Tra la ragione e il cuore

di afterhour
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***
Capitolo 19: *** 19. ***
Capitolo 20: *** 20. ***
Capitolo 21: *** 21. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Eccomi qua!
Ho battuto la fiacca in questo periodo, ho iniziato tre storie e le ho mollate tutte per strada, ma alla fine qualcosa ho partorito.
Confesso che è stata dura anche finire questa storia, ma mi sono fatta violenza e l’ho conclusa, più che altro perché volevo vedere anch’io come sarebbe finita, e sapevo che se non provvedevo io non lo avrebbe fatto nessun altro!:DD

Si tratta di un esperimento con un triangolo ed una Sakura un po’ stronzetta, che mi mancava per completare tutte le gamme dello spettro e in futuro passare ad altro, magari con qualcosa di meno ooc.
Poi ovviamente non mancano il romanticismo e i miei soliti sbrodolamenti emotivi.
Ultimo, non ho messo la parte dal punto di vista di Sasuke, per vari motivi che vanno da questioni pratiche ad altre più che altro narrative, e credo che a volte se ne senta la mancanza (o almeno l’ho sentita io), ma spero che attraverso gli occhi di Sakura si capisca ugualmente chi è lui.

Ed ora bando alle ciance, mi vergogno un po' a propinarvi sempre esperimenti più o meno imbarazzanti, e perdonatomi per il solito titolo orrendo, per non parlare del riassunto!
 




Tra la ragione e il cuore




1.

Rimboccai le lenzuola a mia sorella e le accarezzai lievemente la fronte: dormiva, e nel sonno sembrava serena, in pace.

Mi sollevai, e una volta giunta alla soglia della stanza guardai ancora la sagoma rannicchiata sul letto in posizione fetale, poi chiusi la porta il più silenziosamente possibile.

  - Sakura! –

Controllai l’ora e raggiunsi la camera di mia madre imprecando tra i denti.
Mia madre era a letto, tanto per cambiare, e si portava il dorso della mano sulla fronte in un atteggiamento petulante che conoscevo fin troppo bene.

 - Parla piano – spiegai frettolosamente.

 - Sta ancora male? A me pareva che fosse guarita! – minimizzò lei – Hai preso la mia ricetta?  –

 - Sì, oggi compro la medicina, c’è l’ultima pastiglia in cucina –

 - Portala qui con una brocca d’acqua…non so se riuscirò ad alzarmi…oggi sto così male…fortuna che tua sorella è a casa, sta meglio oggi, no?! –

Non sopportavo quel tono melodrammatico e piagnucoloso.
Non sopportavo mia madre.

Era un’egoista, e un’egocentrica.
Era anche un’ipocondriaca, e come tutti quelli convinti di essere ammalati si ammalava davvero, era piena di tagli di operazioni, cambiava il medico se solo esprimeva qualche dubbio, e probabilmente a quel punto era davvero invalida, dovevano essere gli effetti collaterali di tutte quelle medicine, per cui la pensione d’invalidità se la meritava tutta.
Col senno di poi potevo capire perché mio padre fosse sparito, una notte di tanti anni prima.

Andai in cucina e ritornai da lei con la medicina e la caraffa piena d’acqua, le appoggiai sul comodino, vicino al bicchiere vuoto.

 - Ora devo andare, non svegliare Moegi, ha ancora bisogno di riposare –

 - Devi proprio andare a scuola oggi, non puoi saltare? –

 - Non posso saltare le lezioni, lo sai –

 - Per una volta potresti, non succede niente…è nuova? – cambiò argomento improvvisamente attenta, sollevandosi sul gomito, e sapevo che si riferiva alla leggera camiciola in seta grigia che indossavo - Dove hai trovato i soldi? –

 - E’ un regalo – tagliai corto.

 - Vorrei sapere cosa fai per avere tutti questi regali – mi replicò scettica, prima di riprendere quell’espressione afflitta che non sopportavo.

In realtà non era un regalo, l’avevo acquistata con i soldi che racimolavo lavorando in un paio di posti, soldi che nascondevo in camera per comprarmi i libri che la borsa di studio non copriva e per le emergenze, ma non si sentivo in colpa, la camicia era costata pochissimo, ormai ero diventata un’esperta nello scovare cosucce al mercato dell’usato e avevo abbastanza buon gusto da riuscire a combinarle in maniera perfetta.
Vintage, mi dissi, non usato, in fondo quella era una camicia di marca, e in quel modo riuscivo ad avere sempre qualcosa di nuovo, ed esclusivo, che non aveva nessun altro, e non si trattava di un capriccio, ne avevo bisogno, perché avevo giurato a me stessa di tirare fuori me e magari mia sorella da quel buco e non tornarci mai più: avevo intenzione di diventare ricca, molto ricca, a qualunque costo.

Per questo frequentavo la scuola più prestigiosa di Konoha, per questo dovevo essere sempre abbastanza brava da guadagnarmi la borsa di studio necessaria, e per questo dovevo stare attenta a frequentare le persone giuste e l’ambiente giusto.

Non che potessi raccontarlo in giro, infatti nessuno sapeva niente di me in facoltà, e sicuramente non sapevano che vivevo in una casa popolare, che avevo problemi di denaro, o che i vestiti non arrivavano da qualche boutique esclusiva, e andava bene così.

__

La prima ora avevo lezione assieme a Ino, che era perfetta: alta, bionda, ricca e popolare.
Era anche intelligente ed aveva un notevole senso dello humor, a volte la trovavo inconsapevolmente crudele, spesso superficiale, ma chi non lo è, e poi era sincera e non aveva paura di niente, due qualità che apprezzavo molto ed erano difficili da trovare in giro per il mondo, qualsiasi posto si frequentasse.
Ero affezionata a lei, almeno per quanto mi era permesso dal momento che non potevo lasciarmi andare completamente, avevo troppe cose da nascondere.

 - Ma come si veste! – mi bisbigliò all’orecchio.

Eravamo sedute al solito posto nella classe di chimica, che era incredibilmente noiosa, e la ragazza seduta proprio di fronte a noi era una di quelle che Ino odiava senza un perché, dal momento che non le aveva fatto niente.
Non era che approvassi sempre la sua sottile cattiveria e la sua abilità nell’isolare le persone più deboli, ma onestamente preferivo essere dalla sua parte, per esperienza personale so quanto le donne possono diventare perfide tra di loro, e la solidarietà femminile è una bella parola, ma priva di agganci con la realtà.

 - Eccolo! – esclamò poi Ino, e mi diede una gomitata.

Stava entrando Kiba Inuzuka, e mentre andava a sedere mi guardò e sorrise.  

 - Non capisco perché non siete ancora insieme voi due –

 Mi vennero in mente diversi motivi, tutti piuttosto validi, ma non dissi niente, non potevo spiegarle che al momento non mi sentivo pronta a lasciare avvicinare una persona così tanto.
Però era un po’ che ci pensavo, prima o poi avrei dovuto intrecciare rapporti un po’ più stretti, era anche nel mio interesse, e forse Ino aveva ragione, forse era ora di lasciarsi un po’ andare, e Kiba non era male per cominciare: era carino, simpatico, aperto, proveniva da un buon ambiente, e soprattutto era un tizio tranquillo, nel senso che non pensava troppo a quello che gli si diceva, accettava le cose così come gli venivano dette senza metterle in discussione, che può sembrare un modo carino per dire che uno è stupido, ma non lo è, non completamente almeno.
Forse potevo almeno provare ad uscire con lui e vedere come andava, ed era da un po’che Ino mi chiedeva di uscire con loro.

Più tardi chiamai mia sorella a casa.

 - Sakura… – iniziò lei, e già non mi piaceva quel tono piagnucoloso che mi ricordava un po’ troppo mia madre.

Ascoltai comunque pazientemente e tentai di rassicurarla.

 - Devi cercare di non pensarci più, è andata, fatta…finita…ed è meglio che domani torni a scuola – l’avvisai prima di riagganciare, perché rimanersene chiusa in casa con la loro madre non era certo salutare per nessuno e probabilmente era l’ultima cosa di cui sua sorella aveva bisogno.

La prima invece era andarsene da lì, cambiare ambiente, perché evidentemente frequentava delle pessime compagnie, come si deduceva dal fatto che era rimasta incinta a quindici anni.
E a pensarci bene, per trovare un lato positivo, avrebbe potuto andarle molto peggio: avrebbe potuto prendersi una malattia grave, o mettersi nei guai con la legge, o con la droga, o anche innamorarsi perdutamente di un pazzo criminale e scappare di casa, mentre almeno a quel problema avevamo potuto rimediare prima che fosse troppo tardi.

Ero stata io che mi ero informata, che avevo preso l’appuntamento ed avevo accompagnato mia sorella all’ospedale, io che l’avevo spinta ad andare avanti quando aveva manifestato dei dubbi, perché la conoscevo e sapevo che non era in grado di prendersi nessuna responsabilità al momento, neppure quella di decidere cosa fare.

Avevo minimizzato spiegandole che si trattava solo di un embrione, che non era niente, che studiavo medicina anche se ero solo al primo anno, e lo sapevo, ma erano solo parole in fondo, e alla fine, in nuce, era una vita quella che avevamo cancellato, e capivo perfettamente il dolore di Moegi, ed anche i suoi sensi di colpa.
Per quello avevo cercato di caricarmi io di quel peso, in modo che mia sorella potesse incolpare me, non se stessa, perché io ero forte e potevo portarne il peso.

Così le avevo tenuto la mano e le avevo sorriso rassicurante mentre lei mi fissava con quello sguardo smarrito, incredulo, e colmo di tristezza.
Uno sguardo che non avrei mai dimenticato.

E intanto quel bastardo che l’aveva messa incinta non si era posto neppure il problema, lo stronzo.
Non ero ancora riuscita a farmi dire chi era il bastardo e nel dubbio squadravo con sospetto tutti i ragazzi del quartiere tentando di scorgervi un segno, un indizio, non che contassi di vederne uno, a quelli non fregava niente di niente.
Feccia.

E pensare che avevo riempito mia sorella di miliardi di raccomandazioni, e che personalmente ero sempre stata paranoica proprio per evitare di trovarmi di fronte a quella scelta, tanto che con il mio ragazzo, l’ultimo anno del liceo, avevo usato ogni volta il preservativo, anche quando avevo iniziato a prendere la pillola.
Meglio esagerare che correre rischi, mi ero detta, ma alla fine nella vita c’è sempre qualche imprevisto che ti frega, e quella scelta che non avrei mai voluto fare l’avevo dovuta fare lo stesso, e neppure su me stessa, ed al momento mi pareva un peso doppio da portare.

Passai il resto della mattina a prendere appunti, e a chiacchierare e scherzare con i pochi amici che mi ero fatta, e con Kiba, cui forse, forse, potevo dare una chance, chissà.

Presi la metropolitana alla solita ora e tirai fuori un libro per evitare che qualcuno attaccasse discorso.
Neppure guardavo chi saliva e si sedeva accanto a me.

Mi interruppi solo per rispondere ad alcuni messaggi al cellulare, e feci per riprendere a leggere.

 - Ciao! –

Ignorai il saluto, di sicuro non si rivolgevano a me, e cercai il punto della pagina in cui ero arrivata.

 - Dico a te! Sei Sakura vero? –

Sollevai appena lo sguardo, seccata, e mi trovai seduti di fronte Naruto Uzumaki e Sasuke Uchiha, due perdenti che vivevano dalle mie parti.

Quando ci eravamo trasferite in quel quartiere avevo solo dodici anni, ma già avevo deciso che quell’ambiente non mi apparteneva, che meritavo di meglio (si trattava di buon senso, non presunzione), per cui avevo costretto mia madre ad iscrivermi in una scuola lontano da lì ed avevo evitato i ragazzi della zona, ma questo non mi aveva impedito di farmi un’idea (per lo più negativa) su tutti loro: in fondo, volente o nolente, li vedevo spesso.

Naruto era un pagliaccio senza futuro e senza cervello, Sasuke era uno stronzetto arrogante che probabilmente, grazie a tutta quella boria, un giorno avrebbe fatto una gran brutta fine.
Gentaglia.

Inoltre, come tutti i maschi che abitavano nel quartiere ed erano sotto i venticinque (mi rifiutavo di prendere in considerazione gente più grande), erano sospettati di avere messo incinta mia sorella: Moegi aveva avuto una cotta durata anni per Sasuke, compresa di pedinamenti e ridicole letterine, e mi parlava sempre con ammirazione di Naruto, in più facevano parte ambedue di uno stupido gruppuscolo di rock inascoltabile, e quelle cose attiravano sempre ragazzine senza cervello qual era mia sorella al momento (si sperava che crescesse e maturasse).

Li squadrai dall’alto in basso.

Erano vestiti malissimo, il biondo, Naruto, con un’oscena camicia arancione e blu aperta su una t-shirt bianca, l’altro, con i capelli nerissimi ancor più arruffati del suo amico, indossava una maglietta nera senza marca e scolorita.
Ambedue avevano jeans sdruciti e anfibi allacciati male ai piedi.
E almeno non si vedevano i tatuaggi di cui sapevo erano provvisti.

Mio malgrado soffermai un po’ più lo sguardo su Sasuke Uchiha, che vedevo ogni venerdì pomeriggio, purtroppo, dal momento che tra tutti i posti in cui poteva lavorare, era proprio nello squallido bar di fronte allo studio dell’estetista in cui lavoravo io. Era piuttosto belloccio, dovevo concederglielo, glielo avevo sempre concesso, ma quando incrociai i suoi occhi neri mi affrettai ad abbassare lo sguardo: quegli occhi erano come due pallottole di pece che trapassavano ogni barriera, e parevano scavarmi dentro.

 - Ma cosa studi? – esclamò l’idiota, Naruto, che allungava la testa per sbirciare – sembra difficile! Anche Sas’ke studia sai...solo perché non ha fede in noi – si era interrotto per dare una gomitata all’amico – perché io so che diventeremo ricchi e famosi…e anche presto! – aggiunse ghignante.

Come no.

 - E’ perché studi quella roba difficile che non esci mai? – insisteva quello – secondo me ti fa male, dovresti divertirti qualche volta…perché non esci con noi? Una di queste sere passo a prenderti se vuoi, so dove abiti, è vicino a casa mia… –

 - Mi dispiace ma non posso, sono impegnata – risposi, anche se lui non aveva specificato il giorno  –…ora devo finire di leggere la pagina, scusate – chiusi il discorso.

Feci in tempo ad incrociare lo sguardo intenso del suo amico e feci finta di non notare il suo odioso sorriso beffardo prima di riprendere a leggere ed ignorarli apertamente.

 - Secondo me studia troppo – sentii parlare Naruto, che era il tipico discorso da perdente che non avrebbe combinato mai niente nella vita.

Per un po’ ascoltai ancora vagamente i loro discorsi, parlavano di qualcuno che doveva vederli, o aiutarli, ma smisi interamente quando iniziarono a discutere di musica che non seguivo e non capivo.

Tuttavia dovevo ammettere che la voce di Sasuke Uchiha era piacevole all’orecchio.
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Devo ancora trovare un nome per la band, ho il vuoto...non è che qualcuno ha un'idea?

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Capitolo 2
*** 2. ***


Eccomi qua con il secondo capitolo, spero solo non ci siano errori perché non l’ho riguardato benissimo.




2.


Da poco avevo iniziato a lavorare due volte la settimana in un negozio di fiori del centro, grazie ad Ino, la cui famiglia gestiva una ditta che importava fiori ed aveva diverse fiorerie in città.
Con lei non intendevo ancora scoprirmi, non mi fidavo abbastanza e forse non mi sarei fidata mai, per cui le avevo solo raccontato che cercavo un lavoretto senza specificare che ne avevo un bisogno estremo, e poche ore dopo avevo già il posto: amavo frequentare gente ricca.
Davvero.

Purtroppo, dal momento che i soldi non erano mai abbastanza, avevo mantenuto il vecchio lavoro del venerdì pomeriggio, un lavoro di cui non andavo molto fiera e di cui Sasuke Uchiha era testimone, il che me lo rendeva ancora più inviso.
Non era tanto il fatto che il gestore dell’Estetica Haku fosse un travestito, o che il mobilio e il personale fossero non solo vecchi e messi male, ma anche imbarazzanti nella loro pacchianeria, era più che altro il fatto che il posto si trovava nel quartiere sbagliato, e di conseguenza era frequentato dalle persone sbagliate: signore obese che si truccavano come drag queen e portavano unghie così lunghe da risultare antiigieniche, per fare un esempio estremo.
Ed io ero la fortunata che veniva pagata per truccarle e mettere loro lo smalto.

  Il lato positivo era che il quartiere non distava molte fermate da casa mia ed era lontanissimo dalla zona universitaria.

Sollevai la testa e guardai dall’altra parte della strada.
Tenevo sempre le tende aperte, per la luce, alle mie clienti non importava affatto di essere viste dai passanti, e da lì potevo dare un’occhiata alla vetrina del bar di fronte, un posto che aveva visto tempi migliori ed era frequentato perlopiù da vecchi e perditempo (e da coloro che lavoravano nei dintorni, ovviamente, a parte la sottoscritta che preferiva evitare di entrarci, se non in casi estremi).

Sasuke Uchiha lavorava proprio lì, dalla mia postazione avevo una buona visuale dei suoi movimenti e del suo bel faccino, e devo ammettere che da sempre ogni tanto lo sguardo scivolava su di lui, come per caso ( la carne è debole) ma dal momento che continuavo a sospettare di lui, ultimamente lo scrutavo più di frequente ed ogni tanto mi beccava pure.

Il fatto era che non l’avevo ancora digerita quella storia di mia sorella, non dormivo così beatamente la notte, non come avrei dovuto, e forse se avessi potuto sfogarmi con quel disgraziato che ci aveva ficcate in quella situazione mi sarei sentita meglio.

Moegi a dire la verità si stava riprendendo davvero in fretta ed aveva ricominciato a chiacchierare di vestiti e ragazzi, ma proprio a proposito di questi ultimi, non mi era piaciuta affatto la luce che le avevo visto negli occhi una volta in cui le avevo chiesto di Sasuke, era uno sguardo sognante decisamente sospetto, molto sospetto, e, ecco, dal momento che non potevo indagare con lei avevo mezza idea di buttare lì qualche accenno con lui e vedere se abboccava all’amo.
Naturalmente il venerdì pomeriggio era l’occasione giusta, e mi stavo chiedendo se questo fosse un caso abbastanza estremo da farmi entrare in quel bar con la scusa del caffè, o se era meglio raggiungerlo al metrò e sedermi casualmente al suo fianco (il fatto che io sia riservava non significa che sia anche diplomatica).

Mentre ero lì che lo squadravo si voltò e se ne accorse, e subito mi affrettai a distogliere lo sguardo, seccata, ma poco dopo lo sbirciai ancora: questa volta mi stava guardando lui, e rimanemmo a fissarci per alcuni secondi, fino a quando non entrò la mia nuova cliente e non fui costretta ad occuparmi di lei.
Dato che mi aveva colta nell’atto di guardarlo dovetti anche subirmi i suoi commentini sulle mie intenzioni e sulle doti fisiche del soggetto in questione, che evidentemente interessava anche a lei, non che avesse qualche speranza per quanto lui potesse avere standard bassi, ma le diedi corda, perché era parte del mio lavoro ruffianarmi le clienti, un altro particolare che odiavo.

Il resto del pomeriggio lo passai a lavorare e sbirciarlo di soppiatto.

Alla fine avevo deciso di non andare al bar, non ne avevo voglia, e dopo aver salutato tutti uscii con l’intenzione di seguirlo: di proposito lo avevo osservato parlare con un tizio sulla soglia del bar e poi dirigersi verso la fermata del metrò, e mi sentivo investita di una specie di missione.  

Proseguii lungo la strada fino a quando non incontrai il vecchio un po’ suonato che chiedeva l’elemosina lungo la strada strimpellando una vecchia chitarra scassata.
Sasuke era piegato sulle ginocchia accanto a lui e sembrava intento ad accordargli la chitarra, mentre il vecchio parlava e sputacchiava contemporaneamente.
Una coppia ben assortita, niente da dire.

Passai davanti a loro senza nemmeno guardarli.

 - Bella ragazza, di classe, eh? – sentii biascicare il vecchio.

Avrei fatto volentieri a meno di quella categoria di ammiratori.  

Sasuke mi dava le spalle, per cui non riuscii a cogliere la risposta, ma vidi con la coda dell’occhio che il vecchio si metteva a ridere, e non era un gran bello spettacolo dal momento che gli mancava un incisivo.

Giunta alla mia fermata avevo deciso di lasciar perdere per quel giorno, non intendevo rimanere ad aspettarlo e mettergli così in testa chissà quali idee, ma proprio quando il treno era arrivato e stavo per salire lo vidi spuntare, per cui mi affrettai a seguirlo nella sua stessa carrozza.
Mi sedetti sfacciatamente di fronte a lui, e se non avevo le traveggole (mi sembrava poco consono alla sua immagine da duro), mi sbirciò le gambe accavallate prima di chiudere gli occhi.
Ero indignata.
Davvero.
Evidentemente ero stata ottimista nel pensare che la mia opinione su di lui non potesse scendere più in basso.

 - Sei Sasuke, vero? –

Meglio non perdere tempo.

Lui sollevò le palpebre e mi guardò con quei suoi maledetti occhi neri.
Bastardo.
Non era facile reggere il suo sguardo ed ero sicura che lo sapesse.

Aveva nascosto bene la sorpresa e continuava a studiarmi in silenzio, ma non mi feci intimidire.
 
 - Volevo avvisarti di stare lontano da mia sorella, tu e i tuoi amici – buttai lì, bando alla diplomazia.

- Hai sbagliato persona – rispose non molto colpito.

Stronzo.

 - Li conosco quelli come voi –

 - Pffh –

 - Scommetto che ti fai un sacco di ragazze… -

Mi fissava infastidito ora, e mio malgrado mi mossi a disagio sulla sedia, sforzandomi di reggere il suo sguardo acceso.
Credo volesse incutermi paura il bastardo, e quasi ci riusciva.

- Non ti facevo così stupida – mi chiuse definitivamente la bocca, e rimase a guardarmi con una luce aggressiva negli occhi mentre mi irrigidivo mio malgrado, leggermente imbarazzata, lo ammetto.

Non è facile lasciarmi senza parole, ma al momento non mi veniva una sola risposta adeguata, così dopo aver borbottato l’espressione ‘stronzo’ avendo cura di farmi sentire da lui, decisi che la tattica migliore era quella di ignorarlo, per più o meno il resto della vita.
Quello invece aveva chiuso gli occhi come se proprio non esistessi, lo notai perché lo sbirciavo di sottecchi, e quasi pensavo che si fosse addormentato davvero, invece si alzò di lì a poco e dopo avermi dato una lunga occhiata scese alcune fermate prima della nostra, diretto chissà dove.

Credo pensasse che fossi impazzita di colpo.

Il giorno successivo l’avevo rivisto per strada, in giro per il quartiere, e non lo avevo degnato di uno sguardo, e il venerdì della settimana successiva, quando mi accorsi che mi fissava spesso dall’altra parte della strada, tirai la tenda e mi accontentai della brutta luce artificiale; infine, quando più tardi lo notai alla fermata del metrò, mi piazzai di proposito il più possibile lontano da lui, sbirciandolo irrequieta.
Ad un certo punto si voltò verso di me e mi affrettai a girare la testa dall’altra parte, ma potevo ancora sentire il suo sguardo puntato su di me, come un pizzicore sulla nuca che mi metteva a disagio.
Non distolse gli occhi quando mi girai decisa dalla sua parte per affrontarlo, e per un secondo ci fissammo: il suo sguardo intenso pareva avere una forza sua, e mi ritrovai stupidamente senza fiato.
Bastardo.

Finalmente arrivò il treno e salii un paio di carrozze più in là, ed una volta scesa rimasi indietro fingendo di frugare in borsa, intanto lo seguivo di sottecchi mentre si incamminava lungo la strada senza voltarsi mai.

‘Non ti credevo così stupida’.
Stronzo.
Lo avevo sottovalutato, per quello non ero riuscita a replicare, non me l’aspettavo, ma ormai la figuraccia era fatta, non era il caso di farsi condizionare e dovevo dimenticarmene al più presto, è inutile piangere sul latte versato.
 
Nel frattempo c’erano cose più importanti di cui occuparsi, come il fatto che non dormivo bene da giorni: mi svegliavo spaventata nel cuore della notte e non ricordavo mai cos’avevo sognato: rimanevano solo sensazioni confuse, angoscianti, che mi lasciavano un’eco sgradevole, e spesso dopo non riuscivo più a riaddormentarmi e mi rigiravo nel letto sempre più irrequieta.

Ero stanca, e nervosa.

Quel mercoledì pomeriggio non dovevo lavorare e tornai a casa presto per sbrigare alcune commissioni prima di cominciare a studiare, preferivo fare la spesa di persona dal momento che Moegi non aveva alcun senso del denaro.

Mia sorella stava meglio, davvero meglio, sorprendentemente meglio, anzi, chiacchierava delle sue amiche come se fosse l’unico suo problema.
Ero solo io quella che non dormiva di notte?

 - Allora…tutto bene a scuola? – le chiesi tranquillamente mentre contavo i soldi per la spesa.

 - Sì, sì…mi presti le scarpe rosse domani? –

 - No – non erano certo scarpe da indossare a scuola.

Mia madre neppure si era alzata dal letto e brontolava dalla sua stanza.

Ignorai eroicamente il muso di una e le lamentele dell’altra, ed uscii, diretta al supermarket lì vicino.

 Quando passai di fianco alla strada che portava a casa di Sasuke (me l’aveva indicata Moegi una volta), mi girai dall’altra parte corrucciata: avevo ancora i miei sospetti su di lui, ma al momento mi toccava tenermeli.
Di riflesso ricordai per l’ennesima volta la figuraccia che mi ero fatta quella volta, non che importasse veramente, lui non era una delle persone di cui mi importasse l’opinione, però ancora mi imbarazzavo al ricordo (come se non fosse abbastanza imbarazzante che mi vedesse lavorare in quell’orribile posto ogni venerdì), e sotto sotto speravo che si trasferisse in qualche altro quartiere, o meglio città, o continente, o magari che finisse sotto una macchina: lo so, non è una bella cosa da pensare, ma non mi sentivo in colpa, mica i pensieri ammazzano le persone.

Cacciai queste fantasie importune ed entrai nel supermarket, ma quando parli del diavolo ne spunta subito la coda, è matematico, ed evidentemente la cosa funziona anche con il pensiero, perché mentre ero intenta a scegliere tra i barattoli di polpa di pomodoro in offerta mi vidi passare in fondo alla corsia proprio Sasuke Uchiha.
Non era la prima volta che ci incontravamo in giro, in fondo abitavamo nello stesso quartiere, ed avevo già deciso di limitarmi ad ignorare la sua esistenza come facevo prima, ma quel giorno non avevo proprio voglia di trovarmelo di fronte e far finta di ignorarlo, non ero in vena, ero stanca e irritabile, per cui tentai di rendermi invisibile, mi affrettai a buttare nel cestino le ultime cose nella lista e mi diressi alla cassa guardandomi intorno con aria circospetta.

Svuotai il cestino nel nastro in tutta fretta e dopo aver tirato fuori i soldi mi concentrai esclusivamente sul sacchetto che avevo portato da casa e faticavo ad aprire.

 - Mancano soldi –

Smisi di riempire il sacchetto che ero riuscita finalmente ad aprire e guardai la cassiera senza ben capire.
Non era la solita che conoscevo, quella che mi faceva anche credito a volte, era una tizia brutta e sconosciuta.
E antipatica.

 - Mancano soldi – mi ripeté facendomi sentire una povera idiota.

 Controllai il display e mi misi a frugare in borsa alla ricerca di qualche spicciolo sperduto, di solito stavo molto attenta e calcolavo tutto, ma ero stanca e avevo fatto in fretta per sfuggire a…quello che stava appoggiando le cose sul nastro dietro di me.
Ma faceva apposta?
Mi seguiva?
Era una specie di Nemesi che mi ero meritata per tutti i miei peccati di presunzione?
Ripresi a rovistare in borsa con più frenesia, invano dal momento che in mezzo a quel casino avrei faticato a trovare qualcosa anche se non fossi stata così nervosa.

 - Allora? Devo togliere qualcosa? – continuava la cassiera, che non mi aiutava per niente con i suoi modi bruschi.

 - Metto io quello che manca–

Sorpresa mi voltai a guardare Sasuke che appoggiava qualche moneta sul carrello.

Ci mancava solo questo.

 - Non occorre – mormorai seccata e ancora più a disagio, e mentre allungavo la mano per prendere i soldi e restituirglieli lui aveva fatto lo stesso, e le nostre dita si erano toccate.
Era stupido, e non lo avrei mai raccontato a nessuno, ma mi era venuta la pelle d’oca, proprio come si legge nei romanzetti di quart’ordine, e mi affrettai a togliere la mano come scottata. Lui ne aveva approfittato per prendere gli spiccioli e consegnarli alla cassiera, che improvvisamente era tutta un sorriso, la stronza.

 - Te li restituisco – bofonchiai mentre finivo di imbustare.

Odiavo essere in debito, non volevo essere in debito con lui, tra tutti.

Me la filai senza guardarlo, ma con la coda dell’occhio notai che aveva preso solo latte e birra, chissà di che robaccia si nutrivano quei trogloditi.

Mi precipitai a casa inspiegabilmente turbata.

 - Ho incontrato Sasuke al supermercato – buttai lì a Moegi mente sistemavo la spesa in credenza, non perché la cosa fosse importante ma perché ogni tanto tentavo ancora di buttare lì il discorso sperando di carpirle chissà quale rivelazione – Vive da solo? –

 - Sì –

Ecco, aveva anche la casa libera per farsi i suoi porci comodi con povere ragazzine indifese.

  - Ma c’è qualcuno con una famiglia normale tra quelli? Sono tutti orfani e disadattati? – replicai irritata, con me stessa probabilmente.

 - Cosa c’entra! – protestò subito lei – e poi non è mica orfano! Sua madre si è risposata e suo padre è via, Ami dice che è in prigione ma quella è stupida…e forse ha anche un fratello –

Che bella famigliola, davvero, mi dissi ipocritamente dal momento che anche noi non eravamo esattamente un bell’esempio.

 - …sei invidiosa perché è più indipendente di te! –

Già, ma bisognava vedere alla lunga che fine faceva, io avevo progetti ambiziosi, non intendevo vivere in un buco e sudare per arrivare a fine mese per il resto dei miei giorni.

 - E te l’ho detto cento volte come si chiama la loro band, sono bravi sai! –

 - A me basta che ti stiano lontano – mi feci scappare nervosa.

 - Sei odiosa! Ti odio! – urlò lei mortalmente offesa, chissà perché.

Subito dopo si era rinchiusa in camera sbattendo la porta, cosa che non mi impressionò particolarmente, capitava spesso, e di rimando, ovviamente, mia madre mi aveva chiamata per lamentarsi.

Che se ne andassero a quel paese tutte e due.
Andai in camera, tirai fuori i libri e mi misi a studiare, sperando nessuno mi disturbasse: grazie al cielo quel vecchio appartamento delle case popolari aveva tre camere, bisogna guardare ai lati positivi della vita.
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Ho fatto un giro di parole per prendere tempo e pensare ancora un po’ al nome del gruppo…cosa mi tocca fare!  


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Capitolo 3
*** 3. ***


Niente da dire su questo capitolo, è uno di quelli di transizione.




3.




Nonostante non dormire fosse una vera e propria tragedia per le mie occhiaie oltre che per il mio umore, e nonostante il venerdì, a causa del lavoro da Haku, fosse il giorno della settimana che odiavo maggiormente, quel pomeriggio ero di splendido umore.
La sera prima, mentre ancora lavoravo nella fioreria in centro (un lavoro dignitoso, quello) avevo incontrato un uomo, non uno qualsiasi, ma uno che rappresentava in maniera quasi perfetta il mio tipo ideale, altro che quel sempliciotto di Kiba.
Era venuto a scegliere un mazzo di fiori da regalare alla padrona di casa per una cena cui era invitato, ed aveva tutto quello che una donna poteva desiderare: bei modi, charme, e soldi.
Non appena lo avevo visto entrare avevo pensato, ecco, è lui (ormai ho un certo radar per adocchiare i vestiti e gli accessori costosi), e mi ero avvicinata con il sorriso più professionale che avevo, perché non volevo mostrarmi troppo interessata, però nel contempo dovevo apparire il più garbata e affascinante possibile, nonché sofisticata, ovviamente.
Un lavoro.

Alla fine eravamo rimasti per più di mezz’ora a chiacchierare, e nel frattempo avevo avuto modo di studiarmelo attentamente.
Era proprio un signore, si capiva da come vestiva, da come parlava e si muoveva, con una leggerezza dovuta al fatto che non doveva dimostrare niente, anche se in qualche modo, in quel breve lasco di tempo, era riuscito ad infilare dentro al discorso il fatto che i suoi possedevano un’importante compagnia di import export con sede dalle sue parti, a Suna, musica per le mie orecchie, che lui ne era l’erede, guarda caso, nonché altri rimandi qua e là ai suoi numerosi possedimenti (non era granché modesto, ma avrei chiuso volentieri un occhio). A quanto pareva conosceva molta gente importante lì a Konoha (mi aveva spiattellato anche le sue conoscenze, probabilmente per impressionarmi), e vi capitava spesso per lavoro, e confesso che il fatto che non abitasse qui non mi dispiaceva per niente, anzi, mi faceva sentire più libera.
Se ne era andato dopo avermi dato il suo biglietto da visita e soprattutto dopo aver preso il mio numero di telefono, nel caso avesse bisogno di contattarmi.

Avevo infilato il biglietto da visita in borsa con un sorriso stampato in faccia, e il buon umore ancora faticava ad andarsene, nonostante ora fossi lì a rimettere nel cassetto l’orribile smalto rosa fosforescente che avevo appena usato per una cliente.
Subito dopo mi voltai e attraverso la vetrina vidi la testa scura di Sasuke Uchiha, dentro al bar dall’altra parte della strada, e mi ricordai del debito.
Mi irritava quella cosa, era una questione d’onore, ecco.
Ancora piuttosto carica chiesi ad Haku se potevo uscire cinque minuti per andare al bar, e dopo avere promesso di portare il caffè per tutte loro (con Haku che commentava scherzando di non rubarle il barista), attraversai la strada impaziente dicendomi che in fondo avevo davvero bisogno di un caffè, per quanto quello che facessero lì fosse quasi imbevibile, e con quel quasi ero generosa.

Lui stava servendo ad un tavolo ed aspettai che ritornasse, in piedi di fronte al bancone.

 - Un caffè – gli feci poi – ed altri tre da portare al salone –

Tirai fuori le due monete che avevo preparato in precedenza.

 - Pago anche il mio debito – aggiunsi piazzandogliele davanti.

Solo allora sollevai lo sguardo ed incontrai il suo.
Mi fissava con quegli stramaledetti occhi scuri, e d’improvviso mi chiesi come potessi sorprendermi di mia sorella, poverina, se anch’io ogni volta che incrociavo quegli occhi mi sentivo rimescolare lo stomaco.

Continuai a fissarlo in qualche modo offesa.

Lui non abbassava lo sguardo, ed era una specie di sfida ora, e per un momento, mentre ci stavamo fissando, era stato non solo come mi stesse soppesando, ma come se mi guardasse dentro, se vedesse esattamente tutte le mie debolezze, i dubbi, le piccole e grandi insicurezze che anch’io nascondevo sotto sotto, soprattutto in questo periodo non proprio esaltante della mia vita.
Come se vedesse esattamente il mio bluff.
Bastardo, lo odiavo.

Distolsi lo sguardo indignata, bevvi il caffè senza aspettare di mettere lo zucchero, tutto d’un fiato dal momento che faceva più schifo di come lo ricordavo, e me ne uscii con gli altri caffè sul vassoio senza che ci fossimo rivolti una sola parola in più.
“Non ti facevo così stupida”.
Mi innervosivo solo nel ricordare quelle parole, ed avrei voluto fargliele rimangiare in qualche modo, quel bastardo, ma non sapevo come, e non avrebbe dovuto importarmi così tanto.

 - Sakura, cara, non è meravigliosa questa pettinatura? –

Guardai disgustata l’ignobile cofana rossa dell’altrettanto ignobile donnone massiccio.  

 - Forse, qualcosa di più sobrio – tentai.

 - Sobrio, sobrio…noi non siamo gente sobria, noi amiamo l’eccesso! –

Ma va?! Chi lo avrebbe mai detto.

Fu l’altra ragazza che lavorava lì, una che andava in giro con le unghie lunghe due centimetri, i capelli giallo canarino ed un top in paillettes che strizzava un seno esagerato quanto il resto, per spiegarsi, che uscì per riconsegnare il vassoio con le tazzine vuote.

Tornò dopo mezz’ora, la lavativa, dalla vetrina la vedevo chiaramente fare gli occhi dolci a Sasuke Uchiha, e al ritorno Haku fece le solite battute: era una specie di rito ormai scherzare sul presunto amore tra il barista e le ragazze dell’Estetica Haku, tra le quali era compreso, o meglio compresa, anche Haku, benché fosse impegnata da anni.

Finii di lavorare qualche minuto in anticipo quel giorno, quasi spaventata all’idea di poterlo incontrare, e quando incrociai il barbone che strimpellava sempre la chitarra pensai ancora a lui: come si fa ad essere amici di un barbone…
Dio, che perdente.

Ed era assurdo che continuassi a pensare a lui, dovevo smetterla!
__

La settimana successiva ero proprio su di giri, o meglio, dormivo ancora male e ogni tanto sentivo il bisogno di ripetermi che con mia sorella avevo fatto la cosa giusta, come se non ne fossi ancora del tutto convinta (il che era ridicolo) ma ero anche eccitata: il tizio dei fiori mi aveva richiamata.
Niente di particolare, non era neppure in città, ma mi aveva chiesto come stavo e mi aveva parlato un po’ di quello che stava facendo, cosucce noiose che tentavo di memorizzare per le nostre conversazioni future, e soprattutto, mi aveva chiesto di rivederci una volta che fosse riuscito finalmente a tornare a Konoha.
Ovviamente avevo risposto di sì.

Quel venerdì avevo ancora un gran sorriso, o meglio, all’apparenza ero piuttosto seria, ma sorridevo dentro, e soprappensiero mi ritrovai più volte a sbirciare dall’altra parte della strada.
Probabilmente era per il fatto di vederlo lì regolarmente, settimana dopo settimana, che mi capitava di cercarlo con lo sguardo, giusto?

Tirai in parte la tenda e ripresi a farmi i fatti miei fino a quando non ricevetti una telefonata.
Il lato positivo di lavorare in quel buco era lo stesso che di solito disprezzavo con tutte le mie forze, ovvero l’andazzo generale che sapeva di anarchia e disorganizzazione, grazie al quale ora potevo tenere il cellulare sottomano con la suoneria al massimo e nessuno aveva niente da ridire, e sempre grazie al quale me ne uscii in strada in tutta fretta per rispondere all’uomo dei miei sogni lontano da orecchie indiscrete.

 - Allora, come va, sei in mezzo ai fiori? – mi chiese Sasori, così si chiamava il tipo.

Ridacchiai per non mentire spudoratamente, non era pronto a conoscere i miei lati oscuri, non sarebbe stato pronto mai mi sa, una donna ha i suoi segreti, no?!
 - …ma sei un fiore anche tu – continuava lui, che era anche un po’ gigione – …il tuo nome, i tuoi colori

Tutto sommato ero lusingata dai suoi ridicoli complimenti, e scherzammo lievemente per un po’, prima che iniziasse a parlarmi di questo meeting cui doveva partecipare e non gli lasciava tempo per altro, come se a me fregasse qualcosa, per poi concludere dicendo che mi avrebbe fatto sapere quando riusciva a liberarsi e tornare a Konoha, sperava presto.

Chiusi la telefonata con un enorme sorriso in faccia, non solo interiore, e decisi che visto che ero già fuori potevo andare al bar a bermi un caffè.

Non entravo quasi mai in quel postaccio e questa era la seconda volta nel giro di poco tempo, che Sasuke non si mettesse in testa strane idee, ma non appena mi voltai ed incrociai il suo sguardo mi sentii stupida.
Nella mia vita contava meno di zero, ma la cosa probabilmente era reciproca.

Lo guardai con l’eco del sorriso ancora sulle labbra, una rarità dal momento che non sorridevo spesso, soprattutto esteriormente, soprattutto a gente come lui, ma mi sentivo allegra, leggera come una piuma, ed anche Sasuke Uchiha non mi pareva più così minaccioso.

Gli ordinai un caffè e me lo preparò subito dal momento che lì dentro c’erano solo due habitué che erano serviti da tempo.

Dato che non ero così masochista da ripetere l’esperienza di berlo ancora una volta amaro, presi e scartai le varie bustine di zucchero.

 - C’è zucchero di canna? – gli chiesi senza guardarlo, ora un po’ sostenuta. Che schifo di bar.

 - Ecco, duchessa– mi fece porgendomelo.

- E’ così che mi chiamate, voi? – replicai ironica alzando gli occhi, il buon umore che mi impediva di prendermela.

 - Ti si addice –  

- Perché non mi amalgamo? Non è niente di personale – spiegai dopo aver svuotato su quella brodaglia due bustine di zucchero, e ancora non bastava per migliorarne il sapore – sono solo stufa di dover fare i conti anche solo per permettermi un caffè al bar… o di farmi prendere dal panico ogni volta che un professore ci chiede di comprare un nuovo libro – continuai, incurante di mostrarmi così apertamente a lui, tra tutti – stufa di risparmiare sul riscaldamento per paura della bolletta, e stufa di arrivare agli ultimi giorni del mese che non ho soldi neppure per comprarmi il latte…non voglio più avere a che fare con poveracci, tanto meno instaurare rapporti con loro – conclusi decisa, anche piuttosto soddisfatta di aver finalmente esternato come la pensavo realmente.

 - L’idea quindi sarebbe quella di sposare uno ricco? –

 - Non che intenda dipendere da un uomo – specificai – ma sicuramente non sposerò un morto di fame –

Questo era sicuro.

 – Se il tuo unico requisito sono i soldi mi sembra strano che tu non abbia ancora trovato qualcuno –

Stronzo.

 - E’ una condizione necessaria, ma non sufficiente, e comunque dovresti stare zitto, scommetto che i tuoi standard sono quasi inesistenti –

 - Lo sai – rispose dopo un po’ – per essere una che è cresciuta dalle nostre parti sei piena di pregiudizi –

Probabilmente gli avrei dovuto rispondere per le rime questa volta, e soprattutto avrei dovuto prevedere che in qualche modo, per quanto poco ci parlassimo, riuscivamo sempre ad urtarci noi due, ma non ero ancora completamente in me e mi sentivo ancora piuttosto magnanima con il prossimo, anche con i poveri, bei, perdenti senza futuro.

 - Lo sai – replicai pensierosa – non capisco cosa intendi dire –

 Lui stava sistemando un paio di cose dietro al bancone e mi dava le spalle, ed era comunque un bel vedere con solo una maglietta addosso, non si poteva negarlo.

 - Sono sicuro che lo sai benissimo –

 - No, spiegamelo –

Si voltò dalla mia parte e mi fissò con quel suo sguardo intenso, ma ressi bene questa volta, almeno fino a quando non si sporse appena verso di me.

 - Intendo dire che non mi conosci per niente, per cui taci, e il caffè lo offro io, tutto sommato posso permettermelo –

Aprii la bocca per rispondere, non sapevo cosa, sicuramente niente di simpatico, forse qualcosa sul fatto che lui mi conosceva ancora meno eppure mi aveva dato della stupida, anche se tirare fuori quella frase avrebbe confermato quanto mi rodeva, ma in quel momento era entrato un tizio che aveva apostrofato cordialmente Sasuke, e subito dopo aveva attaccato con delle fastidiose battute rivolte anche a me.
Avevo finito il caffè, per cui pagai senza prendermi la briga di commentare, non volevo debiti con lui, ed uscii senza nemmeno salutare.

 - Un po’ stronza – mi giunse all’orecchio comunque  – ma una botta gliela darei se fossi in te –

Gente di classe.

Il giorno dopo, mentre ero in fila per ritirare la pensione di invalidità di mia madre (sì, gliene avevano davvero concessa una, grazie al cielo visto che campavamo di quella) mio malgrado sentii due vecchiette parlar male degli Uchiha: ce l’avevano particolarmente con il più piccolo, che supponevo fosse Sasuke, il quale a loro parere era un ingrato che trattava male sua madre, santa donna che non viveva più lì ed era sempre stata una signora ammodo.

Dal momento che riuscivo perfettamente ad immaginare quelle due vecchiette parlare allo stesso modo di me e di mia madre, non mi impressionai più di tanto, anzi, quando al ritorno vidi proprio l’ingrato in persona, che caricava l’attrezzatura per suonare in un furgone scassato assieme ad un paio di amici, risposi al saluto di Naruto e mi avvicinai a curiosare, anche perché stavano fumando tutti e tre e volevo scroccare una sigaretta.

 - Avete una sigaretta? – mi decisi a chiedere dato che nessuno me le offriva (non erano esattamente dei gentiluomini).

 - Che palle… - fece il terzo del gruppo, un tipo dall’aria annoiata che avevo già visto ma non conoscevo bene quanto gli altri due (conoscere bene in senso lato, ovviamente), il quale comunque mi offrì la sigaretta.

 - Due vecchiette parlavano male di te – feci alla volta di Sasuke dopo che me l’avevano anche accesa, resa loquace dal godimento di quel piccolo e raro piacere.

 - E’ da lì che hai dedotto tutte le tue teorie su di me? -  mi chiese mentre scendeva dal furgone – o è una questione di denaro? –

 - Le vecchiette parevano convinte – risposi semiseria, ma scherzavo, e lui lo sapeva.

Me ne andai subito dopo, che non pensassero che fossimo diventati amiconi, ma avevo ancora uno strano sorriso sulle labbra.

Quella notte feci un sogno erotico su Sasuke, tanto vale confessarlo, e mi svegliai proprio sul più bello, un po’ sudata.
Avevo bisogno di un uomo, ne conclusi, e proprio per questo speravo di incontrare il mio principe al più presto.

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Ed anche questa volta sono riuscita ad evitare di mettere il nome della band!

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Capitolo 4
*** 4. ***


Su questo ed in parte sul prossimo capitolo ho un'opinione ambivalente, diciamo, ma credo abbiano una loro funzione.





4.



Sabato pomeriggio io e Sasori avevamo messaggiato per più di un’ora, e mi sembrava di toccare le stelle.

Mi aveva detto delle cose davvero carine e cominciavo a pensare che il fatto di non potersi vedere subito fosse un toccasana, perché l’attesa, il sentirsi senza potersi vedere, erano in un certo senso eccitanti, e quella volta in cui fossimo riusciti ad incontrarci sarebbe stato tutto più emozionante, più intenso.
Non vedevo l’ora.

Solo l’idea mi faceva battere forte il cuore, e forse era proprio per questo che mi sentivo più vitale in quei giorni, mi pareva perfino di essere più bella nonostante l’insonnia, senza contare che pensavo sempre meno a quella storia dell’aborto, o meglio, le mie notti erano sempre tribolate, ma durante il giorno restava solo un peso sullo stomaco a ricordarmi che qualcosa era successo, e prima o poi avrei imparato ad ignorarlo.

Proprio a causa di questa mia nuova vitalità, o semplicemente nell’onda dell’entusiasmo, quella sera avevo accettato di uscire con i ragazzi dell’università.

Ino mi aveva proposto per l’ennesima volta di trovarmi con loro, aggiungendo che dopo avrei potuto rimanere a dormire a casa sua, e che c’era anche Kiba.
Nonostante Kiba non mi interessasse proprio più, se rimanevo a dormire fuori non avevo più l’annoso problema di come tornare a casa di notte senza mostrare dove abitavo, e dal momento che il riposo e il sonno erano un lontano ricordo ormai, tanto valeva fare qualcosa, senza contare che avevo voglia di vedere gente ed ero stanca di fare la duchessa irraggiungibile (gran stupido nomignolo, comunque).
E così avevo acconsentito, purtroppo.

Dico purtroppo perché la serata era stata orribile.
Orribile.
Le amiche di Ino non erano del tutto antipatiche, ma non certo un esempio di spiccato spessore, diciamo, e prese singolarmente magari potevano andare, ma tutte insieme sembravano un branco di deficienti senza cervello che continuavano a parlare tra di loro di vestiti, o a spettegolare di persone che non conoscevo, annoiandomi a morte, e a volte erano così malevole che riuscivo chiaramente ad immaginarmele intente a sparlare di me non appena giravo l’angolo, e in più, come se non bastasse, ogni tanto buttavano lì delle domandine innocenti che erano tutt’altro che innocenti in realtà.
Quando Kiba ci aveva raggiunte con degli amici avevo tirato un sospiro di sollievo.

Ma poi lui aveva cominciato a bere, e a parlare, e a bere, e avevo capito per la prima volta (in precedenza lo avevo solo sospettato) che non era possibile sostenere una conversazione decente con lui, perché non si interessava a niente, ma proprio niente, a parte i cani (ormai non ne potevo più), e se non erano i cani era qualcosa che aveva fatto lui, che di solito guarda caso riguardava sempre i suoi cani, e in più man mano che beveva continuava a provarci in maniera sempre più fastidiosa e insistente.

Per me un ragazzo che ti mette una mano sulla coscia ha già chiuso, se poi lo fa due volte posso arrivare ad insultarlo pesantemente e togliergli il saluto a vita, ma Ino si era messa a parlare fitto fitto con un tipo e non avevo altra scelta che far buon viso e cattivo gioco, così gli avevo spostato ripetutamente la mano ed ero rimasta ad ascoltare con un sorriso forzato, lanciando ogni tanto qualche battutina tagliente che tanto neppure capiva e sperando che il tempo passasse in fretta.
Doveva essere stato questo il mio secondo errore (il primo era stato quello di fidarmi degli altri), perché Ino aveva frainteso ed aveva finito per andarsene via con il tizio dicendomi che potevo farmi accompagnare a casa da Kiba, pure ammiccando, ed io ero rimasta lì come un’allocca, con quello che ancora allungava le mani e parlava, e con l’angosciante consapevolezza che anche se si fosse dimostrato una persona abbastanza discreta ed affidabile da potergli mostrare dove abitavo, ormai non era proprio in condizioni di guidare.

