Give Into Me

di Gabx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ricordi Dal Passato ***
Capitolo 2: *** Leggere In Compagnia ***
Capitolo 3: *** La Prima Nevicata ***
Capitolo 4: *** Confessioni e Stratagemmi ***
Capitolo 5: *** Perché ***
Capitolo 6: *** Domande e Gelosie ***
Capitolo 7: *** Amore e Complicazioni ***
Capitolo 8: *** Graziate e Dannate ***
Capitolo 9: *** Complicazioni Inutili ***
Capitolo 10: *** Venire A Conoscenza ***
Capitolo 11: *** Separazioni ***
Capitolo 12: *** Ritorno Per Vie Traverse ***
Capitolo 13: *** A Casa ***
Capitolo 14: *** Una Soluzione ***
Capitolo 15: *** Vento Di Cambiamenti ***
Capitolo 16: *** Onore e dolore ***
Capitolo 17: *** Il Matrimonio ***
Capitolo 18: *** Il Sole Dopo La Tempesta ***



Capitolo 1
*** Ricordi Dal Passato ***


Ricordi dal passato
 
“Nonna! Nonna!”gridò Michelle, la mia nipotina, correndo a perdifiato verso di me. Indossava un bellissimo vestito bianco con delle stelline color oro sulla piccola gonna. Aveva sette anni ma era sveglia per la sua età. Mi saltò in braccio. Feci un po’ di fatica a tenerla, non ero più una giovincella.
“Oh tesoro, fai sedere la tua nonna! Non sono giovane come te!!”dissi ridendo e lei si fece posare in terra.
“Ma come mai questo bellissimo vestito? Non sarà che oggi è un giorno importante..?” finsi di non ricordarmi che era il suo compleanno. Ed eccola che rideva.
“Nonnaaaaaa ma è il mio compleanno!!”ridacchiò.
“Oh giusto!! Come ho fatto a dimenticarmene? .. Ma cos’è questo?” Tirai fuori un pacchettino rosa. La vidi sgranare gli occhi per la sorpresa. “Lo vuoi tu? Non so cosa sia.”
Glielo porsi e lei lo prese con cura, non voleva rovinarlo. Poi lo scartò e vi trovò una piccola collanina in argento con un portafoto come ciondolo.
“Puoi metterci la foto della persona a cui tieni di più al mondo, sai?”la informai e le scompigliai i capelli biondi che a boccoli le incorniciavano il viso. Le infilai il ciondolo al collo. Le stava molto bene.
“Anche tu hai la foto della persona a cui tieni di più nel tuo ciondolo, nonna?”mi chiese innocentemente, il sorriso che le illuminava il volto.
“Ma certo!”E mi portai la mano al petto dove avevo il ciondolo. Lo strinsi come ad assicurarmi fosse ancora lì.
“Posso vedere chi è?”mi domandò ancora, gli occhi che brillavano di intelligenza e sorpresa.
“E’ una lunga storia e te la racconterò un giorno. Ora non hai una festa a cui andare?”le ricordai.
Si ricordò improvvisamente e mi saltò addosso per darmi un bacio sulla guancia e abbracciarmi.
“A presto, nonna!”mi salutò e io strinsi la sua mano piano e la lasciai andare a casa sua dove l’aspettava una bellissima festa con i suoi amici.
Mi fermai e mi sedetti sotto la vecchia quercia. C’erano un piccolo tavolo in pietra e due sedie a dondolo. Mi lasciai cullare e ritornai indietro nel tempo.
 
 12 novembre 1952
 
Sono in ritardo. Male. Molto male. Primo giorno di lavoro e già sono in ritardo. Sono finita. Edward mi avrebbe ucciso. Era l’ennesimo impiego che mandavo al diavolo e mi aveva avvertita che se non era per mio padre non mi avrebbe dato così tante possibilità. Mi infilai alla meglio la divisa da cameriera e mi precipitai a prendere il tram. Scesi alla fermata che mi aveva indicato e mi ritrovai di fronte al n ° 33 di Browning Street.
Non ci credevo. Era una villa.
Una vera villa, di quelle che si trovano solo nei quartieri ricchi di Londra.
Mi portai di fronte al cancello principale. La facciata era bianca con ampie finestre e un balcone principale in pietra antica. Alla villa si accedeva attraverso un giardino, ora spento poiché autunno inoltrato, e un vialetto di ghiaia. Era un posto da sogno, soprattutto per una cameriera squattrinata come me. Non potevo certo entrare dall’ingresso principale, quindi dove poteva essere l’entrata sul retro per la servitù?
Stavo per suonare il campanello quando alle mie spalle ci fu un rumore improvviso. Un’ auto era arrivata di corsa. Inchiodò e poi le porte si spalancarono. Due uomini scesero e si affrettarono a tirare fuori dall’abitacolo una ragazza che era in un evidente stato di incoscienza. Mi allarmai. Cosa povevo fare? I capelli biondi le coprivano il volto e i vestiti alla moda erano sgualciti. Il più alto, vestito in giacca e cravatta, la prese in braccio. Aveva i capelli castano chiaro e occhi scuri, magnetici; lo sguardo imperioso sotto le sopracciglia arcuate. Doveva essere un giovane della aristocrazia inglese. L’altro, l’autista, si affrettò ad aprire il cancello perché i due potessero entrare. L’uomo vestito elegantemente e la ragazza sparirono all’interno della villa. L’autista rimase lì a fissare la porta spalancata della casa.
Si girò e fu solo in quel momento che mi vide. Gli occhi color nocciola si spalancarono per la sorpresa. Mi prese la mano e vi posò  un bacio leggero.
“Buongiorno, signorina. Siete voi la nuova cameriera di Vossignoria?”mi chiese gentilmente. Ero ancora abbastanza sorpresa dal saluto che mi aveva riservato. Annuii impercettibilmente.
“Oh che maleducato! Non mi sono presentato. Mi chiamo Marcus Smith, sono l’autista della famiglia Blake. Voi siete?” mi domandò ancora dopo essersi presentato.
 “Erin Johnson, piacere di conoscervi.”
“Piacere tutto mio.”
Detto questo risalì in auto, si scusò per dovermi abbandonare ma doveva andare a prendere il dottore e sparì dalla mia vista. Ero abbastanza frastornata da quanto era appena successo. Scossi la testa. Ero già abbastanza in ritardo, così mi diressi verso la casa.
Entrai e fui circondata dal caos che l’aveva invasa. Due cameriere correvano per andare a rifornirsi di bende e medicinali. Dovetti attendere quasi un’ora prima che si accorgessero di me.
 Fu il maggiordomo a venirmi incontro. Era anziano. Aveva i capelli bianchi e gli occhi azzurri che mi scrutarono da capo a piedi, quando mi vide. Indossava la livrea da maggiordomo.
Mi fece un inchino e io mi lo salutai con una piccola reverenza.
“Sono il maggiordomo della famiglia Blake, Burton James e sareste voi, la signorina Johnson? Vi rendete conto che siete in ritardo di due ore?” Mi fissò con disapprovazione.
“Sono io. Sono stata trattenuta ma non accadrà più.”dissi velocemente, già in ansia. Sarei stata buttata fuori già il primo giorno.
“Sarà meglio. Seguitemi, vi mostrerò dove alloggerete quando sarete stata approvata dalla Contessa. Per ora posate le  vostre cose nella cucina e fatevi trovare  qui fra dieci minuti.”
Non me lo feci ripetere e seguite le istruzioni per raggiungere la cucina, vi arrivai e posai il mio cappotto e la borsa su una sedia. C’erano una vecchia signora, appesantita dagli anni e un ragazzo molto giovane. I due erano presi da una discussione su delle carote che mancavano e  il ragazzo se la stava passando male. Non si accorsero di me, così ritornai dove mi aveva detto il signor Burton.
Mi accompagnò per le varie sale, mi disse che dovevo svolgere i lavori insieme alle altre cameriere e in più assistere la Contessa.
“Quando incontrerò la Contessa?”chiesi al signor Burton.
“Per ora, no. Ha avuto un malessere e deve riposare.”rispose caricando la voce con profondità.
Era preoccupato. Quindi la ragazza che avevo visto prima era la Contessa? Era malata?
“Cosa ha avuto?”mi informai.
“Un mancamento. Dovrai occuparti di lei come prima mansione. Il Conte ritiene importantissima la sua unica figlia.”
“ Capisco.”
Poi rimasi in silenzio. Parlai solo quando mi furono presentate le altre due cameriere: Mary, una donna sulla trentina che aveva già i capelli grigi, e Samantha, una ragazza dai capelli lisci ramati tagliati corti con qualche anno in più di me. Le avrei aiutate nel loro lavoro e mi accolsero con un caloroso sorriso, almeno Samantha. Poi Burton mi fece incontrare la cuoca, Maxime, e il suo aiutante, Patrick. Il suo sguardo timido mi fece sorridere. Era molto giovane.
La giornata passò senza altri intoppi. Burton mi disse di presentarmi puntuale il giorno dopo.
 
 13 Novembre 1952
 
Così feci.
Alle sette del mattino ero all’entrata secondaria alla villa che Burton mi aveva mostrato.
Avevo stirato la mia divisa e mi ero pettinata. I capelli castani erano raccolti in uno chignon e gli occhi azzurri non mostravano la stanchezza del corpo.
Burton mi salutò con più gentilezza. Era sorpreso di vedermi puntuale. Dovevo comportarmi al meglio e mi sarei tenuta un bel posto. Dovevo pur campare.
“La Contessa è nelle sue stanze. Questa mattina ha un incontro con il signor Dixon e vuole essere preparata e condotta all’auto in tempo. Confido sarai capace di assolvere a questo compito.”
Annuii.
Salii al piano superiore e mi diressi verso la porta della camera della Contessa. Bussai.
Nessuna risposta.
Bussai di nuovo.
E se le fosse successo qualcosa?
Mi prese l’ansia. Non potevo lasciarla morire mentre era sotto la mia responsabilità.
Aprii leggermente la porta. La stanza era immersa quasi nella totalità dell’oscurità. Così mi avvicinai alla finestra e spalancai le imposte. La luce non era accecante anzi per nulla ma almeno filtrava qualcosa. Al centro della stanza c’era un grande letto a baldacchino. Vi dormiva con una semplice vestaglia una ragazza dai capelli biondi. La Contessa. Doveva avere la mia età.
Mi portai vicino a lei. Dovevo svegliarla. Ma come?
“Contessa? Si deve svegliare. Contessa? Mi sente?” la chiamai.
 Si girò nella mia direzione. Le vidi finalmente il viso. Aveva lineamenti delicati. Le labbra erano carnose e ben definite, socchiuse nel sonno; il naso era piccolo e delicato e le sopracciglia bionde erano leggermente più scure rispetto al biondo dei capelli. Era bellissima.
La chiamai ancora e solo dopo averla scossa leggermente, la vidi aprire gli occhi. Quei pozzi verdi mi colmarono immediatamente. Era veramente bellissima.
“Lasciami dormire ..”borbottò. Sorrisi impercettibilmente. Si comportava come una bambina.
“Signorina Contessa, devo ricordarle che ha un importante appuntamento.”le dissi con voce ferma.
“Ma .. cosa? Devo solo incontrare Terry.”
Doveva essere il signor Dixon. Erano così intimi?
Si tirò su a sedere lentamente.
“Tu chi sei?”mi chiese improvvisamente.”Non ti ho mai vista.”
“Sono la nuova cameriera.”
“E hai un nome?”mi domandò di nuovo, scontrosa. La vestaglia da notte rosa pallido le ricadeva piano sul corpo. Le spalle erano quasi nude. Arrossii.
“Erin Johnson, Contessa.”
“Non chiamarmi Contessa, almeno non di fronte ad altri. Puoi chiamarmi Louise.”
Mi fece l’occhiolino e poi sempre con movimenti delicati scese dal letto. Non sembrava così debole. Forse era stato un calo di pressione. La vestii per l’uscita, le portai la colazione. Non si sbilanciò troppo. Non voleva di sicuro un rapporto più personale con una cameriera. Forse il fatto di chiamarla Louise era solo un modo per mettermi in fallo. Dovevo stare attenta.  
Le porsi i miei saluti quando uscì.
Nell’attesa aiutai Samantha a pulire i vecchi armadi della soffitta. Era una ragazza simpatica e con lei il tempo passava in fretta. Mi raccontò dei suoi amici di Camberley, la città da dove veniva, e del suo ragazzo che lavorava come spazzacamino, qui a Londra.
Udii distintamente l’auto di Marcus. Dalla finestra della soffitta vidi Louise e l’uomo elegante di quel giorno che si dirigevano verso l’entrata della villa.
 Dovevo occuparmi di lei così mi precipitai, ma senza correre, all’ingresso.
Non si poteva correre, non era buona educazione.
 Aprii la porta e li feci accomodare. Sul viso di Louise era dipinta un’espressione di furia.
 Mi gettò il cappotto addosso e lo stesso fece lui. Poi lei salì di fretta le scale  e ancora lui la seguì. Non mi piaceva affatto quel tipo. Ma potevano rimanere soli insieme?  Se ne sarebbe occupato Burton, non di certo io.
Appesi i cappotti e mi diressi in cucina. C’erano Maxime, Patrick e Sam che mi sorrise cordiale.
“Scusate ma sapete chi è quel signore giovane che è venuto con la Contessa?”chiesi con nonchalance e fu Maxime a rispondere.
“E’ il signor Michael Darrens, il suo promesso sposo.”
Non era il suo tipo e di sicuro lei non era felice in sua compagnia.  Forse avrei fatto meglio a controllarli. Non volevo che dicessero che la Contessa si fosse compromessa prima delle nozze.
“Vado a controllare la Contessa.”
Salii le scale e sentite delle grida dalla sua camera, mi precipitai di fronte alla porta e la spalancai. Michael aveva spinto Louise sul suo letto e le era addosso.
 Senza pensarci due volte, lo afferrai per le spalle e lo spostai via da lei. Lo feci cadere in malo modo sul pavimento dove  si ferì la spalla sinistra. Louise mi si gettò addosso. Senza accorgermene la strinsi a me.
“Non finisce qui.”ringhiò Michael  e sparì stringendosi la spalla con l’altra mano.
“Sì, invece.”gli disse in risposta Louise.
Rimaste sole nella camera, mi afferrò la mano.
“Sei stata molto gentile a difendermi e ti ringrazio ma vorrei non facessi parola con nessuno di quello che è accaduto. Lo faresti?”
Mi fissò con quei suoi occhi magnifici e non potei che annuire.
 
 
“Signorina Johnson! A quanto pare è stata confermata! Raramente le cameriere che si presentano alla Contessa vengono accettate. Si ritenga fortunata e continui a essere in orario. Può trasferirsi nell’ala delle cameriere ora.”mi informò Burton prima di sparire nel suo ufficio. 
Avevo un lavoro fisso. Ma la cosa che mi preoccupava di più era la discussione fra Michael e Louise. Chissà perché avevano litigato. Scossi la testa e tornai a spolverare la libreria. 

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Capitolo 2
*** Leggere In Compagnia ***


Leggere in compagnia
 
2 dicembre 1952
 
Il sole mi aveva regalato una inaspettata bella giornata. Era dicembre per cui ne ero sorpresa. Mi affrettai a pagare la spesa per la famiglia Blake e tornai verso Browning Street con passo sicuro. Era quasi un mese che lavoravo per loro e a parte qualche alto e basso, mi ero ambientata bene. Non andavo molto a genio a Mary, forse perché pensava le avrei rubato il lavoro. Non era mia intenzione e di sicuro non volevo una cosa del genere. Ero una che si faceva abbastanza gli affari propri, a meno che non si trattasse delle persone a cui tenevo.
Louise mi aveva chiesto di non dire a nessuno di quell’episodio con il suo promesso e ovviamente non mi ero potuta rifiutare. Ma da quel giorno mi trattava con più freddezza. Forse aveva paura che l’avrei ricattata per avere più gratifiche con la promessa di non parlare. Se mi considerava una persona così orribile, si sbagliava di grosso. Non sono affatto così.
Scossi la testa e ritornai con i piedi a terra. Devo fare il mio lavoro. Per questo vengo pagata.
Posai tutto sulla grande tavola della cucina e aiutai Patrick a mettere i pacchetti comprati nei loro appositi spazi.
“Come state, signorina Johnson?”mi domandò improvvisamente.
“Ti ho già detto di chiamarmi Erin, Patrick.”
Arrossì. Era veramente un caro ragazzo.
“Allora, come stai, Erin?”provò di nuovo e un sorriso imbarazzato apparse sul suo viso.
“Bene, dai. Tu? Non hai una ragazza carina a cui comprare i fiori?”gli domandai scherzosamente ma lui diventò subito rosso come un pomodoro. Sparì nella dispensa. Avevo detto qualcosa che non andava? Ero stupita. Forse non ne poteva parlare o semplicemente era troppo timido. Un giorno mi avrebbe raccontato. Ora dovevo portare la colazione Louise. Sì, la chiamavo per nome nei miei pensieri, perché non mi riusciva di chiamarla Contessa.
Salii le grandi scale con il cabaret del tè caldo alla vaniglia, i biscotti, il latte e lo zucchero. Posai il tutto su un mobile e bussai alla porta.
“Avanti!”sentii chiaramente e così aprii la porta e mi inoltrai nella stanza. Louise era alla sua scrivania, china su grossi volumi e carte. Si lasciò andare contro la sedia.
“Ah sei tu, Erin. Lascia tutto lì. Berrò il tè quando avrò finito.”sentenziò e riprese la penna a sfera.
“Ma, mia signora, si raffredderà e ..”iniziai a protestare, senza comunque voler mancare di rispetto.
“Ho detto che lo berrò dopo! E ora esci!”
Non mi voleva nemmeno guardare in faccia? Non potevo continuare a essere trattata così. Così le preparai la tazza di tè come piaceva a lei: un po’ di latte e due zuccherini. Presi la tazza e la posai nell’unico spazio libero della scrivania. La vidi irrigidirsi.
Lentamente girò il viso nella mia direzione. I suoi occhi verdi si fissarono sui miei. Vi lesse determinazione e anche sfida. Nei suoi non lessi nulla. Di sicuro era arrabbiata o comunque indignata.
“Ecco il suo tè, signorina. Se volete qualcos’altro, suonate il campanello.”le ricordai e poi feci per congedarmi quando parlò.
“Grazie.”
Mi bloccai sul posto.
“Grazie per non aver detto nulla e per occuparti di me.”continuò. Non mi ero girata.
“Non deve nemmeno dirlo, mia signora.” Mi girai, feci una piccola reverenza e uscii senza essere congedata.  
Sarei stata licenziata. Di sicuro aveva ringraziato tutte le altre subito prima di licenziarle, come l’etichetta diceva di fare.
Perfetto. Che idiota.
 
Ero in cucina ad affettare carote quando Burton entrò e si diresse nella mia direzione con la solita posa delicata ed educata. Non correva mai o alzava mai la voce. Bastava una parola e tutti erano sull’attenti. Ecco che viene a licenziarmi. Lo sapevo.
“Signorina Johnson? Dovrebbe dare una ripulita al gazebo in giardino, la signorina Contessa vuole fare pranzo fuori, vista la bella giornata.”mi informò e il peso che avevo sul petto si dissolse nell’aria.
“Davvero?”chiesi stupidamente.
Lo vidi alzare le sopracciglia, sorpreso.
“Perché non dovrebbe, mi scusi?”espresse retorico.
“Mi scusi, non so cosa dico.”conclusi in fretta.
“Allora, farebbe meglio a restare in silenzio.”
Detto questo tornò alle sue faccende. Non ero stata licenziata. Una buona notizia finalmente.
Il gazebo. Giusto. Devo pulirlo.
Presi la scala, stracci, acqua calda in un secchio e mi diressi in giardino. Era messo maluccio. Lo dovevano aver usato poco da quando era stato costruito. Le erbacce lo avevano avvolto alla base. Era una bella costruzione. La base era circolare con balaustre e un piccolo tetto a cupola e vi si giungeva con una piccola scalinata. Tutto era in legno dipinto in bianco.
 Strappai tutte le piante rampicanti e lavai via i segni che avevano lasciato sul legno. Poi affrontai la parte interna. Ci misi tutta la mattinata ma alla fine sembrava quasi nuovo. All’interno aveva un tavolino circolare e tre sedie in legno di mogano antico. Tutto portava inciso delle bellissime roselline che erano il tema portante per l’intero gazebo.
Avevo appena finito che Patrick mi venne a chiamare. Dovevo preparare la Contessa per il pranzo.
Mi diressi nelle sue stanze.
Mi accolse con un sorriso. Cosa le era preso? Valla a capire.
Le feci indossare un soprabito. Vero che era una bella giornata ma era comunque dicembre e faceva freddo.
“Erin?”mi chiamò, mentre le infilavo e chiudevo la camicetta rosa chiaro.
“Sì, mia signora?”risposi, concentrata in quello che stavo facendo.
“Perché non mi chiami Louise?”
Mi fermai un attimo prima di chiudere l’ultimo bottone, poi risposi.
“Non vorrei crearle imbarazzo, potrebbe sfuggirmi di fronte ad altri se prendessi l’abitudine di chiamarvi con il vostro nome di battesimo.”risposi ancora, con cautela.
“Non mi creeresti imbarazzo. Io ti chiamo con il tuo nome di battesimo.”continuò.
“Ma voi siete una contessa e io una semplice cameriera. Vi prego di scusarmi.” Finii di vestirla e poi chiesi il permesso di congedarmi.
Perché voleva essere chiamata con il suo nome di battesimo? Da me soprattutto. Una cameriera qualsiasi. Non sapevo che dirmi. Era strana forte. La mattina è fredda come il ghiaccio e a pranzo già vorrebbe essere la mia migliore amica.
 
 
Ero al secondo piano e passando distrattamente di fronte a una finestra che dava sul giardino e il gazebo, vidi Louise accasciarsi sulla sua sedia. Come se avesse avuto un malore improvviso.Non c’era nessuno con lei.
Cosa le era successo? Dissi addio alle buone maniere e mi scaraventai giù dalle scale e fuori in giardino. Le arrivai vicinissima.
“Signorina!!Signorina! Si sente male!”E la scossi leggermente. Vidi che stringeva un foglietto.
Se mi chiami per nome, ti risponderò
Cosa??! Era uno scherzo? Eppure non si muoveva. Così tentai ancora.
“Signorina Contessa?”
Nulla.
“Louise?”provai e la vidi sorridere.
 Dio! Era pazza! Tutto quello perché voleva essere chiamata per nome da me!
 Stavo per chiamare i soccorsi.
Aprì gli occhi.
“Era tanto difficile?”domandò come se non fosse successo nulla. I capelli biondi raccolti in una crocchia si erano sfilata dall’acconciatura. L’avevo scossa così forte?
“Mi spiace avervi scossa, signori..”E già stava accasciandosi di nuovo.”Louise!”
“Molto meglio.”  Le aggiustai i capelli e poi riprese il suo pranzo
Sbattei le palpebre stupita. Rimasi accanto a lei mentre mangiava: riso con gamberetti e piselli verdi, insalata di lattuga e una fettina di arrosto con come dessert una fetta di torta alle mele.
“Ne vuoi, Erin?”mi offrì la torta. “Non riesco a finirla, tanto.”
“No, grazie, mia … Louise.”conclusi mentre rifiutavo gentilmente la torta alle mele.
Fece spallucce e poi si pulì la bocca con il tovagliolo.
Fece per alzarsi ma rimase impigliata nel suo stesso vestito. Sarebbe caduta, sbattendo la testa sul tavolo se non fossi intervenuta prontamente. L’afferrai fra le mie braccia e la strinsi.
Quante volte mi voleva far venire un colpo al cuore di oggi?
Sentii che si afferrava a me e mi teneva in una morsa. Il suo respiro affannoso mi solleticava il collo e improvvisamente non volli che si staccasse da me. Ma il decoro lo impediva, così la feci ristabilire sulle sue gambe e l’accompagnai nelle sue stanze. Non diceva nulla.
“Siete sicura di stare bene, Louise?”domandai e la feci cambiare.
“Devo solo riposare. Troppe emozioni in una volta sola.”rispose dopo un po’.
 “Ma certo. Volete qualcosa?”domandai di nuovo. Mi stavo preoccupando davvero per lei.
Ci fu un attimo di silenzio poi parlò.
“Ti andrebbe di leggere per me?”
Sorrisi a quella richiesta. Anche io chiedevo a mia madre di leggere per me quando stavo male da piccola. Una piccola fitta di dolore mi colpì ma scacciai subito via il ricordo.
“Cosa volete vi legga?”E osservai la sua piccola libreria. C’erano molti volumi e dei più disparati.
“Mi andrebbe L’isola del tesoro di ..”
“Stevenson.”conclusi per lei. “Mia madre me lo leggeva sempre da piccola.”
“Anche la mia.”
Sorridemmo come due ebete.
Mi persi nei suoi occhi per un momento poi presi il libro e iniziai a leggere. Lei era sdraiata nel suo letto, sotto le coperte e con un braccio piegato sotto la testa si preparò ad ascoltarmi leggere. Io ero seduta sulla poltrona di pelle. Iniziai a leggere.
“Pregato dal cavalier Trelawney, dal dottor Livesey e dal resto della brigata, di scrivere la storia della nostra avventura all'Isola del Tesoro, con tutti i suoi particolari, nessuno eccettuato, salvo la posizione dell'isola; e ciò …”
Lessi fino a quasi perdere la voce e pian piano la osservai addormentarsi. Chiuse gli occhi e nel sonno aveva una pace assoluta e il viso era più bello che mai.
Ma cosa sto pensando? Mi ripresi. Lentamente posai il libro sul comò e feci per alzarmi quando mi chiamò.
“Erin..”
Mi girai ma era ancora addormentata. Aveva detto il mio nome nel sonno. Non so perché ma mi si sciolse il cuore. Sorrisi mentre le rimboccavo le coperte e poi uscii piano per non svegliarla.
 

