Tra la ragione e il cuore di afterhour (/viewuser.php?uid=56789)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***
Capitolo 1 *** 1. ***
Eccomi qua!
Ho battuto la fiacca in questo periodo, ho iniziato tre storie e le ho
mollate tutte per strada, ma alla fine qualcosa ho partorito.
Confesso che è stata dura anche finire questa storia, ma mi
sono fatta violenza e l’ho conclusa, più che altro
perché volevo vedere anch’io come sarebbe finita,
e sapevo che se non provvedevo io non lo avrebbe fatto nessun altro!:DD
Si tratta di un esperimento con un triangolo ed una Sakura un
po’ stronzetta, che mi mancava per completare tutte le gamme
dello spettro e in futuro passare ad altro, magari con qualcosa di meno
ooc.
Poi ovviamente non mancano il romanticismo e i miei soliti
sbrodolamenti emotivi.
Ultimo, non ho messo la parte dal punto di vista di Sasuke, per vari
motivi che vanno da questioni pratiche ad altre più che
altro narrative, e credo che a volte se ne senta la mancanza (o almeno
l’ho sentita io), ma spero che attraverso gli occhi di Sakura
si capisca ugualmente chi è lui.
Ed ora bando alle ciance, mi vergogno un po' a propinarvi sempre esperimenti più o meno imbarazzanti, e perdonatomi per il solito titolo orrendo, per non
parlare del riassunto!
Tra la ragione e il cuore
1.
Rimboccai le lenzuola a mia sorella e le accarezzai lievemente la
fronte: dormiva, e nel sonno sembrava serena, in pace.
Mi sollevai, e una volta giunta alla soglia della stanza guardai ancora
la sagoma rannicchiata sul letto in posizione fetale, poi chiusi la
porta il più silenziosamente possibile.
- Sakura! –
Controllai l’ora e raggiunsi la camera di mia madre
imprecando tra i denti.
Mia madre era a letto, tanto per cambiare, e si portava il dorso della
mano sulla fronte in un atteggiamento petulante che conoscevo fin
troppo bene.
- Parla piano – spiegai frettolosamente.
- Sta ancora male? A me pareva che fosse guarita! –
minimizzò lei – Hai preso la mia
ricetta? –
- Sì, oggi compro la medicina,
c’è l’ultima pastiglia in cucina
–
- Portala qui con una brocca d’acqua…non
so se riuscirò ad alzarmi…oggi sto
così male…fortuna che tua sorella è a
casa, sta meglio oggi, no?! –
Non sopportavo quel tono melodrammatico e piagnucoloso.
Non sopportavo mia madre.
Era un’egoista, e un’egocentrica.
Era anche un’ipocondriaca, e come tutti quelli convinti di
essere ammalati si ammalava davvero, era piena di tagli di operazioni,
cambiava il medico se solo esprimeva qualche dubbio, e probabilmente a
quel punto era davvero invalida, dovevano essere gli effetti
collaterali di tutte quelle medicine, per cui la pensione
d’invalidità se la meritava tutta.
Col senno di poi potevo capire perché mio padre fosse
sparito, una notte di tanti anni prima.
Andai in cucina e ritornai da lei con la medicina e la caraffa piena
d’acqua, le appoggiai sul comodino, vicino al bicchiere vuoto.
- Ora devo andare, non svegliare Moegi, ha ancora bisogno di
riposare –
- Devi proprio andare a scuola oggi, non puoi saltare?
–
- Non posso saltare le lezioni, lo sai –
- Per una volta potresti, non succede
niente…è nuova? – cambiò
argomento improvvisamente attenta, sollevandosi sul gomito, e sapevo
che si riferiva alla leggera camiciola in seta grigia che indossavo -
Dove hai trovato i soldi? –
- E’ un regalo – tagliai corto.
- Vorrei sapere cosa fai per avere tutti questi regali
– mi replicò scettica, prima di riprendere
quell’espressione afflitta che non sopportavo.
In realtà non era un regalo, l’avevo acquistata
con i soldi che racimolavo lavorando in un paio di posti, soldi che
nascondevo in camera per comprarmi i libri che la borsa di studio non
copriva e per le emergenze, ma non si sentivo in colpa, la camicia era
costata pochissimo, ormai ero diventata un’esperta nello
scovare cosucce al mercato dell’usato e avevo abbastanza buon
gusto da riuscire a combinarle in maniera perfetta.
Vintage, mi dissi, non usato, in fondo quella era una camicia di marca,
e in quel modo riuscivo ad avere sempre qualcosa di nuovo, ed
esclusivo, che non aveva nessun altro, e non si trattava di un
capriccio, ne avevo bisogno, perché avevo giurato a me
stessa di tirare fuori me e magari mia sorella da quel buco e non
tornarci mai più: avevo intenzione di diventare ricca, molto
ricca, a qualunque costo.
Per questo frequentavo la scuola più prestigiosa di Konoha,
per questo dovevo essere sempre abbastanza brava da guadagnarmi la
borsa di studio necessaria, e per questo dovevo stare attenta a
frequentare le persone giuste e l’ambiente giusto.
Non che potessi raccontarlo in giro, infatti nessuno sapeva niente di
me in facoltà, e sicuramente non sapevano che vivevo in una
casa popolare, che avevo problemi di denaro, o che i vestiti non
arrivavano da qualche boutique esclusiva, e andava bene così.
__
La prima ora avevo lezione assieme a Ino, che era perfetta: alta,
bionda, ricca e popolare.
Era anche intelligente ed aveva un notevole senso dello humor, a volte
la trovavo inconsapevolmente crudele, spesso superficiale, ma chi non
lo è, e poi era sincera e non aveva paura di niente, due
qualità che apprezzavo molto ed erano difficili da trovare
in giro per il mondo, qualsiasi posto si frequentasse.
Ero affezionata a lei, almeno per quanto mi era permesso dal momento
che non potevo lasciarmi andare completamente, avevo troppe cose da
nascondere.
- Ma come si veste! – mi bisbigliò
all’orecchio.
Eravamo sedute al solito posto nella classe di chimica, che era
incredibilmente noiosa, e la ragazza seduta proprio di fronte a noi era
una di quelle che Ino odiava senza un perché, dal momento
che non le aveva fatto niente.
Non era che approvassi sempre la sua sottile cattiveria e la sua
abilità nell’isolare le persone più
deboli, ma onestamente preferivo essere dalla sua parte, per esperienza
personale so quanto le donne possono diventare perfide tra di loro, e
la solidarietà femminile è una bella parola, ma
priva di agganci con la realtà.
- Eccolo! – esclamò poi Ino, e mi diede
una gomitata.
Stava entrando Kiba Inuzuka, e mentre andava a sedere mi
guardò e sorrise.
- Non capisco perché non siete ancora insieme voi
due –
Mi vennero in mente diversi motivi, tutti piuttosto validi,
ma non dissi niente, non potevo spiegarle che al momento non mi sentivo
pronta a lasciare avvicinare una persona così tanto.
Però era un po’ che ci pensavo, prima o poi avrei
dovuto intrecciare rapporti un po’ più stretti,
era anche nel mio interesse, e forse Ino aveva ragione, forse era ora
di lasciarsi un po’ andare, e Kiba non era male per
cominciare: era carino, simpatico, aperto, proveniva da un buon
ambiente, e soprattutto era un tizio tranquillo, nel senso che non
pensava troppo a quello che gli si diceva, accettava le cose
così come gli venivano dette senza metterle in discussione,
che può sembrare un modo carino per dire che uno
è stupido, ma non lo è, non completamente almeno.
Forse potevo almeno provare ad uscire con lui e vedere come andava, ed
era da un po’che Ino mi chiedeva di uscire con loro.
Più tardi chiamai mia sorella a casa.
- Sakura…
– iniziò lei, e già non mi piaceva quel
tono piagnucoloso che mi ricordava un po’ troppo mia madre.
Ascoltai comunque pazientemente e tentai di rassicurarla.
- Devi cercare di non pensarci più, è
andata, fatta…finita…ed è meglio che
domani torni a scuola – l’avvisai prima di
riagganciare, perché rimanersene chiusa in casa con la loro
madre non era certo salutare per nessuno e probabilmente era
l’ultima cosa di cui sua sorella aveva bisogno.
La prima invece era andarsene da lì, cambiare ambiente,
perché evidentemente frequentava delle pessime compagnie,
come si deduceva dal fatto che era rimasta incinta a quindici anni.
E a pensarci bene, per trovare un lato positivo, avrebbe potuto andarle
molto peggio: avrebbe potuto prendersi una malattia grave, o mettersi
nei guai con la legge, o con la droga, o anche innamorarsi perdutamente
di un pazzo criminale e scappare di casa, mentre almeno a quel problema
avevamo potuto rimediare prima che fosse troppo tardi.
Ero stata io che mi ero informata, che avevo preso
l’appuntamento ed avevo accompagnato mia sorella
all’ospedale, io che l’avevo spinta ad andare
avanti quando aveva manifestato dei dubbi, perché la
conoscevo e sapevo che non era in grado di prendersi nessuna
responsabilità al momento, neppure quella di decidere cosa
fare.
Avevo minimizzato spiegandole che si trattava solo di un embrione, che
non era niente, che studiavo medicina anche se ero solo al primo anno,
e lo sapevo, ma erano solo parole in fondo, e alla fine, in nuce, era
una vita quella che avevamo cancellato, e capivo perfettamente il
dolore di Moegi, ed anche i suoi sensi di colpa.
Per quello avevo cercato di caricarmi io di quel peso, in modo che mia
sorella potesse incolpare me, non se stessa, perché io ero
forte e potevo portarne il peso.
Così le avevo tenuto la mano e le avevo sorriso rassicurante
mentre lei mi fissava con quello sguardo smarrito, incredulo, e colmo
di tristezza.
Uno sguardo che non avrei mai dimenticato.
E intanto quel bastardo che l’aveva messa incinta non si era
posto neppure il problema, lo stronzo.
Non ero ancora riuscita a farmi dire chi era il bastardo e nel dubbio
squadravo con sospetto tutti i ragazzi del quartiere tentando di
scorgervi un segno, un indizio, non che contassi di vederne uno, a
quelli non fregava niente di niente.
Feccia.
E pensare che avevo riempito mia sorella di miliardi di
raccomandazioni, e che personalmente ero sempre stata paranoica proprio
per evitare di trovarmi di fronte a quella scelta, tanto che con il mio
ragazzo, l’ultimo anno del liceo, avevo usato ogni volta il
preservativo, anche quando avevo iniziato a prendere la pillola.
Meglio esagerare che correre rischi, mi ero detta, ma alla fine nella
vita c’è sempre qualche imprevisto che ti frega, e
quella scelta che non avrei mai voluto fare l’avevo dovuta
fare lo stesso, e neppure su me stessa, ed al momento mi pareva un peso
doppio da portare.
Passai il resto della mattina a prendere appunti, e a chiacchierare e
scherzare con i pochi amici che mi ero fatta, e con Kiba, cui forse,
forse, potevo dare una chance, chissà.
Presi la metropolitana alla solita ora e tirai fuori un libro per
evitare che qualcuno attaccasse discorso.
Neppure guardavo chi saliva e si sedeva accanto a me.
Mi interruppi solo per rispondere ad alcuni messaggi al cellulare, e
feci per riprendere a leggere.
- Ciao! –
Ignorai il saluto, di sicuro non si rivolgevano a me, e cercai il punto
della pagina in cui ero arrivata.
- Dico a te! Sei Sakura vero? –
Sollevai appena lo sguardo, seccata, e mi trovai seduti di fronte
Naruto Uzumaki e Sasuke Uchiha, due perdenti che vivevano dalle mie
parti.
Quando ci eravamo trasferite in quel quartiere avevo solo dodici anni,
ma già avevo deciso che quell’ambiente non mi
apparteneva, che meritavo di meglio (si trattava di buon senso, non
presunzione), per cui avevo costretto mia madre ad iscrivermi in una
scuola lontano da lì ed avevo evitato i ragazzi della zona,
ma questo non mi aveva impedito di farmi un’idea (per lo
più negativa) su tutti loro: in fondo, volente o nolente, li
vedevo spesso.
Naruto era un pagliaccio senza futuro e senza cervello, Sasuke era uno
stronzetto arrogante che probabilmente, grazie a tutta quella boria, un
giorno avrebbe fatto una gran brutta fine.
Gentaglia.
Inoltre, come tutti i maschi che abitavano nel quartiere ed erano sotto
i venticinque (mi rifiutavo di prendere in considerazione gente
più grande), erano sospettati di avere messo incinta mia
sorella: Moegi aveva avuto una cotta durata anni per Sasuke, compresa
di pedinamenti e ridicole letterine, e mi parlava sempre con
ammirazione di Naruto, in più facevano parte ambedue di uno
stupido gruppuscolo di rock inascoltabile, e quelle cose attiravano
sempre ragazzine senza cervello qual era mia sorella al momento (si
sperava che crescesse e maturasse).
Li squadrai dall’alto in basso.
Erano vestiti malissimo, il biondo, Naruto, con un’oscena
camicia arancione e blu aperta su una t-shirt bianca,
l’altro, con i capelli nerissimi ancor più
arruffati del suo amico, indossava una maglietta nera senza marca e
scolorita.
Ambedue avevano jeans sdruciti e anfibi allacciati male ai piedi.
E almeno non si vedevano i tatuaggi di cui sapevo erano provvisti.
Mio malgrado soffermai un po’ più lo sguardo su
Sasuke Uchiha, che vedevo ogni venerdì pomeriggio,
purtroppo, dal momento che tra tutti i posti in cui poteva lavorare,
era proprio nello squallido bar di fronte allo studio
dell’estetista in cui lavoravo io. Era piuttosto belloccio,
dovevo concederglielo, glielo avevo sempre concesso, ma quando
incrociai i suoi occhi neri mi affrettai ad abbassare lo sguardo:
quegli occhi erano come due pallottole di pece che trapassavano ogni
barriera, e parevano scavarmi dentro.
- Ma cosa studi? – esclamò
l’idiota, Naruto, che allungava la testa per sbirciare
– sembra difficile! Anche Sas’ke studia sai...solo
perché non ha fede in noi – si era interrotto per
dare una gomitata all’amico – perché io
so che diventeremo ricchi e famosi…e anche presto!
– aggiunse ghignante.
Come no.
- E’ perché studi quella roba difficile
che non esci mai? – insisteva quello – secondo me
ti fa male, dovresti divertirti qualche
volta…perché non esci con noi? Una di queste sere
passo a prenderti se vuoi, so dove abiti, è vicino a casa
mia… –
- Mi dispiace ma non posso, sono impegnata –
risposi, anche se lui non aveva specificato il giorno
–…ora devo finire di leggere la pagina, scusate
– chiusi il discorso.
Feci in tempo ad incrociare lo sguardo intenso del suo amico e feci
finta di non notare il suo odioso sorriso beffardo prima di riprendere
a leggere ed ignorarli apertamente.
- Secondo me studia troppo – sentii parlare Naruto,
che era il tipico discorso da perdente che non avrebbe combinato mai
niente nella vita.
Per un po’ ascoltai ancora vagamente i loro discorsi,
parlavano di qualcuno che doveva vederli, o aiutarli, ma smisi
interamente quando iniziarono a discutere di musica che non seguivo e
non capivo.
Tuttavia dovevo ammettere che la voce di Sasuke Uchiha era piacevole
all’orecchio.
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Devo ancora trovare un nome per la band, ho il vuoto...non
è che qualcuno ha un'idea?
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Capitolo 2 *** 2. ***
Eccomi qua con il secondo
capitolo, spero solo non ci siano errori perché non
l’ho riguardato benissimo.
2.
Da poco avevo iniziato a lavorare due volte la settimana in un negozio
di fiori del centro, grazie ad Ino, la cui famiglia gestiva una ditta
che importava fiori ed aveva diverse fiorerie in città.
Con lei non intendevo ancora scoprirmi, non mi fidavo abbastanza e
forse non mi sarei fidata mai, per cui le avevo solo raccontato che
cercavo un lavoretto senza specificare che ne avevo un bisogno estremo,
e poche ore dopo avevo già il posto: amavo frequentare gente
ricca.
Davvero.
Purtroppo, dal momento che i soldi non erano mai abbastanza, avevo
mantenuto il vecchio lavoro del venerdì pomeriggio, un
lavoro di cui non andavo molto fiera e di cui Sasuke Uchiha era
testimone, il che me lo rendeva ancora più inviso.
Non era tanto il fatto che il gestore dell’Estetica Haku
fosse un travestito, o che il mobilio e il personale fossero non solo
vecchi e messi male, ma anche imbarazzanti nella loro pacchianeria, era
più che altro il fatto che il posto si trovava nel quartiere
sbagliato, e di conseguenza era frequentato dalle persone sbagliate:
signore obese che si truccavano come drag queen e portavano unghie
così lunghe da risultare antiigieniche, per fare un esempio
estremo.
Ed io ero la fortunata che veniva pagata per truccarle e mettere loro
lo smalto.
Il lato positivo era che il quartiere non distava molte
fermate da casa mia ed era lontanissimo dalla zona universitaria.
Sollevai la testa e guardai dall’altra parte della strada.
Tenevo sempre le tende aperte, per la luce, alle mie clienti non
importava affatto di essere viste dai passanti, e da lì
potevo dare un’occhiata alla vetrina del bar di fronte, un
posto che aveva visto tempi migliori ed era frequentato
perlopiù da vecchi e perditempo (e da coloro che lavoravano
nei dintorni, ovviamente, a parte la sottoscritta che preferiva evitare
di entrarci, se non in casi estremi).
Sasuke Uchiha lavorava proprio lì, dalla mia postazione
avevo una buona visuale dei suoi movimenti e del suo bel faccino, e
devo ammettere che da sempre ogni tanto lo sguardo scivolava su di lui,
come per caso ( la carne è debole) ma dal momento che
continuavo a sospettare di lui, ultimamente lo scrutavo più
di frequente ed ogni tanto mi beccava pure.
Il fatto era che non l’avevo ancora digerita quella storia di
mia sorella, non dormivo così beatamente la notte, non come
avrei dovuto, e forse se avessi potuto sfogarmi con quel disgraziato
che ci aveva ficcate in quella situazione mi sarei sentita meglio.
Moegi a dire la verità si stava riprendendo davvero in
fretta ed aveva ricominciato a chiacchierare di vestiti e ragazzi, ma
proprio a proposito di questi ultimi, non mi era piaciuta affatto la
luce che le avevo visto negli occhi una volta in cui le avevo chiesto
di Sasuke, era uno sguardo sognante decisamente sospetto, molto
sospetto, e, ecco, dal momento che non potevo indagare con lei avevo
mezza idea di buttare lì qualche accenno con lui e vedere se
abboccava all’amo.
Naturalmente il venerdì pomeriggio era l’occasione
giusta, e mi stavo chiedendo se questo fosse un caso abbastanza estremo
da farmi entrare in quel bar con la scusa del caffè, o se
era meglio raggiungerlo al metrò e sedermi casualmente al
suo fianco (il fatto che io sia riservava non significa che sia anche
diplomatica).
Mentre ero lì che lo squadravo si voltò e se ne
accorse, e subito mi affrettai a distogliere lo sguardo, seccata, ma
poco dopo lo sbirciai ancora: questa volta mi stava guardando lui, e
rimanemmo a fissarci per alcuni secondi, fino a quando non
entrò la mia nuova cliente e non fui costretta ad occuparmi
di lei.
Dato che mi aveva colta nell’atto di guardarlo dovetti anche
subirmi i suoi commentini sulle mie intenzioni e sulle doti fisiche del
soggetto in questione, che evidentemente interessava anche a lei, non
che avesse qualche speranza per quanto lui potesse avere standard
bassi, ma le diedi corda, perché era parte del mio lavoro
ruffianarmi le clienti, un altro particolare che odiavo.
Il resto del pomeriggio lo passai a lavorare e sbirciarlo di soppiatto.
Alla fine avevo deciso di non andare al bar, non ne avevo voglia, e
dopo aver salutato tutti uscii con l’intenzione di seguirlo:
di proposito lo avevo osservato parlare con un tizio sulla soglia del
bar e poi dirigersi verso la fermata del metrò, e mi sentivo
investita di una specie di missione.
Proseguii lungo la strada fino a quando non incontrai il vecchio un
po’ suonato che chiedeva l’elemosina lungo la
strada strimpellando una vecchia chitarra scassata.
Sasuke era piegato sulle ginocchia accanto a lui e sembrava intento ad
accordargli la chitarra, mentre il vecchio parlava e sputacchiava
contemporaneamente.
Una coppia ben assortita, niente da dire.
Passai davanti a loro senza nemmeno guardarli.
- Bella ragazza, di classe, eh? – sentii biascicare
il vecchio.
Avrei fatto volentieri a meno di quella categoria di ammiratori.
Sasuke mi dava le spalle, per cui non riuscii a cogliere la risposta,
ma vidi con la coda dell’occhio che il vecchio si metteva a
ridere, e non era un gran bello spettacolo dal momento che gli mancava
un incisivo.
Giunta alla mia fermata avevo deciso di lasciar perdere per quel
giorno, non intendevo rimanere ad aspettarlo e mettergli
così in testa chissà quali idee, ma proprio
quando il treno era arrivato e stavo per salire lo vidi spuntare, per
cui mi affrettai a seguirlo nella sua stessa carrozza.
Mi sedetti sfacciatamente di fronte a lui, e se non avevo le traveggole
(mi sembrava poco consono alla sua immagine da duro), mi
sbirciò le gambe accavallate prima di chiudere gli occhi.
Ero indignata.
Davvero.
Evidentemente ero stata ottimista nel pensare che la mia opinione su di
lui non potesse scendere più in basso.
- Sei Sasuke, vero? –
Meglio non perdere tempo.
Lui sollevò le palpebre e mi guardò con quei suoi
maledetti occhi neri.
Bastardo.
Non era facile reggere il suo sguardo ed ero sicura che lo sapesse.
Aveva nascosto bene la sorpresa e continuava a studiarmi in silenzio,
ma non mi feci intimidire.
- Volevo avvisarti di stare lontano da mia sorella, tu e i
tuoi amici – buttai lì, bando alla diplomazia.
- Hai sbagliato persona – rispose non molto colpito.
Stronzo.
- Li conosco quelli come voi –
- Pffh –
- Scommetto che ti fai un sacco di ragazze… -
Mi fissava infastidito ora, e mio malgrado mi mossi a disagio sulla
sedia, sforzandomi di reggere il suo sguardo acceso.
Credo volesse incutermi paura il bastardo, e quasi ci riusciva.
- Non ti facevo così stupida – mi chiuse
definitivamente la bocca, e rimase a guardarmi con una luce aggressiva
negli occhi mentre mi irrigidivo mio malgrado, leggermente imbarazzata,
lo ammetto.
Non è facile lasciarmi senza parole, ma al momento non mi
veniva una sola risposta adeguata, così dopo aver borbottato
l’espressione ‘stronzo’ avendo cura di
farmi sentire da lui, decisi che la tattica migliore era quella di
ignorarlo, per più o meno il resto della vita.
Quello invece aveva chiuso gli occhi come se proprio non esistessi, lo
notai perché lo sbirciavo di sottecchi, e quasi pensavo che
si fosse addormentato davvero, invece si alzò di
lì a poco e dopo avermi dato una lunga occhiata scese alcune
fermate prima della nostra, diretto chissà dove.
Credo pensasse che fossi impazzita di colpo.
Il giorno successivo l’avevo rivisto per strada, in giro per
il quartiere, e non lo avevo degnato di uno sguardo, e il
venerdì della settimana successiva, quando mi accorsi che mi
fissava spesso dall’altra parte della strada, tirai la tenda
e mi accontentai della brutta luce artificiale; infine, quando
più tardi lo notai alla fermata del metrò, mi
piazzai di proposito il più possibile lontano da lui,
sbirciandolo irrequieta.
Ad un certo punto si voltò verso di me e mi affrettai a
girare la testa dall’altra parte, ma potevo ancora sentire il
suo sguardo puntato su di me, come un pizzicore sulla nuca che mi
metteva a disagio.
Non distolse gli occhi quando mi girai decisa dalla sua parte per
affrontarlo, e per un secondo ci fissammo: il suo sguardo intenso
pareva avere una forza sua, e mi ritrovai stupidamente senza fiato.
Bastardo.
Finalmente arrivò il treno e salii un paio di carrozze
più in là, ed una volta scesa rimasi indietro
fingendo di frugare in borsa, intanto lo seguivo di sottecchi mentre si
incamminava lungo la strada senza voltarsi mai.
‘Non ti credevo così stupida’.
Stronzo.
Lo avevo sottovalutato, per quello non ero riuscita a replicare, non me
l’aspettavo, ma ormai la figuraccia era fatta, non era il
caso di farsi condizionare e dovevo dimenticarmene al più
presto, è inutile piangere sul latte versato.
Nel frattempo c’erano cose più importanti di cui
occuparsi, come il fatto che non dormivo bene da giorni: mi svegliavo
spaventata nel cuore della notte e non ricordavo mai
cos’avevo sognato: rimanevano solo sensazioni confuse,
angoscianti, che mi lasciavano un’eco sgradevole, e spesso
dopo non riuscivo più a riaddormentarmi e mi rigiravo nel
letto sempre più irrequieta.
Ero stanca, e nervosa.
Quel mercoledì pomeriggio non dovevo lavorare e tornai a
casa presto per sbrigare alcune commissioni prima di cominciare a
studiare, preferivo fare la spesa di persona dal momento che Moegi non
aveva alcun senso del denaro.
Mia sorella stava meglio, davvero meglio, sorprendentemente meglio,
anzi, chiacchierava delle sue amiche come se fosse l’unico
suo problema.
Ero solo io quella che non dormiva di notte?
- Allora…tutto bene a scuola? – le
chiesi tranquillamente mentre contavo i soldi per la spesa.
- Sì, sì…mi presti le scarpe
rosse domani? –
- No – non erano certo scarpe da indossare a scuola.
Mia madre neppure si era alzata dal letto e brontolava dalla sua stanza.
Ignorai eroicamente il muso di una e le lamentele dell’altra,
ed uscii, diretta al supermarket lì vicino.
Quando passai di fianco alla strada che portava a casa di
Sasuke (me l’aveva indicata Moegi una volta), mi girai
dall’altra parte corrucciata: avevo ancora i miei sospetti su
di lui, ma al momento mi toccava tenermeli.
Di riflesso ricordai per l’ennesima volta la figuraccia che
mi ero fatta quella volta, non che importasse veramente, lui non era
una delle persone di cui mi importasse l’opinione,
però ancora mi imbarazzavo al ricordo (come se non fosse
abbastanza imbarazzante che mi vedesse lavorare in
quell’orribile posto ogni venerdì), e sotto sotto
speravo che si trasferisse in qualche altro quartiere, o meglio
città, o continente, o magari che finisse sotto una
macchina: lo so, non è una bella cosa da pensare, ma non mi
sentivo in colpa, mica i pensieri ammazzano le persone.
Cacciai queste fantasie importune ed entrai nel supermarket, ma quando
parli del diavolo ne spunta subito la coda, è matematico, ed
evidentemente la cosa funziona anche con il pensiero, perché
mentre ero intenta a scegliere tra i barattoli di polpa di pomodoro in
offerta mi vidi passare in fondo alla corsia proprio Sasuke Uchiha.
Non era la prima volta che ci incontravamo in giro, in fondo abitavamo
nello stesso quartiere, ed avevo già deciso di limitarmi ad
ignorare la sua esistenza come facevo prima, ma quel giorno non avevo
proprio voglia di trovarmelo di fronte e far finta di ignorarlo, non
ero in vena, ero stanca e irritabile, per cui tentai di rendermi
invisibile, mi affrettai a buttare nel cestino le ultime cose nella
lista e mi diressi alla cassa guardandomi intorno con aria circospetta.
Svuotai il cestino nel nastro in tutta fretta e dopo aver tirato fuori
i soldi mi concentrai esclusivamente sul sacchetto che avevo portato da
casa e faticavo ad aprire.
- Mancano soldi –
Smisi di riempire il sacchetto che ero riuscita finalmente ad aprire e
guardai la cassiera senza ben capire.
Non era la solita che conoscevo, quella che mi faceva anche credito a
volte, era una tizia brutta e sconosciuta.
E antipatica.
- Mancano soldi – mi ripeté facendomi
sentire una povera idiota.
Controllai il display e mi misi a frugare in borsa alla
ricerca di qualche spicciolo sperduto, di solito stavo molto attenta e
calcolavo tutto, ma ero stanca e avevo fatto in fretta per sfuggire
a…quello che stava appoggiando le cose sul nastro dietro di
me.
Ma faceva apposta?
Mi seguiva?
Era una specie di Nemesi che mi ero meritata per tutti i miei peccati
di presunzione?
Ripresi a rovistare in borsa con più frenesia, invano dal
momento che in mezzo a quel casino avrei faticato a trovare qualcosa
anche se non fossi stata così nervosa.
- Allora? Devo togliere qualcosa? – continuava la
cassiera, che non mi aiutava per niente con i suoi modi bruschi.
- Metto io quello che manca–
Sorpresa mi voltai a guardare Sasuke che appoggiava qualche moneta sul
carrello.
Ci mancava solo questo.
- Non occorre – mormorai seccata e ancora
più a disagio, e mentre allungavo la mano per prendere i
soldi e restituirglieli lui aveva fatto lo stesso, e le nostre dita si
erano toccate.
Era stupido, e non lo avrei mai raccontato a nessuno, ma mi era venuta
la pelle d’oca, proprio come si legge nei romanzetti di
quart’ordine, e mi affrettai a togliere la mano come
scottata. Lui ne aveva approfittato per prendere gli spiccioli e
consegnarli alla cassiera, che improvvisamente era tutta un sorriso, la
stronza.
- Te li restituisco – bofonchiai mentre finivo di
imbustare.
Odiavo essere in debito, non volevo essere in debito con lui, tra tutti.
Me la filai senza guardarlo, ma con la coda dell’occhio notai
che aveva preso solo latte e birra, chissà di che robaccia
si nutrivano quei trogloditi.
Mi precipitai a casa inspiegabilmente turbata.
- Ho incontrato Sasuke al supermercato – buttai
lì a Moegi mente sistemavo la spesa in credenza, non
perché la cosa fosse importante ma perché ogni
tanto tentavo ancora di buttare lì il discorso sperando di
carpirle chissà quale rivelazione – Vive da solo?
–
- Sì –
Ecco, aveva anche la casa libera per farsi i suoi porci comodi con
povere ragazzine indifese.
- Ma c’è qualcuno con una famiglia
normale tra quelli? Sono tutti orfani e disadattati? –
replicai irritata, con me stessa probabilmente.
- Cosa c’entra! – protestò
subito lei – e poi non è mica orfano! Sua madre si
è risposata e suo padre è via, Ami dice che
è in prigione ma quella è stupida…e
forse ha anche un fratello –
Che bella famigliola, davvero, mi dissi ipocritamente dal momento che
anche noi non eravamo esattamente un bell’esempio.
- …sei invidiosa perché è
più indipendente di te! –
Già, ma bisognava vedere alla lunga che fine faceva, io
avevo progetti ambiziosi, non intendevo vivere in un buco e sudare per
arrivare a fine mese per il resto dei miei giorni.
- E te l’ho detto cento volte come si chiama la
loro band, sono bravi sai! –
- A me basta che ti stiano lontano – mi feci
scappare nervosa.
- Sei odiosa! Ti odio! – urlò lei
mortalmente offesa, chissà perché.
Subito dopo si era rinchiusa in camera sbattendo la porta, cosa che non
mi impressionò particolarmente, capitava spesso, e di
rimando, ovviamente, mia madre mi aveva chiamata per lamentarsi.
Che se ne andassero a quel paese tutte e due.
Andai in camera, tirai fuori i libri e mi misi a studiare, sperando
nessuno mi disturbasse: grazie al cielo quel vecchio appartamento delle
case popolari aveva tre camere, bisogna guardare ai lati positivi della
vita.
___________________________________________________________________________________________________________________________________________________________-
Ho fatto un giro di parole per prendere tempo e pensare
ancora un po’ al nome del gruppo…cosa mi tocca
fare!
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Capitolo 3 *** 3. ***
Niente da dire su questo capitolo, è uno di quelli di transizione.
3.
Nonostante non dormire fosse una vera e propria tragedia per le mie
occhiaie oltre che per il mio umore, e nonostante il
venerdì, a causa del lavoro da Haku, fosse il giorno della
settimana che odiavo maggiormente, quel pomeriggio ero di splendido
umore.
La sera prima, mentre ancora lavoravo nella fioreria in centro (un
lavoro dignitoso, quello) avevo incontrato un uomo, non uno qualsiasi,
ma uno che rappresentava in maniera quasi perfetta il mio tipo ideale,
altro che quel sempliciotto di Kiba.
Era venuto a scegliere un mazzo di fiori da regalare alla padrona di
casa per una cena cui era invitato, ed aveva tutto quello che una donna
poteva desiderare: bei modi, charme, e soldi.
Non appena lo avevo visto entrare avevo pensato, ecco, è lui
(ormai ho un certo radar per adocchiare i vestiti e gli accessori
costosi), e mi ero avvicinata con il sorriso più
professionale che avevo, perché non volevo mostrarmi troppo
interessata, però nel contempo dovevo apparire il
più garbata e affascinante possibile, nonché
sofisticata, ovviamente.
Un lavoro.
Alla fine eravamo rimasti per più di mezz’ora a
chiacchierare, e nel frattempo avevo avuto modo di studiarmelo
attentamente.
Era proprio un signore, si capiva da come vestiva, da come parlava e si
muoveva, con una leggerezza dovuta al fatto che non doveva dimostrare
niente, anche se in qualche modo, in quel breve lasco di tempo, era
riuscito ad infilare dentro al discorso il fatto che i suoi possedevano
un’importante compagnia di import export con sede dalle sue
parti, a Suna, musica per le mie orecchie, che lui ne era
l’erede, guarda caso, nonché altri rimandi qua e
là ai suoi numerosi possedimenti (non era granché
modesto, ma avrei chiuso volentieri un occhio). A quanto pareva
conosceva molta gente importante lì a Konoha (mi aveva
spiattellato anche le sue conoscenze, probabilmente per
impressionarmi), e vi capitava spesso per lavoro, e confesso che il
fatto che non abitasse qui non mi dispiaceva per niente, anzi, mi
faceva sentire più libera.
Se ne era andato dopo avermi dato il suo biglietto da visita e
soprattutto dopo aver preso il mio numero di telefono, nel caso avesse
bisogno di contattarmi.
Avevo infilato il biglietto da visita in borsa con un sorriso stampato
in faccia, e il buon umore ancora faticava ad andarsene, nonostante ora
fossi lì a rimettere nel cassetto l’orribile
smalto rosa fosforescente che avevo appena usato per una cliente.
Subito dopo mi voltai e attraverso la vetrina vidi la testa scura di
Sasuke Uchiha, dentro al bar dall’altra parte della strada, e
mi ricordai del debito.
Mi irritava quella cosa, era una questione d’onore, ecco.
Ancora piuttosto carica chiesi ad Haku se potevo uscire cinque minuti
per andare al bar, e dopo avere promesso di portare il caffè
per tutte loro (con Haku che commentava scherzando di non rubarle il
barista), attraversai la strada impaziente dicendomi che in fondo avevo
davvero bisogno di un caffè, per quanto quello che facessero
lì fosse quasi imbevibile, e con quel quasi ero generosa.
Lui stava servendo ad un tavolo ed aspettai che ritornasse, in piedi di
fronte al bancone.
- Un caffè – gli feci poi – ed
altri tre da portare al salone –
Tirai fuori le due monete che avevo preparato in precedenza.
- Pago anche il mio debito – aggiunsi
piazzandogliele davanti.
Solo allora sollevai lo sguardo ed incontrai il suo.
Mi fissava con quegli stramaledetti occhi scuri, e
d’improvviso mi chiesi come potessi sorprendermi di mia
sorella, poverina, se anch’io ogni volta che incrociavo
quegli occhi mi sentivo rimescolare lo stomaco.
Continuai a fissarlo in qualche modo offesa.
Lui non abbassava lo sguardo, ed era una specie di sfida ora, e per un
momento, mentre ci stavamo fissando, era stato non solo come mi stesse
soppesando, ma come se mi guardasse dentro, se vedesse esattamente
tutte le mie debolezze, i dubbi, le piccole e grandi insicurezze che
anch’io nascondevo sotto sotto, soprattutto in questo periodo
non proprio esaltante della mia vita.
Come se vedesse esattamente il mio bluff.
Bastardo, lo odiavo.
Distolsi lo sguardo indignata, bevvi il caffè senza
aspettare di mettere lo zucchero, tutto d’un fiato dal
momento che faceva più schifo di come lo ricordavo, e me ne
uscii con gli altri caffè sul vassoio senza che ci fossimo
rivolti una sola parola in più.
“Non ti facevo così stupida”.
Mi innervosivo solo nel ricordare quelle parole, ed avrei voluto
fargliele rimangiare in qualche modo, quel bastardo, ma non sapevo
come, e non avrebbe dovuto importarmi così tanto.
- Sakura, cara, non è meravigliosa questa
pettinatura? –
Guardai disgustata l’ignobile cofana rossa
dell’altrettanto ignobile donnone massiccio.
- Forse, qualcosa di più sobrio – tentai.
- Sobrio, sobrio…noi non siamo gente sobria, noi
amiamo l’eccesso! –
Ma va?! Chi lo avrebbe mai detto.
Fu l’altra ragazza che lavorava lì, una che andava
in giro con le unghie lunghe due centimetri, i capelli giallo canarino
ed un top in paillettes che strizzava un seno esagerato quanto il
resto, per spiegarsi, che uscì per riconsegnare il vassoio
con le tazzine vuote.
Tornò dopo mezz’ora, la lavativa, dalla vetrina la
vedevo chiaramente fare gli occhi dolci a Sasuke Uchiha, e al ritorno
Haku fece le solite battute: era una specie di rito ormai scherzare sul
presunto amore tra il barista e le ragazze dell’Estetica
Haku, tra le quali era compreso, o meglio compresa, anche Haku,
benché fosse impegnata da anni.
Finii di lavorare qualche minuto in anticipo quel giorno, quasi
spaventata all’idea di poterlo incontrare, e quando incrociai
il barbone che strimpellava sempre la chitarra pensai ancora a lui:
come si fa ad essere amici di un barbone…
Dio, che perdente.
Ed era assurdo che continuassi a pensare a lui, dovevo smetterla!
__
La settimana successiva ero proprio su di giri, o meglio, dormivo
ancora male e ogni tanto sentivo il bisogno di ripetermi che con mia
sorella avevo fatto la cosa giusta, come se non ne fossi ancora del
tutto convinta (il che era ridicolo) ma ero anche eccitata: il tizio
dei fiori mi aveva richiamata.
Niente di particolare, non era neppure in città, ma mi aveva
chiesto come stavo e mi aveva parlato un po’ di quello che
stava facendo, cosucce noiose che tentavo di memorizzare per le nostre
conversazioni future, e soprattutto, mi aveva chiesto di rivederci una
volta che fosse riuscito finalmente a tornare a Konoha.
Ovviamente avevo risposto di sì.
Quel venerdì avevo ancora un gran sorriso, o meglio,
all’apparenza ero piuttosto seria, ma sorridevo dentro, e
soprappensiero mi ritrovai più volte a sbirciare
dall’altra parte della strada.
Probabilmente era per il fatto di vederlo lì regolarmente,
settimana dopo settimana, che mi capitava di cercarlo con lo sguardo,
giusto?
Tirai in parte la tenda e ripresi a farmi i fatti miei fino a quando
non ricevetti una telefonata.
Il lato positivo di lavorare in quel buco era lo stesso che di solito
disprezzavo con tutte le mie forze, ovvero l’andazzo generale
che sapeva di anarchia e disorganizzazione, grazie al quale ora potevo
tenere il cellulare sottomano con la suoneria al massimo e nessuno
aveva niente da ridire, e sempre grazie al quale me ne uscii in strada
in tutta fretta per rispondere all’uomo dei miei sogni
lontano da orecchie indiscrete.
- Allora, come
va, sei in mezzo ai fiori? – mi chiese Sasori,
così si chiamava il tipo.
Ridacchiai per non mentire spudoratamente, non era pronto a conoscere i
miei lati oscuri, non sarebbe stato pronto mai mi sa, una donna ha i
suoi segreti, no?!
- …ma
sei un fiore anche tu – continuava lui, che era
anche un po’ gigione – …il tuo nome, i tuoi colori
–
Tutto sommato ero lusingata dai suoi ridicoli complimenti, e scherzammo
lievemente per un po’, prima che iniziasse a parlarmi di
questo meeting cui doveva partecipare e non gli lasciava tempo per
altro, come se a me fregasse qualcosa, per poi concludere dicendo che
mi avrebbe fatto sapere quando riusciva a liberarsi e tornare a Konoha,
sperava presto.
Chiusi la telefonata con un enorme sorriso in faccia, non solo
interiore, e decisi che visto che ero già fuori potevo
andare al bar a bermi un caffè.
Non entravo quasi mai in quel postaccio e questa era la seconda volta
nel giro di poco tempo, che Sasuke non si mettesse in testa strane
idee, ma non appena mi voltai ed incrociai il suo sguardo mi sentii
stupida.
Nella mia vita contava meno di zero, ma la cosa probabilmente era
reciproca.
Lo guardai con l’eco del sorriso ancora sulle labbra, una
rarità dal momento che non sorridevo spesso, soprattutto
esteriormente, soprattutto a gente come lui, ma mi sentivo allegra,
leggera come una piuma, ed anche Sasuke Uchiha non mi pareva
più così minaccioso.
Gli ordinai un caffè e me lo preparò subito dal
momento che lì dentro c’erano solo due
habitué che erano serviti da tempo.
Dato che non ero così masochista da ripetere
l’esperienza di berlo ancora una volta amaro, presi e scartai
le varie bustine di zucchero.
- C’è zucchero di canna? – gli
chiesi senza guardarlo, ora un po’ sostenuta. Che schifo di
bar.
- Ecco, duchessa– mi fece porgendomelo.
- E’ così che mi chiamate, voi? –
replicai ironica alzando gli occhi, il buon umore che mi impediva di
prendermela.
- Ti si addice –
- Perché non mi amalgamo? Non è niente di
personale – spiegai dopo aver svuotato su quella brodaglia
due bustine di zucchero, e ancora non bastava per migliorarne il sapore
– sono solo stufa di dover fare i conti anche solo per
permettermi un caffè al bar… o di farmi prendere
dal panico ogni volta che un professore ci chiede di comprare un nuovo
libro – continuai, incurante di mostrarmi così
apertamente a lui, tra tutti – stufa di risparmiare sul
riscaldamento per paura della bolletta, e stufa di arrivare agli ultimi
giorni del mese che non ho soldi neppure per comprarmi il
latte…non voglio più avere a che fare con
poveracci, tanto meno instaurare rapporti con loro – conclusi
decisa, anche piuttosto soddisfatta di aver finalmente esternato come
la pensavo realmente.
- L’idea quindi sarebbe quella di sposare uno
ricco? –
- Non che intenda dipendere da un uomo – specificai
– ma sicuramente non sposerò un morto di fame
–
Questo era sicuro.
– Se il tuo unico requisito sono i soldi mi sembra
strano che tu non abbia ancora trovato qualcuno –
Stronzo.
- E’ una condizione necessaria, ma non sufficiente,
e comunque dovresti stare zitto, scommetto che i tuoi standard sono
quasi inesistenti –
- Lo sai – rispose dopo un po’
– per essere una che è cresciuta dalle nostre
parti sei piena di pregiudizi –
Probabilmente gli avrei dovuto rispondere per le rime questa volta, e
soprattutto avrei dovuto prevedere che in qualche modo, per quanto poco
ci parlassimo, riuscivamo sempre ad urtarci noi due, ma non ero ancora
completamente in me e mi sentivo ancora piuttosto magnanima con il
prossimo, anche con i poveri, bei, perdenti senza futuro.
- Lo sai – replicai pensierosa – non
capisco cosa intendi dire –
Lui stava sistemando un paio di cose dietro al bancone e mi
dava le spalle, ed era comunque un bel vedere con solo una maglietta
addosso, non si poteva negarlo.
- Sono sicuro che lo sai benissimo –
- No, spiegamelo –
Si voltò dalla mia parte e mi fissò con quel suo
sguardo intenso, ma ressi bene questa volta, almeno fino a quando non
si sporse appena verso di me.
- Intendo dire che non mi conosci per niente, per cui taci, e
il caffè lo offro io, tutto sommato posso permettermelo
–
Aprii la bocca per rispondere, non sapevo cosa, sicuramente niente di
simpatico, forse qualcosa sul fatto che lui mi conosceva ancora meno
eppure mi aveva dato della stupida, anche se tirare fuori quella frase
avrebbe confermato quanto mi rodeva, ma in quel momento era entrato un
tizio che aveva apostrofato cordialmente Sasuke, e subito dopo aveva
attaccato con delle fastidiose battute rivolte anche a me.
Avevo finito il caffè, per cui pagai senza prendermi la
briga di commentare, non volevo debiti con lui, ed uscii senza nemmeno
salutare.
- Un po’ stronza – mi giunse
all’orecchio comunque – ma una botta
gliela darei se fossi in te –
Gente di classe.
Il giorno dopo, mentre ero in fila per ritirare la pensione di
invalidità di mia madre (sì, gliene avevano
davvero concessa una, grazie al cielo visto che campavamo di quella)
mio malgrado sentii due vecchiette parlar male degli Uchiha: ce
l’avevano particolarmente con il più piccolo, che
supponevo fosse Sasuke, il quale a loro parere era un ingrato che
trattava male sua madre, santa donna che non viveva più
lì ed era sempre stata una signora ammodo.
Dal momento che riuscivo perfettamente ad immaginare quelle due
vecchiette parlare allo stesso modo di me e di mia madre, non mi
impressionai più di tanto, anzi, quando al ritorno vidi
proprio l’ingrato in persona, che caricava
l’attrezzatura per suonare in un furgone scassato assieme ad
un paio di amici, risposi al saluto di Naruto e mi avvicinai a
curiosare, anche perché stavano fumando tutti e tre e volevo
scroccare una sigaretta.
- Avete una sigaretta? – mi decisi a chiedere dato
che nessuno me le offriva (non erano esattamente dei gentiluomini).
- Che palle… - fece il terzo del gruppo, un tipo
dall’aria annoiata che avevo già visto ma non
conoscevo bene quanto gli altri due (conoscere bene in senso lato,
ovviamente), il quale comunque mi offrì la sigaretta.
- Due vecchiette parlavano male di te – feci alla
volta di Sasuke dopo che me l’avevano anche accesa, resa
loquace dal godimento di quel piccolo e raro piacere.
- E’ da lì che hai dedotto tutte le tue
teorie su di me? - mi chiese mentre scendeva dal furgone
– o è una questione di denaro? –
- Le vecchiette parevano convinte – risposi
semiseria, ma scherzavo, e lui lo sapeva.
Me ne andai subito dopo, che non pensassero che fossimo diventati
amiconi, ma avevo ancora uno strano sorriso sulle labbra.
Quella notte feci un sogno erotico su Sasuke, tanto vale confessarlo, e
mi svegliai proprio sul più bello, un po’ sudata.
Avevo bisogno di un uomo, ne conclusi, e proprio per questo speravo di
incontrare il mio principe al più presto.
_________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Ed anche questa volta sono riuscita ad evitare di mettere
il nome della band!
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Capitolo 4 *** 4. ***
Su questo ed in parte sul
prossimo capitolo ho un'opinione ambivalente, diciamo, ma credo abbiano
una loro funzione.
4.
Sabato pomeriggio io e Sasori avevamo messaggiato per più di
un’ora, e mi sembrava di toccare le stelle.
Mi aveva detto delle cose davvero carine e cominciavo a pensare che il
fatto di non potersi vedere subito fosse un toccasana,
perché l’attesa, il sentirsi senza potersi vedere,
erano in un certo senso eccitanti, e quella volta in cui fossimo
riusciti ad incontrarci sarebbe stato tutto più emozionante,
più intenso.
Non vedevo l’ora.
Solo l’idea mi faceva battere forte il cuore, e forse era
proprio per questo che mi sentivo più vitale in quei giorni,
mi pareva perfino di essere più bella nonostante
l’insonnia, senza contare che pensavo sempre meno a quella
storia dell’aborto, o meglio, le mie notti erano sempre
tribolate, ma durante il giorno restava solo un peso sullo stomaco a
ricordarmi che qualcosa era successo, e prima o poi avrei imparato ad
ignorarlo.
Proprio a causa di questa mia nuova vitalità, o
semplicemente nell’onda dell’entusiasmo, quella
sera avevo accettato di uscire con i ragazzi
dell’università.
Ino mi aveva proposto per l’ennesima volta di trovarmi con
loro, aggiungendo che dopo avrei potuto rimanere a dormire a casa sua,
e che c’era anche Kiba.
Nonostante Kiba non mi interessasse proprio più, se rimanevo
a dormire fuori non avevo più l’annoso problema di
come tornare a casa di notte senza mostrare dove abitavo, e dal momento
che il riposo e il sonno erano un lontano ricordo ormai, tanto valeva
fare qualcosa, senza contare che avevo voglia di vedere gente ed ero
stanca di fare la duchessa irraggiungibile (gran stupido nomignolo,
comunque).
E così avevo acconsentito, purtroppo.
Dico purtroppo perché la serata era stata orribile.
Orribile.
Le amiche di Ino non erano del tutto antipatiche, ma non certo un
esempio di spiccato spessore, diciamo, e prese singolarmente magari
potevano andare, ma tutte insieme sembravano un branco di deficienti
senza cervello che continuavano a parlare tra di loro di vestiti, o a
spettegolare di persone che non conoscevo, annoiandomi a morte, e a
volte erano così malevole che riuscivo chiaramente ad
immaginarmele intente a sparlare di me non appena giravo
l’angolo, e in più, come se non bastasse, ogni
tanto buttavano lì delle domandine innocenti che erano
tutt’altro che innocenti in realtà.
Quando Kiba ci aveva raggiunte con degli amici avevo tirato un sospiro
di sollievo.
Ma poi lui aveva cominciato a bere, e a parlare, e a bere, e avevo
capito per la prima volta (in precedenza lo avevo solo sospettato) che
non era possibile sostenere una conversazione decente con lui,
perché non si interessava a niente, ma proprio niente, a
parte i cani (ormai non ne potevo più), e se non erano i
cani era qualcosa che aveva fatto lui, che di solito guarda caso
riguardava sempre i suoi cani, e in più man mano che beveva
continuava a provarci in maniera sempre più fastidiosa e
insistente.
Per me un ragazzo che ti mette una mano sulla coscia ha già
chiuso, se poi lo fa due volte posso arrivare ad insultarlo
pesantemente e togliergli il saluto a vita, ma Ino si era messa a
parlare fitto fitto con un tipo e non avevo altra scelta che far buon
viso e cattivo gioco, così gli avevo spostato ripetutamente
la mano ed ero rimasta ad ascoltare con un sorriso forzato, lanciando
ogni tanto qualche battutina tagliente che tanto neppure capiva e
sperando che il tempo passasse in fretta.
Doveva essere stato questo il mio secondo errore (il primo era stato
quello di fidarmi degli altri), perché Ino aveva frainteso
ed aveva finito per andarsene via con il tizio dicendomi che potevo
farmi accompagnare a casa da Kiba, pure ammiccando, ed io ero rimasta
lì come un’allocca, con quello che ancora
allungava le mani e parlava, e con l’angosciante
consapevolezza che anche se si fosse dimostrato una persona abbastanza
discreta ed affidabile da potergli mostrare dove abitavo, ormai non era
proprio in condizioni di guidare.