Poco dopo ne avevo abbastanza.
Avevo controllato l’ora, e constatato che facevo ancora in tempo a prendere il metrò lo mollai lì senza neppure prendermi la briga di salutarlo: forse davvero non gli avrei rivolto la parola mai più, nella vita ci sono già troppi idioti che ci tocca sopportare a forza per accollarsene di superflui.

E così mi ritrovai a camminare ancora furiosa verso la fermata della metropolitana, a fatica perché avevo dei tacchi vertiginosi, e infreddolita perché sopra l’abitino bianco indossavo solo uno scialle leggero e stavo morendo di freddo.
A tratti mi fermavo e mi guardavo alle spalle, spaventata da rumori sospetti, ma non ero davvero preoccupata, non ancora.

Non che avessi voglia di farmi un viaggio in metrò di notte, sapevo che rischiavo incontri spiacevoli, e non per insistere sul solito concetto, ma se avessi avuto quattro soldi avrei preso un taxi e via, di sicuro non mi sarei infilata in una di quelle situazioni pericolose che avevo tentato di evitare per tutta la vita, invece da poveraccia ero condannata ad usare i mezzi più economici, quelli in cui se fosse stato per me non avrei mai messo piede, neanche di giorno.
Era la seconda volta nel giro di poco tempo che mi ritrovavo in una posizione in cui avevo giurato non mi sarei trovata mai, maledizione a tutti quei ‘mai dire mai’ che mi aveva propinato mia madre da piccola e che mi ostinavo ad ignorare per poi essere regolarmente costretta a rimangiarmi i miei ‘mai’.
Di sicuro non ce ne sarebbe stata una terza.

Finalmente arrivai alla fermata sana e salva, e scesi i gradini sentendomi un po’ meglio: non ero sola, c’era un gruppo di ragazzi e ragazze che mi precedeva e iniziai a rilassarsi.
Una volta salita nel vagone mi sedetti vicino agli altri e quando smontarono anche gli ultimi, qualche fermata più in là, e rimasi da sola con un tizio sospetto, mi piazzai di fonte alla manovella dell’allarme, scrutando con un po’ d’ansia le stazioni semideserte che raggiungevamo.
Purtroppo dovevo fare per forza un cambio, in una stazione non molto frequentata che mi faceva un po’ paura, ma poi avevo solo un altro paio di fermate ed ero a casa.
 
Come se non bastasse il mio cellulare era morto da almeno un’ora (avrei avuto bisogno di prenderne uno nuovo), così in caso di emergenza non potevo chiamare nessuno; non che avessi qualcuno da chiamare, a parte la polizia se l’emergenza era davvero così grave, ma è rassicurante sapere di avere questa possibilità.

Mentre imprecavo contro Ino, che si era comportata male, ecco, non smettevo di controllare ossessivamente le stazioni che mancavano continuando a ripetermi che non era così grave, che sarebbe andato tutto bene, e che questa era la prima ed ultima volta che mi facevo fregare così: mai dipendere da qualcuno e fidarsi solo di se stessi, anche per le cose minime.

Smontai da sola alla stazione in cui dovevo cambiare, almeno il tizio sospetto non mi seguiva, e mi avviai verso il binario giusto continuando a guardarmi intorno.
I corridoi erano completamente deserti a quell’ora, e mentre camminavo, nonostante tentassi di non fare rumore, mi pareva che il suono dei tacchi sul pavimento rimbombasse in modo surreale nel silenzio.

Cercai di cacciare la sgradevole sensazione di trovarmi in qualche film horror e mi avvolsi tremante nel mio misero scialle ricamato.

Accelerai man mano e finii per fare le scale di corsa, col fiatone, ma finalmente arrivai alla fermata giusta, che mi pareva particolarmente squallida, come tutta quella stazione del resto, e dato che sul display era scritto che mancavano ancora dieci minuti all’arrivo del treno, mi rassegnai ad aspettare vicino al pulsante per le emergenze, tentando contemporaneamente di rendermi invisibile.
Almeno non c’era nessuno.
Fu quasi per caso che mi accorsi che mi sbagliavo, che non ero sola: c’era qualcuno in fondo sulla destra, seminascosto da un pilastro, e poco dopo allungai appena il collo perché mi pareva di conoscerlo, e fu con enorme sollievo che mi accorsi che si trattava di Sasuke Uchiha.
Magari era uno stronzetto, magari aveva messo incinta Moegi (avevo ancora forti sospetti in proposito) ma era uno che conoscevo, e fregandomene altamente della dignità mi avvicinai a grandi passi e mi piazzai accanto a lui, sentendomi improvvisamente più tranquilla.
Lui se ne stava appoggiato al muro con quella sua aria da duro, e dopo avermi dato un’occhiata aveva ripreso a fissare di fronte a sé, corrucciato.
E’ difficile disprezzare qualcuno da cui si è sessualmente attratte, ammisi tristemente con me stessa.
 
 - Vieni spesso da queste parti? – provai a fare conversazione, se non ricordavo male lo avevo visto scendere lì qualche volta il venerdì, dopo il lavoro.

 - Già –

Sempre un gran simpaticone.

 - Ti dispiace? – gli domandai tirando fuori un pacchetto di sigarette che avevo scroccato a Kiba, almeno quello.

Dal momento che non potevo quasi mai permettermi di comprarmele mi guardai bene dall’offrirgliene una, e mi accesi la mia sigaretta con un accendino usa e getta di cui qualcuno mi aveva gentilmente omaggiata.
Ne approfittai per studiare di sottecchi il suo bel profilo: sembrava stanco, pensieroso, anche un po’ triste, e rimasi per alcuni secondi con la sigaretta a mezz’aria a chiedermi a cosa stesse pensando, perché avevo sempre creduto che gente come lui vivesse alla giornata, soddisfatta del posto che aveva nel suo piccolo mondo e pronta ad autoconvincersi che fosse tutto, e forse ero davvero piena di pregiudizi.
Continuai a sbirciarlo fino a quando lui non si voltò a guardarmi a sua volta con quei suoi occhi neri, profondi, un po’ troppo aggressivi.

Gli sorrisi non ancora in difesa, perché eravamo solo noi due in quel sottomondo ostile, perché gli ero in qualche modo grata, solo per il fatto di non essere più sola.

- Piuttosto, cosa ci fai qui tu, duchessa? –

 - Un imprevisto purtroppo –

Stavo per continuare, decisa a chiedergli di smetterla con quel nomignolo improponibile, quando mi bloccai: qualcuno si stava avvicinando, si sentivano delle voci maschili, e mi ritrovai ad accostarmi istintivamente al mio riluttante partner, di nuovo preoccupata.
Poco dopo dalla stessa direzione in cui ero arrivata entrarono dei tizi, quattro, che non avevano per niente un aspetto rassicurante, e non solo per le bottiglie che avevano in mano, o l’aria trasandata, era il modo in cui avevano subito puntato lo sguardo su di me e mi fissavano come se fossi nuda, come se fossi un oggetto.

Ecco, lo sapevo, mai che mi andasse liscia una volta.

Non ero riuscita a capire cos’aveva esclamato uno di quelli, ma ero sicura che fosse qualcosa di spiacevole nei miei confronti, e subito dopo gli altri erano scoppiati a ridere e si erano avvicinati continuando a ridacchiare.
Sasuke si era spostato un po’ in avanti, quasi a proteggermi, e il cuore mi batteva all’impazzata mentre fingevo di non badare a loro quando in realtà ero orribilmente spaventata, perché erano in quattro, ed uno era davvero grosso, e sapevo che se ce l’avevano con me Sasuke da solo non era in grado di difendermi.
Forse non avevano cattive intenzioni, cercai di rassicurarmi, forse erano solo molto stupidi, molto brutti, e in vena di battute molto sconce.

 - Cosa facciamo – mormorai, e mi strinsi a lui, perché davvero non sapevo cosa fare ed avevo la tentazione di girarmi e scappare via.

Col senno di poi Kiba non era neanche tanto male, ed ero stata poco lungimirante a non accettare un passaggio da lui.

Voltai la testa a guardarli, ormai erano vicini e ancora ridevano e biascicavano oscenità su di me, ed era un peccato che le gambe mi si fossero completamente paralizzate, perché improvvisamente scappare pareva l’unica soluzione plausibile.

Guardai Sasuke come se in qualche modo lui potesse sapere cosa fare, ma in quel momento era voltato verso gli altri, e prima che riuscissi a rendermi ben conto della situazione, uno di quelli mi si era parato davanti.
Rimasi a fissarlo immobilizzata mentre allungava la mano per toccarmi, e capii solo in quel momento che ero sola, che Sasuke non mi avrebbe aiutata: perché avrebbe dovuto in fondo, non poteva fare niente, erano in troppi, e probabilmente non gliene fregava neanche niente.

Terrorizzata pensai che non volevo essere toccata, non volevo neppure essere sfiorata da quelle manacce luride.

 - Non toccarmi! – gridai istericamente tentando di scostarmi.

Rideva, quel bastardo, e non feci neppure in tempo a capire cosa succedeva che mi afferrò un ciuffo di capelli, e mi faceva schifo, così schifo.

Mi aveva tirato i capelli ma neppure avevo registrato il dolore, perché contemporaneamente lo avevo visto alzare l’altra mano per prendermi il braccio, e mi pareva così assurdo, così irreale quello che stava succedendo, proprio a me, che faticavo ad accettarlo.
E poi, all’improvviso, mentre mi facevo prendere definitivamente dal panico (vorrei vedere voi) Sasuke gli aveva sferrato un pugno, e quel bastardo aveva mollato la presa ed era caduto a terra, così, senza neppure un suono.

Per una frazione di secondo rimasi immobile, le gambe che mi cedevano, il cuore che batteva all’impazzata, e guardai gli altri che ormai ci avevano raggiunti e si buttavano su Sasuke urlando frasi sconnesse.

Nei film la nostra eroina, oltre ad essere bellissima, e nonostante sia snella ed esile, combatte come un uomo se non molto meglio, o alla peggio con l’ingegno trova il modo di aiutare l’eroe, ma nella realtà sapevo di non avere alcuna possibilità di battermi alla pari con un maschio, e non esistevano provvidenziali sbarre di ferro, improbabili colpi di fortuna o misteriosi poteri che si risvegliavano all’improvviso… e io, io rischiavo molto di più di un paio di pugni in faccia.

Non potevo fare altro che mollarlo lì e scappare via, cos’altro potevo fare?
Così mi girai e corsi verso il corridoio che portava all’uscita, e continuai a correre senza fiato con tutte le mie forze, con quei tacchi assurdi, dicendomi che forse non mi seguivano presi com’erano a…ad affrontare Sasuke, e magari potevo tornare indietro più tardi, dopo che se ne erano andati, e vedere come stava lui.

Sempre di corsa salii le scale, senza osare voltarmi per controllare se erano dietro, ed arrivata in cima girai a destra e poi ancora a destra alla ricerca dell’uscita, ma avevo paura di ritrovarmi da sola di notte in un quartiere sconosciuto, volevo solo tornare a casa, e quando vidi il tunnel che portava al binario che andava nella direzione opposta mi precipitai lì senza pensare.

A questo punto ero sicura che nessuno mi stesse inseguendo, e per fortuna quando arrivai al binario il treno stava arrivando.
Salii in fretta e mi rannicchiai sul sedile vicino all’allarme, e poi rimasi così, ancora frastornata, a guardare le stazioni che mi passavano davanti senza neppure tenerne il conto, tentando di riprendere fiato.

Ritornai in me pian piano, un po’ più tranquilla scesi ad una delle stazioni più grandi e feci il giro per prendere di nuovo il treno opposto, quello che mi avrebbe riportata a casa, guardandomi attorno circospetta e sperando che ce ne fossero ancora, perché se avevo perso l’ultimo mi toccava rintanarmi in un buco ad attendere il mattino.
Aspettai un paio di minuti assieme ad una coppia piuttosto eccentrica, avanti con l’età, che si teneva per mano (così sicuri l’uno dell’altro), e salii conscia che quello era l’ultimo metrò, l’ultima possibilità di arrivare a casa sana e salva, e senza sapere cosa avrei fatto una volta arrivata ancora a quella maledetta stazione.

Mi sembrava che quel treno si muovesse con una lentezza impressionante, e la coppia era già scesa da quella che mi pareva una vita quando passai davanti alla stazione in cui avevo lasciato Sasuke.
Mi appiattii sul fondo perché temevo che quei bastardi fossero ancora lì, ma quando si aprirono le porte provai a sbirciare fuori, con cautela, senza riuscire a vedere niente dato che ero lontana dal punto in cui avrebbero dovuto essere e non osavo sporgermi troppo.
Non mi pareva di sentire rumori e non sapevo bene cosa fare, ma quando mi sembrò di udire l’eco di alcune voci mi rintanai in fondo al vagone, perché ero ancora piena di paura e volevo solo andare via di lì.

Aspettai che le porte si richiudessero ed il treno partisse sentendomi una grande vigliacca, e rimasi ancorata alla manovella dell’allarme per le due fermate necessarie, la prudenza non è mai troppa, chiedendomi se non dovevo farlo suonare davvero quel maledetto allarme, non per me, ma per Sasuke.
Ormai era un po’ tardi per questo, e poi forse non era successo niente di grave, forse i tipi se ne erano andati subito e lui era già a casa sano e salvo, a parte magari un occhio nero.
Dopo essere scesa alla mia stazione restai per qualche momento immobile, tremante, fino a quando il treno non ripartì e non rimasi sola, poi corsi verso l’uscita e continuai a correre lungo la strada che avrei potuto percorrere ad occhi chiusi ormai: avevo ancora paura che quei bastardi mi stessero cercando e in qualche modo mi avessero vista scendere a quella fermata.

Arrivai a casa col fiatone, ansimante, e chiusi a chiave la porta dietro di me che ancora il cuore non si era calmato.
Solo più tardi, mentre mi toglievo il trucco, smisi di pensare a me stessa e mi chiesi seriamente cosa fosse successo a Sasuke.
La notte la passai a rigirarmi sul letto, angosciata, e a pensare a lui che chissà in che condizioni era.

E se…e se lo avessero pestato a morte? Se per causa mia, della mia vigliaccheria, fosse rimasto a sanguinare a morte in quel corridoio, solo come un cane?

Mi pareva che dita metalliche mi attanagliassero lo stomaco e mi bloccassero la gola, e mi veniva da piangere.
__

Erano passati diversi giorni e non avevo saputo niente di lui.

Tecnicamente non ero responsabile per quello che gli era capitato, era stato lui l’idiota che si era sentito in dovere di salvare la donzella indifesa, e magari se non fosse intervenuto quegli esseri se ne sarebbero andati poco dopo senza provocare un gran danno, chissà, e se continuavo a pensarci sicuramente riuscivo a convincermi che era stata tutta colpa sua e che se l’era voluta, perché la mente umana è sorprendente, davvero, riesce ad autoconvincersi di cose pazzesche, ma la verità era che ero preoccupata per lui.
Non l’avevo più incontrato in giro e avevo anche indagato discretamente con mia sorella, la quale aveva affermato di non vederlo da un po’ e di non sapere niente, un po’ sostenuta, il che era anche positivo (qualche voce mi sarebbe giunta se fosse morto, no?!), però non mi aveva tranquillizzata del tutto: avevo proprio sperato di sentire qualcosa, di avere un segno che lui era vivo, magari di carpire una chiacchiera casuale, non sapevo.

Ero così agitata che i messaggi carini di Sasori non mi facevano più né caldo né freddo, ed anche la sua telefonata mi aveva lasciata del tutto indifferente, anzi, avevo riagganciato dicendomi che quello lì chissà cosa aveva in mente, e che non mi fidavo per niente.

Quel venerdì non lo vidi al bar, e a questo punto iniziavo ad essere davvero angustiata, non sono così senza cuore come può sembrare.
Al ritorno, quando passai proprio di fronte alla fermata incriminata, mi sentii quasi male, fisicamente.

Avrei voluto dimenticare tutto, dimenticarmi di quell’incubo e dimenticarmi dell’esistenza di Sasuke Uchiha, ma non potevo, semplicemente non potevo.

 Decisi di farmi forza e di affrontarlo, dovevo farlo…se lui aveva rischiato la vita per aiutarmi potevo degnarmi di concedergli due minuti della mia, di vita, per informarmi sulla sua salute.

Per una che non voleva debiti con Sasuke Uchiha ne avevo accumulato uno di bello grosso.
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Capitolo 5
*** 5. ***


Da lunedì sarò senza computer per diversi giorni (spero pochi), e domani non ci sono, per cui posto oggi, tanto il capitolo è più o meno pronto.



 5.




Chi ha tempo non aspetti tempo è il mio motto, quando decido per qualcosa agisco in fretta, e in più volevo togliermi al più presto quell’incombenza dal groppone, per cui il giorno dopo, poco prima dell’ora di pranzo, partii in missione.

Non sapevo bene dove abitasse, non mi era mai importato di saperlo esattamente, chi se ne fregava, ma mi ricordavo di quella volta in cui Moegi me lo aveva indicato e decisi di passare in rassegna la zona in cui presumibilmente doveva stare, alla ricerca dell’edificio incriminato.

Più tardi ero lì a scrutare con sospetto uno stabile bruttino e poco accogliente, col portone aperto, da cui si deduceva che Sasuke era ancora più pezzente di noi (almeno da noi il portone si chiudeva).
Trovai il nome scritto fuori, era proprio quello, feci un bel respiro profondo e finalmente mi decisi.

Ero salita fino al terzo piano ed avevo iniziato a cercare la porta giusta, cosa non facile dal momento che non c’era un nome che fosse uno ed i numeri si erano persi da qualche parte, quando una delle porte alla mia sinistra si aprì ed uscì il biondo, Naruto.

 - Sakura! Cosa fai qui? –

  - Il tuo amico, sta bene? – chiesi direttamente mentre lo raggiungevo, un po’ agitata, non avevo scuse da rifilare e volevo ridurre la conversazione al minimo.

 - Sas’ke? Sta bene! Ha solo un paio di costole incrinate, poteva andare peggio! –

Era vivo, e sentii che qualcosa mi si scioglieva in gola.

Cioè, sapevo che due costole incrinate dovevano fare un male notevole, ma non era così grave in fondo, avrebbe davvero potuto andargli molto peggio.

 - Le ha prese da degli stronzi alla fermata del metrò…sai, dove facciamo le prove…è che lui voleva tornare a casa prima, era stanco – mi spiegò, e mi resi conto sollevata che Sasuke non gli aveva raccontato che c’ero anch’io – ma perché non te lo fai dire da lui – continuava – insisti però perché gli sta un sacco sulle balle quando gli chiedono qualcosa…vuoi entrare ad aspettarlo? Dovrebbe arrivare ormai…io devo scappare, sono in ritardo…se non lo vedo per strada digli che sono passato e che torno dopo pranzo! –

Non lo avevo seguito molto, il suo discorso non aveva granché senso e dava per scontate troppe cose, e poi come facevo a sapere se lui lo vedeva per strada o no? Ma non mi diede il tempo di farglielo notare perché si era precipitato giù per le scale mollandomi lì, davanti alla porta spalancata.

Ecco, in realtà avevo saputo quello che volevo sapere ed ero anche sollevata di non averlo trovato, mi risparmiavo di trovarmelo di fronte, ma sbirciai dentro l’appartamento mio malgrado curiosa.

Azzardai un passo all’interno ma non feci neppure in tempo a guardarmi intorno che mi bloccai, perché mi pareva che Naruto stesse parlando con qualcuno in fondo alle scale, la sua voce squillante mi arrivava fin qui, e per evitare eventuali momenti imbarazzantissimi mi affrettai ad uscire e chiudere la porta, per poi raggiungere la tromba delle scale e iniziare a scendere.
Incontrai proprio Sasuke che saliva, abbastanza faticosamente, e mentre mi passava di fianco senza degnarmi di uno sguardo notai l’occhio con un alone ancora un po’ giallastro intorno ed il taglio sopra il sopracciglio, che sembrava profondo, mi sa che avrebbe avuto bisogno di qualche punto e probabilmente gli sarebbe rimasta una cicatrice.
Aveva anche una grossa ecchimosi che partiva subito sotto il collo, sulla sinistra.

Nonostante tecnicamente non fosse tutta colpa mia, in fondo non gli avevo chiesto di sacrificarsi per me, mi sentii un verme.
 
D’impulso lo seguii e quando lui aprì la porta di casa mi intrufolai all’interno prima che potesse chiudermela in faccia.

- Cosa vuoi? – mi chiese senza neppure guardarmi, a sua discolpa devo dire che sembrava davvero molto stanco.

 -  Volevo sapere come stavi – iniziai con una ridicola voce tremante mentre lo scrutavo attentamente e prendevo atto di un taglio più piccolo ormai quasi rimarginato sul labbro, e di alcune abrasioni minori.  

E dal momento che continuava ad ignorarmi lo seguii ostinatamente in camera, decisa a scusarmi, a spiegargli che non avevo scelta, e a tornare a casa priva di superflui e fastidiosi sensi di colpa.

 - Senti, sono veramente stanco, ho dovuto scaricare roba fino adesso e devo fare una doccia –

 - Io…mi dispiace – borbottai come un’idiota, pensando che non avrebbe dovuto sollevare pesi con due costole incrinate, che doveva fare davvero male.

 - Allora ciao…sai dove è la porta, scusa se non ti accompagno, duchessa –

Stronzo.
Rimasi imbambolata a guardarlo mentre si toglieva la maglia senza più degnarmi di uno sguardo, e prima che sparisse dietro ad una porta che doveva essere il bagno, notai sulla schiena un esteso segno scuro che tendeva al giallastro sui bordi.

A questo punto avrei dovuto andarmene e lavarmene le mani, in fondo avevo scoperto che lui stava bene (abbastanza) e gli avevo detto che mi dispiaceva, circa, avevo fatto anche troppo insomma, ma mi sentivo ancora un peso sullo stomaco, ed ero stanca di rigirarmi nel letto insonne perché la mia inutile e ridicola coscienza non voleva ascoltare la mia al contrario impeccabile ragione, e così, invece di togliere il disturbo e fare un favore a tutti e due, mi guardavo intorno pensando che quelle due stanze avevano un’aria ancora più provvisoria della mia camera, il che era una specie di record, e chissà dove voleva andare Sasuke Uchiha, da cosa voleva scappare, perché tutti vogliono scappare da qualcosa anche se non se ne rendono conto.

A parte una chitarra che sembrava aver visto tempi migliori l’unica altra cosa personale lì dentro erano le due fotografie in camera.
In una c’era una famiglia composta di padre, madre e due figli, di cui un ragazzino che forse era il fantomatico fratello, ed un bambino con un’espressione fiduciosa e allegra che doveva essere Sasuke da piccolo (così carino).
Parevano l’ennesima famiglia felice che non esisteva più se mai era esistita veramente, come l’espressione fiduciosa e allegra di quel bambino, e passai velocemente all’altra foto: era recente, e immortalava Sasuke con una bimba piccolina che vagamente gli somigliava e lo guardava adorante, e quasi mi venne un colpo quando la vidi, perché se aveva già una figlia da qualche parte era proprio il colmo che mi tacciasse di avere pregiudizi, il bastardo.
E poi, un pochino, mi sentivo delusa.

Certo che doveva essere stato ben giovane, forse troppo giovane.

Sbuffando per la stupidità dei miei ragionamenti andai in cucina e sbirciai dentro al frigo.
Era desolatamente vuoto, c’era solo latte, qualche birra ed un paio di uova, tutto il necessario per una dieta sana ed equilibrata, mi dissi sarcastica. Forse però avrei potuto preparare una frittata, così, come offerta di pace, e tutta zelante mi misi ad aprire i pochi armadietti alla ricerca di un tegame, fino a quando non decisi di lasciar perdere visto che non c’era farina e due uova strapazzate poteva farsele da solo: in fondo il fatto che le avesse prese per proteggermi non mi rendeva automaticamente la sua serva.
Eppure continuavo ad aggirarmi inquieta per casa sua, alla ricerca di un modo per espiare le mie presunte colpe.

Ero ancora lì che davo un’occhiata in giro quando lo vidi uscire dal bagno con i capelli gocciolanti e solo un asciugamano addosso.

  - Sei ancora qui? – mi chiese.

Al momento non ero riuscita a proferire niente di intelligente, e dopo aver balbettato qualche banalità come una qualsiasi povera idiota (a mia difesa posso solo dire che non ero preparata), lo avevo guardato sparire in camera senza riuscire a muovermi.  
Poco dopo mi misi a rispondere ad un sms di mia sorella scrivendo che arrivavo presto e raccomandandole di mettere la pentola sul fuoco, ma poi, invece di andarmene dignitosamente, aspettai ancora qualche minuto col cellulare in mano (per darmi un contegno), e infine, dato che lui non si sbrigava e c’era troppo silenzio, sporsi la testa nell’altra stanza per controllare che andasse tutto bene, perché in fondo non sarebbe stato il primo a sentirsi male dopo qualche giorno per una botta in testa, e non volevo averlo sulla coscienza.
Era già abbastanza sporca.

Scoprii che si era buttato sul letto così com’era e si era addormentato, allora mi avvicinai guardinga per controllare che fosse ancora vivo, assurdamente preoccupata: respirava regolarmente, i lineamenti distesi, anche se a volte aggrottava appena la fronte come se sognasse, o forse erano le costole che gli facevano male.

Sempre se erano quelle il problema, perché ero sicura che l’idiota non fosse andato all’ospedale e che le costole incrinate se le fosse diagnosticate da solo, e magari a ragione, ma al pensiero degli eventuali danni agli organi interni e di quante altre cose avrebbero potuto andare storte, mi veniva da sudare freddo.

Era proprio un idiota, un idiota coraggioso, non lo mettevo in discussione, ed anche un bell’idiota, perfino ora, nonostante i tagli e le botte, ma sempre un idiota.

Scesi con lo sguardo su un paio di segni bluastri che aveva sullo sterno e sui vari tatuaggi, notando mio malgrado che aveva davvero un bel fisico, asciutto e ben definito, e sbirciai più giù, fino all’asciugamano, che era scivolato un po’ e mostrava un principio di peluria nera.
Mi fermai lì, con il respiro improvvisamente affannato.
 
Un’ inspiegabile tentazione di toccarlo mi faceva scorrere un’ondata di eccitazione sulla pelle, e a parte che date le circostanze era decisamente fuori luogo se non inquietante, non capivo il perché, o meglio, mi rifiutavo di capire il perché.

Tornai di là, presi la borsa, e mi precipitai fuori.
E mentre mi dirigevo a grandi passi verso casa, tra tutte le cose che potevano venirmi in mente pensai che avrei dovuto almeno coprirlo, che di sicuro quell’idiota prendeva freddo.
Che idiota anch’io.
__

Non appena rientrata in casa non ci avevo più pensato, mia madre come al solito si lamentava di essere stata lasciata sola tutta la mattina, e mia sorella, lungi dal mettere l’acqua sul fuoco, era ancora in giro: tornò più tardi giusto per pranzare e il suo chiacchiericcio suonava spensierato come non mai.
Mi chiedevo se avesse già dimenticato tutto o se ci fosse un solco dentro di lei che fingeva di ignorare, un solco che allignava nell’ombra, pronto a tornar fuori.
Cominciavo a rendermi conto che me ne intendevo un poco di quei solchi, purtroppo.

  - E cosa mi dici di quelli di quel gruppo là, come si chiama… - borbottai ad un certo punto con nonchalance, irritata con me stessa, e con lui ovviamente.

Moegi si era subito messa sulle difensive, probabilmente pensava ancora che volessi carpirle il nome del padre, il che era anche vero, mica mi ero arresa, avevo solo deciso di aspettare che le acque si calmassero. Però il fatto che si mettesse sulle difensive poteva essere considerato sospetto, e mi chiesi ancora una volta se non potesse essere proprio Sasuke il padre.
La cosa mi dava un fastidio enorme, spropositato.
Non mi pareva il tipo, ecco, ma forse mi sbagliavo, anzi, quasi sicuramente mi sbagliavo, non sarebbe neanche stata la prima volta perché non ero molto brava a giudicare gli uomini, doveva essere qualcosa di genetico.

Fu solo più tardi, quando stavo cercando il cellulare nella borsa per controllarlo prima di andare a dormire, che mi resi conto di averlo dimenticato a casa sua.
Corrugai la fronte, non era da me, di solito ero piuttosto attenta, e poi questa distrazione poteva rivelarsi davvero seccante, e se il mio principe nel frattempo mi aveva chiamata?

Quella notte tanto per cambiare non riuscii a dormire, ci mancava solo il cellulare dimenticato, e ormai era troppo, era esattamente da quando Moegi mi aveva detto che aspettava un bambino che non dormivo bene, ed iniziavo ad essere stanca, così dannatamente stanca.
Soprattutto ero stanca di quella strana sensazione alla bocca dello stomaco, come una bolla d’ansia, che non riuscivo ancora a debellare, una sensazione che non aveva motivo d’esistere considerato che in fondo si era risolto tutto bene e che non c’era niente che non andava nella mia vita, davvero.

Il mattino seguente, era domenica ma chi se ne fregava, mi presentai di filato a casa sua cosciente che prima mi toglievo quella seccatura meglio era.

Mi aveva aperto subito, era solo, vestito per fortuna, e mi aveva puntato contro il suo sguardo  scuro, aggressivo.
Mi faceva sempre un certo che.

    - Ho scordato il cellulare – spiegai sbrigativa.

Lo seguii dentro casa ed ero di nuovo agitata, forse era il taglio sulla fronte, forse la solita stupida coscienza che mi rimordeva dal momento che aveva vita propria e si rifiutava di obbedirmi, o forse era solo che era difficile sentirsi migliori degli altri dopo aver lasciato pestare un ragazzo senza fare niente, soprattutto in presenza di quel ragazzo.

- Mi sento in colpa – confessai d’impulso, e che fosse finalmente finita.

 - Non importa, va bene? –

 - Ti ho mollato lì da solo, avevo paura – mi decisi ad ammettere, a lui e a me stessa.

 - E’ passata, non importa più –

Rimanemmo in piedi senza far niente per alcuni secondi, ognuno con i suoi pensieri, i suoi fantasmi.

 - Ti prendo il cellulare – mi riscosse la sua voce.

Si voltò e si avvicinò al divano scassato, dovevo averlo lasciato lì, e non so, nel vederlo che si chinava appena tentando di nascondere il dolore mi sentii morire.

 - Sono stata una vigliacca –

Ecco, l’avevo detto, lui era migliore di me.

 - Non potevi fare molto –

Già. E allora perché mi sentivo un verme? E perché lui mi sembrava così freddo, così lontano?

 - Neanche tu – replicai a muso duro, sulle difensive – se te ne fossi rimasto in disparte nessuno te ne avrebbe fatta una colpa, si può sapere chi te l’ha fatto fare? –

Esitò.

 - Ho agito senza pensare –

Stupido. Anch’io avevo agito senza pensare, solo che me ne ero andata e lo avevo mollato lì, e di conseguenza ora mi sentivo un verme.

    - Avrei potuto almeno tornare indietro dopo – borbottai a disagio.
 
Finora lui mi aveva dato le spalle, ma ora si era girato e mi fissava con quegli stramaledetti occhi che parevano sapere cose che io non capivo, non potevo capire, e mi agitai ancora di più.

–  Avrei dovuto farlo, dovevo tornare indietro, dovevo – feci uscire in fretta – …ma non ti ho chiesto io di… – mi fermai imbarazzata – sono in debito con te, va bene? – riconobbi – E non ne sono molto fiera purtroppo, non mi piace essere in debito, tantomeno con te, e non guardarmi così perché non hai la più pallida idea di chi io sia e di come mi senta – blaterai ignobilmente, ormai fuori controllo – …non so più cosa sto dicendo – farfugliai infine – non ne posso più, davvero…e resta il fatto che non voglio avere debiti con te per cui dimmi cosa… –

 - Senti. Ti ho detto che non importa – pose fine a quell’agonia –  Neanche io voglio niente da te, per cui siamo pari –

 - Bene –

Ma non andava bene, non era quello che ero venuta a dirgli, e forse era la stanchezza, o il fatto che c’era qualcosa dentro di me che stava tentando di uscire fuori e che mi ripeteva ancora, e ancora, che non andava bene, no, che non era tutto a posto così, che c’era qualcosa di sbagliato, di orribilmente sbagliato in questa conversazione, in questo momento, e forse nella mia vita intera, ma con sgomento mi accorsi che avevo gli occhi lucidi, e questo era davvero troppo perché odiavo vedere la gente piangere, era da perdenti, eppure proprio io stavo piangendo e mi stavo rendendo ridicola, proprio di fronte a lui.
Abbassai la testa sentendomi umiliata, come avevo giurato a me stessa non mi sarei sentita mai, e un pochino lo odiai, solo per essere lì, testimone delle mie lacrime.

 - Siediti, ti offro qualcosa –

Sembrava più un ordine che un offerta, e in quello stato non avevo la forza di discutere.
Per una frazione di secondo avevo avuto la consapevolezza di aver sbagliato tutto, e faticavo ancora a riprendermi.

 - Non hai niente in frigo – mormorai debolmente.

 - Un tè posso farlo – aveva replicato con un sorriso, ma non sembrava prendermi in giro.

 - Non vorrei darti da fare…cioè…nelle tue condizioni… –

 - Non sono invalido –

Spiritoso.
Quasi rassegnata mi ero seduta ad aspettare tamponarmi gli occhi con i fazzoletti scadenti che mi aveva lanciato ed avevo preso a stento (avevo una pessima presa, e odiavo i fazzoletti scadenti, non assorbivano bene e ti si bagnavano le dita).
 Nel frattempo lo guardavo mentre spostava dei libri di testo dalla tavola e metteva l’acqua sul fuoco, e pensavo che c’era qualcosa in lui, qualcosa che andava oltre il bell’aspetto, come una sorta di intensità.
Peccato che non avesse un soldo, anche se con un tipo così poco controllabile probabilmente non mi sarei imbarcata in ogni caso.  

 - Posso farti qualche domanda? – gli chiesi, perché a questo punto perso per perso tanto valeva mostrare tutte le carte e sperare in Dio, o meglio sperare che un giorno quelle stramaledette carte, o parole, non venissero usate contro di me.

Lui non aveva risposto, ma aspettava, in piedi, e mi studiava con quei suoi occhi penetranti mentre l’acqua si scaldava, con un’attenzione che mi spiazzava, che non pensavo di meritare.
Ed era proprio bello in quel momento, anche con le ferite e tutto, anzi, ancor di più con le ferite e tutto, perché sapevo che se le era procurate per aiutarmi, per aiutare proprio me, la sottoscritta, quella che non gli aveva chiesto niente e lo considerava appena.

- Cosa è successo dopo che sono scappata? – feci uscire, non so neanche io perché volessi saperlo, a parte il fatto che me l’ero chiesto spesso.

 - Niente di particolare, il primo tizio non si è più rialzato, ma gli altri erano in troppi…a un certo punto si sono stancati e se ne sono andati, così mi sono tirato su e dato che non c’erano più treni sono tornato indietro dagli altri…facciamo le prove da quelle parti –

- A piedi? Non potevi chiamare qualcuno? – replicai in difesa, perché mi pareva una specie di attacco nei miei confronti quello, o probabilmente ero solo io che mi sentivo in colpa.

 - Il cellulare era andato –

 - Ma…riuscivi a camminare? –

 - Mi sono appoggiato ai muri –

Merda.

 - Ti hanno portato al pronto soccorso? – mormorai avvilita.

 - Non occorreva –

Ci avrei scommesso.

L’acqua sobbolliva e lui la versò in due tazze in cui aveva precedentemente messo una bustina di the scadente (non posso farci niente se noto queste cose), e si sedette un po’ a fatica di fronte a me, che nel frattempo mi sentivo ancora un verme, tanto per cambiare.
Se fossi tornata indietro almeno avrebbe avuto una spalla cui appoggiarsi, e il debito stava assumendo proporzioni gigantesche nella mia coscienza già provata.

 - Posso chiederti un’altra cosa? –

Posò il gomito sul tavolo e sostenne il volto con la mano, per guardarmi.

 - Conosci mia sorella? – mormorai ignorando il rimescolamento allo stomaco.

 Lo vidi corrugare la fronte.

 - Si chiama Moegi, ha le lentiggini e i capelli castano rossicci, se li raccoglie spesso e… -

 - So chi è Moegi – mi interruppe – non ero sicuro fosse lei tua sorella, cosa vuoi sapere? –

 - Non… – feci una pausa – non sei stato con lei? –

  - Stato a letto? – mi chiese, e sembrava genuinamente perplesso – E’ una bambina –

 - Sarebbe un no? –

 - E’ un no – replicò secco.

 - E non sai chi… –

 - Nessuno che conosco. E’ incinta? –

Non sapevo cosa mi prendesse quel giorno, doveva essere la stanchezza accumulata, ma faticavo di nuovo a trattenere le lacrime e mi ero affrettata ad afferrare un altro fazzoletto scadente.
Era anche ruvido, uno schifo.
Odio essere povera.

 - Girano delle voci – mi spiegò.

Merda, ci mancava anche questo, mai che la gente si facesse i cazzi propri, e potevo quasi immaginare la soddisfazione delle malelingue nell’infierire con falsa pietà su una povera ragazzina, come se questo potesse innalzarli dalle loro misere vite.

 - Sono cazzate, girano voci su tutto e tutti –

Lo sapevo bene, ma questa era l’unica che mi facesse così male, più di tutte quelle che sapevo girare su di me.

 - Non è incinta – sussurrai soprappensiero, apparentemente intenta ad appallottolare il fazzoletto tra le dita.

 - Bene –

 - No, non va bene…io…ha…ha abortito –

Non appena mi erano sfuggite quelle parole mi ero resa conto, con mio enorme orrore, di quello che avevo appena fatto uscire, e avevo sentito qualcosa spezzarsi dentro di me.

Sollevai la testa e lo guardai con un’espressione che sapevo sconvolta.

 - E’ colpa mia – feci uscire in fretta, con urgenza – sono stata io a convincerla, non c’era altro da fare…non… –

 - Non devi sentirti in colpa…per come la vedo io sei stata coraggiosa –

Non mi guardava disgustato, o superiore, non mi guardava pietoso e neppure con sufficienza, solo attento, e per un momento mi sembrò che mi avesse tolto un peso dal petto.
Subito dopo avevo iniziato a piangere, una lacrima dopo l’altra, una cosa abominevole e patetica, diciamocelo, ma non potevo farci niente, era più forte di me, incontrollabile, come  se non fossi io e mi stessi guardando dall’esterno.

Presi il nuovo pacchetto che mi aveva passato e mi asciugai gli occhi spiazzata da questa mia emotività irrefrenabile, da questa parte di me che pensavo estinta, eppure mi sentivo anche più leggera, perché era anche un sollievo poter piangere liberamente, quasi catartico essermi affidata a qualcun altro per una sola volta nella vita senza sentirmi giudicata, anche se sapevo che me ne sarei pentita e che un giorno avrei pagato quello sfogo, fino in fondo, come pago sempre tutti i miei errori, tutte le mie debolezze.

 - Non voglio più pensarci – ammisi come svuotata – ma dimmi cosa posso fare per sdebitarmi con te…chiedimi qualsiasi cosa perché voglio togliermi almeno questo peso –

Lui mi fissava, e mi fissava, e poi aveva sorriso appena, e per un momento pensai che mi avrebbe chiesto un bacio, o qualcosa di più, e mi resi conto che non mi importava, che non…non mi sarebbe dispiaciuto.

 Non aveva fatto in tempo a rispondere che qualcuno era entrato dalla porta, era una bella ragazza dai capelli rossi, con gli occhiali.

 - Ti ho portato qualcosa da mangiare – cinguettò guardandomi con sospetto – devi riposare il più possibile –

Improvvisamente mi sentii di troppo, e con una scusa mi alzai e uscii di lì.

L’aria fresca mi schiarì i pensieri, non sapevo cosa mi fosse preso, speravo solo che lui non parlasse, ma non credevo che lo avrebbe fatto.
O magari sì, perché la gente se ne fotte degli altri, e non vedevo perché lui avrebbe dovuto essere diverso.

Mi dissi che non importava, che in un ipotetico confronto era la sua parola contro la mia, e che avrei negato fino alla morte.
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Ecco, con il prossimo capitolo la storia inizia  a prendere forma.

E presto dovrò tirar fuori il nome del gruppo...non ho ancora idee, mi sa che alla fine opterò per qualche banalità tipo 'Team seven', siete avvisate!

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Capitolo 6
*** 6. ***


Scusate ancora per il pasticcio con la storia vecchia: l'ultimo capitolo mi dava dei problemi (non si riusciva più ad entrare), ed ho dovuto cancellarlo e ripubblicarlo, senza pensare al fatto che sarebbe sembrato del tutto nuovo.

Va bene, tornando a questa storia, spero vi piaccia questo capitolo, che almeno è davvero nuovo!



6.



Mi ero ripresa presto, per l’esattezza quella domenica stessa, la sera, quando mi erano arrivate le mestruazioni e mi erano tornati anche il buon senso e l’autostima.
Doveva essere stata la sindrome premestruale che mi aveva fatto agire così, mi secca ammettere che mi capita spesso di dare di matto per futili motivi per dopo scoprire imbarazzata che doveva venirmi il ciclo, e forse ero anche un po’ sotto shock per quella cosa in metropolitana, chissà.

Purtroppo ormai era tardi, quel che è fatto è fatto, ed era un peccato non poter sopprimere Sasuke Uchiha che ora sapeva davvero troppo, ma sarebbe stato il colmo dopo tutto quello che aveva fatto per me, e poi non avrei proprio saputo come liberarmi del cadavere, per cui non rimaneva che sperare che a causa dei traumi fisici la sua memoria fosse lacunosa, o che non parlasse, mai.
Mi chiedevo quale delle due ipotesi fosse più improbabile.

Non lo avevo più cercato e il venerdì successivo avevo tirato la tenda non appena entrata nella mia postazione, onestamente non volevo vederlo, o più precisamente non volevo affrontarlo, mi vergognavo.
Il colmo era che alla fine ero scappata talmente in fretta da casa sua che non avevo neppure ripreso il cellulare, e dal momento che non osavo tornare da lui per chiederglielo, avevo fatto il duplicato della scheda attingendo al mio prezioso gruzzolo d’emergenza (prezioso non per la modica somma che conteneva, ma per la sicurezza che rappresentava per me), imprecando per la spesa imprevista, ed ora usavo il telefonino antidiluviano di mia madre (era vintage anche quello, puro modernariato).

Certo che dovevo proprio essere impazzita quel giorno: era quasi una settimana che ci pensavo e ancora non capivo come avessi potuto abbassare così tanto la guardia, e più ci pensavo più sentivo che avevo mostrato troppo, davvero troppo, e avevo paura.
Non bisogna mai affidare se stessi a nessuno.
Nessuno.
Non esistevano familiari, o amici, o amori che non fossero disposti a pugnalarti per il loro tornaconto, magari non volevano neppure fare del male, ma la gente neppure ci pensa, e comunque ci si può raccontare uno svariato numero di cose per convincersi di non fare niente di male, lo sapevo, e ci si può convincere così facilmente che pugnalare qualcuno alle spalle è la cosa migliore da fare.
Sapere che qualcuno in questo mondo conosceva i miei errori, le mie debolezze, mi faceva paura, in più c’era di mezzo ma sorella, che già si ficcava nei guai da sola senza che l’aiutassi io raccontando in giro i fatti suoi.

Insomma, magari lo psicologo costava troppo, ma se proprio avevo bisogno di confessare i miei peccati potevo andare da un prete, ecco, non spiattellare tutto ad uno che abitava dalle mie parti, e che per sovrappiù ero costretta a vedere una volta alla settimana.
Il lato positivo era che non mi sentivo più così tanto in colpa nei suoi confronti, o meglio, sapevo di essere ancora in debito e la cosa mi seccava ancora parecchio, ma un pochino mi sentivo anche in credito per avergli mostrato una parte così vulnerabile di me, e comunque per evitare equivoci avevo mezza idea di chiedergli espressamente di non raccontare a nessuno quello che gli avevo detto, non appena avessi osato affrontarlo.
A dire il vero il comportamento migliore e più intelligente sarebbe stato quella di ignorarlo completamente da ora in poi, ma, era strano, il pensiero di non avere mai più a che fare con lui in qualche modo mi rattristava, forse a causa della strana forza sotterranea che sembrava spingermi irresistibilmente verso di lui (probabilmente gli ormoni), o forse perché è bello non sentirsi soli, anche se solo per una microscopica frazione di secondo.
O magari mi ci ero affezionata, ecco, un po’ come ci si affeziona ai randagi che incontriamo spesso per strada, qualcosa di simile.

Ascoltai distrattamente la ragazza che mi mostrava l’unghia spezzata e mi chiedeva di rimediare, e tirai fuori gli attrezzi, pronta ad applicare le più brutte e antiestetiche unghie finte che avevo a disposizione, facevano sempre la loro porca figura con le mie clienti.
Lei approvò entusiasta (approvavano sempre) e subito dopo attaccò a raccontarmi dei problemi di letto con il suo ragazzo, nei particolari, davvero, c’era una specie di legge del contrappasso per cui dovevo sorbirmi i particolari intimi della vita di sconosciuti, proprio io che avevo uno smodato amore per la privacy.

Ascoltai con un orecchio solo e mi dissi che andava tutto bene, che questa non era la mia vita, era solo una parentesi fino a quando non me ne andavo via da lì, da unghie finte, miseria e Sasuke Uchiha, perché in fondo questa vita non contava, era provvisoria.
Per fortuna ne avevo già un’altra, a scuola nessuno sapeva niente di me, e anche il lavoro in fioreria era un’altra cosa, grazie al cielo, e nonostante a causa dei bigliettini da allegare ai mazzi di fiori dovessi sorbirmi spesso noiose spiegazioni, lì le persone non erano mai così smaccatamente stupide da raccontarmi tutta la loro vita come tendevano a fare qui. Non tutte almeno.
Una volta cercavo anche di dare qualche dritta alle mie irresponsabili clienti, di metterle sull’avviso, non è bello sentire che la gente si mette nei guai a causa della sua enorme stupidità, soprattutto con persone dell’altro sesso, ma ormai sapevo che era tutto fiato sprecato: la gente è troppo limitata per provare anche solo a vedere al di là del proprio naso, non ce la fanno.
Non ci si poteva fare niente.

E a proposito di guai, neppure io ne ero immune purtroppo, e sbirciai la tenda trattenendo a fatica la tentazione di guardare dall’altra parte.
Non capivo neppure da dove mi venisse tutta questa smania di vederlo, chi se ne fregava di Sasuke, io avevo Sasori, l’uomo dei sogni, con cui avevo iniziato a messaggiarmi sempre più spesso, ed ero parecchio soddisfatta.
 
Con lui non avrei mai commesso l’errore che avevo commesso con Sasuke, ed avevo la netta sensazione che avrebbe apprezzato la mia discrezione, a nessuno frega niente di sciropparsi i problemi degli altri, la gente vuole essere libera di pensare che tu stai bene e non hai bisogno di niente, così non si sente in dovere di fingere interesse e può soffocarti con le sue fesserie.
Amen.

Mi feci forza e non sbirciai mai dietro la tenda, dalla parte del bar (era dura), e ritardai la mia uscita di un quarto d’ora, di proposito, per non incontrarlo.
Immaginate la faccia quando me lo trovai di fronte all’uscita, che mi aspettava.

Lo fissai imbambolata mentre mi porgeva il cellulare.

 - Grazie – gli feci un po’ brusca, non volevo che pensasse che fossimo amici o simili ora – vedi di non dire niente di quello che ti ho raccontato, non so cosa mi è preso –

 - Tieniti per te le tue stronzate, duchessa – aveva risposto subito, e potevo leggere chiaramente il fastidio in quei begli occhi scuri.

Perché non poteva rispondere con un sì o con un no per una buona volta? Perché doveva sempre complicare tutto?

Lo raggiunsi in fretta perché nel frattempo si era voltato e se ne stava andando via, e mi affrettavo pure anche se a rigor di logica avrei dovuto essere contenta di non averlo più tra i piedi.
Forse sotto sotto mi sentivo ancora in debito, o magari quel paragone con il randagio era appropriato: è crudele cacciare via i randagi, poverini, fanno tenerezza.

 - Cosa vuoi dire – chiesi un po’ nervosa mentre tentavo di adeguarmi al suo passo.

 - Che se ti sei pentita di avermene parlato sono cazzi tuoi –

Stronzo.

  - Non vorrei che uscissero altre voci su mia sorella – tentai di giustificarmi.

Si fermò e mi fissò un momento ancora visibilmente adombrato.
 
- Non vado in giro a raccontare i fatti degli altri, puoi dormire in pace – specificò, lo stronzo, e poi si voltò e riprese a camminare un po’ troppo velocemente per me, per la lunghezza delle mie gambe e per l’altezza dei miei tacchi.

Mi misi a seguirlo imperterrita, senza ben sapere perché mi angosciasse così tanto l’idea che non volesse più avere a che fare con me (diciamo che al momento non avevo né il tempo né la voglia di pensarci), e attraversò la strada con la sottoscritta sempre alle calcagna.
Iniziavo a sentirmi un po’ ridicola.

 - Non possiamo fermarci un momento, che so, andare al bar e parlare con calma? – buttai lì – offro io –

Si era fermato ancora e mi aveva guardata perplesso.

 - Offri tu? –

Non capivo a cosa fosse dovuta quell’aria incredula, non ero mica così tirchia, ero solo oculata, e povera.

 - Un misero tentativo di sdebitarmi almeno in parte – specificai.

Lui aveva sorriso appena, e cominciavo ad abituarmi a quel sorriso, lo trovavo persino…erotico.
Tentai di cacciare il pensiero mentre tornavamo indietro ed entravamo in quello schifo di bar.
Ci sedemmo ad un tavolo all’angolo, un po’ nascosto, e il padrone, un tipo strano che si credeva molto spiritoso, era parso contento di avere come cliente un suo dipendente, così contento che ci portò due aperitivi senza aspettare il nostro ordine.

 - Offre la casa – spiegò mentre ce li consegnava.