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Capitolo 3
*** La Prima Nevicata ***


La prima nevicata
 
19 dicembre 1952
 
Ha iniziato a nevicare finalmente. Pensavo non sarebbe più caduta. Ai primi giorni del mese di solito aveva già nevicato ma ovviamente poteva variare di anno in anno. Mi portai vicino a Louise che studiava su un tomo di medicina, penso anatomia. I capelli biondi erano sciolti e creavano una tenda che mi impediva di vedere cosa stesse scrivendo.
“Sign .. Louise?”la chiamai. Alzò lo sguardo verso di me e sorrise.
“Erin, dimmi. “rispose gentile. Il nostro rapporto era migliorato molto e non avevo quasi più difficoltà a chiamarla con il suo nome.
“Mi chiedevo se potessi avere il pomeriggio libero … sta nevicando e vorrei andare al parco di Ridgeston.”le chiesi piano.
Mi stavo torturando le dita, nascoste dietro la schiena.
Posò la penna e si girò nella mia direzione con il busto fasciato in una camicia blu scuro, le maniche arrotolate sopra il gomito. Mi fissò a lungo con i suoi specchi verdi.
“E da che ora ti troverai là?”si informò tornando alle sue carte.
“Penso per le tre.”
“Molto bene, allora. Ci verrò anche io.”
Strabuzzai gli occhi. “Ma voi non potete venirci!”esclamai subito.
Alzò le sopracciglia stupita.
“Come, prego?”
Il tono mi stupì. Non era arrabbiata, solo sorpresa. Perché lei non poteva andare  al parco? Ma che problemi ho?
“Nulla.”replicai sperando di farle capire che mi dispiaceva per quello che avevo detto. Ma ero curiosa per cui non resistetti e glielo chiesi.
“Quindi, come mai venite al parco?”
 La vidi guardare verso la finestra, dove i fiocchi si adagiavano lentamente.
“Perché sta nevicando.”
 
La neve si era fermata poco prima che uscissi dalla villa. Un manto bianco si estendeva ovunque, imbiancando perfino i camini da cui usciva fumo. Mi strinsi nel mio unico cappotto, un regalo di mio padre. Il calore che mi avvolgeva mi ricordava il suo abbraccio. Mi mancava così tanto.
Un bimbo tirava uno slittino con una corda e si dirigeva come me verso il parco Ridgeston. Lo avevo scoperto un mese fa, passandoci per andare dalla sarta per un vestito di Louise. Mi aveva affascinata così tanto che mi ero chiesta come sarebbe stato con la neve.
Seguii le orme che aveva lasciato il bimbo e mi ritrovai al parco.
Come avevo supposto, era stupendo. La neve era andata ad appesantire le chiome degli alberi, lasciando cerchi di terra brulla dove non era caduta. Le panchine erano tutte ricoperte di neve e la fontana al centro era ghiacciata. Dei piccoli cristalli si erano formati ai lati della statua greca al centro della fontana stessa. Mi beai di quella bellezza.
 Non c’era ancora nessuno ma presto sarebbero arrivati. La neve attira i bambini e come logico anche gli adulti.
Passeggiai godendomi dell’aria frizzantina, superata di corsa da ragazzini che si sfidavano a palle di neve. Dovetti fare attenzione per non prendermene una in pieno viso.
 Mi fermai sotto il più grande albero dell’intero parco.
“Erin?”mi sentii chiamare.
Era Louise.
 Mi girai nella direzione della sua voce. Indossava un soprabito bianco sopra una gonna lunga nera. I capelli biondi erano sciolti sulle spalle e sul capo portava un cappello di pelliccia nero.
Un sorriso meraviglioso le si era dipinto sul volto.
“Louise! Siete venuta davvero!”esclamai sorpresa.
 Rise. Dio, amavo la sua risata perché era così rara. Da quando ero diventata così sdolcinata?
“Ovvio. L’avevo detto.”
“E siete venuta per incontrare qualcuno..?”domandai, la voce improvvisamente bassa.
 Non volevo che ci sentissero. Era la Contessa di Blakelake. Non potevo permettere che fosse messa in cattiva luce. Mi osservò divertita.
“Forse. Tu? Tutta sola?”mi prese in giro come era solita fare.
Avevamo iniziato a camminare fianco a fianco. Le nostre braccia che quasi si sfioravano.
 Era permessa così tanta vicinanza in un luogo pubblico fra la Contessa e la sua cameriera personale?
Annuii e i miei boccoli si spostarono insieme al movimento della testa. Adoravo i miei capelli. Era raro che potessi averli sciolti. Sul posto di lavoro dovevano essere rigorosamente raccolti.
“A cosa pensi?”si rivolse di nuovo a me, ancora curiosa.
“Penso a quanto sia una bella giornata.”risposi semplicemente.
“Lo è, davvero.”Fece una pausa e poi si fermò.”Sai che hai dei capelli meravigliosi?”
Mi bloccai sul posto. Ero diventata tutta rossa.
“Grazie, Louise.”riuscii a balbettare infine. Ma cosa le era preso?
Continuammo a camminare in silenzio.
Improvvisamente dei bambini ci arrivarono alle spalle con le loro palle di neve. Era da un’ora che si rincorrevano.
Una palla di neve lanciata male mi avrebbe colpito in viso se Louise non si fosse messa di fronte a me. Infatti colpì lei. Cadde in ginocchio nella neve. Fra le urla, i bambini sparirono dalla nostra vista.
“Oh mio Dio, Louise? Come state? Ci vedete? Cosa vi è saltato in mente?”
La feci alzare in piedi. Eravamo più o meno alte uguali e questo giovò nel momento in cui ispezionai il suo viso perfetto. La neve aveva colpito la parte sinistra del viso. L’impatto era stato forte ma non era entrata nell’occhio. La ripulii con il fazzoletto.
Lentamente passai ovunque e portai via ogni fiocco di neve e quando riaprì gli occhi, il loro verde foresta mi colpirono con intensità. Avevo le mie mani attorno al suo viso. Ci guardammo a lungo. Arrossii violentemente e staccai le mani. Abbassai lo sguardo.
“Mi spiace che vi abbiano colpito. Se volete punirmi, fate pure.”
La sua risata mi fece pietrificare. Stava ridendo? Avrebbero potuto accecarla e lei rideva? Alzai i suoi occhi e la vidi piegata in due dalle risate. Alle contesse era permesso ridere a quel modo?
Non mi importava. Iniziai a ridere anche io. Le nostre voci ilari si unirono e fu come se fossimo davvero solo due amiche. Niente di più, niente di meno.
Il pomeriggio passò in fretta e poi fu il momento di rientrare. Lasciammo il parco innevato ai bambini e alle mamma apprensive.
 
 
Erin mi era sembrata finalmente rilassata. Provavo uno strano attaccamento a quella ragazza. Aveva ventitre anni come me e provenivamo da mondi diversi. Questo era sicuro.
Ma avevamo connesso. Eravamo più di conoscenti ma meno di vere amiche. Ero arrivata a voler sapere di più su di lei: cosa le piaceva fare, dove voleva andare nella vita, i suoi sogni e aspettative. Ma non potevo farle delle domande così dirette e così personali, quindi quando rivelava qualcosa di sé lo serbavo nella memoria per poterlo ripescare quando ne avessi avuto bisogno.
Come al parco oggi pomeriggio. Era veramente bella non stretta in quei vestiti da cameriera. I capelli erano ricci ma a boccoli e le incorniciavano il viso in modo meraviglioso. Così mi era sfuggito, l’avevo vista arrossire. Era davvero una ragazza dolce ma anche così chiusa. Non ero riuscita a scoprire poi molto e non rivelava nulla. Mai.
Eccola che ritorna con il tè che le ho gentilmente chiesto di portarmi. È di nuovo in veste da lavoro e il sorriso rilassato, sparito.
“Grazie.”le dico quando mi posa la tazza sulla scrivania dove ci sono tutti i miei volumi di medicina. Sto studiando per diventare medico ma è dura. È sempre stato il mio sogno, per cui lavorerò per realizzarlo. Non ne avrei bisogno perché non mi mancano certo i fondi ma è sempre meglio sapersela sbrigare nella vita.
“Avete bisogno di qualcos’altro?”mi domandò, lo sguardo che vagava lungo la libreria. Le piaceva leggere. Era ovvio. Ma volevo si aprisse con me.
“Vorrei che leggessi di nuovo per me.”chiesi. La vidi sorpresa. Poi sorrise. Dio, quanto è bello il suo sorriso?
Ora ci voleva un libro che le piacesse. Ma quale?
“Posso chiedervi cosa volete che vi legga?”
Si era seduta nella poltrona dopo che mi fui messa a letto. Il tè stretto fra le mie mani.
“Perché non mi leggi Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen?”proposi e la guardai. Il sorriso si fece più  grande.
“Mi piace molto quel romanzo.”
“Anche a me.”
Di nuovo, lesse per me e stavo quasi per addormentarmi al suono della sua voce quando notai che delle lacrime erano scese sul suo viso mentre leggeva.
“Tutto bene, Erin?”
Si sfregò le guance.
“Io .. sì, sì..”
Ma non smetteva di piangere. Scesi dal letto e andai al suo fianco.
“Cosa succede?”sussurrai e la presi fra le mie braccia. Non ero mai stata così vicino a qualcuno.
“Stavo solo pensando a mio padre.. lui non c’è più e ora la mia famiglia..”si bloccò“Oh mi dispiace, mia signora. Non so cosa mi sia preso, non dovevo lasciarmi andare così. Non accadrà più.”
Le sue parole mi ferirono come poche erano riuscite. Si alzò e sparì dalla stanza.
Cosa le era successo? Perché non si voleva aprire con me? 

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Capitolo 4
*** Confessioni e Stratagemmi ***


Confessioni e stratagemmi
 
10  gennaio 1953
 
Scrissi l’ultima parola per quella giornata. Fra poco sarebbero iniziati gli esami e dovevo prepararmi al meglio.
Avevo bisogno di rilassarmi un po’. Magari Erin mi avrebbe fatto un po’ di compagnia.
Ah, giusto, era tornata nel suo paesino per delle faccende personali. Aveva chiesto il permesso a Burton e lui l’aveva fatta andare, anche se con qualche riserva.
Non la capivo. Da quando lavora per me, la tratto in modo equo ma ovviamente la sento più vicina rispetto a Mary o Sam.
Lei è diversa. Sembra forte ma ha bisogno di qualcuno che si occupi di lei. Sembra così sola. È davvero una bella ragazza: capelli castani a boccoli, occhi azzurri penetranti e un corpo ben proporzionato, con linee definite e dolci. Potrebbe avere un bel ragazzo al suo fianco o forse è lui che sta andando a trovare.
Strano, cos’era questo fastidio? Scacciai via quel pensiero assurdo. Mi stiracchiai e mi misi a letto. Avevo  bisogno di riposare. Tutto questo studio fa male.
 
11 gennaio 1953
 
Erin è tornata ma sembra diversa. È più pallida. Non mi rivolge quasi parola se non per rispondere alle mie richieste. Non oso chiederle di più. Il suo sguardo ha perso quel poco di gioia che accompagnava i suoi occhi. Mi chiedo cosa le sia successo.
Suonai il campanello. Attesi alcuni minuti, poi un leggero bussare alla mia porta.
“Avanti.”
Erin entrò con passo cauto.
“Avete chiamato?”
Lo sguardo era fisso sopra la mia testa. Non voleva nemmeno guardarmi? Vediamo se riuscivo ad attirare la sua attenzione.
“Sei licenziata.”sentenziai.
Finalmente mi fissò negli occhi e vidi paura. Moltissima paura.
“Io .. “Non finì nemmeno quella frase.
Cadde in ginocchio. Volevo che mi parlasse, non che le venisse un attacco isterico. Mi portai vicino a lei.
E la abbracciai. Il calore del suo corpo mi mandò degli inaspettati brividi. Desiderai proteggerla da tutto.
“Cosa ti succede?”
Non faceva che piangere fra le mie braccia. Dovrei sentirmi in imbarazzo? Sono una contessa e lei una cameriera. Smettila, cosa pensi? Dille qualcosa, qualsiasi cosa.
In mano avevo qualcosa.
“Un biscotto?”
Si era fermata. Non era più scossa dal pianto.
Annuì e afferrò il biscotto che avevo in mano. Piano aprì la bocca  con i denti perfetti diede un morso. Aveva gli occhi chiusi. Il fantasma di un sorriso spuntò sulle sue labbra piene e rosse.
“Grazie …”
“Ti andrebbe di raccontarmi?”
Sospirò a voce alta.
“Sono rimasta orfana.”
Spalancai la bocca per dire che mi dispiaceva ma non mi  uscì alcun suono. Non feci altro che stringerla più forte a me. I suoi capelli profumavano ma non saprei dire di cosa. Di buono, di casa. Lentamente iniziai ad accarezzarli.
“La mia famiglia è composta da me, mio fratello maggiore e da mia sorella minore. Mio padre è morto cinque anni fa; Alice era appena nata. Un infarto. Da allora lavoro per mantenere mia madre e mia sorella come posso.”
“E quel tuo fratello maggiore?”chiesi per potermi fare partecipe della confessione.
Rise ma era una risata amara.
“Non ci può aiutare. È diventato parroco in un vecchio paesino e da allora non l’ho più visto. Ma non mi importa. Ha fatto la scelta che gli conveniva di più.”
“Tua madre è impiegata da qualche parte?”provai ancora.
“Lavorava come cameriera in un bar ma l’hanno mandata via poco prima che mio padre morisse. Ho iniziato a lavorare per forza e ho abbandonato gli studi.”
Ora capivo di più la situazione. Capivo di più lei. Ma aveva detto che era rimasta orfana. Se suo padre è morto cinque anni fa, questo significa che..
“Mia madre è morta cinque giorni fa. Ha avuto un mancamento improvviso, i medici non sanno spiegarselo e non sono riusciti a salvarla.”
“Mi dispiace.”
Che parole stupide mi erano appena uscite. Il mio essere dispiaciuta riporterà indietro i suoi genitori?
Ma lei mi prese la mano con la sua e la strinse. I nostri occhi si incontrarono per un momento.
Il mare e la foresta.
“Grazie.”
Sorrisi e lei finalmente piegò all’insù gli angoli della sua bocca delicata.
 
Era questo il grande peso che si portava dentro, allora. Era veramente dura e la potevo capire. Io avevo perso mia madre quando avevo sei anni e da allora mi era sempre mancata una parte fondamentale della mia vita.
Mi rigirai nel letto di piume e fissai la luna che era spuntata da dietro una nuvola. Essere orfani. Non avere nessuno a cui affidarsi deve essere una situazione veramente dura. Avrei cercato di aiutarla. Almeno come potevo. Chiusi gli occhi e mi abbandonai alle braccia di Morfeo.
 
20 gennaio 1953
 
Spolverai l’ultimo scaffale e riposi gli oggetti di valore al loro posto. Pulii il resto delle finestre e poi mi portai in cucina dove feci lo sputino che mi aveva gentilmente preparato Patrick.
Louise mi stava evitando. Se doveva farsi dare delle cose, se le faceva portare da Sam o Mary e non avevamo più avuto alcun tipo di conversazione. L’avevo messa in imbarazzo con quello che le avevo confessato? Dio, doveva essere per questo motivo di sicuro.
Dovevo rimediare. La nostra relazione era di più che semplice contessa e cameriera. Mi ero confidata con lei e lei con me. Eravamo amiche? Non saprei dire ma era importante per me.
Mi portai alla sua porta.
“Avanti!”mi invitò come al solito, dopo che ebbi bussato.
Quando mi vide, si voltò di nuovo verso i suoi libri. Mi ignorava?
“Volevo dirti che .. non capisco cosa succede fra di noi..”
Eravamo un “noi” ora?
Si irrigidì sulla sedia. Poi sciolse le spalle e si girò nella mia direzione. I capelli erano raccolti in uno chignon e una matita spuntava da sopra il suo orecchio sinistro. Era ancora più bella.
“Che succede fra di ?”riprese la mia frase, aggiungendovi un tono sarcastico.
“In senso … fra me e te.”
“Beh, noi è riferito a due persone e per te sembra si riferisca a me e a te. Ma non c’è nessun noi.”
Non mento. Ci sono rimasta davvero male. Davvero molto male. Cosa le prendeva ora?
  “Non capisco cosa intendi, Louise.”continuai.
Volevo farmi male. Era ovvio.
“Louise? Sono la Contessa per te. E ora esci di qui o ti faccio licenziare.”
Il cuore mi si fermò per un attimo. Non potevamo essere amiche. L’aveva messo in chiaro.
Quanto ero stata stupida a credere che potessimo esserlo.
“Mi scusi per la mia insolenza. Non accadrà più.”
Mi congedò e appena fui fuori da quella stanza, sentii i lati degli occhi pizzicare. Volevo piangere, così corsi nella mia stanza.
 
“Burton, è tutto fatto?” domandai. La penna si fermò per ascoltare la risposta.
“Sì, mia signora.”
E ripresi a descrivere il muscolo del polpaccio sul foglio di fronte a me.  

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Capitolo 5
*** Perché ***


Perché
 
5 febbraio 1953
 
Il tempo scorreva lento nella villa della Famiglia Blake. Mi ero ormai abituata ai suoi ritmi, alle sue tradizioni. Il Conte si era fatto vivo raramente nei mesi passati ma questo fine settimana sarebbe ritornato per fare visita a Lou .. alla Contessa.
Con lei sono rimasta ai ferri corti. Non mi parla più, non mi guarda nemmeno. E questo da due settimane. Cosa le avevo fatto? Non era forse eccessivo reagire così. È vero che le avevo raccontato di essere rimasta orfana ma se si scandalizzava per così poco, come avrebbe potuto fare il medico? Fatto sta che non abbiamo più alcun tipo di rapporto. Mi guarda solo per darmi ordini o riprendermi. I suoi occhi si incatenano ai miei. Sembrano volermi dire qualcosa ma poi distoglie lo sguardo e non leggo nulla nelle sue iridi. Ma mi immagino di sicuro tutto.
Era tutto un gioco per lei?
Non so perché ma non poterle parlare o sentirla ridere, mi rende triste.
Lustrai le scarpe del Conte che teneva nel suo armadio e poi scesi in cucina. Patrick mi sorrise ma dovette tornare ad occuparsi delle sue patate. Sam era seduta e si stava mangiando una mela mentre leggeva il Times.
“Erin, vieni a sederti con me. Vuoi un pezzo di mela?”mi offrì con un sorriso.
“No, grazie.”rifiutai gentilmente. Alzò le spalle.
“Ti va di uscire insieme a me e James, questo sabato? Andiamo a vedere Appuntamento col Destino.”mi invitò.
Questo sabato dovevo accompagnare la Contessa a un ballo. Dovevo prepararla e se mai avesse avuto bisogno, aiutarla in ogni modo. Non potevo farle mancare nulla.
“Devo preparare la Contessa per il ballo in onore di suo padre.”risposi e lei disse che sarebbe stato per un’altra volta.
La salutai e tornai alle mie faccende.
Era molto gentile con me e cercava di farmi uscire, incontrare qualcuno. Ma non mi interessava. Avevo altro di cui occuparmi. Mia sorella.
Ora stava da mio zio che si occupava di lei. Era un brav’uomo ma volevo portala a vivere con me appena avessi potuto.
 
 
8 febbraio 1953
 
Avevo scelto un vestito rosa salmone che mi arrivava poco sotto il ginocchio e un golfino bianco che mi copriva le spalle. I capelli biondi erano raccolti in una treccia che mi scendeva sulla spalla sinistra.
Non volevo venire a questo ballo ma era l’unico modo per incontrare  mio padre.
Amavo mio padre ma sarebbe stato tutto più semplice se non fosse stato un Conte. Ufficialmente non ero ancora Contessa ma tutti mi chiamavano così.
 La Contessa.
 Dovevo spaventare molte persone. Non era di certo il mio intento ma almeno teneva alla larga persone che non sopportavo.  Come quell’ufficiale dell’esercito che mi sta squadrando fin da quando sono entrata nella sala da ballo.
Il mio promesso sposo, insopportabile dalla testa ai piedi, è lì che si chiacchiera con un suo amico. Dio, quanto è un leccapiedi. Come può aspettarsi che lo sposi? Non ha spina dorsale e pensa di essere migliore di me. Lasciamolo perdere che è meglio.
Ho lasciato Erin nella mia stanza a mettere i miei vestiti nell’armadio. Non vado spesso nell’altra casa di mio padre per cui mi sono portata dietro qualche vestito di ricambio.
Erin è arrabbiata con me e lo capisco; anche io sarei arrabbiata con me stessa se venissi trattata  così di punto in bianco. Ma è meglio che non sappia il perché. Le creerebbe solo danni.
Presi un tramezzino e mi sedetti in un angolo. Non avevo voglia di parlare con nessuno. Mio padre non era nemmeno arrivato. Ed era la sua festa.
Faceva abbastanza caldo. L’ambiente era pieno di persone che chiacchieravano, parlavano e alcuni ballavano sulle note leggere date dal pianista.
Michael si avvicinò. Doveva farlo. O che fidanzato sarebbe stato?
“Cara, cosa fai qui tutta sola?”mi chiese, cercando di essere affabile.
“Rifletto sull’inutilità di feste come queste.”
Fece per sfiorarmi il braccio ma mi scostai.
“Non siamo sposati. Stammi alla larga.”
Si guardò attorno sorridendo. Doveva mantenere la facciata.
“Se continui così, nessuno ti sposerà.”
Detto questo se  ne andò da una vecchia signora molto ricca e potente. Evidentemente avrebbe preferito sposare lei.
Un signorotto mi si avvicinò e prese del punch, servito da un ragazzo in giacca e cravatta.
Mi ero seduta molto vicino al rinfresco. Non avrei dovuto fare molta strada se mi fosse venuta fame.
L’uomo mi si accostò.
“Contessa.” E mi salutò inchinandosi ma così facendo, il bicchiere con il punch si girò e si versò. Sul. Mio. Vestito.
Strillai. Il liquido freddo mi aveva inzuppato la parte inferiore dell’abito. Si stava già incollando alle mie gambe. L’uomo iniziò a scusarsi in mille maniere. Alla fine riuscii a farmi accompagnare nella mia stanza dal ragazzo del punch.
Erin mi venne subito incontro, allarmata.
“Che è successo all’abito?”chiese mentre iniziava a togliermi il golfino e mi apriva l’abito dietro la schiena.
“Un tizio mi ha versato addosso il punch. Idiota.”
Preparò la vasca con l’acqua calda e poi mi lavò via tutto dalle gambe. Mi fece asciugare e poi mandò a dire che mi sarei ritirata nelle mie stanze per quella sera. Non avevo voglia di vedere nessuno.
Mi stava asciugando i capelli quando parlò.
“Perché non mi vuoi parlare? Cosa ti ho fatto? Pensavo fossimo amiche. Mi sono confidata con te!”
Mi pietrificai. Eravamo sole e avrei potuto dirglielo, lontane come eravamo da orecchie indiscrete.
“Non so di cosa parli.”
Ero seduta in poltrona. E lei lasciò andare i miei capelli e si mise in ginocchio di fronte a me. Mi afferrò la mano.
“Cosa è successo?”
“Io …”iniziai. Ma era saggio dirglielo? Avrebbe voluto sapere il motivo poi.
“Non lo dirò a nessuno. È ancora per colpa del vostro futuro marito?”chiese timidamente e abbassò lo sguardo.
Afferrai il suo mento e lo alzai in modo che il suo sguardo incontrasse il mio.
“Non c’entra lui.”
“E cosa allora?”
“Io ho pagato perché a tua sorella sia data una istruzione esemplare e ho saldato i debiti di tuo zio. Sto aiutandolo anche a terminare la casa in modo che possa vivere agiatamente con tua sorella.”
La bocca le si era spalancata per la sorpresa. Gli occhi divennero lucidi.
“E perché non me lo avete detto? Perché trattarmi così?” Il suo tono era ferito. L’avevo ferita davvero così tanto?
“Perché se il resto dei domestici avesse saputo che ti favorivo, ti avrebbero messo i bastoni fra le ruote e soprattutto avrebbero sparso la voce che la Contessa si lasciava controllare dalla sua cameriera personale. Tuo zio mi aveva promesso che non ti avrebbe detto nulla, così che non ti sarebbe giunto nulla alle orecchie.”
Non aveva detto ancora una parola.  Forse avrebbe dimenticato quello che le avevo detto, così non avrebbe avuto guai.
“Perché?”chiese.
Ero confusa.
“Cosa?”
“Perché lo hai fatto?”
“Io penso perché.. “
Si era fatta improvvisamente vicina. Le nostre fronti quasi si sfioravano.
“Io..”
E poi mi baciò. 

