritornare sotto lo stesso tetto, che non avevo ancora aggiustato, del mio impiccione e vecchio nonno non mi andava molto. Soprattutto perché non avevo idea di quanto tempo avrei dovuto passare in sua compagnia prima di ritornare ad essere libero.

“Potresti venire da me per qualche giorno”.

Inchiodai al semaforo rosso e per poco il cellulare non mi scivolò dalla mano. Avevo sentito bene? Davvero mi aveva chiesto quello che io non avevo avuto fegato di proporgli per timore di risultare troppo invasivo o pesante? Sperai solo che non stesse scherzando perché avrei potuto sprofondare nell’oblio se mi avesse detto che si, era tutta una messa in scena.

“Davvero?” sussurrai, incapace di calmare il battito accelerato, “Cioè, me lo sta chiedendo sul serio?”.

“Beh, ecco, perché no? Insomma, non saresti così lontano dall’università e dal lavoro. E poi so cosa vuol dire abitare con i genitori e sottostare alle loro regole, ci sono passato anche io, quindi… Si, sul serio”.

Il mio sistema nervoso era appena andato in tilt e nella mia mente stavano sfrecciando solo le immagini delle notti che avevamo passato assieme. Troppi ricordi, tutti in una volta e mi stupii della quantità di cose a cui avevo fatto attenzione e che mi ero impresso per non rischiare di dimenticare niente di ciò che per me era stato così importante.

“Ace? Senti, se non ti va non devi…”. Finiva sempre così: quando mi vedeva tacere davanti ad una sua proposta andava nel panico; si rattristava e si aspettava sempre una risposta negativa da parte mia. Forse temeva ancora che stessi male per quello che era successo prima di Natale, ma ormai era passato, avevo smesso di pensarci e avevo deciso di lasciare andare le cose come era giusto che fosse e, in  quel modo, con un po’ di pazienza, si era tutto sistemato per il meglio. E, per quanto mi riguardava, ogni volta che mi avrebbe chiesto qualcosa, avrei sempre risposto in modo affermativo. Quel suo continuo preoccuparsi però, tutto sommato, non mi dispiaceva così tanto, soprattutto perché Marco tendeva a diventare nervoso e a ingarbugliarsi con le parole e, quando questo accadeva, assumeva un’aria tremendamente buffa e adorabile nel tentativo di non risultare troppo coinvolto.

“S-se non disturbo” risposi infine, interrompendo quella frase che, ne ero sicuro, sarebbe stata la sua rovina e sorridendo sotto i baffi quando mormorò un imbarazzato ‘perfetto’, seguito da un cambio repentino del discorso.

Ormai ero quasi arrivato e presto avrei chiamato Penguin per sentire a che punto erano loro, se alla fine aveva fatto ragionare Kidd e se erano riusciti a coinvolgere la polizia e a rintracciare quel pazzo suicida che avrei riempito di pugni per poi abbracciarlo tanto stretto da soffocarlo non appena l’avessi rivisto.

Perché, ne ero certo, Trafalgar sarebbe ritornato a casa sano e salvo. Non poteva non andare così, non quando lui aveva rinunciato a tutto per il nostro bene. Un po’ di felicità se la meritava, anzi, per quello che stava facendo avrebbe dovuto essere felice per il resto dei suoi giorni. Nessuno ne era più degno di lui.

La prima volta che l’avevo conosciuto era stata una delle giornate più inquietanti della mia vita e non l’avrei mai dimenticata, soprattutto per l’enorme aiuto che mi aveva dato in quella circostanza. Allora ero ancora un ragazzino, avevo finito da poco le superiori e mi preparavo per entrare all’università. Quella sera dovevo aver accidentalmente offeso un qualche idiota, capo di una gang di, a mio avviso, falliti, ma che in quell’istante mi stavano dando parecchio filo da torcere. Certo, sei contro uno non era tanto leale, soprattutto se ti colpivano alle spalle, ma proprio quando stavano per buttarmi a terra e spaccarmi per bene la faccia era intervenuto Law, sbucando come suo solito dal nulla, anzi, dall’ombra per correttezza, con un ghigno che avrebbe fatto invidia al peggiore dei fuorilegge e pensando bene di irritare ulteriormente i bestioni poco amichevoli che già erano al limite della sopportazione. Li fece letteralmente vergognare di esistere con due frasi in croce per poi affiancarmi e, allontanandone un paio solo con uno sguardo micidiale, mi aiutò a rimettermi in piedi e ad affrontare il resto di loro. Finimmo al pronto soccorso da vincitori, ma con una paio di ammaccature e un polso slogato, il mio per la precisione, dato che, per concludere in bellezza, avevo sferrato  un destro con tutta la forza di cui ero capace, spedendo al tappeto contro la parete un bestione abbastanza tosto, il quale perse conoscenza sotto una pioggia di scintille provenienti dalla centralina elettrica del locale che aveva urtato. Il soprannome Pugno di Fuoco se l’era inventato lui quando, usciti dall’ospedale, l’avevo ringraziato per l’aiuto. Più volte mi ero chiesto come un ragazzino più piccolo di me e all’apparenza piuttosto smilzo avesse potuto mettere fuori gioco quei tizi in poco tempo, per giunta senza troppi problemi, ma l’avevo scoperto a mie spese dopo averlo conosciuto meglio, accettando la proposta che mi fece un giorno di condividere un appartamento, spiegandomi che, in quel modo, mi avrebbe tenuto lontano dai guai.

Quello era stato l’affare migliore che potesse essermi capitato. Avevo conosciuto lui e gli altri due nostri coinquilini e mi ero subito sentito a casa e ben voluto, per non parlare di come si era allargata allora la compagnia. I tre si erano presto aggregati a me e alla spericolata ciurma, come la chiamavano, di ragazzini capeggiati nientemeno che da quell’incosciente di Rufy, il quale aveva simpatizzato subito con Trafalgar, nonostante il suo nome non gli fosse mai entrato bene in zucca. In ogni caso i due avevano presto fatto amicizia, a modo loro, s’intende.

Se ripenso a quando Rufy gli ha rubato il cappello io… Oh, cazzo! Rufy!

“Marco devo tornare indietro!” feci tutto d’un fiato, invertendo la marcia in mezzo alla strada il prima possibile e ripercorrendo il tragitto al contrario, diretto all’appartamento.

“Cosa? Ace, non fare cazzate, mi hai appena detto che potrebbe essere pericoloso!” mi richiamò Marco dall’altro capo del telefono, ma non l’avrei di certo ascoltato, non quando in pericolo c’era pure la vita di mio fratello.

“Non capisci, Rufy mi aveva avvisato che sarebbe passato da me questa mattina, marinando la scuola ed io me ne sono completamente dimenticato! Non posso rischiare, devo andarlo a prendere!”. Quasi urlai, schiacciando ulteriormente il piede sull’acceleratore e determinato a raggiungerlo in fretta e ad evitare disastri. Ecco cosa c’era che non andava e che mi manteneva in costante ansia. Come avevo potuto scordarmi di lui?

“Ace, almeno fammi venire con te!” stava dicendo Marco ancora al telefono, ma non c’era tempo da perdere e i minuti erano contati.

“Mi dispiace”. Fu l’ultima mia risposta perché poi chiusi la chiamata e lanciai il telefono nei sedili posteriori, intenzionato a non farmi distrarre. Lui avrebbe capito, ne ero certo, sapeva quanto tenessi al mio piccolo fratellino e al mio posto avrebbe fatto lo stesso. Mi avrebbe perdonato non appena tutto sarebbe finito. Dopotutto, dovevo solo recuperare Rufy e portarlo via dalla zona per poi ritornare alla caffetteria. Non sarebbe stato difficile e quel pennuto mi avrebbe avuto tra i piedi prima di quanto si immaginasse. Non era difficile e, molto probabilmente, Law si era sbagliato riguardo alla poca sicurezza della nostra casa. Insomma, cosa poteva andare storto?

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
Buongiorno ragazzi, lasciate che faccia gli auguri a chi è felicemente Single, giusto per correttezza e auguri di Buon San Valentino in ritardo, giusto per non tralasciare nessuno ^^
Oggi niente canzoni, siete fortunati, quindi passiamo direttamente al capitolo che, mentre lo scrivevo, mi ha fatta saltare per casa urlando ‘Bravo Penguin, vai così, fa il culo a Eustass’. Perché si, il momento eroico per il nostro Pen-chan è arrivato e ha svolto un ruolo molto importante dato che è solo grazie a lui se ora tutti sanno, più o meno, come muoversi per andare all’arrembaggio e salvare Law e, come dice Rufy a Dressrosa: a prendere a calci in culo Doflamingo.
Penguin è un genio in questo caso e pensa bene di andare a spiattellare tutto a Kidd, ignorando gli avvertimenti di Trafalgar e facendo di testa sua. Bene, bravo, ottimo lavoro, infatti, dopo un’accesa discussione, riesce a farsi ascoltare e a dire le cose come stanno: Law ama Kidd. Trafalgar non avrebbe mai abbandonato il caro Eustass se non fosse stato costretto. Oh, Dio, tutto questo è così romantico e straziante! Devo stare calma perché Doffy ci stava alla grande, non vedevo l’ora di buttarcelo dentro, sappiatelo, e muoio dalla voglia di farlo apparire. Odiatemi, ma resta il cattivo per eccellenza, lui e quella sua faccia da culo bastardo maniaco.
E Kidd con le chiavi inglesi. Uomo, sposami. Sul serio, è un super eroe e gli farei una statua se potessi. Essere il figlio del vecchio, mica tanto, Smoker ha i suoi vantaggi. (Devo dirlo perché é una settimana che rido dato che una cara ragazza me l’ha fatto notare: Smoker di cognome fa Eustass. EUSTASS SMOKER). Dopo questo, riprendiamo!
Inizialmente non voleva nemmeno stare a sentire quello che il nanerottolo aveva da dirgli ma, alla fine, dopo un bel pugno in faccia, un fulmine a ciel sereno gli fa finalmente aprire gli occhi su quelle che erano le reali intenzioni di Trafalgar. Capisce alla centrale che, per di evitare che accadesse loro del male, si è sacrificato senza tanti problemi di sua spontanea volontà. Ma io dico, si può essere più coraggiosi? Perché, ammettiamolo, non tutti farebbero una cosa simile, ma Law si. LAW SI, CAZZO! Perché è una persona, perché, nonostante il suo pessimo carattere, ha comunque degli amici e io sono dell’idea che chi si comporta come lui, nascondendosi e isolandosi, infondo provi più affetto di molti altri. Quindi credo che la cosa abbia senso, poi, ovviamente, se ci sono dubbi basta dirlo, non dico di avere ragione, ma parlo per punti di vista ^^
E Smoker con la pettinatura alla moda. L’ho dovuto inserire perché mi è stato fatto notare un giorno questo suo look con queste esatte parole epiche: Smoker con i capelli da fiol. Da noi ‘fiol’ sta per figo. Che, se ci pensate, è vero perché molti ragazzi vanno in giro pettinati così *O* resta il fatto che, in ogni caso, Smoker è sempre stato figo, LOL.
E apprezza il comportamento del suo amato figliolo con i capelli rossi, lo approva e decide anche di aiutarlo, argh!, che tenerezza! E aspetta che lo venga a sapere mamma Ivankov, LOL.
Allora, siccome non sapevo cos’altro inventarmi, ho sparato la cazzata del GPS, sperando di non aver toppato. Cioè, come avrebbero potuto rintracciare Law, altrimenti? E per fortuna che non ci sono stati altri errori di connessione. Paura, eh? Un applauso alla mente piuttosto geniale di Penguin. Aspetta, c’è anche Killer oggi! Volevo solo elogiare il suo comportamento quando salva il suo caro quasi fidanzato dalle ire del rosso per poi paragonarlo a Trafalgar. E quando dichiara di volerli aiutare ** tesoro, sei uno dei personaggi migliori, a mio avviso, per l’infinita pazienza e comicità che aleggia attorno a quella tua maschera.
Passiamo a Ace. Yep, oggi c’è anche Ace :D Ace che ha vissuto il miglior sesso della sua vita.
Il ragazzo, secondo i piani, deve filare dritto alla caffetteria e restarci senza combinare guai ma, per uno scherzo del destino, le cose si complicano e, dopo infiniti discorsi su ‘dormi da me’ e ‘ti prego dì di si’, si ricorda del suo amato fratellino. Rufy che salta la scuola per andare a trovare il suo caro fratellone e che non sa delle ultime novità critiche. Rischia di farsi male? Fortuna, o sfortuna, punti di vista, che Ace non ci pensa due volte di andarlo a riprendere per metterlo al sicuro. Insomma, cosa potrebbe mai capitare?
Thatch si, canta e Marco non immagina nemmeno il motivo della sua allegria. Povero, mi fa quasi pena. Avrà, però, problemi più grossi da risolvere a breve.
Che dire, le cose iniziano ad ingranare, ma Law che fine ha fatto intanto? Che dite, Spoiler Free?
 
Sospirai rassegnato, convincendomi che avrei dovuto sprecare cinque minuti sicuri per toglierli di mezzo, sentendo montare la rabbia per non poter raggiungere immediatamente Ace, il quale, ne ero certo, non se la stava passando bene.
“Ve lo dirò una volta sola” mormorai, togliendomi il giubbotto e lasciandolo cadere a terra per poi arrotolarmi le maniche della camicia fino a gomiti, in modo da essere più libero nei movimenti, “Toglietevi dai piedi!”.
*
“Ho capito” sentenziò Penguin lapidario, “Quel bastardo ha pensato proprio a tutto. Quale posto migliore di un capannone abbandonato per far fuori qualcuno?”.
“Ve lo ripeto: niente colpi di testa, soprattutto tu” minacciò, soffermandosi a guardarmi più del necessario nel tentativo di intuire le mie intenzioni.
*
“Prendi questa e fa il giro largo. Al di là dei container c’è un altro ingresso, una vecchia uscita di servizio credo. Entra da lì”.
“Buona fortuna Kidd”.
Correndo sotto la neve, aggirando l’entrata principale, mi strinsi un braccio attorno al petto, sentendo chiaramente la presenza di una pistola carica e pronta all’azione.
 
Pistola? Vecchia uscita? Capannone abbandonato? E, aspetta, toglietevi dai piedi? Woho, ho paura di essermi lasciata prendere la mano ;_____________;
spero che il capitolo vi sia piaciuto, davvero, e, tipo, mi vergogno per non aver ancora risposto alle recensioni che gentilmente mi lasciate, consci di sprecare il vostro tempo e non vi ripagherò MAI abbastanza, perciò accettate i miei GRAZIE DI TUTTO CUORE, spero che almeno in parte possano bastare.

Grazie a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori, ci si vede la settimana prossima ^^
Cala il sipario e restate sintonizzati!
See ya,
Ace.

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Capitolo 23
*** Capitolo 21. Chi non muore si rivede. ***


Capitolo 21. Chi non muore si rivede.

 

“Non puoi andare più veloce? Questa carretta sarà più truccata della mia auto e di certo tu non hai il problema di beccarti una multa!”.

“Mi stai forse dicendo che il motore della tua macchina è modificato?”.

Con un grugnito stizzito mandai a quel paese Smoker e il suo cazzo di lavoro, ripetendogli di accelerare ulteriormente e di darsi una mossa. Ormai eravamo quasi arrivati al porto, ma ciò non significava che avrebbe dovuto prendersela comoda. Dovevamo fare in fretta se volevamo avere una possibilità di riuscita ed evitare che quel pazzo drogato portasse a compimento il suo malefico intento. Non doveva nemmeno provare ad azzardarsi a mettere le sue sporche manacce su Law. Solo io potevo permettermi di uccidere quel chirurgo bastardo. Io e nessun altro.

Durante il tragitto il nanerottolo seduto sui sedili posteriori non aveva fatto altro che parlare senza sosta, intervallando discorsi seri a insulti e frasi senza un senso logico, ma almeno aveva avuto tutto il tempo di fare chiarezza sulla situazione, mettendo tutti al corrente dei fatti accaduti in passato e di come quel Doflamingo fosse stato una vera e propria piaga nella loro vita. Smoker fu ben contento di ascoltare quella testimonianza, almeno si era fatto un’idea su cosa aveva a che fare e con chi si sarebbe dovuto scontrare una volta arrivati a destinazione. Certo, eravamo partiti un po’ allo sbaraglio e male organizzati, ma bastò contattare le altre volanti della polizia per impartire l’ordine di non fare stronzate e attenersi agli ordini. Non dovevamo dare nell’occhio, per questo tutte le auto al nostro seguito erano delle normali vetture e tutti gli uomini si erano premurati di partire in borghese per non destare sospetti e non attirare l’attenzione. Dovevo ammettere che Smoker, in poco tempo, era riuscito ad elaborare una strategia efficace con tanto di cappello. Ci restava solo da fare il possibile per riuscire nel nostro piano e non fallire.

“Cosa?” urlò Penguin ad un tratto, facendo impallidire Killer e beccandosi un’occhiataccia infastidita da me e dal capo delle forze dell’ordine attraverso lo specchietto retrovisore.

“Mi stai dicendo che quel bastardo travestito con le falci e la maschera a strisce eri tu?” continuò ad inveire, mentre il biondo accanto a lui si spingeva sempre più contro il finestrino, desideroso di poter scomparire.

“Mi sono scusato, se non ricordo male” si giustificò, “E poi mi era parso di piacerti anche”.

“No, invece! No, no e no, razza di idiota! Non provare a rivoltare la frittata!”.

“Di che diavolo state blaterando?” domandai seccato, voltandomi verso di loro e sondandoli con lo sguardo. Penguin si ricordò allora della mia esistenza e mi rivolse uno sguardo inviperito, digrignando i denti e lasciandomi perplesso.

“Certo! Come ho potuto dimenticarlo? Tu sei quello che ha fatto cadere il bambino senza nemmeno rammaricarsene!” mi accusò, puntandomi un dito contro e superando di troppo le distanze di sicurezza, invadendo il mio spazio personale.

“Dì un po’, sei impazzito? Che stai dicendo?”.

“L’anno scorso, la notte di Halloween, non fingere di non ricordarla” mi spiegò, “Tu e il tuo compare stavate gironzolando per il mio quartiere insieme ad altri depravati e avete importunato delle povere creature, spaventandole a morte. Dovreste vergognarvi!”.

“Killer, a cosa si sta riferendo? Ti prego illuminami, altrimenti gli spacco la faccia” dichiarai, rivolgendomi al mio fedele amico e ignorando le minacce del piccoletto che stava decisamente dando in escandescenza, parlando a vanvera e tirando in ballo principesse, fantasmi, streghe e dei fottuti pinguini.

Killer sospirò esasperato, cercando di farsi capire in mezzo a tutto quel chiasso e riportandomi alla mente lo scorso Halloween, quando avevo perso le staffe e avevo deciso di malmenare un tizio vestito da uccello delle nevi. Quando nominò quella scena mi ricordai vagamente di una cosa simile, ma il tutto era un po’ sfocato dato che quella notte l’avevo conclusa ubriacandomi come al mio solito.

“Quindi eri tu quell’idiota?” mormorai, ghignando divertito e facendo arrossire di rabbia Penguin che, con i nervi a fior di pelle, mi scoccò un’occhiata assassina, venendo ricambiato con la stessa moneta subito dopo. Inutile dirlo, non ci sopportavamo per niente.

“Piantatela di fare i mocciosi e fate attenzione, stiamo entrando nella zona portuale” ci richiamò Smoker, zittendo tutti e lasciando che il silenzio calasse all’interno dell’abitacolo. Mi schiacciai contro il finestrino, imitato dagli altri mentre l’auto rallentava e cercava un posto dove parcheggiare.

Di fronte a noi si ergeva il più grande e importante porto commerciale della città. Da esso partivano e arrivavano navi di ogni grandezza e sorte, trasportando passeggeri, importando ed esportando risorse e materie prime. Al di là della schiera di container, barche ormeggiate e veri e propri colossi della navigazione si poteva scorgere il mare in cui si specchiava un cielo grigio, nuvoloso e carico di pioggia, o peggio, neve.

Non potendo andare oltre un certo limite, fummo costretti a parcheggiare nel primo posto libero disponibile, avendo poi modo di scendere e curiosare in giro mentre il resto delle volanti si posizionava altrove, restando in contatto con noi e fornendoci una panoramica dettagliata sulla zona. A quanto pareva, per qualche strana ragione, quel giorno il luogo era praticamente deserto, eccetto qualche passante, e nessuno sembrava diretto a lavoro dato che, poco lontano, c’era un cantiere navale.

“Avete idea di dove possa essere?” chiese Smoker, aspirando una boccata di fumo con l’aria irritata e nervosa.

Guardammo tutti Penguin, il quale teneva stretto tra le mani una specie di computer portatile, fregato dalla caserma con l’intento di seguire il percorso tracciato dal GPS del cellulare di Law. Stando a quello che indicava sulla cartina, era ancora in movimento e non molto lontano da noi.

“Deve aver lasciato l’auto da qualche parte” stava dicendo con lo sguardo fisso sul monitor, “Sta procedendo più lentamente a circa cinquecento metri dalla nostra posizione, da quella parte” constatò, indicando un punto davanti a noi in lontananza. Di nuovo una brutta sensazione si fece strada dentro di me, quando adocchiai quale costruzione si ergesse in quella direzione. 

“Il vecchio cantiere” sussurrò Killer, muovendosi irrequieto accanto al cofano mentre Smoker indicava le coordinate ai suoi uomini tramite la radio.

“Ho capito” sentenziò Penguin lapidario, “Quel bastardo ha pensato proprio a tutto. Quale posto migliore di un capannone abbandonato per far fuori qualcuno?”.

“Ragazzi, voi ora aspettate qui e non mettete piede fuori da questa cazzo di area, chiaro? Lasciate che ne occupiamo noi” fece il mio vecchio genitore in quell’istante, attirando su di sé l’attenzione di tutti, sospirando quando si rese conto dalle nostre occhiate che non avevamo la minima intenzione di ascoltarlo e fare quello che ci aveva ordinato nell’intento di tenerci al sicuro. Cosa diavolo era preso a tutti quel giorno? Io mi difendevo da solo.

Fortunatamente sembrò capirlo e, non essendoci tempo per farci la ramanzina, ci disse solamente di fare attenzione e non agire senza pensare, facendoci promettere anche che avremo dovuto, parole testuali, stargli incollati al culo per tutto il tempo.

“Ve lo ripeto: niente colpi di testa, soprattutto tu” minacciò, soffermandosi a guardarmi più del necessario nel tentativo di intuire le mie intenzioni. Gli sorrisi sprezzante, superandolo e incamminandomi verso il cantiere abbandonato, sentendolo masticare un insulto a mezza voce su quanto fossi cocciuto e totalmente spericolato, senza una briciola di attenzione.

Non era il momento di essere prudenti, il tempo stringeva e l’unica cosa che continuava a tenere accese le nostre speranze erano i movimenti di Law che intercettavamo via internet, altrimenti, a quell’ora, saremo stati ancora al punto di partenza senza sapere dove guardare e cercare, rischiando di arrivare troppo tardi. In quel modo, almeno, avevamo alcune possibilità di riuscita e, se l’avessimo raggiunto prima del suo incontro con il padre che avrei spedito all’inferno volentieri, l’avremo riportato indietro e tenuto al sicuro, lontano da quel verme. Al resto ci avrebbe pensato la polizia. Lo avrebbero catturato e tutto sarebbe finito per il meglio. Ancora mi domandavo perché quel deficiente non ci avesse pensato prima, mettendoci al corrente di tutto senza dover inscenare quella farsa per allontanarsi da noi, da me, e fare di testa sua.

Su consiglio di Smoker, senza correre e senza dare nell’occhio, raggiungemmo il luogo segnalato mentre i suoi uomini circondavano e tenevano sotto controllo la zona, segnalando qualsiasi movimento e tenendosi in contatto con la base nel caso ci fosse stato bisogno di chiamare i rinforzi. Intanto il tempo sembrava non volerci dare tregua e, come previsto, la neve iniziò scendere lenta e a piccoli fiocchi, almeno per il momento, dandoci modo di sperare che smettesse presto e che non volgesse in peggio, come una tempesta, dato che in quella zona nelle ultime settimane ce ne erano state parecchie. Forse anche per quel motivo i lavori erano stati interrotti.

“Sembra tutto troppo facile” osservò Killer non appena arrivammo nei pressi del cantiere, circondato da alcune vecchie barche a riva, scafi ribaltati e da una dozzina di container vuoti che in passato erano serviti alle navi che trasportavano merci.

“E tutto troppo silenzioso e quieto” concluse Smoker, guardandosi attorno dubbioso.

“Ragazzi, Trafalgar si è fermato e… aspettate. No! No, maledizione! Avanti, forza riparti!”.

“Che succede?” domandai, avvicinandomi al nanerottolo e scoprendo con orrore che il computer aveva perso il segnale. Non c’era campo e la posizione del medicastro era sparita dallo schermo del portatile, lasciandoci a brancolare nel buio proprio quando eravamo così vicini a lui.

“Fallo funzionare!” ordinai, mentre Penguin andava nel panico, spiegando che non c’era niente che lui potesse fare se in quella zona non c’era alcun tipo di segnale. In poche parole eravamo fottuti e senza un piano di riserva.

“Calmatevi, cosa stavi dicendo prima di perdere il collegamento?”. Freddo e impassibile, il poliziotto in nostra compagnia afferrò il piccoletto per le spalle e lo fece zittire, guardandolo negli occhi e intimandogli di tranquillizzarsi e raccogliere le informazioni.

“S-Si è fermato p-poco più avanti” balbettò, sbattendo le palpebre e facendo un respiro profondo, “E’ dentro al c-cantiere”.

Non appena pronunciò quelle parole diedi loro le spalle, diretto verso l’entrata a passo deciso e deciso ad andare a recuperare quel pazzo suicida e trascinarlo a casa con la forza, se mi avesse costretto ad utilizzarla, ignorando gli avvertimenti dei miei compagni e continuando imperterrito per la mia strada, quando qualcosa, o meglio, qualcuno, bloccò la mia marcia, sbucando dal nulla da dietro i battenti del capanno ormai arrugginiti.

Lo incenerii con lo sguardo, domandandomi quanti altri intoppi avrei dovuto superare prima di raggiungere una buona volta Trafalgar.

Dietro di me sentii Penguin lanciare un grido terrorizzato, tappandosi la bocca subito dopo e iniziando a tremare da capo a piedi. Probabilmente conosceva quell’uomo e se così era doveva per forza trattarsi di quel maledetto criminale.

Prima che potessi anche solo muovere un muscolo e scattare verso di lui per riempirlo di pugni, venni affiancato da mio padre che, mettendosi davanti a me, fronteggiò l’uomo dalla figura elegante e seria, sondandolo con lo sguardo e chiamandolo per nome.

“Vergo, da quanto tempo” disse, anche se il tono non era affatto amichevole, “Non pensavo di ritrovarti qui”.

Quindi, anche se l’avessi colpito, non avrei concluso niente in ogni caso dato che non era la persona che stavamo cercando. Di certo, però, lavorava per lui, quindi metterlo al tappeto era nostro dovere.

“Quello è il braccio destro del padre di Law” sussurrò Penguin dietro di me, nascosto dalla stazza di Killer che guardava il nuovo arrivato con aria minacciosa, come se temesse che potesse fare del male al ragazzino alle sue spalle. “E’ un mostro quasi quanto il suo capo”.

“Smoker, lavori ancora per quella feccia del governo?”. Il tizio iniziò a parlare come se si conoscessero da una vita, nonostante l’argomento insidioso che utilizzò per salutare.

“E tu sei sempre deciso a scegliere la strada sbagliata?” ribatté il marine senza la minima traccia di indecisione. Deciso, determinato e fiero, lo era sempre stato, senza paura e coraggioso fino in fondo. Quel vecchio era stato il mio idolo fin da quando ero piccolo e, in momenti come quello, qualcosa dentro di me mi ricordava che, a volte, mi sentivo fiero di essere suo figlio.

Vergo, senza scomporsi, diede una risposta affermativa, restando impassibile e spolverandosi con noncuranza il lungo cappotto elegante che indossava per togliersi di dosso la neve.

“In questo caso dovrò arrestarti”.

L’uomo non batté ciglio nemmeno in quell’occasione e si strinse nelle spalle prima di estrarre una ricetrasmittente dalla tasca e borbottare qualcosa in tono calmo e pacato, che però non riuscimmo a comprendere. Tutto fu più chiaro quando lo raggiunsero altri due sconosciuti, un uomo piuttosto robusto e una donna dall’aria poco gentile. Di certo non poteva apparire affabile una che andava in giro armata fino ai denti e con al collo una collana fatta di pallottole. Quanto fossero vere non lo sapevo, ma non mi piacevano affatto. Che pessimo senso estetico.

“Fantastico, ora dobbiamo pure sistemare questi qui!” si esasperò Killer, grattandosi i capelli, mentre al suo fianco Penguin si torturava le mani, mordendosi un labbro per la piega drastica che stava prendendo la situazione.

“Fatevi da parte, ci penso io. Una botta in testa e via!” dissi con sicurezza e spavalderia, mostrando con orgoglio le mie fedeli chiavi inglesi, più grandi della norma. Giocattoli che si trovavano solo da Franky che, in quel campo, era senza dubbio il migliore.

“Tu non farai proprio niente” mi ammonì Smoker, avvicinandosi e afferrandomi per il bavero della giacca, portandosi vicinissimo al mio viso. Nel fare questo mi aprì la lampo del giubbotto per infilarci dentro qualcosa, guardandosi bene dal non destare troppi sospetti e mascherando l’operazione, fingendo di sgridarmi.

“Prendi questa e fa il giro largo. Al di là dei container c’è un altro ingresso, una vecchia uscita di servizio credo. Entra da lì”. Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma alla fine rimase zitto e mi rivolse semplicemente un’occhiata d’intesa. Non servivano tante parole e se avesse fatto o detto altro avrebbe potuto compromettere la sua posizione di uomo di legge. Non potevo entrare e iniziare a sparare a destra e a sinistra, ma non potevo nemmeno restarmene con le mani in mano e questo lui l‘aveva capito. Mi lasciò andare e, con un cipiglio infastidito e seccato come al solito, mi chiese solo di fare attenzione, parlandomi come se fossi la sua più grande seccatura.

“Buona fortuna Kidd” fece invece Killer, avvicinandosi e facendo cozzare il pugno contro il mio, come facevamo da quando eravamo piccoli, mentre Penguin, uscito in prima riga per fare anche lui la sua parte, ammiccò verso di me, ottenendo in cambio un ghigno meno ostile degli altri.

