Songs of Ice and Snow

di thefireplanet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Note della traduttrice: Salve a tutti. Vi presento fanfiction di thefireplanet, postata sul sito fanfiction.net (se volete potete trovarla in lingua originale QUI (https://www.fanfiction.net/s/9870780/1/Songs-of-Ice-and-Snow). E’ ambientata una settimana dopo la fine del film. Per chi di voi è familiare con Tumblr, il nickname dell’autrice è dreamsalittlebigger, nel caso vogliate esprimerle personalmente i vostri commenti. La fanfiction è conclusa.
Buona lettura, rossanasmith.

 

 

 

Capitolo 1.

 

"La porto solo a fare un giretto di prova."
"Beh, perché non posso portarcela anche io? Non c’è un motivo per cui non possa!"
"Ti ricordi cos’è successo l’ultima volta che sei salita sulla mia slitta?"
"Io—Io—eravamo inseguiti dai lupi, non l’ho fatta finire contro un albero! E comunque, non è che non possiamo sostituirla o altro."
"Non—non c’è bisogno che la sostituisci ogni volta che la rompo—"
"Che stai dicendo? Hai intenzione di romperla un sacco di volte, o cose del genere?"
"No, sto solo dicendo che so badare a me stesso—"
"Non ho mai detto che non puoi, ma come ti è persino—"
"Anna."
"Bene. Non ci volevo andare comunque."
"Beh, e dai non—camminare—ok, perfetto, se ne è andata. Che hai da guardare? Dacci un taglio, Sven." Kristoff si guarda i piedi di malumore, strascicando gli stivali sull’acciottolato del porto. Una settimana fa, lo stesso porto era stato racchiuso dal ghiaccio; adesso l’acqua scintillava sotto un sole estivo crescente. Guarda le montagne, gli alti picchi impervi al calore, e la meravigliosa neve che le incorona. Non vede l’ora di essere lì. Sven gli mordicchia la manica. "Non è che non voglio stare con lei," scatta, scuotendo l’amico via di dosso. "E’ che lo voglio."
E con questo si avvia alle stalle, a prendere puntelli e corda. Doveva schiarirsi le idee. E la strada più rapida per avere una mente sgombra era andare dieci metri più in alto.
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Elsa guarda la sorella attaccare il proprio pranzo, e osserva, gelida, "C’è qualcosa che non va?"
"No," Anna scatta, a metà tra lo strappare grossi pezzi di pane coi denti e il risucchiare la zuppa di piselli posata vicino al suo gomito sinistro. "Non c’è niente che non va, perché dovrebbe esserci qualcosa che non va, è tutto perfetto."
Elsa posa il cucchiaio. Le piace la sensazione del metallo freddo contro i polpastrelli nudi. C’è un cameriere accanto alla porta che dà in cucina—Elsa, imbarazzata, non riesce a ricordarsi il suo nome, poiché era parte del gran numero di persone assunte al palazzo dopo l’apertura dei cancelli—e osserva Anna con un misto di orrore e fascino. "Anna," sospira.
"Non mi dire Anna," Anna borbotta, ma, come al solito, la rabbia ormai si è calmata, consumata in fretta, come un fiammifero acceso. Posa il pane, stende una mano sul tavolo—"Non è stato—" Elsa inizia—e beve un lungo, lungo sorso del vino color mogano di Elsa.
E lo sputa nella zuppa di piselli.
"—allungato," Elsa conclude, debolmente e ormai tardi.
Anna adesso inizia a strofinarsi il pane sulla lingua; Elsa toglie il bicchiere alla sorella e quasi sorride. Le labbra si sollevano agli angoli. Ma è una cosa strana, sorridere, e non riesce a farlo ancora bene—non completamente, almeno; non ancora. Una settimana, e le cose erano ancora strane, nuove—sentimenti. Traballava inesperta come un neonato.
"Come fai a—bere quella roba?"
Elsa dice, secca, "Ingoio."
Anna le lancia un’occhiata fulminante, poi risprofonda nella sedia. Gli occhi si spostano veloci lungo il tavolo; è un tavolo lungo, coperto da una tovaglia rosso ciliegia, e a capotavola un’unica sedia vuota, e anche un’altra, accanto ad essa; e poi, forse a cinque piedi di distanza, eccole appollaiate lì, due sorelle; e tutto il resto vuoto. Anna dice, "Solo—Scusa. Ho litigato con Kristoff. Prima."
A Elsa piaceva Kristoff infinitamente più di quanto le era piaciuto—lui. Ma questo non significava che Anna non si fosse buttata a capofitto; forse non era stato progettato un matrimonio, ma non era passato comunque abbastanza tempo. "Sono sicura—"
"Voglio dire, non è stato proprio un litigio. Più me che mi arrabbiavo, e non lo so, volevo solo passare un po’ di tempo assieme a lui, ed era come se stesse scappando via, il che è ridicolo, perché chi scapperebbe mai via?" Anna si blocca, fa in fretta un profondo respiro. Elsa sbatte le palpebre, senza parole. "Scusa."
Elsa scuote la testa. "No, Anna, non scusarti; Voglio che tu condivida le tue cose con me senza problemi," finisce piano, come se avesse paura di dirlo. "E so che le cose sono state—frenetiche, questa settimana."
Forse frenetiche non era la parola adatta; più “impossibili”, sarebbe stata una descrizione migliore. Elsa aveva dovuto mandare delle scuse ad almeno quindici dignitari stranieri, organizzare un incontro in piazza con tutta la gente del regno per affrontare il problema della sua maledizione, e scegliere nuovi servitori—un compito che aveva affidato ad Anna.
"Ho paura che non sia amore," Anna fa all’improvviso. "Non—" gli occhi guizzano a capotavola. Le sedie vuote. "Non ho proprio grandissime capacità di giudizio quando si tratta di queste cose." Ride piano, un po’ prendendosi in giro da sola.
"Vorrei poterti aiutare," Elsa stringe la mano sul tavolo; la pelle quasi traslucida contro la tovaglia rosso ciliegia, "ma ho paura di non saperne molto nemmeno io."
"Beh," Anna fa, tirando su col naso, e pulendosi la bocca col dorso della mano in una maniera non molto principesca, "almeno abbiamo l’un l’altra."
Elsa sorride, e da qualche parte dentro di lei, il ghiaccio si rompe un po’ di più.
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Anna a malapena registra il fatto che la porta si stia aprendo—cioè, da qualche parte nel suo sogno di troll e abiti da sposa, c’è uno scricchiolio. Poi una dei troll apre la bocca pietrosa e piena di muschio, e la voce di Olaf parla:
"Ah—nna, Ah—nna—"
"Olaf," Anna geme, ormai sveglia ma rifiutandosi di aprire gli occhi, "Pensavo che ne avessimo già parlato." Una brezza gelata, e sa che la nuvoletta tempestosa personale di Olaf deve essere da qualche parte sospesa sul suo braccio sinistro. Si rintana di più sotto le coperte.
"Il cielo si è svegliato," Olaf dice allegro, "e quindi anche io!"
Anna non può fare a meno di ridere a quelle parole, sorridendo nel cuscino, l’eco di un ricordo che appare dietro gli occhi chiusi. Ne apre uno. Le porte a vetri che danno sul balcone rivelano un cielo che inizia a colorarsi di viola. "Non si è svegliato ancora."
"Ma lo sarà presto! Alzati, alzati!"
"Okay, cavolo," Anna sbadiglia, tirandosi su a sedere. Olaf balla sulle coperte, spargendo fiocchi di neve ovunque. "Andiamo."
Arranca fuori dal letto, sobbalzando quando i piedi toccano il pavimento freddo di marmo. Rabbrividisce, e i brividi la fanno star male, da qualche parte dentro; era più sensibile al freddo, da quando era successo quello che era successo. Avrebbe potuto sotterrarsi in un centinaio di coperte e non stare mai al caldo—come se una scheggia le fosse rimasta infilzata nel cuore, e riusciva a immaginarla, sempre lì.
Era così che ci si sentiva, ad essere Elsa?
Anna apre le porte della balconata, ed è accolta dall’aria che piano piano si fa meno gelida, nella fredda notte estiva. Lontano, sulle cime, riesce a vedere i primi raggi di sole. Olaf praticamente danza di gioia accanto a lei. "Hai mai visto niente di così bello?"
"Beh, anche ieri è stato abbastanza bello," Anna sbadiglia, appoggiandosi alla balaustra di pietra, "e anche l’altro ieri; e anche l’altro-l’altroieri."
"Sì," Olaf sospira sognante. Non arriva al bordo della balaustra, tranne che con la punta del naso. Il sole si vede appena. Anna ride.
"Olaf, sei—Olaf!" Si raddrizza di scatto. "Kristoff sarà tornato!"
"Sven è partito?"
"Già—devo andare, scusa, è che—"
"Ma il sole non è nemmeno sorto tutto!"
"Lo so!" Anna urla, fiondandosi nella stanza, infilandosi due scarpe diverse e mischiando corsetti e gonne. "Ma devo chiedergli scusa!"
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Elsa apre gli occhi, e il sole è color albicocca, e si accorge di aver dormito troppo. Si siede, e la lista dei suoi doveri le occupa la mente—per cominciare, quella lettera arrivata proprio il giorno prima dalle Isole del Sud, ancora sigillata. Sospira.
E poi la porta si spalanca di scatto.
"Elsa!" Anna si affretta dentro. Indossa un berretto pesante rosa, una gonna gialla, un corpetto celeste, e due scarpette di colore diverso. Elsa sbatte le palpebre. "Che stai—"
"Non è ancora tornato," Anna dice. Inizia a marciare ai piedi del letto, avanti e indietro. "E’ passata tutta la notte—praticamente un’eternità, e non è ancora tonato, la slitta non c’è più—"
"Chi—Kristoff?"
"Sììì! Pensavo che ormai fosse tornato e sai che insiste per dormire nelle stalle con Sven? Beh, lo fa, gli ho detto che poteva dormire nella stanza degli ospiti, ma comunque non è questo il—il punto è che non c’era. Voglio dire, non so, credi che sia scappato?" Anna si ferma per respirare.
"…no?" Elsa ha voglia di ridere, che probabilmente è la reazione sbagliata. "Sono sicura che stia bene, Anna. I venditori di ghiaccio? Passano settimane da soli tra le montagne."
"Settimane? Troppo tempo." Pausa. Poi: "Quindi credi che non gli sia successo niente?"
"No," il lato destro della bocca di Elsa si solleva. "Adesso vatti a cambiare. Sei ridicola."
Anna si guarda velocemente, e spalanca gli occhi, come se si fosse resa conto solo allora di come era vestita. "Oh, cielo, sono andata in giro—oh. Ok, ci vado subito. Buona idea."
Elsa la guarda andar via, tirando un filo della coperta.
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Anna guarda le montagne lontane, come se potessero dirle qualcosa. La Vetta Nord sembra piccola e insignificante da lì. Sopra di lei il cielo brilla, un migliaio di stelle che la illumina, e sta congelando.
Non fa particolarmente freddo, e lo sa, ma non riesce a smettere di tremare, anche con le braccia allacciate e le dita dei piedi premute assieme. Nella stanza dietro di lei scoppietta il fuoco, ma a parte questo il palazzo è silenzioso, le luci spente.
Non è che—lo vuole soffocare, né niente, ma se ne era andato così e lei sentiva il bisogno di scusarsi. Si fissa le dita, premute ai lati del torace, e il volto di Hans guizza tra i suoi ricordi come un’alga. Fa una smorfia, tirando fuori la lingua. Più che altro provava vergogna, e imbarazzo.
Più che altro aveva paura accadesse di nuovo.
 Più che altro temeva di non sapere cosa fosse davvero il vero amore.
Sospira, e si rannicchia, e poi sente, "Hai freddo?"
Sì gira, a metà; Elsa è lì, delineata sulla soglia. Si ricorda dei tempi in cui condividevano la stanza. Un’infanzia intera, sprecata. Dice, "No, sto perfettamente—"
Elsa agita la mano, e un venticello gelato raccoglie una coperta dal letto nella sua stretta di ghiaccio, la trascina fuori, e con uno svolazzo la deposita ordinatamente sulla sua testa. Anna ride. Non riesce a vedere nient’altro che diamanti che si intrecciano. "Stai migliorando!" alza la voce per farsi sentire da sotto la stoffa. "Credi di potermi far volare oltre il muro?"
Elsa non risponde. A volte—cioè, sempre—Anna è convinta che lo scherzo non faccia parte del suo vocabolario; del resto, Anna scherza solo in parte. Se potesse volare oltre il muro, ora, sarebbe capace di trovare Kristoff. Sente il rumore dei passi, e poi le braccia di Elsa le si stringono attorno, insieme alla coperta.
"Ciao," Anna sorride. Scrolla le spalle e le avvolge nella coperta, lasciando la testa fuori. Elsa è lì in piedi, con l’aria un po’ preoccupata e persa alla luce della luna. Anna le prende la mano. "Ancora alzata?"
"Come te," Elsa controbatte. "Avevo degli affari di cui occuparmi. La tua scusa qual è?"
"Nessuna. Voglio dire, niente. Nessuna scusa. Non riuscivo a dormire."
"Kristoff sta bene, Anna."
"Lo so! Sto solo—ammirando le stelle!"
Elsa le lancia un’occhiata. Il tipo di occhiata fraterna che smaschera le sue bugie. Sorride sfacciata. Poi Elsa fa quello che Anna non voleva facesse, e nota la pelle d’oca sulle braccia mentre si aggiusta la coperta. "Hai freddo?" sua sorella si acciglia.
"Un pochino. Non è niente. Forse mi sto ammalando, credo." Non aveva detto a Elsa di come non riusciva più a riscaldarsi, non davvero. Sua sorella non aveva bisogno di un altro peso sulle spalle. Cambia l’argomento. "Allora, domani posso aiutarti con qualcosa?"
Elsa stringe le labbra. Dopo un momento, comunque, risponde secca. "Ci sono alcune cose, sì. Devo chiamare il pittore reale per i nostri ritratti e rispondere a un paio di lettere. Forse puoi controllare che le merci arrivino nel porto come devono?"
Anna annuisce, sorridendo. "Ma certo."
Si fissano per un minuto. Ad Anna tutto questo piace. Le piace avere qualcuno a cui parlare, anche se si stanno sondando piano di nuovo, dopo tutti questi anni. Il suo sorriso si fa più largo, e si piega in avanti per un abbraccio veloce. La pelle di Elsa non è di ghiaccio—e un po’ più calda di com’era prima—ma quasi, e non aiuta la temperatura di Anna. Dice, "Buonanotte."
Elsa sorride, una cosa piccola, fragile. "Vai a letto."
"Sissignora!" Anna unisce i tacchi, osservando la sorella che se ne va, e poi si volta di nuovo verso i muri massicci del cortile, e oltre, i fiordi. E’ pace. E’ silenzio. Voleva solo dire mi dispiace, tutto qui. Sospira, appoggiando la guancia nel palmo con forza. La coperta le scivola dalle spalle. I cancelli sono ancora aperti, anche di notte, ora; qualcosa che Elsa aveva detto sul farli rimanere così. Ad Anna non importava. Erano aperti, e sarebbe potuta andar via, se voleva, e—
Dove sarebbe andata?
"Ugh, Kristoff," Anna sospira, guardando le due guardie appoggiate ognuna a un lato dei cancelli. Traballano alla luce del braciere. "Stupido, presuntuoso, non ci posso credere che è—"
C’è un suono di zoccoli. Debole, all’inizio, e poi che si precipita in avanti, oltre i due uomini spaventati e nel cortile. Anna rabbrividisce da capo a piedi, perché Sven è lì, e molto privo di Kristoff.
"Lo sapevo!" sibila, alzandosi all’indietro e lanciando la coperta sul pavimento della stanza. Si infila gli stivali (appaiati, questa volta) e il mantello rosa e si mette anche il cappello per essere sicuri, e se ne va, di corsa per i corridoi, senza fermarsi, anche se parecchie delle Guardie di Notte gridano al suo passaggio. Scivola nel cortile, l’abbigliamento invernale proprio perfetto per l’aria fredda della notte, anche se non dovrebbe essere così, anche se avrebbe dovuto sentirsi soffocata—e c’è Sven, Sven—"Sven!" urla, inciampa, e riesce appena a mantenersi sulle sue corna per non cadere. Sembra preoccupato. "Sven, dov’è- cos’è—"
Sven muove la bocca.
"Non so parlare il rennese, Sven, solo Kristoff ci riesce."
Sven ripete il movimento, e poi le morde la manica. Lei si solleva e gli si siede in groppa.
"Okay, amico, se qualcosa non va—devi portarmi da lui." Balzano oltre le guardie ai cancelli. "Dite a mia sorella che sto cercando di trovare quello stupido del mio fidanzato!" urla loro, ma non sa se l’hanno sentita o no, perché ormai erano puntini ai limiti del suo campo visivo, e lei e Sven si precipitano alla Vetta Nord.
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"Kristoff?"
Anna si chiede perché bisbiglia; non c’è bisogno di bisbigliare. C’è un silenzio di tomba, e la neve è vecchia, e densa, ma non può fare a meno di ricordarsi dei lupi. Sussurra di nuovo, un po’ più forte, "Kristoff?"
Sven la porta fuori dagli abeti, e alla luce splendente della luna, che si riflette sul suolo candido, a sufficienza da farle distinguere facilmente la slitta. E’ a posto, non un graffio. C’è una torcia, mezza spenta e praticamente un tizzone morente, a terra accanto a essa. Il cuore le batte in modo orribilmente frenetico. Smonta da Sven, senza grazia, cadendo violentemente sulla schiena; la renna si muove in avanti impaziente. "D’accordo, ok, arrivo, lasciami solo—" si alza in piedi. Non vuole vedere cosa è successo. Lo farà in fretta, come strapparsi un cerotto. Corre in avanti.
Sven, con una specie di nitrito, le afferra il mantello coi denti e la strattona all’indietro proprio prima del margine irregolare di un crepaccio stretto e profondo che non aveva visto. Corre di nuovo all’indietro, col cuore che batte.
"Grazie, Sven," sussurra. Gattona in avanti.
Lo spazio tra il limite vicino a lei e l’altro non è molto—è davvero stretto, in realtà, e potrebbe superarlo con un balzo Ci sono dei segni sull’altro lato, come se qualcuno l’avesse fatto. Le rocce scure, nere, tagliano la terra, e lei spia il margine della roccia; le pareti strette scendono per altri sei piedi, forse, e poi non riesce a vedere più. Nero.
"Sven, dove sta?"
La renna sposta la torcia verso di lei, dandole dei colpetti. La prende, soffiando sui tizzoni per farla riaccendere un po’. Sfarfalla smorta tra le sue mani. LA infila nel crepaccio stretto e urla, "KRISTOFF! SEI LAGGIU’?"
Battito. Due. Poi, un gemito. "…Anna?"
"Kristoff!" urla, e il suo corpo si rilassa, e si sente sollevata. "Dove sei? Vengo a prenderti!"
"No, torna indietro, Anna, non puoi farlo da sola—"
"Va bene—ecco, ho trovato la corda." Se la infila in spalla. "Dove sei? Che stavi facendo, comunque, quanto lontano —"
"Anna, non ci sono sostegni, devi—"
Fa scendere la torcia più a fondo nella crepa, cercando di vedere al buio, e coglie un barlume di luce, un mormorio di qualcosa di viola, e si piega un po’ di più. "Faccio cadere la torcia, è sopra di te?"
"No, ma Anna, solamente—"
La lascia andare. La torcia precipita per circa sei metri, e poi atterra, con un sibilo che si fa via via più debole, su qualcosa di freddo. Illumina vagamente l’interno di qualunque cosa ci sia sotto, e riesce a vedere il corpo disteso di Kristoff. "Perché non stai in piedi? Hai rotto qualcosa? Ti sei rotto tu?"
"Anna, ti prego, non voglio che tu—"
"Ecco, faccio un’ancora di neve!" Si volta indietro, e Sven piega la testa, ed è grata perché ha qualcosa da fare, qualcosa che le fa continuare a scorrere il sangue e le tiene la testa lontana dalle cose. Inizia a scavare una piccola curva spostando la neve, infilando un capo della corda sul mucchietto che ha fatto. "Che ci facevi laggiù, comunque? Non importa. Lo sapevo che qualcosa non andava. Ecco."
Finisce, testa la corda, e poi si lega l’altro capo attorno alla vita. Si alza, si stiracchia un poco, e poi barcolla fino al margine della spaccatura profonda. C’è un altro pezzo di corda nella slitta, e la afferra. "Okay, adesso scendo fin dove posso e ti passo la corda, e poi—poi Sven può tirarci su, o roba così. Sai, quello che è, decidiamo quella parte quando ci arriviamo."
"Anna, si scivola," Kristoff la avverte. "Vai a chiamare un paio di guardie e basta—"
"No, stai scherzando? Possiamo farcela. Sarà," grugnisce, sporgendosi in avanti, "un’esperienza che ci legherà," si sporge un poco di più, e poi, col rumore di un cuscino che cade a terra, e l’ancora di neve cede. Sven fa un grugnito. Anna non ha nemmeno il tempo di urlare prima di cominciare a cadere. Sbatte la testa sull’entrata stretta di qualcosa prima che si allarghi e continua a cadere, solo che adesso è sottoterra, e poi—
"Oof," emette un rantolo, senza respiro, le scintille davanti agli occhi. E’ stesa su qualcosa di bitorzoluto.
"Credo che tu mi abbia appena spappolato la milza," Kristoff riesce a dire, ansimando.
"Kristoff!" E poi si accorge di quello che è appena successo. La torcia si sta spegnendo, a un metro o poco più di distanza, i tizzoni che brillano debolmente, e la luce della luna non basta. Sono in una caverna, ma è tutto quello che riesce a distinguere. Kristoff si muove sotto di lei; sente le mani poggiarsi sulle sue braccia.
"Beh," Anna dice, "Potrebbe andare un po’ meglio."

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2.

 

 

 


La piccola candela balugina triste, proiettando ombre sui muri. Fuori il cielo estivo è del colore delle prugne, e sarebbe riuscita a distinguere le stelle, se non fosse stato per la luce della luna che entrava dalle finestre. Elsa si ferma davanti a una di esse; c’è il lago, e ci sono i boschi, e oltre, le montagne, ancora baciate dalla neve. La mano che non tiene stretto il candeliere di metallo ha uno spasmo involontario. Aveva avuto tanto a che fare con il freddo da bastarle una vita, ma stare lassù, non l’aveva fatta sentire—
Confinata.
Elsa fa un passo indietro. Volta le spalle alle montagne, e al freddo. Oltrepassa la porta della propria stanza da letto. E’ chiusa, serrata. Guarda dritto avanti, e non può fare a meno di pensare che una camera da letto non dovrebbe sembrare una prigione nemmeno la metà di quanto lo sembra la sua.
Attraversa un’altra porta, e arriva in un altro corridoio, quello che dà a destra, e verso l’interno del palazzo; quello che contiene file di volti. Non ci sono finestre, lì, solo oscurità; il tappeto di moquette rossa, pannelli ai muri, carta da parati blu; ritratti incorniciati d’oro, che la fissano con aria accusatoria. Elsa si ferma, la schiena rivolta alla luce della luna. La candela trema per la brezza gelida; il respiro forma una nuvoletta di vapore.
Scuote la testa, in fretta, e arriva in fondo al corridoio, ma, come ogni volta—quella sera, e quella mattina, e ieri, e ieri l’altro, e tutti i giorni da quando era stata incoronata—deve fermarsi. Voltarsi. Alzare gli occhi.
Quel ritratto, nel corridoio dei precedenti re e regine, non era così enorme come quello appeso a parecchie stanze di distanza; era una copia perfetta, comunque, dal pervinca del vestito della regina  alla lunghezza dei capelli del re. Sta ancora imparando a provare sentimenti, e questo sa di—vuoto. Sposta la candela, verso lo spazio vuoto che un giorno avrebbe ospitato il suo ritratto. In quel momento, non era altro che un muro spoglio.
Elsa fa un respiro profondo, sentendo il ghiaccio insinuarsi nelle vene. Si volta. Respira. Conta. Ecco, vedi. Respira. Conta. Ecco. Si concentra sulla calda luce arancione della sua piccola candela e volta le spalle. Dovrebbe seguire il proprio consiglio- addormentata. Da qualche parte, se non in camera sua, invece di vagare—
Spera che Anna sia andata a letto.
Il dipinto che si trova direttamente di fronte è scolorito, e vecchio, nonostante l’assenza di luce diretta. Elsa riesce a guardarlo con occhio critico, perché non conosce i volti di persona, non li ha visti piegati sopra di lei, a sussurrarle ninnenanne spaventate all’orecchio. Sono piuttosto scoloriti; e lo stile dell’epoca aveva dettato l’uso di ampie, grasse pennellate. C’è un sentore di viola e bianchi, eleganza—un uomo dal naso a punta e sua moglie, più delicata. La regina Hanna e il re Rolf, i primi sovrani di Arendelle. Elsa ricorda la piccola figura nel libro di storia, gli alberi geneaologici—e lui sposò lei, e lei generò lui, e—
La pittura ha una crepa nell’angolo sinistro, in basso; c’è qualcosa di bianco che splende da sotto lo sfondo blu scuro. Elsa si avvicina, la candela che oscilla pericolosamente, ma almeno non lo sente più—il ghiaccio, che minaccia di consumarla. Avvicina un’unghia alla superficie, e, piuttosto furtiva, controlla il corridoio. È sola, e non sa perché si sia presa la briga di farlo, perché se lo aspettava, eppure, mentre avvicina l’unghia alla vernice, le sembra quasi di commettere un sacrilegio. (La stessa sensazione che le aveva dato giocare a fare le tempeste di neve con la sua sorellina alle due del mattino.) Gratta una volta, due—una scorticatura breve, piccola, non se ne sarebbero accorti—
In effetti c’era qualcosa; solo che Elsa  non riusciva a capire bene cosa. La candela si avvicina alla base di metallo, la cera  si accumula sul fondo; aveva delle cose di cui occuparsi. Avrebbe dovuto tornarci al mattino.


"Che razza di sorella sarei," sbadiglia, con un passo indietro, "se non seguissi i miei consigli?"
Anna era a letto, addormentata; avrebbe dovuto esserlo anche lei.
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Anna per sbaglio gli pianta un gomito nel fianco mentre lotta per tirarsi su a sedere.
"Woah, woah, woah, furia scatenata," rantola, cercando di recuperare il fiato; aumenta la presa sulle sue braccia, "devi rimanere immobile."
C’è una pausa. Il piccolo raggio di luce che filtra da sopra, attraverso l’apertura del crepaccio, non basta nemmeno lontanamente per vederci, e tutto quello che riesce a distinguere è il bagliore rossastro dei suoi capelli. La tiene del tutto ferma; sono praticamente petto contro petto, gambe contro gambe; lui manda giù un groppo alla gola. Lei dice, "Ti rendi conto che per me è quasi fisicamente impossibile farlo?"
"Hai messo assieme una frase, positivo."
"Perché? Perché positivo?"
"Hai battuto la testa mentre cadevi."
Anna lo guarda in modo malizioso, coprendo la distanza in una maniera che lo fa sentire incredibilmente a disagio e incredibilmente—beh, a suo agio—allo stesso tempo. Riesce a distinguere la curva netta del naso. "Come fai a sapere che ho battuto la testa?"
"L’ho sentita."
Mette il broncio.
"No, sul serio, sembrava una roccia che colpisce una—beh, roccia più piccola."
"Stai paragonando la mia testa a una grossa roccia?"
"…forse?"
Lo colpisce sul petto, ma senza molta forza, e Kristoff pensa che forse stia sorridendo; gli piacerebbe vedere. Anna prova a muoversi di nuovo.
"No," dice, e giura a sé stesso che è per il  bene di lei, e non perché vuole chiederle di nuovo se può baciarla, "potresti avere una commozione."
"Una checcos’è?"
"Ma ti hanno insegnato qualcosa in quel palazzo?"
"Francese."
Alza gli occhi al cielo, anche se lei non può vederlo. Apre la bocca per dire qualcosa, ma lei lo fa prima. "Sto bene Kristopher," e ha iniziato a chiamarlo così, quando vuole attirare la sua attenzione, o dargli fastidio, o qualunque cosa, sul serio. Il suo volto è vicino. Così vicino. Sussurra, "Bene."
"Bene," fa eco lei; e poi piuttosto all’improvviso rimbalza all’indietro, piantandogli un altro gomito nello stomaco. "Voglio dire, sarei io a doverti chiedere come stai! Stai bene? Da quant’è che sei quaggiù? Perché sei venuto quaggiù? Vediamo se riusciamo a trovare la torcia, hai qualcosa di rotto—"
Non avrebbe dovuto muoversi; una volta, Kristoff era scivolato e caduto sul ghiaccio, spaccandosi la testa, e si era sentito bene per un’ora o giù di lì, finchè erano arrivati i capogiri e il vomito- e Papi aveva dovuto dargli un qualche antidoto puzzolente per fargli diminuire il gonfiore alla testa—ma, certo, Anna aveva fatto già metà della strada per dove credeva fosse la torcia. Non era altro che un’ombra più scura nell’oscurità. Esclama, "Ho visto del ghiaccio."
"Sei caduto quaggiù per del ghiaccio? Kristoff, c’è una montagna intera lassù."
"No, questo era diverso," sospira, osservando la feritoia in alto. "Vorrei—vorrei che lo avessi visto, come—era—beh, la cosa che ci si avvicinava di più," si ferma, "era al castello di tua sorella."
Anna rimane in silenzio per un battito, due. Poi: "Ma quello era ghiaccio magico; non avrebbe potuto essercene qua sotto."
"So cosa ho visto," semplicemente dice. Ha imparato a fidarsi dei suoi sensi, anni di arrampicate in ambienti selvaggi, e cene di famiglia coi troll. C’era una caverna, e le pareti erano di ghiaccio perfetto—adesso non riusciva nemmeno a distinguerle. La sente sospirare a due, tre metri di distanza. "Non riesco a trovarla."
Si tira su a sedere, Prova a stare in piedi sulla gamba, e all’improvviso si ricorda perché non si era mosso. Sibila di dolore.
"Kristoff?" Sente Anna andare a tastoni al buio. "Che c’è?"
Sospira, afflosciandosi all’indietro. "Niente."
"E’ ovvio che non è niente."
Non ci è abituato. Aiuto. Si sfrega gli occhi col dorso delle mani coperte dai guanti. Della neve gli si accumula sul naso. "La gamba. Ha preso il peggio della caduta." La sente incespicare in avanti al buio, solo che lei non riesce a vedere e—"Ahi. Quella gamba, sì."
"Oops."
Sente le sue mani che gli scorrono piano su per la coscia. "Che—che stai facendo, perché lo stai facendo, ch—"
Si bloccano sul suo viso. "Eccoti qui." Si sistema vicino a lui. C’è un lungo silenzio. Poi, "Mi dispiace. Per prima. Non voglio mica, soffocarti, o così, non è che—è solo che mi piace passare tempo con te. Tutto qui. Voglio dire solo questo, intendo, hai un bel naso. Aspetta, che?"
Non sa come sentirsi. Problemino da sistemare era la definizione giusta. Allunga le mani verso dove crede sia la sua faccia, e i guanti le strofinano la guancia. Dice molto in fretta, "Anche a me piace passare tempo con te." Le parole avevano un sapore strano. Poi lascia cadere la mano. Sobbalza quando lei parla di nuovo, lentamente. Riesce a sentire la pressione delle dita attraverso i guanti.
"Solo che, sai," sta sorridendo, lo sa, "non sul fondo di  un burrone pieno di ghiaccio perfetto."
"Non sono pazzo."
"Ceeeeeeeeeerto." Tossisce. "Dio, che mal di testa."
Una stretta allo stomaco. "Anna?"
"Che c’è?"
Non sa cosa fare. Sa che Sven sicuramente è andato a cercare aiuto, ma nel frattempo erano soli, e lui con una gamba fuori gioco. La mente corre, ma la bocca è aperta, e non fuoriescono suoni.
"Oh," Anna fa all’improvviso. La sente allontanarsi frettolosa di un paio di metri, e poi eccola in preda ai conati, nella neve. Si siede.
"Anna!"
"A cena, ho bevuto—il vino. Un paio di giorni fa. Tutto qui. Sto bene, sto bene. Almeno non ti ho vomitato addosso."
"Torna qui," fa lui, la voce tesa. La riesce a sentire che si muove a fatica nella neve fresca, che è intatta, e piuttosto spessa. Lei  risponde, "Voglio solo stendermi."
"Non credo sia una buona—idea, ok, certo, stenditi lì, va bene."
Si è accoccolata contro di lui, con la faccia nella neve. Non sa, al buio, se ha gli occhi chiusi. La stringe più dolcemente che può; la gamba inizia a pulsargli. La neve riusciva ad alleviare il dolore solo pochissimo. La sistema contro il suo petto. "Sei—è—stai comoda?"
Non risponde.
"Anna, stai comoda?"
"Mmm."
"Sven tornerà presto, porterà delle guardie, forse, o gli altri venditori di ghiaccio—" Kristoff inizia a parlare, perché non sa che altro fare, e questa era davvero, sul serio, tutta colpa sua, perché voleva vedere quel ghiaccio, e perché se ne voleva andare, e prendere la slitta, ma lei era una principessa, la ragazza che tremava tra le sue braccia era una principessa e lui era—era—
Beh. Era Kristoff.
E non era molto.
________________________________________
"Aprila e basta," intima a sé stessa. "Veloce. Dai—spezza il sigillo. Poi puoi andare a letto. Aprila e basta."
Elsa continua a fissare quella cosa davanti a lei. L’unica sulla scrivania, e non era stata spostata fin da quando l’attendente l’aveva portata. La sorprendeva il fatto che ancora non avesse lasciato un buco sul tavolo. Il fuoco, che ondeggia dietro di lei, scoppietta e scrocchia nel focolare; è ancora estate, e le serve tanto per la luce quanto per il calore. Non ha mai troppo caldo, o troppo freddo. È difficile sentire.
Sente qualcosa per questa lettera, comunque—odio. E non brucia potente, caldo e rosso come aveva  letto nei libri—no, è freddo, e lento, il morso del gelo che sorprende i mercanti in inverno e porta con sé arti interi.
Il sigillo è rosso sangue, con l’emblema della famiglia reale e dietro di esso una fenice che si alza in volo. Il simbolo delle Isole del Sud.
Doveva aprirla.
Doveva aprirla ora.
Doveva—
La porta della libreria viene spalancata di botto, e si spaventa. Un fiotto di ghiaccio esce fuori dalla mano tesa, e copre il soffitto di una piccola tempesta.
"Vostra Altezza!"
"Sì, mi dispiace, stavo solo—" ha le vertigini, si chiede cosa dire, se la guardia le sarà ostile—è un altro nuovo del gruppo che è arrivato, col naso a punta e capelli biondi e occhi neri come il carbone, ma no, benedetto lui, rimane in silenzio—
"C’è una—renna, nel cortile. La bardatura—sembra quella dell’… amico della Principessa Anna," termina, come se non fosse sicuro di come definire Kristoff, ed Elsa, ancora cercando di recuperare il respiro, non può fare a meno di pensare che è proprio quello il nocciolo di tutta la questione—
"Una renna?"
"Sola, sì."
Si acciglia. "Mostratemela."
________________________________________
"Hai freddo?"
Kristoff aveva appena finito di raccontare una lunga, complicata storia sulla volta in cui i troll avevano provato a insegnargli a ballare, e come aveva finito, invece, col dare fuoco a mezza foresta. Anna pensa che le sarebbe piaciuta di più, se non le avesse fatto tanto male la testa, o se non le fosse venuto da vomitare. Non voleva vomitare addosso a Kristoff. Sarebbe stato scortese. Qual era la domanda?
"Hai freddo?" Kristoff ripete. Lo sente scuoterla, solo un pochino. Il suo viso è accoccolato tra il collo e la spalla di lui. Il suo braccio, che la avvolgeva protettivo, e la stringeva a lui, doveva aver perso la sensibilità. Come è romantico, pensa, piuttosto sfocatamente, sarebbe stato tutto così romantico, se non avesse avuto la nausea.
"No," fa piano. È come parlare con la bocca piena di miele. Deve faticare per raggiungere i pensieri, e tutto sembra come, cioè, scivolare fuori. "No, mi sento—al caldo. Non—non stavo al caldo da un po’."
"Quanto tempo è un po’?"
"Oh," sbadiglia, "almeno una settimana."
"Resta sveglia, Anna."
"Sono sveglia."
"Settimana?"
"Sì, la sento la mano."
"No, che vuoi dire, che è una settimana che non stai al caldo?"
Sente il bisogno di sussurrare, così lo fa, vicino al suo orecchio, e lo guarda tremare, "Non devi dirlo a Elsa."
"Non lo farò."
"Fin da quando mi ha congelata, ho avuto—freddo." Sbadiglia di nuovo. "Ma adesso no."
"Ridicolo. Siamo sottoterra, coperti di neve, come fai a—"
"Shh, stupido," sospira, e le si chiudono gli occhi. "Sto al caldo."
"Anna?"
Nessuna risposta.
"Anna?"
Nessuna risposta.
"Anna?"

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

capitolo 3

 

Elsa vede la renna e lo capisce.
Sven nitrisce rabbioso, forte, grugnisce, si dimena, puntando le corna contro chiunque gli si avvicini. Le guardie lo stanno circondando, in mano una corda e una rete, ma li evita tutti con destrezza, correndo da una parte, dall’altra.
"Legatelo!"
"Prendetelo—prendetelo—"
"Qua!"
Elsa osserva. Ha addosso i finimenti, ma si trascina dietro i capi della bardatura, sfilacciati, forse strappati. Strappati, come se Sven li avesse staccati a morsi. Stringe i pugni. "Basta!"
Le guardie si fermano immediatamente. "Vostra Altezza!" borbottano, tutti e cinque in coro, e poi si inchinano profondamente, con l’aria ridicola—cappelli fuori posto, corde intorno ai piedi. Sven corre verso di lei, all’entrata del palazzo dov’è in piedi. Si impenna, puntando la testa verso le montagne oltre le mura. Lo fa di nuovo. Elsa lo raggiunge in fretta, le mani avanti a sé—uno strato di ghiaccio attorno alle unghie. "Piano, piano, piano," lo calma. Sven si zittisce, ma ha il respiro accelerato. "Sven, dov’è Kristoff?"
Sven ripete il gesto verso le montagne.
Doveva svegliare Anna? Elsa si stringe le mani, lo sguardo fisso, poi—"Preparate una slitta!" ordina, cercando di rimanere calma, fredda, ma c’è del gelo nelle  vene ed è spaventata, ha paura che sua sorella avesse ragione ad essere preoccupata ed ecco lei invece, a sminuire. "Preparate un battaglione. Sette guardie, a cavallo e attrezzate per l’inverno. In fretta!"
"Sì, Vostra Altezza!"
"Sven, torno subito," dice, appoggiando la mano sul naso della renna. "Ho bisogno che tu rimanga calmo, ok?"
Sven grugnisce dal naso. Elsa si solleva la gonna, liberando le gambe, e torna indietro di corsa al castello, ignorando, per il momento, i manierismi da regina. Percorre le scale a chiocciola quasi con un solo scatto, arriva fino al corridoio con le grandi finestre; la luce della luna si fa più sbiadita. Si arresta all’improvviso davanti alla porta di Anna, col petto che si abbassa e si solleva in fretta, alza la mano per bussare—
Si ferma, fissando la porta di legno bianco.
Cosa avrebbe detto?

Cosa avrebbe potuto dire?
Si morde il labbro. In fretta, doveva farlo in fretta—
Bussa pianissimo. Aspetta il tempo di un battito cardiaco, riprova un po’ più forte. "Anna?" Afferra la maniglia, la gira. "Anna, io—"
Lascia andare la porta, che si apre. C’è la coperta, sul pavimento; e le porte del balcone aperte; e il letto, vuoto. Il pavimento turbina in un vortice di ghiaccio affilato, che strappa il copriletto in due pezzi, ma Elsa non lo vede—
Corre.
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"Aiuto!" La sua voce è ruvida, roca. Il respiro forma una nuvoletta e i polmoni gli fanno male e ha dolore alla caviglia. Si era spinto in su, tenendo lei in grembo, una gamba inutile stesa all’infuori, e sedevano lì, al buio. Prova ancora, "Qualcuno, per favore!"
Presto avrebbe perso la voce. Se ne stava già andando, strozzata verso la fine, debole e silenziosa, al freddo. La sue grida d’aiuto non arrivano lontano. L’aria della mezzanotte li sta uccidendo.
Non si muove. Respira—piano, a fatica, in maniera orribilmente irregolare—ma lei non si muove.
"Aiuto!"
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C’è una scia di ghiaccio che la segue per tutta la città, su nelle montagne, ma le guardie non dicono una sola parola. Abbastanza in alto, nell’aria fredda, rarefatta, comincia a pensare con più lucidità, e ascolta il vento che le porta, fischiando, canzoni di ghiaccio e neve—si guarda indietro e Arendelle è un borgo tranquillo, addormentato, accoccolato nell’abbraccio delle montagne. Il cielo si fa più chiaro, colorato di violetto all’orizzonte.
Il suolo inizia a diventare più duro, e poi intravede la prima neve. Dovrebbero essere in alto abbastanza da usare la slitta, che avevano caricato su un carro. Sven è lì affianco affaticato, grugnisce e colpisce la terra con lo zoccolo.
"Scaricate qui, e veloci," Elsa esclama, smontando. Afferra i capi del mantello e dice a se stessa che non sarebbero stati più capaci di distinguere il ghiaccio provocato da lei e quello normale, non più. È un piccolo, piccolissimo conforto.
"Vostra maestà," fa una delle guardie, e dietro di lui Sven ansioso, impaziente, si sistema davanti alla slitta. Iniziano a imbardarlo. "Sarebbe pericoloso per voi proseguire oltre—"
Elsa lo guarda fredda. Se fosse stata Anna, avrebbe detto, E per te sarebbe pericoloso finire quella frase. Ma non lo fa. Dice, "Apprezzo la tua preoccupazione. Grazie. Salirò sulla slitta."
Si infila dietro la parte ricurva, afferra le redini, e prima che chiunque altro possa protestare, esclama, "Vai, Sven."
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Lo sente—il picchiettare familiare di una slitta sulla neve fresca, il rumore degli zoccoli di Sven, il nitrito di molti cavalli—e urla, "Qui!" Si spezza. Prova ancora. "Qui!"
Il rumore di sopra, accanto alla crepa irregolare nel soffitto di qualunque cosa fosse quella in cui erano, si spegne lentamente. Le persone smontano da cavallo.
Non è mai stato, in tutta la sua vita, così contento di vedere delle persone—
"Lei è là sotto?"
—ok, forse no.
"Già—uh, sì!" risponde alla regina. "Ha battuto la testa mentre cadeva, abbastanza forte!"
"Preparate delle corde, svelti!" ordina. Non c’è esitazione. Quando Anna ordinava qualcosa, lo chiedeva ed era carina—per favore potete e grazie—ma anche da laggiù Kristoff sa che la donna di sopra è la regina, e le si deve obbedire. E lo spaventa. Ma non a causa della sua magia—la sua magia era la cosa più bella che avesse mai visto.
No, lo spaventa perché è la sorella di Anna.
Una lunga corda viene fatta cadere da su; riesce a intravederla solo quando è proprio in alto, nella caverna, prima che venga inghiottita dal buio. "Non riesco a vedere!" urla di rimando. Così vicini, e ci stavano mettendo troppo.
Dei mormorii di sopra, della neve viene spostata—abbastanza da far cadere dei grossi mucchi dal bordo, che atterrano con un tonfo silenzioso nel buio, fuori portata. Poi viene calata una guardia del palazzo, con stretta in mano una lanterna tremolante. La fiamma basta a malapena per vederci, e di certo non abbastanza da illuminare l’intera caverna, ma per gli occhi di Kristoff è il sole. "Quaggiù!" Agita la mano.
La guardia atterra al suolo, afferra la corda srotolata che era stata lanciata troppo oltre, e cammina verso di loro. Di nuovo, Kristoff riesce a intravedere il bagliore che lo aveva portato laggiù dall’inizio—bellissimo, dei viola e dei blu vorticanti, qualcosa di chiaro, e perfetto, ma poi non c’è più. La guardia li raggiunge. "Ce la fai a portarla?"
Gli fanno male le braccia ed è stanco. Così stanco. "Sì."
La guardia gli allaccia attorno una corda, legandola stretta. "E ad alzarti in piedi?"
"No."
"Allora reggiti."
Kristoff stringe Anna, e la guardia grida a quelli di sopra, "Tirate!"
C’è un grugnito collettivo, e poi Kristoff viene sollevato di parecchi pollici al di sopra del suolo. La corda si tende. Anna è immobile nella sua stretta. La gamba debole si stacca da terra come l’arto di una bambola di porcellana rotta, e sente una fitta di dolore su per la coscia. Dondolano avanti e indietro al buio, penzolando al di sopra di qualsiasi cosa ci fosse in quella caverna, come su un’altalena.
"Tira!"
Arrivano un po’ più in alto.
"Tira!"
E ancora.
"Tira!"
E ancora. È tanto vicino da toccare l’apertura irregolare della crepa nel soffitto, ma non vuole rischiare di far cadere Anna. Lentamente, lentamente, attraversano piano la crepa, all’aria aperta, corroborante, gelata. Inizia ad alzarsi il vento, l’inizio di una tempesta di neve. Toccano terra. Le guardie annaspano; Una si piega e comincia a sciogliere i nodi dell’imbracatura sua e di Anna. Elsa si inginocchia accanto a loro; il vento è più forte dove c’è lei, Kristoff nota inespressivo. Tocca il viso di Anna.
"Quanto è stata brutta la caduta?"
"Ha battuto la testa," ripete. "Credo che possa avere una commozione cerebrale—si sta gonfiando, ma se riusciamo a portarla dai troll—"
Elsa annuisce brusca. "Sì. Ma certo." Si gira verso la slitta. Quando si accorge che Kristoff non la segue, si volta impaziente.
"Io—ho una gamba rotta."
"Aiutatelo ad alzarsi," ordina. Il vento aumenta all’improvviso. Due guardie prendono Anna e la stendono dietro, mentre altre due lo afferrano senza grazia sotto le braccia e lo depositano accanto alla regina. "Ci vediamo al castello. Lasciate qui il carro."
"Vostra maestà—"
"E’ un ordine."
Ha la gamba a fuoco. La sistema attentamente di lato, e trova Sven che si è voltato indietro a guardarlo con un’aria preoccupata. "Grazie, amico."
Sbuffa dal naso.
"Sven, portaci dai troll," Elsa ordina.
Kristoff non le fa notare che non ha il diritto di dire alla sua renna quello che deve fare, perché è la regina, e non si discute con lei. Perché è la regina, e hanno pochissimo tempo. La slitta sbanda in avanti nella notte tempestosa. Ha la bocca impastata.
"E’ stata colpa mia," fa all’improvviso. È la regina. Non può parlarle così, vero? Ma Anna era una principessa, e con lei parlava così, quindi voleva dire che—e come doveva comportarsi, e—era così confuso.
"Se Anna guardasse prima di saltare e camminasse invece di correre, comunque, immagino che non saremmo in questo pasticcio," la voce di Elsa è tesa.
"Ma, poi, uh—lei, uhm, non sarebbe Anna." Si strofina la nuca. "No?"
Elsa sbatte le palpebre. Le sue nocche sono spiacevolmente bianche. Troppo bianche. Bianche quanto la neve posata ai loro lati. C’è sorpresa, nei suoi occhi. Un po’ di sofferenza. Dice, "Ventuno anni, e ancora non conosco mia sorella."
Kristoff non sa come chiederle di spiegare cosa vuole dire. I cancelli erano stati sbarrati per così tanto tempo—che era successo, dietro quelle porte chiuse? E cosa poteva dire, lui? Persone. Non sapeva. Quindi siede accanto alla regina e rimane in silenzio, cercando di ignorare la gamba che pulsa, e che va a fuoco a ogni piccolo fosso e sobbalzo del terreno.
Vanno con la slitta più avanti che possono, prima che il terreno diventi troppo verde, e poi devono fermarsi. Kristoff si sporge in avanti, trasalendo, e sgancia Sven. Elsa, mordendosi il labbro mentre si concentra, evoca una leggerissima brezza nevosa, per aiutare a reggere la sorella sul dorso della renna.
"Sempre dritto," Kristoff dice. "Sven conosce la strada."
Quasi riluttante, Elsa chiede, "E tu starai bene?"
Kristoff annuisce. Le sorelle proseguono.
Lo lasciano indietro.
________________________________________
La piccola valle è calma, e calda, ma l’erba intorno a lei sta diventando bianca. Sven gratta con la zampa il terreno attorno a lui. Mantiene una mano posata su Anna.
L’ultima volta che era stata lì, era stato l’inizio della fine—i suoi genitori in piedi accanto a lei come sentinelle silenziose, la visione terrificante della sua magia che si trasformava in qualcosa di spaventoso. E Anna, immobile e silenziosa, com’era adesso. Stranamente, Elsa pensa che anche questa sia colpa sua. In maniera contorta, strana, indiretta. Colpa sua, nondimeno.
Quello che aveva detto a Kristoff, nella slitta, ritorna fluttuando. Sembrava che anche lui conoscesse sua sorella meglio di lei. Lei e Anna—erano su un terreno irregolare, il loro rapporto andava a tentoni.
"C’è qualcuno?" chiama piano. "Per favore, Io—io non so se vi ricordate di me, ma—"
Un suono di valanga, e almeno trenta massi rotolano verso di lei. Elsa lotta coi ricordi, ma tornano veloci, forti.
Nascondi. Non sentire. Non lasciare che si veda1
"Regina Elsa!" Un troll con un naso bitorzoluto e una criniera di erba morente, marrone, si inchina davanti a lei. E’ in piedi dove c’era un masso, alcuni momenti prima, e adesso che guarda, tutte le rocce sono troll. "Certo che ci ricordiamo di te." I suoi occhi acuti si spostano su Sven. "E’ la Principessa Anna?" Si acciglia, facendo un passo avanti. "Credevo che non avesse più—"
"No! No, non è questo," Elsa interrompe, con la paura di parlarne. "No, è—caduta. Kristoff ha detto che è stato un trauma cranico, e che voi potreste guarirla—"
"Dov’è Kristoff? Dov’è il mio dolce bambino?" Chiede un altro troll, facendosi spazio tra la folla.
"E’ rimasto indietro alla slitta—si è rotto la gamba—ma per favore, potreste guarirla—"
"Bulda," il troll più anziano si rivolge alla seconda che aveva parlato, "occupati di Kristoff. In quanto alla principessa, poggiatela qui." Fa cenno al suolo. Elsa fa alzare un venticello per aiutarla a far scendere sua sorella dal dorso di Sven. "Con la testa si può ragionare," l’anziano troll spiega, premendo due dita tozze da ogni lato del cranio della sorella. "Un bozzo, sembra." C’è uno scintillio rosso, giallo, scintille blu, e il troll anziano sorride. "Ma niente che un po’ di magia non possa sistemare."
Bagna le tempie di Anna, prima di svanire fino a diventare il sussurro di un pensiero, e fluttua via tra il vento. Le dita di Elsa le pizzicano dall’impazienza. "Sta—?"
L’anziano chiude gli occhi, respira, e poi li apre con un sorriso. "Tutto quello che le serve è un po’ di sonno."
Elsa esala un respiro che non sapeva di star trattenendo. Il vento si calma. Si appoggia sui talloni, sentendosi di nuovo una bambina. "Signore—"
"Per favore, chiamami Papi."
"Papi." Elsa testa il nome. "Da dove—da dove viene la magia?"
"La tua magia, o la mia?"
È consapevole della presenza di altri veti troll che la guardano, che sbattono le ciglia, mormorano, sussurrano. Esclama, "Tutta la magia."
"Ognuna ha una fonte diversa," Papi dice. Con un cenno della mano le scintille ritornano, galleggiando attorno a loro in una spirale delicata. Sfiorano la sua guancia come un bacio tiepido. "La mia viene dalla terra."
"Sai—sai da dove viene la mia? La mia maledizione?"
Papi la guarda un po’ triste. Le scintille scivolano sopra l’erba ghiacciata sotto i suoi piedi, e si scioglie. "Lo consideri una maledizione? Sei nata con questo dono."
Elsa si guarda le mani. Anna è stesa tranquilla a terra. La respirazione si è regolarizzata, ma riesce ancora a vederla, piccola e ferita dopo quella fatidica notte, riesce ancora a vederla, ghiaccio solido su quel mare. "Lo so. Ma non sempre—mi sembra così."
"Hai imparato qual è il segreto per controllarla," Papi fa lentamente.
"L’amore scioglie," Elsa sorride teneramente ad Anna, ma presto il sorriso si scioglie e va via. "Sì. Ma voglio sapere—voglio sapere perché. Perché io."
Papi si sporge in avanti. Dice, "Hai imparato a controllarla, ma il tuo cuore è ancora indeciso." Le preme uno delle sue grosse, ruvide dita sul petto. "Apprendi il segreto dell’origine della tua magia—accettalo—e diventerai di gran lunga più forte."
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"Bambino mio!"
"C—cosa, ehi, ahi, ahi, Ma—"
Bulda attacca un lato della sua faccia, atterrandogli sulla spalla, e Kristoff cade pesantemente di lato atterrato dalla sua mole. La gamba gli fa male. "Sei ferito? Dove ti fa male? Cosa ti fa male?" Inizia a tastargli pantaloni e camicia. La scuote via.
"Ma, ti prego, sto bene."
"Non dirmi bugie," Bulda esclama severa, afferrandogli il mento tra le mani rocciose. "Sul serio, Kristoff, e che cosa hai fatto ad Anna?"
"N-Niente! Perché dovrei—"
"Vi siete già sposati?"
"No, Ma, non siamo—ahi!" Kristoff ulula indignato. "Avresti almeno potuto avvertirmi prima di—"
Bulda gli passa uno dei suoi cristalli rosa sulla gamba. Scintilla, calda, e il dolore si allevia. "Non fare il bambino. E voglio che non ci appoggi su peso almeno per le prossime dodici ore."
Siede in una posizione scomoda, mezzo rovesciato nella parte anteriore della slitta, ed ecco il troll che l’ha cresciuto, in piedi sul bordo, con le mani sui fianchi. Kristoff pensa alla sua vita ogni tanto. Voleva solo che fosse semplice, senza problemi contorti.
"E perché," sua madre gli chiede, "non le hai fatto ancora la proposta di matrimonio?"
"Beh—lei—si è appena s-fidanzata con quel—Hans delle Isole del Sud, e sto cercando solo di capire come sistemare—"
"Sistemare cosa! Kristoff, bambino, non ti ho mai visto guardare nessuno così. Tranne Sven."
"Fidati, non guardo Sven così."
Bulda si piega in avanti. "Uh-huh. È un rapporto strano, tesoro, forse è questo che la spaventa—"
"Ma, ti prego—"
"Senti, Kristoff. La ami! Che c’è più da capire?"
"Tutto?" Sospira, strofinandosi il viso. "C’è Papi con lei?"
"Starà bene, adesso." Bulda si siede, dondolando le gambe corte, tarchiate. "Piccolo, parlane con me."
"Io—solo che. Io non—"
"Dillo a parole tue, Kristoff," Bulda dice.
"Mi fa paura quanto la amo," Kristoff geme in fretta, perché sua madre gli avrebbe fatto pressione finchè non l’avesse detto comunque, quindi tanto meglio farla finita. "Non ho mai avuto bisogno di altri, tranne voi."
Bulda lo esamina attentamente. "E?"
Kristoff si stropiccia gli occhi. "Ed è una principessa."
"Che, chi pensa che il mio bambino non sia abbastanza per una principessa, huh? Gli faccio vedere io, gli faccio—"
"Io, io lo faccio!"
"Oh, Kristoff," Bulda balza avanti e lo abbraccia stretto. "Sei abbastanza, per chiunque!"
Sospira. "Se solo le cose fossero così semplici."
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Galleggia. Stava sognando di essere stata baciata da un troll, ma poi il troll si era trasformato in Kristoff, e da qualche parte Elsa urlava il suo nome. Apre gli occhi. Il cielo è rosa pallido, il colore del mattino. È stesa su qualcosa di piatto, e le cime appuntite degli alberi scorrono via lentamente.
Riesce appena a distinguere una testa color platino, e una testa bionda. C’è silenzio.
Sospira, soddisfatta, e chiude gli occhi.
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Ormai il sole è sorto del  tutto, quando caricano la seconda slitta sul carro, e si incamminano verso Arendelle. Kristoff osserva la slitta nuova farsi più piccola e lontana, sospirando. Elsa dice, "Torneremo a prenderla domani." Guarda il montanaro annuire triste. Poi vede il suo sguardo spostarsi su Anna, dove è stesa, dietro, e la tristezza se ne va. Il suo sorriso è piccolo. Apre la bocca, poi la chiude. Invece, passa le redini a Kristoff, e in silenzio, proseguono per strada.
Un grido riecheggia, mentre si avvicinano al palazzo. "La regina! La regina è tornata! E la principessa!"
Parecchi servi escono ad accoglierli, mentre fermano il carro nel cortile. C’è già un caldo insopportabile—l’estate che cercava di resistere, con la sua ultima stretta d’addio. Elsa si alza in piedi. È esausta. Kristoff sembra sul punto di svenire. Gli dice, "Sei più che benvenuto, se vuoi restare in una delle stanze degli ospiti."
"Oh, no, va bene così. Voglio solo—assicurarmi che stia a posto," dice, muovendo il mento verso Anna. Girando intorno al carro, dà dei colpetti al collo di Sven, grato. Quando raggiunge Anna, la prende in braccio come se non pesasse niente. È accoccolata lì, al sicuro tra le sue braccia, ed Elsa scuote la testa, lottando contro il bisogno di strofinarsi gli occhi. Si rivolge a uno dei servi. "Conducete Kristoff nelle stanze di Anna."
"Sì, Vostra Maestà."
"E poi preparate la mia—"
"Vostra Altezza!" Un ciambellano grida. Si volta.
"Sì?"
"Un ospite è arrivato durante la vostra, ah, assenza. Qualcuno è venuto per vedervi. L’ho condotto in biblioteca nell’attesa di Vostra Altezza."
Elsa si acciglia. Non aspettava visitatori. "Chi?"
"Un principe delle Isole del Sud."

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 1 La versione originale è Conceal, don’t feel, don’t let it show, che in italiano è stato reso, per mantenere il ritmo della canzone, Celare, domare. Qui si è preferito mantenere il significato originale del mantra di Elsa.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 

 

 

 

Capitolo 4

 

Presto, presto, Elsa si dice, eppure, le mani si fermano prima di poggiarsi sulle maniglie. Dietro di lei i ritratti di re e regine la fissano con occhi accusatori, occhi che sono infilzati come pugnali nella sua schiena. Cristalli di ghiaccio blu scuro, rabbioso, si alzano lentamente dai suoi piedi. Guarda le porte; non le aveva mai osservate sul serio, mai. Bianche, fiori verdi e viola, diamanti, vortici. Le maniglie sono d’oro.

Elsa fa un respiro profondo. Dietro quelle bellissime porte c’era qualcuno che non voleva vedere. Chiunque sia dalle Isole del Sud—dopo Hans—è tutto quello che sente è tua sorella è morta, e tutto quello che riesce a vedere è la spada che si spezza, frammenta, in un milione di pezzi.

Non essere il mostro che vogliono tu sia, che pensano tu sia, non essere, mostro—

Come poteva qualcuno desiderare il potere a tal punto?

Elsa fa un respiro profondo, ma uno diventa due, e tre, e poi si ritrova ad avere l’affanno. Dà le spalle alla porta. Il ghiaccio scricchiola sulle pareti, crescendo come muffa negli angoli del soffitto. Nata e cresciuta ed educata per questo, pensa, guardando il ritratto che era sempre stata costretta a guardare, vicino allo spazio vuoto dove sarebbe stato appeso il suo, un giorno; ma non pronta. Come avrebbe potuto, chiunque, essere stato pronto, per quello che era successo?

Forse insegnandole prima di tutto come si ama, Elsa pensa con amarezza, voltandosi di scatto verso il ritratto, gli occhi del re, la preoccupazione passiva della regina, ed ecco i primi sovrani di Arendelle di fronte a lei ancora una volta, e la pittura scorticata, spellata, nell’angolo. Elsa fissa la pittura. È quasi color crema, aria fresca sotto il blu scuro. Inspira. Espira. Il ghiaccio recede.

Con un movimento veloce, si volta verso la porta, e la apre.


"No, non le serve adesso, le serve solo un po’ di riposo—"

"E in base a quali conoscenze fai questa prognosi? Forse il Venditore di Ghiaccio Reale ne sa più del Medico Reale su questioni del genere?"

"Uh, no, credo, ma so—uh, la mia famiglia, che—"

"Devo bendarle la testa. Portami dell’acqua calda."

"Che—io? No! Le serve solo un po’ di riposo."

"Le servono bende."

"Riposo."

"Bende!"

"Riposo," Anna geme. Le voci pulsavano bianche e arrabbiate dietro i suoi occhi. Sente il proprio letto sotto di sé, coperte familiari, cuscino piatto. "Riposo. Come credete che possa riposare, se urlate?"

"Le mie scusa, vostra Altezza." Questo doveva essere il medico. Non le era mai piaciuto; non da quando si era rotta il braccio arrampicandosi sul tetto del palazzo, e lui aveva dovuto per forza ri -romperlo, già, no grazie. Continua, "Dovrei solo fare un piccolo—"

"Vada via. Per favore," sbadiglia, rintanandosi più a fondo nelle coperte, fredda fino al midollo e con la sensazione di aver ingoiato un intero secchio di feltro. "La chiamerò…dopo…" sente l'oscurità che la trascina di nuovo dentro di sé. Sonno. Sonno è bello—

"Vostra maestà." Voce tesa, non è d'accordo, non fa niente—sonno, sonno—

Sente lo scatto della porta e apre un occhio, cisposo. Tutto è troppo luminoso. Vuole sibilare, e battere in ritirata. Dice, "Non tu."

Kristoff si ferma, proprio sulla porta. Riesce a vedere la tensione nelle sue spalle, riesce a sentire i secchi passi arrabbiati del medico che se ne va, nel corridoio. Continua, "Voglio dire, se ti va. Puoi rimanere qui," sbadiglia di nuovo, e oh, perché mai è così stanca, "se vuoi. O puoi dormire nelle stalle," la voce si fa più gentile, "Perché fai così, eh? Ma tutto ok. Non giudico. Beh, un poco giudico…" si strofina l'occhio. Kristoff sembra avere una disputa interna, senza dubbio con Sven. E’ in piedi sulla soglia della porta. In piedi. In piedi

Si alza all'improvviso, troppo veloce, e il mondo vortica. "Woah."