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Capitolo 6
*** Domande e Gelosie ***


Domande e gelosie
 
Le sue labbra sapevano di ciliegie e tutto quello che sentivo era un dolce calore.
Non ero mai stata baciata. Dio che sciocca! Le poche mie compagne di università erano anche loro di buona famiglia e avevano già baciato i loro promessi. Di baciare Michael, non ci pensavo nemmeno. Oh, lui voleva ma non io non volevo lui. Era solo un matrimonio combinato. Avevo iniziato l’università anche per rimandare il momento del matrimonio. Di almeno .. una decina di anni. La mia classe sociale era inorridita. Studiare? Ma perché sforzarsi se potevi sposare un uomo che avrebbe fatto tutto per te? Ecco, sinceramente non avevo alcuna intenzione di farmi comandare a bacchetta da quel pidocchio di Michael. I miei vari svenimenti erano un modo per tornare alla villa e mandarlo via.
Mi accorsi di star rispondendo al bacio. Ma era questo che volevo? Ero una invertita? Non sapevo cosa voleva dire. Una cosa sola avevo nella testa: continuare a baciarla.
Lo sapete quando sente che state facendo la cosa giusta e non vi importa più del resto? Ecco, ero io mentre sentivo Erin baciarmi.
Fu lei ad interrompere il contatto.
“Scusa .. oddio.. non avrei dovuto … io ..”
Si passò le dita vicino alle labbra per disegnare il contorno.
“Devo finire di asciugarvi i capelli.”
Non mi veniva nulla da dire. Cosa potevo dire? – Mi è piaciuto baciarti, vuoi sposarmi? –
Non mi pareva il caso. Così le lasciai asciugarmi i capelli. Molte ragazze si baciavano per imparare la tecnica? Non era così che funzionava? Ma perché baciare me? Perché in quel momento?
Troppe domande a cui non sapevo rispondere.
 
Cosa mi era saltato in mente? Perché baciarla? Me ne ero innamorata? Ma era giusto? Non pensavo di essere così. Ma lo ero? Era davvero così importante avere una etichetta? Vero che tutto aveva una etichetta ma non volevo averla. Era stato solo un bacio. Eh che bacio! Ma lasciando perdere questi dettagli, non voleva dire molto. Forse volevo ringraziarla per quello che faceva per mia sorella. Di sicuro era per questo. Ma era davvero così?
Il mattino era arrivato portando tutte queste nuove domande. Dovevo concentrarmi. Il tempo scorreva in fretta. Preparai il bagno per Louise e quando si lavò, evitai ogni tipo di contatto. Non volevo mi licenziasse perché ero un’invertita. Non lo sono. Quante paranoie. La feci vestire per l’incontro con il padre. Nessuna parola dalla sera prima o almeno nessuna parola che si riferisse al fatto. L’aveva rimosso di sicuro. Ma certo. Cosa poteva importarle di un bacio? In fondo, il suo promesso gliene dava di migliori di sicuro. Anche se non era concesso dalle regole. Ma a chi importa delle regole, quando si tratta dell’amore?
 
Erin non mi parlava. Non mi guardava. Eseguiva quello che le chiedevo. Forse non voleva ricordare quello che era successo. Ebbene, io non volevo dimenticare e non volevo lo facesse lei. Durante la notte avevo ripensato a quel bacio e non desideravo che poter posare le mie labbra sulle sue di nuovo. Era tutto quello di cui mi importava ora.
Trovai mio padre seduto dietro una scrivania di mogano nel suo studio. Aveva lunghi baffi biondi che si arricciavano sul fondo e basette; gli occhi erano verdi come i miei e i capelli biondo scuro erano ancora folti  e ben pettinati. Il sorriso che mi regalò quando entrai era grande e caloroso.
“Cara, siediti pure.”
Nemmeno un abbraccio. Non era previsto dall’etichetta.
Ma mi bastavano i suoi sorrisi. Mi amava davvero ed era un ottimo padre.
“Come stai? Come va con gli studi? E Michael?”
Faceva sempre mille domande di fila per cui dovevo ricordami quello che mi aveva chiesto.
“Sto .. direi che sto. Gli studi sono impegnativi ma gli esami vanno bene. Mi piace quello che sto imparando, padre. Con Michael va tutto bene.”
Una piccola bugia. Ma non volevo ferirlo.
“Sono felice di udire tutto ciò. Ma come mai non sei felice? Michael non ti ama?”chiese improvvisamente preoccupato.
“Diciamo che sono io che non sono entusiasta della sua compagnia.”
“Ah. È un bravo ragazzo. Con il tempo, imparerai ad amarlo.”
Mi vennero in mente le mani e le labbra di Erin. Non penso sarei riuscito ad amarlo.
 
 
Altra festa in onore del Conte. Dovevo servire al posto del ragazzo della sera precedente. Si era ammalato. Mentre servivo da bere agli invitati, notai Louise chiacchierare amabilmente con Michael. Perché gli sorrideva così tanto? Non lo sopportava,giusto? O forse era tutta una finta? Oddio, perché sono gelosa?
Una signora anziana mi chiese di servirle un bicchiere di Champagne e poi altri si vennero a ordinare drink. Lavorai incessantemente ma non perdevo occasione per osservare Louise. Perché doveva stargli così appiccicata?
“Del punch per la mia signora e dello Champagne per me.”Eccoli, venivano a prendersi le loro bevande.
Lui mi sorrideva amabilmente. Louise si aggrappava al suo braccio. Posso staccarglielo quel braccio. Lei non faceva che volgere il capo in un’altra direzione. Avevo combinato un bel casino.
Dovevo risolvere.
La serata continuò con me che rosicavo mentre osservavo la coppia e con un giovane figlio di un marchese che cercava di farmi ridere. Il fatto è che non sapevo nemmeno chi fosse. E poi perché parlarmi in pubblico? Doveva farlo per fare arrabbiare la sua famiglia che ci indicavano scuotendo la testa.
“Ma si può sapere chi sei?”mi chiese ancora una volta. “ E soprattutto perché continui a fissare Louise in quel modo?”
Per poco non versai il punch sulle sue scarpe. Erano dei mocassini bianchi e neri che si intonavano al suo completo nero gessato. Era un bel ragazzo, alto e muscoloso. Gli occhi color nocciola sprizzavano simpatia e i capelli castani erano arruffati. Doveva essere un giovane ribelle dell’aristocrazia che parlava con le cameriere per mettere in imbarazzo i suoi genitori. Ma questo non evitava la domanda che mi aveva posto.
“Oh beh .. è la mia signora e non vorrei che fosse in pericolo.”
“Fra tramezzini e Champagne. Che pericolo!”sogghignò e lanciò uno sguardo di intesa nella mia direzione. Poi chiamò con un cenno Louise e Michael che vennero verso di noi.
Una volta qui, io e Louise facemmo attenzione a non guardarci negli occhi. Io non volevo che sapesse quanto fossi gelosa e lei che non rivelassi niente a nessuno. Ne sarebbe andata della sua reputazione.
“Samuel!”esclamò lei e si lasciò baciare la mano in segno di salute. Quindi si chiamava Samuel.
“Come stai?” chiese ancora poi lei.
“Stavo facendo amicizia con la ragazza qui.” E sorrise nella mia direzione. Io abbassai lo sguardo.
“Trattamela bene. Se volete scusarmi, devo andare a parlare con mio padre.”Poi sparì di nuovo fra gli invitati con Michael al seguito.
Mi voleva ancora con sé? Non era cambiato nulla?
“Non essere gelosa. Lei non lo ama.”sentenziò Samuel e anche lui tornò alla festa.
Che avesse capito tutto? Ma se io non avevo ancora capito nulla. Tornai ai miei drink.
 
 
La festa era finita e mi trascinai in camera con Erin che mi seguiva. Era tutta la sera che la osservavo servire. Era così gentile, sorrideva a tutti e augurava loro una buona serata. Era davvero una persona stupenda.
Sentivo il suo passo leggero seguirmi su per le scale. Mi preparò il bagno e gli asciugamani. Nessuna delle due diceva nulla. Ma i nostri sguardi non smettevano di allacciarsi.
“Come è andato il tuo servizio?” Che domanda stupida.
“Bene, grazie.”
“Hai fatto amicizia con Samuel, ho visto.”Ero gelosa da morire.
“Un bravo ragazzo, Louise.”
Sentirle pronunciare il mio nome era meraviglioso.
“Lui è l’unico figlio del Marchese di Cheshunt. Direi che è un ribelle. Parlare con te è stato un affronto alla famiglia.”
Sembrò ferita dalle mie parole.
“Non che non possiate parlare.”
“Certo.”
Era arrabbiata. L’avevo insultata. Perfetto. Mi alzai dalla poltrona dove mi ero seduta per pettinarmi i capelli e mi avvicinai a lei di spalle. Stava sistemando i vestiti nell’armadio. Quando si girò, fece un urletto e poi ci mettemmo  a ridere come poche volte avevo riso. E scoprii che mi rendeva felice con poco.
“Non farlo più, Louise.”mi intimò. Le labbra si piegarono in un sorriso involontario. Si era già dimenticata di essere arrabbiata con me.
“Altrimenti?”
Eravamo vicinissime. Afferrai un boccolo ribelle che le era uscita dalla cuffia di stoffa bianca.
I nostri respiri si mescolavano. I nostri occhi si cercavano. Portai la mia mano dietro la sua nuca e poi spinsi la sua testa verso di me. Ci baciammo. E questa volta non fu affatto un bacio casto. Le nostre lingue si intrecciavano e danzavano a una musica nota solo a noi due. Portai le nostre mani ad intrecciarsi.
Ci staccammo per riprendere fiato.
“Cosa stiamo facendo?”chiese.
“Non lo so. So solo che sei tutto ciò a cui penso.”
“Ma ..”
“Baciami.”
E le nostre labbra tornarono ad unirsi.
 

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Capitolo 7
*** Amore e Complicazioni ***


Amore e Complicazioni
 
3 marzo 1953
 
Non sono mai stata innamorata o cotta di qualcuno. Nemmeno un compagno di scuola o di college. E ora mi basta un suo sguardo per sciogliermi. Possibile?
Possibile innamorarsi di una ragazza?
Forse è per questo che non ero entusiasta di stare insieme ai ragazzi che mio padre mi dava come accompagnatori.
Da quella sera nella seconda di villa di mio padre, quella meravigliosa sera in cui l’avevo baciata, Erin era come se fosse la mia ragazza, nessuna l’aveva chiesta all’altra. Era troppo presto e non volevamo correre, impostare dei limiti. Ovviamente tra quelli ce  n’era uno fondamentale, almeno per ora: non poteva saperlo nessuno.
Cosa avrebbero detto? Che ero una invertita, che lo eravamo entrambe, che ero malata, che tutto questo era sbagliato, contro natura e chissà ancora cosa. Non che mi importasse cosa pensava la gente, solo mio padre mi avrebbe diseredato o semplicemente avrebbe pagato per far dimenticare alle persone cos’ero. Ma non era un problema, se alla fine sei vicina alla persona che ami. E io sono molto vicina.
Finii di studiare l’ultimo capitolo di fisica di questo corso e mi andai a sdraiare sul letto. Avevo voglia di vedere Erin. Ma di sicuro stava lavorando e se la chiamavo troppo spesso, Burton si sarebbe insospettito. In fondo però era l’ora del tè. Così suonai.
Poco dopo sentii bussare.
“Avanti.”
La porta si aprì  e poi Erin entrò con in mano un vassoio del tè. Un dolce sorriso solcava il suo viso. Non disse una parola e semplicemente portò il tutto sulla mia scrivania e iniziò a prepararmi il tè come lo volevo io. Ricordava ogni passaggio per renderlo buonissimo.
Mi alzai dal letto e senza che se ne accorgesse mi misi alle sue spalle. Lentamente strinsi la sua vita con le mie braccia e la attirai a me. La sentii sospirare.  Poi si voltò nel mio abbraccio e posò un dolce bacio sulle mie labbra.
“Mi sei mancata, sai?”le sussurrai all’orecchio.
“Non quanto voi a  me.”
Continuava a darmi del lei. Avrei tanto voluto mi desse del tu, non volevo ulteriore distanza fra noi.
Le sue braccia si erano adagiate sulle mie spalle e senza troppi indugi mi baciò. Le sue labbra sapevano di pesca ed era così dolce il modi in mi baciava, come se esistessimo solo noi e nessun altro.
Purtroppo non era così e saremmo state giudicate. Sempre ai margini della società. Era davvero questo che volevo per me? Rischiare tutto? Ma in fondo se non si veniva a sapere, avremmo potuto continuare la nostra vita senza problemi.
Mi sedetti sulla poltrona e feci sedere sulle mie gambe Erin. Lei si lasciò andare contro di me.
Le accarezzai lentamente la mano che mi aveva appoggiato in grembo. Intrecciai le nostre dita. Era così bello stare in sua compagnia, non c’erano pressioni e tutto quello che volevamo era essere felici.
“Louise, cosa stiamo facendo?”mi chiese. Me lo chiedeva spesso. Non sapevo perché ma questa domanda mi inquietava sempre. Non so cosa stiamo facendo ma è così importante?
“Stiamo .. noi ..”Mi morirono le parole in gola. Forse voleva dire che non ne poteva più di me? Non era passato nemmeno un mese dal ballo.
“Che avete?”Mi prese il volto fra le mani. I suoi occhi azzurri erano preoccupati e si erano legati ai miei indissolubilmente. Non volevo essere guardata se non da quei pozzi celesti come il cielo d’estate.
“Ho paura di  perderti.”dissi tutto d’un fiato, le lacrime che minacciavano di uscire. Chiusi gli occhi.
La sentii ridere e così li riaprii.
“Sciocca, non me ne vado. Lo sai, vero? Il mio posto è dove sei tu.”
Mi si sciolse il cuore. Semplicemente mi attirò a sé.
 
 
2 aprile 1953
 
Finii di spazzare il pavimento e poi salii in soffitta. Avevo quasi finito di pulirla e la si avrebbe potuta utilizzare per altri scopi. Mi attardai a pulire una finestra.
Le cose andavano finalmente bene. Mia sorella era accudita, avevo un buon lavoro e poi avevo qualcuno accanto che mi sosteneva nei momenti più difficili e creava i momenti felici. Louise.
Volevo chiederle di essere la mia ragazza. Non che non lo fossimo, solo volevo fosse ufficiale fra di noi. Non poteva portare anelli e nemmeno io, così avevo comprato una piccola ancora. Ero la sua ancora e mi avrebbe avuta con se, appesa ad una catenina. Sarebbe stato quella sera. Le avrei portato il tè e le avrei chiesto se voleva essere la mia ragazza.
Avrebbe funzionato.
 
Il giorno dopo avrei avuto il mio terzultimo esame di questo secondo semestre e mi conveniva ripassare ancora un po’. Chiesi che mi portassero del tè e alcuni minuti dopo, Erin entrò nella mia stanza. Ormai non aspettava nemmeno che dicessi che poteva entrare. Semplicemente entrava e tranquillamente mi veniva a salutare con un bacio sul capo.
Con il vassoio in mano, si avvicinò lentamente e preparò il mio tè, dopo un bacio leggero sulle labbra.
“Sono stanchissima. Devo ripassare tutto di nuovo.”
“Forse dovresti staccare un attimo. Riposare gli occhi e poi riprendere. Anche se sarebbe meglio riposarsi direttamente.”
Aveva finalmente smesso di  rivolgersi a me con il voi. Un passo avanti.
“Forse hai ragione. Riposerò appena avrò preso il tè.”
Era agitata. Lo capivo da come si muoveva. Sorseggiai il mio tè e la osservai. Era bellissima. Aveva le guance rosse e  non faceva che sorridere.
“Che ti succede? Io ho un esame domani. Non dovresti essere felice come una Pasqua.”
“Devo chiederti una cosa.”
Oddio. Mi sta venendo l’ansia. Volevo chiederle di essere la mia ragazza domani sera dopo l’esame. Il regalo era proprio nel cassetto della scrivania. Un ciondolo con un piccolo sole. Per lei ero il suo sole e mi avrebbe avuta con sé sempre così.
“Vorresti essere la mia ragazza?”
Ecco. Me lo aveva chiesto. E aspettare? Un solo giorno e avrei fatto la mia proposta. Va beh, fa niente. Alla fine importa se stiamo insieme, non chi lo ha chiesto per prima.
“Sì.”
Mi baciò a lungo e vi giuro che dimenticai tutto quello che avevo studiato fino a quel momento. Quella ragazza sa come farmi impazzire.
Poi prese da una delle tasche un ciondolino con una piccola ancora.
“Ma è stupenda!! È per me?”chiesi scioccamente. Lei annuì e me la legò al collo.
“Ti porterà fortuna e sarà sempre con te. È per avermi accanto anche quando non ci sono.”
La baciai con trasporto. Come potevo non essermene accorta prima? Era lei la mia felicità e me la sarei tenuta stretta.
Presi dal cassetto la mia sorpresa e le feci chiudere gli occhi. Poi le diedi il permesso di guardare.
“Vuoi essere la mia ragazza?”Ero pure in ginocchio. Quando faccio le cose, le faccio per bene.
“Oh sì.” Mi si gettò al collo per baciarmi e la fermai.
Le legai il mio sole al suo collo e poi lasciai che mi baciasse. Dio ero così felice. Ora saremmo state insieme per sempre. Niente poteva andare male.
“Signorina Contessa, dovremmo discutere..”
Burton.
Ci staccammo ma era troppo tardi.
Ci aveva viste.

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Capitolo 8
*** Graziate e Dannate ***


Graziate e Dannate
 
2  aprile 1953
 
“Che succede qua dentro?”Fu quello che disse appena ci vide in quella posizione troppo ambigua per essere giustificata con un – aveva qualcosa in un occhio –
Louise si schiarì la gola sonoramente e mi fece allontanare lentamente da lei.
“Chiudi la porta, per favore, Burton.”
Fissò a lungo lei e poi me. E chiuse la porta.
C’era un leggero scintillio nei suoi occhi che però non tradivano nulla. Strinse le spalle in un gesto di fastidio e poi si posizionò al centro della stanza.
Di sicuro avrebbe passato un brutto guaio, dovevo prendermi tutta la colpa e sarebbe andato tutto per il meglio. Per lei. Ma io penso a lei e poi a me. Non riesco a farne a meno.
“È tutta colpa mia.”
La stessa frase era uscita dalle nostre bocche.
Ci guardammo a lungo, come a scambiarci un ultimo sguardo di amore prima di essere divise da questa società per sempre.
“Burton, io ci ho provato con Erin e ..”iniziò Louise, mettendosi di fronte a me.
“Non deve darle ascolto! Sono io! Sono io l’invertita e ho  cercato di ..”Troncai la sua frase, superandola  ma mi interruppe di  nuovo.
“Non è così! Lei non lo è, lo sono io! Sono pronta a prendermene le resp ..”Mise un braccio di fronte al mio corpo come per proteggermi mentre veniva di nuovo interrotta da me.
“Assolutamente no! Non deve credere a queste cose, signore, io volevo .:”
Poi lui parlò.
“Basta.”La voce roca di Burton perforò l’atmosfera tesa e carica di paura della camera. Mi si fermò il respiro.
“Voglio sapere ogni cosa dall’inizio. E non mentite.”
Il tono era perentorio e non potemmo che fare come ci aveva detto.
“Già da tempo avevamo questa sorta di intesa. Insomma, ci piacciono le stesse cose o quasi e abbiamo interessi comuni. Quando non c’era, la cercavo e inventavo le scuse più assurde per far in modo di vederla. Non sapevo che cosa stessi passando. Fino a ..” iniziò Louise, un sorriso era riuscito a dipingersi sul suo volto, nonostante la situazione. Mi intromisi per continuare la storia.
“Fino alla sera del ballo in onore del padre di Louise. Quando è tornata in camera, per via dell’incidente con il punch, è accaduto. Ci siamo baciate, anche se devo dirlo, sono stata io a baciarla. Ho creduto di aver fatto uno sbaglio perché la serata dopo era troppo attaccata a Michael ma poi ..” Con un sorriso più grande, Louise riprese in mano il discorso.
“Poi quando sono tornata in camera, l’ho baciata. E beh, cosa posso dire? Ho trovato una persona che mi vede oltre alla maschera di Contessa e che mi accetta per chi sono davvero. Domani volevo chiederle di essere la mia ragazza ufficialmente, almeno fra di noi, si capisce, ma ..”
La interruppi ancora, mi fissò indispettita e quel suo comportamento mi  fece sorridere.
“Gliel’ho chiesto io stasera e ha detto di sì. Le ho regalato questo ciondolo con l’ancora. Subito dopo ..”
Fu lei a concludere.
“Gliel’ho chiesto io. Non aveva senso aspettare fino a domani e così le ho messo al collo il ciondolo con il sole.”
Per tutto il racconto fatto da me e Louise, Burton aveva portato il suo sguardo su chi parlava in quel momento ma non aveva detto nulla. Non una singola sillaba.
Si portò la mano alla bocca, chiusa a pugno e tossì. Poi si avvicinò alla finestra.
“Erin … tu, tieni a sua Signoria? Ci tieni davvero?”mi chiese e per la prima volta mi diede del tu. Ma era la domanda che mi aveva posto che mi aveva occupato totalmente la mente. Io ci tenevo a lei?
La risposta era solo una.
“Più della mia vita, signore.”
Annuì e poi volse lo sguardo alla sua Contessa. La guardava come se fosse una figlia.
“E Voi?”domandò ancora.
Louise mi si avvicinò e mi prese la mano, intrecciando le sue dita alle mie.
“Più di tutto quello che conosco e ho, Burton.”disse fermamente e strinse forte le mie dita.
Ancora una volta annuì e poi girò lo sguardo verso la luna che scintillava nel cielo primaverile.
Uno specchio bianco in un mare nero.
“Avevo una figlia, la più bella di questo mondo. Le assomigliava molto, Contessa.
Era il mio sorriso e se c’era qualcosa che la turbava, veniva da me e me ne parlava. Si sposò con un uomo che non amava. Me lo aveva detto e io non le avevo dato retta. Le dicevo che lo avrebbe amato con il tempo.
Poi incontrò una ragazza, una artista. Mi disse che era felice con lei ma io non riuscivo a vedere oltre al mio naso. Dissi al marito quello che stava vivendo, chi stava vedendo, perché la riportasse sulla giusta strada.
Che stupido. Fu la fine.”
Le sue spalle si scossero per il dolore che stava provando mentre raccontava.
“Lui e i suoi amici la andarono a prendere, lei e la sua amata e … e le uccisero di botte.”
Ero furibonda. Furibonda era di poco, effettivamente. Direi alterata.
“E li hanno presi?”chiese improvvisamente Louise.
“Non c’erano prove. Ma io so. Lo so.”
Era tutta colpa sua se sua figlia era morta.
“Perché ci racconti tutto questo?”domandò ancora Louise, lo aveva raggiunto e gli aveva posato una mano sul braccio sinistro che stringeva la poltrona.
“Perché non voglio fare lo stesso sbaglio. Non posso e non me lo perdonerei mai. Ho già perso una figlia. Non posso perderne un’altra. O meglio altre due.”
E sorrise e la luce della luna rivelò le lacrime che scendevano silenziosamente da quegli stanchi occhi.
“Cosa vuol dire questo?”provai, la rabbia era scemata di fronte al suo dolore. Non volevo recargliene ulteriormente.
“Che per me va bene. Non dirò nulla a nessuno. Lo prometto. Vi chiedo solo una cosa.”
Ci guardammo e poi annuimmo.
“Siate felici. Davvero.”
Detto questo uscì e senza accordarci, ci gettammo una nelle braccia dell’altra.
Mi sfuggì una risata mista a un sospiro di sollievo. Le sue braccia mi stringevano come non mai.
“Ho avuto così paura …”mi lasciai scappare.
“Anche io. Non saprei cosa avrei fatto se ci avesse dichiarato a mio padre. “
“Speriamo di non scoprirlo mai.”conclusi e poi le posai un bacio sulla fronte.
 