Diedi loro le spalle e presi la strada opposta senza guardarmi indietro e sperando di essere ancora in tempo. Non avevo dubbi, loro se la sarebbero cavata anche senza di me e potevano contare l’uno sull’altro. Trafalgar, invece, chi aveva oltre che se stesso? Nessuno l’avrebbe aiutato ad affrontare il suo più grande incubo, perciò toccava a me fare il lavoro pesante e parargli il culo. Se fossimo usciti vivi da tutto quel casino l’avrei legato al letto per un mese, questo era certo.

Correndo sotto la neve, aggirando l’entrata principale, mi strinsi un braccio attorno al petto, sentendo chiaramente la presenza di una pistola carica e pronta all’azione.

 

* * *

 

Put on your war paint.

 

“Ace, almeno fammi venire con te!”.

“Mi dispiace” e riattaccò.

Strinsi il cellulare nella mano con forza mal trattenuta. Quel ragazzino doveva sempre fare di testa sua; non mi ascoltava mai e di quel passo non sarebbe passato molto tempo prima che si mettesse in qualche guaio. In più, di tutto quello che mi aveva raccontato, avevo capito solo che c’era una specie di mafioso o boss della malavita in circolazione che dava loro la caccia. Aveva detto che a lui ci avrebbero pensato i suoi coinquilini e i due meccanici, più la polizia, sempre se fossero riusciti a convincere le forze dell’ordine a mobilitarsi per dei mocciosi; lui avrebbe solo dovuto starsene ad aspettare buono e tranquillo la fine di tutto, seduto al bar sotto la mia sorveglianza. E invece che faceva? Tornava indietro nel luogo che aveva descritto come pericoloso.

Razza di incosciente!

“Allora, fratellino” fece una voce cantilenante, “Devi ancora dirmi com’è stato il sesso con Ace”. Thatch decise di tornare alla carica con le sue stupide domande proprio in quel momento, quello meno indicato, “Sai, lui è stato più accondiscendente e mi ha già fatto sapere che…”. L’occhiata che ottenne come risposta bastò a farlo desistere dal suo intento di farsi gli affari miei.

“C’è qualche problema?” mi chiese allora, facendosi repentinamente serio, capendo all’istante che non stavo scherzando e che avevo i nervi a fior di pelle. Non sapevo perché, ma la cosa non mi convinceva per niente e, per quanto odiassi ammetterlo, avevo una brutta, bruttissima sensazione, come se stesse per succedere qualcosa di veramente catastrofico. Sarei dovuto andare con Ace, ne ero certo. Qualcosa mi diceva che quel mio sbaglio mi sarebbe costato caro se non avessi agito e rimediato al più presto.

“Temo che potrebbero essercene” ammisi, iniziando a togliermi il grembiule e lanciandolo a Thatch affinché lo prendesse al volo, “Lascio a te il locale. Io vado da Ace” dichiarai.

“Ma cosa sta succedendo?” domandò allarmato, corrugando la fronte e guardandomi spaesato.

“Credo sia nei guai”.

Senza stare ad ascoltare oltre le sue domande alle quali non avrei avuto ne il tempo ne la voglia di rispondere, presi le chiavi della macchina e andai sul retro dov’era situato il garage, intenzionato a raggiungere l’appartamento il più in fretta possibile e, soprattutto, prima che le cose si complicassero. Sperai solo che l’ansia fosse dovuta solamente alla storia contorta e inquietante che mi aveva raccontato e che il brutto presentimento fosse frutto della mia immaginazione.

Accesi il motore e mi preparai ad uscire dal parcheggio, quando vidi schizzare fuori dal bar un idiota con i capelli castani e un ciuffo eccentrico e alquanto discutibile, il quale sembrava intento ad urlare qualcosa di offensivo o minaccioso al telefono nei confronti di ignoti. Senza smettere di correre affannato, mi passò davanti, aggirando l’auto per poi salire al posto del passeggero e allacciarsi la cintura, ammiccando nella mia direzione e chiudendo la chiamata.

“Tra poco arriveranno Izou e Haruta. Ci penseranno loro alla caffetteria mentre noi andiamo a salvare il ragazzino” spiegò, sorridendo in modo complice ed incitandomi a darmi una mossa, altrimenti non avremo fatto bella figura arrivando tardi. A detta sua, gli eroi non si facevano attendere a lungo e il tempismo era essenziale. Aveva guardato troppi cartoni animati e letto troppi fumetti, a mio avviso.

Ad ogni modo gli fui immensamente grato per aver deciso di accompagnarmi e di starmi vicino ancora una volta, come aveva sempre fatto da quando mi ero aggiunto alla sua famiglia.

 

You are a brick tied to me that’s dragging me down, strike a match and I’ll burn you to the ground.

 

Ancora me lo ricordavo il primo giorno, quando tutto mi sembrava così estraneo e spaventoso, quando ancora vedevo le fiamme bruciare e inghiottire quello che restava dell’orfanotrofio in cui avevo vissuto e mi ero ambientato. Nell’enorme casa in cui mi avevano portato in seguito c’era un giardino enorme sul retro e un sacco di alberi, per non parlare dell’interno dell’abitazione che sembrava un labirinto fatto e finito. E quello che ero arrivato a chiamare papà mi era sembrato un uomo così alto e severo quando l’avevo guardato con gli occhi di un bambino che se ci ripensavo mi veniva ancora da ridere. Quella mattina di tanti anni fa, tutti gli altri ragazzini si erano affacciati alle scale per vedere chi fosse il nuovo arrivato; la maggior parte aveva la mia età, mentre altri erano un po’ più grandicelli, ma molto gentili e, soprattutto, sorridenti. Thatch era stato il primo ad avvicinarsi e a prendere l’iniziativa di presentarsi, guardandomi dall’alto in basso e girandomi attorno con l’intenzione di studiarmi, dandomi poi una pacca sulla spalla che quasi mi fece cadere a terra, decretando che gli stavo simpatico  e che saremo diventati grandi amici, nonostante i miei buffi capelli biondi. Eravamo cresciuti così, uno accanto all’altro, sostenendoci a vicenda e coprendoci le spalle quando combinavamo qualche bravata, tipica degli adolescenti. Lui era sempre stato quello estroverso, socievole, impiccione e testardo, mentre io compensavo la sua mente spericolata con la mia calma, riflessività e un pizzico di arroganza, anche se non riuscivo a toglierlo dai guai tutte le volte. E così eravamo diventati adulti, incapaci di stare lontani a lungo l’uno dall’altro, nonostante lui fosse diventato un impiastro a tutti gli effetti. Era pur sempre mio fratello, il primo che mi aveva accettato e che mi avrebbe sempre sostenuto e questo, ne ero certo, non sarebbe mai cambiato.

Durante il tragitto gli raccontai in breve quello che avevo capito del contorto racconto di Ace, dovendo rispondere in modo negativo a parecchie sue domande dato che nemmeno io ero al corrente di tutta la faccenda. L’unica cosa che importava era che la loro casa non era più sicura e che, in quel momento, Ace stava andando proprio lì per recuperare il suo scapestrato fratellino.

Strinsi i denti, accelerando ulteriormente e sorpassando un paio di macchine. L’avrei fatto anche io se fossi stato al suo posto e non avrei esitato, ma almeno poteva aspettare un attimo e non decidere su due piedi di andare da solo e rischiare così tanto, dannazione!

“Guarda, è la sua auto” fece Thatch, indicando un punto davanti a noi, mentre io accostavo nel parcheggio situato davanti l’edificio. Smontammo dalla macchina ed iniziammo subito a dare un’occhiata nei dintorni, dirigendoci nel frattempo verso l’ingresso dell’appartamento. In strada non c’era nessuno e il quartiere era tranquillo, nulla sembrava fuori posto, eccetto un solo e unico particolare che, non appena notammo, ci fece impallidire e gelare sul posto.

Dalle finestre del terzo piano della palazzina, esattamente dove sapevo esserci le stanze dei ragazzi, usciva lentamente del fumo nero, troppo scuro perché si trattasse semplicemente di qualche tentativo culinario fallito.

 

We are the Jack-o-lanterns in July, setting fire to the sky.

 

Merda!

Non ci pensai due volte e non aspettai oltre, iniziando a correre a perdifiato verso l’entrata, intenzionato a scoprire cosa diavolo stesse succedendo e pronto a tirare fuori dai guai Rufy e Ace, seguito a ruota da Thatch, sempre al mio fianco. Forse eravamo ancora in tempo, forse non era accaduto nulla di male. Almeno, non ancora.

Una mano mi afferrò per una spalla, fermando bruscamente la mia avanzata e, quando cercai di scrollarmela di dosso, deciso a non arrestarmi per nessuna ragione al mondo, la stretta si fece più forte e l’espressione sul viso del ragazzo dietro di me si fece seria e minacciosa nel giro di qualche secondo. Così, seguendo il suo sguardo fisso su qualcosa che avanzava nell’ombra pochi metri più avanti, esattamente verso la porta principale, notai uscire dalla palazzina due uomini che non avevo mai visto prima, vestiti di nero e dall’aria decisamente poco cordiale e innocente. Lo dimostrava il loro portamento sinistro e il gesto che fecero in seguito, posizionandosi davanti a noi e dandoci a intendere che non ci avrebbero lasciati passare tanto facilmente, sicuramente non se avessimo usato le buone maniere.

Senza abbassare lo sguardo, iniziai a muovermi lentamente, un passo dopo l’altro, avanzando verso di loro con l’intenzione di superarli, facendo finta che non esistessero e diretto a raggiungere il terzo piano. Quando mi trovai a meno di dieci metri, i due incrociarono le braccia al petto. Uno di loro scosse il capo di conseguenza, puntandoci un dito contro.

“Spiacente ragazzi, di qui non si passa” decretò con un ghigno sadicamente divertito che gli storpiava il viso dai tratti affilati. Per tutta risposta, l’altro rise sommessamente.

Alle mie spalle Thatch si schioccò le nocche, affiancandomi e rispondendo alla domanda che mi aleggiava in testa e che volevo porgli. Non c’era più bisogno di chiederlo, mi avrebbe dato una mano a sbarazzarmi di quegli idioti e, se lo conoscevo bene, non vedeva l’ora di cominciare.

Sospirai rassegnato, convincendomi che avrei dovuto sprecare cinque minuti sicuri per toglierli di mezzo, sentendo montare la rabbia per non poter raggiungere immediatamente Ace, il quale, ne ero certo, non se la stava passando bene. Dovevo andare da lui, dovevo. E niente e nessuno mi avrebbe impedito di raggiungerlo, nemmeno un paio di scagnozzi.

“Ve lo dirò una volta sola” mormorai, togliendomi il giubbotto e lasciandolo cadere a terra per poi arrotolarmi le maniche della camicia fino ai gomiti, in modo da essere più libero nei movimenti, “Toglietevi dai piedi!”.

 

Here, here comes this rising tide so come on. Put on your war paint.

 

L’occhiata micidiale con cui li fulminai li fece tentennare per un istante, ma si ripresero subito, iniziando a mettersi in posizione d’attacco e muovendo qualche passo incerto verso di noi. Perché nessuno ascoltava mai quello che dicevo? Sarebbe stato tutto più facile e meno doloroso per tutti, per la miseria!

“Di nuovo spalla a spalla come ai vecchi tempi, eh?” notò Thatch, sorridendo divertito, ma con fare decisamente poco cordiale, stringendo i pugni e avviandosi spavaldo verso il più vicino, senza preoccuparsi minimamente di fare attenzione o di difendersi. Era fatto così, diretto e schietto in qualsiasi cosa e, ne ero certo, il primo colpo l’avrebbe inferto lui.

Alzai gli occhi al cielo, preparandomi per affrontare quello con la faccia da schiaffi che aveva parlato, il quale sembrava intenzionato a mettere fine a quella faccenda il prima possibile. Bene, almeno in una cosa eravamo d’accordo, così, quando fu abbastanza vicino, caricò il colpo e si mosse velocemente per colpirmi al viso con un destro ben assestato che mi avrebbe di sicuro messo fuori gioco. Fu semplice e elementare schivarlo e rendergli la gentilezza con un calcio ben assestato sullo stomaco che lo fece piegare in due.

“Non te l’hanno insegnato?” gli domandai, guardandolo respirare a fatica e sogghignando tra me e me, “Non puoi mangiare il re alla prima mossa”.

Nel frattempo Thatch non se la stava cavando affatto male e rotolava nella polvere in una lotta all’ultimo respiro con il tizio grosso più o meno quanto lui, colpendolo al viso senza sosta ogni volta che poteva e ignorando il rivoletto di sangue che gli colava da un labbro.

Era da parecchio che non facevamo a botte, non che da giovani non ne avessimo avuto l’occasione o non ci fossimo messi nei guai, semplicemente eravamo dei tipi pacifici e ci abbassavamo ad usare le mani solo quando era strettamente necessario o quando qualche stupido bullo della scuola offendeva per sbaglio qualche nostro famigliare. Per il resto lasciavamo il divertimento agli scapestrati. Quel giorno le cose non erano tanto diverse. Stavamo combattendo per qualcuno a cui eravamo affezionati e che non avrebbe esitato a fare altrettanto per noi.

Per Thatch, ormai, Ace era come un nuovo fratello acquisito, faceva parte della famiglia e ogni volta che quei due stavano assieme erano peggio della fine del mondo, mentre per me, beh, quel ragazzino era tutto. Perciò non potevo permettere che gli accadesse qualcosa e con quei bastardi avevamo perso già abbastanza tempo.

“Ehi, Marco!” mi sentii chiamare, voltandomi un attimo per riconoscere la figura vittoriosa del ragazzo che, dopo essersi sbarazzato di uno dei due problemi, stava venendo in mio soccorso. “L’ho sistemato!”.

“Bene” dissi, assestando un altro pugno e rompendo il setto nasale all’uomo viscido che a malapena si reggeva in piedi. Nonostante il mio gesto, però, non sembrò voler cedere e, incurante del dolore, iniziò a ridere sguaiatamente, premendosi con forza il naso che aveva iniziato a sanguinare in modo copioso. Lo guardai stranito, trattenendolo per la collottola della giacca e cercando di capire cosa ci trovasse di tanto divertente nel provare dolore. Quando un urlo agghiacciante mi straziò i timpani lo lasciai ricadere malamente a terra, voltandomi di scatto nel riconoscere la tonalità di voce e scattando velocemente in aiuto di Thatch che, inginocchiato a terra, si reggeva un braccio, stringendo i denti e respirando a fatica per le fitte che gli provocava il colpo appena subito. Dietro di lui si ergeva il tizio che aveva creduto di aver messo al tappeto, il quale stava sorridendo in maniera contorta con una spranga di ferro arrugginito, ma resistente, in mano. Era euforico perché aveva appena rotto il braccio a mio fratello.

Sentii montare la rabbia nelle vene e mi lanciai verso di lui con tutta l’intenzione di buttarlo a terra e ucciderlo, se fosse stato necessario, per quello che aveva osato fare, ma successe quello che nessuno aveva previsto.

 

So we can take the world back from a heart attack. You know time crawls on when you’re waiting for the song to start so dance along to the beat of your heart.

 

Un colpo di arma da fuoco riecheggiò nell’aria, rimbombandomi nelle orecchie e facendomi vacillare. Pochi secondi dopo mi ritrovai a contatto con l’asfalto duro e freddo, percependo sempre di più un forte e violento bruciore sul fianco sinistro. Qualcosa non andava in me, qualcosa mi stava facendo bruciare e, sfiorandomi con una mano il punto in cui percepivo quella strana sensazione, mi ritrovai le dita impasticciate di qualcosa di viscido e rosso. Il mio sangue.

“Marco! No!”. Thatch urlava e intanto si trascinava a terra, cercando di raggiungermi con le ultime forze, mentre un violento colpo di tosse mi toglieva il respiro, facendomi venire le vertigini e girare la testa in modo troppo veloce. Non ebbi però il tempo di riprendermi e capire bene cosa stesse succedendo, soprattutto dove fossero finiti quei figli di puttana. Per un istante mi persi a pensare ce non potevano andarsene così, dovevano pagare, ma qualcos’altro catturò la mia attenzione, qualcosa che difficilmente si dimenticava se si aveva l’occasione di vedere con i propri occhi la distruzione.

Il terzo piano esplose improvvisamente, facendo saltare via vetri, pezzi di muro, mattonelle e intonaco, mentre sotto di noi le fondamenta tremavano, mandando scossoni tutt’intorno. Si alzò un fumo nero e denso, scattarono gli allarmi e, nel caos generale, il fuoco divampò, inghiottendo inesorabilmente il palazzo.

Da piccolo, in quello stesso modo, avevo perso tutto. Una parte della mia vita se ne era andata, lasciandomi in mano un pugno di cenere. Ciò che mi mandò totalmente in pezzi, poi, fu la vista di un familiare cappello da cowboy arancione che bruciava, volteggiando nell’aria fino a toccare terra, confondendosi tra le macerie.

 

Hey Youngblood doesn’t it feel like our time is running out. I’m going to change you like a remix.

 

Urlai, urlai con tutto il fiato che avevo in corpo e con tutte le forze che mi rimanevano, sentendomi la testa scoppiare e il fianco bruciare dolorosamente senza tregua fin dentro le ossa, fino a quando il mondo attorno a me si fece indistinto, risucchiato dall’incendio. Quello che mi feriva, però, non riguardava solo il mio corpo. Il male peggiore era la consapevolezza che in mezzo a tutto quel fuoco c’era lui. In quell’esatto momento, un’altra parte della mia vita e del mio essere se ne andava, portandosi via e strappando dalla mia presa il mio tutto, senza pietà.

AAACE!”.

 

Then I’ll raise you like a Phoenix.

 

* * *

 

When the days are cold and the cards all fold, and the saints we see are all made of gold.

 

I timidi e tiepidi raggi del sole erano spariti dietro a grossi nuvoloni grigi e carichi di ghiaccio e neve appena ero arrivato al porto, lasciandomi con l’amaro in bocca. Mi sarebbe piaciuto morire con la luce solare, ma nessuno poteva avere il diritto di decidere come andarsene all’altro mondo, quindi avevo lasciato perdere e mi ero dato da fare per raggiungere il luogo indicato. Tutto era silenzioso e solo il rumore dei miei passi mi aveva tenuto compagnia fino a quel vecchio stabile dove, non appena ero entrato, avevo dovuto dire addio all’idea di trapassare all’aperto, con il vento sul viso e il cielo infinito sopra la mia testa. Più o meno la condizione era quella, dati gli spifferi nelle pareti consumate e mezze cadute a terra e il soffitto con le travi in legno marce, ammuffite o addirittura crollate, ma non era proprio la stessa cosa. Per quanto fossi certo di non meritare il meglio, tutto ciò mi sembrava esagerato nei miei confronti, ma, ancora una volta, mi ero adattato, stringendomi nelle spalle e infossando le mani nelle tasche del giubbotto nel tentativo di scaldarle almeno un po’.

Stavo gironzolando dentro all’edificio abbandonato da un bel lasso di tempo e mi ero trovato davanti a parecchi vicoli cechi, costretto a tornare indietro e a prendere un’altra strada, quando, finalmente, mi ero ritrovai in un grande spazio, una specie di sala, ma in pessime condizioni e mi ero reso subito conto che sarebbe stato quello il punto in cui si sarebbe chiusa la partita una volta per tutte. Lontano da occhi indiscreti, fuori dal mondo, intimo, in un certo senso, l’ideale per una riunione famigliare che si rispettasse.

Rimasi fermo e in piedi per alcuni minuti, il cappello ben calcato in testa e il frontino abbassato sugli occhi chiusi, mentre raccoglievo la concentrazione e mi preparavo ad affrontare la mia battaglia personale. Per un istante rividi l’immagine di quell’idiota di Eustass-ya e, com’era ormai d’abitudine, un leggero, quasi impercettibile, sorriso fece capolino sulle mie labbra. Avevo deciso: quello sarebbe stato il ricordo che mi avrebbe accompagnato fino all’ultimo respiro.

Ad un certo punto il silenzio fu spezzato, la bolla in cui mi sembrava di essermi rinchiuso esplose e nell’aria si diffuse il rumore di passi che si avvicinavano riecheggiando sulle pareti e arrivando alle mie orecchie in modo distinto. Erano movimenti calcolati, lenti e avanzavano senza fretta verso di me. A giudicare dalla mia posizione, se avessi alzato il capo avrei probabilmente scorto la figura del loro proprietario.

Feci un respiro profondo, sollevando allora il capo e rivedendo, dopo tanti anni, l’uomo che era stato fonte di tante disgrazie, non solo mie, ma anche di altri uomini, donne e, sicuramente, bambini. Anche dopo tutto quel tempo lo riconoscevo benissimo e l’immagine del suo viso così immutato mi colpì come uno schiaffo in pieno volto, rievocando nella mia mente un sacco di ricordi spiacevoli della mia infanzia. Buffo come riuscisse ancora a provocarmi un certo senso di timore e paura. Quell’uomo era un mostro e, come tale, non sarebbe mai cambiato.

Donquixote Doflamingo era stato, o forse lo era ancora, un esponente della criminalità all’interno del mercato nero; malvivente internazionale con contatti in ogni dove, conosciuto da tutti con lo pseudonimo di Joker, usato all’inizio per nascondere la sua vera identità. Quando poi aveva acquistato fama, potere e conoscenze fra le alte sfere aveva smesso di stare all’oscuro e si era presentato al mondo in tutto il suo splendore, libero di agire alla luce del sole e muovendosi indisturbato, portando a termine i suoi affari. Era sempre stato un essere ambizioso e rivoltante, per quanto mi riguardava, aveva la smania di strafare e di eccellere, di ergersi sopra le masse e sottomettere tutti ai suoi piedi. Per lui non c’era nessuno che meritasse il suo rispetto e la sua attenzione. Nemmeno sua moglie. Nemmeno suo figlio. Nessuno.

 

When your dreams all fail and the ones we hail are the worst of all and the blood's run stale. 

 

Era eccentrico, lo si capiva dall’abbigliamento stravagante che non aveva smesso di prediligere, visto che, come potevo notare, quel giorno sfoggiava una giacca rosa di piume abbinata a degli occhiali da sole spessi e dalla montatura viola. Era sicuro di sé e lo dimostrava in tutti i modi, persino dall’andatura decisa: gambe larghe e baricentro abbassato, come una sorta di cowboy moderno. Una camicia bianca e pulita gli risaltava il petto, mentre i pantaloni arancioni dalle pieghe morbide gli ricadevano gentili e arrotolati sulle caviglie. Ai piedi un paio di mocassini eleganti e dall’aria costosa come tutto il resto che aveva addosso.

Avanzava con arroganza e superbia, atteggiandosi da duro e dandosi un sacco di arie. Se c’era una cosa che non avevo mai sopportato di lui fin da quando ero piccolo era il suo continuo volersi mettere in mostra. Cosa voleva ottenere più di quello che già aveva? A cosa ambiva, quando ormai era chiaro che lui era un re indiscusso, anche se dalla parte del male? Non temeva nulla, tutto ciò che lo circondava pareva incuriosirlo e godeva nel torturare le sue vittime. Di questo ne ero certo, dato che ne avevo avuto la prova esattamente davanti ai miei occhi. Aveva sorriso quando mia madre aveva perso la vita e aveva sorriso anche quando gli avevo spaccato la faccia, senza smettere nemmeno quando i poliziotti l’avevano portato via.

Stava sorridendo anche allora.

“Chi non muore si rivede, Law” mi salutò, fermandosi a una decina di metri di distanza e inclinando la testa per osservarmi meglio con occhio critico, “Sei cresciuto molto”.

Ghignai, decidendomi finalmente a guardarlo in faccia per dimostrargli che se c’era una cosa che avevo preso da lui era la faccia tosta di ridere davanti a chiunque senza timore. Questo me l’aveva insegnato bene.

“E’ passato parecchio tempo dall’ultima volta che ci siamo visti” continuò, divertito dal mio comportamento. A lui piaceva giocare con le sue vittime e, se mi fossi dimostrato un intrattenimento interessante, avrei guadagnato tempo, forse sarei persino riuscito a vendicarmi di lui prima di permettergli di togliermi di mezzo. Non ero uno sprovveduto, avevo anche io i miei assi nella manica.

“Saresti potuto venire a trovarmi qualche volta. Mi è dispiaciuto molto non poterti vedere crescere così fiero… E bello”.

Strinsi i pugni nelle tasche, indurendo lo sguardo.

Maledetto bastardo.

Sogghignò in modo inquietante, iniziando a gironzolare lì intorno, ridacchiando tra sé e sé e decidendo come continuare il suo insano teatrino prima di arrivare al dunque. “Hai lasciato questo privilegio ai tuoi amichetti da quel che ho capito. Penguin e Bepo, che bravi ragazzi erano. Un po’ ficcanaso, ma niente di preoccupante. E come stanno adesso?”.

“Bene” risposi glaciale. Erano al sicuro, quello era l’importante.

Annuì leggermente, “E i tuoi nuovi amici? O meglio, conoscenti. Non sei mai stato bravo a rapportarti con gli altri, quindi immagino che…”.


I want to hide the truth, I want to shelter you, but with the beast inside there's nowhere we can hide.

 

“Ti sbagli” ribattei, assottigliando lo sguardo, “Loro sono miei amici, tutti. E non ti permettere di nominarli o parlare di loro”.

Mi guardò stupito per qualche istante, scoppiando a ridere sguaiatamente e mandandomi una scossa di brividi lungo la schiena. Odiavo la sua risata simile ad un sibilo, la odiavo con tutto me stesso e avrei fatto qualsiasi cosa per cancellarla dalla faccia della terra.

“Nonostante tu sia cresciuto continui ad essere uno sciocco ragazzino sensibile e, di conseguenza, debole” mi fece notare, sistemandosi gli occhiali da sole sul viso, “Non importa, so benissimo come fare per temprare il carattere di una persona. Magari ci metterò un po’, ma alla fine riuscirò a farli fuori tutti. In questo modo non avrai più nessuno a trattenerti in questo buco di città e potrai venire via con me. Vedrai, ti piacerà il lavoro che ti proporrò, ne sono certo”.

“Scordatelo, non accadrà mai!” mi infervorai, trattenendo a stento la calma e fissandolo in modo truce. Dovevo controllarmi, dovevo smettere di credere alle sue bugie, altrimenti non avrei più ragionato lucidamente e avrei fatto nientemeno che il suo sporco gioco, come se fossi stato un burattino nelle sue mani. Non avrebbe fatto loro del male, non gliel’avrei permesso. Non doveva sfiorarli nemmeno con un dito, quel vile codardo.

“Invece io penso di si, altrimenti il primo a saltare in aria sarà quel poveraccio da cui ti fai sbattere” ghignò.

Strinsi i denti e mi morsi un labbro con forza, pensando al pericolo a cui Kidd continuava ad essere esposto. Mi ero fatto in quattro per toglierlo dai guai; mi ero lasciato calpestare dal suo odio quando l’avevo allontanato; avevo sopportato tutto il dolore che ne era derivato solo per la certezza di saperlo in salvo; invece non era servito a nulla. Doflamingo non si sarebbe mai fermato, non si sarebbe accontentato di così poco e avrebbe continuato a tenermi in pugno con le minacce e le promesse di morte. Fino a che entrambi non fossimo finiti sottoterra, Kidd sarebbe stato in pericolo tutti i giorni.

“Sei un mostro” sussurrai, guardandolo con occhi carichi di odio e disprezzo.

“Non lo sai? Non li trovi nascosti nel buio, i peggiori mostri ti guardano in faccia e ti sorridono”.

Proprio quello che stava facendo lui senza sosta. Sorrideva, ghignava, rideva come se niente fosse; nulla lo scalfiva, non dubitava della sua supremazia; per lui la vittoria ce l’aveva già in pugno, certo che sarei morto o che l’avrei seguito ovunque volesse, sottostando ai suoi ordini e alle sue regole come era abituato con i suoi leccapiedi. Non aveva ancora capito che, come lui, io non mi facevo sottomettere da nessuno. Dopotutto, ero parte del suo stesso sangue, strano che non avesse tenuto in conto del fatto che i suoi geni bastardi esistessero anche nel mio essere.


No matter what we breed, we still are made of greed. This is my kingdom come. This is my kingdom come. 

 

“Mi dispiace” dissi infine, affrontandolo apertamente e dedicandogli la mia classica espressione strafottente che tanto faceva imbestialire le persone attorno a me, “Ma non ho la minima intenzione di aggregarmi ai tuoi ranghi. Preferisco morire, ma se così deve essere, stai certo che ti porterò all’inferno con me”. Poi ghignai come il peggiore dei diavoli e, per la prima volta, notai un velo di stupore farsi strada sul suo viso abbronzato, perennemente tranquillo e sicuro. Le cose si sarebbero rivelate più difficili del previsto e il suo piano non sarebbe di certo filato liscio come l’olio, di questo poteva starne certo.

“E cosa credi di fare da solo? Uccidermi? Catturarmi? Troverò comunque il modo di ritornare e allora ti pentirai vivamente di non avermi ubbidito, piccolo moccioso. Guardati, dove sono i tuoi cosiddetti amici? Sei da solo, nessuno ti aiuterà e molto presto ti farò rimpiangere questa tua insolen… Ma che diavolo?”.

Il suo discorso mi era scivolato addosso senza colpirmi nemmeno un po’; non mi interessavano le sue minacce, sapevo di aver ormai perso tutto quello che mi rendeva… che mi faceva in qualche modo stare abbastanza bene, ma la sorpresa mista a isteria che notai nel tono di voce che accompagnò le sue parole attirò la mia attenzione e mi fece corrugare la fronte. Davanti a me Doflamingo guardava dritto alle mie spalle con l’aria di chi aveva appena visto un particolare che non avrebbe dovuto esistere, digrignando i denti e puntando un dito verso di me. No, esattamente al di là del mio corpo. Cosa cera di così importante da zittirlo?

“Ti ho trovato finalmente, brutto stronzo! Ti rendi conto che mi hai fatto correre come un dannato per raggiungerti in tempo?”.

Non mi mossi nemmeno di un millimetro, tanta era la paura che il mio cervello avesse immaginato tutto di sua spontanea volontà in un momento di paura o black out. Deglutii a fatica, rimanendo completamente immobile e solo dopo aver visto Doflamingo indietreggiare di un paio di passi decisi di voltarmi per rendere finalmente reale la speranza che mi ero imposto di non prendere nemmeno lontanamente in considerazione, sicuro che sarebbe stato solo un sogno, una vana idea che mai si sarebbe realizzata. Voltai il viso, appoggiando il mento sulla spalla e accorgendomi di quanto era appena successo. Fu come ricevere un secchio d’acqua gelata addosso.

Eustass-ya era arrivato. Era venuto a salvarmi.