Poco dopo ne avevo abbastanza.
Avevo controllato l’ora, e constatato che facevo ancora in
tempo a prendere il metrò lo mollai lì senza
neppure prendermi la briga di salutarlo: forse davvero non gli avrei
rivolto la parola mai più, nella vita ci sono già
troppi idioti che ci tocca sopportare a forza per accollarsene di
superflui.
E così mi ritrovai a camminare ancora furiosa verso la
fermata della metropolitana, a fatica perché avevo dei
tacchi vertiginosi, e infreddolita perché sopra
l’abitino bianco indossavo solo uno scialle leggero e stavo
morendo di freddo.
A tratti mi fermavo e mi guardavo alle spalle, spaventata da rumori
sospetti, ma non ero davvero preoccupata, non ancora.
Non che avessi voglia di farmi un viaggio in metrò di notte,
sapevo che rischiavo incontri spiacevoli, e non per insistere sul
solito concetto, ma se avessi avuto quattro soldi avrei preso un taxi e
via, di sicuro non mi sarei infilata in una di quelle situazioni
pericolose che avevo tentato di evitare per tutta la vita, invece da
poveraccia ero condannata ad usare i mezzi più economici,
quelli in cui se fosse stato per me non avrei mai messo piede, neanche
di giorno.
Era la seconda volta nel giro di poco tempo che mi ritrovavo in una
posizione in cui avevo giurato non mi sarei trovata mai, maledizione a
tutti quei ‘mai dire mai’ che mi aveva propinato
mia madre da piccola e che mi ostinavo ad ignorare per poi essere
regolarmente costretta a rimangiarmi i miei ‘mai’.
Di sicuro non ce ne sarebbe stata una terza.
Finalmente arrivai alla fermata sana e salva, e scesi i gradini
sentendomi un po’ meglio: non ero sola, c’era un
gruppo di ragazzi e ragazze che mi precedeva e iniziai a rilassarsi.
Una volta salita nel vagone mi sedetti vicino agli altri e quando
smontarono anche gli ultimi, qualche fermata più in
là, e rimasi da sola con un tizio sospetto, mi piazzai di
fonte alla manovella dell’allarme, scrutando con un
po’ d’ansia le stazioni semideserte che
raggiungevamo.
Purtroppo dovevo fare per forza un cambio, in una stazione non molto
frequentata che mi faceva un po’ paura, ma poi avevo solo un
altro paio di fermate ed ero a casa.
Come se non bastasse il mio cellulare era morto da almeno
un’ora (avrei avuto bisogno di prenderne uno nuovo),
così in caso di emergenza non potevo chiamare nessuno; non
che avessi qualcuno da chiamare, a parte la polizia se
l’emergenza era davvero così grave, ma
è rassicurante sapere di avere questa possibilità.
Mentre imprecavo contro Ino, che si era comportata male, ecco, non
smettevo di controllare ossessivamente le stazioni che mancavano
continuando a ripetermi che non era così grave, che sarebbe
andato tutto bene, e che questa era la prima ed ultima volta che mi
facevo fregare così: mai dipendere da qualcuno e fidarsi
solo di se stessi, anche per le cose minime.
Smontai da sola alla stazione in cui dovevo cambiare, almeno il tizio
sospetto non mi seguiva, e mi avviai verso il binario giusto
continuando a guardarmi intorno.
I corridoi erano completamente deserti a quell’ora, e mentre
camminavo, nonostante tentassi di non fare rumore, mi pareva che il
suono dei tacchi sul pavimento rimbombasse in modo surreale nel
silenzio.
Cercai di cacciare la sgradevole sensazione di trovarmi in qualche film
horror e mi avvolsi tremante nel mio misero scialle ricamato.
Accelerai man mano e finii per fare le scale di corsa, col fiatone, ma
finalmente arrivai alla fermata giusta, che mi pareva particolarmente
squallida, come tutta quella stazione del resto, e dato che sul display
era scritto che mancavano ancora dieci minuti all’arrivo del
treno, mi rassegnai ad aspettare vicino al pulsante per le emergenze,
tentando contemporaneamente di rendermi invisibile.
Almeno non c’era nessuno.
Fu quasi per caso che mi accorsi che mi sbagliavo, che non ero sola:
c’era qualcuno in fondo sulla destra, seminascosto da un
pilastro, e poco dopo allungai appena il collo perché mi
pareva di conoscerlo, e fu con enorme sollievo che mi accorsi che si
trattava di Sasuke Uchiha.
Magari era uno stronzetto, magari aveva messo incinta Moegi (avevo
ancora forti sospetti in proposito) ma era uno che conoscevo, e
fregandomene altamente della dignità mi avvicinai a grandi
passi e mi piazzai accanto a lui, sentendomi improvvisamente
più tranquilla.
Lui se ne stava appoggiato al muro con quella sua aria da duro, e dopo
avermi dato un’occhiata aveva ripreso a fissare di fronte a
sé, corrucciato.
E’ difficile disprezzare qualcuno da cui si è
sessualmente attratte, ammisi tristemente con me stessa.
- Vieni spesso da queste parti? – provai a fare
conversazione, se non ricordavo male lo avevo visto scendere
lì qualche volta il venerdì, dopo il lavoro.
- Già –
Sempre un gran simpaticone.
- Ti dispiace? – gli domandai tirando fuori un
pacchetto di sigarette che avevo scroccato a Kiba, almeno quello.
Dal momento che non potevo quasi mai permettermi di comprarmele mi
guardai bene dall’offrirgliene una, e mi accesi la mia
sigaretta con un accendino usa e getta di cui qualcuno mi aveva
gentilmente omaggiata.
Ne approfittai per studiare di sottecchi il suo bel profilo: sembrava
stanco, pensieroso, anche un po’ triste, e rimasi per alcuni
secondi con la sigaretta a mezz’aria a chiedermi a cosa
stesse pensando, perché avevo sempre creduto che gente come
lui vivesse alla giornata, soddisfatta del posto che aveva nel suo
piccolo mondo e pronta ad autoconvincersi che fosse tutto, e forse ero
davvero piena di pregiudizi.
Continuai a sbirciarlo fino a quando lui non si voltò a
guardarmi a sua volta con quei suoi occhi neri, profondi, un
po’ troppo aggressivi.
Gli sorrisi non ancora in difesa, perché eravamo solo noi
due in quel sottomondo ostile, perché gli ero in qualche
modo grata, solo per il fatto di non essere più sola.
- Piuttosto, cosa ci fai qui tu, duchessa? –
- Un imprevisto purtroppo –
Stavo per continuare, decisa a chiedergli di smetterla con quel
nomignolo improponibile, quando mi bloccai: qualcuno si stava
avvicinando, si sentivano delle voci maschili, e mi ritrovai ad
accostarmi istintivamente al mio riluttante partner, di nuovo
preoccupata.
Poco dopo dalla stessa direzione in cui ero arrivata entrarono dei
tizi, quattro, che non avevano per niente un aspetto rassicurante, e
non solo per le bottiglie che avevano in mano, o l’aria
trasandata, era il modo in cui avevano subito puntato lo sguardo su di
me e mi fissavano come se fossi nuda, come se fossi un oggetto.
Ecco, lo sapevo, mai che mi andasse liscia una volta.
Non ero riuscita a capire cos’aveva esclamato uno di quelli,
ma ero sicura che fosse qualcosa di spiacevole nei miei confronti, e
subito dopo gli altri erano scoppiati a ridere e si erano avvicinati
continuando a ridacchiare.
Sasuke si era spostato un po’ in avanti, quasi a proteggermi,
e il cuore mi batteva all’impazzata mentre fingevo di non
badare a loro quando in realtà ero orribilmente spaventata,
perché erano in quattro, ed uno era davvero grosso, e sapevo
che se ce l’avevano con me Sasuke da solo non era in grado di
difendermi.
Forse non avevano cattive intenzioni, cercai di rassicurarmi, forse
erano solo molto stupidi, molto brutti, e in vena di battute molto
sconce.
- Cosa facciamo – mormorai, e mi strinsi a lui,
perché davvero non sapevo cosa fare ed avevo la tentazione
di girarmi e scappare via.
Col senno di poi Kiba non era neanche tanto male, ed ero stata poco
lungimirante a non accettare un passaggio da lui.
Voltai la testa a guardarli, ormai erano vicini e ancora ridevano e
biascicavano oscenità su di me, ed era un peccato che le
gambe mi si fossero completamente paralizzate, perché
improvvisamente scappare pareva l’unica soluzione plausibile.
Guardai Sasuke come se in qualche modo lui potesse sapere cosa fare, ma
in quel momento era voltato verso gli altri, e prima che riuscissi a
rendermi ben conto della situazione, uno di quelli mi si era parato
davanti.
Rimasi a fissarlo immobilizzata mentre allungava la mano per toccarmi,
e capii solo in quel momento che ero sola, che Sasuke non mi avrebbe
aiutata: perché avrebbe dovuto in fondo, non poteva fare
niente, erano in troppi, e probabilmente non gliene fregava neanche
niente.
Terrorizzata pensai che non volevo essere toccata, non volevo neppure
essere sfiorata da quelle manacce luride.
- Non toccarmi! – gridai istericamente tentando di
scostarmi.
Rideva, quel bastardo, e non feci neppure in tempo a capire cosa
succedeva che mi afferrò un ciuffo di capelli, e mi faceva
schifo, così schifo.
Mi aveva tirato i capelli ma neppure avevo registrato il dolore,
perché contemporaneamente lo avevo visto alzare
l’altra mano per prendermi il braccio, e mi pareva
così assurdo, così irreale quello che stava
succedendo, proprio a me, che faticavo ad accettarlo.
E poi, all’improvviso, mentre mi facevo prendere
definitivamente dal panico (vorrei vedere voi) Sasuke gli aveva
sferrato un pugno, e quel bastardo aveva mollato la presa ed era caduto
a terra, così, senza neppure un suono.
Per una frazione di secondo rimasi immobile, le gambe che mi cedevano,
il cuore che batteva all’impazzata, e guardai gli altri che
ormai ci avevano raggiunti e si buttavano su Sasuke urlando frasi
sconnesse.
Nei film la nostra eroina, oltre ad essere bellissima, e nonostante sia
snella ed esile, combatte come un uomo se non molto meglio, o alla
peggio con l’ingegno trova il modo di aiutare
l’eroe, ma nella realtà sapevo di non avere alcuna
possibilità di battermi alla pari con un maschio, e non
esistevano provvidenziali sbarre di ferro, improbabili colpi di fortuna
o misteriosi poteri che si risvegliavano
all’improvviso… e io, io rischiavo molto di
più di un paio di pugni in faccia.
Non potevo fare altro che mollarlo lì e scappare via,
cos’altro potevo fare?
Così mi girai e corsi verso il corridoio che portava
all’uscita, e continuai a correre senza fiato con tutte le
mie forze, con quei tacchi assurdi, dicendomi che forse non mi
seguivano presi com’erano a…ad affrontare Sasuke,
e magari potevo tornare indietro più tardi, dopo che se ne
erano andati, e vedere come stava lui.
Sempre di corsa salii le scale, senza osare voltarmi per controllare se
erano dietro, ed arrivata in cima girai a destra e poi ancora a destra
alla ricerca dell’uscita, ma avevo paura di ritrovarmi da
sola di notte in un quartiere sconosciuto, volevo solo tornare a casa,
e quando vidi il tunnel che portava al binario che andava nella
direzione opposta mi precipitai lì senza pensare.
A questo punto ero sicura che nessuno mi stesse inseguendo, e per
fortuna quando arrivai al binario il treno stava arrivando.
Salii in fretta e mi rannicchiai sul sedile vicino
all’allarme, e poi rimasi così, ancora
frastornata, a guardare le stazioni che mi passavano davanti senza
neppure tenerne il conto, tentando di riprendere fiato.
Ritornai in me pian piano, un po’ più tranquilla
scesi ad una delle stazioni più grandi e feci il giro per
prendere di nuovo il treno opposto, quello che mi avrebbe riportata a
casa, guardandomi attorno circospetta e sperando che ce ne fossero
ancora, perché se avevo perso l’ultimo mi toccava
rintanarmi in un buco ad attendere il mattino.
Aspettai un paio di minuti assieme ad una coppia piuttosto eccentrica,
avanti con l’età, che si teneva per mano
(così sicuri l’uno dell’altro), e salii
conscia che quello era l’ultimo metrò,
l’ultima possibilità di arrivare a casa sana e
salva, e senza sapere cosa avrei fatto una volta arrivata ancora a
quella maledetta stazione.
Mi sembrava che quel treno si muovesse con una lentezza impressionante,
e la coppia era già scesa da quella che mi pareva una vita
quando passai davanti alla stazione in cui avevo lasciato Sasuke.
Mi appiattii sul fondo perché temevo che quei bastardi
fossero ancora lì, ma quando si aprirono le porte provai a
sbirciare fuori, con cautela, senza riuscire a vedere niente dato che
ero lontana dal punto in cui avrebbero dovuto essere e non osavo
sporgermi troppo.
Non mi pareva di sentire rumori e non sapevo bene cosa fare, ma quando
mi sembrò di udire l’eco di alcune voci mi
rintanai in fondo al vagone, perché ero ancora piena di
paura e volevo solo andare via di lì.
Aspettai che le porte si richiudessero ed il treno partisse sentendomi
una grande vigliacca, e rimasi ancorata alla manovella
dell’allarme per le due fermate necessarie, la prudenza non
è mai troppa, chiedendomi se non dovevo farlo suonare
davvero quel maledetto allarme, non per me, ma per Sasuke.
Ormai era un po’ tardi per questo, e poi forse non era
successo niente di grave, forse i tipi se ne erano andati subito e lui
era già a casa sano e salvo, a parte magari un occhio nero.
Dopo essere scesa alla mia stazione restai per qualche momento
immobile, tremante, fino a quando il treno non ripartì e non
rimasi sola, poi corsi verso l’uscita e continuai a correre
lungo la strada che avrei potuto percorrere ad occhi chiusi ormai:
avevo ancora paura che quei bastardi mi stessero cercando e in qualche
modo mi avessero vista scendere a quella fermata.
Arrivai a casa col fiatone, ansimante, e chiusi a chiave la porta
dietro di me che ancora il cuore non si era calmato.
Solo più tardi, mentre mi toglievo il trucco, smisi di
pensare a me stessa e mi chiesi seriamente cosa fosse successo a Sasuke.
La notte la passai a rigirarmi sul letto, angosciata, e a pensare a lui
che chissà in che condizioni era.
E se…e se lo avessero pestato a morte? Se per causa mia,
della mia vigliaccheria, fosse rimasto a sanguinare a morte in quel
corridoio, solo come un cane?
Mi pareva che dita metalliche mi attanagliassero lo stomaco e mi
bloccassero la gola, e mi veniva da piangere.
__
Erano passati diversi giorni e non avevo saputo niente di lui.
Tecnicamente non ero responsabile per quello che gli era capitato, era
stato lui l’idiota che si era sentito in dovere di salvare la
donzella indifesa, e magari se non fosse intervenuto quegli esseri se
ne sarebbero andati poco dopo senza provocare un gran danno,
chissà, e se continuavo a pensarci sicuramente riuscivo a
convincermi che era stata tutta colpa sua e che se l’era
voluta, perché la mente umana è sorprendente,
davvero, riesce ad autoconvincersi di cose pazzesche, ma la
verità era che ero preoccupata per lui.
Non l’avevo più incontrato in giro e avevo anche
indagato discretamente con mia sorella, la quale aveva affermato di non
vederlo da un po’ e di non sapere niente, un po’
sostenuta, il che era anche positivo (qualche voce mi sarebbe giunta se
fosse morto, no?!), però non mi aveva tranquillizzata del
tutto: avevo proprio sperato di sentire qualcosa, di avere un segno che
lui era vivo, magari di carpire una chiacchiera casuale, non sapevo.
Ero così agitata che i messaggi carini di Sasori non mi
facevano più né caldo né freddo, ed
anche la sua telefonata mi aveva lasciata del tutto indifferente, anzi,
avevo riagganciato dicendomi che quello lì chissà
cosa aveva in mente, e che non mi fidavo per niente.
Quel venerdì non lo vidi al bar, e a questo punto iniziavo
ad essere davvero angustiata, non sono così senza cuore come
può sembrare.
Al ritorno, quando passai proprio di fronte alla fermata incriminata,
mi sentii quasi male, fisicamente.
Avrei voluto dimenticare tutto, dimenticarmi di quell’incubo
e dimenticarmi dell’esistenza di Sasuke Uchiha, ma non
potevo, semplicemente non potevo.
Decisi di farmi forza e di affrontarlo, dovevo
farlo…se lui aveva rischiato la vita per aiutarmi potevo
degnarmi di concedergli due minuti della mia, di vita, per informarmi
sulla sua salute.
Per una che non voleva debiti con Sasuke Uchiha ne avevo accumulato uno
di bello grosso.
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Capitolo 5 *** 5. ***
Da lunedì
sarò senza computer per diversi giorni (spero pochi), e
domani non ci sono, per cui posto oggi, tanto il capitolo è
più o meno pronto.
5.
Chi ha tempo non aspetti tempo è il mio motto, quando decido
per qualcosa agisco in fretta, e in più volevo togliermi al
più presto quell’incombenza dal groppone, per cui
il giorno dopo, poco prima dell’ora di pranzo, partii in
missione.
Non sapevo bene dove abitasse, non mi era mai importato di saperlo
esattamente, chi se ne fregava, ma mi ricordavo di quella volta in cui
Moegi me lo aveva indicato e decisi di passare in rassegna la zona in
cui presumibilmente doveva stare, alla ricerca dell’edificio
incriminato.
Più tardi ero lì a scrutare con sospetto uno
stabile bruttino e poco accogliente, col portone aperto, da cui si
deduceva che Sasuke era ancora più pezzente di noi (almeno
da noi il portone si chiudeva).
Trovai il nome scritto fuori, era proprio quello, feci un bel respiro
profondo e finalmente mi decisi.
Ero salita fino al terzo piano ed avevo iniziato a cercare la porta
giusta, cosa non facile dal momento che non c’era un nome che
fosse uno ed i numeri si erano persi da qualche parte, quando una delle
porte alla mia sinistra si aprì ed uscì il
biondo, Naruto.
- Sakura! Cosa fai qui? –
- Il tuo amico, sta bene? – chiesi direttamente
mentre lo raggiungevo, un po’ agitata, non avevo scuse da
rifilare e volevo ridurre la conversazione al minimo.
- Sas’ke? Sta bene! Ha solo un paio di costole
incrinate, poteva andare peggio! –
Era vivo, e sentii che qualcosa mi si scioglieva in gola.
Cioè, sapevo che due costole incrinate dovevano fare un male
notevole, ma non era così grave in fondo, avrebbe davvero
potuto andargli molto peggio.
- Le ha prese da degli stronzi alla fermata del
metrò…sai, dove facciamo le
prove…è che lui voleva tornare a casa prima, era
stanco – mi spiegò, e mi resi conto sollevata che
Sasuke non gli aveva raccontato che c’ero anch’io
– ma perché non te lo fai dire da lui –
continuava – insisti però perché gli
sta un sacco sulle balle quando gli chiedono qualcosa…vuoi
entrare ad aspettarlo? Dovrebbe arrivare ormai…io devo
scappare, sono in ritardo…se non lo vedo per strada digli
che sono passato e che torno dopo pranzo! –
Non lo avevo seguito molto, il suo discorso non aveva
granché senso e dava per scontate troppe cose, e poi come
facevo a sapere se lui lo vedeva per strada o no? Ma non mi diede il
tempo di farglielo notare perché si era precipitato
giù per le scale mollandomi lì, davanti alla
porta spalancata.
Ecco, in realtà avevo saputo quello che volevo sapere ed ero
anche sollevata di non averlo trovato, mi risparmiavo di trovarmelo di
fronte, ma sbirciai dentro l’appartamento mio malgrado
curiosa.
Azzardai un passo all’interno ma non feci neppure in tempo a
guardarmi intorno che mi bloccai, perché mi pareva che
Naruto stesse parlando con qualcuno in fondo alle scale, la sua voce
squillante mi arrivava fin qui, e per evitare eventuali momenti
imbarazzantissimi mi affrettai ad uscire e chiudere la porta, per poi
raggiungere la tromba delle scale e iniziare a scendere.
Incontrai proprio Sasuke che saliva, abbastanza faticosamente, e mentre
mi passava di fianco senza degnarmi di uno sguardo notai
l’occhio con un alone ancora un po’ giallastro
intorno ed il taglio sopra il sopracciglio, che sembrava profondo, mi
sa che avrebbe avuto bisogno di qualche punto e probabilmente gli
sarebbe rimasta una cicatrice.
Aveva anche una grossa ecchimosi che partiva subito sotto il collo,
sulla sinistra.
Nonostante tecnicamente non fosse tutta colpa mia, in fondo non gli
avevo chiesto di sacrificarsi per me, mi sentii un verme.
D’impulso lo seguii e quando lui aprì la porta di
casa mi intrufolai all’interno prima che potesse chiudermela
in faccia.
- Cosa vuoi? – mi chiese senza neppure guardarmi, a sua
discolpa devo dire che sembrava davvero molto stanco.
- Volevo sapere come stavi – iniziai con
una ridicola voce tremante mentre lo scrutavo attentamente e prendevo
atto di un taglio più piccolo ormai quasi rimarginato sul
labbro, e di alcune abrasioni minori.
E dal momento che continuava ad ignorarmi lo seguii ostinatamente in
camera, decisa a scusarmi, a spiegargli che non avevo scelta, e a
tornare a casa priva di superflui e fastidiosi sensi di colpa.
- Senti, sono veramente stanco, ho dovuto scaricare roba fino
adesso e devo fare una doccia –
- Io…mi dispiace – borbottai come
un’idiota, pensando che non avrebbe dovuto sollevare pesi con
due costole incrinate, che doveva fare davvero male.
- Allora ciao…sai dove è la porta,
scusa se non ti accompagno, duchessa –
Stronzo.
Rimasi imbambolata a guardarlo mentre si toglieva la maglia senza
più degnarmi di uno sguardo, e prima che sparisse dietro ad una
porta che doveva essere il bagno, notai sulla schiena un esteso segno
scuro che tendeva al giallastro sui bordi.
A questo punto avrei dovuto andarmene e lavarmene le mani, in fondo
avevo scoperto che lui stava bene (abbastanza) e gli avevo detto che mi
dispiaceva, circa, avevo fatto anche troppo insomma, ma mi sentivo
ancora un peso sullo stomaco, ed ero stanca di rigirarmi nel letto
insonne perché la mia inutile e ridicola coscienza non
voleva ascoltare la mia al contrario impeccabile ragione, e
così, invece di togliere il disturbo e fare un favore a
tutti e due, mi guardavo intorno pensando che quelle due stanze avevano
un’aria ancora più provvisoria della mia camera,
il che era una specie di record, e chissà dove voleva andare
Sasuke Uchiha, da cosa voleva scappare, perché tutti
vogliono scappare da qualcosa anche se non se ne rendono conto.
A parte una chitarra che sembrava aver visto tempi migliori
l’unica altra cosa personale lì dentro erano le
due fotografie in camera.
In una c’era una famiglia composta di padre, madre e due
figli, di cui un ragazzino che forse era il fantomatico fratello, ed un
bambino con un’espressione fiduciosa e allegra che doveva
essere Sasuke da piccolo (così carino).
Parevano l’ennesima famiglia felice che non esisteva
più se mai era esistita veramente, come
l’espressione fiduciosa e allegra di quel bambino, e passai
velocemente all’altra foto: era recente, e immortalava Sasuke
con una bimba piccolina che vagamente gli somigliava e lo guardava
adorante, e quasi mi venne un colpo quando la vidi, perché
se aveva già una figlia da qualche parte era proprio il
colmo che mi tacciasse di avere pregiudizi, il bastardo.
E poi, un pochino, mi sentivo delusa.
Certo che doveva essere stato ben giovane, forse troppo giovane.
Sbuffando per la stupidità dei miei ragionamenti andai in
cucina e sbirciai dentro al frigo.
Era desolatamente vuoto, c’era solo latte, qualche birra ed
un paio di uova, tutto il necessario per una dieta sana ed equilibrata,
mi dissi sarcastica. Forse però avrei potuto preparare una
frittata, così, come offerta di pace, e tutta zelante mi
misi ad aprire i pochi armadietti alla ricerca di un tegame, fino a
quando non decisi di lasciar perdere visto che non c’era
farina e due uova strapazzate poteva farsele da solo: in fondo il fatto
che le avesse prese per proteggermi non mi rendeva automaticamente la
sua serva.
Eppure continuavo ad aggirarmi inquieta per casa sua, alla ricerca di
un modo per espiare le mie presunte colpe.
Ero ancora lì che davo un’occhiata in giro quando
lo vidi uscire dal bagno con i capelli gocciolanti e solo un
asciugamano addosso.
- Sei ancora qui? – mi chiese.
Al momento non ero riuscita a proferire niente di intelligente, e dopo
aver balbettato qualche banalità come una qualsiasi povera
idiota (a mia difesa posso solo dire che non ero preparata), lo avevo
guardato sparire in camera senza riuscire a muovermi.
Poco dopo mi misi a rispondere ad un sms di mia sorella scrivendo che
arrivavo presto e raccomandandole di mettere la pentola sul fuoco, ma
poi, invece di andarmene dignitosamente, aspettai ancora qualche minuto
col cellulare in mano (per darmi un contegno), e infine, dato che lui
non si sbrigava e c’era troppo silenzio, sporsi la testa
nell’altra stanza per controllare che andasse tutto bene,
perché in fondo non sarebbe stato il primo a sentirsi male
dopo qualche giorno per una botta in testa, e non volevo averlo sulla
coscienza.
Era già abbastanza sporca.
Scoprii che si era buttato sul letto così com’era
e si era addormentato, allora mi avvicinai guardinga per controllare
che fosse ancora vivo, assurdamente preoccupata: respirava
regolarmente, i lineamenti distesi, anche se a volte aggrottava appena
la fronte come se sognasse, o forse erano le costole che gli facevano
male.
Sempre se erano quelle il problema, perché ero sicura che
l’idiota non fosse andato all’ospedale e che le
costole incrinate se le fosse diagnosticate da solo, e magari a
ragione, ma al pensiero degli eventuali danni agli organi interni e di
quante altre cose avrebbero potuto andare storte, mi veniva da sudare
freddo.
Era proprio un idiota, un idiota coraggioso, non lo mettevo in
discussione, ed anche un bell’idiota, perfino ora, nonostante
i tagli e le botte, ma sempre un idiota.
Scesi con lo sguardo su un paio di segni bluastri che aveva sullo
sterno e sui vari tatuaggi, notando mio malgrado che aveva davvero un
bel fisico, asciutto e ben definito, e sbirciai più
giù, fino all’asciugamano, che era scivolato un
po’ e mostrava un principio di peluria nera.
Mi fermai lì, con il respiro improvvisamente affannato.
Un’ inspiegabile tentazione di toccarlo mi faceva scorrere
un’ondata di eccitazione sulla pelle, e a parte che date le
circostanze era decisamente fuori luogo se non inquietante, non capivo
il perché, o meglio, mi rifiutavo di capire il
perché.
Tornai di là, presi la borsa, e mi precipitai fuori.
E mentre mi dirigevo a grandi passi verso casa, tra tutte le cose che
potevano venirmi in mente pensai che avrei dovuto almeno coprirlo, che
di sicuro quell’idiota prendeva freddo.
Che idiota anch’io.
__
Non appena rientrata in casa non ci avevo più pensato, mia
madre come al solito si lamentava di essere stata lasciata sola tutta
la mattina, e mia sorella, lungi dal mettere l’acqua sul
fuoco, era ancora in giro: tornò più tardi giusto
per pranzare e il suo chiacchiericcio suonava spensierato come non mai.
Mi chiedevo se avesse già dimenticato tutto o se ci fosse un
solco dentro di lei che fingeva di ignorare, un solco che allignava
nell’ombra, pronto a tornar fuori.
Cominciavo a rendermi conto che me ne intendevo un poco di quei solchi,
purtroppo.
- E cosa mi dici di quelli di quel gruppo là,
come si chiama… - borbottai ad un certo punto con
nonchalance, irritata con me stessa, e con lui ovviamente.
Moegi si era subito messa sulle difensive, probabilmente pensava ancora
che volessi carpirle il nome del padre, il che era anche vero, mica mi
ero arresa, avevo solo deciso di aspettare che le acque si calmassero.
Però il fatto che si mettesse sulle difensive poteva essere
considerato sospetto, e mi chiesi ancora una volta se non potesse
essere proprio Sasuke il padre.
La cosa mi dava un fastidio enorme, spropositato.
Non mi pareva il tipo, ecco, ma forse mi sbagliavo, anzi, quasi
sicuramente mi sbagliavo, non sarebbe neanche stata la prima volta
perché non ero molto brava a giudicare gli uomini, doveva
essere qualcosa di genetico.
Fu solo più tardi, quando stavo cercando il cellulare nella
borsa per controllarlo prima di andare a dormire, che mi resi conto di
averlo dimenticato a casa sua.
Corrugai la fronte, non era da me, di solito ero piuttosto attenta, e
poi questa distrazione poteva rivelarsi davvero seccante, e se il mio
principe nel frattempo mi aveva chiamata?
Quella notte tanto per cambiare non riuscii a dormire, ci mancava solo
il cellulare dimenticato, e ormai era troppo, era esattamente da quando
Moegi mi aveva detto che aspettava un bambino che non dormivo bene, ed
iniziavo ad essere stanca, così dannatamente stanca.
Soprattutto ero stanca di quella strana sensazione alla bocca dello
stomaco, come una bolla d’ansia, che non riuscivo ancora a
debellare, una sensazione che non aveva motivo d’esistere
considerato che in fondo si era risolto tutto bene e che non
c’era niente che non andava nella mia vita, davvero.
Il mattino seguente, era domenica ma chi se ne fregava, mi presentai di
filato a casa sua cosciente che prima mi toglievo quella seccatura
meglio era.
Mi aveva aperto subito, era solo, vestito per fortuna, e mi aveva
puntato contro il suo sguardo scuro, aggressivo.
Mi faceva sempre un certo che.
- Ho scordato il cellulare –
spiegai sbrigativa.
Lo seguii dentro casa ed ero di nuovo agitata, forse era il taglio
sulla fronte, forse la solita stupida coscienza che mi rimordeva dal
momento che aveva vita propria e si rifiutava di obbedirmi, o forse era
solo che era difficile sentirsi migliori degli altri dopo aver lasciato
pestare un ragazzo senza fare niente, soprattutto in presenza di quel
ragazzo.
- Mi sento in colpa – confessai d’impulso, e che
fosse finalmente finita.
- Non importa, va bene? –
- Ti ho mollato lì da solo, avevo paura
– mi decisi ad ammettere, a lui e a me stessa.
- E’ passata, non importa più –
Rimanemmo in piedi senza far niente per alcuni secondi, ognuno con i
suoi pensieri, i suoi fantasmi.
- Ti prendo il cellulare – mi riscosse la sua voce.
Si voltò e si avvicinò al divano scassato, dovevo
averlo lasciato lì, e non so, nel vederlo che si chinava
appena tentando di nascondere il dolore mi sentii morire.
- Sono stata una vigliacca –
Ecco, l’avevo detto, lui era migliore di me.
- Non potevi fare molto –
Già. E allora perché mi sentivo un verme? E
perché lui mi sembrava così freddo,
così lontano?
- Neanche tu – replicai a muso duro, sulle
difensive – se te ne fossi rimasto in disparte nessuno te ne
avrebbe fatta una colpa, si può sapere chi te l’ha
fatto fare? –
Esitò.
- Ho agito senza pensare –
Stupido. Anch’io avevo agito senza pensare, solo che me ne
ero andata e lo avevo mollato lì, e di conseguenza ora mi
sentivo un verme.
- Avrei potuto almeno tornare indietro
dopo – borbottai a disagio.
Finora lui mi aveva dato le spalle, ma ora si era girato e mi fissava
con quegli stramaledetti occhi che parevano sapere cose che io non
capivo, non potevo capire, e mi agitai ancora di più.
– Avrei dovuto farlo, dovevo tornare indietro,
dovevo – feci uscire in fretta – …ma non
ti ho chiesto io di… – mi fermai imbarazzata
– sono in debito con te, va bene? – riconobbi
– E non ne sono molto fiera purtroppo, non mi piace essere in
debito, tantomeno con te, e non guardarmi così
perché non hai la più pallida idea di chi io sia
e di come mi senta – blaterai ignobilmente, ormai fuori
controllo – …non so più cosa sto
dicendo – farfugliai infine – non ne posso
più, davvero…e resta il fatto che non voglio
avere debiti con te per cui dimmi cosa… –
- Senti. Ti ho detto che non importa – pose fine a
quell’agonia – Neanche io voglio niente
da te, per cui siamo pari –
- Bene –
Ma non andava bene, non era quello che ero venuta a dirgli, e forse era
la stanchezza, o il fatto che c’era qualcosa dentro di me che
stava tentando di uscire fuori e che mi ripeteva ancora, e ancora, che
non andava bene, no, che non era tutto a posto così, che
c’era qualcosa di sbagliato, di orribilmente sbagliato in
questa conversazione, in questo momento, e forse nella mia vita intera,
ma con sgomento mi accorsi che avevo gli occhi lucidi, e questo era
davvero troppo perché odiavo vedere la gente piangere, era
da perdenti, eppure proprio io stavo piangendo e mi stavo rendendo
ridicola, proprio di fronte a lui.
Abbassai la testa sentendomi umiliata, come avevo giurato a me stessa
non mi sarei sentita mai, e un pochino lo odiai, solo per essere
lì, testimone delle mie lacrime.
- Siediti, ti offro qualcosa –
Sembrava più un ordine che un offerta, e in quello stato non
avevo la forza di discutere.
Per una frazione di secondo avevo avuto la consapevolezza di aver
sbagliato tutto, e faticavo ancora a riprendermi.
- Non hai niente in frigo – mormorai debolmente.
- Un tè posso farlo – aveva replicato
con un sorriso, ma non sembrava prendermi in giro.
- Non vorrei darti da
fare…cioè…nelle tue
condizioni… –
- Non sono invalido –
Spiritoso.
Quasi rassegnata mi ero seduta ad aspettare tamponarmi gli occhi con i
fazzoletti scadenti che mi aveva lanciato ed avevo preso a stento
(avevo una pessima presa, e odiavo i fazzoletti scadenti, non
assorbivano bene e ti si bagnavano le dita).
Nel frattempo lo guardavo mentre spostava dei libri di testo
dalla tavola e metteva l’acqua sul fuoco, e pensavo che
c’era qualcosa in lui, qualcosa che andava oltre il
bell’aspetto, come una sorta di intensità.
Peccato che non avesse un soldo, anche se con un tipo così
poco controllabile probabilmente non mi sarei imbarcata in ogni caso.
- Posso farti qualche domanda? – gli chiesi,
perché a questo punto perso per perso tanto valeva mostrare
tutte le carte e sperare in Dio, o meglio sperare che un giorno quelle
stramaledette carte, o parole, non venissero usate contro di me.
Lui non aveva risposto, ma aspettava, in piedi, e mi studiava con quei
suoi occhi penetranti mentre l’acqua si scaldava, con
un’attenzione che mi spiazzava, che non pensavo di meritare.
Ed era proprio bello in quel momento, anche con le ferite e tutto,
anzi, ancor di più con le ferite e tutto, perché
sapevo che se le era procurate per aiutarmi, per aiutare proprio me, la
sottoscritta, quella che non gli aveva chiesto niente e lo considerava
appena.
- Cosa è successo dopo che sono scappata? – feci
uscire, non so neanche io perché volessi saperlo, a parte il
fatto che me l’ero chiesto spesso.
- Niente di particolare, il primo tizio non si è
più rialzato, ma gli altri erano in troppi…a un
certo punto si sono stancati e se ne sono andati, così mi
sono tirato su e dato che non c’erano più treni
sono tornato indietro dagli altri…facciamo le prove da
quelle parti –
- A piedi? Non potevi chiamare qualcuno? – replicai in
difesa, perché mi pareva una specie di attacco nei miei
confronti quello, o probabilmente ero solo io che mi sentivo in colpa.
- Il cellulare era andato –
- Ma…riuscivi a camminare? –
- Mi sono appoggiato ai muri –
Merda.
- Ti hanno portato al pronto soccorso? – mormorai
avvilita.
- Non occorreva –
Ci avrei scommesso.
L’acqua sobbolliva e lui la versò in due tazze in
cui aveva precedentemente messo una bustina di the scadente (non posso
farci niente se noto queste cose), e si sedette un po’ a
fatica di fronte a me, che nel frattempo mi sentivo ancora un verme,
tanto per cambiare.
Se fossi tornata indietro almeno avrebbe avuto una spalla cui
appoggiarsi, e il debito stava assumendo proporzioni gigantesche nella
mia coscienza già provata.
- Posso chiederti un’altra cosa? –
Posò il gomito sul tavolo e sostenne il volto con la mano,
per guardarmi.
- Conosci mia sorella? – mormorai ignorando il
rimescolamento allo stomaco.
Lo vidi corrugare la fronte.
- Si chiama Moegi, ha le lentiggini e i capelli castano
rossicci, se li raccoglie spesso e… -
- So chi è Moegi – mi interruppe
– non ero sicuro fosse lei tua sorella, cosa vuoi sapere?
–
- Non… – feci una pausa – non
sei stato con lei? –
- Stato a letto? – mi chiese, e sembrava
genuinamente perplesso – E’ una bambina –
- Sarebbe un no? –
- E’ un no – replicò secco.
- E non sai chi… –
- Nessuno che conosco. E’ incinta? –
Non sapevo cosa mi prendesse quel giorno, doveva essere la stanchezza
accumulata, ma faticavo di nuovo a trattenere le lacrime e mi ero
affrettata ad afferrare un altro fazzoletto scadente.
Era anche ruvido, uno schifo.
Odio essere povera.
- Girano delle voci – mi spiegò.
Merda, ci mancava anche questo, mai che la gente si facesse i cazzi
propri, e potevo quasi immaginare la soddisfazione delle malelingue
nell’infierire con falsa pietà su una povera
ragazzina, come se questo potesse innalzarli dalle loro misere vite.
- Sono cazzate, girano voci su tutto e tutti –
Lo sapevo bene, ma questa era l’unica che mi facesse
così male, più di tutte quelle che sapevo girare
su di me.
- Non è incinta – sussurrai
soprappensiero, apparentemente intenta ad appallottolare il fazzoletto
tra le dita.
- Bene –
- No, non va bene…io…ha…ha
abortito –
Non appena mi erano sfuggite quelle parole mi ero resa conto, con mio
enorme orrore, di quello che avevo appena fatto uscire, e avevo sentito
qualcosa spezzarsi dentro di me.
Sollevai la testa e lo guardai con un’espressione che sapevo
sconvolta.
- E’ colpa mia – feci uscire in fretta,
con urgenza – sono stata io a convincerla, non
c’era altro da fare…non… –
- Non devi sentirti in colpa…per come la vedo io
sei stata coraggiosa –
Non mi guardava disgustato, o superiore, non mi guardava pietoso e
neppure con sufficienza, solo attento, e per un momento mi
sembrò che mi avesse tolto un peso dal petto.
Subito dopo avevo iniziato a piangere, una lacrima dopo
l’altra, una cosa abominevole e patetica, diciamocelo, ma non
potevo farci niente, era più forte di me, incontrollabile,
come se non fossi io e mi stessi guardando
dall’esterno.
Presi il nuovo pacchetto che mi aveva passato e mi asciugai gli occhi
spiazzata da questa mia emotività irrefrenabile, da questa
parte di me che pensavo estinta, eppure mi sentivo anche più
leggera, perché era anche un sollievo poter piangere
liberamente, quasi catartico essermi affidata a qualcun altro per una
sola volta nella vita senza sentirmi giudicata, anche se sapevo che me
ne sarei pentita e che un giorno avrei pagato quello sfogo, fino in
fondo, come pago sempre tutti i miei errori, tutte le mie debolezze.
- Non voglio più pensarci – ammisi come
svuotata – ma dimmi cosa posso fare per sdebitarmi con
te…chiedimi qualsiasi cosa perché voglio
togliermi almeno questo peso –
Lui mi fissava, e mi fissava, e poi aveva sorriso appena, e per un
momento pensai che mi avrebbe chiesto un bacio, o qualcosa di
più, e mi resi conto che non mi importava, che
non…non mi sarebbe dispiaciuto.
Non aveva fatto in tempo a rispondere che qualcuno era
entrato dalla porta, era una bella ragazza dai capelli rossi, con gli
occhiali.
- Ti ho portato qualcosa da mangiare –
cinguettò guardandomi con sospetto – devi riposare
il più possibile –
Improvvisamente mi sentii di troppo, e con una scusa mi alzai e uscii
di lì.
L’aria fresca mi schiarì i pensieri, non sapevo
cosa mi fosse preso, speravo solo che lui non parlasse, ma non credevo
che lo avrebbe fatto.
O magari sì, perché la gente se ne fotte degli
altri, e non vedevo perché lui avrebbe dovuto essere diverso.
Mi dissi che non importava, che in un ipotetico confronto era la sua
parola contro la mia, e che avrei negato fino alla morte.
_______________________________________________________________________________________________________________________________
Ecco, con il prossimo capitolo la storia inizia
a prendere forma.
E presto dovrò tirar fuori il nome del gruppo...non ho
ancora idee, mi sa che alla fine opterò per qualche
banalità tipo 'Team seven', siete avvisate!
|
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Capitolo 6 *** 6. ***
Scusate ancora per il
pasticcio con la storia vecchia: l'ultimo capitolo mi dava dei problemi
(non si riusciva più ad entrare), ed ho dovuto cancellarlo e
ripubblicarlo, senza pensare al fatto che sarebbe sembrato del tutto nuovo.
Va bene, tornando a questa storia, spero vi piaccia questo capitolo, che
almeno è davvero nuovo!
6.
Mi ero ripresa presto, per l’esattezza quella domenica
stessa, la sera, quando mi erano arrivate le mestruazioni e mi erano
tornati anche il buon senso e l’autostima.
Doveva essere stata la sindrome premestruale che mi aveva fatto agire
così, mi secca ammettere che mi capita spesso di dare di
matto per futili motivi per dopo scoprire imbarazzata che doveva
venirmi il ciclo, e forse ero anche un po’ sotto shock per
quella cosa in metropolitana, chissà.
Purtroppo ormai era tardi, quel che è fatto è
fatto, ed era un peccato non poter sopprimere Sasuke Uchiha che ora
sapeva davvero troppo, ma sarebbe stato il colmo dopo tutto quello che
aveva fatto per me, e poi non avrei proprio saputo come liberarmi del
cadavere, per cui non rimaneva che sperare che a causa dei traumi fisici
la sua memoria fosse lacunosa, o che non parlasse, mai.
Mi chiedevo quale delle due ipotesi fosse più improbabile.
Non lo avevo più cercato e il venerdì successivo
avevo tirato la tenda non appena entrata nella mia postazione,
onestamente non volevo vederlo, o più precisamente non
volevo affrontarlo, mi vergognavo.
Il colmo era che alla fine ero scappata talmente in fretta da casa sua
che non avevo neppure ripreso il cellulare, e dal momento che non osavo
tornare da lui per chiederglielo, avevo fatto il duplicato della scheda
attingendo al mio prezioso gruzzolo d’emergenza (prezioso non
per la modica somma che conteneva, ma per la sicurezza che
rappresentava per me), imprecando per la spesa imprevista, ed ora usavo
il telefonino antidiluviano di mia madre (era vintage anche quello,
puro modernariato).
Certo che dovevo proprio essere impazzita quel giorno: era quasi una
settimana che ci pensavo e ancora non capivo come avessi potuto
abbassare così tanto la guardia, e più ci pensavo
più sentivo che avevo mostrato troppo, davvero troppo, e
avevo paura.
Non bisogna mai affidare se stessi a nessuno.
Nessuno.
Non esistevano familiari, o amici, o amori che non fossero disposti a
pugnalarti per il loro tornaconto, magari non volevano neppure fare del
male, ma la gente neppure ci pensa, e comunque ci si può
raccontare uno svariato numero di cose per convincersi di non fare
niente di male, lo sapevo, e ci si può convincere
così facilmente che pugnalare qualcuno alle spalle
è la cosa migliore da fare.
Sapere che qualcuno in questo mondo conosceva i miei errori, le mie
debolezze, mi faceva paura, in più c’era di mezzo
ma sorella, che già si ficcava nei guai da sola senza che
l’aiutassi io raccontando in giro i fatti suoi.
Insomma, magari lo psicologo costava troppo, ma se proprio avevo
bisogno di confessare i miei peccati potevo andare da un prete, ecco,
non spiattellare tutto ad uno che abitava dalle mie parti, e che per
sovrappiù ero costretta a vedere una volta alla settimana.
Il lato positivo era che non mi sentivo più così
tanto in colpa nei suoi confronti, o meglio, sapevo di essere ancora in
debito e la cosa mi seccava ancora parecchio, ma un pochino mi sentivo
anche in credito per avergli mostrato una parte così
vulnerabile di me, e comunque per evitare equivoci avevo mezza idea di
chiedergli espressamente di non raccontare a nessuno quello che gli
avevo detto, non appena avessi osato affrontarlo.
A dire il vero il comportamento migliore e più intelligente
sarebbe stato quella di ignorarlo completamente da ora in poi, ma, era
strano, il pensiero di non avere mai più a che fare con lui
in qualche modo mi rattristava, forse a causa della strana forza
sotterranea che sembrava spingermi irresistibilmente verso di lui
(probabilmente gli ormoni), o forse perché è
bello non sentirsi soli, anche se solo per una microscopica frazione di
secondo.
O magari mi ci ero affezionata, ecco, un po’ come ci si
affeziona ai randagi che incontriamo spesso per strada, qualcosa di
simile.
Ascoltai distrattamente la ragazza che mi mostrava l’unghia
spezzata e mi chiedeva di rimediare, e tirai fuori gli attrezzi, pronta
ad applicare le più brutte e antiestetiche unghie finte che
avevo a disposizione, facevano sempre la loro porca figura con le mie
clienti.
Lei approvò entusiasta (approvavano sempre) e subito dopo
attaccò a raccontarmi dei problemi di letto con il suo
ragazzo, nei particolari, davvero, c’era una specie di legge
del contrappasso per cui dovevo sorbirmi i particolari intimi della
vita di sconosciuti, proprio io che avevo uno smodato amore per la
privacy.
Ascoltai con un orecchio solo e mi dissi che andava tutto bene, che
questa non era la mia vita, era solo una parentesi fino a quando non me
ne andavo via da lì, da unghie finte, miseria e Sasuke
Uchiha, perché in fondo questa vita non contava, era
provvisoria.
Per fortuna ne avevo già un’altra, a scuola
nessuno sapeva niente di me, e anche il lavoro in fioreria era
un’altra cosa, grazie al cielo, e nonostante a causa dei
bigliettini da allegare ai mazzi di fiori dovessi sorbirmi spesso
noiose spiegazioni, lì le persone non erano mai
così smaccatamente stupide da raccontarmi tutta la loro vita
come tendevano a fare qui. Non tutte almeno.
Una volta cercavo anche di dare qualche dritta alle mie irresponsabili
clienti, di metterle sull’avviso, non è bello
sentire che la gente si mette nei guai a causa della sua enorme
stupidità, soprattutto con persone dell’altro
sesso, ma ormai sapevo che era tutto fiato sprecato: la gente
è troppo limitata per provare anche solo a vedere al di
là del proprio naso, non ce la fanno.
Non ci si poteva fare niente.
E a proposito di guai, neppure io ne ero immune purtroppo, e sbirciai
la tenda trattenendo a fatica la tentazione di guardare
dall’altra parte.
Non capivo neppure da dove mi venisse tutta questa smania di vederlo,
chi se ne fregava di Sasuke, io avevo Sasori, l’uomo dei
sogni, con cui avevo iniziato a messaggiarmi sempre più
spesso, ed ero parecchio soddisfatta.
Con lui non avrei mai commesso l’errore che avevo commesso
con Sasuke, ed avevo la netta sensazione che avrebbe apprezzato la mia
discrezione, a nessuno frega niente di sciropparsi i problemi degli
altri, la gente vuole essere libera di pensare che tu stai bene e non
hai bisogno di niente, così non si sente in dovere di
fingere interesse e può soffocarti con le sue fesserie.
Amen.
Mi feci forza e non sbirciai mai dietro la tenda, dalla parte del bar
(era dura), e ritardai la mia uscita di un quarto d’ora, di
proposito, per non incontrarlo.
Immaginate la faccia quando me lo trovai di fronte
all’uscita, che mi aspettava.
Lo fissai imbambolata mentre mi porgeva il cellulare.
- Grazie – gli feci un po’ brusca, non
volevo che pensasse che fossimo amici o simili ora – vedi di
non dire niente di quello che ti ho raccontato, non so cosa mi
è preso –
- Tieniti per te le tue stronzate, duchessa – aveva
risposto subito, e potevo leggere chiaramente il fastidio in quei begli
occhi scuri.
Perché non poteva rispondere con un sì o con un
no per una buona volta? Perché doveva sempre complicare
tutto?
Lo raggiunsi in fretta perché nel frattempo si era voltato e
se ne stava andando via, e mi affrettavo pure anche se a rigor di
logica avrei dovuto essere contenta di non averlo più tra i
piedi.
Forse sotto sotto mi sentivo ancora in debito, o magari quel paragone
con il randagio era appropriato: è crudele cacciare via i
randagi, poverini, fanno tenerezza.
- Cosa vuoi dire – chiesi un po’ nervosa
mentre tentavo di adeguarmi al suo passo.
- Che se ti sei pentita di avermene parlato sono cazzi tuoi
–
Stronzo.
- Non vorrei che uscissero altre voci su mia sorella
– tentai di giustificarmi.
Si fermò e mi fissò un momento ancora
visibilmente adombrato.
- Non vado in giro a raccontare i fatti degli altri, puoi dormire in
pace – specificò, lo stronzo, e poi si
voltò e riprese a camminare un po’ troppo
velocemente per me, per la lunghezza delle mie gambe e per
l’altezza dei miei tacchi.
Mi misi a seguirlo imperterrita, senza ben sapere perché mi
angosciasse così tanto l’idea che non volesse
più avere a che fare con me (diciamo che al momento non
avevo né il tempo né la voglia di pensarci), e
attraversò la strada con la sottoscritta sempre alle
calcagna.
Iniziavo a sentirmi un po’ ridicola.
- Non possiamo fermarci un momento, che so, andare al bar e
parlare con calma? – buttai lì – offro
io –
Si era fermato ancora e mi aveva guardata perplesso.
- Offri tu? –
Non capivo a cosa fosse dovuta quell’aria incredula, non ero
mica così tirchia, ero solo oculata, e povera.
- Un misero tentativo di sdebitarmi almeno in parte
– specificai.
Lui aveva sorriso appena, e cominciavo ad abituarmi a quel sorriso, lo
trovavo persino…erotico.
Tentai di cacciare il pensiero mentre tornavamo indietro ed entravamo
in quello schifo di bar.
Ci sedemmo ad un tavolo all’angolo, un po’
nascosto, e il padrone, un tipo strano che si credeva molto spiritoso,
era parso contento di avere come cliente un suo dipendente,
così contento che ci portò due aperitivi senza
aspettare il nostro ordine.