15 aprile 1953
 
“Mary!”mi sentii chiamare. Avevo appena finito di lavare il pavimento di Vossignoria. Ma per favore! Quella dovrebbe solo smetterla di darsi tante arie.
Sbuffai e mi alzai da terra.
“Cosa c’è, Sam?”
“Dovresti portare questi abiti appena ritirati dalla tintoria alla Contessa.” E li posò su una sedia accanto a me.
“Va bene.”
Come no, glieli avrei portati dopo. Dovevo ancora finire di fare le vetrate del soggiorno.
Fu un lungo pomeriggio. Ma era l’ora del tè per tutti, per cui mi sedetti in cucina  a prendere il tè. Fu in quel momento che ricordai.
La tintoria. I vestiti.
Mi precipitai con gli abiti ma prima di entrare mi fermai un attimo. Dovevo riprendere fiato.
E poi, le udii. Delle risatine.
Una, sicura come la morte, era della Contessa. Ma l’altra?
Mi avvicinai alla porta e lentamente la aprii, senza fare rumore.
Erin. Quella stronzetta.
Si era guadagnata la fiducia della Contessa troppo in fretta. Chissà come.
La Contessa si spostò insieme ad Erin esattamente nella mia visuale.
Si stavano baciando. Oddio, che schifo! Non me lo sarei mai aspettato!
Questa era bella. Oh sì, avrebbero avuto un bel risveglio.
Appena si fosse saputo, avrebbero smesso di ridere. La ruota girava finalmente. E lo faceva per me. Avrebbero smesso di darsi tutte quelle arie. Finalmente.  

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Capitolo 9
*** Complicazioni Inutili ***


Complicazioni Inutili
 
18 aprile 1953
 
Ho appena finito di lucidare gli stivali del Conte. Sono stanchissima. Non ho dormito molto negli ultimi tre giorni. Qualcosa sta succedendo, solo non capisco cosa.
Prima Mary che mi fissa con uno sorriso sornione stampato in faccia, mi ha sempre odiata, e poi Maxime, la cuoca, che mi aveva sempre riservato uno sguardo gentile e una fetta di torta, mi evitava e se le parlavo rispondeva a monosillabi. Patrick era l’unico che ancora non mi trattava in modo strano. Anzi si era aperto con me e mi aveva chiesto se mi andava di prendere un caffè insieme un giorno. Che era successo a tutti quanti?
Mi portai verso la cucina ma prima di entrare udii distintamente il mio nome che veniva pronunciato da Mary. Sarà anche sbagliato origliare ma non mi importa. Voglio sapere che succede.
“ – che cosa ignobile, ecco perché la Contessa la tratta diversamente da noi, la favorisce! Ho sentito che mantiene la sorellina più piccola!”
Mi si chiuse la gola e smisi di respirare. Lo sapeva. Come? Louise mi aveva detto che nessuno ne sapeva niente.
“Come puoi saperlo?”
Maxime. Il suo tono era incerto.
“Ho una amica dalle sue parti e ha sentito che lo zio ha preso in casa la nipotina e la Contessa le sta pagando l’istruzione.”
“Ma il Conte lo saprà?”chiese ancora Maxime, dopo essersi schiarita la gola.
“Non penso. Dovremmo informarlo di tutto.”continuò Mary. Sapevo che dentro di sé stava ridendo di gusto. Che cosa le avevo mai fatto?
“Ma tutto?”disse titubante Maxime. Almeno lei non mi stava vendendo senza pensarci due volte. Non che fosse meglio.
“Perché?”chiese aspramente.
“Beh, lei è una di noi.”
Non me lo aspettavo.
“Noi non siamo invertite.”
Mi cascò il mondo addosso. Lo sapeva. Lo sapeva. No, no,no, merda.
Avevo trattenuto il respiro troppo a lungo. Ma non mi importava. Louise. Cosa le sarebbe successo se si fosse saputo? Cosa le avrebbero fatto? Non potevo pensarci, dovevo agire, arginare le acque.
“Forse hai ragione ma io non voglio prendermene la responsabilità.”
Se ne lavava le mani. Ma che amica era? No, non c’erano amici. Solo nemici. Potevo contare solo su me stessa, su Louise e Burton.
Burton. Devo andare da lui. Deve sapere cosa si può fare. Deve.
 
19  aprile 1953
 
Burton mi aveva fatto chiamare. Voleva delle spiegazioni per quello che succedeva nelle sue cucine. Glielo avrei detto. Gli avrei sbattuto in faccia che la sua cara Contessa era una schifosa lesbica e che l’altra cameriera, Erin, era come lei.
Bussai.
Un secco avanti mi accolse.
Entrai e lo trovai seduto alla sua scrivania, intento a leggere delle fatture.
“Mi avete fatta chiamare, Signor Burton?”
Vecchio idiota, altro che signore.
“Accomodati e chiudi la porta.”
Freddino oggi. Non ha digerito il brodino ieri sera?
“Spiegatemi, senza tergiversare, cosa succede nel nostro staff. Ho sentito che siete voi la portatrice di grandi notizie. Ebbene, vorrei udirle anche io.”
Maxime.
 Doveva avergli detto qualcosa. Ormai ero qui, tanto valeva dire tutto. Lui avrebbe parlato al Conte. E addio Erin!
“Lo devo confessare. L’altra sera, io ho visto una cosa molto spiacevole. Riguarda la Contessa! Sono in pensiero per lei!”
Come no.
“Ditemi. Se riguarda la sicurezza della Contessa, è di massima importanza che voi parliate.”
“Ecco … l’ho vista baciare Erin.”
Uno sguardo di stupore si dipinse sul suo volto.
“Oh dio!! Siete sicura?”La sua voce era carica di stupore e disgusto. Ancora meglio.
“Certo! Le ho viste con i miei occhi! Lo giuro!”continuai veemente.
Scosse la testa e poi la abbassò lentamente. Era un brutto colpo per lui. È evidente.
“Ed io che volevo darvi una grande notizia. Ma di sicuro non vi importerà. Abbiamo altro a cui pensare, anche se mi sono messo all’opera. Ma questo ha la precedenza.”
Cosa? Di cosa stava parlando? Non poteva parlare per indovinelli e poi chiudermi fuori. Volevo sapere.
“Ma ditemela lo stesso, quella notizia di cui parlavate.”
“Io non so … voi non accetterete di sicuro.”
“Ve ne prego.”Sottolineai quelle tre parole che raramente usavo.
“Mi ero messa in contatto con una mia vecchia amica che mi ha informato che la Duchessa di Chiaravilla in Italia ha appena perso per malattia la sua amministratrice nelle campagne della Sicilia. E mi aveva chiesto se c’era qualcuno disposto ad andare in Italia. Le avevo detto il vostro nome ma sono sicura vorrete rimanere per restare accanto al Conte – “
Cosa? La Duchessa di Chiaravilla? Mi voleva? In Italia? Era l’occasione di una vita. Non potevo perdermela.
“Accetto!”risposi immediatamente.
“Come? Ma vorrebbe partire domani sera e voi non siete pronta e sono sicuro che vogliate rimanere..”
“Davvero! Sarò pronta!!”
Finalmente me ne andavo! Arrivo Italia!
 
Qualche colpo alla mia porta e capii subito che si trattava di Erin. Mi alzai dalla poltrona dove stavo leggendo un libro. Lettura noiosa. Avevo fissato le parole senza vederle davvero. Ero troppo in ansia.
“Allora?”le chiesi dopo che fu entrata.
Si avvicinò per baciarmi ma mi scostai. Vidi che era ferita dal mio gesto.
Lasciò cadere le mani che erano venute a stringere lei mie e si allontanò.
“Burton ha recitato benissimo. Domani sera partirà per l’Italia. Non ha più detto nulla su di noi dopo che lui le ha detto di questo posto vacante. Che approfittatrice. Va beh … Non pensavo fosse così bravo. Evidentemente anni di esperienza. Comunque lo sanno di sicuro Maxime e Patrick. Ma non penso lo diranno al Conte. Si fanno abbastanza i fatti loro e ..”
“Dovremmo smettere di vederci.”
Dovevo dirlo. Dovevo. Era l’unico modo per proteggerla.
“Cosa?”
Potevo sentire il suo cuore spezzarsi. La fiducia crollare.
“Dovremmo sm..”
“Ho sentito ma non puoi averlo detto davvero. Non puoi.”
Cercò di nuovo di abbracciarmi, di trovare un contatto. Ma non potevo. Avevo iniziato, non potevo fermarmi o l’avrei baciata e sarebbe stato tutto inutile. Lei doveva essere felice e con me non lo sarebbe stato.
Io potevo essere salvata. Lei no. Dovevo salvarla finché potevo. Anche se dovevo morire dentro per lei.
“Mi dispiace.”
“Non è vero. Tu mi ami! Lo so che mi ami.”
“Non mi pare di averti mai detto una cosa del genere.”
Questo la ferì ancora di più. La sua voce si fece tremolante. Non l’avevo mai sentita così .. triste, ferita.
“Lo  vedevo da come ti comportavi con me, lo vedo dai tuoi occhi ora più che mai.”
Mi prese la mano e la strattonò verso di sé. La posò sul suo cuore.
“Non vedi? Batte solo per te.”
“Io ..”
“Amore, non vedi che mi ami?”mi chiese ancora.
 Le lacrime avevano iniziato a cadere e a bagnare le sue guance.
Come potevo farle questo? Lei era tutto quello che avessi mai voluto, l’unica che io ..amavo.
“No. Non è così. È stato solo un sogno. Non era vero.”
“Era vero  per me. Lo è ancora.”
Ma lasciò andare la mia mano e scappò via dalla mia camera.
Cosa avevo fatto? Presi dall’armadio due maglie. E le corsi dietro. Non avevo mai corso dietro a qualcuno ma non mi importava.
Volevo solo lei.
Scesi di corsa le scale e mi scaraventai fuori dalla villa in pantofole. Il cancello era chiuso, quindi dove poteva essere? Girai la testa in direzione del gazebo.
Era seduta senza nemmeno una maglia. Era aprile ma faceva freddo di notte.
Con passo sicuro mi avvicinai a lei e salii le scale del gazebo. Mi aveva sentito ma non si era mossa. Così le poggiai la maglia sulle spalle. Se la strinse addosso. La sentivo singhiozzare.
“Amore ..” provai.
Mi inginocchiai di fronte a lei. Non mi guardava ma gli occhi erano rossi e non smetteva di piangere.
“Cosa vuoi?”rispose fredda.
Le presi le mani e le chiusi nelle mie. Erano gelate.
“Amore .. io voglio proteggerti ma non so come fare e quindi ..”
“Hai pensato che ferirmi e allontanarmi fossero il modo giusto? Non capisci che io sto male senza di te? Abbiamo iniziato questa storia insieme, non voglio che finisca. Io combatterò per te.”
Le accarezzai i capelli che le incorniciavano il viso. Sorrise piano a quel gesto e smise di piangere.
“Devo dirti una cosa.”dissi e la vidi rabbuiarsi. Il piccolo sorriso che le era spuntato in viso si stava oscurando di nuovo.
“Cosa? Che è finita?”
La sua voce si fece di nuovo ansiosa.
“No.”risposi subito. Le strinsi la mano delicatamente.
“E cosa?”
Dovevo dirglielo. Doveva sapere.
“Che ti amo.”
Le sue braccia mi avvolsero due secondi dopo. La sentii piangere contro la mia spalla.
Non feci altro che stringerla e accarezzarle la schiena. Poi la presi per mano e la riaccompagnai in casa e la feci stendere accanto a me.
Doveva essere esausta. Così la coprii con le coperte e mi infilai sotto anche io, abbracciandola da dietro.
Poco prima di addormentarmi, la sentii sussurrare: “Ti amo.” E sorrisi, affondando il mio viso nella sua schiena. 

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Capitolo 10
*** Venire A Conoscenza ***


Venire A Conoscenza
 
29 giugno 1953
 
Il tempo scorreva in fretta a villa Blake. Finalmente la bella stagione si faceva sentire anche qui a Londra. Gli abiti pesanti erano stati sostituiti con quelli leggeri e dai colori vivaci, tipici dell’estate. La villa era stata completamente spolverata. Le imposte ora venivano tenute aperte fin dalla primissima mattinata, per far entrare l’aria fresca.
Proprio questo pomeriggio si sarebbe svolta una festa in giardino, organizzata per il compleanno della sorella di Louise. Esatto, ha una sorella che è  più piccola di qualche anno rispetto a lei e che sta finendo gli studi superiori. Presto si sarebbe sposata. Se solo Louise si fosse sposata.
E lei non lo avrebbe fatto. Mai. In senso, non si sarebbe sposata con Michael, vero?
I dubbi mi tartassavano il cervello. Erano ormai due mesi e ventisette giorni che stavamo insieme e ancora non mi sembrava vero. Non mi sembrava vero che lei fosse  mia e che io fossi sua. Me ne ero perdutamente innamorata. Ma ora con l’arrivo della sorella, tutto si era complicato.
Non potevamo vederci sempre come prima perché passavano gran parte del tempo insieme e ovviamente dovevo sforzami per rivolgermi a lei in modo opportuno.
“Cameriera? Cameriera! Ma mi sente?”
La voce squillante della Contessina mi arrivò finalmente al cervello.
“Sì? Mi scusi, miss! Cosa posso fare per voi?”domandai, facendo una piccola riverenza.
La sorella minore di Louise era alta come me e i capelli biondi erano tagliati a caschetto. Gli occhi erano ambrati e il viso era ben delineato. Indossava un abito bianco e rosa con merletti.
“Porta i miei acquisti nella stanza di mia sorella. Subito.”
Era molto decisa nei modi, proprio come Louise, ma non sapevo se fosse anche dolce e gentile come lei. Un giorno lo avrei scoperto. Per ora dovevo portare questi abiti nella stanza di Louise.
Bussai e mi introdussi. Con la sorella in giro, non potevo più entrare indisturbata.
Appena entrata nella camera e chiusa la porta alle mie spalle, fui travolta da Louise.
Iniziò a baciarmi appassionatamente e Dio sa, quanto mi era mancata. Risposi al bacio con altrettanta voglia ma dovevamo fermarci. Di sicuro sua sorella sarebbe arrivata.
“Mi sei mancata così tanto. Non abbiamo più avuto un momento nostro da quando è arrivata Susan.”sussurrò al mio orecchio, dopo averci lasciato un bacio leggero.
“Ma ne sono accorta. Ma deve sempre dormire con te?”
Mi aveva confidato che Susan, sua sorella, non riusciva a dormire bene nel suo letto e che preferiva quello di Louise. Con mio grande, grandissimo piacere.
“Non essere arrabbiata. Lo sai che presto se ne andrà e poi torneremo alla nostra vita di sempre.”
“Come no.”
Era ferita dal quel mio commento involontario e prima che potesse replicare, Susan entrò in camera portando delle altre borse.
Ci eravamo staccate appena in tempo e io finii di appendere i nuovi vestiti nell’armadio, prima di essere congedata.
Ero stata acida. Troppo. Solo, Louise doveva sposarsi. Non poteva sottrarsi a tutto questo.
Cos’ero io per lei? La cameriera.
No, ero troppo dura con lei. Lei correva dei rischi per me. Lei mi aveva scelta. Me ne ero innamorata e così lei. Dovevo solo avere fiducia. Mi avrebbe scelta. Lo sapevo.
 
Il pomeriggio era assolato e la festa procedeva bene. Osservavo Erin che abilmente serviva i nostri ospiti. Il sorriso sul suo volto non era il solito anche se sempre splendido. Sembrava forzato.
“Louise? Ti ho mai presentato Jack Whitehouse?”mi domandò con voce emozionata Susan. Mi distolse da pensieri poco felici.
Il ragazzo in questione aveva occhi color del cielo estivo e fluenti capelli biondi. Alto e ben vestito, portava con eleganza un berretto sulle ventitré.
“No, non l’hai fatto. Piacere, Louise ..”
“Blake?”concluse lui per me con un sorriso affabile. Già non mi piaceva.
“E’ il mio fidanzato. E non ti preoccupare l’ha chiesto a nostro padre e lui ha detto di sì.”
“Lo sai che finché io ..”iniziai ad avvertirla. Il solo pensiero di sposare qualcuno che non amavo mi faceva venire il voltastomaco.
“Lo so ma tanto accadrà prima o poi.” Sorrise e poi si girò verso nostro padre che si era appena alzato con un calice di cristallo in mano e una forchetta. Li percosse per richiamare l’attenzione e far silenzio.
“Signori e signore, grazie di essere venuti numerosi alla festa per il compleanno della mia figlia adorata, Susan!”
Scrosci di applausi. Li fermò alzando le mani davanti a sé e sorridendo.
“Ma devo fare prima di tutto un importante annuncio! Louise, mia primogenita, si sposerà a presto. Fatele gli auguri!”
Tutti si girarono nella mia direzione. Mi ci volle tutto il mio autocontrollo per non spalancare la bocca in sorpresa. Sorrisi forzata. E guardai subito Susan che fissava complice nostro padre.
D’istinto cercai Erin e la trovai. Il suo sguardo si indurì quando incontrò i miei occhi. Scosse in diniego la testa, come a ricacciare indietro le lacrime. La vidi parlottare insieme a Sam e poi dirigersi verso la villa.
Senza dare spiegazioni, abbandonai il fianco di Susan e rifeci il percorso che aveva appena compiuto Erin.
Andai in camera mia. Sapevo di trovarla lì e infatti avevo ragione.
Era seduta sul letto. Con la mano si torturava il ciondolo con il sole.
“Lo sapevi?”
Fu l’unica cosa che mi chiese. Non si voltò nella mia direzione.
“No. Te lo giuro.”
La mia voce si era incrinata per il dolore.
“Cosa facciamo?”mi domandò di nuovo.
Non mi guardava.
Mi avvicinai a lei e mi inginocchiai di fronte. Presi le sue mani fra le mie, allontanandole dal ciondolo.
Quando i nostri occhi si incontrarono, scoppiò a piangere. Ma il suo non era un pianto isterico. Erano lacrime che cadevano come pioggia leggera sulle sue guance.
“Non lo so. Ma penseremo a qualcosa.”
E poi senza aspettare risposta mi alzai facendo forza sulle ginocchia e la baciai.
Le sue labbra sapevano di sale e tristezza.
“COSA STATE FACENDO?”
La porta era spalancata.
Susan.
Il volto era una maschera di disgusto.
“Levati di dosso a mia sorella!”le urlò.
Si era avvicinata a noi pericolosamente. Sembrava in vena di picchiare qualcuno. Non l’avevo mai vista così. Io mi alzai e mi misi di fronte ad Erin come a proteggerla.
“Sei malata! Vuoi rovinare mia sorella! Ma non te lo permetterò, sgualdrina invertita!”
Mai le avevo sentito pronunciare tali parole. Erin non aveva detto nulla.
“Non ti rivolgere a lei così! Chiudi il becco e anche la porta.”
Penso di non essermi mai rivolta così a qualcuno e di sicuro non a mia sorella.
Ma fece come avevo ordinato.
“Ora siediti.”
E fece anche quello.
“Devi promettere che non dirai nulla a nessuno.”
Annuì contro voglia. Voleva dire tante altre cose ma io non volevo sentirle o l’avrei schiaffeggiata.
“Io e Erin ci amiamo e vogliamo stare insieme. Questo è tutto.”
“Ma è contro natura! Siete entrambe due ragazze e cosa direbbe nostro padre?”
Il disgusto e l’orrore non avevano lasciato il suo volto.
“Quello che importa è l’amore. E noi ci amiamo.”ripetei, ostinata. Volevo che capisse quanto Erin fosse importante per me, quanto io tenessi a lei.
Annuì.
Voleva abbandonare l’argomento.
“Nostro padre ci attende alla festa. Meglio che vieni.”
Detto questo, sparì dalla stanza.
“Devo andare. Perdonami.”
Non mi guardava. La stavo perdendo. E lentamente il mio cuore si stava spezzando.
 
Mio padre mi aveva chiesto di passare  nel suo studio. Così il giorno dopo la festa, che alla fine era stata pessima, almeno per me, mi diressi con calma nel suo ufficio.  Susan non mi rivolgeva la parola e nemmeno mi guardava. Era la seconda persona a farlo. Ma solo di una mi interessava davvero.
Bussai e mi accomodai quando mi ebbe invitata.
Mi sorrideva cordiale. Fin troppo.
“Louise, cara. Come stai?”
Da quando mi dava del tu? Dovevo preoccuparmi?
“Bene, padre. Voi?”
Il suo sguardo si oscurò improvvisamente.
“Ho deciso di mandarti a studiare in America. Dopo il matrimonio, ovviamente.”
Il mio cuore prese a battere a mille.
“Come? In America? E come mai?”
“Ci sono le migliori università e  ..”
“Ma io ho iniziato qui. Non avrebbe senso cambiare. Perché proprio ora? Ieri il matrimonio ora questo. Cosa succede?”
Vidi la rabbia nei suoi occhi. Non l’avevo mai vista prima.
“Succede che ti sei presa fin troppe libertà. Michael mi ha richiesto la tua mano ieri mattina e io gliel’ho concessa. Sono fin troppo buono con te, sapendo quello che so.”
La paura mi aveva chiuso la bocca dello stomaco.
“Cosa sai? E poi non dovresti parlarne con me almeno?”
“Vedi di rivolgerti con più rispetto a tuo padre.”
“Allora?”
Non riuscivo a evitare di essere scortese.
“Ho saputo della tua storiella con la cameriera.”
Oddio. Ecco, lo sapevo. Ora mi avrebbero spedito al di là dell’oceano e non l’avrei più rivista.
“Padre, posso spiegare davvero.”
“Non mi interessa. Hai avuto solo una sbandata. Partirai fra tre giorni con la prima nave.”
Ero appena stata congedata. Non ci credevo. Mi mandavano via da qui. Come minimo avrebbero licenziato Erin e poi tolto l’istruzione alla sorellina. Doveva mantenere le apparenze di fronte al resto dell’aristocrazia. Erin. Ora dovevo  avvertirla.
Ma sapevo di chi era la colpa. E l’avrebbe pagata.
 