"Ehi, furia scatenata," fa, lasciando che la porta si chiuda, e si avvicina al lato del letto. La spinge di nuovo giù sui cuscini. "Rilassiamoci, ok?"

"No," lotta, spinge via il braccio, ma è come lottare contro un carro spazzaneve, "la tua gamba, come—non era rotta?"

Kristoff abbassa lo sguardo, sollevando una gamba come se non sapesse come usarla, e poi dice, "Ma—voglio dire, mia madre—l’ha aggiustata. Non è la mia vera madre. Adottato, sono stato—adottato—comunque."

Vuole dirgli che l'aveva capito, dalla, sai no, cosa dei troll, mentre se ne sta lì in piedi, sfregando il pavimento col piede. Vuole anche chiedergli spiegazioni, ma il mondo vortica ancora e si rende conto che non è il momento giusto. Fa alcuni lenti respiri dal naso, e finalmente riesce a far funzionare la bocca. "Quindi, tutto ok?"

"Quasi." Le fa un sorriso storto. "Dovresti dormire."

"Lo so," e lo sente arrivare di nuovo, come un lupo che si preparava a balzare o così—ma i lupi balzavano? Faceva schifo con le metafore—dà dei colpetti con la mano al letto, accanto a lei, senza arrossire perché non pensa a niente tranne che sonnosonnosonno. Sbadiglia. "Sembri…distrutto…" chiude gli occhi, ascoltando il rumore tenue degli stivali di Kristoff; sembrava come se stesse camminando sulla neve, e non su marmo o legno o qualunque cosa fosse il pavimento. Lo sente tirare le tende. La luce viene offuscata. Passo-passo-passo. "  ‘ono stanco…"

"Anche io."

E poi sente un bacio rapido, timido, al lato della testa, l’unica parte di lei visibile da sotto le coperte visto che ha freddo. "Sono contento che stai bene. Ma non farlo più, ok?."

"Fare che?"

Pausa. Riesce a immaginarselo guardare di lato. "Sai no. Farmi preoccupare e così."

"Non prometto niente, tranne che per il così," sospira-sorride. Lo sente rannicchiarsi accanto a lei e riapre un occhio. "Che stai facendo?"

Kristoff si è raggomitolato sul pavimento, proprio sotto al suo lato del letto.

"Kristopher," e non riesce a metterci abbastanza rabbia; è troppo stanca. "C’è un’intera metà del letto, qui. Prometto di dartene, cioè, almeno un terzo."

L’espressione di puro terrore sul suo viso è ridicola, ed è troppo stanca per sentirsi offesa.

"Beeeeeeene, dormi sul pavimento, cavolo." Allunga il braccio alla cieca dietro di sé, prende il cuscino in più, e glielo lancia in testa. E poi fa per togliersi la coperta.

"No," dice, "tienila. Sono abituato al freddo."

E Anna, come un sogno che si ricorda a metà, richiama alla mente quando era stretta vicino a lui in quella piccola fessura, che si sentiva, per la prima volta da quando tutta quella—storia era iniziata, al caldo. Rabbrividisce sotto la coperta. Ascolta Kristoff sistemarsi sul pavimento. La stalla sarebbe stata più comoda, a questo punto. Si sente male. Si sente stanca.

Fa cadere la mano. Kristoff la prende.

E, così, si addormenta.


Un vento gelido la segue nella stanza. Il fuoco vacilla, poi si spegne debole. Una finestra si spalanca. Riesce a sentire gli uccellini fuori, riesce a sentire il calore del sole estivo. E poi dice, "Mi perdoni, per favore, la mia—" la mia maledizione mi sfugge ancora di mano—ma si interrompe bruscamente. Si dirige al caminetto, sfregando un fiammifero sulla pietra di cornice e lanciandolo nel legno ancora ardente. Ha deciso di lasciare la finestra aperta, lasciare la finestra aperta avrebbe—il sole, e—

Elsa guarda in su, e poi deve forzarsi a non fare un passo indietro, ad afferrarsi alla scrivania. Sente il ghiaccio formarsi sotto le unghie. Ogni centimetro del suo corpo grida scappa.

"Regina Elsa," si inchina, e a quanto pare non si era accorto del suo passo falso.

Sono gli occhi, pensa, dopo che lo shock iniziale è diminuito, e il respiro si è calmato; dopo che si è detta calma, calma, calma.

Hanno gli stessi occhi.

Si concentra sulle altre cose. Il naso storto, le evidenti lentiggini—l’ammasso di capelli castani, che erano sfuggiti a qualunque tentativo di tenerli in ordine. Le punte erano ricce. Si concentra su queste cose per evitare gli occhi.

Quando si raddrizza, tiene la lingua tra i denti e si guarda assorto l’avambraccio, tenendo su la manica della giacca bianca. Riesce a distinguere appena i bordi di una scrittura netta e disordinata, stampata lì sopra. Guarda prima lui e poi lei, rapido, e poi dice, abbastanza sconsolato, "Ho solo—ah, preparato una cosina, ecco, mi permetta—" Tossisce. Si inchina di nuovo. "Regina Elsa. Sono il Principe Albert, dodicesimo figlio della corona delle Pisole del Sud—Isole," fa una smorfia, "ha, si è un po’ sbiadito—e desidero ringraziarla formalmente per—avermi ricevuto al suo—cestello." Alza gli occhi. Li riabbassa. Corregge, in fretta, "Castello. Il suo castello."

Gli occhi di Elsa schizzano alla scrivania, e alla lettera poggiata sopra. Inizia a maledirsi, il ghiaccio le si forma attorno ai piedi, perché non l’aveva letta l’avrebbe dovuta leggere che cosa avrebbe dovuto fare ora

"E, uh, questo è sbavato," borbotta sottovoce. Si morde di nuovo la lingua, e poi lascia andare la manica con un sospiro. Quando i loro sguardi si incrociano, il ghiaccio sotto i suoi piedi aumenta. Spera che non se ne sia accorto. "Volevo solo porgere le mie scuse ufficiali, per essere mancato alla sua incoronazione."

Elsa batte le ciglia. Stringe le mani. Dice, "Come, scusi?"

China la testa, ma non sembra essersi offeso terribilmente, per il fatto che non si fosse nemmeno accorta della sua assenza. "La sua incoronazione. Io e mio fratello Hans saremmo dovuti venire, ma ha sbagliato a darmi istruzioni nei pressi del regno di Corona, e poi una tempesta mi ha mandato fuori rotta—io e miei uomini abbiamo attraccato solo adesso."

Elsa chiede, "Solo adesso?"

"Sì. Avevo altre cose da dire—che avevo preparato—ma io—è—" si tira su la manica, e il braccio non è altro che una macchia nera d’inchiostro sbavato. Borbotta, "Per lo più erano congratulazioni e roba del genere—si sta, uhm, godendo—la reginità? L’essere regina?"

Elsa si sente galleggiare. Dice, "Mi perdoni, Principe Albert."

Esce.


Kristoff si rigira nel sonno, russando piano, e usa il braccio di Anna come coperta. Lei scivola dal letto per metà, ma non si sveglia.


La stanza di Elsa è una tempesta.

Marcia, avanti, indietro, avanti, indietro, e il ghiaccio si insinua come edera sulle pareti, fondendosi sul soffitto in una moltitudine di fiocchi di neve che brillano alla luce estiva. Il vento vortica attorno a lei, tende, lenzuola e vestiti completamente coperti dal ghiaccio. Si mette le mani tra i capelli. Avanti, indietro, avanti, indietro. Calmati. Doveva calmarsi, tutto questo non poteva uscire da quella stanza—

Dannata maledizione! Il braccio scatta di lato e l’armadio scoppia, colpito da un getto di ghiaccio. Fissa per un momento la propria mano tesa, poi i frammenti di legno spezzato, e si chiede come sarebbe, solo per un momento, essere normale, essere capace di sentire, completamente. Niente a metà. Sentire come faceva Anna. Elsa pensa che magari forse c’era la possibilità che stesse iniziando a farlo, ma questo era troppo

Si ferma al bordo del letto. Ha il respiro affannoso. E pensa, debolmente, come se ancora non fosse possibile—

Posso parlarne con Anna.

E poi pensa—

Anna si sta rimettendo.

E poi—

Ho bisogno di lei adesso.

Elsa fa un passo verso la porta, si morde il labbro, si ferma. Aveva un principe delle Isole del Sud in biblioteca e una situazione delicata tra le mani e non aveva dormito e—

Esce dalla stanza, chiudendo la porta sulla piccola tempesta. Tre, quattro passi, ed eccola alla porta della sorella. Si ferma proprio prima della maniglia; poi, sfogando la propria preoccupazione sul suo labbro, la apre, cercando di ignorare la traccia del proprio ghiaccio che si insinuava sul telaio mentre lo faceva.

Anna è stesa sul suo letto a metà, la fronte appoggiata alla spalla di Kristoff; il venditore di ghiaccio è accovacciato sul pavimento, e le stringe una mano. Elsa chiede, "Cosa state facendo voi due?"

Kristoff si sveglia di soprassalto. Svegliandosi immediatamente, si tira  anche su a sedere immediatamente, e la sua fronte sbatte contro quella di Anna. "Ohi," sibila senza energie, e poi perde l’equilibrio e cade dal letto. È un pasticcio, tutto, ed Elsa è sicura che il bernoccolo extra non avrebbe fatto bene al cervello già ammaccato di sua sorella, ma questo—"Hai detto che ti saresti assicurato che era sistemata," fa, rigida.

È troppo.

"Uhm," Kristoff risponde, guardando la mano che stringe, e Anna mezzo stesa addosso a lui.

"Gli ho chiesto io di restare," Anna replica, sedendosi, massaggiandosi la testa, "Era distrutto. C’è qualcosa che non va?"

"Questo!" Elsa dice—c’è un principe nella sua biblioteca e un uomo in camera di sua sorella e questo—"Pensi che visto che sei una principessa puoi fare quello che vuoi senza pensare alle conseguenze?" Il vento aumenta, insinuandosi nelle fessure.

"Perché ti arrabbi tanto?" Anna risponde. Stringe gli occhi. "Stava dormendo sul pavimento!"

"Anna," Elsa chiude gli occhi, pregando affinché le venga data pazienza, e tutto quello che riesce a vedere è mani che si stringono. "Hai un’immagine da mantenere. La proprietà d’immagine. Non mi interessa chi sia lui, non può rimanere in camera tua senza controllo, le persone inizieranno a parlare—"

"Lasciale parlare," Anna dice, alzandosi in piedi, spazzolandosi il vestito, massaggiandosi la testa. "Io non —che t’importa, e ok, Elsa, scusa, non per essere deprimente, qui, ma nessuno non parlerà di nient’altro che della tua crisi col ghiaccio —che, sì, è stata colpa mia, ma—"

"Per favore, vattene," Elsa dice. Kristoff si alza. Il suo viso è rosso.

"Sì. Certo."

"Elsa—"

"No," Elsa dice piano. Il vento si alza, la temperatura precipita. Se Anna è troppo agitata da accorgersene, Kristoff no. "Sei una principessa, Anna. Ecco una responsabilità che deriva dall’apertura dei cancelli. Non si tratta più solo di te."

Kristoff, che aveva preso il berretto per schiacciarlo tra le mani, dice ad Anna, "Ci, uh, vediamo dopo." Ha gli occhi piantati a terra. Si ferma da Elsa. "Io—solo che—mi dispiace."

Elsa annuisce prendendone atto. Ecco l’edera di ghiaccio, sul muro. La porta si chiude. Guarda Anna, mezza aggrovigliata nella coperta, i capelli un pasticcio, con gli occhi torbidi e col bisogno di dormire ancora, e lo sa subito che non può parlare con sua sorella di queste cose, che era una stupida, sciocca idea, che se non fosse mai entrata questo litigio non sarebbe mai successo—

"Perché?" tutto quello che Anna chiede.

"Ti ho detto perché," Elsa dice, voltandosi. Testa alta, collo rigido. Il vento cala, il ghiaccio si ritira. "Sei una principessa, Anna. È ora che inizi a comportarti da tale."

"è per questo che sei venuta qui? Per urlarmi contro?"

Elsa si ferma alla porta. Mentire è semplice. "Per vedere come stavi."


Kristoff scivola piano nelle stalle. Fa caldo, e c’è puzza di cavalli e fieno. È tarda mattinata, ma sembra tarda notte, gli occhi pesanti, appiccicati, le braccia e le gambe molli. Crolla nel mucchio di fieno più vicino. Dopo alcuni momenti sente un piccolo strattone alla camicia.

"Ehi, amico."

Sven muove le labbra.

"No, sì, Anna sta bene." Prende il berretto e se lo appoggia sul volto. Sa di sudore, sembra oscurità. "Che c’è che non va, allora?" Sven vuole sapere. "Beh, non c’è niente di meglio dell’essere ricordati della questione della principessa. Di nuovo." Sven gli domanda, "Da chi?" Risponde, "Dalla regina Elsa. Capisco. È una principessa. Io no." Sven chiede, "Quindi vuoi essere una principessa?"

Kristoff solleva il berretto tanto quanto basta per guardar male l’amico.

È stanco. Era stato indiscreto, qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere, ma dopo aver sentito il respiro farsi sempre più debole per tutta la notte e averla portata dai troll e sua mamma e dopo tutto quello che era successo, tenersi un po’ per mano—

Ma la proprietà di immagine. Elsa aveva ragione.

Kristoff chiude gli occhi.

"Perché le cose non possono mai essere semplici," geme.


"Suppongo che—i litigi arrivino con—il territorio, no?" Anna brontola, infilandosi una scarpetta, e poi l’altra, e poi inciampando, con un oof! Fuori dal letto. Cade sul pavimento e si fa male, e questa volta non c’è nessuno ad attutire la caduta. Rimane seduta lì per un minuto, cercando di fermare le vertigini. La mano che Kristoff aveva tenuto stretta è ancora calda.

Si abbraccia le ginocchia, appoggiandovi la fronte. Il pavimento era freddo, e anche lei. I venti provocati da Elsa si erano scatenati, là dentro. E lì, in un angolo del soffitto, c’era una singola stalattite di ghiaccio, il colore delle campanule d’estate, ritorto e spezzato e assolutamente bello. Vorrebbe poterlo fare. La cosa della magia del ghiaccio. E la capisce. La questione della principessa. Ok, forse non è che la capisce, capisce proprio, ma—beh, ci sta arrivando. E forse far rimanere Kristoff in camera con lei da soli non era stata un’idea delle migliori—anche se non è che stavano facendo—

Facendo—

Hnn—o—niente.

Non che hnnare con Kristoff fosse una cosa brutta o un’idea di cui lamentarsi, in realtà era una bella idea, ma pensava anche alle porte aperte e a trovare il proprio posto e a prendersi il proprio tempo—ma era difficile quando tutto era nuovo e roba così e—

Fa un respiro profondo. Si siede. Ok, non era questa la ragione. La ragione di tutto ciò è che anche Elsa aveva una ragione. Un sacco di ragioni. Troppe ragioni.

E una parte di Anna le dice che Elsa non era entrata solo per vedere come stava. Una parte di Anna le dice che Elsa l’avrebbe lasciata dormire.

Il che significa che qualcosa non andava.

Si alza dal pavimento, aiutandosi col letto. Scivola fino alla porta. È la maestra di come si impiega minor sforzo possibile per ottenere il massimo risultato—cade sulla maniglia, ed è ancora fredda. Fuori il sentiero di ghiaccio porta fino all’atrio, fino alla stanza di sua sorella.

Non si ferma davanti alla porta. Non lo fa più, non bussa nemmeno—si fionda dentro, già parlando, già—"Elsa? Mi dispiace. Voglio dire, per Kristoff. Suppongo che posso dirti che non stavamo—facendo niente, perché di queste cose si parla tra sorelle, no? Non lo so. È tipo…già…" Anna smette di parlare. La stanza è un macello. L’armadio è ridotto in pezzi, nell’angolo, e il legno è sparso per il pavimento. Sembra un relitto. I muri gocciolano, il ghiaccio si sta sciogliendo, e i vestiti di Elsa sono arrotolati a terra.

Anna è colpita da un improvviso attacco di vertigini. Si copre la bocca, scivolando senza grazia fino al letto della sorella. Le coperte erano l’unica cosa miracolosamente asciutta, grazie al baldacchino di sopra. Si stende per un momento, respirando dal naso, espirando dalla bocca, provando a sopprimere la nausea.

Il baldacchino è un noioso blu scuro. Quanti anni aveva passato, sua sorella, a guardarlo?

Anna si raggomitola su un fianco. Il letto aveva l’odore di una mattina d’inverno.

Chiude gli occhi.


Elsa è di nuovo nella sala dei ritratti, e guarda le porte bianche che danno nella libreria. Sta dando forma a un piano—cioè, una lista di quello che sa, e la speranza che ne venga fuori qualcosa.

Il Principe Albert delle Isole del Sud è dall’altro lato di quella porta.

Il principe Albert delle Isole del Sud, dirottato, non era a conoscenza del tradimento di suo fratello, né dei poteri di Elsa, né dell’inverno-durante-l’estate.

Il problema era, cosa fare col Principe Albert.

Si sarebbe offeso, se gliel’avesse detto e basta? Avrebbe preso la spada e—

Elsa scuote la testa. Iniziava a sembrare sua sorella. C’era una pecora nera in ogni famiglia.

 Dopo tutto, pensa piuttosto cupa, facendo galleggiare un fiocco di neve sulle nocche, guardate lei.

Apre le porte. Il principe chiude il libro che stava leggendo con un colpo secco, e un’espressione colpevole, ri-infilandolo a forza nello scaffale. Esclama, "E’ Tristano e Isotta. Lo leggo per le parti in cui combattono con la spada." Fa un mezzo sorriso. Quando lei non ricambia, scivola via dal suo volto.

Elsa dice, "Principe Albert. Forse dovrebbe sedersi. Ci sono delle…cose di cui ho— ho bisogno di metterla al corrente."

E in quel momento la porta alle sue spalle si riapre. Sente il brivido della propria magia. Olaf chiede, "Elsa? Pensavo solo che dovresti sapere che Anna è in camera tua. E poi, qualcosa ha distrutto il tuo armadio," conclude, con un sussurro.

Il principe sposta lo sguardo tra lei e il pupazzo di neve che batte le piccole mani, avanti e indietro.

Il principe dà di matto.


"Ciao, fratello. Cielo, sembri così arrabbiato! Le sbarre di metallo non si addicono a uno con la pelle chiara e delicata come la tua."

"Sei qui per gongolare?"

"No. Immagino che già ci abbiano pensato abbastanza gli altri. Ci hai provato. Non posso incolparti per averlo fatto. Impariamo dai nostri errori, e tutto il resto. Forse la prossima volta mirerai un po’ più in basso."

"Come hai fatto tu? Tu, che ti accontenti di rimanere nelle ombre—"

"Ah, fratellino. Sono abbastanza contento della mia posizione. Forse, se lo fossi stato anche tu, adesso non saresti lì a mangiare senza il tuo cucchiaio d’argento."

"Sta zitto."

"Hans. Pensavo di averti insegnato qualcosa."

"Nessuno di voi mi ha mai insegnato niente."

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 

Capitolo 5

 

"Vuoi un po’ di cibo? So che lo vuoi, bello! So che lo vuoi! Qui, cagnetto, qui!"

"Oh, sembra così triste, bloccato dietro quelle sbarre. Sei sicuro che non vuoi questa bella bistecca? Cottura media, proprio come piace a te. L’ho fatta preparare appositamente dal cuoco—anche delle patate, come contorno, e questa—mmm—pagnotta calda. Di certo sarebbe meglio di quella spazzatura da prigione che ti danno da mangiare."

Hans si guarda le mani, strette a pugno in grembo. C’è dello sporco incrostato sotto le unghie. La giacca bianca è diventata una specie di grigio polveroso. Il pranzo è ancora a terra, intatto, nell’angolo della sua cella—pappetta, vecchia di tre giorni, come minimo; i rimasugli delle cucine. È del colore e della consistenza del fango. Si guarda le mani, i piedi, e guarda il pranzo stantio—ovunque tranne che in direzione dei due uomini in piedi proprio fuori la cella.

Ma è difficile, con l’odore fresco del pane caldo, dorato, e delle patate in crosta di burro; con il profumo della carne succosa e sfrigolante che si diffonde. Non aveva mangiato così bene da quando aveva lasciato Arendelle.

Si sfrega la mascella.

"E dai, fratellino, forza! L’abbiamo fatta fare apposta per te."

Si volta. Dice a se stesso che si sta voltando perché se non fa quello che vogliono che faccia, non staranno zitti—lo sapeva dal momento in cui i loro passi avevano fatto eco giù per le scale che conducevano alla prigione. Si alza, sollevando le code della sua marsina dietro di sé. Mantiene la testa alta. Non serve piangersi addosso, non serve a niente—fa due passi, fino a premere il proprio corpo contro le sbarre, e poi, lentamente, allunga la mano verso il piatto di cibo.

Viene fatto cadere sul pavimento cupo. Il piatto di porcellana si rompe, il pane si sporca, nero; le patate si spiaccicano come sangue bianco e la carne si rovescia, ormai poco invitante.

"Oops. Che stupidino."

I due uomini scoppiano in un attacco di risate rauche. Hans mantiene la testa alta, il suo volto una maschera, ma lo capiscono, probabilmente, sai suoi occhi—è furioso, violento, e se solo fosse fuori da quella stupida cella li assassinerebbe in un istante, tutti e due—

"Viktor! Tomas! Basta così."

I suoi fratelli, gemelli, diventano seri immediatamente, tenendosi languidamente sottobraccio. Si voltano verso il corridoio, le torce traballanti che stagliano i loro volti in bassorilievi affilati.

"Vessare vostro fratello non mi sembra affatto un degno passatempo, adesso che siete cresciuti—nonostante sia una tradizione a cui fate onore da tanto tempo."

"Vostra maestà," Viktor e Tomas si inchinano all’unisono. Hanno il viso contorto in una smorfia. Tomas continua, "Ci stavamo solo divertendo un po’."

"Divertendo?" Hans ringhia. Si lancia contro le sbarre e afferra Tomas per il bavero della giacca. Ha l’effetto sorpresa dalla sua parte, o non sarebbe mai riuscito a smuovere suo fratello di un millimetro. "Come quando avete fatto finta per due anni che fossi invisibile? Quel tipo di divertimento?"

"Hans, ti prego. Calmati." Ed eccolo lì, il Re delle Isole del Sud, in tutta la sua gloria baffuta. Hans digrigna i denti. Viktor lo spinge all’indietro violentemente, e la spinta lo fa finire nel lettino della cella. Tomas si massaggia il collo, con l’aria omicida. Il re dice, "Prendetemi una sedia."

Viktor corre ad accontentarlo, sferragliando fino al posto di guardia vuoto, e ne trascina una di legno mentre Tomas si scrocca il collo. La sedia è sistemata. Il re si siede. Dice, "Lasciateci soli."

"Goditi la cena, fratello," Tomas afferma con un ghigno malevolo, calciando il piatto rotto e i pezzi di carne e pane all’interno della cella, facendo passare i resti tra le sbarre, dove coprono metà del pavimento. Hans ascolta i loro passi svanire nel corridoio, su per le scale. Appoggia testa e schiena contro il muro, e fa un ghigno pigro, beffardo, in direzione del re.

Quell’uomo era solo suo fratello, dopotutto.

"Non pensavo saresti venuto," Hans fa, spazzando via la polvere dalle maniche della giacca. "Sono venuti tutti gli altri. Beh. Tutti gli altri ancora vivi."

"Hai ucciso Albert?"

"Uccidere il mio stesso fratello? Perché mai dovrei commettere un crimine tale?" Hans si lecca le labbra. "Oh, quasi grave quanto uccidere il proprio padre." Volta la testa lungo il muro, fissando suo fratello con un’espressione piatta. "Non credi?"

Il silenzio stava per soffocarlo.

"Hans," comincia il re alla fine, allacciando le mani avanti a sé, la bocca una linea sottilissima, espressione del pensiero più sottile, "è tuo desiderio restare in questa prigione?"

Hans pensa al trono di Arendelle e quasi prende a pugni il muro.

"Rispondimi."

"No," scatta.

"Beh, questo è quello che il consiglio chiede a gran voce. Tuo fratello, scomparso; Arendelle—"

"Non parlarmi di Arendelle," Hans ringhia.

"Cosa, non parlarti dell’errore che hai commesso? Avresti potuto avere un regno, e invece hai una cella. Ti si dovrebbe ricordare ogni giorno del tuo errore. Di quello che hai fatto perdere alle Isole del Sud."

"Non ci ho provato per te," Hans dice, guardandolo male, e suo fratello se ne sta seduto lì, con un sorriso condiscendente sul viso. "Sarebbe stato il mio regno," si posa una mano sul petto, "il mio trono!"

"Oh, Hans," il re gli sorride. Si stende all’indietro, nella sedia di legno. "Ma dimmi, dov’è Albert?"

"L’ho mandato nella direzione sbagliata," Hans parla alle proprie scarpe. "All’altezza di Corona."

"Ah. Niente competizione, allora, per—amore, si chiama così?"

Hans pensa alle porte. "Una cosa del genere."

"Beh, fratellino. Che pensiero curioso e pittoresco. Ma dimentichiamoci dell’amore, e rivolgiamoci invece a questa situazione imbarazzante a cui ci hanno condotto le tue azioni. Parlami," Re Alfons fa lentamente, reclinando la testa, "della Regina Elsa."


Elsa pensa che l’incontro possa andare, tutto sommato, meglio di così.

Il principe sbatte le palpebre. Olaf anche. Eccoli lì, al centro della biblioteca, mentre si fissano a vicenda, ma questo solo dopo che il principe ha staccato con un calcio la testa del povero Olaf—

"Elsa," fa il pupazzo di neve, parlando a mezza bocca, senza rompere il contato visivo con l’uomo piegato a osservarlo, "Te lo dico perché ti voglio bene, credo che faresti meglio a scappare."

Elsa si stringe forte le braccia al petto.

"Quindi sei—sei un pupazzo di neve," il Principe Albert ripete, "e tu—e tu," i suoi occhi continuano a spostarsi su di lei, e poi di nuovo all’avambraccio, come se fosse pronto a dare qualsiasi cosa per avere un appunto da leggere, "tu sei vivo."

Olaf allunga le dita. "Credo si sì, sì."

"Beh," il principe fa un colpo di tosse, portandosi la mano alla bocca. Si inginocchia, così da essere finalmente con gli occhi a livello di quelli Olaf, "Chiedo scusa per averti preso la testa a calci. Non mi piace molto quando le persone danno a me i calci in testa, quindi cerco di non farla diventare—una pratica comune—" si schiarisce la gola. "Sì. Comunque."

Porge la mano. Olaf batte le proprie, eccitato. "Oh! Oh, una stretta di mano! Ecco qui," e il pupazzo di neve si stacca un braccio, tenendolo con quell’altro, e allunga l’intero marchingegno in direzione del principe. Da un lato della bocca Olaf fa, "No, sul serio, Elsa, scappa."

"Grazie, Olaf," Elsa fa con una smorfia, osservando la stretta di mano. Il pupazzo di neve si riattacca il braccio. "Perché non vai a controllare Anna? Per me?"

"Te l’ho detto, Anna è in—"

"Puoi ricontrollare?"

Olaf annuisce con forza. Trotterella via dalla stanza, ma mentre se ne va incurva due dita verso i suoi occhi, e poi le punta in direzione del Principe Albert. Elsa geme, lasciandosi cadere la fronte tra le mani.

"Sono davvero spiacente per il calcio che gli ho dato," Il Principe Albert dice appena la porta si chiude, ed Elsa non sa se abbia la testa tra le nuvole o sia solo gentile. "è davvero solo una specie di riflesso involontario. Mio fratello era solito esercitarsi coi suoi incantesimi in camera mia, e trovavo ogni genere di cose—sa, teste e corpi e—ma non c’era bisogno che le dicessi questo, mi dispiace. Ha. Questo è il motivo per cui di solito mi preparo i discorsi."

Lo guarda, sentendo i propri gomiti scavarle nei fianchi, e non può fare a meno di chiedere "Suo fratello ha—della magia?"

"Uno di loro. Un po’ di magia. Non è—è come—" contorce la faccia in una specie di smorfia, come se qualcuno gli avesse appena sputato nella zuppa, e Elsa riesce a fare un piccolissimo, quasi sorriso. Il principe lo ricambia timidamente. "Comunque, se riesce a fare pupazzi di neve parlanti, la sua magia è già molto più utile di quella di mio fratello. È questo quello che mi doveva dire? Ghiaccio magico e pupazzi di neve che parlano?"

E tutto ritorna a crollarle addosso.

Elsa guarda la scrivania, e la lettera intatta sopra. Guarda gli occhi di Albert e riesce a vedere solo gli altri. Non sa come dire tuo fratello è un traditore che ha tentato di uccidermi senza risultare offensiva, ed è esausta—stanca fino al midollo, parecchie notti di sonno mancato e niente riposo che si fanno sentire. Dice, "Deve essere affaticato dal viaggio. Perché non si riposa, e si unisce a me, più tardi, per cena?"

"Uhm, sì, va bene—ma le—informazioni—"

"Possono aspettare fino a domani, quando i nostri nervi saranno un po’ meno provati, non crede?"

Il Principe Albert annuisce. Sembra così insicuro, in piedi lì, nella biblioteca, con le spalle vagamente incurvate. Cammina verso le porte e le apre. C’è una guardia. "Per favore scortate il Principe Albert fino alla sua nave," ordina a voce alta. Poi, sottovoce, di schiena, "E tenetelo d’occhio."

La guardia annuisce, quasi impercettibilmente, e sente il principe spostarsi dietro di lei. La supera, quasi sfiorandola, ridendo imbarazzato, e poi è fuori in corridoio, lisciandosi la giacca e guardandola con quegli occhi. "Immagino che ci vedremo a cena, allora," dice con un mezzo sorriso, ed Elsa pensa, inarcando le sopracciglia, che forse stia cercando di essere nonchalant, di fare il disinvolto—ma poi inciampa. Elsa si morde il labbro. Si raddrizza in fretta, fa un inchino impacciato, formale, e prosegue per il corridoio, la guardia che lo segue a ruota.

Elsa tira un sospiro di sollievo.


"Anna, stai ancora bene?" Olaf le sussurra all’orecchio.

"No, Olaf, mi sa che sto per morire."

"Davvero?"

"Noo," risponde con un sorriso, sedendosi. Sbadiglia, stiracchiandosi con aria deliziata. "Mi sento sorprendentemente riposata. Commossione, chi lo sapeva, eh?"

"Non so cosa sia." La punta del naso-carota di Olaf spunta dal margine del letto. "Elsa stava parlando con un uomo strano."

"Parlava con un uomo? Huh. Sarebbe la prima volta."

La porta della camera da letto si apre. Si chiude. Ecco sua sorella, insicura, in piedi davanti all’entrata, con l’aria di una che crede di non trovarsi a proprio agio in camera sua, con le braccia strette strette al corpo. Anna si appoggia il mento sulle mani, e chiede, maliziosa "Un uomo, eh?"

"Olaf, che le hai detto?" Elsa chiede in fretta, quasi seccata.

"Solo che stavi parlando con un estraneo," Olaf dice, girando elegantemente sul piede rotondo e scivolando sul pavimento umidiccio, tra pozzanghere di stoffa e pezzi di legno. "Se ne è andato?"

"Non ancora, temo."

"Sai cosa si dice sugli estranei, eh?" Anna dice. "Perché io lo so. Sono diciamo, così brava a fidarmi di estranei di cui non ci si deve, è tipo—ok, sai cosa, dimentica che abbia mai parlato, facciamo—Olaf, perché non ci dai due minuti?"

"Ohhh!" Il pupazzo di neve batte le mani, con un sorriso stupido. "Ora di legami fraterni! Certo, certo." Supera Elsa, dandole dei colpetti sulla gonna, apre la porta, e proprio prima di chiuderla dietro di sé si gira per bisbigliare, "Prendetevi tutto il tempo che vi serve."

Si chiude. Anna non può trattenersi dal ridere, massaggiandosi gli occhi. Elsa chiede, "Come ti senti?"

"Molto meglio. Se non fossi una tale imbranata non avrei battuto la testa cadendo, ma mi conosci—devo sempre farla più dolorosa possibile," finisce lentamente. "Ehi, Elsa? Mi dispiace. Per Kristoff. Non stavamo—facendo niente, lo giuro, voglio dire—" la pianta di parlare, ricordandosi del sogno vago che stava facendo prima che Olaf la svegliasse—Kristoff, che si chinava verso il suo viso, e poi il suo viso si era trasformato in quello di Hans e aveva detto tua sorella è morta e non poteva nemmeno dormire in pace, vero? Eddai! "Voglio dire, non stavamo facendo niente," finisce fiacca.

"Oh, Anna. Lo so. Devi solo—pensare a queste cose."

"Vorrei che non l’avessimo fatto."

"Anche io."

"Pensi che la vita sarebbe più facile se—se mamma e papà fossero vivi?"

Anna guada sua sorella guardarsi le mani nude. "Non credo sarebbe meglio."

"Mi mancano," dice d’impulso. C’è un profondo, prolungato silenzio, ed è irrequieta, vuole correre, saltare, qualsiasi cosa—invece si concentra sui frammenti sparsi per il pavimento sella stanza. "Allora che è successo qua dentro, eh? Sembra un uragano! Voglio dire, gli uragani sono fantastici—non va male, non ti sto facendo la ramanzina. Anzi mi faccio io la ramanzina. Va benissimo, compriamo un armadio nuovo. Stai bene?"

Elsa sembra in contemplazione di qualcosa, il capo piegato, e guarda con attenzione i propri abiti eleganti sul pavimento. Fa, "Devo dirti una cosa. E ho bisogno che tu stia calma."

"Elsa, pher-favore," Anna esclama, alzando gli occhi. "Sono praticamente la persona più calma del mondo. Ho inventato io la parola calma. Una volta, ho anche esercitato la mia calmezza, e sono stata brava—era tipo meditazione, l’Attendente Reale—"

"Un Principe delle Isole del Sud verrà a cena stasera."

"Aspetta, scusa, credo di aver sentito Isole del Sud," Anna ride, inclinando la testa di lato e pulendosi l’orecchio. Quando Elsa non la corregge—non nega—"Un principe delle Isole del Sud?"

Ovvio che non fosse Hans, ma uno dei suoi dodici fratelli e sa che dovrebbe comportarsi da principessa, essere calma, essere fredda, essere, tipo—composta, o così—ma quello che vuole fare veramente proprio in quel secondo era scendere dal letto, trovare questo principe e dare anche a lui un pugno in faccia—il che era decisamente e completamente una reazione spropositata—ok, forse non decisamente e completamente, forse più—solo pochissimo spropositata—"Elsa, devi dirgli di andarsene!"

"Non posso!” Elsa geme, e non ha mai sentito sua sorella gemere. È un suono nuovo, frustrato. "Ha ricevuto indicazioni sbagliate. Sarebbe dovuto arrivare per la mia incoronazione ma è finito fuori rotta—non sa di suo fratello."

"Aspetta. Non sa di Hans?"

Elsa scuote la testa. "Ha appena fatto porto."

"Aspetta. Non gli hai detto di Hans?"

"Non so come fare!" Elsa si guarda di nuovo le mani, e Anna se ne sta seduta lì, sul letto, e non sa cosa provare. Se non avesse visto qualcuno delle Isole del Sud mai più, sarebbe stato comunque troppo presto. Quindi forse se si limitava a non pensarci solo per un altro paio d’ore—

"Vieni," alla fine tira su regalmente col naso, adagiandosi su metà dei cuscini di Elsa e dando dei colpetti allo spazio accanto a lei sul letto. "Siediti."

"Anna, io—"

"Niente Anna. Puoi e devi. Ordine della sorella."

Elsa cammina su parecchi vestiti, i resti, e piano, attenta, si arrampica sul letto accanto a lei. Sono stese fianco a fianco, fissando il baldacchino blu scuro che Anna sta lentamente iniziando a odiare, e si ricorda di un tempo in cui erano solite farlo molto più spesso. Chiede al baldacchino, "Quando è stata l’ultima volta che hai dormito, eh?"

"Sono la regina."

"Solo perché sei la regina non significa che tu non abbia bisogno di una dormita. Senti, semplicemente stenditi qui," Anna si gira su un fianco, e sembravano di nuovo bambine, che strano—"stenditi e riposati un po’, ok? E poi sarai prontissima per la cena, dove prometto che mi comporterò quasi bene."

"Non puoi menzionare niente che riguardi il fratello. Prometto che glielo dirò, ma devo farlo in un’atmosfera più controllata." Codice per: senza te attorno.

"Sono così posata. Ok, non guardarmi così, allora ok, sono per lo più posata. Ok, sai cosa, bene. Ok. Assumerò il mio migliore atteggiamento da principessa." Non dice che l’unica cosa è che non sa esattamente quanto buono fosse il suo miglior atteggiamento da principessa, ma ci doveva pur essere un inizio, no? Ecco cos’era. "Solo, dormi un po’."

"Anna?"

Si ferma, mentre stava scendendo dal letto. "Sì?"

"Vuoi solo—puoi—"

Anna guarda dall’altra parte del proprio naso. Ecco sua sorella. Ecco sua sorella, così vicina, e niente le separava, e potevano essere di nuovo bambine. Rimette i piedi sul letto. "Sì, sai cosa, in realtà, sono ancora super stanca, ti dispiace se rimango un altro po’?"

Elsa sorride, e non è un quasi. "Penso che non mi dispiaccia."

Il sorriso di Anna le prende tutta la faccia. Non dovrebbe essere permesso, essere così felici, quando uno di quei brutti fratelli faccia di deretano è lì. "Bene."

Solo un inizio.


"Ha congelato l’estate," il re rimugina.

Hans flette le mani. "Come ho detto." Pieno inverno—luce a malapena, calore a malapena, un intero popolo che moriva di fame e si affidava a lui ed era stato fantastico

"Bene, allora. Sembra che mi aspetti una chiacchierata con Niels."

Hans rabbrividisce tutto. "Perché?"

"Non preoccuparti, fratellino. Alcune questioni sfuggono semplicemente al tuo controllo, nonostante i tuoi tentativi di fare altrimenti." Il re si alza, e si volta. È una vista familiare, il retro della sua testa—Hans fissa il rancio nell’angolo. Si sente la puzza della carne e delle patate che si stanno inacidendo sul pavimento. "Dimmi, Hans." Il sovrano ha un aspetto regale, rigido e dritto, le mani dietro la schiena, e si volta appena, abbastanza da permettere ad Hans di distinguere il profilo affilato del naso alla luce della torcia. "Ho la tua completa e totale collaborazione?"

Hans si lecca le labbra. Ha di nuovo otto anni; c’è del sangue sul pavimento, accanto alla mano di suo padre. Alfons non è ancora re. Lo sta spingendo contro il muro con l’elsa e sta dicendo non dirlo a nessuno, sentito? Hai sentito? Ho la tua completa e totale collaborazione?

"Sì, vostra altezza," Hans dice alla schiena di suo fratello. "Ma certo."

Un cenno secco con la testa. "Bene. Immagino che sarai fuori dalla cella, non so quando di preciso, domani." Passo, passo, passo, lungo il corridoio, e Hans vuole che vada, vuole trapassargli la schiena da parte a parte, e se solo le cose fossero così semplici, se solo non dovesse sopportare gli altri undici stupidi che stavano tra lui e il trono—"Oh, e Hans?"

Alza gli occhi, da dietro le sbarre dritte della sua cella. "Sì?"

"Non deludermi di nuovo."

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 

Capitolo 6

 

 

"Quindi tu sei il Principe Albert," Anna chiede al suo pezzo di pane. "Il Principe Albert delle Isole del Sud. Un principe che viene da quelle isole giù a sud. Quel tipo di principe."

Elsa si volta lentamente in direzione della sorella, le narici dilatate. Anna continua a imburrarsi pigramente il pane. Caldo, fragrante, dorato. Buon pane. Il principe in questione sembra star provando a decidere quale forchetta debba affondare nell’insalata. La lotta, Anna pensa, è seria.

Posa il coltello da burro, posando lo sguardo sull’uomo di fronte a lei, il pane in viaggio verso la bocca. Eccolo seduto lì, coi capelli ricci e le lentiggini, con l’aria di uno che vuole sprofondare nella tappezzeria rossa. Se non fosse stato per quegli occhi, Anna pensa, il pane quasi alla bocca, non lo avrebbe proprio etichettato come principe delle Isole del Sud. Mentre lo osserva lui alza lo sguardo, e quegli occhi—gli stessi occhi, davvero, proprio un potere superiore, per forza—Anna si infila tutta la fetta di pane in bocca e fa un sorriso colpevole, a guance piene, in direzione della sorella

Il Principe Albert si tira su la manica della giacca. Anna, ingoiando senza masticare a respirando a malapena, nota il tratto netto della grafia scritta lì—e un piccolo schema di un piatto da cena formale, completo di tovagliolo, forchetta, coltelli—prima che il principe lasci cadere la manica, prendendo in fretta la forchetta più esterna.

"Allora, si sente ben riposato, Principe Albert?"

"Sì, maestà, grazie," risponde a bocca aperta, e poi diventa rosso scarlatto. La mano va a coprire la bocca, ingoia, and Anna lo fissa dall’altra parte del tavolo con un’espressione piuttosto stupida. Laddove Hans era stato elegante, disinvolto, aggraziato, infido e bugiardo e intrigante, quel pezzo di idiota

Si lecca le labbra, calma il respiro. Più di ogni altra cosa, pensare ad Hans la mette in imbarazzo. Ma questo tizio—dalla punta dei capelli alla suola delle scarpe, non manda, in nessun modo, segnali di regalità. Forse era stato adottato o una cosa del genere—ma quegli occhi

"Ma sei sicuro di essere un prin—"

"Anna!"

"—vato?" finisce, virando a sinistra. Guarda Elsa, che sembra quasi pregarla, ma sul serio, che voleva, sua sorella—dodici anni a mangiare coi camerieri in cucina e all’improvviso ci si aspettava da lei che tenesse a freno la lingua a cena, eddai—"Un soldato nell’esercito privato?"

"Uh, no, non sono—no," fa con gli occhi rivolti al suo piatto. "Ho dei fratelli nell’esercito, però."

"E Hans faceva parte dell’esercito?"

"Anna."

"Sto solo chiedendo. Non è che sapesse combattere o altro, voglio dire, ho preso a pugni—"

"Anna."

"—un cane una volta. Aspetta. Che?" Prende in fretta la coppa con l’acqua, ma quando l’inclina per bere un sorso, scopre che l’acqua è completamente ghiacciata. Guarda male Elsa, ma le labbra strette a filo della sorella dicono, praticamente, tutto, quindi alza gli occhi, posando di nuovo il bicchiere.

Tutto questo era infinitamente più difficile di quanto pensasse.

Specialmente con quegli occhi

"Perché non ci racconta dei suoi fratelli, Principe Albert?" chiede Elsa, educata.

No, Anna non vuole sentir niente su quelle persone orrende. Sospetta che la famiglia intera sia psicopatica, sotto sotto. E poi, il tipo di fronte a lei probabilmente sta solo facendo finta di essere un agnellino innocente, sul serio—

"Beh, Alfons è il più grande. Il re. Suo fratello gemello, Lukas, è un generale nell’esercito, come Marcel. C’è, uhm, Stefan, che si diverte a scrivere commedie, e Josef e Rupert—anche loro l’esercito—" Anna lo osserva. Dalla voce non trapela granché. Tiene su le dita e li conta come pezzi di carne. "Felix—beh, lui è—Felix è—andato." Andato? "E poi Niels—è lui lo stregone," rivolge l’ultima a Elsa, e lei annuisce, e Anna perde il filo. "Tomas e Viktor, anche loro gemelli, e poi Fredrik—è via a combattere con Marcel, al momento, o sarebbe qui anche lui—e poi io, e beh. E poi Hans."

"Sì, sappiamo tutto di Hans," Anna borbotta cupa tra i bocconi d’insalata.

"Si è comportato bene, spero?" Il Principe Albert guarda in su, sorridendo in fretta, ma svanisce altrettanto in fretta. Tossisce sulla forchetta. "Questa lattuga è fantastica," dice, e poi sobbalza.

Anna pensa che, sul serio, non era possibile che ci fossero due fratelli più diversi sulla faccia della terra. Poi guarda Elsa.

Beh. Forse stava un po’ esagerando.

Prende un’altra fetta di pane.


Toc, toc, toc.

La porta si apre con un cigolio, e nella stanza dietro c’è puzza di marcio e rovina. L’aria è viziata, stucchevole. Una grande finestra panoramica, dall’altro capo della stanza, lascia entrare i raggi del sole morente, ma sembra smorzato, e fasullo. Re Alfons si blocca sulla soglia, stringendo le labbra.

"Vostra maestà." Una voce, dall’angolo. "A cosa devo il piacere di questa visita?"

"Piantala con le formalità, Niels," replica, facendo un passo avanti nelle tenebre e lasciando che la porta si chiuda dietro di sé. Immediatamente si sente soffocato, schiacciato al suolo.

"Mi limito a seguire il protocollo, fratello."

"Ma certo."

"Dimmi, come procedono i tuoi studi?"

"Bene."

C’è un uccello—un corvo—infilzato su uno dei tavoli, e si dibatte ancora, nel bel mezzo della sua agonia. "Eccellente. Ho una richiesta per te." Sta per venirgli una terribile emicrania, un battito tribale nelle tempie.

"Sì?"

"Sono in cerca del miglior modo per eliminare una minaccia."

Intravede il lampo bianco dei denti di Niels nel crepuscolo morente, strozzato. "Ah," è tutto quello che dice.

Alfons serra la mascella. Niels non era Hans, che si poteva spingere con la paura a collaborare. Era viscido come un’anguilla, e due volte più intelligente. "Ovvio, Il tuo aiuto sarà ricompensato. Oro, gioielli—"

"Un posto nel consiglio, magari?"

"Non ci sono posti vacanti."

"Beh. Sono sicuro che possiamo farci qualcosa, non credi?"

"Sì," Alfons risponde. "Ovvio."

"Giuralo su qualcosa a cui tieni."

Pausa. "Lo giuro sulla mia sovranità."

"Bene. Ora, che genere di minaccia stiamo affrontando, in modo da avere qualche base?"

"Ghiaccio," Alfons dice. "Ci troviamo di fronte al ghiaccio."


"Ugharhghh!"

Anna si fionda nelle stalle come una specie di uragano forsennato, la porta che sbatte contro il muro e la sua silhouette profilata dall’unica lampada che splende accanto alla porta. Kristoff, che ancora si sta svegliando dal suo sonnellino pomeridiano, che ancora cerca di capire dove si trova, si tira su a sedere all’improvviso nella sua pila di fieno e riesce a dire, "Cos’è che va a fuoco?"

"Se essere una principessa significa presenziare a cene imbarazzanti con i fratelli del quasi assassino di tua sorella, allora no grazie."

"Che?" Kristoff si strofina un occhio. Il berretto gli scivola dalla faccia al mento al petto. Sven sbatte le palpebre assonnato accanto a lui, schioccando le labbra da renna. "La sorella assassina del fratello—"

"No, un fratello del quasi assassino di mia sorella, tieni il passo, Kristopher."

"Uh, già." Ci arriva lento, come un’onda. "Aspetta. Che?"

"Esattamente quello che voglio dire." Si lascia cadere drammaticamente nel fieno accanto a lui, col collo e le braccia scoperte, senza preoccuparsi del pomposo vestito verde che si spiegazza. Una delle maniche di seta scivola giù fino quasi al gomito. Ingoia, cercando di non fare caso alle lentiggini sparse sulla clavicola ed era davvero troppo presto per questo, solo che non era presto, era tardi, non è vero—allora era davvero troppo tardi per questo

"Rallenta," tossisce, anche se lei non si muove, non parla e niente. "Che succede?"

"Il Principe Albert," dice, facendo una voce tutta altezzosa, "è venuto a cena." Anna sta affondando nel fieno, ma non fa niente per evitarlo, fissa solamente il soffitto delle stalle e sputa fili di paglia a caso via dalla bocca. Una ciocca di capelli si era sciolta nel suo attacco di collera, e adesso è proprio nel bel mezzo della fronte. Allunga la mano per portarla all’indietro, e poi pensa no, non lo fare, e poi pensa basta—no, vai—no—così, la sua mano barcolla incerta per tutto il tempo e alla fine cade dietro di lui.

"Dovrei conoscerlo?" chiede. E poi sobbalza. Quante altre prove di non sono nobile gli servivano?

"è il fratello del principe Hans."

Si siede, totalmente e completamente sveglio. "E tua sorella l’ha ammesso a palazzo?"

"A quanto pare si è perso l’incoronazione per sbaglio, ma l’ho smascherato in meno di un minuto Arendelliano. Fa la parte dell’ingenuo di campagna—"

"A palazzo?"

"Kristoff, per favore." Gli occhi di Anna trovano i suoi. "Tieni il passo."

"Beh, e lo sa? Quello che ha fatto suo fratello?" le chiede piano. La spada levata contro la schiena della regina era stata orribile, terribile, ma non era stato tanto quello—non era stato tanto quello che l’aveva tenuto sveglio di notte nell’ultima settimana, ma immagini di Anna barcollante nella tempesta di neve, mani di ghiaccio, braccia di ghiaccio, cuore di ghiaccio—

"Non ancora. Elsa dice che gliene parlerà." Anna sospira, agitando le braccia ai due lati, come se stesse facendo un angelo nel fieno. Una di loro gli colpisce il petto. "Non lo so proprio. Mi piace avere i cancelli aperti, ma rende le cose più—complicate. Ma ehi! Almeno ho te!"

"E questo che significa?"

"Sai. Questo," si volta sul fianco, e alza gli occhi verso di lui. Deglutisce; l’unica cosa che lo tiene coi piedi per terra è il masticare di Sven. Si lecca le labbra. Vuole dire questa cosa è tutt’altro che lungi dall’essere complicata, ma lei è stesa lì e lui non ce la fa, quindi non lo fa. Si limita a stendersi accanto a lei, le mani dietro la testa. Vuole chiederle cos’è questo, ma non ci riesce.

"Beh, andrà via presto, no?" dice invece. "Non mi piace avere qualcuno, chiunque delle Isole del Sud che ti gira attorno. Voglio dire attorno al palazzo. Attorno ad Arendelle."

"Oh, Kristopher. Ma allora ti importa."

"Stai zitta."

Anna sorride.

"Alle cucine il ghiaccio sta per finire," mormora rivolto al soffitto. "Dovrò partire, presto."

"Posso venire con te?"

"Dopo l’ultima volta? No."

"Psh. Come vuoi. Ti perderai le mie magnifiche capacità di cavare il ghiaccio. So cavarne così tanto. Tanto così. Stai guardando? Guardami, tanto così. Kristoff, guarda."

Come risposta le lancia in faccia un po’ di fieno. Sputacchia quando le va a finire in bocca e nei capelli e si vendica lanciandoglisi addosso. Non sa di preciso, quando gli crolla distesa sul petto, cosa voglia fare, finchè lei non ne prende una manciata vicino alla testa e glielo lancia negli occhi. "Porca—"

Le afferra le braccia. Un polso sottile, in ognuna delle sue grosse mani. Dalle risate le manca il respiro. A lui manca solo il respiro. La lanterna brilla di luce calda, e i cavalli nitriscono nei recinti. Si poggia su di lui come un colibrì, e si rende conto che praticamente lo è, e non atterra mai, non si ferma mai. Può contare le lentiggini che ha sul naso.

Vuole chiederle, posso baciarti, ma lei si sporge all’ingiù, le labbra che quasi sfiorano le sue. Anna muove la testa, mordendosi il labbro. Le sistema le mani sul proprio petto e lascia andare quei polsi sottili e appoggia le dita ai lati del viso, i polpastrelli che le scivolano sulle guance, raggiungendo la massa liscia, rossiccia dei capelli. Dice, "Non farla complicata, huh?"

"Molto non-complicata," risponde con un sorrisetto veloce. "Vedi, è semplice. Io voglio baciarti. Tu vuoi baciare me. Quindi dovremmo solo—"

Kristoff si allunga all’insù e le cattura le labbra con le sue. Il suono che Anna fa si trasforma da indignato a compiaciuto, fermandosi da qualche parte nel retro della gola. Le mani di lei stringono la camicia tra i pugni, poi percorrono il suo petto-è tutto così nuovo, pensa piuttosto lucido, la sensazione di un’altra persona, con le labbra che si muovono contro le sue, mani e piedi e—la cosa più importante—batticuore—si stacca, tracciando un percorso di baci giù per il collo, fino alla liscia e lentigginosa distesa della spalla, e lei sussurra, "Kristoff."

Si ferma. Guarda in alto. C’è una specie di calore che aumenta nel suo ventre. Lei è lì, sopra di lui, delineata dalla luce delle lampade, il fieno nei capelli, e la treccia scompigliata. C’è qualcosa intorno agli occhi di Anna che non riesce a leggere, e pensa, con una paura improvvisa, e un’improvvisa stretta al petto, di aver fatto qualcosa di male—ma le mani le aveva mantenute all’altezza della vita, e la bocca al di sopra del seno, e—

"Sono stanca," dice in fretta, con uno sbadiglio poco convincente. "Devo proprio ritornare a un ritmo di sonno normale, ha." Si siede. Il suo corpo lo lascia. Cerca di ritrovare il respiro, e di ricomporsi.

"Certo. Sì, sicuro."

"Solo che—"

Si ferma. Lui fa, "Sì?"

"Niente." Anna sorride. Si piega in avanti e gli dà un bacio sulla guancia. Gli sussurra "Buonanotte," all’orecchio. Poi scappa via dalla stalla, lasciandosi alle spalle la porta che sbatte.

"Cosa ho fatto?" Kristoff geme, guardando Sven. La renna alza le spalle. "Non ne ho idea," risponde il suo amico. "Forse baci solo da schifo."

Kristoff fa una specie di suono strangolato e si lascia cadere nel fieno. "Ti ricordi quando il ghiaccio era la mia vita?"

Sven annuisce comprensivo.

"Ghiaccio. La mia vita. Perché è.." Kristoff fa un cenno alla porta, infilandosi il cappello in testa e considerando l’idea di farsi una doccia fredda, e decide che deve andarsene di nuovo.

E presto.


"Perdoni mia sorella, Principe Albert," Elsa dice piano. Sono in piedi sulla balconata fuori della sala da pranzo, nella tiepida, balsamica notte estiva, e le stelle si accendono, una per una. "Di recente si è ferita la testa," continua in tono piatto.

Il principe è dritto e rigido accanto a lei, con le mani dietro la schiena. Lei mantiene le sue di fianco, lottando contro l’impulso di evocare il vento freddo. Chiede, "Parecchio grave?" Poi, "Aspetti, no, volevo dire—non c’è niente da perdonare." La guarda in tralice e sorride. "Davvero."

Sbatte le ciglia e guarda avanti, fino al fiordo, e il mare che scintilla. Riesce appena a distinguere gli alberi di alcune navi. Si chiede quale sia quella del principe. Si avvicina alla ringhiera, impaziente di richiamare il vento, e sistema le mani sulla superficie piatta. Le si contorce lo stomaco. La cena non stava giù.

"Regina Elsa? Se—se mi è concesso," Il Principe Albert inizia, avvicinandosi a lei. "Forse non dovremmo aspettare fino a domani. Forse dovrebbe dirmi quello che ha fatto mio fratello adesso, in modo da poter porgere le mie scuse in sua vece."

"Che?" Elsa sobbalza. Quando lo guarda, il principe la sta fissando serio con quegli occhi, i suoi verde-blu in quelli di lei, color ghiaccio—cos’erano mai? Non pensava fossero percettivi. Non si era mai considerata così un libro aperto. Non è pronta. Ritorna a guardare il fiordo. "Qualunque cosa lei possa—"

"Sa che," il principe inizia, imitando la sua posizione, "che una volta era convinto che avrebbe sposato la delfina di Francia? Le mandò pegni d’amore, doni e altre cose. Poi un giorno ci giunse la notizia che era destinata a sposare il principe di Albion, e lo trovai nei quartieri della servitù, che stava rompendo il naso a un uomo." Si afferra il pollice della mano destra con la sinistra, guardando dritto davanti a sé. "Quindi, per favore, me lo dica. Non riesco—" tenta un sorriso, ma si spegne. La mano pizzica, scatta verso la manica. "Non riesco a sopportare l’attesa più a lungo."

"Sarò franca, allora," Elsa inizia lentamente, immaginando Hans e il rumore dell’osso che si spezza. "Mi perdoni, non è mia intenzione offenderla."

"La prego, continui."

Così educato. Così formale. Dice, "Hans ha tentato di promettersi in matrimonio a mia sorella. Dopo che è tornata a casa—" Elsa si ferma, non sa come continuare. "Era ferita. Hans l’ha data per morta, e mi ha dichiarata traditrice."

"Perché?" La posizione rigida del principe si scompone. Sbatte le palpebre, con la bocca aperta, dice, "Non riesco a vederla colpevole di tradimento." Poi tossisce a disagio, distogliendo lo sguardo.

"Ho congelato Arendelle in un inverno perenne. È stato un incidente," si corregge in fretta. "Ma congelata, nondimeno. Ha tentato di uccidermi." È una versione così breve, semplificata, che si trova a dissentire in fretta da essa. Sembra irreale, come se fosse accaduto a qualcun altro, e non a lei.

"Regina Elsa," Il Principe Albert fa serio, voltandosi a guardarla. "Sono dispiaciuto. Non—sembra molto, non è così? Ma lo sono. Sinceramente."

"Adesso dovrebbe essere già tornato nel vostro regno."

"Sono sicuro che il re si sta occupando di lui. Alfons ha sempre avuto una certa influenza su di lui," finisce, parlando quasi a sé stesso.

Si sente come se si fosse tolta un peso dal cuore. Era stato breve, veloce; l’aveva fatto, aveva detto le fatidiche parole, e l’uomo accanto a lei non era diventato pazzo di rabbia. Sembrava sperduto, mentre fissava la città, le spalle leggermente ricurve, come se volesse essere invisibile. Dice, "Grazie per le sue scuse," perché cosa rimane da fare?

Il principe si strofina la nuca. "Vorrei solo che ci fosse qualcosa in più da poter fare. Poter dire. Non—Sapevo che era grave, ma non capivo—non capisco."

"Potere," risponde, premendo i polpastrelli l’uno contro l’altro. "Cosa c’è da capire?"

Il principe dice, ugualmente piano, "Andrò via da Arendelle il prima possibile. So che se—se fosse—se i ruoli fossero invertiti," alla fine trova le parole giuste, "Non sopporterei la mia faccia. Mi sorprende che è riuscita a farlo così bene così a lungo." Il suo sorriso è auto-denigratorio.

"E la sua nave?" Non lo negherà, e non dirà che non è quello che vuole.

"Problemi con l’albero, e lo scafo. La tempesta ci ha praticamente distrutti." I suoi occhi—quegli occhi—sono distanti. "Bene, Regina Elsa, spero—solo—riposi tranquilla, Hans verrà punito. Confermerò qualunque resoconto raggiungerà le Isole del Sud riguardo al suo comportamento." Fa per andarsene.

Non può farne a meno. Gli chiede, "Perché mi ha creduto subito?"

Si volta, ed è nella sala da pranzo a metà strada verso la porta, dove la guardia aspetta, sempre all’erta. Il suo viso è tremendamente serio, delineato dalla luce che c’è dentro.

"Perché si tratta di Hans."

E se ne va.


Ecco come era successo.

Non riusciva a dormire, ed era andato in libreria. Suo padre era lì, il fuoco vivo nel caminetto. Ecco come era successo.

Suo padre aveva detto, forza, figliolo. Siediti. Non riesci a dormire?

No, papino.

E suo padre aveva preso la scacchiera da uno degli scaffali, e aveva preparato il gioco. Aveva detto, questo non è un gioco di potere. O di forza. È tutto astuzia. Il fuoco scoppiettava nel caminetto. Controllava i pezzi bianchi, e suo padre i neri. Il pedone poteva avanzare di due caselle al primo turno.

Gli piaceva muovere i pezzi. Suo padre diceva, no, pensa prima, ma era troppo seducente il pensiero di prenderli, muoverli e basta. Suo padre lo teneva quasi in scacco matto. La porta si era aperta. La porta si era aperta, e suo fratello era lì, e la porta si era chiusa. Suo padre aveva detto, Alfons, che—

Alfons, che—

Alfons, che—

Non era stata una morte pulita. Non era stata una morte bella. C’era stato del sangue, ed era finito sulla scacchiera. Suo fratello l’aveva spintonato contro il muro di fronte, urlando, non avresti dovuto essere qui, non avresti dovuto—lo stava spingendo contro il muro con l’elsa della spada e diceva, non dirlo a nessuno, sentito? Sentito? Ho la tua completa e totale collaborazione?

Hans si sveglia sudando freddo, con lo stomaco che brucia. Vomita bile al lato della brandina. Non faceva quel sogno da molto, molto tempo.

Si ristende. Chiude gli occhi. Attende il sonno.

(E poi Alfons aveva rovesciato il re nero sulla scacchiera e aveva detto, è così che prendiamo il potere. E se poteva farlo suo fratello, poteva farlo anche lui. Andava bene, se poteva farlo suo fratello. Papino, papino. Andava bene.)

Attende il sonno, nella sua cella sudicia.

Attende.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

 

 

È una mattina da inizio estate, e non da fine, un giorno più primaverile che autunnale. Elsa osserva il cielo azzurro intenso attraverso le finestre piombate, tamburellando l’indice contro la coscia. A malapena lo avverte, attraverso il velluto pesante del vestito; con ogni tap, un singolo fiocco di neve cade ai suoi piedi. Nell’ incubo, Hans la sovrasta, e le rompe il naso.

Elsa scuote la testa, permettendo alla luce tiepida del sole di inondarla, e sospira, attraverso il naso, riservata. Si volta via dalla finestra, la città che si sveglia, il fiordo che luccica, e continua giù per il corridoio. La porta della stanza di Anna è ancora chiusa. Si ferma, appoggiando l’orecchio alla porta. Sente un russare soffocato e fa un sorriso, piccolo e luminoso. Poi va avanti.