- Offre la casa – spiegò mentre ce li
consegnava.
Ma guarda, sembrava proprio che fossi destinata a non tirare fuori
soldi.
- Il prossimo però lo pago io – replicai.
Il tizio aveva trovato la cosa molto divertente, rideva,
chissà perché, mentre per me era una questione di
onore, dovevo pur pagare quel debito in qualche modo, e dimostrare
contemporaneamente che non ero tirchia.
- Per prima… – dissi rivolta a Sasuke,
riprendendo il discorso – sappi che non è niente
di personale – assaggiai scettica quell’intruglio
– è che non mi fido di nessuno – tentai
di spiegargli poi, anche se di lui mi ero fidata, forse
perché non avevo molto da perdere, o più
probabilmente perché ero momentaneamente incapace di
intendere e di volere.
- Anche questi sono cazzi tuoi –
Non capivo perché si fosse offeso così tanto e
rassegnata finii di bere l’intruglio rendendomi conto solo
alla fine che era piuttosto alcoolico.
Mi sentivo un po’ strana.
Afferrai anche il secondo che nel frattempo era arrivato, quello che
dovevo pagare io, dicendomi che in fondo non era così male.
- Non è così facile fidarsi, per me
– ammisi – mi ci vogliono minimo tre anni di
conoscenza per iniziare a fidarmi giusto un minimo, anzi, se ci penso
non mi viene in mente nessuno di cui mi fidi fino in fondo, mi sembra
troppo rischioso…c’è qualcuno di cui ti
fidi, tu? – non era lui quello che viveva solo?
- I miei amici, Naruto in particolare – si
degnò di rispondere.
- Immagino che non mi resti che fidarmi di te, volente o
nolente – commentai, ma al momento non mi pareva
così grave, all’improvviso mi sentivo piena di
buoni propositi, doveva essere l’alcool.
- Immagino di sì –
Mi chiesi se questo faceva del nostro rapporto qualcosa che
assomigliava anche solo vagamente all’amicizia, e doveva
proprio essere l’alcool quello che mi scaldava il petto e mi
faceva allargare un sorriso, perché mi misi ad osservarlo
consapevole di avere addosso un sorriso un poco idiota.
La ferita sopra l’occhio si era rimarginata abbastanza ma era
ancora piuttosto visibile, notai, e probabilmente si vedeva ancora
l’ematoma sul corpo data la sua estensione, egoisticamente
non ci avevo più pensato.
- Come vanno le costole? –
- Sopravvivo – e dopo avere visto la mia
espressione (non so bene quale fosse), aveva aggiunto – ogni
giorno va meglio, non è più così male
–
- Spero che tu non lo dica solo perché devi fare
il duro –
- Non faccio il duro –
- Sì che lo fai, lo si deduce chiaramente dal
fatto che ti metti a difendere donzelle indifese anche se è
una battaglia persa –
- Niente di personale – mi prese visibilmente in
giro – Faccio sempre quello che penso sia giusto –
Era una risposta semplice, e non sapevo per quale motivo mi aveva
colpita così tanto, ma rimasi a guardarlo un po’
imbambolata, perché in fondo non era così
scontata la cosa, almeno non per me, che facevo quello che ritenevo
fosse meglio per me, o per mia sorella, non quello che credevo fosse
giusto fare.
Sbagliavo?
Cacciai quel ridicolo dubbio e finii di bere anche quel bicchiere, nel
frattempo lo guardavo chiedendomi se potevamo davvero essere amici noi
due.
Non avevo mai avuto amici, amici veri intendo, non avevo mai avuto
persone di cui potevo fidarmi, semplicemente perché pensavo
che non fosse possibile, che l’amicizia fosse una sorta di
alleanza temporanea, che le persone in fondo pensassero solo a se
stesse, qualcosa del genere…e non capivo perché
sentivo di potermi fidare proprio di lui, di questo sconosciuto che per
qualche motivo mi attraeva così tanto (e non avrebbe dovuto,
non avrebbe dovuto affatto).
Continuai a guardarlo pensando che tutto sommato se non altro era un
bel vedere, e che non era neanche tanto stupido per essere un maschio,
non era così male come interlocutore.
Gli sorrisi, la testa mi girava un poco, e per qualche assurdo e
sicuramente insensato collegamento pensai alla tizia dai capelli rossi
che avevo visto a casa sua.
Confesso che era un po’ che ci pensavo a quella
lì, che mi chiedevo che tipo di donna potesse piacergli,
cosa lo interessava di lei, cos’aveva quella di speciale.
Pura e semplice curiosità femminile, ovviamente.
- Carina la tua ragazza – buttai lì resa loquace
dall’alcool.
- Non ho la ragazza –
- Ah – non so perché ma mi veniva ancora
da sorridere – e allora chi… –
- Perché tutte queste domande? –
Il tizio mi aveva portato un altro bicchiere e lo accettai volentieri,
perché no?, mi sentivo sorprendentemente leggera quella
sera, decisamente allegra, quasi felice.
Non mi capitava spesso.
- Tento solo di esserti amica – spiegai –
voglio provarci, davvero –
- Balle –
- E perché, scusa? –
- Perché non fai qualcosa senza un tornaconto, me
l’hai detto tu stessa –
Che stronzo.
Non gli avevo mai detto una cosa simile, aveva frainteso il mio
sacrosanto diritto di non voler essere più povera, o magari
aveva anche ragione, magari ero un’egoista, ma non avevo
tornaconti quella sera, e faceva comunque male sentirselo dire in
faccia così, non era carino, ecco, Sasori non me lo avrebbe
mai detto, ne ero sicura.
- Cerco di sopravvivere – replicai bruscamente, e
bevvi un altro sorso – e se non vuoi avere a che fare con me
basta dirlo – conclusi, meno sicura di quel che avrei voluto.
- Non ho detto questo –
Mi resi vagamente conto che il sorriso assomigliava più a un
ghigno soddisfatto ora, ma al momento non mi importava niente della mia
espressione, mi importava quello che implicava la sua risposta.
Voleva ancora avere a che fare con me.
Ed io avevo bevuto decisamente troppo.
Dopo il terzo bicchiere ci alzammo, dovetti appoggiarmi per un momento
alla sedia perché le gambe non mi reggevano bene (non reggo
l’alcool e infatti di solito non bevo mai), e dal momento che
il tizio aveva detto che offriva la casa, ci avviammo per la strada che
ogni tanto mi aggrappavo a lui, ridacchiando senza motivo e pensando
che avrei dovuto trovare un altro sistema per ripagare Sasuke.
Raggiungemmo il metrò che mi sentivo ancora piuttosto
allegra, ed entrai nel vagone con la sensazione che la mascella mi
dolesse, mi sarei resa conto solo più tardi che era
perché stavo perennemente sorridendo come
un’idiota, un’espressione inusuale per i miei
muscoli facciali.
- Da te ho visto la foto di una bambina – buttai
lì dopo che mi ero seduta (lui era in piedi di fronte a me,
non c’era posto).
Mi stavo facendo un bel po’ di fatti suoi, alla faccia della
persona riservata, ma al momento non mi importava affatto, continuavo a
sentirmi spudoratamente allegra, e poi ormai avevo rotto talmente tante
regole con lui che una più una meno non cambiava molto.
Senza contare che ero curiosa.
- E’ mia sorella, mia madre si è
risposata –
Ah!
Il sorriso mi si allargò ulteriormente, se era possibile.
- E non sei andato a stare con loro? –
- Non vado d’accordo con il mio patrigno –
- Ed è vero che tuo padre è in
prigione? – continuai mentre con la mano, non so
perché, gli tiravo la maglietta che spuntava dalla giacca in
pelle aperta.
Mi aveva guardata seccato.
- Fai un sacco di domande –
- Cerco di mettermi in pari con tutto quello che sai su di me
–
- Te lo dirò un’altra volta, se fai la
brava – mormorò staccandomi la mano dalla
maglietta.
Stronzo.
Ma niente poteva scalfire il mio buonumore, per cui tirai fuori il
cellulare di mia madre, l’altro era scarico, avrei fatto il
cambio scheda a casa, e gli chiesi il numero.
- In caso di emergenza – spiegai.
Me lo diede, ed ero proprio soddisfatta di avere il numero di qualcuno
da chiamare in caso di emergenza.
La fermata successiva si era liberato un posto accanto a me e si era
seduto lì.
Continuavo ancora a sorridere come un’idiota, una cosa
imbarazzante, ma non riuscivo a trattenermi, e per lo stesso motivo,
perché non riuscivo a trattenermi, mi misi a studiare il suo
profilo, un profilo bellissimo, non si poteva negare, fino a quando non
si voltò a fissarmi a sua volta: i suoi occhi non erano
completamente neri visti così da vicino, avevano delle
pagliuzze più chiare, grigio blu, come gli feci notare ad
alta voce mentre mi ci perdevo un poco, ed erano davvero bellissimi,
anche quelli.
Dopo mi concentrai sulla cicatrice e la sfiorai appena con le dita, per
niente impressionata, anzi, era piacevole toccarlo, e quando mi
staccò le dita scesi a guardargli il naso, che era ancora
dritto per fortuna, non glielo avevano spaccato (non ero sicura di non
avere commentato ad alta voce), e infine scesi più
giù, a guardare quelle labbra ben disegnate, così
invitanti.
Allungai una mano, l’avvolsi attorno al suo collo e lo
attirai a me, perché ero felice, e perché avevo
un disperato bisogno di baciarle.
Sfiorai appena le sue labbra con le mie, saggiandone la morbidezza, e
con il cuore che batteva all’impazzata feci scivolare la
lingua nella sua bocca, lentamente, perché volevo
assaporarlo con calma.
Poco dopo eravamo lì che ci baciavamo con tutti noi stessi,
le lingue che si muovevano l’una sull’altra con
avidità, e c’era un formicolio che mi attraversava
il corpo ed arrivava fino in mezzo alle gambe.
Ci staccammo respirando a fatica, ed ancora non connettevo bene, tanto
che al momento l’idea di saltargli in braccio e farmelo
lì sul metrò, davanti a tutti, non suonava
così sbagliata com’era in realtà.
Lui guardò la fermata di sottecchi e si sollevò.
- Scendo qui, abbiamo le prove, ce la fai a tornare a casa
sana e salva? –
- Certo! Non sono ubriaca, solo un po’ allegra, e
poi è ancora presto! –
- Chiamami se c’è qualche problema
–
Mi fissò un momento prima di uscire, ed io rimasi
lì, con un sorriso idiota tra le labbra, il cuore in tumulto
e l’eccitazione che ancora non mi abbandonava, come il suo
sapore in bocca.
Non provavo neppure la sensazione sgradevole che mi dava quella
fermata, in quel momento era la fermata in cui scendeva Sasuke per fare
le prove con il gruppo, non quella in cui lo avevo vigliaccamente
abbandonato.
Solo dopo mi resi conto che ero sola, che se ne era sceso e mi aveva
abbandonata lì.
Bastardo.
Mi mancava già.
Scesi alla fermata giusta, la testa che girava un po’, ma non
appena fuori, all’aria aperta, ritrovai di colpo la ragione,
e nel tragitto fino a casa mi resi conto
dell’enormità di ciò che avevo fatto.
Mi affrettai a scrivergli un sms:
‘Scusa,
ho sbagliato, dimentichiamocene, vorrei davvero provare ad essere tua
amica’
Non avevo specificato a cosa mi riferivo, ma ero sicura che avrebbe
capito, così dopo aver firmato inviai e non ci pensai
più (più che altro tentai di non pensarci
più) fino a quando non trovai la sua risposta, il mattino
dopo.
‘Va
bene’
Ne rimasi inspiegabilmente delusa.
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Capitolo 7 *** 7. ***
Ecco qui, è
solo un capitolo di passaggio, niente di che.
7.
Le notti successive, prima di addormentarmi, mi capitava di pensare a
lui e a quel bacio che avevamo scambiato, intenso come era intenso lui,
ed ero consapevole che in quel modo rischiavo di caricarlo di
significati che non aveva e non doveva avere, eppure al calduccio sotto
le coperte non mi sembrava così grave, era solo un gioco in
fondo.
Al mattino ritrovavo la ragione e mi ripetevo che dovevo smetterla, che
in fondo si trattava solo di un bacio, niente di che, che probabilmente
ero solo in crisi di astinenza e avevo bisogno di affetto, ma la sera,
in quel piacevole stato tra il sonno e la veglia, non riuscivo a
resistere e ci cascavo di nuovo come un pero.
Mi sentivo come quella che voleva smettere di fumare e si diceva ogni
volta che era l’ultima.
Tutto questo fino a giovedì, quando mi ero trovava con
Sasori, proprio lui, il mio principe azzurro.
Mi aveva chiamata la mattina stessa per dirmi che era a Konoha per
poche ore, e chiedermi se ero libera per pranzo.
Ovviamente avevo risposto di sì (non subito, avevo aspettato
più di mezz’ora prima di rispondere, di proposito,
per tenerlo un po’ sulle spine).
Ci eravamo dati appuntamento fuori dalla mia facoltà, e
grazie al cielo nonostante la mancanza di preavviso il mio look era
impeccabile, come sempre, da capo a piedi, intimo compreso.
Ciò nonostante mi ero guardata allo specchio del bagno per
almeno venti volte per controllare il trucco, eccitatissima e
particolarmente soddisfatta del fatto che intendesse portarmi fuori a
pranzo, e non a letto, come un vero e proprio gentleman: aveva
guadagnato dieci punti nella mia personale agenda.
Si era presentato con una porsche color argento, che non era
esattamente il mio genere di auto, un po’ troppo vistosa (e
poi avevo sempre pensato che la guidassero tizi grassi e pelati, per
compensare), ma non era certo il caso di fare le schizzinose, era
comunque una meraviglia, e mi sedetti nel sedile di pelle sentendomi
proprio una duchessa, alla faccia di chi pensava male di me.
Durante il tragitto mi rese edotta dell’intero arsenale di
macchine a sua disposizione, come se a me potesse fregare qualcosa, ma
mostrai comunque il mio bravo interesse, forse anch’io se
avessi avuto montagne di gioielli li avrei sventolati in faccia alla
gente, anche se magari non in faccia ad un ragazzo al primo
appuntamento.
Ma i maschi sono stupidi, si sa, o poveri, e spesso tutte e due.
Il pranzo era stato magnifico, il posto era magnifico, con un
arredamento modernissimo in tutte le sfumature dal beige al marrone, il
bagno poi era il più lussuoso in cui avessi messo piede, e
il cibo ottimo benché un po’ scarso, ma tanto non
avevo tutto questo appetito.
Nel dubbio avevo lasciato che ordinasse lui per me, avevo letto da
qualche parte che si faceva così, e non me ne ero pentita:
avevo assaporato le pietanze particolarmente di gusto sapendo che non
pagavo io, ed avevo anche assaggiato il vino bianco, leggermente
frizzante, constatando che era un’altra cosa rispetto
all’intruglio del bar (cacciai l’immagine di
Sasuke, non era il caso di mettersi a pensare a lui in compagnia del
proprio principe azzurro).
Sasori era stato squisito, mi aveva fatto sentire una
principessa, o una duchessa magari, e avevamo parlato di tutto,
davvero, non era ignorante come tanti che conoscevo, e poi mi anche
aveva raccontato molte cose di lui, dei suoi viaggi principalmente, e
della sua passione per le macchine costose.
Avevo ascoltato sorridendo e buttando lì qualche battuta, e
di me avevo raccontato solo che studiavo medicina, facendo alcuni vaghi
accenni ai mei progetti, anche troppo mi pareva.
Mi aveva definita misteriosa, e andava bene così.
Dopo, in macchina, mi chiese se avevo la casa libera (evidentemente
aveva programmi per il dopopranzo, altro che gentleman) ed era quasi
con sollievo che avevo risposto di no, mi pareva più
prudente aspettare ancora un poco per certe cose.
Mi feci accompagnare di fronte alla facoltà con
l’intenzione di studiare un po’ in biblioteca prima
di recarmi al lavoro in fioreria, e mi aveva salutata dicendo che la
prossima volta avrebbe fatto in modo di fermarsi di più,
almeno una notte, ed avevo capito benissimo cosa intendeva dire.
Ci baciammo, ovviamente, un bacio abbastanza lungo, abbastanza decente,
anche se non mi aveva, diciamo, fatto venire voglia di saltargli
addosso.
Mi pareva fosse andato tutto bene, non avrei potuto chiedere di meglio,
e guardai di sfuggita il mio riflesso sul vetro dell’entrata
in biblioteca.
Cos’era quella faccia seria? Perché non ero
raggiante come avrei voluto, come avrei dovuto?
E perché avevo il dubbio che fosse tutta colpa di Sasuke?
Il giorno dopo ne avevo perfino parlato ad Ino, con cui mi ero
raffreddata molto dopo la volta della metropolitana, ma avevo bisogno
di dirlo a qualcuno e non mi pareva un argomento così
compromettente da dover essere taciuto, in fondo si trattava di
ragazzi, argomento universale, e soprattutto di ragazzi che lei non
conosceva.
Le avevo raccontato di questo tizio terribilmente affascinante di Suna,
e di quest’altro, che era solo un amico e per vari motivi non
faceva proprio per me, ma, come dire, mi faceva sesso.
Secondo lei con Sasuke dovevo togliermi lo sfizio una volta per tutte e
non pensarci più, prima che la cosa degenerasse, e forse
aveva ragione, non so.
Non capivo neppure a cosa fossero dovuti quei pensieri, da cosa mi
venissero dei dubbi quando di fronte a me c’era esattamente
quello che avevo desiderato, ed esattamente come lo avevo desiderato.
Sasuke era solo un amico, o meglio, un potenziale amico.
Venerdì pomeriggio, ancor prima di entrare al lavoro, diedi
un’occhiata al di là della strada, dentro al bar.
Lui era già lì ma non sembrava avermi visto,
parlava con un tizio, e lo studiai per un poco arrabbiata, non sapevo
neppure bene il perché anche se avevo i miei sospetti.
Era una giornata nuvolosa, per cui non tirai le tende, e nonostante mi
sforzassi di non guardare ogni tanto l’occhio scivolava
dall’altra parte della strada, il traditore; non appena me ne
accorgevo distoglievo in fretta lo sguardo, seccata, ma un paio di
volte incrociai i suoi occhi.
Ero davvero arrabbiata con lui,
perché…perché in fondo era colpa sua
se il bacio tra me e Sasori non aveva fatto faville, ecco,
perché se non avessi avuto il suo bacio da paragonare
sarebbe andato tutto bene, ne ero sicura, e non importava che fossi
stata io a iniziare, era comunque colpa sua.
Nonostante questo non pensai neppure un secondo di evitarlo, ormai mi
ero quasi rassegnata al fatto che una parte di me voleva vederlo, e poi
non potevo stare sempre a pensare a implicazioni, rischi e conseguenze,
dovevo pur vivere la vita di ogni giorno e lasciare che alcune cose
andassero come capitava, l’importante era continuare a tenere
i piedi ben saldi a terra e sapere esattamente cosa si voleva dalla
vita.
O almeno era quello che continuavo a ripetermi.
All’uscita, neanche avessimo fatto apposta, ci ritrovammo a
camminare insieme.
Solo in quel momento mi resi conto che non sapevo bene come
l’avesse presa lui, quella storia del bacio, che non sapevo
cosa pensasse, cosa volesse.
Sono davvero egoista, lo so.
A mia difesa posso dire che non è solo questione di egoismo,
cerco di barcamenarmi, ecco, e di proteggermi da quei ragazzi che ti
fanno girare la testa e ti fanno invariabilmente soffrire, e da tutte
quelle persone che si prendono un pezzetto del tuo cuore e non ti danno
niente, e neppure ti ricoprono d’oro per compensare.
Lo sbirciai ancora, guardava fisso di fronte a sé e mi
pareva così bello in quel momento che il cuore mi
sussultò nel petto.
Bastardo.
- Ieri ho incontrato un tizio veramente affascinante, sono
molto contenta – buttai lì con il solo scopo di
farlo sentire inferiore, perché ero arrabbiata con lui, era
colpa sua, sapevo io di cosa.
- E’ ricco? –
- Ovviamente sì –
- Buon per te –
Aveva parlato freddamente, ma ero riuscita lo stesso a percepire il
fastidio, e guarda caso dopo non aveva più aperto bocca.
Camminammo affiancati, lui troppo in fretta, faticavo a stargli dietro,
ed anche questo era un segno, faceva apposta, lo sapevo, fino a quando
non incontrammo quella specie di barbone che suonava la chitarra.
Questa volta era dentro alla metropolitana, subito sotto le scale
d’entrata, cominciava a fare un po’ troppo freddo
fuori, e Sasuke si fermò a parlare con lui, lo stronzo,
sicuramente di proposito, perché se lo doveva immaginare che
la cosa non mi piaceva, non era così stupido.
Proseguii senza neppure salutarlo e salii sul treno senza
più vederlo, sentendomi inspiegabilmente sola.
Vabbè, era quello che volevo, e non si è sempre
soli, in fondo?
Un fattore esistenziale, o qualcosa del genere.
Il giorno dopo studiai tutto il tempo decisa a non pensare a niente, e
risposi svogliatamente anche ai messaggi di Sasori, che sembrava
convinto di avere passato un paio d’ore meravigliose con me.
Forse perché ero nervosa, o magari perché quel
giorno mi stavano sulle palle tutti gli esseri viventi indistintamente
(a volte ho di queste giornatine), ma in quel momento non mi sembrava
proprio di aver trascorso delle ore così memorabili, o
meglio, il contesto era stato entusiasmante, lui si era comportato in
modo impeccabile, però, vuoi perché per ovvi
motivi quando ci eravamo visti ero un po’ in tensione, vuoi
perché dopo un po’ che senti uno raccontarti che
ha fatto questo, e quello, la cosa ti viene a noia, non me la sentivo
di definire quelle ore come meravigliose, e questa era la prima e
ultima volta in cui intendevo ammetterlo, anche con me stessa.
__
Per un motivo o per l’altro (per un ragazzo o per
l’altro) continuavo ad essere piuttosto nervosa in quei
giorni, e quella domenica mattina mia madre e mia sorella si erano
messe a litigare.
Moegi era tornata in tutto per tutto l’adolescente rompiballe
che era prima, come se davvero non fosse accaduto niente, ma non me ne
sorprendevo più, in fondo anch’io pensavo sempre
meno all’aborto e andava bene così, non era
salutare piangere su qualcosa che non si poteva modificare, non aveva
senso.
L’unica cosa da fare era imparare la lezione, non ripetere
gli stessi errori ed andare avanti: c’è sempre un
altro giorno ed un’altra occasione.
Ci deve essere.
Restava solo una nuova cicatrice da qualche parte, e forse, ben
seppellita, l’immagine indistinta di un bambino che avrebbe
potuto esistere.
Il pensiero scivolò naturalmente su Sasuke, non so
perché, diciamo che per il mio inconscio ogni scusa era
buona.
Quello…quello stupido.
Ero sicura che fosse arrabbiato con me, e la cosa mi angustiava
più di quello che avrebbe dovuto, forse perché
stavo sorprendentemente bene in sua compagnia, non lo nego, e mi
sentivo davvero un po’ più sola all’idea
che ce l’avesse con me.
Gli avevo perfino preso un pensierino, una cosina microscopica.
Per non prendermi gli ultimi giorni ero andata a far compere per Natale
in un negozio del centro, avevo acquistato una piccola trousse di
trucchi da regalare a mia sorella ed una crema per mia madre, tutte in
offerta ovviamente, e subito dopo ero passata di fronte ad un negozio
di strumenti musicali.
Colta da un impulso incontrollabile ero entrata e gli avevo preso un
plettro rosa shocking che gli avrebbe ricordato la sottoscritta ogni
volta che suonava la sua chitarra, una sciocchezza, non sapevo neppure
se avrei osato consegnargliela.
Almeno costava pochissimo.
Nel frattempo ascoltavo con un orecchio solo gli scatti nervosi di mia
sorella e le lamentele di mia madre, che già a
quell’ora era seduta di fronte alla tv e chiedeva
continuamente di portarle qualcosa, ma quando Moegi si era messa ad
urlarle che non potevamo essere sempre al suo servizio, che doveva
sforzarsi di fare qualcosa, che non era così malata in
fondo, non ero più riuscita ad isolarmi: aveva anche
ragione, però era ancora nella fase in cui credeva che
urlando sarebbe riuscita a far cambiare le cose, nella fattispecie mia
madre, io avevo perso da tempo ogni illusione e tentavo solo di
arginare i danni.
Dopo aver provato in vari modi a farle tacere, o a isolarmi ancora
nonostante tutto, mi alzai di scatto, seccata, e aprii il freezer per
prendermi del gelato che avevo comprato in un raptus, usando soldi di
tasca mia, per accorgermi che qualcuno aveva chiuso male la portella e
l’interno era pieno di ghiaccio.
Afferrai il barattolo di gelato constatando che era mezzo sciolto e
semivuoto, e subito dopo iniziai a urlare anch’io: il freezer
era ben fornito quel giorno, una rarità in casa mia, e
adesso era tutto andato in malora: sapevo che erano state quelle
stronze per prendersi il mio gelato, ma non sapevo quale delle due, ed
ero sicura che avrebbero negato anche sotto tortura.
Tolsi il ghiaccio alla meno peggio, non potevo mettermi a sbrinare
proprio ora, un lavoro che odio con tutte le mie forze, e richiusi di
nuovo tutto dentro dicendomi che se quelle stronze si prendevano la
salmonella perché per colpa loro, e ribadisco, per colpa
loro era tutto avariato, be’, peggio per loro, io tanto ero
immune a virus e batteri, ne ero sicura.
Dopo aver imprecato per un quarto d’ora uscii di casa
sbattendo la porta, avevo bisogno di prendere aria.
Il fatto era che avevo raccomandato un miliardo di volte di chiudere
bene il freezer, la guarnizione era un po’ usurata e
bisognava spingere bene, ma loro no, se ne fregavano, tanto mica era un
problema loro, c’era Sakura pronta a sistemare tutto, e
questo simboleggiava un po’ il mio ruolo
all’interno della famiglia: chi se ne frega, tanto
c’è Sakura, problemi suoi.
Parassiti, tutti...e vi pareva che avessi voglia di accollarmi anche
qualche altro parassita nella mia vita? Magari un ragazzo squattrinato,
magari solo perché mi faceva sesso?
Non se ne parlava nemmeno.
Meglio sole, davvero…molto meglio sole.
Camminando capitai di fronte al palazzo di Sasuke, feci finta che fosse
per caso, ma non lo era, lo sapevo bene, e proseguii di filato
giù per il quartiere: era presto, non erano neanche le dieci
di domenica mattina e non c’era nessuno in giro, una
meraviglia.
La rabbia mi stava già sbollendo e non pensavo
più a quelle due, ma in compenso pensavo al fatto che era
una seccatura che lui si fosse risentito, perché non sarebbe
stata una cattiva idea quella di andare a studiare in santa pace a casa
sua, e in fondo non era solo questo, era che un poco mi mancava il mio
randagio, mi ci ero proprio affezionata e ormai era sempre
lì in un angolino dei miei pensieri, come una presenza
latente.
Mi chiesi se gli importasse un pochino di me, se fosse un pochino
geloso, se non si fosse arrabbiato proprio per quello, e per quanto
fosse ridicolo non riuscivo a non trovare l’idea
elettrizzante.
Poco dopo, mentre passavo ancora una volta dalle sue parti con una
mezza idea di provare lo stesso a fare un salto da lui con i libri, mi
giunse il suono di voci alterate e mi avvicinai per controllare,
perché mi pareva di riconoscere quella maschile:
c’erano due persone, una come avevo immaginato era Sasuke e
l’altra era la donna che avevo visto sulla foto anche se
aveva qualche anno in più, che gli somigliava molto e doveva
essere sua madre.
Mi nascosi dietro ad un angolo sicura che lui non avrebbe apprezzato di
trovarmi lì, ma tanto era già arrabbiato e non
cambiava molto, e comunque, per quanto mi rendessi conto che non era
esattamente educato origliare, non mi sentivo per niente in colpa: la
mia inesistente curiosità stava prendendo improvvisamente
vita e quei due si trovavano in un luogo pubblico, peggio per loro.
Rimasi inchiodata lì, ben nascosta dietro
l’angolo, ma al momento non mi importava neppure
così tanto di essere scoperta.
- E a cosa deve pensare? – sentii dire a Sasuke,
con un tono calmo ma tremendamente freddo che metteva i brividi e che,
mi resi conto, non aveva mai usato con me.
- E’ ancora arrabbiato – aveva risposto
lei – pensa che sia meglio se anche voi state un
po’ lontani e… –
- Che stronzo –
- Devi capirlo, anche tu hai sbagliato, te l’ho
detto…e sai quanto è protettivo verso la famiglia
–
- E da chi deve proteggerla? Da me? Che minaccia rappresento
esattamente per la sua famiglia? …e perché tu non
hai detto niente? –
C’era stato un lungo silenzio.
- Non è così facile – sentii
rispondere lei – io…è anche la mia
famiglia –
Non ci capivo nulla e non erano fatti miei, ma mi pareva una cosa
stupida, e suo figlio, allora? Non era un membro della famiglia, lui?
Ci fu un’altra pausa, e mi domandai se non era esattamente
questo che si stava chiedendo Sasuke.
- E allora rimani con loro e non continuare a tormentarmi
–
- Non ti tormento, sono tua madre e sto cercando di
conciliare tutto, non è facile e… –
- Non sforzarti allora, lasciami in pace –
Si capiva che sua madre era molto agitata, e ad un occhio estraneo lui
poteva sembrare quello cattivo, ma io non mi faccio facilmente
impietosire: non per fare la solita cinica, però,
sicuramente a causa della mia esperienza personale, non ho una grande
opinione di padri e madri.
Non è colpa loro suppongo, il fatto è che le
persone non si trasformano dopo aver messo al mondo figli, se erano
immature e irresponsabili prima rimangono tali anche dopo, anzi, col
tempo peggiorano, e a volte ho l’impressione che si mettano a
procreare convinte che siamo una specie di cuccioletti da portarsi a
casa per poi diventare delle seccature quando si accorgono che non
siamo poi così graziosi, o peggio, per diventare quelli che
dovrebbero prendersi cura di loro, come se fossero loro una nostra
responsabilità, e non l’esatto contrario.
Mi accorsi che Sasuke si stava allontanando e mi appiattii dietro
l’angolo sperando che non venisse dalla mia
parte…come non detto, mi passò proprio di fronte
e si voltò a guardarmi con la coda dell’occhio.
Sembrava furioso, non l’avevo mai visto così.
- Senti… – iniziai.
- Cazzo ci fai qui? – mi sibilò
– Vattene! –
Non è che di solito mi faccia intimidire, tantomeno da lui
che ormai sapevo non essere così cattivo come sembrava, ma
c’era qualcosa nel suo tono, nei suoi occhi, che non gli
avevo mai visto e che in qualche modo riconoscevo: sapevo che stava
male.
Rimasi immobile, paralizzata per alcuni secondi, non tanto per il fatto
in sé, quanto per quello che sentivo io di rimando,
perché mi dispiaceva così tanto, ed avrei voluto
fare qualcosa, avrei voluto raggiungerlo e per una volta in vita mia
essere capace di parole buone, incoraggianti.
Non credevo di esserne capace, anzi, sapevo di non esserne capace, e in
ogni caso lui non mi avrebbe mai permesso di avvicinarmi.
Si voltò senza una parola lasciandomi lì come una
stupida, e in fondo era così che mi sentivo,
perché non era il caso di agitarsi tanto, era eccessivo, la
faccenda non era molto grave, si trattava solo di sciocche beghe
familiari, e chi non ne ha.
Restai lì ferma, a calmarmi pian piano, e mentre mi dicevo
che avevo sbagliato ad impicciarmi dei fatti suoi e dovevo
semplicemente dimenticarmi di avere assistito a quella scena, lo
guardavo allontanarsi, e non so…mi pareva così
bello in quel momento, e così solo.
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Non vado da nessuna parte per le feste, per cui dovrei postare i
prossimi capitoli senza grosse variazioni.
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Capitolo 8 *** 8. ***
Eccomi qua, nessun
commento sul capitolo, spero vi piaccia, io sono in una fase in cui butterei tutto!
Passando a cose più serie...purtroppo in questa
storia il Natale arriverà in ritardo rispetto a noi, mancano
ancora diversi capitoli…ma intanto Buon Natale a tutte voi!
8.
Quel venerdì Sasuke non mi aveva mai degnata di uno sguardo
attraverso la vetrina, e quando uscii se ne era già andato.
Ci rimasi parecchio delusa, lo ammetto, mi ero fatta l’idea
che mi avrebbe aspettata ed avremmo fatto la strada insieme per sempre,
o quasi, invece probabilmente era ancora arrabbiato con me, o con il
mondo, e non mi voleva intorno.
Io invece l’avevo cercato con gli occhi ossessivamente per
più o meno l’intero pomeriggio, e non mi piaceva
per niente questo mio atteggiamento, lo trovavo abbastanza patetico,
eppure non riuscivo a trattenermi, era più forte di me.
Tenuto conto che invece rispondevo anche un po’ annoiata ai
messaggi di quell’altro, Sasori, e che anzi, a volte
rispondevo dopo un bel po’, e un paio di volte addirittura
neppure avevo risposto, la cosa stava velocemente degenerando, proprio
come aveva predetto Ino.
Il lato positivo era che Sasori invece sembrava sempre più
ossessionato da me, funziona sempre non mostrarsi troppo interessate,
anzi, purtroppo quello che funziona è proprio il non essere
troppo interessate: meno me ne fregava di lui, più lui
sembrava insistere, meno rispondevo, più lui chiamava, se
continuavo così lo avrei avuto presto ai mei piedi, e magari
a quel punto non lo avrei voluto più.
Non che fosse questo il caso, intendiamoci, in realtà lo
volevo ancora, nonostante in quei giorni i suoi sms mi sembrassero
particolarmente melensi, i suoi discorsi così noiosi, e
nonostante non mi paresse nemmeno più tanto attraente, non
confronto a Sasuke.
Cominciavo a sospettare di non essere il tipo da relazioni a
distanza…e va bene… in realtà sapevo
che il problema era un altro, ovvero questa specie di tira e molla con
Sasuke che mi toglieva interesse per qualsiasi altra cosa, ma non ero
veramente preoccupata, non c’era da farne un dramma, ero
perfettamente in grado di ragionare e di capire quali erano i limiti
della mia relazione con ambedue, e soprattutto sapevo che cosa volevo
dal mio futuro.
Non ero tipo da perdere la testa, tantomeno per un uomo, ed avevo i
piedi ben ancorati a terra.
Tutto questo non mi impediva di rispondere svogliatamente a Sasori,
almeno provvisoriamente, e di avere voglia di vedere Sasuke, che in
fondo era la cosa più vicina ad un amico che conoscevo.
__
Sabato mattina avevo fatto il mio giretto mensile in posta per ritirare
la pensione, e me la presi davvero comoda al ritorno.
Diciamo che non fui per niente sorpresa di incontrare Sasuke, guarda un
po’ i casi della vita, che nel posto dell’altra
volta stava caricando gli strumenti sul solito furgone scassato,
assieme a quegli altri due perdenti.
- Ciao Sakura! – mi salutò allegramente
Naruto, che non sembrava brillare di intelligenza ma non si poteva dire
che fosse antipatico, o stronzo.
Mi fermai a scambiare due parole con lui dato che gli altri non mi
avevano neppure salutata, il quale mi spiegò che erano in
partenza per Oto, dove dovevano suonare quella sera.
- Vuoi venire con noi? Non ci fermiamo lì,
torniamo indietro subito dopo! –
- No, grazie, è un po’ troppo lontano
– replicai mentre meditavo di scroccare una sigaretta al tipo
dell’altra volta, il fornitore ufficiale di tutti a quel che
vedevo.
- La settimana prossima allora! Suoniamo qua a Konoha!
– insisteva lui con il suo solito entusiasmo strabordante.
- Be’, vediamo –
Ma ascoltavo con un orecchio solo, intanto guardavo Sasuke che
continuava ad ignorarmi platealmente.
- Scusa Sasuke, vorrei dirti due parole – buttai
lì nella sua direzione, e non sapevo neppure cosa mi fosse
saltato in mente, perché non mi pareva granché
dignitoso imporsi così, anzi.
Diciamo che era stato un istinto insopprimibile, come mi accadeva
sovente con lui.
Un po’ troppo sovente.
Era il fatto che…mi seccava vederlo sgusciare via dalla mia
vita in quella maniera stupida, come non avrebbe dovuto seccarmi.
Nel frattempo mi sentivo gli sguardi degli altri due addosso, e
immaginavo perfettamente i loro pensieri: Naruto aveva l’aria
sconcertata, della serie ‘anche tu, non me lo sarei mai
aspettato’, l’altro invece sembrava annoiato,
qualcosa del tipo ‘e te pareva’, ma me ne fregai e
mi avvicinai a Sasuke visto che se non altro si era degnato di
guardarmi.
- Sei arrabbiato con me? – bisbigliai sporgendomi
un poco verso di lui, preferivo evitare la sceneggiata pubblica.
- Non gira tutto attorno a te –
Sempre simpatico.
Almeno aveva usato un tono abbastanza basso e forse gli altri non
avevano sentito, forse.
- E’ per tua madre allora? –
A questo punto non intendevo demordere, e sostenni eroicamente il suo
sguardo aggressivo, tanto ormai c’ero abituata.
- Non è che voglia farmi i fatti tuoi –
specificai sempre sottovoce – ma mi chiedevo come stavi
– non c’erano molte persone con cui mi interessasse
mantenere un rapporto, e quelle poche dovevo tenermele care.
- Forse è il caso di chiarire
l’equivoco: noi due non siamo amici –
Non so perché ma quelle parole mi avevano ferita
orribilmente, e contemporaneamente mi avevano resa edotta della mia
immensa vulnerabilità: ero stata davvero così
stupida da abbassare così tanto la guardia con lui?
Avevo davvero permesso ad un essere umano di avere tutto quel potere su
di me?
Dovevo provvedere immediatamente.
Senza più dire una parola mi voltai e mi diressi verso casa,
la borsa stretta in mano come se ne andasse della mia vita, ed anche un
po’ ne andava a dire il vero, visto che dentro
c’erano i soldi della pensione.
Se speravo che mi corresse dietro stavo fresca, il bastardo, comunque
neppure lo speravo, al momento non lo volevo proprio vedere, e arrivai
a casa che ero furiosa, con lui e con me stessa, ben decisa a non
degnarlo mai più di uno sguardo.
Stronzo.
Quel pomeriggio risposi tutta zelante a Sasori per la prima volta dopo
giorni, perché c’è sempre un lato
positivo, ma devo confessare che la notte mi ero fatta un piantino.
Per un uomo, che vergogna!
Era mattino presto quando avevo ceduto a quella che non potevo definire
se non una strana forma di ossessione e gli avevo inviato un messaggio,
una cosa molto semplice.
‘Sei proprio
uno stronzo, lo sai?’
Avevo bisogno di sfogarmi, e chi meglio del diretto interessato?
Onestamente speravo fosse tornato da poco e di averlo svegliato, ma non
mi illudevo molto, probabilmente era ancora in viaggio e neanche si
accorgeva del messaggio; invece, incredibilmente, mi aveva risposto
poco dopo, e devo dire che non me l’aspettavo proprio, anzi,
dubitavo perfino di ricevere una qualsiasi risposta conoscendolo.
‘Sei tu
duchessa?’
Lo stronzo aveva dubbi, non si era neppure salvato il mio numero.
Replicai di getto:
‘Sei anche un
idiota’ che poi era la pura e semplice
verità.
E poco dopo gliene inviai un altro:
‘E mi vergogno
di averti dato quel bacio’
Che poteva sembrare ridicolo come messaggio…ok, lo ammetto,
era davvero ridicolo, e non aveva neppure senso nel contesto, ma mentre
lo scrivevo ero infantilmente soddisfatta, anzi, avrei aggiunto ancora
più da immatura che non c’era confronto con i baci
del mio principe, solo che non volevo strafare.
Un secondo dopo ovviamente mi ero già pentita di quella
frase e me ne vergognavo profondamente.
Non so neanche bene cosa volessi ottenere con quelle stupidaggini,
soprattutto con quell’accenno al bacio, pensavo di ferirlo?
E come? Non ero più così sicura di piacergli,
magari era stata solo la mia vanità che mi aveva fatto
prendere lucciole per lanterne…si sa come sono i maschi, non
stanno a porsi molte domande quando una ragazza gli salta addosso, a
loro va bene comunque.
E poi…probabilmente ad un ragazzo come lui non poteva
piacere veramente una come me.
Che stupida.
Speravo almeno di averlo provocato abbastanza da spingerlo a replicare,
ma ovviamente il bastardo non aveva più risposto, di sicuro
si era convinto definitivamente che fossi una povera pazza, una da
evitare, e giuro che fu una fatica immane resistere e non scrivergli
più.
Per fortuna assieme al sole mi era tornata anche la
lucidità, e mi misi a studiare intervallata soltanto dalle
richieste lamentose di mia madre e dagli sporadici interventi di mia
sorella, che per fortuna dopo pranzo era uscita con le sue amichette,
altrettanto se non più stupidelle di lei.
Non che mi sentissi tanto superiore al momento, soprattutto se pensavo
al messaggio delirante che gli avevo inviato.
Che imbarazzo!
E’ un peccato che non li si possa cancellare a posteriori,
dovrebbero proprio trovare un sistema per renderli cancellabili entro i
primi due minuti, o qualcosa di simile.
_
Nel pomeriggio avevo addobbato l’albero di Natale, non sapevo
neanche perché dato che non me ne fregava molto e di solito
era Moegi l’entusiasta che mi costringeva a prepararlo, ma
quest’anno sembrava che non importasse neppure a lei e non me
la sentivo di non fare proprio niente.
Mi pareva triste.
Non che mi ci fossi impegnata molto, ma non era venuto così
male, ero quasi soddisfatta.
Dopo avevo studiato per diverse ore e mi sentivo pronta a rilassarmi e
concedermi un meritato riposo, quando Moegi mi aveva chiamata
piangendo: chiedeva se potevo andare a prenderla da Ichiraku e fare la
strada del ritorno con lei, e sembrava davvero disperata.
Ichiraku era il bar in cui lavorava Sasuke, e non sapevo se lui fosse
lì, non avrebbe dovuto dal momento che era tornato
chissà a che ora, ma sapevo che la sua presenza era
l’unico motivo che spingeva Moegi e le sue amichette ad
andare lì ogni tanto la domenica, per cui doveva esserci, a
meno che non vi fossero capitate nella speranza di vederlo e non
avessero deciso di rimanerci comunque.
Non che importasse, e in altre circostanze non le avrei proprio badato,
avrei pensato che fossero le solite paturnie da adolescente, beghe tra
amichette di solito, e le avrei detto di smetterla di frignare e
muovere le chiappe, ma dopo l’incidente, lo chiamavo
così ormai, mi faceva entrare nel panico per molto meno,
così le scritti di aspettarmi, che arrivavo subito, e mi
precipitai al metrò in un battibaleno.
In una ventina di minuti ero già da Ichiraku, un record, ed
entrai senza neppure pensare a Sasuke, che comunque era lì,
non era che potessi non notarlo.
Era piuttosto evidente.
Cercai mia sorella con lo sguardo ignorandolo apertamente, avevo ancora
il fiatone, e la vidi seduta ad un tavolo in fondo, in una delle sue
migliori pose seduttive e per nulla disperata.
Anzi, rideva.
In quel momento si accorse a sua volta di me, e doveva essersi resa
conto della gravità della sua situazione perché
si affrettò ad alzarsi, e dopo avermi raggiunta mi
trascinò fuori senza darmi il tempo di fare una scenata.
- Ti ho scritto che non occorreva più! –
mi sgridò, neanche adesso fosse colpa mia.
Controllai il cellulare ed effettivamente c’era un messaggio
non letto, però non era quello il punto e la guardai
decisamente incavolata: aveva gli occhi un po’ gonfi, ma non
mi feci impietosire.
- Si può sapere cosa è successo? –
sibilai.
- Ami mi ha chiesto se ero incinta! – fece uscire
in un soffio, con una voce un po’ tremante.
Ami era la sua nemica acerrima, almeno fino ad un paio d’anni
prima, e mi ero illusa che con l’adolescenza avessero
superato quella ridicola fase di dispetti e cattiverie, ma
evidentemente ero stata ottimista.
- Hai negato spero –
- Sì ma lo sapeva! Come è possibile!
–
Non ne avevo idea, ma grazie a Sasuke ero a conoscenza del fatto che la
voce girasse.
- L’hai detto a qualcuno? – provai a
chiedere, le avevo fatto giurare di non farne parola ad anima viva ma
non era che mi fidassi così tanto, anzi.
- A nessuno! –
- Sicura? –
Saltò fuori che l’aveva detto solo alle sue due
amiche del cuore, che avevano giurato a loro volta di non dirlo a
nessuno, al che le spiegai che evidentemente anche loro lo avevano
detto a due persone facendosi giurare la stessa cosa, che a loro volta
lo avevano detto ad altre due…ed ecco, faceva presto a
saperlo l’intero quartiere.
Nel frattempo aveva ripreso a piangere, valla a capire, pensavo le
fosse passata.
- Cosa facciamo se lo sanno tutti? –
bisbigliò angosciata.
- Guarda, non è un problema – replicai
con fermezza, tentando di infonderle sicurezza – tu nega
recisamente se te lo chiedono e non pensarci
più…le chiacchiere sono solo chiacchiere in
fondo, e ci sarà sempre qualcuno pronto a dire cattiverie su
di te, che siano vere o non lo siano…e ricordati che sono
cose tue, personali, non devono riguardare nessun altro, non sentirti
in dovere di confessarle alle tue amiche…dimenticatene, lo
faranno anche gli altri –
Altro non potevo fare, e constatato che lei stava meglio conclusi
dicendole che almeno aveva imparato anche questa lezione, ovvero che se
in futuro voleva che qualcosa rimanesse un segreto non doveva dirlo a
nessuno, neanche a me.
- Solo a me – rettificai poi, perché non
era in grado di arrangiarsi, e poi mi rendevo conto che per lei sarebbe
stato troppo difficile mantenere un segreto.
In fondo non è da tutti riuscire a tenersi le cose solo per
sé, anch’io avevo sentito il bisogno di
raccontarlo a qualcuno, uno che nonostante fosse un gran bastardo non
credevo fosse tipo da andare a raccontare in giro i fatti degli altri,
ma forse mi sbagliavo, che ne sapevo in realtà, mica eravamo
amici.
Repressi quel moto di amarezza che assomigliava tanto alla tristezza.
- Ora torniamo a casa – mormorai ormai
definitivamente ammorbidita, perché per quanto fosse
terribile era sempre la mia sorellina.
- Non posso ora! –
Santa pazienza.
- E perché? –
- Sasuke mi ha vista piangere e è venuto da me a
dirmi di non preoccuparmi! – esclamò tutta
eccitata, l’angoscia di prima svaporata in un attimo
– E mi ha offerto una coca cola! Gratis! –
Che…che stupidina.
Non so perché, ma mi venne l’impulso di
abbracciarla, come facevo quando era piccolina, e davvero la strinsi un
po’, fino a quando non si divincolò imbarazzata.
- E’ stato gentile, vero? Ami era tutta invidiosa!
–
- Sì, è stato gentile –
ammisi, e guardai al di là della vetrina.
Mi stava guardando anche lui, e già non ero più
arrabbiata, non potevo farci niente, mi sentivo come una specie di
tossicodipendente ormai, e lui era la mia droga.
- Allora resti ancora un po’ qui? –
mormorai.
- Sì, si vede che ho pianto? –
La scrutai alla luce artificiale della vetrina, ed effettivamente aveva
gli occhi un po’ gonfi e arrossati.
- Va in bagno e sciacquati un poco con l’acqua
fredda, non si vedrà niente – la rassicurai.
Dopo averle raccomandato di tornare presto lasciai che rientrasse ed
aspettai che Sasuke mi raggiungesse, quasi rassegnata.
Quando poco più tardi arrivò lo guardai incapace
di reprimere l’agitazione che la sua vicinanza mi infondeva,
e rimasi immobile a fissarlo, senza sapere che dire.
- Ascolta – mi fece scostandomi un ciuffo di capelli dietro
l’orecchio, in un gesto così intimo che mi sentii
rimescolare lo stomaco – non volevo farti del male –
- Pensavo che ci fosse qualcosa – mormorai
– è vero che non ci conosciamo da molto, ma
pensavo ci fosse qualcosa –
- C’è – ammise –
è questo che mi irrita –
Sorrisi, di quel sorriso che avevo solo per lui, e rimasi a guardarlo
mentre mi studiava attento, con un’espressione che non
riuscivo a decifrare, così intensa che trattenevo il respiro.
- Che c’è? – chiesi.
- Niente – replicò distogliendo lo
sguardo – ora devo tornare dentro, sono da solo –
Non mi diede il tempo di replicare, e continuai a scrutarlo per un
po’ mentre rientrava e riprendeva a lavorare, poi tornai
verso casa sentendomi leggera come una piuma.
Era bello sapere di avere di nuovo un amico al mondo.
I giorni successivi mi guardai bene dal nominare Sasuke con mia
sorella, ma fu lei a tirarlo fuori, mi aveva vista che parlavo con lui
fuori dal bar e la mia curiosa sorellina, quella che aveva ancora la
bocca cucita sulla sua scappatella sessuale, moriva dalla voglia di
sapere come mai lo conoscevo, e soprattutto se mi ero resa finalmente
conto di quanto figo fosse, ecc…ecc…
- Non è male, lo ammetto – confermai
solo.
____________________________________________________________________________________________________________________________
Ci sentiamo anche la prossima settimana, prima dell'ultimo
dell'anno.
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Capitolo 9 *** 9. ***
Eccomi qua.
Questa volta
mi è toccato mettere il nome del gruppo, su cui non
commento. D:
Devo dire che me ne erano venuti in mente anche un paio di decenti, ma
non avevano proprio alcuna attinenza con "Naruto" e li ho scartati,
mentre questo almeno un accenno al manga ce l'ha...vabbè,
è solo un nome in fondo.
Gli auguri li rimando
alla prossima settimana, nel frattempo grazie mille a tutte coloro che
seguono e recensiscono questa non popolarissima storia.
Spero il
capitolo vi piaccia!
9.
Lunedì avevo incontrato Naruto in metropolitana, da solo, mi
si era seduto di fronte totalmente incurante di potermi dare fastidio,
o meglio, totalmente inconsapevole di potermi dare fastidio.
Finsi di ignorarlo per un po’, ma ricordavo che Sasuke aveva
detto che si fidava di lui, e dal momento che io, per qualche
misterioso motivo che mi sfuggiva quasi completamente (avevo il dubbio
sotto sotto fosse una mera questione di ormoni anche quella), mi fidavo
di Sasuke, almeno con un orecchio lo ascoltavo.
- Sabato suoniamo all’Akatsuki, veni a vederci? Ti
faccio entrare gratis, puoi portare anche un’amica se vuoi!
–
- Perché no – stupii lui e me stessa
– mi date un passaggio voi al ritorno? –
Naruto aveva risposto di sì, che non c’era
problema, e non si era mostrato per niente sorpreso del fatto che
avessi accettato, come se fosse scontato, come se fossimo amiconi io e
lui.
Era quasi dolce nella sua innocenza, o stupidità.
