Mirrors

di Meow_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di sangue e occhiaie ***
Capitolo 2: *** Incontri sospetti ***
Capitolo 3: *** Perché? ***
Capitolo 4: *** Buio ***
Capitolo 5: *** Presentazioni ***
Capitolo 6: *** L'Accordo ***
Capitolo 7: *** Confusione ***
Capitolo 8: *** Illusione ***
Capitolo 9: *** Inizia il divertimento ***



Capitolo 1
*** Di sangue e occhiaie ***


   CAPITOLO PRIMO

Di sangue e occhiaie





   Quella mattina mi svegliai particolarmente svogliata. Avevo più sonno del solito e mi sembrava di aver dormito solo alcuni minuti. Mi girava la testa, sarei voluta restare a letto per tutta la giornata.
Con uno sforzo grandissimo mi alzai dal letto. Guardai l’orologio: erano le sei e mezza; “voglio morire” pensai, ingenuamente.
   Mi diressi verso il bagno, ma quando mi lavai la faccia per poco non mi venne un infarto. Con la faccia ancora bagnata, alzai lo sguardo verso lo specchio. Non riuscii a trattenere un urlo, che probabilmente svegliò tutti i miei vicini di casa nel raggio di cento metri. Avevo la faccia ricoperta di sangue, ma non riuscivo a capire da dove venisse. Apparentemente, non avevo nessuna ferita.
   Mi sciacquai la faccia numerose volte, cercando di lavare via tutto quel sangue. Ma quando rialzai lo sguardo, la situazione era peggiore della prima volta. Iniziai a urlare, piangere, non sapevo più cosa stessi facendo. Volevo togliermi quel sangue dalla faccia ma non ci riuscivo. Per un attimo sperai che fosse solo un incubo, ma purtroppo era tutto reale.
   Mia madre fu svegliata dalle mie grida. Corse il bagno e mi guardò con fare assassino, che voleva dire più o meno: “per quale dannato motivo mi hai svegliata?”
   La guardai terrorizzata, forse non aveva ancora visto il sangue sulla mia faccia. Ma quando lei mi guardò negli occhi e non vidi terrore sul suo viso, iniziai a preoccuparmi. Era una cosa così normale avere la faccia ricoperta di sangue?
   «Che succede? Perché urli?» mi chiese, scocciata.
   «Mamma!» risposi, shockata.
   «Cosa c’è?»chiese lei.
   «Ho… ho la f-faccia piena di s-sangue!» balbettai.
Mia madre mi guardò adirata e alzò un sopracciglio.
   «Non ho voglia di giocare, torno a dormire. Vedi di non svegliarmi di nuovo» mi disse.
Io la guardai sconcertata. Giocare? Secondo lei avevo voglia di giocare? Era diventata improvvisamente cieca e non vedeva tutto quel sangue?
   Tentai nuovamente di lavarmi la faccia. Quando aprii il rubinetto, vidi una cosa che mi spaventò ancora di più. L’acqua era diventata rossa; o meglio, l’acqua era diventata sangue. Sbattei le palpebre velocemente, e quando riaprii gli occhi… L’acqua era tornata ad essere acqua.
   Pensai di essere impazzita, di avere le allucinazioni. Restai qualche minuto paralizzata a fissare l’acqua, e una volta accertata che fosse davvero acqua, mi lavai nuovamente la faccia. Questa volta, quando alzai lo sguardo, avevo la faccia perfettamente pulita. Tirai un sospiro di sollievo e cercai di non pensare a ciò che era successo per il resto della giornata. Probabilmente ero solo stanca e la mia mente mi aveva giocato un brutto scherzo, non dovevo pensarci.
   Fortunatamente mia madre non tornò sull’argomento; penso che sarebbe stato piuttosto imbarazzante ammettere di avere le allucinazioni.