 

When you feel my heat look into my eyes: it's where my demons hide. It's where my demons hide! 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
*Per chi mi volesse morta, la fila è a destra, poco più avanti; per chi ha pietà e vuole ascoltare le mie motivazioni, allora guardi qui sotto, grazie*
Una Jack-o'-lantern è una zucca lavorata a mano, tradizionalmente adoperata nei paesi anglosassoni  durante la ricorrenza di Halloween.
Ho scelto The Phoenix perché, beh, mi sembra anche chiaro, si riferisce a Marco e mi sembra che il ritmo sia abbastanza in linea con la scena, cioè, secondo me è una canzone che carica. Demons, invece, a parte il fatto che è la mia droga e che volevo assolutamente buttarla dentro, l’ho collegata alla frase di Doffy, ovvero: ‘Non li trovi nascosti nel buio, i peggiori mostri ti guardano in faccia e ti sorridono’. Quest’altra perla non è mia, ahimé, perciò i diritti vanno al diretto proprietario di cui, però, ignoro il nome. Io la trovo assolutamente vera e logica, voi? E poi mi piaceva troppo che in nostro Demone Angelico pronunciasse parole tanto significative, ma iniziamo con il resoconto.
Gruppo del recupero di Law, ossia Kidd, Penguin, Killer e Smoker. Ho voluto collegare lo Special di Halloween al presente, perché altrimenti sembrava messo lì per niente, quindi Penguin ricorda il bellissimo incontro avvenuto un anno prima con i due ragazzi, cosa che, a quanto pare, aveva rimosso dalla mente. Eppure non si dimentica facilmente uno come Kidd, ma va bene. I ragazzi arrivano al porto e iniziano a darsi da fare, aiutati dagli agenti di polizia e dal segnale del GPS che, sorpresa!, si spegne. E qui permettetemi un grandissimo LOL. Che fregatura, fortuna che Pen-chan riesce ad indicare la direzione corretta, quindi via, tutti verso il cantiere dall’aria sinistra, cupa e tragicamente mortale. L’idea non so da dove mi sia venuta, immaginavo un luogo appartato, grande e pieno di nascondigli e, dato che i parcheggi a più piani mi stanno un po’ sulle scatole perché sono sempre quelli, ho deciso per il porto, quindi tenetevelo buono. Ma chi troviamo a bloccare la strada ai nostri eroi? Anche qui LOL, ecco a voi niente meno che il ritorno di un epico incontro avvenuto anche nel manga, ovvero un bellissimo Smoker VS Vergo. Spero l’abbiate apprezzato. Vergo in questa storia era un avvocato rispettato, passato al lato oscuro nelle schiere di Doffy, aiutandolo, ovviamente, ad uscire dai guai di ogni tipo con la legge. E poi con lui ci sono altri due tizi che, se siete bravi, azzeccherete subito.
Uh, poi? Oh si, Smoker consegna a Kidd la sua pistola, che bravo padre, e lo spedisce in avanscoperta, svelandogli un’entrata segreta. Bene, finalmente buone notizie! Ultimo appunto, lasciatemelo dire, quanto dolce è Killer che fa scudo a Penguin per tenerlo al sicuro? Ma io rotolo **
Le note dolenti le tengo per ultime, quindi ora passiamo a Law. Law che, da solo e senza l’aiuto di nessuno, si trova ad attendere l’arrivo di quel bastardo infame schifosissimo suo padre. Allora, allora, allora. Voglio subito arrivare al pezzo di Doffy, ovvero la sua presentazione. E’ la prima volta che mi trovo a parlare di lui, in un testo, e per renderlo bene ho tratto alcune informazioni da un sito (One Piece wiki) dove i vari personaggi di OP vengono presentati dettagliatamente, con poteri, abilità, carattere, info. personali, eccetera. Non ho fatto copia e incolla se andate a confrontarli, è una cosa che odio, scusate, ma è quello che penso, e ho cercato un attimo di adattare il suo profilo a questa fic. Spero di esserci riuscita. Quello che mi lascia perplessa è il nome: Donquixote Doflamingo. In teoria dovrebbe essere giusto scritto così, altrimenti, in giro lo si trova anche in questo modo, a detta mia, troppo spezzato: Don Quixote Do Flamingo. Cioè, che palle. Comunque, come vi è parso il nostro cattivo per eccellenza? Bello? Vi è piaciuto? Insomma, ci stava? Bene, io credo che da oggi in poi mi odierete, ma sappiate che io vi adoro e che, cosa importante, la storia non è finita e io non ho ancora pronunciato nessuna fatidica parola. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Quindi fate attenzione che da qui in poi spero di tenervi un po’ col fiato sospeso ;D
Ho scritto troppo, scusate, ma gli Spoiler Free ve li lascio, o rischio sul serio che mi ammazziate ^^
 
“Guardalo, Law” sussurrò al mio orecchio, “Ci tieni tanto a lui, vero?”.
“Diamine, Eustass!” inveii a denti stretti, allacciando i miei occhi ai suoi e leggendovi un sacco di pensieri interrogativi, “Perché arrivare a tanto? Brutto insolente, testardo, maledetto idiota!”.
Alzò gli occhi al cielo, “Non capisci proprio un cazzo, vero, Trafalgar?”.
*
Una questione di attimi, istanti, secondi che possono essere fatali. Prima tutto va male, poi si può vedere la luce. In un battito di ciglia il mondo può evolversi, differenziarsi, non apparire lo stesso. Il tempo passa, lento, veloce, non importa. Quello che conta è che nulla è certo, niente è sicuro, non si ha la sicurezza di vivere per sempre o per lungo tempo. Il giorno prima sei vivo, quello dopo sei sottoterra.
*
“Sai, piccoletto, non sei niente affatto male” ammiccò, inclinando il capo per osservarmi meglio.
“Nemmeno tu se è per questo. Ti ho mai detto che sei maledettamente sexy con i vestiti conciati in quel modo?” feci disinvolto, accennando al suo aspetto disastrato.
Mi guardò stupito per qualche secondo, chiedendosi sicuramente se non avessi sbattuto la testa da qualche parte dato che battute del genere non ero solito farle, o meglio, non in sua presenza perché se fosse venuto a conoscenza del mio livello di depravato, sarebbe impallidito.
“Lo dici solo perché non mi hai visto senza”.
 
Perdonate gli errori di formattazione del testo, non so cosa diavolo succeda.
Un grazie di cuore a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori. Non perdere la speranza e restate sintonizzati.

Si cala il sipario, gente.
See ya,
Ace.

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Capitolo 24
*** Capitolo 22. Poi il buio. ***


Capitolo 22. Poi il buio.

 

Stringendo in modo professionale e piuttosto sicuro una pistola, tanto che mi chiesi quando mai e in che occasione avesse imparato a maneggiare un’arma, Eustass Kidd si avvicinò sempre di piú a noi con la faccia di chi era incazzato con il mondo intero e che stava per compiere una vera e propria strage. La teneva puntata dritta di fronte a lui, minacciando di premere il grilletto da un momento all’altro se solo il bersaglio avesse dato segno di voler fare qualche movimento o gesto avventato, tenendolo sottotiro e fulminandolo con un’occhiata omicida.

“Cosa cazzo ci fai tu qui?” sbottai arrabbiato prima ancora di rendermene conto, incapace di trattenermi. No, non ero per niente felice di vederlo lì, affatto!


They say it's what you make, I say it's up to fate. 

 

Mi ero praticamente cavato il cuore dal petto per riuscire a levarmelo di torno e tenerlo al sicuro da tutto, ma ancora non ero riuscito a fargli entrare in quella testaccia dura che doveva starmi alla larga se ci teneva alla pelle. Cos’altro dovevo fare per farmi ascoltare? Un rito satanico?

L’occhiata feroce non mancò di scoccarla anche a me, accompagnata da un ringhio animalesco e una serie indistinta di bestemmie miste a insulti, promesse di morte e di vendetta. A quanto pareva l’avevo davvero fatto incazzare l’altro giorno.

Cosa ci faccio qui? Mi sembra ovvio, razza di deficiente: ti salvo il culo!”.

“Non ho nessun bisogno di te!” ribattei, sibilando velenoso e ignorando la capriola che aveva fatto il mio cuore in conseguenza alle sue parole. Non volevo soffermarmi a pensare che avesse fatto tutta quella strada, rischiando tanto, solo per me. Era ciò che volevo evitare fin dall’inizio e lui, senza troppi problemi, l’aveva fatto lo stesso nonostante l’avessi ferito nel peggiore dei modi. Fu inevitabile, quindi, ritrovarmi a chiedermi perché.

Alzò gli occhi al cielo con stizza, tornando a fissare l’uomo davanti a noi, “Oh, certo, come no” fece con sarcasmo, “Piantala con la tua commedia, Trafalgar, ormai non hai più bisogno di fingere che di me non ti importi nulla. Penguin mi ha raccontato tutto”.

Per la prima volta lo fissai con la bocca aperta senza trovare nulla da ribattere. Da quando era diventato così perspicace, invertendo i ruoli e facendo passare me dalla parte dell’idiota? Soprattutto, da quando parlava così apertamente del nostro contorto groviglio di sentimenti, se così si poteva definirli? Davanti ad un verme per di più! A parte tutto quello, anche se non lo diedi a vedere, in quel momento ebbi la netta sensazione di sentirmi sollevato e libero da qualsiasi peso nel petto. Lui sapeva e aveva deciso di mettere da parte se stesso per raggiungermi. Incredibile come entrambi eravamo stati disposti a rinunciare a tutto pur di aiutarci a vicenda.

Forse, se non fossimo stati noi stessi, con caratteri così odiosi, diversi e contrastanti, in un altra vita magari avremo potuto benissimo definirci innamorati.

“Eustass-ya, sei proprio una seccatura” sbuffai infine, nascondendo alla sua vista l’ombra appena accennata di un sorriso sulle mie labbra.

“Anche io sono felice di rivederti” sfotté, rivolgendomi il classico ghigno che ero solito fare io, facendomi intuire con un’occhiata complice che anche lui, se voleva, poteva essere sfacciato quanto me. Aveva imparato dal migliore, nient’altro da dire.

Un applauso forzato e per niente confortevole irruppe nell’aria, richiamando la nostra attenzione e interrompendo il nostro momento di riconciliazione, facendo ritornare quel vile di Doflamingo sotto i riflettori e rendendomi di nuovo nervoso e all’erta. Mi faceva piacere sapere che Kidd non aveva scelto di abbandonarmi al mio destino ma, se prima ero certo della sua salvezza, in quel modo ogni cosa poteva cambiare drasticamente da un minuto all’altro. Detestavo non avere tutto sotto controllo, non mi permetteva di riflettere in modo adeguato e la presenza di Donquixote non mi aiutava affatto.

“Ma guarda che bravo ragazzo abbiamo qui” iniziò a dire, sorridendo come di consuetudine, “Sei riuscito ad eludere la sorveglianza, i miei complimenti. Peccato che ora non avrai la stessa fortuna”. Così dicendo, estrasse dalla tasca della giacca una ricetrasmittente, attivandola e ordinando a chi era dall’altro capo di raggiungerlo immediatamente perché una pulce era riuscita ad infiltrarsi all’interno del capanno. Ciò che stupì sia lui che me, fu il fatto che non ottenne alcuna risposta nonostante il segnale ottimo e senza disturbo.

“Vergo, rispondimi! Ti ho detto che mi servi qui, ora! Voglio sapere cosa cazzo sta succedendo e che ci fa questo moscerino davanti a me!” si spazientì, perdendo un poco la sua maledetta calma.

Mi azzardai a gettare un’occhiata interrogativa a Kidd che era ormai al mio fianco, trovandolo sorridente e stranamente divertito da tutto ciò. Doveva essere a conoscenza di qualcosa che a me ancora sfuggiva, ne ero certo. Di questo se ne accorse pure Joker e, puntandogli un dito contro con fare serio, gli ordinò di parlare e dirgli cosa era successo al suo uomo.

“Il bestione ben vestito all’ingresso? Oh, beh, a quanto pare Smoker e gli altri lo stanno tenendo impegnato”. Poi sogghignò sadico, “Oppure l’hanno messo a nanna”.

Lo guardai con sorpresa e incredulità. Erano riusciti a mettere fuori gioco Vergo? In così poco tempo? Se non l’avevano eliminato almeno gli stavano dando del filo da torcere, mettendo in questo modo i bastoni tra le ruote a quel criminale. Fino ad allora non avevo mai nemmeno pensato di poter uscire da quel casino tutto intero, ma davanti a quella novità dei fatti era difficile non lasciarsi contagiare dalla speranza di poter arrivare fino alla fine e vincere. Fino a pochi minuti prima avevo avuto la certezza di morire, invece era cambiato tutto in qualche secondo. Era arrivato Eustass, stava tenendo in pugno Doflamingo e gli altri si stavano dando da fare per mantenere stabile la situazione all’esterno. Forse potevamo davvero farcela.

“Devo ammettere che il tuo amichetto non è affatto una nullità, Law” si complimentò mio padre, studiando con apprezzamento la figura di Kidd che, ignorando le buone maniere, assottigliò lo sguardo, mantenendo salda la presa sulla sua pistola carica. “Sai, ragazzo, avrei proprio bisogno di uno come te all’interno della mia grande ed accogliente famiglia. Che dici? Non vorresti farne parte? In poco tempo faresti strada e ti ritroveresti a navigare nell’oro. Come ti sembra l’idea?”.

Era ovvio che provasse a lusingarlo con promesse di ricchezza, fama e potere ed era altrettanto logico che fosse rimasto colpito da uno come Kidd, pronto all’azione, senza paura, forte e determinato, deciso a prendersi ciò che gli spettava senza chiedere il permesso a nessuno, capace di distruggere la vita degli altri, ma anche di completarla e renderla migliore. Così fiero, così libero e irraggiungibile, così se stesso, incurante del pensiero altrui, così maledettamente provocante.

E mio. Eustass-ya non sarebbe appartenuto a nessun altro, nemmeno a quel bastardo. Non l’avrei permesso, anche a costo della mia vita.

 

It's woven in my soul, I need to let you go.

 

Sentii montare la rabbia e fissai con rinnovato astio Doflamingo che, ignorando il mio fremito e l’occhiata incendiaria che gli rivolsi, continuò ad osservare il rosso, aspettando una risposta ed elencandogli tutti i vantaggi che avrebbe avuto se si fosse aggregato a lui, giurandogli fedeltà e fiducia. Che ironia, Kidd era l’ultima persona che poteva andare d’accordo con quelle due parole; si infastidiva ogni volta che provavo a dirgli cosa fare, quindi non avrebbe mai accettato di farsi mettere i piedi in testa da qualche altra anima viva.

“Chiudi il becco” sbottò infatti con una smorfia di disgusto, “Non mi frega un cazzo di quello che mi offrirai, è tutto fiato sprecato il tuo. Non hai nulla che mi interessi”.

Doflamingo sorrise, sondando entrambi con lo sguardo nascosto dagli occhiali appariscenti e ridacchiando sommessamente. Fece un sospiro quasi esasperato, come se si trovasse a dover spiegare per l’ennesima volta un discorso complicato a dei bambini cocciuti, alzando una mano a mezz’aria e schioccando le dita in quello che parve un segnale per qualcosa di decisivo.

Quando me ne resi conto fu troppo tardi perché, nell’esatto istante in cui il rumore di uno sparo mi arrivò alle orecchie, Kidd stava già con un ginocchio a terra, mentre io mi trovavo impossibilitato a soccorrerlo, nonostante fosse a pochi centimetri da me. Un paio di braccia forti, appartenenti a uno degli scagnozzi di Doflamingo, mi tenevano stretto e immobile in una morsa d’acciaio, impassibili ai miei tentativi di liberarmi e frenando qualsiasi mio movimento brusco. Mi dimenavo come un animale in trappola con tutta l’energia che avevo in corpo, ma era tutto inutile: mi tenevano letteralmente in pugno mentre, davanti ai miei occhi, la persona che più mi premeva mettere in salvo faceva di tutto per trattenere il dolore causatogli dalla ferita inferta al braccio sinistro. Evidentemente faceva tutto parte del piano di quel Demone che, prendendo tempo in chiacchiere, aveva aspettato che uno qualsiasi dei suoi subordinati corresse in suo aiuto, appostandosi nell’ombra e aspettando il momento adatto per colpire e ribaltare nuovamente la situazione in favore del suo capo. E, per quanto mi costasse ammetterlo, ci era riuscito perfettamente.

Doflamingo rise, guardando con divertimento la scena sotto ai suoi occhi e godendo della mia preoccupazione. Aveva sempre provato un’insana felicità nel fare del male agli altri, quasi come se fosse ossessionato dal potere che aveva di infliggere dolore a coloro che lo contrastavano.

“Vediamo se ora cambi idea e ti dai una calmata” mormorò, muovendo i primi passi in direzione di Kidd, il quale, però, sollevando il capo, gli dedicò l’occhiataccia più micidiale che avrebbe troncato qualsiasi debole di cuore in un istante. Fu così diretta, intensa e carica d’odio che persino il nostro nemico rallentò, sinceramente stupito del temperamento temerario e coraggioso del rosso. Probabilmente non aveva mai avuto a che fare con gente così piena di sicurezza e determinata, infatti si riscoprì sinceramente compiaciuto di ciò e decise di giocare un altro po’ con la sua vittima, cambiando direzione e venendo dritto verso di me, fermandosi a pochi centimetri di distanza. Il tutto avvenne sotto lo sguardo attento e minaccioso di Kidd che, con una certa fatica e testardaggine, si era rimesso in piedi, nonostante il braccio sanguinante che aveva iniziato a macchiare il pavimento impolverato.

“Guardalo, Law” sussurrò al mio orecchio, prendendomi con fermezza il mento con una mano e passando le dita sopra al mio pizzetto fino alle labbra, “Ci tieni tanto a lui, vero?”.

Se avessi negato avrebbe capito subito che stavo mentendo, altrimenti non mi sarei preoccupato tanto per la sua salute; mentre se avessi risposto affermativamente l’avrebbe ucciso su due piedi senza nemmeno darmi il tempo di reagire e impedirglielo.

Perché quel dannato idiota non se ne era rimasto in quel buco di officina a sfasciare auto e ad ascoltare musica? Sarebbe stato tutto più semplice. Invece no, aveva dovuto fare di testa sua e complicare i miei piani; mettendosi in mezzo e dicendo la sua; sfidando il peggior malavitoso esistente al mondo e beccandosi una pallottola nel braccio e forse una in testa che sarebbe arrivata di lì a qualche minuto. Al diavolo lui! Al diavolo il giorno in cui ci eravamo incontrati!

“Diamine, Eustass!” inveii a denti stretti, allacciando i miei occhi ai suoi, velatamente preoccupati per la mia sorte, e leggendovi un sacco di pensieri interrogativi, “Perché arrivare a tanto? Brutto insolente, testardo, maledetto idiota!”.

Alzò gli occhi al cielo, respirando profondamente per riprendersi dallo shock della ferita che ancora lo stordiva. “Non capisci proprio un cazzo, vero, Trafalgar?” mi apostrofò, togliendomi il respiro e facendomi vacillare. Cosa voleva dire con quelle parole?

 

Your eyes, they shine so bright. I want to save their light. 

 

“Tutto ciò è così romantico” sogghignò Joker, lasciando andare la presa su di me e riprendendo la sua avanzata verso l’altro ragazzo, “Mi fate venire il voltastomaco”.

Si fermò a pochi passi da lui, guardandolo dall’alto della sua stazza con malcelato disgusto e disinteresse. Aveva smesso di provare curiosità nei suoi confronti e aveva ormai deciso che il momento di mettere fine alla partita era arrivato. Così, calciando la pistola finita a terra in modo da allontanarla, ne estrasse un’altra dalla sua giacca dall’aria importante e, nonostante la funzione, costosa, laccata in oro con intarsi d’argento. Sempre eccentrico in qualsiasi cosa lo riguardasse. La carezzò con lo sguardo, lasciando che un sorriso contorto gli storpiasse il viso, riflettendo la pazzia e la sete di vendetta che lo animavano, e puntandola poi dritta verso l’ultima persona che avrei voluto vedere morta.

Deve fermarsi, non può farlo. E’ me che vuole, non lui, lui non c’entra nulla!

Mi dimenai con tutto me stesso inutilmente, inveendo contro quel diavolo e augurandogli ogni sorta di male, arrivando persino a pregarlo di fermarsi e di smetterla con i suoi giochetti insani e malati.

“Lascialo stare, vigliacco! Prendi me, sono io che ti ho spedito in galera; sono io che ti ho tradito; è solo mia la colpa e sono io quello che deve pagare! Doflamingo, fermati, ti supplico! Smettila!”.

E lui rideva, rideva come aveva sempre fatto anche quando ero piccolo e lo imploravo di non picchiare mia madre, di non rinchiudersi in camera con lei e di non farla urlare di dolore. Mi aggrappavo ai suoi pantaloni con le lacrime agli occhi e gli chiedevo di farlo per me, di dimostrarmi che mi voleva bene, pregandolo di lasciarla stare e di non colpirla violentemente al viso, alla nuca, alla schiena, dovunque. Allora lui mi guardava per poi sorridere e accucciarsi davanti a me, carezzandomi amorevolmente i capelli e spiegandomi che lui e la mamma dovevano solo parlare e chiarire alcune cose. Mi prometteva ogni volta che quella sarebbe stata l’ultima e io gli credevo. Quando avevo capito che non sarebbe mai finita era stato troppo tardi perché il danno era ormai fatto. E ogni volta che lo pregavo, se mi andava bene, lui mi ignorava, altrimenti sfogava la sua frustrazione su di me, colpendomi fino a ridurmi in fin di vita. Secondo lui i mocciosi andavano educati in modo rigido e autoritario.

“Sai, figliolo, credo che uccidere questo ragazzo davanti ai tuoi occhi come ho fatto con la tua cara madre sia la punizione migliore per ottenere la mia agognata vendetta”. Parlò con tutto l’odio e il veleno di cui era capace, caricando inevitabilmente il colpo e preparandosi per la mossa successiva.

Calò il silenzio, pressante, opprimente, e i rumori divennero ovattati, come se le mie orecchie si rifiutassero di percepire il resto. Solo il battito impazzito del mio cuore mi arrivava ai timpani, quasi sfondandoli per la frenesia e la forza con cui mi sembrava di sentirlo uscire dal petto, palpitante e vivo.

Vivo. Io ero ancora vivo, ancora in grado di fare qualcosa, di cambiare le sorti del gioco e della fine. Dopotutto, non importavano le carte che si avevano in mano e non c’era affatto bisogno di avere le migliori per vincere una partita. E a proposito di assi nella manica: io avevo ancora il mio bisturi in tasca.

Così, automaticamente, come se il mio corpo sapesse già quello che doveva fare, estrassi quel piccolo oggetto dai jeans e lo trasformai nella mia personale arma letale, infilzandolo nella gamba del mio aguzzino per ferirlo e riuscire così a fargli mollare la presa per poi girarmi verso di lui, assestandogli un pugno deciso in pieno viso, rompendogli il setto nasale e facendogli perdere i sensi, togliendo di mezzo un impiccio per poi concentrarmi totalmente su ciò che più mi assillava.

“Lascialo stare” sussurrai, iniziando a correre e non staccando gli occhi da quelli di Kidd che, fissi davanti a sé, guardavano con sfrontatezza mista a sfida la Morte stessa in faccia.

“STA LONTANO DA LUI!” urlai, sempre più vicino.

Doflamingo non fece caso a me e continuò imperterrito con il suo scopo. Lui era uno di quelli che sapevano sparare a sangue freddo, mentre Eustass-ya, quell’insopportabile rosso isterico e irascibile, si voltò di lato, trattenendo il fiato e rivolgendomi un’occhiata di scuse l’attimo prima della fine.

“KIDD!”.

 

I can't escape this now unless you show me how!

 

Agii d’istinto, credo, animato da qualcosa che mi esplodeva nel petto e nell’anima, sentendomi bruciare da una rabbia cieca e da una determinazione crescente. Non avevo mai provato nulla di simile, non avevo mai nemmeno pensato di poter arrivare a tanto per qualcuno. Se poi quel qualcuno altri non era che Eustass Kidd, allora la cosa rasentava l’incredibile.

Eppure lo feci, senza rimpianti, pronto e ripeterlo mille volte se fosse stato necessario, se fosse servito a qualcosa, se mi avesse dato la certezza, come ce l’avevo in quel momento, di fare del bene salvando una vita. Era un po’ come il mestiere del chirurgo: aiutare gli altri, quindi mi sentivo soddisfatto e in pace con me stesso, poco importava se non avessi realizzato il mio sogno, perché capii in quell’attimo che dalla vita avevo avuto tutto, tutto ciò di cui avevo bisogno per essere felice.

Così accadde: utilizzai gli ultimi istanti rimanenti per lanciarmi verso Kidd, fronteggiando la morte e facendogli scudo col mio corpo, frapponendomi tra lui e una scarica di proiettili.

Le sue braccia mi avvolsero l’attimo dopo, trattenendomi contro il suo petto e facendomi sentire assurdamente bene, tanto che mi vidi costretto a sorridere.

Io, Trafalgar Law, stavo sorridendo. Ma andava bene, andava tutto bene.

Poi il buio.

 

Don't get too close, it's dark inside. It's where my demons hide. It's where my demons hide!

 

* * *

 

Un attimo. A volte le cose sembrano andare per il verso giusto, tutto sembra scorrere nella direzione corretta, quando, all’improvviso, tutto cambia, gli scenari non sono più gli stessi e la vita viene stravolta in un soffio. Una questione di attimi, istanti, secondi che possono essere fatali. Prima tutto va male, poi si può vedere la luce. In un battito di ciglia il mondo può evolversi, differenziarsi, non apparire lo stesso. Il tempo passa, lento, veloce, non importa. Quello che conta è che nulla è certo, niente è sicuro, non si ha la sicurezza di vivere per sempre o per lungo tempo. Il giorno prima sei vivo, quello dopo sei sottoterra. Cosa ottieni? Cosa ti resta? Null’altro che cenere, alla fine di tutto.

La pistola mi era puntata contro, minacciosa, inesorabile, il motivo della mia morte incombente. Mi erano passati per la mente un sacco di pensieri, domande, insulti, rabbia, ricordi, speranze, sogni, idee e tutto quello che avevo progettato di fare un giorno. Era proprio vero che, con la fine vicina, tutta la vita vissuta ti scorreva a briglia sciolta sotto al naso come un film veloce, dall’infanzia fino agli ultimi giorni; il bello era che rivivevi tutte le esperienze migliori. Inutile dire che ripercorsi tutti i momenti che avevo passato in compagnia di quel bastardo. Quanto era riuscito a colpirmi Trafalgar? Quanto a fondo aveva scavato per restarmi così impresso nell’anima? Marchiato a fuoco.

“Sta lontano da lui!”.

L’avevo guardato con gli occhi carici di… Di cosa? Scuse per non essere riuscito a salvarlo come avrei voluto? Perdono per i guai e le seccature che gli avevo causato? Gratitudine per avermi illuminato le fredde giornate invernali? Rimpianto per non avergli urlato in faccia quanto… Quanto…

“Kidd!”.

E il mio nome pronunciato dalle sue labbra era pura poesia a volte, anzi, forse in ogni occasione. Non era un insulto, ma quasi come una carezza, capace di scaldarmi, di animarmi. Dio, quel ragazzo era stato, era, la mia rovina. Il mio tormento. La mia pace. Tutto.

Allungai una mano verso di lui, desideroso di sfiorare la sua sempre più vicina in un ultimo, piccolo e piacevole ricordo prima della resa dei conti. Quello che mi domandavo, anche se non era importante, era perché si stesse avvicinando sempre di più a me, invece che allontanarsi.

Mi sembrò un miracolo sentirlo di nuovo tra le mie braccia. Mi dava le spalle, perciò gli avvolsi i fianchi, aderendo il petto alla sua schiena e stringendolo forte, sperando di non vederlo andarsene mai più da me. Il mio comportamento era assurdo e sconvolgente, ma a nessuno sarebbe più importato, perciò, almeno nei miei ultimi istanti di vita, potevo lasciarmi andare, no? Sapevo che dovevo morire, probabilmente ero anche già bello che andato e quella sensazione terrena doveva essere solo un riflesso della mia mente, una protezione al dolore, un’illusione, un modo per non rendere troppo brusco l’addio, accompagnandomi all’altro mondo con l’immagine di noi due ancora assieme, come avrebbe dovuto essere nella realtà.

Nascosi il viso nell’incavo della sua spalla, inspirando il profumo fresco che lo caratterizzava. Era buono, leggero e non pesante, misto, però a qualcosa che stonava fortemente con il suo essere e che non avevo mai percepito fino ad allora. Era qualcosa di ferroso e metallico. Non gli si addiceva per niente. Avrei voluto dirglielo, sfotterlo tanto, anche se ero un fantasma, un’anima, un qualcosa di ultraterreno; avrei potuto, magari, tormentarlo nel sonno e fargli i dispetti. Ero certo di essere già dall’altra parte, in Purgatorio magari, ad attendere di essere giudicato, invece, in un attimo di lucidità, mi chiesi come mai non sentissi effettivamente alcun dolore. Era così semplice trapassare?

Solo allora mi resi conto di percepire ancora la forza vitale e il sangue scorrermi nelle vene; le pulsazioni a mille; potevo stare in piedi, respirare, muovere gli arti e guardarmi in giro. I colori erano nitidi e distinti, comprese le figure; il tempo scorreva e il cuore batteva ancora.

Almeno, il mio si.

Allora perché, dopo aver notato cosa, o meglio, chi stavo stringendo tra le mani, desiderai ardentemente di essere morto? In quel modo non avrei dovuto far fronte alla realtà che, piano, piano, si stava facendo strada nella mia testa, lasciandomi un vuoto dentro, distruggendo qualsiasi senso di benessere e felicità, abbandonandomi al buio e al freddo più totale.

Fui scosso da un brivido violentissimo lungo la schiena. Tutto ciò era accaduto nel giro di pochi attimi, quasi come se il tempo si fosse preso gioco di tutti, scorrendo veloce o rallentando, traendoci in inganno come piaceva a lui.

Stretto al mio corpo c’era quello di Trafalgar. La testa rivolta all’indietro, appoggiata a me, quasi come se il nostro fosse stato un abbraccio; le gambe non avevano più la forza di reggerlo; le braccia lungo i fianchi e gli occhi chiusi.

Dov’è il suo cappello? pensai stupidamente, incapace di collegare bene tutti gli indizi. Quando poi mi accorsi dei rivoletti di sangue che gli colavano lungo le mani, uscendo dalle maniche dei vestiti e riversandosi sul pavimento logoro, mi sentii mancare.

Crollai a terra in ginocchio, lasciandomi prendere dal panico e sorreggendo il busto di Law, passandogli le dita sul volto, tra i capelli, strattonando la sua giacca per scrollarlo e farlo tornare in sé. Gli aprii la lampo del giubbotto con gesti frenetici, mormorando frasi sconnesse e continuando a fissarlo, sperando di scorgere un accenno di vitalità. Scoprendo gli indumenti che portava sotto al piumino, capii che risvegliarlo non sarebbe stato per niente facile.