Il corridoio dei ritratti si allunga infinito davanti a lei. Lo percorre nervosa, ignorando gli occhi accusatori, le bocche sottili, quasi afflosciandosi per il sollievo quando raggiunge la biblioteca, la porta bianca si apre, la porta bianca si chiude. Era presto, e i servitori non avevano ancora iniziato le proprie faccende. La finestra chiusa, il fuoco spento. Agita la mano, e un venticello gelido apre piano la finestra. Il tenue scampanare e le urla dei mercanti arrivano fino a lei.

Elsa si avvia alla scrivania. Ecco la missiva. Sembra stupido, non aprirla adesso, dopo quello che era riuscito a fare la scorsa notte. Si sistema sulla sedia a schienale alto, contro l’imbottitura sontuosa color porpora, e riesce a immaginare suo padre, seduto nella stessa posizione, che la guardava placido quando apriva la porta, e quando si aggiustava i guanti.

Elsa prende la lettera a mani nude, e spezza il sigillo.

A Sua Altezza Reale, Regina Elsa di Arendelle,

Non esistono precedenti di perdono per eventi gravi quanto le azioni di mio fratello, ma posso solo sperare che possiamo—e che lo faremo, davvero—andare avanti. La prego di accettare le mie più sentite scuse, e la prego di accettare le gentili richieste dei miei ambasciatori, Viktor e Tomas, due dei miei fratelli, che invio in mia vece per aiutarci a stabilire la pace dopo questo terribile evento. Sappia che è tutto quello che desidero.

Una grossa firma, piena di svolazzi, poi: Re Alfons delle Isole del Sud.

La carta si ghiaccia attorno ai polpastrelli. Elsa riesce solo a pensare no. Non vuole intrattenere altri fratelli. È contenta di continuare a vivere come se le Isole del Sud non esistessero, ed è abbastanza sicura che sua sorella sia dello stesso parere. Guarda fuori dalla finestra, il porto.

La porta bianca si apre. La porta bianca si chiude.


Si sveglia congelata, raggomitolata su un lato del letto. C’è una specie di dolore persistente che le parte dal petto e arriva alle spalle, un pulsare soffocato che inizia più o meno dalle parti del cuore. Geme. Ha la bocca che sa di fieno.

Urgh.

Schiocca le labbra, sedendosi e sbadigliando. Ha la pelle d’oca sulle braccia, e controlla—però no, la finestra è chiusa, e non c’è ghiaccio sul pavimento, e non sta guardando quel baldacchino di un blu orribile. Tutto è leggermente disordinato e molto molto suo. Il cuscino che Kristoff aveva usato giace ancora sul pavimento.

Non sa. Non sa un sacco di cose e parte di lei dice, sicuro, vai avanti, prosegui, e parte di lei dice, wooooh, ricordi quello che è successo l’ultima volta, vero, con la porta e l’idiota e il Non vedi? L’ho già fatto, te lo ricordi, vero? Potrebbe succedere di nuovo! E le due parti di lei se la risolvono a pugni, ma sono tutte e due, cioè, davvero brave a lottare, quindi non—non è che—

E metti anche il fatto che a lei, beh, piace stargli attorno—un sacco—

Anna dondola i piedi da un lato del letto e li pianta a terra, rabbrividendo tutta. Il dolore è diminuito, ora; abbastanza da mantenersi al margine e permetterle di ignorarlo quasi completamente. Va verso l’armadio e indossa maniche lunghe, e gonna pesante, domando i capelli in qualcosa di quasi accettabile. Fuori il corridoio è vuoto, il sole che lo inonda e il cielo azzurro del mattino oltre le finestre piombate. Anna pattina coi calzini, scivolando nel corridoio dei dipinti, corre fino alle porte della biblioteca. Le apre, aspettandosi di trovare sua sorella appollaiata dietro la grande scrivania di mogano con un’espressione fredda, come quello che suo padre aveva sempre, ma invece è vuota. Aggrotta le sopracciglia.

Kristoff non era Hans, e non sarebbe mai stato Hans, e la più grossa parte del suo cervello che lo sapeva, lo sapeva davvero, ma c’era anche quella parte di lei che non voleva essere messa in imbarazzo, o presa in giro; che all’improvviso non aveva idea, di cosa fosse l’amore, nonostante l’avesse visto tutti quegli anni—beh, almeno nei dipinti, no?

Scivola via da dove è venuta, lasciando le porte bianche che oscillano aperte-chiuse dietro di sé, fiondandosi nel corridoio dei ritratti. Perde l’equilibrio e inciampa perché va di fretta, spiaccicandosi con un oof e un ohi sul pavimento duro. Si alza, massaggiandosi la testa con un sussulto, ed eccolo lì.

I suoi genitori sembrano sereni.

Si erano amati, vero?

All’improvviso era davvero incredibilmente importantissimo che lo sapesse—

Si lancia nel corridoio esterno, spalancando la porta della stanza di Elsa appena è lì, ma è vuota, l’armadio ancora spezzato e smantellato. Passa oltre, giù per le scale, ed ecco—"Gerda! Gerda, hai visto Elsa?"

"No, io—"

" 'kay, grazie, ciao!" si catapulta oltre, saltando sul corrimano della scala curva come aveva fatto altre cento volte prima. Giù, scivola. Era importante che lo sapesse.

"Kai!"

"Vostra altezza?" l’uomo sobbalza, stropicciando la pergamena che ha tra le mani e mandando via alcuni dei servi riunitisi, mentre si preparavano per i compiti della giornata. Anna veleggia giù per le scale finendo dritta dritta nell’armatura più vicina. Si ridà un contegno. "Hai visto Elsa?"

Si acciglia, allacciando le mani dietro la schiena. "Ora che ci penso, no."

Anna geme frustrata, perché doveva saperlo e basta, e forse voleva anche qualche consiglio su Kristoff, su come si doveva sentire, perché come faceva lei a

"La regina?" C’è una guardia accanto alla porta. Non lo riconosce. Probabilmente uno del nuovo gruppo, cortesia dei cancelli aperti. "Si è diretta al porto con un piccolo contingente."

"Il porto?" Anna aggrotta le ciglia. "Huh. Che strano."

"è urgente, Principessa?" Kai domanda, arrotolando la pergamena. "Posso dare ordini affinché la accompagnino—"

"No. Grazie, comunque," sorride, afferrandosi la mano sinistra con la destra. "No, allora—vado—le stalle."

E questa volta, non corre.


"Regina Elsa!" qualcuno grida.

"Vostra maestà," un uomo con spesse sopracciglia e l’aria da fabbro si inchina al suo passaggio. Fa un sorriso riservato. Un cenno col capo a qualcun altro. Un piccolo, quasi-saluto con la mano.

"E’ la Regina!" le arriva un’altra voce, da dietro, forse—non può esserne sicura. La lettera sta scavando una buca nella sua tasca, e le mani nude muoiono dalla voglia di essere coperte. Ci sono troppi occhi, troppe cose che potrebbero andare storte. Un venticello gelido agita la gonna, all’altezza dei piedi, ma sembra che le due guardie—una per ogni lato, e dietro a breve distanza—non l’abbiano notato.

C’era una libertà inebriante, qui; una che le ricordava la cima delle montagne.

Attraversano la piazzetta fino al porto con le banchine di legno, dove le enormi navi dondolano placidamente cullate dal vento sulle acque al largo, calme. Non una nuvola in vista. Osserva di sottecchi alcune bandiere—un sole, fregiato su uno sfondo viola; una croce allungata, tricolore; il bianco di un mercante neutrale—ma nessuna con il simbolo della famiglia reale delle Isole del Sud.

"Vostra maestà!" proclama una voce roca, segnata dalle intemperie. "Quale sorpresa!"

Si volta. In cammino verso di lei c’è un uomo magro come un palo, pelle scura e bruciata dal sole, occhi vividi e acuti, che indossa un cappotto lungo fregiato di oro e blu e un cappello a tricorno con una piuma elegante. Si ferma, rispettoso, a parecchi passi di distanza, questo capitano che aveva sorvegliato e gestito il porto fin da quando regnava suo padre. È consapevole della folla che si riunisce nella piazza alle sue spalle, che indicano, che fissano—la regina, la regina

Il vento si alza.

"Mastro Olin," dice, consapevole di avere sul volto l’onnipresente sorriso, piccolo ed educato. "Mi spiace per la visita inaspettata—"

"Vostra maestà è sempre la benvenuta al porto," urla allargando le braccia, indicando le navi. "Ora, in cosa posso servirvi?"

"Sto cercando la nave del Principe Albert."

"Ah, le Isole del Sud, sì." Olin fa un passo avanti, poi due. Le guardie si irrigidiscono. Il capitano di porto abbassa la voce e dice, quasi in tono cospiratorio, "Abbiamo messo la nave sotto stretta sorveglianza, dopo…gli eventi precedenti. Sta subendo grosse riparazioni." Indica una nave più lontana, ancorata al molo, dove degli uomini sciamano sul ponte e sulle funi. Uno degli alberi è crollato di lato. Le si stringe lo stomaco.

"Quanto tempo ci vuole, perché possa mettersi in mare?" chiede.

"Una settimana, magari?" Il capitano di porto sospira, grattandosi il mento.

Elsa fa cenno di sì col capo, la stima le fa precipitare lo stomaco nelle budella. Non ce l’aveva, una settimana, non se voleva intercettare la visita di questi—ambasciatori. Cosa che voleva fare, con tutto il cuore. "Grazie, Mastro Olin." Sta quasi per continuare lungo il molo, verso la nave in questione, ma si ferma, proprio prima di fare il primo passo. "E tutto il resto come procede?" chiede lentamente.

"Bene, vostra maestà," Olin risponde con un sorriso deciso. "Grazie per averlo chiesto."

Annuisce, come fa sempre, le labbra increspate da un quasi-sorrisetto, prima di stringere le mani avanti a sé e a proseguire sul molo. Tiene la schiena completamente rigida. Ci sono troppe persone e troppi modi in cui tutto potrebbe andare storto—è poi è spinta all’improvviso di nuovo nel presente, con il ricordo del fatto che tutto quello che poteva andare storto già l’aveva fatto, e che tutto ciò che volevano queste persone era solo una Regina. Alza gli occhi, alle fondamenta della città, ed eccoli lì riuniti—giovani, vecchi, alti, bassi. Saluta con la mano, e fanno un largo sorriso.

"La regina mi ha appena fatto ciao con la mano!" strilla uno dei ragazzi più piccoli.

Posso farcela, Elsa dice tra sé e sé, voltandosi di nuovo. La nave si avvicina. Sono la regina, pensa, anche se lo stomaco sobbalza e le fa male, con un’ansia tremenda. Oltre gli sguardi avidi, bramosi, del suo popolo, c’erano quelle navi, alte, silenziose. Non riusciva ad affrontare le navi, proprio come non riusciva ad affrontare il ritratto al castello, nel corridoio dei dipinti. Due settimane, le avevano detto.

È abbastanza vicina da distinguere i volti, ora, degli uomini che vanno avanti e indietro sul ponte, su per le funi, sull’albero. Erano impetuosi, usurati dalle intemperie tanto quanto Olin, con occhi acuti, scaltri. I marinai erano un’altra razza, un tipo di persone con cui raramente aveva avuto a che fare, un tipo di persone che non capiva. Il genere di persone che, sembra, non si facevano impressionare da un titolo nobiliare. Alza una mano. "Aspettate qui, per favore," ordina alle guardie.

"Ma vostra maestà—"

"Ho detto, aspettate qui."

Si fermano, ma lei non lo fa, le scarpe che battono un ritmo nervoso, irregolare sul legno che calpesta. La nave è smisurata, sia per grandezza che per forma; ne è intimidita. Due settimane. Allunga il collo, restia a mettere piede sulla passerella. C’è del gelo che si fa strada dalle sue scarpette fino all’acqua che sciaborda contro la nave. "Mi scusi?" chiama.

L’uomo più vicino a lei, sul ponte, sobbalza. Guarda alla propria destra, poi a sinistra. Poi alla fine guarda in basso. Subito la scorge, ed Elsa se ne accorge, dal modo in cui la grossa bocca si piega impertinente di lato, dalle sopracciglia incredule, dal naso grosso—sta per dire qualcosa di cui si sarebbe pentito. L’unica cosa che lo salva è una fugace seconda occhiata—i capelli quasi bianchi, pensa; forse la corona. In ogni modo chiude subito la bocca, e si raddrizza, da che era appoggiato alla balaustra, facendo un inchino brusco. "Vostra maestà."

"Il Principe Albert è a bordo?" Non voleva salire su quella nave, non sarebbe salita su quella nave.

"No, vostra maestà. È sceso in città più o meno n’ora fa."

"Grazie," annuisce rigida. Clack, clack, clack, protestano le sue scarpette, per tutta la strada fino al molo, il ghiaccio che la segue severo, come una scia, toccando appena le acque vicino agli scafi delle navi, il vento vortica, la temperatura diminuisce.

Due settimane.


Non è nelle stalle. È nel cortile, che carica la slitta su un carro, e controlla i finimenti di Sven. Anna si morde il labbro, afferrandosi la mano destra con la sinistra e decidendo che no, avrebbe dovuto fare—cose da principessa, tipo trovare sua sorella, forse, o dare istruzioni ai paggi, o a imbandire la tavola, o solo—qualcosa

"Oh, ehi, eccoti qui."

"Eccomi qui," ride colpevole, fermandosi mentre si stava girando per andarsene e ri-voltandosi indietro. Oltre i cancelli aperti riesce a intravedere il mercato, gli spigoli del banco dei fiori; riesce a sentire lo sciacquio dell’acqua sotto il ponte. Guardare Kristoff le fa ritornare il dolore al petto in tutta la sua forza. Inizia a massaggiarsi la spalla tracciando cerchi lenti, masticandosi l’interno della guancia.

"Non fa caldo, qui?" le chiede, accigliato, così da sembrare un vecchio barbone acido con la tunica che cade a pezzi.

"Oh, se intendi dire a causa della mia presenza, grazie per averlo notato," ghigna, sollevando suggestivamente un sopracciglio e ancheggiando. Il tutto finisce quando sporge il piede un po’ troppo e il paggio più vicino—che porta un cesto per il mercato, o roba del genere—cade a terra. "Oops! Mi dispiace, ecco qui—" lo aiuta a rialzarsi, senza sentirsi più sofisticata. O aggraziata.

"Bello," Kristoff fa in tono piatto, le palpebre mezzo abbassate e le sopracciglia sollevate. Tira su una sacca e la lancia nel retro del carro. "No, voglio dire, non hai tu caldo?"

"Stai implicando che io non sia attraente?"

"Non sto—non è quello che—hai addosso i vestiti invernali in estate."

"Prima cosa, guardati tu," dice, indicando la tunica, e i pantaloni pesanti, e gli stivali ricurvi. "Seconda cosa, praticamente siamo a fine estate."

"Non l’ho detto a nessuno," Kristoff dice sottovoce, ignorandola, "il fatto che hai freddo. Ma è davvero così? Tutto il tempo?"

"Perché dovrei mentirti?" chiede, in tono noncurante.

"Avevi più o meno preso una botta in testa quando me lo hai detto—"

"Non ho mentito," Anna dice, guardando di lato. Smette di premersi la spalla. "Non è niente comunque, ok? Non mento nemmeno se dico che distruggerò personalmente tutto ciò che ami se lo dici a Elsa. Ha già abbastanza cose di cui preoccuparsi così."

"Non puoi distruggere te stessa," Kristoff dice, premendo le labbra, e poi sembra rendersi conto di quello che ha appena detto, perché diventa rosso come un peperone. Anna sente ancora le parole riecheggiare nel cervello. La fanno sentire strana, bizzarra; la spaventano. Quindi fa la cosa migliore da fare in questi casi—l’ unica cosa—

Allunga il braccio per dare una pacca amichevole, mascolina, sul braccio di Kristoff, e dice: "Stai attento. Non farmi venire a salvarti di nuovo."

"Ti provocherebbe più guai di quanti ne valgo," fa lui subito dopo. Il broncio è ancora lì, le sopracciglia aggrottate. Si sta chiudendo in sé stesso, come un fiore bruciato dal gelo. Anna, mordendosi il labbro preoccupata, pensa che tutto questo si sarebbe potuto evitare se Elsa non avesse deciso di marinare la sala del trono, quel pomeriggio.

"Ehi," dice piano. Kristoff si volta verso di lei, che lo bacia sulla guancia. "Dico davvero. Per favore."

Giura, tracciandosi il cuore. "Forza, Sven."

E con questo, si incamminano via dal cortile, lasciando Anna confusa, perché decisamente non voleva essere solo amica di Kristoff, ma come poteva essere sicura—sicura dell’amore, dopo—

Dopo porte aperte1?

"Perché le cose non possono essere semplici," geme.


"Oh, no, mi ha preso! E con quest’ultima, io—muoio!"

Elsa sente delle risate, chiare e vivide alla luce del mattino, che scoppiano tra le case. C’è un sentiero, su cui le linee dritte delle costruzioni sui due lati proiettano l’ombra, ma oltre intravede un altro cortile—una piazza interna, contornata da case su ogni lato. Riesce appena a distinguere le estremità scintillanti di una fontana al centro, riesce appena a sentire lo scroscio dell’acqua oltre le grida deliziate dei bambini. Fa di nuovo un piccolissimo cenno con le mani.

"Vostra maestà," la guardia alla sua sinistra fa piano, "non possiamo lasciarvi—"

"Preferirei che rimaneste qui, in modo da non spaventare i bambini." Non può permettere che le sue guardie la credano debole. Non lo è. E come per ricordarglielo, un vento gelido arriva dalle montagne lontane. La guardia alla sua destra dice, "Vostra maestà."

Annuisce brusca.

I passi riecheggiano sulla strada polverosa. Non è in rovina, solo sporca, con un paio di pozzanghere stagnanti intorno ai canali di scolo, e un paio di casse di legno in piccoli gruppi. Elsa si stringe forte le mani, evitando i pericoli. Non era un mondo a cui era abituata, questo, e la brina che si forma sotto i suoi piedi lo sa.

Entra nella piazza, stringendo gli occhi contro la luce del sole che si vede di nuovo. Sbatte le palpebre, cercando di riabituarsi alla luce prima di potersi guardare attorno.

C’è della biancheria stesa su delle corde, in alto, alcune camicie sparse sul bordo della fontana. Sembra che ci siano altri accessi alla piazza, di fronte a lei, e alla sua destra; una taverna è all’altro capo sinistro, e riesce a sentire le urla provenienti da dentro, nonostante fosse presto. Due ragazzini, e una ragazzina, la superano correndo, i piedi che sbattono sulle pietre; la ragazza ha in mano una spada di legno. Un terzo bambino è appollaiato su una pila di cassette, e urla, "Aiuto! Salvatemi! Aiuto!"

E poi si sentono altri colpi—passi più grandi, più forti—e la sagoma piuttosto ballonzolante del Principe Albert la supera correndo a tutta velocità. La nota all’ultimo secondo, e tenta di voltarsi, ma inciampa sui propri piedi e cade all’indietro a terra, sbattendo con la testa sulle pietre e facendola sussultare. Ha una spada giocattolo infilata tra il braccio e la spalla.

"Sta bene?" rantola.

"Regina Elsa!" il Principe Albert si tira su a sedere immediatamente, ancora in buone condizioni, come se fosse solito cadere tutti i giorni e ci fosse, ormai, abituato. "Non l’avevo—come—"

"Muori!" la ragazzina strilla, balzando come un lupo e atterrandogli sul petto, schiacciandolo di nuovo a terra. Gli punta la spada alla gola.

"Mi arrendo!" urla, ridendo.

"Brutta stupida!" uno dei ragazzi che la bambina stava inseguendo urla, avvicinandosi per scuoterle la spalla. "Non puoi continuare a giocare, non quando ci sta la regina."

"Che regina, non è vero," risponde la ragazza, tenendo ferma la spada. "Solo questo traditore che voleva rapire il principe!"

"Aiutatemi, aiuto!" grida il ragazzo appollaiato sulle scatole.

Elsa non riesce a trattenersi—inizia a ridere. Si copre in fretta la bocca con la mano.

"è proprio , guarda—Mamma sta dando di matto!"

E come ci si poteva aspettare, le donne che facevano il bucato alla fontana avevano iniziato a inchinarsi, e una stava urlando, "Petter! Mostra un po’ di rispetto!"

Il ragazzo scende dalla pila di scatole e fa un profondo inchino, impacciato. "Vostra maestà."

"Hai vinto questo turno, Klara," il Principe Albert dice, tirandosi dolcemente su a sedere, e afferrando la bambina sotto le braccia. La rimette a terra. "Temo che dovremo interrompere la nostra battaglia mortale per un po’."

Elsa sente uno strattone alla gonna. Guarda in giù, sorpresa. C’è un altro bambino, col pollice piantato in bocca. "Oh, salve," fa un piccolo sorriso. Ha grandi occhi blu, proprio come li aveva Anna. "Come stai?"

"Sei davvero la regina?" le chiede col pollice in bocca.

Annuisce.

Si toglie il dito dalla bocca e le dà un altro strattone alla gonna. Elsa non ha avuto contatti con bambini da tanto, tanto tempo, ma adesso se lo ricorda, la facilità con cui si parla, la meraviglia che fa spalancare gli occhi; si inginocchia, senza pensare alla terra che le avrebbe sporcato le gonne. Il bambino le fa cenno di andare più vicino, e più vicino, e finalmente le sussurra all’orecchio, "Fai la magia?"

Magia. Non maledizione. Magia.

Ma poi pensa all’armadio distrutto, a sua sorella trasformata in ghiaccio, a quegli anni senza poter abbracciare—toccare—provare—

Annuisce lentamente. Sorride quasi. "Sei pronto?"

Lui fa di sì con la testa.

Si ritrova a guardare il principe Albert. Solo un’occhiata veloce, davvero, ma lui la sta osservando con una specie di sorriso sghembo, e gli occhi luminosi. Apre le mani per avere qualcosa da fare, e sente il freddo camminarle nelle vene, fino alla punta delle dita. Fiocchi di neve scintillano tra esse, aggregandosi in una palla bianca brillante. Alza lo sguardo verso gli altri bambini—Petter, che scende dalla sua torre, Klara, che la osserva con aria scaltra—e la lancia in aria. Scoppia. Fiocchi delicati iniziano a cadere. I bambini gridano. Anche gli adulti rimangono a bocca aperta. Il principe Albert osserva la neve che gli si posa sul naso e le punte dei capelli ricci come se non avesse visto niente di più incredibile in vita sua. Elsa tossisce, e si alza, e guarda il divertimento prendere il via.

Pur sempre una maledizione, pensa.

"Lei è incredibile," il principe dice, e la sua voce si incrina. "Voglio dire—no, non è che—" la mano scatta verso la manica. "Come mi ha trovato?"

"Ho chiesto al mastro di porto, a un uomo della sua ciurma, al fioraio, al fabbro, e al fornaio."

"Ah. Ho lasciato, un, ah, sentiero di briciole, allora?"

"Più o meno," sorride quasi. "Cosa sta facendo qui?"

"Un’eccitante partita di Salva il Principe. Credo proprio che Klara un giorno entrerà a far parte della sua guardia reale," sorride, e non è quasi. Gli arriva fino agli occhi. Gli si formano delle piccole rughe d’espressione agli angoli. "Arendelle è veramente bellissima, e le persone sono—" si blocca. Elsa si rende conto, con un sussulto, che non sa davvero come siano le persone. Sono, e basta. "Ma sto farneticando—Io—Io credevo che non volesse vedermi."

Ha le spalle leggermente ricurve, e il suo nervosismo è tornato. La neve continua a cadere a ondate leggere dal cielo azzurro. Ha una voglia matta di costruire palazzi di ghiaccio. Si sente in colpa per il fatto che vuole che vada via, ma poi si ricorda.

Anna aveva detto—le aveva raccontato quello che lui aveva detto, mentre spegneva il fuoco, ed era—Elsa, come erede era preferibile, certo, ma nessuno aveva possibilità con lei

E se avessero mandato questo ragazzo alla buona per—per avere possibilità?

Tira fuori la missiva dal proprio abito, il braccio teso rigidamente. "Ho ricevuto questa da Re Alfons. Ho redatto questa," ed estrae un’altra lettera, che tiene accanto alla prima, "con la mia risposta, ma lo stesso, voglio che la consegni di persona. Re Alfons non ha bisogno di mandare ambasciatori. Desidero tempo per ritrovare stabilità. Questo è tutto." La sua voce è formale, a scatti. Il Principe Albert prende entrambe le lettere e si rivolge alla prima, quella col sigillo spezzato delle Isole del Sud.

"Mi permette?" chiede.

Annuisce.

Esamina i contenuti con un cipiglio crescente. "Viktor e Tomas non sarebbero buoni ambasciatori alla Fine del Mondo, figuriamoci Arendelle," borbotta. Ancora una volta, Elsa pensa che in teoria non avrebbe dovuto sentire quelle parole. "Vuol dire che già li ha mandati?"

"Non lo so," sospira, afferrandosi i gomiti e stringendosi forte le braccia al petto. Parecchi dei clienti della taverna iniziavano a riversarsi in piazza, notando la nevicata fuori stagione. Petter e Klara ridevano felici. Il bambino col pollice in bocca sbatteva le palpebre pieno di stupore.

"Non vuole che vengano inviati," il principe Albert dice, ripiegando la lettera. "In realtà, io stesso non avrei voluto che fossero inviati. Probabilmente non dovevo—avrei dovuto dirlo."

"Le stime sulle riparazioni della sua nave determinano che vengano ultimate in una settimana, circa. Se faccio allestire una nuova nave, e lei prende la sua ciurma—"

"Regina Elsa, se voleva che me ne andassi, doveva solo chiedere," sorride, ma scivola presto dal suo viso. "Scusi, non era div—senta, non voglio che sprechi denaro per allestire un’altra nave, denaro che non potrei restituirle prima del ritorno a casa. E per quel giorno, non è sicuro che riuscirei a intercettare gli ambasciatori. Penso che—con tutto il dovuto rispetto, che adesso la cosa migliore da fare sia aspettare. Sarò presto fuori dai piedi, lo prometto."

"Non la desidero fuori dal mio—"

"Regina Elsa," il principe sorride. Coi capelli disordinati, e il naso storto, sembra uno stalliere, pensa. "Non deve mentire per farmi sentire meglio. Parlerò alla mia ciurma, per vedere se riusciamo a velocizzare le cose." Si infila entrambe le lettere nella giacca. "E riposi serena, il suo messaggio arriverà a destinazione."

"Grazie," annuisce. Elsa, come erede, era preferibile, certo. Non riesce a inquadrare il principe Albert, e non vuole, non vuole nessun tipo di contatto con le Isole del Sud. Gli occhi di Elsa esaminano la piazza ancora una volta. Aveva messo il principe sotto sorveglianza, no? Eppure era riuscito facilmente a sfuggire alle guardie; con la stessa facilità aveva parlato liberamente agli abitanti; aveva vagabondato dove voleva. Inaccettabile, pensa, guardando quegli occhi che si ritrova. Non stanno bene, sulla sua faccia. "Principe Albert, penso che sia meglio che rimanga sulla sua nave, ad interim."

Apre la bocca. Per un attimo, Elsa pensa che abbia intenzione di protestare. Alza gli occhi verso i bambini, poi guarda le donne alla fontana, e la taverna—e poi di nuovo lei. Quegli occhi. Annuisce rigidamente, raddrizzando la schiena, stringendo le mani avanti a sé. "Come desidera, sua maestà."

Lei annuisce elegantemente. Avrebbe mandato un contingente giù al porto, da Olin; avrebbero avuto l’incarico di sorvegliare la nave. Fa per andarsene.

"E qualora—qualora venissero davvero," la sua voce la ferma, e si volta indietro. "Viktor e Tomas—gli ambasciatori—solo—sarò più che felice di occuparmi di loro in sua vece."

Elsa annuisce di nuovo, meccanicamente.

In qualche modo, il pensiero non l’aiuta a sentirsi sollevata.


Passo.

Passo.

Passo.

Non apre gli occhi, si allaccia le mani sullo stomaco. È tranquillo. È calmo.

Sta architettando un piano.

Passo.

Passo.

Passo.

"Principe Hans?"

"Sì?" risponde, senza aprire gli occhi. Ascolta. C’è il tintinnio delle chiavi del carceriere, il clank del metallo quando viene infilato al suo posto nella serratura, la girata, l’estrazione. Il cigolio della porta della cella non appena viene aperta.

Un piano. Ha un piano.

"è libero di andare."

Il ghigno di Hans potrebbe tagliare il ferro, potrebbe spianare montagne. Il suo ghigno potrebbe uccidere padri.

Il suo ghigno potrebbe assassinare fratelli.

"Perfetto," dice.

 

 

 

 

 

 

1Note della traduttrice: Open doors, porte aperte, si riferisce alla canzone che Anna canta con Hans, e che in italiano è stata tradotta con “la mia occasione”. In originale, si intitola “Love is an open door” e si riferisce ovviamente al fatto che Anna abbia sempre sofferto per i cancelli chiusi, come la porta di Elsa. Non ho potuto mettere il titolo o la battuta del film italiano, come ho fatto in altri casi, perché l’autrice insiste molto sul contrasto porte chiuse - aperte.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

 

 

"Ah, eccoti qui. Non startene lì impalato, a meno che tu non voglia diventare di pietra."

Hans manda giù un groppo alla gola, costringendo il proprio volto a essere privo di ogni espressione. Fa un mezzo sorriso, freddo, composto. "Perché, puoi farlo?"

"Forse," Niels fa in tono piatto, da un angolo oscuro delle proprie stanze. "Hai voglia di scoprirlo?"

Il sorriso di Hans si irrigidisce agli angoli. "Non vorrei turbare la tua delicata sensibilità."

"Nemmeno cinque minuti che sei fuori dalla prigione," dice il re. Non l’aveva visto lì seduto, accanto al fuoco, che beveva il tè e stringeva le labbra, come se in qualche modo prendere il tè in camera di Niels fosse la cosa più normale del mondo. E non lo era. Hans riusciva a contare sulle dita di una mano il numero delle volte che era riuscito a scorgere per un attimo l’interno della stanza; ventitré anni, e non ci era mai entrato prima.

Adesso lo fa. Un piede prima della soglia, uno oltre. Immediatamente la sente, quest’atmosfera, pesante e oppressiva, come un calcio nei fianchi. Un’emicrania è in attesa di scatenarsi al limite dei suoi pensieri; il desiderio di tornare nella sua piccola cella sudicia, con la poltiglia vecchia di tre giorni e la brandina sfondata. Niels dice, distratto, "Chiudi la porta."

Hans la calcia chiusa con più violenza di quanto strettamente necessario. Si sente come se gli avessero mozzato il respiro. C’è un corvo, inchiodato al tavolo per le ali, e il becco è spalancato in maniera innaturale. Metà delle sue interiora è sparso come un acquerello sulle venature del legno. Stringe le labbra.

"Tè, Hans?"

"Sì, grazie." Arriva al caminetto, e si sistema con cautela sulla sedia libera direttamente di fronte al re, quasi immaginando che potesse ingoiarlo tutto intero. Non lo fa. È una sedia perfettamente normale. Eppure, si appollaia proprio sul bordo, pronto a volare via; il mal di testa in arrivo con tutta la sua forza dietro gli occhi.

"Zucchero?"

"No, grazie."

Hans afferra la tazza di tè prima che suo fratello possa passargliela e beve un piccolo sorso. Inizia a capire perché non c’era mai entrato prima, in quella stanza; la bocca del re è rigida. Nemmeno lui sarebbe stato lì, Hans realizza, con una specie di soddisfazione perversa, se non avesse avuto bisogno di qualcosa di—grosso.

"Il resto del regno non sa del tuo breve imprigionamento; questo aspetto lo manterremo segreto," comincia il re. Hans sente un gracchiare morente; una specie di verso roco che sembra, sospetta, quello di un corvo. Si costringe a rimanere immobile, dritto, a guardare il re dritto in faccia. "Ho incaricato Niels di trovare una soluzione alla questione del ghiaccio."

Hans non riesce a trattenersi, ride. Deve posare la tazza, per evitare di rovesciare il tè. "La questione del ghiaccio?"

"Esatto," il re risponde, inarcando un sopracciglio. "Lo trovi divertente?"

"Ha praticamente destinato alla rovina il proprio regno, e questo prima che capisse come controllarlo. Arendelle ormai è persa per noi—"

"Arendelle è in una posizione ideale per gli scambi commerciali. È grande, il commercio di ghiaccio è fiorente, e possiede risorse naturali senza rivali. Davvero credi che mi arrenda senza combattere?" gli occhi del re scintillano, scuri. Si ferma, sistemandosi sulla sedia e rovesciando una pila di libri vicino ai suoi piedi, e attirando l’attenzione di Hans; la copertina di uno sembra fatta di carne spaccata, secca e scura. Il re continua, dopo un momento, "Dimmi, Hans, sei bravo a giocare a scacchi?"

Hans lo guarda con le palpebre pesanti. Dice, "Non gioco granché."

"Beh," il re replica, con un sorriso teso, "questo è ovvio." Pausa. Un battito cardiaco. Hans desidera strangolarlo, ma non riesce a muovere le braccia. Si sente una formica, là sulla sedia, in attesa di essere calpestata. Cosa era successo, cosa era cambiato? Giù nella sua cella scusa si era immaginato tutto chiaramente, vividamente, la sicurezza con cui avrebbe agito, le mani alla gola, e adesso—adesso—

Adesso non riusciva nemmeno a muoversi.

"Il tuo fallimento ha fatto sì che Arendelle non si fiderà mai più di noi. Ma non sto chiedendo fiducia," il re sorseggia il tè. "Solo cooperazione."

Hans ha la bocca impastata, il mal di testa martellante, un pulsare tribale. Sente il rantolo, ormai fantasma, del corvo. "Come hai intenzione di convincerla a cooperare?"

"Ah, mio caro fratellino," il re sorride, calmo, controllato; un sorriso che Hans mostra ogni ora di ogni giorno, un sorriso che riconosce. "La prima regola degli scacchi è mai rivelare la tua strategia. Niels," finisce, scattando secco, "come procede?"

"Come ci si aspetterebbe," ritorna la voce di suo fratello.

"Ritornerò prima che faccia notte per vedere come vanno le cose. Devo occuparmi di altre questioni."

"Vostra maestà."

"Ti accompagno—" Hans inizia, perché non riesce a sopportare quella stanza.

"No," il re lo blocca con un aggraziato cenno di mano, alzandosi e stiracchiandosi. "Rimarrai qui." Si avvia alla porta, ed ecco la sua schiena, una scena così familiare. "E aiuterai tuo fratello."

Gli si secca la bocca.

"Ti ho portato ciò che mi hai richiesto," il re dice, voltato di schiena. Hans ci impiega un momento per accorgersi che si sta rivolgendo non a lui, ma, invece, a Niels. "Mi aspetto dei progressi in mia assenza."

"Ma certo."

"Richiesto?" Hans si lascia scappare. Non voleva. Si alza, inclinando troppo la tazza. Si rovescia sul pavimento, ma non si versa alcun liquido. Strano. Non ricordava di aver bevuto tutto. Non gli piaceva questa situazione; si sentiva più intrappolato di quando era stato rinchiuso dietro quelle sbarre grigie, dritte, in quella cella piccola e fatiscente, qui nella stanza con le tende rosse e gli abiti regali e—

"Hans," il re si ferma alla porta, la mano sospesa sul pomello, "cosa scioglie il ghiaccio?"

"Il fuoco, ma non capisco cosa—"

La porta si apre, la porta si chiude, e rimane solo con Niels.

"Il fuoco," ridacchia suo fratello. "Hai indovinato al primo tentativo, fratello mio. Ora, avvicinati," sente dei piccoli passi, ansimanti, "e dammi una goccia del tuo sangue."


"Ehi, Elsa. Psst. Ehi, sveglia."

"Anna," mormora nel cuscino. "Torna a dormire."

Sua sorella le si butta addosso, cinquanta chili e più di peso morto, abbastanza da mozzarle il respiro. Torce le dita, e con il piccolo aiuto di una brezza gelida riesce a capovolgere Anna sotto sopra e a catapultarla dall’altra parte del letto. Lo starnazzio di protesta di sua sorella è, forse, uno dei suoni meno principeschi che abbia mai sentito.

"Non è leale."

"Nemmeno svegliarmi nel bel mezzo della notte." Anche se l’interruzione degli incubi in cui sognava nasi rotti era la benvenuta. Ed era stato un giorno tranquillo, si supponeva, dopo il ritorno dalla chiacchierata con il Principe Albert. Un giorno tranquillo, bello, anche se non riusciva a togliersi di testa l’immagine della sua sagoma insicura, con le spalle curve; anche se aveva avuto allucinazioni di fratelli che si moltiplicavano come conigli e invadevano la sua privacy quando tutto quello che voleva era solo essere lasciata in santa pace—"Cosa c’è che non va?"

Il mento di Anna è appoggiato sul bordo del letto, le guance gonfie. "Dov’eri, prima?"

"Mi stavo occupando di alcuni affari."

"Anche io posso occuparmi di affari."

"Non mi fido di te che ti occupi degli affari."

"Beh, non ho mai—"

"Non tutti gli affari," Elsa si scusa con un mezzo sorriso. "Specialmente non gli affari che implicano che tu tenga la bocca chiusa."

Anna ci pensa su. "Comprensibile."

Pausa. "Cosa c’è che non va, Anna?"

"Mamma e papà erano innamorati?"

Elsa sbatte le palpebre. "Scusa?"

"Mamma e papà—eddai, Elsa, mi hai sentita già la prima—"

"Beh, sì. Credo di sì."

"Credi?"

"Beh, non è che per forza la nostra relazione fosse—fantastica." Elsa pensa ai guanti. Il decoro, una necessità. "Ma suppongo di sì, si amavano." Si siede, abbracciando le ginocchia con le mani e guardando scaltra in tralice la sorella, dove stava ancora seduta, col mento appoggiato al letto. "Riguarda te e Kristoff?"

"Ha! Ha, e perché mai pensi che—si, ok, riguarda me e Kristoff." Anna si arrampica accanto a lei, non proprio aggraziatamente, gettandosi ai piedi del letto e aggrottando le sopracciglia verso il baldacchino blu.

"Pensavo che aveste sistemato le cose, dopo che ti sei procurata una concussione per andare a salvarlo", Elsa risponde, secca.

"Non è colpa mia se quella piccola voragine aveva pareti così dure, ok?" Anna gonfia il petto e fa un sospiro profondo. "Vorrei solo," solleva le mani dallo stomaco, "vorrei che tutto fosse semplice. Vorrei solo non avere paura."

"Paura? Perché hai paura?"

"Dopo la porta aperta."

"Perdonami, come?"

"Quando sono uscita fuori, con quella bufera, l’ho fatto solo per salvarmi. Era carina, l’idea che Kristoff potesse essere innamorato di me, mentre io—io non volevo morire solamente, capisci? Voglio dire, chi vorrebbe una cosa del genere, ho ragione?"

"Oh, Anna—"

"No, non lo—non lo sto dicendo per farti sentire in colpa, sto solo cercando di capire cosa provo, perché ecco cosa è successo, ma poi l’ho baciato e ho sentito qualcosa qui." Si colpisce il petto. "Sono stanca," finisce, lamentandosi.

Elsa allunga la mano e sistema a sua sorella una ciocca scomposta di capelli, infilandola dietro l’orecchio; iniziavano già ad assomigliare a una balla di fieno, rigidi e scompigliati. "Hai mai riflettuto sul fatto che forse tu ci stia pensando troppo su, un bel po’?"

"Elsa," Anna si volta a guardarla. "Volevo sposare un uomo che avevo appena incontrato. E si è rivelato un totale idiota."

"Ma Kristoff non è—lui non è—" non riesce a pronunciare il nome, e finisce, "un idiota."

"Pensa di non piacerti."

Elsa si acciglia. "E da dove gli è saltata fuori quest’ idea?"

Anna la spia con un occhio solo. "Beh, non è che tu sia esattamente espansiva e coccolona. Ma è questo che fa di te un fiocco di neve speciale, quindi non ci pensare troppo."

Elsa spinge le gambe di Anna giù dal letto con un calcio.

"Ehi!"

"Forse," Elsa comincia, guardandosi le mani, "non dovresti farti prendere tanto dalle definizioni e le etichette. È come," ne apre una, in modo da tenere il palmo teso verso l’alto, illuminato dalla luce della luna. Uno strattone sotto lo stomaco, la neve nelle vene, e piano, piano, il ghiaccio affiora. Fa delle forme che sono loro familiari fin da piccole, la decorazione delle porte, fiori e spirali che luccicano viola alla luce. "Ma nel preciso momento in cui cerchi di definirlo, non ci riesci."

“Mi piacerebbe riuscirci."

"Lo so." Osserva di nuovo la propria creazione, per un momento.

"è bellissimo," Anna dice.

Elsa flette le dita e l’intera forma si disintegra, cade e diventa soffice neve. Esclama, in fretta, "Ma promettimi una cosa."

"Sì?"

"Darai ascolto," dice, pungolandola piano col dito sulla spalla, "solo al tuo cuore."

Anna torna a fissare quel baldacchino blu. Non parla, e adesso che l’ha detto, Elsa non è sicura della validità del consiglio. Non era una madre; non era nemmeno una sorella decente. Come avrebbe potuto saperlo?

Tum, tum. Silenzio. Tum.

"Ehi," Anna si volta sul fianco, con un sorriso malandrino. "Ehi, Elsa, ehi."

Elsa solleva un sopracciglio. La sorella si avvicina, ancora più vicina. Sussurra—

"Facciamo un pupazzo di neeeeeeeeeeve?"


Il sole ha appena iniziato a delineare le cime delle montagne lontane quando arriva ai margini della Valle delle Rocce Viventi. Ascolta i suoni della propria infanzia—le urla frenetiche dei troll mentre preparano il letto di muschio perfetto, mentre sono alla ricerca dei bambini che sono sgattaiolati via, mentre gareggiano a colpi di racconti. Ascolta, e fa un sorriso sghembo. Lui era sempre stato tanto silenzioso, che sua madre temeva avesse subito qualche trauma.

Scuote la testa, con affetto, e si infila tra le grosse rocce che delimitavano l’inizio della valle. Voleva fare toccata e fuga, in fretta, il che significa che doveva trovare Granpapi prima che gli altri trovassero lui. Il vecchio troll era solito dormire ai margini; si lamentava sempre, e molto, del rumore, ma Kristoff era sempre riuscito a scorgervi un sorriso—

Inciampa su una roccia particolarmente bitorzoluta, e a malapena mantiene l’equilibrio. Immediatamente sente: "C’è un motivo se io—oh, Kristoff, sei tu."

Si volta, e lì, che lo osserva dal basso, ecco Papi. Urla dalla valle un po’ più lontana gli arrivano. "Scusa, Gran Papi."

Il troll si srotola completamente, le giunture che scricchiolano grattando, . Agita le dita tozze. "Non preoccuparti. Vedo che Bulda ti ha sistemato bene."

Kristoff sbatte le palpebre, confuso, poi si ricorda la gamba. "Oh! Sì, come nuova, sul serio."

"Eccellente. E come sta la principessa?"

"Bene. Parla di nuovo e cose così, lei sta—grazie," finisce, piegandosi sulle ginocchia.

"Devo chiamare Bulda?"

"No, no, devo tornare indietro—devo cavare un po’ di ghiaccio. Mi sono solo fermato a chiederti una cosa."

Gli occhi di Papi sono pozzi antichi, neri, profondi. I cristalli ambrati che ha appesi al collo fanno clink appena annuisce. "Certo. Però, non sarà contenta quando scoprirà che sei venuto e non sei andato a trovarla," aggiunge, sarcastico.

Kristoff fa una smorfia. "Lo so."

"Di cosa hai bisogno?"

"Beh, è che—Anna mi ha detto che si sente ancora gelata. Tutto il tempo. Ieri mattina è uscita vestita completamente con gli abiti invernali. E me lo ha accennato, quando si è fatta male. È—è normale?" Per quanto normali, pensa, potessero essere le cose che la riguardavano.

Papi si acciglia. "La sua situazione è, di per sé, unica. Si è trasformata, da quanto ci hai detto, completamente in ghiaccio, prima di sciogliersi. Per alcuni secondi è diventata tutt’uno col ghiaccio. Non c’è da sorprendersi, quindi, che ne abbia trattenuto un po’, anche dopo il disgelo."

Kristoff si lecca le labbra. A volte si chiede come faccia ad amare tanto il ghiaccio, dopo tutto quello che gli aveva fatto passare. "Esiste un modo, qualsiasi, di farlo—andare via?"

"Forse, col tempo," Papi risponde, grattandosi la criniera di erba morente. "Ci deve sempre essere speranza per cose del genere. Pensavo, comunque, che tra sua sorella, se stessa, e te, avesse trovato tutto l’amore di cui aveva bisogno per sciogliere un problema del genere."

"Oh, non credo che sia innamorata di me," fa in fretta, arrossendo.

"Cosa te lo fa dire?" Papi inclina la testa.

"C’è qualcosa che possiamo fare per aiutarla?" Kristoff chiede; e la differenza tra Granpapi e sua madre è che Granpapi gli lascia cambiare argomento. Il vecchio troll annuisce lentamente.

"Un poco, sì." Batte una delle sue dita grigie, tozze, sul terreno. Si sente una specie di tintinnio, e l’erba si piega; sotto di essa, la terra sembra una bolla, la superficie che fluttua, multicolore. Granpapi dice, "Dalle profondità della terra io ti invoco, o cristallo che porti il calore del fuoco."

Piano, pianissimo, una punta arancione spunta fuori dal terreno. Papi allunga la mano e la estirpa, come un fiore, un cristallo non più grande del suo pollice, che brilla di un arancio-rosso caldo, ambrato. Lo stringe tra le mani e dice, con aria cospiratoria, "Manteniamo la cosa tra me e te, ok? Non vogliamo di certo che i piccoli pensassero di poter evocare cristalli di fuoco a loro piacimento."

Kristoff ride guardando Granpapi a bocca aperta. "Vuoi dire che in tutto questo tempo li hai mandati a fare missioni—"

"Shhhhhh," l’anziano troll sorride affettuosamente. "Ecco, prendi. Dovrebbe dare alla principessa un po’ di sollievo dal freddo."

Kristoff prende in mano il cristallo con attenzione. Immediatamente sente il calore percorrergli le dita, una sensazione piacevole, un pizzicore tiepido, anche attraverso i guanti spessi. Lo infila nella sacca. "Grazie, Gran Papi."

"Kristoff," Papi sorride, "sei di famiglia. A volte ho paura che te lo sia dimenticato."

"Ho sentito bene… Kristoff?"

"Oh, no," Kristoff dice, mentre Bulda rotola verso di loro dalla valle e salta su, le sopracciglia aggrottate per la rabbia. "Ma, non è quello che—"

"Quindi adesso non ti abbassi a visitare tua madre, eh? Pensi di andartene via di soppiatto, strisciare al margine delle cose—vieni qui!" Balza in avanti e lo stringe in un abbraccio che lo manda a gambe all’aria.

"Ma!"

"Ti avevo detto di non usarla, quella gamba! Ragazzi!" urla, voltando la testa. Kristoff coglie lo sguardo divertito di Papi.

"No, Ma, ti prego, devo andare, Sven mi aspetta—"

"Kristoff è a casa!" strilla allegramente.

Papi gli sorride mentre lo trascinano fuori dal loro piccolo nascondiglio, fino al centro della valle. "Fattelo scivolare addosso," fa il vecchio troll, saggio.

"è dura," Kristoff sospira, tirando su col naso.

E poi è travolto.


"Siete entrambi consapevoli, presumo, di ciò che dipende dal successo di questo viaggio?"

"Sì, vostra maestà," rispondono in unisono.

"Bene." I gabbiani strillano nell’aria del primo mattino. "Che sia un viaggio prospero, ambasciatori," proclama ad alta voce, con un sorriso sincero, profferendo una mano. Tomas la stringe per primo. La fiala scivola non vista tra i loro palmi; suo fratello la intasca con disinvoltura. La stretta di mano di Viktor è pura scena. Alfons dice, sottovoce, in modo da evitare che la gente riunita sul molo li senta, "Una goccia. Tutto quello che ci vuole."

Tomas e Viktor fanno due ghigni identici, scaltri e bramosi. "Sì, vostra maestà," rispondono in unisono.

Si volta, pronto ad andare via dal pontile, il sole che gli scalda la schiena. All’ultimo secondo, si ferma. "Oh, e ragazzi?"

"Sì?" rispondono.

"Nel caso incontriate Albert," il re fa un sorriso a labbra serrate, "portategli i miei saluti."

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

 

 

 

Bussano alla porta della biblioteca.

A Elsa balza il cuore in petto. Quando inizia a battere di nuovo in maniera normale, è un ritmo lento e irregolare. Posa la penna con attenzione, lisciando l'estremità storta della piuma, mezza masticata, e le ci vogliono tre secondi interi per far ritirare il ghiaccio che era spuntato dalle mani strette a pugno. Le venature del legno diventano di nuovo visibili.

"Sì?" risponde, stringendosi le mani in grembo e volgendo lo sguardo alle porte bianche della biblioteca.

Si aprono lentamente, cigolando. Riesce a sentire il proprio futuro nello scricchiolio dei cardini. Subito dopo Kai entra, con l'aria seccata, e a corto di parole, ed Elsa chiude gli occhi. Respira—dentro, fuori, dentro—e quando li apre coglie il vapore del proprio respiro fluttuare in alto in nuvolette.

"Vostra maestà," Kai comincia, e lei, appollaiata sul bordo della sedia, ha paura di quello che sta per dire. "Scusate per il disturbo."

"Kai, nessun disturbo, affatto," risponde educata, coprendo con una mano tremante l'angolo arricciato della pergamena su cui era scritto il dettaglio spese che stava esaminando, nascondendo di soppiatto la caricatura di un pupazzo di neve.

Kai si guarda alle spalle, si lecca le labbra. C'è uno sciame di farfalle che si scatenano nel suo petto, ed è certa che uno di questi giorni si sarebbe spezzata, e che sarebbe crollata; che uno di questi giorni le sue fragili vene di ghiaccio sarebbero giunte, infine, al limite di sopportazione. "Maestà, due—"

Non dire navi, non dire ambasciatori, non dire navi, non dire ambasciatori—

"—bambini sono riusciti a intrufolarsi nel cortile del palazzo."

Sbatte le palpebre, il nodo nel petto che si scioglie come la schiuma di un'onda sulla sabbia. Chiede, "Bambini?"

"Sì, vostra maestà." Kai risponde di nuovo, impacciato.

"Beh," inizia, lentamente, chiedendosi come rendere trova i genitori e falli andare via senza sembrare troppo—fredda. "Beh, avete trovato i loro genitori?"

"Sono venuti da soli, vostra maestà"

Il silenzio si insinua tra di loro. Elsa sbatte di nuovo le palpebre, si lecca le labbra, dice dopo un momento, "Kai, temo di non capire del tutto dove sia il problema—"

"Uno di loro—la ragazza—è riuscita a—ah—eludere le guardie. E' alla ventura nel castello."

Elsa sbatte i denti con un clack, principalmente per tenere sotto controllo la risata che le stava salendo alla gola. Azzarda, "Alla ventura?"

"Sì, vostra maestà," Kai afferma, le guance che diventano scarlatte. "Ma l'altro," risponde, in fretta, "è stato catturato." Guarda dietro di sé, in tralice, uno sguardo pungente, da dietro quel naso grosso. "Vieni qui, ragazzo."

Si sentono passi piccoli, timidi, e un viso che le richiama qualcosa alla mente, lieve come un sussurro al margine dei pensieri, entra nella biblioteca, gli occhi fissi sui piedi. Kai incrocia le braccia e considera il bambino con uno sguardo severo. Dove l'aveva visto prima? si chiede, battendo veloce le ciglia. Riesce a sentire la mancanza di sonno come un dolore fisico che le percorre le spalle, su per il collo, che si accumula attorno agli occhi; insieme alla paura costante che il principe Albert non avrebbe fatto in tempo ad andarsene per intercettare gli ambasciatori, presente giù nello stomaco, nelle punte tremanti delle dita. Dove l'aveva già visto?

Oh.

"Petter?" azzarda piano, alzandosi in piedi, e il bambino sobbalza, colpevole. Riesce ad assorbire appieno più particolari del viso che aveva visto il giorno prima, appollaiato su una pila storta e vacillante di casse e scatole—è magro, quasi come un elfo, con una matassa di capelli ricci e rossastri al di sopra di un paio di occhi azzurri vividi. Il ragazzo. Il principe della torre. Gira intorno al tavolo, avvicinandosi lentamente, piano, fermamente. A un metro di distanza, più o meno, si piega, le ginocchia sfiorano il pavimento. Kai sussulta. "Conosce questo furfante?" le chiede; e non c'è cattiveria, solo shock.

"E' una mia conoscenza, sì," fa con un sorriso dolce, appena una piega delle labbra. "Petter, sei venuto assieme a Klara?"

Risponde, guardandosi i piedi, "Sissignora." Poi si inchina, goffo. "Maestà."

"Petter, alza lo sguardo."

Lo fa, accigliato, scattando—nervoso. Prova ad allargare il sorriso, ma i bambini erano—erano—

Beh.

"I tuoi genitori sanno che sei scomparso?"

"Nossignora. Maestà. No, maestà. Colpa di Klara," mormora, tirando su col naso e pulendosi la bocca col braccio. "Ha detto che dovevamo venire da te."

Elsa non riesce a immaginare proprio perché. Si raddrizza, e guarda Kai. "Puoi comunicare, a tutti i servitori, di cercarla?"

"Sì, vostra maestà." Kai si inchina. "E il ragazzo?"

"Beh," dice, tendendo la mano, "lui e io la cerchiamo assieme. Va bene, Petter?"

Occhieggia la mano profferta. Un respiro, due, tre, quattro—

La prende. Le sue dita sono piccole e appiccicaticce. "Penso che va bene," mormora, rivolto ai propri piedi.

"Conducimi," gli dice, facendo cenno con l'altra mano al corridoio dei ritratti, in ombra. Superando Kai, che ancora se ne sta in piedi piuttosto scioccato, sulla soglia, gli dice, con fare serio, "Devo dirtelo, questo non ha niente a che fare con una mia possibile fuga dalla lista dei conti." O con l'essere stanca di preoccuparsi di navi, ambasciatori, principi—

Kai risponde, accennando un sorriso incredulo, "Ma certo, vostra maestà."

Si sente gli occhi dei propri genitori sulla schiena mentre cammina lungo il corridoio.


"Che stai facendo?" Kristoff fa, inespressivo.

"Che? Oh, ehi!"

Ha la slitta piena di ghiaccio destinato agli ambienti refrigeratori del castello, che già inizia a evaporare e a sfrigolare ai bordi, anche se il sole è quello del pomeriggio, tiepido, ma in qualche modo, pensa, le sopracciglia che si sollevano dall'incredulità, Anna a cavalcioni sulla balaustra della propria balconata trenta piedi più su è più importante.

"Ehi, non ti—non ti avevo nemmeno visto, laggiù. Quando sei tornato?" gli chiede voltando la testa, facendo conversazione. "Come è andato il viaggio?"

Un paio di guardie alle sue spalle lo superano, sussurrando furtive e spiando sotto i cespugli, come se stessero cercando qualcosa. Sta iniziando ad avere caldo, con gli abiti invernali. Si dà uno strattone al colletto. Ma perché non la  fermavano? Era qualcosa che faceva spesso—penzolare dalle finestre e saltar giù dai palazzi e cadere nei crepacci—

"Scendi da lì."

"Che? No, no, no, sono totalmente al sicuro quassù, Kristopher, l'ho fatto un migliaio di volte—hai detto che non mi so arrampicare sulle montagne, ma so scalare i palazzi. E' facile, scivoli solo fino al bordo qui e—oops! Non così, non lo fare—"

Kristoff sta cercando di decidere quando sia diventata una maniaca suicida, e poi si accorge con un sussulto che è sempre stata una maniaca suicida, se si pensa a portami alla Montagna del Nord e prendimi! e ci limiteremo soltanto a parlare con mia sorella, la pazza regina delle nevi—si sfila i guanti e si pianta sotto di lei, braccia protese in avanti per parare la sua inevitabile caduta. Una cameriera si affretta e li supera.

Sul serio, ma era normale?

"Anna."

"Per favore, Kristopher," agita la mano con fare drammatico, spazzando via la sua preoccupazione. "Potrei farlo anche mentre dormo." E con questo si alza, solleva l'altra gamba portandola via dalla sicurezza del balcone, scavalca la ringhiera e la poggia sul cornicione sottile, cercando di arrivare al bordo di una finestra giusto poco sopra di lei.

E scivola.

E cade.

E atterra su di lui col peso di una renna.

"Porca—" rantola, cercando di riprendere fiato mentre lei gli rotola via di dosso. Apre la bocca esasperato, gesticolando incredulo e indica lei, e il balcone e il tetto e che c—

"Beh, di solito non cado," Anna tira su col naso, rigida, inginocchiandosi e spolverandosi la gonna. Allunga il braccio e gli dà delle pacche sullo stomaco con cautela, che riesce appena a sentire attraverso gli strati spessi del giaccone. "Mi hai messo tensione. Tutto ok?"

"Sono stato meglio."

"Ma respiri ancora," fa notare lei.

"Uno di questi giorni mi ucciderai."

"Ancora non ci sono riuscita," risponde sfacciata, con un ghigno fulmineo. Porge la mano e cerca di tirarlo su, ma dopo un po' si arrende e crolla accanto a lui. "Cielo, sei una montagna. Ehi, questo cos'è?"

E prima che possa mettere assieme abbastanza falsa rabbia per l'insulto, lei sta già allungando la mano verso un luccichio arancione che spunta dalla sua sacca. Lui la scaccia con un buffetto. "Niente. Non è niente. Non è per te, perché mai dovresti anche pensarlo?"

Stringe gli occhi, insospettita. "Kristoff—"

"Perché cercavi di arrampicarti sul tetto?"

"Beh, non sapevo quando saresti tornato," dice col viso rivolto al cielo. Sente un altro drappello di guardie superarli affrettandosi, e immagina che quadretto debbano essere, principessa e venditore di ghiaccio reale distesi sul terreno erboso pieno di ciottoli. "E ho pensato, perché non godersi questa bellissima giornata?"

"Avresti potuto godertela sul balcone."

"No, ho un posto speciale, ma ci si può arrivare solo arrampicandosi."

"Tu sei pazza."

"Forse?"

"Non hai—che ne so, roba da principessa da fare o cose così—"

"No. Non—Cioè. Non lo so." La voce si affievolisce, stringe le labbra. "No. Non io. Sono qui e basta."

Volta la testa per guardarla, prendendo in considerazione l'idea di scavare più a fondo, ma lei se lo butta presto alle spalle e si inginocchia di nuovo, riuscendo a colpirgli la testa mentre lo fa.

"Ohi—"

"Scusa!"

"Kristopher?" Un'altra voce. Lui si sfrega la mascella, alzandosi in piedi e volgendo lo sguardo al sentiero che porta al cortile centrale. Là c'è un uomo corpulento, con il naso grosso, e una familiare occhiata di quasi-disgusto. Kai. Quasi-disgusto probabilmente perché lui puzzava e Sven stava esaurendo le loro scorte di fieno e spazio, e lui era solo un venditore di ghiaccio, dopo tutto, anche se un venditore reale.

"Mi chiamo Kristoff," Kristoff dice.

"Sì, beh, il tuo ghiaccio si sta sciogliendo. Ti dispiace rivolgere la tua attenzione a esso, e sistemarlo nelle celle in cucina?" chiede.

"Certo." Kristoff risponde, senza sforzarsi più di tanto a rispondere. Invece si volta verso Anna, ancora in ginocchio a terra, e la afferra da sotto le braccia, alzandola in piedi.

"Oh, grazie, grazie di tutto, non avevo—ha!" ride nervosa, stringendosi la destra con la sinistra.

"Di niente," dice, e questa volta si sforza più di tanto a rispondere—un sorriso, piccolo e nervoso.

"Devo informarvi," Kai fa un educato colpetto di tosse, e rompono il contatto visivo, "che c'è una ragazza scomparsa che stiamo cercando di trovare. Sette, forse otto anni."

"Ragazza scomparsa? Ci penso io! Sì, sì, signore!" Anna offre il saluto, quando invece, Kristoff pensa, battendo velocemente le palpebre, quello che avrebbe dovuto fare era chiedere, no, come ci fosse arrivata lì la ragazza, da dove veniva, che ci faceva nel palazzo. Pensa che quest'atteggiamento nonchalant verso tutte le situazioni insolite debba davvero dipendere solamente dalla questione dei cancelli chiusi e della magia del ghiaccio.

Sì, quello.

Kai le fa un sorriso affettuoso, prima di rivolgere a Kristoff un'ultima occhiata, quasi fulminante—doveva riconoscerglielo, sapeva nascondere bene le proprie emozioni—e torna da dove è venuto.

"Beh, devo andare—il ghiaccio e—già." Le dà un bacio sulla guancia leggero, veloce, insicuro. Lei sorride.

"Ehi, Kristoff?"

"Sì?" si ferma, voltandosi a metà.

"Il mio nascondiglio segreto. Più tardi te lo mostrerò."

"E' un appuntamento," fa senza pensare, e poi impallidisce. "Voglio dire, potrebbe essere un appuntamento, se tu volessi—voglio dire, umire con sce—no, voglio dire, uscire con me—"

"Kristoff!" Anna ride, con gli occhi che brillano. "E' un appuntamento."

Lui annuisce, un lato della bocca che si solleva.

Kristoff ritorna nel cortile saltellando.


"A che gioco stavate giocando, ieri?" Elsa chiede piano. Stanno controllando dietro tutte le tende della sala dei banchetti, attenti in ascolto del più piccolo passo, del più lieve respiro. All'improvviso il palazzo sembra come infestato—le tende che ondeggiano, il baluginio delle candele, quel qualcosa che guizza negli specchi quando passano—tutto potrebbe essere una ragazzina che si nasconde nell'ombra.

Ma quando si avvicinano, e non trovano nessuno, Elsa riesce solo a pensare ai fantasmi.

"Salva il Principe," Petter risponde serio. "Qualche volta è Salva la Principessa, ma a Klara quello non va tanto."

"Capisco."

Dietro le tende non c'è altro che muro. Sospira.

"Beh, Petter. Suppongo che dovemmo provare nell'atrio, adesso."


"Oh," Anna dice, sorridendo lentamente. "Salve."

"Salve," la bambina tira su col naso.