Ma guarda, sembrava proprio che fossi destinata a non tirare fuori soldi.

 - Il prossimo però lo pago io – replicai.

Il tizio aveva trovato la cosa molto divertente, rideva, chissà perché, mentre per me era una questione di onore, dovevo pur pagare quel debito in qualche modo, e dimostrare contemporaneamente che non ero tirchia.

- Per prima…  – dissi rivolta a Sasuke, riprendendo il discorso – sappi che non è niente di personale – assaggiai scettica quell’intruglio – è che non mi fido di nessuno – tentai di spiegargli poi, anche se di lui mi ero fidata, forse perché non avevo molto da perdere, o più probabilmente perché ero momentaneamente incapace di intendere e di volere.
 
 - Anche questi sono cazzi tuoi –

Non capivo perché si fosse offeso così tanto e rassegnata finii di bere l’intruglio rendendomi conto solo alla fine che era piuttosto alcoolico.
Mi sentivo un po’ strana.
Afferrai anche il secondo che nel frattempo era arrivato, quello che dovevo pagare io, dicendomi che in fondo non era così male.

  - Non è così facile fidarsi, per me – ammisi – mi ci vogliono minimo tre anni di conoscenza per iniziare a fidarmi giusto un minimo, anzi, se ci penso non mi viene in mente nessuno di cui mi fidi fino in fondo, mi sembra troppo rischioso…c’è qualcuno di cui ti fidi, tu? – non era lui quello che viveva solo?

 - I miei amici, Naruto in particolare – si degnò di rispondere.

 - Immagino che non mi resti che fidarmi di te, volente o nolente – commentai, ma al momento non mi pareva così grave, all’improvviso mi sentivo piena di buoni propositi, doveva essere l’alcool.

 - Immagino di sì –

Mi chiesi se questo faceva del nostro rapporto qualcosa che assomigliava anche solo vagamente all’amicizia, e doveva proprio essere l’alcool quello che mi scaldava il petto e mi faceva allargare un sorriso, perché mi misi ad osservarlo consapevole di avere addosso un sorriso un poco idiota.
La ferita sopra l’occhio si era rimarginata abbastanza ma era ancora piuttosto visibile, notai, e probabilmente si vedeva ancora l’ematoma sul corpo data la sua estensione, egoisticamente non ci avevo più pensato.

- Come vanno le costole? –

 - Sopravvivo – e dopo avere visto la mia espressione (non so bene quale fosse), aveva aggiunto – ogni giorno va meglio, non è più così male –

 - Spero che tu non lo dica solo perché devi fare il duro –

 - Non faccio il duro –

 - Sì che lo fai, lo si deduce chiaramente dal fatto che ti metti a difendere donzelle indifese anche se è una battaglia persa –

  - Niente di personale – mi prese visibilmente in giro – Faccio sempre quello che penso sia giusto –

Era una risposta semplice, e non sapevo per quale motivo mi aveva colpita così tanto, ma rimasi a guardarlo un po’ imbambolata, perché in fondo non era così scontata la cosa, almeno non per me, che facevo quello che ritenevo fosse meglio per me, o per mia sorella, non quello che credevo fosse giusto fare.

Sbagliavo?

Cacciai quel ridicolo dubbio e finii di bere anche quel bicchiere, nel frattempo lo guardavo chiedendomi se potevamo davvero essere amici noi due.
Non avevo mai avuto amici, amici veri intendo, non avevo mai avuto persone di cui potevo fidarmi, semplicemente perché pensavo che non fosse possibile, che l’amicizia fosse una sorta di alleanza temporanea, che le persone in fondo pensassero solo a se stesse, qualcosa del genere…e non capivo perché sentivo di potermi fidare proprio di lui, di questo sconosciuto che per qualche motivo mi attraeva così tanto (e non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto affatto).

Continuai a guardarlo pensando che tutto sommato se non altro era un bel vedere, e che non era neanche tanto stupido per essere un maschio, non era così male come interlocutore.
Gli sorrisi, la testa mi girava un poco, e per qualche assurdo e sicuramente insensato collegamento pensai alla tizia dai capelli rossi che avevo visto a casa sua.
Confesso che era un po’ che ci pensavo a quella lì, che mi chiedevo che tipo di donna potesse piacergli, cosa lo interessava di lei, cos’aveva quella di speciale.
Pura e semplice curiosità femminile, ovviamente.

- Carina la tua ragazza – buttai lì resa loquace dall’alcool.

 - Non ho la ragazza –

 - Ah – non so perché ma mi veniva ancora da sorridere – e allora chi… –

 - Perché tutte queste domande? –

Il tizio mi aveva portato un altro bicchiere e lo accettai volentieri, perché no?, mi sentivo sorprendentemente leggera quella sera, decisamente allegra, quasi felice.
Non mi capitava spesso.

 - Tento solo di esserti amica – spiegai – voglio provarci, davvero –

 - Balle –

 - E perché, scusa? –

 - Perché non fai qualcosa senza un tornaconto, me l’hai detto tu stessa –

Che stronzo.
Non gli avevo mai detto una cosa simile, aveva frainteso il mio sacrosanto diritto di non voler essere più povera, o magari aveva anche ragione, magari ero un’egoista, ma non avevo tornaconti quella sera, e faceva comunque male sentirselo dire in faccia così, non era carino, ecco, Sasori non me lo avrebbe mai detto, ne ero sicura.

 - Cerco di sopravvivere – replicai bruscamente, e bevvi un altro sorso – e se non vuoi avere a che fare con me basta dirlo – conclusi, meno sicura di quel che avrei voluto.

 - Non ho detto questo –

Mi resi vagamente conto che il sorriso assomigliava più a un ghigno soddisfatto ora, ma al momento non mi importava niente della mia espressione, mi importava quello che implicava la sua risposta.
Voleva ancora avere a che fare con me.
Ed io avevo bevuto decisamente troppo.

Dopo il terzo bicchiere ci alzammo, dovetti appoggiarmi per un momento alla sedia perché le gambe non mi reggevano bene (non reggo l’alcool e infatti di solito non bevo mai), e dal momento che il tizio aveva detto che offriva la casa, ci avviammo per la strada che ogni tanto mi aggrappavo a lui, ridacchiando senza motivo e pensando che avrei dovuto trovare un altro sistema per ripagare Sasuke.

Raggiungemmo il metrò che mi sentivo ancora piuttosto allegra, ed entrai nel vagone con la sensazione che la mascella mi dolesse, mi sarei resa conto solo più tardi che era perché stavo perennemente sorridendo come un’idiota, un’espressione inusuale per i miei muscoli facciali.

- Da te ho visto la foto di una bambina – buttai lì dopo che mi ero seduta (lui era in piedi di fronte a me, non c’era posto).
Mi stavo facendo un bel po’ di fatti suoi, alla faccia della persona riservata, ma al momento non mi importava affatto, continuavo a sentirmi spudoratamente allegra, e poi ormai avevo rotto talmente tante regole con lui che una più una meno non cambiava molto.
Senza contare che ero curiosa.

 - E’ mia sorella, mia madre si è risposata –

Ah!
Il sorriso mi si allargò ulteriormente, se era possibile.

 - E non sei andato a stare con loro? –

 - Non vado d’accordo con il mio patrigno –

 - Ed è vero che tuo padre è in prigione? – continuai mentre con la mano, non so perché, gli tiravo la maglietta che spuntava dalla giacca in pelle aperta.

  Mi aveva guardata seccato.

 - Fai un sacco di domande –

 - Cerco di mettermi in pari con tutto quello che sai su di me –

 - Te lo dirò un’altra volta, se fai la brava – mormorò staccandomi la mano dalla maglietta.

Stronzo.

Ma niente poteva scalfire il mio buonumore, per cui tirai fuori il cellulare di mia madre, l’altro era scarico, avrei fatto il cambio scheda a casa, e gli chiesi il numero.

 - In caso di emergenza – spiegai.

Me lo diede, ed ero proprio soddisfatta di avere il numero di qualcuno da chiamare in caso di emergenza.

La fermata successiva si era liberato un posto accanto a me e si era seduto lì.
Continuavo ancora a sorridere come un’idiota, una cosa imbarazzante, ma non riuscivo a trattenermi, e per lo stesso motivo, perché non riuscivo a trattenermi, mi misi a studiare il suo profilo, un profilo bellissimo, non si poteva negare, fino a quando non si voltò a fissarmi a sua volta: i suoi occhi non erano completamente neri visti così da vicino, avevano delle pagliuzze più chiare, grigio blu, come gli feci notare ad alta voce mentre mi ci perdevo un poco, ed erano davvero bellissimi, anche quelli.
Dopo mi concentrai sulla cicatrice e la sfiorai appena con le dita, per niente impressionata, anzi, era piacevole toccarlo, e quando mi staccò le dita scesi a guardargli il naso, che era ancora dritto per fortuna, non glielo avevano spaccato (non ero sicura di non avere commentato ad alta voce), e infine scesi più giù, a guardare quelle labbra ben disegnate, così invitanti.

Allungai una mano, l’avvolsi attorno al suo collo e lo attirai a me, perché ero felice, e perché avevo un disperato bisogno di baciarle.

Sfiorai appena le sue labbra con le mie, saggiandone la morbidezza, e con il cuore che batteva all’impazzata feci scivolare la lingua nella sua bocca, lentamente, perché volevo assaporarlo con calma.

Poco dopo eravamo lì che ci baciavamo con tutti noi stessi, le lingue che si muovevano l’una sull’altra con avidità, e c’era un formicolio che mi attraversava il corpo ed arrivava fino in mezzo alle gambe.
Ci staccammo respirando a fatica, ed ancora non connettevo bene, tanto che al momento l’idea di saltargli in braccio e farmelo lì sul metrò, davanti a tutti, non suonava così sbagliata com’era in realtà.
Lui guardò la fermata di sottecchi e si sollevò.

 - Scendo qui, abbiamo le prove, ce la fai a tornare a casa sana e salva? –

 - Certo! Non sono ubriaca, solo un po’ allegra, e poi è ancora presto! –

 - Chiamami se c’è qualche problema –

Mi fissò un momento prima di uscire, ed io rimasi lì, con un sorriso idiota tra le labbra, il cuore in tumulto e l’eccitazione che ancora non mi abbandonava, come il suo sapore in bocca.
Non provavo neppure la sensazione sgradevole che mi dava quella fermata, in quel momento era la fermata in cui scendeva Sasuke per fare le prove con il gruppo, non quella in cui lo avevo vigliaccamente abbandonato.
Solo dopo mi resi conto che ero sola, che se ne era sceso e mi aveva abbandonata lì.
Bastardo.
Mi mancava già.

Scesi alla fermata giusta, la testa che girava un po’, ma non appena fuori, all’aria aperta, ritrovai di colpo la ragione, e nel tragitto fino a casa mi resi conto dell’enormità di ciò che avevo fatto.
Mi affrettai a scrivergli un sms:

 ‘Scusa, ho sbagliato, dimentichiamocene, vorrei davvero provare ad essere tua amica’

Non avevo specificato a cosa mi riferivo, ma ero sicura che avrebbe capito, così dopo aver firmato inviai e non ci pensai più (più che altro tentai di non pensarci più) fino a quando non trovai la sua risposta, il mattino dopo.

‘Va bene’

Ne rimasi inspiegabilmente delusa.
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Capitolo 7
*** 7. ***


Ecco qui, è solo un capitolo di passaggio, niente di che.



7.


Le notti successive, prima di addormentarmi, mi capitava di pensare a lui e a quel bacio che avevamo scambiato, intenso come era intenso lui, ed ero consapevole che in quel modo rischiavo di caricarlo di significati che non aveva e non doveva avere, eppure al calduccio sotto le coperte non mi sembrava così grave, era solo un gioco in fondo.

Al mattino ritrovavo la ragione e mi ripetevo che dovevo smetterla, che in fondo si trattava solo di un bacio, niente di che, che probabilmente ero solo in crisi di astinenza e avevo bisogno di affetto, ma la sera, in quel piacevole stato tra il sonno e la veglia, non riuscivo a resistere e ci cascavo di nuovo come un pero.
Mi sentivo come quella che voleva smettere di fumare e si diceva ogni volta che era l’ultima.

Tutto questo fino a giovedì, quando mi ero trovava con Sasori, proprio lui, il mio principe azzurro.

Mi aveva chiamata la mattina stessa per dirmi che era a Konoha per poche ore, e chiedermi se ero libera per pranzo.

Ovviamente avevo risposto di sì (non subito, avevo aspettato più di mezz’ora prima di rispondere, di proposito, per tenerlo un po’ sulle spine).

Ci eravamo dati appuntamento fuori dalla mia facoltà, e grazie al cielo nonostante la mancanza di preavviso il mio look era impeccabile, come sempre, da capo a piedi, intimo compreso.
Ciò nonostante mi ero guardata allo specchio del bagno per almeno venti volte per controllare il trucco, eccitatissima e particolarmente soddisfatta del fatto che intendesse portarmi fuori a pranzo, e non a letto, come un vero e proprio gentleman: aveva guadagnato dieci punti nella mia personale agenda.

Si era presentato con una porsche color argento, che non era esattamente il mio genere di auto, un po’ troppo vistosa (e poi avevo sempre pensato che la guidassero tizi grassi e pelati, per compensare), ma non era certo il caso di fare le schizzinose, era comunque una meraviglia, e mi sedetti nel sedile di pelle sentendomi proprio una duchessa, alla faccia di chi pensava male di me.
Durante il tragitto mi rese edotta dell’intero arsenale di macchine a sua disposizione, come se a me potesse fregare qualcosa, ma mostrai comunque il mio bravo interesse, forse anch’io se avessi avuto montagne di gioielli li avrei sventolati in faccia alla gente, anche se magari non in faccia ad un ragazzo al primo appuntamento.
Ma i maschi sono stupidi, si sa, o poveri, e spesso tutte e due.  

Il pranzo era stato magnifico, il posto era magnifico, con un arredamento modernissimo in tutte le sfumature dal beige al marrone, il bagno poi era il più lussuoso in cui avessi messo piede, e il cibo ottimo benché un po’ scarso, ma tanto non avevo tutto questo appetito.
Nel dubbio avevo lasciato che ordinasse lui per me, avevo letto da qualche parte che si faceva così, e non me ne ero pentita: avevo assaporato le pietanze particolarmente di gusto sapendo che non pagavo io, ed avevo anche assaggiato il vino bianco, leggermente frizzante, constatando che era un’altra cosa rispetto all’intruglio del bar (cacciai l’immagine di Sasuke, non era il caso di mettersi a pensare a lui in compagnia del proprio principe azzurro).

 Sasori era stato squisito, mi aveva fatto sentire una principessa, o una duchessa magari, e avevamo parlato di tutto, davvero, non era ignorante come tanti che conoscevo, e poi mi anche aveva raccontato molte cose di lui, dei suoi viaggi principalmente, e della sua passione per le macchine costose.
Avevo ascoltato sorridendo e buttando lì qualche battuta, e di me avevo raccontato solo che studiavo medicina, facendo alcuni vaghi accenni ai mei progetti, anche troppo mi pareva.
Mi aveva definita misteriosa, e andava bene così.

Dopo, in macchina, mi chiese se avevo la casa libera (evidentemente aveva programmi per il dopopranzo, altro che gentleman) ed era quasi con sollievo che avevo risposto di no, mi pareva più prudente aspettare ancora un poco per certe cose.
Mi feci accompagnare di fronte alla facoltà con l’intenzione di studiare un po’ in biblioteca prima di recarmi al lavoro in fioreria, e mi aveva salutata dicendo che la prossima volta avrebbe fatto in modo di fermarsi di più, almeno una notte, ed avevo capito benissimo cosa intendeva dire.
Ci baciammo, ovviamente, un bacio abbastanza lungo, abbastanza decente, anche se non mi aveva, diciamo, fatto venire voglia di saltargli addosso.

Mi pareva fosse andato tutto bene, non avrei potuto chiedere di meglio, e guardai di sfuggita il mio riflesso sul vetro dell’entrata in biblioteca.  
Cos’era quella faccia seria? Perché non ero raggiante come avrei voluto, come avrei dovuto?
E perché avevo il dubbio che fosse tutta colpa di Sasuke?

Il giorno dopo ne avevo perfino parlato ad Ino, con cui mi ero raffreddata molto dopo la volta della metropolitana, ma avevo bisogno di dirlo a qualcuno e non mi pareva un argomento così compromettente da dover essere taciuto, in fondo si trattava di ragazzi, argomento universale, e soprattutto di ragazzi che lei non conosceva.
Le avevo raccontato di questo tizio terribilmente affascinante di Suna, e di quest’altro, che era solo un amico e per vari motivi non faceva proprio per me, ma, come dire, mi faceva sesso.
Secondo lei con Sasuke dovevo togliermi lo sfizio una volta per tutte e non pensarci più, prima che la cosa degenerasse, e forse aveva ragione, non so.

Non capivo neppure a cosa fossero dovuti quei pensieri, da cosa mi venissero dei dubbi quando di fronte a me c’era esattamente quello che avevo desiderato, ed esattamente come lo avevo desiderato.
Sasuke era solo un amico, o meglio, un potenziale amico.

Venerdì pomeriggio, ancor prima di entrare al lavoro, diedi un’occhiata al di là della strada, dentro al bar.
Lui era già lì ma non sembrava avermi visto, parlava con un tizio, e lo studiai per un poco arrabbiata, non sapevo neppure bene il perché anche se avevo i miei sospetti.

Era una giornata nuvolosa, per cui non tirai le tende, e nonostante mi sforzassi di non guardare ogni tanto l’occhio scivolava dall’altra parte della strada, il traditore; non appena me ne accorgevo distoglievo in fretta lo sguardo, seccata, ma un paio di volte incrociai i suoi occhi.

Ero davvero arrabbiata con lui, perché…perché in fondo era colpa sua se il bacio tra me e Sasori non aveva fatto faville, ecco, perché se non avessi avuto il suo bacio da paragonare sarebbe andato tutto bene, ne ero sicura, e non importava che fossi stata io a iniziare, era comunque colpa sua.

Nonostante questo non pensai neppure un secondo di evitarlo, ormai mi ero quasi rassegnata al fatto che una parte di me voleva vederlo, e poi non potevo stare sempre a pensare a implicazioni, rischi e conseguenze, dovevo pur vivere la vita di ogni giorno e lasciare che alcune cose andassero come capitava, l’importante era continuare a tenere i piedi ben saldi a terra e sapere esattamente cosa si voleva dalla vita.
O almeno era quello che continuavo a ripetermi.

All’uscita, neanche avessimo fatto apposta, ci ritrovammo a camminare insieme.

Solo in quel momento mi resi conto che non sapevo bene come l’avesse presa lui, quella storia del bacio, che non sapevo cosa pensasse, cosa volesse.
Sono davvero egoista, lo so.

A mia difesa posso dire che non è solo questione di egoismo, cerco di barcamenarmi, ecco, e di proteggermi da quei ragazzi che ti fanno girare la testa e ti fanno invariabilmente soffrire, e da tutte quelle persone che si prendono un pezzetto del tuo cuore e non ti danno niente, e neppure ti ricoprono d’oro per compensare.

Lo sbirciai ancora, guardava fisso di fronte a sé e mi pareva così bello in quel momento che il cuore mi sussultò nel petto.
Bastardo.

  - Ieri ho incontrato un tizio veramente affascinante, sono molto contenta – buttai lì con il solo scopo di farlo sentire inferiore, perché ero arrabbiata con lui, era colpa sua, sapevo io di cosa.

 - E’ ricco? –

 - Ovviamente sì –

 - Buon per te –

Aveva parlato freddamente, ma ero riuscita lo stesso a percepire il fastidio, e guarda caso dopo non aveva più aperto bocca.
Camminammo affiancati, lui troppo in fretta, faticavo a stargli dietro, ed anche questo era un segno, faceva apposta, lo sapevo, fino a quando non incontrammo quella specie di barbone che suonava la chitarra.
Questa volta era dentro alla metropolitana, subito sotto le scale d’entrata, cominciava a fare un po’ troppo freddo fuori, e Sasuke si fermò a parlare con lui, lo stronzo, sicuramente di proposito, perché se lo doveva immaginare che la cosa non mi piaceva, non era così stupido.

Proseguii senza neppure salutarlo e salii sul treno senza più vederlo, sentendomi inspiegabilmente sola.
Vabbè, era quello che volevo, e non si è sempre soli, in fondo?
Un fattore esistenziale, o qualcosa del genere.

Il giorno dopo studiai tutto il tempo decisa a non pensare a niente, e risposi svogliatamente anche ai messaggi di Sasori, che sembrava convinto di avere passato un paio d’ore meravigliose con me.
Forse perché ero nervosa, o magari perché quel giorno mi stavano sulle palle tutti gli esseri viventi indistintamente (a volte ho di queste giornatine), ma in quel momento non mi sembrava proprio di aver trascorso delle ore così memorabili, o meglio, il contesto era stato entusiasmante, lui si era comportato in modo impeccabile, però, vuoi perché per ovvi motivi quando ci eravamo visti ero un po’ in tensione, vuoi perché dopo un po’ che senti uno raccontarti che ha fatto questo, e quello, la cosa ti viene a noia, non me la sentivo di definire quelle ore come meravigliose, e questa era la prima e ultima volta in cui intendevo ammetterlo, anche con me stessa.
__

Per un motivo o per l’altro (per un ragazzo o per l’altro) continuavo ad essere piuttosto nervosa in quei giorni, e quella domenica mattina mia madre e mia sorella si erano messe a litigare.
Moegi era tornata in tutto per tutto l’adolescente rompiballe che era prima, come se davvero non fosse accaduto niente, ma non me ne sorprendevo più, in fondo anch’io pensavo sempre meno all’aborto e andava bene così, non era salutare piangere su qualcosa che non si poteva modificare, non aveva senso.
L’unica cosa da fare era imparare la lezione, non ripetere gli stessi errori ed andare avanti: c’è sempre un altro giorno ed un’altra occasione.
Ci deve essere.

Restava solo una nuova cicatrice da qualche parte, e forse, ben seppellita, l’immagine indistinta di un bambino che avrebbe potuto esistere.

Il pensiero scivolò naturalmente su Sasuke, non so perché, diciamo che per il mio inconscio ogni scusa era buona.
Quello…quello stupido.

Ero sicura che fosse arrabbiato con me, e la cosa mi angustiava più di quello che avrebbe dovuto, forse perché stavo sorprendentemente bene in sua compagnia, non lo nego, e mi sentivo davvero un po’ più sola all’idea che ce l’avesse con me.

Gli avevo perfino preso un pensierino, una cosina microscopica.
Per non prendermi gli ultimi giorni ero andata a far compere per Natale in un negozio del centro, avevo acquistato una piccola trousse di trucchi da regalare a mia sorella ed una crema per mia madre, tutte in offerta ovviamente, e subito dopo ero passata di fronte ad un negozio di strumenti musicali.
Colta da un impulso incontrollabile ero entrata e gli avevo preso un plettro rosa shocking che gli avrebbe ricordato la sottoscritta ogni volta che suonava la sua chitarra, una sciocchezza, non sapevo neppure se avrei osato consegnargliela.
Almeno costava pochissimo.

Nel frattempo ascoltavo con un orecchio solo gli scatti nervosi di mia sorella e le lamentele di mia madre, che già a quell’ora era seduta di fronte alla tv e chiedeva continuamente di portarle qualcosa, ma quando Moegi si era messa ad urlarle che non potevamo essere sempre al suo servizio, che doveva sforzarsi di fare qualcosa, che non era così malata in fondo, non ero più riuscita ad isolarmi: aveva anche ragione, però era ancora nella fase in cui credeva che urlando sarebbe riuscita a far cambiare le cose, nella fattispecie mia madre, io avevo perso da tempo ogni illusione e tentavo solo di arginare i danni.

Dopo aver provato in vari modi a farle tacere, o a isolarmi ancora nonostante tutto, mi alzai di scatto, seccata, e aprii il freezer per prendermi del gelato che avevo comprato in un raptus, usando soldi di tasca mia, per accorgermi che qualcuno aveva chiuso male la portella e l’interno era pieno di ghiaccio.
Afferrai il barattolo di gelato constatando che era mezzo sciolto e semivuoto, e subito dopo iniziai a urlare anch’io: il freezer era ben fornito quel giorno, una rarità in casa mia, e adesso era tutto andato in malora: sapevo che erano state quelle stronze per prendersi il mio gelato, ma non sapevo quale delle due, ed ero sicura che avrebbero negato anche sotto tortura.
Tolsi il ghiaccio alla meno peggio, non potevo mettermi a sbrinare proprio ora, un lavoro che odio con tutte le mie forze, e richiusi di nuovo tutto dentro dicendomi che se quelle stronze si prendevano la salmonella perché per colpa loro, e ribadisco, per colpa loro era tutto avariato, be’, peggio per loro, io tanto ero immune a virus e batteri, ne ero sicura.
Dopo aver imprecato per un quarto d’ora uscii di casa sbattendo la porta, avevo bisogno di prendere aria.

Il fatto era che avevo raccomandato un miliardo di volte di chiudere bene il freezer, la guarnizione era un po’ usurata e bisognava spingere bene, ma loro no, se ne fregavano, tanto mica era un problema loro, c’era Sakura pronta a sistemare tutto, e questo simboleggiava un po’ il mio ruolo all’interno della famiglia: chi se ne frega, tanto c’è Sakura, problemi suoi.
Parassiti, tutti...e vi pareva che avessi voglia di accollarmi anche qualche altro parassita nella mia vita? Magari un ragazzo squattrinato, magari solo perché mi faceva sesso?
Non se ne parlava nemmeno.
Meglio sole, davvero…molto meglio sole.

Camminando capitai di fronte al palazzo di Sasuke, feci finta che fosse per caso, ma non lo era, lo sapevo bene, e proseguii di filato giù per il quartiere: era presto, non erano neanche le dieci di domenica mattina e non c’era nessuno in giro, una meraviglia.
La rabbia mi stava già sbollendo e non pensavo più a quelle due, ma in compenso pensavo al fatto che era una seccatura che lui si fosse risentito, perché non sarebbe stata una cattiva idea quella di andare a studiare in santa pace a casa sua, e in fondo non era solo questo, era che un poco mi mancava il mio randagio, mi ci ero proprio affezionata e ormai era sempre lì in un angolino dei miei pensieri, come una presenza latente.

Mi chiesi se gli importasse un pochino di me, se fosse un pochino geloso, se non si fosse arrabbiato proprio per quello, e per quanto fosse ridicolo non riuscivo a non trovare l’idea elettrizzante.

Poco dopo, mentre passavo ancora una volta dalle sue parti con una mezza idea di provare lo stesso a fare un salto da lui con i libri, mi giunse il suono di voci alterate e mi avvicinai per controllare, perché mi pareva di riconoscere quella maschile: c’erano due persone, una come avevo immaginato era Sasuke e l’altra era la donna che avevo visto sulla foto anche se aveva qualche anno in più, che gli somigliava molto e doveva essere sua madre.
Mi nascosi dietro ad un angolo sicura che lui non avrebbe apprezzato di trovarmi lì, ma tanto era già arrabbiato e non cambiava molto, e comunque, per quanto mi rendessi conto che non era esattamente educato origliare, non mi sentivo per niente in colpa: la mia inesistente curiosità stava prendendo improvvisamente vita e quei due si trovavano in un luogo pubblico, peggio per loro.
Rimasi inchiodata lì, ben nascosta dietro l’angolo, ma al momento non mi importava neppure così tanto di essere scoperta.

 - E a cosa deve pensare? – sentii dire a Sasuke, con un tono calmo ma tremendamente freddo che metteva i brividi e che, mi resi conto, non aveva mai usato con me.

 - E’ ancora arrabbiato – aveva risposto lei – pensa che sia meglio se anche voi state un po’ lontani e… –

 - Che stronzo –

  - Devi capirlo, anche tu hai sbagliato, te l’ho detto…e sai quanto è protettivo verso la famiglia –

 - E da chi deve proteggerla? Da me? Che minaccia rappresento esattamente per la sua famiglia? …e perché tu non hai detto niente? –

C’era stato un lungo silenzio.

 - Non è così facile – sentii rispondere lei – io…è anche la mia famiglia –

Non ci capivo nulla e non erano fatti miei, ma mi pareva una cosa stupida, e suo figlio, allora? Non era un membro della famiglia, lui?
Ci fu un’altra pausa, e mi domandai se non era esattamente questo che si stava chiedendo Sasuke.

 - E allora rimani con loro e non continuare a tormentarmi –

 - Non ti tormento, sono tua madre e sto cercando di conciliare tutto, non è facile e… –

 - Non sforzarti allora, lasciami in pace –

Si capiva che sua madre era molto agitata, e ad un occhio estraneo lui poteva sembrare quello cattivo, ma io non mi faccio facilmente impietosire: non per fare la solita cinica, però, sicuramente a causa della mia esperienza personale, non ho una grande opinione di padri e madri.
Non è colpa loro suppongo, il fatto è che le persone non si trasformano dopo aver messo al mondo figli, se erano immature e irresponsabili prima rimangono tali anche dopo, anzi, col tempo peggiorano, e a volte ho l’impressione che si mettano a procreare convinte che siamo una specie di cuccioletti da portarsi a casa per poi diventare delle seccature quando si accorgono che non siamo poi così graziosi, o peggio, per diventare quelli che dovrebbero prendersi cura di loro, come se fossero loro una nostra responsabilità, e non l’esatto contrario.

Mi accorsi che Sasuke si stava allontanando e mi appiattii dietro l’angolo sperando che non venisse dalla mia parte…come non detto, mi passò proprio di fronte e si voltò a guardarmi con la coda dell’occhio.
Sembrava furioso, non l’avevo mai visto così.

 - Senti… – iniziai.

 - Cazzo ci fai qui? – mi sibilò – Vattene! –

Non è che di solito mi faccia intimidire, tantomeno da lui che ormai sapevo non essere così cattivo come sembrava, ma c’era qualcosa nel suo tono, nei suoi occhi, che non gli avevo mai visto e che in qualche modo riconoscevo: sapevo che stava male.

Rimasi immobile, paralizzata per alcuni secondi, non tanto per il fatto in sé, quanto per quello che sentivo io di rimando, perché mi dispiaceva così tanto, ed avrei voluto fare qualcosa, avrei voluto raggiungerlo e per una volta in vita mia essere capace di parole buone, incoraggianti.
Non credevo di esserne capace, anzi, sapevo di non esserne capace, e in ogni caso lui non mi avrebbe mai permesso di avvicinarmi.

Si voltò senza una parola lasciandomi lì come una stupida, e in fondo era così che mi sentivo, perché non era il caso di agitarsi tanto, era eccessivo, la faccenda non era molto grave, si trattava solo di sciocche beghe familiari, e chi non ne ha.

Restai lì ferma, a calmarmi pian piano, e mentre mi dicevo che avevo sbagliato ad impicciarmi dei fatti suoi e dovevo semplicemente dimenticarmi di avere assistito a quella scena, lo guardavo allontanarsi, e non so…mi pareva così bello in quel momento, e così solo.
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Non vado da nessuna parte per le feste, per cui dovrei postare i prossimi capitoli senza grosse variazioni.

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Capitolo 8
*** 8. ***


Eccomi qua, nessun commento sul capitolo, spero vi piaccia, io sono in una fase in cui butterei tutto!

Passando a cose più serie...purtroppo in questa storia il Natale arriverà in ritardo rispetto a noi, mancano ancora diversi capitoli…ma intanto Buon Natale a tutte voi!
 



8.




Quel venerdì Sasuke non mi aveva mai degnata di uno sguardo attraverso la vetrina, e quando uscii se ne era già andato.
Ci rimasi parecchio delusa, lo ammetto, mi ero fatta l’idea che mi avrebbe aspettata ed avremmo fatto la strada insieme per sempre, o quasi, invece probabilmente era ancora arrabbiato con me, o con il mondo, e non mi voleva intorno.

Io invece l’avevo cercato con gli occhi ossessivamente per più o meno l’intero pomeriggio, e non mi piaceva per niente questo mio atteggiamento, lo trovavo abbastanza patetico, eppure non riuscivo a trattenermi, era più forte di me.
Tenuto conto che invece rispondevo anche un po’ annoiata ai messaggi di quell’altro, Sasori, e che anzi, a volte rispondevo dopo un bel po’, e un paio di volte addirittura neppure avevo risposto, la cosa stava velocemente degenerando, proprio come aveva predetto Ino.

Il lato positivo era che Sasori invece sembrava sempre più ossessionato da me, funziona sempre non mostrarsi troppo interessate, anzi, purtroppo quello che funziona è proprio il non essere troppo interessate: meno me ne fregava di lui, più lui sembrava insistere, meno rispondevo, più lui chiamava, se continuavo così lo avrei avuto presto ai mei piedi, e magari a quel punto non lo avrei voluto più.

Non che fosse questo il caso, intendiamoci, in realtà lo volevo ancora, nonostante in quei giorni i suoi sms mi sembrassero particolarmente melensi, i suoi discorsi così noiosi, e nonostante non mi paresse nemmeno più tanto attraente, non confronto a Sasuke.

Cominciavo a sospettare di non essere il tipo da relazioni a distanza…e va bene… in realtà sapevo che il problema era un altro, ovvero questa specie di tira e molla con Sasuke che mi toglieva interesse per qualsiasi altra cosa, ma non ero veramente preoccupata, non c’era da farne un dramma, ero perfettamente in grado di ragionare e di capire quali erano i limiti della mia relazione con ambedue, e soprattutto sapevo che cosa volevo dal mio futuro.
Non ero tipo da perdere la testa, tantomeno per un uomo, ed avevo i piedi ben ancorati a terra.

Tutto questo non mi impediva di rispondere svogliatamente a Sasori, almeno provvisoriamente, e di avere voglia di vedere Sasuke, che in fondo era la cosa più vicina ad un amico che conoscevo.
__

Sabato mattina avevo fatto il mio giretto mensile in posta per ritirare la pensione, e me la presi davvero comoda al ritorno.
Diciamo che non fui per niente sorpresa di incontrare Sasuke, guarda un po’ i casi della vita, che nel posto dell’altra volta stava caricando gli strumenti sul solito furgone scassato, assieme a quegli altri due perdenti.

 - Ciao Sakura! – mi salutò allegramente Naruto, che non sembrava brillare di intelligenza ma non si poteva dire che fosse antipatico, o stronzo.

Mi fermai a scambiare due parole con lui dato che gli altri non mi avevano neppure salutata, il quale mi spiegò che erano in partenza per Oto, dove dovevano suonare quella sera.

 - Vuoi venire con noi? Non ci fermiamo lì, torniamo indietro subito dopo! –

 - No, grazie, è un po’ troppo lontano – replicai mentre meditavo di scroccare una sigaretta al tipo dell’altra volta, il fornitore ufficiale di tutti a quel che vedevo.

 - La settimana prossima allora! Suoniamo qua a Konoha! – insisteva lui con il suo solito entusiasmo strabordante.

 - Be’, vediamo –

Ma ascoltavo con un orecchio solo, intanto guardavo Sasuke che continuava ad ignorarmi platealmente.

 - Scusa Sasuke, vorrei dirti due parole – buttai lì nella sua direzione, e non sapevo neppure cosa mi fosse saltato in mente, perché non mi pareva granché dignitoso imporsi così, anzi.

Diciamo che era stato un istinto insopprimibile, come mi accadeva sovente con lui.
Un po’ troppo sovente.
Era il fatto che…mi seccava vederlo sgusciare via dalla mia vita in quella maniera stupida, come non avrebbe dovuto seccarmi.

Nel frattempo mi sentivo gli sguardi degli altri due addosso, e immaginavo perfettamente i loro pensieri: Naruto aveva l’aria sconcertata, della serie ‘anche tu, non me lo sarei mai aspettato’, l’altro invece sembrava annoiato, qualcosa del tipo ‘e te pareva’, ma me ne fregai e mi avvicinai a Sasuke visto che se non altro si era degnato di guardarmi.

 - Sei arrabbiato con me? – bisbigliai sporgendomi un poco verso di lui, preferivo evitare la sceneggiata pubblica.

 - Non gira tutto attorno a te –

Sempre simpatico.
Almeno aveva usato un tono abbastanza basso e forse gli altri non avevano sentito, forse.

 - E’ per tua madre allora? –

A questo punto non intendevo demordere, e sostenni eroicamente il suo sguardo aggressivo, tanto ormai c’ero abituata.

 - Non è che voglia farmi i fatti tuoi – specificai sempre sottovoce – ma mi chiedevo come stavi – non c’erano molte persone con cui mi interessasse mantenere un rapporto, e quelle poche dovevo tenermele care.

 - Forse è il caso di chiarire l’equivoco: noi due non siamo amici –

Non so perché ma quelle parole mi avevano ferita orribilmente, e contemporaneamente mi avevano resa edotta della mia immensa vulnerabilità: ero stata davvero così stupida da abbassare così tanto la guardia con lui?
Avevo davvero permesso ad un essere umano di avere tutto quel potere su di me?
Dovevo provvedere immediatamente.

Senza più dire una parola mi voltai e mi diressi verso casa, la borsa stretta in mano come se ne andasse della mia vita, ed anche un po’ ne andava a dire il vero, visto che dentro c’erano i soldi della pensione.

Se speravo che mi corresse dietro stavo fresca, il bastardo, comunque neppure lo speravo, al momento non lo volevo proprio vedere, e arrivai a casa che ero furiosa, con lui e con me stessa, ben decisa a non degnarlo mai più di uno sguardo.
Stronzo.

Quel pomeriggio risposi tutta zelante a Sasori per la prima volta dopo giorni, perché c’è sempre un lato positivo, ma devo confessare che la notte mi ero fatta un piantino.
Per un uomo, che vergogna!

Era mattino presto quando avevo ceduto a quella che non potevo definire se non una strana forma di ossessione e gli avevo inviato un messaggio, una cosa molto semplice.
Sei proprio uno stronzo, lo sai?

Avevo bisogno di sfogarmi, e chi meglio del diretto interessato?

Onestamente speravo fosse tornato da poco e di averlo svegliato, ma non mi illudevo molto, probabilmente era ancora in viaggio e neanche si accorgeva del messaggio; invece, incredibilmente, mi aveva risposto poco dopo, e devo dire che non me l’aspettavo proprio, anzi, dubitavo perfino di ricevere una qualsiasi risposta conoscendolo.

Sei tu duchessa?’

Lo stronzo aveva dubbi, non si era neppure salvato il mio numero.
Replicai di getto:

Sei anche un idiota’ che poi era la pura e semplice verità.

E poco dopo gliene inviai un altro:

E mi vergogno di averti dato quel bacio’

Che poteva sembrare ridicolo come messaggio…ok, lo ammetto, era davvero ridicolo, e non aveva neppure senso nel contesto, ma mentre lo scrivevo ero infantilmente soddisfatta, anzi, avrei aggiunto ancora più da immatura che non c’era confronto con i baci del mio principe, solo che non volevo strafare.
Un secondo dopo ovviamente mi ero già pentita di quella frase e me ne vergognavo profondamente.

Non so neanche bene cosa volessi ottenere con quelle stupidaggini, soprattutto con quell’accenno al bacio, pensavo di ferirlo?
E come? Non ero più così sicura di piacergli, magari era stata solo la mia vanità che mi aveva fatto prendere lucciole per lanterne…si sa come sono i maschi, non stanno a porsi molte domande quando una ragazza gli salta addosso, a loro va bene comunque.
E poi…probabilmente ad un ragazzo come lui non poteva piacere veramente una come me.
Che stupida.

Speravo almeno di averlo provocato abbastanza da spingerlo a replicare, ma ovviamente il bastardo non aveva più risposto, di sicuro si era convinto definitivamente che fossi una povera pazza, una da evitare, e giuro che fu una fatica immane resistere e non scrivergli più.

Per fortuna assieme al sole mi era tornata anche la lucidità, e mi misi a studiare intervallata soltanto dalle richieste lamentose di mia madre e dagli sporadici interventi di mia sorella, che per fortuna dopo pranzo era uscita con le sue amichette, altrettanto se non più stupidelle di lei.
Non che mi sentissi tanto superiore al momento, soprattutto se pensavo al messaggio delirante che gli avevo inviato.
Che imbarazzo!
E’ un peccato che non li si possa cancellare a posteriori, dovrebbero proprio trovare un sistema per renderli cancellabili entro i primi due minuti, o qualcosa di simile.
_

Nel pomeriggio avevo addobbato l’albero di Natale, non sapevo neanche perché dato che non me ne fregava molto e di solito era Moegi l’entusiasta che mi costringeva a prepararlo, ma quest’anno sembrava che non importasse neppure a lei e non me la sentivo di non fare proprio niente.
Mi pareva triste.

Non che mi ci fossi impegnata molto, ma non era venuto così male, ero quasi soddisfatta.

Dopo avevo studiato per diverse ore e mi sentivo pronta a rilassarmi e concedermi un meritato riposo, quando Moegi mi aveva chiamata piangendo: chiedeva se potevo andare a prenderla da Ichiraku e fare la strada del ritorno con lei, e sembrava davvero disperata.
Ichiraku era il bar in cui lavorava Sasuke, e non sapevo se lui fosse lì, non avrebbe dovuto dal momento che era tornato chissà a che ora, ma sapevo che la sua presenza era l’unico motivo che spingeva Moegi e le sue amichette ad andare lì ogni tanto la domenica, per cui doveva esserci, a meno che non vi fossero capitate nella speranza di vederlo e non avessero deciso di rimanerci comunque.

Non che importasse, e in altre circostanze non le avrei proprio badato, avrei pensato che fossero le solite paturnie da adolescente, beghe tra amichette di solito, e le avrei detto di smetterla di frignare e muovere le chiappe, ma dopo l’incidente, lo chiamavo così ormai, mi faceva entrare nel panico per molto meno, così le scritti di aspettarmi, che arrivavo subito, e mi precipitai al metrò in un battibaleno.
In una ventina di minuti ero già da Ichiraku, un record, ed entrai senza neppure pensare a Sasuke, che comunque era lì, non era che potessi non notarlo.
Era piuttosto evidente.

Cercai mia sorella con lo sguardo ignorandolo apertamente, avevo ancora il fiatone, e la vidi seduta ad un tavolo in fondo, in una delle sue migliori pose seduttive e per nulla disperata.
Anzi, rideva.

In quel momento si accorse a sua volta di me, e doveva essersi resa conto della gravità della sua situazione perché si affrettò ad alzarsi, e dopo avermi raggiunta mi trascinò fuori senza darmi il tempo di fare una scenata.

 - Ti ho scritto che non occorreva più! – mi sgridò, neanche adesso fosse colpa mia.

Controllai il cellulare ed effettivamente c’era un messaggio non letto, però non era quello il punto e la guardai decisamente incavolata: aveva gli occhi un po’ gonfi, ma non mi feci impietosire.

- Si può sapere cosa è successo? – sibilai.

 - Ami mi ha chiesto se ero incinta! – fece uscire in un soffio, con una voce un po’ tremante.

Ami era la sua nemica acerrima, almeno fino ad un paio d’anni prima, e mi ero illusa che con l’adolescenza avessero superato quella ridicola fase di dispetti e cattiverie, ma evidentemente ero stata ottimista.

 - Hai negato spero –

 - Sì ma lo sapeva! Come è possibile! –

Non ne avevo idea, ma grazie a Sasuke ero a conoscenza del fatto che la voce girasse.

 - L’hai detto a qualcuno? – provai a chiedere, le avevo fatto giurare di non farne parola ad anima viva ma non era che mi fidassi così tanto, anzi.

 - A nessuno! –

 - Sicura? –

Saltò fuori che l’aveva detto solo alle sue due amiche del cuore, che avevano giurato a loro volta di non dirlo a nessuno, al che le spiegai che evidentemente anche loro lo avevano detto a due persone facendosi giurare la stessa cosa, che a loro volta lo avevano detto ad altre due…ed ecco, faceva presto a saperlo l’intero quartiere.

Nel frattempo aveva ripreso a piangere, valla a capire, pensavo le fosse passata.

 - Cosa facciamo se lo sanno tutti? – bisbigliò angosciata.

 - Guarda, non è un problema – replicai con fermezza, tentando di infonderle sicurezza – tu nega recisamente se te lo chiedono e non pensarci più…le chiacchiere sono solo chiacchiere in fondo, e ci sarà sempre qualcuno pronto a dire cattiverie su di te, che siano vere o non lo siano…e ricordati che sono cose tue, personali, non devono riguardare nessun altro, non sentirti in dovere di confessarle alle tue amiche…dimenticatene, lo faranno anche gli altri –

Altro non potevo fare, e constatato che lei stava meglio conclusi dicendole che almeno aveva imparato anche questa lezione, ovvero che se in futuro voleva che qualcosa rimanesse un segreto non doveva dirlo a nessuno, neanche a me.

 - Solo a me – rettificai poi, perché non era in grado di arrangiarsi, e poi mi rendevo conto che per lei sarebbe stato troppo difficile mantenere un segreto.

In fondo non è da tutti riuscire a tenersi le cose solo per sé, anch’io avevo sentito il bisogno di raccontarlo a qualcuno, uno che nonostante fosse un gran bastardo non credevo fosse tipo da andare a raccontare in giro i fatti degli altri, ma forse mi sbagliavo, che ne sapevo in realtà, mica eravamo amici.
Repressi quel moto di amarezza che assomigliava tanto alla tristezza.

 - Ora torniamo a casa – mormorai ormai definitivamente ammorbidita, perché per quanto fosse terribile era sempre la mia sorellina.

 - Non posso ora! –

Santa pazienza.

 - E perché? –

 - Sasuke mi ha vista piangere e è venuto da me a dirmi di non preoccuparmi! – esclamò tutta eccitata, l’angoscia di prima svaporata in un attimo – E mi ha offerto una coca cola! Gratis! –

Che…che stupidina.
Non so perché, ma mi venne l’impulso di abbracciarla, come facevo quando era piccolina, e davvero la strinsi un po’, fino a quando non si divincolò imbarazzata.

 - E’ stato gentile, vero? Ami era tutta invidiosa! –

 - Sì, è stato gentile – ammisi, e guardai al di là della vetrina.

Mi stava guardando anche lui, e già non ero più arrabbiata, non potevo farci niente, mi sentivo come una specie di tossicodipendente ormai, e lui era la mia droga.

 - Allora resti ancora un po’ qui? – mormorai.

 - Sì, si vede che ho pianto? –

La scrutai alla luce artificiale della vetrina, ed effettivamente aveva gli occhi un po’ gonfi e arrossati.

 - Va in bagno e sciacquati un poco con l’acqua fredda, non si vedrà niente – la rassicurai.

Dopo averle raccomandato di tornare presto lasciai che rientrasse ed aspettai che Sasuke mi raggiungesse, quasi rassegnata.
Quando poco più tardi arrivò lo guardai incapace di reprimere l’agitazione che la sua vicinanza mi infondeva, e rimasi immobile a fissarlo, senza sapere che dire.

- Ascolta – mi fece scostandomi un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, in un gesto così intimo che mi sentii rimescolare lo stomaco – non volevo farti del male –

 - Pensavo che ci fosse qualcosa – mormorai – è vero che non ci conosciamo da molto, ma pensavo ci fosse qualcosa –

 - C’è – ammise – è questo che mi irrita –

Sorrisi, di quel sorriso che avevo solo per lui, e rimasi a guardarlo mentre mi studiava attento, con un’espressione che non riuscivo a decifrare, così intensa che trattenevo il respiro.

 - Che c’è? – chiesi.

 - Niente – replicò distogliendo lo sguardo – ora devo tornare dentro, sono da solo –

Non mi diede il tempo di replicare, e continuai a scrutarlo per un po’ mentre rientrava e riprendeva a lavorare, poi tornai verso casa sentendomi leggera come una piuma.
Era bello sapere di avere di nuovo un amico al mondo.

I giorni successivi mi guardai bene dal nominare Sasuke con mia sorella, ma fu lei a tirarlo fuori, mi aveva vista che parlavo con lui fuori dal bar e la mia curiosa sorellina, quella che aveva ancora la bocca cucita sulla sua scappatella sessuale, moriva dalla voglia di sapere come mai lo conoscevo, e soprattutto se mi ero resa finalmente conto di quanto figo fosse, ecc…ecc…

 - Non è male, lo ammetto – confermai solo.
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Ci sentiamo anche la prossima settimana, prima dell'ultimo dell'anno.

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Capitolo 9
*** 9. ***


Eccomi qua.

Questa volta mi è toccato mettere il nome del gruppo, su cui non commento. D:
Devo dire che me ne erano venuti in mente anche un paio di decenti, ma non avevano proprio alcuna attinenza con "Naruto" e li ho scartati, mentre questo almeno un accenno al manga ce l'ha...vabbè, è solo un nome in fondo.

Gli auguri li rimando alla prossima settimana, nel frattempo grazie mille a tutte coloro che seguono e recensiscono questa non popolarissima storia.
Spero il capitolo vi piaccia!


 


9.



Lunedì avevo incontrato Naruto in metropolitana, da solo, mi si era seduto di fronte totalmente incurante di potermi dare fastidio, o meglio, totalmente inconsapevole di potermi dare fastidio.

Finsi di ignorarlo per un po’, ma ricordavo che Sasuke aveva detto che si fidava di lui, e dal momento che io, per qualche misterioso motivo che mi sfuggiva quasi completamente (avevo il dubbio sotto sotto fosse una mera questione di ormoni anche quella), mi fidavo di Sasuke, almeno con un orecchio lo ascoltavo.
 
 - Sabato suoniamo all’Akatsuki, veni a vederci? Ti faccio entrare gratis, puoi portare anche un’amica se vuoi! –

 - Perché no – stupii lui e me stessa – mi date un passaggio voi al ritorno? –

Naruto aveva risposto di sì, che non c’era problema, e non si era mostrato per niente sorpreso del fatto che avessi accettato, come se fosse scontato, come se fossimo amiconi io e lui.
Era quasi dolce nella sua innocenza, o stupidità.

Il fatto era che a questo punto ero curiosa di vederli, anche perché avevo sentito parlare dell’Akatsuki, era un locale piuttosto in voga, inoltre dopo che avevo finalmente imparato il nome del loro gruppo avevo scoperto che non era poi così sconosciuto come avevo creduto, e che anzi, c’era perfino qualcuno alla mia facoltà che li conosceva ed apprezzava, ed a questo punto ero davvero curiosa di sentirli.
E poi be’…vedi mai che diventassero davvero famosi un giorno.