La felpa era irrimediabilmente macchiata di sangue: la chiazza si estendeva su tutto il torace e si notavano benissimo tre fori: uno a destra, più o meno all’altezza di un polmone, gli altri due a sinistra, uno sopra all’altro, troppo vicini al cuore. Troppo. Troppo. Troppo.

Poi uno spasmo improvviso gli scosse il corpo, facendolo iniziare a tremare e spalancare gli occhi tutto d’un colpo, ma erano pupille opache le sue, vitree, come se ormai non appartenessero più al nostro mondo. Tossì forte, sputando sangue e respirando a fatica, guardandosi attorno in modo nervoso e impaurito.

“Law!” lo chiamai con ansia, facendomi più vicino e tenendogli il viso tra le mani insanguinate. Da quando nella mia testa il suo nome era magicamente mutato? Per me era sempre stato solo e unicamente Trafalgar, lo stronzo saccente.

Fece una smorfia nel tentativo di ghignare, o sorridere, ma una fitta di dolore lo fece desistere dal suo intento, lasciandolo boccheggiante e senza aria.

“E’ l-la prim-a volta c-c-he mi chiami c-così” sussurrò, facendomi alzare gli occhi al cielo e causandomi una risata forzata e nervosa. Tra tutto quel casino lui si accorgeva di particolari futili ed inutili come quello. Al diavolo!

“Tappati quella boccaccia, idiota” mormorai, mordendomi inconsciamente le labbra fino a farmi male. Perché lo stavo facendo? Non si era forse svegliato? Non mi stava parlando? Stava bene allora, quindi perché preoccuparsi? E quel calore agli occhi? Quella sensazione di umidità, cos’era? Mi stava appannando la vista, che fastidio.

Mi passai una mano sul volto, asciugandomi le guance che per qualche arcano e sconosciuto motivo erano bagnate, stringendo i denti e cercando in tutti i modi di apparire forte e sicuro. Non doveva stare passando un bel momento con quelle ferite aperte e aveva bisogno che io fossi lucido e determinato, gli serviva una roccia a cui aggrapparsi, un appiglio per non scivolare via. Dovevo reagire per lui, dovevo farlo, non potevo permettermi di perdere la speranza. Ce l’avrebbe fatta, si sarebbe rimesso in piedi. Bastava bloccare il flusso di sangue, no? Era facile. Dovevo solo prendere delle garze, no, i vestiti sarebbero andati bene. Dovevo, io dovevo…

“Eustass-ya…” mi chiamò con un filo di voce e, con la punta delle dita tremanti e deboli, mi sfiorò la bocca, guardandomi intensamente. Per un attimo mi parve scorgere qualcosa in più nei suoi occhi.

“Shhh, ti ho detto di stare zitto. Andrà bene, io… Te lo prometto”. Da quando facevo promesse? Da quando mi preoccupavo così tanto? Da quanto io mi trovavo a stare così male per le condizioni di qualcuno all’infuori di me stesso? Cosa avevo fatto per ritrovarmi in quella situazione? Cosa mi aveva fatto quella mina vagante per ridurmi in quel modo? Soprattutto, perché lui era arrivato a sacrificare tanto per uno come me? Non ne valevo la pena, doveva saperlo ormai. Perché fare ciò? Perché un gesto simile nei miei confronti? Io mi difendevo da solo.

Stupido, pazzo, psicopatico! Cosa cazzo ti passava per la testa?

Non ci credevo, non volevo crederci per niente al mondo ma, quando lo vidi abbassare le palpebre, rivoltando gli occhi all’indietro mi sentii spezzare completamente. Uno strappo secco, decisivo, ma terribilmente doloroso e straziante. Non poteva essere finita. Non poteva, non così, non in quel modo.

“Non provare a fare scherzi!” gli intimai con la voce spezzata, scrollandolo malamente per le spalle, “Mi hai sentito? Non azzardarti a morire, bastardo!”.

No, no, no. Era tutto sbagliato, non doveva andare a finire così, non era nei piani. Ero io l’unico che poteva farlo fuori, solo io avevo il diritto di eliminarlo dopo tutto quello che mi aveva fatto passare con la sua odiosa presenza, quel ghigno strafottente e quei modi insopportabili. Spettava a me la decisione di come sbarazzarmi di lui, a me soltanto.

“Parla! Parlami maledetto! Dannazione a te, Law, apri quei cazzo di occhi!”. Ma non accadde nulla, ormai quella sua luce si era spenta.

Se ne era andato.

“Finalmente la mia vendetta”.

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso e scoccò la scintilla. Si accese, si animò verso l’alto, si espanse, toccando tutti i punti del mio essere, bruciandomi, squarciandomi, divorando tutta la mia lucidità, impossessandosi di me, unendosi al mio dolore, alla mia rabbia, alla mia tristezza, a tutto ciò che provavo in quel momento, trasformandomi in una furia violenta, un mostro, una macchina omicida. Rosso, vedevo tutto rosso. Le mie mani, il pavimento, Law ai miei piedi senza vita, le pareti, il profilo di quel rifiuto umano. Tutto non aveva più senso, solo l’odio e la voglia di uccidere che sentivo scorrere assieme al sangue dentro di me. Il mio unico desiderio era spezzare le ossa di quel bastardo. Volevo ucciderlo. Dovevo farlo ad ogni costo.

Così, cogliendolo alla sprovvista, ignorando il mio braccio ferito e contando solo sulla forza che mi veniva dalla sofferenza e dalla rabbia, mi scagliai contro di lui, buttandolo di peso a terra, sovrastandolo e iniziando a colpirlo ripetutamente con una serie infinita di pugni, rompendogli gli occhiali, il naso, la bocca, imbrattando il suo viso con il suo stesso sangue, ringhiando come un animale e passando e infierire anche sul resto del suo corpo. Non mi avrebbe fermato, nessuno ci sarebbe riuscito.

Doveva pagare per quello che aveva fatto, per tutto il male che aveva causato, doveva soffrire, rendersi conto dei suoi sbagli, agonizzare, implorare pietà e pregarmi di mettere fine alla sua insulsa e inutile vita.

Ero certo di potercela fare, ma non conoscevo bene il mio nemico, per me era solo un inutile essere vivente, solo questo fu il mio errore. Doflamingo era un uomo potente non solo in fatto di soldi e fama, ma anche fisicamente. Era il doppio di me e, soprattutto, era perfettamente in forma, nonché a conoscenza dei miei punti deboli. Infatti non ci mise molto a reagire e a prendere di mira il mio braccio sinistro, causandomi fitte di dolore allucinanti, sogghignando sadico e leccandosi in modo viscido il sangue che gli colava dalle labbra.

“Sciocco, non riuscirai mai a battermi” ringhiò, ribaltando le posizioni, approfittando del mio sgomento causato dall’arto ferito e sovrastandomi, iniziando a colpirmi ripetutamente come avevo fatto io poco prima, solo mirando alla bocca dello stomaco, al petto, al collo, facendomi male, molto male.

“Law era così prevedibile” iniziò a dire divertito, “Sapevo che non ti avrebbe mai lasciato morire se avesse potuto. Guarda dov’è ora” disse, afferrandomi il mento e voltandomelo con forza verso il ragazzo riverso a terra, immobile, in un lago di sangue. Freddo.

“Non c’è più” cantilenò, ridendo sguaiatamente.

Chiusi gli occhi, rivedendo per un attimo la sua immagine pacata, quell’aria distaccata, lontana, disinteressata. Quel cipiglio scuro, quegli occhi profondi e incomprensibili. E poi eccolo che sorrideva. Così, dal nulla. Sorrideva non appena mi vedeva arrivare. Sapevo che lo faceva, me ne ero accorto, ma non glielo avevo mai fatto notare. Avrebbe smentito tutto. Era pur sempre uno stronzo orgoglioso, no?

Ehi, Eustass-ya.

La sua voce ancora nella mia testa, nitida. Mi aggrappai ad essa per paura di lasciarla andare, timoroso di poterla dimenticare.

Eustass-ya, sei un idiota.

Non volevo perderlo. Davvero, non lo volevo proprio.

Kidd.

Un colpo ben assestato fece sputare sangue a quel vile di Doflamingo e la lotta riprese. Non mi sarei lasciato sopraffare, non gliel’avrei data vinta. Avrei continuato a combattere. Avevo qualcuno per cui farlo. Un valido motivo.

 

* * *

 

“Ma che cazzo! Sta un po’ attenta!”.

“Vieni qui, moccioso, che ti sistemo io!”.

“Penguin, sta attento a quella, non sembra molto cordiale”.

“Grazie, me ne sono accorto!” ribattei sarcastico in direzione del ragazzo biondo a qualche metro da me, schivando un poderoso calcio, mirato a colpire i miei attributi in mezzo alle gambe.

“Ehi, calma, li ci sono i gioielli!” mi premurai di farle notare. Certo che quella era peggio di un carro armato, possibile che non si fermasse un attimo per riprendere fiato? Cosa aveva al posto delle braccia e delle gambe?

“Cosa? Vacci piano, donna, quelli gli servono!”.

Alzai gli occhi al cielo, Killer poteva anche evitarli commenti del genere in momenti simili.

Dopo che Kidd se ne era andato, diretto a raggiungere Law il più in fretta possibile, noi eravamo rimasti fuori a fronteggiare i tre colossi che erano spuntati dal nulla, tenendoli occupati e dando loro parecchio filo da torcere, anche se non se la stavano cavando affatto male.

E io che speravo che questi fossero delle mezze seghe, sospirai affranto, voltando le spalle a quella donna armata e andandomi a rifugiare dietro un container, sperando di farle perdere le mie tracce giocando a nascondino in quel labirinto. Dall’altra parte, invece, Killer sembrava starsela spassando come non mai, rotolando a terra in mezzo al fango, alla polvere e alla neve, cercando in tutti i modi di sottomettere quell’ammasso di lardo che non ne voleva sapere di darsi per vinto e continuava a rialzarsi in piedi, incassando colpi e sferrandone altrettanti. Ad ogni modo, il biondo sembrava messo piuttosto bene. Per quanto riguardava Smoker, invece, mi veniva la pelle d’oca solo a guardarlo. Lui e Vero erano delle macchine da guerra ed io non avevo mai visto nulla di simile. Si battevano senza esclusione di colpi e, dannazione, non avrei voluto per niente al mondo ritrovarmi in mezzo a quei due. Quanto a me, infine, mi era toccato subirmi l’attenzione di quella vipera scostumata. Non che mi dispiacesse, tra tutti pareva la più debole, ed io non volevo certo finire con le ossa spezzate, ma metterla al tappeto non era semplice come avevo creduto all’inizio.

Era veloce e allenata, nulla da dire, ma non poteva niente contro la mia forza. Se era in piedi era solo perché avevo voluto essere clemente e non andarci giù troppo pesante con lei. Per l’appunto, in quell’istante mi stavo rintanando altrove solo per darle il tempo di raccogliere le forze, giusto per non disputare uno scontro impari. Ero un gentiluomo, dopotutto.

Corsi a perdifiato dietro ad un enorme affare in acciaio, accasciandomi al suolo e cercando di regolare il battito cardiaco accelerato, guardandomi attorno e sperando di aver seminato quella piaga. Sopra le nostre teste il cielo era grigio e terso, mentre la neve aveva preso a scendere ad un ritmo più frequente e insistente, imbrattandomi i vestiti, più il cappello, adagiandosi sul terreno e coprendo tutto con uno strato di bianco candido. Chissà come se la stavano passando i piccoletti e se Bepo li aveva messi in guardia e in salvo tutti. Ace, a quell’ora, doveva essere al bar con il suo ragazzo a bere una cioccolata calda. Beato lui, quanto lo invidiavo. Qualcosa di caldo sarebbe stato l’ideale in quel momento per il mio umore. L’unica cosa che mi preoccupava più di tutte era l’incognita di Trafalgar. Kidd era riuscito a trovarlo? Stavano bene? Perché non avevamo più sentito nulla da quando si era allontanato.

Mi rialzai lentamente, cercando di non fare troppo rumore, e ripresi a correre tra quei container abbandonati, pensando ad un certo punto di scalarne uno e arrampicarmi. Dall’alto avrei avuto una visuale migliore, senza dubbio.

Fu solo un colpo di fortuna se riuscii a raggiungere la cima l’attimo prima che la ragazza svoltasse l’angolo, inoltrandosi nel vicoletto dove avevo passeggiato io fino ad allora.

Per un pelo! Questa è proprio aggressiva.

La osservai dare di matto, guardandosi attorno furente e cercandomi in ogni angolo, calciando per la frustrazione una cassa vuota lì vicino e scaraventandola lontano.

“Dannato mocciosetto!” sibilò, “Beh, meglio che torni da Buffalo, lo aiuterò a sistemare l’altro nel frattempo”.

Non osare!

“Brutta stronza!” urlai, incapace di trattenermi e piombandole addosso dall’alto e investendola in pieno con tutto il mio peso. Fu una brutta caduta, per lei soprattutto, e, accidentalmente o fortunatamente, sbatté la testa al suolo, perdendo i sensi e smettendo di dimenarsi. Rimasi immobile a fissarla, sbattendo le palpebre e stupendomi del mio attacco di coraggio. Davvero era stato così facile abbatterla?

“Così impari a minacciare il mio ragazzo” borbottai, rimettendomi in piedi, spolverandomi altezzosamente la giacca e avviandomi verso il campo di battaglia dove avrei avuto il mio bel da fare per sistemare il resto degli idioti. Sicuramente Killer e Smoker sarebbero stati felici di vedermi e di essere soccorsi da un tipetto scaltro e forte come me. Avevo appena battuto un leccapiedi di uno dei peggiori boss della mafia, non era mica roba da poco. Magari il padre di Kidd sarebbe rimasto piacevolmente sorpreso e mi avrebbe offerto un posto nei suoi ranghi come agente speciale, piacevolmente colpito dalla mia bravura.

Sorrisi ampiamente, incrociando le braccia dietro la nuca e avanzando spavaldo. Ero proprio una bomba, senza dubbio.

Mi immagino la faccia che farà Killer non appena lo saprà. Praticamente ho difeso il suo onore, l’ho fatto per lui, perché nessuno può permettersi di volergli fare del male, non dopo che ho patito e penato per ottenere la sua attenzione, che cazzo. Sicuramente mi pregherà di non lasciarlo mai, di tenerlo sempre accanto a me, di proteggerlo. Ah, si, si innamorerà ancora di più non appena gli dirò come sono andate le cose e come ho sconfitto quella serpe.

Con la mente persa in tutte quelle riflessioni di gloria e vittoria, non mi resi conto di essere ritornato al punto di partenza, di conseguenza non notai nemmeno l’assenza di Killer e del colosso contro il quale si stava battendo fino a una decina di minuti prima. O meglio, non ci feci caso fino a quando una voce alle mie spalle attirò la mia attenzione e un’ombra decisamente troppo grossa si rifletteva sulla neve, ingoiando la mia, piccola e mingherlina.

“Guarda, guarda, come mai tutto solo, soletto?” fece il bestione dietro di me, ghignando maligno da un orecchio all’altro.

Lo guardai dall’alto in basso, alzando appena il capo per vederlo meglio da sotto il cappello, rimanendo serio e impassibile davanti a quella sua brutta faccia ridotta ad uno straccio dai precedenti pugni di Killer. A proposito, lui dov’era?

“Cerchi il tuo amico?” fece quello, intuendo i miei pensieri, “L’ho sistemato poco fa. Poveraccio, era messo male”.

Assottigliai lo sguardo e digrignai i denti. Se anche solo aveva osato sfiorarlo con le sue manacce l’avrei conciato per le feste. Non gliel’avrei perdonato, no di certo, e, a pensarci bene, forse era giunto il momento di fare sul serio e smetterla di scherzare. Se volevo ero anche io in grado di farmi valere e dare una bella lezione a quei brutti ceffi. Quel bestione, poi, mi stava particolarmente sulle scatole e mi faceva prudere le mani in una maniera incredibile.

Strinsi i pugni e mi voltai a fronteggiarlo, fulminandolo con lo sguardo e alzando le mani, pronto ad attaccare. Iniziò a ridere vedendomi determinato ad affrontarlo, ma lo ignorai, sicuro della mia forza e, quando caricò il colpo, lo schivai facilmente, abbassandomi sulle ginocchia e dandomi lo slancio subito dopo per colpirlo a mia volta allo stomaco, premendo in un punto che sapevo essere particolarmente sensibile e facendolo vacillare. Se non avesse avuto tutto quel grasso attorno alla pancia, a quell’ora si sarebbe ritrovato con il respiro mozzato. Poco importava, almeno ero riuscito a metterlo in ginocchio e quello era già un vantaggio dato che, l’istante successivo, gli colpii il viso, roteando su me stesso e assestandogli un bel calcio.

Il colpo andò a segno, ma il bastardo, in un attimo di lucidità, mi artigliò la caviglia, stritolandola tra le sue mani e facendomi stringere i denti nel tentativo di non perdere l’equilibrio. Il panico non fece nemmeno in tempo ad assalirmi perché, all’improvviso, Killer sbucò dal nulla sopra le nostre teste, armato di una spessa asta di legno che abbatté senza esitazione sul cranio di Buffalo, rompendola in mille pezzi, ma mettendo anche a dormire quell’impiastro.

“Paura che non arrivassi in tempo?” mi chiese nel tentativo di sdrammatizzare, aiutandomi ad alzarmi da terra, porgendomi la mano e tirandomi verso di lui senza sforzo.

“Nah, potevo farcela anche da solo” mi vantai, ignorando la sua occhiata sarcastica e poco convinta. “Ma sapevo che non mi avresti fatto aspettare troppo” aggiunsi.

Sorrise sghembo, “Ovviamente. Ero venuto a cercarti, credevo fossi nei guai”.

Mi puntai un dito al petto, drizzando le spalle con orgoglio. “E invece sto benissimo! Nemmeno un graffio” lo assicurai facendolo scoppiare a ridere.

“Sai, piccoletto, non sei niente affatto male” ammiccò, inclinando il capo per osservarmi meglio.

“Nemmeno tu se è per questo. Ti ho mai detto che sei maledettamente sexy con i vestiti conciati in quel modo?” feci disinvolto, accennando al suo aspetto disastrato.

Mi guardò stupito per qualche secondo, chiedendosi sicuramente se non avessi sbattuto la testa da qualche parte dato che battute del genere non ero solito farle, o meglio, non in sua presenza perché se fosse venuto a conoscenza del mio livello di depravato, sarebbe impallidito. Tuttavia non mancò di assecondarmi, stando al gioco e avvicinandosi fino a sovrastarmi con la sua stazza, abbassandosi leggermente verso di me in modo da potermi guardare dritto negli occhi e parlarmi ad un soffio dalle labbra.

“Lo dici solo perché non mi hai visto senza”.

L’intervento di Smoker che ci richiamava a raccolta fu un vero miracolo perché, se non fosse stato per lui e per la situazione critica in cui ci trovavamo, avrei assalito Killer all’istante senza pensarci due volte. Dovevamo smetterla di andare con i piedi di piombo, insomma, lui mi piaceva, io gli piacevo, perché perdere tempo a corteggiarci allora? Quel bel culetto mi aspettava.

“Ehi voi, tutto a posto? Siete feriti?” chiese la voce ansante e stanca del marine, il quale ci raggiunse un po’ zoppicante e con un corpo che aveva visto giorni migliori, ma vivo e vegeto nonostante lo scontro.

“Io sto benissimo!” dichiarai sorridente, scambiandomi un’occhiata complice con Killer che, per sua sfortuna, non era affatto messo bene quanto me, ma abbastanza capace di tenersi in piedi e di camminare.

“Forza, dobbiamo avvisare gli altri e raggiungere Kidd. Muoviamoci” ordinò, dandoci le spalle e avviandosi con fatica verso l’ingresso del cantiere, venendo colto poco dopo da una fitta di dolore e inginocchiandosi a terra, tenendosi stretto il costato. Una costola rotta o incrinata, probabilmente.

“Smoker, lei aspetti qui con Killer e chiami il resto della polizia. Andrò io avanti” decisi, zittendo le lamentele del biondo con una mano e facendogli notare che nelle sue condizioni non sarebbe stato in grado di fare molto. Grazie al Cielo Smoker non ebbe nulla da obbiettare, per una volta, e mi lasciò fare, facendomi promettere di aspettare i rinforzi prima di intervenire con qualche colpo avventato della mia testa bacata.

“Non glielo posso giurare” mi scusai, “Potrebbe esserci bisogno di me la dentro”. Detto questo mi avviai a passo spedito verso l’ingresso, superando il corpo svenuto e martoriato di Vergo, sentendo che un peso si scioglieva, lasciando il mio petto più leggero e rilassato. Mancava solo Doflamingo e poi Law sarebbe stato libero di vivere in pace la sua vita.

Se lo meritava, dopotutto.

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
*Per chi mi volesse morta, la fila è a destra, poco più avanti; per chi ha pietà e vuole ascoltare le mie motivazioni, allora guardi qui sotto, grazie*
Ho riproposto la canzone per concluderla come tempo fa ho fatto con Do or Die dei 30STM. A parer mio ha un ritmo abbastanza, uhm, adatto alla situazione? Comunque ora non posso più rimandare e sono pronta per affrontare il seguito.
Andando con calma e partendo dall’inizio troviamo Law, piacevolmente stupito o sconvolto, non si sa bene, che non riesce a non insultare Kidd per essere stato così avventato e stupido. Cioè, praticamente il rosso se ne è altamente fregato del suo tentativo di tenerlo al sicuro ed è capitato in mezzo al pericolo come se niente fosse. Applausi, ti credo che a uno come Trafalgar la cosa non vada a genio. Che il suo cuore, sotto, sotto, molto sotto, faccia le capriole poi è un particolare che si può tralasciare. No invece! Che cosa dolce! Kidd è andato lì solo per lui, dannazione! E vi prego, parliamo di sentimenti per una buona volta! Basta con emozioni, simpatie e cavolate varie. Ci giriamo intorno da una vita!
E aspetta, c’è lo sclero di Doffy. Adesso, solo io sono scoppiata a ridere quando, nel manga, qualche capitolo fa, Doflamingo impazzisce nel rendersi conto che quello che sta combattendo al Colosseo non è il VERO Rufy ma Sab… ehm, MisterX? Cioè, la sua faccia era comica!
Ho voluto riproporre una scena più o meno simile anche qui, trollol ^^ spero di non aver fatto male. E Vergo (l’ho collegato ad una Verza oggi), è tenuto impegnato da SmokaH-san, forse l’hanno addirittura messo a nanna, come dice qualcuno.
E parliamone: Eustass-ya è SOLO di Trafalgar, punto.
Ad ogni modo, dopo un momento di speranza che ha fatto abbassare loro la guardia, la situazione si capovolge ancora e, beh, accade il delirio e io non credo serva spiegare altro, dato che la storia si racconta da sola.
“Non capisci proprio un cazzo, vero, Trafalgar?”. Seriamente, adesso, ditemelo: cos’è questo? Cosa? E’ una stramaledetta forma contorta di dichiarazione che tra loro c’è un qualcosa. E adesso muoio.
Doffy è un verme. E’ il miglior cattivo di sempre, ma è un verme, dai. E come tale deve comportarsi. Sinceramente non trovo niente di più schifoso del modo in cui tocca le persone, proprio come fa con Law quando gli afferra il mento. E’ suo padre, si, ma non oso immaginare cosa gli passa per quella mente perversa, davvero, io, bleah.
E poi Law che lo implora. Lo fa per Kidd, solo per lui, anche se non funziona, ma si rende conto che lui è vivo e può ancora fare qualcosa. Qualcosa per cambiare gli eventi. Non si tira indietro, agisce. Lo ha fatto per salvare ciò che lo rendeva felice.

Arrivando a Kidd. Era davvero convinto di essere morto, infatti le riflessioni che fa non sono certo all’ordine del giorno, intendiamoci. Per quanto riguarda il suo comportamento iniziale mi sono posta il dubbio che forse ho esagerato, ma poi ho spiegato che, visto che si tratta del suo ultimo attimo di vita, poteva anche permettersi di essere, come dire, contento di abbracciare quella piaga di Law un ultima volta, no? Ditemi voi, io posso anche sbagliare, ovvio ^^ Quando poi cerca di svegliarlo, promettendogli che andrà tutto bene, ho pensato che comportarsi così fosse anche normale. Insomma, Trafalgar sta pur sempre moren… ehm, agonizzando davanti ai suoi occhi. Mica potevo lasciarlo impassibile, tutto ha un limite, compresa la sua bastardaggine!
Anche se Kidd non è morto fisicamente, lo è emotivamente. E’ rotto, spezzato. Comprensibile direi. Almeno ora ha un valido motivo per combattere.
Vado avanti perché mi sento male.
Non potevo di certo fare un capitolo tanto deprimente, così ho pensato: ma perché non lascio la situazione di Ace e Marco in sospeso e aggiungo un bel trafiletto su Penguin, Killer e Smoker?
*Schiva una sedia volante*
Dai, dai, state buoni, insomma! Dovete solo aspettare un’altra settimana, che sarà mai!
*Schiva un divano*
Anyway, un po’ di umorismo a detta mia ci stava tutto, chi non ha amato l’iniziativa? Eh? Non avevo nemmeno intenzione di metterlo, all’inizio, l’ho improvvisato qualche giorno fa. Va bene, la smetto, sto rischiando grosso, lo so ^^ il mio entusiasmo non vi piace proprio, eh?
Parlando di Penguin. Ma, ma quanto è tenero? Tranquillamente, piombando dal cielo, ammazza una donna. Bene, ottimo esempio, davvero. E Killer che si preoccupa per lui all’inizio? Anche alla fine, certo, maaa… adorabili. Amiamoli, perché io lo sto facendo! E la tensione sessuale tra i due era solo frutto della vostra immaginazione. Naaah, sto scherzando! ^^
Passiamo agli Spoiler Free che vi piacciono tanto, lo so:
 
A volte tutto ciò di cui avevi bisogno erano venti secondi di coraggio folle. Letteralmente venti secondi di audacia imbarazzante.
Se mai ci fossimo incontrati nell’altro mondo, probabilmente mi avrebbe sfottuto per l’eternità per averlo salvato. Sul serio, poteva benissimo scambiare il mio impulso per una dichiarazione. Che assurdità.
*
Quando poi la nuvola grigia prese forma, mano a mano che il fumo si diradava, ignorando gli avvertimenti di Thatch e di un medico che si era avvicinato per controllarmi, scattai a sedere senza nemmeno fare caso alle vertigini e alla fitta che mi trafisse il fianco. Non era una massa informe. Non lo era affatto.
“Ace”.
*
Gli ospedali non mi piacevano. Erano spenti, grigi, smorti e chiusi. L’aria non passava ed era viziata; le pareti mi soffocavano e le narici bruciavano e pizzicavano ad ogni respiro. Le sale d’attesa e i corridoi non profumavano affatto di disinfettante. Trafalgar me l’aveva detto una volta, avrei dovuto credergli invece che ignorarlo come al solito e continuare a farmi gli affari miei. Solo in quel momento lo capivo.
Secondo lui odoravano di plastica mista a pavimento, che odore potesse avere il pavimento poi me l’ero sempre chiesto, di anestesia, di vecchio e, infine, di morte.
 
Perdonate gli errori di formattazione del testo, se ce ne saranno, e non disperate. Vi ricordo, di nuovo, che non ho ancora scritto nessuna parola fatidica.
Con questo rivolgo un grazie di cuore a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori. Cala il sipario, gente.
See ya,
Ace.

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Capitolo 25
*** Capitolo 23. O si chiamavano sentimenti? ***


Capitolo 23.

O si chiamavano sentimenti?

 

Bruciava. Il dolore bruciava, mi lasciava senza fiato e mi annebbiava la mente, impedendomi di ragionare lucidamente come avrei voluto. Avevo perso da tempo il controllo sulla situazione e tutto stava andando allo sbaraglio. Non mi rimaneva altro che improvvisare fino a che non sarebbe giunta la mia ora che, a quanto pareva, non si era ancora decisa a scoccare. Forse per fortuna, forse per quella grazia Divina di cui dubitavo l’esistenza, forse perché non ero crollato a terra in modo violento dopo i colpi subiti, in ogni caso e per qualche assurda ragione ancora non ero morto.

Avevo creduto di essere già arrivato in Paradiso quando Kidd mi aveva stretto a sé. Se l’Aldilà mi riscaldava in quel modo allora ero ben felice di andarmene dalla faccia della terra. Che cosa smielata da parte mia, ma ero agli sgoccioli e non avevo tutta la forza ne l’intenzione di cui avevo bisogno per negare l’evidenza anche a me stesso. Ero stanco di fingere sempre.

Peccato che, dopo alcuni minuti di blackout totale, i fori sul mio corpo avevano iniziato a farsi sentire con insistenza. Il sangue circolava ancora, animandomi, anche se il respiro era affaticato e affannato. La diagnosi era che se non avessi ricevuto immediatamente un soccorso adeguato non avrei resistito per molto, trapassando sul serio.

Faceva un po’ freddo a dire il vero e, guardando attraverso il soffitto ormai distrutto, non riuscivo a capire se fuori stesse nevicando o piovendo. Probabilmente la prima opzione era quella giusta dato che non c’era traccia di gocce d’acqua sul pavimento, ma solamente una pozza di sangue rosso intenso. Mi ricordava i capelli di Eustass che tanto mi piacevano, nonostante non facessi altro che prenderlo in giro per quel colore così particolare e, per certi aspetti, improponibile. Però era bello. Vermiglio, mi piaceva. Anche la parola. Aveva un bel suono come il suo nome. L’appellativo Eustass-ya lo usavo solo perché mi divertiva vederlo arrabbiarsi o infastidirsi. Non lo sapeva, ma era facilissimo e troppo semplice fargli perdere le staffe; non mi serviva fargli alcun dispetto, mi bastava solo parlargli.

Una fitta particolarmente dolorosa mi fece boccheggiare ed ebbi la netta sensazione che le pareti attorno a me vorticassero. Dannazione, ero proprio messo male. Eppure mi aspettavo qualcosa di meglio da un assassino come Doflamingo. Insomma, avrebbe potuto farmi fuori in un colpo solo, invece ne aveva sprecati tre. Certo, probabilmente avevo un polmone perforato e il cuore in condizioni quasi critiche, ma ancora non aveva ottenuto la sua vendetta. Tutto ciò aveva un che di comico, ma mi risparmiai dal mettermi a ridere. Avrei di sicuro peggiorato le cose.