Era bello il suo posto segreto, e sarebbe stata una giornata piacevole se l'avesse passata a fissare il cielo da lì, senza dubbio, ma qualcosa del fatto che quella sera l'avrebbe mostrato a Kristoff le faceva venire le farfalle allo stomaco, e tendere i nervi come corde di violino, quindi era andata nel suo secondo posto segreto, che non era proprio un posto segreto, era più la galleria d'arte—

"Sei tu quella che cercano tutti?" chiede, facendo un passo avanti. Conosceva ogni centimetro di quella stanza, ogni quadro, ogni panca, ogni pannello dell'intricato parquet. La luce pomeridiana irrompeva dai vetri a piombo. C'era una ragazzina che fissava uno dei dipinti più grossi, la testa piegata di lato, e Olaf era in piedi accanto a lei.

"Anna," inizia il pupazzo di neve, "Non so se dovresti esserne al corrente, ma ho trovato una bambina."

"Lo vedo," Anna dice, con un passo avanti. "Hai messo in agitazione tutto il palazzo," continua. "Voglio dire, quasi come la volta in cui mi sono chiusa nella credenza da sola e dovettero, ecco, tirarmi fuori con una sega—ovvio che fu un incidente, volevo solo un po' di pudding al mou, voglio dire, quella roba è fantastica, l'hai mai mangiata?"

"No."

"Huh, sul serio? E comunque penso proprio che fosse stantio." Anna fa spallucce. "Cheffai?"

"Guardo i quadri."

"Hm," Anna si ferma, in piedi accanto alla ragazzina e al pupazzo di neve, e guardando in alto uno dei suoi preferiti—la ragazza sull'altalena. "Questo lo adoro."

"Le stavo proprio raccontando di come tu ed Elsa li abbiate dipinti tutti," Olaf fa, battendo le mani. "Non sono artiste fantastiche?" sussurra a mezza bocca.

"Ma per niente 'sti qua li hai fatti tutti te," afferma la bambina.

"No, io ne ho dipinti solo, tipo, sei." Anna si esamina le unghie. Poi sorride. "Scherzavo! Li abbiamo presi tutti da—commercianti o cose così, non lo so. A mia mamma piacevano un sacco i dipinti."

"Chi è tua mamma?"

"La Regina."

"La Regina?"

"Beh, la regina di prima. Adesso la regina è mia sorella. Quindi, mia mamma era la vecchia regina—apprezzava l'arte," Anna dice, inclinando la testa in alto verso la fanciulla felice, le delicate sfumature di rosa e verde. Era stata sul punto di dire, apprezzava la bellezza, ma poi pensa ai poteri di Elsa, e cambia in, apprezzava la bellezza sotto controllo.

"Tu non sei la principessa."

"Perché no?" Anna chiede, imperturbata

"Perché le principesse indossano corone e vestiti eleganti. Tu invece hai la terra sopra la gonna."

Anna si guarda il corsetto informale, la veste sotto di esso ancora più informale, e la gonna stropicciata e spiegazzata. E ti pareva, c'era una macchia d'erba su un fianco, e una marroncina su un ginocchio, che si era fatta quando era atterrata su Kristoff. Cosa che stava diventando un'abitudine. Probabilmente avrebbe dovuto smettere.

"Hai ragione."

"E quindi tu chi sei?"

"Chi sei tu?"

"'So' Klara."

"Io sono Anna."

"E io sono Olaf!"

"Che lo so ," scatta la bambina, rivolgendosi al pupazzo di neve.

"Ti diverti, a guardare i ritratti?" Anna chiede. La bambina la considera, con le labbra premute, un broncio testardo.

"Sì."

Anna sorride. "Mi piacevano un sacco perché ti potevano portare altrove. Non sono mai stata brava con l'arte, però."

"Già."

Anna la guarda in maniera furbetta, e dice, "Vuoi divertirti  di più?"

Klara annuisce.


Elsa guarda, in basso, Petter. Il bambino sembra infelice, e stanco; e i suoi genitori, ovunque essi siano, sicuramente sono preoccupati da morire.

"Solo quest'ultima sala," dice, mentre voltano l'angolo ed entrano nel corridoio con la porta che porta galleria dei ritratti. "Sono sicura che è qui."

"Mhm."

Si ferma col piede a mezz'aria, perché la porta in questione è aperta, e si sentono riecheggiare delle risate.

Elsa avanza in fretta.

Voleva solo trovare la sua amica, per farlo contento, ma beh, è che solo—è che non—era—

Anna rimbalza su e giù sui cuscini decorati delle panche, Klara accanto a lei, e ridacchiano tutte e due come matte. Olaf galleggia sul pavimento di legno, urlando, "Più in alto, alto! Scivola e gira, scivola e gira!"

—era la sorella inadatta a quel compito.

"Klara, sei in  groooooossi guai!" Petter le urla, a mò di saluto.

"Non è vero!" Klara urla di rimando. "Da dove sei spuntato?"

"Ehi, Elsa, ho trovato la ragazza!" Anna ghigna. La panca si sposta, scivolando via dalla loro traiettoria, e finiscono con l'essere un groviglio al suolo. "Cavolo, oggi sono praticamente sempre a terra da tutte le parti, e che cos' è—"

"Vedi, non puoi essere na principessa, vedi che continui a cadere."

"Sì, si, infierisci, perché no—"

Elsa allaccia le mani avanti a sé, osservando la scena. Petter pattina in avanti, inciampando per la fretta su Olaf cosicché il pupazzo si rompe in tre parti e scivola lungo il pavimento. Il bambino atterra pesantemente sul sedere a parecchi metri dalla sua amica, e continua, all'istante, a urlare, "Non ti puoi intrufolare nei posti—"

"E invece si!"

"E invece no! Hai costretto la maestà-regina a cercarti dappertutto—"

Klara si stropiccia gli occhi, alzando il mento in direzione di Elsa. Si alza in piedi, e ad Elsa all'improvviso tornano in mente le parole del Principe Albert, il giorno prima—Credo proprio che Klara un giorno si unirà alla Sua guardia Reale

"Devi far venire Albert a trovarci," fa la ragazzina.

Elsa sbatte le palpebre, attonita. Era stato questo a provocare tutto il grande fiasco? Anna la guarda confusa, ancora spaparanzata a terra senza grazia.

"Se ne è andato e ha detto che non  poteva tornare più," Klara spiega, "ma non abbiamo finito la partita. E ha perso questa." Klara ripesca da una delle ampie tasche del vestito troppo grosso un pezzo ripiegato di pergamena. E' stropicciato dal correre, e dai giochi; spiegazzato, e sporco. Ma c'è il sigillo di Arendelle impresso inconfondibilmente sul retro in ceralacca viola sontuoso. "Mamma l'ha presa e ha detto che oggi veniva a palazzo, ma poi ho visto che la nascondeva sotto il cuscino, quindi l'ho presa io."

Elsa ha freddo, dalle punte delle dita alla pianta dei piedi. La temperatura nella stanza cala vertiginosamente. Sua sorella se ne accorge subito, si tira su e fa un passo avanti. "Elsa?" chiede. "Cosa c'è?"

La lettera che aveva scritto lei. La sua lettera. Ovvio, il principe Albert l'avrebbe opportunamente persa, ovvio, sperava che sparisse—era stata una stupida a credergli sulla parola, troppo ingenua, troppo—troppo tutto—doveva essere una regina forte, una regina giusta, e questo voleva dire mandare i propri ambasciatori, risolvere la questione, e niente più Isole del Sud

"Elsa!" La voce di Anna è tagliente. C'è della brina lungo la cornice della porta, sui pannelli delle finestre. Il ghiaccio incede dagli angoli della stanza, minacciando i dipinti. Con un respiro veloce recede. Scompare. Alza gli occhi. Incrocia lo sguardo allarmato della sorella.

"Sì," fa distratta. "Sì, dovremmo andare dal principe Albert."

Klara batte le mani eccitata, dimenticando la lettera, che cade a terra come una foglia morta. La ragazzina inizia a parlare con Petter, grida di avventura e divertimento. Elsa si avvicina alla cosa caduta a terra come un cadavere, chinandosi, raccogliendola in modo alquanto meccanico. La ripiega e la intasca.

"Stai andando dal principe Albert?" Anna chiede.

Elsa va verso la porta.

"Elsa!" Sua sorella urla, abbastanza disperata. Lei si volta, scossa dalla sua trance. "Elsa, che c'è?"

"Devo parlare con il principe."

"Non puoi lasciarlo perdere? Per favore?"

Elsa tasta la lettera. "No. No, non posso."
"Beh, lascia che porti io Klara e—e—diamine, non—beh, lascia che porti tutti e due da lui e poi a casa propria, perché tu invece non—"

"No. No, devo risolvere la questione." Pensava di aver risolto la questione.

"Elsa, lascia che ti aiuti, ti prego!"

"Non puoi, Anna," Elsa sospira. "Sono io la regina."

Anna rimane a bocca aperta. Avevano davvero fatto pupazzi di neve solo la scorsa notte? Sua sorella rimane a bocca aperta, ed Elsa sa perché—perché Sono io la regina era solo un modo per dire tu sei la figlia di troppo, o qualcosa del genere—che non era quello che—non era quello che voleva implicare, solo che non riusciva a organizzare i pensieri. Si sentiva così sottile, come un velo di burro strusciato su troppo pane—

"Terrò la bocca chiusa davanti a lui." La voce di Anna è sottile. "Te lo prometto."

Elsa scuote la testa. "A breve sarò di ritorno. Petter. Klara," chiama, cercando di contenere il gelo che trapela dal suo tono.

Vuole dormire.

Si volta via, verso l'atrio. Il suo volto è teso. E' così stanca.

"Sono io la regina," sussurra.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

 

 

 

"Ho bisogno di parlare col principe Albert."

"Beh, scusasse tanto, maestà, ma adesso sta sottocoperta che esamina lo scafo—"

"Immediatamente."

"Sissignora."

Il marinaio si affretta alla plancia. La rabbia della regina è palpabile, non importa quanto cerchi di controllarla—filtra attraverso il molo e si inarca sull'acqua, scritta nella linea sottile delle labbra, e la posizione rigida delle mani. Sono rimasti due bambini, nella piazza, che, controllati da due guardie, vogliono vedere quest'uomo. Questo sciatto, privo di fascino, buono a nulla—

Nemmeno l'amabile Mastro Olin osava avvicinarsi. Riesce a sentire lo sguardo del capitano di porto da lontano, lungo il molo, dove senza dubbio aspettava in attesa di intervenire qualora ce ne fosse bisogno—

"Regina Elsa?" La testa scompigliata del principe Albert emerge da dietro il parapetto. Ha il respiro un po' corto, e sembra che abbia del catrame, o della pece, appiccicata sotto l'occhio sinistro. Appare anche il resto del corpo, ed è del tutto impresentabile—una camicia bianca larga con le maniche arrotolate fino ai gomiti, e i pantaloni strappati su un ginocchio. Si pulisce le mani con uno straccio. Evita una grossa asse di legno che viene trasportata lungo il ponte passandoci sotto, e si affretta giù per la plancia fino al molo, quasi inciampando sui propri piedi per la fretta. Le labbra sono piegate in un sorriso timido. "Non credevo—voglio dire, dopo—ciao! Voglio dire, salve, sua maestà”. Si inchina impacciato, una volta arrivato allo stesso livello. "Come sta?" Tenta di appoggiarsi all'indietro contro la nave, ma lo spazio è troppo; quasi cade.

Non risponde, mantenendo il viso piatto, inespressivo. Uno scricchiolio, e il ghiaccio si forma in furiose lastre rossastre sull'acqua sotto di loro.

"C'è—c'è qualche problema?" Chiede il principe Albert, col sorriso che si spegne. Glielo fa fare un sacco di volte, non è così? Elsa pensa cupa, e poi si accorge che non importa, perché premuta contro il suo fianco c'è la lettera, perché era—era suo fratello—nessuno aveva possibilità con lei—e nessuno poteva sul serio essere così stupido, vero?

Vero?

Quegli occhi—i suoi occhi—sono confusi. Elsa fa un respiro profondo.

"Questo," risponde, fredda. Si sfila la lettera dalla tasca, reggendola come un soldato ferito. "Questo è il problema."

"Che cos'è?" il Principe Albert chiede, accigliato, e poi le sopracciglia gli arrivano fino in mezzo alla fronte, e si tasta le tasche. "Oh, cielo."

"Confidavo nel fatto che l'avrebbe riportata al sicuro alle sue rive, ma se insiste continuando a buttarla via, allora posso solo presumere che ciò rifletta le posizioni su cui siamo—"

"No, non è—io non—"il principe si passa una mano tra i capelli che cascano sulla fronte. "Non volevo—"

"Le ho garantito porto sicuro, ma posso ritirare—"

"No, Regina Elsa, io non—"

"E non desidero intrattenere ulteriori rapporti con alcun membro delle Isole del Sud—"

"Regina Elsa!". Le stringe le braccia tra le mani. Sono calde, molto, e il ghiaccio attorno ai suoi piedi all'improvviso si ferma. Sbatte le palpebre, colpita, e poi lui sbatte le palpebre, colpito, fissandola a bocca aperta, e le guardie erano nella piazza che sorvegliavano Klara e Petter, altrimenti gli sarebbero state addosso in un attimo—

La lascia andare immediatamente, praticamente saltando via, come se si fosse scottato. Deglutisce dopo un respiro profondo, indicando la lettera ancora stretta tra le mani di lei.

"Le giuro che non ho fatto cadere quella lettera di proposito."

E i suoi occhi—quegli occhi

Riesce a leggerli come un libro aperto. C'è rabbia, ma avverte, dall'arco ricurvo delle spalle, che è per la maggior parte diretta a se stesso; un po' di incredulità; un sacco di nervosismo dovuto alla timidezza; e qualcosa al margine, qualcosa che trapela quando le fissa il viso; qualcosa che sembra meraviglia. E lui non dice niente della neve accumulata attorno ai suoi piedi, o del ghiaccio nel porto, o del modo in cui la temperatura cala di dieci gradi quando le si avvicina. Sente ancora l'impronta delle dita sulle proprie braccia.

La lettera sta tra di loro come polvere da sparo.

Scuote la testa, sbatte le ciglia. Sussurra, "E' solo che non credo di potermi fidare di lei." C'è una parte di lei che vuole sinceramente fidarsi di qualcuno, e una parte di lei che urla vai via, vai via, vai via

"Abbiamo questa cosa, giù a—giù, a casa,” fa lui dopo un momento, quando le urla lungo il molo si intrecciano tra di loro, e parla in tono ugualmente basso, cosicché è costretta ad avvicinarsi per riuscire a sentirlo al di sotto delle voci degli uomini che strillano sul ponte sopra di loro, "Io e i miei fratelli—"

"Non ho alcuna voglia di sentir parlare dei —"

"No, non è—senta, è solo—da dove vengo io, i giuramenti contano. Sei vincolato. Si dice, giura su qualcosa a cui tieni. Io giuro" inizia, guardandola finalmente negli occhi con quegli occhi, quelli che non riesce a decifrare, che non stanno bene sul suo viso lentigginoso, sul naso storto, e per la prima volta quegli occhi non scattano verso l'avambraccio in cerca di aiuto. Pensa che stia per dire l'oro. Pensa che stia per dire il suo regno. Il suo titolo di principe. La sua vita. Invece dice, "giuro sul per sempre felici e contenti che non le sto mentendo".

Si raddrizza, il pugno che involontariamente si serra attorno alla propria scrittura ordinata, sgretolando l'emblema di Arendelle. Nella sua incredulità, il ghiaccio si ritira. "Per sempre felici e contenti?" Mi stai prendendo in giro? vuole dire, ma non è—non riesce a essere—Anna.

Lui arrossisce, da una parte all'altra del naso storto, e adesso si strofina l'avambraccio quasi con violenza, come pregando che un discorso vi appaia per magia. "E' la cosa a cui tengo di più, perché significa che c'è speranza." Quasi borbotta. Praticamente si mangia le parole. "Hans diceva sempre che i per sempre felici e contenti erano da storielle per bambini e per sogni da femminuccia. Diceva sempre che non—che non avevano spazio nella vita reale. Ma dovevo sperare. Perché se non lo avessi fatto, non ci sarebbe stato più niente." E poi, come ricordandosi che c'è lei lì, si raddrizza e ripete, "Ecco quello su cui giuro."

Momento. Due. "Non la capisco," sospira, ed è tanto, tanto stanca.

Fa un mezzo sorriso. "Va tutto bene. Nemmeno io mi capisco."

"E' una cosa orribile, non capire se stessi."

La guarda per un lungo momento, poi tossisce a disagio. Giocherella di nuovo con la manica. "Sono sicura di averla fatta cadere mentre me ne andavo. Perdo sempre le cose. Felix diceva sempre che avrei perso la testa, se non fosse che è attaccata al collo, ma poi lui—beh, non importa, non è—devo averla persa vicino al—" e poi si rende conto. "Ma come l'ha trovata?"

"Petter e Klara sono venuti al castello a sgridarmi, per averla confinata alla sua nave," Elsa quasi sorride guardando la lettera, anche se le viene parecchio da vomitare. "Klara ce l'aveva. Aveva intenzione di restituirgliela."

"Sono—" si guarda attorno, gli occhi che esaminano gli uomini che brulicano nel porto.

"Sono nella piazza del mercato, non volevo—che vedessero," finisce.

"Vedermi impalato?" Sorride, dando un colpetto al ghiaccio accanto al suo piede, poi—"Scusi, non è divertente, è che. Già. Sì, voglio dire." Si volta a guardare gli uomini che sciamano sulla sua nave. "Posso riportarli a casa, se vuole. Può farmi sorvegliare da una guardia e tutto il resto."

"No, io li—" ma mentre sta per finire si accorge con un sussulto che non avrebbe potuto riportare i bambini a casa, anche volendo; non poteva trovare la piazza senza chiedere indicazioni. Stringe le mani, sentendo tra di esse la carta ruvida della lettera. Un saporaccio in bocca. C'erano state così tante porte chiuse, per così tanto tempo, e lei fluttuava al di fuori di esse. Anna era da qualche parte, al castello. Avrebbe dovuto andare a scusarsi—

Ma Petter, e Klara—

Ma il Principe Albert—

"Mi permette?" chiede piano, dopo un momento. Accenna alla lettera sgualcita. Gliela lascia prendere, e lo osserva mentre la liscia con attenzione appoggiandola al ginocchio. "Ecco. Praticamente nuova."

Controllati, pensa, guardando il porto, osservando il ghiaccio crollare nelle tiepide acque estive, controllati.

"No, manderò le guardie a prenderli," fa alla fine.

"D'accordo. Beh, dite loro—dite loro che dico ciao, allora—se non è chiedere troppo. Voglio dire, se non è troppo disturbo."

"Ma certo."

La sua rabbia è quasi esausta, lasciandola ancora una volta scarnificata. Non aveva mai reagito così prima—con rabbia. Non l'aveva riconosciuta, insinuarsi su per la gola, cerchiarle i piedi di ghiaccio, finchè non era uscita fuori dal castello, nell'aria fresca della città, fin quando non si era accorta che aveva parlato troppo bruscamente ad Anna, e aveva, forse, esagerato, e adesso era troppo tardi—

Ma era stato così bello, pensa con un sussulto.  Sentire.

"Regina Elsa," il Principe Albert si azzarda dopo una pausa imbarazzante. "So che non dovrei permettermi. Ma lei—lei sembra—profondamente ferita."

"Ha ragione," sente la rabbia dura, gelida, che ritorna. "Non deve permettersi."

"Prima che mio fratello Fredrik partisse per la guerra," comincia, lanciandole una breve occhiata, come in attesa che scattasse con niente più fratelli—ma lei rimane in silenzio, odiandosi per la sua curiosità, per la sua gentilezza, per la sua diplomazia—"beh, eravamo soliti sgattaiolare via dal castello per andare a dare un’occhiata in giro. Per entrare in contatto con il popolo. Felix ha iniziato a farlo, in realtà, ma era solo un modo per vedere—quello che accadeva e—più o meno dimenticare, forse, che fossimo reali. Per poche ore, almeno."

Il pensiero è spaventoso. Il pensiero è nuovo. Lei è regina. Togliendo quello, cosa sarebbe stata?

Solo Elsa?

Impensabile.

Vattene.

Vattene, subito.

"Arrivederci, Principe Albert." Si gira per andar via. Si ferma. Volta indietro la testa. "Mi dispiace se ci sono stati fraintendimenti."


"Lo so che è la regina," Anna dice a Olaf, stesa a braccia aperte sul pavimento della galleria che osserva il pendolo dell'orologio del nonno. La sembra di avere di nuovo nove anni. "Questo non significa che io non possa, tipo, aiutare o niente—so fare un sacco di cose, come—come—"

"Come scivolare giù dalle montagne!"

"Esatto!" Anna strilla, d'accordo. Olaf si contorce accanto a lei.

"O, sai, trovare puzzolenti re delle renne."

Anna sorride. "Esattamente esatto," sospira, così profondamente e forte che la frangetta per un attimo svolazza e scompare. "Voglio dire," geme, coprendosi gli occhi con un braccio con fare drammatico. "Perché non mi permette di  aiutarla?"


"Per favore, scortereste Petter e Klara fino a casa?"

"Sì, vostra maestà," la guardia replica.

"E Albert?" Klara chiede testarda.

"E' molto occupato in questo momento. Mi dispiace, Klara."

La ragazzina mette il broncio, pestando i piedi, e andava bene, sul serio, non doveva piacere per forza a tutti—

Petter è in piedi davanti a lei, e tende la mano appiccicaticcia. La prende, e lui si inchina, un inchino piccolo e da ragazzo, in mezzo alla piazza. "Maestà," dice, molto formale, e sembra troppo vecchio, troppo piccolo, troppo tutto, "grazie."

Elsa sorride, e non è quasi.


Il re dice, "Stai per compiere un grande servigio alle Isole del Sud, Hans. Una cosa che cancellerà tutti gli errori; che ti eleverà," conclude lentamente, "al di sopra di tutti gli altri fratelli."

Hans si lecca le labbra, e sente, attraverso il guanto, la punta dolorante dell'indice sinistro, che suo fratello aveva punto il giorno prima. Una goccia di sangue, rossa come il tramonto, in una ciotola di legno. Poi un vago, "Puoi andare. Sono sicuro che le tue stanze sono nello stato in cui le hai lasciate."

Hans vuole chiedere, mi eleverà al rango di re, ma non lo fa; evidentemente non riesce a far funzionare la bocca. I suoi giorni delle risposte sono rimasti chiusi nella cella.

Quasi gli mancano.

Dice, "Lieto di esserti utile, fratello."

"Tutto questo parlare di fratelli; sembra quasi che sia morto qualcuno!"

Re Alfons interrompe la sua camminata lenta e sicura. Hans accanto a lui rallenta. Appoggiato alla carta da parati rossa, mezzo nascosto dalle armature e delineato dalla luce del crepuscolo morente, c'è Lukas. Hans non lo vedeva dal giorno in cui era andato a fargli visita nella sua cella, per ammonirlo e sgridarlo nella sua maniera orribilmente ottusa. Sente il disgusto posarsi ai margini dei suoi pensieri, attorno agli angoli della bocca.

Lukas .


 In piedi in mezzo al corridoio, non poteva sembrare di meno il suo gemello, Hans pensa. Il re era bruno, con baffi folti, robusto e muscoloso; Lukas era magro come un fuscello, i capelli biondo sporco che cadevano sui tratti del viso puliti, ben delineati.

Combatteva a suon di bugie e trucchi e ingegno e furbizia. Hans non aveva mai provato alcuna forma di rispetto per quell'uomo.

"Lukas," Re Alfons fa in tono strascicato. "Che ci fai qui?"

"Mi informavo solo dello stato di salute del nostro fratellino liberato di recente. Come te la passi all'aria estiva, Hans?"

"Sto bene, grazie," Hans si inchina rigido.

"Eccellente, eccellente. Proprio eccellente. Dimmi, Alfons," e c'era solo una persona a cui era permesso chiamare il re con questo nome, "A quanto pare mi mancano delle mappe topografiche. Quelle che riportano lo Stretto del Drago, l’Oceano Nero—Arendelle. Le hai viste?"

"Certo che no," il re scatta.

Lukas scrolla le spalle. "Allora controllavo solo." Li supera, scompigliando i capelli di Hans mentre passa. "Adieu, fratellino. Oh, e Alfons?"

"Hm?"

"Notizie di Albert?"

"Sta bene."

"Ah. Che deliziosa notizia."

"Proprio."

"Beh, allora! Ciao ciao, fratello."

I suoi passi riecheggiano lungo il corridoio. Il re esclama, senza tanta emozione, "E' solo un peso."

E Hans chiede, "Perché non lo uccidi e basta, allora?"

"Perché, Hans." Il re scrocca il collo. "A ogni morte, il suo tempo."


Dimenticare che fossimo reali per poche ore—

Poche ore—

Dimenticare—

Elsa osserva le carte sparse sulla scrivania e arriccia le labbra. Curioso, detto da qualcuno—che cos'era, pensa, fredda, dodicesimo in linea di successione? Ovvio che lui poteva farlo. Era un mondo diverso, non avere il peso di un regno. Lei avrebbe potuto volare, senza il peso di un regno. Librarsi, in mezzo alle stelle.

Sente le unghie premere contro i palmi, piccole lune crescenti che scavano nella sua carne. Parole e lettere sulla pergamena si confondono, sciolgono, scorrono—commercio e tasse e mercanti e guardie. Chiude gli occhi, poggiandosi due dita lenitive su ogni tempia e facendo appello alla propria maledizione. Si posa all'altezza degli occhi—freddo, gelato sollievo.

Avrebbe camminato fino all'atrio e sarebbe andata fuori nel cortile. No, scivolata—sarebbe scivolata giù fino all'atrio e fuori nel cortile, e gli sguardi dei regnanti precedenti le sarebbero scivolati addosso come fa l'olio con l'acqua, fluidi, innocui. Ci sarebbe stato il cielo, completamente sveglio sopra di lei, verdibluviola che pulsavano su un oceano di stelle che poteva afferrare e tenere chiuse tra le mani. Sarebbe uscita dai cancelli, attraverso il ponte, e ci sarebbe stata Arendelle, accesa e bellissima e meravigliosamente viva. Avrebbe ascoltato la sua gente e avrebbe sentito i battiti dei loro cuori, le loro speranze, i loro sogni. Avrebbe volato su, su, su

Si costringe ad aprire gli occhi. Il fuoco è quasi spento. Fuori, il cielo si rabbuia al crepuscolo. In un mondo perfetto, pensa, raggruppando le carte davanti a lei in pila e posandovi in cima la piuma, in un mondo perfetto avrebbe governato dal suo palazzo di ghiaccio.

Si chiede, alzandosi con garbo dalla sedia con lo schienale rigido, se sia ancora lì, o se abbia iniziato a sciogliersi, come un fiore appassito, morente. Si chiede cosa gli sarebbe successo, solo sulle montagne, e si chiede se sarebbe rimasto lì per sempre, o se sarebbe andato alla deriva con la sua morte—se si sarebbe sciolto e sarebbe slittato giù lungo il fianco della montagna.

Sarebbe successo? Quando sarebbe morta, tutto sarebbe solo—scomparso?

Olaf apre la porta. Elsa sobbalza. Stava fissando uno dei modellini delle navi in bella mostra sugli scaffali. Detestava le navi.

"Elsa?"

"Ehi, piccolino," sorride. Il secondo sorriso in tutto e per tutto di quel giorno, e già presenta il conto.  E' che è tanto stanca. Profondamente ferita. Ecco cosa aveva detto Albert. Profondamente ferita. Non era per niente profondamente ferita, era totalmente, terribilmente ridicolo—

Si volta, allungando la mano per afferrare un altro ceppo da lanciare nel fuoco, e del ghiaccio schizza dalle punte delle sue dita in cinque perfetti archi congelati. Il ghiaccio sbatte contro la pietra del caminetto e si frammenta, facendo piovere gocce e rugiada e spegnendo il fuoco completamente.

Beh.

"Cosa posso fare per te?" dice in fretta, cercando di nascondere la gaffe, strizzando gli occhi in cerca dei fiammiferi al buio. Ne sfrega uno contro la pietra e lo lancia tra i tizzoni, e un altro ceppo su di essi, e un altro, finchè riesce quasi sentire il calore. Posa le mani vicinissime al fuoco, e poi pensa che è ora di smetterla con questi momenti auto indulgenti.

Si volta.

Olaf la guarda a occhi spalancati e sbattendo le palpebre, davanti a quelle porte bianche della biblioteca. Dice, "Beh, niente, in realtà. Volevo dire ciao. Come te la passi?" La bocca infantile si apre in un sorriso contagioso, e ondeggia fino alla finestra, per spiare fuori dai vetri piombati. " Hai dato a quel tizio principe una bella lavata di quello-che-è?"

"Una che?"

"Si, quella. Beh, allora?" Il naso di Olaf affonda sempre più nella sua testa man mano che preme la faccia contro il vetro.

"Suppongo di no. Forse. Non lo so."

Non vuole sedersi di nuovo su quella sedia. Invece raggiunge il pupazzo di neve, raccogliendo le gonne attorno a sé e appollaiandosi sul davanzale della finestra, come faceva quando era piccola e imparava tutto su commercio e tasse e mercanti e guardie. Fuori la città prende vita come solo di notte può fare, luci che cominciano a splendere alle finestre, uomini che urlano dopo una lunga giornata di lavoro, bambini che corrono fuori a salutare padri, madri, sorelle, fratelli. La famiglia. Olaf dice, a proposito di niente, "Lo sai, Anna è brava a fare un sacco di cose. Come trovare uomini disgustosi e scivolare giù per le montagne."

"E' tutto quello a cui siete riusciti a pensare?" Elsa risponde spensierata, osservando il sole che tramonta luccicare dall'altra parte del fiordo. Guarda Olaf in tralice, ma lui non le presta attenzione, quindi tira su le ginocchia contro il petto e si abbraccia le gambe con le braccia, poggiandoci sopra il mento.

"Fooooooorse," Olaf sussurra.

Elsa ride. Ride perché ancora non si era scusata con la sorella. Ride perché, ovvio, avrebbero pensato solo a quello—"Anna è brava a parlare con la gente. E' brava a essere coraggiosa. A essere espansiva. E' brava a prendersi cura delle persone. E' brava in un sacco di cose."

"Huh. Beh, sai," Olaf si risiede, cercando di afferrare il naso grosso dietro la testa con le impacciate braccia- rametto, "anche tu sei brava in un sacco di cose. Voglio dire, mi hai fatto tu."

Elsa gli spinge il naso attraverso il cranio con delicatezza

"Mi gira la testa!"

"Sono stanca, Olaf," sussurra lei.

"Dormi un po', allora," Olaf afferma con un sorriso e una pacca amichevole sul braccio. "E' il miglior modo di destancarsi."

Elsa, molto velocemente e prima che possa pensarci due volte, si allunga in avanti e stringe il pupazzo di neve in un abbraccio, la  guancia premuta contro il lato della testa; sente il solletico che gli fa la sua nevicata, e sa che la neve le sta cadendo sulle spalle, e sulla gonna.

"Caldi abbracci!" Olaf strilla gioioso, ricambiandola. "Oooh, li amo!"

Dimenticare, Elsa prega, serrando gli occhi.

Dimenticare.


La stanza puzza di urina; carogne e carne in putrefazione. Fuori il sole sta calando. C’è il fuoco acceso nel caminetto e del tè posato davanti a esso. Sembra una presa in giro, la porcellana bianca che splende quasi d'oro nella penombra. Hans osserva il re camminare lentamente in quella direzione; lo osserva raggiungere la prima sedia e voltarla col piede, cosicché sia rivolta verso il centro della stanza; lo guarda iniziare a versare il tè.

"Tè, Hans?"

"No, grazie," Hans risponde, proprio mentre Niels afferma, "Non deve assumere niente, prima." Si materializza da un angolo buio. C'è un corvo sulla sua spalla. Ma i suoi occhi hanno qualcosa di strano. Anche il corpo ha qualcosa di strano, ma Hans non riesce a capire cosa, data la scarsa luce. "Non voglio che vomiti sul pavimento".

E di certo di cose strane ce ne sono un sacco, Hans nota, lottando per mantenere un'espressione neutra, per controllare le capriole che fa il suo stomaco. I tavoli, le bottiglie di sostanze galleggianti, le pile di libri—tutto era stato spinto ai lati della stanza per lasciare un grosso spazio al centro. Ci sono segni di gesso sul legno. Simboli che non capisce. Scritte in rune. Al centro c'è un cerchio più piccolo, e inscritta in esso una stella.

Niels la indica. "Sistemati lì."

Hans osserva lo sguardo freddo, calmo del re. In attesa. Intransigente. Dice. "Certo."


"Sto bene?"

Sven sbatte le palpebre.

"Hai ragione, hai ragione—troppo. Fiori? E' una cosa che si fa, devo portarle i fiori?"

Sven si piega per mangiare altro fieno.

"A volte non sei proprio d'aiuto."


Elsa osserva il piatto coperto davanti a sé. Prende l'acqua, riuscendo a bere un sorsetto prima che le si congeli in mano. Posa il bicchiere. Accanto a lei c'è un posto vuoto, e un altro, e ancora un altro, e lungo tutto il tavolo. Kai è da qualche parte in piedi dietro di lei. Tossisce. Chiede, "Volete che mandi qualcuno—"

"Sarà qui tra poco," Elsa risponde, osservando il vapore alzarsi dal cesto di panini coperto. Appena finisce di parlare la porta della sala da pranzo si apre, e Anna corre dentro. Non è vestita per la cena. E' vestita come se si stesse preparando a scalare la Montagna del Nord. Elsa sbatte le palpebre.

"Ehi, come stai?" Anna si fionda fermandosi dietro la sedia dove è seduta di solito e afferra l'intera cesta di panini. "Prendo questi e—"

"Dove—dove vai?"

"Fuori, solo—niente. Voglio dire, non è niente, è qualcosa, ma non è niente in cui abbia intenzione di fare, tipo, una scalata in mezzo alla natura o cose del genere." Esamina il cesto di panini che tiene premuto contro il fianco. "Il burro è qui?"

"Anna—"

"Lo so, lo so, avrei dovuto accennartelo prima." Anna crolla sulla sedia piuttosto goffamente. "Ma non volevo irritarti."

"Non mi irriti."

Anna solleva le sopracciglia.

"Spesso. Non mi irriti spesso."

Anna fa, "Allora ti dispiace?"

"Ma se non so nemmeno che stai facendo!"

"Forsediciamounappuntamento."

"Un appuntamento?"

"Lo sai! E' quella cosa, quando le persone fanno cose, assieme—tipo, no—tipo cavare il ghiaccio."

"Stai andando a cavare il ghiaccio?"

"No! No, assolutamente no, non credo—tu saresti una brava cavatrice, lo sai? No, sto andando a un picnic! Beh, a un picnic cena coi panini. Conta lo stesso? Dovrebbe contare lo stesso, no—"

"Per quello che vale," Elsa interrompe, guardando il vassoio di metallo che copre la sua cena, "Penso che tu sia brava in un sacco di cose."

"—e voglio dire, il vino, ma credo che quella sia una porcheria—che?" Anna scuote la testa. Ha mezzo panino che le penzola dalla bocca.

"Mi dispiace."

Anna sorride. Le riesce così facilmente, Elsa è quasi gelosa. Quasi. "Ehi. Lo so. Capisco. Beh, voglio dire, capisco più o meno. Immagino che in realtà non potrò mai capire, capire, ma—lo sai." Stende la mano sul tavolo, rovesciando per sbaglio il bicchiere d'acqua ghiacciata con un oops, e afferra la mano di Elsa. "Voglio aiutarti."

Elsa ricambia la stretta. "Lo so." Si guardano per un secondo. Un volto che conosce meglio del proprio. Un volto che non conosce affatto. Anna dice, mettendo giù i panini, "Ehi, sai una cosa, credo che andrò a un appuntamento picnic di dolci. Allora, cosa mangiamo a cena?"

Elsa scuote la testa. "Tu stai andando a fare un bel picnic." Si volta verso Kai, dietro di lei. "Possiamo preparare un cesto per la principessa?"

"Certamente, vostra maestà."

"Acqua, penso,” fa, dandole una stretta finale e lasciandola andare, "al posto del vino."

"Elsa, non posso!"

"Puoi. Ordine della regina. Solo—non fare cose di cui poi ti pentiresti."

Anna ghigna. "Lo so, lo so. Reputazione. Principessa. Afferrato."

E quando sua sorella se ne va, carica di cibo, Elsa finalmente scopre il proprio piatto. C'è una bistecca piatta, al sangue, rosa. Asparagi, e patate. Elsa afferra forchetta e coltello.

Il cozzare delle posate. Il baluginio delle candele.

E' sola.


Kristoff la aspetta davanti alla porta della sua stanza. Il cesto che ha tra le braccia è pesante. Si sente in colpa, a lasciare sua sorella a cena da sola, però, l'avrebbe detto in realtà se non avesse voluto mangiare da sola, giusto? Però, c'era anche da considerare che si trattava di Elsa, che in realtà non diceva mai niente di niente, e—

E' un'idiota, non è così? Non Elsa. Lei. Anna. Era un’idiota. Si morde il labbro e sospira, perché, tipo, come si supponeva che sua sorella dovesse fidarsi, se lei—Anna, lei-Anna—non riusciva nemmeno ad accorgersi di roba del genere—

"Uh, ehi."

Anna si ferma. E' quasi arrivata al corridoio dei ritratti, e non si è fermata, e ha superato Kristoff. Gira i tacchi. "L'ho fatto apposta."

"Davvero?"

"Sì. Decisamente. Come—" si ferma, accorgendosi alla fine di come è vestito. Indossa gli abiti estivi, ed è quasi presentabile. Stringe in mano una margherita, e guarda nervoso di lato, e lei ride, praticamente saltellando in avanti. Gli dà un bacio sulla guancia. "Ciao."

"Ciao. Ho preso il tuo fiore. No, non volevo dire—"

"E' adorabile," ride di nuovo, sorridendo per coprire il rossore che le era apparso sulle guance. "Ho portato la cena."

"Picnic?"

"Lo sai. Forza." Fa scivolare il gomito dietro la maniglia della porta e la spalanca. La stanza è leggermente in disordine. Barcolla in avanti e fa cadere il cesto sul letto, osservando il baldacchino rosa. Molto meglio di blu scuro. Tipo, molto meglio.

Kristoff è in piedi, piuttosto incerto, sulla soglia. Sembra troppo solido, troppo reale, tra il rosemåling delle coperte, del pavimento, del tavolino da belletto, con la margheritina stretta nella grossa mano. Qualcosa si agita nella parte bassa dello stomaco. Si morde il labbro.

"Cosa c'è?" Kristoff chiede, all'improvviso esausto. Guarda i suoi vestiti.

"Niente—non hai niente che non va. Non c'è niente che non va. Sei perfetto. Aspetta, che?" Scuote la testa, e sente il rossore tornare. "No, voglio dire—è mia sorella. Solo che—ti dispiace se mangiamo con lei? Solo la cena. E' che è—tutta sola."

Kristoff sembra pensieroso. Si chiede a cosa pensi. Lui fa spallucce. "Come no."

"Mmmhkay, sarò—torno subito, solo—non ti muovere, non ti muovere di un centimetro—" si lancia nel corridoio, si ferma, quasi si fionda di schianto nella sua schiena, "Se ti muovi lo vengo a sapere!"

"Vai, Anna," ride.

Anna corre fuori dalla porta e nel corridoio e salta sul corrimano. Scivola giù, atterrando di fretta e fiondandosi nella porta della sala da pranzo. "Elsa, andiamo!" urla, ma poi si ferma, perché lì non c'è nessuno tranne alcuni camerieri, che puliscono il tavolo, e Kai.

"Principessa," sobbalza. "C'è qualche problema?"

"Volevo solo invitare Elsa, perché sono una stupida, lo sai?"

"Io—"

"Non devi rispondere, non importa. Dov'è andata?"

"Ha deciso di continuare a cenare in biblioteca. Ha specificatamente chiesto di non essere disturbata."

"Oh," Anna annuisce lentamente. "Oh, ok. Beh, allora io —io vado." Kristoff la aspettava. Kristoff che stringeva quel delicato fiorellino, e sarebbero mai riusciti a mettere le cose a posto? pensa.

E poi si chiede a chi stia pensando davvero.


Elsa si sporge fuori dalla finestra aperta. L'aria sa di fresco, ed è magnifica. Il cielo sopra di lei brilla, invocando la città sottostante, e tutto è sveglio. Si abbassa di più il cappuccio sugli occhi, sentendosi—

Malandrina.

Fa un respiro profondo, guardando indietro, i recessi bui della biblioteca—le pergamene ammassate, i libri, il fuoco nel caminetto. E poi fuori, Arendelle. Le stelle che trapuntano il cielo. Allarga le dita. Il ghiaccio copre il tetto, rendendolo scivoloso. Elsa si arrampica sul davanzale e fuori sul ballatoio, cosicché i piedi dondolano nel vuoto, e prima di poter pensare ad altro, salta giù.

Dimenticare.


 

Da qualche parte, lontano, Niels afferma, "Non preoccuparti, fratello. Non dovrebbe fare male."

Da qualche parte, lontano, Niels ride.

Da qualche parte, lontano, Niels corregge. "Molto."

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

 

 

La piccola margheritina bianca è in un vaso sul suo comodino. Riesce a vederla se preme il naso contro i pannelli della porta a vetri, come sta effettivamente facendo. Sembra così fragile. Come se potesse spezzarla solo reggendola tra il pollice e l'indice. Chiede, "Pensi mai a cosa potrebbe accadere se non esistessero più i fiori?" Il suo respiro appanna il vetro.

"No."

"Voglio dire, sul serio, Te lo immagini? Tipo, nessuno."

"Tipo, no. Lo mangi quel panino?"

"Sì," sibila, sulla difensiva, torcendo il busto e rubando l'ultimo dal cesto. Se ne infila in bocca un bel pezzo, giusto per sottolineare che è di sua proprietà, ed esclama, a bocca piena, "Mangerei pane a colazione, pranzo e cena," anche se suona più, "'mangereipanecolanzocena."

Kristoff annuisce. "Dieta sana. E il cioccolato?"

"Ok," Anna corregge, deglutendo. "Anche il cioccolato. Pane e cioccolato." Si riappoggia al vetro. Tiene la gamba stesa di lato  e il suo stivale quasi tocca quello di lui; ci sono gli avanzi del cesto accoccolato tra di loro, mezzo sparsi sul pavimento di pietra. Oltre la ringhiera, e il muro, riesce a distinguere le stelle che brillano, luminose paragonate alla luce che viene dall'interno della sua stanza. E' così contenta, e rilassata, tranne per il fatto che continua a pensare a Elsa e a sentirsi in colpa, desiderando che sua sorella non fosse così difficile tutto il tempo—"E tu?", gli chiede, per distrarsi dai problemi di difficol-tezza.

"E io cosa?"

"Lo sai," Anna ghigna. "Qual è il tuo cibo preferito?"

"Carote." Kristoff annuisce, saggiamente.

"Ma non è il cibo preferito di Sven?"

Dopo un minuto: "Non capisco cosa c’entri questo con —"

Anna ride grugnendo. Bisbiglia, "Relazione morbosa," a mezza bocca. Kristoff scuote la testa, mesto; la sua risata è breve.

"E' che," si ferma, guardandola in tralice, e poi guardando il cielo, "è che—c'è sempre stato per me."

Anna sbatte le ciglia, tracciando il profilo di Kristoff alla luce traballante. Ha gli angoli della bocca sollevati. 

Rabbrividisce, e poi si arrabbia con se stessa per essere rabbrividita, perché era una serata tiepida, di fine estate, piacevole, come un bagno caldo, ma lei è congelata. Ha la pelle d'oca su tutte le braccia, sotto le calze, su per la schiena. Dà un altro morso al panino per nasconderlo. Mastica. Mastica. Mastica più in fretta, devo chiederglielo—deglutisce. "E i troll?"

"Eh? Oh, sì. Anche loro, sì. Certo," finisce, vago, massaggiandosi la nuca, a disagio. Tasta il fondo del cesto, trova un pezzo solitario di cioccolato, e inizia a rigirarselo tra pollice e indice.

Anna vuole chiederglielo. Eppure, invece, allunga la mano nel cesto, perché se c'era un pezzo di cioccolato, significava che ce n'erano anche altri—le loro mani si sfiorano. Kristoff sorride, colpevole, e ritrae la mano. Anna si chiede se sia arrossito. Gli dà un colpetto alla spalla con la propria, sorridendo. "Lo mangi?" chiede, riferendosi al pezzo che ha in mano.

Se lo lancia in bocca con noncuranza. "Lo vuoi?"

"Kristopher."


Tieni la testa bassa, tieni la testa bassa, tieni

"Signorina? Posso aiutarla, sta cercando qualcosa?"

"No, sto benissimo così, grazie—"

Lo sanno, lo sanno, lo sanno

Elsa dà un altro strattone al proprio cappuccio, abbassato fino agli occhi, le dita che afferrano le pieghe del mantello viola scuro, il gelo che arriccia le cuciture. Mantiene lo sguardo fisso sui piedi—ballerine nere, semplici, le più semplici che è riuscita a trovare. Una davanti all'altra. Una davanti all'altra. Passo, Passo. Non calpestare le crepe, pensa in maniera piuttosto isterica. Il mondo è sveglio e rumoroso attorno a lei, uomini che chiamano donne, donne che chiamano uomini, bambini che spuntano e la superano diretti a casa. Ci sono luci alle finestre—riesce a vedere la luce riflessa al suolo, ma ha troppa paura di alzare lo sguardo, troppa paura che qualcuno la riconosca—

Lascia che i piedi vadano di proprio accordo, e poi spia, da sotto il cappuccio, il legno pesante, logoro, del porto, e si accorge che cammina mantenendosi parallela a esso, lungo il muro di pietra che recinta la città. Si ferma. Fa dietrofront. Inizia a tornare sui suoi passi.

Il castello. Quanto era lontano il castello? Bastava solo tornare, attraversare i cancelli di gran carriera e fin su in camera sua e—

Un giovanotto la incrocia fischiettando, il piede che calpesta l'orlo del suo mantello. E' costretta a bloccarsi e perde l'equilibrio; lui non si ferma e nemmeno lei, rotolando all'indietro oltre il bordo del muro e piombando giù sul molo sottostante—

Atterra in un mucchio di neve con un thud sordo. Il cuore le martella in petto, il cappuccio è abbassato sulle spalle. Sente, "Stai bene?" Passi. E poi, incerto, incredulo, "Regina Elsa?"

Chiude gli occhi. Ma certo. Inspira, a lungo e profondamente, attraverso il naso. Espira con pari furia. Quando apre gli occhi il Principe Albert è lì in piedi, appena fuori il perimetro della neve, e indossa un mantello scuro, quasi nero; il cappuccio è abbassato. Il suo abbigliamento è molto più presentabile di quanto era stato prima, nota vagamente, quindi può evitare di perdere la testa. Tunica e pantaloni. Tutto in ordine.

"Sì, salve," risponde, come se per lei fosse perfettamente normale essere caduta in un metro di neve alle otto di sera, quando si supponeva fosse impegnata nella lettura di rapporti sugli affari e in riunione coi suoi consiglieri.

"Ciao—salve. Come st—voglio dire—ecco, mi permetta—" si abbassa, tendendo una mano, i capelli che gli cadono sulla fronte in riccioli ribelli. Ignora l'aiuto, e ruotando il polso sente la neve spingerla su, fuori dal suo abbraccio. Ci stava quasi comoda. Il Principe Albert si fa indietro, e lo guarda rendersi conto lentamente di quello di cui lei si sta rendendo conto, cioè—

"Pensavo di averle ordinato di rimanere sulla sua nave," dice, gelida.

Sbatte le ciglia guardandola con quegli occhi e sembra star prendendo una qualche decisione. Raddrizza le spalle. Afferma, "E io pensavo che lei fosse la regina."

Sente le labbra stringersi in una linea sottile. Nella sua voce non c'è tanta diretta irriverenza, quanto piuttosto una durezza nuova da parte sua. E' confusa. "Chiedo scusa?" domanda, lasciando che la brina si insinui su per le gambe e si fermi attorno alla gola.

Lui spietato scrolla le spalle, abbassando lo sguardo sul naso storto, esaminandosi le punte degli stivali. "Mi ha sentito. Pensavo fosse la regina. Questo non è esattamente comportamento da regine."

Stringe le mani nascoste dalle le pieghe del mantello, sentendo il ghiaccio strisciare sulle nocche e più su.

"Forse dovrei informare le guardie? Sono sicuro che al popolo farebbe piacere sapere che la loro regina se la svigna—"

Gli dà un pugno.

E poi guarda scioccata il proprio pugno, coperto di piccoli spilli di ghiaccio che si ritirano nella sua pelle pallida, e il viso del Principe Albert. Questi si volta di nuovo verso di lei, massaggiandosi il mento. Sono rimasti dei piccoli lividi, per colpa del ghiaccio, ma quella non è la cosa più sconcertante—

Sta sorridendo.

"Ma per che cosa sorride?" E sibila, sibila proprio, perché prima arriva e poi perde la lettera e poi sgattaiola via dalla nave e sul serio, era tutto davvero troppo, davvero—

"E' che è la prima volta che la vedo realmente qualcosa," ride. "Sa, davvero realmente—arrabbiata—" Il sorriso accende quegli occhi, facendoli brillare come frammenti di giada. "Ha un bel gancio!"

Lo guarda truce, incredula. Sopra di loro la città è sveglia. Alla loro destra, il porto è addormentato. Riesce a sentire le urla soffocate di una partita a carte che è degenerata, provenienti dalla nave dietro di lei, sepolte sotto il ponte, in profondità.

Ma l'aveva appena—

L'aveva appena fatta scattare di proposito?

"Sta cercando di distrarmi dal fatto che ha intenzionalmente ignorato la mia richiesta?"

"No! No, io solamente—io—senta, non si sente meglio?" chiede alla fine.

Si raddrizza, le labbra ancora strette, e si accorge con un sussulto che qualche parte contorta e annodata nei recessi del suo petto si è un po' allentata.

Ma solo un po'.

Chiede, glaciale, "Cosa ci fa lontano dalla sua nave?"

"Me ne fuggo alle taverne." Alza le mani, indietreggiando di un passo mentre lei alza di nuovo il pugno. "Sul serio! Io—Io so benissimo quello che ha detto, ma si sta orribilmente stretti su quella—beh, sulla nave, lì, ed è che io—io—" Lei lo sta guardando male, ancora, e quando se ne accorge lascia cadere il discorso, e sbatte le ciglia, come se le parole l'avessero abbandonato. "Mi dispiace."

Elsa sente la propria rabbia svanire, come era successo quella mattina. Intensa e tagliente e ardente, e andata. Erano anche nelle stesse posizioni. Ripete le parole che aveva detto prima, quel giorno. "E' solo che non credo di potermi fidare di lei." Non è proprio sicura del perché
l'abbia detto. Qualcuno passa di corsa sopra di loro, e si tira in fretta il cappuccio sulla treccia biondo platino.

"Non le chiedo di fidarsi di me," il Principe Albert risponde. "Solo che, adesso, le sto—sto chiedendo solo di uscire con me." Appena si rende conto delle proprie parole stringe gli occhi ed esclama, troppo in fretta, e le parole che si confondono l'una con l'altra, "Nonperunappuntamento."

Lo guarda sbattendo le palpebre. Vuole dire, Non lo farei mai, ma tiene la bocca chiusa. Lui si affretta a continuare.

"Senta, so che sta provando quello di cui le ho parlato, solo—beh, non essere una reale per un po', no? Ed ecco quello—venga alla taverna, e vedrà il suo popolo, non è—non è quello che voleva?" Si ferma per respirare. "Forse?"

Non può solo—

Per una notte, solo—

Lasciarsi andare?

Non l'aveva fatto, una volta?

Scatta, "Va bene."

"Voglio dire, non accadrà niente a nessuno, non deve per forza—huh?"

"Ho detto va bene."

"Lei è… d'accordo con—me?"

"Sarà la prima," afferma, gelida, avvicinandosi tanto a lui da riuscire a contare le lentiggini che gli punteggiano il naso, "e unica volta, Principe Albert." Si alza un vento freddo, fischiando.

"Solo Albert," dice, con un mezzo sorriso nervoso, e guardando di lato. "Solo—solo Albert. Per ora, intendo, non per—non sempre."

"Perché," Elsa fa piano, fissando lo sguardo su un punto imprecisato oltre la sua spalla, "perché per il resto della notte non saremo… dei reali."

"Esatto! Voglio dire. Sì. Certo."

Elsa lo guarda. Poi, con cautela, tende la mano. "Solo Elsa, allora."

"Beh, solo Elsa," Albert sorride, prendendola. "Cosa stiamo aspettando?"


Niels legge da un libro, ma Hans non conosce quella lingua. E' rozza, brutale e cruda, come se denti e artigli si stessero facendo strada su per la gola del fratello, squarciandola. Il corvo è appollaiato placidamente sulla sua spalla.

Il gesso inizia a scintillare di luce gialla e stucchevole, qualcosa si fa strada lungo i segni a terra come un verme luminoso. Quando raggiunge il cerchio più interno dove lui è in piedi, prova un dolore acuto, come una pugnalata, nel tallone. Cerca di sollevare un piede e scopre che non ci riesce. Nonostante anni passati ad esercitare la finta calma, il suo contegno perfetto si spacca un po' ai margini.

"Fratello?" Hans chiede, e la voce gli trema. Non riesce a voltarsi per guardare il re che sta seduto a sorseggiare tè. Può solo sentirlo alle proprie spalle. Fuori il cielo è nero.

"Pazienza."

Il fuoco si spegne.


Si infila un'unghia tra i due incisivi, tentando di togliere un pezzettino di carne che vi era rimasto incastrato, e poi all'improvviso si ricorda di dove si trova, e si rende conto del fatto che anche se si tratta di Anna che gli è seduta accanto, è Anna che gli è seduta accanto. Riesce praticamente a sentire Sven che gli strilla di ricordarsi delle buone maniere. Si pulisce in fretta l'unghia offensiva sui pantaloni, lanciando un'occhiata di lato, ma non se ne era nemmeno accorta—

Era troppo impegnata a fissare il cielo.

La osserva per un momento. Non riesce a farne a meno. La curva delicata del naso. Le labbra sottili. Si guarda di nuovo l'unghia e fa una smorfia. Prima che possa crogiolarsi nell'autocommiserazione, comunque, Anna balza in piedi, quasi lanciando via il cesto vuoto, la tovaglia, le briciole, spazzolandosi la gonna pensante—e non si pensi che non si fosse accorto che tremava, perché se ne era accorto—e si volta verso di lui. Tende la mano, impaziente. Esclama, ancora di più, "Okay, okay, basta cibo, andiamo, in piedi, in piedi, in piedi!"

Kristoff la guarda sbattendo le palpebre, confuso.

"Kristopher!" lo ammonisce dopo un momento, due, in cui lui aveva continuato a fissarla, perché, sul serio, come faceva ad avere tanta energia, era possibile che una persona potesse avere tutta quell' energia—"Il cielo sta per svegliarsi," spiega con un sussurro basso, eccitato, "quindi dobbiamo andare nel mio posto segreto, come, ieri—e dai!"

"Ok! Ok, furia scatenata, cavolo," e il soprannome gli viene su così facilmente. La asseconda, prendendo la mano tesa, ma anche tirando all'indietro con tutte le forze e piantando i piedi sul pavimento di pietra del balcone non riesce a fare abbastanza leva da sollevarlo. L'unica cosa che fa è perdere l'equilibrio. Lui ride, perché è ridicola, e poi si alza. La raddrizza senza sforzo. Pesa più o meno quanto un sacco di carote.

(E mangia come una renna, come può avere senso—)

Lei carezza la manica della sua tunica blu e sorride. "Grazie." E' molto, molto vicina. Si lecca le labbra. Lei tossisce. "Pronto?"

"Che? Oh, uh, già. Certo. Come sempre." Kristoff fa un passo indietro, cercando di capire dove esattamente possa essere questo posto segreto, facendosi domande sulla sanità mentale di Anna.

Ma, in effetti, lo faceva sempre. Quindi.

"'Kay," fa lei, dandogli la schiena e camminando determinata verso la ringhiera. "Quindi, tipo, non scoraggiarti, ma non ti mentirò, è un'arrampicata abbastanza difficile. Niente di troppo difficile, niente che non ritengo tu non possa fare—o possa fare? Niente che io—lascia stare. Anzi," si ferma, e lui la fissa, perché aveva appena scavalcato la ringhiera con una gamba e se ne stava seduta lì comodamente come è—normale, come può essere—"devo essere io a seguirti? Così se cadi ti posso prendere—"

"Non credo proprio," fa in fretta, scuotendo la testa. "Che ne dici se tu ti arrampichi, e io ti seguo?" Non dice: in  modo che come le altre volte possa acchiapparti quando inevitabilmente cadrai, ma, ehi, l'idea c'è.

Anna lo fissa. Poi scrolla le spalle. "Come vuoi. Non lamentarti però quando muori."

Alza gli occhi con affetto e inizia ad arrampicarsi dietro di lei.


La taverna è affollata. Appena messo un piede dentro vuole andarsene. Il posto sa di persone, troppe persone—sudore e alcool e l'odore di qualsiasi fosse il cibo che arrivava a zaffate dalle cucine sul retro. Un muro di chiasso. Spunta del ghiaccio dai suoi piedi.

"Reg—Elsa," Albert le sussurra all'orecchio, attraverso la stoffa pesante del mantello. "E' tutto ok. Solo persone."

"Devo ricordarti," risponde a denti stretti, "che solo persone volevano uccidermi?"

Questo lo zittisce. Elsa riesce, comunque, dopo parecchi respiri profondi, a sciogliere l'alone rivelatore attorno ai suoi piedi. 

Dopo una pausa imbarazzante Albert soffoca un colpo di tosse col pugno e dice, "Di qua."

Lei lo segue nella stanza, osando alzare pochissimo la testa, gli occhi che luccicano nell'ombra.

E' una sala ampia, illuminata dalla luce calda del fuoco che divampa nel caminetto, e di molte candele, i cui steli di cera si afflosciano e gocciolano a cascata sul pavimento. C'erano tavoli, e sgabellini, e un grande bancone su uno dei muri, con grossi barili di birra e alcool situati dietro di esso. Le persone chiacchieravano riunite a gruppi di due, di tre, di quattro—tutte assieme, e ad alta voce, e ovunque. Quando scivolano accanto a un uomo che ha—sbatte le palpebre scioccata—un uncino al posto di una mano lo sente esclamare, "Non avrei mai pensato che mi sarebbe mancato l'Anatroccolo Coccoloso, ma—"

"Eccoci qua," Albert esclama, muovendosi verso un angolo angusto. C'è un alto tavolo a tre gambe, e due rozzi sgabelli simili. Siede grata in quello più lontano, sentendo la pressione rassicurante delle pareti contro la sua schiena. A suo vantaggio, riesce a vedere l'intera taverna.

Affonda ancora di più nel proprio mantello.

"Torno su—subito, aspetta un momento—" ed è andato, scivolando di nuovo oltre l'uomo con la mano a uncino e un altro con un naso grosso e sporgente. Osserva il movimento del suo cappuccio scuro, fino al bancone. Poi si guarda attorno.

Sorridevano. Le persone. Significava—significava che erano felici? Per un momento considera l'idea di abbassarsi il cappuccio, ma sa quale sarebbe stato il risultato—inchini. Rantoli scioccati. Attenzione non richiesta.

Lasciati andare, forza, ti prego, solo una notte, lasciati andare

Albert—con quanta facilità il principe era scivolato via da lui, era quasi gelosa—è di ritorno, reggendo due boccali i cui simili non aveva mai visto prima. Erano d'argento, o una specie di metallo annerito che era simile, e sbeccati. Della schiuma bianco-giallastra ne traboccava, colando dai lati. Chiede, esitando, mentre li posa sul tavolo e si issa sullo sgabello accanto a lei, "Ma sono—puliti?"

Lui considera il proprio con sospetto. "Sinceramente? Probabilmente no. Ma nemmeno la birra lo è." Beve una grande sorsata, la faccia che si contorce in maniera comica. Elsa si morde il labbro per non sorridere. Lui schiocca le sue, e riesce a dire, "Gran bella roba, questa."

Afferra il proprio boccale, e, prima di poter riconsiderare le proprie scelte di vita, beve un sorsetto esitante. Impallidisce immediatamente, e poi, quasi con la stessa rapidità, si chiede cosa Anna avrebbe detto se l'avesse vista in quel momento—niente, probabilmente. Sua sorella avrebbe riso. Il liquido sembra aceto che le scorre giù per la gola, e tossisce. "Immagino che—non abbiano—vino?"

"In una taverna?" Albert ridacchia grugnendo.

Elsa tira su col naso, rigida. Sul tavolino cala un silenzio evidente anche con tutto il rumore che avevano attorno. Alla fine chiede, "E adesso?"

"Beh, suppongo—Io—Io in realtà non ne ho idea."

Lo guarda in tralice, cauta. Dopo un attimo, durante il quale i suoi occhi tornano alla scena festosa davanti a lei, chiede, "Secondo la tua…opinione professionale, queste persone sembrano felici?"

"Cosa c'è da non essere felici? Arendelle è un regno prospero. Hanno degli amici, e la birra. Birra orribile, ma quello a cui si spingerebbero gli uomini pur di—una volta, mi ricordo, Felix si è intrufolato nelle cucine per rubare la nostra—e poi—" Albert si chiude a riccio. Chiude la bocca con un clack. Beve un sorso dal boccale, a labbra strette.

"Cosa gli è accaduto?" Elsa passa il dito sull'orlo del proprio, tracciando pigramente il perimetro, ancora, e ancora. "Felix."

"Cosa—ti fa pensare che gli sia successo qualcosa?" Albert chiede.

"Hai accennato al fatto che se ne è andato. Quando hai cenato con noi."

Albert si strattona una ciocca di capelli.

"Quando aveva vent'anni, si è imbarcato. E non è tornato più."

"Oh." Le sembra di aver ricevuto un pugno allo stomaco.

"La maggior parte di noi concorda sul fatto che siano stati i pirati," sorride con aria di biasimo, finendo la birra. Guarda le sue spalle—non sono più ricurve. Sta con sicurezza appoggiato al muro, dondolando lo sgabello su due delle tre gambe, sorvegliando la stanza coi suoi occhi luminosi, mica-giada-zaffiro. "Ha preso una nave che attraversava il mar dei Caraibi, quello stupido bastardo. Non so cosa si aspettasse."

Elsa fa, "Mi dispiace," perché è la cosa giusta da dire, anche se non le dispiace. Anche se è orribilmente, segretamente contenta del fatto che ci fosse un fratello in meno di cui preoccuparsi. E poi—

"Non farlo." Albert ride. "Felix lo odiava."