Il fatto era che a questo punto ero curiosa di vederli, anche
perché avevo sentito parlare dell’Akatsuki, era un
locale piuttosto in voga, inoltre dopo che avevo finalmente imparato il
nome del loro gruppo avevo scoperto che non era poi così
sconosciuto come avevo creduto, e che anzi, c’era perfino
qualcuno alla mia facoltà che li conosceva ed apprezzava, ed
a questo punto ero davvero curiosa di sentirli.
E poi be’…vedi mai che diventassero davvero famosi
un giorno.
- Ti passeremmo a prendere anche all’andata, ma noi
andiamo prima! –
Gli assicurai che non importava, che potevo arrivarci da sola, ed era
vero, era meglio avere la possibilità di cambiare idea fino
all’ultimo, e poi non era un problema, potevo sempre andare a
mangiare qualcosa da quelle parti, magari potevo perfino chiedere ad
Ino se veniva al concerto, chissà.
Continuai ad ascoltare con un orecchio solo quello che mi raccontava
Naruto, facendo mentalmente i miei programmi, tanto da tempo avevo
imparato l’ascolto selettivo, il che era molto comodo: in
pratica pensavo ai fatti miei, ma se veniva fuori qualche parola
chiave, tipo Sasuke, l’interesse subito si riaccendeva ed ero
tutta orecchi, ed era un buon sistema, lo usavo anche a casa, con mia
madre e mia sorella, e devo dire che la parola Sasuke era diventata una
parola chiave universale, metti che la pronunciasse un perfetto
sconosciuto seduto a cinque metri da me, e io, dang! Ero subito
sull’attenti.
Gli ormoni sono un potente catalizzatore, non me ne ero mai resa
così conto, prima.
Il giorno dopo avevo chiesto ad Ino se le sarebbe piaciuto venire al
concerto con me ed aveva subito accettato, anche lei aveva sentito
parlare dei Dead Leaves (così si chiamavano), era curiosa di
vederli, e si era mostrata entusiasta quando le avevo detto che
conoscevo un paio di membri del gruppo e che saremmo entrate gratis, ed
ero sicura che fosse interessata al fatto che conoscevo il gruppo e non
al fatto di entrare gratis.
A volte mi pare impossibile, ma c’è un sacco di
gente cui la parola ‘gratis’ non fa né
caldo né freddo.
Li invidiavo.
_
Venerdì io e Sasuke ci ritrovammo a camminare appaiati fino
al metrò come se fosse la cosa più naturale del
mondo, e in un certo senso lo era, almeno per me.
- Scusa per gli sms idioti, ero…ferita –
mormorai con un sorriso.
Sollevò le spalle.
- L’ultimo non l’ho neanche letto
–
- Sei proprio stronzo – bofonchiai, ma non ero
veramente arrabbiata, anzi, ero un pochino sollevata – Domani
vengo a vederti suonare…contento? – chiesi poi,
mentre aspettavamo il metrò.
- Immensamente –
Era proprio ma proprio tanto spiritoso, lo stronzo.
Mentre mi accaparravo un posto a sedere mi venne da pensare che forse
non stava scherzando, forse suonava sarcastico perché la
cosa gli dava fastidio, forse gli rovinavo la piazza, diciamo, in fondo
si sa come vanno a finire quei concerti, con tutte quelle ragazzette
che non vedono l’ora di infilarsi nel letto di uno qualsiasi
di quelli sul palco, e quel pensiero era come un peso nello stomaco, e
mi infastidiva quanto…quanto un dente che doleva.
- Ovviamente preferirei vedere il mio principe –
buttai lì acida.
- E chi te lo impedisce –
- Già, nessuno, forse lo
farò…l’ultima volta mi ha portata
a… –
- Risparmiami i dettagli duchessa, non me ne frega niente
–
Cosa potevo replicare.
Sasuke non mi aveva più guardata, era perfino tenero nella
sua prevedibilità, ed io non avevo più fiatato,
improvvisamente così a disagio che continuavo a tormentare i
bottoni del cappotto per darmi un tono: non stavo meglio dopo averlo
fatto arrabbiare, paradossalmente stavo ancora peggio, e non era che
non mi rendessi conto di sbagliare, di essere stronza con lui, molto
più stronza di lui, solo che non sopportavo questa mia nuova
vulnerabilità, e attaccavo per prima.
Avevo sbirciato il suo profilo sentendomi un po’ triste, fino
a quando non era sceso alla stazione incriminata, quella in cui andava
a fare le prove e in cui le aveva prese per aiutarmi, rispondendo
appena al mio saluto.
Se non fosse stato che sapevo di vederlo già la sera dopo lo
avrei cercato e lo avrei stressato fino a che non mi avesse perdonata.
Non mi riconoscevo più, ma ormai ero così
addentro a questa…questa cosa con lui, che non mi importava
neppure.
_
Sabato sera mi trovai con Ino ed un paio di sue amiche che poi se ne
sarebbero andate via per conto loro.
Credo sarebbero venute volentieri con noi, ma fortunatamente nemmeno
Ino le voleva tra i piedi, e questo è solo un piccolo
esempio di quanto poco conti l’amicizia in certi ambienti.
Non che io sia meglio.
Purtroppo prima bisognava mangiare, e perfino cenare fuori era un
problema per me, mi seccava sborsare soldi che sapevo un giorno avrei
rimpianto, in più, anche se Naruto mi aveva assicurato che
mi avrebbe fatta entrare gratis, non ero così sicura che a
conti fatti ne fosse in grado.
Entrai in pizzeria ormai rassegnata, quasi pentita di essere uscita, e
avrei sempre potuto dire che non avevo molta fame, che avevo
già mangiato, ma il problema per noi poveracci è
che spesso poi si divide alla pari per il numero dei partecipanti, e la
dieta imposta si rivela solo una fregatura.
Odio essere povera, davvero.
Diedi fondo alle mie riserve ordinando mezza pizza con Ino, che grazie
al cielo era perennemente in dieta, per davvero, non come me, ed esibii
i miei migliori sorrisi falsi alle sue amiche, che continuavo a non
sopportare (sapevo che era reciproco e la cosa non mi dispiaceva
affatto, preferivo così).
Più tardi mandai un messaggio a Naruto sperando ardentemente
che non avesse millantato un potere che in realtà non aveva.
E invece no, uscì direttamente a prenderci ed entrammo
proprio gratis, senza neppure fare la fila (incredibile,
c’era perfino una discreta fila fuori).
Ci lasciò in mezzo alla grande sala e devo dire che iniziavo
a sentirmi eccitata all’idea di vederli sul palco e
ascoltarli, soprattutto sappiamo chi, probabilmente perché
un po’ lo conoscevo (non era come guardare uno sconosciuto),
e poi, anche se sapevo che era Naruto il cantante e lui era il
chitarrista, da quel che avevo capito alcune canzoni le cantava proprio
Sasuke, e l’idea di ascoltare la sua voce mentre cantava mi
faceva venire la pelle d’oca, invece di trovarlo imbarazzante
come avrebbe dovuto.
Guardai Ino che indossava un abitino corto ed attillato che le stava
meravigliosamente, ed un po’ mi preoccupai: le avevo
raccontato che il chitarrista era l’amico che mi faceva
sesso, ed era curiosa di vederlo, e…ecco…non era
che avessi tutta questa fede nell’amicizia, me la vedevo
proprio a fiondarsi su di lui e soffiarmelo sotto il naso, e non era
che mi importasse così tanto, sapevo che tra noi due non
avrebbe mai funzionato, però è sempre una cosa
fastidiosa vedere una cosiddetta amica fare quello che sotto sotto
avresti voglia di fare tu con la persona con cui avresti voglia di
farlo, soprattutto se le hai anche confessato che avresti voglia di
farlo.
Stavo così tanto, ma tanto, tanto meglio, prima di tutto
questo casino con Sasuke.
Mi misi a guardarmi intorno e ad aspettare sempre più
impaziente.
A differenza di Ino, che aveva asserito di volerli vedere bene, mi ero
messa a distanza di sicurezza per non venire brutalizzata dalla folla,
non amo il contatto di corpacci sudati e appiccicaticci, ed avevo
ascoltato scettica il primo gruppo (avevano un gruppo di supporto, ero
colpita), che a mio parere faceva solo un sacco di rumore, ormai
già rassegnata al peggio.
Ma evidentemente non ero così superiore come ritenevo,
perché mentre aspettavo non riuscivo a controllare
pienamente l’agitazione, e quando erano entrati mi ero
addirittura un po’ eccitata, ecco, facevano la loro porca
figura lì sul palco, tutti, persino Naruto devo dire, in
quanto cantante, benché la sottoscritta avesse occhi solo
per il chitarrista.
Poi avevano iniziato a suonare e non c’era stato altro.
Mi ero anche pentita di non essermi spinta più avanti con
Ino, perché avrei voluto vederli da vicino.
Non amo la musica eccessivamente aggressiva, ma non sono
così ignorante come può sembrare in materia, mi
piace ascoltare un buon giro di chitarra, o di basso, e Naruto aveva
una voce calda che arrivava al cuore, non lo avrei mai creduto, mi
piaceva, mi piacevano davvero.
Avevo ascoltato eccitata per l’intero concerto, ma devo
ammettere che era stato quando aveva cantato Sasuke che mi ero
letteralmente sciolta: la sua era una voce bassa, meno potente di quella di
Naruto, ma era come se mi arrivasse sotto la pelle e mi facesse
scorrere un brivido che raggiungeva lo stomaco.
E bravo Sasuke, perfino la sua voce mi faceva sesso.
Mi sentivo vagamente come una specie di grupie, ed ero anche
preoccupata: forse dovevo davvero togliermi lo sfizio prima di perdere
totalmente il controllo di quella…quella cosa.
Il concerto era finito prestissimo, o meglio, era durato un paio
d’ore ma il tempo era volato, e dopo Ino era ancora tutta
eccitata e mi urlava all’orecchio che non aveva alcuna
intenzione di tornare a casa, così rimanemmo lì
dentro ad aspettare. Io dovevo farlo, Naruto mi aveva promesso un
passaggio, mentre lei voleva a tutti i costi conoscere i membri del
gruppo, sosteneva che erano tutti bellissimi, e devo ammettere che
quando aveva confessato che comunque il più bello era
proprio Sasuke mi ero anche un po’ infastidita, il fatto che
non lo volessi io non significava che poteva averlo lei.
Rimanemmo lì per un po’, anche dopo che loro erano
usciti, perché si erano messi a parlare con alcuni ragazzi
(e ragazze) che li avevano aspettati apposta, e poi con un tizio strano
che aveva mezza faccia coperta da una specie di sciarpa.
Finalmente Naruto arrivò da noi, assieme al batterista che
non avevo mai visto dalle nostre parti e ad un paio di ragazze che non
degnai di uno sguardo, mentre gli altri due rimanevano ancora a parlare
con il tizio; ad un certo punto sentii chiedere se volevamo andare
subito a casa, e dal momento che continuavo a sbirciare dalla parte di
Sasuke ed ero un po’ distratta, Ino rispose di no per tutte e
due.
Fu così che poco dopo, quando ci raggiunsero gli altri,
salimmo metà sul furgone del bassista metà sulla
macchina del batterista e ci fermammo in un bar (dove una delle due
tipe fece gli occhi dolci a Sasuke per tutto il tempo, la sgualdrina),
per poi, non so come, dopo che il batterista, uno con lunghi capelli
chiari che aveva fatto il cretino sia con me che con Ino, se ne era
sparito da un pezzo con le due ragazze (per fortuna), finire tutti da
Sasuke, che a quanto pareva era uno dei pochi ad avere la casa libera.
Non sapevo bene cosa ci facevo lì, sapevo solo che Naruto mi
aveva assicurato che poi mi avrebbe portata a casa lui, sospettavo a
piedi, e che il bassista, lo avevo già visto, si chiamava
Shikamaru, continuava a confabulare con Sasuke su qualcosa che doveva
avere a che fare con il tipo strano con la sciarpa, e poi c’era
Ino, che in qualche modo aveva imposto la sua presenza, per nulla
preoccupata di come sarebbe tornata alla macchina.
Sasuke si era seduto sul divano a strimpellare la sua chitarra
dall’aria vissuta, mentre gli altri tre, compresa Ino,
aprivano le bottiglie di birra che ci eravamo fermati a comprare lungo
la strada; io invece me ne stavo seduta su una sedia, mezza assonnata,
sperando di andare a casa il prima possibile.
Avevo assistito disgustata e superiore all’alterco tra Sasuke
e Naruto, il quale voleva togliere i cuscini dal divano per potersi
sedere per terra, e guardai davvero inorridita quando finirono tutti a
lanciarsi cuscinate addosso, Ino che rideva come una pazza isterica.
Oddio, erano già tutti fatti, come odio queste cose.
Presi la prima birra per disperazione, e la seconda perché
non avevo la forza di dire di no, e accettai perfino la canna che si
passavano gli altri, sperando che mi facesse passare più in
fretta la serata.
Niente da dire, aveva funzionato.
Ad un certo punto Ino aveva trascinato fuori il bassista, alla ricerca
di altre birre, Naruto se ne stava stravaccato per terra ad insultare
Sasuke e a minacciarlo che se tirava pacchi lo trascinava a forza, non
sapevo a cosa si riferisse e non volevo saperlo, ed io, parecchio
inebriata, mi ero piazzata sul posto libero nel divano, guarda caso di
fianco a Sasuke.
In precedenza avevo adocchiato un pacchetto di sigarette e me ne
impossessai in fretta prima che qualcuno me lo fregasse, ma scoprii che
dentro ce n’era una sola e la feci scivolare fuori assieme
all’accendino, era quello che faceva volume.
Mente tentavo invano di accendermela con quell’accendino
scarico mi voltai verso Sasuke, che mi aveva ignorata per
l’intera serata, quello stronzo, ed ora mi guardava un poco
ostile.
Mi strappò la sigaretta di bocca, la mise tra le labbra e
l’accese lui, ma non era un gesto gentile, non aveva alcuna
intenzione di restituirmela, il bastardo.
- Facciamo metà? – chiesi speranzosa.
- Hn –
- Ti prego – insistetti pateticamente, troppo
inebriata per preoccuparmi della dignità – siamo
amici, no?! Per cui devi perdonarmi…fumiamo il calumet della
pace, eh? –
Lo guardai buttare la cenere su un orrendo posacenere di plastica
fregato in qualche bar, e dopo un poco gli rubai la sigaretta dalle
labbra per fare un paio di tiri, e solo in quel momento mi resi conto
che avevo di nuovo quello stupido sorriso in faccia, quello che avevo
con lui per intendersi, di solito dopo che avevo bevuto.
- Siete bravi – ammisi magnanima, e in qualche modo
parlando mi ero avvicinata a lui, e quasi mi ci appoggiavo contro, in
cerca di contatto.
Si riappropriò del mozzicone senza rispondere ma non me la
presi, mi sentivo di nuovo leggera, neanche ci fosse qualcosa nella
sigaretta, o forse erano ancora il tiro di prima unito alle due birre,
ma avevo il dubbio che invece fosse il fatto di essere seduta vicino a
lui, di appoggiare la coscia contro la sua e sentirmi orribilmente
eccitata, e mi veniva perfino da ridere, ed era assurdo questo, non
ridevo mai, mai.
- Sei bello – confessai guardandolo (era vero), e
ignorai ancora quello sguardo ostile.
Evidentemente ce l’aveva ancora con me, e non riuscivo
più a sopportarlo.
- Non voglio che tu sia arrabbiato con me, voglio fare la
pace – lo pregai, e sollevai una mano per toccarlo
– …voglio baciarti – continuai a
blaterare mentre con le dita gli accarezzavo il collo –
Voglio fare l’amore con te – aggiunsi spudorata.
Feci scivolare le dita tra i suoi capelli, felice di poterli toccare, e
mi abbarbicai letteralmente addosso a lui attirando il suo volto verso
di me, per costringerlo a baciarmi.
Non che si lamentasse.
Devo dire che non avevo la più pallida idea della fine che
avessero fatto Ino e Shikamaru, e Naruto ad un certo punto doveva
essere andato via, o comunque non mi ero accorta di lui mentre mi
spostavo a cavalcioni di Sasuke e riprendevo a baciarlo, muovendo i
fianchi all’unisono con la lingua.
Potevo sentire la sua erezione sotto di me ed ero tremendamente
eccitata, come non ero stata mai, gli slip erano completamente bagnati
ed era come se ogni centimetro di pelle fosse a fuoco.
– Ti voglio, tanto tanto tanto – gli mormorai
all’orecchio.
Iniziai a tirargli la maglietta e gliela sollevai in fretta per
sfilargliela, perché avevo bisogno di toccarlo, di guardarlo
e toccarlo.
- Aspetta – mi fermò, respiravamo
ambedue a fatica, e la sua erezione era ancora più evidente
sotto di me, se possibile.
Scesi ad accarezzargli la pelle del torso tentando invano di reprimere
il brivido che mi provocava, e poi scesi più giù,
fino allo stomaco, dove mi fermò la mano.
- Cazzo, aspetta –
Non avevo nessuna intenzione di aspettare, non ce la facevo proprio, lo
volevo, dovevo togliermi una volta per tutte quel maledetto sfizio e
dovevo farlo ora.
Dal momento che tentava di spingermi via, assai debolmente a dire il
vero, affondai il naso sul suo collo.
- Sei senza preservativi? – gli chiesi,
perché era l’unico motivo per cui potevo fermarmi,
ed avevo dei dubbi anche su quello.
- No, è…che non capisco cosa vuoi
e… –
Lo zittii mordendogli appena la base del collo mentre mi muovevo
sinuosamente contro di lui.
Subito dopo avevo sollevato la testa e ci eravamo guardati in silenzio
per alcuni secondi: c’era desiderio nei suoi occhi, e
passione, e qualcos’altro che non riuscivo a decifrare, oltre
ad un inspiegabile fondo di tristezza che non volevo vedere.
- Sei proprio una signorina – lo presi in giro
– vuoi scopare o no? –
Appoggiai la bocca sulla sua fino a quando non riprese a baciarmi, poi
appoggiò le mani sul mio sedere per stringermi a
sé, e non parlammo più.
Il tocco delle sue dita che si insinuavano sotto il vestito mi
inebriava, e mi sollevai senza fiato con l’intenzione di
trasferirmi nel suo letto (quel divano faceva schifo).
Mentre entravo in camera mi sfilai il vestito e mi voltai a guardarlo
sapendo che mi aveva seguita, e rimasi a studiarlo con bramosia fino a
quando non fu davanti a me: era a torso nudo, e solo guardarlo mi
provocava un brivido sulla pelle, e un pizzicore tra le gambe.
Feci scivolare la mano sulla sua pelle nuda fino a raggiungere i jeans,
e dopo averne slacciato il bottone mi inginocchiai e tirai
giù la cerniera.
Lo sentii imprecare tra i denti.
Sapevo che quello che stavo per fare piaceva ai maschi, ma non era per
quello che lo facevo, avevo voglia di farlo per la prima volta in vita
mia.
Liberai la sua erezione e l’accarezzai un poco prima di
avvolgervi attorno la bocca.
Più tardi finimmo avvinghiati sul letto, ed avvertivo una
sorta di violenza repressa nei suoi gesti mentre mi stringeva i seni,
potevo sentire la sua rabbia mentre mi leccava la pelle, ma andava
bene, anch’io ero un po’ arrabbiata con lui, o con
me stessa, e non mi vergognai quando mi costrinse a mettermi carponi
per prendermi da dietro, come se fosse davvero solo sesso, anzi,
l’orgasmo mi colpì all’improvviso con
una forza che non avevo mai sperimentato.
Ma non era abbastanza, e poco dopo eravamo ancora lì che ci
baciavamo con furia, e potevo leggere ancora rabbia, e desiderio, nel
suo sguardo acceso mentre afferrava un altro preservativo e riprendeva
a spingere dentro di me.
Fu solo più tardi, la terza volta, forse perché
eravamo stanchi, che nelle carezze, nei baci, negli sguardi, non
riuscivamo a reprimere una parvenza di tenerezza che non era
volontaria, che non andava bene.
Sarebbe stato così facile amarlo, lasciarsi andare ed
amarlo, e per un momento, mentre il mio cuore sussultava assieme al
corpo in estasi, ebbi paura.
Ci addormentammo senza quasi accorgercene e mi svegliai alla luce che
proveniva dalla finestra aperta, protetta dal suo calore, dal suo
odore, che mi avvolgevano come un abbraccio e mi facevano sentire
piccola, fragile, ma così sicura che per alcuni secondi, o
minuti, mi rifiutai di muovermi e rimasi immobile, nel tentativo di
godere ancora un poco di quella meravigliosa illusione, fino a quando
non iniziai ad avere paura, non sapevo neppure bene di cosa.
In preda all’ansia mi scostai lentamente, volevo andarmene
senza svegliarlo, scappare via, e dopo essermi alzata in silenzio
cercai i vestiti ed iniziai ad indossarli.
Quando mi voltai ancora una volta dalla sua parte, incapace di
resistere, lui mi stava fissando, e per un momento mi sembrò
di scorgere solitudine, e ancora una volta tristezza in quegli occhi
che mi scrutavano, ma era stato un attimo, forse solo un riflesso delle
mie paure, poi mi aveva fissata impassibile, con quella luce aggressiva
che conoscevo bene.
Feci scivolare lo sguardo sul suo corpo nudo prendendo nota dei segni
che avevo lasciato, evidenti sulla pelle chiara.
- Fammi un pompino – mi chiese a denti stretti, e
scesi ancora con gli occhi fino al lenzuolo che lo copriva in parte, ma
non riusciva a nascondere la sua erezione.
Mi avvicinai in silenzio, decisa ad assecondarlo, quasi per suggellare
quella notte che non doveva rappresentare niente se non piacere fisico,
e me ne andai più tardi senza che avessimo scambiato una
sola parola, a parte le poche riferite al sesso.
Arrivai a casa che era ancora presto, le altre due dormivano,
probabilmente neanche si erano accorte che quella notte non ero tornata
a casa, e mi chiusi in bagno.
Rimasi a guardarmi di fronte allo specchio per non so quanto tempo,
tentando di decifrare cos’era quell’angoscia che
avvertito, quella paura che faticavo ad arginare, e cos’era
quella tristezza che avevo visto nel suo sguardo, e assomigliava
così tanto alla mia.
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Capitolo 10 *** 10. ***
Eccomi qua, a mo' di
befana...e a chi non li ho ancora fatti auguri di buon anno in ritardo,
spero che il 2014 porti a tutte qualcosa di buono!
In quanto al capitolo, ho corretto e ricorretto alcune parti e ancora
non sono contenta di come sono venute fuori, ma sono stanca di
rileggere, per cui buona lettura (spero).
10.
Avevo perfino mandato mia sorella a fare la spesa per non rischiare di
incontrarlo.
Non era che non avessi voglia di vederlo, anzi, il mio corpo era
lì che moriva dalla voglia di vederlo ancora, di
toccarlo… e altro.
Almeno tre volte al giorno.
Ma era troppo pericoloso ed io ero troppo confusa e spaventata per
confrontarmi con lui.
Magari uno psicologo avrebbe tirato fuori che in me c’era
ancora una bambina traumatizzata dalla sparizione del padre amatissimo
(perché davvero lo avevo amato molto), o altre
banalità simili, ma qualunque fosse il motivo, anche solo il
mio egoismo, quel trasporto che avevo avvertito, quelle emozioni, quel
desiderio profondo di fondermi con lui, mi facevano paura.
Non potevo lasciarmi andare, dovevo mantenere il controllo, non potevo
essere così vulnerabile, non potevo.
In facoltà avevo nascosto il collo segnato con una sciarpa
ed avevo mentito ad Ino dicendole che non era successo niente, e dato
che lei si era divertita tantissimo (credo avesse un mezzo inciucio con
il bassista) ed era ancora tutta elettrizzata, non indagò
più di tanto: al momento voleva convincermi ad organizzare
un’altra serata con il gruppo, magari con qualche altra
amica, il resto non le interessava. Nell’intervallo tra le
lezioni poi aveva raccontato un po’ a tutti della serata, e a
quanto pareva la mia popolarità era salita vertiginosamente,
per assurdo proprio perché vivevo in quel quartiere e
conoscevo la gente del posto.
L’ironia della sorte.
Le avevo assicurato che avrei organizzato qualcosa, ma sapevo
perfettamente che si trattava di una bugia.
Nel frattempo il venerdì pomeriggio si avvicinava e non
sapevo bene come avrei reagito nel rivederlo, una parte di me era
terrorizzata, ma non ero così cieca da non capire che una
parte di me non vedeva l’ora.
La situazione era precipitata mercoledì, quando Sasori mi
aveva detto che la sera successiva mi sarebbe venuto a prendere fuori
dal negozio di fiori, aggiungendo che si sarebbe fermato in albergo
quella notte.
Sapevo cosa significava, e nella confusione in cui mi dibattevo pensavo
che forse era un bene, che magari se avessi scoperto che tra noi due
c’era un’ottima intesa sessuale avrei potuto
archiviare l’esperienza con Sasuke, o qualcosa di altrettanto
poco logico e vagamente patetico, fatto sta che lo aspettai piena di
trepidazione, come se potesse salvarmi, da me stessa probabilmente,
neanche potesse essere un’altra persona a farlo, e non io.
In un eccesso di prudenza avevo coperto con il fondotinta i rimasugli
sbiaditi dei segni che mi aveva lasciato Sasuke (eravamo stati un
po’ rudi), ombre impercettibili che probabilmente potevo
vedere solo io, ma era quello il punto, li vedevo, e non volevo
ricordare.
Mio malgrado di quando in quando me li controllavo, un po’
ossessivamente, ed ero andata a lavorare con un’agitazione
addosso che non era solo eccitazione, che non era per niente
eccitazione.
Uscita dalla fioreria lo avevo trovato lì ad aspettarmi, ed
ero stata felice di vederlo, quasi sollevata, e ancora più
felice nel rendermi conto di provare queste reazioni positive, se la
cosa aveva un qualche senso.
Non aveva la macchina dell’altra volta, ma una berlina scura
altrettanto appariscente e costosa, e sprofondai nel sedile di pelle
sentendomi un poco più a mio agio.
Mi portò a fare un lungo giro in macchina e man mano che
uscivamo dalla città mi rilassai sempre di più,
ed era bello che a volte mi prendesse la mano e la stringesse con la
sua, e stavo così bene ora, semi appisolata su quel sedile
così comodo, con il tepore che mi cullava, che dimenticai
Sasuke e tutte le complicazioni che portava.
Era lui il problema, solo lui, perché tutto il resto era
perfetto.
Ascoltai Sasori che mi spiegava la differenza di guida tra questa
macchina e la porche dell’altra volta, elencandomi i pregi e
difetti delle due, e quasi mi vedevo già più
avanti negli anni, una signora serena e sicura di sé, con
lui che mi raccontava di come era andato il lavoro e mi chiedeva
consigli.
Avrei potuto abituarmici, sì, avrei potuto farlo felice,
magari essere un pochino felice anch’io, chissà.
Davvero.
Da qualche parte dentro di me c’era quella stupida vocetta
importuna che mi sussurrava che era solo una bugia, che quello che
provavo ora era tutto in superficie, che non c’era un
briciolo di sentimento, di cuore, tantomeno passione, ma in quel
momento non mi veniva difficile ignorarla, che importava in fondo, il
cuore era solo un organo che pompava sangue e la passione durava quel
che durava…e in quanto all’amore, non sapevo
neppure cosa significasse veramente questa parola.
In fondo cos’era esattamente questa cosa di cui si sentiva
parlare così spesso e assomigliava così tanto ad
un gioco di ruolo?
Neppure sapevo se concretamente esistesse, anzi, ero piuttosto
scettica, pareva più una favoletta per adolescenti
romantiche, quelle che inseguono questo sogno puerile e poi un giorno
si ritrovano amareggiate, inasprite dalla fatica del vivere quotidiano,
e stanche di quell’idiota che una volta faceva loro battere
il cuore, chissà perché.
Sempre se l’idiota non scappa prima, come era capitato a mia
madre, a noi.
Mi adagiai sulla calma provvisoria che avvertivo ora in presenza di
Sasori, nella tranquillità che rappresentava, e stavo bene,
sì, stavo abbastanza bene: con lui non c’erano
incognite, né paure, ero perfettamente in controllo, e il
tempo passato assieme scorreva tutto così semplice e
lineare, senza sussulti emotivi, c’era solo una punta
d’ansia che mi chiudeva un po’ la gola, come un
rumore di sottofondo di cui non ero quasi consapevole.
Cenammo in un ristorante in collina da cui si scorgeva un panorama
mozzafiato.
Sbocconcellai appena, non avevo proprio fame, in compenso bevvi diversi
bicchieri di quel vino bianco che sapevo costare circa metà
della pensione di mia madre e che forse era un po’ sprecato
per un’ignorante come me; nel contempo osservavo Sasori
tentando di guardarlo con gli stessi occhi interessati che avevano un
paio di signore sedute ai tavoli vicini.
Non era niente male, anzi, dovevo sentirmi orgogliosa di essere
lì con lui, era proprio un bel tipo, no?!, con dei bei
lineamenti regolari, forse un po’ fanciulleschi, ed un look
perfetto, anche troppo formale, non che avessi niente contro le
cravatte, soprattutto quelle firmate, quelle che valevano almeno quanto
l’altra metà della pensione di mia madre per
spiegarsi.
Che per la gente ricca equivaleva circa agli spiccioli che rimangono in
tasca e di cui ci si dimentica.
La cena volgeva già al termine e bevvi un ultimo bicchiere
di prosecco dopo aver assaggiato appena i dolce, ora un po’
nervosa.
Al ritorno, in macchina, lo avevo lasciato parlare senza intervenire
più di tanto, insonnolita, eppure non riuscivo a rilassarmi
interamente, una tensione crescente me lo impediva, e non appena scesa
il sonno mi era passato di colpo.
Come prevedevo finimmo nella sua stanza, e proprio come immaginavo
l’albergo era meraviglioso, la stanza un sogno, luminosa ed
essenziale come andava adesso, il letto così grande e
confortevole che era un lusso sdraiarcisi sopra.
Ed io ormai ero in ballo e mi toccava ballare, era quello che volevo,
no?!
Non mi sentivo ancora molto lucida, il che era un bene, e lasciai che
mi baciasse.
- Non vedevo l’ora – mi
confessò all’orecchio subito dopo, accarezzandomi
la schiena.
Ero confusa, agitata, la testa mi girava, e c’era una parte
di me che si sentiva scioccamente lusingata, ma ce n’era
un’altra, che tentavo invano di sopprimere, che sembrava
incredula, come se mi vedessi dal di fuori e non capissi bene cosa ci
facevo lì.
Ciò nonostante non era così male mentre mi
baciava ancora e non pensavo a niente, e dopo, quando finimmo sopra
quel letto enorme, ci avevo provato davvero, con tutte le mie forze, e
nemmeno potevo dire che non ci avesse provato lui, eppure ero arrivata
ad un certo punto che non mi importava nulla, solo che finisse il prima
possibile, tanto che per salvare il salvabile avevo finto un orgasmo
che ero ben lungi dal provare, e neanche troppo bene secondo me, ma
probabilmente gli era bastato, ai maschi basta davvero poco per
illudersi di essere stati bravi.
Non che fosse colpa sua, ero io che non andavo quella sera.
Avevo continuato a fissare il soffitto immacolato mentre mi stringeva a
sé, ed ero rimasta sdraiata accanto a lui senza riuscire a
cacciare l’amarezza, e con una voglia matta di correre a casa
e farmi una doccia.
Mi sentivo sporca, e una specie di puttana, e se un paio di mesi prima
qualcuno mi avesse detto che sarei andata a letto con due uomini
diversi nel giro di pochi giorni gli avrei dato del matto, ma ero qui,
proprio io, e non provavo niente se non una stanchezza enorme.
Dormii poco o niente e mi svegliai prestissimo.
Diedi un’occhiata a Sasori leggermente disgustata, avevo la
nausea, e dopo essermi vestita in tutta fretta gli lasciai un messaggio
con scritto che avevo dovuto passare per casa a cambiarmi prima di
andare a lezione, che non mi andava di svegliarlo dal momento che
dormiva così beatamente, ma mentre posavo il biglietto sul
comodino, vicino al suo costosissimo orologio, mi chiedevo se era
davvero questo ciò che volevo, e non riuscivo a rispondermi.
Forse ero solo stanca.
Uscii dall’albergo di soppiatto e presi la metropolitana che
era ancora buio, circondata da gente che andava al lavoro presto, brava
gente che probabilmente aveva una famiglia alle spalle e mica aveva
tempo per le mie seghe mentali e le mie squallide tresche, ma una volta
arrivata invece di andare a dormire almeno un paio d’ore come
mi sarebbe convenuto, feci una pazzia e proseguii fino a casa di Sasuke.
Non c’era nessuno in giro per il quartiere, era ancora molto
presto, e dato che quell’idiota aveva lasciato la porta
aperta entrai senza dover neanche bussare.
Non proveniva un suono da lì dentro, evidentemente stava
ancora dormendo, e una volta abituata alla luce scarsa
dell’alba che ora filtrava dalla finestra, mi mossi il
più silenziosamente possibile e mi fermai sulla soglia della
camera, a guardarlo, ed era così bello mentre dormiva che mi
veniva da piangere, il che era ridicolo oltre che un poco inquietante.
Dovevo essere davvero stanca.
Mi avvicinai e mi protesi verso di lui.
Nel sonno sembrava così giovane, così incorrotto,
e senza pensare gli accarezzai il volto, lì, sulla fronte,
dove aveva la cicatrice.
- Cosa fai qui – mormorò dopo aver
socchiuso gli occhi, era quasi adorabile con quell’aria
assonnata.
Quasi.
- Avevo bisogno di vederti – ammisi sedendomi sul
bordo del letto.
- Ho sonno –
Stronzo.
- Sei arrabbiato con me? – replicai accarezzandogli
i capelli.
- Abbastanza –
- Perché ti sei sentito usato? –
- Abbastanza –
Mi scostò la mano, adesso aveva gli occhi ben aperti, e mi
scrutava.
- Credevo a voi maschietti non importasse –
- Pffh…Nemmeno ti rispondo –
- Sono io o ti importa in generale? –
- …non so neanche che cazzo stai dicendo
–
In effetti non lo sapevo neppure io.
Sospirai e gli accarezzai ancora i capelli.
- Posso baciarti? – chiesi.
- No –
Avevo mezza idea di farlo lo stesso, avevo bisogno di sentire le sue
labbra, invece mi chinai ed appoggiai il naso
sull’attaccatura del collo ad inalare il suo odore, deliziata.
- Sai il tizio che ti dicevo? – mormorai.
Non rispose.
- L’ho visto prima –
- Brava…e cazzo ci fai qui –
Stronzo.
- Non capisci niente…è
che…non lo so ma…non è come pensavo
–
Mentre parlavo mi ero adagiata a metà su di lui, e stavo
così bene ora che mi veniva da lasciarmi andare, e quando mi
fece posto sulla sua spalla allargando il braccio mi strinsi ancora di
più a lui, in cerca di protezione, e di risposte.
- E’ colpa tua – mormorai, sapevo io di
cosa.
- Hn –
- Facciamo la strada insieme, oggi, dopo il lavoro?
–
Non mi rispose, ma lo presi per un sì, o almeno un forse, i
no li diceva sempre forte e chiaro.
- Posso baciarti adesso? – provai ancora.
- No –
Suonava deciso, per cui, rassegnata, mi accoccolai meglio sul suo petto, il
volto sul suo collo, e dopo aver sollevato le gambe ed essermi stesa
semisdraiata addosso a lui chiusi gli occhi, al sicuro tra le sue braccia.
- Aspettami domani, ti prego – sussurrai.
Rimasi così, aggrappata a lui in cerca di calore e con il
naso sull’attaccatura del suo collo, fino a quando non mi
addormentai.
Mi svegliai che il sole era alto, avvolta in una coperta che Sasuke
doveva aver sistemato sopra di me, e che mi scaldava.
Ero sola.
Se ne era già andato via.
Repressi la delusione, in fondo era meglio così, e rimasi
ancora un poco sul suo letto, avvolta dal suo odore che ancora
permaneva, gli occhi inspiegabilmente colmi di lacrime.
Avevo solo bisogno di dormire, tutto qui.
_______________________________________________________________________________________________________
Lo so, lo so, Sakura è stata davvero stupida,
per usare un eufemismo, e spero che adesso non mi lanciate qualche
oggetto contundente, metaforico ovviamente...a parte gli scherzi, sono
davvero curiosa di sapere cosa pensate del capitolo!
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Capitolo 11 *** 11. ***
Eccomi qua!
Non commento, è un capitolo di passaggio, circa.
Ancora grazie a tutte coloro che hanno recensito il capitolo
precedente, ho avuto una settimana terribile, spero le risposte fossero
intellegibili!
11.
Non so come ma riuscii ad infilarmi in casa senza farmi beccare, e dato
che mia sorella era già andata a scuola feci finta di
essermi alzata in ritardo ed ascoltai in silenzio mentre mia madre si
lamentava di avere aspettato così tanto.
Ero distrutta dal sonno ma mi trascinai comunque in facoltà,
tanto a casa non ero in grado di studiare.
Più tardi mi aveva chiamata Sasori.
Era dispiaciuto di non avermi trovata accanto quando si era svegliato e
mi chiedeva come stavo, neanche non fossimo stati insieme fino a poche
ore prima.
Comunque era carino da parte sua.
Risposi che andava tutto bene, che davvero non avevo voluto svegliarlo,
tutto qui, e poi rimasi ad ascoltare mentre parlava lui e mi diceva che
potevamo rivederci la settimana prossima, che avrebbe fatto di tutto
per liberarsi degli impegni di lavoro.
Era sbagliato sperare che non ci riuscisse?
Al momento non avevo molta voglia di pensare, ero troppo stanca per
riuscire a ragionare, ma avevo la sensazione di essere come scissa in
due parti, da una parte mi sentivo una privilegiata per avere uno come
lui che si interessava così tanto a me,
dall’altra…avrei voluto che finisse, tutto, per
non sentirmi più costantemente disgregata, divisa a
metà, per potermi sentire finalmente intera
un’altra volta.
Quel pomeriggio non provai neppure a resistere, mi voltai spesso dalla
parte del bar, a guardare Sasuke, e ogni tanto incrociavo il suo
sguardo, ma non così spesso, ed il fatto che lui a
differenza di me non avesse tutta questa smania di guardarmi in qualche
modo mi feriva.
Nel frattempo ero diventata fonte di enorme divertimento
all’interno dell’estetica, le mie camminate fino al
metrò con lui erano state notate ed Haku era tutta una
battuta sul presunto nascente amore tra la sua impiegata ed il barista,
era destino, spiegava convinta, eravamo uno splendore insieme,
sosteneva romanticamente, ma non disdegnava domande imbarazzanti sulle
doti nascoste di Sasuke (in termini non così eleganti), doti
che negavo di conoscere ma invece ricordavo bene: perfino il
suo…coso mi pareva più bello di quello di Sasori.
Che…che casino.
Me ne andai ignorando i lazzi di quelle sciocche per trovarmelo che mi
aspettava all’uscita, ed il sorriso mi si allargò
nel vederlo, senza che avessi toccato una sola goccia
d’alcool: doveva essere la notte in bianco che mi dava alla
testa.
- Ancora arrabbiato? – chiesi per precauzione.
- Mi sta passando –
- Sei il mio unico amico, non puoi arrabbiarti per
così poco – mormorai mentre gli camminavo
affianco, inspiegabilmente di buon umore.
- Hai uno strano concetto dell’amicizia, sei un
po’ confusa –
Spiritoso.
- Ci sono tanti amici che fanno anche sesso, è una
cosa senza impegno – minimizzai un poco sulle difensive.
- Certo. E nessuno si fa male…non so che cosa
cazzo guardi alla tv ma sono stronzate, se non te ne sei accorta
–
Stronzo.
- Per la cronaca conosco personalmente gente che lo fa e va
tutto benone tra loro – mentii spudoratamente, non volevo
dargli la soddisfazione di avere ragione.
- Be’, io non sono così –
- Peggio per te. Sei un po’ troppo rigido secondo
me…pensaci –
Mi lanciò uno sguardo non molto amichevole e rimanemmo in
silenzio mente lui salutava il solito barbone, almeno non si era
fermato a fare conversazione, grazie al cielo.
- E comunque anche tu hai uno strano concetto
dell’amicizia, frequenti gente imbarazzante –
commentai mentre aspettavamo il metrò.
- Perché ogni tanto faccio finta di accordare la
chitarra ad un barbone e lo faccio felice? – aveva colto
subito l’implicazione – Non mi vergogno di farmi
vedere in giro con nessuno...sei tu che hai la puzza sotto il naso,
duchessa, a parte quando si tratta di scopare, evidentemente –
E lui era estremamente stronzo, e bastardo.
- Se non ricordo male ti sei divertito parecchio anche tu
– replicai piccata – o è diverso
perché tu sei un maschio? –
- Non sono io quello che non si amalgama con noi morti di
fame –
- Come no, perché tu sei tutto sorrisi e
complimenti e ti amalgami col mondo intero, vero? –
- Vaffanculo –
E rieccoci alle solite.
All’ arrivo del treno l’allegria era del tutto
scomparsa e il malumore aumentò quando mi sistemai in piedi
di fianco a lui perché non c’era posto a sedere: a
parte il fatto che la stanchezza iniziava a farsi sentire pesantemente,
odiavo abbarbicarmi al palo per non perdere l’equilibrio.
Non avrei mai potuto fare la ballerina di lap dance, e lo so che non
sembra grave, ma è comunque un’eventuale, facile,
fonte di denaro e non si sa mai nella vita.
C’era una bimba piccoletta seduta di fianco alla
mamma di fronte a noi, e già non è che mi
piacciano tanto i bambini, sono delle piccole pesti e non possiedono
l’uso della ragione, in più occupava un posto
quando avrebbe potuto tranquillamente starsene seduta in braccio a sua
madre, e fulminai con lo sguardo ambedue, piuttosto nervosa, indecisa
se commentare ad alta voce.
Alla prima fermata, davvero brusca, allungai istintivamente la mano per
aggrapparmi a Sasuke, e un’ondata di calore mi
attraversò il corpo.
Mi staccai di colpo e fissai accigliata la bimba che continuava a
guardarmi.
- E’ tanto che non vedi la tua sorellina?
– buttai lì, perché tutto in qualche
modo mi riconduceva a lui.
- Te ne frega qualcosa? –
- Ti costa tanto rispondere? – replicai, ma la
verità era che mi interessava, anche se non mi era ben
chiaro il motivo.
- Non sono cazzi tuoi, comunque è da qualche mese
ormai, non so neanche se si ricorda di me, fanno presto a dimenticare a
quell’età –
Suonava così amaro.
- Come mai? – chiesi di getto, senza proprio
ricordare che avrei dovuto fare l’offesa – per il
tuo patrigno? –
Non aveva risposto.
Uno chiede, l’altro risponde, non mi pareva una cosa
così complicata, era pura cortesia, non si trattava di
segreti di stato, ma era sempre tutto maledettamente complicato con
lui, e non capivo perché insistessi così tanto
invece di mandarlo a quel paese.
Niente di personale, o meglio, in questo caso era proprio una questione
personale, perché davvero mi interessava, ero curiosa di
ogni cosa che riguardasse lui, volevo carpire ogni suo singolo segreto,
e forse, una volta riuscita a svelare ogni suo angolo nascosto, avrei
capito che non ne valeva la pena ed avrei smesso di guardarlo
ossessionata dalla finestra dell’Estetica Haku e di sognarlo
di notte.
Nel frattempo, nel mondo reale, si era liberato un posto e mi ci
fiondai sopra.
Finalmente comoda sollevai la testa e rimasi a studiarlo: era ancora
imbronciato, era anche particolarmente bello imbronciato, e avrei
voluto togliergli il broncio a furia di baci, o di schiaffi.
- Sei ancora arrabbiato – mormorai senza
distogliere lo sguardo – mi dispiace, non volevo farti del
male, è solo che… –
Non aggiunsi altro, cosa potevo dirgli in fondo, e che ne sapevo di
quello che voleva lui, se non sapevo neppure cosa volevo io.
Improvvisamente triste abbassai la testa e mi guardai le unghie che
avevo appena sistemato: avevano uno smalto dal colore molto naturale,
quasi carne, ma era sempre smalto, steso in maniera ineccepibile sulle
unghie perfettamente limate, e all’improvviso lo trovai
orribilmente artefatto, costruito, finto.
Come me.
Con la coda dell’occhio vidi che invece di scendere alla
solita fermata si sedeva nel posto che avevano liberato accanto a me.
- Mio padre è sparito che avevo nove anni
– feci uscire senza ancora guardarlo – è
andato a comprarsi un pacchetto di sigarette e non è
più tornato a casa, come nelle barzellette – era
la prima volta che lo raccontavo, ma non faceva nemmeno un
po’ di male, non mi importava neppure, anzi, ero quasi
contenta di averglielo detto, di aver espresso quel pensiero che mi
aveva accompagnata a lungo e che avevo tenuto nascosto per
così tanto tempo, anche se ora non riuscivo a capirne il
perché – …forse non sopportava
più mia madre – aggiunsi sarcastica –
è ipocondriaca ed ha talmente tanti malanni che non so se
riesco ad elencarli tutti, e se ne sta tutto il giorno a letto a
lamentarsi del fatto che non la seguiamo abbastanza…per cui
sono sicura che al confronto anche il tuo patrigno non può
essere così male, giusto?! –
Continuai a fissarmi le unghie perfette sforzandomi di non
pensare a niente, il dondolio del treno che mi appesantiva le palpebre,
fino a quando lui non si sporse appena verso di me e non mi irrigidii
in tensione: la sua vicinanza era quasi impercettibile, ma con lui ero
piuttosto sensibile.
- Tuo padre è una vera merda –
mormorò, mi pareva di sentire il suo fiato
all’orecchio ed ero già in brodo di giuggiole, che
vergogna! – il mio patrigno è solo un grande
stronzo –
Mi ripresi subito e sollevai la testa, e mente studiavo il suo volto
serio, quegli occhi scuri così intensi, così
attenti, mi ritrovai a sorridere appena.
- Perché? –
- Niente di importante, curiosona –
- Se proprio non vuoi dirmelo… –
Mi strinsi meccanicamente le braccia attorno al corpo, un po’
delusa, e ripresi a guardare di fronte a me con una smorfia amara e
tutta la stanchezza della notte sulle spalle, gli occhi che quasi mi si
chiudevano, fino a quando non sentii le sue dita sulla guancia, che mi
sfioravano appena e mi facevano tremare.
- Diciamo che è convinto che io sia un tipo poco
raccomandabile – mi spiegò mentre mi sforzavo di
reprimere il fremito che mi attraversava il corpo.
Mi voltai a guardarlo senza più una briciola di sonno e con
una strana sensazione allo stomaco, come una specie di calore.
- E lo sei? –
- Sto cercando di trattenermi, magari se nei prossimi anni
non finisco in galera e riesco perfino a laurearmi posso dimostrare che
è lui lo stronzo – replicò con quel
sorriso ironico che mi faceva sesso, inutile negarlo.
- Credo che sia proprio lui lo stronzo, tu sei quello che
salva le damigelle indifese e non vuole il sesso senza un po’
di sentimento, lo so per certo – commentai sorridendo a mia
volta – Ma a Natale vai da loro? – domandai non
ancora contenta.
- Fatti un po’ i cazzi tuoi adesso, va bene?
–
Non andava bene ma capivo di non avere scelta, e un poco mi pareva
assurda questa mia necessità di porgli continue domande, non
era che non mi rendessi conto di tormentarlo, proprio io, ma la
curiosità era più forte, ed era come se con lui
parlassi a ruota libera, senza paure, o cautele, come se fossi
un’altra Sakura, più aperta.
Stranamente libera.
- Non hai le prove oggi? – chiesi ancora dal momento che
avevamo passato la fermata, quella famosa in cui lo avevano pestato per
causa mia e per questo non avrei scordato mai.
- Oggi no –
- E' così bello suonare? –
- Non so se è bello, ma so che quando ho la
chitarra in mano sto bene…mi sento libero –
Era difficile da capire per me che non facevo niente per il mio
piacere, mai.
- Avete concerti nel week end? –
- Sì, domani partiamo presto, in
mattinata…è lontano –
- Rimanete fuori a dormire? – continuai ad
importunarlo imperterrita.
- No, torniamo, tardi –
- E il lavoro? –
Ricordavo che da Haku avevo sentito dire che lui lavorava al bar anche
sabato oltre che il venerdì e la domenica, e mi parva che
avesse saltato giorni un po’ troppo allegramente in
quell’ultimo periodo.
- Con Jirayia non c’è problema, basta
avvisarlo prima –
Doveva riferirsi a quel personaggio che mi aveva consapevolmente
ubriacata quella volta.
- Però l’affitto non si paga da solo –
obiettai, i soldi sono il mio eterno tormento, lo ammetto, non
perché sia tirchia, ma perché non ne ho.
- Non ci crederai ma c’è qualche pazzo
che ci paga per suonare –
Ma va?! Mi pareva strano in effetti, personalmente non avrei mai
buttato via i soldi così, con tutti quelli che suonavano
gratis in giro.
Mi chiedevo anche quanto potevano pagarli, ma nel frattempo eravamo
arrivati e scendemmo dal metrò.
Facemmo un po’ di strada assieme e lo salutai con riluttanza,
ed era come se mi trasformassi man mano che mi allontanavo da lui.
Una volta a casa ero tornata la solita, consueta Sakura, cinica e
seria, e dato che nel frattempo mi ero resa conto che non avevo
più pensato a Sasori gli mandai un sms di mia iniziativa,
giusto per ristabilire le priorità.
Mi rispose immediatamente, e sentendomi particolarmente generosa rimasi
ancora un poco a messaggiare con lui, tanto non mi ci voleva un grande
sforzo intellettuale.
Andai a letto presto, ma invece di addormentarmi di colpo, come
credevo, il pensiero scivolò su Sasuke, e non riuscivo a
sentirmi in colpa per questo, era come se ormai facesse parte della mia
vita, volente o nolente, e non potessi più prescindere da
lui.
Dovevo solo usare il cervello e rimanere in controllo.
Potevo farcela.
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Capitolo 12 *** 12. ***
Eccomi qua, un po'
acciaccata, mi sa che mi sto ammalando...spero il capitolo vi
piaccia più di quello precedente!
12.
Il mattino dopo Sasori mi aveva chiamata ancora una volta,
probabilmente perché non avevo risposto al suo ultimo
messaggio.
Non lo avevo fatto apposta, non era cattiveria la mia, era che al suo
ennesimo messaggio melenso avevo esaurito l’immaginazione
necessaria per articolare una qualsiasi risposta decente, e preferivo
risparmiargli il sarcasmo che avevo sulla punta della lingua, o delle
dita, non credevo che avrebbe apprezzato.
Fatto sta che si era lamentato della mia freddezza sostenendo che
invece lui già un po’ mi amava.
Mi erano venuti i brividi, giuro, e non erano brividi piacevoli: non mi
pareva il caso di usare paroloni così grossi, era prematuro.
Era…sbagliato.
Forse per quello avevo dormito male quella notte, irrequieta e incapace
di trovare la posizione giusta, per quello e per il bisogno di
razionalizzare quel vortice di emozioni che erano state queste ultime
settimane.
Dovevo darmi una calmata, stare un po’ più attenta.
Sì, più attenta.
In fondo sapevo cosa volevo, era sempre stato il mio sogno avere
qualcuno come Sasori ai miei piedi, sempre, e non dovevo dimenticarlo
neanche per un momento.