Un rumore strano, simile quasi a dei ringhi, parole e frasi spezzate mi giunse ovattato, tanto che mi domandai cosa stesse accadendo tutt’intorno. Forse, in realtà, ero morto e stavo guardando il mondo con gli occhi dell’anima o di un fantasma, ma non avrei dovuto sentire dolore, perciò, almeno fino a che restavo in quello stato pietoso, avevo la certezza di essere vivo.

Voltare la testa di lato fu un po’ difficile, ma andava bene fino a che non si trattava di spostarmi con tutto il corpo. Muovere le braccia mi sembrava una sfida impossibile, così mi limitai a cercare di farmi un’idea abbastanza chiara di quello che stava succedendo.

Una sagoma indistinta e rosa si stava muovendo ritmicamente a qualche metro da me, sembrava darmi le spalle, intenta a fare, anzi, a colpire qualcosa. O qualcuno.

L’inconfondibile chioma fulva di Kidd fu abbastanza per darmi la forza di sbattere le palpebre e allontanare quel velo trasparente che mi ricopriva gli occhi, permettendomi di percepire nuovamente le immagini in modo chiaro, nitido e definito. Ciò che vidi, però, non mi piacque per niente.

Joker si stava accanendo senza sosta sul corpo ormai ridotto ad uno straccio di Eustass, il quale cercava in tutti i modi di contrastare il suo aggressore. Sul suo viso una maschera di odio, disperazione e rabbia. Per un istante mi chiesi se la causa di tutto ciò fossi in parte anche io, ma non era il momento adatto per mettersi a riflettere su quel groviglio complicato di sentimenti che mai mi sarei soffermato a prendere in considerazione. Avere il potere di influire sul suo umore così profondamente mi sembrava pretendere troppo e evidentemente la morte aveva brutti effetti sui bastardi come me: tendeva a tirare fuori il lato migliore. Bastava guardare come mi ero ridotto nel tentativo di salvare la vita di qualcun altro e non la mia. Non era forse stata una buona azione quella? Era strano dato che mi definivano un piccolo diavolo.

Sapevo a cosa stavo andando incontro quando mi ero lanciato in mezzo alla traiettoria degli spari, sapevo che non ci sarebbe stata una speranza di poter ritornare, eppure il desiderio, la determinazione, quella speranza di poter evitare tutto ciò a quell’idiota montato mi era sembrata un valido motivo per sacrificarmi. No, non sacrificarmi, che brutta parola, non ero stato costretto da nessuno, l’avevo scelto da me.

A volte tutto ciò di cui avevi bisogno erano venti secondi di coraggio folle. Letteralmente venti secondi di audacia imbarazzante.

Come potevo definire quel gesto? Che parola o verbo si poteva usare? E, soprattutto, per quale motivo ero arrivato a tanto? Se c’era una domanda che non avevo smesso di pormi in tutti quei mesi da quando avevo incontrato Kidd era perché. Di perché ce n’erano un sacco e scorrevano tutti a briglia sciolta nella mia mente, rischiando seriamente di farmi perdere i sensi tanto erano forti.

Perché ero finito a casa sua? Perché mi ero risvegliato nel suo letto? Perché mi era piaciuto così tanto? Perché non me ne ero andato? Perché da quel momento in poi non ci eravamo semplicemente mandati a ‘fanculo? Perché sembrava avere il potere di stravolgermi? Perché mi faceva sentire così stramaledettamente bene? Perché era così difficile accettarlo? Perché non volevo che morisse?

Se mai ci fossimo incontrati nell’altro mondo, probabilmente mi avrebbe sfottuto per l’eternità per averlo salvato. Sul serio, poteva benissimo scambiare il mio impulso per una dichiarazione. Che assurdità.

Un altro perché si aggiunse alla mia già numerosa lista in quell’istante non appena decisi la mia mossa successiva e mi domandai per quale ragione mi stessi auto infliggendo dolore nel tentativo di alzarmi e spostarmi. Ero già ridotto ad una pezza, che bisogno c’era di disintegrarmi del tutto? Se le mie supposizioni erano corrette, e lo erano al cento per cento, muovendomi troppo avrei sicuramente rischiato che anche le pallottole nel mio corpo si spostassero, toccando punti vitali, più vitali di quelli che avevano anche solo sfiorato, stroncandomi in pieno. Era un miracolo se ancora riuscivo a respirare e a ragionare nonostante la sofferenza atroce. Chiunque al mio posto sarebbe rimasto privo di sensi, io invece non me lo potevo permettere. Se non rimanevo sveglio, chi avrebbe pensato a quell’incosciente di Eustass-ya?

Così lo feci, forse per l’ultima volta. Mi misi carponi, trattenendomi dall’urlare e mascherando il tutto con smorfie terribili, strisciando per qualche centimetro sulla pancia e sentendo lo stomaco rivoltarsi e la bile salirmi in gola. Le mani scivolavano sul sangue e tremavano, per non parlare delle gambe, quelle non ero nemmeno sicuro di averle ancora, ma dovetti ricredermi quando riuscii a mettermi in ginocchio con una forza di volontà che non mi sarei mai aspettato di avere. Il mondo girò violentemente e rischiai di ricadere, ma mi sforzai di respirare profondamente, ignorando il bruciore sempre più forte al petto, come se mi avessero fatto ingoiare carboni ardenti, e compii l’ultimo disperato passo, alzandomi in piedi e barcollando fino alla parete davanti a me, stringendomi convulsamente una mano sul torace per rallentare l’emorragia. Non sarebbe servito a molto, ma almeno avrei avuto qualche possibilità di non svenire sul più bello.

Mi appoggiai al muro ansante, percependo distintamente le forze che mi abbandonavano e, mantenendo l’equilibrio appoggiando una mano sul cartongesso, avanzai fino alla pistola di Kidd, lasciando dietro di me una lunga scia rossa, creando un contrasto come in un macabro dipinto.

Mi accasciai a terra giusto quando raggiunsi l’arma, felice di avercela fatta e sentendomi già più leggero. Non capii se la sensazione fosse dovuta dalla fortuna che mi aveva assistito o dalla perdita di sangue, ma non importava molto, non quando dovevo concentrarmi per prendere la mira e non sbagliare il colpo come aveva fatto il mio schifoso genitore.

“E’ un peccato farti fuori” stava dicendo Doflamingo con finto rammarico, assestando un altro pugno al ragazzo sotto di lui che non aveva smesso un attimo di opporsi e lottare, "Ma non saprei che farmene di un individuo imprevedibile come te". La pistola che aveva usato in precedenza fece di nuovo la sua apparizione, puntata contro la tempia della sua vittima che, nonostante il pericolo, sorrise sprezzante.

“Fallo” gli disse con sicurezza, facendomi corrugare la fronte, “Sarebbe un enorme favore da parte tua”.

Stupido e idiota. Sentii montare la rabbia a quelle parole.

Avevo scambiato la mia vita per la sua e lui che faceva? Se ne sbatteva e si lasciava ammazzare piuttosto che apprezzare il mio gesto e vendicarmi. Ingrato, non appena mi avrebbe raggiunto dall’altra parte l’avrei riempito di pugni visto che quelli di Joker non sembravano bastargli.

“Oh, lo so benissimo” rispose l’altro con sarcasmo, “Tu non vedi l’ora di raggiungere Law all’altro mondo, vero? Che cosa vomitevole, ma la morte sarebbe una liberazione, non una punizione, quindi penso proprio che ti risparmierò questa cortesia”.

Era il tentennamento di cui avevo bisogno. Quel verme non avrebbe più fatto soffrire nessuno e, dopotutto, la colpa era anche un po’ sua: non avrebbe mai dovuto fare tutti quegli errori durante il suo teatrino. Al nemico le spalle non si voltavano mai, nemmeno se questo era morto e, cosa più importante, avrebbe anche dovuto tenere conto del fatto che io le mie promesse le mantenevo sempre.

“Se muoio io, tu verrai all’Inferno con me” sussurrai, accompagnando il tutto con la mia espressione preferita, ovvero un ghigno di vittoria. Non sia mai che mi presenti in Purgatorio senza la mia solita faccia, i Santi dovevano pur capire con chi avevano a che fare.

Poi premetti il grilletto e misi fine al regno di Donquixote Doflamingo.

 

* * *

 

“Beh, perché io sono semplicemente la persona più allegra che esista sulla faccia della terra”.

“Penso sia la migliore cioccolata che abbia mai assaggiato”.

“Ehi! Non sono un ragazzino, io ho ventiquattro anni!”.

“Ho attaccato ad un albero di natale una certa quantità di fuochi d’artificio collegati a un detonatore che poi ho attivato. E indovina? L’albero sembrava un razzo. Meraviglioso!”.

“E così ti chiamano La Fenice per questo? Secondo me Testa d’Ananas ti si addice di più. Anche Pennuto ci sta bene!”.

“Guarda quelle fiamme, guarda come si muovono. Hanno vita propria, non ti pare? E i colori! Hai mai visto colori più belli? Nemmeno il più grande artista riuscirebbe a renderli tali. Non importa quanto blu, quante sfumature di giallo o arancio usi, non renderà mai lo stesso effetto”.

“Sul serio non ti è mai passato per la mente che delle poesie non me ne fregasse un emerito cazzo e che mettessi piede in quel tuo fottuto locale unicamente per vederti?”.

“So che probabilmente mi ritieni un semplice ragazzino con la testa fra le nuvole e senza il minimo senso del dovere e la giusta percezione del mondo. Ma sappi che non sono uno stupido e che il mio interesse nei tuoi confronti non è, scusa, non era una cosa passeggera o semplice curiosità, altrimenti avrei smesso di passare al bar e cercare con tutte le mie forze di farmi notare da te parecchio tempo fa”.

“E’ colpa tua se sono caduto, praticamente mi hai fatto fare un mezzo infarto!”.

“Tutto quello che vuoi. No, cioè, io volevo dire che, insomma, si, ecco, p-puoi farmi compagnia s-se non hai niente da fare e se non ti scoccia!”.

“Non pensare di liberarti di me tanto facilmente”.

“Ti prego, sposami!”.

“Così avrai un bel ricordo ogni volta che ci penserai”.

“H-ho capito che a parlare con te mi trovavo bene, eri gentile e mi ascoltavi, anche se sembrava non interessarti minimamente di quello che ti accadeva intorno. All’inizio, sinceramente, mi sembrava di non farti ne caldo ne freddo. Mi sono imposto di riuscire a farti sorridere almeno una volta e, beh, quando poi è successo non mi è più bastato e ho continuato. Sai che mi organizzavo con gli orari tutti i giorni per riuscire a passare a salutarti? Oh, e io odio le poesie. Sul serio, non le sopporto, ma se fingevo di interessarmi almeno potevo passare due ore standoti accanto e, e-ecco, tu sembravi contento ed io non volevo altro che passare il tempo con te. Ah, sto facendo un casino. Quello che voglio dire è che… Che mi piaci davvero, davvero tanto, Marco”.

“Mi dispiace”.

I ricordi facevano a gara tra loro per essere presi in considerazione e proiettare nella mia mente le immagini di quelle giornate passate ad aspettare che Ace facesse il suo ingresso alla caffetteria e che iniziasse a parlarmi. Non importava se gli argomenti riguardavano cose come gli studi, l’università, gli amici, le sue stramberie, mi andava bene tutto, purché si sedesse davanti a me con una tazza di cioccolata tra le mani e un sorriso aperto e allegro. Avevo così tante immagini di lui impresse nella memoria che non riuscivo mai a decidere quale fosse la migliore. Forse perché semplicemente non ce n’erano. Are era sempre bello. E caldo. E allegro. Tutto. Qualsiasi momento con lui era degno di essere vissuto al meglio, appieno; ogni suo gesto, ogni sua parola era interessante; ogni sguardo, ogni espressione, anche se buffa, era adorabile, persino quando si arrabbiava mi piaceva. Non importava quante volte mi mandasse a quel paese per la mia indifferenza, per me restava sempre un chiodo fisso. All’inizio mi era sembrato un moccioso come un altro, ma avevo capito che era diverso quando avevo rischiato di perderlo per colpa delle mie insicurezze e di tutti i problemi che mi ero creato e che non erano serviti affatto a ridurre l’attrazione che provavo per lui. Anzi, probabilmente l’avevano solo alimentata. Poi l’avevo ritrovato e avevo deciso che non l’avrei lasciato andare di nuovo, per nessuna ragione al mondo.

In quel momento, però, me lo stavano portando via davanti agli occhi ed io non potevo fare nulla, se non osservare il caos che sovrastava qualsiasi cosa.

Dovevo aver perso i sensi per un po’ dopo l’esplosione perché quando mi ero risvegliato, dopo un tempo che mi era parso infinitesimale, attorno all’edificio si era radunata una folla di curiosi e inquilini, con l’aggiunta delle forze dell’ordine, pompieri e medici. Le sirene delle ambulanze accompagnavano il forte vociare dei presenti e dei soccorsi mentre una voce più vicina e famigliare mi parlava gentilmente all’orecchio.

“Grazie al Cielo ti sei svegliato! Per un attimo ho temuto il peggio!” fece Thatch, sospirando sollevato e deglutendo a fatica il nodo che aveva in gola per non mettersi a piangere, “Mi hai spaventato, testa d’ananas” aggiunse poi, ricomponendosi un poco e abbozzando un sorriso.

Mi resi conto che ci trovavamo all’ombra di una delle ambulanze presenti e che non ero più riverso sull’asfalto, ma su una barella piena di garze e bende che mi fasciavano lo stomaco. Sul fianco sinistro spiccava una chiazza rossa che, stando alle parole del ragazzo accanto a me, aveva smesso di sanguinare e ingrandirsi. Mi sentivo debole e mi costava fatica persino sollevare la testa e tenere gli occhi aperti, ma riuscii ad adocchiare le sue condizioni, notando che portava una fascia che gli teneva premuto il braccio contro il petto. Accorgendosi del mio sguardo mi fece cenno di non preoccuparmi, assicurandomi che non era grave come sembrava e che i medici gliel’avevano messa solo per evitare che la frattura peggiorasse.

Iniziai a guardarmi intorno alla ricerca dell’unica persona che non era presente e che mancava all’appello e, intuendo i miei pensieri leggendo il disappunto e la preoccupazione sul mio volto, Thatch scosse il capo, facendomi mancare per un attimo il respiro e rabbuiandosi.

“Stanno cercando di domare le fiamme per riuscire a entrare” mormorò nervoso, lanciando di tanto in tanto occhiate furtive in direzione dell’appartamento, “A quanto pare è un brutto incendio”.

Fissai l’edificio sentendo aprirsi nel petto una voragine di dolore. Le ferite, i graffi superficiali, persino la pallottola che mi aveva colpito, non sentivo niente, tutto passava in secondo piano quando la consapevolezza di quel disastro si affermò nella mia testa. Lì dentro, da qualche parte, c’erano Ace e Rufy, probabilmente già morti oppure, se ancora non lo erano, lo sarebbero stati a breve dato che non sembravano esserci vie di fuga da quell’inferno improvvisato.

Non avrei dovuto permettergli di tornare indietro da solo, sarei dovuto andare con lui, costringendolo ad aspettarmi. Avrei dovuto insistere la sera prima e farlo restare da me. Forse avrei potuto evitare tutto quel massacro. Forse si sarebbe ricordato di avvisare Rufy, dicendogli di non passare da lui. Forse… Forse…

Cos’era che si muoveva in mezzo al fumo che usciva dal portone d’ingresso?

Una massa più scura sembrava agitarsi in lontananza, facendosi sempre più vicina all’uscita. Non era molto larga, ma abbastanza alta e sembrava come avanzare lentamente, dondolando, o ondeggiando, ai lati. Non avevo mai visto un fenomeno del genere e mi sembrò stupido e sciocco da parte mia soffermarmi su ciò. Quando poi la nuvola grigia prese forma, mano a mano che il fumo si diradava, ignorando gli avvertimenti di Thatch e di un medico che si era avvicinato per controllarmi, scattai a sedere senza nemmeno fare caso alle vertigini e alla fitta che mi trafisse il fianco. Non era una massa informe. Non lo era affatto.

“Ace” sussurrai, timoroso che, se l’avessi detto ad alta voce, la sua immagine sarebbe sparita, risucchiata dal fuoco.

“Marco, lo troveranno, fidati, loro…”.

“No! Ace!” ripetei, indicando il punto in cui quello che doveva per forza essere un ragazzo stava camminando, uscendo finalmente all’aria aperta sotto la neve che aveva iniziato a cedere, facilitando in questo modo il lavoro ai soccorritori.

L’inconfondibile chioma corvina e scomposta di Ace precedette il resto e, anche se coperto di sfregi e ustioni in tutto il corpo, continuava a camminare, passo dopo passo, allontanandosi dalla zona più pericolosa, attirando l’attenzione dei pompieri che si affrettarono a raggiungerlo per aiutarlo. Non era solo e, caricato sulle sue spalle, Rufy sembrava stare piuttosto bene anche se non mosse un muscolo, probabilmente svenuto per l’aria irrespirabile e soffocante e la cenere. Aveva uno straccio arrotolato alla sua testa, in modo tale che la stoffa gli coprisse il viso, la bocca e il naso. Ace, invece, dava mostra di sé e di tutto il suo amore fraterno privo di maglia e con la pelle tutta scottata e, in certi punti, sanguinante.

Sembrava sfinito, ma insisteva ad andare avanti senza fermarsi, guardandosi attorno spaesato, come se stesse cercando qualcosa. Non fece in tempo ad incrociare il mio sguardo perché un paio di medici, assistiti da due volontari, lo raggiunsero, togliendogli dalla schiena il peso di Rufy che, come avevo immaginato, era privo di sensi e scortando entrambi a riparo. Fu solo quando vidi Ace crollare a terra dopo i primi passi che mi ritrovai in piedi, diretto verso di lui.

Niente mi importava più delle sue condizioni e volevo assolutamente assicurarmi che stesse bene, che non avesse subito gravi danni, che respirasse ancora perché l’aria che aveva quando era uscito dall’appartamento era il riflesso della stanchezza e della fine.

Era lì, a pochi metri da me, così vicino eppure ancora così maledettamente lontano da non poterlo abbracciare e rassicurare. E la mia testa girava, l’oscurità premeva sui miei occhi e poi il mondo divenne opaco e sfocato.

Thatch mi afferrò prima che mi spaccassi il cranio finendo a terra di peso e l’ultima cosa o immagine che riuscii a catturare erano due sconosciuti accanto ad un corpo.

 

* * *

 

We'll do it all, everything on our own.

 

A volte, per quanto forti credevamo di essere, ci ritrovavamo ad avere un bisogno disperato di aiuto. Anche se non lo avremo mai ammesso nemmeno a noi stessi. Infondo, infondo, però, lo sapevamo che da soli tutto sarebbe sembrato più difficile e impossibile.

Gli ospedali non mi piacevano. Erano spenti, grigi, smorti e chiusi. L’aria non passava ed era viziata; le pareti mi soffocavano e le narici bruciavano e pizzicavano ad ogni respiro. Le sale d’attesa e i corridoi non profumavano affatto di disinfettante.

Trafalgar me l’aveva detto una volta, avrei dovuto credergli invece che ignorarlo come al solito e continuare a farmi gli affari miei. Solo in quel momento lo capivo.

Secondo lui odoravano di plastica mista a pavimento, che odore potesse avere il pavimento poi me l’ero sempre chiesto, di anestesia, di vecchio e, infine, di morte. Diceva che persino il cibo, già pessimo di suo, fosse come plastificato, così come qualsiasi altra cosa lì dentro. Avevo scoperto, però, che c’era anche un altro odore che aveva tralasciato, ovvero quello del caffè. Sembrava che quella bevanda fosse sacra e l’aroma proveniente dalle macchinette nascoste nei vari piani e angoli dell’enorme edificio come se fossero state tesori preziosi lo si sentiva anche da parecchi metri di distanza. Quello forse era l’unico aspetto positivo per gli amanti della caffeina, anche se di qualità scadente.

Gli ascensori mettevano paura e mi rendevano claustrofobico anche se non lo ero mai stato; i medici erano come fantasmi: andavano e venivano senza uno scopo preciso, indifferenti ai pazienti, i quali erano come morti che camminavano. Che schifo. Un vero e proprio schifo.

Altro che benessere e guarigione, si poteva benissimo prendere la scabbia solo respirando.

C’erano varie aree indicate su cartelli affissi alle pareti ed evidenziate da diversi colori sgargianti, gli unici ad animare un po’ l’ambiente smorto e privo di allegria. Quella proprio era inesistente.

Ad ogni modo e sorvolando su tutti i difetti che un luogo come quello poteva avere, all’ospedale, quel giorno, c’era letteralmente il disastro. Troppa gente e troppi feriti, chi lievemente, chi gravemente e un sacco di persone che si muovevano in un turbinio di ansia, nervosismo, fretta e tensione. Non uno che fosse tranquillo, non uno che si prendesse un attimo di pausa per sedersi, respirare, trattenersi e aspettare. Nessuno sembrava avere intenzione di fare quello che stavo facendo io. Il verbo aspettare sembrava spaventare e mandare fuori di testa chiunque. Aspettare cosa? La morte o la vita? Troppo stress, chi non resisteva usciva in lacrime, oppure urlava, o si stringeva a qualche amico. Qualcuno fumava pure all’interno della struttura. Doveva essere proprio messo male per infrangere il regolamento.

Ai miei occhi, invece, aspettare sembrava l’unica possibilità plausibile così, dopo che mi ebbero estratto la pallottola dal braccio e medicato la ferita applicando qualche pomata antibiotica e alcune bende, mi ero seduto in sala d’attesa e da lì non mi ero più mosso. Non mi ero alzato nemmeno per accogliere i mocciosi con cui avevo stretto conoscenza, e non amicizia, i quali erano arrivati tutti agitati e in preda all’isteria, ponendo domande a raffica a chiunque ed evitando saggiamente di infastidire il sottoscritto. Non volevo parlare con nessuno e la mia faccia indecifrabile sembrava abbastanza per intimare agli altri di starsene buoni e zitti. Avevo solo bisogno di un attimo per me, per rimettere insieme i pezzi di quel puzzle che era diventata la mia vita e per farlo avevo bisogno di calma e solitudine.

Avevo seriamente rischiato di morire non una, ma ben due volte. Chi era così fortunato da scampare per pelo alla morte stessa? Mi ero praticamente fatto beffe di lei, quindi in futuro mi sarei dovuto guardare bene le spalle per non essere colto di sorpresa. Dopotutto, la terza volta era quella buona, no?

La situazione nel cantiere aveva preso una brutta piega. Era stato come se l’intero mondo mi si fosse rivoltato contro. Ogni cosa era andata per il verso sbagliato e l’unica possibilità che mi era rimasta era vendere cara la pelle. Ad un costo salato, per la precisione. E prendere a pugni quel bastardo, maledetto figlio di puttana era stata una delle soddisfazioni migliori che avessi mai avuto dalla vita. La prima cosa che gli avevo rotto erano stati gli occhiali, quegli orrendi occhiali da sole dalla montatura di un colore sgargiante, un vero pugno in un occhio. Avevo goduto tantissimo quando si era reso conto che erano irreparabili, pazienza che poi mi avesse sferrato un pugno allo stomaco che difficilmente avrei dimenticato. Fortunatamente non mi aveva messo al tappeto, in fin dei conti non facevo palestra e non maneggiavo chiavi inglesi e motori per nulla. Almeno ero riuscito a rivoltargli quel brutto muso come un calzino con le mie sole forze.

 

We don't need anything or anyone.

 

Il suo setto nasale aveva fatto la stessa fine di quel suo accessorio: rotto. Il resto erano bazzecole e nemmeno la mia faccia era messa in condizioni tanto gradevoli. Avevo ogni centimetro di pelle coperto di cerotti; un labbro spezzato, uno zigomo tumefatto e un taglio sul sopracciglio sinistro, nonché una brutta ferita alla base del collo. Quello stronzo aveva usato le unghie peggio di un animale. O forse aveva avuto un coltello nascosto in tasca? Ad ogni modo non importava più, perché, proprio quando avevo iniziato a temere il peggio, l’avevo visto boccheggiare e guardarmi dritto negli occhi nei quali vi avevo letto il terrore sempre più crescente. Poi mi era crollato addosso e, se non l’avessi afferrato per le spalle e spinto di lato, mi avrebbe praticamente soffocato con la sua stazza e quella cazzo di pelliccia rosa e oscena.

Era rimasto immobile, fermo e con un’espressione rivoltante sul viso. Per un attimo avevo stupidamente creduto che stesse scherzando per riprendersi all’improvviso e spaventarmi e mi ero dato del deficiente l’attimo dopo, quando avevo finalmente collegato che il botto che mi era parso di udire al di sopra della voce e degli sproloqui di Joker doveva per forza esse stato uno sparo diretto a toglierlo definitivamente di mezzo. Doflamingo non esisteva più e aveva smesso di fare paura.

Poi c’erano state le urla di Penguin, quel nanerottolo insopportabile, e in seguito erano arrivati un sacco di uomini vestiti in borghese ma armati fino ai denti. Alcuni si erano fermati qualche metro prima, mentre altri mi avevano raggiunto e avevano iniziato a pormi mille domande alle quali non avevo dato risposta. In breve tempo erano arrivate le ambulanze e altrettanto velocemente mi avevano caricato in una di esse, spedendomi dritto tra le quattro deprimenti pareti in cui mi trovavo proprio allora. Nessuno si era preoccupato di farmi avere notizie sulle condizioni degli altri e i miei occhi erano rimasti fissi sul gruppo di soccorritori che si erano stretti attorno al ragazzo accasciato a terra accanto alla parete privo di… Di cosa? Avevo intensamente pregato che ciò che gli mancava in quel momento fossero stati solo i sensi e non la vita stessa. Poi mi avevano portato via e da allora non avevo ricevuto altre notizie.

Così mi ero ritrovato in quella sala da solo, estraniato dal resto del mondo, ad aspettare.

 

If I lay here, if I just lay here would you lie with me and just forget the world?

 

Tra tutti, quello che poteva considerarsi in splendida forma era proprio quella sottospecie di pinguino nano. A parte qualche livido sulle braccia, il morale a pezzi, i vestiti logori e un leggero mal di testa messo a tacere da un’aspirina, stava benissimo.

Subito dopo veniva Killer, anche lui abbastanza in forze, solo tanto stanco. Quando mi era corso incontro ero stato felice di vederlo e di saperlo sano e salvo. Lui era ciò che più si avvicinava ad un fratello per me ed era l’unico che non mi dispiaceva definire amico senza vergognarmi di ammetterlo. Ciò era frutto di anni e anni di pazienza e capacità di sopportazione, impossibile che accadesse con qualcun altro una cosa del genere.

Seguiva, infine, mio padre che, alla sua età, voleva ancora fare la parte dell’uomo imbattuto, del capo indiscusso e del cavaliere senza macchia e senza paura. Peccato che la sua divisa fosse macchiata di sangue in più punti e che il suo fisico non fosse più tanto atletico e agile come un tempo. Nonostante tutto, però, era riuscito ugualmente a farsi valere e, a parte tre costole incrinate, stava benone. Almeno sarebbe rimasto in osservazione per un po’ e si sarebbe riposato. E, cosa molto importante, non avrebbe rotto i coglioni a casa, ciò significava che avrei potuto bruciargli l’abitazione senza finire in prigione. Così, giusto per ricordargli che ero sempre il suo figlio degenerato e screanzato.

Per quanto riguardava quelli messi peggio, invece, la lista non era lunga, ma nemmeno tanto rosea.

L’ultimo imbucato della compagnia, ovvero un tizio decisamente troppo cresciuto per fare comunella con dei ragazzini, ma stupido ed infantile quanto loro e con un ciuffo da fare invidia al vero Elvis Presley, era arrivato in ospedale con un braccio rotto e vari ematomi sulla schiena. Niente di che, aveva detto alle infermiere che avevano tentato con le buone di farlo calmare. Si era persino messo a chiacchierare spensierato con loro, esibendo le ferite per ammaliarle, ma queste non si erano fatte abbindolare da un paio di occhioni dolci. Inutile dire che erano stati costretti a sedarlo per calmarlo e operarlo sotto anestetico. A quanto pareva era terrorizzato dagli aghi e dalle siringhe. Suo fratello, invece, non l’avevo visto. Ascoltando una conversazione tra i dottori e alcuni famigliari dei ragazzi, avevo capito che il secondo l’avevano portato direttamente in sala operatoria, essendo stato colpito da un colpo di pistola al fianco. A giudicare da come avevano tranquillizzato il resto della famiglia, arrivata in fretta e furia da chissà dove, sembrava non essere in pericolo di vita e se la sarebbe cava con qualche punto e sutura, nonché riposo.

Quello che aveva rischiato grosso, invece, era stato Ace. Non appena l’avevo conosciuto mi era andato subito a genio, se dovevo essere sincero. Era educato, abbastanza tranquillo e, soprattutto, tanto intelligente da capire che con me bastava non essere sfacciati, presuntuosi, amichevoli, spocchiosi e una lunga serie di altri aggettivi. Mi lasciava in pace e io facevo altrettanto. Andare d’accordo era stato inevitabile e la nostra passione per le cose estreme come esplosioni, motori e altro era servita a farci legare sempre di più di volta in volta. Era un bravo ragazzo, dopotutto, forse un po’ sprovveduto e bonaccione, ma non cattivo e nemmeno una delusione. Oh, quello era distante dall’esserlo dopo il suo ultimo gesto eroico. Non capitava tutti i giorni che qualcuno salvasse il proprio fratello da un incendio che, altrimenti, li avrebbe uccisi entrambi.

Non avevo capito bene la dinamica degli avvenimenti, ma mi era chiaro che Ace aveva sopportato letteralmente l’inferno pur di proteggere quella piccola peste di Rufy che, grazie a lui, ora si trovava fuori pericolo, addormentato in una stanza tutta per lui. L’unica complicanza era stata la cenere che aveva respirato, ma i medici avevano fatto il loro dovere e non avrebbe avuto altri problemi. Per quanto riguardava il maggiore dei fratelli, invece, la situazione era un po’ più complicata date le brutte ustioni di secondo grado e lo sfregio sulla schiena che si era procurato, bloccando la caduta di una trave col suo corpo e con le sue sole forze per evitare che quella schiacciasse il piccoletto svenuto. Sperai che tutto andasse bene e che l’operazione riuscisse. Doveva essere molto stanco, ma ero certo che non avrebbe ceduto tanto facilmente. Anche se era sempre gentile con tutti, sapevo che era uno tosto. Era pur sempre Ace Pugno di Fuoco e lui il fuoco l’aveva letteralmente domato.