 - Ti passeremmo a prendere anche all’andata, ma noi andiamo prima! –

Gli assicurai che non importava, che potevo arrivarci da sola, ed era vero, era meglio avere la possibilità di cambiare idea fino all’ultimo, e poi non era un problema, potevo sempre andare a mangiare qualcosa da quelle parti, magari potevo perfino chiedere ad Ino se veniva al concerto, chissà.

Continuai ad ascoltare con un orecchio solo quello che mi raccontava Naruto, facendo mentalmente i miei programmi, tanto da tempo avevo imparato l’ascolto selettivo, il che era molto comodo: in pratica pensavo ai fatti miei, ma se veniva fuori qualche parola chiave, tipo Sasuke, l’interesse subito si riaccendeva ed ero tutta orecchi, ed era un buon sistema, lo usavo anche a casa, con mia madre e mia sorella, e devo dire che la parola Sasuke era diventata una parola chiave universale, metti che la pronunciasse un perfetto sconosciuto seduto a cinque metri da me, e io, dang! Ero subito sull’attenti.
Gli ormoni sono un potente catalizzatore, non me ne ero mai resa così conto, prima.

Il giorno dopo avevo chiesto ad Ino se le sarebbe piaciuto venire al concerto con me ed aveva subito accettato, anche lei aveva sentito parlare dei Dead Leaves (così si chiamavano), era curiosa di vederli, e si era mostrata entusiasta quando le avevo detto che conoscevo un paio di membri del gruppo e che saremmo entrate gratis, ed ero sicura che fosse interessata al fatto che conoscevo il gruppo e non al fatto di entrare gratis.
A volte mi pare impossibile, ma c’è un sacco di gente cui la parola ‘gratis’ non fa né caldo né freddo.
Li invidiavo.
_

Venerdì io e Sasuke ci ritrovammo a camminare appaiati fino al metrò come se fosse la cosa più naturale del mondo, e in un certo senso lo era, almeno per me.

 - Scusa per gli sms idioti, ero…ferita – mormorai con un sorriso.

Sollevò le spalle.

 - L’ultimo non l’ho neanche letto –

 - Sei proprio stronzo – bofonchiai, ma non ero veramente arrabbiata, anzi, ero un pochino sollevata – Domani vengo a vederti suonare…contento? – chiesi poi, mentre aspettavamo il metrò.

 - Immensamente –

Era proprio ma proprio tanto spiritoso, lo stronzo.

Mentre mi accaparravo un posto a sedere mi venne da pensare che forse non stava scherzando, forse suonava sarcastico perché la cosa gli dava fastidio, forse gli rovinavo la piazza, diciamo, in fondo si sa come vanno a finire quei concerti, con tutte quelle ragazzette che non vedono l’ora di infilarsi nel letto di uno qualsiasi di quelli sul palco, e quel pensiero era come un peso nello stomaco, e mi infastidiva quanto…quanto un dente che doleva.

 - Ovviamente preferirei vedere il mio principe – buttai lì acida.

 - E chi te lo impedisce –

 - Già, nessuno, forse lo farò…l’ultima volta mi ha portata a… –

 - Risparmiami i dettagli duchessa, non me ne frega niente –

Cosa potevo replicare.

Sasuke non mi aveva più guardata, era perfino tenero nella sua prevedibilità, ed io non avevo più fiatato, improvvisamente così a disagio che continuavo a tormentare i bottoni del cappotto per darmi un tono: non stavo meglio dopo averlo fatto arrabbiare, paradossalmente stavo ancora peggio, e non era che non mi rendessi conto di sbagliare, di essere stronza con lui, molto più stronza di lui, solo che non sopportavo questa mia nuova vulnerabilità, e attaccavo per prima.

Avevo sbirciato il suo profilo sentendomi un po’ triste, fino a quando non era sceso alla stazione incriminata, quella in cui andava a fare le prove e in cui le aveva prese per aiutarmi, rispondendo appena al mio saluto.

Se non fosse stato che sapevo di vederlo già la sera dopo lo avrei cercato e lo avrei stressato fino a che non mi avesse perdonata.
Non mi riconoscevo più, ma ormai ero così addentro a questa…questa cosa con lui, che non mi importava neppure.
_

Sabato sera mi trovai con Ino ed un paio di sue amiche che poi se ne sarebbero andate via per conto loro.
Credo sarebbero venute volentieri con noi, ma fortunatamente nemmeno Ino le voleva tra i piedi, e questo è solo un piccolo esempio di quanto poco conti l’amicizia in certi ambienti. Non che io sia meglio.

Purtroppo prima bisognava mangiare, e perfino cenare fuori era un problema per me, mi seccava sborsare soldi che sapevo un giorno avrei rimpianto, in più, anche se Naruto mi aveva assicurato che mi avrebbe fatta entrare gratis, non ero così sicura che a conti fatti ne fosse in grado.
Entrai in pizzeria ormai rassegnata, quasi pentita di essere uscita, e avrei sempre potuto dire che non avevo molta fame, che avevo già mangiato, ma il problema per noi poveracci è che spesso poi si divide alla pari per il numero dei partecipanti, e la dieta imposta si rivela solo una fregatura.
Odio essere povera, davvero.

Diedi fondo alle mie riserve ordinando mezza pizza con Ino, che grazie al cielo era perennemente in dieta, per davvero, non come me, ed esibii i miei migliori sorrisi falsi alle sue amiche, che continuavo a non sopportare (sapevo che era reciproco e la cosa non mi dispiaceva affatto, preferivo così).
Più tardi mandai un messaggio a Naruto sperando ardentemente che non avesse millantato un potere che in realtà non aveva.

E invece no, uscì direttamente a prenderci ed entrammo proprio gratis, senza neppure fare la fila (incredibile, c’era perfino una discreta fila fuori).
Ci lasciò in mezzo alla grande sala e devo dire che iniziavo a sentirmi eccitata all’idea di vederli sul palco e ascoltarli, soprattutto sappiamo chi, probabilmente perché un po’ lo conoscevo (non era come guardare uno sconosciuto), e poi, anche se sapevo che era Naruto il cantante e lui era il chitarrista, da quel che avevo capito alcune canzoni le cantava proprio Sasuke, e l’idea di ascoltare la sua voce mentre cantava mi faceva venire la pelle d’oca, invece di trovarlo imbarazzante come avrebbe dovuto.
Guardai Ino che indossava un abitino corto ed attillato che le stava meravigliosamente, ed un po’ mi preoccupai: le avevo raccontato che il chitarrista era l’amico che mi faceva sesso, ed era curiosa di vederlo, e…ecco…non era che avessi tutta questa fede nell’amicizia, me la vedevo proprio a fiondarsi su di lui e soffiarmelo sotto il naso, e non era che mi importasse così tanto, sapevo che tra noi due non avrebbe mai funzionato, però è sempre una cosa fastidiosa vedere una cosiddetta amica fare quello che sotto sotto avresti voglia di fare tu con la persona con cui avresti voglia di farlo, soprattutto se le hai anche confessato che avresti voglia di farlo.

Stavo così tanto, ma tanto, tanto meglio, prima di tutto questo casino con Sasuke.

Mi misi a guardarmi intorno e ad aspettare sempre più impaziente.

A differenza di Ino, che aveva asserito di volerli vedere bene, mi ero messa a distanza di sicurezza per non venire brutalizzata dalla folla, non amo il contatto di corpacci sudati e appiccicaticci, ed avevo ascoltato scettica il primo gruppo (avevano un gruppo di supporto, ero colpita), che a mio parere faceva solo un sacco di rumore, ormai già rassegnata al peggio.

Ma evidentemente non ero così superiore come ritenevo, perché mentre aspettavo non riuscivo a controllare pienamente l’agitazione, e quando erano entrati mi ero addirittura un po’ eccitata, ecco, facevano la loro porca figura lì sul palco, tutti, persino Naruto devo dire, in quanto cantante, benché la sottoscritta avesse occhi solo per il chitarrista.

Poi avevano iniziato a suonare e non c’era stato altro.
Mi ero anche pentita di non essermi spinta più avanti con Ino, perché avrei voluto vederli da vicino.

Non amo la musica eccessivamente aggressiva, ma non sono così ignorante come può sembrare in materia, mi piace ascoltare un buon giro di chitarra, o di basso, e Naruto aveva una voce calda che arrivava al cuore, non lo avrei mai creduto, mi piaceva, mi piacevano davvero.
Avevo ascoltato eccitata per l’intero concerto, ma devo ammettere che era stato quando aveva cantato Sasuke che mi ero letteralmente sciolta: la sua era una voce bassa, meno potente di quella di Naruto, ma era come se mi arrivasse sotto la pelle e mi facesse scorrere un brivido che raggiungeva lo stomaco.
E bravo Sasuke, perfino la sua voce mi faceva sesso.
Mi sentivo vagamente come una specie di grupie, ed ero anche preoccupata: forse dovevo davvero togliermi lo sfizio prima di perdere totalmente il controllo di quella…quella cosa.

Il concerto era finito prestissimo, o meglio, era durato un paio d’ore ma il tempo era volato, e dopo Ino era ancora tutta eccitata e mi urlava all’orecchio che non aveva alcuna intenzione di tornare a casa, così rimanemmo lì dentro ad aspettare. Io dovevo farlo, Naruto mi aveva promesso un passaggio, mentre lei voleva a tutti i costi conoscere i membri del gruppo, sosteneva che erano tutti bellissimi, e devo ammettere che quando aveva confessato che comunque il più bello era proprio Sasuke mi ero anche un po’ infastidita, il fatto che non lo volessi io non significava che poteva averlo lei.
Rimanemmo lì per un po’, anche dopo che loro erano usciti, perché si erano messi a parlare con alcuni ragazzi (e ragazze) che li avevano aspettati apposta, e poi con un tizio strano che aveva mezza faccia coperta da una specie di sciarpa.

Finalmente Naruto arrivò da noi, assieme al batterista che non avevo mai visto dalle nostre parti e ad un paio di ragazze che non degnai di uno sguardo, mentre gli altri due rimanevano ancora a parlare con il tizio; ad un certo punto sentii chiedere se volevamo andare subito a casa, e dal momento che continuavo a sbirciare dalla parte di Sasuke ed ero un po’ distratta, Ino rispose di no per tutte e due.
Fu così che poco dopo, quando ci raggiunsero gli altri, salimmo metà sul furgone del bassista metà sulla macchina del batterista e ci fermammo in un bar (dove una delle due tipe fece gli occhi dolci a Sasuke per tutto il tempo, la sgualdrina), per poi, non so come, dopo che il batterista, uno con lunghi capelli chiari che aveva fatto il cretino sia con me che con Ino, se ne era sparito da un pezzo con le due ragazze (per fortuna), finire tutti da Sasuke, che a quanto pareva era uno dei pochi ad avere la casa libera.

Non sapevo bene cosa ci facevo lì, sapevo solo che Naruto mi aveva assicurato che poi mi avrebbe portata a casa lui, sospettavo a piedi, e che il bassista, lo avevo già visto, si chiamava Shikamaru, continuava a confabulare con Sasuke su qualcosa che doveva avere a che fare con il tipo strano con la sciarpa, e poi c’era Ino, che in qualche modo aveva imposto la sua presenza, per nulla preoccupata di come sarebbe tornata alla macchina.

Sasuke si era seduto sul divano a strimpellare la sua chitarra dall’aria vissuta, mentre gli altri tre, compresa Ino, aprivano le bottiglie di birra che ci eravamo fermati a comprare lungo la strada; io invece me ne stavo seduta su una sedia, mezza assonnata, sperando di andare a casa il prima possibile.

Avevo assistito disgustata e superiore all’alterco tra Sasuke e Naruto, il quale voleva togliere i cuscini dal divano per potersi sedere per terra, e guardai davvero inorridita quando finirono tutti a lanciarsi cuscinate addosso, Ino che rideva come una pazza isterica.
Oddio, erano già tutti fatti, come odio queste cose.
Presi la prima birra per disperazione, e la seconda perché non avevo la forza di dire di no, e accettai perfino la canna che si passavano gli altri, sperando che mi facesse passare più in fretta la serata.

Niente da dire, aveva funzionato.
Ad un certo punto Ino aveva trascinato fuori il bassista, alla ricerca di altre birre, Naruto se ne stava stravaccato per terra ad insultare Sasuke e a minacciarlo che se tirava pacchi lo trascinava a forza, non sapevo a cosa si riferisse e non volevo saperlo, ed io, parecchio inebriata, mi ero piazzata sul posto libero nel divano, guarda caso di fianco a Sasuke.
In precedenza avevo adocchiato un pacchetto di sigarette e me ne impossessai in fretta prima che qualcuno me lo fregasse, ma scoprii che dentro ce n’era una sola e la feci scivolare fuori assieme all’accendino, era quello che faceva volume.
Mente tentavo invano di accendermela con quell’accendino scarico mi voltai verso Sasuke, che mi aveva ignorata per l’intera serata, quello stronzo, ed ora mi guardava un poco ostile.
Mi strappò la sigaretta di bocca, la mise tra le labbra e l’accese lui, ma non era un gesto gentile, non aveva alcuna intenzione di restituirmela, il bastardo.

 - Facciamo metà? – chiesi speranzosa.

 - Hn –

 - Ti prego – insistetti pateticamente, troppo inebriata per preoccuparmi della dignità – siamo amici, no?! Per cui devi perdonarmi…fumiamo il calumet della pace, eh? –

Lo guardai buttare la cenere su un orrendo posacenere di plastica fregato in qualche bar, e dopo un poco gli rubai la sigaretta dalle labbra per fare un paio di tiri, e solo in quel momento mi resi conto che avevo di nuovo quello stupido sorriso in faccia, quello che avevo con lui per intendersi, di solito dopo che avevo bevuto.

 - Siete bravi – ammisi magnanima, e in qualche modo parlando mi ero avvicinata a lui, e quasi mi ci appoggiavo contro, in cerca di contatto.

Si riappropriò del mozzicone senza rispondere ma non me la presi, mi sentivo di nuovo leggera, neanche ci fosse qualcosa nella sigaretta, o forse erano ancora il tiro di prima unito alle due birre, ma avevo il dubbio che invece fosse il fatto di essere seduta vicino a lui, di appoggiare la coscia contro la sua e sentirmi orribilmente eccitata, e mi veniva perfino da ridere, ed era assurdo questo, non ridevo mai, mai.

 - Sei bello – confessai guardandolo (era vero), e ignorai ancora quello sguardo ostile.

Evidentemente ce l’aveva ancora con me, e non riuscivo più a sopportarlo.

  - Non voglio che tu sia arrabbiato con me, voglio fare la pace – lo pregai, e sollevai una mano per toccarlo – …voglio baciarti – continuai a blaterare mentre con le dita gli accarezzavo il collo – Voglio fare l’amore con te – aggiunsi spudorata.

Feci scivolare le dita tra i suoi capelli, felice di poterli toccare, e mi abbarbicai letteralmente addosso a lui attirando il suo volto verso di me, per costringerlo a baciarmi.
Non che si lamentasse.

Devo dire che non avevo la più pallida idea della fine che avessero fatto Ino e Shikamaru, e Naruto ad un certo punto doveva essere andato via, o comunque non mi ero accorta di lui mentre mi spostavo a cavalcioni di Sasuke e riprendevo a baciarlo, muovendo i fianchi all’unisono con la lingua.

Potevo sentire la sua erezione sotto di me ed ero tremendamente eccitata, come non ero stata mai, gli slip erano completamente bagnati ed era come se ogni centimetro di pelle fosse a fuoco.

– Ti voglio, tanto tanto tanto – gli mormorai all’orecchio.

Iniziai a tirargli la maglietta e gliela sollevai in fretta per sfilargliela, perché avevo bisogno di toccarlo, di guardarlo e toccarlo.

 - Aspetta – mi fermò, respiravamo ambedue a fatica, e la sua erezione era ancora più evidente sotto di me, se possibile.

Scesi ad accarezzargli la pelle del torso tentando invano di reprimere il brivido che mi provocava, e poi scesi più giù, fino allo stomaco, dove mi fermò la mano.

 - Cazzo, aspetta –

Non avevo nessuna intenzione di aspettare, non ce la facevo proprio, lo volevo, dovevo togliermi una volta per tutte quel maledetto sfizio e dovevo farlo ora.

Dal momento che tentava di spingermi via, assai debolmente a dire il vero, affondai il naso sul suo collo.

 - Sei senza preservativi? – gli chiesi, perché era l’unico motivo per cui potevo fermarmi, ed avevo dei dubbi anche su quello.

 - No, è…che non capisco cosa vuoi e… –

Lo zittii mordendogli appena la base del collo mentre mi muovevo sinuosamente contro di lui.
Subito dopo avevo sollevato la testa e ci eravamo guardati in silenzio per alcuni secondi: c’era desiderio nei suoi occhi, e passione, e qualcos’altro che non riuscivo a decifrare, oltre ad un inspiegabile fondo di tristezza che non volevo vedere.

 - Sei proprio una signorina – lo presi in giro – vuoi scopare o no? –

Appoggiai la bocca sulla sua fino a quando non riprese a baciarmi, poi appoggiò le mani sul mio sedere per stringermi a sé, e non parlammo più.

Il tocco delle sue dita che si insinuavano sotto il vestito mi inebriava, e mi sollevai senza fiato con l’intenzione di trasferirmi nel suo letto (quel divano faceva schifo).
Mentre entravo in camera mi sfilai il vestito e mi voltai a guardarlo sapendo che mi aveva seguita, e rimasi a studiarlo con bramosia fino a quando non fu davanti a me: era a torso nudo, e solo guardarlo mi provocava un brivido sulla pelle, e un pizzicore tra le gambe.
Feci scivolare la mano sulla sua pelle nuda fino a raggiungere i jeans, e dopo averne slacciato il bottone mi inginocchiai e tirai giù la cerniera.
Lo sentii imprecare tra i denti.
Sapevo che quello che stavo per fare piaceva ai maschi, ma non era per quello che lo facevo, avevo voglia di farlo per la prima volta in vita mia.
Liberai la sua erezione e l’accarezzai un poco prima di avvolgervi attorno la bocca.

Più tardi finimmo avvinghiati sul letto, ed avvertivo una sorta di violenza repressa nei suoi gesti mentre mi stringeva i seni, potevo sentire la sua rabbia mentre mi leccava la pelle, ma andava bene, anch’io ero un po’ arrabbiata con lui, o con me stessa, e non mi vergognai quando mi costrinse a mettermi carponi per prendermi da dietro, come se fosse davvero solo sesso, anzi, l’orgasmo mi colpì all’improvviso con una forza che non avevo mai sperimentato.

Ma non era abbastanza, e poco dopo eravamo ancora lì che ci baciavamo con furia, e potevo leggere ancora rabbia, e desiderio, nel suo sguardo acceso mentre afferrava un altro preservativo e riprendeva a spingere dentro di me.
Fu solo più tardi, la terza volta, forse perché eravamo stanchi, che nelle carezze, nei baci, negli sguardi, non riuscivamo a reprimere una parvenza di tenerezza che non era volontaria, che non andava bene.

Sarebbe stato così facile amarlo, lasciarsi andare ed amarlo, e per un momento, mentre il mio cuore sussultava assieme al corpo in estasi, ebbi paura.

Ci addormentammo senza quasi accorgercene e mi svegliai alla luce che proveniva dalla finestra aperta, protetta dal suo calore, dal suo odore, che mi avvolgevano come un abbraccio e mi facevano sentire piccola, fragile, ma così sicura che per alcuni secondi, o minuti, mi rifiutai di muovermi e rimasi immobile, nel tentativo di godere ancora un poco di quella meravigliosa illusione, fino a quando non iniziai ad avere paura, non sapevo neppure bene di cosa.  

In preda all’ansia mi scostai lentamente, volevo andarmene senza svegliarlo, scappare via, e dopo essermi alzata in silenzio cercai i vestiti ed iniziai ad indossarli.

Quando mi voltai ancora una volta dalla sua parte, incapace di resistere, lui mi stava fissando, e per un momento mi sembrò di scorgere solitudine, e ancora una volta tristezza in quegli occhi che mi scrutavano, ma era stato un attimo, forse solo un riflesso delle mie paure, poi mi aveva fissata impassibile, con quella luce aggressiva che conoscevo bene.

Feci scivolare lo sguardo sul suo corpo nudo prendendo nota dei segni che avevo lasciato, evidenti sulla pelle chiara.

 - Fammi un pompino – mi chiese a denti stretti, e scesi ancora con gli occhi fino al lenzuolo che lo copriva in parte, ma non riusciva a nascondere la sua erezione.

Mi avvicinai in silenzio, decisa ad assecondarlo, quasi per suggellare quella notte che non doveva rappresentare niente se non piacere fisico, e me ne andai più tardi senza che avessimo scambiato una sola parola, a parte le poche riferite al sesso.

Arrivai a casa che era ancora presto, le altre due dormivano, probabilmente neanche si erano accorte che quella notte non ero tornata a casa, e mi chiusi in bagno.

Rimasi a guardarmi di fronte allo specchio per non so quanto tempo, tentando di decifrare cos’era quell’angoscia che avvertito, quella paura che faticavo ad arginare, e cos’era quella tristezza che avevo visto nel suo sguardo, e assomigliava così tanto alla mia.
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Capitolo 10
*** 10. ***


Eccomi qua, a mo' di befana...e a chi non li ho ancora fatti auguri di buon anno in ritardo, spero che il 2014 porti a tutte qualcosa di buono!

In quanto al capitolo, ho corretto e ricorretto alcune parti e ancora non sono contenta di come sono venute fuori, ma sono stanca di rileggere, per cui buona lettura (spero).



10.





Avevo perfino mandato mia sorella a fare la spesa per non rischiare di incontrarlo.
Non era che non avessi voglia di vederlo, anzi, il mio corpo era lì che moriva dalla voglia di vederlo ancora, di toccarlo… e altro.
Almeno tre volte al giorno.

Ma era troppo pericoloso ed io ero troppo confusa e spaventata per confrontarmi con lui.

Magari uno psicologo avrebbe tirato fuori che in me c’era ancora una bambina traumatizzata dalla sparizione del padre amatissimo (perché davvero lo avevo amato molto), o altre banalità simili, ma qualunque fosse il motivo, anche solo il mio egoismo, quel trasporto che avevo avvertito, quelle emozioni, quel desiderio profondo di fondermi con lui, mi facevano paura.
Non potevo lasciarmi andare, dovevo mantenere il controllo, non potevo essere così vulnerabile, non potevo.

In facoltà avevo nascosto il collo segnato con una sciarpa ed avevo mentito ad Ino dicendole che non era successo niente, e dato che lei si era divertita tantissimo (credo avesse un mezzo inciucio con il bassista) ed era ancora tutta elettrizzata, non indagò più di tanto: al momento voleva convincermi ad organizzare un’altra serata con il gruppo, magari con qualche altra amica, il resto non le interessava. Nell’intervallo tra le lezioni poi aveva raccontato un po’ a tutti della serata, e a quanto pareva la mia popolarità era salita vertiginosamente, per assurdo proprio perché vivevo in quel quartiere e conoscevo la gente del posto.
L’ironia della sorte.

Le avevo assicurato che avrei organizzato qualcosa, ma sapevo perfettamente che si trattava di una bugia.

Nel frattempo il venerdì pomeriggio si avvicinava e non sapevo bene come avrei reagito nel rivederlo, una parte di me era terrorizzata, ma non ero così cieca da non capire che una parte di me non vedeva l’ora.

La situazione era precipitata mercoledì, quando Sasori mi aveva detto che la sera successiva mi sarebbe venuto a prendere fuori dal negozio di fiori, aggiungendo che si sarebbe fermato in albergo quella notte.
Sapevo cosa significava, e nella confusione in cui mi dibattevo pensavo che forse era un bene, che magari se avessi scoperto che tra noi due c’era un’ottima intesa sessuale avrei potuto archiviare l’esperienza con Sasuke, o qualcosa di altrettanto poco logico e vagamente patetico, fatto sta che lo aspettai piena di trepidazione, come se potesse salvarmi, da me stessa probabilmente, neanche potesse essere un’altra persona a farlo, e non io.

In un eccesso di prudenza avevo coperto con il fondotinta i rimasugli sbiaditi dei segni che mi aveva lasciato Sasuke (eravamo stati un po’ rudi), ombre impercettibili che probabilmente potevo vedere solo io, ma era quello il punto, li vedevo, e non volevo ricordare.
Mio malgrado di quando in quando me li controllavo, un po’ ossessivamente, ed ero andata a lavorare con un’agitazione addosso che non era solo eccitazione, che non era per niente eccitazione.

Uscita dalla fioreria lo avevo trovato lì ad aspettarmi, ed ero stata felice di vederlo, quasi sollevata, e ancora più felice nel rendermi conto di provare queste reazioni positive, se la cosa aveva un qualche senso.

Non aveva la macchina dell’altra volta, ma una berlina scura altrettanto appariscente e costosa, e sprofondai nel sedile di pelle sentendomi un poco più a mio agio.

Mi portò a fare un lungo giro in macchina e man mano che uscivamo dalla città mi rilassai sempre di più, ed era bello che a volte mi prendesse la mano e la stringesse con la sua, e stavo così bene ora, semi appisolata su quel sedile così comodo, con il tepore che mi cullava, che dimenticai Sasuke e tutte le complicazioni che portava.
Era lui il problema, solo lui, perché tutto il resto era perfetto.

Ascoltai Sasori che mi spiegava la differenza di guida tra questa macchina e la porche dell’altra volta, elencandomi i pregi e difetti delle due, e quasi mi vedevo già più avanti negli anni, una signora serena e sicura di sé, con lui che mi raccontava di come era andato il lavoro e mi chiedeva consigli.
Avrei potuto abituarmici, sì, avrei potuto farlo felice, magari essere un pochino felice anch’io, chissà.
Davvero.

Da qualche parte dentro di me c’era quella stupida vocetta importuna che mi sussurrava che era solo una bugia, che quello che provavo ora era tutto in superficie, che non c’era un briciolo di sentimento, di cuore, tantomeno passione, ma in quel momento non mi veniva difficile ignorarla, che importava in fondo, il cuore era solo un organo che pompava sangue e la passione durava quel che durava…e in quanto all’amore, non sapevo neppure cosa significasse veramente questa parola.
In fondo cos’era esattamente questa cosa di cui si sentiva parlare così spesso e assomigliava così tanto ad un gioco di ruolo?
Neppure sapevo se concretamente esistesse, anzi, ero piuttosto scettica, pareva più una favoletta per adolescenti romantiche, quelle che inseguono questo sogno puerile e poi un giorno si ritrovano amareggiate, inasprite dalla fatica del vivere quotidiano, e stanche di quell’idiota che una volta faceva loro battere il cuore, chissà perché.
Sempre se l’idiota non scappa prima, come era capitato a mia madre, a noi.

Mi adagiai sulla calma provvisoria che avvertivo ora in presenza di Sasori, nella tranquillità che rappresentava, e stavo bene, sì, stavo abbastanza bene: con lui non c’erano incognite, né paure, ero perfettamente in controllo, e il tempo passato assieme scorreva tutto così semplice e lineare, senza sussulti emotivi, c’era solo una punta d’ansia che mi chiudeva un po’ la gola, come un rumore di sottofondo di cui non ero quasi consapevole.

Cenammo in un ristorante in collina da cui si scorgeva un panorama mozzafiato.

Sbocconcellai appena, non avevo proprio fame, in compenso bevvi diversi bicchieri di quel vino bianco che sapevo costare circa metà della pensione di mia madre e che forse era un po’ sprecato per un’ignorante come me; nel contempo osservavo Sasori tentando di guardarlo con gli stessi occhi interessati che avevano un paio di signore sedute ai tavoli vicini.
Non era niente male, anzi, dovevo sentirmi orgogliosa di essere lì con lui, era proprio un bel tipo, no?!, con dei bei lineamenti regolari, forse un po’ fanciulleschi, ed un look perfetto, anche troppo formale, non che avessi niente contro le cravatte, soprattutto quelle firmate, quelle che valevano almeno quanto l’altra metà della pensione di mia madre per spiegarsi.
Che per la gente ricca equivaleva circa agli spiccioli che rimangono in tasca e di cui ci si dimentica.

La cena volgeva già al termine e bevvi un ultimo bicchiere di prosecco dopo aver assaggiato appena i dolce, ora un po’ nervosa.

Al ritorno, in macchina, lo avevo lasciato parlare senza intervenire più di tanto, insonnolita, eppure non riuscivo a rilassarmi interamente, una tensione crescente me lo impediva, e non appena scesa il sonno mi era passato di colpo.

Come prevedevo finimmo nella sua stanza, e proprio come immaginavo l’albergo era meraviglioso, la stanza un sogno, luminosa ed essenziale come andava adesso, il letto così grande e confortevole che era un lusso sdraiarcisi sopra.
Ed io ormai ero in ballo e mi toccava ballare, era quello che volevo, no?!

Non mi sentivo ancora molto lucida, il che era un bene, e lasciai che mi baciasse.

 - Non vedevo l’ora – mi confessò all’orecchio subito dopo, accarezzandomi la schiena.

Ero confusa, agitata, la testa mi girava, e c’era una parte di me che si sentiva scioccamente lusingata, ma ce n’era un’altra, che tentavo invano di sopprimere, che sembrava incredula, come se mi vedessi dal di fuori e non capissi bene cosa ci facevo lì.

Ciò nonostante non era così male mentre mi baciava ancora e non pensavo a niente, e dopo, quando finimmo sopra quel letto enorme, ci avevo provato davvero, con tutte le mie forze, e nemmeno potevo dire che non ci avesse provato lui, eppure ero arrivata ad un certo punto che non mi importava nulla, solo che finisse il prima possibile, tanto che per salvare il salvabile avevo finto un orgasmo che ero ben lungi dal provare, e neanche troppo bene secondo me, ma probabilmente gli era bastato, ai maschi basta davvero poco per illudersi di essere stati bravi.
Non che fosse colpa sua, ero io che non andavo quella sera.

Avevo continuato a fissare il soffitto immacolato mentre mi stringeva a sé, ed ero rimasta sdraiata accanto a lui senza riuscire a cacciare l’amarezza, e con una voglia matta di correre a casa e farmi una doccia.

Mi sentivo sporca, e una specie di puttana, e se un paio di mesi prima qualcuno mi avesse detto che sarei andata a letto con due uomini diversi nel giro di pochi giorni gli avrei dato del matto, ma ero qui, proprio io, e non provavo niente se non una stanchezza enorme.

Dormii poco o niente e mi svegliai prestissimo.

Diedi un’occhiata a Sasori leggermente disgustata, avevo la nausea, e dopo essermi vestita in tutta fretta gli lasciai un messaggio con scritto che avevo dovuto passare per casa a cambiarmi prima di andare a lezione, che non mi andava di svegliarlo dal momento che dormiva così beatamente, ma mentre posavo il biglietto sul comodino, vicino al suo costosissimo orologio, mi chiedevo se era davvero questo ciò che volevo, e non riuscivo a rispondermi.
Forse ero solo stanca.

Uscii dall’albergo di soppiatto e presi la metropolitana che era ancora buio, circondata da gente che andava al lavoro presto, brava gente che probabilmente aveva una famiglia alle spalle e mica aveva tempo per le mie seghe mentali e le mie squallide tresche, ma una volta arrivata invece di andare a dormire almeno un paio d’ore come mi sarebbe convenuto, feci una pazzia e proseguii fino a casa di Sasuke.
Non c’era nessuno in giro per il quartiere, era ancora molto presto, e dato che quell’idiota aveva lasciato la porta aperta entrai senza dover neanche bussare.

Non proveniva un suono da lì dentro, evidentemente stava ancora dormendo, e una volta abituata alla luce scarsa dell’alba che ora filtrava dalla finestra, mi mossi il più silenziosamente possibile e mi fermai sulla soglia della camera, a guardarlo, ed era così bello mentre dormiva che mi veniva da piangere, il che era ridicolo oltre che un poco inquietante.
Dovevo essere davvero stanca.

Mi avvicinai e mi protesi verso di lui.
Nel sonno sembrava così giovane, così incorrotto, e senza pensare gli accarezzai il volto, lì, sulla fronte, dove aveva la cicatrice.

 - Cosa fai qui – mormorò dopo aver socchiuso gli occhi, era quasi adorabile con quell’aria assonnata.
Quasi.

 - Avevo bisogno di vederti – ammisi sedendomi sul bordo del letto.

 - Ho sonno –

Stronzo.

 - Sei arrabbiato con me? – replicai accarezzandogli i capelli.

 - Abbastanza –

 - Perché ti sei sentito usato? –

 - Abbastanza –

Mi scostò la mano, adesso aveva gli occhi ben aperti, e mi scrutava.

 - Credevo a voi maschietti non importasse –

 - Pffh…Nemmeno ti rispondo –

 - Sono io o ti importa in generale? –

 - …non so neanche che cazzo stai dicendo –

In effetti non lo sapevo neppure io.
Sospirai e gli accarezzai ancora i capelli.

 - Posso baciarti? – chiesi.

 - No –

Avevo mezza idea di farlo lo stesso, avevo bisogno di sentire le sue labbra, invece mi chinai ed appoggiai il naso sull’attaccatura del collo ad inalare il suo odore, deliziata.

 - Sai il tizio che ti dicevo? – mormorai.

Non rispose.

 - L’ho visto prima –

 - Brava…e cazzo ci fai qui –

Stronzo.

 - Non capisci niente…è che…non lo so ma…non è come pensavo –

Mentre parlavo mi ero adagiata a metà su di lui, e stavo così bene ora che mi veniva da lasciarmi andare, e quando mi fece posto sulla sua spalla allargando il braccio mi strinsi ancora di più a lui, in cerca di protezione, e di risposte.

 - E’ colpa tua – mormorai, sapevo io di cosa.

 - Hn –

 - Facciamo la strada insieme, oggi, dopo il lavoro? –

Non mi rispose, ma lo presi per un sì, o almeno un forse, i no li diceva sempre forte e chiaro.

 - Posso baciarti adesso? – provai ancora.

 - No –

Suonava deciso, per cui, rassegnata, mi accoccolai meglio sul suo petto, il volto sul suo collo, e dopo aver sollevato le gambe ed essermi stesa semisdraiata addosso a lui chiusi gli occhi, al sicuro tra le sue braccia.

- Aspettami domani, ti prego – sussurrai.

Rimasi così, aggrappata a lui in cerca di calore e con il naso sull’attaccatura del suo collo, fino a quando non mi addormentai.

Mi svegliai che il sole era alto, avvolta in una coperta che Sasuke doveva aver sistemato sopra di me, e che mi scaldava.
Ero sola.
Se ne era già andato via.

Repressi la delusione, in fondo era meglio così, e rimasi ancora un poco sul suo letto, avvolta dal suo odore che ancora permaneva, gli occhi inspiegabilmente colmi di lacrime.

Avevo solo bisogno di dormire, tutto qui.
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Lo so, lo so, Sakura è stata davvero stupida, per usare un eufemismo, e spero che adesso non mi lanciate qualche oggetto contundente, metaforico ovviamente...a parte gli scherzi, sono davvero curiosa di sapere cosa pensate del capitolo!

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Capitolo 11
*** 11. ***


Eccomi qua!

Non commento, è un capitolo di passaggio, circa.

Ancora grazie a tutte coloro che hanno recensito il capitolo precedente, ho avuto una settimana terribile, spero le risposte fossero intellegibili!




11.




Non so come ma riuscii ad infilarmi in casa senza farmi beccare, e dato che mia sorella era già andata a scuola feci finta di essermi alzata in ritardo ed ascoltai in silenzio mentre mia madre si lamentava di avere aspettato così tanto.

Ero distrutta dal sonno ma mi trascinai comunque in facoltà, tanto a casa non ero in grado di studiare.

Più tardi mi aveva chiamata Sasori.
Era dispiaciuto di non avermi trovata accanto quando si era svegliato e mi chiedeva come stavo, neanche non fossimo stati insieme fino a poche ore prima.
Comunque era carino da parte sua.
Risposi che andava tutto bene, che davvero non avevo voluto svegliarlo, tutto qui, e poi rimasi ad ascoltare mentre parlava lui e mi diceva che potevamo rivederci la settimana prossima, che avrebbe fatto di tutto per liberarsi degli impegni di lavoro.
Era sbagliato sperare che non ci riuscisse?
Al momento non avevo molta voglia di pensare, ero troppo stanca per riuscire a ragionare, ma avevo la sensazione di essere come scissa in due parti, da una parte mi sentivo una privilegiata per avere uno come lui che si interessava così tanto a me, dall’altra…avrei voluto che finisse, tutto, per non sentirmi più costantemente disgregata, divisa a metà, per potermi sentire finalmente intera un’altra volta.

Quel pomeriggio non provai neppure a resistere, mi voltai spesso dalla parte del bar, a guardare Sasuke, e ogni tanto incrociavo il suo sguardo, ma non così spesso, ed il fatto che lui a differenza di me non avesse tutta questa smania di guardarmi in qualche modo mi feriva.

Nel frattempo ero diventata fonte di enorme divertimento all’interno dell’estetica, le mie camminate fino al metrò con lui erano state notate ed Haku era tutta una battuta sul presunto nascente amore tra la sua impiegata ed il barista, era destino, spiegava convinta, eravamo uno splendore insieme, sosteneva romanticamente, ma non disdegnava domande imbarazzanti sulle doti nascoste di Sasuke (in termini non così eleganti), doti che negavo di conoscere ma invece ricordavo bene: perfino il suo…coso mi pareva più bello di quello di Sasori.
Che…che casino.

Me ne andai ignorando i lazzi di quelle sciocche per trovarmelo che mi aspettava all’uscita, ed il sorriso mi si allargò nel vederlo, senza che avessi toccato una sola goccia d’alcool: doveva essere la notte in bianco che mi dava alla testa.

 - Ancora arrabbiato? – chiesi per precauzione.

 - Mi sta passando –

 - Sei il mio unico amico, non puoi arrabbiarti per così poco – mormorai mentre gli camminavo affianco, inspiegabilmente di buon umore.

 - Hai uno strano concetto dell’amicizia, sei un po’ confusa –

Spiritoso.

 - Ci sono tanti amici che fanno anche sesso, è una cosa senza impegno – minimizzai un poco sulle difensive.

 - Certo. E nessuno si fa male…non so che cosa cazzo guardi alla tv ma sono stronzate, se non te ne sei accorta –

Stronzo.

 - Per la cronaca conosco personalmente gente che lo fa e va tutto benone tra loro – mentii spudoratamente, non volevo dargli la soddisfazione di avere ragione.

 - Be’, io non sono così –

 - Peggio per te. Sei un po’ troppo rigido secondo me…pensaci –

Mi lanciò uno sguardo non molto amichevole e rimanemmo in silenzio mente lui salutava il solito barbone, almeno non si era fermato a fare conversazione, grazie al cielo.

 - E comunque anche tu hai uno strano concetto dell’amicizia, frequenti gente imbarazzante – commentai mentre aspettavamo il metrò.

 - Perché ogni tanto faccio finta di accordare la chitarra ad un barbone e lo faccio felice? – aveva colto subito l’implicazione – Non mi vergogno di farmi vedere in giro con nessuno...sei tu che hai la puzza sotto il naso, duchessa, a parte quando si tratta di scopare, evidentemente –

E lui era estremamente stronzo, e bastardo.

 - Se non ricordo male ti sei divertito parecchio anche tu – replicai piccata – o è diverso perché tu sei un maschio? –

 - Non sono io quello che non si amalgama con noi morti di fame –

 - Come no, perché tu sei tutto sorrisi e complimenti e ti amalgami col mondo intero, vero? –

 - Vaffanculo –

E rieccoci alle solite.
All’ arrivo del treno l’allegria era del tutto scomparsa e il malumore aumentò quando mi sistemai in piedi di fianco a lui perché non c’era posto a sedere: a parte il fatto che la stanchezza iniziava a farsi sentire pesantemente, odiavo abbarbicarmi al palo per non perdere l’equilibrio.
Non avrei mai potuto fare la ballerina di lap dance, e lo so che non sembra grave, ma è comunque un’eventuale, facile, fonte di denaro e non si sa mai nella vita.

 C’era una bimba piccoletta seduta di fianco alla mamma di fronte a noi, e già non è che mi piacciano tanto i bambini, sono delle piccole pesti e non possiedono l’uso della ragione, in più occupava un posto quando avrebbe potuto tranquillamente starsene seduta in braccio a sua madre, e fulminai con lo sguardo ambedue, piuttosto nervosa, indecisa se commentare ad alta voce.

Alla prima fermata, davvero brusca, allungai istintivamente la mano per aggrapparmi a Sasuke, e un’ondata di calore mi attraversò il corpo.
Mi staccai di colpo e fissai accigliata la bimba che continuava a guardarmi.

 - E’ tanto che non vedi la tua sorellina? – buttai lì, perché tutto in qualche modo mi riconduceva a lui.

 - Te ne frega qualcosa? –

 - Ti costa tanto rispondere? – replicai, ma la verità era che mi interessava, anche se non mi era ben chiaro il motivo.

 - Non sono cazzi tuoi, comunque è da qualche mese ormai, non so neanche se si ricorda di me, fanno presto a dimenticare a quell’età –

Suonava così amaro.

 - Come mai? – chiesi di getto, senza proprio ricordare che avrei dovuto fare l’offesa – per il tuo patrigno? –

Non aveva risposto.
Uno chiede, l’altro risponde, non mi pareva una cosa così complicata, era pura cortesia, non si trattava di segreti di stato, ma era sempre tutto maledettamente complicato con lui, e non capivo perché insistessi così tanto invece di mandarlo a quel paese.
Niente di personale, o meglio, in questo caso era proprio una questione personale, perché davvero mi interessava, ero curiosa di ogni cosa che riguardasse lui, volevo carpire ogni suo singolo segreto, e forse, una volta riuscita a svelare ogni suo angolo nascosto, avrei capito che non ne valeva la pena ed avrei smesso di guardarlo ossessionata dalla finestra dell’Estetica Haku e di sognarlo di notte.
Nel frattempo, nel mondo reale, si era liberato un posto e mi ci fiondai sopra.

Finalmente comoda sollevai la testa e rimasi a studiarlo: era ancora imbronciato, era anche particolarmente bello imbronciato, e avrei voluto togliergli il broncio a furia di baci, o di schiaffi.

 - Sei ancora arrabbiato – mormorai senza distogliere lo sguardo – mi dispiace, non volevo farti del male, è solo che… –

Non aggiunsi altro, cosa potevo dirgli in fondo, e che ne sapevo di quello che voleva lui, se non sapevo neppure cosa volevo io.
Improvvisamente triste abbassai la testa e mi guardai le unghie che avevo appena sistemato: avevano uno smalto dal colore molto naturale, quasi carne, ma era sempre smalto, steso in maniera ineccepibile sulle unghie perfettamente limate, e all’improvviso lo trovai orribilmente artefatto, costruito, finto.
Come me.
Con la coda dell’occhio vidi che invece di scendere alla solita fermata si sedeva nel posto che avevano liberato accanto a me.

  - Mio padre è sparito che avevo nove anni – feci uscire senza ancora guardarlo – è andato a comprarsi un pacchetto di sigarette e non è più tornato a casa, come nelle barzellette – era la prima volta che lo raccontavo, ma non faceva nemmeno un po’ di male, non mi importava neppure, anzi, ero quasi contenta di averglielo detto, di aver espresso quel pensiero che mi aveva accompagnata a lungo e che avevo tenuto nascosto per così tanto tempo, anche se ora non riuscivo a capirne il perché – …forse non sopportava più mia madre – aggiunsi sarcastica – è ipocondriaca ed ha talmente tanti malanni che non so se riesco ad elencarli tutti, e se ne sta tutto il giorno a letto a lamentarsi del fatto che non la seguiamo abbastanza…per cui sono sicura che al confronto anche il tuo patrigno non può essere così male, giusto?! –

 Continuai a fissarmi le unghie perfette sforzandomi di non pensare a niente, il dondolio del treno che mi appesantiva le palpebre, fino a quando lui non si sporse appena verso di me e non mi irrigidii in tensione: la sua vicinanza era quasi impercettibile, ma con lui ero piuttosto sensibile.

 - Tuo padre è una vera merda – mormorò, mi pareva di sentire il suo fiato all’orecchio ed ero già in brodo di giuggiole, che vergogna! – il mio patrigno è solo un grande stronzo –

Mi ripresi subito e sollevai la testa, e mente studiavo il suo volto serio, quegli occhi scuri così intensi, così attenti, mi ritrovai a sorridere appena.

- Perché? –

 - Niente di importante, curiosona –

 - Se proprio non vuoi dirmelo… –

Mi strinsi meccanicamente le braccia attorno al corpo, un po’ delusa, e ripresi a guardare di fronte a me con una smorfia amara e tutta la stanchezza della notte sulle spalle, gli occhi che quasi mi si chiudevano, fino a quando non sentii le sue dita sulla guancia, che mi sfioravano appena e mi facevano tremare.

 - Diciamo che è convinto che io sia un tipo poco raccomandabile – mi spiegò mentre mi sforzavo di reprimere il fremito che mi attraversava il corpo.

Mi voltai a guardarlo senza più una briciola di sonno e con una strana sensazione allo stomaco, come una specie di calore.

 - E lo sei? –

 - Sto cercando di trattenermi, magari se nei prossimi anni non finisco in galera e riesco perfino a laurearmi posso dimostrare che è lui lo stronzo – replicò con quel sorriso ironico che mi faceva sesso, inutile negarlo.

 - Credo che sia proprio lui lo stronzo, tu sei quello che salva le damigelle indifese e non vuole il sesso senza un po’ di sentimento, lo so per certo – commentai sorridendo a mia volta – Ma a Natale vai da loro? – domandai non ancora contenta.

 - Fatti un po’ i cazzi tuoi adesso, va bene? –

Non andava bene ma capivo di non avere scelta, e un poco mi pareva assurda questa mia necessità di porgli continue domande, non era che non mi rendessi conto di tormentarlo, proprio io, ma la curiosità era più forte, ed era come se con lui parlassi a ruota libera, senza paure, o cautele, come se fossi un’altra Sakura, più aperta.
Stranamente libera.

- Non hai le prove oggi? – chiesi ancora dal momento che avevamo passato la fermata, quella famosa in cui lo avevano pestato per causa mia e per questo non avrei scordato mai.
 
 - Oggi no –

- E' così bello suonare? –

 - Non so se è bello, ma so che quando ho la chitarra in mano sto bene…mi sento libero –

Era difficile da capire per me che non facevo niente per il mio piacere, mai.
 
- Avete concerti nel week end? –

 - Sì, domani partiamo presto, in mattinata…è lontano –

 - Rimanete fuori a dormire? – continuai ad importunarlo imperterrita.

 - No, torniamo, tardi –

 - E il lavoro? –

Ricordavo che da Haku avevo sentito dire che lui lavorava al bar anche sabato oltre che il venerdì e la domenica, e mi parva che avesse saltato giorni un po’ troppo allegramente in quell’ultimo periodo.

  - Con Jirayia non c’è problema, basta avvisarlo prima –

Doveva riferirsi a quel personaggio che mi aveva consapevolmente ubriacata quella volta.

- Però l’affitto non si paga da solo – obiettai, i soldi sono il mio eterno tormento, lo ammetto, non perché sia tirchia, ma perché non ne ho.

 - Non ci crederai ma c’è qualche pazzo che ci paga per suonare –

Ma va?! Mi pareva strano in effetti, personalmente non avrei mai buttato via i soldi così, con tutti quelli che suonavano gratis in giro.
Mi chiedevo anche quanto potevano pagarli, ma nel frattempo eravamo arrivati e scendemmo dal metrò.
Facemmo un po’ di strada assieme e lo salutai con riluttanza, ed era come se mi trasformassi man mano che mi allontanavo da lui.

Una volta a casa ero tornata la solita, consueta Sakura, cinica e seria, e dato che nel frattempo mi ero resa conto che non avevo più pensato a Sasori gli mandai un sms di mia iniziativa, giusto per ristabilire le priorità.
Mi rispose immediatamente, e sentendomi particolarmente generosa rimasi ancora un poco a messaggiare con lui, tanto non mi ci voleva un grande sforzo intellettuale.

Andai a letto presto, ma invece di addormentarmi di colpo, come credevo, il pensiero scivolò su Sasuke, e non riuscivo a sentirmi in colpa per questo, era come se ormai facesse parte della mia vita, volente o nolente, e non potessi più prescindere da lui.

Dovevo solo usare il cervello e rimanere in controllo.
Potevo farcela.
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Capitolo 12
*** 12. ***


Eccomi qua, un po' acciaccata, mi sa che mi sto ammalando...spero il capitolo vi piaccia più di quello precedente!




12.




Il mattino dopo Sasori mi aveva chiamata ancora una volta, probabilmente perché non avevo risposto al suo ultimo messaggio.
Non lo avevo fatto apposta, non era cattiveria la mia, era che al suo ennesimo messaggio melenso avevo esaurito l’immaginazione necessaria per articolare una qualsiasi risposta decente, e preferivo risparmiargli il sarcasmo che avevo sulla punta della lingua, o delle dita, non credevo che avrebbe apprezzato.

Fatto sta che si era lamentato della mia freddezza sostenendo che invece lui già un po’ mi amava.
Mi erano venuti i brividi, giuro, e non erano brividi piacevoli: non mi pareva il caso di usare paroloni così grossi, era prematuro.
Era…sbagliato.

Forse per quello avevo dormito male quella notte, irrequieta e incapace di trovare la posizione giusta, per quello e per il bisogno di razionalizzare quel vortice di emozioni che erano state queste ultime settimane.

Dovevo darmi una calmata, stare un po’ più attenta.
Sì, più attenta.

In fondo sapevo cosa volevo, era sempre stato il mio sogno avere qualcuno come Sasori ai miei piedi, sempre, e non dovevo dimenticarlo neanche per un momento.
Lo so, suono davvero come un’ochetta senza cervello, ma solo chi ha tirato la cinghia per tutta la vita può capire cosa vuol dire avere la possibilità di vivere nel lusso, senza più calcoli e preoccupazioni.
Significa essere finalmente rilassate, serene.