Lo so, suono davvero come un’ochetta senza cervello, ma solo
chi ha tirato la cinghia per tutta la vita può capire cosa
vuol dire avere la possibilità di vivere nel lusso, senza
più calcoli e preoccupazioni.
Significa essere finalmente rilassate, serene.
Poteva suonare superficiale, ma era qualcosa che avevo giurato a me
stessa in quegli anni in cui mia madre piangeva tutto il giorno e
ripeteva ossessivamente che grazie a mio padre, che ci aveva
abbandonate, saremmo tutte morte di stenti (all’epoca ancora
le credevo), e ci accompagnava a fare la questua in varie associazioni
per portare a casa una spesa gratis, e ancora ricordavo la paura di non
farcela, di essere buttate fuori di casa, di non poter mangiare, e
anche l’umiliazione di dover indossare vestiti che non mi
andavano neppure bene e non cambiarli per settimane (i bambini possono
essere crudeli con chi è diverso da loro).
Avere il necessario non mi sarebbe bastato per seppellire quel grumo
d’ansia che avevo accumulato, dovevo avere di più,
dovevo essere sicura che in qualunque caso, anche se avessi perso il
lavoro, anche se avessi perso la casa, anche vittima di
chissà quale cataclisma imprevedibile, sarei caduta in piedi.
Avevo bisogno di vivere rilassata, senza più paura per il
futuro.
Questo non significava che fossi disposta ad accasarmi con il primo
deficiente che trovavo, volevo provare stima, e se non altro molto
affetto, e un minimo di attrazione per la persona con cui avrei dovuto
passare la vita insieme, e Sasori si adattava abbastanza ai miei
desideri, di più non potevo pretendere, né
trovare, ne ero perfettamente cosciente.
Per questo mi rifiutavo di accettare che non potesse andare bene con
lui, a prescindere da quello che mancava, o dal fatto che il sesso non
fosse stato esattamente sfavillante: in fondo non era la cosa
più importante in una relazione, ed era stata solo la prima
volta, era abbastanza facile non trovare subito un’intesa
sessuale e col tempo poteva migliorare, e soprattutto col tempo potevo
imparare ad amarlo un po’, potevo.
In quanto a Sasuke…mi piaceva, era vero, mi piaceva molto, e
sessualmente mi attraeva tantissimo, ma sapevo perfettamente che tra
noi due non ci sarebbe potuta mai essere una relazione al di
là di quella strana forma di amicizia che ci legava, lo
sapevo perché andava contro tutto quello che avevo
desiderato finora, contro tutti i miei sogni, i miei propositi, le mie
convinzioni, e perché sapevo che se malauguratamente lo
avessi scelto, magari abbagliata dalla passione, un giorno avrei finito
con l’odiarlo per avermi tolto la possibilità di
vivere come avevo sognato.
O almeno credevo.
No, lo sapevo.
Sasuke Uchiha era un amico, forse il mio unico amico,
perché conosceva i miei lati peggiori, perfino i
più squallidi, e mi frequentava comunque, ma il fatto che
avessi scoperto che fosse…che fosse una bella persona,
perché lo era, non avevo dubbi in proposito, non poteva
farmi cambiare idea: lui era un amico, Sasori era l’uomo
ideale, questi erano i fatti.
E allora cos’era che mi rodeva? Erano i sensi di colpa? Se
erano quelli me li sarei fatti passare, tanto con Sasuke non ci sarebbe
più stato nemmeno un bacio, ma sentivo che non erano solo
quelli, lo sentivo, era…era la sensazione che ci fosse
qualcosa di sbagliato.
Qualcosa che non si incastrava, che stonava.
Che casino.
Dovevo ignorare quei segnali destabilizzanti e usare la ragione, non
c’era altro modo, dovevo pensare al domani, al mio futuro, e
non affossarmi in qualche emozione fugace e temporanea.
Chiusi finalmente gli occhi, molto tardi, decisa a farmi meno paranoie
per il futuro, e mi svegliai presto per studiare, ancora piena di sonno.
Non era così facile.
Era domenica mattina ed eravamo alle solite: mentre la gente normale se
la prendeva con calma per una volta alla settimana, e la sottoscritta
dopo aver fatto il bucato per tutti tentava di studiare, mia madre e
mia sorella avevano iniziato a litigare, e forse se non fossi stata
così stanca, e nervosa, e disgustata da qualcosa che non
capivo pienamente, mi sarei isolata nel mio mondo e sarei riuscita a
studiare ugualmente, ma quella mattina non ne ero in grado, mi veniva
perfino da piangere, ed ero come esasperata.
Presi il mio libro e me ne andai sbattendo la porta, non prima di avere
lanciato insulti a quelle due disgraziate ed averle minacciate che se
non riportavano all’interno il bucato steso
all’aria una volta acceso il termosifone (lo tenevamo spento
il più possibile, per risparmiare), me ne sarei andata di
lì e le avrei mollate per sempre come papà.
Magari potessi davvero.
L’idea era quella di prendere il metrò ed andare
alla ricerca di un buco in cui poter studiare in pace, ma i miei piedi
sembravano avere maturato una loro volontà,
perché invece mi ritrovai a fare le scale del palazzo di
Sasuke, e dopo aver constatato perplessa che la porta era chiusa a
chiave provai a bussare.
Non con forza, perché forse dormiva, per cui mi limitai a
dei colpettini leggeri, intervallati, almeno finché non mi
venne il dubbio che forse non era ancora tornato dal concerto e tentai
con un paio di colpi più forti.
Niente.
Riprovai a girare la maniglia, ma quella proprio non si apriva, e mi
pareva strano che si fosse ricordato di chiudere lui che di solito
lasciava sempre aperto, era davvero anomalo, e mi chiesi se non fosse
lì con una donna, un’altra donna, che non ero io.
Non avevo mai considerato veramente questa possibilità, non
so perché, ma solo il pensiero mi rendeva furiosa.
Fortunatamente in quel momento si degnò di aprirmi, il
signorino, e nonostante l’aria abbastanza distrutta non
sembrava per niente uno appena svegliato, il che era sospetto.
Però era vestito.
- Cosa vuoi –
Questa non mi pareva nuova, l’avevo già sentita,
forse per quello non ci feci caso ed aspettai che si arrendesse e mi
facesse entrare, perché se ci fosse stata una donna non mi
avrebbe fatta entrare, giusto?
Poco dopo presi atto con soddisfazione del fatto che stava studiando
anche lui, aveva i libri aperti sopra il tavolo.
- Posso studiare qui con te? – chiesi, e senza
aspettare la risposta mi diressi al tavolo e piazzai il mio libro sopra
la superficie logorata, non più così bianca
– a casa mia urlano, a questo punto la ritengo una mancanza
di rispetto nei miei confronti –
Mi sentivo già meglio, non ero più arrabbiata con
il mondo e mi stavo già trasformando nell’altra
Sakura, quella spensierata che spiattellava tutte le stupidaggini che
le passavano per la testa, senza controllo.
- Come è andato il concerto? –
- Bene – rispose mentre si sedeva di fronte a me.
Ah be’, adesso sapevo tutto.
- C’erano signorine che volevano attentare alla tua
virtù? – domandai per sicurezza.
- Sempre troppe –
Le sgualdrine.
- Illuse. Non sanno che sotto la tua aria da duro sei un
romanticone –
Come se non mi fossi agitata all’idea solo poco prima.
Non si degnò di rispondermi e rimanemmo in silenzio a
studiare per una ventina di minuti, sapevo che lui era iscritto a
Matematica, una facoltà assai difficile nonché
abbastanza inutile, diciamocelo, ma lui era così, non gli
interessava poi tanto il denaro.
Ogni tanto lo sbirciavo, e notai ancora che sembrava stanco, molto
stanco, ma non era così male, quasi gli donavano le
occhiaie, davvero, e le volte in cui incrociavo il suo sguardo intenso
mi sentivo rimescolare lo stomaco e mi affrettavo ad abbassare la testa.
- Telefono – borbottai la seconda volta che il
ronzio della vibrazione mi aveva infastidita.
- Lo so –
Continuò a non rispondere e mi sforzai di non badarci
nonostante il cellulare riprendesse a vibrare ad intervalli; ad un
certo punto con la coda dell’occhio lo vidi maneggiarlo per
un poco, e poi smise del tutto di vibrare.
Mi sforzai di studiare tentando di ignorare il fatto che era seduto di
fronte a me, a portata di mano, fino a quando non si alzò.
- Vado a farmi una doccia per svegliarmi, non sono andato a
letto questa notte…mettimi su un caffè –
Cos’ero, la cameriera?
- Chiedimelo più gentilmente e magari lo faccio
–
- Sei tu quella che ha invaso casa mia –
Non aveva tutti i torti, ma mentre ero lì che meditavo sul
fatto che era lì nudo a pochi metri da me e che forse per
distrarmi potevo accontentarlo e preparargli il caffè, mi
accorsi che il suo telefono si illuminava, e lo presi in mano curiosa.
C’erano parecchie chiamate perse, tutte di un certo, o una
certa, ‘M’, e quando lo schermo si
illuminò di nuovo risposi senza pensare.
Alla peggio si sarebbe arrabbiato con me, sai la novità.
- Pronto? –
- Chi parla?
–
Era una voce di donna.
- Sono un’amica di Sasuke, chi è lei?
– domandai sospettosa.
- Sono sua
madre, è lì? –
Ah…era solo la mamma.
- Al momento non può rispondere –
replicai sollevata mente mi alzavo col cellulare all’orecchio
e cercavo la caffettiera (avevo deciso di assecondarlo, doveva essere
il senso di colpa per essermi impicciata troppo) – devo
riferirgli qualcosa? – non che potessi riferire niente, in
realtà.
- Puoi dirgli
che…che mi dispiace, ma è meglio se non viene
alla recita di sua sorella, capirà –
- Credo sia il caso che glielo dica lei –
- Lo so ma…
–
Non aveva aggiunto altro, ed io avevo troppa paura che Sasuke arrivasse
e mi beccasse per riuscire a sostenere una conversazione decente.
- Ma perché scusi? – tagliai corto
– perché non può andare alla recita di
sua sorella? – sapevo che non la vedeva da tanto tempo, e che
gli dispiaceva.
Ero convinta che mi avrebbe mandato a quel paese, e invece dopo un
po’ rispose.
- E’
difficile da spiegare, e non so se Sasuke…
–
- Senta, devo mettere giù purtroppo – mi
sembrava che l’acqua della doccia avesse smesso di correre
– se ha bisogno di contattarmi può trovarmi alla
fioreria Yamanaka, quella in centro, il martedì e
giovedì pomeriggio, sono Sakura – aggiunsi
d’impulso, me se sarei pentita, lo sapevo.
Dopo aver chiuso la chiamata rimisi il cellulare dove lo avevo trovato,
senza un filo di senso di colpa (neanche fosse un mio diritto
intrufolarmi nella sua vita) e iniziai a preparare il caffè.
Poco dopo era uscito dal bagno, vestito grazie al cielo, ma solo nel
vedergli i capelli bagnati la mia immaginazione galoppava verso
territori pericolosi.
- Tra un po’ il tuo caffè è
pronto – mormorai distogliendo lo sguardo.
- Hai toccato il mio cellulare? –
- Io? Noo –
Mi voltai a guardarlo, aveva il telefono in mano e lo stava
controllando: non sapevo cosa avesse notato di sospetto ma col senno di
poi sarebbe stato intelligente cancellare ogni traccia della chiamata,
peccato fosse tardi ormai.
- Gli ho dato un’occhiata – confessai dal
momento che si ostinava a esaminare quello stupido cellulare (comunque
avrei negato fino alla morte di avere risposto a sua madre) –
chi è ‘emme’? – chiesi
innocentemente, evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo.
- Nessuno che ti riguardi, e non toccarlo più
–
Chiusi il gas sotto la moka.
- E’ pronto…e pensavo…forse
mentre beviamo il caffè è il caso di chiarire un
po’ le cose tra noi – buttai lì
subdolamente, e non solo con l’intenzione di sviare
l’attenzione dal cellulare, anche, ma non solo.
Comunque prevedibilmente la distrazione aveva funzionato,
perché lui abbandonò subito l’oggetto
in questione per avvicinarsi e fermarsi di fronte a me.
Era stato perfino troppo facile.
- Sentiamo –
Lo guardai cosciente che in realtà non c’era
niente da chiarire, che sapevamo entrambi come stavano le cose. Circa.
Deglutii.
- Mi attrai…sessualmente – mormorai
arrossendo un po’.
- Anche tu – ammise, e mentre mi guardava con quei magnifici
occhi, con quel fuoco che mi rimescolava lo stomaco,
un’ondata di eccitazione mi attraversò il corpo.
Anche lui, allora.
- E…riguardo al sesso senza impegno…
–
- Potrei considerarlo – mi interruppe.
Era la giornata delle rivelazioni.
- Pensavo fosse contro i tuoi principi –
- Lo è – confermò –
ma ci ho pensato e mi rendo conto che finché mi stai tra i
piedi continuamente è inevitabile che prima o poi ci
caschiamo –
- E ti sta bene così? –
- Me lo farò stare bene… piuttosto, sei
sicura che andrebbe bene per te? –
Veramente l’intenzione era stata quella di dirgli che anche
per me era meglio lasciar perdere, in fondo sapevo che, anche se fossi
stata così cinica da decidere che non mi importava niente di
fare le corna a Sasori, difficilmente sarei stata in grado di gestire
due uomini contemporaneamente.
Ma ora, mentre lui mi guardava con quegli occhi che bruciavano, mi
rendevo conto che se dovevo essere io quella forte che diceva di no, e
non lui, non avevo alcuna speranza.
Bastava che mi guardasse così ed ero spacciata.
Ero ancora consapevole che era sbagliato, e pericoloso, ma non sembrava
poi così grave quando ero lì in piedi di fronte a
lui, in tensione, i capezzoli turgidi dalla voglia di essere toccati e
un pizzicore intollerabile tra le gambe, e già iniziavo a
convincermi che forse se mi toglievo tutti gli sfizi, fino in fondo,
alla fine non sarebbe più stato un bisogno così
irresistibile.
Non era che non sapessi che si trattava di sciocchezze, era che al
momento non me ne importava abbastanza.
- Basta non perdere la testa e mantenere il controllo, usare
la ragione insomma – replicai già fremente.
- E il principe azzurro? –
Nel frattempo aveva iniziato ad accarezzarmi i capelli, e ormai non
connettevo più molto bene.
- Se con lui diventerà una cosa seria smetteremo
– quasi balbettai, per nulla imbarazzata delle sciocchezze
che proferivo mentre il corpo si arcuava istintivamente verso di lui, e
cacciai il dubbio che non sarei stata in grado di smettere quando fosse
giunto il momento, se ora solo l’idea di non poterlo toccare
risultava intollerabile.
- Idem se trovo una ragazza che mi interessa –
Non volevo neppure considerare quell’opzione, faceva proprio
male, e forse ero davvero egoista, e possessiva.
Lentamente mi accarezzò la guancia, e il collo, e avevo
già l’acquolina in bocca, per non parlare di altre
parti del corpo.
Oddio.
Feci sgusciare le dita sotto la sua maglietta, a sfiorargli lo stomaco.
Avevo la sensazione di scivolare in una china pericolosa, che non sarei
stata in grado di controllare, ma non potevo trattenermi.
Non potevo.
Era più forte di me.
Dimenticammo completamente il caffè e finimmo per baciarci
appassionatamente contro il mobiletto della cucina, tentando
contemporaneamente di sfilarci le maglie in fretta, impazienti.
- Togliti ‘sto cazzo di jeans – mi
sibilò trafficando con la mia cerniera, non li usavo spesso,
ma venivo direttamente da casa, era domenica in fondo.
Me li sfilai impaziente, eccitata, e mentre facevo scivolare
giù le mutandine lo guardai che si spogliava a sua volta, il
corpo che mi tremava un poco per l’eccitazione.
Subito dopo lo attirai a me ed avvinghiai le gambe attorno ai suoi
fianchi.
Lo volevo.
Adesso.
Sentii che mi premeva l’erezione tra le cosce ed
entrò subito in me, e finalmente ero di nuovo intera.
Non so come ma di colpo mi resi conto che non stavamo usando il
preservativo.
- Sas’ke…Sas’ke…
– riuscii a far uscire ansimante, e gli tirai i capelli per
guardarlo mentre ancora spingeva dentro di me –
il…il preservativo –
Mi fissò per un momento con lo sguardo lucido di piacere, e
non so assolutamente come avesse fatto, io non ne ero in grado, lo
ammetto, ma si staccò da me lasciandomi improvvisamente
vuota, e per mano mi trascinò in fretta in camera.
- Sbrigati – lo implorai mentre lo guardavo
infilarselo, perché mi faceva perdere completamente il lume
della ragione e non ne potevo più, tanto che subito dopo lo
feci cadere sul letto e gli salii sopra.
Finimmo comunque per fare l’amore come l’altra
volta, con me carponi e lui che mi prendeva da dietro, ed anche se al
momento nemmeno me ne rendevo conto, travolta da uno degli orgasmi
più lunghi e intensi della storia, dopo rimaneva come un
amaro in bocca, che non capivo e non riuscivo a spiegarmi.
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Capitolo 13 *** 13. ***
No comment su questo capitolo,
e un grazie enorme a tutte coloro che hanno recensito quello precedente!
13.
E così a quanto pareva ora avevo una doppia vita, anzi,
tripla.
Ero una poveraccia che faticava a pagarsi i libri per la scuola, una
brava ragazza che frequentava un buon ambiente, studiava e aveva
iniziato una relazione con un ragazzo della buona società,
ed ero la ragazzaccia che saltava addosso al chitarrista dei Dead
Leaves ogni volta che le capitava l’occasione.
Se qualcuno mi avesse raccontato che una sua amica si comportava in
questo modo, avrei dedotto che si trattava di una persona un tantino
immatura nonché parecchio confusa, per non essere volgare,
ma avevo imparato presto che la vita riservava non poche sorprese e che
le cose non suonavano altrettanto squallide e irreali vissute di
persona, non sempre almeno.
Non che non sapessi cosa avrei dovuto fare, non solo razionalmente ma
anche moralmente (perché incredibilmente avevo
anch’io una morale, benché al momento non si
notasse), e capivo perfettamente che la soluzione ideale sarebbe stata
quella di smettere di vedere Sasuke per non cadere in tentazione, ma
l’idea di non vederlo più equivaleva a
sprofondarmi in qualcosa che somigliava molto allo sconforto: era come
se avessi bisogno di lui, di vederlo, toccarlo, sentirlo, del suo corpo
caldo e della sua presenza forte, e non sapevo cosa fosse quel bisogno,
ma a me pareva assomigliasse ad una specie di malattia, e come per ogni
malattia non c’era molto da fare se non aspettare che facesse
il suo decorso.
Avrei cercato di imparare a resistere, ecco, di accontentarmi pian
piano della sua amicizia e riportare il nostro rapporto ad un livello
platonico, per quanto fosse dura.
Il che non mi impediva, da un punto di vista prettamente pratico, di
rendermi conto che era meglio valutare l’ipotesi di
rosicchiare un po’ il mio gruzzolo e iniziare a prendere la
pillola, perché non potevo permettermi di correre alcun
rischio, seppur minimo, soprattutto considerando quanto perdevo la
testa in presenza di sappiamo chi.
Che casino!
_
Nonostante i buoni propositi, i giorni successivi avevo pensato un
po’ troppo spesso a lui.
La malattia era al suo culmine ed ogni santo giorno avevo trattenuto la
voglia di andare a cercarlo, per vederlo, parlargli, e magari saltargli
addosso come una tossica che ha bisogno della sua dose, e ogni santo
giorno, nonostante mi rendessi conto dell’idiozia della cosa,
mi chiedevo come stava lui, cosa pensava, cosa provava veramente per
me: sapevo che c’era stato un momento in cui gli piacevo
molto, altrimenti non si sarebbe così arrabbiato con me, non
si sarebbe sentito usato, ma non riuscivo a capire cosa provasse
adesso, e temevo che gli fosse già passata: forse a questo
punto gli interessava solo il sesso, e non mi spiegavo
perché quel pensiero mi indispettisse così tanto.
Ero davvero così egoista?
A completare la mia ossessione guardavo spesso il cellulare con la
tentazione di mandargli un messaggio, così, solo per
sentirlo, ma ovviamente non lo facevo, mi rendevo conto che non era il
caso, e comunque non mi sarei mai permessa di importunarlo senza motivo
(però anche lui aveva il mio numero, avrebbe potuto farsi
sentire, no?!).
In compenso sentivo spesso Sasori, e devo ammettere che in quei giorni
facevo particolarmente fatica ad appassionarmi ai nostri scambi di sms,
e quando mi aveva scritto che purtroppo quella settimana non sarebbe
riuscito a vedermi non mi ero particolarmente preoccupata.
Ero ben contenta di rimandare il nostro incontro.
Giovedì ero in fioreria e ad un certo punto, forse era la
suggestione, mi era parso di scorgere la madre di Sasuke ferma di
fronte alla vetrina, che guardava dentro e subito dopo si allontanava.
Ero corsa fuori ma ormai era tardi, era già sparita dietro
l’angolo, sempre se non avevo immaginato tutto.
Peccato, mi elettrizzava perfino l’idea di parlare con sua
madre.
Quel venerdì pomeriggio, al lavoro, non guardai subito dalla
sua parte, mi trattenni eroicamente fino a quando non decisi che ero
stata abbastanza eroica e non provai a sbirciare: eccolo lì
che lavorava, mi pareva perfino più bello
dell’ultima volta che l’avevo visto.
Ero arrivata al punto che mi piaceva perfino come si vestiva, davvero,
non certo in modo classico, ma aveva un suo stile a suo modo anche
ricercato, ecco, un’eleganza da strada diciamo, e comunque
faceva parte del suo fascino, il che significava che ero proprio
andata.
Controllai l’ora, impaziente.
Avevo infilato in una scatolina il mio plettro rosa e lo tenevo in
borsa con l’intenzione di consegnarglielo oggi: la settimana
prossima era Natale, ed era una vita che non provavo più
quell’eccitazione all’idea di fare un regalo, forse
non l’avevo provata mai, per un regalino idiota oltretutto,
ma era il pensiero quello che contava ed ero sicura che non se lo
aspettasse proprio e che gli avrebbe fatto piacere, e allora faceva
piacere anche a me.
Lo guardai ancora.
Oddio, come lo…come mi piaceva, il bastardo.
Ero davvero infatuata, per carenza di termini
migliori…sì, infatuata rendeva con precisione lo
stato in cui mi trovavo.
Infatuata.
Di seguito sbirciai spesso dentro al bar alla ricerca della sua testa
scura, ma non incrociai mai il suo sguardo, e il fatto che non si fosse
degnato di guardarmi neppure una volta mi infastidiva in maniera
sproporzionata.
Cosa voleva dimostrare, che ero solo io la stupida che non riusciva a
trattenersi?
Dopo mi sentiva.
Non mancava molto alla chiusura e già pregustavo la nostra
passeggiata (avevo giusto in mente qualche domandina da fargli), e mi
ritrovavo involontariamente a sorridere, quando mi accorsi di
un’automobile che parcheggiava proprio di fronte al bar,
nonostante l’evidente divieto, e di una tizia che ricordavo
bene, per l’esattezza la rossa che avevo visto una volta a
casa di Sasuke, smontare subito dopo ed entrare.
Oltretutto la macchina mi nascondeva in parte la visuale, era una
specie di doppio affronto.
Nonostante l’ostacolo riuscii a vedere chiaramente
quella…quella signorina che gli si abbarbicava addosso, e
purtroppo non ero in grado di distinguere la reazione di lui dal
momento che il suo volto era un po’ nascosto.
Avevo improvvisamente caldo, sudavo perfino.
Come se non bastasse li aveva visti anche Haku ed aveva lanciato un
gridolino oltraggiato prima di protestare indignata, sostenendo che il
barista era nostro.
Finii di lavorare di umore assai meno brillante, ed uscii senza
rispondere ad Haku che mi consigliava di sorridere e mi assicurava che
non c’era confronto tra me e quella, che il nostro barista
non avrebbe avuto dubbi.
A questo punto l’intenzione era quella di andare a casa senza
aspettarlo, era la cosa più dignitosa da fare, ma non appena
uscita notai che la rossa era in piedi di fianco
all’automobile, probabilmente in attesa di lui, e presa da un
impulso irresistibile, nonché da quell’inguaribile
curiosità che mi prendeva ogniqualvolta c’era di
mezzo lui, attraversai la strada e la salutai.
- Stai aspettando Sasuke? – chiesi con il sorriso
più falso che avevo in repertorio, per nulla imbarazzata del
mio evidente tentativo di estorcerle informazioni. Chi se ne fregava.
- Viene in macchina con me, sono venuta a prenderlo
– rispose lei squadrandomi dall’alto in basso.
Sarebbe sembrata una conversazione civile se non fosse stato per gli
sguardi, i sorrisini, e il sottotono pieno di perfidia.
- Sono qui a Konoha per tutto il week end – aveva
aggiunto melliflua (ma pareva un felino che mi studiava pronto ad
attaccare) – mi fermo da lui un paio di giorni, festeggiamo
il Natale in anticipo – concluse con un sorriso sadico e
trionfante.
Stavo ancora registrando la prima informazione, quella che lei non
abitava in città, quando quell’inciso mi aveva
mezza accoppata.
Dormiva da lui? Quella?
Con quell’aria di saperla lunga ed avere tutt’altre
intenzioni che dormire?
Mi congedai ancora allegra all’apparenza, cinguettando di
salutarmelo tanto, e mi girai che avevo completamente cambiato
espressione.
Per uno che si vantava di avere dei principi tendeva a dimenticarseli
con allarmante frequenza.
E poi sarei stata io quella spudorata.
Come…come si permetteva?
Tornai a casa che ero furiosa con lui, così furiosa che non
riuscivo a ragionare, e non importava quanto incoerente la cosa potesse
sembrare, e probabilmente essere.
Le mani mi prudevano, avevo così voglia di scrivergli
qualcosa, un insulto più che altro, magari qualcosa del
tipo: ‘Almeno io non sono ipocrita, brutto stronzo, sei anche
peggio degli altri’ o simili, ed ero
così…così irrazionalmente gelosa che
faticavo a controllarmi, e questa mia nuova incapacità di
respirare regolarmente, di calmarmi e ragionare, tutto a causa di un
ragazzo, mi terrorizzava.
A casa continuai ad essere di pessimo umore, meno mi parlavano meglio
era.
Altro che atmosfera natalizia.
Assieme a Moegi preparai qualcosa da mangiare in tutta fretta, e
più tardi, quando ero andata ad aiutare mia madre ad alzarsi
dal letto e mi aveva chiesto di portarle il cibo lì,
perché non se la sentiva di muoversi, le replicai
sgarbatamente, molto sgarbatamente.
Anche dopo, per tutta la cena, mi trattenni a fatica dal dare
rispostacce a mia sorella che continuava a chiacchierare allegramente.
- Dato che ti è passata – buttai
lì ad un certo punto per nulla delicatamente – si
può sapere chi è quello stronzetto che ti ha
messo incinta? –
Si era subito offesa ed aveva iniziato ad urlare che ero solo una
stronza presuntuosa, che tutti mi odiavano (aveva ripetuto la parola
tutti) e che lei sapeva che ultimamente ero stata fuori più
di una notte fino a tardi, e quindi dovevo stare zitta,
ecc…ecc...
Ascoltai con un orecchio solo per nulla impressionata, quasi grata di
poter dedicare la mia attenzione a qualcosa che non fosse la mia
ridicola ed immotivata gelosia (perché purtroppo non mi
veniva altro modo per definire ciò che provavo).
Dopo cena studiai fino a tardi concentrandomi solo su quello, a fatica,
e più tardi, a letto, con il cellulare in mano e una voglia
matta di rompere le scatole a quel bastardo, mi feci forza e provai
invece a mandare un messaggio a Sasori, probabilmente per una sorta di
risibile ripicca.
Dal momento che anche lui era sveglio iniziammo a messaggiarci, e forse
perché ero a letto i messaggi degenerarono e diventarono
sempre più audaci.
Era come un gioco, ma in un certo senso tutta la mia vita assomigliava
spaventosamente ad un gioco.
Continuammo a giocare quel gioco perverso fino a tardi, e dopo che ci
eravamo salutati finii col masturbarmi per liberare un po’
della tensione sessuale che avevo accumulato: era la prima volta che lo
facevo, ma non era stato così male, anzi, molto meglio della
mia deludente esperienza con Sasori stesso, il piccolo problema era che
per arrivare all’orgasmo avevo immaginato per tutto il tempo
di avere Sasuke sopra di me, che mi faceva cose innominabili.
Solo dopo avevo realizzato che magari proprio in quel momento quello
stronzo le cose innominabili le stava facendo alla rossa, e mi ero
innervosita ancora di più.
Quando finalmente mi addormentai, più tardi, avevo delle
ridicole lacrime agli occhi.
Il mattino dopo trovai un ultimo messaggio di Sasori che non avevo
ancora letto: chiedeva se avevo voglia di prendere un treno ed andare a
passare sabato notte lì da lui, a Suna, perché
aveva voglia di incontrarmi almeno una volta prima di Natale.
Non mi aspettavo l’invito, quella settimana teoricamente non
avremmo dovuto vederci, la sera prima era ancora in giro per lavoro e
doveva partire prestissimo per Suna per rimanere lì una
notte e prendere già il giorno dopo un aereo per Kumogakure,
dove sarebbe rimasto per un paio di giorni, fino a martedì
sera, la vigilia di Natale.
Anche solo a spiegarlo sembrava un casino.
Considerai la proposta: mi rendevo conto che era una tirata enorme e
che avrei perso tantissimo tempo che avrei fatto meglio ad impiegare
nello studio, e non era neppure che morissi dalla voglia di
incontrarlo, ma almeno lui aveva in mente solo me, in più
ero curiosa di vederlo nel suo ambiente…e comunque tutto era
meglio che rimanere a casa sapendo che quell’altro era da
qualche parte, probabilmente sopra un letto, con la rossa.
Prima che me ne fossi resa conto avevo già risposto di
sì, e poco dopo mi aveva chiamata per dirmi quanto gli
facesse piacere vedermi (era appena sceso dall’aereo, era
davvero un tesoro, per colpa di Sasuke non mi rendevo neppure conto
della mia fortuna), e quasi contagiava anche me, quasi, peccato che ad
un certo punto fossi rientrata a terra ed avessi realizzato quanto
costava il biglietto del treno.
Non potevo assolutamente permettermelo.
Richiamai immediatamente e mi inventai una serie di scuse penose (mica
potevo dirgli la verità), che si imperniavano attorno ad un
presunto impegno che avrei avuto proprio domenica con alcuni parenti,
impegno che avevo dimenticato nell’onda
dell’entusiasmo, e ammetto che mi sentii lusingata quando mi
rispose che allora avrebbe provato a venire lui da me, eppure una parte
di me era addirittura contrariata, quasi avessi sperato di averla
scampata.
Poco dopo mi richiamò per confermare che partiva dopo
pranzo: si sarebbe fatto ore di macchina solo per vedermi, e sarebbe
ripartito poi per altre ore di macchina per tornare a Suna ed andare a
prendere un aereo subito dopo.
Ero quasi commossa, quasi.
In ogni caso era gratificante sentirsi così amate.
Studiai per l’intera giornata, ignorando quello stato
sotterraneo di agitazione continua che non capivo ed ormai non riuscivo
a controllare più, fino a quando non iniziai a prepararmi
con cura ancora maggiore del solito, e per l’occasione
indossai perfino un abitino luccicante nero che avevo trovato in un
negozio dell’usato diverso tempo prima e non avevo mai usato,
e che modestamente mi stava benissimo.
Salutai mia madre dicendo che cenavo fuori e Moegi si sarebbe occupata
di tutto (ignorai le lamentele di quest’ultima), e lo
aspettai in centro, vicino al negozio di fiori.
Quando salii nella porche argento gli sorrisi davvero, non per finta,
ancora compiaciuta del fatto che gli importasse così tanto
di me.
La cena era stata ottima, come sempre, ed avevamo chiacchierato del
Natale che ci aspettava e dei posti che aveva visitato, che erano
tantissimi dal momento che aveva viaggiato davvero molto.
Era stato piacevole.
E poi mi aveva perfino portato un regalo, davvero, una borsa che doveva
costare un patrimonio, e mi aveva spiegato un po’ saccente
che era di gran moda, che tutte le sue amiche l’avevano dalle
sue parti, come se il fatto che condividessi quella borsa con tutte le
sue conoscenze femminili dovesse entusiasmarmi.
Non so perché ma non mi piaceva affatto, non con
quella roba dorata attorno almeno, preferivo le borse sobrie e lineari,
e quasi mi rodevo al pensiero di tutte quella altre borse di marca che
avrei potuto avere al suo posto, però ovviamente lo
ringraziai con un’espressione estasiata che sapevo falsissima.
Il fatto era che con lui mi sentivo una persona diversa, più
posata, composta, forse anche artificiosa, ma in un certo senso andava
bene così, quell’atmosfera si adattava meglio
all’immagine su cui avevo lavorato anni, e sotto questo punto
di vista il rapporto con lui ne era come il punto di arrivo: ogni cosa
rimaneva ad un livello controllabile, che non scalfiva la superfice che
mi ero creata.
Se non ci fosse stato Sasuke sarebbe stato davvero perfetto, ma lui
c’era, in un angolino dentro di me, e mi impediva di sentirmi
soddisfatta, come uno stupido sassolino nella scarpa, come un continuo
rimando a qualcosa di diverso, ad una Sakura diversa.
In albergo, avrei preferito salutarlo dopo la cena ma ero ormai
rassegnata, Sasori si assentò una mezz’ora per
rispondere ad una telefonata importante.
Ero grata della pausa, e rimasi sdraiata nel grande letto col cellulare
in mano, in balia dei miei pensieri e della mia ridicola gelosia che a
tratti riaffiorava, e a pensare a quello stronzo.
Incapace di resistere oltre gli inviai un messaggio:
‘Ti diverti
con la tua amica?’
Elegantemente avevo evitato gli insulti.
Mentre aspettavo la risposta andai a prepararmi un bagno caldo nella
jacuzzi per ricordarmi di dov’ero e di quanto mi stavo
divertendo, e prima di immergermi nella vasca presi il cellulare e lo
posai lì accanto.
Era passato del tempo e lo stronzo non aveva proprio risposto, per cui,
ora tutta comoda e rilassata dentro la vasca, gli scrissi:
‘Rispondi,
maleducato’
Poco dopo, me ne stavo sempre spaparanzata a godermi
l’idromassaggio, si degnò di rispondere:
‘Hai sbagliato
numero’
Che…che idiota.
‘Non ho
sbagliato numero, stronzo! Sono solo delusa, i tuoi principi sono solo
una farsa…tieniti i tuoi amici barboni, almeno io non sono
ipocrita!’
Questa volta mi aveva risposto quasi subito:
‘Non capisco
nemmeno che cazzo stai dicendo’
Non credevo ai miei occhi.
‘Sto
dicendo che sei un ipocrita e anche un bugiardo! Almeno io sono
onesta!’
Posai per un momento il cellulare, finalmente soddisfatta, e lo ripresi
subito dopo per leggere la risposta:
‘E anche un
po’ troia…comunque mi hai rotto’
Gli inviai insulti pesantissimi per i successivi dieci minuti, avevo
perso il controllo, e il fatto di non ricevere nemmeno uno straccio di
risposta mi infuriava ancora di più.
Sasori tornò che ero già uscita dalla vasca, mi
ero spalmata sulla pelle l’intera bottiglietta di lozione
profumatissima dell’albergo e me ne stavo semisdraiata a
letto in accappatoio (il morbidissimo accappatoio
dell’albergo), furiosa, cosa che lui apprezzò
tantissimo (il fatto che fossi seminuda, non quello che fossi furiosa,
che nascosi bene), per cui tentai di sfruttare tutta quella rabbia per
riuscire per lo meno a scaricarmi sessualmente.
Niente.
Ad un certo punto mi ero arresa e come la volta precedente avevo
aspettato solo che finisse, lo sguardo al soffitto, e nel frattempo
avevo quasi la tentazione di prendere il cellulare e controllare se
c’erano messaggi di quello stronzo, ma mi trattenni, non era
molto garbato data la situazione.
Un lato positivo era che sicuramente non rischiavo di farmi sfuggire il
nome di Sasuke travolta dall’estasi, e c’era da
dire che di sicuro non rischiavo di scordare il preservativo, anzi, ero
stata un pochino paranoica in proposito.
Quando finalmente finì (anche questa volta avevo finto
l’orgasmo, stavo diventando bravina) eravamo rimasti
abbracciati per alcuni minuti, e in quel lasso di tempo, mentre mi
ripetevo che il sesso non era tutto nella vita, mi ero chiesta se non
dovessi almeno provare a comunicare un po’ di più,
ad avere un altro tipo di intimità, altrettanto o
più importante di quella sessuale.
Non era che non parlassimo, anzi, era una persona piuttosto colta e
parlavamo di tutto, arte e storia comprese, ma era come se mostrassimo
solo uno strato di noi e lasciassimo all’interno quello
più intimo, più vero, e andava bene
così, era questa la nostra relazione ed ero consapevole che
difficilmente con le persone si può arrivare ad altro, ma in
quel momento avevo bisogno di qualcosa di più, di un
piccolo, breve momento di comunione, di intimità vera.
In concreto però non sapevo come fare, non mi veniva
spontaneo, così improvvisai e per mancanza di idee migliori
gli chiesi di raccontarmi qualcosa di lui, spiegando che non mi
riferivo a quello che possedeva o faceva, e neppure a cosa gli piaceva
fare, ma che volevo qualcosa di più personale questa volta.
Dal momento che non capiva di cosa stessi parlando (a dire il vero non
lo capivo neppure io) provai a fargli qualche domanda, come quelle che
mi scappavano sempre con Sasuke, solo che anche questo non mi veniva
così facile, mi sembrava di muovermi senza grazia
all’interno di una cristalleria e mi sentivo a disagio, quasi
si trattasse di argomenti triviali, non adatti all’atmosfera
rarefatta dei nostri incontri.
Comunque, a furia di tentativi, fu così che scoprii che
aveva una fidanzata storica.
Davvero.
Avrebbe potuto dirmelo prima, credo.
Mi assicurò che ormai non c’era più
niente tra loro e che erano sul punto di lasciarsi, ma mi pareva la
solita minestra riscaldata che viene rifilata alle amanti, e mi sentivo
presa in giro, forse più da me stessa che da lui: cosa mi
aspettavo?
Probabilmente era lei prima, altro che telefonata di lavoro, e
c’era qualcosa di surreale a pensarci, lui fuori dalla stanza
che chiamava un’altra, io nella vasca che sentivo un altro.
Da ridere, o piangere.
Doveva avere notato la mia espressione non esattamente comprensiva,
perché si prodigò immediatamente in spiegazioni
superflue e non richieste, e continuò a ripetermi, con
profusione di parole, che era davvero interessato a me, che mi aveva
chiesto di andare a Suna perché una relazione segreta
iniziava a stargli davvero stretta, e che presto sarebbe stato libero,
forse già la prossima volta che ci fossimo visti,
perché intendeva prendersi i giorni a ridosso di Natale
proprio per avere il tempo di sistemare tutto.
Ipocritamente gli dissi che non doveva lasciarla solo per me, che non
volevo essere la causa di rotture, soprattutto a Natale, e ancor
più ipocritamente, vista la mia situazione con Sasuke,
aggiunsi che questa non me l’aspettavo proprio ed avevo
bisogno di riprendermi e pensarci un po’ su.
Gli uomini sono tutti dei vermi, pensai, neanche uno su due si limitava
ad andare a letto solo con me, e benché mi rendessi conto
dell’enorme ipocrisia della mia delusione (io ero uguale a
loro) avevo improvvisamente voglia di andare in bagno e vomitare.
Facciamo tutti così schifo, in fondo.
Nel frattempo Sasori non aveva preso bene le mie titubanze, e per la
mezz’ora successiva mi parlò di quanto gli
piacessi e ribadì quanto fosse rimasto colpito da me, fin da
subito, tanto che il giorno dopo avermi incontrata in fioreria si era
subito informato su chi fossi.
E così scoprii anche che sapeva tutto di me e della mia
famiglia (speravo non proprio tutto).
In un certo senso avrei dovuto sentirmi sollevata, prima o poi avrei
dovuto tirare fuori quell’argomento, e per un momento pensai
di chiedergli se non avesse mai avuto il dubbio che fossi
un’arrampicatrice sociale, ma non osai, avevo la sensazione
che fosse qualcosa di cui non era appropriato parlare, così
chiesi invece, sorridendo, se davvero aveva tutto questo potere.
Sapevo che amava quel genere di argomenti, ed ascoltai distratta fino a
quando non disse che volendo avrebbe potuto avere la trascrizione di
tutti i messaggi che mandavo e ricevevo al cellulare, a questo punto
smisi completamente di ascoltare, terrorizzata all’idea che
leggesse i messaggi che avevo mandato a Sasuke, anche poco prima.
Non ricordavo più che cosa avessi scritto esattamente e
ormai li avevo cancellati tutti in preda all’ira, per cui non
potevo controllare, così mi tormentai parecchio con il
dubbio che ci fosse qualcosa di compromettente, anche molto dopo che
Sasori mi aveva accompagnata a casa.
In realtà non sapevo neppure perché me ne
preoccupassi tanto, forse perché pensare al resto era molto
più deprimente, forse perché la facciata era
l’unica cosa che teneva in piedi questa relazione che ancora
non mi decidevo a troncare.
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Capitolo 14 *** 14. ***
Eccomi qui, spero che il capitolo vada bene, questa settimana non ho
avuto molto tempo da dedicare alla scrittura.
...soprattutto spero che vi piaccia!
14.
Ero tornata a casa piena di dubbi, e devo dire che l’unica
cosa di cui non mi preoccupai fu il fatto che sicuramente la voce della
sottoscritta che tornava in porche si sarebbe sparsa rapidamente, e che
di conseguenza mia madre e mia sorella mi avrebbero stressata per ore
con domande cui non intendevo rispondere, ma avevo altro per la testa,
e mi passai il resto della notte a rigirarmi sul letto con la
sensazione di avere un peso atroce sulle spalle.
Mi alzai ancora più stanca di quando ero andata a dormire e
studiai insonnolita per l’intera giornata tentando di non
pensare a Sasori, o Sasuke, sulle spalle quell’ormai
onnipresente peso.
Mi dicevo che avrei dovuto saperlo che sarebbe andata a finire male,
che avrei dovuto semplicemente lasciar perdere gli uomini fin
dall’inizio, fidarmi solo di me stessa, e basta, e invece...
Cosa dovevo fare adesso?
Mi sentivo persa, disorientata, ormai invischiata in quella situazione
fumosa e aggrovigliata che non riuscivo più a controllare.
Non sapevo cosa dovevo fare, non sapevo neppure che pensare.
E’ difficile spiegare lo stato di confusione in cui mi
dibattevo, era come se mi muovessi su un terreno scivoloso e non
sapessi dove aggrapparmi, no, era come se girassi attorno impazzita,
senza un punto fermo, senza uno scopo, senza neppure sapere il
perché.
Cosa volevo veramente, e addirittura, chi ero veramente io?
Perché sempre più spesso non riconoscevo le mie
reazioni e mi riscoprivo diversa da ciò che ero, da quello
che avevo creduto di essere, e sempre più spesso ero
scontenta di me stessa.
A questo punto non sapevo più dove finiva la recita e dove
iniziavo io, e in quel momento non capivo neppure più bene
cosa mi angosciava, chi mi angosciava, e perché, sapevo solo
che non stavo bene così, che non stavo affatto bene ed avevo
bisogno di una certezza, di una sola certezza per potermici aggrappare
e ricostruire intorno ad essa la mia vita.
- E’ nuova quella borsa? – chiese mia
madre a pranzo.
La guardai corrucciata.
Dal momento che l’avevo lasciata in camera non sapevo neppure
come avesse fatto a vederla, e quando mi spiegò che vi era
entrata un momento mentre ero in cucina perché pensava fossi
lì (sapeva che era vietatissimo entrare in camera mia) mi
chiesi se non dovessi chiudermi la porta a chiave quando uscivo, e in
soprappiù magari cambiare posto al mio gruzzoletto segreto:
mi fidavo di lei tanto quanto del mio peggior nemico.
- E’ una borsa di marca – continuava lei
– deve costare tanto –
- Me l’hanno regalata per Natale – per
una volta tanto era anche vero.
- Vorrei sapere chi ti fa tutti questi regali –
borbottò lei, non per la prima volta –
perché se vengo a sapere che le mie figlie si comportano
da… –
- Non finire neppure la frase – la bloccai
duramente.
Non avrei tollerato prediche da una che si trascinava ogni giorno dal
divano al letto e non sapeva niente, niente di noi e del mondo in cui
vivevamo.
E’ facile giudicare dall’alto della propria
inettitudine a vivere, almeno io ci provavo.
Ma la verità era che mi colpiva in un punto dolente.
- Mamma! Sakura a scuola frequenta persone ricche!
– mi difese Moegi – per loro non è
niente un regalo così! –
Devo dire che la mia sorellina in quei giorni dimenticava in fretta i
nostri alterchi ed era spesso di splendido umore, forse per
l’atmosfera natalizia e le conseguenti vacanze imminenti, o
presumibilmente perché Sasuke la salutava ogni volta che la
incontrava, tanto che perfino Ami, colpita da cotanta
popolarità, tentava di approcciarla in maniera diversa.
Era anche molto più disponibile nei miei confronti,
più affettuosa, secondo me perché si era resa
conto che questo improvviso cambio nel suo status sociale (la gente si
accontenta di poco, ma sotto sotto i meccanismi sono sempre gli stessi)
era dovuto in qualche modo a me e al mio rapporto con Sasuke, di cui mi
parlava sovente, ora.
- Me la presti un giorno? – aggiunse,
perché se non altro era uno spirito pratico come sua
sorella, non si poteva negare.
- Forse –
Tanto neanche mi piaceva.
- Oggi? –
Risposi magnanimamente di sì e quando si
precipitò a prenderla con il boccone ancora tra i denti le
gridai di stare attenta a non sbatacchiarla in giro e soprattutto a non
farsela fregare.
Conoscevo il mio pollo.
- Ho bisogno di una televisione in camera –
cambiò discorso mia madre mentre sparecchiavo –
per Natale ci sono tante offerte, potremmo… –
- No, costa troppo e sei in grado di camminare fino al divano
–
Ogni tanto tirava fuori questa storia del televisore in camera, ed
anche della rete del letto che si sollevava e della sedia a rotelle,
quando il medico aveva detto espressamente che non dovevamo neppure
pensare di accontentarla, che se lo avessimo fatto sarebbe diventata
ancora più dipendente e non si sarebbe proprio
più mossa, mentre invece doveva sforzarsi di camminare da
sola (non che si sforzasse molto).
Più tardi mi rinchiusi in camera a studiare, ma man mano
diventavo sempre più insofferente e facevo sempre
più fatica a concentrarmi.
Non riuscivo più a controllare l’inquietudine e
quel peso sulle spalle stava diventando intollerabile.
Subito dopo cena, non ne potevo più di rimanermene
lì da sola con i miei pensieri, uscii con la scusa di
sgranchirmi le gambe, ma sapevo esattamente dove intendevo andare:
avevo bisogno di vederlo, era l’unica cosa di cui ero sicura.
Appena arrivata di fronte alla sua porta abbassai la maniglia senza
darmi il tempo di pensare, e constatato che la porta era aperta entrai
senza bussare: lui stava studiando sul tavolo della cucina, e nel
vederlo confesso che il cuore aveva fatto una capriola nel petto prima
di iniziare a battere più velocemente.
Distolsi in fretta lo sguardo e andai di filato in camera sua, alla
ricerca di un indizio, che so, un preservativo usato, un reggiseno
dimenticato, o simili, ma non trovai niente, a parte le solite due
fotografie che guardai di sfuggita.
Mentre mi sedevo sul letto mi soffermai un momento su quella di lui con
la sorellina, che aveva davvero uno sguardo adorante piccolina, e
chissà se ogni tanto pensava a suo fratello, se chiedeva di
lui, se gli mancava.
Afferrai il cuscino con una strana sensazione che mi prendeva lo
stomaco, e la gola, e ci affondai il naso: non c’era nessun
odore sospetto, solo il suo profumo, e continuai ad inalarlo tentando
di calmarmi.
- Si può sapere che cazzo fai? –
Appoggiai il cuscino e mi voltai a guardare Sasuke che mi fissava dalla
soglia, non molto contento di vedermi.
Sotto il suo sguardo intenso mi sentivo nuda, e non parlavo solo
dell’eccitazione che mi risvegliava anche in quel momento, ma
di qualcosa che andava oltre, come se vedesse chi ero veramente, come
se sapesse che mi si stava sgretolando tutto tra le mani.
- La rossa se ne è andata? – domandai
senza guardarlo, con un’acidità che era quasi una
forma di vergogna – Vuoi uomini siete tutti uguali
– aggiunsi in fretta – ma dopo siamo noi le troie
–
- Ti rendi conto che quello che dici non ha senso –
Alzai la testa e rimasi a contemplarlo un momento, appoggiato alla
stipite della porta, così solido, e vero, in mezzo alla mia
confusione.
- Sei tu che mi hai dato della troia – replicai
comunque, in un automatico tentativo di difendermi, come se mi
importasse qualcosa di quegli stupidi messaggi, della rossa, o di
Sasori, quando quel che volevo era solo potermi appoggiare a lui e
sentirmi sicura di qualcosa, di qualcuno.
- Sei tu che hai iniziato a insultarmi senza motivo
–
Già.
- Ma sei tu che ti sei passato la notte a letto con la rossa
– mormorai stancamente, e mi sentivo ridicola e petulante, e
ad un passo dalle lacrime.
- Che cazzo dici. Non ho passato la notte con Karin, se ti
riferisci a lei –
Non mi stupii neppure della sua risposta, come se sotto sotto, in
qualche angolino nascosto, avessi sempre avuto il sospetto che non ci
avesse fatto niente con quella, perché era Sasuke, il mio
Sasuke, un fulcro cui guardare, un pilastro cui aggrapparmi,
così…così grande nella sua
onestà intellettuale.
Ed io…io sentivo di essere al limite, lì
lì per perdere il controllo.
- Non…davvero quella non ha dormito qui?
– mormorai.
- Non sono cazzi tuoi, ma dorme sempre da Naruto,
è sua cugina –
Quella bugiarda.
- E non ci hai mai fatto sesso? –
- No –
- Però lei vorrebbe – avevo insistito
sollevandomi dal letto – ed è una ragazza molto
bella –
- Senti, non so dove vuoi arrivare e… –
Si interruppe perché nel frattempo mi ero avvicinata ed
avevo appoggiato il capo sul suo petto.
Lui non mi abbracciava ma nemmeno mi respingeva, e poi
sollevò la mano e mi accarezzò i capelli, e solo
questo gesto parlava più delle mille parole di Sasori, e lo
avevo sempre saputo, questo, che tra noi c’era un legame che
non potevo spiegare razionalmente, che mi faceva paura.
- Sei mai andato a letto con qualche ragazza dopo che ci
siamo conosciuti? – continuai, come se avesse importanza, o
fosse un mio diritto chiederglielo.
- …no –
- E prima? –
- Non ti fai mai i cazzi tuoi? –
- Non ci riesco, e tu non puoi semplicemente rispondere?