Feci un respiro profondo, chiudendo gli occhi per un istante e passandomi una mano sul viso fino ai capelli, ravvivandoli e notando poi come mi ricadevano sugli occhi in piccole ciocche. La fascia che usavo di solito l’avevo persa e i miei occhialoni da aviatore si erano rotti. Me li aveva regalati Smoker nella speranza che entrassi nell’Esercito, o nei Marines, o in qualunque ente che avesse a che fare con la giustizia. Non era andata secondo i suoi piani, ma mi ci ero affezionato.

 

I don't quite know how to say how I feel.

 

Non capivo bene come mi sentivo in quel momento. Non riuscivo decidermi se ero in ansia o nervoso; preoccupato o indifferente; speranzoso o arreso all’inevitabile. Magari anche illuso. C’era un rognoso incognita che si era insinuato tra i miei pensieri come un tarlo e non aveva intenzione di andarsene. Ero seduto in quella sala d’attesa del terzo piano da tre fottute ore e nemmeno un’ombra era venuta a darmi qualche notizia. Non una parola, non un’anima in giro. Niente.

Trafalgar Law era entrato in sala operatoria in condizioni non critiche, ma disastrose. Praticamente non aveva più del tre per cento di possibilità di sopravvivenza e, forse anche per la situazione complicata e critica, da lì non era ancora uscito.

Ciò poteva essere un bene, almeno fino a che le cose rimanevano in stallo, voleva dire che ancora respirava, anche se lottava in bilico tra vita e morte con un piede già nella fossa.

Strinsi i pugni sulle ginocchia, irrigidendo le spalle e auto imponendomi di calmarmi. Non dovevo lasciarmi prendere dal panico, per nessuna ragione. Non potevo mettermi ad urlare, anche se l’avrei fatto volentieri; non potevo nemmeno permettermi di far volare fuori dalle finestre tutto ciò che mi capitava a portata di mano. Forse avrei potuto parlare, dicevano che sfogarsi con qualcuno che era disposto ad ascoltare faceva bene e serviva a placare gli animi, ma chi sarebbe stato disposto a starmi a sentire? Avevano tutti qualcuno a cui badare e per cui pregare, perciò avrei dovuto cavarmela da solo, come sempre.

D’altronde, cosa avrei potuto dire? Che mi dispiaceva? Che mi sentivo perso e non avevo la minima idea di cosa si dovesse fare in situazioni del genere? Che mi sentivo soffocare da un fiume di sensazioni, o si chiamavano sentimenti? Perché davvero non ero più certo di dover dare delle etichette alle emozioni che provavo. Parole ce n’erano tante e tutte diverse, ma a cosa sarebbe servito pronunciarle? E ammetterle avrebbe cambiato qualcosa?

 

Those three words are said too much. They're not enough.

 

Essere soli, però, si stava rivelando parecchio più dura del previsto. E dire che fino a poco tempo prima ero sempre stato un tipo solitario. Era proprio vero che quei mocciosi mi avevano cambiato e pure rammollito se volevamo essere sinceri.

“Oh, eccoti, ti ho trovato”.

Sospirai stancamente, lasciando che la persona appena arrivata si sedesse accanto a me, passandomi amorevolmente un braccio attorno alle spalle e stringendomi gentilmente contro di lei, infondendomi un po’ di coraggio in più.

“Il mio bambino”.

“Sto bene” mi affrettai a chiarire burbero, prima di iniziare a sentirmi fare la predica. Non avevo bisogno di nessuno, davvero, avevo tutto sotto controllo. Dovevo solo rimanere fermo, in silenzio e smettere di pensare.

“Vuoi sapere cosa fa più male?” chiese Ivan senza lasciarmi andare. Sapevo che, anche se non le avessi risposto, avrebbe comunque continuato ad assillarmi con le sue inutili perle di saggezza.

“Cosa?” sbottai allora.

“Fingere che non faccia male affatto”.

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
Ciao a tutti ^^ beh stavolta non la metto la fila per ammazzarmi, non mi sembra che ce ne sia bisogno, insomma, è andata meglio delle ultime volte, no?
‘Sai, a volte tutto ciò di cui hai bisogno sono venti secondi di coraggio folle. Letteralmente venti secondi di audacia imbarazzante’, cit. Benjamin Mee.
Scabbia: La scabbia è un'infezione contagiosa della pelle che si verifica tra gli esseri umani e in altri animali. È causata da un parassita molto piccolo e di solito non direttamente visibile che si inocula sotto la pelle del soggetto colpito, provocando un intenso prurito allergico.
La malattia può essere trasmessa da oggetti, ma più spesso dal contatto diretto pelle-pelle, con un elevato rischio dopo un contatto prolungato.
Dovrei fare un elenco puntato, damn ^^
Il sipario oggi si apre con, SORPRESA, Law che boccheggia senza fiato davanti a quella situazione in bilico tra la vita e la morte. Eh si, non ha ancora esalato l’ultimo respiro. e’ un po’ presto per dirlo perché adesso ci lasciamo con lui all’ospedale, maaa… EmmaStarr, bellezza, puoi saltellare felice perché, l’avevi detto che non era ANCORA morto ^^ (dico ancora giusto perché non vi illudiate inutilmente, mi piace tenervi sulle spine ^^
Insomma Trafalgar compie la sua ultima buona azione nei confronti del rosso e, ommioddio quanto amore tra questi due, quanto!, finalmente mette fuori gioco Doffy. Fate pure festa, io mi ritiro in un angolino perché quel cappotto di piume mi piaceva tanto.
No, non sono sadica, lo dimostro regalandovi la bella notizia sulle condizioni di Ace, cosa che la scorsa settimana non ho fatto, un po’ apposta lo ammetto :P
All’inizio c’è Marco che ripensa a tutti i momenti passati in quella strafamosa caffetteria dove Ace gli è capitato per la prima volta sotto agli occhi. Sono, diciamo, i loro discorsi più significativi, se vi interessa la cosa trovate tutto qua: It’s alla about you.
E poi si sveglia e trova Thatch, amore mio, ma ugualmente il pensiero va a Ace e alla fine che potrebbe aver fatto. Bitch Please, stiamo parlando di Pugno di Fuoco, lui le fiamme se le mangia a colazione. Ho esagerato? Comunque eccolo che spunta in tutto il suo, ehm, bruciore mezzo cotto alla brace con Rufy sulle spalle sano e salvo. E’ riuscito a salvare il suo fratellino ed è un vero e proprio eroe come lo definisce Kidd.
E ciao Kidd. Tesoro mio. Come stai? A pezzi immagino, almeno grazie a te abbiamo un resoconto sulle condizioni degli altri. E su quelle di Trafalgar, ma per lui è meglio stendere un velo pietoso perché mi sento in colpa per tutta la sofferenza che vi sto facendo patire. Perdonatemi, argh!
Non parlarmi di sentimenti, mi strazi in questo modo e smettila di fare il burbero anche con mamma Ivan. Okay, non posso reprimere una risata davanti a questa frase, ma va bene. Eustass-ya deve pur sempre mantenere un certo contegno e io ce lo vedo isolato dal mondo nell’attesa di qualche notizia. Anche con Ivan, la quale è lì anche per Smoker, ricordiamolo sempre per ridere a crepapelle, mantiene le distanze, ma perché è fatto così e non sclera solo perché è pur sempre sua madre. Se fosse stato qualcun altro dubito fortemente che avrebbe avuto voglia di parlare. Ad ogni modo un abbraccio fa sempre bene secondo me e non poteva pretendere di riuscire a sopportare tutto quel peso da solo, a tutto c’è un limite.
E ora a voi i tanto amati Spoiler Free:
 
“Toh guarda” fece una voce fin troppo famigliare alle nostre spalle, “Questo si che vale un braccio rotto. Tu che ne pensi, babbo?.
Se avessi saputo che una volta risvegliatomi avrei dovuto conoscere il padre di Marco, nonché sindaco della città, nonché mio probabile futuro suocero, avrei sicuramente preferito essere imbottito di anestetico e non svegliarmi affatto.
*
Colore. Guarda quanto colore. E questi che sono? Navi? Velieri dei pirati! Oh, perché Nami indossa un costume e Chopper è un procione? No, aspetta, é una renna. Una fottuta renna. Qualcuno mi fermi, potrei morire per le risate! Uh? Questa si che mi è nuova.
“Ehi, Kira-chan, perché indossi una maschera a righe?”.
“Ehm, Penguin, io non sto indossando niente”.
*
Un mese e mezzo. Un orribile e maledetto mese e mezzo di attesa era passato. Erano stati tutti dimessi, chi prima e chi dopo. Pure io avevo ottenuto il permesso di potermene tornare a casa, ma non ne avevo voluto sapere. Ero rimasto lì, incapace di abbandonare quelle mura, incapace di tornare a vivere normalmente, quello che avrei dovuto fare. Non potevo andarmene sapendo che il suo caso era in stallo e che ancora non c’era stato alcun risvolto positivo o determinante per la sua condizione.
 
Bene, spero che il capitolo vi sia piaciuto e ringrazio in modo speciale tutti, vecchi e nuovi lettori. Mi scuso per eventuali errori e niente, per qualsiasi cosa mi trovate sempre, anche se arrivo in ritardo, scusatemi ^^
Cala il sipario, un abbraccione a tutti e restate sintonizzati.
See ya,
Ace.

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Capitolo 26
*** Capitolo 24. Il drago nel corridoio. ***


Capitolo 24.

Il drago nel corridoio.

 

Ho sonno. Ho veramente tanto sonno e, aspetta, no, non ho affatto sonno. Ho fame! Tanta fame. Ma da quanto non mangio? Uh? Perché è tutto buio qui intorno? Ahi! Cazzo, che male la schiena! Ma cosa mi è capitato? Fa un caldo assurdo, mi sembra di stare in una brace! Ehi, perché non riesco a muovere il braccio? Che è questo peso che mi sento addosso? E poi questo assurdo ‘bip’ da dove viene, mi sta mandando fuori di testa e io…

Finalmente aprii gli occhi.

Oh.

Non ci misi molto a capire dove mi trovavo, dopotutto non ci voleva di certo un genio per intuirlo e gli ospedali erano sempre stati facili da riconoscere. La stanza spoglia, anonima e fastidiosamente bianca aiutava abbastanza, inoltre un paio di tubicini di plastica che mi uscivano da sotto la manica del pigiama, collegati dal mio braccio sinistro ad una flebo accanto al letto, mentre uno strano computer segnava la frequenza del mio battito cardiaco. Ecco da dove veniva il bip che mi martellava nel cervello.

La cosa che mi premeva di più, in tutti i sensi, invece, era l’impossibilità di muovere il braccio destro. Qualcosa lo bloccava, ma rimasi piacevolmente sorpreso e sollevato quando scoprii che, grazie a Dio, non me l’avevano amputato, ma semplicemente era immobilizzato da qualcuno che si era addormentato sopra.

Sollevato come non mai, mossi le dita fasciate e sfiorai con i polpastrelli la guancia del ragazzo senza riuscire ad impedirmi di sorridere. Rufy era capace di dormire ovunque e di mangiare qualsiasi cosa senza problemi ed era bello sapere che avrei potuto vederlo comportarsi come un bambino altre migliaia di volte. Non potevo di certo permettere che qualcuno facesse del male al mio fratellino, insomma, ero pur sempre suo fratello maggiore ed era mio dovere proteggerlo sempre, a qualsiasi costo.

Lentamente riuscii a scostare il braccio da sotto la sua testa e approfittai per accarezzargli quella zazzera scura con affetto, felice di sapere che tutto, alla fine, era andato nel migliore dei modi nonostante la gravità della situazione iniziale.

Quando ero arrivato all’appartamento l’incendio era già stato appiccato ed era bastato vedere una leggera scia di fumo uscire dalla finestra al terzo piano per farmi decidere come agire sul momento. Ero scattato verso l’ingresso e avevo fatto le scale volando letteralmente, arrivando davanti alla porta e trovandola aperta. All’interno si riusciva a malapena a vedere dove mettere i piedi e l’aria era irrespirabile così mi ero tolto la felpa e me l’ero accostata alla bocca per non svenire e perdere i sensi ed ero entrato, deciso a trovare Rufy. Non ci era voluto molto perché lo conoscevo bene ed ero certo che, nell’aspettarmi, si era fiondato in cucina per fare uno spuntino. Infatti l’avevo trovato proprio accanto al frigorifero. Quella era stata la parte più facile e il difficile era venuto solo dopo. Avevo tutta l’intenzione di trascinarlo fuori il più in fretta possibile, ma l’incendio si era ormai esteso, bloccando il passaggio diretto verso l’uscita, così ero stato costretto ad aggirare il salotto con tutti i mobili che, lentamente, venivano mangiati e arsi dalle fiamme. Poi la situazione si era fatta abbastanza bollente, e non in senso buono, per niente. Rufy sembrava respirare a fatica e non avevo voluto togliergli i vestiti perché temevo che si sarebbe scottato o ustionato, così gli avevo avvolto attorno alla testa la mia maglia e mi ero limitato a trattenere il respiro e a inalare solamente la minima quantità d’aria necessaria per andare avanti, almeno fino alle scale. Meta che raggiunsi con grandi sforzi e una buona dose di fortuna, nonché intervento Divino. Anche se, bisognava ammetterlo, la trave che era crollata dal soffitto non l’avevano bloccata gli angeli, ma io con la mia schiena. Ecco perché mi faceva così male, quindi, senza dubbio c’era un bello squarcio. Se non l’avessi fatto, probabilmente a quell’ora il mio fratellino non si sarebbe trovato nel mondo dei sogni, comodamente rilassato sul mio letto e con la bava che gli colava dalla bocca dischiusa. Era proprio un caso disperato, decisamente.

Quello che era successo dopo non me lo ricordavo bene, sapevo solo che avevo fatto di tutto per uscire da quell’inferno di fuoco e fiamme. Dovevo salvare Rufy, solo quello era stato importante e il bruciore alle braccia, alle gambe e alla schiena era passato in secondo piano davanti a quel pensiero fisso. Alla fine ero riuscito a raggiungere la porta e avevo messo un po’ di distanza tra me e il calore, nonostante il fumo soffocante fosse persistito fino al portone d’ingresso dove un favoloso venticello mi aveva investito, rischiarandomi la mente e rinfrescandomi da cima a fondo. Era stata una sensazione meravigliosa, anche se il dolore, la stanchezza e lo stress mi erano piombati addosso in un istante, facendomi barcollare e lasciandomi intontito. Solo dopo essermi assicurato del benessere di Rufy mi ero permesso di cedere, lasciandomi finalmente avvolgere dalle braccia armoniose del sonno e concedendomi un meritato e lungo riposo, dimenticandomi di tutto il resto.

In quel momento ero davvero contento di vederlo così tranquillo in quel momento, intento ad aspettare il mio risveglio e solo quando qualcosa cadde a terra con un tonfo sordo mi accorsi che in quella stanza non c’eravamo solo noi due.

A causa della penombra procurata dalle tende tirate in modo da coprire la luce proveniente dalla finestra sulla parete di sinistra, non mi ero reso conto che, dalla parte opposta della camera, c’era un tavolino circondato da alcune sedie posizionate attorno. Su una di queste riposava un’altra persona, il busto riverso sul ripiano, un braccio usato come cuscino e l’altra mano abbandonata lungo un fianco mentre un libro faceva bella mostra di sé aperto sul pavimento. Il diretto interessato sembrò destarsi, disturbato forse dal rumore e, sospirando stancamente, si abbassò per recuperare il volume e riporlo sopra al tavolo con cura, passandosi poi una mano sul volto assonnato e grattandosi distrattamente una chioma di capelli che, per quante volte l’avessi ormai vista, continuava a lasciarmi un po’ perplesso.

Rimasi in silenzio ad osservarlo, ricordando improvvisamente la nostra ultima conversazione e sentendomi stranamente a disagio. Gli avevo praticamente riattaccato il telefono in faccia, avevo invertito la marcia e avevo ignorato le sue raccomandazioni. Anche dei suoi consigli me ne ero altamente fregato. Per non parlare delle minacce. Seriamente, avevo fatto tutto di testa mia senza curarmi del suo parere. Wow, proprio un bel modo di iniziare una relazione.

“Ace?”.

I nostri sguardi si incontrarono solo allora e sui suoi occhi si dipinse lo stupore mentre il mio viso andava in fiamme. Non per il calore, ma per l’imbarazzo. Ero nei guai, me lo sentivo, anche se il suo tono di voce non sembrava arrabbiato, ma curioso.

“M-marco”. Stupida balbuzie.

“Ace…”. Adesso era, come dire, sollevato. Aveva rilassato le spalle e sembrava addirittura che un sorriso stesse facendo capolino sulle sue labbra.

“Marco” ripetei, sentendo nascere dentro di me l’entusiasmo. Ero scampato da morte certa; mio fratello stava bene e dormiva beato accanto a me e il mio barista preferi… No, il mio ragazzo mi stava guardando con aria innamor… Mi corressi, con aria omicida e mi stava venendo incontro per abbracciarmi e…

Ehi, frena, perché ha quella faccia? pensai, sbiancando e cercando di nascondermi sotto le lenzuola quando lo sentii urlare.

“ACE!”.

“Eh? Che cosa? Ace? Ace! Fratellone!”.

Piombarono entrambi e nello stesso istante sul mio letto, facendolo cigolare e inclinare pericolosamente, e, allibito e sconcertato, fui sommerso dai loro corpi che facevano a gara per appropriarsi della mia faccia e dei miei arti, strattonandomi da una parte all’altra e facendomi mordere violentemente le labbra per non urlare. La pelle tirava in più punti, probabilmente dove era stata scottata o bruciata e dove i medici avevano applicato le suture, inoltre faceva terribilmente male, ma non volevo turbarli con le mie precarie condizioni, dopotutto li avevo fatti preoccupare anche troppo.

“Ace, brutto idiota!” stava dicendo Marco, inginocchiato sul materasso e con le mani impegnate ad arruffarmi i capelli. Aveva un cipiglio serio e incazzato sul viso e mi stava rimproverando davvero, ma i suoi gesti tradivano la felicità che gli stava scoppiando dentro, mentre Rufy rideva, e rideva, e rideva. Senza sosta, rischiando addirittura di strozzarsi, soffocando persino me con uno dei suoi abbracci capaci di stritolare un orso. Quel contatto fu troppo per la mia povera schiena martoriata.

“Ragazzi piano, mi state uccidendo!” mormorai a denti stretti, sospirando sollevato quando Rufy, scusandosi, si staccò da me, limitandosi a stringermi delicatamente le spalle, scrutandomi attentamente e rivolgendomi una serie infinita di domande sulla mia salute.

“Sul serio, sto bene” ripetei per la millesima volta, facendoli scendere dal letto dopo che si furono ben assicurati che dicessi la verità e che non stessi mentendo solo per tranquillizzarli. Da quel che ebbi modo di capire in seguito ero rimasto incosciente per tre giorni dopo l’operazione. I medici avevano previsto che mi sarebbe servito solo qualche tempo per riposare e recuperare tutte le forze e così era stato. Le ferite sarebbero guarite col tempo, senza dubbio, e sarei tornato come nuovo, cicatrici di guerra a parte.

“Sono così felice che tu ti sia svegliato! Io e Marco non abbiamo fatto altro che stare qui ad aspettare, eravamo così preoccupati!” stava dicendo Rufy, saltellando per la stanza e sprizzando gioia da tutti i pori, “Sapevo che ti saresti rimesso, testa d’ananas continuava a ripetermelo almeno cinque volte al giorno e io gli ho creduto e non ho mai dubitato! Sono così felice, Ace! Il nonno era disperato e gli altri stanno aspettando notizie. Dio, mi sono dimenticato di loro! Vado ad avvisarli, torno subito, tu aspettami!”. E si volatilizzò da sotto al mio naso, lasciando dietro di sé una porta aperta che sbatté contro il muro e le sue grida isteriche che non facevano altro che ripetere ‘Ace si è svegliato!’. Il rumore assordante e metallico che seguì mi inquietò parecchio, ma non volli nemmeno fermarmi a chiedermi cosa diavolo fosse stato perché avevo la vaga sensazione di non volerlo sapere davvero. Non del tutto, almeno.

Qualcuno accanto a me si schiarì la voce e mi sentii gelare, maledicendo mentalmente mio fratello. Insomma, mi svegliavo dopo tre giorni di coma e lui doveva preoccuparsi di correre ad avvisare i nostri amici? Tenermi compagnia per evitarmi una morte certa per mano del pennuto no, vero? Avrei inevitabilmente dovuto cavarmela da solo.

Mi voltai leggermente verso Marco per rivolgergli un’occhiata timida, cercando di capire quanto fosse arrabbiato. A giudicare dall’espressione impassibile e dalle braccia incrociate al petto, doveva esserlo molto.

Mi strinsi nelle spalle, abbozzando un sorriso spensierato nel tentativo di riuscire a passarla liscia. “Ehilà” improvvisai, ostentando allegria. Non potevo scegliere modo peggiore per iniziare una conversazione. Davvero, avrei voluto scomparire.

Il suo braccio scattò verso di me, come se avesse voluto colpirmi, ma si fermò a mezz’aria e, stringendo la mano a pugno, se la portò alle labbra, mordendosi le nocche nel tentativo di trattenersi.

“Hai almeno la vaga idea di quello che abbiamo passato, Ace?” domandò glaciale e scandendo lentamente le parole una ad una, scoccandomi un’occhiata torva, tanto che abbassai il capo dispiaciuto. “Riesci ad immaginare come ci siamo sentiti?”. La voce più alta di qualche tono. “Ti abbiamo creduto morto, razza di incosciente! E non ti descrivo nemmeno la faccia di tuo fratello in questi giorni, era distrutto. Non faceva altro che colpevolizzarsi e pregare che aprissi gli occhi”. L’idea di Rufy in quello stato mi fece sentire tremendamente in colpa. Entrambi ci volevamo un bene infinito e sapere di averlo reso triste mi dispiaceva moltissimo.

“Abbiamo passato tre giorni orribili per la tua testardaggine. Io…” si bloccò, mordendosi un labbro e stringendo i pugni lungo i fianchi, “Tutti noi non sapevamo più cosa fare”.

“I-io non volevo che vi preoccupaste” sussurrai, “Ma cos’altro avrei potuto fare? Rufy era in pericolo e non potevo lasciarlo da solo!” tentai di ribattere sommessamente, benché sapessi che non avevo scuse valide dalla mia parte.

Batté una mano sul materasso, facendomi sussultare. “Lo so, dannazione! Lo so e avrei fatto lo stesso per la mia famiglia, ma avresti potuto permettermi di aiutarti. Thatch e io non ti avremo di certo abbandonato. Cosa ti passava per la testa?”. Aveva pienamente ragione e mi rendevo conto che era solo teso per il pericolo che tutti noi avevamo rischiato, perciò lasciai che si sfogasse, ne aveva il diritto e nei suoi confronti non mi ero comportato certo correttamente. L’avevo ignorato, anche se per una buona causa. Ad ogni modo ascoltai tutto quello che ebbe da dirmi, accorgendomi solo per caso che anche lui, come me e Rufy, indossava un pigiama e, dalle maniche arrotolate come al solito sui gomiti, spuntavano alcuni cerotti.

“Cosa ti è successo?” domandai, interrompendo le sue parole e lasciandolo perplesso. “Sei pieno di bende e indossi un camice dell’ospedale” sussurrai, iniziando ad agitarmi, tanto che dovetti controllarmi per non risultare isterico, “Perché?”.

La preoccupazione sul suo volto sembrò scemare, lasciando spazio finalmente ad un’aria rilassata e sollevata. Mi sondò con lo sguardo per qualche secondo, la postura rilassata e le labbra tormentate dai denti mentre decideva cosa rispondere.

“Solidarietà” scherzò con un’alzata di spalle, ma alzando gli occhi al cielo davanti alla mia faccia corrucciata e per niente divertita. “Ho lottato per ciò a cui tengo” aggiunse poi, avvicinandosi per affondare dolcemente una mano fra i miei capelli, scompigliandoli l’attimo successivo e poggiando la fronte contro la mia, “Come hai fatto tu”. E mi sorrise allegramente. Alla fine ero riuscito a far crollare quel viso perennemente apatico, meritavo un monumento.

Mi sfiorò il naso con il suo mentre io non riuscivo a fare altro che ascoltare il battito cardiaco accelerato del mio cuore e fissare i suoi occhi in attesa di qualcosa. Qualsiasi cosa pur di sentirlo vicino.

Un bacio. Poi un altro e un altro ancora. Le mani ovunque e dirette ad afferrare il camice dell’ospedale che entrambi indossavamo. C’era sempre quella fastidiosa stoffa superflua tra noi, bisognava rimediare.

“Toh guarda” fece una voce fin troppo famigliare alle nostre spalle, “Questo si che vale un braccio rotto. Tu che ne pensi, babbo?”.

Se avessi saputo che una volta risvegliatomi avrei dovuto conoscere il padre di Marco, nonché sindaco della città, nonché mio probabile e futuro suocero, avrei sicuramente preferito essere imbottito di anestetico e non svegliarmi affatto.

 

* * *

 

Il traguardo era vicino, vicinissimo, mancava davvero poco, quando da una porta laterale uscì all’improvviso un moccioso con un sorriso da un orecchio all’altro intento ad urlare qualcosa di incomprensibile. Inutile dire che lo investii in pieno, ritrovandomi con il viso spiaccicato sul pavimento e la sedia a rotelle riversa sopra di me. L’ingiustizia peggiore fu che il piccoletto non si fece neanche un graffio e si rialzò l’istante dopo, prendendo a correre lungo il corridoio con le braccia verso l’alto chiuse a pugno, come in segno di vittoria.

“Ehi, Rufy!” lo chiamai, “Dove te ne vai?”.

Puntò i piedi sul pavimento, frenando la sua corsa bruscamente e rischiando di scivolare, ma si mantenne in equilibrio per poi voltarsi indietro e sorridermi felice. “Ace si è svegliato! Sto andando ad avvisare gli altri”.

“Sia lodato il Cielo! Salta su, ti accompagno io” dissi convinto, rimettendo a posto la carrozzina per sedermi su di essa e indicandogli le mie ginocchia. Con quella avremo fatto sicuramente prima a raggiungere il resto della compagnia che da tre giorni si era accampata nella sala d’attesa.

“Davvero? Grazie Penguin!”. Entusiasta, Rufy mi saltò addosso, mettendosi comodo e puntando un dito in avanti, proclamando con aria solenne che la vettura poteva partire quando più mi faceva comodo così, dopo averlo nominato navigatore di bordo, partii a raffica, facendo girare le ruote e ricordandomi solo in quel momento che non ero il solo ad aver rubato una sedia a rotelle dal magazzino.

“Aspettatemi, maledizione! Che razza di mocciosi!”.

“Forza, Casco di Banane, muoviti!”. Forse Rufy avrebbe dovuto essere più gentile nei confronti di Killer, ma non dissi nulla e non mi preoccupai nemmeno di trattenere le risate mentre, alle nostre spalle, il biondo si faceva sempre più vicino, minacciando di ucciderci se solo ci avesse raggiunti.

Per ingannare l’attesa, quel pomeriggio, invece di fare sempre il solito gioco che si era inventato Thatch, ovvero giocare a nascondino all’obitorio, avevo deciso di organizzare una gara clandestina utilizzando quegli adorabili seggiolini con le ruote. La mia proposta aveva riscosso un certo successo e stavamo ancora facendo qualche giro di prova dato che in castano ci aveva chiesto di rimandare la corsa perché suo padre era arrivato all’ospedale per visitare i suoi cari figlioli, come aveva preso a fare da tre giorni a quella parte. Dovevo ammettere che il sindaco della città non era affatto male, un po’ stupido si, ma con le palle. Ace avrebbe avuto una bella sorpresa di lì a poco, visto che Marco non faceva altro che vegetare nella sua stanza per vegliarlo. Di certo il vecchio gli sarebbe apparso in camera, non c’era dubbio.

Ad ogni modo, tralasciando Zoro che si era sicuramente perso e Sanji che si era fermato a sostare per chiacchierare con le infermiere, eravamo rimasti Killer ed io e la gara si stava facendo sempre più cruenta, almeno fino a che non avevamo fatto un incidente di percorso a causa di Rufy, ma poco importava: avremo continuato più tardi.

Raggiungemmo la sala d’attesa in un coro di risate e urla da parte di Killer, il quale non riuscì a fermarsi in tempo, finendo per mancare la fermata e ritrovandosi dall’altra parte del corridoio, mentre Rufy saltava agilmente giù dalla sedia a rotelle, correndo ad abbracciare suo nonno Garp che non sembrava voler smettere di piangere.

“Nonno, Ace si è svegliato! No, non sto scherzando! Sta bene, ci credi? Che…? No, aspet… Mi fai male! Non stringermi così!”.

“Sul serio? E quando è successo? Penguin?”.

“Poco fa, Nami. Con lui adesso dovrebbe esserci Marco e forse suo fratello. Magari più tardi andiamo anche noi” proposi, sentendo inevitabilmente un peso svanirmi dal petto. Per fortuna che quel ragazzo si era rimesso e aveva deciso di tornare tra noi, non avrei potuto immaginare la reazione di Rufy se le cose si fossero complicate. Non avrebbe retto, ne ero certo, bastava tenere presente lo stato di tristezza totale che aveva vissuto quei giorni. Era impossibile chiedergli di vivere senza il suo adorato fratellone.

“Non se ne parla! Sono suo nonno, l’unico famigliare che gli è rimasto! Io vado da lui immediatamente! Dov’è? Dov’è mio nipote?”.

Il vecchio poliziotto sparì dalla sala con la pulce alle calcagna che ridacchiava, cercando comunque di calmarlo e di trattenerlo invano, lasciandomi solo con gli altri.

“Sono così contento per Ace” stava dicendo Chopper, sospirando sollevato e poggiando sul tavolino un sacchetto di caramelle bianche alla menta, sostenuto da Usopp che, accanto a lui, si soffiava rumorosamente il naso, cercando di far passare le sue lacrime di gioia per allergia al disinfettante, il che era un controsenso bello e buono, ma non glielo feci notare.

“Dov’è Zoro?” mi chiese Nami dopo un po’ con l’aria perplessa.

Trattenni un sorrisetto malizioso, quei due ancora non sapevano che li avevo beccati mano nella mano il giorno prima mentre si dirigevano verso l’uscita credendo di non essere visti, così mi strinsi nelle spalle e dietro di me Killer rispondeva che, molto probabilmente, non riusciva più a trovare la via del ritorno, causando l’irritazione della ragazza che partì spedita alla sua ricerca. Sicuramente non l’avremo rivista prima di qualche ora, dato che quello che presto sarebbe diventato il suo ragazzo nel perdersi era un vero e proprio asso.

Mentre ascoltavo gli altri chiacchierare sulle ultime novità e sui risvolti della situazione mi avvicinai al tavolo che stava di fronte a loro, pieno di mazzi di fiori da consegnare a quelli che ancora non erano stati dimessi, come Smoker, Ace e Thatch, afferrando il pacchetto anonimo di caramelle e iniziando a mangiarne una dopo l’altra. Avevano un sapore strano, ma non erano male. Forse qualche gusto appena prodotto sul mercato.