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Capitolo 11
*** Separazioni ***


Separazioni
 
2 luglio 1953
 
Il tempo non era abbastanza. Non potevo andarmene così. Doveva capire. Lo facevo per lei. Lei che è tutto per me. Non posso partire senza farle sapere che la amo. Senza lasciarle un ricordo di me. Non posso.
Quando aveva saputo cosa era successo, avevamo cercato insieme una soluzione ma una era più irrealizzabile dell’altra.
Poi era iniziata la rabbia. Pensava non la volessi abbastanza. Come se tutto quello che provassi per lei, non avesse importanza. Era scappata via in lacrime.
Fra poco sarei partita per il porto. Tutte le mie valigie erano già state trasportate là e posizionate nella mia cabina.
Le avevo lasciato un biglietto nella sua camera. Speravo tanto si facesse viva, che venisse a salutarmi.
Ma era davvero giusto partire?
Mi ero detta che avrei finito gli studi e una volta diventata indipendente economicamente sarei tornata a prenderla. Ma fino ad allora, mio padre avrebbe impedito ogni comunicazione. Sarebbe stato chiederle di sacrificare i suoi anni migliori nella mia attesa. L’amavo troppo. Forse avrei dovuto dirle di dimenticarmi, ma come avrei potuto? Non volevo che lo facesse. Ero egoista ma non volevo che qualcun’altra l’avesse, la rendesse felice come io non potrò fare. A cosa la condannavo? Quattro anni per concludere i  miei studi più la specialistica, tre anni, e ancora il primo anno di lavoro come tirocinante? Voleva dire attendermi per otto lunghi anni, senza una lettera, un segno. Il nostro amore era davvero così forte?
Era lei quella giusta? Ma se la amassi davvero, la lascerei andare. Le direi di essere felice. Ma poi sarei io quella infelice. Perché non portarla via con me? A chi sarebbe importato? Potevamo sembrare delle ottime amiche e attraversare l’oceano insieme. Potevamo … ma cosa farnetico? Sua sorella. Non l’avrebbe mai abbandonata. E io non potevo offrirle nulla. Né riparo, né sicurezza.
Strinsi il ciondolo con fermezza. Dovevo farlo.
Mi sentii picchiettare sulla schiena. Mi voltai subito e me la ritrovai fra le braccia.
Mi era mancata così tanto. Il suo profumo sapeva di casa e amore. Mi vennero le lacrime agli occhi. Non volevo partire. Non ora che tutto quello che avevo sempre voluto, si era realizzato. Strinsi le mie braccia attorno al suo busto. Perché non ci potevamo unire? Così da non separarci mai più.
“Amore, non piangere. Ce la faremo. Lo so. Noi ci apparteniamo.”La sua voce roca mi fece piangere più forte.
“Vieni con me. Scappiamo via. “ La sentii sorridere e capii che cercava di trattenere le lacrime.
“Lo sai che non posso.”Ogni parola mi ferì profondamente ma lo sapevo. Solo non volevo affrontare la realtà.
“Lo so.”
Ci andammo a sedere su una panchina illuminata dal sole del mattino. I capelli di Erin erano sciolti e i riflessi rossi la rendevano una visione strabiliante. È bellissima. I suoi occhi azzurri erano profondi come le oscurità dell’oceano. Cercava di mostrarsi calma per me, così che mi fosse più facile partire.
“Io ti amo. Lo sai, vero?”
Le presi le mani e le strinsi fino a quando le mie nocche non sbiancarono.
“Lo so e io amo te. Non potrei amare nessun’altra.”
Si liberò dalla stretta e portò la mano a contatto con la mia guancia. La accarezzò piano. Sembrava volersi stampare i miei lineamenti nella testa.  
Presi il ciondolo dalla borsetta e glielo porsi.
“Cos’è?”chiese curiosa. Lo aprì.
Una o muta si dipinse sul suo volto.
“Queste siamo noi?”chiese ancora.
“Quella volta al parco, un anziano signore ci scattò una foto e solo nell’ultimo mese mi ha rintracciata. Ha detto che sembravamo felici e voleva catturare il momento.”
Eravamo noi due che ridevamo, i visi vicini e gli sguardi che erano allacciati mentre la neve cadeva attorno a noi.
“E tu ne hai fatto fare un ciondolo? Per me?”
Annuii.
“Ora devo chiederti una cosa.”
La vidi guardarmi curiosa.
Mi inginocchiai di fronte a lei. Non c’era nessuno in giro.
“Quando tornerò e lo farò, lo giuro, vorresti farmi l’onore di diventare mia moglie?”le proposi tutto d’un fiato, arrossendo come mai mi era successo.
Le lacrime che aveva trattenuto fino ad allora iniziarono a rotolare sulle sue guance rosee e lisce come i petali di una rosa.
“E’ un sì?”
“Sì, sì, sì! Ti sposerò! Lo giuro!”
Mi si gettò al collo e iniziammo a baciarci appassionatamente. Mi sarebbe mancata da morire. Più di qualsiasi altra cosa ma se è quella giusta, e lei lo è, aspetterei tutta la vita per averla. Anche se è un controsenso, ci siamo capiti.
Le legai al collo il ciondolo portafoto e le presi la mano. Le sue erano calde e rassicuranti, più grandi delle mie che sparivano in esse.
Tornammo a sederci sulla panchina e lei si  mise a frugare in tasca. Tirò fuori un foglietto e ci scrisse sopra qualcosa. Poi me lo consegnò.
“Per te.”
La girai. Era una foto di lei e sua sorella, molto recente. Vestivano, la maggiore, un vestito verde pallido al ginocchio mentre la minore uno blu, che si intonava con i capelli biondo scuro di lei.
Sul retro c’era scritto il loro indirizzo e sul fondo:
P.S. Ti amo   
“Così ti ricorderai ancora come sono fatta quando tornerai.”
“Non potrei mai dimenticarlo. Grazie. È il più bel regalo che mi abbiano mai fatto.”
“Beh, e il ciondolo?”rimase stupita.
“No, intendo che tu sei il più bel regalo che la vita mi abbia mai fatto. Ti amo.”
“Oddio … sei unica e non potrei dimenticarti nemmeno fra cent’anni. Ti amo.”
Le sue braccia mi strinsero e poi ci baciammo. Sapeva di ciliegie e delle notti d’estate.
Il tempo trascorreva troppo veloce.
“Ora devo andare.” Le lacrime che si erano fermate finché avevo potuto rimandare la partenza, avevano ora ricominciato a sgorgare.
Mi accompagnò fino all’entrata del parco.
Un ultimo bacio, un ti amo sussurrato con i cuori in gola, le mani che si intrecciavano per un’ultima volta e poi fu solo una macchia indistinta nel vetro posteriore della mia auto che viaggiava a gran velocità verso il porto. Sapevo di lei e non potevo immaginarmi altro che lei. Sarei tornata. Eravamo Erin e Louise. Noi ci saremmo sposate. Con questo pensiero mi addormentai. Il viaggio sarebbe stato lungo.
 
12 luglio 1953
 
Era su tutti i giornali. Ma dovevo esserne sicura. Dovevo.
Fermai il primo ufficiale incaricato che riuscii a trovare. La sua bocca era curva in un sorriso amaro. Doveva aver perso anche lui qualcuno ma di sicuro, ci sarebbero stati sopravvissuti.
“Signore, mi dica di preciso, cosa è successo.”
“Non possiamo divulgare ulteriori notizie. Mi dispiace.”
“La prego. Devo sapere se ci sono sopravvissuti. “
Il suo sguardo si fece greve.
“Non ci sono sopravvissuti. Mi dispiace, signorina.”
Il respiro mi si mozzò. No, non  era vero. Si era sbagliato. Era così. Non era possibile. Non era già abbastanza tutto quello che avevano passato?
Un bambino, che passava di lì con la sua pila di giornali che andavano a ruba, urlò l’ennesimo titolo che era stato ripetuto tutto il giorno.
“Nave Silver Sun affonda! Nave più veloce al mondo affonda!! Nessun sopravvissuto!”
Caddi in ginocchio in mezzo alla strada. Era andata … e non sarebbe più tornata da me.
Il dolore era troppo insopportabile e poi mi sentii svenire. 

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Capitolo 12
*** Ritorno Per Vie Traverse ***


Ritorno per vie traverse
 
20  luglio 1953
 
Scivolavo dentro e fuori dallo stesso incubo: Louise che mi chiedeva di salvarla ma appena sfioravo le sue dita con le mie, l’acqua la trascinava via, nelle oscurità degli abissi, dove non potevo andare.
Fuori la tempesta infuriava, facendo sbattere le ante contro le finestre. I rami del grande albero nel nostro giardino andavano a raschiare contro il vetro, producendo rumori inquietanti.
Mi rigirai  nel letto, incapace di dormire. Il peso sul petto non se ne voleva andare ma io non desideravo lo facesse. Volevo stare male, volevo provare tutto il dolore per la sua perdita, una ferita che non poteva essere mai più rimarginata.
Lei era quella giusta. Lei lo era.
Calde lacrime iniziarono a sgorgare dai miei occhi. Non poteva essere m .. non riuscivo nemmeno a pensare quella parola. Figuriamoci dirla. Se mi sforzavo, riuscivo a sentire ancora la sua mano intrecciata alla mia, il suo profumo, la sua risata ..
Affondai il viso nel cuscino e soffocai i gemiti di dolore e il pianto. Cosa sei, se l’unica persona che ti completava è sparita per sempre?
Cosa sei?
Un guscio vuoto.
Erano passati otto giorni, 10 ore e 42 minuti da quando avevo saputo. Mio zio mi aveva accolta e mia sorella non aveva detto niente. Mi si era avvicinata e mi aveva preso la mano, per portarmi nella mia vecchia camera. Mi aveva lasciato un bacio leggero sulla guancia e poi era tornata da nostro zio. Non ero più uscita. Mi portavano il cibo e l’acqua ma toccavo poco o niente.
Non capivano cosa mi fosse preso, non capivano come mai non andassi al lavoro, non capivano.
E come potevano? Non potevo dire loro che l’amore della mia vita era sparito per sempre.
Tirai le coperte fino a coprirmi il naso. Come avrei voluto essere con lei nei suoi ultimi momenti, stringerle la mano, dirle ancora una volta che l’amavo, prima di essere risucchiate dalle profondità dell’oceano.
Lentamente ritornai al mio incubo che non era peggio della realtà che stavo vivendo.
Il mio vero incubo.
 
21 luglio 1953
 
Iniziai ad annaffiare le piantine del nostro orticello e mi feci aiutare da mia sorella, Arya. Era sempre felice di aiutarmi. Non so perché ma quella mattina avevo deciso di occuparmi dell’orto. Quando ero apparsa in cucina, svestita e con i capelli arruffati, mio zio si era allarmato ma Arya no, lei si era messa a ridere. Giuro, mia sorella è la migliore.
Così mi ero data una sistemata ed ero uscita con lei al seguito. Avevo bisogno di occupare la mente o il dolore sarebbe tornato a tormentarmi. Almeno così riuscivo ad assopirlo.
L’acqua andava a nutrire le pianticelle e fui maestra ad Arya. Ma era brava anche da sola. Aveva già capito molte cose.
“Eri, possiamo piantare quei fiori .. come si chiamano?”mi chiese improvvisamente mentre passavamo di fronte al giardino, ormai in fiore.
“Dici, i crisantemi?”provai e la vidi sorridere a trentadue denti.
“Assomigliano a tante margheritine!!”ridacchiò e si dondolò sui piedi. Riusciva ad essere felice con poco.
“Ma certo! Allora, vai a prenderli, io ti aspetto qui e cerco un buon posto.”
Annuì tutta contenta e sparì nel capanno, a cercare i semi.
In un angolino tolsi l’erba sottile che cercava di crescere e aspettai Arya. Finalmente riapparve con in mano un piccolo sacchetto di iuta. Con delicatezza posizionammo i semi nella terra soffice e poi spargemmo dell’acqua. Sarebbero cresciuti belli e delicati.
Mi sentii abbracciare.
Arya.
Non avrebbe dovuto perché improvvisamente iniziai a singhiozzare e il dolore che avevo tenuto al guinzaglio per tutta la mattina, scoppiò più forte che mai.
Arya rimase lì ad accarezzarmi i capelli e non mi lasciò mai andare.
Mi asciugai le lacrime, le presi la mano e la riportai in casa. Poi salii in camera mia e mi addormentai.
Ma non erano passati dieci minuti che dovetti scendere. Avevo dimenticato di chiudere il capanno. Qualcuno sarebbe potuto entrare e rubare gli attrezzi. Mio zio era fuori per lavoro e non potevo fargli questo.
Mi gettai lo scialle sulle spalle e uscii. Andai nel capanno, controllai che fosse tutto in ordine e poi chiusi a chiave. Mi voltai per tornare in casa e fu in quel momento che le chiavi mi caddero di mano.
Era lì. Lei era lì. Di fronte a  me, a non più di una decina di metri.
Era una allucinazione. Non poteva essere vero.
Ma erano gli stessi capelli biondi, gli stessi occhi verdi, le stesse spalle, la stessa figura …
Mi arrischiai a parlare.
“Chi sei?”La voce nella mia gola tradiva la speranza che fosse davvero lei e non una allucinazione.
“Sono io. Non mi riconosci?”
Era la stessa voce. Perché la vista mi si sfocava? Volevo vederla!
Avevo iniziato a piangere.
Corsi verso di lei e mi gettai fra le sue braccia.
Ma non c’era niente. Stavo abbracciando l’aria, chiusa nella mia stanza, sdraiata nel mio letto.
Gridai di dolore. Riuscivo a sognare che fosse lì con me e non c’era. Quanto volevo i miei sogni divenissero realtà.
Strinsi i denti  e mi voltai verso il ciondolo che mi aveva dato, posto sul mio comodino. Lo feci scattare e si aprì.
Louise sei bellissima. Eri bellissima. Feci scattare di nuovo il coperchio e questo tornò al suo posto. Mi addormentai stringendolo nella mia mano.
 
23 luglio 1953
 
“Ma insomma! Non è possibile che il prossimo treno in partenza sia fra tre giorni.”
Ero furiosa.
“Signorina, la prego di calmarsi. Da noi i treni passano raramente. L’ultimo è partito quindici giorni fa. Di solito utilizziamo le navi. Ce n’è una che parte oggi alle ..”
“Non ho intenzione di salire su un’altra nave! Per poco non ci rimanevo secca sull’ultima che ho preso.”
La gente, quanto può essere ottusa?
“Allora, il prossimo treno parte fra tre giorni. Vuole il biglietto o no?”
La rabbia era cresciuta nella sua voce.
“Certo.”dissi stizzita. Lo pagai e uscii.
 
Tornai nel mio albergo e mi lascia cadere sul letto. Ripensai a tutto quello che era successo da quando aveva lasciato le mani di Erin.
La nave era in viaggio da due giorni quando aveva fatto il primo scalo a Cromarty, in Scozia.
Non era propriamente una nave da crociera, quella su cui mi aveva imbarcato mio padre, ma una nave mercantile. Non riuscivo a non pensare a Erin. Quello che volevo era tornare indietro, da lei. Fu l’occasione giusta. Senza nessun preavviso, feci scaricare le mie cose in quel porto e poi regalai il mio biglietto ( di sola andata ) a una giovane ragazza che mi aveva chiesto di venderglielo.
Questa giovine si trovava al porto da diversi giorni e l’unica nave che sarebbe partita da Cromarty era appunto la mia, la Silver Sun. Doveva dirigersi in America perché la madre era gravemente malata e non le rimaneva molto da vivere. Ma i biglietti erano cari e così decisi di  regalarle il mio. Io sarei tornata indietro via terra. Dopo molti ringraziamenti,  la ragazza era partita, con il biglietto nome mio.  Non avrebbero avuto problemi poiché ci assomigliavamo molto come aspetto.
Dopo di che avevo cercato un albergo e mi ero sistemata per la notte.
 Il giorno dopo ero partita con un treno ed esso mi aveva condotto solo fino a un certo punto. Il percorso era bloccato dalla neve.
 Sì, neve. In pieno luglio.
Così fummo costretti a tornare nell’ultima stazione e da lì avevo preso una carrozza che mi avrebbe portata fino alla cittadina di Oban.
Scesa dalla carrozza, mi ero però accorta di essere in ritardo: avevo perso la coincidenza con quello diretto a Maybole. Da lì infatti, un altro treno  mi avrebbe portato fino a Lanark, da dove sarei finalmente partita per Londra. Così avevo dovuto attendere diversi giorni e quando arrivai a Maybole era appunto il 12 luglio. Ero entrata in albergo quando la proprietaria mi aveva informato che una nave, la Silver Sun, era affondata.
Avevo deciso di mandare un telegramma o di telefonare per avvertire che ero salva ma di telefoni, non ve ne erano (essendo una cittadina molto piccola, dove le linee telefoniche non erano arrivate)  e  lo strumento per mandare telegrammi aveva avuto dei guasti dopo un temporale particolarmente forte.
Quindi oggi ero andata a comprare il biglietto per Lanark.
Chissà se Erin mi stava aspettando. Forse pensava che fossi morta. Anche io lo avrei fatto.
Mi mancava così tanto e non mi capacitavo di come avessi potuto separarmi da lei. Ma presto sarei tornata e le cose sarebbero tornate come prima. Il pensiero di rivederla mi aveva tenuto vigile e mi aveva impedito di cadere nella tristezza.
Stavo tornando. Aspettami, Erin.
 
26 luglio 1953
 
Finalmente ero sul treno diretta a Lanark. Il viaggio sarebbe durato tre ore e da lì sarei partita per Londra. Non sapevo perché non avessi inviato lettere. Almeno per rassicurare tutti. Rassicurare Erin. Ma avevo paura che mi avrebbero rispedita in America senza nemmeno darmi il tempo di vederla. Non che io sarei andata in America ma mio padre è un uomo potente e avrebbe assoldato qualcuno per farlo. Così la mia mano si era astenuta dallo scrivere, a chiunque.
Ma ora volevo scrivere. Volevo buttare giù tutti i miei pensieri. Così quando avrei incontrato Erin le avrei mostrato cosa aveva partorito la mia mente dopo tutti questi giorni di follia e lontananza.
Il treno viaggiava veloce e così la mia penna. Quando finii di scrivere, ero arrivata a Lanark.
Feci scaricare i miei bagagli e mi precipitai alla biglietteria.
C’era un po’ di coda. Ma dovevo attendere solo pochi minuti. Poi sarebbe stato il mio turno.
Finalmente questo arrivò.
Un uomo sulla sessantina con occhiali sottili mi fissò con sospetto prima di parlare.
“Dove desidera andare?”
“A Londra. Torno a casa.”
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 13
*** A Casa ***


A casa
 
30  luglio 1953
 
Era passato quasi un mese da quando avevo saputo della sua .. scomparsa. Non riuscivo ancora a dire che lei era .. mancata, perché lo avrei sentito. Quando erano mancati i miei, ho lo avevo sentito dentro di me, come se quando mancano le persone che ti sono più care, il tuo corpo ne subisse il contraccolpo. Ma con lei non era successo, era forse un segno? O era sciocco sperare ancora? Allora, ero sciocca. Non potevo smettere di sperare che apparisse sulla soglia di casa mia.
Avevo trovato lavoro in una vecchia locanda e con i pochi soldi cercavo di mantenere l’istruzione di mia sorella. Dopo il mio licenziamento, il padre di Louise aveva tolto le lezioni private ad Arya ma facendo doppi turni, sarei riuscita a mettere da parte abbastanza per consentirle di andare ai corsi con gli altri bambini del paese in autunno. Non che avessi qualcosa in contrario alle scuole pubbliche ma volevo che mia sorella non dovesse mai avere fame.
Il tempo aveva iniziato a scorrere in fretta ma tutto quello che volevo era tornare indietro a quando avevo al mio fianco Louise. Ora potevo solo serbare i ricordi di noi due insieme, le nostre risate e tutte le volte che avevo letto per lei e lei per me.
Mi trascinai verso la porta di casa. Era tardi, anzi ero in ritardo per la cena. Ma avrebbero capito. Non potevo mollare quel lavoro solo perché mi occupava per 14 ore al giorno.
Ero sul vialetto e stavo per aprire il cancelletto di legno che mi faceva accedere al giardino di fronte alla casa quando qualcuno mi chiamò.
 Ma non era semplicemente qualcuno.
“Mi scusi, mi sono persa. Sto cercando l’amore della mia vita. Sa dove abita?”
Non osavo girarmi. Era un’altra allucinazione, un altro sogno troppo vivido, forse il lavoro mi aveva stancato così tanto che mi immaginavo le cose.
“Io .. io non so di cosa stia parlando.”
Nessuna risposta. Ecco, me l’ero immaginato. Sto diventando pazza evidentemente.
Poi delle braccia mi circondarono da dietro, le sue braccia. Poteva una allucinazione essere tanto vivida? Tanto reale?
Il respiro di qualcuno mi solletico l’orecchio destro, le mani andarono a ricongiungersi sul mio ventre. E poi strinsero più forte, avvicinandomi ancora di più. Era lei. Doveva essere lei.
Per qualche strano motivo chiusi gli occhi e poi mi lasciai cullare dalle braccia. Era come se la luna avesse finalmente incontrato il sole.
 Tastai le sue mani. Calde e con le sottili vene che si sentivano a contatto con le dita.
“Sono a casa, amore.”
Era lei. Stavo piangendo silenziosamente e sempre ad occhi chiusi. Piano mi girai sempre chiusa nell’abbraccio e portai le mie braccia attorno al suo collo.
Con le mani, accarezzai le sue guance. Era davvero lei. Ma non mi permettevo ancora di crederci. Sarei stata ancora peggio se fosse stato tutto un sogno.
“Apri gli occhi, sono io.”
E poi li spalancai. Incontrai subito le foreste del Nord dei suoi occhi e il caldo sole dei suoi capelli. Il suo piccolo naso, le labbra disegnate a regola d’arte sul suo viso gentile e dolce.
Stava sorridendo. Ma uno di quei sorrisi che ti scaldano l’anima perché la felicità invade anche gli occhi.
“Sei davvero tu?”chiesi con voce flebile.
Piegò la testa di lato e con uno slancio mi prese per i fianchi, facendomi volteggiare.
“Amore, non è un sogno. Sono tornata. Amore, sono a casa.”
Mi posò in terra e poi delicatamente sfiorò le sue labbra con le mie.
Era tornata. Lo era davvero.
Approfondii il bacio e sentii un calore espandersi per tutto il corpo. Non smettevo di piangere, non ero mai stata così felice. Cosa importava se non potevamo stare insieme sotto la luce del sole, lo avremmo fatto sotto le stelle; cosa importava se ci sarebbero stati ostacoli, saremmo state insieme ed era preferibile la distanza alla morte. Le strinsi a me così forte che temevo di farle male ma mi era mancata come mi sarebbe potuto mancare l’ossigeno.
“Non andare più via. Ti prego. Non andartene. “ sussurrai mentre appoggiavo la mia testa sulla sua spalla.
“Non vado più via. Ora rimango. Per sempre.”
Intrecciai le mie dita alle sue e poi mi allontanai un attimo. Volevo guardarla.
 I capelli erano più lunghi e delle ciocche ricadevano sugli occhi, arricciandosi leggermente. Le gote rosse la rendevano ancora più adorabile e il semplice vestito bianco la rendeva un angelo sceso in terra per me.
“Cosa c’è?”domandò, arrossendo sotto il mio sguardo.
“Sono felice.”risposi, assaporando quelle semplici parole che in realtà racchiudevano un sentimento grandissimo.
“Lo sono anche io. Vuoi rendermi felice ancora per un po’?”mi chiese poi, giocando con i miei boccoli che mi contornavano il viso.
“Per un po’, quanto?”replicai, lentamente.
“Per il resto della mia vita.”disse e poi si piegò di lato per darmi un bacio leggero sulla guancia sinistra. Dove le sue labbra mi avevano sfiorata, sentivo la pelle in fiamme.
“Mi sembra il minimo, se anche tu mi farai il piacere di rendermi felice per il resto della mia vita.”
Alzò il sopracciglio in modo amabile e sussurrò al mio orecchio subito dopo: “ Solo?”
Mi prese per mano e poi entrammo in casa mia. Anche se la mia casa era lei.
 
3 agosto 1953
 
Le cose andavano finalmente bene. Certo, mio zio non poteva sapere chi fosse Louise ( per lui una semplice amica che aveva bisogno di un posto per stare e avrebbe pagato una camera, prendendola in affitto) ma Arya non aveva tardato a scoprirlo.
“Eri?”mi aveva chiesto un giorno mentre lavavo i piatti e lei disegnava.
“Cosa?”le chiesi gentilmente mentre strofinavo per bene un bicchiere.
“Mi chiedevo .. come si fa ad amare?”
Mi ero fermata un attimo. Avrei potuto rispondere con un – Lo scoprirai da grande – ma non mi sembrava la risposta giusta. Cercai le parole ma ovviamente non avevo articolato benissimo il mio pensiero.
“Devi sapere che l’amore nasce spontaneamente. Non lo si può forzare o farlo spegnere improvvisamente. L’amore è voler talmente bene ad una persona che se mai dovesse sparire, ti sentiresti vuota. Amare vuol dire prendersi cura uno dell’altro, confortarsi a vicenda, esserci per l’altra persona perché ad andarsene sono tutti capaci ma rimanere è più dura, e soprattutto fidarsi dell’altra persona come o più di quanto uno si fidi di se stesso. Ma immagino la cosa più importante, è imparare ad amare se stessi poiché se non sei capace di amare te stesso per prima cosa, non potrai mai amare qualcun altro e farlo completamente.”
Era rimasta in silenzio per un po’ e poi era scesa dalla seggiola per venirmi ad abbracciare.
“Un giorno troverò un amore come il tuo.”sentenziò serissima.
“Il mio?”
“Sì, tuo e di Louise.”
“Ma come ..?”iniziai ma lei fece spallucce e ritornò a sedersi.
“Quando lei si muove, tu la segui quasi foste unite da un filo invisibile e vi attraeste l’una all’altra. E lo trovo così bello.”
Non seppi che dire così tornai a lavare i miei piatti. Quando avevo raccontato il fatto a Louise, lei si era semplicemente messa a ridere e aveva detto – Benedetta bambina!
Louise rimaneva nella camera che aveva affittato mentre io lavoravo e scriveva lettere a destra e a manca. Non mi voleva dire di cosa si trattava ma speravo si sarebbe confidata un giorno.
Bussai piano alla sua porta una sera. Entrai e la trovai alla piccola scrivania che leggeva una lettera.
Si girò verso di me e allungò una mano per attirarmi a sé. Mi sedetti sulle sue gambe e poi la guardai. Sembrava molto seria.
“Amore, che hai?” chiesi, preoccupata.
Prese ad intrecciare le nostre dita. Poi mi guardò e iniziò a parlare.
“Mentre ero lontana, come ti ho raccontato, non ho scritto a nessuno. Non volevo mi impedissero di venire da te. Quando sono finalmente arrivata a Londra, ho preso il primo calesse che mi avrebbe condotta qui. Credimi, mi eri mancata così tanto e non volevo tornare ad affrontare la realtà ma devo farlo. Siamo ferme in questa situazione idilliaca. Mi piace tantissimo, non offenderti, ma io voglio una vita mia. Un lavoro che mi piace, una casa mia e naturalmente stare con te. Ma in questo modo non posso averli, non posso avere nulla se non torno .. a Villa Blake.”
Trattenni il fiato. Dovevo ascoltare fino in fondo. Poi avrei parlato.
“Non voglio tornare a fingere. Ma devo dire a tutti che non sono morta, per far riabilitare il mio nome. Devo affrontare mio padre e se deciderà di accettarmi, sarò felicissima, altrimenti uscirò da quella villa e non tornerò più indietro. Ho intenzione di andarci domani. Mi accompagneresti?”
Non avevo più nulla da dire. Era tutto quello che volevo per lei. Che si realizzasse come persona e che fosse felice davvero. Così annuii e poi la abbracciai.
“Verrei con te in capo al mondo.”
Ci baciammo lentamente. Assaporando questo momento di tranquillità.
“Ti amo, Erin.”sussurrò sulle mie labbra.
“Ti amo anche io, Louise.” E poi tornai a baciarla come non mai.   
 