– lo abbracciai sempre senza guardarlo, la testa sempre sul
suo petto, quasi sentire il suo cuore che batteva calmo, forte, potesse
infondere calma e forza anche a me – Quante donne hai avuto
prima di me? Non me lo vuoi proprio dire? –
- Se te lo dico dopo la smetti di farmi domande? –
- Promesso –
- Non ne ho mai avute –
- E…avventure? –
- Neanche –
Registrai a fatica l’informazione.
- Ma…avevi i preservativi – balbettai
stupidamente.
- Un regalo idiota –
- Ma…come mai – mormorai allora, e il
mio, di cuore, batteva così forte nel petto.
- Non mi sono mai innamorato –
Sasuke, sussurrai tra me, Sasuke.
Ero come stordita, e la testa mi girava.
- Sono la tua prima ragazza? –
bisbigliai stringendolo con più forza, avevo gli occhi
lucidi e c’era qualcosa, come una specie di tepore, che mi
riempiva il cuore e confondeva i pensieri.
- Non sei la mia ragazza –
- Lo so…ma…sei…innamorato di
me? –
Aspettai continuando ad abbracciarlo, persa in quel calore che sembrava
unirmi a lui, più forte dell’abbraccio in cui lo
stringevo, immersa in quella strana sensazione che mi sfiorava il cuore
come una sua carezza tra i capelli, e mi inondava di qualcosa che non
avevo mai provato e assomigliava alla gioia.
- …mi sei sempre piaciuta –
Gli sono sempre piaciuta.
- Anche prima che ci conoscessimo? –
- Sì –
- E anche adesso che sai che sono stupida, piena di
pregiudizi, rompiscatole e…e un po’ troia?
–
- Sei anche coraggiosa, forte, e positiva, e a tuo modo
onesta –
Sollevai il capo, gli occhi pieni di lacrime, e rimasi a
fissarlo per alcuni istanti imprimendomi nella memoria i suoi
lineamenti, così belli, e così cari al mio cuore,
ormai.
- Ti piaccio ancora? – sussurrai.
- Sì –
- E mi bacerai, anche se ieri ero con lui? –
Riuscii a distinguere l’ombra di dolore prima che sparisse,
ed appoggiai ancora il capo sul suo petto.
Il mio cuore batteva come impazzito nel petto, e potevo sentire il suo
che pulsava meno lento ora, mentre le sue dita si erano fermate tra i
miei capelli.
- Non respingermi ti prego, non ce la faccio più,
penso sempre a te – mormorai – io…credo
di avere bisogno di te…no, lo so…ho bisogno di
te, ho bisogno di te, che tu ci sia –
Ed era la verità, così semplice, così
banale, che non capivo come non avessi potuto coglierla prima, ed era
come se quell’ombra confusa che mi annebbiava la vista si
fosse dissipata per mostrarmi con chiarezza ciò che volevo
veramente, ed era tanto che non mi sentivo così sicura.
Volevo lui, solo lui.
- Fai l’amore con me, ti prego…fai
l’amore davvero, come se…come se mi amassi
– feci uscire in un sussurro.
Alzai la testa e lo baciai con tutta la passione e la tenerezza che
sentivo per lui, e credo, so, che facemmo veramente l’amore
per la prima volta quella notte, o almeno era la prima volta che lo
facevo io, ma sentivo che per lui era lo stesso, nonostante tutto,
nonostante non lo meritassi, lo capivo da come mi guardava, da come
accarezzava, da come baciava, ogni centimetro della mia pelle.
Dopo restai a guardarlo a lungo, a rimirare ogni particolare del suo
volto, i suoi occhi, le sue labbra, la sua fronte con quella cicatrice
che non sarebbe mai scomparsa del tutto, un continuo rimando a quella
volta in cui mi aveva aiutata senza esitare, un rimando a chi era lui,
e a chi ero io.
Non mi accontentai del viso, scesi ad esaminare ogni particolare del
suo corpo, e mentre tracciavo con la punta delle dita i suoi tatuaggi,
ad uno ad uno, gli chiedevo quando li aveva fatti, e perché,
e cosa significassero per lui.
Quella notte, tra i baci, finimmo per parlare di filosofia, per
raccontarci quei pensieri che ci sfiorano quando siamo soli con noi
stessi, che sigilliamo in una minuscola porzione del cervello senza
svelare mai.
Parlammo di ciò in cui credevamo e di ciò che
temevamo, della ricchezza e della miseria, dell’ingiustizia e
della giustizia, di Dio, della vita e della morte, come se fosse la
cosa più naturale del mondo mettere a nudo quei pensieri
inutili, eppure così profondi, e sentirsi una cosa sola,
un’anima sola.
Non riuscii a dormire mai, dovevo rimanere sveglia, assaporare ogni
istante di quello che provavo, perché ero felice,
profondamente felice, come non ero stata mai, e la felicità
è un attimo, appena passata diventa vaga come un sogno, e
già inizi a dimenticarla.
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No, la storia non è finita, mancano ancora parecchi
capitoli, e no, non sarà tutto rose e fiori d'ora in
poi...vedrete!
Cambiando argomento, voglio ringraziare ancora una volta tutte coloro che mi seguono, chi
recensisce in particolare: non sarò una scrittrice vera ma
è bello
pensare che, per quanto inutile, quello che scrivo fa divertire
qualcuno, e magari a volte, un pochino, anche pensare,
perché no!
...scusate l'inutile sfogo, ma devo dire che sono un po' in crisi con
la scrittura in questo periodo, forse perchè il
manga si avvicina alla fine, forse perchè sono anni ormai
che dedico tempo ed energie alla scrittura di fanfic, ma comincio a
sentirmi, come dire, demotivata...insomma, come Sakura mi chiedo
anch'io dove sto andando anche se la mia non è certo una
questione di uomini…anzi, il mio personale Sasuke non
è mai stato così saldo accanto a me, davvero una
roccia cui appoggiarsi. :)
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Capitolo 15 *** 15. ***
Capitolo cuscinetto, niente di che, ma non potevo far uscire il
capitolo precedente e quello successivo uno dopo l’altro,
c’era bisogno di una pausa per farvi prendere fiato. ;)
15.
Ad un certo punto dovevo essermi addormentata, purtroppo,
perché mi svegliai sola nel suo letto, e come
l’altra volta rimasi distesa lì, al calduccio,
senza nessuna voglia di alzarmi.
Così delusa.
Avrei voluto così tanto guardarlo dormire ancora un poco, e
avrei avuto bisogno di sentirlo ancora accanto a me, di vederlo quando
apriva gli occhi, di parlargli.
Ora, da sola, come facevo a capire se quella notte era stata reale, o
solo un sogno?
Mi feci forza e me ne andai subito dopo, era tardi e preferivo far
finta di avere dormito a casa per evitare antipatici commenti.
Arrivai che stavano ancora dormendo tutti quanti, per fortuna (Moegi
era in vacanza e mia madre sentiva le feste), mi mossi il
più silenziosamente possibile e mi chiusi in bagno per
sistemarmi, sana e salva, ma avevo sottovalutato la mia famiglia, e
quando uscii c’era Moegi, in piedi, che mi guardava
sospettosa.
- E’ la seconda notte di seguito che dormi fuori!
– mi accusò.
La ignorai, per niente colpita, e ripresi a camminare verso il
frigorifero in cerca di cibo.
- Ti hanno accompagnata a casa con un macchinone –
continuò lei con un altro tono, quasi ammirato (quella
sciocchina) – ma chi era? –
Da quel che capivo i pettegolezzi su di me erano arrivati ad un vero e
proprio parossismo in quei giorni, o magari gli abitanti del quartiere
mi spiavano, non me ne sarei sorpresa.
- Shhh! Sveglierai la mamma! – l’ammonii
– Sai le lamentele? –
- Ma chi è? E’ ricco? –
- Non è nessuno, davvero – minimizzai,
ed era la pura e semplice verità.
- Ma eri con lui, no? –
Non tentai neppure di spiegarle la situazione, anche volendo non avrei
avuto idea di come fare, era un pochino confusa diciamo, e di sicuro
non un bell’esempio per una ragazzina in crescita,
così mi limitai a ripetere che non era niente, che ero
uscita con qualche amico dell’università e dal
momento che si faceva sempre tardi con loro, un tizio che conoscevo mi
aveva dato un passaggio.
Mi guardò dubbiosa ma alla fine accettò la mia
fiacca spiegazione senza più protestare.
Quella settimana dovevo lavorare in fioreria ogni giorno, era la
settimana di Natale, ed uscii di casa già stanca, non avevo
dormito molto nelle ultime due notti, eppure mi sentivo stranamente
attiva, quasi euforica, perché avevo deciso di chiudere con
Sasori, e nonostante il nervosismo che provavo all’idea di
guardarlo in faccia e dirglielo, mi sentivo già un
po’ più leggera.
Con lui era stato un errore fin dall’inizio, potevo
ammetterlo ormai, come potevo ammettere che una parte di me aveva
sempre saputo che tra noi due non sarebbe mai potuta andare avanti per
molto, ma tutto sommato se non ci avessi provato ora sarei stata qui a
recriminare, a chiedermi come avrebbe potuto essere, per cui andava
bene così, o almeno era quello che mi dicevo per
giustificarmi.
In ogni caso non intendevo starmene lì a piangere sul latte
versato, non era nel mio stile: gli errori si commettono ed io non ne
sono certo esente, l’importante è usarli per
imparare e crescere.
A questo punto non volevo neppure risicare troppo sulla questione dei
soldi, soldi o non soldi lui non mi interessava. Punto.
E comunque al momento ero più interessata al cuore.
Purtroppo in quel campo mi ritrovavo completamente digiuna di
esperienza e di idee su come procedere, per cui mi muovevo a tentoni e
mi sentivo ancora incerta, insicura, e probabilmente
c’è una forma di giustizia divina da qualche
parte, perché rimasi tutto il giorno ad aspettare una
fantomatica chiamata di Sasuke, invano ovviamente, e sempre invano
tentai di arginare il diluvio di messaggi e telefonate di Sasori.
Era un continuo, davvero, e nonostante provassi a ripetergli di non
lasciare la fidanzata per me, che non era giusto, e tentassi di buttare
qua e là segnali di insofferenza (o magari proprio per
questo) non riuscivo a farlo desistere, ed anzi, insisteva ancora di
più nel ripetermi quanto ero diventata importante per lui e
quanto aveva voglia di rivedermi.
Avevo deciso di mollarlo di persona, non mi pareva carino farlo per
telefono, ma ad un certo punto, esasperata, gli avevo detto che forse
era meglio se chiudevamo qui.
Non lo avessi mai fatto.
Continuò a tempestarmi di chiamate anche dopo che gli avevo
assicurato che ne avremmo riparlato a voce alla prima occasione, fino a
quando non decisi di non rispondere proprio più.
Il lato positivo era che abitava lontano, altrimenti ero sicura che ad
un certo punto me lo sarei trovato sotto casa a tormentarmi, ma la cosa
davvero irritante era il fatto che in mezzo a quel fiume di messaggi
rischiavo di perdermi anche quello che aspettavo ma non arrivava.
Lunedì sera Ino era passata a trovarmi al lavoro.
Mi aveva fatto piacere vederla e ne avevo approfittato per prendermi
una pausa e andare a bermi un caffè al bar lì
vicino, un bar nuovissimo e davvero elegante, anche se non era
provvisto di un barista all’altezza.
Devo dire che in quel campo ormai avevo degli standard altissimi,
probabilmente irraggiungibili.
Ero così presa da questa svolta nella mia vita,
dall’eccitazione che provavo, che mentre mi sorseggiavo il
mio caffè le confidai che avevo deciso di mollare il tizio
di Suna e pensavo di iniziare ad uscire con Sasuke, il chitarrista dei
Dead Leaves.
Lei non pareva per niente sorpresa.
- L’ho capito subito che c’era qualcosa
tra voi – aveva aggiunto sicura.
Mi sembrava strano dal momento che neppure ci eravamo mai parlati in
sua presenza, come le feci notare.
- Ma sì! L’ho capito da come vi
guardavate! – era stata la sorprendente risposta –
Tu lo guardavi continuamente, secondo me non te ne accorgevi neanche, e
una volta l’ho beccato che ti guardava lui, ti assicuro che
era uno sguardo molto intenso…mentre a me non mi ha neanche
vista praticamente, e sì che modestamente i maschi mi
notano! E brava la mia Sakura – aggiunse ironica –
io di sicuro non avrei aspettato così tanto –
già, ero stata una stupida – …ma tu sei
sempre così controllata –
Se avesse saputo quanto poco lo ero in quel periodo, quanto poco lo ero
con lui.
Ripropose anche di uscire insieme alla band, cosa che a questo punto
non mi disturbava, e devo dire che non era l’unico
cambiamento nel mio modo di percepire le cose, o forse ero
semplicemente cambiata io, come non avrei mai creduto possibile fino a
pochi mesi prima, perché ormai non mi importava
più di mantenere una facciata. Intendiamoci, non che mi
fossi messa a raccontare in giro la mia travagliata vita di poveraccia,
ma era cambiato il mio modo di pormi e di vivere la cosa, semplicemente
non mi interessava più nasconderlo, ed era strano come una
cosa così piccola mi facesse sentire così libera.
Il giorno dopo Sasuke non mi aveva ancora chiamata, e questa
mia nascente insicurezza iniziava ad irritarmi, non ce n’era
motivo, in fondo non mi aveva mai chiamata prima perché mai
avrebbe dovuto iniziare ora, non aveva alcun senso aspettarsi qualcosa,
non avrei dovuto preoccuparmi.
Andava tutto bene, no?!
E allora, di cosa avevo paura esattamente?
Il fatto era che non gli avevo detto espressamente che intendevo
lasciar perdere Sasori per lui, e dato che era un maschio e capiva solo
i fatti e le frasi semplici, non i sottintesi, chissà cosa
credeva.
Ma mi pareva che fosse abbastanza chiaro, no?!
Mi pareva così evidente.
E poi sapevo di piacergli, di piacergli davvero, me l’aveva
detto lui!
Eppure era come se improvvisamente mi sentissi vulnerabile, e questo
non mi andava per niente, era un tipo di cambiamento cui avrei
volentieri rinunciato ed era un peccato che facesse parte del pacchetto.
Stabilii comunque di resistere e non farmi viva per prima, in fondo
cos’era questa smania estrema di sentirlo, con tutto quello
che avevo da fare!
Nel frattempo mi ero rassegnata a rispondere, esasperata,
all’ennesima chiamata di Sasori, spiegandogli che era inutile
che mi chiamasse cinquanta volte, che una era più che
sufficiente, e che se non rispondevo avevo le mie ragioni.
Mi aveva replicato che era costretto a farlo proprio perché
non mi decidevo a rispondere, e in effetti il discorso aveva una sua
logica, chi poteva negarlo, però cominciavo a sentirmi
oppressa, diciamo, e onestamente iniziavo anche a chiedermi come
potesse comportarsi in maniera così idiota: non mi era
sembrato un idiota, ma forse avevo di proposito ignorato certi segnali,
ero cosciente che, essendo il mondo pieno di idioti,
l’eccezione era incontrare uno che non lo fosse, non il
contrario.
Gli avevo ripetuto che avremmo chiarito ogni cosa a voce e lo pregai di
non chiamare più per quel giorno, adducendo come motivo che
dovevo studiare e lavorare.
E così era.
In fioreria lasciai da parte per un po’ quel maledetto
cellulare, era la viglia di Natale e in giro c’era un numero
sproporzionato di gente idiota che aveva pensato bene di prendersi
l’ultimo giorno per i regali, ed ecco, ero lì che
stavo preparando un mazzo di fiori che ci era stato ordinato, mansione
questa che amavo particolarmente, quando rividi la donna che mi pareva
la madre di Sasuke: era passata di fronte alla vetrina senza fermarsi,
ma aveva sbirciato dentro ed ero quasi sicura che fosse lei, per cui
questa volta fui lesta a mollare tutto, uscire dal negozio e chiamarla.
Dal momento che non conoscevo il suo nome le urlai ‘mamma di
Sasuke!’, e quella si voltò, la sventurata, ignara
del fatto che avevo in serbo per lei un vero e proprio interrogatorio.
In quel momento stranamente c’era poca gente in negozio, le
composizioni che mi erano state affidate erano quasi tutte pronte (ero
una brava lavoratrice, avevo buon gusto nel mettere insieme i fiori e
non mi fermavo mai, davvero), quindi la direttrice mi concesse una
pausa per il caffè senza discutere, anche se si
premurò di buttar lì di non superare i dieci
minuti.
Risposi che sarei stata attenta, non ero una che sgarrava spesso, e
controllai l’orologio decisa a non sforare, ma confesso che
non ci pensai più quando mi ritrovai seduta nel bar
lì vicino, a bere un caffè decente e a parlare di
Sasuke con sua madre, cosa che chissà perché
trovavo terribilmente eccitante.
Più la guardavo più notavo le somiglianze tra di
loro, nei colori, nel taglio degli occhi, e pareva davvero una signora
ammodo come l’avevo sentita definire, ed anche una bella
signora, snella e ben vestita, di tutta un’altra pasta
rispetto alla mia indecorosa madre, se dovevo dirla tutta.
Dopo che ci eravamo presentate aveva ammesso di essere passata di
proposito di fronte alla fioreria, non per la prima volta, e mi aveva
chiesto se ero la ragazza di suo figlio studiandomi per niente
discretamente.
Dal momento che non mi pareva il caso di rispondere con un
‘forse’, avevo detto di sì.
Lo ero, no?!
Oddio…mi sentivo ridicolmente eccitata, come una bambina
alle giostre.
- Non ci racconta mai niente – sospirò
lei.
La cosa non mi sorprendeva affatto.
- Mi sembri una ragazza normale –
mormorò poi, pareva quasi sollevata e non sapevo se
offendermi o ridere, davvero.
Non so bene cosa si aspettasse, forse si riferiva alla mancanza di
tatuaggi, ma in ogni caso una ragazza vuole sentirsi speciale, non
“normale”, e la fissai non più
così ben disposta nei suoi confronti.
Decisi comunque di soprassedere e le chiesi invece di tenere nascosto
il nostro incontro, almeno per il momento, fino a quando non gliene
parlavo io, al che mi spiegò che il problema neppure si
poneva dato che in quei giorni non riusciva a scambiare nemmeno una
parola con suo figlio.
Le consigliai di mandargli messaggi, sicuramente se non altro li
avrebbe letti.
- Ha potuto assistere alla recita di sua sorella? –
attaccai subito dopo, non era che avessimo tutto questo tempo e volevo
parlare di lui, un argomento che sicuramente interessava ad ambedue.
Rispose un po’ a disagio che sì, lo avevano visto
in piedi, in fondo alla sala, anche se se n’era andato
presto, senza fermarsi.
Che ca…volata.
- Capisco che ci sono stati dei malintesi tra voi, ma spero
almeno che per il giorno di Natale facciate pace, lo passa con voi?
–
Dopo un intero minuto sprecato in un silenzio imbarazzante mi
spiegò che quel Natale era un po’ particolare, e
vista la mia aria perplessa raccontò che lui e il patrigno
non erano mai andati d’accordo, che suo marito lo trovava
indisponente e maleducato e lui da parte sua non sopportava quelle che
definiva ingestioni esterne, ma che si erano tollerati almeno fino a
qualche mese prima, un giorno in cui Sasuke aveva mangiato da loro:
quel giorno c’era stato un brutto litigio, molto brutto, tra
loro due, alla fine del quale il patrigno gli aveva detto che non
voleva più vederlo in casa sua o vicino alla sua famiglia.
- …mio marito non è cattivo come
può sembrare – si affrettò a
difenderlo, suppongo per l’espressione non esattamente
comprensiva che avevo assunto – cerca di fare quello che
è meglio per la sua famiglia –
Non era chiaro se il suo figliastro vi fosse incluso o meno.
- …ha provato ad essere una figura paterna
– chiarì lei dopo che ci avevano portato i
caffè – ma Sasuke lo ha sempre rifiutato
e… l’ultima volta sono quasi venuti alle mani
–
- Posso chiedere il perché? –
Sono un’impicciona, lo so, ma solo per tutto quello che
riguarda lui.
Lei aveva esitato prima di acconsentire, ed ascoltai con la fronte
aggrottata mentre mi spiegava come il marito fosse riuscito a trovare
un lavoro per Sasuke nella ditta in cui lavorava, un lavoro sicuro,
cosa non facile di questi tempi (non ne dubitavo), ma che quando quel
giorno glielo aveva detto, lui, invece di ringraziarlo, a quanto pare
aveva reagito male.
- Mio marito si era esposto per lui e per questo si
è sicuramente scaldato un po’, però
Sasuke è stato molto aggressivo, davvero troppo –
fece una pausa – …ho cercato di dirgli che in
questo modo peggiora solo le cose, ma non mi ascolta –
Probabilmente ero di parte, ma devo dire che facevo molta fatica a
capire la situazione, magari solo perché mi mancavano un
po’ troppi elementi.
- Ma… se sta studiando… –
cercai di difenderlo mentre mi sforzavo di mettere insieme il poco che
sapevo.
- Non sappiamo neppure se riesce veramente a studiare con
tutto quello che fa – fece un sospiro – siamo solo
preoccupati per lui… vorremmo che la smettesse di vivere
così, alla giornata –
La guardavo sempre più perplessa.
Sorseggiai il caffè, che non era male, pensando che questa
donna conosceva suo figlio ancora meno di quanto mia madre conosceva
me, il che era una specie di record.
Ad un’altra mia domanda diretta
specificò che era dal giorno in cui lui e il patrigno
avevano litigato che non voleva più parlarle.
- Credo che quel giorno si aspettasse che mi mettessi dalla
sua parte – spiegò.
- E non poteva? –
- …mi è dispiaciuto tantissimo per lui,
ma non potevo mettermi contro la mia famiglia –
Non che avessi tutti gli elementi per giudicare, ma questa
l’avevo già sentita quella volta che avevo
origliato loro due che discutevano in strada, e mi pareva una gran
cavolata a prescindere dai particolari.
- Senza offesa, ma anche lui è la sua famiglia –
osservai –…anzi, i figli restano, i mariti
cambiano, no?! –
Almeno a giudicare dalla sua e mia personale esperienza.
- Può sembrare così – rispose
un po’ condiscendente, come se fossi troppo giovane per
capire – ma alla fine è il contrario, sono i figli
che crescono e se ne vanno –
Magari era anche vero, non lo mettevo in dubbio, ma non era quello il
punto.
- Comunque ci avete messi al mondo – ribadii
– nessuno ve l’ha chiesto, siamo una vostra
responsabilità, non potete prenderci quando vi fa comodo e
mollarci quando non vi andiamo più così bene, non
si scaricano neanche gli animali domestici, figuriamoci i figli!
–
Aveva abbassato lo sguardo.
- E’ lui che si allontana –
replicò.
Chissà perché, ma me lo immaginavo che avrebbe
dato la colpa a lui.
Il tempo stringeva e tentai di indagare ulteriormente sulla natura di
tutti questi contrasti, non molto sottilmente data la mancanza di tempo
e la mia indole non esattamente diplomatica quando c’era di
mezzo lui, ma a parte il fatto che lui non raccontava niente ed erano
preoccupati per la vita irregolare che conduceva, che secondo loro
avrebbe dovuto smetterla di frequentare certi ambienti, che invece di
perdere tempo in lavoretti e musica avrebbe dovuto pensare a trovarsi
un lavoro serio (ancora non capivo bene perché lo studio non
fosse considerato serio), e che comunque a suo dire Sasuke stesso
avrebbe dovuto essere più tollerante e comunicare invece di
diventare aggressivo, che forse assomigliava a… (a questo
punto si era interrotta, grazie al cielo), non riuscii a cavarle niente
di più, solo altre vaghe spiegazioni che non chiarivano
molto e mi facevano venire il dubbio che i motivi di fondo fossero
tanto inconsistenti quanto i miei prima di conoscerlo.
Ad un certo punto rinunciai ad indagare, so riconoscere una causa
persa, ed ho imparato da tempo che le cose non solo non sono mai
bianche o nere, ma anche che le sfumature di grigio a volte sono
così impercettibili che ognuno ci vede un po’
quello che gli pare.
Capisco che non sapere niente rende insicuri e sospettosi, ma mi chiesi
se sotto sotto non fosse che semplicemente i figli di primo letto
diventano ingombranti se non si lasciano completamente inglobare
all’interno della nuova famiglia.
Forse esageravo, e sapevo di avere una certa tendenza a crearmi dei
pregiudizi, l’avevo imparato proprio grazie a Sasuke, ma se
c’era una cosa su cui non avevo dubbi era proprio che lui,
pur con tutti i suoi difetti, era la persona migliore che avessi mai
conosciuto, per cui chi pensava male di lui doveva essere in malafede.
Quando ad un certo punto aveva tirato fuori che aveva trovato delle
cartine per arrotolarsi le sigarette a casa sua, neanche fossero
indizio di chissà cosa, mi ero quasi depressa.
Davvero.
- Non so…forse dovrei fare qualcosa di
più – concluse, ammettendo finalmente che forse
non era tutta colpa di Sasuke – vorrei almeno capire cosa
succede –
Mi guardò con gli occhi lucidi, e un poco mi faceva pena ora.
- Non fa uso di droghe – spiegai con una pazienza
che non avrei mai creduto di possedere – e non dovete
preoccuparvi per lui, non è uno sbandato, anzi,
credo…so…che è un bravissimo ragazzo
con la testa sulle spalle –
Non so come ma dovevo essere stata convincente,
perché per la prima volta l’avevo vista sorridere,
un sorriso molto bello che chissà perché mi aveva
ricordato Sasuke, per la precisione il Sasuke bambino che avevo visto
nelle foto.
- E sua sorella? Non può vedere neppure lei? Neanche a
Natale? – cambiai brutalmente argomento, ero già
in ritardo e non avevo tempo per i salamelecchi.
A quanto pareva suo marito al momento era ancora arrabbiato e non erano
ancora riusciti a trovare una soluzione adeguata, ad un certo punto lei
aveva anche pensato di fare le cose di nascosto, aggiunse, ma ci aveva
rinunciato dal momento che far mantenere un segreto ad una bambina
risultava quasi impossibile, oltre ad essere poco sano per la sua
crescita.
- Credo che su questo dovrebbe impuntarsi con suo marito
– le feci a mo’ di conclusione, perché
non vedevo altro sistema, e onestamente mi pareva una cosa troppo
importante per decidere di lasciar perdere per amore della quiete
familiare – credo anche che dovrebbe dirgli che Sasuke
è suo figlio e deve occuparsene solo lei –
- …sì…probabilmente
sì – mormorò stancamente.
E questa era la cosa più savia che le avevo sentito
proferire quella sera.
Nel frattempo la mia pausa stava diventando troppo lunga e mi ritrovai
costretta a salutarla con ancora più domande di prima, non
le avevo neppure chiesto niente del misterioso padre di Sasuke, che
magari era davvero in prigione.
In ogni caso ci scambiammo il numero di telefono, per cui facevo sempre
tempo a ricontattarla se avevo bisogno di delucidazioni. Devo dire che
dubitavo che si sarebbe fatta viva per prima: probabilmente
è la mia carenza di diplomazia, ma sto sulle balle ad un
sacco di gente, e sapevo di non essere stata particolarmente amabile
con lei.
Non era colpa mia se non aveva capito niente di suo figlio, ma proprio
niente, e se a tratti mi era parso perfino che parlassimo di due
persone diverse.
Ovviamente pensai a lui e a quello che mi aveva detto sua madre per
l’intera permanenza al lavoro, e al ritorno, in
metrò, gli mandai un messaggio:
‘Sei a
casa?’
Aveva questa fastidiosa tendenza a non rispondere mai al primo
messaggio, per cui dopo un po’ gliene inviai un altro.
‘Puoi rispondere?
E’ fastidioso dover sempre insistere, e ti precedo, non ho
sbagliato numero!’
Avevo deciso di passare da lui con la scusa ufficiale di parlargli di
sua madre, quando in realtà non sapevo ancora se era il caso
di nominarla e avevo solo voglia di vederlo: insomma, stavo iniziando a
comportarmi come una povera deficiente, ne ero cosciente almeno, ed
ecco perché non avrei mai voluto innamorarmi,
perché ci si riduce a comportarsi da poveri idioti e la
dignità va a farsi benedire.
Non che fossi innamorata, non esageriamo.
Tornai a casa tardi, come ogni volta che lavoravo in fioreria, anzi, di
più perché esistevano delle persone
così incuranti che riuscivano ad arrivare a ridosso
dell’orario di chiusura anche la vigilia di Natale (senza
contare che avevo dovuto recuperare il tempo perso con la
chiacchierata), ed impiegai la lunga ora passata in metropolitana a
pensare a Sasuke e alla sua famiglia: Natale è un periodo un
po’ particolare per chi non ha una famiglia perfetta, lo so
anche troppo bene, perfino io, che non sono una che si piange addosso,
in questi giorni mi ritrovo a pensare a mio padre.
Paradossalmente ho dei bellissimi ricordi su di lui, e mi rendo conto
che è quasi impossibile da spiegare, ancora meno da capire,
ma questo in un certo senso peggiora le cose, perché lo odio
per averci abbandonate, ma contemporaneamente non posso fare a meno di
amarlo almeno un poco, e il dolore è come più
subdolo, intriso di sensi di colpa cui non riuscirò mai a
dare una spiegazione razionale, perché probabilmente non ce
l’hanno.
Che cavolo di colpa potevo avere io.
Ma avevo letto da qualche parte che i bambini si incolpano di qualsiasi
cosa perché ancora pensano che il mondo giri attorno a loro,
e allora probabilmente, facendo psicologia spicciola, quella bambina
senza risposte che si sentiva in colpa era ancora dentro di me da
qualche parte, incapace di crescere.
Chissà se anche Sasuke dentro di sé aveva un
bambino che non era riuscito a crescere, probabilmente sì, e
almeno io uno straccio di famiglia ce l’avevo ancora, non ero
così sola a Natale.
Speravo che il giorno successivo riuscisse almeno a vedere sua sorella,
ma in ogni caso c’ero io, ci sarei stata io.
Non vedevo l’ora di incontrarlo.
Per il resto del tragitto mi dedicai alla mia attività
preferita, pensare a lui.
A tutto lui.
Speravo solo che lì dentro nessuno fosse in grado di leggere
nel pensiero.
_
Dal momento che nonostante l’ora tarda a casa nessuno aveva
preparato niente, quelle sfaticate, e di sicuro io non avevo voglia di
cucinare, la vigilia di Natale ci nutrimmo di latte e cornflakes, con
la variante “caffelatte e crackers” per mia madre,
che sosteneva sempre di non avere appetito e di non voler mangiare
niente, ma finiva invece col rimpinzarsi eccessivamente, e di
conseguenza, dato che non si muoveva mai, ingrassare, per poi
lamentarsi della linea e del colesterolo alto.
Era veramente irritante.
Nel frattempo Sasuke si era degnato di rispondere.
Avevo fatto fatica a individuare il suo messaggio in mezzo a tutti
quelli che mi inviava ancora Sasori (che stava diventando davvero
pesante e cui ormai avevo rinunciato a rispondere): diceva
laconicamente che era a casa, così gli avevo scritto che
sarei passata da lui tra una mezz’ora, sapendo perfettamente
che mi sarei fermata a dormire lì.
Ammetto che se non fosse stato per il fatto che mi stavo rimbecillendo
(almeno ne ero cosciente), me ne sarei stata a casa mia a studiare per
un’oretta al massimo prima di andare a dormire e recuperare
sonno, ma chi se ne fregava del sonno, c’erano cose
più importanti nella vita.
Non sentivo neppure la stanchezza.
Controllai che il regalino fosse sempre in borsa, sorridendo come
un’idiota nell’immaginare la sua faccia, e mi
avviai alla porta quasi saltellando.
- Dove vai? – chiese mia sorella sospettosa.
- Esco –
- Con chi? –
- Amici – replicai vaga, cosa gliene fregava poi
– non aspettarmi sveglia –
Mia madre al momento era incollata davanti alla tv, e dopo essersi
lamentata che la lasciavamo sempre sola, adesso perfino la vigilia di
Natale, non mi degnò più di uno sguardo,
così presi la borsa e mi precipitai fuori senza dare
ulteriori spiegazioni, e con mia grande sorpresa trovai Sasuke che mi
aspettava giù.
Una strana sensazione mi rimescolò lo stomaco, ed era
qualcosa di fisico, come un’ondata di calore, eppure sembrava
invadere anche le mie emozioni e riempirle di lui.
Forse mi sarei pentita di aver lasciato che le cose si spingessero
così avanti, ma era così bello lì in
piedi che mi aspettava…il mio cavaliere senza macchia e
senza paura.
Come potevo resistere?
Lo amavo, confessai a me stessa per la prima volta, ed ormai ero
immersa così visceralmente in quel pericoloso baratro
emotivo, in quel vortice che era il tumulto del mio cuore, che non
avevo neppure paura.
________________________________________________________________________________________________________
Allora, questo capitolo proprio non mi piace, anzi, probabilmente
è il più brutto di tutta la storia.
Avrò cambiato non so quante volte il motivo del litigio tra
il patrigno e Sasuke (forse troppe, spero non ci siano errori e
incongruenze), ma alla fine volevo che non ci fosse niente di
straordinario o particolarmente tragico nella sua storia ed ho optato
per qualcosa di semplice. Comunque più avanti
chiarirò meglio alcune cose.
Cambiando argomento: grazie a tutte per le recensioni e
l’incoraggiamento, mi avete fatto stare meglio, e dico
davvero! *_*
Ehm…ho anche tentato di ritrovare l’ispirazione
riprendendo una lemon che avevo lasciato sul più bello, ma
c’è poco da fare, gira e rigira sono sempre le
stesse cose e questo mi blocca... a meno che non mi metta a scrivere
qualche cosa di estremamente perverso, che poi non avrei comunque il
coraggio di pubblicare!
Ultimo, per chi legge il manga online: ci tocca soffrire fino alla
fine, ma non preoccupatevi, la fine sarà Sasusaku. :)
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Capitolo 16 *** 16. ***
Ecco qui il capitolo, avrei dovuto riguardare un paio di punti, per cui speriamo bene.
Invece grazie mille per avere recensito il capitolo precedente!
16.
Ero così felice di vederlo che gli corsi incontro e gli
diedi un bacio sulle labbra, lì, di fronte
all’intero quartiere impiccione, poi ci affiancammo e
camminammo veloci verso casa sua, perché cadeva qualche
sporadica goccia di pioggia.
- Possibile che non rispondi mai al primo messaggio?
– gli domandai, ma non ero veramente arrabbiata.
- Non so mai chi è, non ho il tuo numero –
- Come scusa…ti ho inviato non so quanto messaggi
e mi hai anche risposto! –
- Li ho cancellati, mi stavano sul cazzo –
Ma che…
- E non hai neanche salvato il numero, sei proprio stupido –
borbottai, e subito dopo mi feci dare il suo cellulare per provvedere
personalmente.
Non so come facciano a sopravvivere i maschi con la testa che si
ritrovano, fortuna ci siamo noi.
– Dopo ricordami che ho una cosa da dirti
– gli feci mentre glielo restituivo.
Avevo deciso che era davvero meglio raccontargli che avevo visto sua
madre, non perché mi sentissi in dovere di farlo (avevo
imparato presto che certe cose è meglio tenerle per
sé) ma perché volevo fargli alcune domande, e poi
sapevo che sarebbe venuto a saperlo prima o poi e preferivo
parlargliene prima io.
Non subito però, non avevo così tanta voglia di
litigare.
- Anch’io – rispose lui.
Anche lui?
- Non puoi dirmela subito? – chiesi poco dopo, rosa
da quell’insana curiosità che mi prendeva sempre
con lui.
- Perché sei sempre così curiosa?
–
- Non so, dev’essere la tua misteriosa vita che mi
incuriosisce, dato che in ogni altra circostanza sono fredda e
riservata – osservai, con l’inevitabile sorriso che
mi ritrovavo in faccia quando ero in sua compagnia.
- Fredda e riservata? Non direi a giudicare da come mi preghi
di dartelo –
- Pregarti! Io!? – esclamai indignata.
- Chiedi ai vicini, non sei esattamente silenziosa –
Ovviamente scherzava, spero.
Mentre parlavamo aveva iniziato a piovere, e ridendo corremmo fino alla
casa di lui, la pioggia che cadeva fitta, o almeno io ridevo, lui
imprecava, e dal momento che quando entrammo in casa eravamo
completamente fradici ci spogliammo in fretta e iniziammo ad asciugarci
i capelli con l’asciugamano, fino a quando non cominciammo a
baciarci e non finimmo a rotolarci sul letto, a fare l’amore.
Confesso che non riuscii per niente a trattenermi e che davvero lo
pregai, e gridai il suo nome, vicini in ascolto o meno.
Dopo lo abbracciai e lo tenni stretto stretto, e lo baciai ancora, e
ancora.
- Sas’ke – mormorai, e mi sentivo leggera
leggera, e spudoratamente felice, perché ero abbracciata a
lui, ed eravamo insieme, io e lui, e nient’altro era
importante.
- Ti voglio bene, sai – ammisi scostandogli un
ciuffo di capelli dal viso – tanto tanto tanto –
Gli baciai il naso, la cicatrice sopra l’occhio, le labbra, e
lui mi strinse a sé e mi lasciò una scia di
piccoli baci sul collo che mi riempivano di calore, e tenerezza.
- Ho fame, andiamo di là – mi fece poi, che non
era esattamente il massimo del romanticismo, ma lo perdonavo in
virtù del fatto che era vergognosamente carino, ed ero
stupidamente abbagliata.
- Prima dimmi quello di cui parlavi poco fa, quello che
dovevi dirmi – replicai stringendomi ancora a lui, il volto
sul suo collo.
Stavo troppo bene lì, non avevo proprio voglia di muovermi.
Mi strinse anche lui, con forza, e dal momento che non diceva niente
sollevai il volto per guardarlo.
Era serio, e improvvisamente sapevo che mi avrebbe fatto del male,
glielo leggevo negli occhi, occhi così intensi, che come
sempre scrutavano dentro di me e mi facevano sentire improvvisamente
fragile, piccola, e così vulnerabile.
Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro.
– Con i Dead Leaves andremo via per qualche mese,
forse un anno –
Lo guardai senza parlare, senza capire.
– Abbiamo firmato un contratto con Kakashi Hatake
– spiegò meglio – un produttore
piuttosto importante, iniziamo a registrare già la prossima
settimana, qui a Konoha, e subito dopo partiamo per un lungo tour
–
- E’…bellissimo… –
mormorai tentando di sorridere, ma non avevo sorrisi finti per lui, non
ne avevo mai avuti.
Lo guardavo mentre cercavo di capire appieno tutte le implicazioni di
quello che avevo sentito, e non mi pareva entusiasta neppure lui, ma
non ero così ingenua da pensare che fosse per me.
- Qual è il problema – domandai
seppellendo di nuovo il volto sul suo petto – non
è quello che vuoi? –
Tremavo un poco, avevo improvvisamente freddo, tanto freddo, e non
volevo andasse via, non potevo sopportarlo.
- L’università – rispose.
- Puoi riprenderla più avanti no?! –
- Avevo giurato a me stesso di finirla…non solo
per me stesso –
Il mio amore, così orgoglioso, così responsabile.
Sollevai ancora una volta la testa e gli accarezzai il volto
– E allora? Prenditi un anno sabbatico, la finirai
più avanti, a meno che non abbia più
importanza…si cresce, gli obiettivi cambiano – ne
sapevo qualcosa.
Mi guardò con quel sorriso che mi scioglieva, e mi
faceva così male in quel momento.
– Non mi dimenticherai, vero? – sussurrai
con le lacrime agli occhi.
- No –
- Non voglio che tu vada via – ammisi stringendomi
ancora a lui – …sono un’egoista, lo so
– lo precedetti.
Un’egoista, e un’ingenua, perché
è ingenuo pensare che dopo aver deciso di seguire il cuore
tutto possa cambiare, perché ero stata ingenua ad illudermi
che avrei potuto essere felice, almeno per un po’.
Lentamente ci sciogliemmo dall’abbraccio e mi sollevai seduta
sul letto senza sapere bene se le gambe mi avrebbero retta, mentre le
lacrime scendevano sulle guance, e sul collo.
Non riuscivo a fermarle e neppure mi importava, mi pareva che il cuore
fosse stretto in una morsa e non faceva ancora così male
solo perché una parte di me non riusciva del tutto a
crederci.
- Non tornerai più in questo buco, vero? –
- Non lo so –
Avrei preferito una piegosa bugia, qualcosa del tipo
“tornerò da te”, non occorreva essere
così brutalmente onesti. Davvero.
Lo guardai attraverso le lacrime mentre si alzava dal letto ed iniziava
a vestirsi.
- Non piangere…non parto domani –
Già, faceva presto a parlare lui, ma a me pareva che
qualcuno mi stesse strappando via un pezzetto di cuore, e faceva troppo
male.
- …e non è così male per te,
ti potrai dedicare al principe azzurro senza riserve –
A quelle parole mi sentii gelare.
Come poteva essere così crudele?
Come osava.
Possibile fosse così… così cieco?
Che…che bastardo.
Che bastardo.
In preda ad una rabbia incontenibile gli scagliai addosso il primo
oggetto che mi capitò tra le mani, la scatola di
preservativi vuota, ma ero così fuori di me che non era
abbastanza, così presi una delle fotografie e gli lanciai
anche quella, e fui contenta quando lo colpì sulla spalla,
sapevo che gli aveva fatto male e gli stava bene, gli stava solo bene.
Ancora non mi bastava e stavo prendendo anche l’altra, quando
me lo ritrovai di fronte che mi teneva ferme le braccia e mi fissava
furioso.
- Che cazzo ti prende! – mi sibilò,
perché non capiva, non capiva niente.
- Sei uno stronzo, e un bastardo! –
Ma era come se all’improvviso non avessi più forze
e finimmo sopra il letto che la rabbia era svaporata di colpo,
lasciandomi solo amarezza.
- …sei solo un bastardo – ripetei
debolmente.
Rimanemmo a guardarci così, io ancora nuda, lui sopra di me
con appena i pantaloni addosso, neppure allacciati, e sapevo che
cercava di capire, che ci provava ma proprio non capiva.
- Si può sapere che cazzo ti è preso?
– chiese ancora.
- Se non lo capisci da solo… –
- Cazzo Sakura, dimmi cosa c’è da
capire…hai questo cazzo ti tizio che mi sventoli sempre in
faccia, cosa dovrei capire secondo te! Cosa! Come faccio a capire se un
giorno mi mandi messaggi pieni di insulti e il giorno dopo vieni da me
e fai l’amore con me…se prima sei tutta dolce e
dopo mi tiri addosso roba, mi dici che cazzo dovrei capire se non so
neanche cosa cazzo vuoi da me? –
Non risposi, che cosa avrei dovuto dirgli? Che proprio adesso che avevo
deciso di rischiare lui se ne andava via e mi lasciava sola?
Che mi spezzava il cuore, che mi sentivo tradita?
Perché era così che mi sentivo, tradita e
abbandonata.
E non sapevo neppure dove avevo sbagliato questa volta, pensavo che ci
fosse qualcosa tra noi, che ci fosse un legame, credevo che lui fosse
diverso dagli altri e che gli importasse veramente di me, ma mi
sbagliavo, mi ero sbagliata.
Non riuscivo più a vederlo bene attraverso le lacrime e mi
chiesi come avevo potuto essere così ingenua,
così stupida, perché lo sapevo che non dovevo
fidarmi di nessuno, neppure di lui, e invece ero lì, nuda,
senza difese, ed era come se improvvisamente facesse troppo freddo
lì dentro e che niente avesse più importanza.
Che ogni cosa, il mondo esterno e quello che era la mia vita, che ero
io, tutto, stesse sbiadendo e perdendo il suo significato, il suo
motivo d’esistere.
Lui aspettava ancora, ma il mio istinto di conservazione stava
già tentando di correre ai ripari e lo guardai con sfida,
tutte le mie barriere alzate, pronta a nascondere quel dolore che
sentivo dentro e mi pareva intollerabile.
- Dimmi tu cosa vuoi da me – feci uscire,
perché non lo sapevo più e forse non lo avevo mai
saputo.
Non mi stringeva i polsi, ma era ancora sopra di me, e lasciai che mi
baciasse le labbra senza protestare.
- Sei stata tu a mettere dei confini precisi tra noi, io mi
sono solo adeguato –
Già, e com’era allora che io ci avevo rimesso il
cuore, mentre lui era riuscito a preservare il suo?
Mi baciò ancora le labbra, le mani sui lati del mio viso, e
poi mi baciò il collo.
- Sakura – sussurrò poi, e potevo
sentire chiaramente la sua erezione che mi premeva addosso.
Era proprio stupido come tutti gli altri maschi, però lo
avrei voluto lo stesso, e non volevo che se ne andasse, non potevo
sopportarlo.
Feci uscire un’altra inutile lacrima e me
l’asciugò con le labbra, e poi continuò
a scrutarmi con quegli occhi in cui non riuscivo a leggere niente, in
cui forse non ero mai riuscita a leggere niente, occhi che adesso non
sopportavo, né ero in grado di
sostenere…eppure… come potevo non vederli
più?
- Ascolta – mormorò, e suonava stanco,
forse stanco di me, non so – mi piaci, mi piaci molto, o
adesso non sarei qui con te…ma questo lo sai – con
il pollice mi asciugò un’altra lacrima,
l’ultima, giuro – per una volta mi vuoi dire che
cosa c’è, e cosa vuoi tu esattamente?
Perché non lo capisco –
C’era che stavo sanguinando dentro e probabilmente
c’era anche un danno permanente da qualche parte, ma non
aveva più importanza, no?! Niente aveva più
importanza: lui se ne sarebbe andato via, i giochi erano chiusi, e a me
era capitata la carta più bassa.
Doveva essere una costante della vita, dovevo proprio farli scappare
via gli uomini che amavo, lontano da me.
Forse ero io.
Non aprii bocca, non ne avevo la forza, rimasi solo a guardarlo in
silenzio mentre mi fissava a sua volta, e sembrava quasi deluso adesso,
come se fossi io quella che se ne andava e lo lasciava solo.
- Va bene, non importa – mi fece con freddezza.
E poi si staccò da me e si sollevò, e in quel
momento, mentre si sedeva sul bordo del letto e mi dava le spalle,
forse arrabbiato, non so, non capivo, non capivo niente, sentii che il
mio sciocco sogno romantico si infrangeva qui, che era così
che sarebbe finita.
Lui che se ne andava via, lontano da me, e non tornava mai
più.
Per una frazione di secondo mi sentii disperata, ed era come se ci
fosse qualcosa dentro di me, una specie di bestia, una bestia orribile
che mi impediva di respirare e mi stava spappolando il cuore,
perché stavo troppo male, non aveva senso stare
così male, e mi veniva da vomitare.
Per un istante pensai assurdamente che se non riuscivo a sedare quella
bestia, quella cosa, se non riuscivo a controllarla in fretta, forse
sarei morta.
Che stupida stupida stupida.
- Ho freddo, mi vesto – feci uscire con urgenza,
tentando disperatamente di ritrovare il controllo.
Mentre mi alzavo lo scostai non molto gentilmente, senza guardarlo
negli occhi, ed iniziai a cercare in fretta i miei vestiti.
– Metto su qualcosa da mangiare – rispose
quello stupido mentre raccoglieva la fotografia da terra.
Il vetro si era rotto, ma non mi sentivo per niente in colpa.
Replicai che non avevo fame e adesso mi sentivo stordita, come
intorpidita, forse ero solo rassegnata, e dopo aver finito di vestirmi
lo seguii in cucina e lo guardai mentre si preparava un toast, non era
decisamente granché come cuoco, non che potessi criticare
considerando la mia cena.
- Quando partite? – gli chiesi il più
tranquillamente possibile, come se solo l’idea non mi facesse
così male.
Eravamo seduti a tavola, apparentemente calmi, ed allungò la
mano per prendere la mia e giocherellare con le mie dita, un gesto
così intimo.
Per un momento chiusi le dita sulle sue e le strinsi forte, quasi in
questo modo potessi trattenerlo accanto a me, poi lo lasciai andare e
scostai la mano.
- Non so esattamente – rispose dopo aver dato un
morso al toast – tra un mese credo –
- Ma…ci sono le feste –
- Non ci vuole molto per registrare, le canzoni sono
già pronte, e Kakashi sta già programmando tutto
–
Un mese era pochissimo e riuscii eroicamente a trattenere le lacrime,
non volevo piangere più, non potevo piangere più,
non potevo perdere il controllo, era troppo pericoloso, e per distrarmi
mi dedicai a spezzettare un pezzo di pane e a sistemare le briciole in
modo che formassero un disegno.
Sarei sopravvissuta anche a questo, mi dissi, si sopravvive a tutto.
- Sakura… –
Mi accarezzò la guancia con le dita, ma non riuscivo ancora
a guardarlo.
- Dammi il tempo di digerirla – mormorai.
Ed era il massimo che potevo mostrargli di me senza sentirmi
completamente persa.
Lo guardai di sottecchi e mi pareva che ci fosse ancora
un’ombra di tristezza nel suo sguardo, quell’ombra
che avevo visto altre volte nel suo volto ed era legata a me, ma in
quel momento non capivo esattamente a cosa fosse dovuta.
Era lui quello che se ne andava e mi lasciava sola.
- Torno a casa – mormorai alzandomi, non ce la
facevo più a stare lì.
Quando rifiutai di rimanere mi accompagnò fin sotto casa e
salii senza voltarmi indietro.
In borsa avevo ancora il regalino che gli avevo preso, il plettro rosa,
e mi dissi che per il momento lo avrei sistemato in un angolino, dietro
ad un libro magari, per non vederlo: forse glielo avrei dato, forse no,
ma non avevo la forza di pensarci ora.
Che merda…tutto.
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Capitolo 17 *** 17. ***
Eccomi qua!
Nessun commento sul capitolo, invece grazie mille per tutte quelle
recensioni al capitolo precedente, non me le aspettavo! :)
17.
Di sopra avevo trovato mia sorella ancora sveglia, mi aspettava al
varco, e dal momento che devo pagare sempre ogni sbaglio fino in fondo,
aveva cominciato ad urlarmi contro.
A quanto pareva aveva visto che baciavo Sasuke sotto casa (doveva aver
spiato dalla finestra) e considerava la cosa un affronto personale,
come se lui fosse appannaggio suo perché a lei era sempre
piaciuto, mentre io l’avevo disprezzato fino
all’altro ieri.
Come se avesse senso…o magari lo aveva, magari lo aveva.
Il lato positivo, se così potevo chiamarlo, era che nella
foga del momento, per rispondere alla mia pacata osservazione che
essendo rimasta incinta di qualcun altro pensavo che a lei non
interessasse poi così tanto, aveva gridato che quello
stupido di Konohamaru non contava niente, che era stato un errore.
Konohamaru era un suo compagno di classe, quasi un bambino, davvero, e
la cosa non mi sorprendeva dal momento che da sempre era in adorazione
di mia sorella, e capivo anche perché me lo avesse taciuto:
piena di rabbia com’ero allora lo avrei aggredito, e forse
non se lo meritava, in fondo, come mia sorella, era solo un ragazzino
sciocco e immaturo che aveva fatto qualcosa di più grande di
lui.
Da quel che avevo capito il poveraccio non aveva neppure saputo nulla,
e al pensiero che quella coppia di bamboccetti avesse rischiato di fare
un figlio mi sentii rabbrividire.
Nel frattempo Moegi si era ritirata in camera piangendo a dirotto e
sbattendo la porta, mia madre mi aveva chiamata per lamentarsi del
baccano, e tutto era tornato alla normalità, o quasi.