“Il padre di Kidd come sta?”.

“Meglio di tutti. Ieri l’ho trovato fuori a fumare”.

“E Thatch?” chiese Usopp.

“Oh, lui sta magnificamente. Davvero, non credo che esista nessuno più pazzo di lui, nemmeno Penguin!” rispose Killer, lanciandomi un’occhiata scherzosa che ignorai, impegnato com’ero a fissare un punto indefinito alle sue spalle, lungo il corridoio.

Erano passati tre giorni dalla nostra impresa eroica perfettamente riuscita, ferite da fuoco e esplosioni a parte. Killer aveva già avuto il permesso di tornare a casa, come me del resto, ma, dato che ormai io una casa non ce l’avevo più, mi aveva gentilmente proposto di stabilirmi da lui, almeno fino a che le cose non si fossero sistemate. Rufy era ancora in osservazione ma, anche se così non fosse stato, nessuno sarebbe mai riuscito a smuoverlo dalla stanza del fratello, così come Marco, il quale aveva un buon motivo per essere ricoverato. L’avevano tenuto sotto i ferri per due ore buone, ma fortunatamente il proiettile non aveva colpito nessun organo vitale ed era stato facile per i medici rimetterlo come nuovo. Thatch, quel simpatico ragazzone, ormai mio compagno di avventure, sarebbe tornato dalla sua famiglia il giorno seguente con un braccio ingessato e qualche cerotto sul viso, ma niente di così grave. Il buonumore, per esempio, non l’aveva affatto perso. Per quanto riguardava il mio futuro datore di lavoro, perché ero ancora convinto che il mio coraggio bastasse per entrare nelle forze della polizia, aveva ancora qualche giorno da passare all’ospedale, poi l’avrebbero buttato fuori, forse anche a calci, dato che non sembrava voler capire che all’interno della struttura era vietato fumare. La situazione era diventata sopportabile quando sua moglie, Ivan, non gli aveva gettato dalla finestra tutti i pacchetti di sigarette che si era fatto portare dai colleghi.

Kidd l’avevo visto pochissimo. Passava la maggior parte del tempo nella sua stanza e, quando non era lì, si trovava per forza sul terrazzo dell’ultimo piano. Passava lì qualche ora del giorno da solo a pensare e, nonostante fossi certo che l’antipatia che provava nei miei confronti fosse scemata, non avevo cuore di disturbarlo. Non lo faceva nemmeno Killer, a dire il vero, il quale aveva il ruolo di fratello acquisito ormai. Tutti capivamo il suo stato d’animo e lo lasciavamo rispettosamente tranquillo, come era giusto che fosse. Anche perché, personalmente, non avrei saputo cosa dirgli. Non c’erano parole per esprimere il dolore che tutti stavamo provando. La preoccupazione per Trafalgar era una costante fissa. Ognuno cercava di sopportare quella situazione di stallo e incertezza come poteva, non pensandoci, uscendo, scherzando, anche se i sorrisi non erano mai splendidi e del tutto vivaci. Mancava sempre quella luce che li aveva caratterizzati in passato. Law mancava a tutti, a Kidd compreso, e sopportare la sua assenza era via, via sempre più difficile.

In quel momento, però, trovai la soluzione alla depressione. O meglio, me ne resi conto una volta che mi ebbero risvegliato dal trauma, perché la mia mente prese a viaggiare per conto proprio in un’altra dimensione.

Colore. Guarda quanto colore. E questi che sono? Navi? Velieri dei pirati! Oh, perché Nami indossa un costume e Chopper è un procione? No, aspetta, é una renna. Una fottuta renna. Qualcuno mi fermi, potrei morire per le risate! Uh? Questa si che mi è nuova.

“Ehi, Kira-chan, perché indossi una maschera a righe?” chiesi a Killer, il quale mi guardò stranito, sfiorandosi il viso privo di coperture. Ma io non potevo saperlo nelle condizioni in cui mi trovavo.

“Ehm, Penguin, io non sto indossando niente” mi fece notare cauto, scambiandosi occhiate preoccupate con gli altri.

Certo, certo. Come vuoi, pensai, sicuro di avergli risposto e prendendo a girare in tondo. Per un attimo mi sembrò di vedere Doflamingo volare fuori dalla finestra, ma quello si mi risultava impossibile perché il bastardo era morto. Secco. Eliminato.

Un ghigno sadico e abbastanza stupido mi spuntò sulle labbra e, ignorando il confabulare e il grido trattenuto di Chopper, il quale si fiondò sul tavolo, smistando i fiori alla ricerca di qualcosa, mi affacciai sul corridoio con un’espressione ebete, mettendo in bocca un’altra di quelle deliziose caramelle.

Qualcuno mi picchiettò sulla spalla. “Penguin, cosa stai mangiando?” mi sentii chiedere. Ero quasi certo che fosse Usopp, ma non capivo perché era così teso.

“I dolcetti di Chopper. Sono buoni. Com’è che si chiamano?”.

“Cosa gli hai dato? Morfina? LSD? Guarda i suoi occhi!” sbraitò Usopp.

“P-penguin” fece la renna. Che buffo, ora aveva persino un cappello rosa in testa. “D-dove hai messo quelle caramelle?”.

D’un tratto nulla ebbe più senso e il terrore mi attanagliò le viscere. Eravamo tutti in pericolo, dovevamo scappare o saremo morti!

“Fanculo le caramelle! Hai visto il drago nel corridoio?”.

 

* * *

 

La stanza era silenziosa e in penombra, ma piuttosto riscaldata e l’unico rumore che mi faceva compagnia era quello dei macchinari accesi ai quali il ragazzo era costretto a rimanere collegato in modo che le sue condizioni venissero costantemente monitorate.

Un mese e mezzo. Un orribile e maledetto mese e mezzo di attesa era passato. Erano stati tutti dimessi, chi prima e chi dopo. Pure io avevo ottenuto il permesso di potermene tornare a casa, ma non ne avevo voluto sapere. Ero rimasto lì, incapace di abbandonare quelle mura, incapace di tornare a vivere normalmente, quello che avrei dovuto fare. Non potevo andarmene sapendo che il suo caso era in stallo e che ancora non c’era stato alcun risvolto positivo o determinante per la sua condizione.

“Ti odio” mormorai ad un certo punto e per la millesima volta, dando voce ai miei pensieri e sperando inconsciamente che tutto ciò potesse essere utile a qualcosa. “Ti ho odiato dal primo momento in cui mi sei piombato tra i piedi quella dannata sera. A me le persone non piacciono per principio, lo sai, ma tu… Tu, bastardo, appena ti ho visto ho capito che eri il peggio in circolazione. Una piaga, un sfiga. Sempre così sicuro, così calmo, così fottutamente padrone di te stesso. ‘Fanculo, eri insopportabile!”.

Nella camera calò di nuovo il silenzio, opprimente e pesante, disturbato sempre dal bip continuo delle macchine posizionate accanto al lettino e collegate direttamente al suo corpo. Tutto regolare, nessun cambiamento, nessuna svolta positiva o negativa, nulla. Era una schifosissima situazione di transito che durava da troppo per i miei gusti.

“Ti odio” ripetei atono, “Odio tutto di te, a cominciare da quel cazzo di cappello che ti porti sempre appresso! L’ho ritrovato, a proposito, era logoro ma… Forse, diciamo che potrebbe non essere da buttare, ecco… Mi sono assicurato che i tuoi amichetti lo sistemassero. Ma sappi che lo brucerò, prima o poi. E parlando di amici: odio pure loro, dal primo all’ultimo, soprattutto quel nanerottolo che gira attorno a Killer!” precisai, ripensando al momento in cui, prima di salire in ambulanza, mi ero chinato a raccogliere quel copricapo che sempre aveva con sé, macchiato e sporco di sangue. L’avevo affidato a Bepo senza dire una parola e spaventandolo a morte perché gli avevo fatto credere che il suo amico fosse ormai già morto. Alla fine, non senza prima avermi rivolto un’occhiataccia per lo spavento, si era preoccupato di pulirlo, facendolo tornare come nuovo. Si trovava proprio sulla testiera di quel letto d’ospedale.

“Odio il tuo carattere di merda, la tua faccia, quel tuo ghigno sadico che tante volte vorrei cancellarti a suon di pugni”.

Appeso alla parete l’orologio segnava il tempo, aggiungendo minuti, ore, giorni al coma di Trafalgar che, ignaro di quello che gli stava succedendo attorno, non si svegliava. Non apriva gli occhi, non dava segno di ripresa, non faceva niente, non si muoveva. Perché non lottava? Perché non reagiva? Perché non tornava da me?

“E vogliamo parlare di quanto mi sono rotto i coglioni per prepararti da mangiare? Cristo, se hai preso qualche kilo è solo merito mio! Ringraziami almeno” feci sarcastico, rivolgendogli una smorfia critica, “E quando scopavamo? Certo che oltre ad essere uno stronzo facevi pure il prezioso, a parte quando ti ubriacavi. Te l’ho mai detto che sei più simpatico da sbronzo? Sei, come dire, meno insopportabile, più accondiscendente e spari una miriade di stronzate, anche se alcuni discorsi sono parecchio interessanti”.

Non riuscii a trattenere un ghigno divertito, ricordando la notte del mio compleanno quando, totalmente andato, Trafalgar aveva iniziato ad aprire la bocca e a lasciar uscire un sacco di frasi sconnesse, ma abbastanza chiare da poterne interpretare alcune. Tra tutte, una in particolare aveva catturato totalmente la mia attenzione.

“E così io sarei tuo, eh? Aspetta, come l’avevi detto? Oh si: Eustass-ya è mio, solo mio. Che smielato”.

Nonostante la frecciatina lui continuava a dormire, silenzioso, rilassato, lontano, ed io mi sentivo affondare nello sconforto sempre di più. Quanto avevo parlato quei giorni? Quante cose gli avevo raccontato? L’avevo sgridato, avevo urlato, gli avevo chiesto scusa in mille modi diversi, scorbutici e non, e insultato con i peggiori insulti che conoscevo, ma non era servito a nulla, niente sembrava riportarlo alla realtà.

Sospirai, l’ennesimo sospiro abbattuto, e mi passai stancamente le dita fra i capelli, nascondendomi poi il viso tra le mani e puntellando i gomiti sul materasso per sostenermi il capo. Stavo arrivando al limite, me lo sentivo.

“Perché, razza di idiota, perché ti sei spinto a tanto? Per…”. Mi morsi un labbro, “Per me. Non lo meritavo. Al posto tuo avrei dovuto esserci io, non tu e…”.

Un momento. Cos’é questo fischio fastidioso?

“E lo sai che io non ho bisogno dell’aiuto di nessuno. Maledizione, qualcuno ti aveva chiesto niente? Devi sempre fare di testa tua, vero? Dio, se penso che mi sono perfino… Che tu, cazzo, noi…”.

Da dove viene questo casino? Mi sta facendo esplodere il cervello!

Alzai lo sguardo, tentando di capire cosa diavolo stesse succedendo e cosa fosse quel suono che udivo a intermittenza farsi sempre più pressante. Pregai che non si trattasse di una qualche complicazione.

Rimasi in silenzio per pochi istanti, corrucciando la fronte e poi rendendomi conto di quello che stava accadendo, osservando i monitor dei computer e accorgendomi della frequenza cardiaca aumentata. Aveva iniziato a salire proprio quando stavo permettendo a… A quello che mi tenevo dentro di uscire allo scoperto.

Maledetto, bastardo, infido figlio di puttana.

Mi stava prendendo per il culo. Di nuovo, per la precisione. Le sue pulsazioni erano state regolari per tutto quel tempo, quindi mi ero logicamente chiesto a cosa fosse dovuto il loro improvviso aumento. Ero meno intelligente di altri, ma non cieco e così stupido.

Mi alzai dalla sedia per avvicinarmi al ragazzo apparentemente inerme davanti a me, guardandolo dall’alto e chinandomi su di lui in modo da poterlo osservare meglio. Ormai conoscevo le sue fattezze a memoria da quanto l’avevo vegliato.

“Trafalgar” lo chiamai con voce ferma, anche se non riuscii a nascondere del tutto un fremito di emozione e speranza, “Piantala con la tua commedia, lo so che puoi sentirmi, rognosissimo…”.

“N-non essere così tetro, Eustass-ya” sussurrò a bassa voce, respirando profondamente. Per la prima volta fui felice di sentire il mio nome storpiato in quel modo e di vedere il ghigno che gli si dipinse di conseguenza sulle labbra. Poi, quando sollevò le palpebre, restammo a fissarci per diversi minuti. Quelle iridi chiare mi erano mancate in un modo devastante e la marea di sensazioni famigliari che avevano il potere di farmi provare ogni volta che si posavano su di me, anche se con disprezzo, superiorità e irritazione, mi corse lungo il corpo come un brivido. Maledetto, era proprio riuscito a mettere radici nel profondo del mio essere, alla fine.

“Sei in grossi guai” gli feci notare, mettendo subito in chiaro che non avrebbe avuto vita facile nello spiegarmi per filo e per segno cosa aveva creduto di fare da solo con il suo cazzo di piano male organizzato. Soprattutto, doveva farsi perdonare per il suo comportamento nei miei confronti. Oh si, avrebbe dovuto implorarmi in ginocchio, pazienza che si fosse appena svegliato da un coma piuttosto intenso, mica doveva pensare che mi fossi impietosito o rammollito. Le sue condizioni non avrebbero cambiato nulla ed io ero pur sempre Eustass Kidd, ovvero un insensibile menefreghista.

Roteò gli occhi al cielo, alzando con fatica una mano per posare le dita sul mio mento e lasciarle scorrere leggermente, come se si stesse accertando che fossi reale.

“Lo so” mormorò sovrappensiero, aggrottando la fronte e osservandomi più intensamente, “Sei dimagrito, come mai?”.

Bastò un’occhiata seria e diretta per fargli capire perché risultassi più smilzo del solito, non servivano spiegazioni. Solo uno che mi conosceva bene quanto lui avrebbe potuto accorgersene, infatti, preso com’ero stato dal vegliare sulla sua condizione giorno e notte, avevo tralasciato alcuni bisogni primari a detta mia non del tutto necessari come il riposo e i pasti. Pazienza, mi sarei rifatto presto, avevo la pellaccia dura.

“Capisco” annuì, sinceramente dispiaciuto. Poi alzò la testa, guardandomi dritto negli occhi e parlandomi per la prima volta senza menzogna, arroganza, derisione o altro. Fu tremendamente sincero e, maledizione, piacevole in modo disarmante. Avrei potuto abituarmici.

“Mi dispiace di averti fatto preoccupare, Kidd” sussurrò e sul suo viso apparve, finalmente, un sorriso libero, rilassato. Speciale. “Ora sono tornato”.

Lo baciai all’istante, incapace di resistere oltre e temendo di poter iniziare a comportarmi come un moccioso entusiasta da un momento all’altro. Non l’avrei fatto, non me lo sarei mai perdonato, ma almeno a me stesso potevo ammettere che quella era la giornata migliore della mia vita. Non la più felice, sia chiaro, mica mi importava così tanto di lui, e che cazzo. Avevo una reputazione da difendere.

“Piano, mi fa ancora male” si lamentò sommessamente, spostando la mia mano che gli aveva accidentalmente agguantato il pigiama in malo modo.

“Aspetta di arrivare a casa” lo minacciai, riappropriandomi di quelle labbra che tanto avevo sfiorato nella speranza di riuscire a risvegliarlo come per magia, “Non riuscirai a muoverti per mesi”.

 

 

 

 

 

 
Angolo Autrice:
Buonasera ^^ mi schiarisco la voce e mi sistemo il cravattino per essere presentabile e annunciare a tutti, cari, carissimi e meravigliosi e fantastici lettori che… No, questo non è l’ultimo capitolo. Contenti? Bene, perché molto probabilmente il finale arriverà sabato prossimo.
Ora ho lanciato la bomba, mi pareva giusto avvisarvi anche se non ho il capitolo pronto e quindi la parola fine non l’ho ancora messa, per evitare di farvi rimanere troppo male quando la cosa accadrà. Perché, insomma, un po’ vi siete affezionati ai nostri protagonisti, vero? Potete anche schifare me, ovvio, ma i nostri ragazzi come si può non amarli?
Ho appena realizzato che ho quasi concluso una long, concedetemi un momento di silenzio perché mi sto sentendo male. Non sembra, ma ci ho speso mezzo anno e, beh, vado avanti, non sono brava con i discorsi.
Allora. Come si poteva non far svegliare Ace? Ho potuto notare in questi mesi che il ragazzo ha un sacco di fan. Sul serio, si contende il primo posto con Law secondo me dato che il loro nome è ovunque. Anche se, personalmente, io punto più per Kidd… E Marco.
Va bene, va bene, state buone, a me piacciono quei maledetti capelli assurdamente insulsi e quella faccia che ti guarda come per dire:’Adesso vedi che ti faccio’. E i capelli rossi di Eustass? Parliamone, sono una droga.
Ace si sveglia e scopre che no, non è senza un braccio, semplicemente il suo caro fratellino ha scelto di addormentarsi sopra ad esso nell’attesa di buone notizie. E anche qualcun altro, a quanto pare, stava attendendo il suo risveglio. Immaginatevi il loro scambio di battute tipo Alex e Martin di Madagascar, non correvano su una spiaggia, ma l’effetto era più o meno quello, LOL.
Una bella ramanzina ci stava, ma Marco era solo preoccupato, tanto aggiungerei. E’ un ragazzo innamorato, dopotutto. E cucciolo Ace che si accorge che anche lui è stato ferito e poi si coccolano e… Arriva qualcuno sul più bello.
Chi arriva? CHI ARRIVA? Ciao Thatch, hai portato il babbo da Ace? Ma si, ma caro ** non vi lascerò senza incontro, promesso, arriverà nel prossimo capitolo credo, anche perché sono curiosa anche io di vedere cosa ne viene fuori :D
Ben arrivato Penguin, tu e la tua sedia a rotelle siete sempre in mezzo! Tra te e Killer no so chi sia peggio, anche se l’idea della gara è venuta a quel briccone di Thatch, adorabile e splendido ragazzo ^^ (davvero, non so perché, ma ho visto una puntata di Cacciatori di Fantasmi e ho voluto far giocare i ragazzi a nascondino nell’obitorio, va bene?).
E bravo Chopper con le medicine, ah no, aspettate, erano caramelle speciali ** morfina più che altro e Penguin mica poteva saperlo, a lui bastava mangiare qualcosa, pazienza che poi finisse per collassare e vedere i draghi. Ora ditemi che il titolo è stupido, fora, fatelo, lo so, ma non ho potuto resistere. Mi immagino Killer tutto preoccupato che gli chiede dove sono le caramelle e Penguin che, allarmato, gli salta quasi in braccio credendo di vedere cose assurde. Io, ecco, basta.
Fatemi gongolare adesso perché è il turno di Kidd :3
No, lui non è preoccupato; non ha ripulito il cappello di Law; non è felice quando si sveglia (LAW SI E’ SVEGLIATO!); non gliene frega proprio niente eh.
Insomma, qui vengono un po’ fuori i pensieri di Eustass nei confronti del ragazzo che ha conosciuto mesi addietro. Dice di odiarlo, ma con lui ha passato anche bei momenti (compleanno, Kidd se lo fa SOLO Law, sto rotolando **), oh, maledizione, sono l’amore, punto.
Spero di aver reso bene questo passaggio, ma lo rispiego lo stesso per evitare fraintendimenti. Dunque: mentre Kidd parla avverte un rumore, il bip dei macchinari. Avete presente che ci sono i computer/monitor che controllano il battito cardiaco? Il suono si fa sempre più veloce se il battito aumenta. Ecco, lui è stato disturbato da ciò proprio quando stava per confessare qual cosina a Law, il quale, mi spiace per lui, si è lasciato prendere dall’emozione e diciamo che il cuore ha iniziato a battergli un po’ più forte. Reazione normale, no?
Beh, ovviamente il bastardo si era svegliato in quel lasso di tempo, ma aveva preferito starsene zitto, lo spiegherò prossimamente, ma Eustass se ne è accorto e poi niente, il resto è chiaro.
Gente, oggi niente spoiler perché non ho nulla di pronto. Sono una donna orribile, lo so, sono in ritardo con le altre due fic e chiedo perdono ma sto adocchiando corsi per l’università e devo fare dei giri assurdi. Prometto che in settimana arriverà tutto e risponderò con tanto di fiocchi, regali e dolci a tutte le anime pie che hanno recensito in precedenza e che recensiranno se avranno voglia di farlo. Non passate inosservati, credetemi, e apprezzo ogni singola parola che leggo e ne faccio tesoro, soprattutto perché siete gentilissimi, anche se mi avete minacciata, deheh ^^
Che dire, buona serata a tutti, buon fine settimana e al prossimo sabato con, ahimé, l’ultimo capitolo dove vi farò un monumento di ringraziamenti che non saranno comunque mai abbastanza.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi mando un abbraccione grandissimo. Restate sintonizzati.
See ya,
Ace.

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Capitolo 27
*** Epilogo. Un bel modo per perdersi. ***


 

Epilogo.

Un bel modo per perdersi.

 

“Ehi, piccoletto, questa roba dove la metto?” mi chiese il biondo, poggiando a terra una scatola piena di cianfrusaglie da cui spuntava una lampada rossa. In quel momento, però, fu altro ad attirare la mia attenzione.

“Quante volte devo dirti di non chiamarmi così? Sei insopportabile! E togliti quella camicia, è un obbrobrio”.

“Uh? Davvero non ti piace? Io  credevo di si” mormorò il ragazzo, guardandosi stranito le maniche dell’indumento scuro a pois.

“Non te l’ho mai detto solo perché prima dovevo conquistarti. Mica sono così stupido”. Insomma, già era stato difficile fargli capire che gli sbavavo dietro, di certo non avevo potuto dirgli chiaramente quello che pensavo dei suoi vestiti e giocarmi così l’opportunità di farmelo amico.

“Perché non me la togli tu?”.

“E poi, diciamoci la verità, è fuori moda ormai e anche… Aspetta, che?” sbottai, voltandomi a guardarlo sorpreso, vedendolo sghignazzare come se niente fosse e con un sorrisetto furbo sulle labbra.

“Niente, porto lo scatolone in garage”.

“Killer” mormorai, incrociando le braccia dietro la testa e seguendolo con calma, “Sai che quella camicia adesso te la strappo, vero?”.

 

* * *

 

Teenage dreams in a teenage circus running around like a clown on purpose.  

 

“Beh, ora che è finita la scuola che faremo? Insomma, io non voglio perdervi di vista” mormorò Chopper abbattuto, sostenuto da Brook che sospirò tristemente.

Li guardai perplesso, grattandomi la testa e scompigliandomi inevitabilmente i capelli che mio nonno aveva disperatamente cercato di pettinarmi in vista dell’esame orale che avevo appena superato. Quante risate mi ero fatto con i professori e i commissari esterni. Di certo avrebbero sentito la mia mancanza, poco ma sicuro.

“Possiamo sempre tenerci in contatto” fece sommessamente Usopp, sospirando dispiaciuto.

Ma sono tutti ammattiti? Qui ci vuole della carne, ecco cosa.

“Ragazzi, ma che diavolo state dicendo?” sbottai sorridendo e alzandomi in piedi, prendendo Zoro sottobraccio e acchiappando anche Sanji. “Noi non ci separeremo affatto!” aggiunsi, facendo cenno agli altri di avvicinarsi e di unirsi all’abbraccio.

“Rufy, molti di noi prenderanno strade diverse, lo capisci questo, vero?” mi fece notare Nami, mordendosi un labbro e guardandomi intensamente.

“E allora? chiesi con un’alzata di spalle e senza perdere il buonumore, “Io andrò all’università, ma ciò non significa che non potremo più vederci. Siamo sempre stati uniti e lo saremo ancora. E poi è così che fanno gli amici: non si abbandonano mai, no?”.

 

Who gives a damn about the family you come from? No givin' up when you're young and you want some.

 

I ragazzi stettero in silenzio per un po’, ognuno perso nei propri pensieri, quando alla fine Zoro sghignazzò.

“Hai ragione” ammise, “Per quanto mi riguarda io ci sarò sempre”.

“Pure io, non sia mai che mi lasci superare da te” affermò Sanji convinto, accendendosi una sigaretta e ignorando l’insulto del suo compagno.

“Beh, non vedo come potreste fare senza di me, il leader di tutti voi” si vantò Usopp e Chopper sorrise felice, mentre Brook rifletteva sulla possibilità di riuscire un giorno a vedere le mutande di una ragazza.

Sapevo che alla fine avrebbero capito. Quello non era un addio, ma l’inizio di un qualcosa di nuovo e tutti noi l’avremmo vissuto come al solito: insieme.

“Siete i migliori, ragazzi!”.

 

We are not what you think we are, we are golden, we are golden. 

 

* * *

 

I don’t want this moment to ever end.

 

“Non è andata così male”.

“A cosa ti riferisci?”.

“All’incontro con il babbo. E’ stato indolore, no?”.

Mi puntellai con i gomiti sul materasso, fissando in modo truce il ragazzo biondo accanto a me, stravaccato in modo rilassato per tutta la lunghezza del letto e con la testa abbandonata sul cuscino. “Vorrai scherzare” iniziai a dire, ignorandolo quando lo vidi alzare gli occhi al cielo, “E’ stato il momento più imbarazzante della mia vita! Tuo fratello, poi, poteva risparmiarsi quell’uscita sulla cucina sommersa di cibo e su noi due avvinghiati a terra, non ti pare?”.

“Andiamo Ace, a parte quello il resto è andato abbastanza bene” insisté l’altro, trattenendo un sorriso divertito che mi fece imbronciare ulteriormente.

“Se per ‘abbastanza bene’ intendi l’arrivo di mio nonno con appresso Rufy e l’inevitabile incontro tra i due vecchi, beh, mi spiace ripeterti che no, è stato un disastro!”.

“Non è un buon motivo per continuare a volerlo evitare. Sono passati tre mesi ormai e prima o poi dovrai venire a cena a casa mia”.

“Ci sono già a casa tua” ribattei sarcastico.

“Quella del babbo” rispose Marco con lo stesso tono di voce, sospirando l’attimo dopo e poggiandomi una mano fra i capelli, scompigliandoli gentilmente.

“Non puoi fare un tentativo? Per me?” sussurrò improvvisamente ad un soffio dal mio viso e con gli occhi chiari fissi nei miei, così limpidi e disarmanti che mi ritrovai spiazzato completamente e col cuore in gola.

 

Where everything’s nothing without you. I’ll wait here forever just to, to see you smile cause it’s true.

 

“Stai giocando sporco” gli feci notare, voltandomi a pancia in su ed evitando così di restare ammaliato.

Lo sentii ridere, “Solo un po’” ammise poi, facendosi serio e pensieroso mentre a me stava venendo stranamente sonno. “Ace?”.

“Mh?”. Non poteva starsene zitto per cinque minuti? “Tanto è inutile, non ci vengo a cena da te con la tua psicopatica famigl…”.

“Perché non vieni a vivere qui?”.

Calò il silenzio e mi sentii mancare l’aria tutto d’un tratto. Non avevo più sonno, anzi ero sveglissimo e di certo non mi ero sognato quello che Marco aveva appena detto.

Lo guardai incredulo e sorpreso, cercando nel frattempo di tenere a bada il battito cardiaco accelerato all’inverosimile, tanto che per un attimo credetti di ritrovarmelo tra le mani.

“Davvero?” soffiai vicinissimo alle sue labbra.

Annuì lentamente, le mani già fra i miei capelli. “Si”.

 

I am nothing without you.

 

* * *

 

Now I’ve got nothing left to lose, you take your time to choose.

 

Anche se non l’avrei mai ammesso ad anima viva e nemmeno sotto tortura, sbattere quel bastardo di Trafalgar contro il muro per poi azzannargli le labbra, la gola, il collo o qualsiasi altro lembo di pelle e sentirlo trattenere inutilmente il piacere che ciò gli provocava mi mandava fuori di testa.

“Perché non me lo dici ancora?” gli chiesi, sfottendolo e sapendo che avrebbe capito esattamente dove volevo andare a parare. Infatti non passò molto prima che mi rivolgesse un’occhiata micidiale che avrebbe ucciso all’istante un debole di cuore.

“Vaffanculo Eustass-ya. Vaffanculo!” disse seccato, cercando di allontanarmi e di sfuggire alla mia stretta, senza successo. Era così divertente averlo in pugno una volta tanto e, finalmente, potevo vendicarmi di tutte le battutine e frecciatine subite in quei mesi, tenendo saldamente il coltello dalla parte del manico e intenzionato a continuare il più a lungo possibile con quella storia.

“Ieri sera non sembravi così scontroso, al contrario” insistei ghignando e godendomi il fastidio sulla sua faccia. Gli rodeva parecchio, a quanto pareva.

“Ero ubriaco, quante volte devo ripetertelo? Stronzo”.

“A quanto are l’alcool ti gioca davvero brutti scherzi. Devi ubriacarti più spesso allora”.

La sera precedente avevo avuto conferma che quando quel moccioso si ubriacava fisso perdeva del tutto ogni inibizione e il suo livello di stronzaggine si abbassava notevolmente, rendendolo meno aggressivo, meno sapiente e, soprattutto, dannatamente sincero. Era già successo una volta e avevo già avuto modo di farglielo notare, ma non avrei mai immaginato che si lasciasse mettere nel sacco persino una seconda! In futuro nel suo cibo e nelle sue bevande avrei di sicuro aggiunto grosse quantità di liquori o alcolici che fossero. Inoltre, oltre all’annullamento dei suoi difetti, cosa a me favorevole, Law, quando era ubriaco marcio, diventava stupidamente divertente. Per esempio aveva avuto il coraggio di partecipare al karaoke assieme ai più deficienti della compagnia che avevano accolto in casa per festeggiare la quasi imminente fine dell’estate. Ed era pure intonato!

Le risate che mi ero fatto non si potevano descrivere, tantomeno la sua faccia tutta concentrata nel seguire il testo e intonare la voce correttamente. In suo favore potevo dire che le canzoni che aveva scelto, almeno quello, erano di buon gusto e non stronzate commerciali che spopolavano in giro in quel periodo. Ad ogni modo, niente l’aveva salvato dal venire ripreso durante tutta la sua  esibizione.

“Me la pagherai, Eustass, giuro che me la pagherai” minacciò, ricambiando un bacio particolarmente furente con un morso sulle labbra. Come al solito non voleva permettermi di condurre il gioco e ammettere che comandavo io, anche se ogni occasione era buona per ripetermi che lui non avrebbe mai preso ordini da nessuno.