"Cosa?"

"Essere reali. Non lo sopportava. Odiava il castello, e le persone. Ti ho detto che ha fondato lui la tradizione—mescolarsi, la chiamava."

Elsa osserva l'uomo con la mano a uncino chiedere un altro giro di birre. Dice, "I miei genitori sono morti su una nave."

"Non sembrano molto sicure, eh?" Albert medita. "Portano cattivo tempo e le notizie peggiori."

"Portano i principi indesiderati," fa lei, per togliersi dalla bocca il sapore di genitori.

"Mi ferisci," dice, ma con un gran sorriso. E' a suo agio, e i suoi movimenti sono sciolti. Non si tocca più l'avambraccio, in cerca degli appunti segreti che tiene lì. Ha lasciato completamente cadere la facciata della regalità. Però, pensa mesta, può anche darsi che stia solamente iniziando a sentire gli effetti più piacevoli della birra—

"Voi, signore!" Albert urla all'improvviso. "Volete sapere chi beve?"

Elsa affonda di più nel mantello mentre molti sguardi si rivolgono dalla loro parte.

"Già" l'uomo con la mano a uncino risponde, gli occhi stretti a fessura. "E tu che vuoi?"

"Voglio entrare nel giro," Albert ghigna, impudente. "Offro io."


Hans si sta sciogliendo, da dentro a fuori.

Il respiro gli graffia la gola scorticata, carboni ardenti che entrano ed escono dai polmoni. Non riesce a riprendere fiato, con questo respiro, sembra che non riesca a trattenere abbastanza ossigeno—gliene serve di più, per alimentare il dolore nel suo ventre, il calore nel petto—le ossa si incrinano, si spezzano e scoppiano, e la pelle è rovente, marrone. C'è un odore orribile, tremendo. Carne che brucia.

Hans urla.


"Il tuo cognome è che?"

"Bjorgman."

"Bjorgman. Sei sicuro?"

"Abbastanza."

"Tipo, cento per cento?"

"Uh, sì."

"Huh." Anna considera la cosa, allungando le mani davanti a sé, sentendo le tegole ruvide del tetto che le graffiano le gambe. Kristoff è appoggiato a uno dei comignoli che si ergono dal castello stesso; sono seduti nel suo posto segreto, un cornicione largo a sufficienza per appollaiarvisi sopra, più in alto del resto del mondo, vicina al cielo e ai suoi bellissimi colori ondeggianti—bluverdeviola—poi ancora verde. Una spinta di troppo all'indietro, e potrebbe cadere. "Anna Bjorgman. Che ne pensi?"

"E'—" la voce si incrina. Scuote la testa, strofinandosi la nuca "E' a posto, suppongo."

"Già. Sarebbe molto meglio se avessi un cognome forte—tipo Odinson. Kristoff Odinson, che dici?"

"No."

"Io credo che sia migliore."

"No."

"Bene, ok, come vuoi. Come dici tu." Spia le stelle sopra di sé. Ora o mai più, pensa cupa. "Ehi, Kristoff?"

"Già—puoi stare attenta con questo cornicione, lì dietro, finirai per cadere—"

"Non lo farò. Kristoff."

"?"

"Che è successo ai tuoi genitori?" Fa a bassa voce. "Quelli veri. Non che i troll non siano genitori veri, ma a meno che tu non mi stia nascondendo qualcosa, non credo che—voglio dire—non credo che tu sia un troll," conclude, debolmente, alzando in fretta lo sguardo sull'uomo di fronte a lei, e riabbassandolo poi sulle proprie mani.

Riesce a sentire Arendelle, fluttuante, e piena di vita. Sopra di lei il cielo sta cantando.

Oh, te la sei giocata. Te la sei giocata, giocata, giocata, come hai potuto—e poi chiedere una cosa del genere, voglio direoh mio Di

"Non mi piace parlarne."

"Kristoff, mi dispiace, mi dispiace ta—solo io, che sono troppo curiosa, voglio dire, sappiamo tutti che sono un po' troppo curiosa e ho pensato, ehi, perché non chiedergli dei genitori—voglio dire, non i genitori, non voglio riaprire vecchie—"

"No, va—non fa niente, sul serio—"

"Voglio dire, a chi va di parlare coi tuoi genitori, no? Devo smettere di dirlo—"

"Anna!"

Alza lo sguardo.

"Mi va che tu lo sappia."

"Oh. Oh. Davvero?"

"Beh, voglio dire." Fa un respiro profondo. "Solo perché non ti piace parlare di qualcosa non significa che devi ignorarla," riesce a dire espirando.

Anna pensa a un tratto al ghiaccio di Elsa e ad anni di porte chiuse. Scheggia il legno sotto di sé con l'unghia. "Già."

Kristoff si gratta il naso. Pensa che voglia fare il nonchalant, ma tiene le labbra troppo premute. "Mio padre—uscì a cavare ghiaccio—era uscito il giorno prima, e questa tempesta enorme scendeva dalle montagne. Nuvole grosse, nere. Per un—lunghe un chilometro. Così mia mamma disse," si ferma, gli occhi che diventano strani e annebbiati, fissi su un punto oltre la sua spalla. Continua, piano, come se stesse parlando tra sé e sé, "Resta qui."

Anna si lecca le labbra.

"Fu l'ultima cosa che mi disse. Resta qui. Poi andò nel granaio, mise le bardature alla nostra ultima renna, e. Ecco che se ne andò." Si sfrega la nuca a disagio. "Rimase via per un po'. Abbastanza a lungo che la neve iniziò a sciogliersi e venire giù in valanghe, col vento che peggiorava le cose. Poi la vidi, avvicinarsi dai margini della foresta, in groppa alla renna. Mio padre la seguiva."

C'è una pausa di trenta secondi interi, nella quale Anna pensa che non avrebbe chiesto mai più niente, e che diritto aveva persino di chiedere una cosa del genere, e che stava facendo, a chiedere una cosa del genere, tipo, chi era stato, chi l'aveva fatto—dov'erano le sue facoltà di vita sociale

"Non fecero in tempo a scampare alla tempesta," sospira alla fine, scuotendo la testa. "Vicini. Ma non vicini abbastanza." Tira forte su col naso, sfregando il palmo della mano sul legno accanto a sé.  "Provai ad aprire la porta, ma non ci riuscii. Il cumulo di neve era troppo alto." Pausa. Respiro. Battito di ciglia. "Sven era nel granaio. Anche lui perse i genitori."

Anna non dice niente, allora, perché se apre la bocca rovinerà tutto. Perché se apre la bocca potrebbe dire, eppure sei tornato a fare il cavatore di ghiaccio o chiedere trovasti i corpi oppure i troll sono stati genitori migliori o peggiori e nessuna di queste era una domanda fattibile, quindi, no. Invece arranca avanti, mano davanti a piede sul piccolo cornicione, e gli si siede senza garbo in grembo, così da fargli sputare i propri capelli che gli erano finiti in bocca. Le sue braccia la circondano automaticamente e lei sorride, quasi compiaciuta, se non fosse per il fantasma lugubre della storia che ancora aleggia su di loro.

E' caldo.

"Che stai—"

"Shh," gli copre la bocca con la mano. "Il cielo si è svegliato."

Ed entrambi guardano in su.


Albert sta tentando di battere a braccio di ferro un tizio chiamato Vladimir che ha tutta l'aria di uno che potrebbe schiacciare il cranio di una persona tra le cosce, non che lei badi a quel genere di cose. Accanto a lui, il criminale con l'uncino—dal nome: Mano a Uncino—e quello col naso grosso—dal nome:Nasone—fanno il tifo per il loro amico. Albert non è suo amico, pensa con determinazione, osservando il principe che si morde il labbro, frustrato, il viso che diventa di una brillante sfumatura di rosso cremisi, quindi—

"Vai, Albert!" strilla, sollevando il boccale—due? O tre? Decisamente il terzo, quello—con mano alquanto tremante e indirizzandogli un sorriso da sotto il mantello. Lui sussulta, sorpreso dalla sua uscita, e Vladimir coglie quell'opportunità per sbattere, con forza, la mano del principe sul tavolo, tanto violentemente che Elsa giura di sentire le ossa che si rompono. Intanto infatti, tutti i boccali finiscono sul pavimento.

"Forse la prossima volta, ragazzino," Mano a Uncino esclama con una pacca sulla schiena. "'Ohi, amico, un altro giro, su!"

Albert, massaggiandosi la mano con una smorfia, scivola tra la folla crescente dirigendosi nel punto in cui lei è appollaiata, come un uccellino, sullo sgabello. Il mondo le galleggia attorno ronzando piacevolmente, un comune mormorio in un mucchio di strilli e volti felici. Le piace questo posto. Lo ama. E' un bel posto. Bello quasi quanto la Montagna del Nord.

"Il mio piano ha funzionato," gli dice appena si avvicina.

"Huh?"

"Il mio piano per farti perdere."

"E credevo anche di avere alte probabilità di vittoria," Albert tira su col naso, sedendosi di nuovo sul suo sgabello, e agitando la mano per salutare Ulf e Tor, altra gente in visita da rive lontane. E' una persona totalmente diversa, pensa, e questa volta è gelosa. Totalmente diversa. Non è un principe, e sorride, e piace a tutti. Così facile. Lascia stare la regalità.

Huh.

Sono gelosa, pensa lentamente tra sé e sé, e poi fa un mezzo sorriso, deliziata. Allunga la mano sul boccale davanti a lei, e butta giù il resto. Le brucia piacevolmente giù per la gola. Albert sbatte le ciglia. "Uh, quanti—quanti fanno con questo, allora?"

Scrolla le spalle, ma le sembra che non siano più attaccate al corpo.

"Forse," risponde, concentrandosi sulle parole, "forse diciamo. Due."

"Bugiarda."

"Forse diciamo quattro."

"Facciamo cinque —hai accettato quell'ultimo giro che Mano a Uncino ha offerto—"

"Al barista piaci," dice lei, indicandolo col mento, un uomo con l'aria esperta, dal sorriso facile e gli occhi ammaliatori.

"Chi, Bragi? E' perché gli parlo—woah, basta, per te," Albert conclude, mettendo il proprio boccale fuori dalla sua portata.

Elsa quasi ridacchia. Ma non lo fa.

"Gli piace Arendelle?"

"Certo, suppongo. Perché non ci par—"

"No."

"Sai," Albert sottolinea, passandosi una mano tra i ricci. I suoi occhi sono proprio belli, pensa. Hanno qualcosa che la calma. "Sai, parlare con la gente—"

"No."

Sospira, come se avesse saputo quale sarebbe stata la risposta, e lei lo guarda con la vista offuscata aprire la bocca per aggiungere qualcosa, ma viene interrotto da un ruggito generale. Le sedie vengono spinte via, grattando sul pavimento, e altri ceppi  vengono lanciati nel fuoco. Bragi, il barista, sta urlando, e ci mette un minuto a distinguere le parole con il rumore della folla , "—suonerà la musica, tutti qui, tutti in cerchio!"

Sente gli accordi degli strumenti—un violino. Due. Una viola. Un flauto. C'è qualcosa di libero e sfrenato in quel suono, vibrante e pulito e bellissimo, qualcosa che non ha mai sentito prima, non tra le pareti di una sala da ballo. Sbatte le palpebre.

"Elsa?"

"Hm?" Torna a guardare Albert, sobbalzando.

"Ho detto, ti va di ballare?"

"Io—"

Oh, no.

"Io—"

No. No, no

"Io credo di star per vomitare" deglutisce, e poi, mettendosi di corsa una mano davanti alla bocca, scappa via dalla taverna come un fulmine.


"E poi mi sono rotta il braccio."

"Ma—ma sei seria?"

"Come la peste."

"Questa è la cosa più—ma sei sicura di essere una principessa?" Ride, e lei sente la vibrazione, che si propaga fin nel proprio petto. Gli tira una gomitata.

"Kristopher."

La sua risata svanisce. Le braccia di lui la avvolgono; è accoccolata nello spazio tra le sue gambe, e si sente—al sicuro, mentre osserva le stelle che brillano sopra di loro. E poi silenzio.

"Ehi, che c'è? Che non va?" Cerca di voltarsi, ma lui tiene i gomiti stretti e la mantiene ferma. Se si contorce troppo potrebbero cadere tutti e due. "Ti dà—voglio dire, non so perché dovrebbe, perché sarebbe stupido, ma—ti dà fastidio che lo sia?"

"Cosa, goffa?"

Gomito, fianco, grugnito. "Una principessa, testa di igloo."

Sospira, e il suo respiro le sfiora le orecchie. "No. Perché dovrebbe darmi fastidio?"

"Bugiardo."

Non lo nega.

"Sai," continua lei, tirando un filo della tunica, "visto che sei il Venditore di Ghiaccio Reale, in sostanza anche tu sei un reale."

Lui ride. "Non esiste."

"Invece sì, ne avevamo già parlato." E poi, di punto in bianco, rabbrividisce. Uno di quei brividi violenti, imbarazzanti, e praticamente sembra quasi che le stia per venire un infarto o simili—"Woah. Strano."

"Ehi," chiede lui, la voce che diventa più dolce, "hai freddo?"

"Beh, sarò onesta, e non prenderla nel modo sbagliato, ma sei un caminetto. Quindi, no. Sto bene, cavoli," svia il discorso con una risata, cercando di staccarsi. "Solo qualcuno che cammina sulla mia tomba o cose del genere—"

"Che?"

"Che? che, che vuoi, vuoi farmi capire che non hai mai sentito—"

"No!"

"E' un modo di dire, Kristopher, un modo di dire—ehi, non spingermi così, vuoi che cada? E' un piano per prenderti il mio denaro, non è così!."

"Ovviamente," risponde secco. La lascia andare, e lei si risistema sul cornicione, voltandosi. Lui cerca qualcosa nella sacca. "No, mi sono appena ricordato, ho qualcosa per te—"

"Aspetta, che? Kristoff, io non ho niente per te—"

"Non richiesto," e arrossisce, e lei si chiede se stia pensando alla slitta o cose così, ma davvero, era stato un regalo di Elsa, quindi non doveva sentirsi in debito per quello, o per la cosa della principessa, o—o, beh, niente, così—"Ecco."

Alza lo sguardo, sorpresa. "Huh?"

Tiene stretto un cristallo arancione tra indice e pollice. Pulsa come il battito di un cuore, brilla come un tizzone. Sbatte rapidamente le palpebre, unoduetre—

"Kristoff, è splendido."

E poi pensa: aspetta, che faccio se è una proposta di matrimonio, no aspetta, no, non sono—

"E', ah, un cristallo di fuoco," spiega, imbarazzato, strofinandosi la nuca. "Dai troll."

Lascia andare un respiro che non si era accorta di aver trattenuto. "Un cristallo di fuoco?".

"Già," Kristoff sorride. "E'—fanno queste missioni, ed è molto difficile, non so come spiegarlo, ma poi ricevono questi cristalli, ed è come—ecco, tendi la mano."

Lo fa. Lui lo lascia cadere tra le sue mani tese, e c'è un calore improvviso, confortevole, che le percorre tutta la lunghezza del braccio. Per la prima volta da due settimane, le sembra di indossare troppi vestiti. "Woah."

Il suo sorriso di allarga. "Carino, eh?"

"Magnifico, direi!" lo stringe al petto, e poi—"Nessuno ha mai fatto qualcosa di simile per me," sorride quasi incredula, osservando il luccichio ambrato tra le proprie dita. "Voglio dire, non che non abbia mai ricevuto cose—voglio dire, ne ho avute troppe, ma erano sempre tipo—ecco un nuovo vestito, o, tipo, ecco un nuovo manuale di galateo—e non so tu, ma non ho bisogno di libri sulle buone maniere, ne ho da vendere, in tutto e per tutto—" si ferma per respirare, guardando attraverso le ciglia il suo sorriso incerto, compiaciuto. "Grazie!"

"Anna." Kristoff allunga un braccio, poi ci ripensa, e indietreggia, ma non smette di parlare. C'è una specie di battaglia interna in corso, pensa, i movimenti nervosi e incontrollati, la mano che strattona il colletto. Continua, "Anna, ti am—"

Sente gli occhi spalancarsi. Il cuore batte più forte, e tutto quello che riesce a pensare è no, non ancora, non adesso, più tempo, più

"—miro per il modo in cui riesci a parlare per, tipo, cinque minuti senza nemmeno respirare, cavoli," conclude con una specie di risata imbarazzata, guardando di lato. Sbatte le ciglia, sentendo il cristallo sul petto, che le riscalda il cuore.

Era—

Silenzio, lungo e pesante.

Quindi dice—

"Ehi, allora tipo, hai dovuto fare qualche missione per ottenerlo, o cosa?"

Kristoff sorride compiaciuto, ma Anna crede di distinguere nei suoi occhi un'espressione delusa, e non sa perché.

E lo sa.

"Ho delle conoscenze," fa lui.

Fianco a fianco, osservano il cielo.


Elsa si raddrizza, le dita sul legno ruvido della parete della taverna, e sussulta.

"Voglio dire, se proprio non volevi ballare con me, potevi anche dirmelo," sente, e poi quella risata autodenigratoria, e poi, "Scusa. Non è divertente. Stai—stai bene?"

Fa un paio di passi a sinistra, allontanandosi da canale, e si appoggia pesantemente contro il muro alle sue spalle. Una mano è stretta a pugno tra le pieghe del mantello, e l'altra posata con cautela sulla bocca. Ha il cappuccio abbassato; si sente scoperta, ma la piazza attorno alla taverna è vuota. "Sono stata meglio," risponde secca.

Albert si ferma piano piano, con calma, e si appoggia al muro accanto a lei. Dall'interno della taverna inizia a sentire le prime note della canzone che sta iniziando.

"Odi ballare a tal punto?"

E dice, perché aveva appena vomitato in un canale di scolo, perché non voleva nemmeno iniziare a pensare a regine e a regalità e all'etichetta—"Sta zitto."

"Sei fredda come il ghiaccio, solo Elsa."

Gli lancia un'occhiata che potrebbe fermare un piccolo esercito, ma lui non smette di sorridere—alza solo le mani in segno di pace.

"Fammi indovinare," risponde secca. "Non è divertente?"

"Come facevi a saperlo?"

E ripiombano nel silenzio.

Si sfrega il gomito, guardando le strade. Il tetto a punta della taverna le fa ombra sul viso, e nelle case più lontane le luci iniziano a spegnersi, una per una. Si chiede quanto sia tardi. Dovrebbe tornare indietro. Doveva—

Si preme la base dei palmi sugli occhi.

"No," Albert afferma. "No, niente sensi di colpa fino alla mattina dopo. Funziona così."

"Non siamo usciti per ubriacarci," scatta, agitando le mani avanti a sé, stringendosi tra le braccia. La neve inizia a cadere, leggera e lenta. "Siamo usciti per—conoscere meglio il mio popolo—"

"Elsa," Albert fa cauto, e quando lo guarda si sta strattonando una manica, con l'aria di qualcuno che si sta avvicinando a un animale selvatico, "Lo stai facendo. Lo osservi, ci parli—"

"Non ci ho parl—"

"Non è troppo tardi per parlare con le persone," si corregge in fretta. Poi tossisce a disagio con la mano accanto alla bocca e si gira, rivolto verso la strada. "Senti, per come la vedo io, questo è stato—voglio dire, non ti—è solo—"

"Tu stavi bene là dentro," dice, troppo brusca, e lo sa. La momentanea perdita di senno non era colpa di Albert, nonostante  le avesse insinuato lui l'idea nel cervello. Non poteva incolpare altri che sé stessa.

"Io—è diverso," ride, senza sentimento. "Questo è—quelle sono persone."

"E io no?"

"Tu sei Elsa," risponde, come se dovesse avere senso.

Ride sbuffando dal naso. E' un suono molto da Anna. La sorprende.

"E stanotte, era solo—non riguardava solo—voglio dire, riguardava te che—lasciarsi andare. Per un po'. Un momento. Un momentino."

Sobbalza di lato, come colpita. "Come hai detto?"

"Lasciarsi andare—era questo, penso. Penso che fosse—già. Sì, voglio dire."

E per la prima volta si chiede se lo abbia giudicato male. Elsa si sfrega le mani e si concentra per un momento, breve, doloroso, e la neve si ferma.

No. Non lo aveva fatto.

Emette un lungo, profondo sospiro, e si appoggia di nuovo al muro. L'insegna della taverna sta appesa sopra di loro, a destra—rozzamente ricavata da un pezzo di relitto, forse, e ridipinta di recente con colori vivaci, e freschi. Il Puledro Impennato. Il cavallo su di essa ha un aspetto totalmente assurdo.

"Ce ne sono così tante," Albert dice, di punto in bianco. Ci mette un momento ad accorgersi che non ha lo sguardo rivolto verso l'insegna, ma su, oltre il ciglio del tetto sopra di loro e verso il cielo pieno di puntine argentate.

"Amo la luce delle stelle," dice lei.

"Ho sempre pensato che fosse una—luce fredda."

"No," scuote la testa, tracciando i contorni, le costellazioni, immaginando di danzare in mezzo alla loro bellezza fredda, blu, ricordando quando la guardavano, felici, mentre costruiva il castello sulla Montagna del Nord. "No, sono bellissime."

"Felix diceva sempre che erano la luce dei desideri."

"Hm," mormora.

"Lassù balleresti, allora?"

"Come?"

"Lassù balleresti?" chiede lui, sorridendo. "Ti ci vedo. Ci staresti bene."

"Mi stai chiamando una palla di gas che brucia?"

"No," scuote la testa, e prima che Elsa possa rendersi conto di quello che stia facendo, la mano di lui si avvicina al suo viso, sospesa vicino alla guancia, e le sfiora una ciocca di capelli fuori posto. Lei tira in dentro un respiro. Si immobilizza. 

"Bellissima." Pausa. "Lontana."

"Sei ubriaco," sussurra.

Il suo sorriso è tagliente. "Forse. Probabilmente." La lascia andare, e presume che stia per allontanarsi in fretta, ma invece si avvicina in fretta, così vicino che riesce a distinguere le macchioline di verde scuro, di celeste, nei suoi occhi, e alla fine, davvero erano come quegli altri occhi, in realtà?—

"Che stai facendo?" domanda all'improvviso.

Con un rapido strattone le tira il cappuccio del mantello fin sulla fronte proprio mentre una coppia li supera, a braccetto, la donna che afferma, ad alta voce, "Solo un ballo, tesoro—" prima di entrare.

"Ci siamo andati vicino," Albert sussurra, il sorriso che scivola via mentre ruzzola all' indietro.

Lo stomaco di Elsa fa di nuovo le capriole.

Lasciarsi andare, eh?

Un'altra canzone sta iniziando; una giga animata.

Allunga tentativamente una mano, le dita che spuntano dalla stoffa del mantello, e pallide alla luce della luna. Si lecca le labbra. Si ferma. Respira. E—

"Balli con me?"


Hans si sveglia a pezzi.

Giace sul pavimento, il collo bloccato in una posizione scomoda, le gambe piegate sotto di sé. Sente delle voci, aleggiargli sopra, e ci mette un po' a ricordare di chi sono, a ricordare dove si trova—

"—ci ha messo?"

"—non posso saperlo finchè non si sveglia—"

"—dalle urla, immagino che—"

Si sente le budella simili al ripieno di una delle torte che faceva il cuoco, sbattuto come un uovo; la testa sta anche peggio. Dietro le palpebre sente qualcosa divampare. Il respiro è affannoso, accelerato, e sembra che non riesca a fermarlo.

Apre gli occhi.

Niels è in ginocchio accanto a lui, che lo considera scaltro, con l'occhio clinico. Il corvo è ancora sulla sua spalla. Hans vuole aprire la bocca ma sembra che la mascella non voglia funzionare. Suo fratello gli alza un braccio, floscio, si avvicina per esaminargli le pupille. Il corvo rimane lì, artigli saldamente piantati nella stoffa della sua tunica, e quando si avvicina riesce finalmente a capire cosa c'è che non va nei suoi occhi—

Lattiginosi, opachi, bianchi.

Morti.

"Come stai?" Niels chiede.

"D'inferno," Hans replica. Ci mette un po' a far funzionare la voce, e quando ci riesce, quasi non la riconosce.

"Bene." Niels lo tira su in piedi spietato. Hans barcolla. Il re è in piedi alla finestra, sorvegliando la notte scura, fuori.

"Cosa mi hai fatto?" Hans gracchia.

"Ti ho reso più forte," il re risponde.

Hans sta per rispondere, ma c'è qualcosa che si muove nelle sue vene, caldo e orribile come piombo fuso. Si sente bruciare, bruciare, bruciare

Con lenta, deliberata precisione, si guarda la mano destra, e si sfila il guanto, un dito alla volta. La stoffa bianca cade al suolo senza peso, tra i segni di gesso sbiaditi.

—e il bruciore si insinua su per le punte delle dita, gli divora la mano, mentre osserva la propria pelle che splende, che si spacca—

Che si copre di fiamme.

Si muovono tra le sue dita aperte, scivolano sulle nocche, che danzano e pulsano ipnotizzanti, nella penombra delle stanze di Niels.

"Hans," il re inizia, voltandosi per guardarlo in tralice, "cos' è che scioglie il ghiaccio?"

Il ghigno di Hans si scivola lentamente via dal suo viso come carta da parati ingiallita che si stacca dal muro. "Oh, vostra maestà," e il titolo è intenzionale, e la frecciatina, il piccolo lapsus, e la fiamma non lo brucia mentre la osserva lambire l'aria, dal proprio palmo—

"Il fuoco, ovviamente."


Da qualche parte, una principessa e un venditore di ghiaccio siedono sul tetto di un castello, osservando il cielo.

Da qualche parte, una regina danza, libera come le stelle e due volte più lontana.

E da qualche parte, aprendosi un varco tra le acque nere che luccicano, una nave attracca nel porto, silenziosa.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

 

 

 

 

Note della traduttrice: Perdonate, voi che seguite, il ritardo negli aggiornamenti: ma studio universitario e lavoro mi lasciano ben poco tempo libero. In ogni modo, sarò lieta di rispondere a chi di voi invierà un messaggio, o una recensione, e ci tengo a precisare che sebbene con dei rallentamenti, la storia verrà tradotta per intero e non abbandonata.

n.a.. Attenzione: alcune scene di moderata violenza da questo capitolo in poi.

 


La tiene per il colletto alto del vestito nero di velluto, sollevandola vicina al suo viso tanto che lei riesce a contare le singole lentiggini, piazzate in modo strategico. Il sorriso di lui è incostante, trema come una fiamma; la punta affilata del naso le sfiora la guancia mentre la attira più vicino, più vicino, tanto vicino da sussurrarle all'orecchio, tua sorella è morta. Poi lui tira indietro il pugno, che picchia sul suo viso, tanto violentemente da rompere la cartilagine; tanto violentemente da vedere delle macchie luminose davanti agli occhi. Porta di nuovo la mano all'indietro, e questa volta le nocche strette a pugno dure come il ferro sbattono nel suo volto con un toc. Di nuovo all'indietro. Toc. E ancora.

Fa male, ma non riesce a muovere le braccia. Le mani sono fiacche, inerti e inutili contro i fianchi. Sembra che tutto quello a cui riesca a pensare, mentre alza lo sguardo sul suo viso, è che i suoi occhi non sono —non—

Regina Elsa, la bocca si muove, ma il timbro di voce non corrisponde, tutto preoccupazione esitante. Il pugno si spinge in avanti. Toc. Regina Elsa? Ancora. Toc.

"Vostra maestà?"

Si tira su a sedere con un rantolo. Un'ondata di ghiaccio colpisce il baldacchino blu scuro al di sopra di lei; si sfascia. La stoffa le cade in testa svolazzando, e i sostegni di legno si schiantano ai due lati del letto.

"Vostra maestà, va tutto bene?"

Le ci vuole un momento per associare la voce. Il sogno le aleggia attorno agli occhi e sulla lingua, un saporaccio di cui non riesce a sbarazzarsi. Si toglie di dosso la stoffa blu, valutando i danni; la testa le pulsa, ha gli occhi carichi di sonno. Tra i detriti accantonati in un angolo dell'armadio, e l'ormai stato rovinoso del letto, presto avrebbe dovuto decretare le proprie stanze una zona disastrata.

Tira su le ginocchia al petto, appoggiandosi le dita alle tempie e chiudendo gli occhi.

"Vostra maestà!"

"Sì!" fa di rimando, a volume troppo alto. Sussulta. "Sì, va bene, sono qui."

"Mi dispiace avervi svegliata—"

"Non mi hai svegliata," Elsa risponde, richiamando la maledizione alle punte delle dita, che lascia ferme sulle tempie. Sopprime uno sbadiglio. "Sono sveglia da ore."

"Sì, beh—Mastro Olin mi ha informato che una nave proveniente dalle Isole del Sud ha fatto porto la scorsa notte—"

Questa volta il ghiaccio, con niente che interrompa il suo corso, colpisce il muro di fronte.

Sente il respiro accelerare. Sente il panico formarsi dal fondo dello stomaco, mescolarsi disgustosamente all'alcool scadente e al cibo della taverna. "Sì. Beh, sono sicura che sia solo una nave mercantile—" comincia.

"—e due ambasciatori la attendono nella sala del trono."

Chiude gli occhi e vede le stelle, un'intera galassia, danzare, ruotare, vivere, e poi li riapre e non c'è nient'altro che la propria stanza disastrata con l'armadio rotto e il letto sfasciato. "Scendo subito."

"Sì, vostra maestà." Pausa. "Regina Elsa, posso…portarvi—qualcosa?"

Si lecca le labbra, premendosi i palmi sugli occhi.

"Puoi portarmi il Principe Albert."


"È tutto un po' troppo, no?" fa un verso altezzoso col naso, ripugnato, alzando lo sguardo sui pannelli di legno riccamente decorati che profilano il soffitto sopra di lui. "Tutto l'insieme è così…oppressivo."

Suo fratello colpisce col piede la base di una delle colonne bianche, dandogli un colpetto con lo stivale, e nota, passando, un occhio rivolto alla guardia ferma alla porta, lontana—

"Tutto legno."


Anna si rigira, e cade dal letto.

Cade prima di fronte, e poi sbatte col petto a terra, e la prossima cosa che fa è cercare di capire se quel rumore che ha appena sentito è il polso che si è fratturato o il pavimento che si è rotto. "Ahiiii," geme. "Beh, ora sono sveglia." Sbatte le ciglia guardando i bioccoli di polvere che si nascondono al buio, chiedendosi vagamente se avessero lo stesso sapore dello zucchero filato che a volte faceva il cuoco—ok, forse non sono del tutto sveglia, ugh, perché ho pensato una cosa del genere—e fa una smorfia, schiaffando le mani sui bordi del letto e mezzo tirandosi, mezzo trascinandosi in alto per posare il mento tra le coperte.

"Mi sento morire," si lamenta.

"Beh, non credo che tu sia morta."

"Arghah—" strilla, cadendo all'indietro, riuscendo a malapena a distinguere gli occhietti neri acquosi e la testa annuvolata e il naso arancione prima di essere di nuovo a terra. "Olaf!"

"Io!" Il pupazzo di neve strilla dall'altra parte del letto, lottando per avvicinarsi coi piccoli piedi rotondi e cercando di issarsi sul copriletto, che scivola. Le braccia non sono proprio adatte all'arrampicata. Anna emette un oof e non si muove, lasciando ricadere la testa sul pavimento duro e fissando il soffitto.

"Ma che stai facendo, Olaf?"

"Controllo solo, controllo solo—eccoci qui." Paf, paf, paf. Ed ecco che la guarda dall'alto, dopo aver scalato con successo il monte LettoeLenzuola. "Come stai?"

"Mhhhhbene," sbadiglia. "Che ore sono?"

"Tardi," Olaf si siede. I piedi arrivano appena al margine del letto. Le sorride.

"Tardi quanto?"

"Uh-huh."

"Olaf, tardi quanto?"

Il suo sorriso di allarga. "Uh, sì."

E' il sorriso di un pupazzo di neve che si è mangiato il topo, e Anna stringe gli occhi, arriccia le labbra, e chiede, lentamente, "Che succede?"

"Allora," Olaf batte le mani, producendo un suono secco, uno schiocco, e sbatte le palpebre rotonde, "com'è andata la serata con Kristoff?"

"Olaf!"

"Così bene, huh?" Tira un sospiro smielato. "Ma allora voi due vi amate davvero."

"A-amate? No, chi ha detto niente—ok, adesso stai saltando alle conclusioni." Anna si aggrappa in cerca di un appiglio e si alza, cercando di strofinare via dagli occhi appiccicati la sensazione di morte. I calzini scivolano un po' sul pavimento liscio.

"Che cos'è?"

"Huh?"

Olaf tiene in mano il cristallo arancione sfaccettato, osservando le sue profondità, tizzoni tremolanti, con una specie di incanto infantile. "E' così caldo," sussurra affascinato.

"Ecco, Olaf, non credo che ti faccia bene stringerlo in mano," Anna esclama, togliendoglielo—le braccia avevano iniziato a emettere fumo—e stringendoselo al petto. Ecco di nuovo il calore, che avvolge tutto, che inizia dalla punta delle dita e la percorre tutta fino alle piante dei piedi. Sospira, soddisfatta.

"Che cos' è?"

"Un cristallo di fuoco. Kristoff l'ha preso per me."

"Ma allora ti ama davvero."

Anna armeggia a disagio, e poi, con tutta la grazia di una gazzella che ha solo tre zampe, balza fino al tavolo da belletto, mormorando qualcosa a proposito di spago o nastro per fare del cristallo una collana. Trova un vecchio pezzo di spago spinto nei recessi di un cassetto, probabilmente un progetto d'arte abbandonato quando era piccola, e procede ad avvolgerne un capo più volte attorno alla base del cristallo. Inizia a misurare la lunghezza. "E' tutto quello che volevi, Olaf?" chiede, mordendosi la lingua dalla concentrazione, allungando la mano in cerca delle forbici. Continua, cupa, "Interrogatori?"

"Oh, no, non essere sciocca. Elsa ha altre visite."

"Huh?" Scivola, e le forbici quasi le tranciano il pollice.

"Uh-huh. Due uomini. Nella sala del trono."

Anna si acciglia, reggendo la collana improvvisata, e scrollando le spalle. Questo è quello che passa il convento, pensa, e poi, "Ehi, Olaf, ti dispiace uscire, subito? Devo vestirmi."


 

Elsa osserva lo specchio, e una donna bianca come la neve le restituisce lo sguardo, occhiaie sbiadite sotto gli occhi stanchi. Raddrizza le spalle, ignorando la schiena dolorante, la fatica che le rode i pensieri ai margini. Ha la mente piena di luce delle stelle.

 

"Regina Elsa?"

 

"Sì, arrivo." Si alza dal tavolino da belletto, facendosi strada tra i detriti sparsi sul pavimento. Si ferma appena prima della porta, quanto basta per stringere le mani a pugno ai lati del corpo e calmare i nervi, quanto basta per tirarsi su il pizzo ghiacciato del vestito. Poi appoggia la mano sul pomello d'oro, lo gira, e si ritrova faccia a faccia con Kai, delineato dal sole splendente nel corridoio. Scivola fuori in fretta, e chiude la porta dietro di sé.

 

"Gli ambasciatori—" comincia.

 

"Ancora nella sala del trono. Ho mandato un messaggero a convocare il Principe delle Isole del Sud, ma non è ancora arrivato—"

 

"Non mi aspettavo che lo facesse. Mandatelo in biblioteca non appena arriva. E Kai?"

 

"Sì, vostra maestà?"

 

"Fallo con riservatezza, te ne prego."

 

"Si, maestà. Certo."

 

Annuisce, la treccia che le sfiora il collo nudo. Aveva messo via quel vestito dopo quella volta in cui avevano pattinato, e non l'aveva usato da allora, ma se doveva accettare questa sfida, l'avrebbe fatto secondo le proprie regole—sta per girare l'angolo del corridoio quando sente un piccolo colpo di tosse. Volta la testa. "Sì?"

 

"Se mi permettete, maestà," e Kai sorride cortese, il mento che si riempie di rughe. Era stato sempre così cortese con lei, così come tutto lo staff—l'immagine perfetta del decoro. Sospettava che fosse per paura. "Mi sono preso la libertà di ritirare la corona di vostra nonna dalla camera blindata; So che ha—perso la sua in tutta quella confusione".

 

Non vuole dirgli che "perso" non è il termine esatto; che lanciata giù dalla montagna sarebbe stata l'espressione più appropriata. Perché era stata forgiata appositamente per lei da sua madre, tutta punte affilate e angoli rigidi. Ma si trattava di sua madre, e a Elsa non interessava poi un granché.

 

La corda è cucita a una custodia di color viola scurissimo. Kai tira i capi con attenzione ed estrae una corona che brilla ipnotica ai raggi del sole che si rifrangono sulla sua superficie trasparente. Sembra fatta di cristallo, tutta composta da fiori e stalattiti di ghiaccio, con una punta a cappio; ed Elsa tira improvvisamente in dentro un respiro, perché è decisamente meravigliosa.

 

"Era di mia nonna?" chiede, prendendola con attenzione.

 

"Fu detto al mio predecessore che è appartenuta alla prima regina di Arendelle. Ovviamente, la moda decretò ben presto che smettesse di essere indossata, ma finchè la vostra nuova corona non sarà pronta credo che possa assolvere bene il suo compito."

 

Elsa afferra il delicato cerchio di cristallo ritorto, e nel preciso istante in cui le sue dita toccano il vetro, questo inizia a risplendere di colori insoliti—blu glaciali, verdi freddi, viola intensi, forme che vorticano sotto la superficie in una maniera che le ricorda il suo palazzo di ghiaccio—poi sbatte le palpebre, e la visione svanisce. Si poggia la corona sul capo. "Grazie, Kai," sorride. "Assolverà il suo compito splendidamente."

 

"Vivo per servirvi," Kai si inchina, e ha un aspetto infinitamente soddisfatto. "Devo informare gli ambasciatori del vostro arrivo?"

 

"Sì, fallo, per favore. Ti ringrazio."

 

Kai si affretta lungo il corridoio. Lo guarda andar via, con la borsa di velluto, ormai vuota, che gli picchia contro il fianco. E’ da sola, a guardare fuori dalle finestre. Era una mattinata luminosa e splendida, ma era già così tardi; si chiede se la notte precedente sia stata uno sbaglio.

 

Ma no.

 

Si volta, allacciando le mani avanti a sé, meravigliandosi della quasi assenza di peso della corona, e poi sposta lo sguardo di lato, distogliendolo dalla città, ed ecco la porta di Anna, serrata. Si ferma davanti a essa.

 

Si morde il labbro, sollevando una mano tremante stretta a pugno.

 

E se non apre?

 

E poi la porta si spalanca da sola. Elsa sobbalza, stringendo il pugno chiuso al petto, un getto di brina che parte dal passo indietro che ha fatto e colpisce il muro dietro di lei con un thud sordo. Anna la guarda sbattendo le palpebre, la mano ancora sul pomello, e poi la sua bocca si schiude in un sorriso tutto denti.

 

"Ciao!"

 

"Ciao," Elsa sorride, mentre ancora cerca di calmare il respiro. "Mi hai spaventata."

 

"Mi hai spaventata tu, di più—ma per caso stavi per bussare?"

 

Il sorriso di Elsa si trasforma in una specie di smorfia. "…forse?"

 

"No! No, è fantastico, non credere che— Voglio che bussi. Voglio dire, puoi anche entrare e basta, ma bussare va bene. Buon inizio. Buon giorno, a proposito," Anna conclude, uscendo nel corridoio e chiudendo la porta dietro di sé. Indossa il vestito verde che aveva all’incoronazione, Elsa nota, la smorfia che diventa un cipiglio confuso—

 

Perché non aveva visto Anna indossare altro che vestiti a maniche lunghe da—quel periodo, e come faceva lei a sapere—

 

"Olaf mi ha detto che c’erano due tizi nella sala del trono. Quindi, tipo, lo sapevo che avrei dovuto fare la guardia del corpo, perché sono così—grr, sai." Fa una smorfia e alza i pugni. Elsa smorza la risata nella mano.

 

"Molto grr."

 

"Esatto. Quindi, chi hai detto che devo grrare?"

 

Elsa si lecca le labbra. Non era arrivata ancora a pianificare questa parte, la fase diglielo. Indica lo spago sfilacciato che Anna tiene attorcigliato al collo, e la brillante gemma arancione che vi è appesa. "Che cos’è?"

 

"Questo? Un cristallo di fuoco, da Kristoff," sorride fiera, ma poi le si spalancano gli occhi e continua in tono nervoso, frettoloso, "Non che abbia freddo o niente, solo perché pensavo fosse carino. Sai."

 

"Molto carino," Elsa concorda.

 

"Ok, aspetta, mi hai appena distratta. Non farlo più. Chi devo picchiare?"

 

"Non picchierai proprio nessuno."

 

"Chi devo abusare verbalmente?" corregge.

 

"Anna, ascoltami. Per favore, non—dare di matto."

 

"Dare di matto? E chi ha detto niente sul dare di matto?"

 

"Devi essere cortese. Ricorda, sei una—"

 

"Una principessa, lo so, cioè, lo so da quando ero, alta così, quindi, dimmi." Pausa. "Ma quella corona è nuova?"

 

Elsa inizia a camminare. "Adesso chi distrae chi?"

 

"Io, mi distraggo da sola."

 

Elsa sorride, stringendo le mani avanti a sé. Fa passi lenti, perché non ha alcuna fretta di scendere le scale a spirale, di entrare nella sala del trono, di presentarsi al cospetto di quei due—

 

Due—

 

"Sono arrivati due ambasciatori dalle Isole del Sud."

 

"Che cosa."

Elsa sussulta. "Due ambasciatori," ripete. "Due fratelli del re—"

 

"Altri due dei fratelli malvagi di Hans? Intendi come quel buono a nulla di Albert—"

 

"Non è così orribile come—potrebbe essere."

 

"Beh, nemmeno tu sembri troppo convinta, quindi," Anna sbuffa, strascicando il piede al suolo. "Continuano a spuntare dalla neve! Come margherite!"

 

"Ho ricevuto una lettera, poco dopo l’—incidente," Elsa continua, sentendo il bisogno di spiegarsi, "in cui c’era scritto che sarebbero stati mandati. Speravo che il Principe Albert potesse intercettarli, ma la sua nave aveva bisogno di essere riparata, e io ero—pensavo che la cosa migliore sarebbe stata aspettare," termina, vaga, lottando contro l’impulso di strofinarsi gli occhi.

 

"Voglio dire, ma chi è che fa tredici figli? Cioè, quale folle nel pieno delle sue facoltà mentali decide, oh, ehi, voglio mettere su una squadra di cricket—"

 

"In realtà," Elsa fa ai propri piedi, e non riesce a credere di stare per dirlo ad alta voce, per ammetterlo, ma—"In realtà, speravo che non sarebbero mai arrivati."

 

Anna fa un respiro profondo e chiude la bocca. Smette di camminare. Anche Elsa, un momento dopo, si ferma. Guarda in tralice il viso lentigginoso della sorella.

 

"Elsa," Anna esclama. "Non ti sto incolpando. Sono stufa delle Isole del Sud, e non ci sono neanche mai stata! Senti," e Anna fa un passo verso di lei, e le afferra la mano. "Hai fatto la cosa giusta. L’hai fatto. E adesso," Anna prende Elsa a braccetto, e i loro gomiti si toccano, e poi con la mano libera fa un saluto militare, "presenteremo un fronte unito, e diremo a quegli ambasciatori grazie, ma non ci piace quello che offrite, quindi andate a fan—"

 

"Anna!" Elsa la interrompe con una risata sconvolta, e non riesce nemmeno lontanamente a dire, Principessa, ricordi? Invece, guarda grata sua sorella.

 

Fronte unito, Elsa pensa, un sorriso piccolo e fragile.

 

Avrebbe potuto abituarcisi.


 

Kristoff apre gli occhi e vede il soffitto opaco, marrone e piatto delle stalle, e il suo mondo è pervaso dal rumore di una vanga che gratta sul rozzo pavimento di pietra. Qualcuno stava pulendo la stalla. Si agita un po’ nel mucchio di fieno, sputando fuori un paio di pagliuzze e togliendosi dagli occhi pelo di renna. Pelo di renna, ma come ci

Volta la testa, e Sven è tanto vicino da fargli respirare una lunga, bella zaffata del suo alito mattutino

Schifo

"Sven," inizia paziente, osservando gli occhi della renna aprirsi, offuscati. "Cosa avevamo detto a proposito dello spazio personale?”

"Sei tu quello che è entrato dopo che mi ero addormentato, Mister stavo – pomiciando – con – una -principessa.”

"Prima cosa, non era necessario. Seconda cosa, non stavo pomiciando con lei. Stavamo solo parlando. E roba.

"Roba tipo pomiciare”.

"Sven," Kristoff geme esasperato, spingendo via il muso dell’amico, solo per non vedere più il suo ghigno soddisfatto. Si siede in fretta, ravviandosi i capelli, e ciuffi di paglia ricadono nel suo grembo.

Probabilmente avrebbe dovuto smetterla di dormire nelle stalle.

"Ho provato a dirle che la amo," comincia, guardandosi le mani, aprendole e chiudendole tanto per, e di tutte le cose che erano successe la scorsa notte, perché pensa proprio a quello, eh?

"E?”

"E aveva l’aria di una che sta per avere un infarto, quindi non l’ho fatto”.

"Ha solo bisogno di tempo”.

"Ma quanto tempo?" Kristoff geme, cercando di alzarsi. Gli serviva proprio un bagno. "Un giorno o l’altro mi uscirà, e non potrò evitarlo.

"La ami così tanto?"

Pensa al modo in cui lei sta bene tra le sue braccia; al modo in cui parlava, parlava e parlava per ore delle sciocchezze; il modo in cui non si sentiva infastidito da lei, in cui non sentiva più il bisogno di vagare tra le montagne per stare da solo, non più—

"Sì," sospira, desiderando che le cose stessero diversamente. "Si, credo di sì."


Anna si dice di rimanere calma, si dice stai calma, ma siamo onesti, è completamente e totalmente prevenuta contro chiunque porti il cognome Isole del Sud, quindi quei due tizi erano spacciati in partenza—

Entra nella sala del trono subito dopo la sorella, passando da una porta laterale. Un ciambellano esclama, "Fa il suo ingresso, Elsa Regina di Arendelle. Fa il suo ingresso, Anna Principessa di Arendelle," e la sua voce profonda risuona in tutta la stanza vuota. Anna si concentra sulla scia dritta e scintillante che segue il vestito di Elsa, osserva sua sorella salire sulla predella e sistemarsi sul trono rigido come fosse la cosa più confortevole del mondo. Il suo viso è illeggibile—ma calmo, sereno. Anna avrebbe quasi potuto credere che lo fosse, se non fosse stato per i piccoli vortici di ghiaccio che continuavano a spuntare dalle punte delle sue scarpe col tacco di cristallo.

Per un momento dopo che Elsa si è seduta, si blocca, non essendo sicura di dove sistemarsi, ma erano un fronte unito, no? Quindi si regge le gonne con una mano e fa un passo, due, e si ferma in piedi accanto al trono rosso e a sua sorella su di esso. E poi alla fine, alla fine alza lo sguardo.

"Fa il suo ingresso, il Principe Viktor delle Isole del Sud," annuncia il ciambellano, e Anna non può fare a meno di cercare le guardie con lo sguardo, ed eccole lì, al capo opposto della sala, accanto alle porte principali—"Fa il suo ingresso, il Principe Tomas delle Isole del Sud."

"Vostra maestà," due voci identiche fanno all'unisono, nel loro tono una riverenza evidente, ed è in quel momento che la sua attenzione si concentra sulle due figure in piedi al centro della stanza, e non è possibile

Gemelli, pensa, alquanto disperata. Gemelli, sul serio

Si raddrizzano, due facce identiche che restituiscono il loro sguardo da parecchi metri di distanza, resi all'apparenza più piccoli dai lampadari dorati sotto i quali stanno in piedi, due pesci fuor d'acqua, sul pavimento di legno decorato. Si costringe a rimanere immobile, anche se all'improvviso sente l'impulso di prenderli a pugni tutti e due, perché hanno i capelli dello stesso colore di quelli di Hans—quel castano ramato, quel colore orribile, e sicuro, è di parte, ma i loro occhi hanno un'aria—strana. Sorridono educatamente, guardando oltre i nasi dritti e affilati e gli zigomi alti e scolpiti. La loro unica vera differenza, Anna riflette, lottando contro l'istinto di sputare (cosa che probabilmente non le avrebbe fatto guadagnare punti nelle grazie della sorella, e niente—) era che uno era leggermente più massiccio dell'altro.

Ma gemelli, e dai

"Principe Viktor, Principe Tomas," Elsa comincia disinvolta, senza scomporsi, e Anna, forse per la prima volta, ammira la capacità di sua sorella di stare calma, perché avrebbe voluto abbandonarsi a una crisi isterica in quel preciso istante e fare qualcosa di eroico, tipo tagliare le corde che reggevano i lampadari e oops, vi sono caduti in testa, mi spiace tanto—"Sono spiacente per l'attesa. Mi stavo occupando di altre questioni. Non mi aspettavo che arrivasse così in fretta."

"Siamo partiti subito dopo esserci occupati del nostro—sfortunato fratello," Gemello A inizia. "Volevamo presentarvi le nostre scuse più sincere, di persona."

"Ma certo," Elsa risponde, glaciale. "E magari assicurarvi che le relazioni commerciali con le Isole del Sud sussistano ancora?"

"No," Gemello B scuote la testa, allacciandosi le mani dietro la schiena, "no, davvero, Regina Elsa, siamo sul serio qui solo per scusarci del comportamento sconveniente di nostro fratello."

"Comportamento sconveniente?" Anna non si trattiene. La sua voce è aggressiva, piena di furia a malapena repressa. "Ha tentato di assassinare mia sorella."

"Anna," Elsa avverte, sottovoce.

"Non possiamo fare altro," Gemello A comincia di nuovo, un'occhiata tagliente diretta al fratello, "che offrire le nostre più umili scuse, e sperare che le nostre relazioni possano rinascere, nuove. Portiamo con noi le buone intenzioni di Re Alfons, e la speranza del nostro Paese."

Wow, come se questo non si chiamasse esagerare

"Di certo, compiremo dei passi," Elsa esclama. Anna le lancia un'occhiata. Ha la schiena rigida come lo schienale del trono, come una grossa lastra di ghiaccio, il volto duro e freddo. E' in tutto e per tutto la regina. "Verso quale direzione, è ancora da vedere."

Ed è così che facciamo le cose ad Arendelle, schifosi

"Nel frattempo, sono sicura che entrambe siate affaticati dal viaggio. Posso suggerire una visita al palazzo? E la cena, dopo, certamente."

"Un'idea deliziosa, sua maestà."

Anna non può fare a meno di fare una smorfia al pensiero di tutti e due che vagavano in preda a frenesia omicida con qualche povero disgraziato lì a seguirli—

"Mi perdonerete, se ho altri questioni di cui prendermi cura, ma mia sorella sarà più che felice di farvi da guida."

Anna ruota su sé stessa, la bocca spalancata, ma Elsa è già in piedi, lisciandosi la gonna, "A stasera, dunque," dice. Anna la segue, ancora boccheggiante, ma prima che possa essere tutta un, scusami, non mi sono offerta volontaria per una cosa del genere, questo non è un fronte unito, carissima sorella, Elsa si ferma accanto a lei e mormora, "Ti prego, Anna. Ho bisogno che tu mi dica se assumono comportamenti—sospetti."

Anna prova a far funzionare la bocca, e alla fine ci riesce, con un sonoro sospiro. "Solo avvertimi la prossima volta."

Elsa annuisce. Ha l'aria di qualcuno che si è piegato troppo. Quasi spezzato. Anna si morde il labbro, e non può farne a meno, deve chiederlo—"Perché non racconti loro di Albert?"

Elsa sbatte le ciglia. "A tempo debito."

Esce dalla sala.

Anna sospira, prendendosi un lungo momento per calmarsi e tenere sotto controllo la rabbia bruciante che era sul punto di trasformarla in una maniaca omicida—un'eroica maniaca, giustamente motivata, ma comunque una maniaca—prima di voltarsi, scendere i due scalini della predella, e affrontare gli occhi scaltri dei gemelli.

"Beh," esclama, senza entusiasmo. "Che il tour abbia inizio."


"E' in biblioteca, vostra maestà."


Elsa apre le porte bianche e trovare Albert col naso incollato alle pagine di uno dei libri non la sorprende. Sobbalza al suo ingresso, apparendo subito colpevole. Chiude il libro di scatto. "E'—ah—scusa,” balbetta, guardando su e giù. Spalanca gli occhi. "Sei, uhm," e gli si strozza la voce, diventando più acuta, e manda giù imbarazzato un colpo di tosse. Si riconcentra sul libro che ha in mano.

Scuote la testa, divertita. Una perlustrazione veloce della stanza, e sono da soli, nient'altro che un fuoco morente nel caminetto e una pila di documenti—ignorati la notte prima—sulla scrivania. "Che libro è?" chiede, cercando di mantenere un tono leggero, ma è difficile. Così difficile.

"E'—ah—Le Morte D'Arthur. Lo leggo per i duelli di spada" mormora, quasi a sé stesso, infilando con attenzione il pesante tomo tra gli altri sullo scaffale. La guarda con aria timida, alzando gli occhi da dietro ai ricci che gli ricadono sulla fronte. "Il vestito," dice.

Aggrotta le ciglia, all'improvviso imbarazzata. Guarda in giù, in fretta. "Cos'ha che non va?"

"Non ha niente che non va, non—è che—" si strattona la manica della giacca. "Sembra luce delle stelle."

E la notte precedente ritorna, investendola, il ronzio inebriante dell'alcool, la sensazione di libertà della danza, il volto di lui vicino al suo—scuote la testa. "In quel caso sarebbe un vestito poco pratico," afferma, incrociando le braccia

Rimangono così per un momento, silenziosi, immobili. Si chiede come si suppone che debba rivolgerglisi, e ha la sensazione che la sua scelta, quella che avrebbe fatto a momenti, avrebbe deciso come stavano le cose tra di loro, e si chiede perché—"Principe Albert," inizia, ed è sua impressione, o le sue spalle cascano, leggermente? Non poteva riportare alla luce la notte precedente, non poteva più far finta di non essere una regina. Adesso doveva occuparsi del problema in questione. "Principe Albert, ha visto nel porto la nave delle Isole del Sud?"

"Che, la mia, intende?"

"No. Un'altra."

"Io—io no, ma tanto, non ero molto attento alle cose attorno a me la scorsa notte o—o questa mattina," conclude, strattonandosi di nuovo la manica, guardando velocemente l'avambraccio. Aveva davvero l'aria di uno che è uscito di corsa; ma gli occhi non avevano più un'espressione entusiasta. Aveva forse pensato—

Pensato che gli avrebbe detto—

Che l'avesse chiamato per dirgli—

Scuote la testa, facendo tre passi svelti circondati da anelli di brina, e sistemandosi nella sedia dietro la scrivania. "Una nave che trasporta ambasciatori. I suoi fratelli."

"Che?"

"Li ho appena incontrati nella sala del trono. I principi Viktor e Tomas, come promesso."

"Dannazione—voglio dire—scusi, non volevo—" Albert emette un suono frustrato, passandosi le mani tra i capelli. "Non mi aspettavo, quando mi ha detto della lettera, che arrivassero così in fretta—"

"Nemmeno io."

"—ovviamente, probabilmente hanno avuto l'aiuto di mio fratello—un tocco—un pizzico di magia nera." La guarda, e i suoi occhi sono fissi, e dice, "Mi dispiace."

"Per cosa?" Elsa sospira, osservando le carte sparse sulla scrivania. "Semplicemente, sono stata troppo lenta nello stilare una risposta. Non li ha chiamati lei. Non ho," si stringe in grembo le mani a pugno, "detto loro che è qui."

"Beh, dovrò farlo. Non posso nascondermi proprio sotto il loro naso per sempre," afferma, voltandosi a guardare fuori, borbottando, ed Elsa pensa che in teoria non avrebbe dovuto sentirlo, "Per quanto lo vorrei." Alza la voce. "Hanno già annunciato il motivo del perché sono qui?"

"Quello ufficiale? Solo per porgere delle scuse." Si ferma, osservando gli angoli della bocca di Albert piegarsi verso il basso. "Stasera ceneranno con mia sorella e me. Dovrebbe unirsi a noi."

"Sì," Albert fa, distratto. "Sì, d'accordo, ma—è davvero questa? La ragione?"

"Sì," Elsa si acciglia. Vuole chiedergli perché all'improvviso sia immobile, silenzioso, tranne che per le mani che non smettono di muoversi veloci. Dice, "Progettavo—voglio dire, pensavo che il modo migliore di gestire questa situazione sia—intrattenerli per alcuni giorni, assicurar loro, almeno, che non porto rancore alle Isole del Sud, e poi rimandarli a casa." L'aria è diventata pesante e insopportabile, a un certo punto negli ultimi minuti, ed Elsa si sforza di alleggerirla, in qualche modo. "Immagino sia più cortese di cacciarli via a calci, e basta."

"Mhmm," Albert risponde, guardando ancora fuori. Il cipiglio di Elsa si fa più marcato, lo sguardo fisso sulla schiena, e non può farne a meno, le sfugge dalle labbra che tiene sempre più premute—

"Dovrebbe saperlo,  non li ritengo particolarmente affidabili."

Albert finalmente si volta, nei suoi occhi un'espressione illeggibile.

"Non lo sono,"risponde. "Mi creda."


"E questa è la galleria d'arte," Anna fa in tono piatto, esaminandosi le unghie, tentando di mantenere il batticuore al minimo, tentando di ignorare la sensazione di essere da sola con due lupi famelici. "Qui troverete l'arte."

"Affascinante," Tomas—il più magro dei due, ha imparato—biascica. "Ci dica di più, la prego."

"Sono stati dipinti," risponde. "Con della pittura."

Era, letteralmente, peggio che ballare col Duca di Weselton.

Il che diceva tutto.

"Secondo lei quanto è spesso questo vetro?" Tomas chiede, colpendo piano la finestra accanto a lui. "Di sicuro deve avere una resistenza notevole, per sopportare gli inverni che Arendelle deve affrontare."

Anna deglutisce a fatica. "I più resistenti che ci siano," risponde.


"E i preparativi per la cena?"

"Procedono, vostra maestà. Il cuoco ha preparato tre portate, e in più il dessert."

"Assicuratevi che ci sia il cioccolato." Elsa non aggiunge, perché è il preferito di Anna, e quando tornerà sarà di cattivo umore.

Ma lo pensa.


"I sacrifici che faccio per te, Elsa, ti giuro, è stato brutto quanto quelle lezioni di geografia che prendevo da piccola—no, me lo rimangio, è stato peggio—" Anna si ferma sulla soglia, e rimane a bocca aperta.

Sua sorella era alla scrivania, ma quella sottospecie di principe Albert se ne stava seduto sulla chaise longue, e leggeva un libro.

Da quand'è che sua sorella permetteva agli uomini di venire a leggere i loro libri?

"Oh, non tu," Anna abbaia, perché per quel giorno ha raggiunto la sua quota massima di sottospecie di principi. Il Principe Albert scatta immediatamente in piedi, e sul serio, i suoi occhi assomigliano davvero a quelli di Hans, davvero troppo a quelli di Hans —

"Anna!" Elsa fa, shockata.

"Devo parlarti. Da sola." E questa volta non avrebbe accettato "no" come risposta.

"Allora io—scusi, è stata—aspetterò fuori,” il principe Albert balbetta, lasciando cadere il libro sulla chaise e oltrepassandola di fretta, fuori dalla porta. Anna la chiude dietro di lui con un calcio, le mani strette a pugno, ed Elsa si alza in piedi, e una volta tanto c'è qualcosa sul suo viso—un cipiglio. Beh, bene, qualcuno doveva iniziare a parlare in maniera sensata, e se doveva essere Anna a farlo, così sia—

"Quindi può venire a palazzo, ora?" le chiede, incrociando le braccia. "Come se nulla fosse?"

"Non puoi trattare le persone così, Anna, e non mi interessa come tu ti senta nei loro confronti—"

"Ma come—Elsa, la mia fiducia verso di loro equivale più o meno alla distanza a cui riuscirei a scaraventarli via, che, fidati, non è molta." Fa un respiro profondo, forzandosi a trattenerlo fino al tre, guardando Elsa appoggiare una mano sulla scrivania e pizzicarsi la sommità del naso con l'altra.

"Fai così," inizia, gli occhi chiusi, "fai così perché ti ho costretta a fare una cosa?"

Anna fa un verso indignato. "Non riesco a crederci, sai benissimo che voglio aiutarti—prendi tutti i pesi sulle tue spalle, e poi scarichi una cosa del genere—no, Elsa, non è perché mi hai costretta a fare qualcosa, è perché ho appena passato tre ore a fare la guida turistica di quei principi, e hanno qualcosa che non mi convince." Respira a fatica. Non riesce a trattenersi. E' così furiosa—"E, ok, forse non mi sono comportata proprio benissimo, ma erano così cortesi, anche quando io non —"

"Non sei stata cortese?" Elsa sembra orripilata. "Anna!"

"—ero particolarmente interessata, e io—io—urgghah!" urla, lanciandosi sulla sedia più vicina, prendendosi la testa tra le mani. Non è arrabbiata, non davvero. Beh, forse un pochino. Ma per lo più ha solo paura, perché i gemelli le ricordavano dei lupi, lupi famelici, ma non sapeva perché, quando o come—"Mi hanno fatto continuamente domande sulla struttura del palazzo. Gli ho detto che non lo sapevo." Fa un sospiro profondo. "Non sono qui solo per scusarsi."

"Credi che non lo sappia?" Elsa sospira, e poi si abbandona, cadendo pesantemente sulla sedia, anche lei.

Un momento. Un altro. Anna alla fine dice, "Scusa."

"Non ti scusare."

"Ma poi entro qui e ti trovo con—lui!" Anna sussurra, furtiva, gesticolando in direzione della porta chiusa dietro di lei. "E  legge un libro!"

"Dovevo capire quale fosse il miglior modo di agire, per andare avanti," Elsa sfa, evasiva, e Anna stringe gli occhi.

"Legge un libro, Elsa."

"Anna, ti prego." Elsa si torce le mani. Anna si guarda i piedi, le scarpette nere, e si accorge che le dita stanno avanzando verso il cristallo che tiene appeso al collo. Si chiede cosa stia facendo Kristoff in quel momento.

Le manca.

"Non mi fido di nessuno di loro. Come si suppone che riusciamo a mandarli via?"