Il pranzo di Natale lo passammo così, mia madre che si
lamentava di avere un male terribile alla schiena e ci accusava di
essere due figlie degeneri perché non eravamo andate in
chiesa neppure a Natale (lei in quanto malata era dispensata), mia
sorella che mi teneva il muso anche mentre scartava il regalo, ed io
che aprivo il mio (un paio di brutti guanti in similpelle) senza alcun
piacere, e tentavo meccanicamente di sorridere e fare conversazione,
non so neanche perché, senza ascoltare veramente.
Di una tristezza.
Quella sera uscii per prendere una boccata d’aria anche se
faceva così freddo che il mio bel cappottino vintage mi
pareva ancora più leggero del solito, e non so
perché feci un salto fino alla chiesa di quartiere, che era
aperta ma ancora vuota, e mi fermai all’interno per alcuni
minuti.
Da piccola amavo l’aria di sacralità che vi si
respirava dentro, e quando mio padre mi dava i soldi per accendere le
candele mi sentivo così felice, mi pareva di compiere
chissà quale rito magico.
Soprattutto, soprattutto mi dava sicurezza il pensiero che ci fosse Dio
da qualche parte che si sarebbe preso cura di me, che non ero sola.
Avevo qualche spicciolo in borsa e accesi una candela sentendomi quasi
sacrilega, perché non era il mio posto quello, non credevo
più in tante cose e non ero una brava persona, no, non lo
ero.
Ma se Dio esisteva era talmente buono che mi avrebbe amata lo stesso,
credo, ed io mi sentivo così sola.
__
I giorni successivi non erano stati un granché.
Ero sprofondata in una sorta di depressione equivalente ma contraria
allo stato di euforia in cui mi trovavo prima, era quasi scontato e non
avrei dovuto sorprendermi, e più ci pensavo più
mi rendevo conto che era colpa mia, che non avrei dovuto infilarmi in
quella trappola.
Non che fossi disperata, mi ero subito ripresa dopo quella prima
reazione esagerata, dovuta al fatto che avevo caricato
quella…quella cosa di troppe aspettative, irrealistiche,
probabilmente perché era la prima volta, e
l’ultima, che mi lasciavo andare.
In fondo non ero più una bambina, sapevo che non finiva il
mondo, che mi sarebbe passata prima o poi, come passava tutto, come
erano passati altri momenti, altri giorni, altri anni, e
poi…e poi mancava ancora un mese, non partiva mica domani, e
non ero tipo da fasciarmi la testa prima del tempo.
Ero solo triste, tanto triste.
Nel frattempo Sasori aveva continuato a chiamarmi, e visto che per una
serie di motivi che neppure avevo ascoltato non poteva muoversi da casa
in quei giorni e non potevamo incontrarci, avevo dovuto rassicurarlo e
dirgli che non cambiava niente, che avrei aspettato.
Onestamente stavo riconsiderando la mia idea di lasciarlo.
Detto così suona orribile, e non era neppure che avessi
voglia di vederlo, tantomeno di continuare quella deprimente relazione,
ma a questo punto forse era la cosa migliore da fare, o meglio
l’unica: ero sicura che con il tempo avrei potuto adattarmi,
abituarmi a lui, e che pian piano avrei dimenticato Sasuke, anzi,
probabilmente un giorno sarei arrivata a ringraziare il cielo per
quello che adesso mi pareva
così…così…devastante.
Forse era perfino una fortuna che se ne andasse, così avrei
potuto dimenticarlo: in fondo anche se fosse diventato ricco e famoso
avere a che fare con una rock star non era mai rientrato nei miei
piani, quelli conducono vite disordinate e tendono ad avere montagne di
problemi, e in ogni caso non frequentano esattamente lo stesso tipo di
società cui avrei voluto appartenere, quella patinata e
magari anche un po’ falsa delle famiglie bene della
città, così rassicurante nella sua stagnante
banalità.
Ricordavo un po’ la volpe con l’uva, ma suonava
abbastanza credibile, potevo crederci se mi ci impegnavo.
E comunque era andata così, non era che potessi farci niente.
Non riuscivo neppure ad avercela con lui, gli auguravo comunque il
meglio, perché gli volevo tanto tanto bene.
Così tanto.
Me lo vedevo già diventare famoso, perché no, non
mi avrebbe sorpreso, lui metteva la sua intensità in tutto
quello che faceva e i Dead Leaves erano davvero bravi, e magari poi si
sarebbe innamorato di qualche bellissima ragazza, un’attrice,
o una modella, non succede così?! Non che durassero molto
quegli amori lì, ma la cosa non mi consolava poi tanto,
perché comunque non sarebbe più tornato in questo
buco, non sarebbe più tornato da me.
Ammetto che stavo male nell’immaginarlo felice lontano da me,
dovevo essere davvero un’egoista.
Speravo solo che riuscisse a rimanere sempre se stesso, il mio Sasuke.
_
Il giorno dopo avevo incontrato Ino, voleva farmi gli auguri, ed avevo
passato il pomeriggio con lei ed alcuni compagni
dell’università.
Non le avevo raccontato niente di Sasuke, forse lo avrei fatto un
giorno, non sapevo, nel frattempo mi comportavo come sempre, calata
perfettamente nella mia solita, vecchia interpretazione che mi veniva
naturale con tutti, a parte Sasuke, e venerdì ero di nuovo
al lavoro, purtroppo: l’estetica Haku era in fibrillazione
per il capodanno imminente ed era piena di signore che si conciavano in
maniera ridicola.
Almeno erano visibilmente tutte allegre e su di giri, e quasi un
pochino le invidiavo, lo ammetto.
- Dì la verità – feci ad Haku
mentre bevevo il caffè che ci aveva portato (lì
le pause non erano un problema, erano frequenti e facevano parte
dell’andazzo generale) – non ti sei mai pentita di
avermi assunta? Perché sono proprio stonata qua in mezzo
–
- Ma cosa dici sciocchina! – replicò lei
dandomi un buffetto sulla spalla – le tue battutine acide
fanno scompisciare, vero ragazze? –
Ascoltai i commenti e le risatine generali senza sapere se esserne
grata od atterrita.
- …e poi ti sei accaparrata il nostro barista
bello e impossibile, sei un mito ormai! –
Già, un vero e proprio mito.
Mi sforzai di guardare il meno possibile dalla sua parte, anche se a
volte non resistevo, come un drogato che ripeteva a se stesso che
questa era l’ultima volta.
Era così bello…perché non poteva
andare come volevo per una stramaledetta volta nella vita? Ero
così detestabile da non meritare nemmeno un pezzetto di
felicità?
Non chiedevo molto, solo qualche altro mese, un paio d’anni
al massimo.
Mi ripetei che in fondo avevo sempre saputo che la vita non
è tutta rose e fiori, e soprattutto non avevo mai creduto
molto a quella storia dell’amore, la vedevo più
come una sorta di infatuazione destinata a finire miseramente una volta
che si rimetteva piede a terra, di solito neppure tanto bene, tra
incomprensioni e incomunicabilità, o tra recriminazioni
reciproche e noia.
In un modo o nell’altro, alla fine c’era sempre
qualcuno che ne andava dalla porta e non tornava più.
Ed io sapevo che mi sarei ripresa, ero forte.
Intanto però, da un punto di vista prettamente pratico,
nonostante lunghe notti spese a meditarci sopra, e nonostante avessi
riflettuto molto su quale fosse la condotta migliore da seguire con
lui, non ero ancora giunta ad una soluzione definitiva e mi affidavo
all’estro del momento. In pratica ero ancora combattuta tra
la voglia di godermi questo ultimo mese assieme e la paura di stare
troppo male per sopportare la sua presenza.
Quel giorno, per evitare crolli emozionali o altre situazioni
imbarazzanti, decisi all’ultimo momento di uscire un quarto
d’ora prima con lo scopo di non incontrarlo, e confesso che
era stata dura quella volta ascoltare sorridendo le battutine allegre
di Haku.
Me ne andai senza guardare dalla sua parte, le spalle basse, e mi
sentivo triste triste, come se ci fosse una colonna sonora malinconica
di sottofondo e dentro mi si stesse sgretolando qualcosa senza che
potessi farci niente, perché non dipendeva da me.
- Sakura! –
Era lui.
Mi voltai, e mentre lo guardavo camminare verso di me il cuore aveva
iniziato a battere forte forte nel petto, ed era come se fossi di nuovo
viva.
Ero così felice di vederlo che non mi importava
già più di niente.
In una frazione di secondo avevo cambiato idea e volevo solo godermi
quel mio breve momento di felicità.
- Ti è passata? – mi chiese dopo che mi
aveva raggiunta.
Ironia della sorte le parti si erano invertite, ma restava intatta la
nostra abilità nel farci del male, niente da
dire… eppure avevo di nuovo il mio sorriso sulle labbra,
provvisorio come il nostro tempo, precario come la felicità.
- Al momento non voglio pensarci – replicai, era
vero, era così, e riprendemmo a camminare appaiati.
- Natale con chi l’hai passato? – gli
chiesi subito dopo, perché quell’idiota del suo
patrigno era così stronzo che era capace di non averlo
invitato.
- Con Naruto e i suoi –
- E…tua sorella? –
- Le ho portato un pensiero nel pomeriggio –
- Allora l’hai vista! – esclamai.
- Sì, era felice di vedermi…si
ricordava –
Non so perché ma quasi mi commuovevo, così, per
niente, solo perché ero felice per lui.
– E per il resto? – chiesi tentando di
non pensare che “il resto” era ciò che
lo avrebbe portato via da me.
- Tutto bene –
- Mi travolgi con la tua loquacità, davvero
– replicai sarcastica.
Lui non si era scomposto, invece tirò fuori un pacchetto di
sigarette nuovo fiammante e ne prese una.
- E tu? – mi chiese.
Lo guardai accigliata mentre se l’accendeva.
- Una palla, come sempre, odio le feste…e non
voglio che fumi più, neanche sigarette – gli
spiegai requisendogli l’oggetto in questione direttamente
dalla bocca – non bere neppure più –
continuai dopo avere fatto un tiro, benché fumare camminando
fosse volgare (avrei sacrificato la mia eleganza per lui) –
Devi stare doppiamente attento, non è un ambiente sano
quello in cui entrerai, non voglio che ti perdi –
- Non mi perderò – replicò
riprendendosi la sigaretta.
- Forse no. Sei una bella persona – concessi mentre
scendevamo le scale diretti al metrò – stupido ma
una bella persona – non volevo dargli troppa soddisfazione.
- Pffhh –
- Davvero, niente di personale, sei solo un maschio in fondo,
fisiologicamente stupido – conclusi con una punta di
amarezza, poi gli rubai ancora la sigaretta e diedi un ultimo tiro
prima di spegnerla contro il muro.
- Non ti rispondo neppure, e se vuoi le sigarette basta dirlo
– replicò mettendomi il pacchetto in mano
– me ne compro altre –
Infilai il pacchetto in borsa piuttosto soddisfatta.
Stupido, appunto.
Una volta saliti sul treno ci eravamo seduti di fianco ed avevo
appoggiato la testa sulla sua spalla.
Chiusi gli occhi e istintivamente allungai le braccia per
toccarlo…il mio amore, osai sussurrare nella mia mente,
consapevole che un mese passava così in fretta, che si
trattava solo di quattro venerdì, troppo, troppo poco.
- Quasi quasi verrei da te questa sera – mormorai.
- Perché? Problemi con il tizio? –
Mi ricomposi e lo guardai seccata.
- Scusa? –
- Di solito è così –
replicò bruscamente.
Possibile che non avesse capito proprio niente? E pensare che lo avevo
creduto così intelligente!
Dovevo proprio essere abbagliata perché evidentemente era
solo uno stupido.
- Sei particolarmente stronzo, oggi – feci senza
più guardarlo, perché mi veniva da piangere
ancora, ed era imbarazzante, davvero, questa continua voglia di
piangere.
Sempre e solo di fronte a lui, quello stupido.
- Non arrabbiarti – mormorò.
Era così stupido, come facevo a non arrabbiarmi.
- E non piangere, non è da te –
Non sapevo come avesse fatto ad accorgersene dal momento che avevo solo
gli occhi lucidi e continuavo a non guardarlo, doveva avere una specie
di radar che intercettava le mie lacrime.
- Che ne sai di cosa è da me e cosa non
è – replicai acida.
- Forse non lo so, ma ti preferisco fiera, sarcastica, e
sorridente…soprattutto sorridente –
Mi sistemai le pieghe della gonna senza ancora guardarlo.
- Non ci crederai, ma anch’io sono umana e soffro
–
Mi ostinai a non guardarlo quando mi accarezzò la guancia,
ma mi piaceva quando faceva così, era un gesto pieno di
tenerezza, e così piegai la testa per bearmi ancora un poco
del suo tocco, e avrei voluto dirgli che era importante per me, troppo
importante, che non potevo rinunciare a lui.
Non so, forse ero solo egoista.
Gli presi la mano e posai le nostre dita intrecciate sopra la coscia, e
poi rimanemmo in silenzio, io appoggiata alla sua spalla.
Mi sarebbe bastato rimanere così per sempre e sarei stata
felice, felice come non avrei creduto mai.
Invece eravamo già arrivati, troppo in fretta,
così staccai la mano, ci alzammo e senza dire una parola
scendemmo.
- Questa sera devo uscire con gli altri – mi
spiegò una volta fuori – dobbiamo definire alcune
cose –
- Be’, magari ci vediamo domani –
mormorai tentando di non mostrare la delusione, perché sotto
sotto ci avevo sperato fino alla fine.
Insieme arrivammo fino a casa mia, mi aveva accompagnata fin
lì, il mio stupido, crudele, cavaliere senza macchia e senza
paura, e se non mi fossi sentita così triste avrei sorriso
di questa sua gentilezza.
- Buonanotte – mi fece dopo avermi baciato le
labbra.
Rimanemmo a fissarci per una frazione di secondo, e mi pareva di
leggere rimpianto nei suoi occhi, ma forse mi sbagliavo, forse non
capivo, perché ormai ero piena di dubbi.
Riuscii a resistere alla tentazione di baciarlo davvero, di seguirlo
fino a casa sua per baciarlo ancora, eroicamente dato che la mia era
una dipendenza grave, e gli diedi le spalle.
Di sopra mia sorella era chiusa in camera a studiare, probabilmente
ancora arrabbiata per il presunto tradimento, mentre mia madre sembrava
di splendido umore quel giorno, non aveva da ridire su nulla, quasi era
sopportabile, la vecchia egoista.
Probabilmente avevo preso da lei, mi venne da pensare
all’improvviso, e già mi immaginavo vecchia,
acida, e abbandonata da tutti.
Almeno con quattro soldi avrei potuto permettermi una badante.
Mentre tiravo fuori il cellulare dalla borsa mi accorsi che avevo non
so quante chiamate perse di Sasori, dovevamo vederci il giorno dopo e
non avevo proprio voglia di sentirlo, proprio per niente.
Tanto meno avevo voglia di vederlo.
Moegi intanto era davvero ancora arrabbiata con me, come scoprii dalle
risposte cattive e monosillabiche che ricevevo a cena, e prima di
andare a dormire bussai alla porta della sua stanza ed entrai: va bene
tutto, ma la nomea di ladra di ragazzi altrui, soprattutto se
l’altra donna era mia sorella, mi stava troppo stretta.
Per il semplice fatto che era la più piccola le era toccata
la stanza più angusta, a volte se ne era lamentata, e mi
avvicinai al suo letto facendo attenzione a non calpestare tutto il
ciarpame che riempiva quotidianamente il pavimento.
- Pensavo fosse solo un gioco per te, se avessi saputo che ti
interessava così tanto non mi sarei mai avvicinata a lui
– mormorai dopo essermi seduta sul letto, di fianco a lei.
Aveva l’aria pestifera e imbronciata di quando era bambina,
ma per lo meno non aveva iniziato subito ad urlarmi di uscire, era
già molto.
- E invece mi piaceva tanto –
- Se ti può consolare tra un poco se ne va, e
rimarrà via un bel pezzo se mai tornerà, per cui
resto a piedi anch’io – mormorai amara.
- Ti sta bene –
Mi guardò di sfuggita.
- Lo ami? –
A volte mi sorprendevo ancora nell’udire quanto i ragazzini
usassero con facilità la parola amore, mentre a me e a
Sasuke sembrava un parolone così grande, più
grande di noi.
O forse avevamo solo tanta paura.
- Mi sa di sì, ma non cambia molto, non
c’è futuro per noi –
- Perché? Se vi amate cosa importa! Starete solo
un po’ distanti ma potete sentirvi lo stesso, e potete
vedervi lo stesso no? –
Già, ma non era mai facile spiegare la mia intricata
situazione agli altri, era sempre un po’ troppo confusa.
- Mi sa che non sa che lo amo – confessai,
perché a qualcuno dovevo pur dirlo, e una quindicenne
svitata era meglio di niente, almeno era famiglia.
- Che stupida! Ma diglielo no?! –
Già, sembrava semplice messa così, forse era
davvero semplice, in teoria.
- Tu non eri arrabbiata con me? – le chiesi
perplessa.
- Lo sapevo che non mi voleva, sono troppo piccola per lui
– ammise candidamente, con una punta di tristezza che la
faceva sembrare più matura –…alla
peggio mi va bene anche come cognato – aggiunse –
così quando diventano famosi conoscerò un sacco
di gente famosa –
La mia sorellina opportunista, tutto sua sorella maggiore.
- E Konohamaru? – domandai dal momento che sembrava
così disponibile.
- Non so, non credo che gli dirò mai niente, non
è che lo amo, capisci? Però lui mi amava tanto, e
mi sembrava che se gli davo qualcosa di importante magari lo amavo
anch’io, capisci? –
A parte la carenza di congiuntivi capivo fin troppo bene quel
ragionamento confuso, e l’abbracciai in silenzio.
La mia sorellina stava tentando malamente di vivere.
Con cautela, perché aveva l’offesa facile, ribadii
che la prossima volta era meglio se prima parlava della cosa con me,
così si evitavano complicazioni e pasticci, e mi
assicurò che non ci sarebbe mai stata una prossima volta,
l’illusa.
Andai a dormire pensando a Moegi, ma i pensieri scivolarono
presto su Sasuke, e dormii male anche quella notte.
Ammetto che mi dispiaceva proprio di non essere potuta andare da lui
quella notte, al momento ero nella fase in cui mi pareva di dover
sfruttare ogni secondo che potevo trascorrere con lui, avrei fatto in
tempo a disintossicarmi dopo, quando non avrei più avuto
scelta.
Ma solo a pensarci gli occhi mi si riempivano di lacrime.
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Capitolo 18 *** 18. ***
Non sono molto contenta
di questo capitolo, il che non è una novità,:D ma
eccolo qui.
Grazie ancora per tutte quelle recensioni! :)
18.
Mi svegliai presto, ancora assonnata, e dopo avere fatto colazione mi
misi a studiare.
Non avevo tutto questo tempo per le seghe mentali.
Mia sorella si svegliò poco dopo seguita da mia madre, che a
quanto pareva si era alzata dal letto da sola, senza chiedere aiuto, e
devo dire che quel mattino, anche a colazione, non si
lamentò neppure una volta dei suoi malanni o del nostro
comportamento, anzi, era tutto un sorriso ed un ringraziamento e
sembrava proprio di umore eccellente.
Più tardi, mentre studiavo, pensavo che era strana tutta
questa giovialità, anzi, era proprio sospetta, di solito si
comportava così solo dopo che aveva esagerato e ci aveva
fatte incazzare, per farsi perdonare.
Non so come mai, ma mi venne l’istinto di controllare il mio
gruzzoletto.
Ogni tanto lo controllavo ed ogni tanto gli cambiavo il posto, per
sicurezza, non mi fidavo di quelle due incoscienti ed era davvero
importante per me sapere di averlo lì al sicuro, mi dava
tranquillità.
Scoprii che non c’era nel suo nascondiglio, tra le pagine di
un libro, e agitata controllai in quello in cui lo tenevo
precedentemente, all’interno della manica di un maglione.
Niente.
Calma, Sakura, calma.
Ricontrollai meglio tra i libri, e poi guardai per terra, e infine
tirai fuori tutti i maglioni, uno per uno.
Niente.
Forse non mi ricordavo di averlo cambiato ancora di posto, per cui mi
misi a rovistare in tutta la stanza, invano.
Lo so che è esagerato ma era come se mi mancasse
l’aria, come se mi franasse la terra sotto i piedi, avevo
anche troppo caldo e mi sentivo tremare.
Quando uscii dalla camera avevo un’idea neppure troppo vaga
di cosa era successo, così mi avvicinai a mia madre che era
seduta sul divano, di fronte al televisore.
Ero furiosa, ma mi sforzai di mantenere la calma.
- Mamma – le feci sufficientemente controllata
– hai preso tu i miei soldi? –
Mi aveva guardata oltraggiata, la bugiarda.
- Dove sono –
L’espressione oltraggiata si era tramutata in una caparbia, e
quasi mi avrebbe fatto pena se non mi avesse fatto così
tanta rabbia, perché mentre stringeva la vestaglia tra le
dita non mi era mai parsa così sfatta, e vecchia.
- Non sono tuoi, sono della famiglia! –
sentenziò un po’ stridula – Sai quanti
sacrifici ho fatto per voi, quanto ho sofferto, e tu li tenevi
nascosti! –
- Dove sono –
- Non li ho più, li ho spesi! –
La calma mi stava abbandonando e dopo avere spento la televisione
respirai a fondo, nel vano tentativo di trattenerla.
- Mamma. Come hai fatto a spenderli se non esci mai di casa
–
- Sono uscita da sola, voi due non vi occupate di me!
E’ Natale! Ho dovuto fare le scale e quasi
cadevo…con due figlie! Ma avete preso da vostro padre
e… –
- Dove. Sono – tagliai corto, ed ero lì
lì per esplodere.
- Ho comprato tante cose di cui avevamo bisogno, ho preso una
rete nuova, di quelle che si sollevano, così posso guardare
la televisione dal letto, è meglio anche per voi
perché… –
- Adesso mi dici dove l’hai comprata e mi faccio
ridare indietro i soldi! – ringhiai.
- Non puoi! Mi serve! –
- Non ti serve! La televisione puoi guardarla dal divano!
–
Finimmo per urlare come delle ossesse e scoprii che non solo aveva
già la rete nuova, gliel’avevano portata
venerdì pomeriggio, ma che aveva dato un cospicuo acconto
per un nuovo televisore al momento nascosto dentro l’armadio,
in offerta come si premurò di aggiungere.
Non la presi per il collo come mi sarebbe piaciuto, né le
urlai tutte le cattiverie che avevo sulla punta della lingua, era fiato
sprecato, invece uscii di casa diretta a quel maledetto negozio di reti
e materassi, perché quello di elettrodomestici del quartiere
era un caso perso, conoscevo il proprietario ed era un bastardo, non mi
avrebbe restituito niente.
Quell’altro negozio non era sotto casa e mi chiedevo come
avesse fatto a camminare da sola fino a lì, e quasi questo
mi faceva più arrabbiare del furto, perché con
noi si faceva aiutare in tutto e si lamentava anche per fare solo un
paio di passi, però quando voleva quella bastarda si sapeva
arrangiare, eccome.
Quella bastarda.
Cercai di dirmi che forse si era fatta dare un passaggio da un vicino,
magari il pensionato del primo piano che era proprio un
brav’uomo, però era una bastarda lo stesso, e solo
il fatto che si fosse presa la briga di scendere le scale da sola era
una presa in giro, una vera e propria presa in giro.
Entrai nel negozio agitata ma ancora speranzosa di riavere i miei
soldi, bastava spiegare la situazione, no?! per cui quando il
proprietario, che la commessa aveva fatto chiamare, mi
precisò che senza una ricevuta il recesso non era possibile,
ed io non avevo nessuna ricevuta (quella bastarda l’aveva
persa, diceva), mi scaldai un po’.
Lo minacciai di andare per vie legali ma non servì neppure
quello, perché sapeva che ero solo una poveraccia, che non
avevo soldi per un avvocato.
Bastardo anche lui.
Uscii sconvolta, senza sapere cosa fare.
Non avevo nessuna intenzione di tornare a casa e vedere lei e mia
sorella, che speravo fosse all’oscuro di tutto anche se non
si sa mai, perciò mi diressi spedita a casa di Sasuke.
Mi chiedevo cosa avrei fatto una volta che se ne fosse andato via, o
meglio, lo sapevo.
Sarei tornata sola, come prima.
Aprii la porta che tanto per cambiare non era chiusa a chiave e lo
cercai con quella che sapevo essere un’aria stravolta.
Eccolo lì (come sempre nel vederlo il cuore aveva accelerato
i battiti), non stava studiando, ma perché avrebbe dovuto a
questo punto, se ne stava seduto sul divano con la chitarra,
strimpellava, e pareva turbato anche lui.
Senza una parola appoggiò la chitarra a terra e mi lasciai
cadere di fianco a lui.
- Mia madre mi ha preso tutti i soldi – iniziai
concitata – li ho risparmiati a fatica e li mettevo via per i
libri e per le emergenze, sono importanti per me e lei…e lei
me li ha spesi tutti…tutti –
Continuai a farfugliare per un po’, ancora incapace di
crederci, e poi lo abbracciai e rimasi con il naso piantato sul suo
petto, tentando di riacquistare un po’ di calma.
Lasciai che mi stringesse e mi coccolasse, già
più tranquilla tra le sue braccia, come se lui potesse
cambiare le cose, come se il resto non fosse poi così
importante, in fondo, se mi teneva tra le sue braccia.
- Quanto ti serve? –
- No, no – protestai senza mollare la presa (avevo
bisogno del suo calore) – non mi servono, è solo
che ho bisogno di sapere che ci sono e… –
- Ho messo via un po’ di soldi per
l’affitto, alcuni mesi, e dato che me ne vado non ne ho
più bisogno –
- Non voglio i tuoi soldi, servono a te e…
–
- Non ne ho bisogno – insistette.
Mi scostò e mi sollevò il mento con le dita per
fissarmi serio, intenso, tanto più forte di me –
Devi aspettare lunedì, me li tengono in banca i genitori di
Naruto –
- Non posso – sussurrai, ma gli ero comunque grata,
così grata, perché era il mio eroe, davvero.
Mi baciò le labbra.
- E’ deciso ormai, io non li voglio, non ne ho
bisogno –
Smisi di discutere, sopraffatta da una miriade di emozioni, e senza
sapere cosa dire mi strinsi ancora forte a lui, gli occhi lucidi per la
commozione.
- Sei…sei un bravo ragazzo – riuscii a proferire.
- Cazzo…non so se è un complimento o un
insulto –
Che stupido.
- Tu cosa credi? – lo presi in giro continuando a
stringere.
- Suona come un insulto –
- Sei proprio uno stupido maschio – mormorai
arrampicandomi un poco sul divano per abbarbicarmi meglio a lui.
Il mio amore.
Non volevo perderlo, non potevo, era…era Sasuke, e non avrei
mai incontrato nessuno come lui, non esisteva.
Mi massaggiava lentamente la schiena e mi dissi che
forse…forse non era finito tutto, che magari aveva ragione
Moegi ed avremmo potuto vederci lo stesso qualche volta, non era
impossibile, no?!
Non eravamo almeno amici?
In fondo anche lui mi voleva un po’ di bene, no?! A modo suo
mi aveva dato sempre così tanto, ricevendo in cambio
così poco, ed anche ora, anche ora…avevo visto il
suo volto turbato quando ero entrata, ma ero io, solo io, sempre io
quella che riceveva.
- E tu? – sussurrai – cosa
c’è che non va? –
– Niente –
Stupido.
- E’ per tua madre e la tua sorellina? –
tirai a indovinare.
- No –
- Tuo padre? – buttai lì completamente a
casaccio mentre mi annusavo e baciavo l’attaccatura del suo
collo, e mi piaceva così tanto che avrei potuto passarmi
delle ore così, ad annusarlo.
Non rispose, e così mi staccai a fatica per guardarlo,
decisa ad insistere.
– Quanto ti costa rispondere? –
Mi aveva guardata a sua volta seccato, ed era davvero bello seccato,
davvero molto bello.
- Non ho voglia di rispondere –
- E’ in prigione, no!? – continuai
– Non è così male sai, se mia madre
fosse in prigione vorrebbe dire che invece di rubare solo alla figlia
ha osato qualcosa di più, e la mia stima inesistente
aumenterebbe –
Non riuscii a reprimere un ghigno nell’immaginare mia madre
che rapinava una banca.
- Pffh…non è in prigione –
- Meglio così, e dov’è?
–
- Perché sei sempre così curiosa?
–
Avrei voluto spiegargli che non ero curiosa, che non era quella la
definizione giusta, che volevo solo conoscere tutto ciò che
gli faceva male, tutto ciò che lo rendeva felice, ogni cosa
che odiava, o che desiderava.
Tutto.
Perché volevo vederlo interamente, vedere lui, toccarlo nel
profondo…sentirlo, e neppure ne capivo bene il motivo, in
fondo non avevo mai provato quel bisogno di contatto, di
compenetrazione.
Prima di lui, nemmeno credevo fosse possibile.
- Non vuoi proprio dirmelo? – sussurrai, con una
dolcezza che non avevo mai saputo di possedere, prima di lui.
Aveva appoggiato la testa sul divano ed aveva guardato il soffitto, ed
io aspettai un po’ più composta, le gambe piegate
sotto di me.
- Non so neanche come siano venute fuori certe voci, ha solo
cambiato città – mi spiegò finalmente,
lo sguardo ancora al soffitto – abita lontano e non lo vedo
molto spesso –
- E quando se ne è andato? –
- Poco dopo che i miei si sono separati, anni fa –
Come prevedibile non era che mi avesse inondato di informazioni,
possedeva il dono della sintesi.
- E allora perché non sei andato da lui visto che
non volevi stare con tua madre? –
- Ha una compagna, non mi andava di fare il terzo incomodo
–
Ah ecco.
- Non riesco a capire questa teoria del figlio come incomodo
– replicai scostandogli un ciuffo di capelli dalla fronte
– davvero non riesco a capirla…sarò
egoista io, ma i nostri genitori mi battono
ampliamente…scommetto che neanche a Natale è
passato a salutarti, non ti fa arrabbiare? –
Aspettai pazientemente che replicasse e poi gli baciai il collo ancora
una volta.
- Ero arrabbiato, sì – si decise a
rispondere – ma ora mi è anche
passata…mi ha anche aiutato con l’affitto i primi
tempi e lo sento più o meno regolarmente …qualche
volta ci vediamo – e dopo una pausa – Sembra
abbastanza felice –
Registrai in silenzio quell’informazione.
- Mi sembra che tutto sommato se la passino bene tutti e due,
anche tua madre –
- Non so…forse dovrei comportarmi meglio con lei
–
- Non le parli ancora? Sei stato lì a Natale
–
- Mi sono limitato a chiederle come stava e a risponderle a
monosillabi…so che ci sta male –
Strofinai il naso sul suo collo, pensando che sotto la sua aria da duro
si preoccupava sempre troppo degli altri, anche perché
onestamente continuavo a non avere una gran opinione dei suoi, non si
erano comportati bene nei suoi confronti, ecco.
Se io e lui avessimo fatto un figlio…
Non sapevo neppure da dove mi venissero quei pensieri e mi affrettai a
cacciarli.
- Sono sicura che troverete il modo per riappacificarvi
– bofonchiai spostandomi un po’ sopra di lui per
potermelo godere meglio – te l’ho detto che sei un
bravo ragazzo –
- Stupida – rispose allungando una mano per
accarezzarmi la guancia, come piaceva a me, e come ogni volta mi
crogiolai tra le sue dita per godere fino in fondo di quella briciola
di felicità.
Mi fece piegare la testa per darmi un bacio sui capelli e lo strinsi
ancora più forte.
- E non preoccuparti, non sei solo – aggiunsi
d’impulso – fortuna che hai me, ricordatelo
–
Ricordati sempre che ci sono, che esisto.
Non dimenticarmi mai.
Mai.
Sorrise.
- Me ne ricorderò, e togli il ginocchio da
lì –
Mi misi un po’ più composta e poi controllai con
la mano.
- Hai voglia di me? – gli sussurrai
all’orecchio – Povero piccolo – gli
baciai il collo – forse se fai il bravo ti aiuto a risolvere
questo problemino –
- Sakura… –
Mi faceva impazzire quando sussurrava il mio nome così.
- Hai comprato i preservativi? – mi informai
strofinandogli la coscia con le dita.
- …sì –
Per una frazione di secondo pensai di chiedergli il perché,
di chiedergli dove eravamo ora noi due, cosa avremmo fatto, come ci
saremmo collocati…ma non osavo, non me la sentivo di
ascoltare la sua risposta, non in quel momento.
Avevo paura.
Incrociai i suoi occhi, così caldi ora, pieni di passione, e
lasciai che mi attirasse a sé per baciarmi.
Amavo i suoi baci, li amavo.
Quando ci staccammo iniziai a slacciargli il bottone dei pantaloni,
ancora ansimante, ed infilai la mano all’interno, con una
voglia matta di lui.
Finimmo per fare l’amore sul divano, un po’ da
incoscienti visto quello schifo di divano e il fatto che non usammo
subito il preservativo, ma eravamo ormai rinchiusi in quello spazio
magico in cui il mondo, tutto il resto, il domani, tutti i problemi, i
pensieri, le scelte e le paure, erano solo immagini sbiadite nello
sfondo.
In quello spazio stavo di nuovo bene, potevo ignorare
quell’ombra appena percepibile, un non so che di stonato,
solo un eco di qualcosa che aleggiava anche quando eravamo felici.
Ma nel fondo qualcosa rimaneva, per quanto tentassi disperatamente di
rimuoverlo, come se ormai quel momento che mi spaventava
così tanto, il momento in cui se ne sarebbe andato, fosse
diventato il fulcro di tutta la nostra vita, o forse solo della mia.
Sì, solo della mia.
Fu quasi per caso che a un certo punto mi resi conto che di
lì a poco avevo un appuntamento con Sasori.
Lasciai Sasuke a fatica, con una scusa penosa, non potevo dirgli
dell’appuntamento, ed anche se gli avevo omesso alcune,
parecchie cose, ne avevo elaborate altre, e qualche volta avevo negato
spudoratamente la verità, mi pareva che questa fosse la
prima vera bugia che gli raccontavo da quando lo avevo conosciuto.
E per qualche stupido motivo mi faceva male.
Tornai a casa di corsa e mi lavai e preparai senza degnare di uno
sguardo quella strega di mia madre, non che mi illudessi di
indispettirla in quel modo, non gliene fregava niente, lo sapevo, le
seccava solo che fossi arrabbiata, e comunque avevo troppa fretta per
preoccuparmi di lei.
Uscii poco dopo per andare all’appuntamento in centro, non
avevo voluto che mi venisse a prendere sotto casa, e mi sentivo addosso
la presenza di Sasuke, sentivo ancora la dolcezza dei suoi baci, avevo
un certo indolenzimento tra le gambe dovuto a lui, e fortuna che almeno
avevo lavato via il suo odore, anche se mi pareva ancora di sentirlo.
Solo allora mi resi conto che non mi aveva detto che cosa
c’era che non andava.
Stupido.
Nel frattempo la voglia di vedere Sasori non era pari a zero, no, era
ben sotto lo zero.
________________________________________________________________________________________________________
Allora, ero partita con idee grandiose sulla famiglia di Sasuke, rapine
finite male, morti ammazzati e segreti di famiglia, davvero :D, ma ho
deciso di dare un altro taglio alla storia ed ho eliminato tutto, solo
che semplificando, semplificando, semplificando, ho semplificato
così tanto che adesso mi sembra troppo, e mi verrebbe la
tentazione di cambiare se non altro la situazione del
fratello e riportarla in parte a quella originale, ma non so se lo
farò, non ho molta voglia di rimaneggiare i capitoli, fa
parte del solito pacchetto crisi/pigrizia/mancanza di ispirazione e chi
più ne ha più ne metta. :(
Scusatemi!
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Capitolo 19 *** 19. ***
Eccomi qui!
Manca poco alla fine ormai, questo è il terzultimo capitolo,
ma in compenso è più lungo degli altri...e in ogni
caso spero vi piaccia!
Ancora grazie mille per tutte quelle recensioni, mi state abituando
troppo bene.:)
19.
L’appuntamento era vicino alla fioreria,
all’angolo tra due strade, come ogni volta, e solo alla vista
di quell’angolo mi veniva un po’ d’ansia
e le labbra si piegavano automaticamente in una piega severa: non mi
piaceva quell’angolo.
Mi faceva schifo.
Cominciamo bene.
E poi, quando lo vidi arrivare con un’automobile nuova, una
Ferrari rossa, il massimo della sobrietà, lo stomaco mi si
chiuse del tutto, perché non volevo vederlo, non volevo
proprio.
- Ascolta – iniziai non appena salita in macchina.
- Aspetta – mi fece dandomi un bacio sulle labbra,
e trattenni la tentazione di pulirmele con il palmo della mano,
perché quel bacio in quel momento mi disgustava –
prima andiamo a fare un giro, va bene? –
No, non andava bene, avevo bisogno di parlare, ma come sempre con lui
entravo in un mondo più ovattato in cui mi muovevo con mille
attenzioni, e quella patina formale mi pesava particolarmente quel
giorno, perché avevo appena visto Sasuke, ed ero ancora
piena di lui, della forza della sua persona, della sua coerenza, del
suo senso di ciò che è giusto.
- Come va? – mi chiese riprendendo a guidare.
- Male – buttai lì improvvisamente
insofferente, quasi per metterlo alla prova – mia madre ha
scovato dove nascondevo i soldi e me li ha presi –
Lo vidi sorridere, e quasi mi offendevo, non che non facesse ridere la
cosa, ma faceva ridere solo una determinata categoria di persone,
quelli che non avevano certi problemi per spiegarsi.
- Mia madre ama interferire nella mia vita – e
forse era un tentativo di consolarmi, forse era solo che gli piaceva
tanto parlare di se stesso – per quello sono andato a vivere
da solo che ancora non lavoravo –
Ma che bravo. Mica aveva problemi a pagare l’affitto, lui,
con mamma e papà che sganciavano.
Per un attimo pensai di spiegargli quanto era importante per me avere
il mio gruzzoletto, ma solo per un attimo, ci rinunciai subito: non
credevo che fosse in grado di capire una realtà
così distante dalla sua, e comunque proprio non ci riuscivo,
non con lui, così lasciai che parlasse lui, come sempre, e
ascoltai mentre mi raccontava un paio di episodi di cui era
protagonista sua madre, che pareva una viperetta con una gran puzza
sotto il naso.
Me la immaginai a setacciare la mia vita sotto una lente
d’ingrandimento, immaginai la sua espressione superiore e il
suo disprezzo nei confronti di una poveraccia come me, il tutto
nascosto da sorrisi finti e macchinazioni sotterranee.
In quel momento, in quell’esatto istante, decisi che non
volevo quella vita, che non volevo vivere in quel modo, costretta in
quella recita che ormai non mi bastava più, sempre sola in
mezzo agli altri.
Magari me ne sarei pentita, ma non lo credevo perché se
c’era una cosa che avevo imparato era che non bastavano i
soldi per mettersi al riparo dai dolori, tantomeno dalla vita: non era
solo un luogo comune, era vero che non potevo comprarmi la
felicità, e neppure la serenità purtroppo, ma
bastava accettarlo per sentirsi già un po’
più liberi.
Lo sbirciai mentre parlava, e non ero mai stata così
consapevole che non lo volevo più, non lo volevo proprio
più, che non mi interessava veramente e neanche mi piaceva,
e che dovevo dirglielo.
Subito.
Non mi faceva neppure pena, perché il mio bisogno di
liberarmi di quella relazione sovrastava tutto il resto.
Non aspettai di scendere dalla macchina, condii la nuda
verità con belle parole, ambigue se non false, ma fui
irremovibile, e ascoltai con un orecchio solo le sue parole, le sue
spiegazioni che non mi interessavano, i suoi inutili tentativi di farmi
cambiare idea, di farmi riconsiderare tutto, e la sua assicurazione che
se non aveva lasciato la tipa era solo perché non
l’aveva più vista, ma che le aveva già
accennato per telefono le sue intenzioni, che era deciso, che non aveva
dubbi.
Il problema era che anch’io non avevo dubbi.
Alla fine, presa per sfinimento, gli assicurai che naturalmente ci
saremmo visti e sentiti ancora, che mi faceva piacere vederlo come
amico e non volevo smettere di avere a che fare con lui, ma era una
grossa bugia, perché se fosse dipeso da me non lo avrei
rivisto mai più, e già pensavo di cancellare il
suo numero dal cellulare, non so neppure il perché, forse
solo per provare a cancellare quella parentesi non esattamente
esaltante della mia vita.
Non fu facile rimandarlo a casa, voleva rimanere con me, per parlare
diceva, e non aveva tutti i torti vista tutta la strada che aveva
dovuto percorrere per sentirsi dire che non lo volevo più,
però non ne avevo proprio voglia, così mi
inventai che dovevo vedere mia madre per chiarire, come se avessi
davvero questo bisogno impellente, e dal momento che insisteva ancora
aggiunsi che mia madre si era molto agitata, che ero davvero
preoccupata per il suo stato di salute e dovevo andare. Suonava come
una scusa ineccepibile, per quanto fosse falsissima.
Mi lasciò andare riluttante, e purtroppo volle anche
accompagnarmi a casa, cortesia questa cui avrei rinunciato volentieri
dal momento che non era tardi e avrei potuto arrangiarmi.
Scesi da quella macchina che si notava da lontano un miglio sentendomi
addosso un notevole numero di sguardi, e già sapevo che la
notizia si sarebbe sparsa in un batter d’occhio e sarebbe
giunta fino a Sasuke, il che mi disturbava parecchio dal momento che
avrebbe smascherato la mia piccola bugia, e ancora di più mi
irritava che provassi quel fastidio, perché non avrebbe
dovuto importarmi così tanto, non aveva neppure senso giunti
a questo punto, tanto non cambiava niente.
Appena in casa mia madre mi chiamò e andai da lei quasi in
automatico, per abitudine: era a letto con la sua nuova tv, la ladra,
ma tremava visibilmente, e mi disse affannata che si sentiva male, che
dovevamo andare all’ospedale perché le mancava il
respiro e aveva paura di morire.
Ero sicura che non fingesse, che si sentisse davvero male, credo che a
modo suo soffrisse per la situazione e non conoscesse altro sistema per
esternare quel disagio se non attraverso la malattia.
Era solo una povera donna incapace di vivere.
- Ti preparo qualcosa di caldo, vedrai che starai meglio
–
Non avevo usato un tono gentile, ma avevo comunque ristabilito il
nostro rapporto, avevo ribadito i nostri ruoli nel gioco stupido che
era la nostra relazione, e sapevo che si sarebbe calmata.
Tanto ormai l’arrabbiatura mi era passata, ed era sempre mia
madre, non volevo che soffrisse, avrei solo voluto che capisse ma non
ne era in grado, non potevo farci niente.
Dormii molto meglio quella notte, libera da quel peso insopportabile
che avevo portato per mesi, e domenica mi svegliai sentendomi molto
più leggera, con la sensazione di essere finalmente intera.
Almeno fino a quando non realizzai che Sasuke se ne sarebbe andato e
non tornai a terra.
Avevo voglia di vederlo, di raccontargli che avevo chiuso con quel
finto principe azzurro, di stringerlo a me e sentirlo vicino
finché potevo, ma non volevo essere sempre io quella che lo
cercava e non potevo rompergli le scatole continuamente,
così mi trattenni eroicamente e studiai barricata in camera,
senza parlare a quelle due, il che non era così difficile
dal momento che mia madre se ne stava chiusa in camera a sua volta con
la nuova tv e la nuova rete (per quel che mi riguardava poteva rimanere
lì per sempre, meno la vedevo meglio era), e mia sorella era
in giro da qualche parte.
I giorni successivi erano trascorsi senza avvenimenti eclatanti, era
già la seconda settimana ma non volevo pensarci, e man mano
che passavano le ore avevo sempre più bisogno di vederlo.
Non avrebbe dovuto chiamarmi lunedì?
Probabilmente adesso aveva ben altro per la testa ed ignorai la stupida
vocina dentro di me che mi sussurrava che forse non gli importava
così tanto di me, non volevo certo iniziare a piangermi
addosso e ridurmi come una di quelle povere creaturine patetiche che
avevo sempre disprezzato.
Ma quel pensiero importuno faceva male, se faceva male…
L’ultimo dell’anno me lo ero passato a letto, Moegi
era ad un festino a casa di una sua amica, avrebbe dormito fuori, mia
madre aspettava la mezzanotte davanti alla tv, ed io non avevo voglia
di vedere nessuno, tanto meno di uscire con Ino, così mi ero
messa un cuscino in testa quando erano iniziati i botti pensando che il
nuovo anno si prospettava peggiore di quello vecchio, il che di per
sé era già un record.
Sapevo che i Dead Leaves suonavano da qualche parte, non ricordavo
neppure dove, e probabilmente avrei detto comunque di no, ma Sasuke non
mi aveva invitata.
Il giorno dopo mi ero svegliata dicendomi che in realtà quel
nuovo anno era esattamente uguale al vecchio, che mi aspettavo? Forse
solo un pochettino più triste.
Almeno lui aveva risposto ai miei auguri, sai lo sforzo, sempre ammesso
che sapesse che ero io.
Di tutti gli altri auguri non me ne fregava niente.
_
In quei giorni avevo aiutato ogni volta mia madre ad alzarsi, le avevo
preparato la colazione (anche se non se lo meritava proprio), e se mi
ero rifiutata di fare conversazione nonostante i suoi evidenti
tentativi di stabilire un contatto, non ero mai stata sgarbata. Questo,
unito al fatto che mi fossi occupata di lei, mi pareva abbastanza.
Mia sorella dopo avermi chiesto chi era quello ricco che mi
accompagnava a casa ed averlo liquidato, a ragione, come non abbastanza
importante per interessarsene, aveva ripreso a raccontarmi le sue
patetiche giornate da ragazzina svanita, mentre nel frattempo Sasori
continuava a chiamarmi (gli rispondevo raramente, proprio quando non ne
potevo più, sperando la smettesse presto).
In compenso non avevo più sentito Sasuke, l’unico
che avevo voglia di sentire.
Mi sfogliavo accuratamente e ripetutamente tutte le chiamate e gli
innumerevoli messaggi di quell’altro nel timore che mi fosse
sfuggito qualcosa, esasperata dall’assurdità della
situazione (se solo avessi avuto il mio gruzzoletto avrei cambiato
numero di telefono per non subire più quella persecuzione),
ed ero un po’ delusa, lo ammetto, non tanto per il denaro che
mi aveva promesso, sapevo di non poterlo accettare anche se ci avevo
fatto un pensierino (sono venale, lo so), quanto per il fatto che se ne
fosse dimenticato così in fretta.
Pazienza, neppure lo volevo il suo denaro, e probabilmente lo aveva
detto nella foga del momento e poi ci aveva ragionato su e aveva
cambiato idea, per cui cercai di farmela passare, solo che a causa di
quella faccenda non potevo neppure chiamarlo io: non volevo mettergli
pressione o fargli credere di essere lì ad aspettare i suoi
soldi.
Quello che mi rompeva veramente era la vastità del tempo
perso, tempo che non avevamo e si assottigliava sempre di
più, ma non sapevo bene come comportarmi, e mi dicevo che
forse era meglio così.
Non mi ero mai sentita così fragile.
Finalmente giovedì, mentre non c’era nessuno in
fioreria e mi dilettavo a cancellare i messaggi di Sasori senza
leggerli, Sasuke mi aveva mandato un sms in cui mi chiedeva di vederci.
Era il primo, cioè, il primo che inviava di sua iniziativa,
e mi sentivo ridicolmente eccitata, neanche avesse fatto
chissà che, ma non potevo farci niente, ormai mi
accontentavo delle piccole cose.
Come mi ero ridotta, completamente in balia di un uomo e delle sue
scelte.
Risposi subito di sì spiegando che tornavo tardi da lavoro,
e per l’intero pomeriggio, il mio umore capovolto come un
calzino, sorrisi bendisposta a tutti i clienti.
Il lungo viaggio di ritorno non mi era mai parso così
infinito, e quando mi mandò un altro sms chiedendo a che ora
arrivavo (era il secondo ed ormai ero stupidamente gongolante) risposi
con un sorriso così ampio che mi sentivo dolere la mascella.
Subito dopo avevo inviato un messaggio anche a mia sorella per
informarla che avevo un imprevisto e sarei tornata molto tardi, e poi
mi limitai a seguire il filo dei miei pensieri, a tratti intrisi di
malinconia.
All’uscita del metrò era lì che mi
aspettava.
Nel vedermelo provai un moto di felicità così
intenso che il cuore fece un balzo nel petto, neanche fossero passati
mesi dall’ultima volta in cui l’avevo visto, non
pochi giorni.
Ma era venuto a prendermi, come potevo non essere felice, e subito non
badai alla sua espressione un po’ cupa, tutta presa dalla
gioia di essere lì con lui.
- Sei venuto a prendermi – mormorai con quello che
sapevo essere un sorriso estasiato.
- A piedi duchessa, niente Ferrari –
Ecco, lo sapevo che qualcuno glielo avrebbe riferito, accidenti alle
linguacce che giravano per il quartiere.
- Penso che mi accontenterò, hai altre doti
– replicai accondiscendente mentre lo seguivo ancora
raggiante.
- Nervosetto? – domandai poco dopo dal momento che
non mi guardava.
Nessuna risposta.
- E’ per causa mia? –
- No –
Non sapevo se credergli, e confesso che un po’ mi piaceva
l’idea che fosse geloso per quella storia della macchina, era
così carino quando era geloso.
- Davvero? –
Neanche mi aveva risposto.
- Per tua madre allora? – provai tentando di stare
al suo passo, nonostante il tacco.
- No –
- Il patrigno? –
- No…senti, basta –
- Tuo padre? – insistetti con quel diritto di
sapere che mi arrogavo sempre con lui.
- No! –
- Il gruppo? – ormai avevo esaurito le domande.
- Non puoi farti i cazzi tuoi? –
- Non ci riesco, ho bisogno di sapere…cosa
c’è? –
Nemmeno mi rispose questa volta.
- Puoi rallentare per favore…è tuo
fratello? – buttai lì del tutto a casaccio,
ricordavo il ragazzino della foto e mi pareva che qualcuno mi avesse
parlato di un fratello, se non l’avevo sognato.
Lo vidi irrigidirsi, e non mi sfuggì l’ombra che
gli attraversò il volto.
- Allora hai davvero un fratello! L’ho visto nella
foto ma quasi pensavo fosse una leggenda metropolitana! –
A questo punto ero davvero curiosa ed ignorai il suo sguardo non
esattamente amichevole: Sasuke Uchiha non mi faceva per niente paura,
sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male, o meglio, sapevo che me
ne avrebbe fatto molto, ma quello era un altro discorso.
- Dai, ormai manca solo lui – mi ostinai dal momento che non
rispondeva – l’ultimo segreto e dopo non ho
più materiale per stressarti…devi dirmelo prima
di andartene, è come la chiusura del cerchio, se no non
posso dirti addio –
Sorrisi amara e nascosi abbastanza bene il fatto che anche un accenno
scherzoso alla sua partenza mi faceva male.
Lui non pareva per niente divertito e probabilmente avrei dovuto
smetterla, perdevo un po’ i freni inibitori con lui, neanche
il desiderio di conoscerlo, di appropriarmi di ogni parte di lui, mi
desse tutti i diritti.