   La mattina del giorno seguente mi svegliai, incredibilmente, ancora più stanca del giorno prima. Avevo quasi rimosso l’accaduto del giorno prima, quindi andai a prepararmi relativamente tranquilla. Ma, ahimè, anche quel giorno lo specchio volle farmi una brutta sorpresa.
   Stavolta niente sangue sulla mia faccia, ma delle occhiaie tremende, peggio di qualsiasi occhiaie mai viste. E la mia pelle! La mia pelle era di un bianco cadaverico, di quella sfumatura tra il viola e il verdino.
   Ero così spaventosa che pensai di essere morta davvero. D’accordo, ero stanca, ma delle occhiaie del genere non vengono nemmeno se non dormi per una settimana di seguito, e io avevo dormito almeno sette ore!
   Cercai di fingere che fosse tutto a posto, e non capivo come la gente che incontravo per strada non mi guardasse con orrore. Ero un mostro, perché a loro sembravo così normale?
   Ogni volta che passavo affianco ad una macchina, guardavo il finestrino, speranzosa. Ma tutto ciò che vedevo era sempre e solo quella specie di cadavere che ero diventata. Decisamente, non era un’allucinazione come quella del sangue. E se neanche quella fosse stata un’allucinazione?

   Arrivai a scuola e nemmeno lì il mio viso fece lo scalpore previsto. Ormai era ufficiale: erano tutti rincoglioniti. Almeno i miei amici più cari avrebbero avuto il coraggio di dirmi in faccia che ero un mostro?
   Entrai in classe e nessuno mi notò con maggiore interesse del solito. Pensai che, forse, il mio viso fosse tornato normale. Decisi di dare un’occhiata al mio specchietto, ma quando mi vidi, feci una faccia schifata.
   «Che c’è? Ti è spuntato un brufolo?» mi chiese la mia compagnia di banco, scherzando, che si era appena seduta affianco a me.
   «Ma non le vedi?» chiesi, indicandomi gli occhi.
   «Vedere cosa? Non hai niente che non vada» disse lei, guardandomi male, come se avessi appena detto un’assurdità.
   «Queste occhiaie! E la faccia, guardami, sono color morte!» dissi io, agitata.
   «Stai impazzendo» rispose lei, dandomi una pacca sulla spalla.
   «Seriamente non vedi niente di strano?» le chiesi, seria.
   «No» rispose lei.
Mi riguardai nello specchietto, ma le mie occhiaie e il colorito pallido erano ancora lì e sembrava che non volessero andarsene.



Ciao a tutti! Questa è la mia seconda storia horror e... boh, non so, ero indecisa se postarla o no! Non so dirvi esattamente quanti capitoli avrà, ma sicuramente meno di dieci.
Vi chiedo per favore di recensire, anche se dovesse essere una recensione negativa, perché sono moooolto indecisa!
Ringrazio chi ha letto questa storia e chi -spero- recensirà!


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Capitolo 2
*** Incontri sospetti ***