"Gli diamo quello che vogliono," Elsa dice, guardando fuori. "Aggiustiamo la nave di Al—del principe Albert, e facciamo le carine con gli ambasciatori. Li mandiamo a casa, e diciamo loro addio per sempre."

E non può evitarlo, è come se scivolasse via dalle labbra, così piano che all'inizio pensa che Elsa non l'abbia sentita—"Vorrei tanto che mamma e papà fossero qui."

Elsa fa, "Ma non ci sono."

Anna guarda sua sorella, e prova la stessa sensazione, di essere talmente piegata da star per spezzarsi. Chiede, "Cosa vuoi che faccia?"

Elsa chiude gli occhi ancora una volta, ed è in quel momento che Anna nota il gelo e il ghiaccio formatisi agli angoli della stanza, lungo i bordi della scrivania, ma non l'aveva sentito—non aveva sentito la temperatura calare di dieci gradi, nemmeno un brivido—si ritrova con le mani vicine al cristallo. Sua sorella finalmente riapre gli occhi e afferma, "So che vuoi essere d'aiuto."

Anna annuisce vigorosamente.

"Ho bisogno che domani porti i principi a visitare le montagne. Ho bisogno che mostri loro che sono impenetrabili."

E lo capisce. Capisce il perché. Non mettetevi contro Arendelle, non ci avrete mai. Quel genere di cose.

"Porta Kristoff con te."

"Se verrà. Convincerlo a socializzare è come convincerlo a farsi un bagno."

E, in un momento, la tensione si spezza. Anna ridacchia, ed Elsa sorride, e si guardano, e quest'ultima dice, perché sente che è la cosa giusta da dire, "Presto sarà tutto finito, e potremo ritornarcene a progettare balli."

"Magnifico."

Anna si alza in piedi, lisciandosi il vestito. "Beh, vado a cercare il mio montanaro—voglio dire, il montanaro, non è—vado a cercare Kristoff." Va alla porta. "Ma, Elsa?" Guarda indietro. "Non mi fido di lui. Non Kristoff, di lui mi fido, non mi fido di—" Fa un cenno col mento avanti a sé.

Sua sorella, dopo un momento, annuisce.

Anna apre la porta. Il principe Albert sta aspettando nel corridoio dei ritratti, strizzando gli occhi in direzione di un angolo di un quadro appeso al muro. Sobbalza sentendo il rumore, e poi prova a fare un veloce abbozzo di sorriso, che immediatamente scivola via quando lei non lo ricambia. "Ah, salve."

"Principe Albert?" sua sorella chiama.

"Si, sono—solo—mi scusi," inciampa, oltrepassando Anna, tenendosi a debita distanza, ed ecco che entra in biblioteca, e dice, "Sapeva che in uno dei suoi ritratti la pittura si sta scrostando in un angolo?"

La porta si chiude.

Anna aggrotta le sopracciglia, e pensa ai lupi.


"Dobbiamo che?"

"DiciamoportarealtridueprincipidelleIsoledelSudafareuntourdellemontagne?"

"Ma perché continuano a spuntare? Come margherite!"

"E' esattamente quello che ho detto io!" Pausa. "Allora, lo farai?"

"Immagino di sì. Solo—stammi vicina, okay?"

"Pfh, Kristoff. Credi che sia stupida?"

"No. Solo spericolata."


"Il suo castello è davvero incantevole, Regina Elsa."

"Vi ringrazio," Elsa risponde, cortese, lottando contro il ghiaccio che si forma attorno alle caviglie, e che attacca il cuscino della sedia. Di sicuro lo sapevano; di sicuro—lui gliel'aveva detto. Si concentra sui piselli. "Ma dovreste vedere le montagne—sono ancora più incantevoli in questa stagione."

"E' la calura," sua sorella interrompe con un sorriso. Elsa sa benissimo che non è un sorriso che arriva agli occhi—ma vuole ringraziarla, per il tentativo. "Quaggiù. Quando siete là sopra, è tipo—wow! Neve in estate!"

"Saremmo lieti di godere di più dei panorami di Arendelle," il più magro dei gemelli dice, ed Elsa pensa che sia lui, per qualunque motivo, il portavoce per tutti e due. "Di fatti, stavamo proprio per chiedere il permesso di visitare le campagne circostanti."

Elsa sente la bocca farsi secca. Mentiva? Stavano per chiederlo davvero? O stava solo implicando che ne avessero intenzione per, per—per—

Per fare cosa?

"Verrà qualcun altro?" il più massiccio dei due indaga, gli occhi fissi sul posto vuoto di fronte a lui, il cibo disposto e coperto.

"Credo che sia così, sì," Elsa fa, cercando di restare calma. "Anna sarà lieta di farvi da guida, domani."

"Considerato il magnifico lavoro che ha fatto quando ci ha mostrato il castello," il gemello più magro esclama, piccato, con un sorriso teso, "ne saremmo onorati."

Anna risponde cortese, ma a labbra strette. Per una volta, comunque, tiene la bocca chiusa, ed Elsa è grata—sorpresa, ma grata. "Magnifico," Elsa ripete, rompendo il silenzio. "Partirete domattina presto, allora."

In quel momento si aprono le porte della sala da pranzo, lasciando intravedere, oltre, l'ingresso illuminato dalle candele, ed Elsa si tampona la bocca col tovagliolo, gli occhi fissi sui due ambasciatori.

"Ecco il nostro quinto ospite," afferma.

"Fa il suo ingresso," un ciambellano annuncia, " il Principe Albert delle Isole del Sud!"

E così, era giunto il momento.

Si sente il suono di argenteria che sbatte sulla porcellana, e poi i gemelli scattano in piedi, le bocche spalancate dalla sorpresa mentre Albert fa il suo ingresso alla luce della sala. Ha la schiena rigida come una tavola, il volto impassibile; aveva tentato di lisciarsi i capelli all'indietro, ma già gli ricadevano scompigliati sulla fronte.

"Albert?"

"Fratello!"

I gemelli corrono avanti, lungo il tavolo, e Albert corre avanti, attraversando la sala, e si incontrano a metà, una calca di abbracci mascolini e pacche sulla schiena e sorrisi allegri. "Abbiamo temuto il peggio, dopo—"

"Non abbiamo visto la tua nave, nel porto—"

"Hans mi ha indicato direzioni sbagliate all'altezza di Corona; l'albero della mia nave è stato abbattuto da un temporale, il che spiega il fatto che non abbiate visto la nostra bandiera." Elsa sbatte le ciglia. La voce di Albert è sicura e disinvolta—diversa. I suoi occhi scattano verso di lei. Abbassa in fretta il proprio sul piatto, ma può sentire lo sguardo della sorella che le scava un buco nel cranio, e sa che Anna muore dalla voglia di dire, vedi, non mi fido, non

"Regina Elsa," Albert afferma, e lei lo guarda di nuovo. "Mi perdoni per il mio—ah, ritardo."

L'avevano concordata, la sua entrata successiva. Elsa era stata a suggerirlo, perché voleva vedere—le reazioni, ed eccoli tutti lì, pappa e ciccia—

Sorride. "Non deve preoccuparsi affatto. La prego, si sieda."

"Perdoni la nostra mancanza di decoro, Regina Elsa,” ora il gemello più magro esclama, qualcosa che scintilla attorno agli occhi. "L'entusiasmo di vedere qualcuno che pensavi morto, vivo—beh, non c'è—più grande gioia."

Elsa sorride pacata, osservando Albert sedersi al tavolo, e—

E' solo che non penso di potermi fidare di lei.


Quella notte, sogna nasi rotti.


Anna dorme pochissimo, e pensa che sia perché sa che nel castello ci sono i lupi. Almeno il Principe Albert se ne era ritornato sulla sua nave. Si sveglia all'alba, osservando il sole coronare le montagne, rosa incantevoli e arancioni accesi, prima di infilarsi il vestito invernale, e gli stivali, infilandosi con attenzione il cristallo sotto il collo alto. Kristoff non ne era stato felice.

Ci avrebbe parlato di nuovo, prima di partire. Dirgli che, cioè no, sai, almeno sarebbero stati assieme, e non sarebbe andata in giro per le montagne sola con il gemello peggiore e gemello più peggiore. Più peggio? Oh, chi se ne frega

Scivola nel corridoio.

E' vuoto. La porta di Elsa è serrata. Oltre le finestre, Arendelle sembra in pace, e vorrebbe poterla solo—solo prendere e trasportare dall'altra parte del mondo, in modo che le stupide Isole del Sud fossero a metà—più via—via

Arriva alle scale, un po' a disagio per il caldo che sente. Fa la sua solita cosa per arrivare giù, una veloce scivolata sulla ringhiera, e per almeno tre secondi vola, spinta dall'aria, aggraziata, prima di sbattere nelle braccia dell'armatura che l'attendono. Il colpo rimbomba e rimbomba e rimbomba metallicamente tra le pareti vuote, ma nessun servo arriva di corsa, nessuna guardia scatta sull'attenti.  Era quell' ora morta stranamente assurda, quell'ora in cui tutti approfittano delle ultime poche ore di sonno, e cavolo, se Anna non avrebbe voluto essere anche lei—

Scende dalle braccia vuote del suo salvatore, aggiustandosi la gonna, ed è quasi alla porta che dà sul cortile quando lo sente. Un debole mormorio. Aggrotta le ciglia, voltandosi leggermente, strizzando gli occhi verso il corridoio dietro di lei.

Preme le labbra, agitando le mani, e poi, con una scrollata di spalle, si dirige in quella direzione, curiosa, perché, cioè, nessuno poteva essere volontariamente sveglio a quell'ora—ok, era una bugia, forse Kai lo era, e qualche guardia, ma lei, che sia risaputo, sarebbe rimasta molto volentieri a letto, se non fosse stato per il fatto che era più tesa di una corda di violino e non riusciva a dormire

A causa del profondo silenzio, si ritrova a camminare con cautela, in modo da non fare rumore coi tacchi rosa degli stivali. Passo, tacco punta, passo, tacco punta, lungo tutto il corridoio, e le voci si fanno più forti. Provengono dalla galleria d'arte. Inizia a distinguere le parole, i toni di voce—

"—potrebbe essere molto conveniente."

"Sì, voglio dire—sì. Suppongo."

Anna si blocca. Uno dei gemelli.

E il Principe Albert.

Scivola più vicino al muro, il cuore che le martella nel petto.

"Su, fratello. Devi solo dirci tutto quello che sai di lei."

Anna spalanca gli occhi. Si mette una mano sulla bocca solo per evitare di urlare lo sapevo o te l'avevo detto anche se in realtà lo vuole davvero, davvero fare

Doveva dirlo a Elsa. Elsa aveva permesso a quel tizio  di leggere un libro, ed Elsa parlava con lui, ed Elsa ovviamente si stava facendo fregare dal trucchetto della parte dell'ingenuo di campagna—

Anna torna di corsa alle scale.


"Hai sentito?" Viktor chiede, aggrottando le sopracciglia.

"Controlla il corridoio."

Lo fa, infilando la testa fuori dalla porta, e Albert deglutisce, il petto che gli si stringe. "Non c'è nessuno," suo fratello risponde in un sussurro basso. Gli stivali pesanti lo riportano al centro della galleria d'arte. Albert lo guarda, e guarda Tomas, ed è osservato, da tutti gli occhi che lo circondano in quel tribunale silenzioso—guarda in su e vede Giovanna d'Arco che lo fissa con aria accusatoria.

Coraggio, ragazzo, pensa, ma è così semplice ricadere nelle vecchie abitudini con Viktor e Tomas che torreggiano su di lui, che lo minacciavano, che si prendevano gioco di lui, la felicità di facciata della scorsa notte scomparsa. Le dita si muovono verso l'avambraccio, ma per quella situazione non esiste alcun tipo di appunto. Si schiarisce la gola. Pensa alla luce delle stelle. Pensa a un ballo insieme.

"No."

La parola riecheggia. Avevano detto, la scorsa notte, avevano detto, avevano sussurrato mentre se ne andava, ti apriremo la porta, ti aspetteremo, la galleria d'arte, dobbiamo parlare

"No," ripete, a voce più alta, più sicura.

Tomas ride, ma è una risata crudele, rauca, e si pulisce un orecchio con il dito, passando un braccio sulle spalle di Viktor con nonchalance. "Ho sentito quello che penso di aver sentito?" chiede al suo gemello. "Credo di aver sentito un no."

"Lascia casa per un mese, e tutto all'improvviso pensa di avere il diritto divino di fare come vuole." Il sorriso di Viktor potrebbe tagliare il vetro.

"Pensavi che stessimo chiedendo, fratello?" Tomas chiede. Albert cerca di non richiamare alla mente il cane che aveva trovato nel bosco, il cervello spiaccicato sulle pietre, e quei ragazzi, davanti a esso, ridenti. Era stato tanto tempo prima. Invece, pensa alla luce delle stelle.

"Dico sul serio," fa, ed è sorpreso dalla sicurezza della propria voce. Si lecca le labbra, riuscendo a fronteggiare lo sguardo dei fratelli''. "Non so cosa Alfons abbia pianificato. Non so cosa voi due abbiate pianificato. Ma Hans ha fatto abbastanza danni, e dovete lasciare Arendelle in pace."  Rincuorato, fa un gran passo avanti. Era alto quanto loro. E aggiunge, sorpreso dalla propria voce, dalla sua durezza, "Dovete lasciare Elsa in pace."


Anna si fionda in camera della sorella. E' un disastro, l'armadio ancora sfasciato, e ora anche il letto, il baldacchino blu scuro sparso sul pavimento come sangue. Chiude la porta dietro di sé, chiudendo gli occhi, cercando di calmare il respiro, e quando li riapre vede tre stalattiti di ghiaccio irregolare—una all'altezza della guancia destra, una della sinistra, e una tra la piega del gomito e il fianco, tutte e tre conficcate nel muro. Ma lei non si era accorta nemmeno della differenza di temperatura.

Elsa la fissa, a occhi spalancati, una mano tesa. Un momento, due, poi, "Anna, mi—"

"No, non dispiacerti, va bene, non sono—" non le importa, ha notizie più importanti, e aveva spaventato Elsa, ecco perché—"Ho appena sentito il Principe Albert che parlava con i gemelli e hanno detto qualcosa a proposito di una convenienza, e volevano sapere da lui cosa sapesse di te—"

"Che?" gli occhi di Elsa hanno ancora un'espressione incredula, le mani che le tremano all'altezza dei fianchi, e sta cercando di alzarsi dal letto. "Anna, rallenta—"

"—mi sono alzata presto per andare a parlare con Kristoff, ma poi li ho sentiti, e non capisci—è venuto qui—Albert è venuto qui prima dei gemelli solo per scoprire i tuoi segreti! Ti sta usando! Elsa, ti prego, dimmi che non gli hai detto niente—"

"No, Anna. Gli hanno dato indicazioni sbagliate—"

"Non è vero, l'ha fatto—"

"E qualora gli avessi detto qualcosa, sarebbe una mia prerogativa—"

"Che, e quindi che stai dicendo, l'hai fatto? Come—ma per caso ti—qual è la vostra—"

"—Perché sono la regina!"

Silenzio. Anna sbatte le palpebre.

Elsa chiede, "Perché non vai a parlare con Kristoff?"

"Elsa—"

"Anna, vai a parlare con Kristoff."

"Piantala di lasciarmi fuori!"

"Non lo sto facendo," Elsa scatta, la rabbia che trapela, e sarebbe una cosa positiva, Anna pensa, se fosse diretta verso qualcun altro, ma non appena la nota, già è andata via, e sua sorella chiude gli occhi, fa un respiro profondo, e afferma, "Investigherò, d'accordo? Dove hai detto che erano?"

"La galleria," e Anna odia la propria voce, perché sembra così piccola.

"Ci vado."

"E io vado a parlare con Kristoff."

Anna apre la porta senza un'altra parola e si stringe forte tra le proprie braccia, incamminandosi per il corridoio a passi veloci.


"Lasciate Elsa in pace ," Tomas mima le parole con la bocca, ritraendo il braccio dalle spalle di Viktor. "L'hai sentito, fratello mio? Elsa. Il fratellino si è ambientato bene. Vi chiamate  per nome, ora, eh? Ma credo che tu abbia commesso un piccolo errore," Tomas conclude, passeggiando fino a uno dei quadri del muro vicino—una ragazza su un'altalena al culmine dell'oscillazione, la scarpa che vola via—"Perché la mia non era una richiesta."

Albert abbassa gli occhi. Li chiude, una sola volta. Poi li riapre, e alza lo sguardo. "Andate all'inferno." Avrebbe avvertito Elsa. "Andate all' inferno."

"Viktor," Tomas dice.

Succede così in fretta.

Uno scatto del polso di Viktor, e un pugnale sfilato dalla manica sinistra, una lama sottile dalla crudele punta ricurva, qualcosa di cui Albert ha a malapena il tempo di rendersi conto prima che scivoli tra le sue costole. La avverte come un lampo, dietro gli occhi, come un pugno allo stomaco; la punta che si infila tra osso e muscolo, che gli contorce le budella, e gli si spalanca la bocca. Il viso di Viktor è troppo vicino al suo, e sta sorridendo, e lui è lo stesso uomo che ha spappolato il cervello a un cane, che ha spinto Hans al limite, che li ha ignorati tutti—

Albert allunga una mano. E' tutto quello che riesce a fare. Allungare una mano. Vuole sfilarsi quella cosa dal torace, ma è come se le mani non gli appartengono più.

Da qualche parte, lontano, Tomas fa, "Permettimi."

E poi ecco Tomas, che si sfila un coltello dal fianco ; per la fretta, qualcosa di piccolo, che sembra vetro, cade a terra. Il tintinnio è forte, e, irrazionalmente, Albert si aggrappa al rumore, prima che il secondo pugnale gli apra uno squarcio orizzontale lungo lo stomaco. Esala un rantolo soffocato, e sente qualcosa di vischioso e metallico che gli sale alla gola. Abbassa lo sguardo. E' tutto molto metodico, molto chirurgico, pensa vagamente, tra l'oscurità che avanza; il sangue è tutto impregnato nei suoi vestiti.

Sul pavimento nemmeno una goccia.

Viktor lo lascia andare, e cade.

Albert quasi non lo avverte. Colpisce il suolo, e sa che dovrebbe, dietro la testa, ma non sente niente. Invece si scopre ad allungare la mano in direzione della fialetta che luccica al sole crescente. La vuole. Tomas la afferra per primo, intascandola con facilità. Poi suo fratello si abbassa, prendendo un pugnale; prendendo anche l'altro, con la punta uncinata. Mentre viene estratto si impiglia e tira, portando fuori le budella, e Tomas si china su di lui, e gli sussurra all'orecchio, gli sussurra—

"Il re ti porge i suoi saluti."

Giovanna d'Arco li osserva impassibile dall'alto.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

 

 

 

"Era davvero necessario? Dobbiamo ancora occuparci della principessa, e—"

La voce è lontana. E, dietro le palpebre chiuse, echi di—

"E, quando scopriranno di questo piccolo contrattempo," e i suoi piedi sbattono contro qualcosa, le caviglie scrocchiano, "saremo già via da un bel pezzo."

Echi di—

"Lo sai che avrebbe trovato il modo di spifferare i nostri piani alla regina. Non provo rimorsi per quest’idiota."

"Lo so."

Echi di—

"Allora smettila di lamentarti, e aiutami a trasportarlo."

Luce delle stelle.

"Lasciamolo nel mucchio dei rifiuti, dove merita di stare."

Poi—

Nulla.


(nulla.)


Prova a spalancare la porta con un botto, ma a questo punto, la rabbia ha avuto il tempo di smorzarsi, e non è proprio sicura se ha sentito o ha sentito— come in quegli strascichi di sogno—quando sei mezza addormentata e precipiti e poi ti svegli e ti accorgi di essere a letto, ma la caduta ti era sembrata—beh, reale, per un minuto secondo—se in sogno cadi e muori, muori anche nella vita reale?

Non è questo il punto, attieniti al punto.

Oh, sì—

Beh, alla fine apre la porta, almeno. Lascia che si chiuda alle proprie spalle. Le stalle hanno un’aria particolarmente allegra e luminosa nella luce appena sorta del primo mattino, con una grossa pila di fieno, e i cavalli che nitriscono nei recinti. Sente, "Ma non la voglio questa bardatura, voglio quella vecchia!

"Spiacente, piccolo. Dobbiamo apparire al meglio per quei due stupidi co—"

Kristoff esce da uno dei recinti, reggendo un finimento decorato, sul viso uno sguardo di quasi-orrore. "—come va?" finisce, poco convincente.

"Ciao," Anna lo saluta brusca, con un cenno, e poi si lancia disperata nella pila di fieno. Basta così. Al tremila percento. "Basta così," lo informa.

Kristoff si carica la bardatura su una sola spalla e si volta con un’occhiata confusa. Le corna di Sven sono appena visibili oltre il legno scuro di ciliegio, e poi la testa, che fa capolino, negli occhi un’espressione comprensiva, pensierosa. Anna non credeva che le renne potessero sembrare pensierose, o comprensive—stessa differenza? Quello che è—ma Sven ci riesce proprio bene. Chiude gli occhi e li copre con un braccio e non voleva fare la drammatica, ma lo è alquanto. Un pochino.

"Basta?" Kristoff chiede. Lo sente toccarle tentativamente la gamba con la punta dello stivale.

"Basta," afferma. Poi si strofina il viso. Si siede. "Ok, basta coi basta così, adesso. Sei pronto per—"

"Woah, woah, woah, furia scatenata, non pensare neanche di cavartela così." Kristoff aggancia le finiture di Sven con tre movimenti rapidi e poi dà delle pacche sul fianco della renna. La guarda alzando un sopracciglio. "Che c’è che non va?"

"Se muori in un sogno, muori anche nella realtà?"

"Cosa."

"Voglio dire, pensaci. Sei mai morto in sogno?"

"Non ci penso, di solito. Mai. E’ per questo che sei sconvolta? Sei morta in sogno?"

"No. Ho sentito Gemello Scemo e Gemello più Scemo parlare col principe Albert di Elsa, ma ovviamente non mi crede, perché di punto in bianco le è venuto il pepe al tu-sai-cosa e ha deciso che Albert é in realtà una brava persona, il che, ti prego, non è assolutamente il caso—"

"Che, pensi che le piaccia o cose così?" Kristoff si lascia cadere accanto a lei.

"Penso che lo tolleri. E lei non tollera un sacco di gente. Che cavolo, a malapena tollera te—senza offesa," si corregge subito, mordendosi il labbro con una smorfia. "Le piaci. Davvero. E’ solo—ok, non importa, dimentica quello che ho detto, mi sto solo scavando la fossa."

Il discorso cade, e ascoltano i cavalli pestare il pavimento. Alla fine Kristoff chiede, "Parlavano di lei? Cioè?"

"Cioè—roba di tradimento. Non lo so."

"Ma sei sicura di non aver sentito delle voci?"

No, pensa, perché era presto, ed era stanca, e si sarebbe alzata allo spuntare dell’alba solo in caso di apocalisse, ma dice, convinta, "Sì."

Kristoff solleva il cappello per grattarsi la fronte, e ha l’aria piuttosto frustrata. Esala un respiro profondo. "Vorrei tanto che avessi sentito delle voci."

"Vorresti che fossi pazza?"

"No! No, non è quello—vorrei che avessi sentito le voci perché così magari potremmo sbagliarci su di loro. I Principi delle Isole del Sud. Anna, stiamo per andare in posti isolati e selvaggi con due di loro—"

"Assieme a delle guardie—"

"Non è questo il punto," si gira un po’, e la guarda, e lei vuole arrampicarglisi in grembo e rimanere lì, ma non si muove "Il punto è che, sarete tu, e due di loro. E io—" si interrompe, arrossendo tutto, e guarda di lato. Anna non sa esattamente cosa dire, ha paura di dire qualsiasi cosa, quindi si butta sulla cosa più banale che riesca a pensare, cioè, dopo un momento, due—

"Quindi, volevo solo dirti grazie, di nuovo. Perché lo stai facendo, so che non si tratta di—di cavare ghiaccio, o niente, e devi avere a che fare con questi due Principi, e so che non capiresti, perché si tratta di politica—"

Sembra vagamente offeso.

Anna lo guarda alzando le sopracciglia.

Alla fine lui annuisce, evasivamente.

"—perché si tratta di politica," continua, "ma grazie, e potrei—avrei potuto essere molto più tesa a riguardo, lo sai? Ma non lo sono. Chiedimi perché non lo sono."

Kristoff alza gli occhi. La asseconda. "Perché non lo sei?"

"Perché," sussurra, dandogli di gomito, e poi non riesce a continuare, non se lo guarda dritto in quella faccia stupidamente attraente—deve riprendersi un po’—"perché tu sarai lì con me. Quiiiiindi," conclude, lottando per tirarsi le ginocchia al petto con tutto quel fieno, e trattenendole con le braccia quando ci riesce, "quindi ecco. E grazie. Come ho detto."

Non lo stava guardando. Si era concentrata sulla spaccatura dello zoccolo di Sven a qualche metro di distanza, cercando di dimenticare la confusione della mattina, il suono delle voci provenienti dalla galleria, lo sguardo incredulo di Elsa—e sua sorella non era mai stata il tipo che non vuole guardare in faccia la realtà—ma allora, e se aveva davvero capito male—ma allora, e se invece aveva capito bene—

E poi sarebbe andata in giro coi lupi.

E sapeva che erano lupi. Lo sapeva. Glielo aveva avvertito addosso, dal primo momento che li aveva visti—

"Anna."

Il mondo si ferma. Tutto. Rumori e pensieri e respiro. Avrebbe potuto farsi avvolgere dal suono di quella voce. Non aveva sentito mai nessuno prima dire il suo nome in quel tono. Sbatte le palpebre, sbatte, sbatte, lo guarda in tralice. Deglutisce. "Sì?"

Il cuore le martella un ritmo irregolare contro la fragile gabbia che lo racchiude come un uccellino.

"Ti seguirei ovunque," Kristoff esclama, allungandosi e prendendole le mani dalle ginocchia, coprendole completamente con le sue, "per far sì che tu sia al sicuro. Voglio dire, io—Anna, io ti amo."

Parole. Fuori, all’aperto. Aperto. Porte aperte.

Vuole dirlo. Davvero. Ma non riesce a far funzionare la bocca. Invece si mette in ginocchio, piantandogli un casto, veloce bacio sulla guancia prima di strisciare fuori dalla pila di fieno. Le stalle sono troppo piccole. Ha bisogno di andarsene. "Ma la, uh," indica col pollice un punto indefinito alle proprie spalle, "slitta è fuori?"

Kristoff si alza in piedi. Il rossore sul volto sta sbiadendo, ma è ancora evidente, e ha voglia di abbracciarlo e non lasciare andare mai più, ma poi pensa ai lupi, e alle porte, e tutto è troppo complicato, e le fa male il cuore. Lui annuisce, brusco. "Già."

"Vado, uhm—a controllarla. Vieni con…?" la voce si affievolisce, mentre si incammina verso la porta.

"Fra un minuto."

"Ok. Ok, benissimo. Sarò qui fuori. Proprio qui. Proprio fuori."

Prova ad aprire la porta, ma le tremano le mani, e le dita scivolano. Attacca il chiavistello. Si apre, cigolando.

Esce, inciampando.


Elsa indugia un momento nel corridoio.

E’ breve—uno sguardo fuori. Una mano tra i capelli. Un’ombra di pensiero, un pensiero pericoloso—fidati di lui, non—Io mi fido di Anna—e poi il mondo riprende il proprio posto. Dà le spalle alle finestre, luminose e accecanti, si volta verso le scale, la gonna che le sfiora le gambe e le scarpette nere che battono un ritmo rumoroso nel silenzio del castello. Era tanto presto che il mondo non si era ancora messo in moto, vorticando e vorticando e vorticando—

"Ti sta usando!"

E se lo avesse ammesso con se stessa, dopotutto non era stato quello il suo timore, tutto quel tempo?

Fidarsi. Fidarsi. Ecco perché era tanto più facile chiudere tutti fuori.

Ma no. No, quello era—il passato, e—

"Ti sta usando!"

Elsa raggiunge il piano terra, le armature tutte rivolte verso l’entrata, contro avversari invisibili. Buone ragioni. Si aggrappa al pensiero come a una cima di salvataggio. Ci dovevano essere delle buone ragioni se Albert aveva detto quello che aveva detto, nel caso l’avesse davvero detto, buone ragioni se era—entrato di soppiatto nel castello per vedersi coi gemelli—corrotto la guardia notturna esausta con del denaro—Ne sarebbe stato capace? E perché? Buone ragioni. O nessuna ragione. Forse tutta questa storia era solo dovuta ad Anna che esagerava.

Elsa si costringe a respirare.

Anna esagerava molte volte.

Il corridoio è silenzioso. E’ tutto quello che nota mentre volta rapida ogni angolo, fermandosi bruscamente prima della galleria d’arte. Non sa cosa si aspettasse, ma di certo non era questo—

Vuoto.

L’orologio a pendolo ticchetta, Giovanna d’Arco la guarda, impassibile; si attarda all’ingresso, controllando le panche basse e il pavimento di legno, immacolato, la vivida luce del sole che filtra dalle finestre.

Niente.

Fa un paio di passi, entrando di soppiatto, lanciando occhiate veloci sotto il mobilio, ma non vede nessuno, a parte il tribunale silente che la giudica dall’alto. Davvero Anna si era immaginata le cose?

No, qualcuno doveva essere stato lì. Qualcuno—

"Regina Elsa, è sveglia ben presto, stamane."

Si volta, il ghiaccio che scricchiola formandosi tra le dita tese. C’è uno dei gemelli in piedi sulla soglia, pronto per una giornata di escursioni al freddo pungente.

Apre la bocca. La chiude, subito. Lui ride.

"Tomas," dice, toccandosi il petto con una mano. "Non si preoccupi—persino i miei fratelli confondono ancora me e Viktor."

"Principe Tomas." Elsa recupera, in fretta. "Porgo le mie scuse."

"Non c’è bisogno." Sorride, disinvolto, ma gli occhi sono leggermente stretti a fessura, espressione che non lo abbandona. "Qualcosa non va?"

"Si è—" si lecca le labbra, "—appena alzato?"

"Sì. Sono sceso dabbasso per vedere se fosse pronto qualcosa per colazione. Pensavo dovessimo partire presto?"

"Sì. Infatti." Più tempo per voi all’aria pungente e rarefatta. Le offre il braccio e lei lo ignora visibilmente, scivolando con grazia nella sala. "E suo fratello?"

"Sarà qui a breve."

"Eccellente."

Non ha senso.

"Mi auguro," comincia, camminando lentamente accanto a lei, stringendo le mani dietro la schiena. Non era magro quanto Albert, la sua corporatura era più simile a quella di—lui. "Mi auguro che Albert non le abbia causato fastidi?"

Lo guarda con malizia.

Ride. "Era sempre il combinaguai, a casa. Sapeva che," inizia, "una volta si convinse che avrebbe sposato la delfina di Francia? E poi, quando scoprì che lei avrebbe sposato il principe di Albion, decise di sfogare la propria rabbia sul naso di un servitore su una delle scalinate sul retro."

Conosceva già quella storia. Tiene le labbra serrate, ma il sorriso cordiale. "Cielo, davvero?" E nei suoi incubi è su una scalinata nei quartieri della servitù, e un sorriso appare rapido e la sovrasta come una fiamma tremula, e il dolore dal naso all’interno della testa—fa male. Brucia.

"Davvero. Svolazza continuamente dalle grazie di una donna a quelle di un’altra," Tomas conclude con un sorrido. "Il suo amore è sempre così facile da ottenere—e altrettanto facile da perdere. Pensavo dovesse saperlo."

Elsa si blocca. Quasi impercettibilmente. Sente il cuore che le martella nel petto, lo stomaco si chiude—qualcosa—orribile—e si dice, sarà sulla sua nave. Questo è un gioco di menzogne e finzione; sarà sulla sua nave. "Credo proprio di essere benissimo capace di farmi da sola delle opinioni," inclina la testa. "Ciò nonostante, la ringrazio per la sua premura, Principe Tomas."

"Davvero," sorride, fiacco.

Crede di essere più abile di quanto sia, a questo gioco, decide lei leccandosi le labbra, tirandosi la treccia. Si afferra la destra con la sinistra e fa cenno col capo alla sala da pranzo. E’ allora che sente passi frettolosi, un respiro affannoso—

"Regina Elsa!" Kai si inchina. Sembra scomposto, i capelli leggermente scompigliati, la cravatta infilata male. "Perdonatemi se non sono stato presente—"

"Bevuto troppo, la notte scorsa?" Un’altra voce, strascicata, da dietro. E’ Viktor, che scende le scale, e Kai gli lancia un’occhiata oltraggiata. I servitori hanno una riserva di vino nei loro alloggi, e gli era permesso di farne uso dopo che i compiti della giornata erano finiti. Quanto era facile, farvi scivolare poche gocce di sonnifero?

Elsa vuole urlare. Troppi inganni, e non riesce capire più cosa è reale e cosa no. La temperatura cala pericolosamente, e afferma, gelida, "Di certo lei non può parlare, Principe Viktor." Si lancia un’occhiata alle spalle, il collo rigido. Viktor è in piedi, fermo sul gradino più basso, che si aggiusta le maniche e guarda con disprezzo l’uomo davanti a loro. Non un bicchiere di troppo, perché Kai non beve mai molto.

No. Ci sto pensando troppo.

Albert sarà sulla nave.

Si volta. "Kai, non c’è niente da perdonare. Ti dispiacerebbe far preparare della carne fredda in sala da pranzo per colazione? E informa Anna e Kristoff."

"Sì, vostra maestà. Certo."

Fa un passo avanti, avvertendo dietro di sé i fratelli—

Due lupi, che ringhiano e mordono alle sue calcagna.


"Principessa Anna! Buon giorno."

"Buon giorno."

"Allora, è entusiasta per il viaggio di oggi?"

"Carni fredde a colazione. La mia preferita."


Anna saltella nervosa su e giù. C’è la slitta, che viene caricata sul carro, e Sven, e le guardie a cavallo—quattro—e—e—

Lancia uno sguardo a Kristoff e non riesce a guardarlo negli occhi. La colazione affrettata di fette di carne fredda le si rivolta spiacevolmente nello stomaco, e si strofina la faccia con le mani. Quando alza di nuovo lo sguardo Viktor e Tomas hanno montato a cavallo, due destrieri bianchi, e sembrano principeschi e pomposi e decisamente stupidi, se glielo si chiedeva—

"Anna?"

Sobbalza. "Oh—ehi. Salve."

"Salve."

Si strofina le braccia, facendo involontariamente un passo indietro verso il castello, giocherellando col tacco della scarpa sulle pietre che pavimentano il portile. Per la prima volta da settimane ha troppo caldo, col cristallo che pulsa come un altro cuore sotto il collo alto del vestito che indossa. Il sole è troppo forte. Kristoff controlla la badatura di Sven, e vorrebbe che guardasse dalla sua parte, solo una volta almeno. "Quindi, allora, ah, hai trovato niente, huh?"

"No. La galleria d’arte era deserta."

Anna sbuffa dal naso. Stava diventando pazza. Ok, forse non pazza, forse, cioè, folle—ma folle era meglio o peggio di pazza?

"Ma stanno nascondendo qualcosa." La voce di Elsa è così bassa che a malapena la sente. Sua sorella mantiene ancora una specie di espressione serena, mentre sorveglia la crescente confusione nel cortile, perché il castello alla fine sta iniziando ad arrivare allo stato in cui è Anna, e cioè, sveglio—si lecca le labbra.

"Sì, come se non fosse ovvio."

"So che non ti fidi di Albert—"

"Ma perché, tu sì? Elsa," Anna si volta verso di lei. "Guardami negli occhi e dimmi che ti fidi di lui."

Sua sorella la guarda negli occhi, la bocca si apre appena, e poi scuote la testa, mordendosi il labbro.

Anna non dice ha. Non dice niente. Il loro mondo barcollava pericolosamente verso l’orlo del precipizio, in quel momento. Quello che vuole dire è, ehi, Kristoff mi ha detto che mi ama, e io non sono riuscita a dirgli che lo ricambio. Ma sarebbe stato brutto, e abbastanza egoista, quindi, cioè, no. Invece dice, "Voglio che se ne vadano."

"Lo faranno. Mostra loro le montagne. Fagli sentire il freddo. Il freddo fa soffrire le persone."

"Elsa—"

"Solo tattica, Anna. Qualcosa che, in quanto regina, devi conoscere." Non c’è rabbia nella sua voce, solo un riserbo esausto che ti riduce fino all’osso.

Anna si afferra la mano destra con la sinistra, e i suoi occhi incrociano quelli di Kristoff dall’altra parte del cortile. Il mondo si ferma, inciampando, e tutto quello che rimane è quella sua stupida brutta enorme faccia—

Perché ha dovuto dire una cosa del genere, huh?

Vuole abbracciarlo.

Si accontenta di mordersi il labbro. Si accontenta di mimare le parole, "Mi dispiace."

Kristoff scuote la testa, voltandosi di nuovo verso il carro e Sven.

Complicato, tutto, solo—argh

"Anna?"

"Sì?"

"Fai…attenzione, d’accordo?"

"Psh, attenzione? Elsa, ti prego. Sono l’epitome dell’attenzione. Ho inventato io la parola." Anna ghigna. "Starò benone. Sai che voglio aiutarti, e se portarti," abbassa la voce, guardando a terra "questi imbecilli fuori dai piedi per un paio d’ore e farli spaventare su nelle montagne è quello che devo fare, allora devo farlo."

"Grazie." Elsa sorride, uno di quei sorrisi rari, che le raggiunge gli occhi, ed è contagioso; Anna sorride di rimando, stringendo la sorella in un abbraccio. Elsa rimane rigida per un momento, come ricordandosi che può farla, adesso, questa cosa degli abbracci, e poi la stringe a sé e bisbiglia, "Mi raccomando."

Anna le sussurra, di rimando, "Anche tu."


Elsa guarda la comitiva che se ne va, sei uomini a cavallo e Sven che trotta avanti al carro che porta la slitta, Kristoff e Anna in testa. Sono separati da uno spazio talmente largo che è imbarazzante. Le spalle di lui sono tese; quelle di lei, curve. E’ tentata, per un momento, di richiamarli e farli tornare nelle ali protettive del cortile, ma non lo fa. Invece li osserva mentre se ne vanno, attraverso i cancelli aperti, per la strada rialzata, nella città.

La città.

Il suo sospiro è più profondo del solito, ricoperto di ghiaccio ai margini.

"Vostra maestà?"

Sussulta, distogliendo lo sguardo da dove l’aveva fisso, il retro della testa della sorella; Kai è accanto al suo gomito, e ha un aspetto molto più composto di prima. Ha il naso rosso. Lancia un’altra occhiata oltre i cancelli, ma la comitiva non si vede più. "Sì?"

"Ho messo le note spese sulla vostra scrivania, affinché siano approvate prima da voi. Weselton ha inviato un’altra missiva riguardo alla—"

Prova rancore, ma non sa perché. "Bruciala," lo interrompe. Basta duchi. Basta accordi commerciali con gente dubbia.

“Sì, vostra maestà," Kai esclama, con un ghigno lupesco, scribacchiando qualcosa sulla pergamena che ha in mano. Mentre lui scrive, lei sorveglia il cortile; parecchi servi, uscendo dal retro delle cucine, sbadigliano, massaggiandosi articolazioni doloranti nella schiena. Aggrotta le ciglia.

Albert sarà sulla nave.

Esclama, "Devo fare una brevissima visita al Principe Albert. Ho bisogno che porti fuori il vino della servitù, affinché sia controllato."

Kai sobbalza, ma tutto quello che dice è, "Sì, vostra maestà."

"Voi," attira l’attenzione di due guardie di passaggio con un rapido cenno di mano. "Con me."

Si inchinano, e lei si volta, e se ne va.

Segue il percorso che ha fatto anche la carovana, fuori dai cancelli aperti, ma invece di andare a destra, nel cuore della città, vira a sinistra, verso il porto. Le persone fanno cenni del capo al suo passaggio; le persone si inchinano. Annuisce, permettendosi un accenno di quasi sorriso. La liberà inebriante che aveva avvertito giorni prima sembra svanita, senza l’anonimato del mantello, e deve ricordarsi di mantenere il sorriso, la postura, la grazia. Il mercato è luminoso, movimentato, sboccia come un fiore nell’aria del primo mattino. Immagina, per un momento, di fermarsi ad annusare le margherite bianche del banchetto accanto a lei; immagina di correre alla taverna; immagina di ballare.

Arriva al porto.

"Mastro Olin," saluta, guardandolo dal muretto che sovrasta il pontile marrone e segnato dalle intemperie.

L’uomo sussulta, si volta; regge parecchi fogli di pergamena, stretti nelle mani brune, e indica una delle navi. I suoi ragazzi, attorno a lui, eseguono gli ordini. Fa un mezzo sorriso. "Che piacere, vostra maestà!"

Ferma le guardie con un cenno di mano, e prosegue da sola scendendo le scale che portano al pontile. Domanda, "Niente da riportare?"

"Quasi, tranne per il fatto che quella nuova nave delle Isole del Sud sta consumando la maggior parte delle nostre risorse. Pare, vostra maestà," Olin continua, abbassando la voce mentre lei si avvicina, "che sia abitata da— gente riprovevole."

Guarda in tralice l’enorme vascello, quello ancorato più vicino, i cui colori non riconosce. Odia le navi, e il ghiaccio che le schiocca attorno alle dita lo prova. Eppure, lo considera con un’occhiata scaltra, esaminatrice. E’ più sottile degli altri, snello e allungato, il vessillo delle Isole del Sud sbatacchiato languidamente dalla tiepida brezza estiva. Dice, "Non sembra un vascello mercantile."

"Infatti, non lo è—è un brigantino. Niente li eguaglia per velocità, e sicuramente ‘sti ambasciatori sono arrivati qui in tempo record."

"Già, infatti." Osserva uno dei tipi sul ponte, un uomo robusto con una cicatrice seghettata su un occhio. Odia le navi. "Come procedono le riparazioni dell’altra?"

"Procedono. Un altro paio di giorni, può darsi, e potrà essere messa in mare."

"C’è stato qualche—movimento?"

"Non che io sappia—e l’abbiamo tenuto costantemente d’occhio."

"Grazie, Mastro Olin." Elsa guarda gli uomini che brulicano davanti a lei, come formiche sui pontili, che trasportano casse enormi e sacchi pesanti. Lo ripete. "Grazie."

Avanza, a testa alta, e gli uomini si spostano di lato come un mare che si apre, alcuni armeggiando immediatamente per togliersi il cappello, alcuni inchinandosi profondamente. Ascolta il picchiare sordo delle proprie scarpette contro il legno, osserva le navi passare, vascelli mercantili, come quello che se li era portati via per due settimane. Non riesce nemmeno a immaginare di salire su una nave. Com’è che dicevano, i marinai?

Il mare, volubile padrona e crudele assai—

Prega per chi, disgraziato, vi si avventura;

Perché, altrimenti, la sua testa vedrai

Galleggiare sull’acqua scura.

Si ferma accanto alla nave, ma i suoi pensieri erano stati  occupati troppo dalla luce delle stelle e dal ballare da soffermarsi sui due ritratti nel corridoio. Due settimane, avevano detto. Un uomo passa accanto al ballatoio, e lo chiama, "Signore."

Il marinaio sussulta. C’è qualcosa di familiare nell’espressione incredula, nel naso grosso, la pelle segnata dalle intemperie, e le rammentano un giorno che sembra appartenere a una vita fa, quando ha chiesto di vedere un uomo che non conosceva, e che ancora non conosce, non davvero.

Sarebbe stata una brutta cosa, conoscerlo?

Esclama, "Per favore, mi vada a chiamare il Principe Albert." Lo stomaco le si chiude, le budella si aggrovigliano, e non per la stazza delle navi avanti a sé. Riesce solo a sentire Anna, echi della mattina, la galleria d’arte vuota. L’uomo la guarda sbattendo le ciglia.

"Mi scusa, maestà, ma se n’è andato un poco di tempo fa."

E lo stomaco sprofonda.

Il ghiaccio si cristallizza sotto i suoi piedi, ma mantiene la voce ferma. "Il motivo?"

"Non so di preciso. Ha detto che tornava."

"Sì," annuisce, brusca. "Beh, grazie."

"Quando volete, maestà," fa il marinaio, anche se non sembra averlo detto con convinzione, anche se ha l’aria di uno che spera che lo lasci tornare al proprio lavoro, e lo accontenta. Gira i tacchi, cammina lungo il porto, oltrepassa gli uomini che si inchinano e la salutano meravigliati, e, per la prima volta, è sconvolta, e non riesce a rispondere in maniera appropriata—i loro volti si confondono e diventano un mare di pelle e occhi curiosi, le navi che li sovrastano sono nuvole di tempesta.

Probabilmente è andato a trovare Petter e Klara.

Si sta arrampicando sugli specchi.

Era sembrato così sincero, pensa, frenetica, con la voglia di stringersi le tempie, di richiamare alle punte delle dita la maledizione, per posarvele e dare sollievo al mal di testa che iniziava a pulsare lì. Era sembrato così sincero; ma poi l’atteggiamento coi fratelli, e—

"Dovrebbe saperlo, non li ritengo particolarmente affidabili."

"Non lo sono. Mi creda."

Elsa chiude gli occhi, tentando di lasciare al rumore di sottofondo che calmasse i suoi nervi in fiamme, ma tutto quello che fa è renderla improvvisamente, orribilmente consapevole del fatto che è circondata da persone.

Cosa non avrebbe dato per una porta chiusa.


"Che tempo che fa, eh?"

"Già."

"Già, voglio dire, cioè—cioè, è super assurdo quanto faccia freddo qua sopra, tanto da—credo che mi piacerebbe provare a cavare il ghiaccio, mi porteresti a cavare il ghiaccio?"

"Certo."

Si sta spezzando. Vuole dirlo, davvero, ma non riesce ad aprire bocca. Guarda gli alberi oltrepassarli, scuri e spogli, ritorti, rami curvi coperti di bianco. Si sono lasciati dietro il carro, e riesce a sentire i cavalli affaticarsi per tenere il passo con la slitta. Sven va piuttosto veloce. Vuole dirlo. Si guarda indietro, ma i principi sono a quasi cinque metri di distanza, e le guardie ancora più lontano, quindi si rigira e stringe le mani a pugno in grembo e si morde il labbro e perché lui le rendeva le cose così difficili—"Sentiscusaok?"

"Che?" chiede.

"Scusa," sibila lei.

"Aspetta, che hai detto, non ho sentito—"

"Kristopher!"

Le lancia un’occhiata con l’ombra di un sorriso, ma poi svanisce subito e il momento è passato e torna a fissare il sentiero avanti a loro. Anna non sapeva dove stessero andando, esattamente, solo in qualche posto in alto e molto freddo per far scappare a gambe levate un paio di ambasciatori cretini. Si risistema nella slitta, ed è come la prima volta, tutti e due fianco a fianco—

"Vuoi dirmi che hai conosciuto un uomo e ti ci sei fidanzata nello stesso giorno?"

"E’ vero amore!"

Si afferra la mano destra con la sinistra. "Mi dispiace non averti detto che ti ricambio."

"Niente di che, lasciamo perdere, ok?"

"Aspetta, che? No, no che non possiamo. Dobbiamo parlarne."

"No, invece no."

"Quindi mi—mi stai tagliando fuori?"

"Non ti—Anna, ti prego." Kristoff chiude gli occhi. Vuole baciarlo. Vuole urlare.

"Sì. Sì, invece—credi che non sappia che significa essere tagliata fuori? Perché ti racconterò una storia, che inizia con la p e finisce con o—" ma prima di finire pensa a porte aperte, il che la riporta direttamente ad Hans, il che la riporta indietro alla sua stupidità, quindi lascia cadere il discorso. La slitta rallenta, e tagliano per un sentiero su per la montagna. La neve si fa più alta, nascondendo il terreno nero e ghiacciato sotto di essa. Quest’inverno non era il bellissimo reticolo di ghiaccio creato da Elsa. Era sporco, intricato e pericoloso.

"Non sono io quello che sbatte le porte in faccia alle persone," Kristoff borbotta di rimando.

Anna incrocia le braccia, indignata. "Scusami? Non escludo nessuno—mi piacciono le porte aperte, io sposerei le porte aperte—"

"E allora perché gli permetti ancora di rovinarti la vita?" Kristoff scatta, schioccando le redini.

Le sembra di aver ricevuto un pugno allo stomaco. "Che?"

"Sei ancora—" geme, e per un momento le redini gli scivolano. Quasi automaticamente, Anna allunga la mano per afferrarle, e si toccano, un calore che riesce ad avvertire anche attraverso i guanti, un calore più forte di quello del cristallo di fuoco posato accanto al cuore. Entrambe ritirano la mano con aria colpevole, in fretta. Lui si strofina la nuca, facendo cenno a Sven di proseguire quando la renna si volta, preoccupata. "Ma" continua, imbarazzato, "—ma di cos’è che hai paura?"

"No, perché? Perché mi escludi sempre? Perché tagli sempre il mondo fuori? Ma di cos’è che hai paura?!"

Oh.

Oh.

Oh, cielo.

"Senti," Kristoff dice, ancora un mormorio basso, ancora lo sguardo rivolto di lato, a disagio. "Senti, io non—io voglio solo—vuoi troncare?" Indica prima se stesso e poi lei, l’espressione di chi soffre. Si volta di nuovo verso il sentiero. "Non voglio—forzarti a fare niente, non è—non voglio."

E’ ancora parecchi passi indietro, al ma di cos’è che hai paura, e il suo cervello sta elaborando il tutto lentamente, troppo lentamente. "Io—"

"Avete intenzione di fermarvi presto?" uno dei principi chiede a gran voce.

Kristoff è in preda alla collera, e lei riesce a sentirlo, sospeso tra di loro, politica, cosa ne sai tu, sii diplomatica. Risponde, scorbutico, "Sì."

Anna incrocia le braccia. Nonostante tutti i vestiti, e il calore del cristallo, rabbrividisce, lungo tutta la schiena, fino alle punte delle dita.

Non preoccuparti, pensa.

Solo qualcuno che calpesta la mia tomba.


Non ha senso.

Per niente.

Ti sta usando.

Elsa è quasi, quasi grata di essere fuori dal mare di volti e voci, di ritorno nel cortile del castello, ma i cancelli aperti ghignano maligni dietro di lei. Li vuole chiusi, in tutto e per tutto sbarrati, per la prima volta dall’incidente. Tornare sui propri passi, pensa, stringendosi forte tra le braccia, sarebbe stato facile. Una sola parola.

Doveva arrivare fino al fondo di quella situazione, e l’unico modo per farlo sarebbe stato trovare Albert, e chiedere spiegazioni. Avrebbe—avrebbe mandato dei messaggeri in giro a cercarlo—

Ti sta usando.

No. No, doveva solo—solo questa volta—

Fa il primo passo all’interno del castello, anticipando la lunga camminata nel corridoio dei ritratti, gli occhi che la fissano calmi, accusatori, come hai potuto pensare a lui, lasciare che lui ti parlasse in quel modo, permettergli di suggerire quelle cose, sei una regina, sei una regina, sei

Ogni passo diventa ghiaccio, e poi neve alta. Abbassa lo sguardo, allarmata.

Stai calma. Stai

Avrebbe risolto tutto, avrebbe. Doveva.

Stai

Qualcuno strilla.

Agghiacciante, riecheggia e si diffonde nell’aria mattutina, facendole male ai timpani, spaventandola a tal punto che la neve allarga la sua morsa, come un ragno, su per le scale fino alla sala d’ingresso, passando dalle porte socchiuse. Le guardie stanno già accorrendo, e anche lei, seguendo il suono morente della voce, attorno alle stalle e nel retro del castello. Arriva ai cancelli posteriori, il cuore che martella, una scia di ghiaccio che la segue. C’è una servetta che regge un grosso cesto di bucce di patate, pallidissima, che guarda a bocca aperta il mucchio di spazzatura di fronte a sé.

"Che è successo?" Elsa chiede, tagliente, cercando di stare calma, calma, calma

"Vostra maestà!" La serva la guarda, orripilata, e si piega in un inchino, ma mentre lo fa riesce a far cadere il cesto.

"Che è successo?" Elsa ripete. Le guardie l’hanno quasi raggiunta, le spade che sbattono contro i fianchi. "Cosa è accaduto?"

La ragazza si stringe il petto e indica il cumulo di spazzatura. Sembra impaurita, ma Elsa non sa se è per la propria presenza, le bucce rovesciate, o per qualunque fosse stata la cosa che l’aveva spaventata in primo luogo—"Ecco, lì, ho trovato—proprio lì—una mano!"

"Cosa?" Elsa chiede, gli occhi stretti per la confusione. Fa tre passi, spingendosi verso la montagnola. L’odore era già pregnante e stucchevole, nell’aria estiva, una puzza disgustosamente dolciastra che li copriva come velluto. Vede ogni genere di buccia scartata, ortaggi e terra, e poi—

C’è una mano, tinta di rosso scarlatto.

Aggrotta le ciglia, sbatte le palpebre, pensa che una volta riaperti gli occhi, l’allucinazione sarebbe scomparsa, si sarebbe provata fasulla, ma era ancora lì—allunga tentativamente una mano, poi si ferma; con mano tremante sposta un po’ di spazzatura di lato, abbastanza da intravedere dei ricci castani—

No.

"Aiutatemi!" rantola, lanciando via immediatamente sporco e spazzatura, e non le importa del decoro, delle proprie mani. "Subito!"

Una delle guardie afferra le dita che spuntano e l’altra il braccio, e assieme tirano. Il corpo viene via dal mucchio di spazzatura con un risucchio, ed eccolo steso a terra sulla pietra, bianco come un morto, il sangue che gocciola ancora da una ferita aperta lungo lo stomaco, incrostata di fango e sudiciume. I suoi occhi sono chiusi.

"Al—Albert?" Elsa chiede, cadendo sulle ginocchia. C’è dello sporco sul dorso delle mani pallide, come la roba che lui ha appiccicata sulla fronte. Lo chiede perché non riesce a crederci, eppure lo fa, e—"Chiamatemi il medico!" grida, e la sua voce è stridula come mai l’aveva sentita prima—è un’emozione nuova, questa paura matta, più della rabbia che in precedenza aveva provato nei confronti del principe, più simile all’onda dirompente di dolore di tua sorella è morta—"Albert," esclama, le dita che appena toccano i suoi ricci. "Albert, devi svegliarti. Questa non è una richiesta, è un ordine."

Gli occhi di lui rimangono chiusi, e il mondo si muove troppo lentamente.

Sussurra, tra sé e sé "Ti prego."

Echi di

"Ti prego."

luce delle stelle.

"Ti prego."


.

.

(nulla.)

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

 

 

Note della traduttrice: Vi potrà capitare, nel capitolo seguente, di riconoscere una citazione quasi letterale di una battuta tratta dal film “Lo Hobbit: La desolazione di Smaug”. E’ una specie di “gioco” che l’autrice fa, nei capitoli precedenti, infatti, sono presenti allusioni a Hercules, Mulan e il Re Leone.

 

 

Perdonatemi, inoltre, se non ho ancora risposto alle recensioni, ma non ho avuto proprio tempo. Risponderò quanto prima.


"Devi imparare a controllarti."

"Pensi che non ci stia provando?" ruggisce, ed ecco il dolore familiare che si liquefa lungo le braccia, si raccoglie alle punte delle dita. Il fuoco prorompe dalle mani guantate, consumando tutta la stoffa bianca, che cade al suolo, bruciata e annerita. Il quinto paio, quel giorno, e non era nemmeno mezzogiorno. Strizza gli occhi, inspira-espira-inspira, ma il battito cardiaco accelera rapidamente e il dolore intenso, che fonde, avanza ancora, e il fuoco colpisce il pavimento di pietra, si sposta sul ciglio della cella, e fa diventare le sbarre arancioni, poi rosse.

Di nuovo in cella. Era troppo pericoloso, e quindi l’avevano messo di nuovo in cella, dove tutto quello che poteva bruciare erano paia di guanti e le suole dei propri stivali—

E poi la sua testa è scaraventata all’indietro, e sbatte contro il muro opposto, inciampando poi sui resti abbandonati della propria brandina, e cade in un angolo. Il fuoco si ferma. Alza lo sguardo, strofinandosi la mascella, sentendo un livido bluastro-viola che inizia a formarsi. Il re torreggia su di lui, guardando disgustato i pezzi bruciacchiati dei propri guanti, anneriti sulle nocche dove la sua mano aveva toccato il viso di Hans.

Hans ringhia, "Perché—"

"Se non impari a controllarlo," King Alfons dice, le ginocchia che scricchiolano mentre si piega, poggiandovi sopra le mani, la testa piegata di lato, "se non ci riesci, dovrò trovare qualcuno che ci riesca."

Hans sputa. Furia, che ribolle sotto la superficie della pelle, fa puzzare vagamente la cella di carne bruciata. Il re si alza. Si volta.

"I tuoi fratelli saranno presto di ritorno da Arendelle, col loro trofeo. Sospetto che tu abbia tre giorni, forse quattro. Cinque, se gli dei ti sorridono." Pausa. "Ti suggerisco di utilizzare bene questo lasso di tempo, no?"

Hans si sente come se una bomba gli fosse scoppiata dentro le ossa, tutto è fuoco, dolore e agonia. Esclama, a denti stretti, "Che trofeo? Se non mi dici niente—"

"Il trofeo che ci procurerà quello che tu non sei riuscito a fare, fratellino," il sorriso del re è a malapena un movimento delle labbra. Si volta di nuovo, per andarsene.

"E cioè?" Hans cerca di impedire alla propria voce di avere un tono disperato, ma fallisce.

"La completa e totale cooperazione della regina Elsa."


"Dobbiamo cauterizzare la ferita, e in fretta!"

Elsa stringe i pugni così tanto che le unghie le si conficcano nel palmo facendolo sanguinare, piccole lune rosse crescenti. Riesce a trovare la voce. "Mettetelo sul tavolo." Le guardie la guardano, piuttosto scioccate, ma la sala da pranzo era un posto come un altro—

Agita la mano, convulsamente, e quello che era rimasto dalla mattina—carni fredde e coppe di acqua e calici di vino e l’onnipresente pane—volano contro il muro opposto, trasportati da una brezza gelida che congela gli spigoli del ripiano del tavolo e fa traballare pericolosamente il fuoco nel caminetto. Il cibo si spiaccica come sangue contro il rosemåling. Il medico, un uomo smilzo conosciuto col nome Knut, si aggiusta teso il monocolo e urla, "Sul tavolo, allora!"

Le guardie, una che regge la testa di Albert, e l’altra le gambe, lo sistemano in fretta, poggiandolo sul mogano scuro. Un altro dei suoi uomini tiene già ferma una lama sul fuoco del caminetto. Elsa osserva il metallo diventare incandescente con lo stomaco che si contorce. "Dovete—" si blocca, un malfermo passo in avanti, cercando ancora di capire dove fosse—"Dovete proprio?"

"Se non lo facciamo," Knut fa, facendo scivolare un pugnale sotto la tunica di Albert e strappando via il tessuto marrone-rossastro, "morirà dissanguato." Si ricorda di aggiungere, all’ultimo secondo, "Vostra maestà."

"Veloci, allora," una delle guardie che aveva portato via Albert dal mucchio dei rifiuti esclama, cupo, sfilandosi la cinghia di cuoio della spada e infilandola tra le labbra inerti di Albert, e poi preme le mani sulle spalle del principe per tenerlo fermo. "E tu, le gambe."

Non capisce. Perché dovevano immobilizzarlo? Perché—fa un passo avanti, per aiutarli, il cuore che le martella in petto un ritmo irregolare, e il medico dice, "Mettete il piatto della lama direttamente nella ferita."

Elsa tende la mano, allunga il braccio, per aiutare, per fare qualsiasi cosa

"Vostra maestà?" Knut fa una smorfia. "Vi consiglio di distogliere lo sguardo."

Scuote la testa, premendo le labbra, ed ecco che l’uomo preme il piatto della lama incandescente conto lo stomaco scoperto di Albert—

E Albert urla.

Svegliandosi, all’improvviso, si dibatte, quasi scaraventando via la guardia che gli immobilizza le spalle, la voce che gli graffia la gola come chiodi. Il cuore di Elsa si ferma. Si copre la bocca con le mani, le preme; ci mette un po’per capire perché—perché anche lei sta urlando, e deve soffocare le grida, subito, subito. Il ghiaccio insinua i propri artigli sul pavimento della sala da pranzo. La temperatura nella stanza cala vertiginosamente. Albert urla, in preda ai conati, e il medico dice, cupo, "Rigirate la lama!"

La guardia fa come gli è ordinato.

Elsa riesce a malapena a sopportarlo.

E poi Knut è in piedi di fronte a lei, proprio lì, e per farlo ha dovuto farsi strada in un metro e mezzo di neve. Dice, piano, con cautela, "Regina Elsa, questo problema richiede capacità di guarigione che io non posseggo."

"Ma avete cauterizzato," sussurra, da dietro le dita.

"Per guadagnare tempo. Non sappiamo dire che danno ci sia, all’interno."

"Ma ha smesso di sanguinare."

"Potremmo aver bisogno di riaprire la ferita."

I respiri di Albert sono più lenti, ma è bianco come il nevischio che Elsa ha attorno ai piedi. Guarigione. Guarigione, guaritori, aveva bisogno di—

Si toglie la mano dalla bocca, echi delle urla che ancora riecheggiano nella sala da pranzo, e chiede, "Riuscite a tenerlo vivo fino al mio ritorno?"

Il medico deglutisce. "Vostra maestà, non posso promettere niente."

Guarda l’uomo disteso e considera l’idea, per un momento, di prendergli la mano, ma a cosa sarebbe servito? A niente. Niente, nessuna promessa, la realtà che si disgrega ai margini. Nessuna promessa. "Allora fate del vostro meglio."

"Sì, Vostra maestà."

"Preparate il mio cavallo," ordina.


Anna se ne sta lì in piedi, le braccia incrociate sotto il mantello, gli stivali che affondano nella neve fresca e soffice, e capisce perché Kristoff la adora.

Davanti a lei, che si stende fino all’orizzonte, non c’è nient’altro che aria fredda di montagna e sole che si riflette brillando sui picchi innevati, tanto luminoso da costringerla a strizzare gli occhi. C’è silenzio, ma non il tipo di silenzio inquietante—non col vento che soffia fischiando tra le rocce nude, cantando piano, mentre scuote gli alberi dietro di loro. E’ crudo, vivo. Gli abeti dietro di loro proiettano le ombre simili a denti storti, spezzati. Sa dove si trova; quella rupe, sotto il castello di Elsa, tranne per il fatto che questa volta non c’era un mostro di neve gigante a spaventarli e a farli precipitare.