 
 

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Capitolo 14
*** Una Soluzione ***


Una soluzione
 
4 agosto 1953
 
Sotto il sole cocente di mezzogiorno, camminavamo sicure per le strade. Erin indossava un abito bianco che la rendeva ancora più bella, e un cappellino di paglia con un nastro nero alla base che si abbinava con la sua borsetta, anch’essa nera. Procedeva con calma apparente al mio fianco, sapevo che non era per niente calma. Quello che stavamo per fare avrebbe potuto portare felicità alla nostra vita o procurarne dispiaceri. Ma non potevamo tornare indietro, io non potevo.
Senza far notare il gesto nella via affollata, le strinsi piano il mignolo sinistro con il mio. Ricambiò il gesto con una leggera stretta e si voltò a sorridermi. I denti bianchi brillarono alla luce del sole e dio, adoro il suo sorriso. Mi basta guardarla per rafforzare la mia decisione. Devo combattere per la mia felicità e lei ne è parte integrante.
Avevo deciso di indossare un abito leggero di un bel verde chiaro. Per ripararmi dal sole, mi ero portata dietro un ombrellino bianco con i bordi in pizzo rosa. Erin era rimasta a bocca aperta quando mi aveva visto scendere le scale di casa sua. Adoro come il suo sguardo esprima sempre quello che pensa ma quando mi guarda in quel modo adorante, arrossisco. Non mi abituerò mai alla sua dolcezza, perché trova sempre il modo di stupirmi. E non voglio abituarmi.
Arrivammo finalmente di fronte alla mia proprietà e suonammo il campanello. Qualche minuto dopo Burton fece capolino fuori dalla porta d’ingresso della villa. Non ci aveva riconosciute.
Si fece incontro a noi con la sua calma composta e quando fu a due metri di distanza, si fermò.
Era sbiancato in volto. Iniziò ad aprire e chiudere la bocca ripetutamente ma senza proferire parola.
“Sono io, Burton.”
Una lacrima salata scese da quegli occhi antichi ma stanchi. Un sorriso tremolante si aprì. Era il primo che vedevo.
“Signorina Contessa …?”pronunciò infine e con le chiavi aprì  finalmente il cancello.
Senza aspettare mi gettai fra le sue braccia e in quel momento capii, quanto mi fosse mancato. Come lui, iniziai a piangere e la sua stretta era così forte. Sembrava non credere ai suoi occhi.
Ci staccammo e lo vidi asciugarsi le lacrime con il fazzoletto di stoffa.
“Dovete raccontarmi tante cose, Contessa.”
“E lo farò ma ora portami da mio padre.”
Annuì con enfasi e poi si accorse anche di Erin. Le sorrise con calore e poi  la abbracciò.
“Ci sei mancata. Mi sei mancata.”disse e con un piccolo cenno ci fece strada verso la villa.
Sapevo come arrivare da mio padre da sola ma ora era una situazione più delicata. Forse era meglio che qualcuno ci presentasse prima. Chiusi il mio ombrello e insieme ad Erin lo seguimmo.
Ci condusse per saloni e sale e poi ci ritrovammo di fronte alla porta dello studio di mio padre.
Burton bussò quando gli diedi il permesso. Tre colpi secchi come di consuetudine.
“Avanti.”
La voce di mio padre, di solito tonante, era risuonata priva della vitalità che la caratterizzava.
Burton ci aprì la porta.
Entrai fianco a fianco con Erin. Mio padre era rivolto alla finestra, seduto sulla sedia di pelle. Quando eravamo entrati, non si era mosso. La sua figura era notevolmente cambiata. Aveva perso peso e i capelli così folti e ricchi di colore si erano imbianchiti.
“Cosa c’è, Burton? Ti avevo detto di non disturbarmi.”
Non era solo una impressione. La voce di mio padre era proprio cambiata.
“Signore, vede, qui ci sono due persone che le vorrebbero parlare.”ci presentò Burton.
“Ma io ..”disse girandosi finalmente, ma quando mi vide, sbarrò gli occhi per la sorpresa, il dolore, la felicità e quanto gli occhi di un essere umano potevano esprimere. Si portò una mano al cuore e cadde in ginocchio. Non avevo mai visto mio padre così abbattuto. Pensavo che la mia morte gli avesse reso più facile la vita.
Burton gli fu subito accanto e lo aiuto a sedersi di nuovo sulla sedia, dalla quale era scivolato.
“Non è possibile … tu non puoi essere .. io .. non c’erano sopravvissuti.”riuscì a dire infine.
“Sono scesa al primo scalo e poi sono tornata.”replicai piano. Non volevo spiegargli tutto nei minimi dettagli o lo avrei ammattito.
“Ma il tuo nome è comparso fra quelli dei deceduti, abbiamo controllato.”tentò ancora.
“Ho dato il mio biglietto ad una ragazza che aveva bisogno e quindi ..”
“Ma perché non hai scritto? Perché non ci hai fatto sapere? Ti rendi conto di cosa abbiamo provato io e tua sorella? E tutti coloro che ti amano?”
Questa domanda non me la aspettavo. Non mi aspettavo tutta questa accoglienza. Insomma, pensavo che tornare era solo un problema per lui. Non ero la sua vergogna? Non mi aveva mandato via perché non poteva sopportare la mia vista? Allora, perché adesso si struggeva così?
“Io .. pensavo foste contenti.”
Scosse la testa  ripetutamente in segno di diniego e le lacrime continuavano a bagnare le sue gote. La voce, un tempo così ferma, tremava come una foglia.
“Noi .. io .. sono distrutto. Non facevo che pensare a te, non faccio che pensare a te. È stata tutta colpa mia .. io ti avrei uccisa se tu non fossi scesa.”
“Ma sono scesa.”
Con una spinta si alzò dalla poltrona e venne ad abbracciarmi. Il suo profumo era sempre lo stesso, sapeva di casa, di protezione, di amore. Contraccambiai il suo abbraccio.
Era il mio papà. E lo sarebbe sempre stato. Per quanto ce l’avessi con lui, non potevo non amarlo.
“Ho ritrovato mia figlia.”disse al mio orecchio, ancora stretti in quell’abbraccio caloroso.
Mi lasciai cullare. Non mi aveva mai abbracciato se non quando ero piccola. Volevo serbare questo ricordo per sempre.
“Potrai mai perdonarmi?”chiese con foce spezzata in parte dalla gioia e in parte dal dolore.
“Hai iniziato con la mossa giusta .. papà.”
A quest’ultima parola scoppiò di nuovo in lacrime. Lo strinsi forte e con una mano accarezzai i capelli bianchi. Quando si calmò abbastanza, sciolsi l’abbraccio.
Finalmente si accorse di Erin. Era rimasta per tutto il tempo in disparte, senza dire una parola.
“Tu .. chi sei?”domandò in quel momento mio padre. La voce stava riacquistando l’autorità di un tempo.
“Sono Erin Johnson, signor Conte.”si presentò la mia ragazza con voce sicura e dolce allo stesso tempo. Accompagnò la presentazione con un sorriso.
“Oh tu … e desideri?”chiese ancora, asciugandosi come Burton con un fazzoletto le lacrime.
“Sono venuta ad accompagnare Vostra Signoria, la Contessa.”
“ Allora, adesso te ne puoi andare.”replicò improvvisamente freddo.
Lo guardai con tanto d’occhi.
“No, lei non se ne va, padre.”dissi, mettendomi di fronte a lui come a proteggere Erin.
I suoi occhi mandarono lampi di ira.
“Pensavo fossi rinsavita, pensavo ti importasse della tua famiglia. Che era per questo che eri tornata.”
Non ci credevo. Fino ad un attimo prima era tutto contento per il mio ritorno, e ora? Pensava che questa fase fosse terminata? Beh, si sbagliava di grosso.
“Pensavo voi foste rinsaviti. Ma non vedete che amare lei non mi cambia come persona? Sono sempre io, Louise. Conservo ancora tutti i valori con cui sono cresciuta, che voi mi avete insegnato.  E parte dei vostri insegnamenti è amare una persona completamente. E io amo lei. Ma questo non mi rende meno umana o pazza. È solo una parte di quello che sono. Vorrei che capiste che non posso vivere senza di lei.”
Durante il mio breve, incasinato discorso mio padre era rimasto in silenzio. Aveva chiuso gli occhi.
“Non sono ammesse persone come lei, in casa  mia.”sentenziò infine.
“Se lei non è ammessa, non lo sono nemmeno io. Se non cambiate idea, questa è l’ultima volta in cui mi vedrete.”
Mi voltai e prendendo Erin, sotto braccio, ci dirigemmo verso la porta di uscita. Ma prima che la raggiungessimo, mio padre parlò ancora una volta.
“Forse non ti capirò mai. Non capirò perché hai scelto questa vita, questa ragazza. Sappi che non approvo in ogni caso, che per me è sbagliato e contro natura. Che tua madre non sarebbe contenta di quello che combini con la tua vita. Ma è appunto la tua vita. le tue scelte e ci dovrai convivere. Ma se sei felice, allora sii felice. Io non ti fermerò ma non uscire dalle nostre vite. Rimani. Rimanete.”
Una o muta e di stupore si era disegnata su entrambe le nostre bocche. Ci voltammo lentamente.
“Se state scherzando, non è divertente.”pronunciai con lentezza.
“Non è uno scherzo.”
Si portò le mani al volto e scoppiò in lacrime.
“Non posso saperti viva ma non vederti. Sei mia figlia, per l’amor di Dio. Sei la mia felicità, insieme a tua sorella, Susan. Non lasciarmi di nuovo. Non posso permettermi di perderti ancora.”
Non mi muovevo. Poi sentii una leggera spinta. Erin mi invitò ad abbracciarlo.
Mi ritrovai di nuovo fra le braccia di mio padre.
“Sei la mia bambina e ti vorrò sempre bene.”
“Anche io, papà.”
Burton singhiozzava accanto ad Erin. Non ci credevo. Avevo ritrovato mio padre. E potevo stare con l’amore della  mia vita.
Ci riprendemmo tutti da quel momento intenso e poi mio padre diede ordine a Burton di aggiungere due posti a pranzo. Voleva che gli facessimo compagnia. E lo avremmo fatto.
Sorrisi ad Erin e la attirai a me in un abbraccio. Lei mi aveva spronato, dato coraggio e soprattutto mi aveva aspettato. Non potevo che amarla ancora di più.
 
 
“Allora .. Erin .. come pensate di fare per la vostra relazione?”mi chiese il padre di Louise. Aveva usato il mio nome di battesimo ma non aveva tolto il voi. Non penso lo avrebbe mai fatto ma era un passo grandioso quello che avevamo compiuto.
In effetti non ci eravamo poste il problema del –cosa fare dopo- perché pensavamo non avrebbe mai approvato e che quindi sarebbe tornata a vivere con me, Arya e mio zio.
“Non so ancora, signore.”risposi educatamente.
Louise si intromise nella conversazione dopo aver finito di mangiare l’insalata.
Non mi sarei mai immaginata il giorno in cui avrei parlato amabilmente della mia relazione con Louise a suo padre.
Lei era semplicemente splendida. Sembrava che lo sguardo cupo che l’aveva sempre accompagnata, fosse andato via. Era ancora più bella e soprattutto felice.
“Io pensavo di continuare a studiare, diventare medico e poi beh pensavamo di andare a vivere insieme in campagna.”
Bevve un piccolo sorso di vino bianco.
Il padre chiuse un attimo gli occhi. Sembrava molto concentrato.
“Tu ufficialmente sei ancora promessa a Michael.”
Me ne ero completamente dimenticata e penso anche Louise perché quasi le andò di traverso il vino. Iniziò a tossire, le diedi dei leggeri colpi fra le scapole.
“Ma io non ho intenzione di sposarmi con lui.”disse decisa dopo che si fu ripresa.
“Dobbiamo pensare bene a questa situazione. Forse avrei una idea.”
Ebbi una strana sensazione. Io e Louise ci guardammo.
“Che idea?”chiese lei.
Il padre si porto una mano nei capelli.
“Vi dovete sposare.”
Questa volta andò a me di traverso il vino rosso che stavo sorseggiando.
“Ma non è consentito dalla legge.”replicai, stupita. Doveva saperlo.
“E’ l’unico modo. Così, tu sarai felice e tua sorella potrà sposarsi.”disse rivolto a Louise.
Lei era ancora più confusa di me.
“Ma, papà, noi non ci possiamo sposare. Lo sai. Stai vaneggiando.”
Per la prima volta da quando lo avevo incontrato, si mise a ridere.
“Forse sì e forse no.”
“Allora spiegaci come.”continuò Louise. Sembrava piacevolmente stupita dal comportamento del padre.
“Prima di tutto, diremo che sei tornata. Che quando eri in viaggio, hai incontrato una persona e vi siete perdutamente innamorati. Così sei scesa e sei tornata a casa per presentarmelo. Io vi ho dato la mia benedizione e, visto la felicità che condividete è così evidente, ho deciso di annullare il matrimonio con Michael e di farti sposare con questa persona.”
“Ma papà, tutto questo reggerebbe solo se Erin fosse ..”
“Un uomo.”conclusi al suo posto.
Il padre annuì. Sembrava fiero del suo ragionamento. Non ero molto sicura di come volesse farmi passare per un uomo. Insomma, non assomiglio ad un uomo. E non voglio soprattutto.
“Ma Erin non è un uomo. Mi pare ovvio.”
“A questo si può rimediare.”proferì misterioso il padre. “Innanzitutto non devi farti vedere dall’altra mia figlia e da Michael quando darò la notizia ai due. Un mio caro amico saprà come conciarti. Un bel vestito, un nuovo taglio di capelli e poi un po’ di istruzione in quanto al portamento di un uomo nobile. Ovviamente sarai un nobile. Non posso far sposare mia figlia a un plebeo.”
Louise stava lentamente digerendo la notizia. Sembrava una cosa meravigliosa per lei ma ero io che dovevo cambiare. Che idea stupida. Tutti questi inganni e poi alla fine non funzionerà. Non possono non accorgersi che i miei lineamenti sono femminili. E poi dopo il matrimonio? Avremmo dovuto continuare la recita per quanto? Sempre?
“Allora, Erin, penso proprio che sia una idea ..”
“Terribile.”conclusi ancora una volta al posto, però, del padre. I due mi guardarono straniti.
“Non funzionerà. Nessuno è così stupido.”continuai.
 Nessuna risposta. Ma ero l’unica con un po’ di sale in zucca?
“Ehm, papà, forse è meglio se ne discutiamo prima fra di noi.”propose Louise e senza nemmeno salutare, me ne andai. Louise mi seguì a ruota, aprendo con nervosismo il suo adorabile ombrellino.
Continuavo a camminare più velocemente di lei. La sentivo incespicare alle mie spalle. Ma ero così arrabbiata.
Io non volevo cambiare.
“Erin, fermati!”mi gridò quando eravamo di nuovo in strada. Mi bloccai e decisi di aspettarla. Le offrii il mio braccio che prese con gentilezza.
“Cos’hai? Mi sembra che l’idea di mio padre sia perfetta.”
Cercò di farmi desistere dalla  camminata veloce che continuavo a portare avanti.
“Non vedi che sono una donna? Io non voglio cambiare. E poi per quanto? Non sarà solo per la cerimonia. Ma anche per il resto della vita. Non so se sono pronta per tutta questa pressione.”
Si bloccò di colpo. Mi girai verso di lei. Sembrava ferita dalle mie parole.
“Non vuoi sposarmi?”
Mi fece gelare il sangue, la freddezza in cui me lo aveva chiesto.
“Certo che voglio sposarti! Ma come donna.”risposi.
Non sembrava convinta.
“Io ti amo. Lo capisci, vero? Ma ..non sono in grado di interpretare un uomo e soprattutto non voglio farlo. Voglio sposarti. È vero. Ma non così.”
Rimase in silenzio per un po’. Poi si avvicinò a me. Coprendoci con l’ombrello alla vista dei passanti, mi baciò. Fu il più dolce dei baci. Il braccio libero venne a stringere la mia vita e concluso il bacio, posò il capo sulla mia spalla.
“Ti amo, Erin. E voglio passare il resto della vita con te. Non c’è altro modo. Quindi, te lo chiedo per favore, ti andrebbe di essere il mio Conte?”
Aveva pronunciato queste parole con una terribile arrendevolezza. Capiva il mio punto di vista ma voleva che superassi questa avversione al piano di suo padre, perché così saremmo state unite sotto la luce del sole. E lo volevo, davvero. Ma ci sarebbero state gravi conseguenze se il trucco fosse stato scoperto. Non so se lei se ne rendeva conto. Ma io la amavo.
“Va bene, amore. Lo farò.”
Un largo sorriso le spuntò sul viso. Mi baciò ancora una volta e mi sciolsi sotto il suo sguardo pieno d’amore. Poi riprendemmo la via di casa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** Vento Di Cambiamenti ***


Vento Di Cambiamenti
 
7 agosto 1953
 
Direi che non ero al massimo della felicità in quel momento.
Insieme al padre di Louise, eravamo andati dal suo famoso amico che mi avrebbe aiutata con questa faccenda. Ovviamente pensavo dovesse crearmi una qualche falsa identità e che quindi saremmo stati costretti a rivolgerci a un malvivente, e invece mi aveva portato all’ingresso di una villa ancora più fastosa di quella di Louise. Il cancello nero era alto più di quattro metri e ci torreggiava addosso. Fummo accolti da un maggiordomo, tutto impettito che  senza dire una parola, ci condusse per l’ingresso di quel maniero, antico e magnifico, e su per scale e saloni.
Mi guardavo intorno meravigliata da tanta bellezza e ricchezza. Ogni cosa luccicava e l’educazione  di tutti coloro che incontravamo erano strabilianti. Tutto sembrava perfetto. Per quanto la villa di Louise fosse stupenda, questa era magnifica.
Finalmente il maggiordomo si era fermato di fronte a una porta di mogano con disegni in oro.
Bussò tre volte e una voce che mi risuonò famigliare e allo stesso tempo sconosciuta, ci invitò ad entrare.
Entrò per primo il Conte e io lo seguii con discrezione. Non mi aveva dato istruzioni su cosa dire e fare, per cui supposi che il silenzio fosse da preferire.
Un uomo alto e dai capelli scuri ci dava le spalle e fissava qualcosa fuori dalla finestra, stagliandosi nella luce di quel pomeriggio di agosto.
“Il Conte di Blakelake e una cameriera sono venuti a porgerle visita, Marchese.”
Il maggiordomo finì di presentarsi e a un cenno di questo, uscì.
Eravamo nella casa di un Marchese? Non ci potevo credere. Il loro titolo è più in alto rispetto ai Conti. Dovevo essere il più cortese possibile.
Poi il Marchese si voltò e riconobbi subito il suo volto.
Samuel Cheshunt. Il figlio ribelle del Marchese di Cheshunt.
Ma se ora era lui il portatore del titolo, questo significava che ..
“Cari miei, prego accomodatevi.”
I suoi occhi color nocciola, che mi ricordavo così  caldi, erano più freddi e distaccati. Il sorriso non arrivava a contagiarli.
Ci sedemmo su delle comodissime poltrone in velluto rosso.
Continuavo a lisciarmi la gonna. Tenevo la testa china. Non sapevo come comportarmi.
“Puoi guardarmi, lo sai?”mi raggiunse la voce di Samuel. Quella era sempre la sua.
Il Conte ci guardava stupito e voltava la testa prima verso di me e poi verso Samuel con gesti meccanici.
“Non mi hai mai detto come ti chiamavi. Mi sembra doveroso ora.”continuò lui.
“Erin Johnson.”mi presentai e lo vidi illuminarsi per la prima volta.
“Anche mia nonna si chiamava Erin e mio padre , lui … lui ..”aveva iniziato a parlare con gioia ma presto questa si era trasformata in dolore.
“Lui amava quel nome ..”
Fece un breve sorriso. Uno di quelli che si stentano a fare per quanto uno ci provi.
“Mi dispiace per la Vostra perdita, Marchese.”pronunciai cortesemente e allo stesso tempo con partecipazione. Sapevo cosa voleva dire perdere un genitore e nel mio caso, entrambi.
Con la mano fece segno di non chiamarlo così.
“Quando ci sono altri, usa Marchese se proprio vuoi ma se siamo solo noi, usa pure Samuel.”
Lo fissai negli occhi e annuii.
“Mi dispiace per la tua perdita, Samuel..”
“Grazie, lo apprezzo.”
Cadde un silenzio greve. Ognuno immerso nei propri pensieri.
Poi Samuel batté le mani e fu come risvegliarsi da un momentaneo sonno.
“Come mai siete venuti qua?”chiese e questa volta, rivolgendosi al Conte.
“Prima di tutto, volevo farvi le condoglianze per la Vostra tragica perdita.  Così inaspettata e dolorosa.”
“Non se lo aspettava nessuno. Un incidente d’auto. Ma grazie per la vostra partecipazione. Lo apprezziamo, io e l’intera famiglia.”replicò con gentilezza.
Era mancato in questo modo? Non avevo letto la notizia ma forse mi era sfuggita.
“Avremmo bisogno di un favore, Marchese.”riprese il Conte.
“Ma potete chiamarmi anche voi, Samuel. Gli amici di Erin sono amici miei.”
Mi fece l’occhiolino. Sorrisi imbarazzata.
“Ehm va bene .. Samuel.”Era ancora sconvolto dal fatto che un uomo del suo rango si facesse chiamare per nome.
Iniziò a spiegargli la situazione, frapponendo episodi ad episodi e giungendo finalmente alla svolta di tre giorni prima.
Non capivo perché gli stesse raccontando tutto. Non avrebbe rischiato così la reputazione di sua figlia. Non era per questo che eravamo andati da lui?
Alla fine del racconto Samuel rimase in silenzio per alcuni minuti con le dita che si puntellavano le une sulle altre di fronte al viso.
Batté di  nuovo le mani e poi sorrise.
“So come aiutarvi. Anche se ovviamente tutto questo è contro la legge. Ne siete consapevoli? Se venisse scoperto, andreste nei guai e io non potrei proteggervi.”
Io e il Conte ci guardammo. Era ora di decidere. Se andavamo avanti, non potevamo tirarci indietro di fronte alle conseguenze.
Ero consapevole di quello che poteva accadere. E così annuii.
“Lo voglio fare.”
Si alzò e prese due fogli. Si risedette e iniziò a scrivere. Dopo un po’ ci guardò.
“Iniziamo dalla base. Come ti vuoi chiamare?”mi chiese.
Ci pensai un attimo. Poi il nome mi venne spontaneo.
“Logan.”
Era il nome di mio padre.
Appuntò e poi scrisse un cognome.
Stein.
“Gli Stein sono famosi in Germania. Un ramo della famiglia si è trasferita in Inghilterra circa due secoli fa, ormai estinta. Quindi farai parte di un ramo sopravvissuto. Infatti sei rimasta in Germania per poco. La tua famiglia voleva che crescessi come un inglese. Hai delle terre nel nord dell’Inghilterra. In realtà sono mie ma te le passo.  Direi che ti posso creare in poco tempo una nuova identità e lasciare quelle terre e quella villa a te. Conosco persone che lavorano all’interno del palazzo governativo. Ti creerò in breve tempo un attestato di nascita e vari documenti legali.
Ti va bene, Logan?”
Ero sbalordita. In non meno di dieci minuti aveva realizzato una storia di facciata per la mia identità. Non solo, mi dava anche alcune delle sue terre. Come potevo mai ringraziarlo? E perché faceva tutto questo?
“Io .. sì. Ma non capisco cosa ti viene in tasca. Voglio dire .. perché mi aiuti?”
Si voltò di nuovo verso la finestra. Rimase a fissarla ancora un po’, come a raccogliere la mente.
“Penso sia perché mi ricordi mia nonna, alla quale ero profondamente legato e in più hai portato gioia nella vita di Louise. Tu l’hai salvata. Il tuo amore per lei e il suo amore per te vi hanno tenuto in vita. Mi pare il minimo aiutarvi.”
Mi guardò intensamente.
Annuii. Mi alzai e senza alcuna esitazione, lo abbracciai. Anche lui ne fu sorpreso  ma strinse le sue braccia muscolose attorno a me. Ne aveva bisogno. Abbracciare è davvero rilassante e aiuta moltissimo.
Ritornai al mio posto e poi continuammo a studiare il piano.
“Ora dovremo pensare a come farti diventare uomo.”
Mi strozzai quasi nel tè che ci aveva gentilmente offerto.
“Spero non per davvero.”
Rise e scosse la testa.
“Ti insegnerò a muoverti e a parlare come un nobile. E chi meglio di me può insegnarti?”
Il Conte arrossì. Forse per la vergogna. Mi dispiacque un po’ ma poi dovetti pensare a tutt’altro. Ci spostammo nelle sue stanze private. Saremmo stati più comodi.
Ed ecco che camminavo con il petto in fuori, senza muovere troppo le braccia lungo i fianchi, a mento alto. Ci esercitammo tutto il giorno. Prima nella postura, poi nelle maniere di parlare.
 A quanto pareva gli Stein erano Conti. Per cui lo sarei stato anche io. Sarebbe stato disonorante per un Conte sposare qualcuno di rango inferiore.
Poi arrivò il momento di diventare un uomo. Quindi tagliare i miei bellissimi capelli e in qualche modo dare al mio viso un aspetto più da uomo.
Non ero affatto felice. Vedere i miei  meravigliosi boccoli cadere in terra sotto le forbici di Samuel, era uno strazio. A quanto pareva era un provetto barbiere e quindi tagliare i capelli a una ragazza non doveva essere troppo difficile.
Avevo paura a come sarei apparsa. Mi porse uno specchio dopo una mezz’oretta.
La bocca mi si spalancò. Aveva tagliato cortissimi i capelli ai lati della testa e reso la lunghezza omogenea. Non ero rasata ma abbastanza corti da far sparire il ricciolo naturale. La parte centrale invece l’aveva acconciata in modo da formare una piega ondulata, rivolta verso il retro della testa. Ovviamente dietro erano stati resi anch’essi corti. Non assomigliavo a una ragazza ma nemmeno a un uomo. Che cavolo aveva fatto?
Non fraintendetemi, mi piaceva come stavano ma decisamente non aveva l’accuratezza dovuta.
Mi fece poi una specie di basette finte. Bastava incollarle con un gel giusto e poi avrebbero tenuto fino a quando non avessi deciso di strapparle. Le sopracciglia le rese un po’ più irsute con una matita.
Alla fine assomigliavo ad un uomo. In più gli occhi chiari, mi rendevano una possibile discendente di una famiglia tedesca.
Passammo all’abbigliamento. Mi consegnò un suo abito formale, nero con una cravatta bianca. Aggiunse al pacchetto un cappello, anch’esso nero, un bastone da passeggio con nascosto al suo interno una lama, e un anello con una S rossa incisa sopra che infilai all’indice destro.
Quando mi rimisero davanti allo specchio, acconciata a quel modo, non mi riconobbi.
Certo, i lineamenti erano ancora delicati ma non si sarebbe potuto sospettare di me.
Forse avrebbe funzionato.
Doveva. Non avevo cambiato me stessa per niente.
“Ecco a voi, Logan Stein, Conte di Steinstorm.”
Mi presentai, provando la mia voce da uomo, leggermente arrochita ma non difficile da pronunciare.
I due presenti, il Conte e Samuel, si inchinarono. Poi vennero entrambi ad abbracciarmi.
“Ce la possiamo fare.”