Poteva suonare superficiale, ma era qualcosa che avevo giurato a me stessa in quegli anni in cui mia madre piangeva tutto il giorno e ripeteva ossessivamente che grazie a mio padre, che ci aveva abbandonate, saremmo tutte morte di stenti (all’epoca ancora le credevo), e ci accompagnava a fare la questua in varie associazioni per portare a casa una spesa gratis, e ancora ricordavo la paura di non farcela, di essere buttate fuori di casa, di non poter mangiare, e anche l’umiliazione di dover indossare vestiti che non mi andavano neppure bene e non cambiarli per settimane (i bambini possono essere crudeli con chi è diverso da loro).
Avere il necessario non mi sarebbe bastato per seppellire quel grumo d’ansia che avevo accumulato, dovevo avere di più, dovevo essere sicura che in qualunque caso, anche se avessi perso il lavoro, anche se avessi perso la casa, anche vittima di chissà quale cataclisma imprevedibile, sarei caduta in piedi.
Avevo bisogno di vivere rilassata, senza più paura per il futuro.
Questo non significava che fossi disposta ad accasarmi con il primo deficiente che trovavo, volevo provare stima, e se non altro molto affetto, e un minimo di attrazione per la persona con cui avrei dovuto passare la vita insieme, e Sasori si adattava abbastanza ai miei desideri, di più non potevo pretendere, né trovare, ne ero perfettamente cosciente.

Per questo mi rifiutavo di accettare che non potesse andare bene con lui, a prescindere da quello che mancava, o dal fatto che il sesso non fosse stato esattamente sfavillante: in fondo non era la cosa più importante in una relazione, ed era stata solo la prima volta, era abbastanza facile non trovare subito un’intesa sessuale e col tempo poteva migliorare, e soprattutto col tempo potevo imparare ad amarlo un po’, potevo.

In quanto a Sasuke…mi piaceva, era vero, mi piaceva molto, e sessualmente mi attraeva tantissimo, ma sapevo perfettamente che tra noi due non ci sarebbe potuta mai essere una relazione al di là di quella strana forma di amicizia che ci legava, lo sapevo perché andava contro tutto quello che avevo desiderato finora, contro tutti i miei sogni, i miei propositi, le mie convinzioni, e perché sapevo che se malauguratamente lo avessi scelto, magari abbagliata dalla passione, un giorno avrei finito con l’odiarlo per avermi tolto la possibilità di vivere come avevo sognato.
O almeno credevo.
No, lo sapevo.

 Sasuke Uchiha era un amico, forse il mio unico amico, perché conosceva i miei lati peggiori, perfino i più squallidi, e mi frequentava comunque, ma il fatto che avessi scoperto che fosse…che fosse una bella persona, perché lo era, non avevo dubbi in proposito, non poteva farmi cambiare idea: lui era un amico, Sasori era l’uomo ideale, questi erano i fatti.

E allora cos’era che mi rodeva? Erano i sensi di colpa? Se erano quelli me li sarei fatti passare, tanto con Sasuke non ci sarebbe più stato nemmeno un bacio, ma sentivo che non erano solo quelli, lo sentivo, era…era la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato.
Qualcosa che non si incastrava, che stonava.
Che casino.
Dovevo ignorare quei segnali destabilizzanti e usare la ragione, non c’era altro modo, dovevo pensare al domani, al mio futuro, e non affossarmi in qualche emozione fugace e temporanea.

Chiusi finalmente gli occhi, molto tardi, decisa a farmi meno paranoie per il futuro, e mi svegliai presto per studiare, ancora piena di sonno.

Non era così facile.
Era domenica mattina ed eravamo alle solite: mentre la gente normale se la prendeva con calma per una volta alla settimana, e la sottoscritta dopo aver fatto il bucato per tutti tentava di studiare, mia madre e mia sorella avevano iniziato a litigare, e forse se non fossi stata così stanca, e nervosa, e disgustata da qualcosa che non capivo pienamente, mi sarei isolata nel mio mondo e sarei riuscita a studiare ugualmente, ma quella mattina non ne ero in grado, mi veniva perfino da piangere, ed ero come esasperata.

Presi il mio libro e me ne andai sbattendo la porta, non prima di avere lanciato insulti a quelle due disgraziate ed averle minacciate che se non riportavano all’interno il bucato steso all’aria una volta acceso il termosifone (lo tenevamo spento il più possibile, per risparmiare), me ne sarei andata di lì e le avrei mollate per sempre come papà.
Magari potessi davvero.

L’idea era quella di prendere il metrò ed andare alla ricerca di un buco in cui poter studiare in pace, ma i miei piedi sembravano avere maturato una loro volontà, perché invece mi ritrovai a fare le scale del palazzo di Sasuke, e dopo aver constatato perplessa che la porta era chiusa a chiave provai a bussare.
Non con forza, perché forse dormiva, per cui mi limitai a dei colpettini leggeri, intervallati, almeno finché non mi venne il dubbio che forse non era ancora tornato dal concerto e tentai con un paio di colpi più forti.
Niente.
Riprovai a girare la maniglia, ma quella proprio non si apriva, e mi pareva strano che si fosse ricordato di chiudere lui che di solito lasciava sempre aperto, era davvero anomalo, e mi chiesi se non fosse lì con una donna, un’altra donna, che non ero io.
Non avevo mai considerato veramente questa possibilità, non so perché, ma solo il pensiero mi rendeva furiosa.

Fortunatamente in quel momento si degnò di aprirmi, il signorino, e nonostante l’aria abbastanza distrutta non sembrava per niente uno appena svegliato, il che era sospetto.
Però era vestito.

 - Cosa vuoi –

Questa non mi pareva nuova, l’avevo già sentita, forse per quello non ci feci caso ed aspettai che si arrendesse e mi facesse entrare, perché se ci fosse stata una donna non mi avrebbe fatta entrare, giusto?
Poco dopo presi atto con soddisfazione del fatto che stava studiando anche lui, aveva i libri aperti sopra il tavolo.

  - Posso studiare qui con te? – chiesi, e senza aspettare la risposta mi diressi al tavolo e piazzai il mio libro sopra la superficie logorata, non più così bianca – a casa mia urlano, a questo punto la ritengo una mancanza di rispetto nei miei confronti –

Mi sentivo già meglio, non ero più arrabbiata con il mondo e mi stavo già trasformando nell’altra Sakura, quella spensierata che spiattellava tutte le stupidaggini che le passavano per la testa, senza controllo.
 
 - Come è andato il concerto? –

 - Bene – rispose mentre si sedeva di fronte a me.

Ah be’, adesso sapevo tutto.

 - C’erano signorine che volevano attentare alla tua virtù? – domandai per sicurezza.

 - Sempre troppe –

Le sgualdrine.

 - Illuse. Non sanno che sotto la tua aria da duro sei un romanticone –

Come se non mi fossi agitata all’idea solo poco prima.

Non si degnò di rispondermi e rimanemmo in silenzio a studiare per una ventina di minuti, sapevo che lui era iscritto a Matematica, una facoltà assai difficile nonché abbastanza inutile, diciamocelo, ma lui era così, non gli interessava poi tanto il denaro.

Ogni tanto lo sbirciavo, e notai ancora che sembrava stanco, molto stanco, ma non era così male, quasi gli donavano le occhiaie, davvero, e le volte in cui incrociavo il suo sguardo intenso mi sentivo rimescolare lo stomaco e mi affrettavo ad abbassare la testa.

 - Telefono – borbottai la seconda volta che il ronzio della vibrazione mi aveva infastidita.

 - Lo so –

Continuò a non rispondere e mi sforzai di non badarci nonostante il cellulare riprendesse a vibrare ad intervalli; ad un certo punto con la coda dell’occhio lo vidi maneggiarlo per un poco, e poi smise del tutto di vibrare.

Mi sforzai di studiare tentando di ignorare il fatto che era seduto di fronte a me, a portata di mano, fino a quando non si alzò.

 - Vado a farmi una doccia per svegliarmi, non sono andato a letto questa notte…mettimi su un caffè –

Cos’ero, la cameriera?

 - Chiedimelo più gentilmente e magari lo faccio –

 - Sei tu quella che ha invaso casa mia –

Non aveva tutti i torti, ma mentre ero lì che meditavo sul fatto che era lì nudo a pochi metri da me e che forse per distrarmi potevo accontentarlo e preparargli il caffè, mi accorsi che il suo telefono si illuminava, e lo presi in mano curiosa.

C’erano parecchie chiamate perse, tutte di un certo, o una certa, ‘M’, e quando lo schermo si illuminò di nuovo risposi senza pensare.
Alla peggio si sarebbe arrabbiato con me, sai la novità.

 - Pronto? –

 - Chi parla?

Era una voce di donna.

 - Sono un’amica di Sasuke, chi è lei? – domandai sospettosa.

  - Sono sua madre, è lì?

Ah…era solo la mamma.

 - Al momento non può rispondere – replicai sollevata mente mi alzavo col cellulare all’orecchio e cercavo la caffettiera (avevo deciso di assecondarlo, doveva essere il senso di colpa per essermi impicciata troppo) – devo riferirgli qualcosa? – non che potessi riferire niente, in realtà.

 - Puoi dirgli che…che mi dispiace, ma è meglio se non viene alla recita di sua sorella, capirà

 - Credo sia il caso che glielo dica lei –

 - Lo so ma… –

Non aveva aggiunto altro, ed io avevo troppa paura che Sasuke arrivasse e mi beccasse per riuscire a sostenere una conversazione decente.

 - Ma perché scusi? – tagliai corto – perché non può andare alla recita di sua sorella? – sapevo che non la vedeva da tanto tempo, e che gli dispiaceva.

Ero convinta che mi avrebbe mandato a quel paese, e invece dopo un po’ rispose.

 - E’ difficile da spiegare, e non so se Sasuke… –

 - Senta, devo mettere giù purtroppo – mi sembrava che l’acqua della doccia avesse smesso di correre – se ha bisogno di contattarmi può trovarmi alla fioreria Yamanaka, quella in centro, il martedì e giovedì pomeriggio, sono Sakura – aggiunsi d’impulso, me se sarei pentita, lo sapevo.

Dopo aver chiuso la chiamata rimisi il cellulare dove lo avevo trovato, senza un filo di senso di colpa (neanche fosse un mio diritto intrufolarmi nella sua vita) e iniziai a preparare il caffè.
Poco dopo era uscito dal bagno, vestito grazie al cielo, ma solo nel vedergli i capelli bagnati la mia immaginazione galoppava verso territori pericolosi.

 - Tra un po’ il tuo caffè è pronto – mormorai distogliendo lo sguardo.

 - Hai toccato il mio cellulare? –

 - Io? Noo –

Mi voltai a guardarlo, aveva il telefono in mano e lo stava controllando: non sapevo cosa avesse notato di sospetto ma col senno di poi sarebbe stato intelligente cancellare ogni traccia della chiamata, peccato fosse tardi ormai.

 - Gli ho dato un’occhiata – confessai dal momento che si ostinava a esaminare quello stupido cellulare (comunque avrei negato fino alla morte di avere risposto a sua madre) – chi è ‘emme’? – chiesi innocentemente, evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo.

 - Nessuno che ti riguardi, e non toccarlo più –

Chiusi il gas sotto la moka.

 - E’ pronto…e pensavo…forse mentre beviamo il caffè è il caso di chiarire un po’ le cose tra noi – buttai lì subdolamente, e non solo con l’intenzione di sviare l’attenzione dal cellulare, anche, ma non solo.

Comunque prevedibilmente la distrazione aveva funzionato, perché lui abbandonò subito l’oggetto in questione per avvicinarsi e fermarsi di fronte a me.
Era stato perfino troppo facile.

 - Sentiamo –

Lo guardai cosciente che in realtà non c’era niente da chiarire, che sapevamo entrambi come stavano le cose. Circa.
Deglutii.

 - Mi attrai…sessualmente – mormorai arrossendo un po’.
 
- Anche tu – ammise, e mentre mi guardava con quei magnifici occhi, con quel fuoco che mi rimescolava lo stomaco, un’ondata di eccitazione mi attraversò il corpo.
Anche lui, allora.

 - E…riguardo al sesso senza impegno… –

 - Potrei considerarlo – mi interruppe.

Era la giornata delle rivelazioni.

 - Pensavo fosse contro i tuoi principi –

 - Lo è – confermò – ma ci ho pensato e mi rendo conto che finché mi stai tra i piedi continuamente è inevitabile che prima o poi ci caschiamo –

 - E ti sta bene così? –

 - Me lo farò stare bene… piuttosto, sei sicura che andrebbe bene per te? –

Veramente l’intenzione era stata quella di dirgli che anche per me era meglio lasciar perdere, in fondo sapevo che, anche se fossi stata così cinica da decidere che non mi importava niente di fare le corna a Sasori, difficilmente sarei stata in grado di gestire due uomini contemporaneamente.
Ma ora, mentre lui mi guardava con quegli occhi che bruciavano, mi rendevo conto che se dovevo essere io quella forte che diceva di no, e non lui, non avevo alcuna speranza.
Bastava che mi guardasse così ed ero spacciata.

Ero ancora consapevole che era sbagliato, e pericoloso, ma non sembrava poi così grave quando ero lì in piedi di fronte a lui, in tensione, i capezzoli turgidi dalla voglia di essere toccati e un pizzicore intollerabile tra le gambe, e già iniziavo a convincermi che forse se mi toglievo tutti gli sfizi, fino in fondo, alla fine non sarebbe più stato un bisogno così irresistibile.
Non era che non sapessi che si trattava di sciocchezze, era che al momento non me ne importava abbastanza.

 - Basta non perdere la testa e mantenere il controllo, usare la ragione insomma – replicai già fremente.

 - E il principe azzurro? –

Nel frattempo aveva iniziato ad accarezzarmi i capelli, e ormai non connettevo più molto bene.

 - Se con lui diventerà una cosa seria smetteremo – quasi balbettai, per nulla imbarazzata delle sciocchezze che proferivo mentre il corpo si arcuava istintivamente verso di lui, e cacciai il dubbio che non sarei stata in grado di smettere quando fosse giunto il momento, se ora solo l’idea di non poterlo toccare risultava intollerabile.

 - Idem se trovo una ragazza che mi interessa –

Non volevo neppure considerare quell’opzione, faceva proprio male, e forse ero davvero egoista, e possessiva.

Lentamente mi accarezzò la guancia, e il collo, e avevo già l’acquolina in bocca, per non parlare di altre parti del corpo.
Oddio.
Feci sgusciare le dita sotto la sua maglietta, a sfiorargli lo stomaco.

Avevo la sensazione di scivolare in una china pericolosa, che non sarei stata in grado di controllare, ma non potevo trattenermi.
Non potevo.
Era più forte di me.

Dimenticammo completamente il caffè e finimmo per baciarci appassionatamente contro il mobiletto della cucina, tentando contemporaneamente di sfilarci le maglie in fretta, impazienti.

 - Togliti ‘sto cazzo di jeans – mi sibilò trafficando con la mia cerniera, non li usavo spesso, ma venivo direttamente da casa, era domenica in fondo.

Me li sfilai impaziente, eccitata, e mentre facevo scivolare giù le mutandine lo guardai che si spogliava a sua volta, il corpo che mi tremava un poco per l’eccitazione.
Subito dopo lo attirai a me ed avvinghiai le gambe attorno ai suoi fianchi.
Lo volevo.
Adesso.

Sentii che mi premeva l’erezione tra le cosce ed entrò subito in me, e finalmente ero di nuovo intera.

Non so come ma di colpo mi resi conto che non stavamo usando il preservativo.

 - Sas’ke…Sas’ke… – riuscii a far uscire ansimante, e gli tirai i capelli per guardarlo mentre ancora spingeva dentro di me – il…il preservativo –

Mi fissò per un momento con lo sguardo lucido di piacere, e non so assolutamente come avesse fatto, io non ne ero in grado, lo ammetto, ma si staccò da me lasciandomi improvvisamente vuota, e per mano mi trascinò in fretta in camera.   

 - Sbrigati – lo implorai mentre lo guardavo infilarselo, perché mi faceva perdere completamente il lume della ragione e non ne potevo più, tanto che subito dopo lo feci cadere sul letto e gli salii sopra.

Finimmo comunque per fare l’amore come l’altra volta, con me carponi e lui che mi prendeva da dietro, ed anche se al momento nemmeno me ne rendevo conto, travolta da uno degli orgasmi più lunghi e intensi della storia, dopo rimaneva come un amaro in bocca, che non capivo e non riuscivo a spiegarmi.

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Capitolo 13
*** 13. ***


No comment su questo capitolo, e un grazie enorme a tutte coloro che hanno recensito quello precedente!




13.





E così a quanto pareva ora avevo una doppia vita, anzi, tripla.

Ero una poveraccia che faticava a pagarsi i libri per la scuola, una brava ragazza che frequentava un buon ambiente, studiava e aveva iniziato una relazione con un ragazzo della buona società, ed ero la ragazzaccia che saltava addosso al chitarrista dei Dead Leaves ogni volta che le capitava l’occasione.

Se qualcuno mi avesse raccontato che una sua amica si comportava in questo modo, avrei dedotto che si trattava di una persona un tantino immatura nonché parecchio confusa, per non essere volgare, ma avevo imparato presto che la vita riservava non poche sorprese e che le cose non suonavano altrettanto squallide e irreali vissute di persona, non sempre almeno.

Non che non sapessi cosa avrei dovuto fare, non solo razionalmente ma anche moralmente (perché incredibilmente avevo anch’io una morale, benché al momento non si notasse), e capivo perfettamente che la soluzione ideale sarebbe stata quella di smettere di vedere Sasuke per non cadere in tentazione, ma l’idea di non vederlo più equivaleva a sprofondarmi in qualcosa che somigliava molto allo sconforto: era come se avessi bisogno di lui, di vederlo, toccarlo, sentirlo, del suo corpo caldo e della sua presenza forte, e non sapevo cosa fosse quel bisogno, ma a me pareva assomigliasse ad una specie di malattia, e come per ogni malattia non c’era molto da fare se non aspettare che facesse il suo decorso.

Avrei cercato di imparare a resistere, ecco, di accontentarmi pian piano della sua amicizia e riportare il nostro rapporto ad un livello platonico, per quanto fosse dura.

Il che non mi impediva, da un punto di vista prettamente pratico, di rendermi conto che era meglio valutare l’ipotesi di rosicchiare un po’ il mio gruzzolo e iniziare a prendere la pillola, perché non potevo permettermi di correre alcun rischio, seppur minimo, soprattutto considerando quanto perdevo la testa in presenza di sappiamo chi.
Che casino!
_

Nonostante i buoni propositi, i giorni successivi avevo pensato un po’ troppo spesso a lui.

La malattia era al suo culmine ed ogni santo giorno avevo trattenuto la voglia di andare a cercarlo, per vederlo, parlargli, e magari saltargli addosso come una tossica che ha bisogno della sua dose, e ogni santo giorno, nonostante mi rendessi conto dell’idiozia della cosa, mi chiedevo come stava lui, cosa pensava, cosa provava veramente per me: sapevo che c’era stato un momento in cui gli piacevo molto, altrimenti non si sarebbe così arrabbiato con me, non si sarebbe sentito usato, ma non riuscivo a capire cosa provasse adesso, e temevo che gli fosse già passata: forse a questo punto gli interessava solo il sesso, e non mi spiegavo perché quel pensiero mi indispettisse così tanto.
Ero davvero così egoista?

A completare la mia ossessione guardavo spesso il cellulare con la tentazione di mandargli un messaggio, così, solo per sentirlo, ma ovviamente non lo facevo, mi rendevo conto che non era il caso, e comunque non mi sarei mai permessa di importunarlo senza motivo (però anche lui aveva il mio numero, avrebbe potuto farsi sentire, no?!).
In compenso sentivo spesso Sasori, e devo ammettere che in quei giorni facevo particolarmente fatica ad appassionarmi ai nostri scambi di sms, e quando mi aveva scritto che purtroppo quella settimana non sarebbe riuscito a vedermi non mi ero particolarmente preoccupata.
Ero ben contenta di rimandare il nostro incontro.

Giovedì ero in fioreria e ad un certo punto, forse era la suggestione, mi era parso di scorgere la madre di Sasuke ferma di fronte alla vetrina, che guardava dentro e subito dopo si allontanava. Ero corsa fuori ma ormai era tardi, era già sparita dietro l’angolo, sempre se non avevo immaginato tutto.
Peccato, mi elettrizzava perfino l’idea di parlare con sua madre.

Quel venerdì pomeriggio, al lavoro, non guardai subito dalla sua parte, mi trattenni eroicamente fino a quando non decisi che ero stata abbastanza eroica e non provai a sbirciare: eccolo lì che lavorava, mi pareva perfino più bello dell’ultima volta che l’avevo visto.
Ero arrivata al punto che mi piaceva perfino come si vestiva, davvero, non certo in modo classico, ma aveva un suo stile a suo modo anche ricercato, ecco, un’eleganza da strada diciamo, e comunque faceva parte del suo fascino, il che significava che ero proprio andata.   

Controllai l’ora, impaziente.
Avevo infilato in una scatolina il mio plettro rosa e lo tenevo in borsa con l’intenzione di consegnarglielo oggi: la settimana prossima era Natale, ed era una vita che non provavo più quell’eccitazione all’idea di fare un regalo, forse non l’avevo provata mai, per un regalino idiota oltretutto, ma era il pensiero quello che contava ed ero sicura che non se lo aspettasse proprio e che gli avrebbe fatto piacere, e allora faceva piacere anche a me.

Lo guardai ancora.
Oddio, come lo…come mi piaceva, il bastardo.
Ero davvero infatuata, per carenza di termini migliori…sì, infatuata rendeva con precisione lo stato in cui mi trovavo.
Infatuata.

Di seguito sbirciai spesso dentro al bar alla ricerca della sua testa scura, ma non incrociai mai il suo sguardo, e il fatto che non si fosse degnato di guardarmi neppure una volta mi infastidiva in maniera sproporzionata.
Cosa voleva dimostrare, che ero solo io la stupida che non riusciva a trattenersi?

Dopo mi sentiva.

Non mancava molto alla chiusura e già pregustavo la nostra passeggiata (avevo giusto in mente qualche domandina da fargli), e mi ritrovavo involontariamente a sorridere, quando mi accorsi di un’automobile che parcheggiava proprio di fronte al bar, nonostante l’evidente divieto, e di una tizia che ricordavo bene, per l’esattezza la rossa che avevo visto una volta a casa di Sasuke, smontare subito dopo ed entrare.
Oltretutto la macchina mi nascondeva in parte la visuale, era una specie di doppio affronto.

Nonostante l’ostacolo riuscii a vedere chiaramente quella…quella signorina che gli si abbarbicava addosso, e purtroppo non ero in grado di distinguere la reazione di lui dal momento che il suo volto era un po’ nascosto.
Avevo improvvisamente caldo, sudavo perfino.
Come se non bastasse li aveva visti anche Haku ed aveva lanciato un gridolino oltraggiato prima di protestare indignata, sostenendo che il barista era nostro.

Finii di lavorare di umore assai meno brillante, ed uscii senza rispondere ad Haku che mi consigliava di sorridere e mi assicurava che non c’era confronto tra me e quella, che il nostro barista non avrebbe avuto dubbi.

A questo punto l’intenzione era quella di andare a casa senza aspettarlo, era la cosa più dignitosa da fare, ma non appena uscita notai che la rossa era in piedi di fianco all’automobile, probabilmente in attesa di lui, e presa da un impulso irresistibile, nonché da quell’inguaribile curiosità che mi prendeva ogniqualvolta c’era di mezzo lui, attraversai la strada e la salutai.

 - Stai aspettando Sasuke? – chiesi con il sorriso più falso che avevo in repertorio, per nulla imbarazzata del mio evidente tentativo di estorcerle informazioni. Chi se ne fregava.

 - Viene in macchina con me, sono venuta a prenderlo – rispose lei squadrandomi dall’alto in basso.

Sarebbe sembrata una conversazione civile se non fosse stato per gli sguardi, i sorrisini, e il sottotono pieno di perfidia.

 - Sono qui a Konoha per tutto il week end – aveva aggiunto melliflua (ma pareva un felino che mi studiava pronto ad attaccare) – mi fermo da lui un paio di giorni, festeggiamo il Natale in anticipo – concluse con un sorriso sadico e trionfante.

Stavo ancora registrando la prima informazione, quella che lei non abitava in città, quando quell’inciso mi aveva mezza accoppata.
Dormiva da lui? Quella?
Con quell’aria di saperla lunga ed avere tutt’altre intenzioni che dormire?

Mi congedai ancora allegra all’apparenza, cinguettando di salutarmelo tanto, e mi girai che avevo completamente cambiato espressione.

Per uno che si vantava di avere dei principi tendeva a dimenticarseli con allarmante frequenza.
E poi sarei stata io quella spudorata.
Come…come si permetteva?

Tornai a casa che ero furiosa con lui, così furiosa che non riuscivo a ragionare, e non importava quanto incoerente la cosa potesse sembrare, e probabilmente essere.
Le mani mi prudevano, avevo così voglia di scrivergli qualcosa, un insulto più che altro, magari qualcosa del tipo: ‘Almeno io non sono ipocrita, brutto stronzo, sei anche peggio degli altri’ o simili, ed ero così…così irrazionalmente gelosa che faticavo a controllarmi, e questa mia nuova incapacità di respirare regolarmente, di calmarmi e ragionare, tutto a causa di un ragazzo, mi terrorizzava.

A casa continuai ad essere di pessimo umore, meno mi parlavano meglio era.
Altro che atmosfera natalizia.

Assieme a Moegi preparai qualcosa da mangiare in tutta fretta, e più tardi, quando ero andata ad aiutare mia madre ad alzarsi dal letto e mi aveva chiesto di portarle il cibo lì, perché non se la sentiva di muoversi, le replicai sgarbatamente, molto sgarbatamente.
Anche dopo, per tutta la cena, mi trattenni a fatica dal dare rispostacce a mia sorella che continuava a chiacchierare allegramente.

 - Dato che ti è passata – buttai lì ad un certo punto per nulla delicatamente – si può sapere chi è quello stronzetto che ti ha messo incinta? –

Si era subito offesa ed aveva iniziato ad urlare che ero solo una stronza presuntuosa, che tutti mi odiavano (aveva ripetuto la parola tutti) e che lei sapeva che ultimamente ero stata fuori più di una notte fino a tardi, e quindi dovevo stare zitta, ecc…ecc...
Ascoltai con un orecchio solo per nulla impressionata, quasi grata di poter dedicare la mia attenzione a qualcosa che non fosse la mia ridicola ed immotivata gelosia (perché purtroppo non mi veniva altro modo per definire ciò che provavo).

Dopo cena studiai fino a tardi concentrandomi solo su quello, a fatica, e più tardi, a letto, con il cellulare in mano e una voglia matta di rompere le scatole a quel bastardo, mi feci forza e provai invece a mandare un messaggio a Sasori, probabilmente per una sorta di risibile ripicca.

Dal momento che anche lui era sveglio iniziammo a messaggiarci, e forse perché ero a letto i messaggi degenerarono e diventarono sempre più audaci.
Era come un gioco, ma in un certo senso tutta la mia vita assomigliava spaventosamente ad un gioco.

Continuammo a giocare quel gioco perverso fino a tardi, e dopo che ci eravamo salutati finii col masturbarmi per liberare un po’ della tensione sessuale che avevo accumulato: era la prima volta che lo facevo, ma non era stato così male, anzi, molto meglio della mia deludente esperienza con Sasori stesso, il piccolo problema era che per arrivare all’orgasmo avevo immaginato per tutto il tempo di avere Sasuke sopra di me, che mi faceva cose innominabili.
Solo dopo avevo realizzato che magari proprio in quel momento quello stronzo le cose innominabili le stava facendo alla rossa, e mi ero innervosita ancora di più.
Quando finalmente mi addormentai, più tardi, avevo delle ridicole lacrime agli occhi.

Il mattino dopo trovai un ultimo messaggio di Sasori che non avevo ancora letto: chiedeva se avevo voglia di prendere un treno ed andare a passare sabato notte lì da lui, a Suna, perché aveva voglia di incontrarmi almeno una volta prima di Natale.
Non mi aspettavo l’invito, quella settimana teoricamente non avremmo dovuto vederci, la sera prima era ancora in giro per lavoro e doveva partire prestissimo per Suna per rimanere lì una notte e prendere già il giorno dopo un aereo per Kumogakure, dove sarebbe rimasto per un paio di giorni, fino a martedì sera, la vigilia di Natale.
Anche solo a spiegarlo sembrava un casino.

Considerai la proposta: mi rendevo conto che era una tirata enorme e che avrei perso tantissimo tempo che avrei fatto meglio ad impiegare nello studio, e non era neppure che morissi dalla voglia di incontrarlo, ma almeno lui aveva in mente solo me, in più ero curiosa di vederlo nel suo ambiente…e comunque tutto era meglio che rimanere a casa sapendo che quell’altro era da qualche parte, probabilmente sopra un letto, con la rossa.

Prima che me ne fossi resa conto avevo già risposto di sì, e poco dopo mi aveva chiamata per dirmi quanto gli facesse piacere vedermi (era appena sceso dall’aereo, era davvero un tesoro, per colpa di Sasuke non mi rendevo neppure conto della mia fortuna), e quasi contagiava anche me, quasi, peccato che ad un certo punto fossi rientrata a terra ed avessi realizzato quanto costava il biglietto del treno.
 
Non potevo assolutamente permettermelo.
Richiamai immediatamente e mi inventai una serie di scuse penose (mica potevo dirgli la verità), che si imperniavano attorno ad un presunto impegno che avrei avuto proprio domenica con alcuni parenti, impegno che avevo dimenticato nell’onda dell’entusiasmo, e ammetto che mi sentii lusingata quando mi rispose che allora avrebbe provato a venire lui da me, eppure una parte di me era addirittura contrariata, quasi avessi sperato di averla scampata.

Poco dopo mi richiamò per confermare che partiva dopo pranzo: si sarebbe fatto ore di macchina solo per vedermi, e sarebbe ripartito poi per altre ore di macchina per tornare a Suna ed andare a prendere un aereo subito dopo.
Ero quasi commossa, quasi.
In ogni caso era gratificante sentirsi così amate.

Studiai per l’intera giornata, ignorando quello stato sotterraneo di agitazione continua che non capivo ed ormai non riuscivo a controllare più, fino a quando non iniziai a prepararmi con cura ancora maggiore del solito, e per l’occasione indossai perfino un abitino luccicante nero che avevo trovato in un negozio dell’usato diverso tempo prima e non avevo mai usato, e che modestamente mi stava benissimo.
Salutai mia madre dicendo che cenavo fuori e Moegi si sarebbe occupata di tutto (ignorai le lamentele di quest’ultima), e lo aspettai in centro, vicino al negozio di fiori.
Quando salii nella porche argento gli sorrisi davvero, non per finta, ancora compiaciuta del fatto che gli importasse così tanto di me.

La cena era stata ottima, come sempre, ed avevamo chiacchierato del Natale che ci aspettava e dei posti che aveva visitato, che erano tantissimi dal momento che aveva viaggiato davvero molto.
Era stato piacevole.
E poi mi aveva perfino portato un regalo, davvero, una borsa che doveva costare un patrimonio, e mi aveva spiegato un po’ saccente che era di gran moda, che tutte le sue amiche l’avevano dalle sue parti, come se il fatto che condividessi quella borsa con tutte le sue conoscenze femminili dovesse entusiasmarmi.
 Non so perché ma non mi piaceva affatto, non con quella roba dorata attorno almeno, preferivo le borse sobrie e lineari, e quasi mi rodevo al pensiero di tutte quella altre borse di marca che avrei potuto avere al suo posto, però ovviamente lo ringraziai con un’espressione estasiata che sapevo falsissima.

Il fatto era che con lui mi sentivo una persona diversa, più posata, composta, forse anche artificiosa, ma in un certo senso andava bene così, quell’atmosfera si adattava meglio all’immagine su cui avevo lavorato anni, e sotto questo punto di vista il rapporto con lui ne era come il punto di arrivo: ogni cosa rimaneva ad un livello controllabile, che non scalfiva la superfice che mi ero creata.
Se non ci fosse stato Sasuke sarebbe stato davvero perfetto, ma lui c’era, in un angolino dentro di me, e mi impediva di sentirmi soddisfatta, come uno stupido sassolino nella scarpa, come un continuo rimando a qualcosa di diverso, ad una Sakura diversa.

In albergo, avrei preferito salutarlo dopo la cena ma ero ormai rassegnata, Sasori si assentò una mezz’ora per rispondere ad una telefonata importante.
Ero grata della pausa, e rimasi sdraiata nel grande letto col cellulare in mano, in balia dei miei pensieri e della mia ridicola gelosia che a tratti riaffiorava, e a pensare a quello stronzo.
Incapace di resistere oltre gli inviai un messaggio:
‘Ti diverti con la tua amica?’

Elegantemente avevo evitato gli insulti.
Mentre aspettavo la risposta andai a prepararmi un bagno caldo nella jacuzzi per ricordarmi di dov’ero e di quanto mi stavo divertendo, e prima di immergermi nella vasca presi il cellulare e lo posai lì accanto.
Era passato del tempo e lo stronzo non aveva proprio risposto, per cui, ora tutta comoda e rilassata dentro la vasca, gli scrissi:

‘Rispondi, maleducato’

Poco dopo, me ne stavo sempre spaparanzata a godermi l’idromassaggio, si degnò di rispondere:

‘Hai sbagliato numero’

Che…che idiota.

‘Non ho sbagliato numero, stronzo! Sono solo delusa, i tuoi principi sono solo una farsa…tieniti i tuoi amici barboni, almeno io non sono ipocrita!’

Questa volta mi aveva risposto quasi subito:

‘Non capisco nemmeno che cazzo stai dicendo’

Non credevo ai miei occhi.

 ‘Sto dicendo che sei un ipocrita e anche un bugiardo! Almeno io sono onesta!’

Posai per un momento il cellulare, finalmente soddisfatta, e lo ripresi subito dopo per leggere la risposta:

‘E anche un po’ troia…comunque mi hai rotto

Gli inviai insulti pesantissimi per i successivi dieci minuti, avevo perso il controllo, e il fatto di non ricevere nemmeno uno straccio di risposta mi infuriava ancora di più.

Sasori tornò che ero già uscita dalla vasca, mi ero spalmata sulla pelle l’intera bottiglietta di lozione profumatissima dell’albergo e me ne stavo semisdraiata a letto in accappatoio (il morbidissimo accappatoio dell’albergo), furiosa, cosa che lui apprezzò tantissimo (il fatto che fossi seminuda, non quello che fossi furiosa, che nascosi bene), per cui tentai di sfruttare tutta quella rabbia per riuscire per lo meno a scaricarmi sessualmente.
Niente.
Ad un certo punto mi ero arresa e come la volta precedente avevo aspettato solo che finisse, lo sguardo al soffitto, e nel frattempo avevo quasi la tentazione di prendere il cellulare e controllare se c’erano messaggi di quello stronzo, ma mi trattenni, non era molto garbato data la situazione.
Un lato positivo era che sicuramente non rischiavo di farmi sfuggire il nome di Sasuke travolta dall’estasi, e c’era da dire che di sicuro non rischiavo di scordare il preservativo, anzi, ero stata un pochino paranoica in proposito.

Quando finalmente finì (anche questa volta avevo finto l’orgasmo, stavo diventando bravina) eravamo rimasti abbracciati per alcuni minuti, e in quel lasso di tempo, mentre mi ripetevo che il sesso non era tutto nella vita, mi ero chiesta se non dovessi almeno provare a comunicare un po’ di più, ad avere un altro tipo di intimità, altrettanto o più importante di quella sessuale.
Non era che non parlassimo, anzi, era una persona piuttosto colta e parlavamo di tutto, arte e storia comprese, ma era come se mostrassimo solo uno strato di noi e lasciassimo all’interno quello più intimo, più vero, e andava bene così, era questa la nostra relazione ed ero consapevole che difficilmente con le persone si può arrivare ad altro, ma in quel momento avevo bisogno di qualcosa di più, di un piccolo, breve momento di comunione, di intimità vera.

In concreto però non sapevo come fare, non mi veniva spontaneo, così improvvisai e per mancanza di idee migliori gli chiesi di raccontarmi qualcosa di lui, spiegando che non mi riferivo a quello che possedeva o faceva, e neppure a cosa gli piaceva fare, ma che volevo qualcosa di più personale questa volta.
Dal momento che non capiva di cosa stessi parlando (a dire il vero non lo capivo neppure io) provai a fargli qualche domanda, come quelle che mi scappavano sempre con Sasuke, solo che anche questo non mi veniva così facile, mi sembrava di muovermi senza grazia all’interno di una cristalleria e mi sentivo a disagio, quasi si trattasse di argomenti triviali, non adatti all’atmosfera rarefatta dei nostri incontri.
Comunque, a furia di tentativi, fu così che scoprii che aveva una fidanzata storica.
Davvero.
Avrebbe potuto dirmelo prima, credo.

Mi assicurò che ormai non c’era più niente tra loro e che erano sul punto di lasciarsi, ma mi pareva la solita minestra riscaldata che viene rifilata alle amanti, e mi sentivo presa in giro, forse più da me stessa che da lui: cosa mi aspettavo?

Probabilmente era lei prima, altro che telefonata di lavoro, e c’era qualcosa di surreale a pensarci, lui fuori dalla stanza che chiamava un’altra, io nella vasca che sentivo un altro.
Da ridere, o piangere.

Doveva avere notato la mia espressione non esattamente comprensiva, perché si prodigò immediatamente in spiegazioni superflue e non richieste, e continuò a ripetermi, con profusione di parole, che era davvero interessato a me, che mi aveva chiesto di andare a Suna perché una relazione segreta iniziava a stargli davvero stretta, e che presto sarebbe stato libero, forse già la prossima volta che ci fossimo visti, perché intendeva prendersi i giorni a ridosso di Natale proprio per avere il tempo di sistemare tutto.

Ipocritamente gli dissi che non doveva lasciarla solo per me, che non volevo essere la causa di rotture, soprattutto a Natale, e ancor più ipocritamente, vista la mia situazione con Sasuke, aggiunsi che questa non me l’aspettavo proprio ed avevo bisogno di riprendermi e pensarci un po’ su.

Gli uomini sono tutti dei vermi, pensai, neanche uno su due si limitava ad andare a letto solo con me, e benché mi rendessi conto dell’enorme ipocrisia della mia delusione (io ero uguale a loro) avevo improvvisamente voglia di andare in bagno e vomitare.
Facciamo tutti così schifo, in fondo.

Nel frattempo Sasori non aveva preso bene le mie titubanze, e per la mezz’ora successiva mi parlò di quanto gli piacessi e ribadì quanto fosse rimasto colpito da me, fin da subito, tanto che il giorno dopo avermi incontrata in fioreria si era subito informato su chi fossi.

E così scoprii anche che sapeva tutto di me e della mia famiglia (speravo non proprio tutto).

In un certo senso avrei dovuto sentirmi sollevata, prima o poi avrei dovuto tirare fuori quell’argomento, e per un momento pensai di chiedergli se non avesse mai avuto il dubbio che fossi un’arrampicatrice sociale, ma non osai, avevo la sensazione che fosse qualcosa di cui non era appropriato parlare, così chiesi invece, sorridendo, se davvero aveva tutto questo potere.
Sapevo che amava quel genere di argomenti, ed ascoltai distratta fino a quando non disse che volendo avrebbe potuto avere la trascrizione di tutti i messaggi che mandavo e ricevevo al cellulare, a questo punto smisi completamente di ascoltare, terrorizzata all’idea che leggesse i messaggi che avevo mandato a Sasuke, anche poco prima.

Non ricordavo più che cosa avessi scritto esattamente e ormai li avevo cancellati tutti in preda all’ira, per cui non potevo controllare, così mi tormentai parecchio con il dubbio che ci fosse qualcosa di compromettente, anche molto dopo che Sasori mi aveva accompagnata a casa.
In realtà non sapevo neppure perché me ne preoccupassi tanto, forse perché pensare al resto era molto più deprimente, forse perché la facciata era l’unica cosa che teneva in piedi questa relazione che ancora non mi decidevo a troncare.
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Capitolo 14
*** 14. ***


 
Eccomi qui, spero che il capitolo vada bene, questa settimana non ho avuto molto tempo da dedicare alla scrittura.
...soprattutto spero che vi piaccia!



14.




Ero tornata a casa piena di dubbi, e devo dire che l’unica cosa di cui non mi preoccupai fu il fatto che sicuramente la voce della sottoscritta che tornava in porche si sarebbe sparsa rapidamente, e che di conseguenza mia madre e mia sorella mi avrebbero stressata per ore con domande cui non intendevo rispondere, ma avevo altro per la testa, e mi passai il resto della notte a rigirarmi sul letto con la sensazione di avere un peso atroce sulle spalle.

Mi alzai ancora più stanca di quando ero andata a dormire e studiai insonnolita per l’intera giornata tentando di non pensare a Sasori, o Sasuke, sulle spalle quell’ormai onnipresente peso.
Mi dicevo che avrei dovuto saperlo che sarebbe andata a finire male, che avrei dovuto semplicemente lasciar perdere gli uomini fin dall’inizio, fidarmi solo di me stessa, e basta, e invece...

Cosa dovevo fare adesso?
Mi sentivo persa, disorientata, ormai invischiata in quella situazione fumosa e aggrovigliata che non riuscivo più a controllare.
Non sapevo cosa dovevo fare, non sapevo neppure che pensare.

E’ difficile spiegare lo stato di confusione in cui mi dibattevo, era come se mi muovessi su un terreno scivoloso e non sapessi dove aggrapparmi, no, era come se girassi attorno impazzita, senza un punto fermo, senza uno scopo, senza neppure sapere il perché.
Cosa volevo veramente, e addirittura, chi ero veramente io?

Perché sempre più spesso non riconoscevo le mie reazioni e mi riscoprivo diversa da ciò che ero, da quello che avevo creduto di essere, e sempre più spesso ero scontenta di me stessa.
A questo punto non sapevo più dove finiva la recita e dove iniziavo io, e in quel momento non capivo neppure più bene cosa mi angosciava, chi mi angosciava, e perché, sapevo solo che non stavo bene così, che non stavo affatto bene ed avevo bisogno di una certezza, di una sola certezza per potermici aggrappare e ricostruire intorno ad essa la mia vita.

 - E’ nuova quella borsa? – chiese mia madre a pranzo.

La guardai corrucciata.

Dal momento che l’avevo lasciata in camera non sapevo neppure come avesse fatto a vederla, e quando mi spiegò che vi era entrata un momento mentre ero in cucina perché pensava fossi lì (sapeva che era vietatissimo entrare in camera mia) mi chiesi se non dovessi chiudermi la porta a chiave quando uscivo, e in soprappiù magari cambiare posto al mio gruzzoletto segreto: mi fidavo di lei tanto quanto del mio peggior nemico.

 - E’ una borsa di marca – continuava lei – deve costare tanto –

 - Me l’hanno regalata per Natale – per una volta tanto era anche vero.

 - Vorrei sapere chi ti fa tutti questi regali – borbottò lei, non per la prima volta – perché se vengo a sapere che le mie figlie si comportano da… –

 - Non finire neppure la frase – la bloccai duramente.

Non avrei tollerato prediche da una che si trascinava ogni giorno dal divano al letto e non sapeva niente, niente di noi e del mondo in cui vivevamo.
E’ facile giudicare dall’alto della propria inettitudine a vivere, almeno io ci provavo.

Ma la verità era che mi colpiva in un punto dolente.

 - Mamma! Sakura a scuola frequenta persone ricche! – mi difese Moegi – per loro non è niente un regalo così! –

Devo dire che la mia sorellina in quei giorni dimenticava in fretta i nostri alterchi ed era spesso di splendido umore, forse per l’atmosfera natalizia e le conseguenti vacanze imminenti, o presumibilmente perché Sasuke la salutava ogni volta che la incontrava, tanto che perfino Ami, colpita da cotanta popolarità, tentava di approcciarla in maniera diversa.
Era anche molto più disponibile nei miei confronti, più affettuosa, secondo me perché si era resa conto che questo improvviso cambio nel suo status sociale (la gente si accontenta di poco, ma sotto sotto i meccanismi sono sempre gli stessi) era dovuto in qualche modo a me e al mio rapporto con Sasuke, di cui mi parlava sovente, ora.

 - Me la presti un giorno? – aggiunse, perché se non altro era uno spirito pratico come sua sorella, non si poteva negare.

 - Forse –

Tanto neanche mi piaceva.

 - Oggi? –

Risposi magnanimamente di sì e quando si precipitò a prenderla con il boccone ancora tra i denti le gridai di stare attenta a non sbatacchiarla in giro e soprattutto a non farsela fregare.
Conoscevo il mio pollo.

 - Ho bisogno di una televisione in camera – cambiò discorso mia madre mentre sparecchiavo – per Natale ci sono tante offerte, potremmo… –

 - No, costa troppo e sei in grado di camminare fino al divano –

Ogni tanto tirava fuori questa storia del televisore in camera, ed anche della rete del letto che si sollevava e della sedia a rotelle, quando il medico aveva detto espressamente che non dovevamo neppure pensare di accontentarla, che se lo avessimo fatto sarebbe diventata ancora più dipendente e non si sarebbe proprio più mossa, mentre invece doveva sforzarsi di camminare da sola (non che si sforzasse molto).

Più tardi mi rinchiusi in camera a studiare, ma man mano diventavo sempre più insofferente e facevo sempre più fatica a concentrarmi.
Non riuscivo più a controllare l’inquietudine e quel peso sulle spalle stava diventando intollerabile.

Subito dopo cena, non ne potevo più di rimanermene lì da sola con i miei pensieri, uscii con la scusa di sgranchirmi le gambe, ma sapevo esattamente dove intendevo andare: avevo bisogno di vederlo, era l’unica cosa di cui ero sicura.

Appena arrivata di fronte alla sua porta abbassai la maniglia senza darmi il tempo di pensare, e constatato che la porta era aperta entrai senza bussare: lui stava studiando sul tavolo della cucina, e nel vederlo confesso che il cuore aveva fatto una capriola nel petto prima di iniziare a battere più velocemente.

Distolsi in fretta lo sguardo e andai di filato in camera sua, alla ricerca di un indizio, che so, un preservativo usato, un reggiseno dimenticato, o simili, ma non trovai niente, a parte le solite due fotografie che guardai di sfuggita.
Mentre mi sedevo sul letto mi soffermai un momento su quella di lui con la sorellina, che aveva davvero uno sguardo adorante piccolina, e chissà se ogni tanto pensava a suo fratello, se chiedeva di lui, se gli mancava.
Afferrai il cuscino con una strana sensazione che mi prendeva lo stomaco, e la gola, e ci affondai il naso: non c’era nessun odore sospetto, solo il suo profumo, e continuai ad inalarlo tentando di calmarmi.

 - Si può sapere che cazzo fai? –

Appoggiai il cuscino e mi voltai a guardare Sasuke che mi fissava dalla soglia, non molto contento di vedermi.
Sotto il suo sguardo intenso mi sentivo nuda, e non parlavo solo dell’eccitazione che mi risvegliava anche in quel momento, ma di qualcosa che andava oltre, come se vedesse chi ero veramente, come se sapesse che mi si stava sgretolando tutto tra le mani.

 - La rossa se ne è andata? – domandai senza guardarlo, con un’acidità che era quasi una forma di vergogna – Vuoi uomini siete tutti uguali – aggiunsi in fretta – ma dopo siamo noi le troie –

- Ti rendi conto che quello che dici non ha senso –

Alzai la testa e rimasi a contemplarlo un momento, appoggiato alla stipite della porta, così solido, e vero, in mezzo alla mia confusione.
 
 - Sei tu che mi hai dato della troia – replicai comunque, in un automatico tentativo di difendermi, come se mi importasse qualcosa di quegli stupidi messaggi, della rossa, o di Sasori, quando quel che volevo era solo potermi appoggiare a lui e sentirmi sicura di qualcosa, di qualcuno.

 - Sei tu che hai iniziato a insultarmi senza motivo –

Già.

 - Ma sei tu che ti sei passato la notte a letto con la rossa – mormorai stancamente, e mi sentivo ridicola e petulante, e ad un passo dalle lacrime.

 - Che cazzo dici. Non ho passato la notte con Karin, se ti riferisci a lei –

Non mi stupii neppure della sua risposta, come se sotto sotto, in qualche angolino nascosto, avessi sempre avuto il sospetto che non ci avesse fatto niente con quella, perché era Sasuke, il mio Sasuke, un fulcro cui guardare, un pilastro cui aggrapparmi, così…così grande nella sua onestà intellettuale.
Ed io…io sentivo di essere al limite, lì lì per perdere il controllo.

 - Non…davvero quella non ha dormito qui? – mormorai.

 - Non sono cazzi tuoi, ma dorme sempre da Naruto, è sua cugina –

Quella bugiarda.

  - E non ci hai mai fatto sesso? –

   - No –

  - Però lei vorrebbe – avevo insistito sollevandomi dal letto – ed è una ragazza molto bella –

 - Senti, non so dove vuoi arrivare e… –

Si interruppe perché nel frattempo mi ero avvicinata ed avevo appoggiato il capo sul suo petto.
Lui non mi abbracciava ma nemmeno mi respingeva, e poi sollevò la mano e mi accarezzò i capelli, e solo questo gesto parlava più delle mille parole di Sasori, e lo avevo sempre saputo, questo, che tra noi c’era un legame che non potevo spiegare razionalmente, che mi faceva paura.

 - Sei mai andato a letto con qualche ragazza dopo che ci siamo conosciuti? – continuai, come se avesse importanza, o fosse un mio diritto chiederglielo.

 - …no –

 - E prima? –

 - Non ti fai mai i cazzi tuoi? –

 - Non ci riesco, e tu non puoi semplicemente rispondere? – lo abbracciai sempre senza guardarlo, la testa sempre sul suo petto, quasi sentire il suo cuore che batteva calmo, forte, potesse infondere calma e forza anche a me – Quante donne hai avuto prima di me? Non me lo vuoi proprio dire? –

 - Se te lo dico dopo la smetti di farmi domande? –

 - Promesso –

 - Non ne ho mai avute –

 - E…avventure? –

 - Neanche –

Registrai a fatica l’informazione.