Ed era una bella caduta. Neve fresca o no.

Si guarda alle spalle, chiedendosi se sia ancora lì, come una cosa morta, sospeso, e in attesa, o se si sia sciolto con la partenza di Elsa, lasciando al suo posto un ghiacciaio che si scioglie. Anna si guarda le mani, mordendosi il labbro, e poi agita tentativamente le dita coperte dai guanti, immaginandosi del ghiaccio spuntare da esse, tipo whoom.

Ha.

Volge di nuovo lo sguardo al paesaggio innevato. E’ abbastanza da far spalancare la bocca per la meraviglia a chiunque, tranne forse i due stupidi principi delle stupide Isole del Sud, che si limitavano a fissare, più o meno, come se stessero assistendo a una qualche mostra d’arte a tema neve, e che tutto quello non fosse più impressionante di Giuditta che regge la testa di quel generale, quindi, cioè, quello che è.

I cavalli nitriscono tra gli alberi dietro di loro. Non riesce a vederli, e nemmeno le guardie, e riesce a immaginare, per un momento, di essere, a parte Kristoff, totalmente sola. Pensa, mentre lo guarda, accanto a lei, mentre lo osserva pulirsi il naso con una manica, una smorfia che gli prende tutta la faccia, pensa, bel lavoro, ragazza, perché se questo non urlava impenetrabile allora niente poteva farlo. Lui la becca a fissarlo e la il cipiglio si fa più marcato e Anna schizza con lo sguardo di nuovo fisso al panorama innevato e prova a fischiettare. Fa troppo freddo per fischiare, scopre, e quindi ricomincia a cercare di far riprendere sensibilità alle dite, sbattendole assieme.

"E’ davvero impressionante," Tomas fa notare, strusciando uno stivale nella neve fitta, osservandola separarsi davanti a sé. "Eri al corrente del fatto che Arendelle fosse così ben protetta, fratello?"

"No davvero," Viktor risponde, un po’ goffo.

Tomas fa un passo, poi due, verso l’orlo del precipizio. E’ un’altezza che fa venire le vertigini; Anna ricorda, perché essere tenuta appesa su un precipizio di sessanta metri (cento? duecento? Più un milione) da un mostro di neve arrabbiato di certo tendeva a, cioè, imprimerti a fuoco le cose nel cervello—e dice, d’impulso, "State attenti," anche se non c’è poi tanta intenzione dietro. Solo due parole.  State attenti. Suonava meglio di vi prego scivolate e cadete, sarebbe carino da parte vostra, in realtà

Ok, era molte cose, ma un’assassina? Proprio no.

"Bella caduta, non è così?" Tomas borbotta, come parlando a sé stesso. "Trenta metri?"

"Sessanta," Kristoff corregge automaticamente, e poi ha tutta l’aria di essere infastidito, persino arrabbiato. Incrocia le braccia, guardando male la parte di cielo alla propria sinistra. Viktor fa un cenno col mento. "Fatti indietro, fratello. Non voglio venire a raccogliere le tue budella."

"Ci sono dieci metri di neve fresca, laggiù," Kristoff borbotta, ma lo sentono tutti.

"Atterraggio morbido dunque, eh?" Tomas ridacchia, lanciando loro un’occhiata. Anna si morde il labbro. Kristoff si limita a restare lì, a fissarli. Tomas continua, "Perché non ci fermiamo a mangiare qui? E’ un posto come un altro, e il paesaggio è semplicemente mozzafiato."

Kristoff scrolla le spalle. Deve comportarsi da principessa, non è così, maledizione—fa un sorriso tirato. "Magnifica idea. Vado a prendere il—"

"Non ce n’è bisogno," Tomas sorride. "Mio fratello e io siamo vostri ospiti. Il minimo che possiamo fare è prendere il cesto, no?"

E prima che possa controbattere di nuovo, si dirigono verso il margine della radura. Anna li guarda farsi sempre più piccoli, e alla fine scompaiono dietro i tronchi. Senza pensarci troppo, afferra la mano di Kristoff, riuscendo ad afferrargli, attraverso i guanti, il mignolo e l’anulare. Dopo un momento, due, lui le prende la mano come si deve, coprendo completamente il guanto blu col suo, e le chiede, "Cos’hai?"

"Ho? Non ho niente, sto bene. Così bene. Più che bene. Ho fame. Hai fame? Oh, pensa se Elsa ci ha fatto preparare il cioccolato—"

"Calmati."

"Ehi, Kristoff. Riguardo—riguardo a prima, quello che volevo dire—"

"Non dire niente," brontola, guardando a disagio di lato, ma non le lascia la mano e Anna lo interpreta come un buon segno. "Possiamo—possiamo parlarne un volta che non dobbiamo più occuparci di questi perdenti."

Sbuffa dal naso, Piegando la testa di lato, in modo da appoggiarla sul suo braccio. La lascia lì, le piace la sensazione. "Perdenti. Bella parola. Che ne dici di miserabili?"

"Ma se sono dei reali."

"Kristopher, ti prego. Non saranno mai reali. Non come, reali da re, comunque—"

"Cosa te lo fa dire?"

"Giocano," esclama, stringendo gli occhi contro il riverbero della neve avanti a lei, "ma non molto bene."

"Stiamo giocando?"

"Metaforicamente. Ma nemmeno io sono molto brava. Elsa è la migliore." Anna sospira, facendo svolazzare la frangetta. "Vorrei tanto essere come te."

"Un…maschio?"

"No, stupido. Un venditore di ghiaccio. E poi potremmo avere il nostro club privato dei venditori di ghiaccio, e faremmo entrare solo persone fighe, il che non includerebbe nessuno che ha il cognome delle Isole del Sud."

"…tu sei matta."

Gli stringe di più la mano.

"Kristoff?"

"Huh?"

"Non voglio tagliarti fuori," sussurra, e può solo sperare che riesca a trasmettere tutto quello che vorrebbe dire, ma che non può, non ancora. Kristoff si irrigidisce; e Anna lo riesce a sentire sotto la testa, la tensione dei muscoli del braccio, il respiro tirato in dentro di botto. Alla fine si abbassa, un po’ goffo, e le bacia brevemente la fronte.

"Ti credo," sussurra lui di rimando.

Aumenta la stretta sulla mano di lui e non vuole lasciarla più andare.


Esalazioni di vapore si innalzano in aria con uno ssss, e la scia di ghiaccio che la segue—fin dal cortile del palazzo—si scioglie poco dopo essersi formata, circondata dalle rocce spruzzate di muschio e dai piccoli geyser. Elsa tira le redini di scatto, il cavallo nitrisce impaziente. Ha l’affanno; l’aveva spinto al massimo, per tutta la strada fin da Arendelle, su un sentiero che aveva fatto solo due volte prima, tutte e due delle quali in preda al terrore, e anche questa volta—

La terza volta è quella buona, pensa. Era stato un miracolo che si fosse ricordata la strada fino a quel punto. Lo attribuisce all’adrenalina, che riesce praticamente a sentire mentre le pulsa nelle vene come fuoco liquido, rendendo i colori più vividi, i pensieri più veloci. Tempeste, ghiaccio e gelo—a che serve questa maledizione se non posso aiutarci le persone?

Smonta da cavallo, sollevandosi gli orli delle gonne con una mano, e usando l’altra per accarezzare il fianco del cavallo, grata. "Grazie," sussurra. "Aspetta qui."

Va via di fretta.

La vallata è invitante, e si chiede, mentre avanza nell’erba lussureggiante, che diventa prima marrone chiaro, poi scuro, e poi morta, si chiede se ci sarebbe mai andata per qualche altra ragione che non fosse stata necessità, solo per dire ciao. Pensa ad Albert, che sta morendo sulla tavola da pranzo, e sa che, in qualche modo, anche questo era colpa sua. Riesce a sentirlo.

Come?

Perché?

Non importa.

Si ferma, esaminando le formazioni rocciose, disposte come le spire di uno strano serpente marino dato alla luce sulla terra. Le cose sembravano diverse sotto il sole; le rocce meno invitanti, un grigio sbiadito, sotto quei raggi. Apre la bocca, ma non emette suono, e deve stringere le mani a pugno contro i fianchi. "Salve?" riesce a dire alla fine. "Papi?"

Non c’è alcun movimento.

"Papi, per favore, è—è il mio—il mio amico, è—mortalmente ferito. Non possiamo guarirlo senza magia."

Pausa. Aspetta. Ancora, nulla, a parte l’eco della propria voce in tutta la valle, come le urla di Albert nella sala da pranzo. Torce le mani, si tira la treccia. Apre la bocca per dire qualcosa—qualsiasi cosa –in più, solo che sente un rumore, pietra su terra, che rotola nella sua direzione. Si guarda attorno, nella radura vuota, e poi gli occhi mettono a fuoco l’unico masso che va verso di lei; alla fine spunta un troll, che sbatte assonnato le palpebre, una fila di cristalli rosa appesi al collo e ciuffi di erba ingiallita che le fanno da capelli, spuntando dalla testa. Elsa comincia, in fretta, "Scusatemi, tanto, ma ho davvero bisogno—"

"Tesoro," il troll esclama, sopprimendo uno sbadiglio, "devi chiudere il becco, altrimenti svegli i bambini."

"Mi scusi?"

"Dormono tutti," il troll sbadiglia, strofinandosi i grandi occhi grigi. "E vedere persone che arrivano qui a tutte le ore—" Il troll si interrompe.  La guarda, sbattendo le palpebre. Scuote la testa di acquistare lucidità, si aggiusta il vestito fatto di muschio. Poi, a bocca aperta, chiede incredula, "Regina Elsa?"

"Sì, sì, mi dispiace, è che—per favore," la voce di Elsa è diventata un sussurro bassissimo, "per favore, devo parlare con Papi. E’ urgente."

"Senza dubbio, visto che sei venuta qui a un’ora del genere—aspetta un secondo, vado a prenderlo. Non ti muovere," il troll la avverte con la sua voce profonda, vellutata, prima di rotolare via, fuori campo visivo. Elsa sente strati di ghiaccio formarsi sulla sommità delle scarpette nere, lottare per attecchire al suolo della valle mite e fertile.

Sente rumore di ciottoli, ed ecco due rocce venire verso di lei. Sbatte le palpebre. Il troll con i cristalli rosa appare di nuovo, assieme a Papi, sul viso un’espressione grave e triste al di sotto della criniera leonina di erba. "Regina Elsa?"

"Mi spiace tantissimo," Elsa bisbiglia, torcendosi le mani, "ma il mio amico, è stato ferito, e non riusciamo a curarlo. Sta morendo. Ti prego, Papi, abbiamo bisogno della magia—"

"Ma maestà," il vecchio troll brontola, avvicinandosi a lei con espressione esausta, "anche tu hai dei poteri magici."

"No," sussurra lei, agitando avanti e indietro le dita, osservando schegge di ghiaccio piantarsi al suolo. "Ho una maledizione. Non posso guarirlo."

Papi apre la bocca, come se stesse per aggiungere qualcosa, e poi la chiude piano, scuotendo leggermente la testa. "Dov’è?"

"Al castello."

"Verrò con te. Bulda, ti lascio in carica, mentre sono via."

"In carica? Col cavolo—il mio bambino sta dalle tue parti, non è così?" il troll chiamato Bulda chiede, eccitata. Elsa si risparmia l’obbligo di dover raccontare tutta la storia grazie a Papi che dice "Bulda, non è questo il momento."

"Beh, se vedi Kristoff, digli di venirmi a fare visita, okay? Digli che mi preoccupo per lui—"

"Bulda," Papi avverte.

L’altro troll alza gli occhi.

Papi posa lo sguardo arguto su di lei, ed Elsa rabbrividisce. Dice, lentamente, "Ti seguo."

Elsa si volta.

Corre.


Anna osserva il panorama davanti a sé e indica vaga un punto alla propria sinistra, un gruppetto di alberi scuri e collinette misteriose appena visibili in lontananza, solo che forse indica con un po’ troppo entusiasmo, perché il braccio di Kristoff si alza di scatto e le impedisce di avanzare. Un mucchietto di neve scivola giù dall’orlo del precipizio. "Sei mai stato laggiù?" chiede, appoggiando le mani sul suo braccio e spingendo giù con forza. Non lo muove di un millimetro.

"Puoi farti indietro di tipo, tre metri, per favore?"

"Sei maiiiiii—"

"Sì, okay, ci sono stato. Una volta."

"E invece la—"

"Tre metri, furia scatenata."

"—ggiù?"

Passi, che scricchiolano sulla neve, e si volta verso gli abeti in tempo per vedere Viktor e Tomas venirne fuori, trasportando un grosso cesto di vimini intrecciato fitto fitto, profilato di stoffa rossa. Kristoff borbotta qualcosa a proposito dei muli e fa un passo avanti, e si trascina dietro Anna. E lei, cioè, ha capito, significa: allontanati dal bordo—un paio di passi e Kristoff si ferma, e inizia a scavare col lato dello stivale, sollevando un mucchietto di neve, che ammassa cercando di dargli la forma approssimativa di una specie di tavolino basso. Anna si accovaccia, picchiando i lati del mucchietto per aiutarlo.

"Non si poteva desiderare un posto migliore per pranzare," uno dei gemelli dice. Anna si soffia via i capelli dalla faccia, e si alza cercando di non mostrarsi troppo infastidita, cosa che probabilmente fallisce miseramente, ma tanto. L’altro gemello dice, "Le guardie ci hanno già messo a bollire dell’acqua da bere," e picchietta una borraccia che tiene appesa al fianco.

"Acqua bollita," Kristoff borbotta, "la mia preferita."

Il volto del gemello si irrigidisce. Anna ci mette un momento a rendersi conto che si tratta di Tomas, il più smilzo. "A dire il vero, la Regina Elsa ci ha fatto preparare delle foglie da tè. Preferiresti qualcos’altro?"

"Acqua bollita," Kristoff scatta.

Tomas scrolla le spalle lentamente, con cautela, osservando suo fratello sistemare il cesto sul tavolo provvisorio. "E’ un po’ che lo volevo chiedere—ma esattamente, qual è la tua relazione con la famiglia reale? Sua maestà ci ha informato che saresti stato la nostra guida, il che implica una qualche forma di fiducia, ma le tue maniere da selvaggio e rozzo —"

"E’ il Reale Venditore e Fattorino di ghiaccio," Anna li interrompe, stizzita, il gomito già piantato nel fianco di Kristoff, per dirgli calmo calmo calmo—"Che, ad Arendelle, sarebbe, cioè, l’equivalente di un duca. O un marchese."

"Hm," è tutto quello che Tomas risponde. È uno hm che non le piace, che insinua qualcos’altro e a questo punto tanto vale sguainare le spade, perché tutto quel girare in tondo attorno alle cose era ridicolo, totalmenteorribilmenteridicolo—e non odiava girare in tondo, lo amava, davvero—solo che adesso lo odiava, davvero lo odiava, perché l’ultima volta che aveva girato in tondo era tra le braccia di quel cretino del loro fratello—troppi fratelli.

Disgustoso.

Anna si stringe le mani, poi si morde il labbro per evitare di dire qualcosa di stupido, ed esclama, "Beh, mangiamo, in modo da poter, sapete, no, continuare col tour di queste montagne molto alte, molto grandi."

Il che, forse, era un poco esagerato, ma ormai. Oops, e tutto il resto.

Apre il cesto e tira fuori uno dei tramezzini incartati per bene. Kristoff borbotta vagamente di non aver fame, e si volta, e si allontana di un paio di passi, le braccia incrociate e la bocca contorta da una smorfia decisa, cosa che lei ritiene positiva, tutto sommato, perché, cioè, non aveva davvero voglia che iniziassero a prendersi a pugni, e comunque, lei li avrebbe messi tutti a tappeto, quindi sul serio, non sarebbe servito a niente. Tomas si sfila la borraccia a tracolla, e poi alcune tazze pesanti dal cesto. "Tè, principessa?" chiede, sollevando una tazza in sua direzione.

Annuisce. Tomas versa il liquido profumato di caprifoglio, ancora fumante, dalla borraccia, e le passa la tazza. Se non avesse avuto tutto quel caldo, pensa, mentre lo beve, sarebbe stato perfetto. Ne versa nella sua, in quella del fratello, e chiede, "Ed è sicura che il—Venditore di Ghiaccio Reale non desideri unirsi a noi?"

Si volta e guarda Kristoff, seduto di spalle. "Abbastanza sicura, sì."

Tomas scrolla le spalle. "Alle buone relazioni," dice, sollevando la tazza.

"Cin cin," Anna risponde.

Bevono.


Elsa entra come una furia in sala da pranzo, e dal rumore sembra un uragano. Le finestre si aprono, le porte sbattono contro il muro, e il fuoco nel caminetto traballa una volta e poi si spegne. La luce del sole all’improvviso diventa troppo poca. La tensione è forte, palpabile, e fa un respiro profondo e brusco, pensando mantieni il controllo, mantieni—il vento si smorza del tutto, il ghiaccio si ritira. Esamina la scena—Albert, estremamente pallido, prono e senza vita sul tavolo; un grosso secchio d’acqua calda che è diventata nera di sangue e terra; e Knut che tenta di misurare il battito cardiaco, all’altezza del gomito.

"Il paziente?" Papi domanda, srotolandosi al suo fianco. Sobbalza, e guarda giù, perché aveva quasi dimenticato—dimenticato cosa? Scuote la testa. Il vecchio troll sembra fuori posto sotto il soffitto perfetto e vivace del castello, la natura che gli aderisce addosso come una—beh, pensa, prima—pelle. Le guardie sussultano. Una di loro scivola, e il suo piede sbatte nel secchio d’acqua, facendola traboccare sul pavimento lucido. Il medico inizia a tossire con violenza, guardando prima la creatura di roccia grigia e poi la regina, con un occhio comicamente enorme dietro la lente del monocolo.

"Sul tavolo," Elsa dice, e si costringe a tenere la schiena dritta, il tono calmo. Mantieni il controllo.

"Vostra maestà, io—io—" Knut inizia, e lei scuote leggermente, pianissimo, il capo in sua direzione, seguendo i passi calmi e tranquilli di Papi e lottando contro l’impulso di gridare vai troppo lento—il troll si ferma davanti a una delle sedie.

"Sono un vecchio troll," comincia, salutando a questo modo le guardie, e tutte e due hanno gli occhi più grossi del sole, "e non sarò tanto presuntuoso da non chiedere aiuto. Vi spiace?" inclina la testa verso il tavolo. Elsa non ha tempo per la loro incredulità, e agita la mano quasi spazientita. Una forte brezza glaciale crea un vortice sotto il troll e lo deposita, anche se non proprio con delicatezza, almeno sul tavolo, in modo che riesca a raggiungere Albert. Papi la osserva pensieroso, ma non dice niente. Dopo un momento, due, in cui si perde nei suoi pozzi di saggezza, si volta di nuovo verso il principe che giace sul tavolo ed esamina la ferita irregolare che ha lungo lo stomaco. Elsa si avvicina, solenne, e appoggia le mani sullo schienale alto di una delle sedie, afferrandolo stretto; il gelo si espande su di esso, lentamente, formando un reticolo cristallino.

Le si secca la bocca.

La ferita è un macello di pelle gonfia e arrossata, bruciata e nera ai bordi e rossa e piena di pus al centro. Emana cattivo odore, di carne in putrefazione, ed Elsa ha paura di guardargli il petto. Ha paura di controllare se stia respirando. Trova il suo volto, invece, e ha del sangue che gli cola dalla bocca, come se si fosse morso la lingua. Il medico, dietro di lei, tossisce di nuovo, ritrovando la voce. "Il b-battito cardiaco è debole, e si sta indebolendo ancora," dice.

"Già," Papi risponde, esaminandolo con calma con il mento appoggiato a un pugno. Fa un piccolo passo in avanti, gli occhi che si chiudono, l’altra mano con le dita grigie e tozze tese, sospese in aria all’altezza della ferita. Una delle guardie bisbiglia, "Ma che sta facendo?"

Sente un oof quando qualcuno dà di gomito a quest’ultima.

"C’è un’infezione, qui," Papi afferma dopo un attimo. Si acciglia, le sopracciglia cespugliose che si abbassano. "E un’emorragia interna. Qualunque sia la lama che gliel’ha fatto, era uncinata."

Le unghie di Elsa graffiano il legno.

Il cipiglio di Papi si fa più marcato, e poi, tanto repentinamente quanto era venuto, scompare. Piega la testa di lato, ed Elsa osserva l’ondeggiare della sua criniera erbosa. Nel suo tono profondo, roco, continua: “Siamo fortunati. C’è della terra dentro di lui—normalmente avrebbe aggravato l’infezione, ma," e qui apre gli occhi, volgendo la testa verso di lei con un sorrisetto, "siamo fortunati."

"La tua magia," Elsa esala, ricordandosi di quella conversazione, tanto tempo fa. "Viene dalla—"

"Dalla terra, sì. Mi serve altra terra dalla fonte," Papi si interrompe, ritirando la mano. "Dove l’avete trovato?"

"La terra del mucchio dei rifiuti—portatene un po’ qui," Elsa ordina, alla guardia più vicina. Annuisce, andando via dalla sala di corsa. Elsa stacca le dita dal ghiaccio formatosi sullo schienale della sedia e si rivolge a Knut. "La ringrazio, grazie di tutto," dice. Stanca, così stanca. "Perché non va a riposare, ora?"

"Se per voi va bene, Vostra maestà," deglutisce, fissando ancora il troll con qualcosa che assomiglia alla meraviglia, "Preferisco restare."

Annuisce. Papi si volta dalla sua parte, guardandola fissa, e alla fine tende una mano. "Regina Elsa, mi permetti di prendere in prestito il tuo potere? Sono, dopo tutto, un vecchio troll."

Si guarda la mano nuda, che trema. La porge. "Prendi tutto quello di cui hai bisogno."

La sua pelle è pietra sotto quella di lei.


"Sei sicuro che non ne vuoi?"

"Sono sicuro."

Anna regge la tazza tra tutti e due i guanti e ci soffia su di nascosto; lui osserva il vapore sollevarsi in piccoli ciuffi e scomparire, all’improvviso, spiacevolmente consapevole di quanto fosse vicina all’orlo della rupe. Conoscendo Anna, sarebbe scivolata. "Molto meglio dei tramezzini," borbotta, schioccando le labbra e bevendo un’altra lunga sorsata. "Il pane si è congelato quasi tutto. Ma bere due tazze di tè è fondamentalmente pranzare, quindi, capirai."

In risposta, gli brontola lo stomaco, sonoramente. Anna lo guarda in tralice con un ghigno malvagio.

"Non ho fame," esclama testardo, in gran parte perché si diverte più a contare picchi e fiocchi di neve di quanto farebbe a parlare del più e del meno con quei due pomposi coglioni dietro di lui. Ha. Si strofina di nuovo il naso e pianta una mano in piena faccia ad Anna, spingendola di lato con la forza sufficiente a farla indietreggiare di un passo. Lei ride, scacciando via il braccio, e le cose tra loro filano così lisce che riesce quasi per un momento a dimenticare lo sguardo di orrore che gli aveva rivolto dopo che l’aveva detto, quella mattina.

L’aveva detto, per l’amor del cielo, perché

Lo sapeva. Sapeva che sarebbe successo, se l’avesse fatto. Osserva il bosco, piccolo e scuro, da quella distanza, e quasi desidera essere lì.

Quasi.

"—vuoi solo dimostrare che sei più uomo di loro, non è vero?" Anna sta dicendo sottovoce, quando ritorna alla realtà. "Tipo, guardatemi, sono un montanaro, so passare attraverso i muri e trattenere il respiro per dieci ore consecutive—"

"Questo non c’entra niente con l’essere un montanaro," fa in tono piatto.

"—non rovinare la storia, Kristopher—e so pescare a mani nude e cavalcare orsi senza sella e —woah," Anna sbatte le palpebre, all’improvviso, portando una mano alla testa. Aggrotta le sopracciglia. Sbatte le palpebre, due volte, tre. Kristoff le riconosce in volto la stessa espressione dei ragazzi, a casa, prima che vomitassero il muschio. Fa un passo avanti, la mano tesa per afferrarla – o – qualcosa, non lo sa di preciso, ma forse – le dà delle pacche leggere sulla spalla. Poi fa una smorfia. “Stai bene”?

"Bene, sto bene." Anna scuote rapidamente la testa, poi, velocemente, si piega e incastra la tazza nella neve. Porta entrambe le mani alle tempie. "Mi sono solo venute forti vertigini all’improvviso."

C’è qualcosa che non va. Afferma, "Beh, ormai avranno finito di pranzare. Torniamo alla slitta."

"Già. Già, buona idea," annuisce lei. Spalanca gli occhi e lo guarda e Kristoff non può fare a meno di fare un mezzo sorriso. Aveva il naso piccolo e troppe lentiggini e occhi che vagavano continuamente, forse senza prestare sempre attenzione, ma incrocia il suo sguardo e pensa sei bellissima. E vuole baciarla. Si accontenta di tenderle una mano. Lei alza gli occhi, lanciando indietro una treccia, impertinente, gli stivali che scivolano sulla neve. "Sto bene, Kristopher. Pher-favore."

"Tre metri, furia scatenata," le ricorda.

"Ti seguo a ruota."

Si volta. Ecco i principi, ancora riuniti attorno al piccolo tavolino di neve. Hanno la stessa corporatura che aveva Hans, solo coi tratti più maturi, forse, ma ancora tanto affidabili quanto—quanto—quanto qualcosa di molto inaffidabile. Kristoff li guarda e si chiede perché il destino abbia concesso a loro di essere principi, e a lui di guardare i propri genitori morire congelati poco lontano dalla porta di casa.

Sente la mancanza della sua “Ma’”, all’improvviso, poi scuote la testa con una risata. Non aveva sentito la mancanza di sua mamma da tanto tempo, non così tanto, comunque—si volta per dire ad Anna che avrebbero potuto far prendere ai principi il miglior colpo della loro vita, ritornando ad Arendelle per la strada che attraversava la Valle delle Rocce Viventi, ma lei è ancora lì in piedi, che si stringe la testa. Kristoff fa un passo avanti pronto a caricarsela in spalla come un sacco di patate, se non fosse per il fatto che lei fa un accidentale passo, cosa molto alla Anna, all’indietro, mente tenta di capire perché la testa le pulsi tanto, e si sente un sonoro crack, e conosce quella roba, ci è cresciuto sopra, l’aveva vista portargli via tutto, quindi si muove anche prima di rendersi conto di quello che stia accadendo.

Lento, tutto, tutto rallenta—

Anna ha gli occhi spalancati dallo shock e questa volta non ci sono né corda né niente, solo lei, che cade, cade, e lui urla, "ANNA!" Salta, col braccio teso, ci arriva, ci arriva quasi—

Qualcosa di pesante gli blocca le gambe, e la metà superiore del suo corpo penzola nel vuoto. Ha una vista terrificante, del burrone e del corpo di lei che precipita a tutta velocità nella bassa foschia, prima che la testa gli venga spinta di lato, e quasi colpisce le rocce. Lotta, aggressivo, si sente un lupo—calcia e centra, ed eccolo arrancare, alzarsi e voltarsi, la mano già stretta a pugno. Colpisce, dritto in faccia al secondo gemello, quello che non aveva ancora steso. Rimangono così, accovacciati sulla neve, gocce di sangue scarlatto che gocciolano da naso e bocca, e ruggisce, "AVREI POTUTO PRENDERLA!"

"E rischiare di ferire anche te stesso?" il più magro dei gemelli abbaia, con la bocca che sanguina. "Pensa, uomo del ghiaccio!" scatta. "A che saresti servito, da morto?"

Non posso saltare ora, e se le cado addosso, se le cado—

"SVEN!" Kristoff ruggisce. E’ un incubo. Il cuore gli martella ed è un incubo, e tutto quello che riesce a pensare è tre metri, tre metri, e si poteva prevenire così facilmente, un braccio attorno alle spalle, e l’avrebbe presa

Sven si precipita attraverso gli alberi, la slitta che sbanda dietro di lui come una nave in tempesta, ma Kristoff sa che il suo amico ha riconosciuto il panico che gli attanaglia la voce—tira fuori un coltello dalla tasca e taglia la bardatura, chi se ne frega della slitta, e, con un solo movimento fluido e disinvolto—anni di pratica, anni di isolamento—gli monta in groppa.

Dieci metri di neve fresca è l’unico pensiero che lo mantiene lucido, mentre urla, "Cerca di arrivare giù!"

Dieci metri di neve fresca.


"Ho fatto quello che potevo," Papi afferma, alla fine. Il sole era alto nel cielo, non più visibile dalle finestre, e Knut aveva ormai da tempo riavviato il fuoco. Quest’ultimo, seduto vicino a esso, sobbalza. Elsa riesce a sentirlo, ma ha gli occhi chiusi. Sente le dita tozze e spesse di Papi lasciare le proprie, e poggiarle con gentilezza la mano sulla tavola. Le sembra di avere gli arti ridotti a poltiglia, tremanti e scorticati, come un cerbiatto appena nato. Papi sta dicendo qualcosa. Si concentra sulla cadenza lenta della sua voce. "—e tu stessa avrai bisogno di riposo, Regina Elsa. Non è una cosa da poco, prestare a un altro la propria magia. Scorre e rifluisce dentro di te; portala via, e ci metterà del tempo a rinascere di nuovo."

Sbatte le ciglia e apre gli occhi, quasi timorosa di quello che avrebbe trovato—ma no, le sue mani, le sue braccia e le sue gambe sono ancora le stesse. Sbatte di nuovo le ciglia, e ha paura di guardare l’uomo steso accanto a lei. Papi ha le mani allacciate davanti a sé. "Ho paura che rimarrà una cicatrice."

I suoi occhi scattano di lato.

Albert è pallido quanto lei, le mani posate accanto ai fianchi, non più strette a pugno. E le labbra non sono più contorte da una smorfia. L’orribile spettacolo rosso-nerastro e pieno di pus che era stato prima il suo stomaco, adesso era diventata una linea del colore rosa-rossastro che ha la pelle nuova, strane vene appena visibili che partivano da essa come rampicanti. "Ha dentro più terra, adesso," Papi ridacchia tra sé e sé, ma Elsa riesce a vedere, dal modo in cui le sue spalle e la criniera d’erba erano ricurve, che è stanco quanto lei.

Chiede, un sussurro fioco, guardando l’azzurro sbiadito del cielo oltre le finestre, "Quanto tempo—"

"Tre ore," Papi sospira. "In gioventù, avrei potuto farlo in due. Sto iniziando, pare, a perdere colpi."

"No," Elsa scuote la testa, guardando la pelle nuova. "No, la tua magia è sorprendente."

"Anche la tua, Regina Elsa," il troll risponde, guardandola con aria scaltra. "Eppure il tuo cuore è ancora indeciso—hai scoperto il segreto delle origini della tua magia?"

Elsa sbatte le palpebre. Avrebbe sussultato, se ne avesse avuto la forza, ma non ce l’ha—ne ha a malapena da scuotere la testa. Aveva del tutto dimenticato il suo consiglio. Sembrava una vita fa. Lo era stato. Lo era. "La mia maledizione è mia soltanto."

"La tua magia," Papi la corregge, con gentilezza, "è un dono, Regina Elsa. Come tutta la magia."

Rimane in silenzio.

Papi si guarda i piedi. "Ritorno dalla mia famiglia, ora, per recuperare le forze dormendo." Si ferma accanto a una delle sedie, gli occhi puntati al pavimento. "Regina Elsa?"

"Sì?" chiede, piano. Poi si ricorda le buone maniere, "Oh, perdonami, Papi. Posso offrirti una camera? Del cibo?" Osserva il petto di Albert sollevarsi lentamente con la coda dell’occhio; lo guarda abbassarsi. Quasi sorride. "Non potrò mai ringraziarti abbastanza."

"Una sciocchezza," Papi risponde, poi aggrotta le sopracciglia e continua, "Mi piace aiutare, in tutti i modi possibili, ma Regina Elsa—non possiamo essere chiamati semplicemente per convenienza."

"Sì," Elsa dice, a voce bassa, stanca, e la sua mente va a rallentatore, prosciugata di ogni forza, "sì, lo so. Ti ho usato, e mi dispiace."

"Non scusarti; hai sfruttato le risorse che avevi a disposizione. Hai pensato in fretta, sotto pressione." Passo, passo, passo, ed eccolo lì, in piedi davanti a lei, bloccandole la vista di quel petto. "Ma Regina Elsa, arriverà un giorno in cui dovrai imparare a camminare con le tue gambe. E so, da vecchio troll che sono," Papi fa, l’ombra di un sorriso sulle labbra, "che hai gambe potenti”.

Gli occhi di Elsa vengono attratti da quelli del troll, in cui rimangono fissi. Minacciano di inghiottirla intera. Annuisce. "Capisco."

Papi la guarda dritto per un altro momento, e poi annuisce. "Riposo, per tutti e due, ma lui—confinatelo a letto per una settimana, e non fatelo uscire fuori almeno per due—tranne che, ovviamente, per farlo andare a giocare nel mucchio della spazzatura. Gli potrà fare solo bene."

Elsa scuote la testa, quasi con un sorriso. "Hai bisogno di essere accompagnato a casa?"

"Ero qui prima che le prime persone scendessero dal nord; prima di Arendelle, quando la terra era ombra, alberi e oscurità; credo, Vostra maestà," e gli occhi scintillano maliziosamente, "di essere capace di ritrovare la strada."

Salta agilmente giù dal tavolo prima che lei se ne renda anche conto, una scia di pietra che attraversa il pavimento rotolando, e lo guarda andare di volata dritto alla porta, e dice, all’ultimo momento, "Papi?"

Il vecchio troll si riapre a metà. "Sì?"

"Grazie."

Inclina la testa, e, col suono di una cascata di ciottoli, oltrepassa le porte socchiuse della sala da pranzo. Sente gli strilli dei servi che, curiosi, si erano riuniti lì avanti, quando passa in mezzo a loro, e poi lo scalpiccio di questi quando si riposizionano davanti alle porte. Knut si avvicina a lei, espirando, imbambolato, "Non ho mai visto una guarigione simile."

"Magia," sbadiglia, sentendo gli occhi chiudersi. Quanta della propria, si chiede, ne aveva preso Papi?

"Dovremmo portarvi tutti e due nelle camere da letto…"

Non riesce a sentire altro—a quel punto, è andata.


"Ma che stai facendo? Ti stai sporcando tutto il cappotto di sangue."

"Realismo, fratello. Vale metà del gioco."

"Beh, faresti meglio a muoverti. L’abbiamo seminato scendendo dal fianco della montagna, ma non per molto, e sospetto che ci stia alle calcagna."

"Sì, sì—ma ecco uno dei fatti della vita, fratello."

"Cioè?"

"Non puoi affrettare un’opera d’arte."

"Alzati."

"Okay, okay—dovrà bastare. Non c’è bisogno che mi trascini, Viktor."

"Monta a cavallo."

"Proprio. Beh, non puoi farti vedere da lui con quella faccia—piega di più gli angoli della bocca all’ingiù—di più—come se qualcuno di importante fosse appena morto. Ecco."

"Sta zitto."

"Sei sempre stato senza speranze, in questa cosa della recitazione, non è vero? Beh, io—aspetta. Lo sento. Tieni la bocca chiusa, e lascia fare a me—Ohèè! Quaggiù!

"L’abbiamo trovata, quaggiù!"


Elsa apre gli occhi.

Ha il collo storto, la testa appoggiata al tavolo, e sotto di essa un cuscino del colore dei narcisi in primavera. Gli occhi incontrano il fuoco tremolante; è ancora in sala da pranzo. Si tira su a sedere, aggrotta le ciglia, e si pulisce un sottile rivolo di—di saliva? Volta la testa così in fretta che vede le stelle, ma no, c’è solo Albert, sistemato accanto a lei con due cuscini e una coperta. La porta è socchiusa, le guardie sono fuori, ma a parte loro, sono da soli.

La propria coperta le scivola giù dal petto, e si stropiccia gli occhi, e si sente in imbarazzo, e strana. Stringe le mani a pugno in grembo, giocando con i fili scuciti della stoffa blu scuro. La sua attenzione, concentrata sul fuoco, viene catturata da un movimento accanto a lei, e volta lentamente la testa, con cautela, con le ossa che ancora le danno la sensazione di essere fatte di vetro bianco, fragili quando fredde, e liquide col calore.

Albert ha gli occhi mezzo aperti, il viso pallido, unto di sudore. Muove la mano, pochissimo, sotto la coperta verde, e deve essere così scomodo, pensa, stare lì sul tavolo; perché non l’avevano spostato? Improvvisamente, e decisamente non secondo propria iniziativa, scopre una delle proprie mani, da che era stretta a pugno in grembo, tendersi e incontrare le punte delle dita di lui, che la cercavano. Sono così calde. Bruciano, piacevolmente. Non si muove, non gli stringe le mani, non gli afferra il braccio—lascia solo che le loro dita stiano lì, le une accanto alle altre. Lo guarda negli occhi, e i suoi occhi le ricordano solo Albert. Vuole chiedere, cosa è successo, ma è stanca. Non ci riesce. Non in quel momento.

Albert inspira improvvisamente, guardandola con la confusione chiaramente dipinta sul volto. "Tu non puoi essere lei," dice, espirando, la voce debole, tremula. "No. Lei è molto, molto lontana da me. Lei danza tra la luce delle stelle. Credi," le chiede, gli occhi fuori fuoco, "che avrebbe potuto amarmi?"

La bocca di Elsa si spalanca, lentamente, ma non c’è niente che possa rispondergli—niente che possa dire—

C’era solo una persona a quel mondo che la amava. Non riusciva immaginare altri—avvicinarsi, non considerata la—non con la sua—

E’ salvata dai suoi occhi che si spalancano, la confusione, per il momento, sparita. Lo sguardo di Albert incrocia il suo con lucidità allarmante, tempestivo, e cerca di tirarsi su a sedere. "Stanno architettando qualcosa, non so—cosa, o quando—" smette di parlare e fa un brusco respiro, afferrandosi lo stomaco, ed Elsa lo fa stendere di nuovo, con cautela.

"Andrà tutto bene, Albert—"

"No," insiste, gli occhi fissi ed enormi e incredibili, azzurro-verdi-nocciola-qualcosa, che la fissano dalla pelle scura per i lividi. La sua voce, quando parla di nuovo, è più debole, ma non meno urgente—"Sono venuti qui per te."

Elsa sente le labbra tendersi, la schiena irrigidirsi. Apre la bocca per rispondere, ma si ferma, perché si sente una specie di commozione provenire dalla sala d’ingresso. Sente le porte; e poi delle grida; e poi un urlo agghiacciante, ed è in quel momento che si alza in piedi, così veloce che il mondo vacilla pericolosamente, l’oscurità che la minaccia, ai margini del campo visivo. Cuscino e coperta scivolano sul pavimento.

E tutto quello che riesce a pensare è ora cosa è successo, infastidita, e stanca, e furiosa. Ora cosa è successo.

La porta socchiusa viene spalancata di botto, e si volta verso di essa, usando la sedia come sostegno, pronta ad esclamare, severa, lasciate che sia Kai a occuparsene, se non fosse per il fatto che è Kai, pallido come un fantasma, la bocca che si apre, si chiude, si apre, si chiude—

Quindi naturalmente il battito cardiaco accelera—

Le sue dita lasciano il calore di Albert.

"Vostra maestà—fate in fretta, si tratta—si tratta della Principessa Anna."


Fa tre passi nell’ingresso e non riesce più a proseguire. Le sue gambe stanno bene. Il suo corpo lavora come dovrebbe—il sangue gli pulsa nelle vene, vorticando come una specie di mulinello attorno al cuore. Ma tutto gli urla contro. Tre passi nell’ingresso, e tutto urla di lei.

Quindi cade in ginocchio e guarda la persona che tiene stretta tra le braccia. C’è del sangue che scorre dall’attaccatura dei capelli al mento. Ferita alla testa, di nuovo, pensa, piuttosto istericamente. Ferita alla testa. C’erano incidenti e incidenti. Due secondi, scivolata, e andata. Tutto, andato. Tutto gli urla contro. Aggiusta il proprio berretto sulla testa di Anna, le era scivolato giù su un occhio. Rimani al caldo, pensa, ridacchiando quasi, si congela sempre da queste parti.

Ecco perché sono migliori le renne. Questo, proprio per questo.

Persone urlano. Vuole dir loro di star zitte, ma si accontenta di risistemarle il cappello, infilandole delle ciocche di capelli dietro le orecchie, contandole le lentiggini sul naso.

No. No, Anna è meglio delle renne. Ti prego svegliati, ti prego. Ti prego, Non posso più vivere da solo. Non voglio più vivere da solo.

Sente, lontano, il suono di una porta che si apre. Passi leggeri. A malapena se ne rende conto, perché è troppo occupato a rivivere la scena in mente—ti seguo a ruota, scivola, cade, salta—raggiungila—raggiungila—no—corri, Sven—

E i principi l’avevano trovata, cullata dalla neve fresca, come se stesse dormendo. Dormendo. L’avevano chiamato, e lui aveva voluto provare a rianimarla, nel modo in cui sapeva che, a volte, si poteva far ripartire un cuore, perché non respirava, ma era anche egoista, incredibilmente egoista, e non voleva che l’ultima volta in cui avesse toccato le sue labbra, esse fossero state—quello—pelle fredda, morta, non più Anna ma un corpo. Un corpo che assomigliava ad Anna.

Ti amo.

Passi leggeri. Non si accorge della temperatura che cala in picchiata nella stanza, ma lo fa, e di parecchio. Sulla soglia del castello riesce a sentire il calore, dietro di sé, dell’aria estiva, e il gelo dell’aria avanti a sé, ma registra la differenza solo a malapena. Sta ancora contando le lentiggini su un volto pallido.

"Cosa è successo?"

Alza lo sguardo. Ci mette un po’, ma ecco la regina Elsa. Ha l’aria smunta, sotto gli occhi le ombre sbiadite della mancanza di sonno. Ha la schiena rigida come una tavola, pronta a spezzarsi in due. La guarda. Sa che deve dirlo, ma sa anche che nel momento in cui l’avesse detto, sarebbe diventato reale, quindi non vuole.

Ma deve.

"Anna." E’ tutto quello che riesce a dire. Gli si spezza la voce, solo un po’, a dire il suo nome.

Elsa lo guarda sbattendo le palpebre. Conta. Uno, due, tre. Poi alza il mento definito, affilato come una lama di ghiaccio, e guarda dietro di lui.

Accade così in fretta da meravigliarlo, da farlo tremare—

Tutta l’umidità nell’aria svanisce, lasciando al suo posto la sensazione della pelle scorticata, delle sue labbra; attorno a lui, essa si solidifica in un centinaio—no un migliaio di piccoli cristalli seghettati, le punte abbastanza affilate da trafiggere, e sono tutte puntate nella stessa direzione. Pensa, per un mezzo secondo, che siano dirette verso di lui, che questo attacco violento sia diretto a lui, e si lecca le labbra e si piega sul corpo tra le proprie braccia, come per proteggerlo, ma poi si accorge che sono puntate al di sopra della sua spalla. Dirette ai principi delle Isole del Sud.

"Datemi un solo motivo," Elsa dice. Non l’ha mai sentita parlare a quel modo. Gelida, rara furia. "Datemi un solo motivo—"

"Anna," Kristoff gracchia, sentendo il suo corpo premuto contro il proprio. Immagina di sentire un lieve respiro, lieve—ma quando le preme l’orecchio sul petto e conta uno, due, tre, quattro, cinque—sei, sette—otto—

Niente.

Immagina.

Le frecce di ghiaccio vacillano, poi si sciolgono a mezz’aria, una pioggia d’acqua gelata che li bagna. "E’ scivolata," riesce a dire, asciugando una goccia sul viso di Anna, una che sembra una lacrima. "Colpa mia. Non sono stato attento. Mia. Colpa mia."

"Fuori," Elsa ordina. "Fuori tutti, immediatamente!"

Non sa se obbediscono. Presume di sì, perché le porte dietro di lui si richiudono. Elsa fa un passo, due, e poi eccola inginocchiarsi di fronte a lui, le braccia tese. Non vuole mollare la presa su Anna, ma non è più Anna. Non lo è. Non è così?

Elsa sta piangendo, ma in silenzio. Si sente appena. Tranne per le parole—"Non colpa tua. Mia."

Guarda sua sorella prenderla tra le braccia e cullarla e stringere il corpo senza vita, premendo la propria fronte contro la sua, facendo scivolare un po’ via il cappello. E non lo sopporta. Non ci riesce. Si alza di scatto, automaticamente, e scappa attraversando le porte che danno sul cortile. Il sole è troppo luminoso, troppo accecante, anche se ormai basso nel cielo. La gente è silenziosa, e incerta, e ha lo sguardo fisso. Troppe persone. Ringhia, "Ma non ce l’avete un lavoro?" E cammina. E continua a camminare. Verso le stalle. Sente Sven trotterellare piano accanto a lui. Apre la porta. Entra.

Grida.

La testa tra le mani.

Silenzio.


Si sente lo scalpiccio di Olaf che scende le scale. "C’è qualche problema?" chiede ad alta voce. "Ho sentito un sacco di gente—oh, ehi, Anna è tornata!" E scivola davanti alle armature. "Ehi, Anna, com’era—Anna?"

Elsa stringe a sé la sorella, una mano corre frenetica sul suo petto, e non riesce a fermare il singhiozzo continuo che esce dal proprio. Fronte contro fronte. Svegliati, Anna. E sussurra, come una preghiera, mentre Olaf si ferma accanto a lei con un’espressione sconcertata, sussurra—

"…vogliamo fare un pupazzo di neve?"

È tutto quello che riesce a dire. E non è abbastanza.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15

 

 

"Padre nostro, che sei nei Cieli, sia santificato il tuo nome…"

Due grosse pietre, dal colore della mica, i bordi come giada scheggiata, usurate dalle intemperie di tre anni e da una tempesta di neve fuori norma nel bel mezzo dell’estate, danno sul fiordo. Adesso, eretta accanto a esse—tagliata in fretta e in maniera approssimativa da un pezzo di marmo nero—c’è una pietra più piccola, l’incredulità impressa in ogni linea incisa su di essa.

Il sole splende.

"Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra."

La regina è in piedi in mezzo alla famiglia di pietre tombali, la testa alta, lo sguardo fisso. Sembra una banshee, uno spettro—una visione di bellezza e morte, vestita di nero, che stringe le mani innanzi a sé. Sono coperte da guanti. Accanto a lei c’è il prete, e la sua voce si incrina. Si ricaccia indietro gli occhiali sul naso.

"Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori."

Davanti alla folla riunita ci sono due principi, i capelli il colore castano ramato delle foglie morte. Dei fratelli più piccoli. Del sangue. Osservano la scena, inespressivi, dall’alto del loro naso affilato, e non pensano al fatto che anche loro, un giorno, sarebbero stati sotto terra.

"E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male."

In fondo alla folla riunita c’è un uomo; accanto a lui, la sua renna. Indossa abita invernali—una tunica esterna pesante, un cappuccio, guanti. Stringe la nuca della creatura, come se, a lasciarla, avesse potuto essere trascinato via dal vento. Ha gli occhi secchi e inespressivi. Non ha pianto.

Non lo farà.

"Tuo è il regno—"

La regina riesce a sentire la pressione delle unghie anche attraverso i guanti.

"—e la potenza—"

I principi si chiedono che sapore abbia il dolore.

"—e la gloria—"

L’uomo sogna un mondo senza ghiaccio.

"—nei secoli dei secoli. Affidiamo ora il suo corpo alla terra—terra alla terra; cenere alla cenere; polvere alla polvere: e confidiamo nella resurrezione alla vita eterna. Amen."

Le pietre sentono—si chiedono—sognano—nulla.

Sono solo pietre, dopotutto.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


 

Capitolo 16

 

 

n/t: Eccoci arrivati nel bel mezzo della storia.  Ringrazio chi recensisce e spende due parole anche per un appunto, o una critica. J Vorrei chiarire qualcosa sullo stile, visto che più persone mi hanno chiesto spiegazioni sul modo contorto in cui a volte sembra essere tradotta questa fanfiction: è vero, la formattazione e lo stile di scrittura possono risultare un po’ confusionari, nel momento in cui vengono tradotti. Nei punti più oscuri, infatti, ho cercato di sciogliere i concetti senza cambiare troppo l’originale. Ma generalmente, trovo che una delle particolarità di questa fanfiction sia proprio il modo in cui è scritta: il continuo scambio tra pensieri e descrizioni – soprattuttocosa che si verifica, ad esempio, con il personaggio di Anna: può risultare confusionario- ma non è una delle qualità principali del personaggio del film?
Comunque, la mia regola principale è: attenersi all’originale il più possibile per far passare la “voce dell’autore”.
Per altre domande, sono sempre qui. Adesso, scusate la digressione, e buona lettura.


"Qualcuno ha visto Britta?"

"Non da—beh, tre giorni almeno. Prima del funerale, sicuramente."

"Mi pare di averla sentita dire che aveva nuove prospettive a cui guardare."

"Nuove prospettive? Che razza di idiota—nuove prospettive? E che prospettive migliori di quella di lavorare per la Regina di Arendelle ci sono, hm?"

"Parecchie, se lo vuoi sapere. La Regina porta sfortuna. L’inverno prima, e ora la principessa—ohi!"

"Chiudi immediatamente la bocca, o ti colpisco anche l’altra mano, capito? Lavora quell’impasto, e smettila di spettegolare, a meno che non voglia ritrovarti tu alla ricerca di nuove prospettive. Dirò a Kai della scomparsa di Britta. Dio solo sa quanti pesi la Regina abbia già sulle spalle."


"Ci dispiace dover partire in—circostanze così poco auspicabili, Regina Elsa." Uno dei gemelli le dice. A malapena lo sente. "La cerimonia è stata davvero bella, testamento adeguato alla memoria della principessa."

No, pensa lei, fiacca, gli occhi concentrati su un filo scucito dell’orlo del guanto nero—non indossava quel paio da tre anni, da quando li aveva usati in una situazione simile—no, Anna l’avrebbe detestata. Avrebbe preferito una banda, forse; dei canti. Qualcosa di rumoroso. Una celebrazione, non un funerale.

Uno dei gemelli tossisce, a disagio. L’altro gemello. Si strattona il colletto. Qualcosa in lei urla sospetto! Ma per la maggior parte non le interessa per niente. Chiede lui, "E’ riuscita a seppellire il corpo?"

Distoglie lo sguardo, per fissarlo sull’erba annerita tra le pietre del cortile. Un’aspra gelata era calata, all’ improvviso, inaspettatamente, e le dispiaceva—ma in realtà no. Non sul serio. E, alla fine, non aveva impedito a Kai di dirle, con gentilezza, Abbiamo bisogno della cerimonia, vostra maestà. Alla gente serve un senso di chiusura, e non si può più aspettare.

"No," afferma, lentamente. Le sue parole sono strane, e distanti, e in alcun modo collegate a lei. Pensa al corpo, che giace pacifico in una delle stanze del castello. Avrebbero voluto drappeggiare un velo nero sulla porta della stanza di Anna, e lei li aveva fermati. "No, non l’abbiamo fatto. Ancora qualche giorno, forse."

"Beh," l’altro gemello, il primo gemello, pensa, pensa, "So di parlare per mio fratello e me quando dico che non ci sembra—appropriato, lasciarla qui da sola con tale responsabilità dopo—"

"Partirete adesso. Immediatamente," Elsa esclama, alzando lo sguardo di botto. Li guarda negli occhi, la schiena fragile rigida e dritta come vecchio vetro, le vertebre che sporgono come schegge. Non ha nemmeno la forza di scusarsi per le proprie parole. "So che al re premeva promuovere la pace tra Arendelle e le Isole del Sud, ma in tali circostanze non farò di queste promesse. Posso solo chiedervi di rispettare la mia volontà e di informare il vostro re che ogni missiva verrà ignorata per tutta la durata del mio lutto."

E’ il discorso più lungo che fa da tre giorni, quattro, tanto che la rende esausta, completamente. Conclude con un piccolo cenno del capo. Non riusciva a ricordare quanto fossero strette le relazioni commerciali con le Isole del Sud; non riesce a costringersi a preoccuparsene. I fratelli la esaminano, uno con l’aria scaltra, l’altro, arrabbiato. Il cortile è ancora bardato di nero.

"Beh," afferma uno di loro alla fine, dopo una lunga, orribile pausa, "farebbe meglio a dire a nostro fratello di riprendere la via di casa, allora, se non desidera ulteriori contatti con gente delle Isole del Sud."

Elsa rimane inespressiva; non è difficile.

"Non l’avete visto?"

"Nemmeno l’ombra, da quando ci siamo ritrovati. Strano, come sia svanito nel nulla, proprio prima del funerale."

Elsa non lo corregge; è una strana affermazione, come se poi Albert avesse potuto essere la causa della caduta di Anna, visto che nello stesso momento era stato disteso mezzo morto sul tavolo della sala da pranzo; visto che, da allora, a malapena era stato abbastanza lucido da pronunciare la parola acqua.

"Non vi ha accennato niente riguardo all’ andarsene?"

"Per niente. Ma alla fine, come ho detto: i sentimenti di mio fratello sono così volubili. Forse semplicemente—alla fine si è annoiato."

"Forse, infatti." Elsa picchietta una per una tutte le dita contro il pollice. Conta fino a cinque. Non vuole che lo sappiano, ha mantenuto Albert un segreto per tutto quel tempo. "Se lo vedrò, lo informerò della vostra partenza. Vi auguro un buon ritorno a casa."

I gemelli si inchinano, perfetti gentiluomini, ma li vede solo con la coda dell’occhio—si è già voltata, e sale su per le scale, di ritorno al castello.


"Kai!"

"Sì, che c’è, Gunda? Sono molto occupato in questo momento—"

"Non tanto occupato da ignorate una cosa del genere, non lo sei eccome! E’ che parlavo con alcune delle mi’ aiutanti in cucina, e hanno detto che ormai Britta son tre giorni che non si vede."

"Britta? Davvero?"

"Sì. Ha detto che era in cerca di 'nuove prospettive.'"

"E’ molto—strano."

"Ho sempre pensato che fosse una cosina volubile; non mi sorprenderei se si fosse messa in testa di fuggire con uno stalliere. Ma dobbiamo tenere sotto controllo gli spostamenti del personale, quindi—"

"Sì, sì; inizierò le ricerche immediatamente. Grazie, Gunda."

"Come ho sempre detto—cancelli aperti uguale più problemi—"

"Grazie, Gunda. Ora, non hai un pranzo da preparare?"

"E che importa, eh? Come se qualcuno si degnasse di mangiare, da un paio di giorni."


Kristoff osserva ogni singola persona che se ne va e cerca di capire che relazione aveva con lei. Alcuni, come la regina, sono facili; altri, come l'alta donna pelle e ossa che piange a dirotto e tira su col naso e si asciuga il volto e in generale si rende ridicola, erano più difficili. Non ne ha idea, osservandola scendere a testa china giù per la collina. Non ne ha proprio idea.

Sven è premuto stretto nello spazio tra la sua ascella e il fianco, lo sorregge, e gli mette decisamente troppo caldo. Tira su col naso, pulendoselo col braccio libero, e osserva il prete andarsene; il vecchio è l’ultimo a lasciare il posto, ridicolo con quel cappello a punta e gli occhialetti rotondi, mentre consegna il suo corpo alla terra—

E’ solo.

Sven gli dà un colpetto sulla guancia. Kristoff si acciglia di più. Non cambiava espressione da tre, quattro giorni—forse di più, non ricordava. Osserva la sommità arrotondata della collina, l'erba di una sfumatura morta di marrone che scricchiola sotto i suoi piedi. Il gelo di Elsa. Significava che non potevano seppellire il corpo. Pensa che l'abbia fatto di proposito, e si chiede se l'avrebbe fatto anche lui al suo posto.

Con lenti passi determinati si avvicina alla famiglia di pietre tombali. A due, tre metri di distanza, stacca il braccio dalle corna di Sven ed esclama, lentamente, la voce roca per la rabbia e il silenzio prolungato, "Tutto ok, amico."

Sven sbruffa triste e si accoccola in attesa.

Kristoff avanza lentamente, metodicamente, un piede davanti all’altro. Si toglie il berretto e lo torce tra le mani tanto per avere qualcosa da fare. Non ci sono nient’altro che il vento e i gabbiani a tenergli compagnia, il sole che splende sulle acque blu del fiordo, vuoto e tranquillo.

Riesce a raggiungere la roccia. Si sfila il guanto destro coi denti, esponendo le dita tozze all'aria estiva, più fresca del pelo che riveste i guanti, e le passa sulla pietra nera, avvertendo le linee e le curve delle rune che riportavano scritto il nome di lei sulla superficie. Poi, all'improvviso, si lascia cadere sul suolo secco, ruvido. Più un sedersi aggraziatamente, mente a se stesso, in fretta, sentendo una fitta su per la schiena; qualcosa per cui lei l'avrebbe preso in giro. Appoggia la testa contro la lastra di marmo e trae conforto dal fatto che il suo corpo sia lontanissimo da lì. Sven si avvicina e si accovaccia accanto a lui. Kristoff si sfila l'altro guanto, posandolo assieme all'altro—e al cappello—nel proprio grembo, prima di passare le dita tra il manto irsuto dell'amico. E' di conforto, e piacevole, ma non placa il dolore che prova in petto.

Guarda il fiordo.


"Sì, Ina?"

"Hm? Oh! Padron Kai, signore, buongiorno—Non stavo bivaccando, giuro—"

"No, no, va bene, non ti preoccupare. Ahem. Eri—una buona amica di Britta, non è così?"

"Britta? Oh, sì, suppongo. Voglio dire, Ci parlavo un po’, e veniamo dalla stessa parte della città. Voglio dire, non ci parlavo spesso, se è quello che volete sapere, signore."

"Beh, sì, lo ero. L’hai vista, di recente?"

"Oh, no. Sono tre giorni, almeno."

"Capisco. Sai chi potrebbe averci parlato per ultimo?"

"Probabilmente Sander."

"Lo stalliere?"

"Sì, signore. Culo e camicia, quelli due là."

"Grazie, Ina."


Elsa è fiera di essere riuscita a salire le scale e a raggiungere l’ingresso, acceso dal sole pomeridiano, prima di avvertire il vuoto schiacciante del proprio petto, che minaccia di consumarla; è una piccola vittoria personale, pensa, afferrandosi il colletto del vestito di velluto e appoggiandosi alla lastra piombata della finestra più vicina. Il giorno prima, non era riuscita a oltrepassare le scale, e il giorno prima ancora, la soglia della propria stanza. Si prende un momento per calmarsi, grata del fatto che l’ingresso sia deserto, i servi tutti impegnati; non grata del fatto che fosse costretta a prendersi sempre più di questi—

Momenti.

Non poteva permettersi dei—momenti.

La crisi passa, e rimane a fissare la porta della stanza della sorella. Sa che l’avrebbe trovata nello stato in cui era stata lasciata quel mattino; aspetta, scioccamente, per un momento, due, che Anna ne esca, correndo come una furia. Ma è chiusa, ed è serrata. Elsa flette le mani, distoglie a forza lo sguardo, osserva il paesaggio fuori, Arendelle che lentamente prende vita dopo le campane e la processione della cerimonia. Riluttante, incredula, ancora, che una cosa così sciocca—stupida—sia potuta accadere.

Si sfila i guanti, in fretta, all’improvviso, ricordandosi con un respiro brusco quanto li odiasse, quanto le annebbiassero i sensi e la facessero sentire in trappola. Le dita, pallide come la luna, quasi traslucide alla luce del sole, la salutano, e divora avida la sensazione della pelle nuda quasi con gelosia. Poi, mordendosi un po’ il labbro, appoggia la punta dell’unghia contro il vetro.

Con una violenza che quasi la travolge facendola finire a terra la finestra si annebbia coperta da una lastra di ghiaccio, ed Elsa sposta gli occhi spalancati da essa alle proprie dita ai guanti, prima di rinfilarseli, sopprimendo una specie di singhiozzo disperato. Si costringe a restare calma, ma il panico le attanaglia a poco a poco la gola, mentre si volta—oltre la porta della stanza di Anna—oltre la propria—diretta al corridoio dei ritratti.

I suoi genitori la fissano accusandola con lo sguardo mentre lo attraversa diretta alla biblioteca. Chiedono, muti, rigidi, chiedono—

Come hai potuto?


"Sander?"

"Sì, arrivo, imbecilli, cosa volete adesso—Padron Kai! Padron Kai, signore! Scusate, pensavo fosse—"

"Nessun problema—anche se di certo non mi sarebbe piaciuto affatto essere chi stavi aspettando."

"Nah, non è che li avrebbe uccisi—"

“Bene. Mi fa piacere saperlo. Ora, hai visto Britta di recente?"

"Brit? Non da quando abbiamo litigato, no."

"Litigato?"

"Sì, signore. Ha detto che conosceva un tipo che la portava lontano da questo posto, e che non avrebbe dovuto pulire vasi da notte mai più, e io ce l’ho detto—ho detto, quindi preferisci ‘sto tizio a me—"

"Ti ha detto chi era, Mastro Sander?"

"Hm? Oh. No, non l’ha fatto. Manco un nome. State dicendo—state dicendo che nessuno l’ha vista?"

"Non da un po’."

"Oh."

"…Beh, ragazzo mio, devi—su col morale. Di sicuro la troveremo presto."

"Sì, signore. Se posso esservi d’aiuto—"

"Ti informerò immediatamente."


Elsa fissa la scrivania.

Condoglianze—tante, troppe. E ancora, negoziati che non aveva ancora visto, lettere sigillate, note spesa—guarda fuori dalla finestra, e, quel giorno per la prima volta, sente davvero, e tanto, la mancanza dei genitori.

E c’era anche, pensa, lentamente, battendo un ritmo irregolare sul legno della scrivania, la questione dell’accoltellamento di Albert di cui occuparsi. La sua lista dei sospetti era assieme sorprendentemente corta e incredibilmente lunga; corta, perché conteneva due ipotesi, fianco a fianco. La prima, Viktor e Tomas, assieme; la seconda, qualunque cittadino di Arendelle.

Corta, ma lunga.

Elsa si tormenta il labbro. Non riusciva a concepire dei fratelli che si facessero cose del genere. Era impensabile, inimmaginabile—chi avrebbe fatto una cosa del genere a un familiare? Per quanto lo si potesse odiare—per quanto si potesse desiderare darlo in pasto ai lupi e lasciarlo a marcire

Sussulta al solo pensiero. Scuote la testa.

Ma stiamo parlando della sua famiglia.