10 agosto 1953
 
Non vedevo Erin da alcuni giorni. Nemmeno  mio padre a dir la verità.  Speravo si facessero vivi presto. Erin mi mancava  da morire.
Da quando Susan aveva saputo che ero sopravvissuta, non mi lasciava un momento in pace. Non che fossi infastidita, anzi, solo avrei voluto qualche momento di tranquillità, in modo da pensare alla mia riacquistata vita.
Fra un mese sarebbero ricominciati i corsi del secondo anno ma quello che mi occupava la mente era il mio matrimonio. Dio, ero così felice. Ci sarebbero potuti essere una montagna di guai ma quello che davvero importava, era lei. E sarei stata sua. Per sempre.
Susan era uscita con il suo promesso sposo e io ebbi finalmente la possibilità di andare a cercare il vestito da sposa di  mia madre.
Lo trovai in un vecchio armadio al secondo piano. Era stato fatto solo per contenere quell’abito.
Era di un bianco candido, nonostante fossero passati così tanti anni. Era molto semplice per essere il vestito da sposa di una nobile ma a me piaceva proprio per questo.
Aveva delle spalline sottili e  si apriva in una ampia gonna alla fine del busto. Ricamati sopra in oro, vi erano rose con i tralci che si intersecavano gli uni agli altri.
Era davvero magnifico. Volevo indossarlo il giorno del mio matrimonio.
Sentii che al piano di sotto era stato introdotto qualcuno. Forse era mio padre. Susan non poteva essere di sicuro.
Chiusi le ante dell’armadio e scesi lentamente le scale, ancora con l’abito nella  mente.
Mi ritrovai nell’ingresso. C’erano Burton e un giovane uomo di spalle, fasciato in un abito nero.
Burton mi vide e si inchinò brevemente prima di sparire.
Chi era mai questo? E perché Burton  mi lasciava da sola con uno sconosciuto?
Provai a presentarmi, con voce altera.
“Sono Louise Blake, Contessa di Blakelake. Lei è?”
Finalmente si voltò.
Mi si spalancarono gli occhi per la sorpresa e l’assurdità della situazione.
Era lei. Era Erin ma non era lei, almeno non le sembianze. Anche se riconoscevo i suoi occhi azzurri, inconfondibili.
“Molto piacere di conoscerla, Contessa. Mi chiamo Logan Stein, Conte di Steinstorm.”
La voce era la sua ma leggermente arrochita. Il nuovo taglio le stava molto bene. Ovviamente la preferivo a come era prima ma nemmeno così era male. Insomma è bella in qualunque modo.
Non resistetti e le saltai fra le braccia. Era lei. Quanto mi era mancata.
Inspirai il profumo della sua pelle e fu come la prima volta.
“Ti amo, Logan.”
“Ti amo, Louise.”
Mi fece volteggiare per la hall e poi finalmente mi baciò. E non mi importava di chi potesse vederci. 

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Capitolo 16
*** Onore e dolore ***


Onore e dolore
 
15 agosto 1953
 
Ero stato convocato nello studio del Conte di Blakelake. A quanto pareva c’erano delle emozionanti novità di cui voleva mettermi a conoscenza.
Mi ero preparato con estrema cura. In fondo, se si vuole far colpo sul proprio futuro suocero, è meglio presentarsi al meglio e io mi compiaccio di farlo sempre.
Prima di salire al terzo piano, dove si trovava lo studio, mi guardai allo specchio e mi sistemai leggermente la cravatta. Odiavo la sciattezza.
Alle mie spalle, riflesso nello specchio, c’era un uomo. Non lo avevo mai visto. Di sicuro quel taglio che portava, rasato ai lati, proveniva da un passato nell’esercito. Mi voltai e mi inchinai leggermente. Questo rispose nella stessa maniera. Poi si girò e tornò verso la sedia dalla quale si era apparentemente appena alzato. Forse anche lui attendeva il Conte.
Ripresi la via al terzo piano e finalmente bussai.
“Sono Michael Darrens, figlio del Conte di Dagenham.”
Dopo pochi secondi fui invitato a entrare.
Il vecchio Conte era seduto alla scrivania, preso da uno scrivere ininterrotto.
Rimasi in piedi in attesa di ordini. Solo allora alzò lo sguardo su di me e con un gesto mi fece accomodare.
“Michael, quale bella visita. Dimmi, come te la cavi in questo periodo?”mi domandò, posando la piuma d’oca da una parte.
Mi rivolse uno sguardo gentile. Sua figlia, la mia futura sposa, era morta e lui sorrideva come se non fosse successo nulla?
“Beh, senza la presenza di vostra figlia fra di noi, non molto bene. “
Lo vidi sfregarsi le mani.
“Oh ma mia figlia vive.”
Strabuzzai gli occhi. Quindi era sopravvissuta? Sarebbe stata mia? Finalmente avrei avuto il suo denaro e le sue proprietà?
 No, era uno scherzo. Non c’erano sopravvissuti.
“ E’ scesa al primo scalo. A quanto pare, l’amore l’ha salvata.”
Non ci credevo.
Lei non mi aveva mai amato e io nemmeno. Volevo solo i suoi soldi. Ma se il vecchio pensava che fosse tornata per me, perché non continuare con la recita?
Due lacrime spuntarono dai lati dei miei occhi. Non è facile piangere a comando.
Lo vidi ansioso. Bene.
“Suvvia, quello che importa è che sia a casa.”
“Posso vederla? Mi è mancata così tanto.”risposi con la voce più addolorata e allo stesso tempo felice possibile.
“Non credo sia una buona idea.”pronunciò lentamente.
“Ma io sono il suo promesso sposo! Io … “
Con una mano scacciò via le mie parole e quel gesto mi fece arrabbiare come non mai. Come osi, vecchio? Se non fosse per i tuoi soldi, non mi troverei al tuo cospetto.
“Questo è il motivo per cui ti ho fatto chiamare.”
Lo fissai interrogativo.
“Non desidera più sposarti.”
“Cosa??!”
La mia voce risuonò stridula, mista a stupore, rabbia e indignazione.
Scosse la testa.                                                                                             
“Mi dispiace, caro ragazzo. Ma come ho detto, ha trovato il suo vero amore e io chi sono per impedire il loro sogno?”
Non solo quella stronza non era morta ma era anche riuscita a trovarsi un altro spasimante. E di sicuro uno migliore, visto che il padre aveva acconsentito così in fretta alla loro unione.
“Ma le nostre famiglie avevano preso accordi! Era tutto stabilito! Come potete fare questo? Non ne avete il diritto!”
Le parole uscivano come un fiume dalla mia bocca. Un fiume in preda alla furia.
A quel punto il Conte si alzò dalla sedia con violenza. Lo sguardo più duro della roccia.
“Ne ho tutto il diritto. Mia figlia non sarà mai vostra moglie e ora fuori. Potete andare con le maniere gentili o sarò costretto a chiamare la polizia.”
Un brivido mi pervase la colonna vertebrale. Mi era sempre stato più o meno simpatico ma in quel momento non provavo che un’ irrefrenabile voglia di ucciderlo.
Chiusi i pugni e strinsi le braccia ai fianchi.
“Almeno posso sapere chi vostra figlia ha intenzione di sposare?”
“Lo avrete di sicuro incontrato. Aspettava di sotto.”
Con un altro gesto dichiarò la conversazione conclusa e non potei fare altro che uscire.
Quel militare, quella feccia, si sarebbe sposato la mia donna? Non potevo permetterlo, ne andava del mio onore. Lei era mia e di nessun altro.
Quando fui nell’ingresso, notai che l’uomo era sparito. Meglio per lui.
Me ne andai sbattendo la porta di quella maledetta villa. Non sarebbe finita così.
 
 
“Come credi l’avrà presa Michael, Erin?”le chiesi ma non rispose. Forse non mi aveva sentita.
Forse avrei dovuto dire Logan ma non riuscivo proprio ad abituarmi al suo nuovo e temporaneo aspetto. 
Era seduta vicino alla finestra a lisciarsi i pantaloni di tela nera.
Mi alzai dalla scrivania dove stavo rispondendo a tutte le lettere dei vari conti, marchesi e duchi, e mi diressi verso di lei. Da quando avevano saputo della mia insperata salvezza, comunicata a tutti da mio padre, non avevano fatto che mandare doni e lettere. Ma a quest’ultime dovevo rispondere di mio pugno. Era il minimo.
Mi lasciai cadere in braccio a lei. Senza dire una parola, mi chinai  e la baciai. Sembrava di star baciando il più dolce e rinfrescante dei frutti. Approfondii il nostro bacio e la sentii mugolare. Le piaceva quando prendevo l’iniziativa.
Portai le mie mani al colletto della sua camicia bianca e iniziai ad aprire i bottoni. Ma le sue mani raggiunsero le mie e le fermarono. Mi staccai e la guardai negli occhi.
“Come mai mi fermi?”domandai e lei sorrise. Adoravo il suo sorriso. Mi abbassai e iniziai a lasciarle dei bacetti lungo il collo.
Le sue mani andarono a stringere i miei fianchi e lentamente risalirono verso il mio volto.
Lo portò vicino al suo.
“Ti amo. Lo sai?”mi disse con voce carica di emozione. Mi accarezzava la guancia con gentilezza, come se fossi talmente fragile che mi sarei potuta rompere sotto il suo tocco.
“Lo so e io amo te. Di cosa hai paura?”le chiesi e lei diede un bacio al palmo della mia mano sinistra prima di rispondere.
“Ho paura di perderti. Non mi interessa fare un grande matrimonio o per quanto dovrò impersonare qualcuno che non sono, l’unica cosa che mi interessa, è sapere che ti ho al mio fianco. Non potrei sopravvivere se tu sparissi di  nuovo. Stavo letteralmente impazzendo. Avevo le allucinazioni.
Io non penso di aver mai amato qualcuno come amo te.”
Mi prese entrambi i palmi e posò il suo voltò nelle mie mani. Mi guardò con quegli occhi azzurri come il cielo d’estate e poi sorrise.
“Non me ne vado. Non vado da nessuna parte.”dissi semplicemente anche se non era semplice quello che avevo detto. Rimanere, combattere per chi si ama, sostenersi a vicenda, non è affatto semplice. Ma io sarei rimasta. Lei era la mia persona.
Ci abbracciammo con gentilezza e calore. Poi le rifeci la domanda su Michael.
“Sai, penso non la prenderà affatto bene. “
Non mi aspettavo una risposta diversa.
Mi posò un bacio dolce sulla testa e mi lasciai andare al tepore delle sue braccia.
 
16 agosto 1953
 
Non andava bene. Mio padre si sarebbe preoccupato a non vedermi tornare. Era molto tardi.
Avevo incontrato Samuel in un negozio e ci eravamo presi un caffè insieme, parlando dei dettagli per il matrimonio. Una cosa tira l’altra, e l’ora si era fatta tarda.
Mi strinsi nel mio golfino bianco. Benché estate, avevo sempre freddo di sera.
 Mi chinai un attimo ad aggiustarmi la gonna e poi continuai per la mia strada.
Avevo appena girato l’angolo, quando qualcuno mi venne addosso e caddi indietro sul cemento.
L’uomo che avevo davanti non si prese il disturbo di darmi una mano, anzi, quando cercai di rialzarmi la prima volta, mi gettò di nuovo in terra. Ma il peggio era che non era da solo. Due altre persone gli facevano da spalla.
“Che volete? Lasciatemi andare!”
Tentai ancora di rialzarmi e uno dei suoi mi afferrò per le braccia. Me le contorse dietro alla schiena.
Ero terrorizzata. Non riuscivo a pensare. Cosa mi avrebbero fatto? Senza che potessi impedirlo, grosse lacrime iniziarono a scendere sulle mie guance.
Mi facevano male le braccia. Sembrava quasi me le avrebbero staccate.
Provai a gridare che mi aiutassero ma al primo tentativo, un pugno mi raggiunse allo stomaco. Caddi in ginocchio. Non sentivo più nulla, non riuscivo a respirare.
Sentivo le loro mani su di me.
“Se non posso averti io, non ti avrà nessuno. Dopo questa notte sarai solo merce avariata.”
Michael.
Un urlo soffocato mi scappò.
 
Correvo a perdifiato, dimentica di essere un Conte, un uomo fra quelle persone. Mi avrebbero scoperto se continuavo a piangere. Gli uomini non piangono.
Spalancai l’ultima porta. Era lì. Lei. Ma non sembrava la solita lei. Mi avvicinai al letto.
Nella stanza c’erano solo Samuel e il padre di Louise. Alle mie spalle la porta si chiuse.
Questi due si scostarono per farmi spazio.
I capelli biondi erano andati a coprirle il volto. Stringeva le mani attorno al lenzuolo con forza, come se avesse paura che se lo avesse lasciato, sarebbe volata via.
Mi sedetti sul bordo e cercai di prenderle le mani. Ma le scostò con violenza e si allontanò da me.
“Louise, sono  io.. Erin.”
Mi guardò con calma apparente. Lacrime inondarono i suoi occhi.
“Sono io..”
Mi tolsi le false basette, il cappello, la cravatta e anche la giaccia di tela. Posai tutto al fondo del letto. Arrotolai le maniche fino al gomito e tentai di nuovo di prenderle le mani. Questa volta mi permise di prenderle.
Le strinsi gentilmente fra le mie.
“Sono qui per te. Sempre.”
Annuì piano.
Era bianca come un cencio. Se li prendevo fra le mani, li avrei uccisi.
“Cosa ti hanno fatto? Ti hanno ..?”
A questo punto si intromise Samuel. Me ne ero completamente dimenticata.
“Sono intervenuto appena in tempo. Mi ero accorto di aver preso la rivista per il matrimonio fra le mie cose. Quindi ho fatto la strada nella speranza di trovarla e di ridargliela. Quando sono arrivato in quel vicolo e li ho visti, ho gridato aiuto e li ho fatti scappare. Poi ho preso Louise e  l’ho portata qui. Ha qualche contusione ma se la caverà.. Ho fatto scappare Michael e i suoi in tempo. Mi dispiace davvero tanto.”
Non mi ero accorta di star piangendo. Scacciai via le lacrime. Gli ero debitrice.
“Grazie .. io ti devo così tanto. Non so come potrei mai ringraziarti.”
“Rendila felice. È tutto quello che mi importa.”
Detto questo, lui e il Conte uscirono nel corridoio dell’ospedale.
Tornai a guardarla. Fissava il vuoto fuori dalla finestra.
“Ti va di venire in braccio a me?”le chiesi e sorprendentemente la vidi annuire. Mi sdraiai sul letto con la schiena contro la testata e lei si rannicchiò su di me.
Rimanemmo per un po’ in silenzio.
Poi parlò ma sembrava fare fatica nel pronunciare quelle parole.
“Sono arrivati di colpo. Non li ho sentiti … ho provato a fermarli, a fermare Michael. Ma mi hanno bloccata e poi mi hanno picchiata. Stavano quasi per … stavano quasi per .. se non fosse arrivato Samuel.”
Mi sentivo così in colpa. Se fossi stata con lei, tutto questo non sarebbe successo. L’avrei protetta. E invece non avevo potuto. Ero a provare la parte che avrei dovuto pronunciare al matrimonio.
“Mi dispiace, amore. Dio, dovevo venire con te!! Dovevo rimanere al tuo fianco tutto il tempo. Mi dispiace. Sapevo che non l’aveva presa bene ma non pensavo sarebbe arrivato a questo!!”
“Non sono io che dovrei avere costante protezione ma lui che dovrebbe smetterla di considerarmi come sua proprietà. Ho avuto così tanta paura.”
Mentre lo diceva, aveva nascosto il viso nell’incavo del mio collo.
“Hai ragione. Ora vado, lo picchio e lo ammazzo.”
Scosse la testa e tornò a stringermi le mani.
“Se lo denunciassimo, la polizia potrebbe voler parlare con te e scoprirebbero chi sei. Amore, lasciamo perdere. Voglio solo dimenticare e andare avanti con la nostra vita.”
“Niente polizia, va bene. Ma se lo pesco da solo, lo ammazzo.”
“Lo so che mi proteggeresti da tutto. Quindi, quando sono con te non mi preoccupo.”
Continuammo ad abbracciarci ancora per un po’, fino a quando non si addormentò. Allora la adagiai sul letto e poi mi sedetti su una sedia vicino a lei.
Vegliai il suo sonno fino al mattino. 

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Capitolo 17
*** Il Matrimonio ***


Il Matrimonio
 
22 agosto 1953
 
“Avete sentito …?”
“Sì, sì! Il figlio del Conte di Dagenham ..”
“Come si chiama..Marlon o ..?
“Michael!!”
“Ah, sì, giusto. Diseredato, eccome! In fondo non ci si poteva aspettare altro dal Conte, suo padre …”
Attraversavo la fila di sedie bianche il legno che erano state allestite in perfetto ordine per il mio matrimonio, quando mi ero messa ad origliare quello che diceva un capannello di vecchine che erano già arrivate.
Mi sistemai i capelli che avevano bisogno di una pettinata, pensando a cosa fosse successo a Michael. Non che mi dispiacesse che il padre lo avesse diseredato ma avrei preferito combinargli qualcosa di più fisico. Oggi però, non sarebbe successo nulla di violento o grave perché doveva essere una giornata perfetta: avrei coronato il mio sogno più grande, sposando Louise.
Le stesse vecchine, accorgendosi della mia presenza, si agitarono e iniziarono ad invitarmi a prendere un tè con loro. Rifiutai gentilmente e con un cenno del capo, mi congedai da loro.
Mi portai vicino a Samuel, intento ad osservare il gazebo dove si sarebbe svolta la cerimonia.
In quel gazebo il Conte di Blakelake aveva chiesto alla madre di Louise, Marie Seston, figlia del Conte di Wembley, di sposarlo e dove lei aveva accettato.
Louise ed io avevamo deciso in una cerimonia informale, non in chiesa ma a Villa Blake, e quale luogo migliore se non il gazebo bianco, illuminato dal sole di agosto?
Con una stretta di mano e un gran sorriso stampato sui nostri volti, ci salutammo. Indossava un gessato nero e di sicuro faceva un bel figurone. Alcune ragazze lo avevano già adocchiato ma lui non le degnava di uno sguardo.  
“Allora, sei pronto, Logan?”
Mi fece l’occhiolino.
Addentò un salatino e mi fissò negli occhi con sguardo divertito.
“Sono agitato, Samuel. Molto. Tu l’hai vista?”gli domandai e lui volse lo sguardo verso i piani alti della villa.
 Si infilò i pollici nei taschini del suo gilè nero e mi sorrise.
“Non mi ha permesso di vederla e penso che sarà una sorpresa per tutti.”
“Lo sarà per davvero. Non ci credo che sto per sposarla.”ammisi e lui mi circondò le spalle con  un braccio.
“Ce l’avete quasi fatta. Ancora poche ore e nessuno potrà davvero separarvi.”
Annuii a questa sua affermazione. Aveva ragione. Avevamo subito così tanto, eppure non ci eravamo mai arrese. Che diamine, una volta era quasi morta per naufragio. Se non è questo il destino, mi chiedo cosa lo sia.
Salutai Samuel e lo informai che andavo a prepararmi per la cerimonia.
Non vedevo Louise dalla sera prima, quando ci eravamo salutate con un bacio leggero e una promessa negli occhi: di non separarci più.
Avrei mantenuto questa promessa, ad ogni costo.
 