 - Ma…avevi i preservativi – balbettai stupidamente.

 - Un regalo idiota –

 - Ma…come mai – mormorai allora, e il mio, di cuore, batteva così forte nel petto.

 - Non mi sono mai innamorato –

Sasuke, sussurrai tra me, Sasuke.
Ero come stordita, e la testa mi girava.

    - Sono la tua prima ragazza? – bisbigliai stringendolo con più forza, avevo gli occhi lucidi e c’era qualcosa, come una specie di tepore, che mi riempiva il cuore e confondeva i pensieri.
    
 - Non sei la mia ragazza –

 - Lo so…ma…sei…innamorato di me? –

Aspettai continuando ad abbracciarlo, persa in quel calore che sembrava unirmi a lui, più forte dell’abbraccio in cui lo stringevo, immersa in quella strana sensazione che mi sfiorava il cuore come una sua carezza tra i capelli, e mi inondava di qualcosa che non avevo mai provato e assomigliava alla gioia.

 - …mi sei sempre piaciuta –

Gli sono sempre piaciuta.

 - Anche prima che ci conoscessimo? –

 - Sì –

 - E anche adesso che sai che sono stupida, piena di pregiudizi, rompiscatole e…e un po’ troia? –

 - Sei anche coraggiosa, forte, e positiva, e a tuo modo onesta –

 Sollevai il capo, gli occhi pieni di lacrime, e rimasi a fissarlo per alcuni istanti imprimendomi nella memoria i suoi lineamenti, così belli, e così cari al mio cuore, ormai.

 - Ti piaccio ancora? – sussurrai.

 - Sì –

 - E mi bacerai, anche se ieri ero con lui? –

Riuscii a distinguere l’ombra di dolore prima che sparisse, ed appoggiai ancora il capo sul suo petto.
Il mio cuore batteva come impazzito nel petto, e potevo sentire il suo che pulsava meno lento ora, mentre le sue dita si erano fermate tra i miei capelli.

 - Non respingermi ti prego, non ce la faccio più, penso sempre a te – mormorai – io…credo di avere bisogno di te…no, lo so…ho bisogno di te, ho bisogno di te, che tu ci sia –

Ed era la verità, così semplice, così banale, che non capivo come non avessi potuto coglierla prima, ed era come se quell’ombra confusa che mi annebbiava la vista si fosse dissipata per mostrarmi con chiarezza ciò che volevo veramente, ed era tanto che non mi sentivo così sicura.
Volevo lui, solo lui.

 - Fai l’amore con me, ti prego…fai l’amore davvero, come se…come se mi amassi – feci uscire in un sussurro.

Alzai la testa e lo baciai con tutta la passione e la tenerezza che sentivo per lui, e credo, so, che facemmo veramente l’amore per la prima volta quella notte, o almeno era la prima volta che lo facevo io, ma sentivo che per lui era lo stesso, nonostante tutto, nonostante non lo meritassi, lo capivo da come mi guardava, da come accarezzava, da come baciava, ogni centimetro della mia pelle.

Dopo restai a guardarlo a lungo, a rimirare ogni particolare del suo volto, i suoi occhi, le sue labbra, la sua fronte con quella cicatrice che non sarebbe mai scomparsa del tutto, un continuo rimando a quella volta in cui mi aveva aiutata senza esitare, un rimando a chi era lui, e a chi ero io.
Non mi accontentai del viso, scesi ad esaminare ogni particolare del suo corpo, e mentre tracciavo con la punta delle dita i suoi tatuaggi, ad uno ad uno, gli chiedevo quando li aveva fatti, e perché, e cosa significassero per lui.

Quella notte, tra i baci, finimmo per parlare di filosofia, per raccontarci quei pensieri che ci sfiorano quando siamo soli con noi stessi, che sigilliamo in una minuscola porzione del cervello senza svelare mai.
Parlammo di ciò in cui credevamo e di ciò che temevamo, della ricchezza e della miseria, dell’ingiustizia e della giustizia, di Dio, della vita e della morte, come se fosse la cosa più naturale del mondo mettere a nudo quei pensieri inutili, eppure così profondi, e sentirsi una cosa sola, un’anima sola.

Non riuscii a dormire mai, dovevo rimanere sveglia, assaporare ogni istante di quello che provavo, perché ero felice, profondamente felice, come non ero stata mai, e la felicità è un attimo, appena passata diventa vaga come un sogno, e già inizi a dimenticarla.
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No, la storia non è finita, mancano ancora parecchi capitoli, e no, non sarà tutto rose e fiori d'ora in poi...vedrete!  

Cambiando argomento, voglio ringraziare ancora una volta tutte coloro che mi seguono, chi recensisce in particolare: non sarò una scrittrice vera ma è bello pensare che, per quanto inutile, quello che scrivo fa divertire qualcuno, e magari a volte, un pochino, anche pensare, perché no!
...scusate l'inutile sfogo, ma devo dire che sono un po' in crisi con la scrittura in questo periodo, forse perchè il manga si avvicina alla fine, forse perchè sono anni ormai che dedico tempo ed energie alla scrittura di fanfic, ma comincio a sentirmi, come dire, demotivata...insomma, come Sakura mi chiedo anch'io dove sto andando anche se la mia non è certo una questione di uomini…anzi, il mio personale Sasuke non è mai stato così saldo accanto a me, davvero una roccia cui appoggiarsi. :)

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Capitolo 15
*** 15. ***



Capitolo cuscinetto, niente di che, ma non potevo far uscire il capitolo precedente e quello successivo uno dopo l’altro, c’era bisogno di una pausa per farvi prendere fiato. ;)

 


15.




Ad un certo punto dovevo essermi addormentata, purtroppo, perché mi svegliai sola nel suo letto, e come l’altra volta rimasi distesa lì, al calduccio, senza nessuna voglia di alzarmi.
Così delusa.

Avrei voluto così tanto guardarlo dormire ancora un poco, e avrei avuto bisogno di sentirlo ancora accanto a me, di vederlo quando apriva gli occhi, di parlargli.

Ora, da sola, come facevo a capire se quella notte era stata reale, o solo un sogno?

Mi feci forza e me ne andai subito dopo, era tardi e preferivo far finta di avere dormito a casa per evitare antipatici commenti.
Arrivai che stavano ancora dormendo tutti quanti, per fortuna (Moegi era in vacanza e mia madre sentiva le feste), mi mossi il più silenziosamente possibile e mi chiusi in bagno per sistemarmi, sana e salva, ma avevo sottovalutato la mia famiglia, e quando uscii c’era Moegi, in piedi, che mi guardava sospettosa.

 - E’ la seconda notte di seguito che dormi fuori! – mi accusò.

La ignorai, per niente colpita, e ripresi a camminare verso il frigorifero in cerca di cibo.

 - Ti hanno accompagnata a casa con un macchinone – continuò lei con un altro tono, quasi ammirato (quella sciocchina) – ma chi era? –

Da quel che capivo i pettegolezzi su di me erano arrivati ad un vero e proprio parossismo in quei giorni, o magari gli abitanti del quartiere mi spiavano, non me ne sarei sorpresa.

 - Shhh! Sveglierai la mamma! – l’ammonii – Sai le lamentele? –

 - Ma chi è? E’ ricco? –

 - Non è nessuno, davvero – minimizzai, ed era la pura e semplice verità.

 - Ma eri con lui, no? –

Non tentai neppure di spiegarle la situazione, anche volendo non avrei avuto idea di come fare, era un pochino confusa diciamo, e di sicuro non un bell’esempio per una ragazzina in crescita, così mi limitai a ripetere che non era niente, che ero uscita con qualche amico dell’università e dal momento che si faceva sempre tardi con loro, un tizio che conoscevo mi aveva dato un passaggio.

Mi guardò dubbiosa ma alla fine accettò la mia fiacca spiegazione senza più protestare.

Quella settimana dovevo lavorare in fioreria ogni giorno, era la settimana di Natale, ed uscii di casa già stanca, non avevo dormito molto nelle ultime due notti, eppure mi sentivo stranamente attiva, quasi euforica, perché avevo deciso di chiudere con Sasori, e nonostante il nervosismo che provavo all’idea di guardarlo in faccia e dirglielo, mi sentivo già un po’ più leggera.
Con lui era stato un errore fin dall’inizio, potevo ammetterlo ormai, come potevo ammettere che una parte di me aveva sempre saputo che tra noi due non sarebbe mai potuta andare avanti per molto, ma tutto sommato se non ci avessi provato ora sarei stata qui a recriminare, a chiedermi come avrebbe potuto essere, per cui andava bene così, o almeno era quello che mi dicevo per giustificarmi.
In ogni caso non intendevo starmene lì a piangere sul latte versato, non era nel mio stile: gli errori si commettono ed io non ne sono certo esente, l’importante è usarli per imparare e crescere.
A questo punto non volevo neppure risicare troppo sulla questione dei soldi, soldi o non soldi lui non mi interessava. Punto.

E comunque al momento ero più interessata al cuore.

Purtroppo in quel campo mi ritrovavo completamente digiuna di esperienza e di idee su come procedere, per cui mi muovevo a tentoni e mi sentivo ancora incerta, insicura, e probabilmente c’è una forma di giustizia divina da qualche parte, perché rimasi tutto il giorno ad aspettare una fantomatica chiamata di Sasuke, invano ovviamente, e sempre invano tentai di arginare il diluvio di messaggi e telefonate di Sasori.
Era un continuo, davvero, e nonostante provassi a ripetergli di non lasciare la fidanzata per me, che non era giusto, e tentassi di buttare qua e là segnali di insofferenza (o magari proprio per questo) non riuscivo a farlo desistere, ed anzi, insisteva ancora di più nel ripetermi quanto ero diventata importante per lui e quanto aveva voglia di rivedermi.
Avevo deciso di mollarlo di persona, non mi pareva carino farlo per telefono, ma ad un certo punto, esasperata, gli avevo detto che forse era meglio se chiudevamo qui.
Non lo avessi mai fatto.
Continuò a tempestarmi di chiamate anche dopo che gli avevo assicurato che ne avremmo riparlato a voce alla prima occasione, fino a quando non decisi di non rispondere proprio più.
Il lato positivo era che abitava lontano, altrimenti ero sicura che ad un certo punto me lo sarei trovato sotto casa a tormentarmi, ma la cosa davvero irritante era il fatto che in mezzo a quel fiume di messaggi rischiavo di perdermi anche quello che aspettavo ma non arrivava.

Lunedì sera Ino era passata a trovarmi al lavoro.
Mi aveva fatto piacere vederla e ne avevo approfittato per prendermi una pausa e andare a bermi un caffè al bar lì vicino, un bar nuovissimo e davvero elegante, anche se non era provvisto di un barista all’altezza.
Devo dire che in quel campo ormai avevo degli standard altissimi, probabilmente irraggiungibili.

Ero così presa da questa svolta nella mia vita, dall’eccitazione che provavo, che mentre mi sorseggiavo il mio caffè le confidai che avevo deciso di mollare il tizio di Suna e pensavo di iniziare ad uscire con Sasuke, il chitarrista dei Dead Leaves.
Lei non pareva per niente sorpresa.

 - L’ho capito subito che c’era qualcosa tra voi – aveva aggiunto sicura.

Mi sembrava strano dal momento che neppure ci eravamo mai parlati in sua presenza, come le feci notare.

 - Ma sì! L’ho capito da come vi guardavate! – era stata la sorprendente risposta – Tu lo guardavi continuamente, secondo me non te ne accorgevi neanche, e una volta l’ho beccato che ti guardava lui, ti assicuro che era uno sguardo molto intenso…mentre a me non mi ha neanche vista praticamente, e sì che modestamente i maschi mi notano! E brava la mia Sakura – aggiunse ironica – io di sicuro non avrei aspettato così tanto – già, ero stata una stupida – …ma tu sei sempre così controllata –

Se avesse saputo quanto poco lo ero in quel periodo, quanto poco lo ero con lui.

Ripropose anche di uscire insieme alla band, cosa che a questo punto non mi disturbava, e devo dire che non era l’unico cambiamento nel mio modo di percepire le cose, o forse ero semplicemente cambiata io, come non avrei mai creduto possibile fino a pochi mesi prima, perché ormai non mi importava più di mantenere una facciata. Intendiamoci, non che mi fossi messa a raccontare in giro la mia travagliata vita di poveraccia, ma era cambiato il mio modo di pormi e di vivere la cosa, semplicemente non mi interessava più nasconderlo, ed era strano come una cosa così piccola mi facesse sentire così libera.

 Il giorno dopo Sasuke non mi aveva ancora chiamata, e questa mia nascente insicurezza iniziava ad irritarmi, non ce n’era motivo, in fondo non mi aveva mai chiamata prima perché mai avrebbe dovuto iniziare ora, non aveva alcun senso aspettarsi qualcosa, non avrei dovuto preoccuparmi.
Andava tutto bene, no?!
E allora, di cosa avevo paura esattamente?

Il fatto era che non gli avevo detto espressamente che intendevo lasciar perdere Sasori per lui, e dato che era un maschio e capiva solo i fatti e le frasi semplici, non i sottintesi, chissà cosa credeva.
Ma mi pareva che fosse abbastanza chiaro, no?!
Mi pareva così evidente.
E poi sapevo di piacergli, di piacergli davvero, me l’aveva detto lui!

Eppure era come se improvvisamente mi sentissi vulnerabile, e questo non mi andava per niente, era un tipo di cambiamento cui avrei volentieri rinunciato ed era un peccato che facesse parte del pacchetto.

Stabilii comunque di resistere e non farmi viva per prima, in fondo cos’era questa smania estrema di sentirlo, con tutto quello che avevo da fare!

Nel frattempo mi ero rassegnata a rispondere, esasperata, all’ennesima chiamata di Sasori, spiegandogli che era inutile che mi chiamasse cinquanta volte, che una era più che sufficiente, e che se non rispondevo avevo le mie ragioni.
Mi aveva replicato che era costretto a farlo proprio perché non mi decidevo a rispondere, e in effetti il discorso aveva una sua logica, chi poteva negarlo, però cominciavo a sentirmi oppressa, diciamo, e onestamente iniziavo anche a chiedermi come potesse comportarsi in maniera così idiota: non mi era sembrato un idiota, ma forse avevo di proposito ignorato certi segnali, ero cosciente che, essendo il mondo pieno di idioti, l’eccezione era incontrare uno che non lo fosse, non il contrario.

Gli avevo ripetuto che avremmo chiarito ogni cosa a voce e lo pregai di non chiamare più per quel giorno, adducendo come motivo che dovevo studiare e lavorare.
E così era.

In fioreria lasciai da parte per un po’ quel maledetto cellulare, era la viglia di Natale e in giro c’era un numero sproporzionato di gente idiota che aveva pensato bene di prendersi l’ultimo giorno per i regali, ed ecco, ero lì che stavo preparando un mazzo di fiori che ci era stato ordinato, mansione questa che amavo particolarmente, quando rividi la donna che mi pareva la madre di Sasuke: era passata di fronte alla vetrina senza fermarsi, ma aveva sbirciato dentro ed ero quasi sicura che fosse lei, per cui questa volta fui lesta a mollare tutto, uscire dal negozio e chiamarla.
Dal momento che non conoscevo il suo nome le urlai ‘mamma di Sasuke!’, e quella si voltò, la sventurata, ignara del fatto che avevo in serbo per lei un vero e proprio interrogatorio.

In quel momento stranamente c’era poca gente in negozio, le composizioni che mi erano state affidate erano quasi tutte pronte (ero una brava lavoratrice, avevo buon gusto nel mettere insieme i fiori e non mi fermavo mai, davvero), quindi la direttrice mi concesse una pausa per il caffè senza discutere, anche se si premurò di buttar lì di non superare i dieci minuti.
Risposi che sarei stata attenta, non ero una che sgarrava spesso, e controllai l’orologio decisa a non sforare, ma confesso che non ci pensai più quando mi ritrovai seduta nel bar lì vicino, a bere un caffè decente e a parlare di Sasuke con sua madre, cosa che chissà perché trovavo terribilmente eccitante.

Più la guardavo più notavo le somiglianze tra di loro, nei colori, nel taglio degli occhi, e pareva davvero una signora ammodo come l’avevo sentita definire, ed anche una bella signora, snella e ben vestita, di tutta un’altra pasta rispetto alla mia indecorosa madre, se dovevo dirla tutta.

Dopo che ci eravamo presentate aveva ammesso di essere passata di proposito di fronte alla fioreria, non per la prima volta, e mi aveva chiesto se ero la ragazza di suo figlio studiandomi per niente discretamente.
Dal momento che non mi pareva il caso di rispondere con un ‘forse’, avevo detto di sì.
Lo ero, no?!
Oddio…mi sentivo ridicolmente eccitata, come una bambina alle giostre.

 - Non ci racconta mai niente – sospirò lei.

La cosa non mi sorprendeva affatto.

 - Mi sembri una ragazza normale – mormorò poi, pareva quasi sollevata e non sapevo se offendermi o ridere, davvero.

Non so bene cosa si aspettasse, forse si riferiva alla mancanza di tatuaggi, ma in ogni caso una ragazza vuole sentirsi speciale, non “normale”, e la fissai non più così ben disposta nei suoi confronti.

Decisi comunque di soprassedere e le chiesi invece di tenere nascosto il nostro incontro, almeno per il momento, fino a quando non gliene parlavo io, al che mi spiegò che il problema neppure si poneva dato che in quei giorni non riusciva a scambiare nemmeno una parola con suo figlio.
Le consigliai di mandargli messaggi, sicuramente se non altro li avrebbe letti.

 - Ha potuto assistere alla recita di sua sorella? – attaccai subito dopo, non era che avessimo tutto questo tempo e volevo parlare di lui, un argomento che sicuramente interessava ad ambedue.

Rispose un po’ a disagio che sì, lo avevano visto in piedi, in fondo alla sala, anche se se n’era andato presto, senza fermarsi.
Che ca…volata.

 - Capisco che ci sono stati dei malintesi tra voi, ma spero almeno che per il giorno di Natale facciate pace, lo passa con voi? –

Dopo un intero minuto sprecato in un silenzio imbarazzante mi spiegò che quel Natale era un po’ particolare, e vista la mia aria perplessa raccontò che lui e il patrigno non erano mai andati d’accordo, che suo marito lo trovava indisponente e maleducato e lui da parte sua non sopportava quelle che definiva ingestioni esterne, ma che si erano tollerati almeno fino a qualche mese prima, un giorno in cui Sasuke aveva mangiato da loro: quel giorno c’era stato un brutto litigio, molto brutto, tra loro due, alla fine del quale il patrigno gli aveva detto che non voleva più vederlo in casa sua o vicino alla sua famiglia.

 - …mio marito non è cattivo come può sembrare – si affrettò a difenderlo, suppongo per l’espressione non esattamente comprensiva che avevo assunto – cerca di fare quello che è meglio per la sua famiglia –

Non era chiaro se il suo figliastro vi fosse incluso o meno.

 - …ha provato ad essere una figura paterna – chiarì lei dopo che ci avevano portato i caffè – ma Sasuke lo ha sempre rifiutato e… l’ultima volta sono quasi venuti alle mani –

  - Posso chiedere il perché? –

Sono un’impicciona, lo so, ma solo per tutto quello che riguarda lui.

Lei aveva esitato prima di acconsentire, ed ascoltai con la fronte aggrottata mentre mi spiegava come il marito fosse riuscito a trovare un lavoro per Sasuke nella ditta in cui lavorava, un lavoro sicuro, cosa non facile di questi tempi (non ne dubitavo), ma che quando quel giorno glielo aveva detto, lui, invece di ringraziarlo, a quanto pare aveva reagito male.

 - Mio marito si era esposto per lui e per questo si è sicuramente scaldato un po’, però Sasuke è stato molto aggressivo, davvero troppo – fece una pausa – …ho cercato di dirgli che in questo modo peggiora solo le cose, ma non mi ascolta –

Probabilmente ero di parte, ma devo dire che facevo molta fatica a capire la situazione, magari solo perché mi mancavano un po’ troppi elementi.

 - Ma… se sta studiando… – cercai di difenderlo mentre mi sforzavo di mettere insieme il poco che sapevo.

 - Non sappiamo neppure se riesce veramente a studiare con tutto quello che fa – fece un sospiro – siamo solo preoccupati per lui… vorremmo che la smettesse di vivere così, alla giornata –

 La guardavo sempre più perplessa.

Sorseggiai il caffè, che non era male, pensando che questa donna conosceva suo figlio ancora meno di quanto mia madre conosceva me, il che era una specie di record.

 Ad un’altra mia domanda diretta specificò che era dal giorno in cui lui e il patrigno avevano litigato che non voleva più parlarle.

 - Credo che quel giorno si aspettasse che mi mettessi dalla sua parte – spiegò.

 - E non poteva? –

 - …mi è dispiaciuto tantissimo per lui, ma non potevo mettermi contro la mia famiglia –

Non che avessi tutti gli elementi per giudicare, ma questa l’avevo già sentita quella volta che avevo origliato loro due che discutevano in strada, e mi pareva una gran cavolata a prescindere dai particolari.   

- Senza offesa, ma anche lui è la sua famiglia – osservai –…anzi, i figli restano, i mariti cambiano, no?! –

Almeno a giudicare dalla sua e mia personale esperienza.

 - Può sembrare così – rispose un po’ condiscendente, come se fossi troppo giovane per capire – ma alla fine è il contrario, sono i figli che crescono e se ne vanno –

Magari era anche vero, non lo mettevo in dubbio, ma non era quello il punto.

 - Comunque ci avete messi al mondo – ribadii – nessuno ve l’ha chiesto, siamo una vostra responsabilità, non potete prenderci quando vi fa comodo e mollarci quando non vi andiamo più così bene, non si scaricano neanche gli animali domestici, figuriamoci i figli! –

Aveva abbassato lo sguardo.

 - E’ lui che si allontana – replicò.

Chissà perché, ma me lo immaginavo che avrebbe dato la colpa a lui.

Il tempo stringeva e tentai di indagare ulteriormente sulla natura di tutti questi contrasti, non molto sottilmente data la mancanza di tempo e la mia indole non esattamente diplomatica quando c’era di mezzo lui, ma a parte il fatto che lui non raccontava niente ed erano preoccupati per la vita irregolare che conduceva, che secondo loro avrebbe dovuto smetterla di frequentare certi ambienti, che invece di perdere tempo in lavoretti e musica avrebbe dovuto pensare a trovarsi un lavoro serio (ancora non capivo bene perché lo studio non fosse considerato serio), e che comunque a suo dire Sasuke stesso avrebbe dovuto essere più tollerante e comunicare invece di diventare aggressivo, che forse assomigliava a… (a questo punto si era interrotta, grazie al cielo), non riuscii a cavarle niente di più, solo altre vaghe spiegazioni che non chiarivano molto e mi facevano venire il dubbio che i motivi di fondo fossero tanto inconsistenti quanto i miei prima di conoscerlo.

Ad un certo punto rinunciai ad indagare, so riconoscere una causa persa, ed ho imparato da tempo che le cose non solo non sono mai bianche o nere, ma anche che le sfumature di grigio a volte sono così impercettibili che ognuno ci vede un po’ quello che gli pare.
Capisco che non sapere niente rende insicuri e sospettosi, ma mi chiesi se sotto sotto non fosse che semplicemente i figli di primo letto diventano ingombranti se non si lasciano completamente inglobare all’interno della nuova famiglia.
Forse esageravo, e sapevo di avere una certa tendenza a crearmi dei pregiudizi, l’avevo imparato proprio grazie a Sasuke, ma se c’era una cosa su cui non avevo dubbi era proprio che lui, pur con tutti i suoi difetti, era la persona migliore che avessi mai conosciuto, per cui chi pensava male di lui doveva essere in malafede.

Quando ad un certo punto aveva tirato fuori che aveva trovato delle cartine per arrotolarsi le sigarette a casa sua, neanche fossero indizio di chissà cosa, mi ero quasi depressa.
Davvero.

 - Non so…forse dovrei fare qualcosa di più – concluse, ammettendo finalmente che forse non era tutta colpa di Sasuke – vorrei almeno capire cosa succede –

Mi guardò con gli occhi lucidi, e un poco mi faceva pena ora.

 - Non fa uso di droghe – spiegai con una pazienza che non avrei mai creduto di possedere – e non dovete preoccuparvi per lui, non è uno sbandato, anzi, credo…so…che è un bravissimo ragazzo con la testa sulle spalle –

 Non so come ma dovevo essere stata convincente, perché per la prima volta l’avevo vista sorridere, un sorriso molto bello che chissà perché mi aveva ricordato Sasuke, per la precisione il Sasuke bambino che avevo visto nelle foto.

- E sua sorella? Non può vedere neppure lei? Neanche a Natale? – cambiai brutalmente argomento, ero già in ritardo e non avevo tempo per i salamelecchi.

A quanto pareva suo marito al momento era ancora arrabbiato e non erano ancora riusciti a trovare una soluzione adeguata, ad un certo punto lei aveva anche pensato di fare le cose di nascosto, aggiunse, ma ci aveva rinunciato dal momento che far mantenere un segreto ad una bambina risultava quasi impossibile, oltre ad essere poco sano per la sua crescita.

 - Credo che su questo dovrebbe impuntarsi con suo marito – le feci a mo’ di conclusione, perché non vedevo altro sistema, e onestamente mi pareva una cosa troppo importante per decidere di lasciar perdere per amore della quiete familiare – credo anche che dovrebbe dirgli che Sasuke è suo figlio e deve occuparsene solo lei –

 - …sì…probabilmente sì – mormorò stancamente.

E questa era la cosa più savia che le avevo sentito proferire quella sera.

Nel frattempo la mia pausa stava diventando troppo lunga e mi ritrovai costretta a salutarla con ancora più domande di prima, non le avevo neppure chiesto niente del misterioso padre di Sasuke, che magari era davvero in prigione.

In ogni caso ci scambiammo il numero di telefono, per cui facevo sempre tempo a ricontattarla se avevo bisogno di delucidazioni. Devo dire che dubitavo che si sarebbe fatta viva per prima: probabilmente è la mia carenza di diplomazia, ma sto sulle balle ad un sacco di gente, e sapevo di non essere stata particolarmente amabile con lei.

Non era colpa mia se non aveva capito niente di suo figlio, ma proprio niente, e se a tratti mi era parso perfino che parlassimo di due persone diverse.

Ovviamente pensai a lui e a quello che mi aveva detto sua madre per l’intera permanenza al lavoro, e al ritorno, in metrò, gli mandai un messaggio:

‘Sei a casa?’

Aveva questa fastidiosa tendenza a non rispondere mai al primo messaggio, per cui dopo un po’ gliene inviai un altro.

‘Puoi rispondere? E’ fastidioso dover sempre insistere, e ti precedo, non ho sbagliato numero!

Avevo deciso di passare da lui con la scusa ufficiale di parlargli di sua madre, quando in realtà non sapevo ancora se era il caso di nominarla e avevo solo voglia di vederlo: insomma, stavo iniziando a comportarmi come una povera deficiente, ne ero cosciente almeno, ed ecco perché non avrei mai voluto innamorarmi, perché ci si riduce a comportarsi da poveri idioti e la dignità va a farsi benedire.

Non che fossi innamorata, non esageriamo.
 
Tornai a casa tardi, come ogni volta che lavoravo in fioreria, anzi, di più perché esistevano delle persone così incuranti che riuscivano ad arrivare a ridosso dell’orario di chiusura anche la vigilia di Natale (senza contare che avevo dovuto recuperare il tempo perso con la chiacchierata), ed impiegai la lunga ora passata in metropolitana a pensare a Sasuke e alla sua famiglia: Natale è un periodo un po’ particolare per chi non ha una famiglia perfetta, lo so anche troppo bene, perfino io, che non sono una che si piange addosso, in questi giorni mi ritrovo a pensare a mio padre.
Paradossalmente ho dei bellissimi ricordi su di lui, e mi rendo conto che è quasi impossibile da spiegare, ancora meno da capire, ma questo in un certo senso peggiora le cose, perché lo odio per averci abbandonate, ma contemporaneamente non posso fare a meno di amarlo almeno un poco, e il dolore è come più subdolo, intriso di sensi di colpa cui non riuscirò mai a dare una spiegazione razionale, perché probabilmente non ce l’hanno.
Che cavolo di colpa potevo avere io.
Ma avevo letto da qualche parte che i bambini si incolpano di qualsiasi cosa perché ancora pensano che il mondo giri attorno a loro, e allora probabilmente, facendo psicologia spicciola, quella bambina senza risposte che si sentiva in colpa era ancora dentro di me da qualche parte, incapace di crescere.

Chissà se anche Sasuke dentro di sé aveva un bambino che non era riuscito a crescere, probabilmente sì, e almeno io uno straccio di famiglia ce l’avevo ancora, non ero così sola a Natale.

Speravo che il giorno successivo riuscisse almeno a vedere sua sorella, ma in ogni caso c’ero io, ci sarei stata io.

Non vedevo l’ora di incontrarlo.
Per il resto del tragitto mi dedicai alla mia attività preferita, pensare a lui.
A tutto lui.
Speravo solo che lì dentro nessuno fosse in grado di leggere nel pensiero.
_

Dal momento che nonostante l’ora tarda a casa nessuno aveva preparato niente, quelle sfaticate, e di sicuro io non avevo voglia di cucinare, la vigilia di Natale ci nutrimmo di latte e cornflakes, con la variante “caffelatte e crackers” per mia madre, che sosteneva sempre di non avere appetito e di non voler mangiare niente, ma finiva invece col rimpinzarsi eccessivamente, e di conseguenza, dato che non si muoveva mai, ingrassare, per poi lamentarsi della linea e del colesterolo alto.
Era veramente irritante.

Nel frattempo Sasuke si era degnato di rispondere.
Avevo fatto fatica a individuare il suo messaggio in mezzo a tutti quelli che mi inviava ancora Sasori (che stava diventando davvero pesante e cui ormai avevo rinunciato a rispondere): diceva laconicamente che era a casa, così gli avevo scritto che sarei passata da lui tra una mezz’ora, sapendo perfettamente che mi sarei fermata a dormire lì.
Ammetto che se non fosse stato per il fatto che mi stavo rimbecillendo (almeno ne ero cosciente), me ne sarei stata a casa mia a studiare per un’oretta al massimo prima di andare a dormire e recuperare sonno, ma chi se ne fregava del sonno, c’erano cose più importanti nella vita.
Non sentivo neppure la stanchezza.
Controllai che il regalino fosse sempre in borsa, sorridendo come un’idiota nell’immaginare la sua faccia, e mi avviai alla porta quasi saltellando.

 - Dove vai? – chiese mia sorella sospettosa.

 - Esco –

 - Con chi? –

 - Amici – replicai vaga, cosa gliene fregava poi – non aspettarmi sveglia –

Mia madre al momento era incollata davanti alla tv, e dopo essersi lamentata che la lasciavamo sempre sola, adesso perfino la vigilia di Natale, non mi degnò più di uno sguardo, così presi la borsa e mi precipitai fuori senza dare ulteriori spiegazioni, e con mia grande sorpresa trovai Sasuke che mi aspettava giù.

Una strana sensazione mi rimescolò lo stomaco, ed era qualcosa di fisico, come un’ondata di calore, eppure sembrava invadere anche le mie emozioni e riempirle di lui.

Forse mi sarei pentita di aver lasciato che le cose si spingessero così avanti, ma era così bello lì in piedi che mi aspettava…il mio cavaliere senza macchia e senza paura.
Come potevo resistere?

Lo amavo, confessai a me stessa per la prima volta, ed ormai ero immersa così visceralmente in quel pericoloso baratro emotivo, in quel vortice che era il tumulto del mio cuore, che non avevo neppure paura.
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Allora, questo capitolo proprio non mi piace, anzi, probabilmente è il più brutto di tutta la storia. Avrò cambiato non so quante volte il motivo del litigio tra il patrigno e Sasuke (forse troppe, spero non ci siano errori e incongruenze), ma alla fine volevo che non ci fosse niente di straordinario o particolarmente tragico nella sua storia ed ho optato per qualcosa di semplice. Comunque più avanti chiarirò meglio alcune cose.

Cambiando argomento: grazie a tutte per le recensioni e l’incoraggiamento, mi avete fatto stare meglio, e dico davvero! *_*
Ehm…ho anche tentato di ritrovare l’ispirazione riprendendo una lemon che avevo lasciato sul più bello, ma c’è poco da fare, gira e rigira sono sempre le stesse cose e questo mi blocca... a meno che non mi metta a scrivere qualche cosa di estremamente perverso, che poi non avrei comunque il coraggio di pubblicare!

Ultimo, per chi legge il manga online: ci tocca soffrire fino alla fine, ma non preoccupatevi, la fine sarà Sasusaku. :)

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Capitolo 16
*** 16. ***


Ecco qui il capitolo, avrei dovuto riguardare un paio di punti, per cui speriamo bene.

Invece grazie mille per avere recensito il capitolo precedente!




16.




Ero così felice di vederlo che gli corsi incontro e gli diedi un bacio sulle labbra, lì, di fronte all’intero quartiere impiccione, poi ci affiancammo e camminammo veloci verso casa sua, perché cadeva qualche sporadica goccia di pioggia.

 - Possibile che non rispondi mai al primo messaggio? – gli domandai, ma non ero veramente arrabbiata.

- Non so mai chi è, non ho il tuo numero –

 - Come scusa…ti ho inviato non so quanto messaggi e mi hai anche risposto! –

 - Li ho cancellati, mi stavano sul cazzo –

 Ma che…

- E non hai neanche salvato il numero, sei proprio stupido – borbottai, e subito dopo mi feci dare il suo cellulare per provvedere personalmente.
Non so come facciano a sopravvivere i maschi con la testa che si ritrovano, fortuna ci siamo noi.

 – Dopo ricordami che ho una cosa da dirti – gli feci mentre glielo restituivo.

Avevo deciso che era davvero meglio raccontargli che avevo visto sua madre, non perché mi sentissi in dovere di farlo (avevo imparato presto che certe cose è meglio tenerle per sé) ma perché volevo fargli alcune domande, e poi sapevo che sarebbe venuto a saperlo prima o poi e preferivo parlargliene prima io.
Non subito però, non avevo così tanta voglia di litigare.

 - Anch’io – rispose lui.

Anche lui?

 - Non puoi dirmela subito? – chiesi poco dopo, rosa da quell’insana curiosità che mi prendeva sempre con lui.

 - Perché sei sempre così curiosa? –

 - Non so, dev’essere la tua misteriosa vita che mi incuriosisce, dato che in ogni altra circostanza sono fredda e riservata – osservai, con l’inevitabile sorriso che mi ritrovavo in faccia quando ero in sua compagnia.

 - Fredda e riservata? Non direi a giudicare da come mi preghi di dartelo –

 - Pregarti! Io!? – esclamai indignata.

 - Chiedi ai vicini, non sei esattamente silenziosa –

Ovviamente scherzava, spero.

Mentre parlavamo aveva iniziato a piovere, e ridendo corremmo fino alla casa di lui, la pioggia che cadeva fitta, o almeno io ridevo, lui imprecava, e dal momento che quando entrammo in casa eravamo completamente fradici ci spogliammo in fretta e iniziammo ad asciugarci i capelli con l’asciugamano, fino a quando non cominciammo a baciarci e non finimmo a rotolarci sul letto, a fare l’amore.
Confesso che non riuscii per niente a trattenermi e che davvero lo pregai, e gridai il suo nome, vicini in ascolto o meno.
 
Dopo lo abbracciai e lo tenni stretto stretto, e lo baciai ancora, e ancora.

 - Sas’ke – mormorai, e mi sentivo leggera leggera, e spudoratamente felice, perché ero abbracciata a lui, ed eravamo insieme, io e lui, e nient’altro era importante.
 
  - Ti voglio bene, sai – ammisi scostandogli un ciuffo di capelli dal viso – tanto tanto tanto –

Gli baciai il naso, la cicatrice sopra l’occhio, le labbra, e lui mi strinse a sé e mi lasciò una scia di piccoli baci sul collo che mi riempivano di calore, e tenerezza.

- Ho fame, andiamo di là – mi fece poi, che non era esattamente il massimo del romanticismo, ma lo perdonavo in virtù del fatto che era vergognosamente carino, ed ero stupidamente abbagliata.

 - Prima dimmi quello di cui parlavi poco fa, quello che dovevi dirmi – replicai stringendomi ancora a lui, il volto sul suo collo.
Stavo troppo bene lì, non avevo proprio voglia di muovermi.

Mi strinse anche lui, con forza, e dal momento che non diceva niente sollevai il volto per guardarlo.
Era serio, e improvvisamente sapevo che mi avrebbe fatto del male, glielo leggevo negli occhi, occhi così intensi, che come sempre scrutavano dentro di me e mi facevano sentire improvvisamente fragile, piccola, e così vulnerabile.

Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro.

 – Con i Dead Leaves andremo via per qualche mese, forse un anno –

Lo guardai senza parlare, senza capire.

 – Abbiamo firmato un contratto con Kakashi Hatake – spiegò meglio – un produttore piuttosto importante, iniziamo a registrare già la prossima settimana, qui a Konoha, e subito dopo partiamo per un lungo tour –

 - E’…bellissimo… – mormorai tentando di sorridere, ma non avevo sorrisi finti per lui, non ne avevo mai avuti.

Lo guardavo mentre cercavo di capire appieno tutte le implicazioni di quello che avevo sentito, e non mi pareva entusiasta neppure lui, ma non ero così ingenua da pensare che fosse per me.

 - Qual è il problema – domandai seppellendo di nuovo il volto sul suo petto – non è quello che vuoi? –

Tremavo un poco, avevo improvvisamente freddo, tanto freddo, e non volevo andasse via, non potevo sopportarlo.

 - L’università – rispose.

 - Puoi riprenderla più avanti no?! –

 - Avevo giurato a me stesso di finirla…non solo per me stesso –

Il mio amore, così orgoglioso, così responsabile.

Sollevai ancora una volta la testa e gli accarezzai il volto – E allora? Prenditi un anno sabbatico, la finirai più avanti, a meno che non abbia più importanza…si cresce, gli obiettivi cambiano – ne sapevo qualcosa.

 Mi guardò con quel sorriso che mi scioglieva, e mi faceva così male in quel momento.

 – Non mi dimenticherai, vero? – sussurrai con le lacrime agli occhi.

 - No –

  - Non voglio che tu vada via – ammisi stringendomi ancora a lui – …sono un’egoista, lo so – lo precedetti.
 
Un’egoista, e un’ingenua, perché è ingenuo pensare che dopo aver deciso di seguire il cuore tutto possa cambiare, perché ero stata ingenua ad illudermi che avrei potuto essere felice, almeno per un po’.

Lentamente ci sciogliemmo dall’abbraccio e mi sollevai seduta sul letto senza sapere bene se le gambe mi avrebbero retta, mentre le lacrime scendevano sulle guance, e sul collo.
Non riuscivo a fermarle e neppure mi importava, mi pareva che il cuore fosse stretto in una morsa e non faceva ancora così male solo perché una parte di me non riusciva del tutto a crederci.

- Non tornerai più in questo buco, vero? –

 - Non lo so –

Avrei preferito una piegosa bugia, qualcosa del tipo “tornerò da te”, non occorreva essere così brutalmente onesti. Davvero.

Lo guardai attraverso le lacrime mentre si alzava dal letto ed iniziava a vestirsi.

  - Non piangere…non parto domani –

Già, faceva presto a parlare lui, ma a me pareva che qualcuno mi stesse strappando via un pezzetto di cuore, e faceva troppo male.

 - …e non è così male per te, ti potrai dedicare al principe azzurro senza riserve –

A quelle parole mi sentii gelare.

Come poteva essere così crudele?
Come osava.
Possibile fosse così… così cieco?
Che…che bastardo.
Che bastardo.

In preda ad una rabbia incontenibile gli scagliai addosso il primo oggetto che mi capitò tra le mani, la scatola di preservativi vuota, ma ero così fuori di me che non era abbastanza, così presi una delle fotografie e gli lanciai anche quella, e fui contenta quando lo colpì sulla spalla, sapevo che gli aveva fatto male e gli stava bene, gli stava solo bene.
Ancora non mi bastava e stavo prendendo anche l’altra, quando me lo ritrovai di fronte che mi teneva ferme le braccia e mi fissava furioso.

  - Che cazzo ti prende! – mi sibilò, perché non capiva, non capiva niente.

- Sei uno stronzo, e un bastardo! –

Ma era come se all’improvviso non avessi più forze e finimmo sopra il letto che la rabbia era svaporata di colpo, lasciandomi solo amarezza.

 - …sei solo un bastardo – ripetei debolmente.

Rimanemmo a guardarci così, io ancora nuda, lui sopra di me con appena i pantaloni addosso, neppure allacciati, e sapevo che cercava di capire, che ci provava ma proprio non capiva.

 - Si può sapere che cazzo ti è preso? – chiese ancora.

 - Se non lo capisci da solo… –

 - Cazzo Sakura, dimmi cosa c’è da capire…hai questo cazzo ti tizio che mi sventoli sempre in faccia, cosa dovrei capire secondo te! Cosa! Come faccio a capire se un giorno mi mandi messaggi pieni di insulti e il giorno dopo vieni da me e fai l’amore con me…se prima sei tutta dolce e dopo mi tiri addosso roba, mi dici che cazzo dovrei capire se non so neanche cosa cazzo vuoi da me? –

Non risposi, che cosa avrei dovuto dirgli? Che proprio adesso che avevo deciso di rischiare lui se ne andava via e mi lasciava sola?
Che mi spezzava il cuore, che mi sentivo tradita?
Perché era così che mi sentivo, tradita e abbandonata.
E non sapevo neppure dove avevo sbagliato questa volta, pensavo che ci fosse qualcosa tra noi, che ci fosse un legame, credevo che lui fosse diverso dagli altri e che gli importasse veramente di me, ma mi sbagliavo, mi ero sbagliata.

Non riuscivo più a vederlo bene attraverso le lacrime e mi chiesi come avevo potuto essere così ingenua, così stupida, perché lo sapevo che non dovevo fidarmi di nessuno, neppure di lui, e invece ero lì, nuda, senza difese, ed era come se improvvisamente facesse troppo freddo lì dentro e che niente avesse più importanza.
Che ogni cosa, il mondo esterno e quello che era la mia vita, che ero io, tutto, stesse sbiadendo e perdendo il suo significato, il suo motivo d’esistere.

Lui aspettava ancora, ma il mio istinto di conservazione stava già tentando di correre ai ripari e lo guardai con sfida, tutte le mie barriere alzate, pronta a nascondere quel dolore che sentivo dentro e mi pareva intollerabile.

 - Dimmi tu cosa vuoi da me – feci uscire, perché non lo sapevo più e forse non lo avevo mai saputo.   

Non mi stringeva i polsi, ma era ancora sopra di me, e lasciai che mi baciasse le labbra senza protestare.

 - Sei stata tu a mettere dei confini precisi tra noi, io mi sono solo adeguato –

Già, e com’era allora che io ci avevo rimesso il cuore, mentre lui era riuscito a preservare il suo?

Mi baciò ancora le labbra, le mani sui lati del mio viso, e poi mi baciò il collo.

 - Sakura – sussurrò poi, e potevo sentire chiaramente la sua erezione che mi premeva addosso.

Era proprio stupido come tutti gli altri maschi, però lo avrei voluto lo stesso, e non volevo che se ne andasse, non potevo sopportarlo.

Feci uscire un’altra inutile lacrima e me l’asciugò con le labbra, e poi continuò a scrutarmi con quegli occhi in cui non riuscivo a leggere niente, in cui forse non ero mai riuscita a leggere niente, occhi che adesso non sopportavo, né ero in grado di sostenere…eppure… come potevo non vederli più?

 - Ascolta – mormorò, e suonava stanco, forse stanco di me, non so – mi piaci, mi piaci molto, o adesso non sarei qui con te…ma questo lo sai – con il pollice mi asciugò un’altra lacrima, l’ultima, giuro – per una volta mi vuoi dire che cosa c’è, e cosa vuoi tu esattamente? Perché non lo capisco –

C’era che stavo sanguinando dentro e probabilmente c’era anche un danno permanente da qualche parte, ma non aveva più importanza, no?! Niente aveva più importanza: lui se ne sarebbe andato via, i giochi erano chiusi, e a me era capitata la carta più bassa.
Doveva essere una costante della vita, dovevo proprio farli scappare via gli uomini che amavo, lontano da me.
Forse ero io.

Non aprii bocca, non ne avevo la forza, rimasi solo a guardarlo in silenzio mentre mi fissava a sua volta, e sembrava quasi deluso adesso, come se fossi io quella che se ne andava e lo lasciava solo.

 - Va bene, non importa – mi fece con freddezza.

E poi si staccò da me e si sollevò, e in quel momento, mentre si sedeva sul bordo del letto e mi dava le spalle, forse arrabbiato, non so, non capivo, non capivo niente, sentii che il mio sciocco sogno romantico si infrangeva qui, che era così che sarebbe finita.
Lui che se ne andava via, lontano da me, e non tornava mai più.

Per una frazione di secondo mi sentii disperata, ed era come se ci fosse qualcosa dentro di me, una specie di bestia, una bestia orribile che mi impediva di respirare e mi stava spappolando il cuore, perché stavo troppo male, non aveva senso stare così male, e mi veniva da vomitare.
Per un istante pensai assurdamente che se non riuscivo a sedare quella bestia, quella cosa, se non riuscivo a controllarla in fretta, forse sarei morta.
Che stupida stupida stupida.

 - Ho freddo, mi vesto – feci uscire con urgenza, tentando disperatamente di ritrovare il controllo.

Mentre mi alzavo lo scostai non molto gentilmente, senza guardarlo negli occhi, ed iniziai a cercare in fretta i miei vestiti.

 – Metto su qualcosa da mangiare – rispose quello stupido mentre raccoglieva la fotografia da terra.

Il vetro si era rotto, ma non mi sentivo per niente in colpa.

Replicai che non avevo fame e adesso mi sentivo stordita, come intorpidita, forse ero solo rassegnata, e dopo aver finito di vestirmi lo seguii in cucina e lo guardai mentre si preparava un toast, non era decisamente granché come cuoco, non che potessi criticare considerando la mia cena.

 - Quando partite? – gli chiesi il più tranquillamente possibile, come se solo l’idea non mi facesse così male.

Eravamo seduti a tavola, apparentemente calmi, ed allungò la mano per prendere la mia e giocherellare con le mie dita, un gesto così intimo.
Per un momento chiusi le dita sulle sue e le strinsi forte, quasi in questo modo potessi trattenerlo accanto a me, poi lo lasciai andare e scostai la mano.

 - Non so esattamente – rispose dopo aver dato un morso al toast – tra un mese credo –

 - Ma…ci sono le feste –

 - Non ci vuole molto per registrare, le canzoni sono già pronte, e Kakashi sta già programmando tutto –

Un mese era pochissimo e riuscii eroicamente a trattenere le lacrime, non volevo piangere più, non potevo piangere più, non potevo perdere il controllo, era troppo pericoloso, e per distrarmi mi dedicai a spezzettare un pezzo di pane e a sistemare le briciole in modo che formassero un disegno.
Sarei sopravvissuta anche a questo, mi dissi, si sopravvive a tutto.

 - Sakura… –

Mi accarezzò la guancia con le dita, ma non riuscivo ancora a guardarlo.

 - Dammi il tempo di digerirla – mormorai.

Ed era il massimo che potevo mostrargli di me senza sentirmi completamente persa.

Lo guardai di sottecchi e mi pareva che ci fosse ancora un’ombra di tristezza nel suo sguardo, quell’ombra che avevo visto altre volte nel suo volto ed era legata a me, ma in quel momento non capivo esattamente a cosa fosse dovuta.
Era lui quello che se ne andava e mi lasciava sola.
 
 - Torno a casa – mormorai alzandomi, non ce la facevo più a stare lì.

Quando rifiutai di rimanere mi accompagnò fin sotto casa e salii senza voltarmi indietro.
In borsa avevo ancora il regalino che gli avevo preso, il plettro rosa, e mi dissi che per il momento lo avrei sistemato in un angolino, dietro ad un libro magari, per non vederlo: forse glielo avrei dato, forse no, ma non avevo la forza di pensarci ora.

Che merda…tutto.
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Capitolo 17
*** 17. ***


Eccomi qua!
Nessun commento sul capitolo, invece grazie mille per tutte quelle recensioni al capitolo precedente, non me le aspettavo! :)





17.




Di sopra avevo trovato mia sorella ancora sveglia, mi aspettava al varco, e dal momento che devo pagare sempre ogni sbaglio fino in fondo, aveva cominciato ad urlarmi contro.
A quanto pareva aveva visto che baciavo Sasuke sotto casa (doveva aver spiato dalla finestra) e considerava la cosa un affronto personale, come se lui fosse appannaggio suo perché a lei era sempre piaciuto, mentre io l’avevo disprezzato fino all’altro ieri.
Come se avesse senso…o magari lo aveva, magari lo aveva.

Il lato positivo, se così potevo chiamarlo, era che nella foga del momento, per rispondere alla mia pacata osservazione che essendo rimasta incinta di qualcun altro pensavo che a lei non interessasse poi così tanto, aveva gridato che quello stupido di Konohamaru non contava niente, che era stato un errore.
Konohamaru era un suo compagno di classe, quasi un bambino, davvero, e la cosa non mi sorprendeva dal momento che da sempre era in adorazione di mia sorella, e capivo anche perché me lo avesse taciuto: piena di rabbia com’ero allora lo avrei aggredito, e forse non se lo meritava, in fondo, come mia sorella, era solo un ragazzino sciocco e immaturo che aveva fatto qualcosa di più grande di lui.

Da quel che avevo capito il poveraccio non aveva neppure saputo nulla, e al pensiero che quella coppia di bamboccetti avesse rischiato di fare un figlio mi sentii rabbrividire.

Nel frattempo Moegi si era ritirata in camera piangendo a dirotto e sbattendo la porta, mia madre mi aveva chiamata per lamentarsi del baccano, e tutto era tornato alla normalità, o quasi.