Avverte un dolore crescente all’interno della testa.

Si strofina le tempie con le dita guantate, chiude gli occhi. Doveva occuparsi personalmente della questione, ma con Albert ancora convalescente e addormentato—e lei, che non sapeva se al suo risveglio sarebbe stato mentalmente lucido—

Credi che avrebbe potuto amarmi?

Stringe i denti. Fa quasi un verso sprezzante. Amore.

Le prudono le dita.

Il panico la invade, di nuovo, e inghiotte un respiro profondo, si alza dalla sedia e barcolla fino alla finestra. Armeggia con la chiusura, e poi la spalanca, respirando i profumi pomeridiani del mercato e del mare e di Arendelle.

Pensa che tutto sia un incubo, per forza. Stringe le mani a pugno e stringe gli occhi e pensa, forsennatamente, svegliati, svegliati, svegliati.

L’ultima volta che aveva parlato con la sorella, aveva detto mi raccomando. L’aveva spedita in mezzo alla natura selvaggia in base a un qualche piano per intimidire i principi delle Isole del Sud e aveva detto mi raccomando.

Certo, una parte sleale di lei pensa, Certo, ti fidavi di Kristoff.

Sa che è ingiusta. Quello che era successo—era stato un incidente, e lo sa, ma il pensiero affiora comunque. Si chiede, vagamente, osservando le bandiere nere che profilano il ponte e ascoltando i rumori—meno vivaci del solito—su dal mercato—si chiede Kristoff dove sia andato, dopo la cerimonia di quella mattina.

Pensa che Anna era stata la colla, e senza di lei, tutto stava cadendo a pezzi.

Con un improvviso movimento frenetico si volta, il respiro affannoso, e percorre i quattro, cinque, sei passi che la separano dalla porta. Chiude a chiave, e poi si scaglia contro l’impiallacciatura verniciata di fresco, e scivola fino a terra, abbracciandosi le ginocchia, lasciando uscire un singhiozzo profondo. Il tessuto del guanto si soleva leggermente, lasciando intravedere un sottile lembo di pelle del polso.

Oh, se solo Anna avesse potuto vederla in quel momento.


"Hai sentito?"

"Sentito cosa? E’ un’affermazione così vaga, non puoi uscirtene con—attenta! Stavi per rovesciarmi l’acqua sugli stivali!"

"Hai sentito di Britta? Padron Kai la sta cercando ovunque—sembra che sia scomparsa."

"Pfft. Non mi meraviglierei se avesse alzato i tacchi. Diceva sempre che avrebbe voluto andare a visitare i paesi lontani, e che avrebbe sposato un principe come nelle favole—"

"No, ho sentito che c’era davvero qualcuno, questa volta! Mi ha parlato di un tipo di nome Tom, che si aggirava da queste parti, e la stava corteggiando."

"Oh, povero Sander. Gli si spezzerà il cuore, quando lo verrà a sapere."

"Dovrebbe ringraziare il cielo di essersi liberato di lei."

"Non dire cose del genere."

"Dico quel che mi pare! E quindi, ringraziare il cielo!"


Kristoff osserva gli uomini che affollano le navi nel porto sotto di lui; una scivola via dal molo, spiegando i propri colori—una specie di uccello, levato in volo dietro uno stemma indecifrabile. Il suo avanzare fuori dal porto è lento e ipnotico, scomparendo brevemente dalla vista quando passa sotto al colle su cui lui si trova, ormai in mare aperto. Non ha mai avvertito il canto di sirena che possiede l’oceano; erano le montagne che tenevano davvero stretto il suo cuore. Eppure, osserva la nave finchè non si vede più, e poi Sven dice, "Dovremmo tornare al castello, e vedere come sta la Regina Elsa."

Kristoff risponde, senza sbattere le palpebre, "Non torneremo, Sven.”

"Che vuoi dire con non torneremo?

"Voglio dire, che senso ha! Che senso ha, perché diavolo dovrei tornare laggiù, huh? Fin da quando mi sono fatto coinvolgere in questo stupido casino, non ho incontrato altro che guai e adesso davvero BASTA." Ha l’affanno, e tira il pelo di Sven, ma la renna non emette un lamento, si limita a guardarlo addolorato e scuote la testa. Kristoff lo lascia andare, in fretta, e si scusa con una pacca, imbarazzato, mentre cerca di calmarsi. "Era più facile," continua, scontroso, accovacciandosi per tirarsi su, infilandosi i guanti, "quando eravamo solo io e te."

Vuole toccare la pietra un’ultima volta, ma una pietra è solo una pietra, e non lo fa. Invece arranca lentamente sull’erba morta. Si ferma in cima alla collina, voltandosi verso la sagoma abbandonata della renna.

"Andiamo, amico."


Cala la notte.

Un uomo cavalca una renna, sulle montagne.

Una Regina tiene la porta serrata.

Il sorgere del sole non cambia le cose.


Albert si sveglia.

Per un lungo, terrificante momento, percorre la stanza in cui si trova con gli occhi spalancati, perché non si ricorda minimamente come ci sia arrivato—o dove fosse persino il luogo in cui si trovava—o—beh, le lenzuola erano lisce, e il letto morbido, ma non era questo il punto—

C’è una guardia in piedi accanto alla porta, che sonnecchia con la testa appoggiata al muro accanto a essa.

"Salve," Albert gracchia, lentamente, tirandosi di nascosto le coperte fino al mento, sia per pudore che come debole protezione. La guardia sobbalza, lo nota, si acciglia; la mascella si muove come quando si sta per sputare. Tutto sommato, tipica reazione; Albert, abituato, non si sconvolge.

La guardia grugnisce. "Sera."

Albert lo guarda, alzando un sopracciglio, dall’altra parte del copriletto, blu scuro come il baldacchino, e ornata da grandi strisce di motivi intricati, rombi e fiori, la parte inferiore dei muri, nello stile che stava iniziando ad associare esclusivamente ad Arendelle; grazioso, eppure—incredibilmente soffocante a volte—

La mente corre, un po’ fiacca, mentre cerca di riunire le immagini sconnesse che vagano nella vastità dei suoi pensieri incoerenti—gli occhi di Giovanna D’Arco—la fitta acuta di una lama che si torceva, due lame—una fialetta—i gemelli che dicono di doversi occupare della principessa—

I gemelli che dicono di doversi occupare della principessa.

Chiede, "Quanto tempo sono stato addormentato?"

"Quasi cinque giorni."

Dannazione, troppo—troppo tempo—"Okay. Va bene. E la—la Regina Elsa per caso è passata di qui?"

Ma la guardia si chiude a riccio, e non risponde. Albert pensa che quell’uomo sia stato messo lì non tanto per assicurarsi che avesse tutto quello che gli serviva, quanto per assicurarsi che stesse . Si sforza di tirarsi su a sedere, che sia dannata la copertura delle lenzuola, e mentre lo fa avverte una profonda, acuta fitta lungo tutto lo stomaco. Si ferma, sentendo il sapore di terra—ma non spiacevolmente—in fondo alla gola. La pressione delle mani contro il materasso gli fa tremare le braccia. "Ho bisogno di parlare con la Regina."

La guardia non risponde.

Albert si tira su aiutandosi con la testata del letto e si strofina il viso con le mani. Guarda male quelle traditrici delle sue braccia, e pensa che dovrebbe esserci già abituato. A non essere tenuto tanto in considerazione. Si soffia via una ciocca di capelli ricci che gli scendeva sulla fronte e pensa, che sul piatto delle minacce, le sue proverbiali quotazioni fossero molto basse—il che andava—andava bene, era normale, se non che, sapeva che sarebbe successo qualcosa alla principessa, e doveva avvertire la Regina—doveva avvertire Elsa—

Si lascia ricadere le mani in grembo, e si chiede perché siano giunti a quel punto, e poi pensa che è Alfons il perché.

Gli occhi scattano di nuovo verso la guardia, ma l’uomo non sonnecchia più. Albert si riguarda di nuovo le dita, stendendole tutte e dieci, poi stringe le mani a pugno. Di chi si poteva fidare? Inizia a contare, un dito per ogni nome.

Lukas. Marcel. Stefan. Josef. Rupert. Fredrik.

Poi—

Chi è che li avrebbe effettivamente aiutati?

Marcel, Josef, Rupert, e Fredrik erano via a combattere. Abbassa quattro dita. Stefan non si sarebbe sporcato le mani. Lukas l’avrebbe fatto solo se pensava che la cosa gli sarebbe tornata utile, alla lunga, quindi—forse?

Albert rimane con un solo dito ricurvo e fa una smorfia.

Beh, pensa, ostinato, guardando fuori dalla finestra, mi occuperò di quell’ostacolo quando sarà giunta l’ora—inizia ad architettare un piano, che implica sgattaiolare fuori dalla finestra, arrampicarsi sul tetto, scivolare giù nei pressi della prima finestra aperta, rientrare nel castello, e correre in giro finchè trovasse la Regina.

Era un piano molto confuso, e che dipendeva da un sacco di variabili—e cioè, la conoscenza che possedeva della pianta del castello (nessuna); lo stato di salute (più o meno al settantotto percento, si direbbe); e l’energia (correntemente a quota zero).

Tutto considerato, un piano orribile.

Albert guarda di lato, e afferma, disinvolto, “Mi dispiace tanto."

La guardia sembra confusa.

Una vita di lezioni delle Isole del Sud lo spingono a fare un sorriso mesto.

Bene.


"Ho sentito che stai cercando Britta?"

"Gerda? Dovresti essere a letto, non ti sei ripresa abbastanza da andare in giro—"

"Il lutto non impedisce alla terra di girare, Kai. Lo sai bene quanto me. Hai scoperto qualcosa?"

"Ancora no, tranne per il fatto che c’è la possibilità che abbia detto a qualcuno di voler lasciare l’impiego al castello."

"Bene, mi metterò all’opera."

"Padron Kai!"

"Oh, cosa c’è ora?"

"Mi dispiace interrompervi, signore, ma il principe—è scappato."

"Cosa?!"


La vista di Elsa si annebbia, le lettere della pagina avanti a lei che si sfocano in un mare vorticoso di inchiostro nero privo di significato. Si ferma, inspirando brusca dal naso e appoggiandosi allo schienale duro della sedia. Si pianta un gomito nel fianco, un dolore fiacco, fioco, che a malapena la tiene sveglia. Vorrebbe non essere rimasta alzata tutta la notte a leggere Tristano e Isotta.

Chiude gli occhi—

E un minuto dopo viene svegliata con un sussulto da un rapido bussare continuo contro la porta bianca, seguito, subito, da, "Regina Elsa? Regina Elsa, sono io—voglio dire, Albert, sono—per favore, posso entrare?" Sembra avere il fiato corto. Prova con la maniglia, ma lei non l’aveva ancora aperta.

Deve essere un sogno, quindi ride, fragile, incredula. Vorrebbe dire, Non faccio entrare le persone.

Pausa. Poi, soffocato, "Okay, allora devo solo—"

Elsa scuote la testa, pizzicandosi l’interno del braccio per svegliarsi, solo che il sogno non svanisce in nebbiolina; è ancora in biblioteca, tra una pila di libri mezzi aperti e lettere mezze lette, la finestra aperta, i suoni della città portati dal vento più allegri, molto più allegri, del giorno prima, un fuoco inesistente nel caminetto. Sbatte le palpebre e spalanca gli occhi, osservando la porta, giusto in tempo per vederla tremare sotto il peso di un impatto dall’altra parte, una volta, due—

E poi si spalanca di botto, serratura e maniglia rotta, e sbatte contro il muro. Una nave, in una bottiglia di vetro sulla mensola, cade a terra e si frantuma, spezzandosi, in una cascata di vetro. Elsa rimane a bocca aperta, troppo stanca per essere altro che scioccata. Albert è in piedi sulla soglia, ha l’aria indispettita e si massaggia la spalla. È molto pallido, dalla tunica larga che usava sotto la camicia si intravede l’osso della clavicola; un velo di sudore gli imperla la fronte. Ritorna in sé immediatamente. "Ma sei—ma sei pazzo? Avresti potuto farti male!"

"La porta era chiusa—"

"Certo che era chiusa!" Poi scuote la testa, aggrottando le sopracciglia. "Quando ti sei—"

"C’è qualcosa di marcio in tutto questo," e mentre lo osserva lui fa un respiro profondo, vacilla, e poi crolla appoggiandosi alla cornice della porta. "I miei fratelli stanno architettando qualcosa, e sicuramente ha a che fare con te, e tua sorella—"

Elsa sbatte le palpebre. Si lecca le labbra. "Mia sorella è morta."

Albert aggrotta immediatamente le ciglia, una smorfia marcata. Apre la bocca, la chiude. La apre di nuovo. Elsa continua, perché deve, "Papi ti ha ordinato di restare a letto almeno per una settimana, e penso davvero che ti stia spingendo troppo oltre—"

"Hai controllato il corpo?"

Si interrompe, qualcosa di bollente che si muove nel fondo dello stomaco. "Scusami?"

"Hai controllato il corpo?"

"Smettila. Ti prego—basta, smettila di parlare."

"Come è morta?"

"Albert."

"Come?"

"Scivolata." Elsa si stringe le mani in grembo, fastidio e rabbia che iniziando a risalirle in gola. "In un dirupo."

"E ci hai creduto?" Albert la deride, sbuffando. "Sembra più qualcosa di cui io sarei capace quando sono ancora sobrio—"

"Non sono dell’umore per le tue battute non divertenti, Albert!"

"Non è—per una volta non era una battuta—i miei fratelli—"

"Se ne sono andati. E adesso che l’hanno fatto, vorrei lasciarmi tutto alle spalle."

"Il che significa che non vuoi pensarci più."

"Ma come osi."

"Come oso io? Che, credi che chiuderti dietro una porta risolva le cose? Cosa cerchi di concludere facendo così?"

Elsa si alza in piedi, così veloce che la sedia cade a terra, ma la temperatura nella stanza rimane la stessa; ed è soffocata, e ha caldo, sotto alla stoffa del vestito, sotto ai guanti. Albert è appoggiato lì, il volto pallido e corrucciato e più serio di quanto lo abbia mai visto, appoggiato lì contro la porta, e sa che dovrebbe chiedergli chi è stato a ferirti, ma ha paura della risposta. I capelli gli ricadono flosci di lato, gli occhi che guardano il suo volto, i guanti, i pugni stretti, i guanti, il suo volto—e sono gli occhi di Albert. Gli occhi di Albert, spalancati e stanchi.

"Hai," inizia di nuovo, con molta cautela, la mano stretta contro la cornice della porta, per tenersi in piedi, e poi si sente, in fondo al corridoio, lo scalpiccio di passi agitati, "controllato il corpo?"

Scuote la testa quasi impercettibilmente.

La prima guardia svolta l’angolo; e riesce a distinguerne altre due, alle spalle di Albert. Lui non si volta nemmeno. Si limita a guardarla e dice, cupo, "C’è la possibilità che abbia aggredito la sentinella assegnatami con un attizzatoio."

Si raddrizza, debolmente, tanto pallido che le lentiggini staccano sul volto a chiazze scure, e non oppone resistenza quando la prima guardia gli colpisce la spalla con violenza e gli stringe il braccio. Kai è lì, da qualche parte in mezzo alla ressa, che chiede, ad alta voce, " State bene, Vostra maestà?"

Gli occhi di Elsa sono incollati a quelli di Albert. "Non ti sto chiedendo di fidarti di me," esclama lui, a malapena alzando la voce oltre il rumore della lotta, ma nella stanza è quello che parla a voce più alta. "Ti sto solo chiedendo di controllare il corpo”.

C’è qualcosa di più orribile accesa nel suo petto, adesso, qualcosa che lui le offre, qualcosa che non vuole prendere in considerazione per timore che non sia vera.

"Fermi," esclama, stridula.

Kai, facendosi strada a forza nella biblioteca per assicurarsi che stia bene, con l’aria sfatta, la cravatta fuori posto, sobbalza, sorpreso. "Ma Vostra maestà, ha causato alla sua guardia una commozione cerebrale tentando di arrivare a voi—"

"Ho ordinato a una guardia di restare nelle sue stanze affinché fosse a sua disposizione, al suo risveglio; non per tenerlo imprigionato, quando l’avesse fatto."

Kai comincia, "Vostra maestà, mi sono preso la libertà di aggiungere alcune misure di sicurezza in più—"

"Liberatelo."

C’è qualcosa nella sua voce. Le guardie obbediscono. Albert sussulta, ma cerca di nasconderlo, soffocando col gomito la tosse forte. Elsa gli si avvicina, quella terribile fiamma di candela accesa nel petto, che brucia e cancella la rabbia, il fastidio, la confusione, rimpiazza tutto con la speranza

Si ferma, abbastanza vicina da contargli le lentiggini; da guardarlo negli occhi. Sussurra, piano, le mai strette davanti a sé, "Ma io lo faccio."

Lui alza lo sguardo, da sotto i capelli ricci.

"Mi fido di te."


"Che cosa si suppone che debba farmene di tutti questi pasti che nessuno mangia, hm?"

"Signora Gunda?"

"Sì, sì, che c’è? Non vedi che sono impegnata a stendere l’impasto di un pasticcio che di certo nessuno toccherà?"

"Davvero non avere notizie di Britta?"

"…No, cara. Non ancora. Faremmo meglio a occuparci della carne per la cena, eh?"

"Sì, signora."


Le pesanti tende oscurano le finestre, e mentre Elsa apre la porta gli occhi ci mettono un po’ ad abituarsi. C’è un letto, un piccolo tavolino con lo specchio, un caminetto nero, spoglio. Nient’altro che una stanza per gli ospiti, in disuso dal giorno dell’incoronazione; e solo perché Kai sapeva che non avrebbe potuto sopportare avere il corpo a solo una camera di distanza—

Fa un passo, ed entra. Albert sta in piedi, malfermo, appena dietro, e gli offre il braccio senza dire una parola. Lui lo prende, appoggiandosi a lei. Fa un passo avanti, e immediatamente si sente l’odore della morte— il tanfo malsano, stucchevole, marcio. Tira in dentro un respiro, improvvisamente. Alza gli occhi.

C’è una sagoma sul letto, avvolta stretta stretta in lenzuolo funebre bianco. Immobile. Si ferma. Nel corridoio luminoso dietro di loro Kai sta in piedi, confuso, insicuro, e la mano di Albert è calda e umidiccia, anche attraverso il velluto del vestito.


Ti ho sepolta ieri,
Elsa dice al cadavere, silenziosamente. Ti ho sepolta, dice a sé stessa per soffocare la speranza, ma mentre avanza, un passo, due, tre, Albert al suo fianco, non riesce a trattenersi, non—

Raggiunge il letto, e fissa il lenzuolo. Per un lungo momento non si muove. Albert chiede, "Vuoi —vuoi che lo—"

"No." Elsa allunga il braccio libero e solleva il lenzuolo dal volto del cadavere.

Quasi cade all’indietro; non sa più chi regge chi—se è Albert che la tiene, o è lei che tiene lui—e che cos’è, che le scende giù per le guance—

Sente il proprio petto esplodere.

Sente, come attraverso una galleria, i passi veloci di Kai, poi le mani dell’uomo si muovono veloci attorno al cadavere sul letto, e un attimo dopo la guarda con gli occhi spalancati. "Non capisco."

"La conosci?" Elsa sussurra.

"E’ Britta," Kai risponde, sconvolto. "Ma, allora—la principessa?"

Ed è Albert che lo dice.

"La principessa è ancora viva."


La prima cosa che nota è che ha la bocca come se avesse ingoiato un’intera secchiata di feltro misto al vino di Elsa non annacquato neanche un po’, e forse anche del fieno, il tipo di fieno sporco che a volte rimaneva incastrato tra gli zoccoli di Sven—

La seconda cosa che nota è che, ovunque sia quel posto, rolla piano.

Gli occhi di Anna si spalancano.

Sta fissando la vasta distesa di tavole di legno scuro e grezzo, in posizione fetale. Si rimette distesa sulla schiena, piano, e il piccolo spostamento fa vorticare il mondo. Chiude gli occhi, si copre la bocca con una mano, e aspetta che passi la nausea.

Quando riesce a guardare le cose senza aver la sensazione di stare per vomitarsi sugli stivali, apre di nuovo gli occhi. E’ in una cella piccola, tre mura di  legno e una finestra circolare che perde acqua lungo tutto il muro. Nient’altro che due secchi e una brandina di stoffa. Rigira la testa. Sbarre di metallo, a distanza regolare, sono la porta, e le guarda arrabbiata a bocca aperta, perché non può essere—era—

Era in prigione?

Ma se non aveva fatto niente!

Si siede, e deve fare respiri profondi e regolari attraverso le narici dilatate per tenere sotto controllo il voltastomaco. Le braccia sembrano essere spaghi senza vita e le gambe anche peggio e non riesce a sbarazzarsi di quello stupido sapore di feltro, e dovunque si trovasse, non era giusto—se avesse mai dovuto essere imprigionata, avrebbe voluto che fosse per qualcosa di figo tipo rubare ai ricchi per dare ai poveri o cose del genere, ma tutto quello che aveva fatto era stato—

Tutto quello che aveva fatto era stato—

Si ricorda il volto di Kristoff, orripilato e spaventato e urlante al di sopra di lei, prima di essere inghiottita dalla nebbia e poi addormentarsi.

A mezz’aria.

Ok, quindi tutto quello che aveva fatto era scivolare in un dirupo e addormentarsi a mezz’aria, quindi come ci era finita su una—su un—

Si alza e barcolla, coprendosi di nuovo la bocca e ingoiando un’altra ondata di nausea. Inciampa vicino alla finestra. Le dita, quando si allunga, a malapena toccano le sbarre; salta, le afferra, e poi prova a issarsi, per sbirciare fuori, ma le sue braccia, sottili come spaghi, non ci riescono molto bene, e tutto quello che ottiene in cambio dei suoi sforzi è una bella ondata di acqua salata dritta in faccia mentre il posto in cui si trova, qualunque esso sia, si inclina pericolosamente di lato—

Oh.

Resta appesa lì, alla finestra, le dita che appena toccano terra, e ha voglia di urlare.

Ohcieloohcieloohcielo—

"Nave, sono su—"

"Bene bene. Guarda un po’ chi si è svegliata."

Rantola, si volta, cade. Viktor—no, Tomas, più minuto, è Tomas—sta lì in piedi, proprio davanti alle sbarre. Si alza, spolverandosi la gonna e cercando di darsi un contegno mentre avanza a grandi passi verso di lui. "Come vi permettete, signore! Fate tornare indietro questa nave, adesso! Immediatamente!"

E poi sente, "Ingenua come al solito, vedo."

Il cuore le sprofonda fino ai piedi. Tomas fa, "Moriva dalla voglia di vederti."

Si volta lentamente, lentamente, così lentamente, ti prego, no, ti prego, no, ti prego, no—

Hans sorride.

"Ciao, Anna."

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***



"Ma sei certo che sia sicuro permettergli di andare sottocoperta?" Viktor si pulisce i denti con la punta del proprio pugnale, guardando in tralice il fratello.

"No," Niels risponde. Sembra vagamente a disagio, come se il leggero rollare non andasse a genio al suo stomaco; si stringe forte al petto un pesante tomo nero. "Ma non è la mia nave, quindi non m’importa granché"

"Intendo," Viktor, accigliato, si toglie il pugnale di bocca—un po’ di sangue secco era incrostato in punta—"non avevi detto che si è fatto strada nel castello bruciando i muri, quasi?"

Niels grugnisce, vago.

"Intendo," Viktor continua, strofinando accanitamente la lama contro la manica della tunica per pulirla, e nello stesso tempo picchiettando il parapetto di legno con le nocche, "fuoco e legno non vanno d’accordo, vero?"

Niels gli lancia un’occhiata fulminante. Di norma, Viktor era abbastanza saggio da non contrariarlo; ma qualcosa del mare aperto rendeva Niels meno uno stregone minaccioso e più simile a un gatto randagio malaticcio. "Oh cielo," suo fratello abbaia, "Ma sei proprio intelligente! Dovremmo stare tutti in guardia quando ci sei."

Il mare luccica sotto al sole del pomeriggio, il blu profondo che ha quando l’autunno si avvicina; Viktor sputa oltre il parapetto, per buona fortuna e tanto per essere sicuri. "Beh?" scatta.

"Beh, cosa?" Niels borbotta cupo a denti stretti. Ha un colorito molto verde.

"Beh, non hai intenzione di richiamarlo su?"

"Non sono l’addestratore di Hans. Se vuoi che risponda quando lo si chiami, faresti meglio ad andare a prendere il suo padrone."

Viktor guarda alle spalle del fratello, dall’altra parte del ponte in direzione della nave ancorata a cento metri di distanza; un vascello molto più grande, con la poppa più ampia, bordato d’oro, la polena d’oro massiccio. Quando allunga il collo oltre e attorno a sé non c’è nient’altro che oceano blu, a perdita d’occhio. Uno sprazzo di nuvole temporalesche all’orizzonte, lontano e sfocato, promette pioggia, ma pensa che il cattivo tempo non avrebbe colpito affatto la loro nave.

"Forse lo farò," dice, scrocchiando il collo.

Sanno tutti e due che è una minaccia senza sostanza.


Il volto di Anna assume un’espressione spaventosamente assente; sente i nervi tendersi dalle parti degli occhi e delle labbra. Ha i denti stretti. Ha paura che a muoversi o ad aprir  bocca o qualsiasi cosa possa fare un gesto completamente soddisfacente ma completamente indiplomatico, e, considerato che è prigioniera in una nave straniera, presumibilmente nel bel mezzo dell’oceano, si accorge che deve giocarsi bene le carte, o non giocarle affatto—

Inspira profondamente, tremula, attraverso il naso, e trattiene; espira al tre; ciao, Anna. Dice, "Hai un aspetto orribile."

La parte bella è che non è una bugia detta per darsi un po’ di coraggio—ha davvero un aspetto orribile. Gli occhi hanno una specie di luce maniacale che le dà i brividi, e sembrano più pronunciati a causa delle ombre scure sotto di essi. C’è un livido viola, quasi nero, che va dall’angolo della bocca alla punta dell’orecchio, e gli contorna la mascella.

E osa persino fare un sorrisetto

"Sei per caso convinta," domanda lui, "di stare meglio di me?"

Anna spalanca la bocca per l’indignazione; il movimento della mascella le fa avvertire qualcosa di secco e pastoso sul lato del viso. Si spacca e fa male, tirando pelle. Porta le punte delle dita a investigare, e trova una lunga traccia di qualcosa che va dall’attaccatura dei capelli alla guancia. Quando toglie la mano, essa è tutta ricoperta di una specie di polvere di un bel rosso ciliegia.

Sangue. E poi, alquanto più isterica, sangue. Sbatte le palpebre. Una volta. Due. Tre. Ma quando si riporta le dita alla fronte per continuare a investigare niente fa male nel modo in cui si aspettava che dovesse fare, nel caso di squarci—non è mio?

Chiude di scatto la bocca con un clack, poi, a denti stretti, "Per una che è precipitata da sessanta metri, penso di avere un aspetto bello a sufficienza—la tua scusa qual è?"

Hans sorride, ma è precario, e non arriva agli occhi. Il fantasma di un bell’uomo permane dietro il suo aspetto selvaggio e spezzato—ma bello in un modo clinicamente perfetto. Nel modo in cui i principi dei libri di fiabe sarebbero dovuti essere. Per niente uguale a come erano effettivamente, nella vita reale, coi nasi grossi e gli occhi espressivi e le mani piene di calli e—

Kristoff.

E se il sangue non era il proprio—

Il cuore le balza in petto.

Era caduto?

Era caduto anche lui?

Pensa, pensa, pensa, ma tutto quello che riesce a ricordare è il suo viso, spaventato e che non si vede più, sopra di lei—

Raddrizza le spalle, stringendo i pugni contro i fianchi. Tomas è appoggiato a una delle travi di supporto della nave, illuminato a strisce dalla luce che filtra da sopra, con tutta l’aria di uno che si sta godendo lo spettacolo. Rivolge a lui il suo sguardo arcigno, mettendoci dentro tutta la forza della rabbia, sentendo le labbra tendersi—"Che ne è stato di Kristoff?"

Il bianco tagliente del ghigno da lupo lampeggia nell’oscurità. Risponde, innocente, "Chi?"

Anna scatta. Garantito, vuole fare l’intimidatoria, ma inciampa sui propri piedi, e praticamente casca contro le sbarre di metallo, ma è il pensiero che conta, no? Le sente pressate contro il petto e le spalle e le guance ed è così fastidioso visto che Tomas era così vicino—allunga la mano, il pugno stretto come se volesse dargli un livido che poteva far coppia con quello del fratello—

Una mano guantata le afferra il polso.

La rabbia di lei svanisce per un momento, per essere rimpiazzata dal disgusto. Vuole strofinare via la sensazione di quel tocco, e i ricordi che vengono con esso, ma si accontenta di scostarsi un poco dalle sbarre e voltare la testa lentamente, lentamente, tanto lentamente. Dice, "Lasciami andare."

Hans la guarda quasi lascivo a occhi mezzi chiusi, la stretta tanto forte da lasciare un livido.

E poi lo sente.

E’ un bruciore lento e pastoso come la melassa, inizia alla base del palmo come una specie di calore piacevole, che cresce in temperatura, e intensità, finchè non si sente la pelle che va a fuoco, e tutto quello che può fare è guardare con orrore affascinato mentre il tessuto del guanto sfrigola, le cuciture si dissolvono, fumano—

Rantola, liberando la mano con uno strattone e capitombolando all’indietro. Inciampa sui propri piedi e cade pesantemente sul pavimento, dolorosamente, perché non era normale. Oh, non era affatto normale, e ahi, ahi, ahi—guarda, a occhi spalancati, prima il proprio polso, stretto al petto, e poi la mano di Hans, piena di vesciche. "Oh, Anna," dice, fissandosi la mano. Se solo qualcuno ti amasse davvero. Si accovaccia davanti alla sua cella, le ginocchia che scricchiolano, ed eccola che lo guarda di nuovo negli occhi. "Conosci la storia di Icaro?"

Il suo avambraccio è un reticolo di dolore intenso. Voglio Elsa, pensa con chiarezza, fervidamente, e si sforza di trattenere la risata che le scaturisce in gola. Controllati, controllati

"Volò troppo vicino al sole," Hans dice, guardandosi la mano come se non l’avesse mai vista prima, "e andò in fiamme."


Britta ha vagamente la stessa corporatura di Anna, ed Elsa sa che è questo ciò che l’ha condannata dall’inizio—quasi la stessa altezza, magra, asciutta; troppa energia per i muri del castello. Elsa non la conosceva, e adesso non sa che farsene, di lei morta sul letto. Tutto quello che riesce a pensare, le mani allacciate avanti a sé, è che la povera ragazza non assomigliava per niente alla sorella, col sudario tirato giù sulle spalle. Aveva i capelli biondo platino; il naso grosso; una sola lentiggine sotto l’occhio destro.

La porta si apre, e poi passi, leggeri e incerti. Con un po’ meno forza, sente, "Sono ven—sono qui—per il corpo. Per quello. Devo dir loro di entrare?" Pausa. "Elsa? Stai—stai bene? Aspetta. È una—domanda stupida. Scusa."

Elsa abbassa lo sguardo sulla ragazza e scuote la testa con le sopracciglia lievemente aggrottate. "Non sono triste. So che dovrei esserlo. Tutto quello che provo è—pietà." Adesso è il suo turno di fermarsi. "E gioia," aggiunge con un bisbiglio colpevole, spezzato.

"Bene," Albert risponde all’improvviso, distintamente. Si ferma in piedi accanto a lei. Lei lo guarda; si concentra sulla sua spalla destra per qualcosa che non sia la morte. Lui osserva dall’alto del naso storto la ragazza con una specie di esausta rassegnazione profondamente impressa in quegli occhi dal colore così particolare.

Come se ci fosse abituato.

"Bene?" chiede stridula, serrando la bocca contro la risata che minaccia di salirle a fior di labbra—controllati, controllati

"Sì," Albert dice serio. "Se ti sentissi effettivamente triste, direi bene, di nuovo. O anche se fossi arrabbiata. O sconvolta. O qualsiasi cosa, sul serio. Anche assassina."

"Non credo sia la reazione appropriata," fa lei piano, rivolgendosi di nuovo alla ragazza sul letto, "quando una persona ti dice che vuole ammazzare qualcuno."

"Lo vuoi?"

"No."

"Sei arrabbiata?"

Aspetta di avvertire il sentimento bollente, giù nelle profondità dello stomaco—ne avverte l’inizio, l’irritazione che va e viene contro quello che stava iniziando a riconoscere come il modo di comportarsi di Albert—forzare, forzare, forzare—ma niente di troppo opprimente, come si era sentita di recente. Solo—

"Sono stanca," ammette, troppo tesa e spezzata per provare vergogna; iniziano a bruciarle gli occhi. Ha caldo. Perché ha caldo? Guarda, rapidissima, i quattro angoli del soffitto, ma non c’è ghiaccio appeso, lì; e non ce n’è che si dirama dai suoi piedi. Apre e chiude in fretta le mani.

Dov’era?

"Lo so." Albert sembra sgonfiarsi, e si passa le dita tra la massa di capelli. Non aveva nemmeno tentato di darsi un contegno, quel giorno—cascano, completamente disordinati, sopra la fronte. Ha un aspetto orribile, una piccola parte di lei pensa, la parte che è ancora una regina, la parte che non è una sorella—stanco, e debole. Non dovrebbe essere in piedi.

Dov’era?

Sente, poi, soffocato, dal corridoio dietro di loro—"No, dovete permettermi di vederla. Voi dovete. State mentendo!"

Una baruffa. Il premere piatto di stivali sul pavimento di legno. Poi la porta viene spalancata, sbattendo contro il muro con tanta forza da far sussultare Elsa, che si era subito aspettata si fosse frantumata; si volta, velocemente, col collo che scrocchia, trovandosi di fronte un giovane che entra, e ha l’aria selvaggia di un animale intrappolato in un angolo. Kai è dietro di lui, urla fermo, fermo, ma tutto si confonde—tutti sembrano così tristi, pensa debolmente. Sente Britta, morta e pesante, fissarle la nuca.

Il ragazzo li oltrepassa con violenza; Albert subisce la parte peggiore dell’impatto, volando di lato come il ramo di un salice, inciampando col piede nella sponda del letto. Cade. Il giovane si lancia su Britta, ed Elsa si spinge nel baldacchino del letto, e vuole affondarci dentro. E’ in troppi posti nello stesso momento. È lì che sente la colonna del letto scavarle nella schiena. È dovunque Anna sia. È lì che vuole andare ad aiutare Albert.

È lì che osserva il ragazzo sul letto. Quello che sta morendo di crepacuore.

"Sander, datti una regolata!" Kai ruggisce, il petto tremante. "Mostrarsi alla presenza della Regina in tale modo—"

"Al diavolo il decoro!" il ragazzo ulula, rivolgendosi a loro, gesticolando verso la ragazza. "Chi è stato?" Quando nessuno dà una risposta dopo due, tre, quattro secondi, si volta di nuovo in direzione della figura silente, immobile nella morte. "Oh, Brit, non ti volevo urlà contro. Brit, ti prego…"

"Vostra Maestà, porgo le mie scuse per questo giovanotto—le sue azioni sono—dettate dal dolore—"

La mano di Elsa le copre la bocca. Ha troppo caldo. Il guanto è come acido sulle labbra. Scuote la testa. No, va bene; no, non va; no, no, no—non sa dire, cosa significhi. Deglutisce a fatica. Ecco Kai, che la fissa, e Albert, che si alza in piedi, e le guardie fuori, e—

E—

Abbassa piano la mano. "Scusatemi," esclama debolmente, cortese.

L’aria più fresca del corridoio la colpisce come uno schiaffo sul viso. Stringe in mano gli orli della gonna e si affretta quanto a una regina sia concesso affrettarsi, e tutto quello che riesce a pensare è che non sta gestendo la questione come una regina dovrebbe—come una—come una persona dovrebbe—

Tutto quello che riesce a pensare è, Anna è viva.

E nient’altro ha importanza.


"Quindi come ci sei riuscito, eh?"

Viktor posa il pugnale sul palmo, lo soppesa, lo considera, e poi lo tira con forza contro l’entrata del corridoio che porta in coperta. Si conficca, facendo un dente nel legno. Va a riprenderlo, continua, annoiato, "A fare di Hans più uno spostato di quanto non sia?"

Viktor afferra l’elsa, tira. Quando si volta, c’è un pezzo di legno infilato in punta. Riattraversa il ponte a grandi passi, preparandosi per un altro tiro. Niels lo guarda, cupo. "Ho invocato i demoni che abitano le profondità più oscure dell’inferno e ho offerto loro la mia anima in cambio dei poteri del fuoco e dello zolfo."

Viktor inizia a ridere. "E’ ridicolo, fratello."

Niels manda giù un’altra boccata di vomito ed esclama in tono piatto, "Hai ragione. Lo è. Ho offerto loro la mia anima molti anni orsono."

C’è qualcosa nel suo tono che fa morire in gola la risata a Viktor, e fa scivolare via il sorriso dalla sua faccia. Grugnisce a disagio, e lancia.

Questa volta, non si conficca.

Viktor sbuffa, infastidito, e va ancora una volta a riprenderlo. Quando si volta di nuovo verso Niels, il pugnale in mano, suo fratello lo sta osservando a occhi stretti. Non gli piace quello sguardo. Non gli piace proprio. Vorrebbe poterlo tagliar via dalla faccia del fratello—invece, si accontenta di fare un movimento fluido, veloce, che fa volare il pugnale—

Si conficca, fino all’elsa, a pochi centimetri dal naso di Tomas.

"Non ti ho sentito salire," Viktor dice, una specie di scusa.

Tomas dà un colpetto alla lama, poi passa al di sotto di essa. "Sì, beh, dubito che avresti smesso comunque. Bel tiro, a proposito."

Viktor ghigna. "Sì."

"Dovresti essere la sua scorta." La voce di Niels sembra carta vetrata.

Tomas guarda dietro di sé, giù dalla scalinata che si fa sempre più buia. "Ha chiesto un po’ di tempo da soli."

"E pensi che sia saggio?"

"Penso sia furbo. Paura e tutto il resto. E poi," Tomas continua, fermandosi al parapetto e osservando l’acqua luccicante, "sa cosa gli accadrà se alcun male venga fatto alla principessa prima che sia tempo."

Niels sbatte le palpebre, ma si calma—o, meglio, si sente di nuovo male. Chiude gli occhi, e Viktor lo osserva contare fino a dieci. Alla fine riesce a dire, "Sono curioso di sapere come voi due buffoni ci siate riusciti. Il rapimento."

Viktor lancia un’occhiata al gemello, con un sorriso maligno. Tomas gli passa un braccio attorno alle spalle, languidamente, ed esclama, allegro—

"Ah, che storia, ragazzi."


Elsa siede sul balcone, il mento sulle ginocchia, i guanti uniti, e lascia l’orrore della situazione investirla in pieno.

Toc, toc.

Appoggia la fronte contro la stoffa nera della gonna.

Toc, toc, toc.

Le porte a vetri si aprono, con un piccolo click, e si chiudono facendo appena rumore. Solleva la testa, stringendo le labbra. Albert fa quattro pasi traballanti e si sistema a mezzo metro di distanza, alla sua destra, la schiena contro il muro. Accavalla le gambe e alza lo sguardo al cielo, un azzurro luminoso, accecante; il silenzio che scende su di loro come una nuvola non è imbarazzante, e lo apprezza, seduta lì. Appoggia la testa ai vetri piombati della porta, ascoltando le grida dei gabbiani riecheggiare nel porto.

Alla fine riesce a dire, "Era sulla loro nave, allora. Quando sono partiti."

"Sì," afferma, semplicemente, "Direi."

Elsa si morde l’interno del labbro, picchiettandosi gli stinchi con i guanti. Il ritmo nervoso si interrompe; volta la testa sul collo rigido, osservando il profilo di Albert. "Come." Si sorprende dalla furia oscura e tempestose che trapela dalla propria voce. Era ingiusto da parte sua, sfogarsi su Albert—una qualche piccola, razionale parte di lei se ne accorge, anche nel preciso momento in cui parla.

E’ una parte molto piccola.

Le labbra sono tese, e secche. La guarda in tralice. "Uccidere la ragazza, scambiare i corpi. Semplice, in teoria."

"Come hanno inscenato la sua morte."

Albert si strofina la faccia. "Non lo so."

"Non lo sai," Elsa ripete. "Non lo—sono i tuoi fratelli, Albert, di certo mi aspettavo un po’ più di informazioni sui loro piani, considerando che provieni dalla stessa famiglia depravata di—"

"Io non sono i miei fratelli!"

Rompe il silenzio, riecheggia, si spegne. Si strofina la testa, questa volta, il braccio che giocherella con la manica della tunica, mentre si massaggia la pelle scoperta del polso.

Elsa chiude gli occhi. "E’ questo che rende le cose tanto difficili."

Domanda, abbandonando le braccia sulle ginocchia, "Preferiresti che fossi un tiranno affamato di potere?"

"Renderebbe di certo tutto più bianco e nero."

Annuisce, triste. "Sì."

"Chi ti ha accoltellato?" chiede, guardando dritto avanti.

"I gemelli."

Chiude gli occhi, incredula. La voce è fioca. "Perché?"

"Perché sapevano che il mio affetto per te era più profondo dell’affetto che ho per loro."

Lo guarda, attonita. "Mi hai appena conosciuta."

"Non credi nell’—affetto a prima vista?"

"Ma non era l’amore?"

"Nonstodicendochetiamo," dice, all’improvviso frustrato, il naso e le guance rosse. "Perché mai sarebbe—è una terribile—cosa terribile. Non che amarti fosse una cosa—non importa."

"Io penso che amarmi sarebbe una cosa terribile," afferma con convinzione. Credi che avrebbe potuto amarmi? Se lo ricorda? Non glielo chiederà. Sì; poteva amare molte persone, ma le persone che amava tendevano a—tendevano a —

Anna è una statua di ghiaccio e i suoi genitori sono morti e il suo mondo cade a pezzi.

"Perché dici così?"

"Perché le persone che ci tengono a me prima o poi soffrono."

"E tu—e tu, invece? Tu—tu non—non ami nessuno?"

Elsa incrocia il suo sguardo, a disagio, non è sicura di che piega stia prendendo la conversazione. Dovrebbe essere in cerca di giustizia per il suo accoltellamento, per la morte di Britta, dovrebbe essere all’inseguimento della sorella—non a discutere di sentimenti con lui su un balcone. Amo mia sorella e amo Gerda e Kai e riesco a vedermi innamorata di te, col tempo, ed è questo che mi spaventa. "Ma perché hanno rapito Anna, allora?" cambia argomento, senza tanta disinvoltura. "I tuoi fratelli. Se non riusciamo a capire il come, possiamo almeno cercare di indovinare il perché—"

L’imbarazzo irrequieto di lui è sparito, sostituito dalla curvatura esausta delle spalle. Dice, senza giri di parole, "Non è ovvio?"

Lei scuote la testa.

"Elsa—l’hanno—l’hanno fatto per arrivare a te."


"Ma guarda la tua faccia," Hans sorride, "sembrerebbe che hai visto un fantasma. Che, Anna—per caso tua sorella è l’unica che può essere dotata di talenti insoliti?"

Anna si tiene il polso saldamente stretto con l’altra mano, e ha paura di allentare la pressione. La pelle le pulsa, e si sente il cuore battere nel braccio, il che era decisamente non normale, così—Hans usa le sbarre per aiutarsi ad alzarsi in piedi, languidamente. Non riesce a sentire altro che acqua che gocciola in uno degli angoli, lo sciabordio del mare all’esterno—quasi desidera che Tomas ritorni, perché ha la netta sensazione che Hans gli avrebbe—beh, non dato ascolto, ma—beh—quasi dato ascolto—

Lo segue a ruota, sforzandosi di stare in piedi, perché col cavolo che gli avrebbe permesso di torreggiare su di lei come una specie—una specie di torre

Ok, quindi non so fare metafore sotto pressione. Similitudini? Quello che è.

Unisce i tacchi e combatte una lunga battaglia per mantenere il volto inespressivo, anche se ogni centimetro di lei avrebbe voluto essere in qualsiasi altro posto, tanto da far male; anche se non sapeva ancora niente di Kristoff; anche se non sapeva ancora niente di niente.

Fallo parlare, pensa all’improvviso, seguendo i suoi movimenti mentre inizia a percorrere tutta la larghezza, sei passi, della sua cella, indietro, avanti, avanti e indietro. Fallo parlare, tu parli tutte le volte e ti fai scappare fuori cose—"Mia sorella con la sua magia ci è nata. Mi sembra invece che tu sia stato maledetto di recente. Sulla strada di quale troll sei capitato, allora, huh? Hai provato a rubare anche il suo di regno, e uccidere anche i suoi, di fratelli?"

Hans sorride, a labbra tirate. "Anna, se credi che ti rivelerò i nostri piani, sei decisamente in errore."

"E qual è il peggio che può accadere, huh? Lo racconto ai miei amici, secchio e brandina?"

"Credi davvero di essere nella posizione di parlarmi così?" Smette di camminare avanti e indietro, e si volta a guardarla, qualcosa dello sguardo da incantatore di un tempo ancora presente, in profondità, negli occhi maniaci e selvaggi.

"Forse avresti dovuto uccidermi quando ne avevi l’occasione."

"Credimi," fa lui funereo, "Pensavo di averlo fatto. Uno sbaglio di cui mi sono pentito ogni notte, fin da allora."

Anna si lecca le labbra. La cella inizia a puzzare di carne umana bruciata, e lotta contro i conati di vomito. "Non ho paura di te."

"Oh, ma so che hai paura di me. So un sacco di cose su di te, Anna. So tutto di te. Una ragazza, tagliata fuori tutta la vita. Non sei nient’altro che una persona di troppo—non salirai mai al trono, non sarai mai importante per Arendelle, e non troverai mai il vero amore."

"Quindi sai anche che sono una persona del tutto comune," Anna dice in fretta, osservando la mano libera fare scintille come una pietra focaia, lottando contro l’impulso di fare un passo indietro. "Sai che avete rapito la sorella sbagliata."

"Pensavi che volessimo te?" Hans ringhia.

Anna quindi capisce; oh, mima con le labbra.

Hans aggrotta pesantemente le ciglia, la rabbia impressa in ogni linea di quel volto quasi bello, e con un passo deciso manda uno scoppio di fuoco controllato a malapena accanto ai piedi di lei. Ne sente il calore minacciarle la gonna, ma l’aria lo inghiotte con la stessa velocità, così rimane solo con una vaga impressione e un rantolo. "Se potessi ucciderti adesso, lo farei," dice cupo. Si volta, dietrofront, e se ne va via pestando i piedi, furioso, via, su per le scale che portano in coperta, e tutto quello che le rimane sono un polso dolorante, e una luce, sole, fuoco, impressa dietro le palpebre chiuse.

Elsa, vogliono Elsa. Serra gli occhi, e pensa, più intensamente possibile, ti prego non venire, Elsa, non lo fare, no, no, no—

E poi, poiché pensare, ripetutamente, è pesante, si accascia vicino alla brandina, crollandoci dentro, quasi strappando il tessuto. Le dita scivolano sul polso, e pensa a di troppo e inutile e vero amore.

Lascia andare la bruciatura giusto il tempo di passarsi le mani, delicatamente, sulla scollatura, dove c’è il pulsare caldo del suo cristallo.

Così, chiude gli occhi, ma non piangerà.

Non lo farà.


"Non puoi farlo."

"Stammi a guardare."

"Non puoi farlo—" Albert si fa strada tra i detriti nella sua stanza, evitando con molto tatto di dire alcunché riguardo ai pezzi sparsi che giacciono al suolo come corpi morti, "—perché è esattamente quello che vogliono che tu faccia."

"Non sanno che io so. Credono che tu sia morto. Credono che il corpo verrà sepolto. Credono che non scoprirò niente finchè non manderanno una lettera che dice Posso darti quello che più desideri al mondo—mia sorella è lì fuori, e io andrò a riprendermela. Ho già giocato a questo gioco, Albert."

"Non quanto me."

Elsa alza gli occhi. Basta parlare, hanno parlato abbastanza—il chi, il perché, il come—non era importante. All’improvviso si sente piena di energia, tesa al massimo, come una molla—si sarebbe occupata di Britta, e poi avrebbe fatto preparare una nave a Mastro Olin, e avrebbe portato un reggimento—

"Se lasci Arendelle, la lasci vulnerabile, lo capisci?"

Elsa calcia un pezzo di armadio di lato, cercandone tra la pila di vestiti uno adatto per il viaggio. Ne trova uno indaco chiaro che sarebbe potuto andare—

"Elsa."

"E’ mia sorella, Albert," Elsa si volta, il vestito ormai tutto spiegazzato e stretto freneticamente tra le sue mani. "L’hanno presa per arrivare a me. E’ mia sorella. E non la abbandonerò. Mai." Sta per aggiungere, e tu faresti lo stesso, ma poi si ricorda dei fratelli di cui sta parlando, quindi non dice niente. Invece si volta, sentendosi spezzata, e perduta, in direzione della porta, con tutta l’intenzione di invitarlo ad uscire, ma lui, maldestro, si fa strada verso di lei. Riesce a sentirlo. Si volta per bloccarlo nello stesso momento in cui le dita di lui afferrano l’estremità del suo guanto destro.

Si sfila.

"Smettila!" urla con un rantolo, nascondendo la pelle nuda tra le pieghe della stoffa che ha in mano e fissa, a occhi spalancati, l’uomo davanti a lei.

Albert non si rende conto del significato del proprio gesto. "No, tu smettila, e solosolo pensa un momento, per favore? Cosa hai intenzione di fare? Rincorrere la nave e—e ingaggiare battaglia?"

"Ridammi il guanto," ordina.

"E—e se—morissi," deglutisce, stringendo l’indumento nero in una morsa serrata; penzola senza forma, come una cosa morta, "allora cosa accadrebbe? Cosa ne sarà di Arendelle, senza te o la principessa?"

"La vita continua. Il mio guanto. Ora."

"Sei la Regina, hai un popolo a cui pensare—"

"Non volevi che io pensassi al popolo quando siamo usciti di nascosto, quindi da dove viene l’improvvisa—"

"Rimarrai ferita!"

"Per dodici anni, le ho sbattuto una porta in faccia—non le sbatterò una porta in faccia adesso!" La mano scoperta entra violentemente in contatto con la maniglia dietro di lei; sente un improvviso, inspiegabile strattone al fegato, ed ecco che il muro si ricopre di una lastra di ghiaccio sottile e acquoso. Alza lo sguardo e lo osserva con una specie di incanto strano, i cristalli che già iniziano a sciogliersi. Fanno plic-plic-plic gocciolandole sulla testa e il volto, come lacrime.

Cosa le stava succedendo?

"Elsa, manda me. La riporterò indietro."

La rabbia è sparita. Chiude gli occhi, respirando profondamente, immensamente, più che grata del fatto che non dica niente—non arretra nemmeno di un passo, nessun grido allarmato di magia, stregoneria—"Non sei in condizioni di muoverti. Dovresti essere a letto, adesso."

"Sarò l’ultima persona che i miei fratelli si aspettano! E’ un geniale—piano che penso che dovremmo portare—portare a termine—"

"Albert."

Si ferma, chiudendo lentamente la bocca, e poi osserva il guanto che ha in mano, alquanto avvilito. "Non mi piace."

"Va bene; non è una decisione che dipende da te. Anche se, tuttavia—" lo guarda in faccia e le viene voglia di piangere. "Grazie per la preoccupazione."

Silenzio. Porta in avanti la mano, per esaminarla alla luce. Incostante. Ecco come era stato il ghiaccio, fin da quando Anna era—incostante, dalla fuoriuscita e presa incespicante. Non lo sopporta. L’unica costante in assoluto della sua vita, questa maledizione che ha—

"E cosa si suppone che debba fare io, qui?"

"Ti riprenderai, ovviamente. E la mia biblioteca personale è aperta per te," gli dice, fissandosi i piedi. "Puoi leggere tutti i Tristano e Isotta che vuoi."

"Li leggo solo per i duelli di spada."

"Lo so." E alza gli occhi ad incontrare i suoi, dall’altra parte della confusione che è la sua stanza. Sono accesi e febbrili; e immagina che anche i propri non siano meglio. Poi, d’impulso, gli sorride—non un quasi sorriso, ma uno vero, piccolo e grato. Albert sbatte le ciglia, ricambiandola—anche se il suo sorriso è più ampio, e piuttosto scioccato.

Elsa fa per andarsene.

"Elsa, io—solo una—cosa egoista," fa, d’un tratto.

Si volta. "Sì?"

"Quando mi—solo—grazie. Per avermi salvato."

Sbatte le palpebre. "Niente, figurati."

Albert ride, in maniera autodenigratoria. "Sono—questa è una—è una bugia, ma, uhm, è—c’è—Ti ho detto niente? Quando mi stavo svegliando?" Battito cardiaco, battito cardiaco.

Battere di ciglia, battere di ciglia.

"Perché ho questa sensazione stranissima di aver detto qualcosa, e proprio non—non sapevo se—"

"Non hai detto proprio niente, Albert," Elsa dice, quasi credendoci lei stessa.

Credi che avrebbe potuto amarmi?


"Mi state dicendo che, dopo tutta quella fatica, non vi siete assicurati che seppellissero il corpo."

Hans sente i fratelli, che bisticciano accanto all’entrata della cella—la calma letale e inamovibile della voce di Niels, il blaterare dei gemelli. Sale le scale con una velocità furiosa, immagina di spezzare un collo; sarebbe immensamente gratificante, pensa—il crac di un osso, uno spruzzo di sangue, e quell’ oh ancora stampato sulla faccia lentigginosa—

"Il terreno era stato completamente congelato dalla regina del Ghiaccio, e non avevamo un mostro come quello che hai creato lì a sgelarlo—"

"Ed esattamente come pensiate che possiamo giocare a fare Dio," Niels domanda, la furia distintamente percepibile nel tono di voce, "quando siamo immediatamente smascherati come imbroglioni?"

Hans arriva sul ponte, si toglie la cravatta, si sente soffocato; la tiene stretta nella mano nuda, e invoca—pensa—il fuoco lavico si scioglie nel suo braccio e si manifesta nel palmo, trasformando la stoffa in cenere. Gli ci vuole un respiro, due, per tenerlo sotto controllo—solo pensando di afferrare quel piccolo bel collo che la ragazza si ritrovava, ci riesce.

Niels, a labbra serrate, pallido di rabbia, e rivolge il suo sguardo più arcigno a quel po’ di pelle scoperta. "Copriti," scatta, "a meno che tu non voglia che tutta la nave prenda fuoco—il tuo controllo è fiacco, nella migliore delle ipotesi."

Viktor e Tomas si voltano. Il secondo fa un sorriso vittorioso, da lupo. "Com’è andato l’incontro in privato con l’amabile bella fanciulla?"

"Voglio ucciderla io. Quando tutta questa storia sarà finita," Hans ringhia, afferrando con rabbia il guanto che gli porge Niels senza ribellarsi—uno che ha tutta l’aria di essere fatto di carne umana, dritto dritto dalla tasca di dietro di suo fratello, e adesso sono spaiati, che peccato—"quando tutta questa storia sarà finita, e Arendelle sarà nostra, voglio ucciderla io, per prima cosa."

"Arendelle potrebbe non essere mai nostra, grazie alla gaffe dei tuoi fratelli." Niels si trovava a quel livello di rabbia che lo portava a essere letalmente calmo—il livello peggiore, quello in cui Hans non avrebbe mai potuto dire se era sul punto di trasformare qualcuno in un rospo o sacrificare il loro primogenito alla dea della discordia—

Hans rivolge uno sguardo gelido in direzione di Viktor e Tomas, e anche a uccidere tutti e due avrebbe provato piacere. "Che, Hans," il sorriso di Tomas non ha abbandonato la sua faccia, "non ti piacciono focose? Non sai gestire una lingua?"

Hans scatta in avanti, sentendo il guanto preso in prestito scricchiolare rabbioso, ma Niels urla una parola dal suono tagliente, scivoloso, roccioso, e Hans viene scaraventato contro la parete. L’energia rende l’aria elettrica, facendogli rizzare tutti i peli sulla nuca. Scuote la testa, fulminando con gli occhi le sagome ora leggermente nebulose dei gemelli dall’altra parte della barriera.

"Non hai alcun diritto di parlare così," Niels dice a Tomas, e Hans osserva suo fratello leccarsi le labbra.

"Che gaffe?" Hans chiede. Non aveva passato i suoi giorni in quella cella, la prospettiva di vendetta l’unica cosa che permetteva di mantenere una parvenza di controllo, solo perché fosse mandata a puttane dai suoi fratelli

"Hanno lasciato il corpo non ancora sotterrato." Niels chiude un momento gli occhi al rollare della nave; quando li riapre, scattano minacciosi.

"Quindi state dicendo," Hans esclama, a denti stretti, "che è molto probabile che la regina sia già al corrente dello scambio."

Viktor scrolla le spalle. Tomas alla fine si stacca dal fratello e osserva significativamente Niels. "Non capisco perché tutto questo casino, fratelli carissimi. Se lo scopre da noi, o lo scopre da sola—in ogni modo, deve per forza venire a salvare la ragazzina."

"Faremo meno affidamento sull’effetto sorpresa, e più sull’effetto paura."

"Beh, abbiamo ancora il fenomeno da baraccone," Viktor muove con forza un gomito in direzione di Hans, ma sente il ritorno di una barriera di energia che vibra e ondeggia. "Di certo ispirerà effetto sorpresa e meraviglia—finchè tiene la bocca chiusa, però."

"Dovremo informare il re," Niels comincia. "Non può essere coinvolto in questa faccenda. Non ancora."

"Tutta questa furtività," Tomas sospira, la faccia contorta in un cipiglio quasi comico. "Non capisco perché non possiamo limitarci a ucciderle tutte e due e farla finita."

"La regina possiede qualcosa di valore."

"E cioè?"

Hans risponde, secco, tagliente—

"Se stessa."


Lukas sbuffa dalle narici.

Era sempre stato bravo coi grimaldelli, ma qualcosa nella porta di Niels lo rendeva nervoso. Probabilmente era il fatto che fosse di Niels. Giocherella per un secondo con la sottile striscia di metallo che ha in mano, altri due secondi, prima di emettere il sospiro dell’uomo troppo abituato al fatto che il destino a volte pone ostacoli non necessari, e sposta il peso sui talloni

"Che stai facendo?"

"Gesù—" sobbalza, una mano sul cuore, e poi rotea gli occhi, esasperato.

"No. Sono solo io," Stefan tira su col naso, altero. "Anche se mi è stato detto che le somiglianze tra noi sono impressionanti."

Alza gli occhi, arricciando le labbra in direzione del fratello. Stefan passeggia pigramente lungo il corridoio, e sembra un dandy con il bastone di bamboo che rotea sulle nocche. La novità del giorno, Lukas pensa, quasi divertito, è un monocolo; e suo fratello ne ha uno che pende inutilmente da una catena attorno al collo. "Spunti sempre fuori dove sei meno richiesto, lo sai?" gli dice.

"Affatto. È perché nessuno apprezza il mio acume e le mie battute piene di arguzia. Sai, non dovresti fare il tuo ingresso."

"E perché no?"

"Perché sono le stanze di Niels. Non dovresti voler fare il tuo ingresso. Ora, perché non ti unisci a me per un brandy prima che vada a teatro?"

"Mi serve qualcosa di più forte."

"Ho un rum sopraffino che riservo per le occasioni speciali, ma poiché nessuno in questa famiglia è davvero speciale, dubito che avrò mai l’occasione di farne uso."

Lukas lancia un’altra occhiata alla porta, pizzicandosi lo spazio tra gli occhi. "Ti rendi conto che questa è, abbastanza possibilmente, l’unica occasione che avremo mai per curiosare?"

"Non vuoi curiosare," Stefan dice, fermandosi finalmente accanto a lui. Lukas si accorge di star sussurrando, e che suo fratello sta facendo lo stesso—il corridoio è umido e scuro, nonostante la luce del sole. "Nessuno vorrebbe curiosare volontariamente nella versione personale dell’inferno creata da nostro fratello. No, hai ulteriori ragioni, e io non ne prenderò parte. Ho un dramma da scrivere. È una pièce esistenzialista. Ne sono piuttosto orgoglioso. No, non ti presterò il mio aiuto, Lukas, non devi nemmeno chiederlo. Comunque, puoi chiedermi quali sono i miei primi cento libri preferiti."

"E quali sono i tuoi primi cento libri preferiti, Stefan?"

"Non lo so, perché ne ho scritti solo cinque. Oh, ha! Sono sempre così arguto. Non ti presterò il mio aiuto, Lukas. E sei fortunato che io non sia uno spione, tanto più. Ciao ciao, fratello caro. Forse ti unisci a me per un brandy più tardi? Ti concederò quel rum."

Lukas osserva suo fratello tra-la-lare lungo il corridoio, iniziando di nuovo a roteare il bastone, picchiando contro il muro e la finestra e il pavimento in un ritmo senza senso. Quando abbassa lo sguardo sulla porta, scopre un grimaldello infilato con esperienza, la serratura scassinata con destrezza, e la porta quasi semichiusa.

Ghigna, togliendosi un cappello immaginario al cospetto del fratello, voltato di schiena.

Poi, si infila dentro.


"Kai?"

"Vostra Maestà!" L’uomo si sposta di lato, lasciando alle guardie più spazio per uscire dalla camera mortuaria; trasportano Britta, avvolta di nuovo nel sudario, un uomo regge la testa, l’altro i piedi. Elsa osserva il corpo e nasconde i polpastrelli scoperti nelle pieghe del vestito. Si volta, e trae conforto dal suo volto familiare—naso grosso, tanti menti, occhi gentili. "Vi sentite bene?"

"Sì. Mi—mi dispiace, per prima. Come sta—"il nome, qual era, era—"Sander?"

"Così come ci si aspetterebbe, Maestà." Kai tira fuori un fazzoletto moscio dalla tasca e se lo passa sul viso pallido. "Cosa dobbiamo dire agli altri, della principessa—"

"Niente, per ora," Elsa afferma, abbassando la voce. "No. Devo occuparmi direttamente della questione, e io stessa."

"Maestà?"

"Kai, devi mandare un messaggero da Kristoff; devo parlargli urgentemente."

"Sì, vostra Maestà."

"Dovresti anche mandare un messaggero a Mastro Olin."

"Mastro Olin?"

"Sì." Elsa fa un respiro profondo, tremulo, e guarda il cielo azzurro intenso fuori. "Ho bisogno che mi allestisca una nave."

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