A mia difesa devo dire che non avevo mai sentito quel bisogno prima,
per cui non sapevo come gestirlo.
- Di lui non ho voglia di parlare adesso – rispose
finalmente, ed era già qualcosa, un appiglio.
- Ma… –
- Senti…lasciami in pace, va bene? –
No, non andava bene, ma non avevo molta scelta.
Arrivammo a casa sua senza più parlare e sempre in silenzio
mi indicò una busta sul tavolo, senza neppure degnarmi di
uno sguardo.
- I tuoi soldi – mi concesse finalmente una parola
mentre si toglieva il giubbotto – li ho avuti solo oggi
–
Mi dava le spalle e lo guardai quasi offesa.
Già avevo i miei dubbi prima, figuriamoci se me li buttava
in faccia in malo modo.
- Non voglio i tuoi soldi – replicai indignata.
- Ti ho detto che sono tuoi, per me la questione è
chiusa –
Lo guardai aprire il frigorifero e prendersi una birra, e lo fissai
adombrata mentre se l’apriva e beveva un paio di sorsi a
canna.
- E’ solo una birra, ho sete – mi fece,
perché aveva capito benissimo cosa stavo pensando, capiva
sempre tutto benissimo, anche quello che non avevo ancora capito io,
tutto a parte che ero innamorata di lui, tutto a parte che avevo
bisogno di lui.
Appoggiò la bottiglia sul piano della cucina e rimanemmo a
fissarci per alcuni secondi senza parlare.
Non riuscivo neppure a far finta di arrabbiarmi.
Dio, come mi piaceva.
- Vieni qui – mi fece con un accenno di sorriso, ed
ero già sciolta.
Lo raggiunsi, lasciai che mi cingesse la vita con le braccia ed
appoggiai il capo direttamente sulla sua spalla, dal momento che avevo
dei tacchi vertiginosi.
- Dovresti essere più carino con me, mi hai
sedotta e abbandonata – mormorai.
- Pfffh…come no –
- E’ così – replicai convinta.
Mi scostai appena e feci scorrere la mano sul suo torso, un brivido che
mi percorreva il corpo.
- Credevo fossi tu quella che mi ha sedotto –
- Forse – concessi – ma sicuramente sei
tu quello che mi abbandona – aggiunsi amara.
- Perché, hai una proposta migliore? –
replicò sarcastico.
Smisi di toccarlo e mi strinsi a lui senza parlare, senza guardarlo, un
po’ agitata: non sapevo cosa rispondere, non sapevo neppure
cosa volesse dire.
Rimanemmo così per alcuni secondi, in silenzio, poi lasciai
riluttante che si staccasse, e lo guardai mentre apriva il frigorifero.
- Hai fame? – chiese – Non ho ancora
cenato –
Aveva abilmente abbandonato l’argomento, ma lo capivo, faceva
male anche a me.
- Cosa offre la casa a parte i toast? – con quelli
avevo già dato.
Mi ero sfilata il cappotto che ancora indossavo e lo appoggiai sulla
spalliera del divano prima di avvicinarmi di nuovo a lui e studiarmelo
attenta, come facevo spesso ultimamente, per imprimermi nella memoria
ogni particolare del suo volto, ogni sua espressione.
- Non molto – ammise.
- Latte e corn flakes? – domandai speranzosa,
quello era un classico in ogni casa.
Alla sua risposta affermativa mi misi a cercare i cornflakes dentro gli
armadietti e li sistemai sopra il tavolo.
Non era la mia marca preferita, ma me ne sarei fatta una ragione.
Con la coda dell’occhio notai che la busta era ancora
lì, al lato estremo della tavola, bella gonfia, invitante,
ma non la degnai di una vera attenzione, e mentre mi giravo per
prendere il latte dal frigo incrociai lo sguardo di Sasuke.
Sembrava pensieroso.
– A proposito, non mi hai ancora detto niente di
tuo fratello…sto aspettando, mica mi dimentico –
buttai lì con la mia notoria grazia.
Mi guardò infastidito.
- Potrei iniziare anch’io a tormentarti con domande
cui non vuoi rispondere –
- Nessun problema –
- Ma davvero –
- Davvero, prova – lo sfidai mentre riempivo di
latte le due tazze che mi aveva passato.
E vai, latte e cornflakes per tutti e due.
Non rispose, e devo dire che conoscevo bene quello sguardo aggressivo,
era la sua corazza, una corazza piuttosto spessa, ma non era niente
rispetto alle mie.
- Dai, spara…non ho segreti, io – lo
provocai.
Poteva chiedermi quanto voleva di mio padre, mia madre, mia sorella e
parentado intero, tanto le cose peggiori gliele avevo raccontate
subito, per cui sostenni il suo sguardo con sfida.
- Fai sesso col tipo della Ferrari? – mi chiese bruscamente.
Oddio.
Mi bloccai, la schiena irrigidita.
Non mi aveva mai chiesto niente di Sasori, si arrabbiava quando ne
parlavo, ed ora, all’improvviso…
- Io… – biascicai.
Non riuscii ad aggiungere altro e mi lasciai cadere sulla sedia,
orribilmente imbarazzata: credo che fosse riuscito a beccare
l’unico argomento che avrei preferito evitare, e
l’ironia della cosa non mi divertiva affatto.
- Sei andata a letto con lui? – ripeté
fissandomi, e il suo sguardo ora era come un fuoco che mi divorava, e
faceva paura – E’ semplice no?! sì o no?
–
- Io… – ripetei puntando gli occhi sulla
tazza, di lato, ovunque tranne dov’era la sua faccia.
Cercavo di valutare il da farsi in fretta.
Dovevo davvero dirglielo?
Non potevo tenermelo per me e magari dimenticarmelo?
E lui non poteva immaginarselo da solo, voleva proprio sentirselo dire
in faccia? Perché?
Mi pareva assurdo.
Avevo le mani sudate e in realtà non ero così
brava a mentire guardando negli occhi, diciamo che nonostante le
apparenze non ero una gran bugiarda se qualcuno mi osservava bene (non
che la gente osservasse bene).
Accidenti, per qualche motivo il cuore batteva come impazzito e sudavo
freddo.
Al diavolo.
- …sì – mi decisi ad
ammettere, e anche se non si trattava di una bugia non riuscivo a
guardarlo in faccia.
Ma era inutile girarci intorno, e poi credo lo sapesse già.
Nonostante mi ostinassi a fissare la tazza senza vederla sapevo che
aveva continuato a scrutarmi, e lo sbirciai appena prima di riabbassare
la testa, ma mentre lo facevo, nel preciso istante in cui lo facevo,
avevo letto il dolore nei suoi occhi e mi ero sentita morire,
perché era come se mi avesse sbattuto in faccia che anche
lui pagava per la mia stupidità, e lo sapevo questo, lo
avevo sempre saputo, eppure…eppure non lo avevo neppure mai
messo in conto.
Ero proprio egoista.
Non so come avessi potuto pensare che la sua gelosia fosse divertente,
era orribile.
Rimanemmo così per interminabili secondi, o minuti, non so,
io che guardavo le mie mani sopra il tavolo, lui in piedi, in silenzio,
finché non mi alzai per affrontarlo.
Non ce la facevo più.
Era ancora in piedi vicino al frigo, sembrava calmo, aveva
già ripreso il controllo, e mi affrettai a fare altrettanto.
Non capivo perché fosse così difficile.
- Senti… - iniziai titubante.
- Lascia stare, non devi giustificarti – mi
interruppe bruscamente, ma era lui adesso che non mi guardava
– puoi fare quello che vuoi, non mi devi niente, sei sempre
stata chiara in questo con me –
Mi chiesi come potevo essere stata chiara con lui quando non ero ben
chiara neppure con me stessa, e mi accorsi solo ora che avevo gli occhi
lucidi.
- Non lo vedo più – mi affrettai a spiegare
– l’ho scaricato, era uno stupido, e aveva anche la
fidanzata – e mi veniva davvero da piangere, come una
sciocca, come una bambina –
è…è per questo che stai male?
–
Tirò fuori un pacchetto di quei suoi fazzoletti economici
dalla tasca, me lo passò e lo accettai grata: chi se ne
fregava in fondo di quanto costavano, erano fazzoletti, servivano allo
scopo.
- No, ti ho detto che non c’entri –
ripose mentre mi soffiavo rumorosamente e non molto elegantemente il
naso.
Con Sasori non avrei mai osato, ma con Sasori non avrei mai neppure
pianto così.
- Mi dispiace – riuscii solo a dire tamponandomi
sotto gli occhi con un altro fazzoletto per salvare il salvabile,
odiavo il trucco colato.
E dal momento che non sapevo che fare, che non
c’era altro da dire, niente che non fosse una ridicola scusa
o un rigirare il coltello nella piaga, lo raggiunsi e lo abbracciai
forte.
Avevo un bisogno disperato di contatto.
- Mi vuoi lo stesso? – sussurrai pateticamente, ma il
cuore mi batteva ancora troppo veloce nel petto e non potevo farci
niente se avevo paura.
Mi cinse a sua volta tra le braccia ed alzai la testa a guardarlo con
gli occhi di nuovo colmi di lacrime.
Non disse niente, sollevò una mano e mi accarezzò
la guancia con le dita, e mi chiedevo se lo sapesse che mi piaceva
tanto quando faceva così, che con quel gesto così
semplice era come se mi dicesse che gli importava.
Lo guardai tra le lacrime, piena d’amore, e lui, lui mi
fissava senza rancore, solo con un’ombra di quella tristezza
che conoscevo bene, e con quel fuoco al di sotto delle iridi scure che
aveva solo per me, fino a quando non chinò il capo per
appoggiare le labbra sulle mie.
Mi baciò lentamente, la lingua che si muoveva sinuosamente
dentro la mia bocca e mi torturava obbligandomi a seguire un ritmo
lento, sensuale, terribilmente eccitante, e capivo che era come se in
quel modo volesse controllarmi, dominarmi, come se volesse farmi
sentire che ero sua.
Ci staccammo ansimanti e lo strinsi forte forte, il battito del cuore
che rallentava pian piano mentre mi sforzavo di arginare la paura,
quella paura di perderlo che ormai da giorni mi stava divorando e non
riuscivo a contenere, a razionalizzare come avrei voluto.
- Rimani qui questa notte? – mi sussurrò.
Sentii quel calore familiare che mi invadeva, era la prima volta che me
lo chiedeva lui, e adesso, in questo momento, significava tutto.
- Sì – risposi solo.
Non parlammo più di Sasori, probabilmente non ne avremmo
parlato mai più, e quella notte, a letto, Sasuke
accarezzò e baciò ogni centimetro della mia
pelle, in una lentissima tortura che mi infiammava il corpo e mi faceva
girare la testa.
Sapevo che era un modo per appropriarsi di ogni singola parte di me, un
tentativo di renderla sua, solo sua.
Quando finalmente era entrato in me ero già al limite da un
pezzo e l’orgasmo mi travolse immediatamente.
- Sono tua, sai – bisbigliai poi senza fiato, mentre
ancora spingeva dentro di me, così piano che non mi aveva
sentita.
Non dormimmo molto, io ancora meno di lui.
Rimasi sveglia a lungo a guardarlo e ad accarezzargli i capelli, e la
pienezza che provavo non poteva essere confusa con
nient’altro: amavo quella persona, l’amavo tanto, e
l’amore era una forza spaventosa che poteva racchiudere il
mondo in un abbraccio, ma faceva male, così male,
perché era anche un vortice che mi risucchiava
l’aria dai polmoni, che confondeva i pensieri, che si
prendeva ogni cellula vitale e se la portava via, lontano da me, fino a
dov’era lui, dove sarebbe andato lui un giorno, via, lontano.
Lontano da me.
Ed io…io avrei dovuto trascinare quel guscio vuoto che mi
sarebbe rimasto, e nascondere il vuoto dietro tutte quelle maschere che
non avevo più voglia di indossare.
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Capitolo 20 *** 20. ***
Eccomi qua con il
penultimo capitolo, che posto in tutta fretta (spero non ci siano
errori)...siamo quasi in dirittura d’arrivo e mi fa sempre un
certo che.
Avviso Sasukina369 che qui si parla di “lei sa
chi”, spero non ne rimanga troppo delusa. :D
E infine un enorme grazie per le vostre recensioni!
20.
Mi svegliai prima di lui, per una volta, e rimasi a guardarlo
incantata, assurdamente felice di poterlo osservare mentre dormiva, il
volto rilassato che lo faceva sembrare più giovane,
così giovane.
Quando aprì gli occhi continuai a contemplare il suo sguardo
assonnato, ancora puro e innocente come quello di un bambino.
D’impulso lo strinsi a me, e la sua erezione mi premeva
addosso non molto innocentemente, ora.
- Pensavo ne avessi avuto abbastanza questa notte –
sussurrai.
- Non sono abituato a svegliarmi appiccicato ad una donna
nuda –
Il mio amore, nemmeno io ero abituata a sentirmi così vicina
a qualcuno.
Ero stanca, doveva essere tardi e mi sentivo uno schifo, con il trucco
colato e l’aria sfinita, per cui avrei fatto meglio ad
andarmene subito e sgattaiolare dentro casa in qualche modo, ma invece
di alzarmi rimasi ancora stretta a lui, a godere dei suoi baci sul
collo, del calore del suo corpo e delle sue dita che mi accarezzavano.
Era dura staccarsi, non ero abbastanza forte, ecco.
Nel frattempo aveva iniziato a baciarmi i seni, non sapevo come potesse
avere ancora tutta questa energia, io ero cotta, ma lo strinsi a me con
forza, il mio amore, con braccia e gambe, una mano sulla sua spalla ed
una sui suoi capelli, per costringerlo a girarsi e farlo scendere di
schiena sul letto.
Poi mi sistemai a cavalcioni sopra di lui e lo guardai, così
bello, lì, sdraiato sotto di me.
Non potevo credere che non l’avrei più rivisto,
non volevo crederlo, mi pareva così ingiusto.
Non riuscivo neppure a pensarci.
“Basta che stia bene” bisbigliai tra me e me con
una punta di tristezza, che fosse felice almeno lui, se lo meritava, e
pazienza per me, tanto ero abituata.
Mentre lui mi afferrava i seni avevo iniziato ad accarezzargli il
petto, e dopo aver incrociato il suo sguardo bruciante ero scesa a
baciargli lo stomaco.
Lentamente ero scivolata giù, giù, fino alla sua
erezione.
- Dopo mi racconti di tuo fratello? – mormorai
mentre gliel’accarezzavo, in un ultimo tentativo di
estorcergli informazioni, giusto per non smentirmi.
- Sei…impossibile – fece uscire a fatica.
- E’ un sì o un no? –
- Cazzo, Sakura –
Avevo chinato il capo e gli avevo sfiorato l’erezione con le
labbra.
- Allora? – sussurrai, e pian piano avevo aperto la
bocca.
Dal momento che non aveva risposto niente di intellegibile continuai a
torturarlo lentamente.
Devo dire che non aveva resistito molto, sotto nessun punto di vista, e
più tardi, mentre mi abbracciava ancora, avevo ripreso
spudoratamente l’argomento: estorto o meno, l’aveva
promesso.
- Non so cosa ti importi di mio fratello –
replicò, ma pareva piuttosto bendisposto.
Gli uomini, basta prenderli al momento giusto, che sappiamo tutte qual
è.
- E’ parte della tua vita, no? –
replicai, mi pareva ovvio.
- Non più da tanto tempo –
Purtroppo nel frattempo si era staccato da me e lo lasciai andare a
malincuore.
Almeno il letto non era così largo ed eravamo a contatto lo
stesso.
- Lo sento raramente, ed è
un’eternità che non lo vedo –
specificò, ed io ero tutta orecchi, come ogni volta.
- Dov’è? –
- Chi lo sa…è sempre stato un
po’ uno sbandato, cambiava sempre lavoro, era sempre in giri
strani… ma mi ha chiamato proprio ieri –
raccontò – …me l’aspettavo
perché giorni fa aveva chiamato mia madre e si era fatto
dare il mio numero – fece una pausa, lo sguardo al soffitto
– voleva solo salutarmi e farmi gli auguri, ha detto, e mi ha
assicurato che sta bene, è in una specie di
comunità, non ho capito di che tipo ma…non so,
non mi sembrava a posto –
Gli accarezzai i capelli, trattenendo la voglia di stringerlo con tutte
le mie forze, vergognosamente eccitata dal fatto che mi avesse
raccontato una cosa che capivo importante per lui, non proprio di sua
spontanea volontà ma questo era un particolare irrilevante.
- Gli vuoi bene? – sussurrai.
- E’ mio fratello, sono cresciuto con lui, ero
attaccatissimo a lui…una volta era diverso, era sempre
calmo, controllato, ero io quello che combinava guai…ma poi
ha cominciato con le droghe, era sempre fuori casa, era diventato
scostante, freddo con me…allora non riuscivo a capire il
perché –
- Era per lui che eri triste l’altro giorno?
–
Subito non disse niente, ma poi mi guardò serio e
mi baciò il naso.
- Mia madre mi aveva appena detto di aspettarmi una sua
chiamata e… sentirlo mi scombussola
sempre…è che… – fece una
pausa – è che vorrei fare qualcosa per lui,
qualsiasi cosa, ma non c’è niente che possa fare,
proprio niente –
Il mio amore, credeva sempre di dover fare qualcosa per tutti.
- E’ per quello che i tuoi si sono separati? –
- Credo di sì, curiosona…è
stato un brutto periodo quello, i miei litigavano sempre –
Rimasi in silenzio, cosa potevo dirgli, non ero stupida e immaginavo
perfettamente la situazione: le preoccupazioni dei suoi, i vari
tentativi inutili, le liti, e anche le recriminazioni reciproche, le
accuse e lo sbandamento, immaginavo benissimo la famiglia che andava a
catafascio, ed in mezzo un ragazzino quasi dimenticato, magari
più vivace proprio per far capire che esiste.
Riuscivo anche a capire di più certe reazioni di sua madre e
le paure immotivate del suo patrigno, e quanto quelle stesse cose
dovessero fare male a lui, quasi dovesse portare ancora lui il peso
delle scelte di suo fratello.
Peccato non fossi capace di consolare, o di rassicurare, e
non avessi altro che le mie emozioni ed il mio cuore da offrirgli, ed
anche questi solo fino ad un certo punto, per quello che ero in grado
di mostrare senza rischiare di scoprirmi troppo, o di spezzarmi.
Decisa a fare comunque del mio meglio lo abbracciai e me lo coccolai in
silenzio, felice che me lo permettesse.
- Sono contenta che tu me ne abbia parlato – ammisi.
Intanto pensavo alla sua famiglia, alla mia.
Ci sarà stato un tempo in cui i nostri genitori si erano
amati, in cui erano stati felici.
Possibile che fosse…fosse così difficile amarsi
per tutta la vita?
– …non ricordo litigi tra i miei
– ripresi poco dopo – mio padre se
n’è andato così, chissà
perché, probabilmente non voleva cacciare i soldi per il
mantenimento… ma a volte – continuai con la voce
un po’ rotta, ormai mi commuovevo per tutto – a
volte penso che sia morto, perché mi sembra impossibile che
non sia mai tornato a trovarci, neppure una volta –
Non aveva detto niente, non c’era niente da dire, ma mi aveva
stretta forte e mi aveva baciato la fronte, e i capelli, prima di farmi
appoggiare il capo sul suo petto.
Ed era così importante poter sentire il suo respiro tra miei
capelli, la sua pelle contro la mia.
- Ti voglio bene, Sasuke Uchiha – lo informai
mentre ascoltavo il battito del suo cuore, forte come era lui
– Lo so che presto te ne andrai e sono precaria nella tua
vita – faceva così male dirlo –
però ti voglio tanto bene, tanto, e…lo so che
sono solo un’egoista e un’impicciona…ma
se mi permetti di abbracciarti è abbastanza per me
–
- Stupida. Non sei così tanto egoista come credi
–
Non aggiunse che non ero un’impicciona, come dargli torto, ma
che importava, pensai tra le sue braccia.
Era lì, il corpo stretto al mio, pelle contro pelle, ed era
davvero abbastanza per me, forse avrebbe potuto essere abbastanza per
tutta la vita, averlo accanto, poterlo abbracciare quando stavo male,
coccolarlo quando stava male lui, e sentirlo vicino, così
vicino che tutto il resto sembrava troppo lontano per dovermene
preoccupare: io e lui, e chi se ne fregava del mondo.
Come se noi due fossimo abbastanza e potessimo fare tutto, passare
attraverso tutto e rimanere indenni.
- Mi hai fatto cambiare tu, lo sai questo? –
sussurrai.
Si scostò per farmi sollevare la testa ed incrociare i suoi
occhi, lo sguardo caldo, così intenso, e come ogni volta mi
sciolsi un poco quando mi accarezzò la guancia.
- Non cambiare troppo però –
mormorò.
E chi ne aveva intenzione.
Mi baciò il naso e si staccò del tutto, per
quanto provassi a trattenerlo.
- Mia madre mi ha raccontato che vi siete conosciute –
cambiò argomento – non me l’hai mai
detto –
Ne dedussi che pensava ci fossimo incontrate per caso, per fortuna
quella donna non era completamente scema.
Nel frattempo ignorando le mie proteste si era tirato su e si era
alzato dal letto.
- Non ne ho avuto l’occasione – risposi
sollevandomi controvoglia, anche se avevo controllato l’ora
ed era davvero tardi, facevo meglio ad andarmene – quando mi
hai detto che partivi il resto mi è come volato fuori dalla
testa – ed era proprio così, purtroppo –
…mi ha raccontato che ti avevano trovato un rarissimo lavoro
serio – aggiunsi incrociando il suo sguardo, si stava
vestendo e nel cogliere l’espressione infastidita che aveva
assunto avevo una voglia matta di baciargli l’angolo della
bocca.
- Quel cazzo di lavoro di merda –
mormorò seccato.
- Pare che tu abbia osato rifiutarlo –
- Già era un lavoro di merda, in più il mio
patrigno sarebbe stato il mio capo… piuttosto faccio il
barista per tutta la vita –
Lo capivo benissimo.
- E cosa mi dici delle cartine sospette a casa tua?
– lo presi in giro.
- Ti ha raccontato anche quello? –
- Pare che siano un chiaro segno di perdizione –
- Pffh…non erano neanche mie, erano di
Shika…le aveva dimenticate –
Devo dire che mi era andata vergognosamente bene, pensavo si incazzasse
da matti per quella storia di sua madre, per fortuna aveva altro per la
testa.
- Be’…magari a tua madre puoi spiegare
un po’ come stanno le cose – aggiunsi guardandomi
intorno alla ricerca dei vestiti sparpagliati.
Perché purtroppo alla fine tocca cedere a noi figli,
semplicemente perché gli adulti non sono proprio in grado di
farlo, sono come incancreniti nella loro posizione, quasi che una
persona giunta ad una certa età non possa più
imparare niente.
Dovevo ricordarmene, dovevo mantenere qualche dubbio, continuare a
imparare, anche da vecchietta ottantenne, e speravo solo di esserne in
grado senza Sasuke, che era la mia cartina di tornasole.
Come al solito mi rifiutai di pensare oltre, faceva troppo male.
Mentre parlavo mi ero alzata in piedi e d’impulso lo
raggiunsi, gli baciai proprio l’angolo della bocca e lo
abbracciai un’altra volta.
Non era che avessimo ancora tutta la vita davanti per stare vicini e ne
avevo bisogno.
Avrei…avrei voluto stringerlo per sempre.
Avrei voluto dirgli che non era vero che gli volevo bene,
perché lo amavo, era amore quello che provavo.
Ed avrei voluto dirgli mille cose che non avrei mai pensato di voler
dire, che sapevo di non potergli dire…dirgli che volevo
stare con lui per sempre, che non mi sarei stancata mai di lui
perché ero così cosciente della fortuna di averlo
incontrato, che avrei portato pazienza nelle crisi, ed avrei lottato
assieme a lui per far passare i momenti brutti, che
avrei…che avrei resistito lontano da lui fino a che non
sarebbe tornato, e avrei sempre trovato il modo di ritrovarlo se mi
fossi persa, se si fosse perso.
Ma erano parole così solenni, così pesanti, che
mi premevano sul cuore e non volevano uscire, troppo, troppo difficili
da dire.
Quando mi cinse anche lui tra le braccia chiusi gli occhi, di nuovo
felice, provvisoriamente felice, purtroppo, ma sapevo che avrei
ricordato per sempre i meravigliosi momenti vissuti insieme.
Per sempre.
Come suonava lungo e vuoto.
Ma non volevo pensarci ora, e mi sarei fatta bastare la
possibilità di stringerlo così, di sentirlo qui
adesso.
Sollevai la testa per baciarlo e finii per rimanere ancora un
po’, pazienza se a casa si sarebbero accorti che ero rimasta
via la notte, onestamente chi se ne fregava.
Era davvero tardi quando decisi a malincuore di salutarlo con
l’intenzione di tornare a casa (ormai le lezioni erano perse
ma c’erano cose più importanti nella vita), ed ero
sul punto di girare la maniglia della porta ed andarmene quando mi mise
in mano la busta.
- Prendi i soldi – mi fece dopo avermi baciato le
labbra – ormai sono qui –
Non avevo la forza di dirgli di no.
_
A casa mia madre era visibilmente scossa, ad un certo punto la
pressione si era alzata tantissimo, voleva quasi chiamare
l’ambulanza, spiegò esagitata, ed io non
c’ero da nessuna parte.
Avrei potuto rifilarle una scusa, dirle che ero uscita di casa molto
presto, invece le raccontai che c’era stato qualche
imprevisto ed ero rimasta a dormire da un amico, che più o
meno era la verità: non che fossero fatti di mia madre, ma
vivevamo comunque sotto lo stesso tetto e capivo che si era preoccupata
veramente.
- Un amico maschio? – aveva chiesto allarmata.
Non so bene di cosa si preoccupasse così
all’improvviso in quel suo piccolo mondo appartato.
- Non proprio un amico, sono innamorata di lui, ma non
preoccuparti, tra pochi giorni parte e non lo vedrò
più – feci uscire così,
perché era la verità ed ero stanca di nasconderla.
Ignorai le domande concitate, le esternazioni di dubbi ed i commenti
gratuiti, e mi chiusi in camera.
Ficcai provvisoriamente il denaro sotto il materasso, perché
sapevo che la vecchia strega non era in grado di sollevarlo.
Prima però li avevo contati, ed erano tantissimi per il mio
misero standard, troppi, mi sentivo quasi ricca nel vederli tutti
insieme, davvero, benché non fossero veramente miei, e forse
era per quello ma pensavo già che mi sarebbe piaciuto
spendermeli tutti per andare a trovarlo, ovunque fosse,
perché perfino i soldi erano diventati secondari rispetto a
lui.
Quel pomeriggio non tentai neppure di trattenermi, ogni volta che ne
avevo l’occasione mi voltavo a cercarlo con gli occhi, e non
avevo niente da rispondere alle frecciatine di Haku.
Niente.
Accidenti…questa…questa cosa mi aveva privata di
tutto il mio cinismo, ed era grave, davvero molto grave,
perché significava che non avevo più difese.
Era vicina l’ora di chiusura quando vidi entrare nel bar sua
madre con sua sorella, ed era bello vedere come la bambina gli si
abbarbicava in braccio e si stringeva a lui, ed anche da lontano potevo
scorgere che si guardavano con amore quei due.
Ero proprio contenta che fossero riusciti a districare quella
situazione, a trovare un modo, eppure ero quasi gelosa di quello
sguardo.
Quando uscii erano ancora lì, e dal momento che mi avevano
vista aspettai che uscissero a loro volta.
Sua madre mi salutò dopo che attraversai la strada,
incredibilmente sembrava felice di vedermi e mi spiegò che
aveva fatto proprio come avevo detto io: aveva insistito con suo marito
fino ad imporre il suo punto di vista.
Almeno i miei consigli servivano a qualcosa.
La bambina nel frattempo si era nascosta dietro alla gamba di Sasuke e
mi guardava per metà estasiata e per metà
spaventata, se esisteva un’espressione del genere.
Era una bimbetta graziosa, ma evidentemente i geni non si erano
combinati così bene con il nuovo marito, perché
non era bella come suo fratello, e in ogni caso per me i bambini sono
delle piccole pesti, per cui non avevo la più pallida idea
di come comportarmi con lei: mi limitai a sorridere e salutarla, e ogni
tanto mi giravo dalla sua parte per scoprire che mi stava sbirciando di
nascosto, e la salutavo ancora.
Confesso che non mi sarei mai data così da fare se non fosse
stato che sapevo quanto quella bambina fosse importante per Sasuke.
- Allora avete trovato un compromesso – gli
bisbigliai con nonchalance.
- Diciamo di sì, potrò vederla
regolarmente d’ora in poi –
- E come farai adesso che vai via? –
- Troverò il modo –
Già, per lei avrebbe trovato il modo, e improvvisamente mi
sentii triste.
- Quando partite? – chiesi subito dopo a voce alta,
sorridendo alla bambina che non sembrava apprezzare il fatto che Sasuke
si dedicasse a me e continuava a tirarlo a sé per la gamba,
la piccola egoistella.
Come la capivo.
- Tra un paio di settimane – aveva risposto intanto
lui.
Così presto.
Poco dopo li salutai, Sasuke sarebbe andato via con loro, e li guardai
allontanarsi, lui e la bambina che si tenevano per mano.
Lei sembrava così piccola con la manina su quella di lui, e
così felice.
Distolsi lo sguardo sentendomi un groppo in gola, perfettamente
consapevole del mio moto egoistico di invidia, della mia orribile
gelosia per la gioia evidente che la presenza della sorella gli
generava.
Mi avviai sola verso il metrò, persa nei miei pensieri, nel
mio mondo, così sola.
Ma dovevo abituarmici no?!
Era questo che mi riservava il futuro, questo, e una serie di parole
inespresse che un giorno avrei rimpianto, assieme ad
un’immagine di me che non mi era chiara, perché
avevo ripudiato la vecchia Sakura, ma quella nuova, quella che si
sentiva felice e libera, era definita soltanto da Sasuke e senza di lui
ancora non esisteva, era solo una serie di momenti sparsi e confusi, di
possibilità aperte ancora in mille direzioni.
Chi era Sakura Haruno? Chi voleva essere?
Non lo sapevo più.
Senza Sasuke mi sentivo confusa, incerta e colma di dolore.
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Capitolo 21 *** 21. ***
Eccomi qua con l'ultimo
capitolo, non sono pienamente soddisfatta e ci sarebbero ancora alcune cosucce da sistemare, ma non riesco
più a rileggere.
Grazie per aver recensito il capitolo precedente, e per i saluti ci
ritroviamo alla fine!
21.
Vederlo andare via con sua madre e sua sorella mi aveva fatto male.
Non sono proprio così terribile, ero stata contenta di
vederlo felice, di sapere che le cose si erano sistemate almeno in
parte, ma inevitabilmente mi ero sentita anche esclusa, come se fossi
in un gradino differente.
E lo ero in fondo.
Con la sua famiglia ci sarebbe sempre stato un legame, faticoso magari,
a tratti spezzettato, ma mai dimenticato, mentre io…
Non so.
C’era questa cosa sospesa, tutto questo grumo di parole non
dette, di dubbi non chiariti, e mi pareva che ormai non ci fosse
più tempo.
E poi, ripercorrendo i miei momenti con Sasuke, mi rendevo conto che in
fondo ero stata sempre io a cercarlo, a chiamarlo, a parte
l’ultima volta.
Paradossalmente, anche quando mi dicevo che non era niente, anche
quando mi ripetevo che era solo per amicizia, ero io che gravitavo
attorno a lui, come una falena attratta dalla fiamma, e lui mi
accoglieva sempre, ma sotto un altro punto di vista mi teneva anche a
distanza: non facevo parte della sua vita come lui faceva parte della
mia, e lo capivo in fondo, lo capivo eccome, si difendeva.
Come facevo io.
Ma…
Cosa c’era che mancava tra noi, cosa, quando poteva essere
tutto?
Non lo cercai durante quel week end e rimasi quasi sempre chiusa nella
mia stanza,
a studiare, a pensare.
A noi, a lui, e a me.
Che ne sarebbe stato della mia vita, che ne sarebbe stato di me, di
Sakura Haruno, questa persona ancora indefinita, così
ambivalente, incoerente, incompleta?
Passai l’intera settimana isolata da tutto e da tutti, alla
ricerca di una via d’uscita, di una risposta, della soluzione
perfetta e definitiva, per me, per la mia vita, fino a quando non capii
che non ce n’era nemmeno una: avrei dovuto andare avanti, e
vivere al meglio, giorno per giorno, un passetto alla volta, fino a
quando non sarebbe stato tutto un po’ più chiaro,
e forse non sarebbe stato chiaro mai, ma avrei dovuto continuare ad
andare avanti lo stesso, che altro potevo fare.
L’unico indizio che avevo era il mio disagio,
perché sapevo, per esperienza personale, che quando lo
sentivo stavo facendo qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava
bene per me, che non ero io.
Era già un inizio.
Alla fine decisi che avrei fatto proprio così, avrei vissuto
al meglio, avrei cercato di essere il più possibile onesta
con me stessa e magari anche un pochino più generosa con le
debolezze altrui, se ci riuscivo, e conclusi dicendomi che forse non
avrei mai incontrato il mio ricco principe azzurro, non avrei mai
vissuto nel lusso e non avrei mai seppellito interamente le mie paure
di una catastrofe improvvisa, ma al momento non mi importava poi
così tanto: avevo toccato con mano quella
possibilità e non mi era bastata.
Avrei studiato, e lavorato, e avrei cercato di essere felice di quello
che avevo, ecco.
Eppure sentivo che c’era ancora qualcosa di stonato in questo
ragionamento.
Qualcosa di orribilmente stonato.
_
Quella settimana avevo pensato più volte di cambiare scheda
telefonica, stanca del fiume infinito di messaggi che Sasori continuava
ad inviarmi, ma dal momento che mi pareva che stessero diminuendo avevo
deciso di resistere ancora un po’.
Non che mi facesse pena: capivo che stava male, ma c’era un
limite che lui aveva abbondantemente superato, e comunque credo ci sia
una specie di regola non scritta per cui ognuno si deve tenere il
proprio mal di cuore e guarire da solo, tanto prima o poi tocca a tutti.
Ne sapevo qualcosa.
In compenso non avevo ricevuto messaggi da parte di Sasuke, avevo
controllato attentamente, forse anche ossessivamente il cellulare, e
infine, venerdì, non lo avevo visto, non era venuto al bar.
Avevo passato il week end, probabilmente l’ultima mia
occasione di vederlo prima della partenza, pensando a cosa
c’era ancora di sbagliato, a cosa mi impediva di andare da
lui e dirgli che mi ero innamorata.
Avevo pensato a lui, alla sua famiglia smembrata e al dolore e alla
solitudine che nascondeva, a come questo non gli avesse impedito di
essere una persona così forte ed onesta.
Avevo pensato a come ci eravamo fusi in un solo corpo, un solo
pensiero, un solo cuore, e al suo umore pessimo dopo che lo avevo
baciato e dopo che avevo fatto l’amore con lui la prima
volta, al fatto che sapevo che era perché avrebbe voluto di
più, e avevo ricordato che ero stata la sua prima donna, e
riflettuto su quello che doveva significare per una persona come lui.
Avevo ripensato a quando mi aveva chiesto cosa volevo da lui e non
avevo risposto, al suo dolore così evidente quando avevo
ammesso che ero stata a letto con Sasori, anche se probabilmente lo
aveva già immaginato.
Avevo ripercorso tutto quello che gli avevo detto, e tutto quello che
gli avevo taciuto, tanto, troppo.
Avevo continuato a pensare ancora e ancora a lui.
Non era stata una rivelazione improvvisa quella che mi aveva svegliata
il sabato successivo, dopo un’orribile notta inquieta, e
un’orribile pomeriggio in cui non lo avevo visto al bar e non
sapevo neppure se fosse già partito, era qualcosa che avevo
maturato a lungo dentro di me, ma solo ora mi appariva chiaro, e in un
certo qual modo semplice.
Ero un’egoista, lo sapevo, e avevo sempre considerato solo me
stessa, ma mi pareva di essere cambiata con lui, di avere visto lui,
solo lui, di avergli dato tutto quello che avevo nei momenti in cui
eravamo stati insieme, per la prima volta nella mia vita, senza remore.
Ma non era vero, non gli avevo dato tutto, avevo sempre trattenuto
qualcosa, perché avevo paura, troppa paura.
Mi alzai in fretta e mi sistemai alla meno peggio, che era comunque
sempre molto più della media delle persone
perché, diciamocelo, non sarò mai una sciattona,
o magari semplicemente una che osa farsi vedere in giro senza trucco,
poi scesi giù e corsi fino a casa sua sperando che ci fosse
ancora, dicendomi che non poteva essere partito senza neppure un
saluto, un misero messaggio…qualcosa, qualsiasi cosa.
Spalancai la porta che era aperta tanto per cambiare, perché
il mio amore sotto sotto doveva nascondere una fiducia illimitata
nell’umanità, e subito notai la valigia vicino
alla porta della camera, un rimando al fatto che era tutto vero, che
non era un incubo, era reale, che lui se ne sarebbe andato.
Lo cercai immediatamente con lo sguardo e quando lo vidi lì,
sul divano, a strimpellare la sua chitarra vissuta, sentii che tutti i
miei propositi venivano meno.
Codarda.
Di colpo iniziai a sudare freddo e lo stomaco era tanto chiuso da darmi
la nausea.
Ero davvero sicura di voler svelare me stessa, di affidarmi interamente
a lui?
Era proprio necessario farlo?
Magari per lui non ero più così importante,
magari era già proiettato nel futuro, magari ero solo parte
della vecchia vita che voleva dimenticare.
Per questo mi bloccai.
E se…e se non bastava?
Se se ne andava comunque via senza voltarsi indietro, perché
non ero così essenziale?
Cercai di dirmi che non era quello il punto, che era qualcosa che
dovevo fare per me, ma in quel momento non ricordavo nemmeno
più perché mi era parso così
importante dover confessare i miei sentimenti, sarebbe partito
comunque, no?!
Lui appoggiò la chitarra a lato come per invitarmi a sedermi
accanto a sé, ma non potevo, le gambe non si volevano
muovere.
- Quando parti? – mormorai lì impalata,
sentendomi una vigliacca.
- Martedì –
Martedì.
- Tutto bene? – domandai ancora.
- Tutto bene, sei venuta a dirmi addio? –
Ero ancora immobile vicino alla porta e di nuovo si voltò a
guardarmi dal divano.
Rimanemmo così, a fissarci in silenzio come due stupidi, e
avrei voluto che capisse, che potesse leggermi nel pensiero e capire
esattamente cosa provavo, cosa volevo, e dirmi che andava bene, che
anche per lui era lo stesso, che tutto sarebbe andato bene
d’ora in poi, che avremmo trovato un modo.
Ma ero cosciente che non era possibile, che toccava a me, che dovevo
espormi.
Avevo creduto di esserne capace, ma ora non ne ero più
sicura.
- Sasuke… – iniziai ancora, ma le parole
sembravano impastarsi sulla lingua e fermarsi tra i denti, e tutto
d’un tratto ero tornata bambina, con il ricordo di mio padre
che mi sorrideva, e poi improvvisamente non c’era
più.
Così, senza che avessi potuto farci niente.
Chiusi gli occhi e respirai a fondo, conscia che questa era
l’unica occasione che avevo per chiudere un cerchio che
altrimenti mi avrebbe perseguitata per tutta la vita, andasse come
andasse.
- Andiamo a fare un giro da qualche parte? – feci
uscire vigliaccamente per prendere tempo – ho bisogno di
camminare –
Non avevo un piano, qualcosa di preciso in mente, se non continuare a
gravitare attorno a lui ancora un poco, perché non sapevo
che altro fare.
Lo guardai indossare un tre quarti nero che gli avevo già
visto addosso, e in quel momento, vestito di nero, con quel suo sguardo
fiero e quel sorriso appena accennato, era più bello che
mai, così bello che mi faceva male al cuore.
- Hai ancora i capelli bagnati – notai –
fa freddo fuori –
Sorrise appena.
- So badare a me stesso –
- Non so, non ne sono tanto sicura – lo canzonai, e
poi rimasi a fissarlo senza più parlare, con
l’orribile sensazione di vederlo per l’ultima volta.
Mancava così poco, e io…io…ero
così inadeguata, così incapace di fare qualcosa.
Così impotente.
Eravamo lì, in piedi, a pochi metri di distanza, e
pareva una distanza incolmabile.
Lo seguii fino alla stazione del metrò e lasciai
che fosse lui a decidere la meta, e nel frattempo, mentre mi sedevo
accanto a lui e mi appoggiavo sulla sua spalla, gli chiesi nei dettagli
cosa avrebbe fatto, dove sarebbero andati.
Al momento avevano ben tre mesi programmati, scoprii, poi si sarebbe
visto, e gli spiegai che volevo conoscere tutte le loro tappe, per
avere un’idea di dove fosse quando pensavo a lui,
perché sapevo che lo avrei pensato sempre.
- Ho un regalino per te – mormorai poco dopo.
Gli presi la scatolina col plettro rosa che avevo rimesso in borsa da
un po’ e lo guardai mentre la scartava.
Sembrava sorpreso, e contento.
- Lo avevo preso per Natale, ma poi non te l’ho
più dato…non so se ti piace –
- Mi piace – sorrise guardandolo – mi
ricorderà te –
- Allora devi usarlo sempre –
Senza neppure rendermene conto avevo preso la sua mano ed avevamo
intrecciato le dita, che ora se ne stavano posate insieme sulla mia
coscia, come fosse il loro posto.
Quel contatto mi dava sicurezza e cominciavo a pensare che ce
l’avrei fatta.
Scendemmo ad una stazione a sud, molto in periferia, e poco
dopo raggiungemmo un sentiero che costeggiava la riva del fiume.
Non ero mai stata da quelle parti e mi piaceva l’idea di
essere in un posto sconosciuto assieme a lui, di poterlo aggiungere
alla collezione di cose che erano nostre ed avrei ricordato per sempre.
Gli stivaletti col tacco non erano esattamente le calzature giuste, e
ogni tanto dovevo controllare dove mettevo i piedi, ma non mi importava.
Camminando guardavo l’acqua che scorreva lenta e mi strinsi
il cappotto addosso per proteggermi dall’aria gelida.
- Vieni spesso qui? – domandai.
- Mi piace camminare in riva al fiume –
confermò, e mi resi conto che c’erano ancora
montagne di cose che non sapevo di lui.
Non era giusto, volevo saperle, volevo conoscere tutto di lui.
Tutto.
- Hai freddo? – mi fece poco dopo.
- Un po’ –
Mi passò il braccio attorno alle spalle, per scaldarmi, e in
un batter d’occhio non avevo più freddo,
c’era il suo corpo che mi scaldava, come mi scaldava la sua
presenza, mi scaldavano le sue attenzioni, i segni evidenti del suo
affetto.
Mi adagiai a poco a poco su di lui sentendomi rilassata e completa come
solo lui poteva farmi sentire.
– Non vorrei dirti addio – feci uscire
in un soffio, senza guardarlo.
Lui mi strinse ancora di più a sé, e a tratti mi
scrutava, lo sentivo.
- Ho in programma di tornare qui spesso, se vuoi possiamo vederci
–
Continuammo a camminare in silenzio e mi ostinai a guardare
l’acqua tentando invano di riordinare le idee: era la mia
occasione ma i pensieri erano così confusi che non ero in
grado di esternarli in parole.
- Che c’è? – mi chiese, quasi mi avesse
letto nel pensiero.
- Mi…mi vuoi bene? – sussurrai
imbarazzata.
Suonavo patetica, mi sentivo ridicola, ma avevo un disperato bisogno di
sentirlo, di sentirglielo dire.
- Ti ho sempre detto che mi piaci molto –
- Sì ma… mi vuoi anche bene?
– insistetti.
Solo per questa volta, solo per una volta volevo che me lo dicesse.
- Sì –
- E…non ti fa male sapere che andrai lontano?
–
Sentii che mi stringeva con più forza.
- Sì…ma va bene così
–
- Perché? – sussurrai, gli occhi sempre
fissi sull’acqua per evitare di guardarlo. Tremavo appena, ma
non era il freddo.
- Perché fa male anche vederti –
Faceva male, sì, lo sapevo, lo capivo perfettamente.
Camminammo ancora un poco ma non riuscivo più a distinguere
quello che avevo intorno, e quel bubbone di pensieri pareva sul punto
di scoppiare.
- Sai – mi fece – forse, se me
l’avessi chiesto, non sarei partito –
Valutai in silenzio quelle parole, quasi stupita.
- Ma io non te l’avrei mai chiesto – feci
uscire di getto – non avrei voluto che rinunciassi per me
–
Mi resi subito conto di come suonava ambigua quella risposta.
Ambigua come era sempre stata ambigua la mia posizione rispetto alla
sua così netta.
- Voglio dire…è la tua
vita…è importante, non voglio essere un ostacolo
per te – provai a spiegare, perché in futuro non
volevo essere solo un ricordo negativo.
Non volevo essere solo un ricordo per lui, pensai di colpo.
E mentre camminavamo, mentre mi stringeva e guardavamo
l’acqua, mentre mi diceva così serenamente che
avrebbe stupidamente rinunciato a qualcosa d’importante per
me, proprio per me, ecco, riuscivo quasi ad immaginare un finale
diverso, un futuro diverso, un futuro possibile cui non avevo mai
creduto veramente, quasi non lo meritassi, quasi fosse inevitabile per
me rimanere sola.
Ma lui mi aveva mostrato che non dovevo necessariamente essere sola,
non dovevo necessariamente essere cinica, non dovevo necessariamente
essere rassegnata ad una media, sicura, infelicità, e a
questo punto non importava più se era tardi, non volevo
finire tutto così, non volevo lasciarlo così, non
potevo, e non era più solo per me, era anche, soprattutto
per lui, perché nessuno aveva mai fatto niente per me,
nessuno, a parte lui, e dovevo almeno dirgli quanto mi aveva dato,
quanto mi aveva insegnato.
- …sono stata una stupida – buttai lì a
tentoni, perché in qualche modo dovevo pur cominciare
– col tizio della Ferrari è stato un errore fin
dall’inizio – continuai un po’
più sicura – …avrebbe potuto andare
bene se non ti avessi mai incontrato, avrei potuto continuare a credere
che le relazioni potevano essere solo in un modo, senza una vera
connessione, ma… – deglutii, e poi lasciai che le
parole fluissero liberamente, senza filtrarle – ma adesso non
posso più, no…non posso più,
perché so che non è così, e non posso
più pensare di vivere a metà, capisci? E
poi…poi volevo dirti che sei troppo importante per me, che
davvero sono cambiata tanto grazie a te, non sono neppure
più così egoista, e infatti voglio che tu sia
felice…e vorrei fare il possibile per farti felice,
e…e ti voglio tanto bene e… –
Mi interruppi.
Serrai gli occhi e continuai a camminare affidandomi solo alla sua
guida, sentendomi comunque sicura, perché mi fidavo
ciecamente di lui e gli avrei affidato la mia vita senza una sola
esitazione.
Mi sollevò di peso perché stavo per inciampare
sul terreno sconnesso e riaprii gli occhi ridendo e aggrappandomi a
lui, fino a quando non mi rimise a terra.
Ridevo ancora.
Riprendemmo a camminare e gli guardai il profilo colma di
un’inspiegabile felicità, che non aveva altra
causa se non quella di essere lì con lui.
– No, non è vero che ti voglio
bene…ti amo – confessai con l’eco di un
sorriso sulle labbra – sì, ti amo, e sono
così felice quando sono assieme a te…e
vorrei…vorrei poter rimanere sempre così, assieme
a te, costruire qualcosa con te, e non posso rinunciare a te, anche se
ora è tardi, se te ne vai e forse non ti vedrò
più –
Subito dopo rivolsi ancora lo sguardo sull’acqua che
scorreva, improvvisamente impaurita, così vulnerabile.
Ma ormai era fatta.
Continuammo a camminare, lui mi cingeva ancora con un braccio ma non
diceva niente, e cominciavo a pensare che mi avrebbe detto che per lui
non era lo stesso, e lo sapevo che sarebbe finita male, era ovvio, non
capivo come avessi potuto sperare che…
Mi bloccai perché si era fermato e mi tratteneva per la
vita, e prima che potessi rendermene conto mi aveva avviluppata in un
abbraccio e mi stringeva a lui.
Lo abbracciai a mia volta, non ancora sicura.
- Ti amo tanto tanto tanto – ripetei sul suo petto
– e se vuoi ti aspetto, anni anche, e se vuoi possiamo
vederci in qualche modo, possiamo almeno provarci, fare un tentativo,
e… –
Mi sollevò la testa e mi chiuse la bocca con un bacio, ed
era un bacio lento, pieno di dolcezza.
Mentre lo baciavo capivo, sapevo, che si trattava di una risposta, ma
ancora non mi bastava, avevo bisogno di conferme.
- Se lo vuoi anche tu – mormorai affannata subito
dopo – perché… –
Mi baciò ancora, e ancora, mentre mi teneva per la vita e mi
stringeva a sé, ma non era sufficiente, non poteva essere
sufficiente, dovevo essere sicura, dovevo ascoltare la sua risposta.
- E tu? – riuscii a proferire senza fiato, tra un
bacio e l’altro.
Appoggiò la fronte sulla mia.
- Ho sperato tanto che me lo dicessi…mi sembra una vita che
ti aspetto – confessò pieno di tenerezza, con una
luce negli occhi che era amore, che non potevo fingere di non riconoscere
– perché credo di essere sempre stato un
po’ innamorato di te, fin da quando eri una ragazzetta con la
puzza sotto il naso e pensavo che fossi la creatura più
bella che avessi mai visto in vita mia…e ancora lo sei per
me…ancora di più adesso che ti conosco –
Fui io a stringerlo forte adesso, un po’ commossa.
- Ora devi partire, lo so... – mormorai.
- Sono solo tre mesi, passano in fretta, e nel frattempo
troverò un modo per vederti –
- Ti aspetterò, e troveremo un modo, insieme
– precisai – …ti farò felice,
vedrai – promisi solennemente.
- Ed io un giorno ti ricoprirò d’oro
– promise in cambio, che sembrava una cosa così
fuori luogo, ma io sapevo che era una meravigliosa dichiarazione
d’amore, lo sapevamo solo noi due.
FINE
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Voi non lo sapete, o magari lo avete immaginato, ma questa storia ha
rischiato tanto, ma tanto di finire male, con Sakura che non trovava il
coraggio e loro due che si salutavano senza nessuna promessa, e forse
sarebbe stato perfino meglio farla finire così, non so.
Però almeno un tentativo di futuro insieme volevo darglielo,
poi chissà, starà a loro metterlo a frutto, nel
mondo parallelo in cui i personaggi di carta continuano a vivere!
In quanto al resto, devo dire che ci sono diversi aspetti della vita di Sasuke che ho trascurato, purtroppo, ed è quello che mi dispiace di più.
In ogni caso ormai anche quest’avventura è finita,
e come sempre mi sento un po’ svuotata e quasi in lutto. :(
Non so quando ci risentiremo, al momento mi sembra impossibile di poter
scrivere qualcos’altro, un po’ come quando un amore
finisce e sembra impossibile di poterti innamorare ancora. :D
Grazie mille per avermi seguita anche in questa avventura, e un enorme
grazie a tutte voi che avete avuto la pazienza di recensirmi e farmi
sapere che la storia vi piaceva.
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