Il pranzo di Natale lo passammo così, mia madre che si lamentava di avere un male terribile alla schiena e ci accusava di essere due figlie degeneri perché non eravamo andate in chiesa neppure a Natale (lei in quanto malata era dispensata), mia sorella che mi teneva il muso anche mentre scartava il regalo, ed io che aprivo il mio (un paio di brutti guanti in similpelle) senza alcun piacere, e tentavo meccanicamente di sorridere e fare conversazione, non so neanche perché, senza ascoltare veramente.
Di una tristezza.

Quella sera uscii per prendere una boccata d’aria anche se faceva così freddo che il mio bel cappottino vintage mi pareva ancora più leggero del solito, e non so perché feci un salto fino alla chiesa di quartiere, che era aperta ma ancora vuota, e mi fermai all’interno per alcuni minuti.
Da piccola amavo l’aria di sacralità che vi si respirava dentro, e quando mio padre mi dava i soldi per accendere le candele mi sentivo così felice, mi pareva di compiere chissà quale rito magico.
Soprattutto, soprattutto mi dava sicurezza il pensiero che ci fosse Dio da qualche parte che si sarebbe preso cura di me, che non ero sola.
Avevo qualche spicciolo in borsa e accesi una candela sentendomi quasi sacrilega, perché non era il mio posto quello, non credevo più in tante cose e non ero una brava persona, no, non lo ero.

Ma se Dio esisteva era talmente buono che mi avrebbe amata lo stesso, credo, ed io mi sentivo così sola.
__

I giorni successivi non erano stati un granché.
Ero sprofondata in una sorta di depressione equivalente ma contraria allo stato di euforia in cui mi trovavo prima, era quasi scontato e non avrei dovuto sorprendermi, e più ci pensavo più mi rendevo conto che era colpa mia, che non avrei dovuto infilarmi in quella trappola.

Non che fossi disperata, mi ero subito ripresa dopo quella prima reazione esagerata, dovuta al fatto che avevo caricato quella…quella cosa di troppe aspettative, irrealistiche, probabilmente perché era la prima volta, e l’ultima, che mi lasciavo andare.
In fondo non ero più una bambina, sapevo che non finiva il mondo, che mi sarebbe passata prima o poi, come passava tutto, come erano passati altri momenti, altri giorni, altri anni, e poi…e poi mancava ancora un mese, non partiva mica domani, e non ero tipo da fasciarmi la testa prima del tempo.

Ero solo triste, tanto triste.

Nel frattempo Sasori aveva continuato a chiamarmi, e visto che per una serie di motivi che neppure avevo ascoltato non poteva muoversi da casa in quei giorni e non potevamo incontrarci, avevo dovuto rassicurarlo e dirgli che non cambiava niente, che avrei aspettato.
Onestamente stavo riconsiderando la mia idea di lasciarlo.
Detto così suona orribile, e non era neppure che avessi voglia di vederlo, tantomeno di continuare quella deprimente relazione, ma a questo punto forse era la cosa migliore da fare, o meglio l’unica: ero sicura che con il tempo avrei potuto adattarmi, abituarmi a lui, e che pian piano avrei dimenticato Sasuke, anzi, probabilmente un giorno sarei arrivata a ringraziare il cielo per quello che adesso mi pareva così…così…devastante.

Forse era perfino una fortuna che se ne andasse, così avrei potuto dimenticarlo: in fondo anche se fosse diventato ricco e famoso avere a che fare con una rock star non era mai rientrato nei miei piani, quelli conducono vite disordinate e tendono ad avere montagne di problemi, e in ogni caso non frequentano esattamente lo stesso tipo di società cui avrei voluto appartenere, quella patinata e magari anche un po’ falsa delle famiglie bene della città, così rassicurante nella sua stagnante banalità.

Ricordavo un po’ la volpe con l’uva, ma suonava abbastanza credibile, potevo crederci se mi ci impegnavo.

E comunque era andata così, non era che potessi farci niente.

Non riuscivo neppure ad avercela con lui, gli auguravo comunque il meglio, perché gli volevo tanto tanto bene.
Così tanto.
Me lo vedevo già diventare famoso, perché no, non mi avrebbe sorpreso, lui metteva la sua intensità in tutto quello che faceva e i Dead Leaves erano davvero bravi, e magari poi si sarebbe innamorato di qualche bellissima ragazza, un’attrice, o una modella, non succede così?! Non che durassero molto quegli amori lì, ma la cosa non mi consolava poi tanto, perché comunque non sarebbe più tornato in questo buco, non sarebbe più tornato da me.
Ammetto che stavo male nell’immaginarlo felice lontano da me, dovevo essere davvero un’egoista.

Speravo solo che riuscisse a rimanere sempre se stesso, il mio Sasuke.
_

Il giorno dopo avevo incontrato Ino, voleva farmi gli auguri, ed avevo passato il pomeriggio con lei ed alcuni compagni dell’università.
Non le avevo raccontato niente di Sasuke, forse lo avrei fatto un giorno, non sapevo, nel frattempo mi comportavo come sempre, calata perfettamente nella mia solita, vecchia interpretazione che mi veniva naturale con tutti, a parte Sasuke, e venerdì ero di nuovo al lavoro, purtroppo: l’estetica Haku era in fibrillazione per il capodanno imminente ed era piena di signore che si conciavano in maniera ridicola.
Almeno erano visibilmente tutte allegre e su di giri, e quasi un pochino le invidiavo, lo ammetto.

 - Dì la verità – feci ad Haku mentre bevevo il caffè che ci aveva portato (lì le pause non erano un problema, erano frequenti e facevano parte dell’andazzo generale) – non ti sei mai pentita di avermi assunta? Perché sono proprio stonata qua in mezzo –

 - Ma cosa dici sciocchina! – replicò lei dandomi un buffetto sulla spalla – le tue battutine acide fanno scompisciare, vero ragazze? –

Ascoltai i commenti e le risatine generali senza sapere se esserne grata od atterrita.

 - …e poi ti sei accaparrata il nostro barista bello e impossibile, sei un mito ormai! –

Già, un vero e proprio mito.

Mi sforzai di guardare il meno possibile dalla sua parte, anche se a volte non resistevo, come un drogato che ripeteva a se stesso che questa era l’ultima volta.

Era così bello…perché non poteva andare come volevo per una stramaledetta volta nella vita? Ero così detestabile da non meritare nemmeno un pezzetto di felicità?
Non chiedevo molto, solo qualche altro mese, un paio d’anni al massimo.

Mi ripetei che in fondo avevo sempre saputo che la vita non è tutta rose e fiori, e soprattutto non avevo mai creduto molto a quella storia dell’amore, la vedevo più come una sorta di infatuazione destinata a finire miseramente una volta che si rimetteva piede a terra, di solito neppure tanto bene, tra incomprensioni e incomunicabilità, o tra recriminazioni reciproche e noia.
In un modo o nell’altro, alla fine c’era sempre qualcuno che ne andava dalla porta e non tornava più.

Ed io sapevo che mi sarei ripresa, ero forte.

Intanto però, da un punto di vista prettamente pratico, nonostante lunghe notti spese a meditarci sopra, e nonostante avessi riflettuto molto su quale fosse la condotta migliore da seguire con lui, non ero ancora giunta ad una soluzione definitiva e mi affidavo all’estro del momento. In pratica ero ancora combattuta tra la voglia di godermi questo ultimo mese assieme e la paura di stare troppo male per sopportare la sua presenza.
Quel giorno, per evitare crolli emozionali o altre situazioni imbarazzanti, decisi all’ultimo momento di uscire un quarto d’ora prima con lo scopo di non incontrarlo, e confesso che era stata dura quella volta ascoltare sorridendo le battutine allegre di Haku.
Me ne andai senza guardare dalla sua parte, le spalle basse, e mi sentivo triste triste, come se ci fosse una colonna sonora malinconica di sottofondo e dentro mi si stesse sgretolando qualcosa senza che potessi farci niente, perché non dipendeva da me.

 - Sakura! –

Era lui.
Mi voltai, e mentre lo guardavo camminare verso di me il cuore aveva iniziato a battere forte forte nel petto, ed era come se fossi di nuovo viva.
Ero così felice di vederlo che non mi importava già più di niente.

In una frazione di secondo avevo cambiato idea e volevo solo godermi quel mio breve momento di felicità.

 - Ti è passata? – mi chiese dopo che mi aveva raggiunta.

Ironia della sorte le parti si erano invertite, ma restava intatta la nostra abilità nel farci del male, niente da dire… eppure avevo di nuovo il mio sorriso sulle labbra, provvisorio come il nostro tempo, precario come la felicità.

 - Al momento non voglio pensarci – replicai, era vero, era così, e riprendemmo a camminare appaiati.

 - Natale con chi l’hai passato? – gli chiesi subito dopo, perché quell’idiota del suo patrigno era così stronzo che era capace di non averlo invitato.

 - Con Naruto e i suoi –

 - E…tua sorella? –

 - Le ho portato un pensiero nel pomeriggio –

 - Allora l’hai vista! – esclamai.

 - Sì, era felice di vedermi…si ricordava –

Non so perché ma quasi mi commuovevo, così, per niente, solo perché ero felice per lui.

 – E per il resto? – chiesi tentando di non pensare che “il resto” era ciò che lo avrebbe portato via da me.

 - Tutto bene –

 - Mi travolgi con la tua loquacità, davvero – replicai sarcastica.

Lui non si era scomposto, invece tirò fuori un pacchetto di sigarette nuovo fiammante e ne prese una.

 - E tu? – mi chiese.

Lo guardai accigliata mentre se l’accendeva.

 - Una palla, come sempre, odio le feste…e non voglio che fumi più, neanche sigarette – gli spiegai requisendogli l’oggetto in questione direttamente dalla bocca – non bere neppure più – continuai dopo avere fatto un tiro, benché fumare camminando fosse volgare (avrei sacrificato la mia eleganza per lui) – Devi stare doppiamente attento, non è un ambiente sano quello in cui entrerai, non voglio che ti perdi –

 - Non mi perderò – replicò riprendendosi la sigaretta.

 - Forse no. Sei una bella persona – concessi mentre scendevamo le scale diretti al metrò – stupido ma una bella persona – non volevo dargli troppa soddisfazione.

 - Pffhh –
 
 - Davvero, niente di personale, sei solo un maschio in fondo, fisiologicamente stupido – conclusi con una punta di amarezza, poi gli rubai ancora la sigaretta e diedi un ultimo tiro prima di spegnerla contro il muro.

 - Non ti rispondo neppure, e se vuoi le sigarette basta dirlo – replicò mettendomi il pacchetto in mano – me ne compro altre –

Infilai il pacchetto in borsa piuttosto soddisfatta.
Stupido, appunto.

Una volta saliti sul treno ci eravamo seduti di fianco ed avevo appoggiato la testa sulla sua spalla.
Chiusi gli occhi e istintivamente allungai le braccia per toccarlo…il mio amore, osai sussurrare nella mia mente, consapevole che un mese passava così in fretta, che si trattava solo di quattro venerdì, troppo, troppo poco.

 - Quasi quasi verrei da te questa sera – mormorai.

 - Perché? Problemi con il tizio? –

Mi ricomposi e lo guardai seccata.

 - Scusa? –

 - Di solito è così – replicò bruscamente.

Possibile che non avesse capito proprio niente? E pensare che lo avevo creduto così intelligente!
Dovevo proprio essere abbagliata perché evidentemente era solo uno stupido.

 - Sei particolarmente stronzo, oggi – feci senza più guardarlo, perché mi veniva da piangere ancora, ed era imbarazzante, davvero, questa continua voglia di piangere.
Sempre e solo di fronte a lui, quello stupido.

 - Non arrabbiarti – mormorò.

 Era così stupido, come facevo a non arrabbiarmi.

- E non piangere, non è da te –

Non sapevo come avesse fatto ad accorgersene dal momento che avevo solo gli occhi lucidi e continuavo a non guardarlo, doveva avere una specie di radar che intercettava le mie lacrime.

 - Che ne sai di cosa è da me e cosa non è – replicai acida.

 - Forse non lo so, ma ti preferisco fiera, sarcastica, e sorridente…soprattutto sorridente –

Mi sistemai le pieghe della gonna senza ancora guardarlo.

  - Non ci crederai, ma anch’io sono umana e soffro –

Mi ostinai a non guardarlo quando mi accarezzò la guancia, ma mi piaceva quando faceva così, era un gesto pieno di tenerezza, e così piegai la testa per bearmi ancora un poco del suo tocco, e avrei voluto dirgli che era importante per me, troppo importante, che non potevo rinunciare a lui.
Non so, forse ero solo egoista.

Gli presi la mano e posai le nostre dita intrecciate sopra la coscia, e poi rimanemmo in silenzio, io appoggiata alla sua spalla.
Mi sarebbe bastato rimanere così per sempre e sarei stata felice, felice come non avrei creduto mai.

Invece eravamo già arrivati, troppo in fretta, così staccai la mano, ci alzammo e senza dire una parola scendemmo.

  - Questa sera devo uscire con gli altri – mi spiegò una volta fuori – dobbiamo definire alcune cose –

 - Be’, magari ci vediamo domani – mormorai tentando di non mostrare la delusione, perché sotto sotto ci avevo sperato fino alla fine.

Insieme arrivammo fino a casa mia, mi aveva accompagnata fin lì, il mio stupido, crudele, cavaliere senza macchia e senza paura, e se non mi fossi sentita così triste avrei sorriso di questa sua gentilezza.  

 - Buonanotte – mi fece dopo avermi baciato le labbra.

Rimanemmo a fissarci per una frazione di secondo, e mi pareva di leggere rimpianto nei suoi occhi, ma forse mi sbagliavo, forse non capivo, perché ormai ero piena di dubbi.
Riuscii a resistere alla tentazione di baciarlo davvero, di seguirlo fino a casa sua per baciarlo ancora, eroicamente dato che la mia era una dipendenza grave, e gli diedi le spalle.
 
Di sopra mia sorella era chiusa in camera a studiare, probabilmente ancora arrabbiata per il presunto tradimento, mentre mia madre sembrava di splendido umore quel giorno, non aveva da ridire su nulla, quasi era sopportabile, la vecchia egoista.
Probabilmente avevo preso da lei, mi venne da pensare all’improvviso, e già mi immaginavo vecchia, acida, e abbandonata da tutti.
Almeno con quattro soldi avrei potuto permettermi una badante.

Mentre tiravo fuori il cellulare dalla borsa mi accorsi che avevo non so quante chiamate perse di Sasori, dovevamo vederci il giorno dopo e non avevo proprio voglia di sentirlo, proprio per niente.
Tanto meno avevo voglia di vederlo.

Moegi intanto era davvero ancora arrabbiata con me, come scoprii dalle risposte cattive e monosillabiche che ricevevo a cena, e prima di andare a dormire bussai alla porta della sua stanza ed entrai: va bene tutto, ma la nomea di ladra di ragazzi altrui, soprattutto se l’altra donna era mia sorella, mi stava troppo stretta.

Per il semplice fatto che era la più piccola le era toccata la stanza più angusta, a volte se ne era lamentata, e mi avvicinai al suo letto facendo attenzione a non calpestare tutto il ciarpame che riempiva quotidianamente il pavimento.

 - Pensavo fosse solo un gioco per te, se avessi saputo che ti interessava così tanto non mi sarei mai avvicinata a lui – mormorai dopo essermi seduta sul letto, di fianco a lei.

Aveva l’aria pestifera e imbronciata di quando era bambina, ma per lo meno non aveva iniziato subito ad urlarmi di uscire, era già molto.

 - E invece mi piaceva tanto –

 - Se ti può consolare tra un poco se ne va, e rimarrà via un bel pezzo se mai tornerà, per cui resto a piedi anch’io – mormorai amara.

 - Ti sta bene –

Mi guardò di sfuggita.

 - Lo ami? –

A volte mi sorprendevo ancora nell’udire quanto i ragazzini usassero con facilità la parola amore, mentre a me e a Sasuke sembrava un parolone così grande, più grande di noi.
O forse avevamo solo tanta paura.

 - Mi sa di sì, ma non cambia molto, non c’è futuro per noi –

 - Perché? Se vi amate cosa importa! Starete solo un po’ distanti ma potete sentirvi lo stesso, e potete vedervi lo stesso no? –

Già, ma non era mai facile spiegare la mia intricata situazione agli altri, era sempre un po’ troppo confusa.

 - Mi sa che non sa che lo amo – confessai, perché a qualcuno dovevo pur dirlo, e una quindicenne svitata era meglio di niente, almeno era famiglia.

 - Che stupida! Ma diglielo no?! –

Già, sembrava semplice messa così, forse era davvero semplice, in teoria.

 - Tu non eri arrabbiata con me? – le chiesi perplessa.

  - Lo sapevo che non mi voleva, sono troppo piccola per lui – ammise candidamente, con una punta di tristezza che la faceva sembrare più matura –…alla peggio mi va bene anche come cognato – aggiunse – così quando diventano famosi conoscerò un sacco di gente famosa –

La mia sorellina opportunista, tutto sua sorella maggiore.

 - E Konohamaru? – domandai dal momento che sembrava così disponibile.

 - Non so, non credo che gli dirò mai niente, non è che lo amo, capisci? Però lui mi amava tanto, e mi sembrava che se gli davo qualcosa di importante magari lo amavo anch’io, capisci? –

A parte la carenza di congiuntivi capivo fin troppo bene quel ragionamento confuso, e l’abbracciai in silenzio.
La mia sorellina stava tentando malamente di vivere.
 
Con cautela, perché aveva l’offesa facile, ribadii che la prossima volta era meglio se prima parlava della cosa con me, così si evitavano complicazioni e pasticci, e mi assicurò che non ci sarebbe mai stata una prossima volta, l’illusa.

 Andai a dormire pensando a Moegi, ma i pensieri scivolarono presto su Sasuke, e dormii male anche quella notte.
Ammetto che mi dispiaceva proprio di non essere potuta andare da lui quella notte, al momento ero nella fase in cui mi pareva di dover sfruttare ogni secondo che potevo trascorrere con lui, avrei fatto in tempo a disintossicarmi dopo, quando non avrei più avuto scelta.
Ma solo a pensarci gli occhi mi si riempivano di lacrime.
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Capitolo 18
*** 18. ***


Non sono molto contenta di questo capitolo, il che non è una novità,:D ma eccolo qui.

Grazie ancora per tutte quelle recensioni! :)




18.



Mi svegliai presto, ancora assonnata, e dopo avere fatto colazione mi misi a studiare.
Non avevo tutto questo tempo per le seghe mentali.

Mia sorella si svegliò poco dopo seguita da mia madre, che a quanto pareva si era alzata dal letto da sola, senza chiedere aiuto, e devo dire che quel mattino, anche a colazione, non si lamentò neppure una volta dei suoi malanni o del nostro comportamento, anzi, era tutto un sorriso ed un ringraziamento e sembrava proprio di umore eccellente.

Più tardi, mentre studiavo, pensavo che era strana tutta questa giovialità, anzi, era proprio sospetta, di solito si comportava così solo dopo che aveva esagerato e ci aveva fatte incazzare, per farsi perdonare.
Non so come mai, ma mi venne l’istinto di controllare il mio gruzzoletto.
Ogni tanto lo controllavo ed ogni tanto gli cambiavo il posto, per sicurezza, non mi fidavo di quelle due incoscienti ed era davvero importante per me sapere di averlo lì al sicuro, mi dava tranquillità.

Scoprii che non c’era nel suo nascondiglio, tra le pagine di un libro, e agitata controllai in quello in cui lo tenevo precedentemente, all’interno della manica di un maglione.
Niente.
Calma, Sakura, calma.
Ricontrollai meglio tra i libri, e poi guardai per terra, e infine tirai fuori tutti i maglioni, uno per uno.
Niente.
Forse non mi ricordavo di averlo cambiato ancora di posto, per cui mi misi a rovistare in tutta la stanza, invano.

Lo so che è esagerato ma era come se mi mancasse l’aria, come se mi franasse la terra sotto i piedi, avevo anche troppo caldo e mi sentivo tremare.
Quando uscii dalla camera avevo un’idea neppure troppo vaga di cosa era successo, così mi avvicinai a mia madre che era seduta sul divano, di fronte al televisore.
Ero furiosa, ma mi sforzai di mantenere la calma.

 - Mamma – le feci sufficientemente controllata – hai preso tu i miei soldi? –

Mi aveva guardata oltraggiata, la bugiarda.

 - Dove sono –

L’espressione oltraggiata si era tramutata in una caparbia, e quasi mi avrebbe fatto pena se non mi avesse fatto così tanta rabbia, perché mentre stringeva la vestaglia tra le dita non mi era mai parsa così sfatta, e vecchia.

 - Non sono tuoi, sono della famiglia! – sentenziò un po’ stridula – Sai quanti sacrifici ho fatto per voi, quanto ho sofferto, e tu li tenevi nascosti! –

 - Dove sono –

 - Non li ho più, li ho spesi! –

La calma mi stava abbandonando e dopo avere spento la televisione respirai a fondo, nel vano tentativo di trattenerla.

 - Mamma. Come hai fatto a spenderli se non esci mai di casa –

 - Sono uscita da sola, voi due non vi occupate di me! E’ Natale! Ho dovuto fare le scale e quasi cadevo…con due figlie! Ma avete preso da vostro padre e… –

  - Dove. Sono – tagliai corto, ed ero lì lì per esplodere.

 - Ho comprato tante cose di cui avevamo bisogno, ho preso una rete nuova, di quelle che si sollevano, così posso guardare la televisione dal letto, è meglio anche per voi perché… –

 - Adesso mi dici dove l’hai comprata e mi faccio ridare indietro i soldi! – ringhiai.

 - Non puoi! Mi serve! –

 - Non ti serve! La televisione puoi guardarla dal divano! –

Finimmo per urlare come delle ossesse e scoprii che non solo aveva già la rete nuova, gliel’avevano portata venerdì pomeriggio, ma che aveva dato un cospicuo acconto per un nuovo televisore al momento nascosto dentro l’armadio, in offerta come si premurò di aggiungere.
Non la presi per il collo come mi sarebbe piaciuto, né le urlai tutte le cattiverie che avevo sulla punta della lingua, era fiato sprecato, invece uscii di casa diretta a quel maledetto negozio di reti e materassi, perché quello di elettrodomestici del quartiere era un caso perso, conoscevo il proprietario ed era un bastardo, non mi avrebbe restituito niente.

Quell’altro negozio non era sotto casa e mi chiedevo come avesse fatto a camminare da sola fino a lì, e quasi questo mi faceva più arrabbiare del furto, perché con noi si faceva aiutare in tutto e si lamentava anche per fare solo un paio di passi, però quando voleva quella bastarda si sapeva arrangiare, eccome.
Quella bastarda.
Cercai di dirmi che forse si era fatta dare un passaggio da un vicino, magari il pensionato del primo piano che era proprio un brav’uomo, però era una bastarda lo stesso, e solo il fatto che si fosse presa la briga di scendere le scale da sola era una presa in giro, una vera e propria presa in giro.

Entrai nel negozio agitata ma ancora speranzosa di riavere i miei soldi, bastava spiegare la situazione, no?! per cui quando il proprietario, che la commessa aveva fatto chiamare, mi precisò che senza una ricevuta il recesso non era possibile, ed io non avevo nessuna ricevuta (quella bastarda l’aveva persa, diceva), mi scaldai un po’.
Lo minacciai di andare per vie legali ma non servì neppure quello, perché sapeva che ero solo una poveraccia, che non avevo soldi per un avvocato.
Bastardo anche lui.

Uscii sconvolta, senza sapere cosa fare.
Non avevo nessuna intenzione di tornare a casa e vedere lei e mia sorella, che speravo fosse all’oscuro di tutto anche se non si sa mai, perciò mi diressi spedita a casa di Sasuke.
Mi chiedevo cosa avrei fatto una volta che se ne fosse andato via, o meglio, lo sapevo.
Sarei tornata sola, come prima.

Aprii la porta che tanto per cambiare non era chiusa a chiave e lo cercai con quella che sapevo essere un’aria stravolta.
Eccolo lì (come sempre nel vederlo il cuore aveva accelerato i battiti), non stava studiando, ma perché avrebbe dovuto a questo punto, se ne stava seduto sul divano con la chitarra, strimpellava, e pareva turbato anche lui.
Senza una parola appoggiò la chitarra a terra e mi lasciai cadere di fianco a lui.

 - Mia madre mi ha preso tutti i soldi – iniziai concitata – li ho risparmiati a fatica e li mettevo via per i libri e per le emergenze, sono importanti per me e lei…e lei me li ha spesi tutti…tutti –

Continuai a farfugliare per un po’, ancora incapace di crederci, e poi lo abbracciai e rimasi con il naso piantato sul suo petto, tentando di riacquistare un po’ di calma.

Lasciai che mi stringesse e mi coccolasse, già più tranquilla tra le sue braccia, come se lui potesse cambiare le cose, come se il resto non fosse poi così importante, in fondo, se mi teneva tra le sue braccia.

 - Quanto ti serve? –

 - No, no – protestai senza mollare la presa (avevo bisogno del suo calore) – non mi servono, è solo che ho bisogno di sapere che ci sono e… –

 - Ho messo via un po’ di soldi per l’affitto, alcuni mesi, e dato che me ne vado non ne ho più bisogno –

 - Non voglio i tuoi soldi, servono a te e… –

 - Non ne ho bisogno – insistette.
Mi scostò e mi sollevò il mento con le dita per fissarmi serio, intenso, tanto più forte di me – Devi aspettare lunedì, me li tengono in banca i genitori di Naruto –

 - Non posso – sussurrai, ma gli ero comunque grata, così grata, perché era il mio eroe, davvero.

Mi baciò le labbra.

 - E’ deciso ormai, io non li voglio, non ne ho bisogno –

Smisi di discutere, sopraffatta da una miriade di emozioni, e senza sapere cosa dire mi strinsi ancora forte a lui, gli occhi lucidi per la commozione.

- Sei…sei un bravo ragazzo – riuscii a proferire.  

 - Cazzo…non so se è un complimento o un insulto –

Che stupido.

 - Tu cosa credi? – lo presi in giro continuando a stringere.

 - Suona come un insulto –

 - Sei proprio uno stupido maschio – mormorai arrampicandomi un poco sul divano per abbarbicarmi meglio a lui.

Il mio amore.
Non volevo perderlo, non potevo, era…era Sasuke, e non avrei mai incontrato nessuno come lui, non esisteva.

Mi massaggiava lentamente la schiena e mi dissi che forse…forse non era finito tutto, che magari aveva ragione Moegi ed avremmo potuto vederci lo stesso qualche volta, non era impossibile, no?!
Non eravamo almeno amici?
In fondo anche lui mi voleva un po’ di bene, no?! A modo suo mi aveva dato sempre così tanto, ricevendo in cambio così poco, ed anche ora, anche ora…avevo visto il suo volto turbato quando ero entrata, ma ero io, solo io, sempre io quella che riceveva.

 - E tu? – sussurrai – cosa c’è che non va? –

– Niente –

Stupido.

 - E’ per tua madre e la tua sorellina? – tirai a indovinare.

 - No –

 - Tuo padre? – buttai lì completamente a casaccio mentre mi annusavo e baciavo l’attaccatura del suo collo, e mi piaceva così tanto che avrei potuto passarmi delle ore così, ad annusarlo.

Non rispose, e così mi staccai a fatica per guardarlo, decisa ad insistere.

 – Quanto ti costa rispondere? –

Mi aveva guardata a sua volta seccato, ed era davvero bello seccato, davvero molto bello.

 - Non ho voglia di rispondere –

 - E’ in prigione, no!? – continuai – Non è così male sai, se mia madre fosse in prigione vorrebbe dire che invece di rubare solo alla figlia ha osato qualcosa di più, e la mia stima inesistente aumenterebbe –

Non riuscii a reprimere un ghigno nell’immaginare mia madre che rapinava una banca.

 - Pffh…non è in prigione –

 - Meglio così, e dov’è? –

 - Perché sei sempre così curiosa? –

Avrei voluto spiegargli che non ero curiosa, che non era quella la definizione giusta, che volevo solo conoscere tutto ciò che gli faceva male, tutto ciò che lo rendeva felice, ogni cosa che odiava, o che desiderava.
Tutto.
Perché volevo vederlo interamente, vedere lui, toccarlo nel profondo…sentirlo, e neppure ne capivo bene il motivo, in fondo non avevo mai provato quel bisogno di contatto, di compenetrazione.
Prima di lui, nemmeno credevo fosse possibile.

 - Non vuoi proprio dirmelo? – sussurrai, con una dolcezza che non avevo mai saputo di possedere, prima di lui.

Aveva appoggiato la testa sul divano ed aveva guardato il soffitto, ed io aspettai un po’ più composta, le gambe piegate sotto di me.

 - Non so neanche come siano venute fuori certe voci, ha solo cambiato città – mi spiegò finalmente, lo sguardo ancora al soffitto – abita lontano e non lo vedo molto spesso –

 - E quando se ne è andato? –

 - Poco dopo che i miei si sono separati, anni fa –

Come prevedibile non era che mi avesse inondato di informazioni, possedeva il dono della sintesi.

  - E allora perché non sei andato da lui visto che non volevi stare con tua madre? –

 - Ha una compagna, non mi andava di fare il terzo incomodo –

Ah ecco.

 - Non riesco a capire questa teoria del figlio come incomodo – replicai scostandogli un ciuffo di capelli dalla fronte – davvero non riesco a capirla…sarò egoista io, ma i nostri genitori mi battono ampliamente…scommetto che neanche a Natale è passato a salutarti, non ti fa arrabbiare? –

Aspettai pazientemente che replicasse e poi gli baciai il collo ancora una volta.

 - Ero arrabbiato, sì – si decise a rispondere – ma ora mi è anche passata…mi ha anche aiutato con l’affitto i primi tempi e lo sento più o meno regolarmente …qualche volta ci vediamo – e dopo una pausa – Sembra abbastanza felice –

Registrai in silenzio quell’informazione.

 - Mi sembra che tutto sommato se la passino bene tutti e due, anche tua madre –

 - Non so…forse dovrei comportarmi meglio con lei –

 - Non le parli ancora? Sei stato lì a Natale –

 - Mi sono limitato a chiederle come stava e a risponderle a monosillabi…so che ci sta male –

Strofinai il naso sul suo collo, pensando che sotto la sua aria da duro si preoccupava sempre troppo degli altri, anche perché onestamente continuavo a non avere una gran opinione dei suoi, non si erano comportati bene nei suoi confronti, ecco.
Se io e lui avessimo fatto un figlio…
Non sapevo neppure da dove mi venissero quei pensieri e mi affrettai a cacciarli.

 - Sono sicura che troverete il modo per riappacificarvi – bofonchiai spostandomi un po’ sopra di lui per potermelo godere meglio – te l’ho detto che sei un bravo ragazzo –

 - Stupida – rispose allungando una mano per accarezzarmi la guancia, come piaceva a me, e come ogni volta mi crogiolai tra le sue dita per godere fino in fondo di quella briciola di felicità.

Mi fece piegare la testa per darmi un bacio sui capelli e lo strinsi ancora più forte.

 - E non preoccuparti, non sei solo – aggiunsi d’impulso – fortuna che hai me, ricordatelo –

Ricordati sempre che ci sono, che esisto.
Non dimenticarmi mai.
Mai.

Sorrise.

 - Me ne ricorderò, e togli il ginocchio da lì –

Mi misi un po’ più composta e poi controllai con la mano.

 - Hai voglia di me? – gli sussurrai all’orecchio – Povero piccolo – gli baciai il collo – forse se fai il bravo ti aiuto a risolvere questo problemino –

 - Sakura… –

Mi faceva impazzire quando sussurrava il mio nome così.

 - Hai comprato i preservativi? – mi informai strofinandogli la coscia con le dita.

 - …sì –

Per una frazione di secondo pensai di chiedergli il perché, di chiedergli dove eravamo ora noi due, cosa avremmo fatto, come ci saremmo collocati…ma non osavo, non me la sentivo di ascoltare la sua risposta, non in quel momento.
Avevo paura.

Incrociai i suoi occhi, così caldi ora, pieni di passione, e lasciai che mi attirasse a sé per baciarmi.
Amavo i suoi baci, li amavo.

Quando ci staccammo iniziai a slacciargli il bottone dei pantaloni, ancora ansimante, ed infilai la mano all’interno, con una voglia matta di lui.

Finimmo per fare l’amore sul divano, un po’ da incoscienti visto quello schifo di divano e il fatto che non usammo subito il preservativo, ma eravamo ormai rinchiusi in quello spazio magico in cui il mondo, tutto il resto, il domani, tutti i problemi, i pensieri, le scelte e le paure, erano solo immagini sbiadite nello sfondo.

In quello spazio stavo di nuovo bene, potevo ignorare quell’ombra appena percepibile, un non so che di stonato, solo un eco di qualcosa che aleggiava anche quando eravamo felici.
Ma nel fondo qualcosa rimaneva, per quanto tentassi disperatamente di rimuoverlo, come se ormai quel momento che mi spaventava così tanto, il momento in cui se ne sarebbe andato, fosse diventato il fulcro di tutta la nostra vita, o forse solo della mia.
Sì, solo della mia.

Fu quasi per caso che a un certo punto mi resi conto che di lì a poco avevo un appuntamento con Sasori.

Lasciai Sasuke a fatica, con una scusa penosa, non potevo dirgli dell’appuntamento, ed anche se gli avevo omesso alcune, parecchie cose, ne avevo elaborate altre, e qualche volta avevo negato spudoratamente la verità, mi pareva che questa fosse la prima vera bugia che gli raccontavo da quando lo avevo conosciuto.
E per qualche stupido motivo mi faceva male.

Tornai a casa di corsa e mi lavai e preparai senza degnare di uno sguardo quella strega di mia madre, non che mi illudessi di indispettirla in quel modo, non gliene fregava niente, lo sapevo, le seccava solo che fossi arrabbiata, e comunque avevo troppa fretta per preoccuparmi di lei.
Uscii poco dopo per andare all’appuntamento in centro, non avevo voluto che mi venisse a prendere sotto casa, e mi sentivo addosso la presenza di Sasuke, sentivo ancora la dolcezza dei suoi baci, avevo un certo indolenzimento tra le gambe dovuto a lui, e fortuna che almeno avevo lavato via il suo odore, anche se mi pareva ancora di sentirlo.
Solo allora mi resi conto che non mi aveva detto che cosa c’era che non andava.
Stupido.

Nel frattempo la voglia di vedere Sasori non era pari a zero, no, era ben sotto lo zero.

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Allora, ero partita con idee grandiose sulla famiglia di Sasuke, rapine finite male, morti ammazzati e segreti di famiglia, davvero :D, ma ho deciso di dare un altro taglio alla storia ed ho eliminato tutto, solo che semplificando, semplificando, semplificando, ho semplificato così tanto che adesso mi sembra troppo, e mi verrebbe la tentazione di cambiare se  non altro la situazione del fratello e riportarla in parte a quella originale, ma non so se lo farò, non ho molta voglia di rimaneggiare i capitoli, fa parte del solito pacchetto crisi/pigrizia/mancanza di ispirazione e chi più ne ha più ne metta. :(
Scusatemi! 

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Capitolo 19
*** 19. ***


Eccomi qui!  
Manca poco alla fine ormai, questo è il terzultimo capitolo, ma in compenso è più lungo degli altri...e in ogni caso spero vi piaccia!

Ancora grazie mille per tutte quelle recensioni, mi state abituando troppo bene.:)




19.



 L’appuntamento era vicino alla fioreria, all’angolo tra due strade, come ogni volta, e solo alla vista di quell’angolo mi veniva un po’ d’ansia e le labbra si piegavano automaticamente in una piega severa: non mi piaceva quell’angolo.
Mi faceva schifo.
Cominciamo bene.

E poi, quando lo vidi arrivare con un’automobile nuova, una Ferrari rossa, il massimo della sobrietà, lo stomaco mi si chiuse del tutto, perché non volevo vederlo, non volevo proprio.

 - Ascolta – iniziai non appena salita in macchina.

 - Aspetta – mi fece dandomi un bacio sulle labbra, e trattenni la tentazione di pulirmele con il palmo della mano, perché quel bacio in quel momento mi disgustava – prima andiamo a fare un giro, va bene? –

No, non andava bene, avevo bisogno di parlare, ma come sempre con lui entravo in un mondo più ovattato in cui mi muovevo con mille attenzioni, e quella patina formale mi pesava particolarmente quel giorno, perché avevo appena visto Sasuke, ed ero ancora piena di lui, della forza della sua persona, della sua coerenza, del suo senso di ciò che è giusto.

 - Come va? – mi chiese riprendendo a guidare.

 - Male – buttai lì improvvisamente insofferente, quasi per metterlo alla prova – mia madre ha scovato dove nascondevo i soldi e me li ha presi –

Lo vidi sorridere, e quasi mi offendevo, non che non facesse ridere la cosa, ma faceva ridere solo una determinata categoria di persone, quelli che non avevano certi problemi per spiegarsi.

 - Mia madre ama interferire nella mia vita – e forse era un tentativo di consolarmi, forse era solo che gli piaceva tanto parlare di se stesso – per quello sono andato a vivere da solo che ancora non lavoravo –

Ma che bravo. Mica aveva problemi a pagare l’affitto, lui, con mamma e papà che sganciavano.

Per un attimo pensai di spiegargli quanto era importante per me avere il mio gruzzoletto, ma solo per un attimo, ci rinunciai subito: non credevo che fosse in grado di capire una realtà così distante dalla sua, e comunque proprio non ci riuscivo, non con lui, così lasciai che parlasse lui, come sempre, e ascoltai mentre mi raccontava un paio di episodi di cui era protagonista sua madre, che pareva una viperetta con una gran puzza sotto il naso.
Me la immaginai a setacciare la mia vita sotto una lente d’ingrandimento, immaginai la sua espressione superiore e il suo disprezzo nei confronti di una poveraccia come me, il tutto nascosto da sorrisi finti e macchinazioni sotterranee.

In quel momento, in quell’esatto istante, decisi che non volevo quella vita, che non volevo vivere in quel modo, costretta in quella recita che ormai non mi bastava più, sempre sola in mezzo agli altri.

Magari me ne sarei pentita, ma non lo credevo perché se c’era una cosa che avevo imparato era che non bastavano i soldi per mettersi al riparo dai dolori, tantomeno dalla vita: non era solo un luogo comune, era vero che non potevo comprarmi la felicità, e neppure la serenità purtroppo, ma bastava accettarlo per sentirsi già un po’ più liberi.

Lo sbirciai mentre parlava, e non ero mai stata così consapevole che non lo volevo più, non lo volevo proprio più, che non mi interessava veramente e neanche mi piaceva, e che dovevo dirglielo.
Subito.

Non mi faceva neppure pena, perché il mio bisogno di liberarmi di quella relazione sovrastava tutto il resto.

Non aspettai di scendere dalla macchina, condii la nuda verità con belle parole, ambigue se non false, ma fui irremovibile, e ascoltai con un orecchio solo le sue parole, le sue spiegazioni che non mi interessavano, i suoi inutili tentativi di farmi cambiare idea, di farmi riconsiderare tutto, e la sua assicurazione che se non aveva lasciato la tipa era solo perché non l’aveva più vista, ma che le aveva già accennato per telefono le sue intenzioni, che era deciso, che non aveva dubbi.
Il problema era che anch’io non avevo dubbi.

Alla fine, presa per sfinimento, gli assicurai che naturalmente ci saremmo visti e sentiti ancora, che mi faceva piacere vederlo come amico e non volevo smettere di avere a che fare con lui, ma era una grossa bugia, perché se fosse dipeso da me non lo avrei rivisto mai più, e già pensavo di cancellare il suo numero dal cellulare, non so neppure il perché, forse solo per provare a cancellare quella parentesi non esattamente esaltante della mia vita.

Non fu facile rimandarlo a casa, voleva rimanere con me, per parlare diceva, e non aveva tutti i torti vista tutta la strada che aveva dovuto percorrere per sentirsi dire che non lo volevo più, però non ne avevo proprio voglia, così mi inventai che dovevo vedere mia madre per chiarire, come se avessi davvero questo bisogno impellente, e dal momento che insisteva ancora aggiunsi che mia madre si era molto agitata, che ero davvero preoccupata per il suo stato di salute e dovevo andare. Suonava come una scusa ineccepibile, per quanto fosse falsissima.

Mi lasciò andare riluttante, e purtroppo volle anche accompagnarmi a casa, cortesia questa cui avrei rinunciato volentieri dal momento che non era tardi e avrei potuto arrangiarmi.
Scesi da quella macchina che si notava da lontano un miglio sentendomi addosso un notevole numero di sguardi, e già sapevo che la notizia si sarebbe sparsa in un batter d’occhio e sarebbe giunta fino a Sasuke, il che mi disturbava parecchio dal momento che avrebbe smascherato la mia piccola bugia, e ancora di più mi irritava che provassi quel fastidio, perché non avrebbe dovuto importarmi così tanto, non aveva neppure senso giunti a questo punto, tanto non cambiava niente.

Appena in casa mia madre mi chiamò e andai da lei quasi in automatico, per abitudine: era a letto con la sua nuova tv, la ladra, ma tremava visibilmente, e mi disse affannata che si sentiva male, che dovevamo andare all’ospedale perché le mancava il respiro e aveva paura di morire.
Ero sicura che non fingesse, che si sentisse davvero male, credo che a modo suo soffrisse per la situazione e non conoscesse altro sistema per esternare quel disagio se non attraverso la malattia.

Era solo una povera donna incapace di vivere.

 - Ti preparo qualcosa di caldo, vedrai che starai meglio –

Non avevo usato un tono gentile, ma avevo comunque ristabilito il nostro rapporto, avevo ribadito i nostri ruoli nel gioco stupido che era la nostra relazione, e sapevo che si sarebbe calmata.
Tanto ormai l’arrabbiatura mi era passata, ed era sempre mia madre, non volevo che soffrisse, avrei solo voluto che capisse ma non ne era in grado, non potevo farci niente.

Dormii molto meglio quella notte, libera da quel peso insopportabile che avevo portato per mesi, e domenica mi svegliai sentendomi molto più leggera, con la sensazione di essere finalmente intera.

Almeno fino a quando non realizzai che Sasuke se ne sarebbe andato e non tornai a terra.

Avevo voglia di vederlo, di raccontargli che avevo chiuso con quel finto principe azzurro, di stringerlo a me e sentirlo vicino finché potevo, ma non volevo essere sempre io quella che lo cercava e non potevo rompergli le scatole continuamente, così mi trattenni eroicamente e studiai barricata in camera, senza parlare a quelle due, il che non era così difficile dal momento che mia madre se ne stava chiusa in camera a sua volta con la nuova tv e la nuova rete (per quel che mi riguardava poteva rimanere lì per sempre, meno la vedevo meglio era), e mia sorella era in giro da qualche parte.

I giorni successivi erano trascorsi senza avvenimenti eclatanti, era già la seconda settimana ma non volevo pensarci, e man mano che passavano le ore avevo sempre più bisogno di vederlo.
Non avrebbe dovuto chiamarmi lunedì?

Probabilmente adesso aveva ben altro per la testa ed ignorai la stupida vocina dentro di me che mi sussurrava che forse non gli importava così tanto di me, non volevo certo iniziare a piangermi addosso e ridurmi come una di quelle povere creaturine patetiche che avevo sempre disprezzato.
Ma quel pensiero importuno faceva male, se faceva male…

L’ultimo dell’anno me lo ero passato a letto, Moegi era ad un festino a casa di una sua amica, avrebbe dormito fuori, mia madre aspettava la mezzanotte davanti alla tv, ed io non avevo voglia di vedere nessuno, tanto meno di uscire con Ino, così mi ero messa un cuscino in testa quando erano iniziati i botti pensando che il nuovo anno si prospettava peggiore di quello vecchio, il che di per sé era già un record.  

Sapevo che i Dead Leaves suonavano da qualche parte, non ricordavo neppure dove, e probabilmente avrei detto comunque di no, ma Sasuke non mi aveva invitata.

Il giorno dopo mi ero svegliata dicendomi che in realtà quel nuovo anno era esattamente uguale al vecchio, che mi aspettavo? Forse solo un pochettino più triste.
Almeno lui aveva risposto ai miei auguri, sai lo sforzo, sempre ammesso che sapesse che ero io.
Di tutti gli altri auguri non me ne fregava niente.
_

In quei giorni avevo aiutato ogni volta mia madre ad alzarsi, le avevo preparato la colazione (anche se non se lo meritava proprio), e se mi ero rifiutata di fare conversazione nonostante i suoi evidenti tentativi di stabilire un contatto, non ero mai stata sgarbata. Questo, unito al fatto che mi fossi occupata di lei, mi pareva abbastanza.

Mia sorella dopo avermi chiesto chi era quello ricco che mi accompagnava a casa ed averlo liquidato, a ragione, come non abbastanza importante per interessarsene, aveva ripreso a raccontarmi le sue patetiche giornate da ragazzina svanita, mentre nel frattempo Sasori continuava a chiamarmi (gli rispondevo raramente, proprio quando non ne potevo più, sperando la smettesse presto).

In compenso non avevo più sentito Sasuke, l’unico che avevo voglia di sentire.
Mi sfogliavo accuratamente e ripetutamente tutte le chiamate e gli innumerevoli messaggi di quell’altro nel timore che mi fosse sfuggito qualcosa, esasperata dall’assurdità della situazione (se solo avessi avuto il mio gruzzoletto avrei cambiato numero di telefono per non subire più quella persecuzione), ed ero un po’ delusa, lo ammetto, non tanto per il denaro che mi aveva promesso, sapevo di non poterlo accettare anche se ci avevo fatto un pensierino (sono venale, lo so), quanto per il fatto che se ne fosse dimenticato così in fretta.

Pazienza, neppure lo volevo il suo denaro, e probabilmente lo aveva detto nella foga del momento e poi ci aveva ragionato su e aveva cambiato idea, per cui cercai di farmela passare, solo che a causa di quella faccenda non potevo neppure chiamarlo io: non volevo mettergli pressione o fargli credere di essere lì ad aspettare i suoi soldi.
Quello che mi rompeva veramente era la vastità del tempo perso, tempo che non avevamo e si assottigliava sempre di più, ma non sapevo bene come comportarmi, e mi dicevo che forse era meglio così.

Non mi ero mai sentita così fragile.

Finalmente giovedì, mentre non c’era nessuno in fioreria e mi dilettavo a cancellare i messaggi di Sasori senza leggerli, Sasuke mi aveva mandato un sms in cui mi chiedeva di vederci.
Era il primo, cioè, il primo che inviava di sua iniziativa, e mi sentivo ridicolmente eccitata, neanche avesse fatto chissà che, ma non potevo farci niente, ormai mi accontentavo delle piccole cose.
Come mi ero ridotta, completamente in balia di un uomo e delle sue scelte.

Risposi subito di sì spiegando che tornavo tardi da lavoro, e per l’intero pomeriggio, il mio umore capovolto come un calzino, sorrisi bendisposta a tutti i clienti.

Il lungo viaggio di ritorno non mi era mai parso così infinito, e quando mi mandò un altro sms chiedendo a che ora arrivavo (era il secondo ed ormai ero stupidamente gongolante) risposi con un sorriso così ampio che mi sentivo dolere la mascella.
Subito dopo avevo inviato un messaggio anche a mia sorella per informarla che avevo un imprevisto e sarei tornata molto tardi, e poi mi limitai a seguire il filo dei miei pensieri, a tratti intrisi di malinconia.

All’uscita del metrò era lì che mi aspettava.

Nel vedermelo provai un moto di felicità così intenso che il cuore fece un balzo nel petto, neanche fossero passati mesi dall’ultima volta in cui l’avevo visto, non pochi giorni.
Ma era venuto a prendermi, come potevo non essere felice, e subito non badai alla sua espressione un po’ cupa, tutta presa dalla gioia di essere lì con lui.

 - Sei venuto a prendermi – mormorai con quello che sapevo essere un sorriso estasiato.

 - A piedi duchessa, niente Ferrari –

Ecco, lo sapevo che qualcuno glielo avrebbe riferito, accidenti alle linguacce che giravano per il quartiere.

 - Penso che mi accontenterò, hai altre doti – replicai accondiscendente mentre lo seguivo ancora raggiante.

 - Nervosetto? – domandai poco dopo dal momento che non mi guardava.

Nessuna risposta.

  - E’ per causa mia? –

 - No –

Non sapevo se credergli, e confesso che un po’ mi piaceva l’idea che fosse geloso per quella storia della macchina, era così carino quando era geloso.

- Davvero? –

Neanche mi aveva risposto.

 - Per tua madre allora? – provai tentando di stare al suo passo, nonostante il tacco.

 - No –

 - Il patrigno? –

 - No…senti, basta –

 - Tuo padre? – insistetti con quel diritto di sapere che mi arrogavo sempre con lui.

 - No! –

 - Il gruppo? – ormai avevo esaurito le domande.

 - Non puoi farti i cazzi tuoi? –

 - Non ci riesco, ho bisogno di sapere…cosa c’è? –

 Nemmeno mi rispose questa volta.

  - Puoi rallentare per favore…è tuo fratello? – buttai lì del tutto a casaccio, ricordavo il ragazzino della foto e mi pareva che qualcuno mi avesse parlato di un fratello, se non l’avevo sognato.

Lo vidi irrigidirsi, e non mi sfuggì l’ombra che gli attraversò il volto.

 - Allora hai davvero un fratello! L’ho visto nella foto ma quasi pensavo fosse una leggenda metropolitana! –
 
A questo punto ero davvero curiosa ed ignorai il suo sguardo non esattamente amichevole: Sasuke Uchiha non mi faceva per niente paura, sapevo che non mi avrebbe mai fatto del male, o meglio, sapevo che me ne avrebbe fatto molto, ma quello era un altro discorso.

- Dai, ormai manca solo lui – mi ostinai dal momento che non rispondeva – l’ultimo segreto e dopo non ho più materiale per stressarti…devi dirmelo prima di andartene, è come la chiusura del cerchio, se no non posso dirti addio –

Sorrisi amara e nascosi abbastanza bene il fatto che anche un accenno scherzoso alla sua partenza mi faceva male.

Lui non pareva per niente divertito e probabilmente avrei dovuto smetterla, perdevo un po’ i freni inibitori con lui, neanche il desiderio di conoscerlo, di appropriarmi di ogni parte di lui, mi desse tutti i diritti.
A mia difesa devo dire che non avevo mai sentito quel bisogno prima, per cui non sapevo come gestirlo.