CAPITOLO 2

Incontri sospetti






   I giorni seguenti non furono molto diversi dai precedenti. Come mi aspettavo, il mio viso non migliorò; ormai iniziavo ad abituarmi a quelle orribili occhiaie. Tuttavia, nessuno ancora sembrava accorgersene e io iniziavo a smettere di sperare che la situazione migliorasse.
   Passarono alcuni giorni in questo modo, la situazione ormai sembrava stabile. Finché, un giorno, successe una cosa che mi turbò decisamente.
Ero a scuola, con una mia amica, e ad un certo punto decisi di farle sentire una canzone che mi piaceva molto. Collegai le cuffiette al cellulare, ne passai una alla mia amica e presi l’altra, feci partire la canzone e… panico.
   Guardai la mia amica, muoveva la testa a ritmo con la musica e sorrideva, ma io non sentivo niente. Non proprio niente, a dire il vero, ma non sentii ciò che mi aspettavo. Sentivo un sibilo terrificante, come se qualcosa non stesse funzionando nelle cuffiette. Ma quando mi girai a guardare la mia amica e la vidi così tranquilla, capii che il problema non era nelle cuffie. Era nella mia testa.
   Restai come paralizzata per alcuni secondi, ma poi il sibilo divenne sempre più forte e sempre più fastidioso, al punto che mi tolsi violentemente la cuffietta e mi portai una mano all’orecchio. La mia amica bloccò la canzone e si tolse la cuffietta.
   « Che succede? » domandò, allarmata, vedendo il mio viso contratto in un’espressione di dolore.
   «Niente, scusa, vado un attimo in bagno… »mentii. Ormai eravamo arrivati a ben tre episodi inspiegabili, e come i precedenti due, dubitavo che lei sentisse quel terribile sibilo.
Una volta tolta la cuffietta, il rumore non diminuì, anzi, crebbe sempre di più. Mi misi a correre in direzione del bagno, barcollando dal dolore, la mano premuta sull’orecchio, inutilmente.
   Arrivai, per miracolo, al bagno che, per mia grande fortuna, era vuoto. Mi accasciai per terra, ormai la mano premeva in un modo esagerato sul mio povero orecchio. Iniziai a urlare, a pestare i piedi, a tirare pugni ovunque, tutto per cercare di combattere il dolore. Ma quel dolore non sembrava far parte del mio corpo; qualsiasi cosa facessi non lo colpiva, continuava imperterrito e sempre più forte; era dentro la mia testa.
   Le mie urla dovevano essere diventate davvero troppo forti, perché un gruppo di studentesse e professoresse entrarono di corsa nel bagno, e quando mi videro contorcermi per terra si portarono le mani alla bocca.
   «Cos’hai? » mi chiese una delle professoresse, preoccupata.
Io la sentii a stento, la sua voce era coperta dal terribile sibilo. La guardai, gli occhi pieni di lacrime. Non credevo di riuscire a formulare alcuna frase in quella situazione.
   Due o tre persone si chinarono verso di me, aiutandomi ad alzarmi. Mi ripeterono la domanda, ma io ancora non riuscii a rispondere. Guardai negli occhi una delle professoresse rimaste sulla porta; aveva uno sguardo glaciale, forse dovuto alla sua pallida pelle e ai suoi occhi azzurri tendenti al grigio.
   Fu un attimo, lei sostenne il mio sguardo per un istante e poi se ne andò subito. Il rumore cessò all’istante.
   Fu come nascere nuovamente, riuscivo a sentire tutto perfettamente. Presi un forte respiro e tolsi la mano dal mio orecchio.
   « Scusatemi » dissi, « Avevo un forte mal d’orecchi »
Le tre professoresse al mio fianco mi guardarono incredule, incapaci di spiegarsi come mi fossi calmata tutto d’un tratto.
   « Come ti è venuto? » chiese una delle tre, in tono materno.
   «Non… Non lo so » risposi, indecisa se raccontare o meno la verità.
Loro mi guardarono perplesse, così decisi che almeno a loro potevo raccontarlo. In fondo, non sembrava una cosa poi così strana.
   « Io… Io stavo ascoltando musica. Cioè, volevo, perché al posto della canzone ho sentito… Ho sentito un sibilo, che cresceva sempre di più, così sono corsa qua, era insopportabile » spiegai.
Le professoresse erano sempre più confuse.
   « Fammi capire. Al posto della canzone è partito un sibilo? » mi chiese una delle tre, scettica.
   « N-no! La mia amica… Lei… Lei sentiva la canzone » risposi, imbarazzata.
   « Lo sentivi solo tu? » chiese sempre la stessa professoressa.
Annuii.
   « Vorrei parlare con tua madre, chiedile quando pot… »
   « COS’HO FATTO? » gridai, allarmata.
   « Niente, niente, tranquilla! Vorrei parlare con lei perché mi sembra un po’ strano, magari ti porta a fare dei controlli… »
   « NO! » risposi io. Sapevo perfettamente cos’avrebbe pensato mia madre.
   « E perché mai? » chiese.
   « Io non… Non voglio farla spaventare inutilmente » mentii.
   « Non mi sembra una cosa da prendere così alla leggera » rispose lei, a mo’ di rimprovero. « Comunque, se proprio non vuoi dirglielo tu, sarò costretta a farla chiamare dalla segreteria »
Non risposi, mi limitai a tornare in classe. Un gruppo dei miei compagni, quando mi videro, mi vennero in contro, riempiendomi di domande. Li ignorai tutti.