Alzai le braccia e l’abito bianco mi venne infilato dalla testa. Per un momento non vidi più nulla ma poi la luce tornò e anche il respiro. Non sapevo se mi andasse bene. Non avevo avuto  modo di provarlo.
 Io e mia madre avevamo la stessa corporatura da come appariva nelle uniche foto che avevo di lei alla mia età. Quanto avrei voluto che mi vedesse ora, anche per pochi minuti, il tempo di un abbraccio.
Le mie damigelle, amiche di famiglia e d’infanzia, si erano già messe all’opera, aggiustando e chiudendomi l’abito lungo la linea della schiena.
Non dovevo fare altro che eseguire i loro precisi ordini. Mi avevano detto che si sentivano onorate di potermi accompagnare in questo unico e magnifico evento della mia vita. Lo era davvero.
Ero stata fortunata.  Molto fortunata.
Soprattutto se pensavo a cosa era successo pochi giorni prima. Avevo gli incubi ogni notte ma Erin era sempre con me a proteggermi, a vegliare sul mio sonno. Ero così felice di avere lei al mio fianco.
Ci avevo riflettuto tanto negli ultimi giorni. Mi ero accorta di quanto ero fortunata ad avere una persona che mi amava davvero e che avrebbe fatto di tutto per me, amici che mi sostenevano e una famiglia che mi avrebbe sempre aiutato.
Ovviamente Susan non sapeva nulla di tutta questa storia. Meno persone sapevano, meglio era. Non sapevo se potevo fidarmi davvero. Certo, era mia sorella ma quello che aveva fatto non era facilmente perdonabile. Quando aveva saputo del matrimonio, era stata così felice per me. E io avrei tanto voluto dirle di me, di Erin ma non potevo. Almeno non ora.
Dopo che l’abito mi fu messo indosso e così le scarpe, si passò al trucco e poi alla acconciatura.
Avevo deciso per un trucco leggero, non opprimente. Volevo far risaltare più i miei occhi che avrebbero mostrato di più la felicità che stavo provando in questo momento.
I capelli erano stati resi boccolosi e ora ricadevano in morbide volute sulle mie spalle nude.
Quando fui pronta, mi fecero finalmente girare verso lo specchio. Guardandomi, mi sembrò di rivedere mia madre al suo matrimonio.
 Stavo rischiando di piangere. Non dovevo o avrei rovinato tutto il lavoro delle passate tre ore.
Qualcuno bussò alla porta.
“Sono il Conte di Blakelake, padre della sposa.”
Guardai le mie due damigelle e loro sorrisero  mentre uscivano.
Mio padre si infilò nella stanza e si fermò a guardarmi, estasiato. Era rimasto a bocca aperta.
Gli occhi iniziarono ad inumidirsi. Era sul punto di piangere.
“Papà .. come ti sembro?”chiesi titubante e tesi le braccia verso di lui.
Le prese e le strinse.
“Sei uno spettacolo. Tua madre sarebbe così fiera, davvero. Quanto vorrei fosse qui con noi.”
Mi abbracciò forte e poi mi prese il mento fra le dita.
“Sono così felice per te. Ora andiamo. È ora.”
Mi offrì il braccio sinistro, che prontamente presi, e andammo incontro al mio futuro con Erin.
 
Era stata creata una navata in mezzo al giardino che iniziava dal portone della villa, da dove sarebbe uscita Louise, e che si concludeva ai piedi del gazebo. Ai lati di questa navata erano state disposte le due ali per le sedie dove si erano accomodati tutti gli ospiti.
Ero agitata da paura mentre attendevo Louise sotto il gazebo con Samuel al mio fianco. Era il mio testimone, mentre Susan sarebbe stata la testimone per Louise. Le damigelle erano sue vecchie amiche di infanzia.
Io avevo invitato con il nome di Louise, mio zio e Arya. Sembravano fuori luogo fra tutti quegli aristocratici ma si erano già trovati il loro posto e attendevano l’inizio della cerimonia.
Mi ero avvicinata di soppiatto ad Arya, che indossava un abito giallo canarino carinissimo, e le avevo chiesto se le andava di tenere un segreto.
Mi aveva guardata per un momento mentre con una mano si scostava i capelli dagli occhi e con l’altra teneva in mano un salatino.  Mi riconobbe subito.
“Certo, sorellona.”
A quel punto l’avevo presa in braccio e fatta volteggiare.
“Ora mi dovresti chiamare Logan, almeno quando ci sono sconosciuti.”le avevo sussurrato e lei aveva  annuito. L’avevo rimandata al posto e con un cenno avevo salutato mio zio che era ignaro di tutto. Forse un giorno avrei spiegato tutto.
Il funzionario era già pronto e quando si diede il via per l’inizio della funzione, una musica dolcissima inondò il giardino.
Le porte della villa si spalancarono e apparvero le damigelle, aprendo la fila. Dopo alcuni istanti, si videro finalmente Louise e suo padre.
Il capo di lei era coperto dal velo e il vestito bianco presentava uno strascico molto lungo, sorretto da quattro bambini ai lati, due per parte, e uno che sorreggeva la parte finale.
L’abito era semplicemente magnifico e lei era bella come un angelo sceso in terra. Vedevo il suo sorriso da sotto il velo mentre  procedeva verso di me.
Finalmente arrivò al mio fianco e il Conte andò a prendere posto nelle prime file, dopo aver lasciato che prendessi la mano di Louise. La strinsi piano e poi alzai il velo, rivelando la sua straordinaria bellezza a tutti. Ci fu una esclamazione di gioia e stupore.
Era davvero bellissima. La bocca mi si spalancò in una o muta. I suoi occhi verdi erano come piccole stelle luminescenti, il sorriso non riusciva a contenere la gioia che stava provando e i capelli erano una perfetta composizione. Era davvero la più bella ragazza che avessi mai visto.
La gente tossì come a voler dire: Risvegliatevi, avrete tempo di guardarvi dopo!
Così volgemmo i nostri occhi al funzionario che ci sorrise cortesemente. Poi iniziò a pronunciare le parole di rito e finalmente arrivò il momento di scambiare le fedi e le promesse.
Ero super emozionata. Per tutta la durata della cerimonia non avevo fatto che guardarla intensamente. Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso.
“Io, Logan Stein, Conte di Steinstorm, accolgo te come mia sposa con la grazia di Dio, prometto di esserti fedele nella gioia e nel dolore, in salute e malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.”
Presi la sua mano sinistra e infilai la fede nuziale all’anulare sinistro. Poi fu il suo turno.
“Io, Louise Blake, figlia del Conte di Blakelake, accolgo te come mio sposo con la grazia di Dio, prometto di esserti fedele nella gioia e nel dolore, in salute e malattia e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.”
E infilò la fede al mio anulare sinistro, dopo di che il funzionario concluse il rito.
“Per i poteri conferitomi dalla Regina d’Inghilterra, vi dichiaro marito e moglie. Potete baciare la sposa.”
Mi chinai e la baciai. Fu il più bel bacio di sempre. Ero davvero la ragazza più felice del mondo. Avevo solo bisogno di lei per poter essere felice. Era anche il nostro primo bacio davanti a tutti a testimonianza del nostro amore.  
Poi ci voltammo verso la navata e alzammo le nostre mani unite. Iniziò un forte applauso ma  improvvisamente nelle ultime file ci fu un trambusto. Due uomini si alzarono.
Li riconobbi entrambi. Uno era mio zio e l’altro Michael, con in mano una pistola puntata verso mio zio, che tentava di fermarlo.
“Si tolga da davanti a me, zoticone!”urlò, mentre spingeva malamente mio zio a terra. Non era un uomo giovane ormai e quella fu una brutta caduta. Ma non potevo fare nulla da qui.
Michael si rivolse di nuovo nella nostra direzione. Un sorriso malvagio sulle labbra.
Mi posi di fronte a Louise. Non l’avrebbe toccata. Mai più.
“Cosa volete, signore?”provai con foce più ferma di quanto fossi in realtà.
Michael aveva sul viso una espressione folle. Gli abiti,  un tempo di lusso, erano ora sgualciti. I suoi capelli erano arruffati e in disordine. Era una ombra di chi era in passato.
Rise con voce stridula. Gli ospiti non parlavano, non si muovevano. Un pazzo armato li stava minacciando. Cosa potevano fare?
“Mi chiedi, cosa voglio? Io voglio lei.”
E puntò il dito verso Louise che era ancora alle mie spalle.
“Mi dispiace. La prego di andarsene e di non tornare mai più. Sta rovinando questo giorno di festa.”
“Io non me ne andrò finché lei non verrà via con me.”
Sentii Louise muoversi alle mie spalle ma protesi un braccio e le impedii di avanzare ancora.
“Tu non andrai con lui.”le sussurrai in preda alla rabbia verso quello stolto e alla paura per cosa poteva succederle.
La sentii singhiozzare. Il suo incubo era tornato e voleva portarla via con sé.
“Ora, voi lascerete questa festa e tornerete alle vostre stanze. Se avete bisogno di denaro, provvederò a che ve ne sia dato.”
Continuavo a parlare mentre avanzavo lentamente verso di lui. Ma si accorse di quello che stavo facendo.
“Smettetela di avanzare. O vi uccido. Avete rovinato la mia vita. Ma non accadrà mai più.”
Puntò con più determinazione la pistola nella  mia direzione e poi  sparò.
Caddi in ginocchio, dopo aver urlato in preda al dolore, coprendomi con una mano il ventre da dove fuoriusciva il sangue.
Sentii urla e pianti, le mani di Louise che mi scuotevano lentamente. La guardai ancora un attimo negli  occhi e poi vi fu solo l’oscurità.
 

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Capitolo 18
*** Il Sole Dopo La Tempesta ***


Il Sole dopo la Tempesta
 
25 agosto 1953
 
Il giorno del funerale era arrivato. Con estrema riluttanza, mi ero preparata. Avevo pettinato i capelli, indossato gli abiti che si aspettavano tutti che indossassi e poi mi ero diretta verso la chiesa, tenendo per mano Arya.
Non aveva pianto.
Non una lacrima.
Mi chiedevo quando sarebbe scoppiata e quando lo avrei fatto anche io. Non potevo ancora credere che .. era una situazione così assurda.
 Tutto andava così bene! Ero finalmente felice. Avevo la donna che amavo al mio fianco e poi questo. Un colpo troppo forte da sopportare facilmente.
Con una camminata di cinque minuti raggiungemmo l’entrata della chiesa. I presenti, benché pochi, ci guardarono con grande tristezza. Vennero da me soprattutto per fare condoglianze e stringere mani, rievocare episodi divertenti, insomma per rievocare chi ormai non era più fra noi.
Arya mi teneva la mano e si stringeva a me. Mi rimaneva solo lei.
Finalmente il parroco iniziò la cerimonia e io e lei ci sedemmo in fretta nei primi banchi.
Al momento richiesto arrivò la bara e la  posarono al centro della navata in modo che il parroco potesse svolgere i sacri rituali.
Non dicevo una parola. Non conoscevo davvero bene le preghiere, anche se mi avevano sempre mandato in parrocchia la domenica. Così Arya. Non muoveva le labbra ma fissava con costernazione la bara. Doveva essere così dura per lei, così piccola com’era.
Terminata la funzione, i quattro uomini incaricati di trasportare la bara si fecero avanti e se la caricarono in spalle per uscire dalla chiesa. Il parroco conduceva la processione e  noi lo seguimmo da vicino.
Gli uomini l’avevano trasportata fino al cimitero che era affianco la chiesa e l’avevano lasciata scivolare all’interno della buca.
Di nuovo ci avvicinammo per gettare la terra sul coperchio e poi ci allontanammo.
 Non potevo perdere il controllo e piangere di fronte ad Arya. Dovevo essere forte. Per lei.
Una donna si avvicinò e mi guardò per bene. Aveva gli occhiali appannati e i capelli scarmigliati ma la riconobbi subito.
“Scusatemi, signore. Sapete dirmi chi voi siate? Non vi ho mai visto prima d’ora nel nostro villaggio e sono più che certa che mio fratello non vi conoscesse. Eppure tenete per mano sua nipote, che è anche la mia. Desidero sapere chi voi siate.”
Deglutii e senza sapere che dire, provai a trovare una scusa abbastanza plausibile.
“Mi chiamo Logan Stein e conoscevo suo fratello, signora. Quindi anche Arya.”
E sorrisi a mia sorella che mi guardava con i suoi occhi da cucciolo spaventato.
“Ovviamente la bimba verrà con me. Non ha più nessuno oltre a me. Sono la sola famiglia che le resta.”
La voce gracchiante della vecchina iniziava già a darmi sui nervi. Sapevo perché voleva la bambina. Per mandarla a lavorare e fare in modo di guadagnarci sulla sua pelle. Non lo avrei mai permesso.
“Mi spiace ma penso che questo non sia possibile. Ha una sorella maggiore e questa si prenderà cura di Arya, secondo accordi.”buttai lì l’ultima frase, sperando demordesse.
“Accordi? Non sapevo ci fossero accordi fra mio fratello e quella sciagurata di una nipote.”
“E invece sì. Verrà a prelevare la bambina oggi stesso dalle mie mani. Purtroppo il nuovo lavoro che ha trovato era troppo lontano per poter arrivare in tempo alla cerimonia. Quindi, la prego di non disturbare né la ragazza né la bambina. Buona giornata, signora Shadow.”
Tentò di formulare ancora  una frase di senso compiuto ma io ero mi ero allontanata dal cimitero insieme a mia sorella.
Dopo aver camminato per un pezzo, deviammo in un parco e ci sedemmo sulla prima panchina che trovammo.
Mi massaggiai il fianco dove la pallottola era entrata e uscita. Samuel, a quanto pare aveva studiato medicina, mi aveva curata e avevo potuto alzarmi abbastanza presto. Il fatto che la pallottola fosse uscita era stato un punto a mio favore. Ovviamente mi faceva ancora male e non potevo ridere troppo o fare sforzi.
Dopo qualche minuto di silenzio, sentii Arya piangere. Così mi voltai verso di lei e la presi in braccio. La lasciai sfogarsi liberamente sulla mia spalla. Povera piccola.
Avevamo perso i nostri genitori e ora anche l’unica figura paterna che ci rimaneva. Ma io non l’avrei mai abbandonata. Era mia sorella e mi sarei presa cura di lei. Insieme a Louise.
Quando ero stata ferita, non mi aveva mai lasciata per un momento. Sempre al mio capezzale ma ovviamente sapeva che dovevo andare al funerale da sola. In modo da affrontare il dolore della perdita.
Mentre venivo colpita dalla pallottola, mio zio ha avuto un infarto. Nessuno se ne è accorto nel marasma che era seguito allo sparo. Non avevamo potuto salvarlo. Quando era arrivato in ospedale, non c’era stato più nulla da fare. A quanto pareva, la caduta insieme alla paura causata dallo sparo ravvicinato avevano provocato l’attacco cardiaco.
Era tutta colpa mia. Se soltanto non fosse arrivato Michael, corroso dalla vendetta, a mio zio non sarebbe venuto un infarto o se doveva accadere comunque, avremmo avuto più tempo. Io avrei avuto più tempo. Ma nemmeno essere un Conte, poteva cambiare il passato.
Accarezzai i capelli morbidi di Arya in modo da calmarla e dopo un po’ mi accorsi che si era addormentata.
Senza svegliarla, la presi in braccio e salendo su un taxi, mi feci accompagnare fino a Villa Blake.
 
 
Ero stata in ansia per tutto il pomeriggio. Erin non si era completamente ripresa. Diamine, era stata ferita solo tre giorni prima e già pensava di essere guarita. Sapevo perché si comportava a quel modo. Non voleva che mi preoccupassi, cosa che avrei comunque fatto.
Avevo passato il tempo a leggere in giardino e a fissare con costanza il cancello nella speranza di vederla presto. Aveva detto che sarebbe tornata subito dopo il funerale insieme ad Arya.
Mi appoggiai meglio al dondolo e mi diedi una leggera spinta.
 Ripensai al giorno del mio matrimonio. Ma era mai possibile che ogni volta che le cose vanno bene, poi devono improvvisamente andare male? Insomma, perché?
Purtroppo non avevo risposte e dovevo accontentarmi.
Michael era stato arrestato: per tentato omicidio e per morte causata dalle sue azioni violente. Quindi sarebbe stato dietro le sbarre per un po’ per mia grande gioia.
Girai una pagina di Jane Eyre, il libro che stavo leggendo per la quinta volta, e mi coprii meglio il capo con il cappellino bianco. Era quasi settembre ma faceva ancora caldo.
Una macchina si fermò davanti al cancello della mia proprietà e da quel taxi scesero Erin e Arya.
Suonarono al campanello e senza aspettare che Burton arrivasse ad aprire loro, andai io.
Aprii il cancello e subito le braccia di Erin vennero a stringermi. Mi era mancata così tanto. Avevo avuto paura che le fosse capitato qualcosa. Ma era sana e salva e di nuovo con me.
Abbracciai anche Arya che aveva l’aria un po’ assonnata.
“Cos’ha?”chiesi ad Erin e lei mi sorrise cauta.
“Ha pianto tanto e si era addormentata ma poco prima di scendere, si è svegliata.”
“Può dormire nel mio letto.”
Erin annuì e prendendomi per mano, ci incamminammo verso la mia camera.
 Burton sembrava offeso dal mio comportamento ma decise di lasciar correre. Disse che avrebbe preparato del tè per i signori e ci fece l’occhiolino. Anche lui sapeva del piano e ci supportava con tutto il cuore.
Salimmo le scale e poi appena la porta si chiuse alle nostre spalle, feci stendere Arya nel mio letto e la lasciammo dormire.
Tornammo in salotto e ci sedemmo sui comodi divani. Erin si era seduta su un lato e mi aveva invitato a sedermi sulle sue ginocchia. Mi lasciai andare contro il suo fianco sano e la abbracciai.
Il suo profumo mi inebriò. Mi era mancata davvero ma davvero tanto.
“Ho deciso di prendere con me Arya. Non posso permettere che vada a vivere con quella sfruttatrice di bassa lega. Non voglio nemmeno vada in orfanotrofio. Sono sua sorella e la voglio proteggere. So che non sarai d’accordo ma io..”
“Io perché non dovrei essere d’accordo? Adoro Arya e nemmeno io voglio che finisca nelle grinfie di qualche istituzione sociale mal organizzata. La tireremo su come se fosse nostra figlia. Io voglio davvero essere tua e voglio appoggiarti in questo perché è giusto. Sarà nostra figlia.”
La vidi commuoversi alle mie parole sincere e iniziare a piangere.
“Abbiamo perso così tanto e ora che ho te, finalmente le cose iniziano ad andare per il verso giusto. Lo sai che ti amo e che mi innamoro ogni giorno di più e di più ancora? Sei davvero la mia anima gemella.”
Ora ero io ad avere gli occhi lucidi. Mi chinai verso di lei e iniziai a baciarla. Non era un bacio che la etichetta avrebbe detto casto ma non mi importava. Avevo ritrovato il mio pezzo mancante e non lo avrei perso mai più.
“Ti amo anche io, amore e davvero, non posso vivere senza di te.”le sussurrai all’orecchio dopo aver interrotto il bacio per bisogno di ossigeno.
“E io senza di te.”confermò lei.
Tornammo a baciarci ma dopo pochi istanti fummo interrotte da Burton che portava il tè.
Feci fatica e così anche Erin a non ridergli in faccia. Era diventato un peperone. Che tenero.
Prese congedo con un inchino imbarazzato e noi prendemmo il tè con i biscotti.
Ci rilassammo un po’ sul divano, qualche volta raccontandoci aneddoti e qualche volta baciandoci. Era davvero una bella vita se non si contavano le perdite e i dolori subiti.
Lei era davvero bella, anche vestita da uomo.
 Non vedevo l’ora di iniziare davvero la mia vita con lei.
 
Natale 1954
 
Erano passati un anno e quattro mesi da quando ci eravamo sposate. Le cose andavano davvero bene finalmente. Ci eravamo trasferite nella tenuta degli Stein, che gentilmente Samuel ci aveva regalato, e lì avevamo occupato l’antica villa.
Avevamo tutto quello che desideravamo: all’esterno un giardino ampio, una fontana, un gazebo e per quanto riguardava la villa, era una casa a quattro piani con stanze su stanze.
 Ovviamente avevamo con noi un valido aiutante: Burton. Ci aveva seguite con il permesso del Conte che ci faceva visita il più spesso possibile, come anche Samuel. Aveva trovato un piacevole amico nel nostro vicino, il Barone  di Levington, Marc Snowhill. I due erano da noi quasi ogni fine settimana e ci divertivamo molto.
Erin era stata ancora costretta ad usare quegli abiti da uomo se andava in paese o quando veniva Marc. Ma ben presto Samuel aveva messo a parte del segreto anche lui e quindi poteva essere libera di essere sé stessa anche nella sua casa.
Arya cresceva felice, circondata da animali e fiori e da giochi che le procuravamo nei nostri viaggi a Londra. Non che li chiedesse esplicitamente ma vedere la luce dei suoi occhi che si accendeva alla vista di magnifiche navi di legno o bambole di ceramica finemente decorate, era tutto per noi.
L’anno precedente eravamo andate a Londra, da mio padre, per festeggiare il Natale ma quest’anno ci eravamo riuniti tutti nella nostra villa, vicino al Distretto dei Laghi del nord.  
Eravamo pochi intimi: io, Erin e Arya, Samuel con Marc, mio padre e mia sorella.
Anche lei alla fine aveva saputo del segreto e dopo qualche iniziale reticenza, aveva deciso che se Erin mi faceva davvero così felice, allora lei non aveva niente da obbiettare.
 Suo marito era assente questa volta. L’anno precedente avevo chiesto ad Erin di vestirsi da uomo per quel Natale perché ci sarebbe stato anche il marito di Susan e lei aveva accettato. Jack era stato di un noioso assurdo. Non faceva che parlare di quanto fosse difficile lavorare al governo di questo periodo. Durante questo Natale era dovuto partire per l’India e aveva lasciato Susan da sola.
Ma lei non ci aveva  badato troppo e aveva pensato godersi il Natale, come era giusto.
La giornata era stata divertente. Avevamo passato il tempo giocando a palle di neve con Arya, a cuocere cibo e a mangiarlo ovviamente. C’erano stati regali per tutti e alla fine decretai la serata un successone.
Gli ospiti sarebbero rimasti per il week-end e così dopo la mezzanotte (Arya era già a dormire dalle 22) si ritirarono tutti nelle proprie stanze.
Erin si era già messa il pigiama e mi attendeva  nel letto con uno strano sorriso. Mi avvicinai a lei e mi sdraiai sotto le coperte, accostandomi al suo fianco.
Lei si sporse verso il comò e tirò fuori una busta.
Ci giocherellava e finalmente me la porse.
“Non ti ho fatto nessun regalo davvero importante e questo mi sembrava il minimo.”
La guardai interrogativa. Non avevo bisogno di regali se avevo lei con me. E lei c’era.
La signorina Louise Blake, Contessa di Blakelake, sposata al Conte di Stein, è sinceramente invitata ad unirsi ai suoi colleghi del secondo anno. Tutte le quote sono state pagate. Sinceramente Vostro Il Magnifico Rettore di Medicina di Londra, Marcus Tomson.”lessi ad alta voce.
 Poi rilessi ancora una volta incapace di crederci. Mi aveva pagato le rette per i miei studi. Non solo per quell’anno ma anche per quelli a venire.
Mi gettai al suo collo e lei si mise a ridere. Iniziai a baciarla ardentemente.
 Mi voleva far realizzare il mio sogno che avevo messo da parte per poter cominciare la nostra vita insieme. Dio, quanto poteva essere stupenda?
“Ti amo e non so come dimostrartelo. Tutto quello che sento qui – mi indicai il cuore con la mano- è troppo grande per poter essere espresso con delle semplici parole. Ma sappi che non ho mai amato qualcuno come amo te.”
Si avvicinò a me e mi baciò. Fu un bacio dolce e carico di significato.
“Lo sai, vero, che ti sto regalando anni di studio ed esami? Non ringraziarmi.”
Ci mettemmo a ridere e poi dopo aver spento le luci, ci addormentammo. Era mia davvero e io ero sua.  Saremmo rimaste insieme per sempre.
 
Oggi
  
Mi sentii scuotere la spalla da dietro. Lentamente aprii gli occhi.
“Che c’è..? Che c’è..? Sono sveglia.”replicai a bassa voce. Mi ero addormentata sotto la quercia dopo che Michelle si era affrettata alla villa per la festa.
“Ti eri addormentata, amore mio.”
Louise.
 Mi accarezzò i capelli e poi si chinò per posarmi un bacio dolce sulle labbra.
“Ti sono venuta a cercare. Non tornavi per il tè e così sono scesa nel giardino. Mi sono fermata un attimo a guardarti dormire. Sei sempre bellissima.”
Arrossii. Non mi capitava da un po’.
“Tu sei il mio sole,sai. Mi scaldi il cuore fin dal primo momento che ti ho vista. Ti ricordi? Sessant’anni fa ormai.”le ricordai, mentre la facevo sedere sulle mia ginocchia. Non ero più così giovane ma volevo ancora tenere fra le mie braccia l’amore della mia vita.
“Come potrei dimenticare? La nostra storia è unica al mondo.”mi disse e mi abbracciò caldamente.
“Noi lo siamo amore. E Arya e la sua splendida nipotina, Michelle.”
Le passai un dito sopra al ciondolo con il sole.
“Non passa giorno senza che io ringrazi la buona stella che ci ha fatte incontrare.”
“Anche io.”sussurrò Louise di rimando, i capelli bianchi a caschetto. Era sempre lei. Lei era per sempre.
“Ti amo, piccola.”
“Ti amo, cucciola.”
Rimanemmo in silenzio per un po’ e poi Louise si alzò.
“Penso che sia ora per il nostro tè e Michelle richiama la tua attenzione. Vuole una storia.”
Ridacchiai.
“E l’avrà.”
Le presi la mano e ci avviammo verso casa nostra.  
 
Fin

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