 - Di lui non ho voglia di parlare adesso – rispose finalmente, ed era già qualcosa, un appiglio.

 - Ma… –

 - Senti…lasciami in pace, va bene? –

No, non andava bene, ma non avevo molta scelta.
Arrivammo a casa sua senza più parlare e sempre in silenzio mi indicò una busta sul tavolo, senza neppure degnarmi di uno sguardo.

 - I tuoi soldi – mi concesse finalmente una parola mentre si toglieva il giubbotto – li ho avuti solo oggi –

Mi dava le spalle e lo guardai quasi offesa.
Già avevo i miei dubbi prima, figuriamoci se me li buttava in faccia in malo modo.

 - Non voglio i tuoi soldi – replicai indignata.

 - Ti ho detto che sono tuoi, per me la questione è chiusa –

Lo guardai aprire il frigorifero e prendersi una birra, e lo fissai adombrata mentre se l’apriva e beveva un paio di sorsi a canna.

 - E’ solo una birra, ho sete – mi fece, perché aveva capito benissimo cosa stavo pensando, capiva sempre tutto benissimo, anche quello che non avevo ancora capito io, tutto a parte che ero innamorata di lui, tutto a parte che avevo bisogno di lui.

Appoggiò la bottiglia sul piano della cucina e rimanemmo a fissarci per alcuni secondi senza parlare.
Non riuscivo neppure a far finta di arrabbiarmi.
Dio, come mi piaceva.

 - Vieni qui – mi fece con un accenno di sorriso, ed ero già sciolta.
 
Lo raggiunsi, lasciai che mi cingesse la vita con le braccia ed appoggiai il capo direttamente sulla sua spalla, dal momento che avevo dei tacchi vertiginosi.

 - Dovresti essere più carino con me, mi hai sedotta e abbandonata – mormorai.

 - Pfffh…come no –

 - E’ così – replicai convinta.

Mi scostai appena e feci scorrere la mano sul suo torso, un brivido che mi percorreva il corpo.

 - Credevo fossi tu quella che mi ha sedotto –

 - Forse – concessi – ma sicuramente sei tu quello che mi abbandona – aggiunsi amara.

 - Perché, hai una proposta migliore? – replicò sarcastico.

Smisi di toccarlo e mi strinsi a lui senza parlare, senza guardarlo, un po’ agitata: non sapevo cosa rispondere, non sapevo neppure cosa volesse dire.

Rimanemmo così per alcuni secondi, in silenzio, poi lasciai riluttante che si staccasse, e lo guardai mentre apriva il frigorifero.

 - Hai fame? – chiese – Non ho ancora cenato –

Aveva abilmente abbandonato l’argomento, ma lo capivo, faceva male anche a me.

 - Cosa offre la casa a parte i toast? – con quelli avevo già dato.

Mi ero sfilata il cappotto che ancora indossavo e lo appoggiai sulla spalliera del divano prima di avvicinarmi di nuovo a lui e studiarmelo attenta, come facevo spesso ultimamente, per imprimermi nella memoria ogni particolare del suo volto, ogni sua espressione.

 - Non molto – ammise.

 - Latte e corn flakes? – domandai speranzosa, quello era un classico in ogni casa.

Alla sua risposta affermativa mi misi a cercare i cornflakes dentro gli armadietti e li sistemai sopra il tavolo.
Non era la mia marca preferita, ma me ne sarei fatta una ragione.

Con la coda dell’occhio notai che la busta era ancora lì, al lato estremo della tavola, bella gonfia, invitante, ma non la degnai di una vera attenzione, e mentre mi giravo per prendere il latte dal frigo incrociai lo sguardo di Sasuke.
Sembrava pensieroso.

 – A proposito, non mi hai ancora detto niente di tuo fratello…sto aspettando, mica mi dimentico – buttai lì con la mia notoria grazia.

Mi guardò infastidito.

 - Potrei iniziare anch’io a tormentarti con domande cui non vuoi rispondere –

 - Nessun problema –

 - Ma davvero –

 - Davvero, prova – lo sfidai mentre riempivo di latte le due tazze che mi aveva passato.

E vai, latte e cornflakes per tutti e due.

Non rispose, e devo dire che conoscevo bene quello sguardo aggressivo, era la sua corazza, una corazza piuttosto spessa, ma non era niente rispetto alle mie.

 - Dai, spara…non ho segreti, io – lo provocai.

Poteva chiedermi quanto voleva di mio padre, mia madre, mia sorella e parentado intero, tanto le cose peggiori gliele avevo raccontate subito, per cui sostenni il suo sguardo con sfida.

- Fai sesso col tipo della Ferrari? – mi chiese bruscamente.
 
Oddio.
Mi bloccai, la schiena irrigidita.
Non mi aveva mai chiesto niente di Sasori, si arrabbiava quando ne parlavo, ed ora, all’improvviso…

 - Io… – biascicai.

Non riuscii ad aggiungere altro e mi lasciai cadere sulla sedia, orribilmente imbarazzata: credo che fosse riuscito a beccare l’unico argomento che avrei preferito evitare, e l’ironia della cosa non mi divertiva affatto.

 - Sei andata a letto con lui? – ripeté fissandomi, e il suo sguardo ora era come un fuoco che mi divorava, e faceva paura – E’ semplice no?! sì o no? –

 - Io… – ripetei puntando gli occhi sulla tazza, di lato, ovunque tranne dov’era la sua faccia.

Cercavo di valutare il da farsi in fretta.
Dovevo davvero dirglielo?
Non potevo tenermelo per me e magari dimenticarmelo?
E lui non poteva immaginarselo da solo, voleva proprio sentirselo dire in faccia? Perché?
Mi pareva assurdo.

Avevo le mani sudate e in realtà non ero così brava a mentire guardando negli occhi, diciamo che nonostante le apparenze non ero una gran bugiarda se qualcuno mi osservava bene (non che la gente osservasse bene).

Accidenti, per qualche motivo il cuore batteva come impazzito e sudavo freddo.
Al diavolo.

 - …sì – mi decisi ad ammettere, e anche se non si trattava di una bugia non riuscivo a guardarlo in faccia.

Ma era inutile girarci intorno, e poi credo lo sapesse già.

Nonostante mi ostinassi a fissare la tazza senza vederla sapevo che aveva continuato a scrutarmi, e lo sbirciai appena prima di riabbassare la testa, ma mentre lo facevo, nel preciso istante in cui lo facevo, avevo letto il dolore nei suoi occhi e mi ero sentita morire, perché era come se mi avesse sbattuto in faccia che anche lui pagava per la mia stupidità, e lo sapevo questo, lo avevo sempre saputo, eppure…eppure non lo avevo neppure mai messo in conto.
Ero proprio egoista.

Non so come avessi potuto pensare che la sua gelosia fosse divertente, era orribile.

Rimanemmo così per interminabili secondi, o minuti, non so, io che guardavo le mie mani sopra il tavolo, lui in piedi, in silenzio, finché non mi alzai per affrontarlo.
Non ce la facevo più.

Era ancora in piedi vicino al frigo, sembrava calmo, aveva già ripreso il controllo, e mi affrettai a fare altrettanto.
Non capivo perché fosse così difficile.

 - Senti… - iniziai titubante.

 - Lascia stare, non devi giustificarti – mi interruppe bruscamente, ma era lui adesso che non mi guardava – puoi fare quello che vuoi, non mi devi niente, sei sempre stata chiara in questo con me –

Mi chiesi come potevo essere stata chiara con lui quando non ero ben chiara neppure con me stessa, e mi accorsi solo ora che avevo gli occhi lucidi.

- Non lo vedo più – mi affrettai a spiegare – l’ho scaricato, era uno stupido, e aveva anche la fidanzata – e mi veniva davvero da piangere, come una sciocca, come una bambina – è…è per questo che stai male? –

Tirò fuori un pacchetto di quei suoi fazzoletti economici dalla tasca, me lo passò e lo accettai grata: chi se ne fregava in fondo di quanto costavano, erano fazzoletti, servivano allo scopo.

 - No, ti ho detto che non c’entri – ripose mentre mi soffiavo rumorosamente e non molto elegantemente il naso.
Con Sasori non avrei mai osato, ma con Sasori non avrei mai neppure pianto così.

 - Mi dispiace – riuscii solo a dire tamponandomi sotto gli occhi con un altro fazzoletto per salvare il salvabile, odiavo il trucco colato.

 E dal momento che non sapevo che fare, che non c’era altro da dire, niente che non fosse una ridicola scusa o un rigirare il coltello nella piaga, lo raggiunsi e lo abbracciai forte.
Avevo un bisogno disperato di contatto.

 - Mi vuoi lo stesso? – sussurrai pateticamente, ma il cuore mi batteva ancora troppo veloce nel petto e non potevo farci niente se avevo paura.

Mi cinse a sua volta tra le braccia ed alzai la testa a guardarlo con gli occhi di nuovo colmi di lacrime.

Non disse niente, sollevò una mano e mi accarezzò la guancia con le dita, e mi chiedevo se lo sapesse che mi piaceva tanto quando faceva così, che con quel gesto così semplice era come se mi dicesse che gli importava.
Lo guardai tra le lacrime, piena d’amore, e lui, lui mi fissava senza rancore, solo con un’ombra di quella tristezza che conoscevo bene, e con quel fuoco al di sotto delle iridi scure che aveva solo per me, fino a quando non chinò il capo per appoggiare le labbra sulle mie.

Mi baciò lentamente, la lingua che si muoveva sinuosamente dentro la mia bocca e mi torturava obbligandomi a seguire un ritmo lento, sensuale, terribilmente eccitante, e capivo che era come se in quel modo volesse controllarmi, dominarmi, come se volesse farmi sentire che ero sua.

Ci staccammo ansimanti e lo strinsi forte forte, il battito del cuore che rallentava pian piano mentre mi sforzavo di arginare la paura, quella paura di perderlo che ormai da giorni mi stava divorando e non riuscivo a contenere, a razionalizzare come avrei voluto.

- Rimani qui questa notte? – mi sussurrò.

Sentii quel calore familiare che mi invadeva, era la prima volta che me lo chiedeva lui, e adesso, in questo momento, significava tutto.

 - Sì – risposi solo.

Non parlammo più di Sasori, probabilmente non ne avremmo parlato mai più, e quella notte, a letto, Sasuke accarezzò e baciò ogni centimetro della mia pelle, in una lentissima tortura che mi infiammava il corpo e mi faceva girare la testa.
Sapevo che era un modo per appropriarsi di ogni singola parte di me, un tentativo di renderla sua, solo sua.

Quando finalmente era entrato in me ero già al limite da un pezzo e l’orgasmo mi travolse immediatamente.

 - Sono tua, sai – bisbigliai poi senza fiato, mentre ancora spingeva dentro di me, così piano che non mi aveva sentita.   

 Non dormimmo molto, io ancora meno di lui.

Rimasi sveglia a lungo a guardarlo e ad accarezzargli i capelli, e la pienezza che provavo non poteva essere confusa con nient’altro: amavo quella persona, l’amavo tanto, e l’amore era una forza spaventosa che poteva racchiudere il mondo in un abbraccio, ma faceva male, così male, perché era anche un vortice che mi risucchiava l’aria dai polmoni, che confondeva i pensieri, che si prendeva ogni cellula vitale e se la portava via, lontano da me, fino a dov’era lui, dove sarebbe andato lui un giorno, via, lontano.
Lontano da me.

Ed io…io avrei dovuto trascinare quel guscio vuoto che mi sarebbe rimasto, e nascondere il vuoto dietro tutte quelle maschere che non avevo più voglia di indossare.
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Capitolo 20
*** 20. ***


Eccomi qua con il penultimo capitolo, che posto in tutta fretta (spero non ci siano errori)...siamo quasi in dirittura d’arrivo e mi fa sempre un certo che.

Avviso Sasukina369 che qui si parla di “lei sa chi”, spero non ne rimanga troppo delusa. :D
E infine un enorme grazie per le vostre recensioni!




20.




Mi svegliai prima di lui, per una volta, e rimasi a guardarlo incantata, assurdamente felice di poterlo osservare mentre dormiva, il volto rilassato che lo faceva sembrare più giovane, così giovane.
Quando aprì gli occhi continuai a contemplare il suo sguardo assonnato, ancora puro e innocente come quello di un bambino.

D’impulso lo strinsi a me, e la sua erezione mi premeva addosso non molto innocentemente, ora.

 - Pensavo ne avessi avuto abbastanza questa notte – sussurrai.

 - Non sono abituato a svegliarmi appiccicato ad una donna nuda –

Il mio amore, nemmeno io ero abituata a sentirmi così vicina a qualcuno.
 
Ero stanca, doveva essere tardi e mi sentivo uno schifo, con il trucco colato e l’aria sfinita, per cui avrei fatto meglio ad andarmene subito e sgattaiolare dentro casa in qualche modo, ma invece di alzarmi rimasi ancora stretta a lui, a godere dei suoi baci sul collo, del calore del suo corpo e delle sue dita che mi accarezzavano.

Era dura staccarsi, non ero abbastanza forte, ecco.

Nel frattempo aveva iniziato a baciarmi i seni, non sapevo come potesse avere ancora tutta questa energia, io ero cotta, ma lo strinsi a me con forza, il mio amore, con braccia e gambe, una mano sulla sua spalla ed una sui suoi capelli, per costringerlo a girarsi e farlo scendere di schiena sul letto.
Poi mi sistemai a cavalcioni sopra di lui e lo guardai, così bello, lì, sdraiato sotto di me.
Non potevo credere che non l’avrei più rivisto, non volevo crederlo, mi pareva così ingiusto.
 
Non riuscivo neppure a pensarci.

“Basta che stia bene” bisbigliai tra me e me con una punta di tristezza, che fosse felice almeno lui, se lo meritava, e pazienza per me, tanto ero abituata.

Mentre lui mi afferrava i seni avevo iniziato ad accarezzargli il petto, e dopo aver incrociato il suo sguardo bruciante ero scesa a baciargli lo stomaco.
Lentamente ero scivolata giù, giù, fino alla sua erezione.

 - Dopo mi racconti di tuo fratello? – mormorai mentre gliel’accarezzavo, in un ultimo tentativo di estorcergli informazioni, giusto per non smentirmi.

 - Sei…impossibile – fece uscire a fatica.

 - E’ un sì o un no? –

 - Cazzo, Sakura –

Avevo chinato il capo e gli avevo sfiorato l’erezione con le labbra.

 - Allora? – sussurrai, e pian piano avevo aperto la bocca.

Dal momento che non aveva risposto niente di intellegibile continuai a torturarlo lentamente.

Devo dire che non aveva resistito molto, sotto nessun punto di vista, e più tardi, mentre mi abbracciava ancora, avevo ripreso spudoratamente l’argomento: estorto o meno, l’aveva promesso.

 - Non so cosa ti importi di mio fratello – replicò, ma pareva piuttosto bendisposto.

Gli uomini, basta prenderli al momento giusto, che sappiamo tutte qual è.

 - E’ parte della tua vita, no? – replicai, mi pareva ovvio.

 - Non più da tanto tempo –

Purtroppo nel frattempo si era staccato da me e lo lasciai andare a malincuore.
Almeno il letto non era così largo ed eravamo a contatto lo stesso.

 - Lo sento raramente, ed è un’eternità che non lo vedo – specificò, ed io ero tutta orecchi, come ogni volta.

 - Dov’è? –

 - Chi lo sa…è sempre stato un po’ uno sbandato, cambiava sempre lavoro, era sempre in giri strani… ma mi ha chiamato proprio ieri – raccontò – …me l’aspettavo perché giorni fa aveva chiamato mia madre e si era fatto dare il mio numero – fece una pausa, lo sguardo al soffitto – voleva solo salutarmi e farmi gli auguri, ha detto, e mi ha assicurato che sta bene, è in una specie di comunità, non ho capito di che tipo ma…non so, non mi sembrava a posto –

Gli accarezzai i capelli, trattenendo la voglia di stringerlo con tutte le mie forze, vergognosamente eccitata dal fatto che mi avesse raccontato una cosa che capivo importante per lui, non proprio di sua spontanea volontà ma questo era un particolare irrilevante.

 - Gli vuoi bene? – sussurrai.

 - E’ mio fratello, sono cresciuto con lui, ero attaccatissimo a lui…una volta era diverso, era sempre calmo, controllato, ero io quello che combinava guai…ma poi ha cominciato con le droghe, era sempre fuori casa, era diventato scostante, freddo con me…allora non riuscivo a capire il perché –

 - Era per lui che eri triste l’altro giorno? –

 Subito non disse niente, ma poi mi guardò serio e mi baciò il naso.

 - Mia madre mi aveva appena detto di aspettarmi una sua chiamata e… sentirlo mi scombussola sempre…è che… – fece una pausa – è che vorrei fare qualcosa per lui, qualsiasi cosa, ma non c’è niente che possa fare, proprio niente –

Il mio amore, credeva sempre di dover fare qualcosa per tutti.

- E’ per quello che i tuoi si sono separati? –

 - Credo di sì, curiosona…è stato un brutto periodo quello, i miei litigavano sempre –

Rimasi in silenzio, cosa potevo dirgli, non ero stupida e immaginavo perfettamente la situazione: le preoccupazioni dei suoi, i vari tentativi inutili, le liti, e anche le recriminazioni reciproche, le accuse e lo sbandamento, immaginavo benissimo la famiglia che andava a catafascio, ed in mezzo un ragazzino quasi dimenticato, magari più vivace proprio per far capire che esiste.
Riuscivo anche a capire di più certe reazioni di sua madre e le paure immotivate del suo patrigno, e quanto quelle stesse cose dovessero fare male a lui, quasi dovesse portare ancora lui il peso delle scelte di suo fratello.

 Peccato non fossi capace di consolare, o di rassicurare, e non avessi altro che le mie emozioni ed il mio cuore da offrirgli, ed anche questi solo fino ad un certo punto, per quello che ero in grado di mostrare senza rischiare di scoprirmi troppo, o di spezzarmi.
Decisa a fare comunque del mio meglio lo abbracciai e me lo coccolai in silenzio, felice che me lo permettesse.

 - Sono contenta che tu me ne abbia parlato – ammisi.

Intanto pensavo alla sua famiglia, alla mia.
Ci sarà stato un tempo in cui i nostri genitori si erano amati, in cui erano stati felici.
Possibile che fosse…fosse così difficile amarsi per tutta la vita?

 – …non ricordo litigi tra i miei – ripresi poco dopo – mio padre se n’è andato così, chissà perché, probabilmente non voleva cacciare i soldi per il mantenimento… ma a volte – continuai con la voce un po’ rotta, ormai mi commuovevo per tutto – a volte penso che sia morto, perché mi sembra impossibile che non sia mai tornato a trovarci, neppure una volta –

Non aveva detto niente, non c’era niente da dire, ma mi aveva stretta forte e mi aveva baciato la fronte, e i capelli, prima di farmi appoggiare il capo sul suo petto.
Ed era così importante poter sentire il suo respiro tra miei capelli, la sua pelle contro la mia.

  - Ti voglio bene, Sasuke Uchiha – lo informai mentre ascoltavo il battito del suo cuore, forte come era lui – Lo so che presto te ne andrai e sono precaria nella tua vita – faceva così male dirlo – però ti voglio tanto bene, tanto, e…lo so che sono solo un’egoista e un’impicciona…ma se mi permetti di abbracciarti è abbastanza per me –

 - Stupida. Non sei così tanto egoista come credi –

Non aggiunse che non ero un’impicciona, come dargli torto, ma che importava, pensai tra le sue braccia.
Era lì, il corpo stretto al mio, pelle contro pelle, ed era davvero abbastanza per me, forse avrebbe potuto essere abbastanza per tutta la vita, averlo accanto, poterlo abbracciare quando stavo male, coccolarlo quando stava male lui, e sentirlo vicino, così vicino che tutto il resto sembrava troppo lontano per dovermene preoccupare: io e lui, e chi se ne fregava del mondo.
Come se noi due fossimo abbastanza e potessimo fare tutto, passare attraverso tutto e rimanere indenni.

  - Mi hai fatto cambiare tu, lo sai questo? – sussurrai.

Si scostò per farmi sollevare la testa ed incrociare i suoi occhi, lo sguardo caldo, così intenso, e come ogni volta mi sciolsi un poco quando mi accarezzò la guancia.

 - Non cambiare troppo però – mormorò.

E chi ne aveva intenzione.

Mi baciò il naso e si staccò del tutto, per quanto provassi a trattenerlo.

- Mia madre mi ha raccontato che vi siete conosciute – cambiò argomento – non me l’hai mai detto –

Ne dedussi che pensava ci fossimo incontrate per caso, per fortuna quella donna non era completamente scema.
Nel frattempo ignorando le mie proteste si era tirato su e si era alzato dal letto.

 - Non ne ho avuto l’occasione – risposi sollevandomi controvoglia, anche se avevo controllato l’ora ed era davvero tardi, facevo meglio ad andarmene – quando mi hai detto che partivi il resto mi è come volato fuori dalla testa – ed era proprio così, purtroppo – …mi ha raccontato che ti avevano trovato un rarissimo lavoro serio – aggiunsi incrociando il suo sguardo, si stava vestendo e nel cogliere l’espressione infastidita che aveva assunto avevo una voglia matta di baciargli l’angolo della bocca.

 - Quel cazzo di lavoro di merda – mormorò seccato.

- Pare che tu abbia osato rifiutarlo –

- Già era un lavoro di merda, in più il mio patrigno sarebbe stato il mio capo… piuttosto faccio il barista per tutta la vita –

Lo capivo benissimo.

 - E cosa mi dici delle cartine sospette a casa tua? – lo presi in giro.

 - Ti ha raccontato anche quello? –

- Pare che siano un chiaro segno di perdizione –

 - Pffh…non erano neanche mie, erano di Shika…le aveva dimenticate –

Devo dire che mi era andata vergognosamente bene, pensavo si incazzasse da matti per quella storia di sua madre, per fortuna aveva altro per la testa.

 - Be’…magari a tua madre puoi spiegare un po’ come stanno le cose – aggiunsi guardandomi intorno alla ricerca dei vestiti sparpagliati.

Perché purtroppo alla fine tocca cedere a noi figli, semplicemente perché gli adulti non sono proprio in grado di farlo, sono come incancreniti nella loro posizione, quasi che una persona giunta ad una certa età non possa più imparare niente.
Dovevo ricordarmene, dovevo mantenere qualche dubbio, continuare a imparare, anche da vecchietta ottantenne, e speravo solo di esserne in grado senza Sasuke, che era la mia cartina di tornasole.
Come al solito mi rifiutai di pensare oltre, faceva troppo male.

Mentre parlavo mi ero alzata in piedi e d’impulso lo raggiunsi, gli baciai proprio l’angolo della bocca e lo abbracciai un’altra volta.
Non era che avessimo ancora tutta la vita davanti per stare vicini e ne avevo bisogno.

Avrei…avrei voluto stringerlo per sempre.

Avrei voluto dirgli che non era vero che gli volevo bene, perché lo amavo, era amore quello che provavo.
Ed avrei voluto dirgli mille cose che non avrei mai pensato di voler dire, che sapevo di non potergli dire…dirgli che volevo stare con lui per sempre, che non mi sarei stancata mai di lui perché ero così cosciente della fortuna di averlo incontrato, che avrei portato pazienza nelle crisi, ed avrei lottato assieme a lui per far passare i momenti brutti, che avrei…che avrei resistito lontano da lui fino a che non sarebbe tornato, e avrei sempre trovato il modo di ritrovarlo se mi fossi persa, se si fosse perso.

Ma erano parole così solenni, così pesanti, che mi premevano sul cuore e non volevano uscire, troppo, troppo difficili da dire.
 
Quando mi cinse anche lui tra le braccia chiusi gli occhi, di nuovo felice, provvisoriamente felice, purtroppo, ma sapevo che avrei ricordato per sempre i meravigliosi momenti vissuti insieme.
Per sempre.

Come suonava lungo e vuoto.

Ma non volevo pensarci ora, e mi sarei fatta bastare la possibilità di stringerlo così, di sentirlo qui adesso.

Sollevai la testa per baciarlo e finii per rimanere ancora un po’, pazienza se a casa si sarebbero accorti che ero rimasta via la notte, onestamente chi se ne fregava.

Era davvero tardi quando decisi a malincuore di salutarlo con l’intenzione di tornare a casa (ormai le lezioni erano perse ma c’erano cose più importanti nella vita), ed ero sul punto di girare la maniglia della porta ed andarmene quando mi mise in mano la busta.

 - Prendi i soldi – mi fece dopo avermi baciato le labbra – ormai sono qui –

Non avevo la forza di dirgli di no.
_

A casa mia madre era visibilmente scossa, ad un certo punto la pressione si era alzata tantissimo, voleva quasi chiamare l’ambulanza, spiegò esagitata, ed io non c’ero da nessuna parte.

Avrei potuto rifilarle una scusa, dirle che ero uscita di casa molto presto, invece le raccontai che c’era stato qualche imprevisto ed ero rimasta a dormire da un amico, che più o meno era la verità: non che fossero fatti di mia madre, ma vivevamo comunque sotto lo stesso tetto e capivo che si era preoccupata veramente.

 - Un amico maschio? – aveva chiesto allarmata.

Non so bene di cosa si preoccupasse così all’improvviso in quel suo piccolo mondo appartato.

 - Non proprio un amico, sono innamorata di lui, ma non preoccuparti, tra pochi giorni parte e non lo vedrò più – feci uscire così, perché era la verità ed ero stanca di nasconderla.

Ignorai le domande concitate, le esternazioni di dubbi ed i commenti gratuiti, e mi chiusi in camera.

Ficcai provvisoriamente il denaro sotto il materasso, perché sapevo che la vecchia strega non era in grado di sollevarlo.
Prima però li avevo contati, ed erano tantissimi per il mio misero standard, troppi, mi sentivo quasi ricca nel vederli tutti insieme, davvero, benché non fossero veramente miei, e forse era per quello ma pensavo già che mi sarebbe piaciuto spendermeli tutti per andare a trovarlo, ovunque fosse, perché perfino i soldi erano diventati secondari rispetto a lui.

Quel pomeriggio non tentai neppure di trattenermi, ogni volta che ne avevo l’occasione mi voltavo a cercarlo con gli occhi, e non avevo niente da rispondere alle frecciatine di Haku.
Niente.
Accidenti…questa…questa cosa mi aveva privata di tutto il mio cinismo, ed era grave, davvero molto grave, perché significava che non avevo più difese.

Era vicina l’ora di chiusura quando vidi entrare nel bar sua madre con sua sorella, ed era bello vedere come la bambina gli si abbarbicava in braccio e si stringeva a lui, ed anche da lontano potevo scorgere che si guardavano con amore quei due.
Ero proprio contenta che fossero riusciti a districare quella situazione, a trovare un modo, eppure ero quasi gelosa di quello sguardo.

Quando uscii erano ancora lì, e dal momento che mi avevano vista aspettai che uscissero a loro volta.
Sua madre mi salutò dopo che attraversai la strada, incredibilmente sembrava felice di vedermi e mi spiegò che aveva fatto proprio come avevo detto io: aveva insistito con suo marito fino ad imporre il suo punto di vista.
Almeno i miei consigli servivano a qualcosa.

La bambina nel frattempo si era nascosta dietro alla gamba di Sasuke e mi guardava per metà estasiata e per metà spaventata, se esisteva un’espressione del genere.
Era una bimbetta graziosa, ma evidentemente i geni non si erano combinati così bene con il nuovo marito, perché non era bella come suo fratello, e in ogni caso per me i bambini sono delle piccole pesti, per cui non avevo la più pallida idea di come comportarmi con lei: mi limitai a sorridere e salutarla, e ogni tanto mi giravo dalla sua parte per scoprire che mi stava sbirciando di nascosto, e la salutavo ancora.

Confesso che non mi sarei mai data così da fare se non fosse stato che sapevo quanto quella bambina fosse importante per Sasuke.

 - Allora avete trovato un compromesso – gli bisbigliai con nonchalance.

 - Diciamo di sì, potrò vederla regolarmente d’ora in poi –

 - E come farai adesso che vai via? –

 - Troverò il modo –

Già, per lei avrebbe trovato il modo, e improvvisamente mi sentii triste.

 - Quando partite? – chiesi subito dopo a voce alta, sorridendo alla bambina che non sembrava apprezzare il fatto che Sasuke si dedicasse a me e continuava a tirarlo a sé per la gamba, la piccola egoistella.
Come la capivo.

 - Tra un paio di settimane – aveva risposto intanto lui.

Così presto.

Poco dopo li salutai, Sasuke sarebbe andato via con loro, e li guardai allontanarsi, lui e la bambina che si tenevano per mano.
Lei sembrava così piccola con la manina su quella di lui, e così felice.

Distolsi lo sguardo sentendomi un groppo in gola, perfettamente consapevole del mio moto egoistico di invidia, della mia orribile gelosia per la gioia evidente che la presenza della sorella gli generava.

Mi avviai sola verso il metrò, persa nei miei pensieri, nel mio mondo, così sola.

Ma dovevo abituarmici no?!

Era questo che mi riservava il futuro, questo, e una serie di parole inespresse che un giorno avrei rimpianto, assieme ad un’immagine di me che non mi era chiara, perché avevo ripudiato la vecchia Sakura, ma quella nuova, quella che si sentiva felice e libera, era definita soltanto da Sasuke e senza di lui ancora non esisteva, era solo una serie di momenti sparsi e confusi, di possibilità aperte ancora in mille direzioni.
Chi era Sakura Haruno? Chi voleva essere?
Non lo sapevo più.

Senza Sasuke mi sentivo confusa, incerta e colma di dolore.
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Capitolo 21
*** 21. ***


Eccomi qua con l'ultimo capitolo, non sono pienamente soddisfatta e ci sarebbero ancora alcune cosucce da sistemare, ma non riesco più a rileggere.

Grazie per aver recensito il capitolo precedente, e per i saluti ci ritroviamo alla fine!



21.




Vederlo andare via con sua madre e sua sorella mi aveva fatto male.
Non sono proprio così terribile, ero stata contenta di vederlo felice, di sapere che le cose si erano sistemate almeno in parte, ma inevitabilmente mi ero sentita anche esclusa, come se fossi in un gradino differente.
E lo ero in fondo.

Con la sua famiglia ci sarebbe sempre stato un legame, faticoso magari, a tratti spezzettato, ma mai dimenticato, mentre io…
Non so.
C’era questa cosa sospesa, tutto questo grumo di parole non dette, di dubbi non chiariti, e mi pareva che ormai non ci fosse più tempo.

E poi, ripercorrendo i miei momenti con Sasuke, mi rendevo conto che in fondo ero stata sempre io a cercarlo, a chiamarlo, a parte l’ultima volta.
Paradossalmente, anche quando mi dicevo che non era niente, anche quando mi ripetevo che era solo per amicizia, ero io che gravitavo attorno a lui, come una falena attratta dalla fiamma, e lui mi accoglieva sempre, ma sotto un altro punto di vista mi teneva anche a distanza: non facevo parte della sua vita come lui faceva parte della mia, e lo capivo in fondo, lo capivo eccome, si difendeva.
Come facevo io.
Ma…
Cosa c’era che mancava tra noi, cosa, quando poteva essere tutto?

Non lo cercai durante quel week end e rimasi quasi sempre chiusa nella mia stanza,
a studiare, a pensare.
A noi, a lui, e a me.

Che ne sarebbe stato della mia vita, che ne sarebbe stato di me, di Sakura Haruno, questa persona ancora indefinita, così ambivalente, incoerente, incompleta?

Passai l’intera settimana isolata da tutto e da tutti, alla ricerca di una via d’uscita, di una risposta, della soluzione perfetta e definitiva, per me, per la mia vita, fino a quando non capii che non ce n’era nemmeno una: avrei dovuto andare avanti, e vivere al meglio, giorno per giorno, un passetto alla volta, fino a quando non sarebbe stato tutto un po’ più chiaro, e forse non sarebbe stato chiaro mai, ma avrei dovuto continuare ad andare avanti lo stesso, che altro potevo fare.

L’unico indizio che avevo era il mio disagio, perché sapevo, per esperienza personale, che quando lo sentivo stavo facendo qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava bene per me, che non ero io.
Era già un inizio.

Alla fine decisi che avrei fatto proprio così, avrei vissuto al meglio, avrei cercato di essere il più possibile onesta con me stessa e magari anche un pochino più generosa con le debolezze altrui, se ci riuscivo, e conclusi dicendomi che forse non avrei mai incontrato il mio ricco principe azzurro, non avrei mai vissuto nel lusso e non avrei mai seppellito interamente le mie paure di una catastrofe improvvisa, ma al momento non mi importava poi così tanto: avevo toccato con mano quella possibilità e non mi era bastata.

Avrei studiato, e lavorato, e avrei cercato di essere felice di quello che avevo, ecco.

Eppure sentivo che c’era ancora qualcosa di stonato in questo ragionamento.
Qualcosa di orribilmente stonato.
_

Quella settimana avevo pensato più volte di cambiare scheda telefonica, stanca del fiume infinito di messaggi che Sasori continuava ad inviarmi, ma dal momento che mi pareva che stessero diminuendo avevo deciso di resistere ancora un po’.
Non che mi facesse pena: capivo che stava male, ma c’era un limite che lui aveva abbondantemente superato, e comunque credo ci sia una specie di regola non scritta per cui ognuno si deve tenere il proprio mal di cuore e guarire da solo, tanto prima o poi tocca a tutti.
Ne sapevo qualcosa.

In compenso non avevo ricevuto messaggi da parte di Sasuke, avevo controllato attentamente, forse anche ossessivamente il cellulare, e infine, venerdì, non lo avevo visto, non era venuto al bar.

Avevo passato il week end, probabilmente l’ultima mia occasione di vederlo prima della partenza, pensando a cosa c’era ancora di sbagliato, a cosa mi impediva di andare da lui e dirgli che mi ero innamorata.
Avevo pensato a lui, alla sua famiglia smembrata e al dolore e alla solitudine che nascondeva, a come questo non gli avesse impedito di essere una persona così forte ed onesta.
Avevo pensato a come ci eravamo fusi in un solo corpo, un solo pensiero, un solo cuore, e al suo umore pessimo dopo che lo avevo baciato e dopo che avevo fatto l’amore con lui la prima volta, al fatto che sapevo che era perché avrebbe voluto di più, e avevo ricordato che ero stata la sua prima donna, e riflettuto su quello che doveva significare per una persona come lui.
Avevo ripensato a quando mi aveva chiesto cosa volevo da lui e non avevo risposto, al suo dolore così evidente quando avevo ammesso che ero stata a letto con Sasori, anche se probabilmente lo aveva già immaginato.

Avevo ripercorso tutto quello che gli avevo detto, e tutto quello che gli avevo taciuto, tanto, troppo.

Avevo continuato a pensare ancora e ancora a lui.

Non era stata una rivelazione improvvisa quella che mi aveva svegliata il sabato successivo, dopo un’orribile notta inquieta, e un’orribile pomeriggio in cui non lo avevo visto al bar e non sapevo neppure se fosse già partito, era qualcosa che avevo maturato a lungo dentro di me, ma solo ora mi appariva chiaro, e in un certo qual modo semplice.

Ero un’egoista, lo sapevo, e avevo sempre considerato solo me stessa, ma mi pareva di essere cambiata con lui, di avere visto lui, solo lui, di avergli dato tutto quello che avevo nei momenti in cui eravamo stati insieme, per la prima volta nella mia vita, senza remore.
Ma non era vero, non gli avevo dato tutto, avevo sempre trattenuto qualcosa, perché avevo paura, troppa paura.

Mi alzai in fretta e mi sistemai alla meno peggio, che era comunque sempre molto più della media delle persone perché, diciamocelo, non sarò mai una sciattona, o magari semplicemente una che osa farsi vedere in giro senza trucco, poi scesi giù e corsi fino a casa sua sperando che ci fosse ancora, dicendomi che non poteva essere partito senza neppure un saluto, un misero messaggio…qualcosa, qualsiasi cosa.

Spalancai la porta che era aperta tanto per cambiare, perché il mio amore sotto sotto doveva nascondere una fiducia illimitata nell’umanità, e subito notai la valigia vicino alla porta della camera, un rimando al fatto che era tutto vero, che non era un incubo, era reale, che lui se ne sarebbe andato.

Lo cercai immediatamente con lo sguardo e quando lo vidi lì, sul divano, a strimpellare la sua chitarra vissuta, sentii che tutti i miei propositi venivano meno.
Codarda.

Di colpo iniziai a sudare freddo e lo stomaco era tanto chiuso da darmi la nausea.

Ero davvero sicura di voler svelare me stessa, di affidarmi interamente a lui?
Era proprio necessario farlo?
Magari per lui non ero più così importante, magari era già proiettato nel futuro, magari ero solo parte della vecchia vita che voleva dimenticare.
Per questo mi bloccai.
E se…e se non bastava?
Se se ne andava comunque via senza voltarsi indietro, perché non ero così essenziale?

Cercai di dirmi che non era quello il punto, che era qualcosa che dovevo fare per me, ma in quel momento non ricordavo nemmeno più perché mi era parso così importante dover confessare i miei sentimenti, sarebbe partito comunque, no?!

Lui appoggiò la chitarra a lato come per invitarmi a sedermi accanto a sé, ma non potevo, le gambe non si volevano muovere.

 - Quando parti? – mormorai lì impalata, sentendomi una vigliacca.

 - Martedì –

Martedì.

 - Tutto bene? – domandai ancora.

 - Tutto bene, sei venuta a dirmi addio? –

Ero ancora immobile vicino alla porta e di nuovo si voltò a guardarmi dal divano.

Rimanemmo così, a fissarci in silenzio come due stupidi, e avrei voluto che capisse, che potesse leggermi nel pensiero e capire esattamente cosa provavo, cosa volevo, e dirmi che andava bene, che anche per lui era lo stesso, che tutto sarebbe andato bene d’ora in poi, che avremmo trovato un modo.
Ma ero cosciente che non era possibile, che toccava a me, che dovevo espormi.
Avevo creduto di esserne capace, ma ora non ne ero più sicura.

 - Sasuke… – iniziai ancora, ma le parole sembravano impastarsi sulla lingua e fermarsi tra i denti, e tutto d’un tratto ero tornata bambina, con il ricordo di mio padre che mi sorrideva, e poi improvvisamente non c’era più.
Così, senza che avessi potuto farci niente.

Chiusi gli occhi e respirai a fondo, conscia che questa era l’unica occasione che avevo per chiudere un cerchio che altrimenti mi avrebbe perseguitata per tutta la vita, andasse come andasse.

 - Andiamo a fare un giro da qualche parte? – feci uscire vigliaccamente per prendere tempo – ho bisogno di camminare –

Non avevo un piano, qualcosa di preciso in mente, se non continuare a gravitare attorno a lui ancora un poco, perché non sapevo che altro fare.

Lo guardai indossare un tre quarti nero che gli avevo già visto addosso, e in quel momento, vestito di nero, con quel suo sguardo fiero e quel sorriso appena accennato, era più bello che mai, così bello che mi faceva male al cuore.

 - Hai ancora i capelli bagnati – notai – fa freddo fuori –

Sorrise appena.

 - So badare a me stesso –

 - Non so, non ne sono tanto sicura – lo canzonai, e poi rimasi a fissarlo senza più parlare, con l’orribile sensazione di vederlo per l’ultima volta.

Mancava così poco, e io…io…ero così inadeguata, così incapace di fare qualcosa.
Così impotente.
 Eravamo lì, in piedi, a pochi metri di distanza, e pareva una distanza incolmabile.

 Lo seguii fino alla stazione del metrò e lasciai che fosse lui a decidere la meta, e nel frattempo, mentre mi sedevo accanto a lui e mi appoggiavo sulla sua spalla, gli chiesi nei dettagli cosa avrebbe fatto, dove sarebbero andati.
Al momento avevano ben tre mesi programmati, scoprii, poi si sarebbe visto, e gli spiegai che volevo conoscere tutte le loro tappe, per avere un’idea di dove fosse quando pensavo a lui, perché sapevo che lo avrei pensato sempre.

 - Ho un regalino per te – mormorai poco dopo.

Gli presi la scatolina col plettro rosa che avevo rimesso in borsa da un po’ e lo guardai mentre la scartava.
Sembrava sorpreso, e contento.

 - Lo avevo preso per Natale, ma poi non te l’ho più dato…non so se ti piace –

 - Mi piace – sorrise guardandolo – mi ricorderà te –

 - Allora devi usarlo sempre –

Senza neppure rendermene conto avevo preso la sua mano ed avevamo intrecciato le dita, che ora se ne stavano posate insieme sulla mia coscia, come fosse il loro posto.

Quel contatto mi dava sicurezza e cominciavo a pensare che ce l’avrei fatta.

 Scendemmo ad una stazione a sud, molto in periferia, e poco dopo raggiungemmo un sentiero che costeggiava la riva del fiume.
Non ero mai stata da quelle parti e mi piaceva l’idea di essere in un posto sconosciuto assieme a lui, di poterlo aggiungere alla collezione di cose che erano nostre ed avrei ricordato per sempre.

Gli stivaletti col tacco non erano esattamente le calzature giuste, e ogni tanto dovevo controllare dove mettevo i piedi, ma non mi importava.
Camminando guardavo l’acqua che scorreva lenta e mi strinsi il cappotto addosso per proteggermi dall’aria gelida.

 - Vieni spesso qui? – domandai.

 - Mi piace camminare in riva al fiume – confermò, e mi resi conto che c’erano ancora montagne di cose che non sapevo di lui.

Non era giusto, volevo saperle, volevo conoscere tutto di lui.
Tutto.

 - Hai freddo? – mi fece poco dopo.

 - Un po’ –

Mi passò il braccio attorno alle spalle, per scaldarmi, e in un batter d’occhio non avevo più freddo, c’era il suo corpo che mi scaldava, come mi scaldava la sua presenza, mi scaldavano le sue attenzioni, i segni evidenti del suo affetto.
Mi adagiai a poco a poco su di lui sentendomi rilassata e completa come solo lui poteva farmi sentire.

  – Non vorrei dirti addio – feci uscire in un soffio, senza guardarlo.

Lui mi strinse ancora di più a sé, e a tratti mi scrutava, lo sentivo.

- Ho in programma di tornare qui spesso, se vuoi possiamo vederci –

Continuammo a camminare in silenzio e mi ostinai a guardare l’acqua tentando invano di riordinare le idee: era la mia occasione ma i pensieri erano così confusi che non ero in grado di esternarli in parole.

- Che c’è? – mi chiese, quasi mi avesse letto nel pensiero.

 - Mi…mi vuoi bene? – sussurrai imbarazzata.

Suonavo patetica, mi sentivo ridicola, ma avevo un disperato bisogno di sentirlo, di sentirglielo dire.

 - Ti ho sempre detto che mi piaci molto –

 - Sì ma… mi vuoi anche bene? – insistetti.

Solo per questa volta, solo per una volta volevo che me lo dicesse.

- Sì –

 - E…non ti fa male sapere che andrai lontano? –

Sentii che mi stringeva con più forza.

 - Sì…ma va bene così –

 - Perché? – sussurrai, gli occhi sempre fissi sull’acqua per evitare di guardarlo. Tremavo appena, ma non era il freddo.

 - Perché fa male anche vederti –

Faceva male, sì, lo sapevo, lo capivo perfettamente.

Camminammo ancora un poco ma non riuscivo più a distinguere quello che avevo intorno, e quel bubbone di pensieri pareva sul punto di scoppiare.

 - Sai – mi fece – forse, se me l’avessi chiesto, non sarei partito –

Valutai in silenzio quelle parole, quasi stupita.

 - Ma io non te l’avrei mai chiesto – feci uscire di getto – non avrei voluto che rinunciassi per me –

Mi resi subito conto di come suonava ambigua quella risposta.
Ambigua come era sempre stata ambigua la mia posizione rispetto alla sua così netta.

 - Voglio dire…è la tua vita…è importante, non voglio essere un ostacolo per te – provai a spiegare, perché in futuro non volevo essere solo un ricordo negativo.

Non volevo essere solo un ricordo per lui, pensai di colpo.
E mentre camminavamo, mentre mi stringeva e guardavamo l’acqua, mentre mi diceva così serenamente che avrebbe stupidamente rinunciato a qualcosa d’importante per me, proprio per me, ecco, riuscivo quasi ad immaginare un finale diverso, un futuro diverso, un futuro possibile cui non avevo mai creduto veramente, quasi non lo meritassi, quasi fosse inevitabile per me rimanere sola.

Ma lui mi aveva mostrato che non dovevo necessariamente essere sola, non dovevo necessariamente essere cinica, non dovevo necessariamente essere rassegnata ad una media, sicura, infelicità, e a questo punto non importava più se era tardi, non volevo finire tutto così, non volevo lasciarlo così, non potevo, e non era più solo per me, era anche, soprattutto per lui, perché nessuno aveva mai fatto niente per me, nessuno, a parte lui, e dovevo almeno dirgli quanto mi aveva dato, quanto mi aveva insegnato.

- …sono stata una stupida – buttai lì a tentoni, perché in qualche modo dovevo pur cominciare – col tizio della Ferrari è stato un errore fin dall’inizio – continuai un po’ più sicura – …avrebbe potuto andare bene se non ti avessi mai incontrato, avrei potuto continuare a credere che le relazioni potevano essere solo in un modo, senza una vera connessione, ma… – deglutii, e poi lasciai che le parole fluissero liberamente, senza filtrarle – ma adesso non posso più, no…non posso più, perché so che non è così, e non posso più pensare di vivere a metà, capisci? E poi…poi volevo dirti che sei troppo importante per me, che davvero sono cambiata tanto grazie a te, non sono neppure più così egoista, e infatti voglio che tu sia felice…e vorrei fare il possibile per farti felice, e…e ti voglio tanto bene e… –

Mi interruppi.
Serrai gli occhi e continuai a camminare affidandomi solo alla sua guida, sentendomi comunque sicura, perché mi fidavo ciecamente di lui e gli avrei affidato la mia vita senza una sola esitazione.

Mi sollevò di peso perché stavo per inciampare sul terreno sconnesso e riaprii gli occhi ridendo e aggrappandomi a lui, fino a quando non mi rimise a terra.
Ridevo ancora.

Riprendemmo a camminare e gli guardai il profilo colma di un’inspiegabile felicità, che non aveva altra causa se non quella di essere lì con lui.

  – No, non è vero che ti voglio bene…ti amo – confessai con l’eco di un sorriso sulle labbra – sì, ti amo, e sono così felice quando sono assieme a te…e vorrei…vorrei poter rimanere sempre così, assieme a te, costruire qualcosa con te, e non posso rinunciare a te, anche se ora è tardi, se te ne vai e forse non ti vedrò più –

Subito dopo rivolsi ancora lo sguardo sull’acqua che scorreva, improvvisamente impaurita, così vulnerabile.
Ma ormai era fatta.

Continuammo a camminare, lui mi cingeva ancora con un braccio ma non diceva niente, e cominciavo a pensare che mi avrebbe detto che per lui non era lo stesso, e lo sapevo che sarebbe finita male, era ovvio, non capivo come avessi potuto sperare che…
Mi bloccai perché si era fermato e mi tratteneva per la vita, e prima che potessi rendermene conto mi aveva avviluppata in un abbraccio e mi stringeva a lui.
Lo abbracciai a mia volta, non ancora sicura.

 - Ti amo tanto tanto tanto – ripetei sul suo petto – e se vuoi ti aspetto, anni anche, e se vuoi possiamo vederci in qualche modo, possiamo almeno provarci, fare un tentativo, e… –

Mi sollevò la testa e mi chiuse la bocca con un bacio, ed era un bacio lento, pieno di dolcezza.
Mentre lo baciavo capivo, sapevo, che si trattava di una risposta, ma ancora non mi bastava, avevo bisogno di conferme.

 - Se lo vuoi anche tu – mormorai affannata subito dopo – perché… –

Mi baciò ancora, e ancora, mentre mi teneva per la vita e mi stringeva a sé, ma non era sufficiente, non poteva essere sufficiente, dovevo essere sicura, dovevo ascoltare la sua risposta.

 - E tu? – riuscii a proferire senza fiato, tra un bacio e l’altro.

 Appoggiò la fronte sulla mia.

- Ho sperato tanto che me lo dicessi…mi sembra una vita che ti aspetto – confessò pieno di tenerezza, con una luce negli occhi che era amore, che non potevo fingere di non riconoscere – perché credo di essere sempre stato un po’ innamorato di te, fin da quando eri una ragazzetta con la puzza sotto il naso e pensavo che fossi la creatura più bella che avessi mai visto in vita mia…e ancora lo sei per me…ancora di più adesso che ti conosco –

Fui io a stringerlo forte adesso, un po’ commossa.

 - Ora devi partire, lo so... – mormorai.

 - Sono solo tre mesi, passano in fretta, e nel frattempo troverò un modo per vederti –

 - Ti aspetterò, e troveremo un modo, insieme – precisai – …ti farò felice, vedrai – promisi solennemente.

 - Ed io un giorno ti ricoprirò d’oro – promise in cambio, che sembrava una cosa così fuori luogo, ma io sapevo che era una meravigliosa dichiarazione d’amore, lo sapevamo solo noi due.



FINE
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Voi non lo sapete, o magari lo avete immaginato, ma questa storia ha rischiato tanto, ma tanto di finire male, con Sakura che non trovava il coraggio e loro due che si salutavano senza nessuna promessa, e forse sarebbe stato perfino meglio farla finire così, non so.
Però almeno un tentativo di futuro insieme volevo darglielo, poi chissà, starà a loro metterlo a frutto, nel mondo parallelo in cui i personaggi di carta continuano a vivere!
In quanto al resto, devo dire che ci sono diversi aspetti della vita di Sasuke che ho trascurato, purtroppo, ed è quello che mi dispiace di più.

In ogni caso ormai anche quest’avventura è finita, e come sempre mi sento un po’ svuotata e quasi in lutto. :(
Non so quando ci risentiremo, al momento mi sembra impossibile di poter scrivere qualcos’altro, un po’ come quando un amore finisce e sembra impossibile di poterti innamorare ancora. :D

Grazie mille per avermi seguita anche in questa avventura, e un enorme grazie a tutte voi che avete avuto la pazienza di recensirmi e farmi sapere che la storia vi piaceva.

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