“Certo, certo” lo assecondai con poca convinzione, lasciando vagare le mani sulla sua schiena bollente e sentendo la pelle rabbrividire a contatto con la mia fredda. La maglia che indossava volò via da qualche parte nella stanza e poco dopo venne subito seguita dai pantaloni di entrambi.

“Proprio non ti ricordi quello che hai detto?”.

Per tutta risposta mi graffiò le spalle mentre una risata si faceva strada dentro di me, facendolo irritare ulteriormente, tanto che dovetti immobilizzargli le braccia per impedirgli di sgattaiolare via e punire la mia ironia lasciandomi andare in bianco. Non gli avrei permesso più di usare quel trucchetto con me, era sleale e maledettamente rognoso per quanto mi riguardava. Vendicarmi, quindi, era un mio diritto e niente e nessuno mi avrebbe fermato, nemmeno le sue minacce di morte e sofferenti torture.

“Hai detto proprio così: ‘Eustass-ya, mi togli il respiro’. Che sdolcinato”.

 

I can tell you now without a trace of fear that my love will be forever and if we die, we’ll die together.


 “Bastardo” sussurrò prima che gli tappassi la bocca con un bacio famelico. Dopotutto, me l’aveva detto chiaramente che tutto quello gli piaceva. Anche se con lui era sempre una gara per la supremazia, anche se ogni cosa che facevamo era una sfida a chi la faceva meglio, anche se cercavamo sempre di prevalere l’uno sull’altro e, nonostante la sfilza infinita e colorita di insulti che non mancavamo mai di rivolgerci, Trafalgar non mi dava mai un motivo per mollare tutto, mandarlo a fare in culo e andarmene. E, di certo, non avrei nemmeno permesso che accadesse il contrario.

“Tieni bene a mente questo” dissi serio e determinato, afferrandolo saldamente per i fianchi con una mano e obbligandolo a guardarmi con l’altra, “Solo io posso guardarti in questo modo; solo io posso toccarti così”. Un brivido gli percorse la schiena e fece si che si mordesse un labbro quando con le mani scesi più giù. “E sempre e solo io posso baciarti in questo modo”.

Non vi fu risposta mentre con forza mi avventavo su di lui, tranne che una stretta maggiore sulle mie spalle e un sospiro trattenuto troppo a lungo quando mi adagiai del tutto sopra di lui.

“E nessuno ti può togliere il respiro come faccio io” conclusi, continuando quello che avevo iniziato, ignorando completamente il ghigno che si dipinse sul suo volto. Se solo avessi guardato più attentamente mi sarei accorto che si trattava nientemeno che di un piccolo, innocente sorriso e che, forse, non era necessario l’alcool per far parlare uno come Trafalgar.

 

Well I, I said never cause our love will be forever.

 

* * *

 

Dopo circa sette mesi dall’incidente le cose si erano piuttosto stabilizzate in modo positivo. Tutto era tornato nella norma, in un certo senso.

Il tanto premiato e ammirato capo della polizia era ritornato a svolgere il suo lavoro con felicità e buoni propositi. Alla fine non era stato poi così difficile per lui infinocchiare i suoi superiori, la stampa, i giornalisti e il mondo intero affermando che era stato lui a mettere fuori gioco quel delinquente internazionale di Donquixote Doflamingo. La sua storia non faceva acqua da nessuna parte, per i colleghi lui era arrivato sul posto giusto in tempo per agire prima che l’uomo uccidesse suo figlio. Cosa ci facesse in quel luogo la sua prole non l’aveva spiegato e aveva tenuto ben chiusa la bocca, ma era bastato come motivazione per giustificare il suo gesto estremo nei confronti del ricercato. Aveva provveduto a far sparire impronte digitali e pistola utilizzata dal vero artefice degli eventi per evitare inutili e infiniti processi e una vita mai tranquilla, così i guai con la legge erano stati archiviati e finiti a prendere polvere con la documentazione dell’accaduto e un lungo rapporto che sarebbe stato dimenticato negli archivi della stazione di polizia.

Da quell’inverno Smoker aveva ricevuto un aumento ed era passato di grado. A detta di sua moglie poteva andare in pensione in anticipo e godersi del meritato riposo, ma nessuno era convinto che il suo adorato marito avrebbe accettato l’idea. Correva voce che temesse di più la Grande Ivan che i criminali a piede libero e armati fino ai denti. Alla dolce consorte, inoltre, era sfuggito un particolare che aveva fatto accapponare la pelle alla maggior parte della nostra compagnia, insomma, chi l’avrebbe sopportata la versione in miniatura e con il pannolino di Eustass Kidd?

Per quanto riguardava il resto di adolescenti scalmanati avevano tutti passato gli esami di maturità, chi con voti eccellenti, chi era riuscito ad uscire baciato dalla fortuna, e chi dalla scuola l’avevano proprio buttato fuori a calci per non doverlo rivedere mai più. Felici e allegri come se fosse stato perennemente Pasqua o Natale, quei ragazzini si erano adoperati per organizzare un’estate degna di nota e, a detta loro, indimenticabile e irripetibile. Erano liberi dallo studio e avevano avuto tutta l’intenzione di spassarsela, riuscendo nel loro intento alla fine. Quasi ogni settimana una gita al mare era stata d’obbligo e qualcosa mi diceva che non avrei mai dimenticato Rufy con il salvagente e le acrobazie di Kidd con la tavola da surf. A dire la verità erano state più le volte che aveva rischiato di annegare che quelle in cui era stato in piedi e in equilibrio. Per non parlare dei restanti componenti di quella nostra sottospecie di ciurma sgangherata. Ancora non mi era chiaro come Usopp fosse finito per rimanere appeso ad un trampolino, tremante come una foglia per l’altezza e di come quel cretino di Penguin avesse ingaggiato una rissa con dei tizi palestrati e gonfi di steroidi. Certo, li avevamo spediti all’ospedale, ma ci eravamo anche beccati una multa salata. Fortuna che in commissariato ormai ci conoscevano tutti. Per quale motivo, poi, Brook fosse finito in una spiaggia di nudisti con il povero Chopper appresso ancora non era chiaro a nessuno. Stando a sentire loro si erano persi seguendo Zoro.

 

I, I can’t get this memories out of my mind. And some kind of madness has started to evolve.

 

Se me lo chiedevano, però, io continuavo sempre a negare di avere foto e negativi di tutta l’estate appena trascorsa nascosti al sicuro nella mia stanza dentro l’ultimo cassetto del mio comodino. In mano, praticamente, avevo un sacco di armi da poter usare a mio favore come ricatto.

A proposito di stanze, da una settimana se ne era liberata una nel nostro appartamento e qualcosa mi dava modo di credere che, molto presto, se ne sarebbe liberata un’altra. Peccato che quella non fosse per niente una bella notizia dato che il carissimo fratellino del mio amico Ace aveva dichiarato di volersi trasferire da noi, visto e considerato che, per qualche ignota ragione, si era iscritto all’università come altri suoi compagni, tra cui Nami e Sanji, sebbene in facoltà diverse. Quando me l’aveva detto ero stato a un passo dal volerlo sopprimere, ma poi mi ero ricordato che avrei potuto vivisezionarlo nel sonno. Quello si sarebbe stato esilarante e dannatamente divertente.

Bepo e Penguin avevano fatto un sacco di storie quando Ace aveva annunciato, ancora mesi addietro, che, forse, c’era la possibilità che se ne andasse, e a nulla erano valsi i loro tentativi di fargli cambiare idea. A mio avviso potevano anche lamentarsi meno, insomma, mica spariva dalla circolazione e l’avrebbero rivisto regolarmente tutte le santissime settimane quando sarebbe venuto a controllare come se la passava il suo fratellino insopportabile.

Ero certo, però, che anche Penguin avrebbe fatto le valigie di lì a poco. Tra lui e Killer sembrava essere scoppiata non la scintilla, ma un vero e proprio incendio. Ancora avevo gli incubi di notte da quando gli avevo beccati a scopare in salotto. Dio, quella scena non me la sarei mai dimenticata, soprattutto per le loro facce rosse come pomodori maturi e imbarazzate davanti al mio disinteresse. Forse avrei potuto evitare di mettermi in cucina a studiare, ma non si erano trattenuti nella stessa stanza a lungo ed erano subito scomparsi in camera del mio coinquilino. Potevo davvero dire di averne viste di tutti i colori.

Stronzaggine a parte, sotto, sotto ero contento per Penguin. Era un insopportabile idiota, tanto infantile quanto intelligente, rumoroso e caratterialmente instabile, ma era un bravo ragazzo e uno sempre allegro, altruista e, beh, coinvolgente quindi lui meritava davvero di avere il suo momento di gloria, di essere felice e il mio intuito mi diceva che Killer-ya con la sua infinita pazienza sarebbe stato il compagno ideale. Finalmente, aggiungerei anche, era ora che qualcuno lo mettesse sotto, in tutti i sensi.

Bepo era sempre Bepo. Protettivo, educato e docile, un orsacchiotto adorabile avrebbe detto Nami, ma personalmente non sopportavo soprannomi del genere e solo pensarli mi veniva il voltastomaco. Dopo il mio incidente era andato vicino all’esaurimento tanto era stato preoccupato, ma poi tutto era andato per il meglio e lui aveva recuperato la sua solita calma e stabilità, continuando con il karate e smettendo anche di tenermi sotto controllo durante i pasti. In effetti non c’era più bisogno che lo facesse, avevo smesso di mangiare quando avevo tempo e le ossa avevano smesso di sbucarmi dalla pelle. Era come se l’intervento che avevo subito mi avesse rimesso a nuovo, anche se sapevo che il merito non era affatto dei medici e delle medicine, no, ma a quello preferivo pensarci il meno possibile. L’argomento aveva uno strano effetto su di me, mi faceva sorridere senza motivo e non mi piaceva apparire stupido.

Ciò che invece mi faceva divertire in modico sadico e leggermente bastardo era il fatto che, una volta al mese, quella povera anima pia di Ace dovesse presenziare a delle insulse e assurde cene di famiglia a casa del suo fidanzato. Il poveretto cercava sempre una scusa per filarsela ma, se solo provava a rintanarsi in camera, puntualmente una mezz’ora prima dell’inizio della serata un gruppo di ragazzi troppo cresciuti, ma ancora infantili come dei ragazzini, faceva incursione in appartamento, prelevandolo dalla sua stanza e trascinandolo letteralmente fuori, tirandolo per le braccia o le gambe. Una volta persino per le mutande per il semplice motivo che aveva appena finito di farsi una doccia. Quando poi tornava a casa era devastato e disperato. A detta sua il rispettabile sindaco di Sabaody era un vero e proprio mostro. Non perché fosse cattivo o contrario alla sua relazione con il figlio, Marco, assolutamente, ma, stando a quello che mi aveva raccontato, l’uomo serbava la speranza di vedere i due sposati il prima possibile, non sapendo che i piani dei due interessati erano parecchio diversi dai suoi. Anche se all’apparenza fingevo che non me ne importasse nulla della sua sofferenza, dentro di me godevo per il divertimento di tutta la faccenda, sperando di poter un giorno stringere la mano al famoso Edward Newgate.

A parte il mio sadismo, anche a Ace le cose erano andate per il verso giusto. Ormai era ritenuto uno dei tre eroi della compagnia a tutti gli effetti e non l’avevo mai visto tanto allegro e solare come negli ultimi mesi. Parte del suo entusiasmo era Marco, il quale, anche se poteva risultare apatico o prossimo all’addormentarsi, era abbastanza stupido e coraggioso da tenere testa ad una banda di sbandati come noi e la famiglia del suo ragazzo. Almeno, questo era quello che avevo pensato prima di conoscere i suoi di fratelli. Erano degli animali, punto. Solo allora avevo capito che sopportare Ace, Rufy e il vecchio Garp per lui era una passeggiata.

Seriamente, non riuscivo a capacitarmi di come i membri della famiglia di Barbabianca potessero essere tanto, come dire, pazzi. Il peggiore di tutti era Thatch, senza ombra di dubbio. L’avevo odiato all’inizio per come aveva avuto la faccia tosta di zittirmi, ma alla fine era stato proprio per quel motivo che allora, ogni volta che ci capita l’occasione, non perdevamo l’opportunità di far passare un brutto quarto d’ora a uno dei nostri amici con scherzi malvagi, battutine pungenti e trovate subdole. Certo, aveva le fattezze di un adulto, ma il cervello non superava quello di un bimbo di cinque anni.

In poche parole stavano tutti incredibilmente bene.

“’Fanculo!”.

Tutti, eccetto Eustass Kidd.

 

And I, I tried so hard to let you go, but some kind of madness is swallowing me whole, yeh.

 

“Che ti prende adesso, Eustass-ya?” chiesi ghignando, osservando come, accanto a me, quella testa rossa camminasse svogliata verso l’università, borbottando frasi sconnesse e mezzi insulti che non afferrai del tutto.

Alla fine ero riuscito a convincerlo a riprendere gli studi senza troppe difficoltà ed era stato con sorpresa che me l’ero ritrovato circa due settimane prima davanti la porta di casa tutto trafelato, sentendomi dare l’attimo dopo la notizia che aveva passato l’esame di ammissione. Quell’idiota ce l’aveva fatta a quanto pareva e così, in quel momento, mi ritrovavo a dirigermi verso la mia facoltà con lui al mio fianco e la cosa mi rendeva, insomma, mi faceva sentire strano in senso positivo.

“Dobbiamo proprio farlo?” sbuffò infastidito, scoccandomi un’occhiataccia dall’alto dei suoi due metri.

“Certo, hai perso la scommessa” gli ricordai, stringendo di conseguenza la mano nella sua e notando per un istante un lieve rossore sulle sue guance di solito pallide. Ma com’era tenero a volte.

Grugnì stizzito qualche bestemmia e continuò ad avanzare, fulminando ogni passante che si soffermava un po’ troppo con lo sguardo sui nostri palmi intrecciati, rabbrividendo l’attimo dopo non appena si accorgeva di essere entrato nella lista nera di quell’energumeno esaltato.

“Calmati Eustass-ya, siamo in un paese libero” mi premurai di fargli notare, divertendomi un mondo a vederlo così in imbarazzo.

“Allora posso anche ammazzarti liberamente?” ribatté acido, dandomi una leggera spallata che mi fece sorridere ulteriormente. Ancora non riuscivo a capacitarmi del fatto che quell’idiota riuscisse a influire così tanto sul mio umore, insomma, era un che di impossibile, eppure succedeva, ci riusciva, mi faceva sentire bene, tranquillo, senza pensieri.

 

And when I look back, at all the crazy fights we have, like some kind of madness was taking control, yeh.

 

Era piombato nella mia vita come una furia, sconvolgendomi l’esistenza da cima a fondo e facendomi incazzare come nessuno era mai riuscito. Certo, all’inizio era stato odio e antipatia a prima vista, ma erano bastati un paio di bicchieri di troppo per cambiare le carte in tavola. Non che il nostro rapporto dopo fosse diventato tutto rose e fiori, anzi, anche in quel momento ci stavamo mandando bellamente al diavolo, ma almeno riuscivamo a stare nello stesso posto senza prenderci a pugni. O meglio, la maggior parte delle volte andava così.

“Dopo aver rischiato tanto per salvarmi vorresti uccidermi?” lo punzecchiai, notando il suo viso assumere diverse tonalità di colore, dalla rabbia alla vergogna.

Dopo l’incidente Rufy aveva preteso che gli raccontassimo tutta la storia e, alla fine, dopo avergli spiegato come Kidd avesse fatto la sua entrata e avesse tenuto a bada un criminale internazionale, il piccoletto si era voltato a guardarlo con due occhioni grandi e pieni di ammirazione, correndogli incontro l’istante successivo e soffocandolo in una stretta ferrea, dichiarandolo un eroe come il suo fratellone. A detta sua era stato ammirevole e coraggioso il suo comportamento nei miei confronti. Non si era, però, dimenticato nemmeno di me e, anche se ero riuscito ad evitare un suo abbraccio, non mi ero risparmiato il titolo di eroe pure io, visto che tutti sembravano condividere l’idea che premere il grilletto fosse stato un atto di sincero, come dire…

Che schifo, non posso pensarci.

“Mi pare di aver sempre detto che se mai dovessi morire accadrebbe per mano mia” chiarì per l’ennesima volta, appunto. A volte mi fermavo a riflettere su quelle parole. Chissà, magari ci credeva davvero e sarebbe andata a finire sul serio in quel modo. Dopotutto tre pallottole non erano bastate a farmi fuori e lui aveva ancora la possibilità per far avverare quella sua velata minaccia.

Sospirai beato, guardandolo di sottecchi e fermandomi in mezzo al marciapiede, attirando la sua attenzione.

“Uh? Che hai adesso?” si accigliò. La mano sempre stretta nella mia.

Mi strinsi nelle spalle, guardando il contrasto della mia pelle con la sua, leggermente più chiara e scacciando il pensiero smielato che per un attimo mi passò per la testa.

“Volevo ringraziarti” iniziai a dire, senza guardarlo in faccia e sentendo il petto alleggerirsi con quella confessione che mi ero portato dentro per quei mesi, “Non eri costretto ad aiutarmi, non avresti nemmeno dovuto farlo, ma…”.

Tutto quello che avevo fatto in passato era stato dettato dal bisogno di saperlo al sicuro, di avere la certezza che a lui e a tutti gli altri non sarebbe accaduto nulla di male. Sacrificare la mia vita mi era sembrato un prezzo adatto per salvare le loro e non mi aveva spaventato minimamente l’idea di morire. Quello che più mi era dispiaciuto era stata la consapevolezza che non avrei più potuto vivere con loro un’esistenza normale, fatta di sciocchezze e buonumore. In un attimo di debolezza avevo tanto voluto che qualcuno mi fosse venuto ad aiutare.

 

Capture me, trust in your dream, come on and rescue me. Yes, I know, I can’t move on.

 

“Ma poi sei arrivato” mormorai, guardandolo negli occhi e lasciando che un piccolo sorriso facesse capolino sulle mie labbra, “Grazie, Kidd”.

Rimase a fissarmi in silenzio, lo sguardo intrecciato al mio e l’espressione rilassata, libera da qualsiasi tensione o preoccupazione. I capelli rossi spettinati e un nuovo paio di occhialoni poggiati sulla fronte. I pantaloni strappati, uno zaino con le borchie e qualche scritta minacciosa fatta con l’indelebile, una camicia a quadri e, ne ero certo, una chiave inglese nella tasca posteriore. Quello era Eustass Kidd, un esaltato attaccabrighe capace di cambiare la vita delle persone, anche di quelle peggiori come aveva fatto con me.

Ed era mio.

“Faremo tardi” disse semplicemente dopo uno scambio di battute silenziose che erano valse più di mille e inutili parole, riprendendo a camminare e tirandomi con uno strattone verso di lui per passarmi un braccio intorno alle spalle.

“Stamattina non avevi detto che ti vergognavi?” gli feci notare, senza però ghignare sadicamente come mio solito.

“Sta un po’ zitto, razza di piaga”.

Tesoro, non essere così intrattabile” feci, alzando la voce giusto quando una coppia di vecchietti ci passò di fianco, guardandoci allibiti.

La parete dell’edificio lì vicino accolse piuttosto duramente la mia schiena quando Kidd mi ci sbatté contro, ringhiando come un animale inferocito.

“Sei un insopportabile stronzo, Trafalgar” sbottò adirato e facendomi alzare gli occhi al cielo. Tutto quel tempo passato assieme e ancora non aveva capito un bel niente.

“Eustass-ya, lo sai che il sentimento è reciproco?” cantilenai sogghignando e lasciandomi baciare l’istante dopo.

Dopotutto era un bel modo per perdersi: perdersi uno nelle braccia dell’altro.

 

Baby, you’re too head-strong. Our love is… Madness.

 

The fucking end.

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice:
per il finale mi sembrava giusto buttarci qualche canzone, no? ^^
Ciao a tutti :D ed eccoci qui, alla fine, chi l’avrebbe mai detto? Sapete, a me piace tanto scrivere, davvero, mi rilassa e mi permette di entrare in un mondo tutto diverso dalla realtà, i cosiddetti viaggi mentali. No, non mi drogo, si tratta solo di fantasia che, secondo me, non guasta mai. Insomma, quello che volevo dire è che bisogna festeggiare! Ho scritto così tante cose, tutte salvate nel pc, tutte diverse, tutte infinite e nessuna conclusa. Nessuna, a parte questa. Non so descrivervi l’emozione di stamattina quando ho scritto quella tanto agognata parola fine. Mi sono sentita soddisfatta, ecco, e spero vivamente di non aver deluso nessuno perché se sono arrivata fino a qui è solo merito vostro e del vostro sostegno, ma ai ringraziamenti arriverò dopo.
Allora, abbiamo visto qualche stralcio di vita quotidiana dei ragazzi e di come le cose si sono risolte dopo l’incidente. Mi sembrano tutti abbastanza felici, no? Beh, non poteva essere altrimenti dato che io adoro il lieto fine, inoltre mi pare che ne abbiano passate abbastanza per non regalare loro un futuro tranquillo, più o meno, dipende dal carattere :D
Penguin e Killer se la passano alla grande, vestiti fuori moda a parte, e vanno parecchio d’accordo. Qualcosa mi dice che siano andati oltre agli appuntamenti e alle coccole, chi lo sa ^^ personalmente mi piacciono entrambi questi personaggi, soprattutto la pacatezza di Killer. Sul serio, quando riguardo le puntate all’Arcipelago Sabaody scoppio a ridere davanti a quella maschera apatica, poker face diciamo. Non si scompone per niente quell’uomo. Un gran figo, permettetemelo. Penguin, invece, mi piace allo stesso modo. Ho letto parecchio su di lui e sotto punti di vista differenti, tanto che non credo di aver ancora afferrato al meglio il suo carattere, ma io lo immagino vivace e pieno di vita, spero quindi che vi siano piaciuti in questo contesto.
Ho voluto aggiungere anche il piccolo Rufy e la sua compagnia perché, anche se sono stati per la maggior parte personaggi di sfondo, mi pareva giusto lasciare loro uno spazietto, giusto per ricordare quanto siano uniti e quanto tengano alla loro amicizia. Anche dopo la maturità non si separeranno mai. E poi Rufy è stato parecchio messo in mezzo nelle situazioni imbarazzanti, quindi a detta mia ci stava. Beh, loro avranno una vita davanti e continueranno a combinarne delle belle! Anche con loro spero di aver fatto un buon lavoro ^^
Ace e Marco. Mi pare giusto ammettere che, all’inizio, questa fic doveva trattare solo il rapporto tra Kidd e Law, ma poi mi sono lasciata prendere la mano e ciao, ci ho messo in mezzo capre e cavoli, ma ho notato che molti stravedono per questi due personaggi, quindi evviva, ho fatto il botto! Aggiungo che in questi mesi sia Ace che Marco hanno conquistato il mio cuore completamente, non solo come coppia, stanno bene anche come amici o come volete vederli, ma proprio per il loro carattere.
Insomma, ecco che anche per loro le cose vanno a gonfie vele. Dopo l’imbarazzante incontro con Barbabianca che si, vi ho risparmiato, ma che magari butterò in mezzo da qualche parte più avanti, non lo so, Ace non ha più voluto vedere il vecchio genitore del suo ragazzo, si, hanno ufficializzato la cosa **. Ad ogni modo non sarà un problema per Marco convincerlo, soprattutto se gli fa proposte dolci come quella che avete letto. Mi spiace, non ce l’ho fatta a non renderli ruffiani e coccolosi, ma almeno mi sono rifatta con i racconti di Law, parlando di come Thatch e compagnia vadano a recuperare il ragazzino in appartamento per portarlo alle cene. Povera anima :D si vogliono tutti così tanto bene! E io sono persa per Thatch, mi dispiace, lui e il suo savoir faire!
E poi ciao Kidd, lo sappiamo tutti che adori i tuoi momenti di pace con Trafalgar. Insomma, non siete capaci di stare fermi neanche a letto! Ma lascia che te lo dica, amico mio, anche a me togli il respiro.
Anche Eustass Kidd, da quando ho iniziato a descriverlo sempre di più, mi ha praticamente fatta collassare. Ho un debole per i suoi capelli e non so se avete presente la sua voce nella versione italiana che usa a Sabaody ma, dannazione, è così… Afhjdvusi! Va bene, sono calma ^^ andatevela comunque ad ascoltare.
Bene, insomma, Law si ubriaca di nuovo e abbassa la guardia, cosa che va tutta a favore del caro Kidd, il quale non perde tempo per registrare e filmare ogni cosa. Se Trafalgar ha le foto nel cassetto, Eustass ha tutto nel computer. Dio, non cambieranno mai. Ma a loro sta bene così perché Kidd è contento e Law sorride, non ghigna, SORRIDE. Io non ho mai visto un amore più bello di questo, fatto di insulti e bestemmie, ma, sotto sotto, anche di piccoli gesti innocenti e diabetici. Loro sono stati la mia più grande paura e a volte hanno rischiato di mandarmi via di testa. Non sapevo se esageravo o se facevo troppo poco e temevo sempre di renderli OOC, cosa che temo ancora, ma mi affido a voi per migliorare e sistemare le cose! Che altro? Spero che vi abbiano fatti ridere, piangere (Oh, quello si, me l’avete detto, muahaha u.u), sorridere ed esasperare.
E tutto si conclude con l’arrivo di settembre (Ci eravamo lasciati più o meno a metà febbraio) e con l’inizio dei corsi universitari. Sorpresa: Kidd ha ripreso gli studi. Vi ricordate che, quando Law lo aveva allontanato, il rosso aveva fatto un pensiero riguardante questo argomento? Lui, anche se non lo avrebbe mai ammesso, un po’ ci sperava di alzarsi la mattina e andare all’università assieme al suo stronzo preferito. Beh, ci è riuscito a quanto pare e passeggiano pure per manina, LOL :D Sempre per una scommessa, non certo per loro scelta, figuriamoci :D
Aspettate, è in arrivo un fratellino per Kidd? Gesù Santissimo!
Okay, a parte questo, volevo dire a tutti che Smoker non poteva lasciare che Trafalgar finisse in tribunale per aver ucciso un uomo, troppi casini, tutto infatti è stato più facile dato che, assumendosi la responsabilità, nessuno ha avuto nulla da dire visto che l’azione é stata compiuta da un poliziotto. I testimoni, ovviamente, sono stati messi a tacere. Meglio così, direi.
‘… tutti sembravano condividere l’idea che premere il grilletto fosse stato un atto di sincero, come dire… ‘.
Si, voleva dire un gesto di sincero amore, ma non riesce nemmeno a pensarlo :D e il pensiero smielato che scaccia riguarda le loro mani amorevolmente intrecciate :D
‘Grazie, Kidd’.
Ma grazie a te stella bella! Lo so che vi amate, lo so, ma mi sta bene che non vogliate ammetterlo, però siete così fottutamente belli! Un grazie ci stava, dopotutto Eustass gli ha salvato la vita e i loro sguardi bastano e avanzano a detta mia per trasmettersi quell’affetto, quel qualcosa che provano l’uno per l’altro.
Un paio di battute e insulti coloriti ed ecco che trovano il modo per stare zitti e andare d’accordo. Un bacio ci sta sempre bene e i loro sono sentimenti ricambiati e, appunto, reciproci.
Beh, gente, mi sa che anche qui adesso dovrò scrivere The End.
No invece, perché ho una lunga lista di anime sante da ringrazia e a cui fare un monumento. Allora, ringrazio di cuore tutti coloro che hanno inserito la storia nelle preferite, seguite e ricordate, continuo a credere di non meritare così tanto, ma il minimo che posso fare è ringraziarvi di aver seguito e sopportato con pazienza la long, scleri e impazienza a parte. Sono consapevole di avervi fatto un po’ dannare ^^
Ringrazio ora tutti quelli che hanno seguito la storia dall’inizio, da metà o dalla fine e tutti i lettori silenziosi che capisco perfettamente. Io mi sono fatta un anno da fantasma in questo sito prima di farmi sentire e invito tutti a mettersi in gioco, a sognare e a pubblicare i loro lavori. Tutto è degno di nota a mio parere.
E ora passo a ringraziare di cuore coloro che hanno lasciato un commento o recensito i vari capitoli come Quinn Fabray, SaraPallina, _Lawliet, Zara Nasashi, FemPhoe, Ace of Spades, super_googletta97, Najia, An11na, Incantatrice_Violeta e callas d snape, siete state tutte gentilissime a lasciarmi il vostro punto di vista che ho apprezzato tantissimo, perciò grazie infinite per tutto ^^
Un ringraziamento particolare va a Aliaaara, Jeta, Ikki, tatarella20 e Acchan074 e alle loro recensioni sempre divertenti da leggere e sempre presenti. Siete state adorabili, non so davvero cosa dire per ringraziarvi ^^
Infine un ringraziamento speciale lo voglio lasciare a FlameOfLife, per le splendide recensioni, la simpatia, l’amicizia e la pazienza che ha portato, compresi i validi consigli che mi ha dato e tutta la gentilezza che mi ha dimostrato. Ti mando un abbraccione enorme e ti ringrazio tantissimo ** E come dimenticare _Rouge (che continuerò a chiamare madre solo perché qui mi sono autonominata Ace) che in una sera ha speso metà della sua vita per recensire la storia da capo e per aver continuato a sostenermi. Sono in debito, ricordalo, e sei semplicemente fantastica, grazie di cuore per tutto ** Concludo con l’elogiare EmmaStarr, ciao dolcezza, per l’impresa che sta portando avanti con costanza e che mi fa sorridere ogni volta illuminandomi la giornata. Grazie per le splendide recensioni che mi lasci piene di particolari, storia e ilarità, sei unica, ragazza, non scordarlo, e grazie infinite, non ci sono altre parole :3 presto ti sposerò!
Ho finito anche qui e non so bene cosa si deve dire in questi casi, uhm, è tutto? Fine? Ad ogni modo vi ringrazio nuovamente, siete stati splendidi, dal primo all’ultimo e davvero spero solo di avervi sollevato l’umore ogni fine settimana con questa storia e spero che vi sia piaciuta e che vi abbia strappato qualche sorriso (:
Tra poco ho finito, lascio solo l’avviso, per chi mi avesse creduta morta, che presto concluderò ‘It’s all about you’ dato che non c’è più il pericolo spoiler e arriverà anche il capitolo di ‘Chi non muore si rivede’. Tutto Coming Soon u.u
E adesso basta, filate a prepararvi per il sabato sera e divertitevi, festeggiate anche per me, grazie :D
Gente, niente, statemi bene, vi adoro e siete tutti splendidi e non smetterò mai di mandarvi abbracci, spargere cioccolatini e regalare unicorni rosa.
Ancora grazie infinite dal profondo del cuore!
Cala il sipario e si spengono le luci.
See ya,
 
Ace.

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