   Da quel momento in poi evitai di toccare cuffiette o ascoltare musica, avevo il terrore che quel suono tornasse. Avevo vissuto dei minuti strazianti, non avrei mai e poi mai voluto ripetere l’esperienza. Era diversa dalle due precedenti. Quelle mi avevano spaventato – non poco – e tutt’ora avevo le solite occhiaie, ma niente era mai stato doloroso come quel suono.
   Tornata a casa, dopo scuola, mi feci una lunga doccia; riflettei su tutto quello che stava succedendo, e una domanda venne spontanea: “Perché a me?”. Non capivo, non capivo il senso di tutto ciò, non capivo se fosse la realtà o solo il frutto della mia immaginazione, non capivo perché dovesse succedere proprio a me. Avevo fatto qualcosa di particolarmente mostruoso? No. Ero una ragazza normale, come tante altre, e allora perché dovevo sopportare tutte quelle cose?

   Avevo il terrore del momento in cui mia madre avrebbe ricevuto quella telefonata. Perché quella dannata professoressa doveva mettersi in mezzo? Credeva forse che non avrei raccontato a mia madre di ciò che era successo? Be’, in effetti un po’ aveva ragione. Come l’avrebbe presa mia madre? Probabilmente mi avrebbe detto di smetterla di fare sceneggiate, di giocare, o di cercare di mettermi in mostra.
   L’avevo sperimentato quando l’avevo chiamata per il sangue in faccia. Mi aveva detto di smetterla, di non disturbarla più. Mi chiedevo spesso perché non mi capiva, forse credeva che fossi una visionaria? O forse credeva che fossi un’egocentrica in cerca di attenzioni?
   Alcuni giorni prima, durante il pranzo, le avevo raccontato delle occhiaie. Lei mi aveva guardato a lungo, poi, così, senza preavviso, aveva iniziato a urlare. Mi disse che era già stressata di suo, che non aveva bisogno delle mie scemenze e tutto il resto. Poi si era alzata e mi aveva lasciata da sola a finire di mangiare, facendomi sprofondare nella tristezza.
   Non solo dovevo sopportare quell’aspetto terribile, in più ci si metteva anche lei, con le sue accuse.

   Il pomeriggio, mentre studiavo in salotto, sentii il telefono squillare. Il mio cuore perse qualche battito, in qualche modo sapevo che era la professoressa. Mia madre rispose dopo pochi squilli e le mie paure furono confermate.
   « Sì, pronto? Come? Lei è una professoressa della scuola di mia figlia? Sì, sono la madre, che succede? Come? Sentita male? » la sentii dire.
Ci furono alcuni minuti di silenzio, probabilmente la professoressa le stava raccontando quanto accaduto.
   « Sì, non si preoccupi, la farò controllare, sì, senz’altro. Grazie mille, professoressa, arrivederci » disse infine mia madre, riattaccando.

   « Cos’è questa storia? » mi chiese. Sembrava molto adirata.
   « Io… Io, veramente, sentivo… » tentai di spiegare.
   « Basta » rispose lei, scandendo bene ogni singola lettera. « Tu hai bisogno di una bella visita. Ma non dal dottore, no, dallo psicologo. E non guardarmi così, ne hai bisogno! » aggiunse, in seguito al mio sguardo esterrefatto.



   Camminai incerta per l’ingresso del palazzo; era tutto molto buio e sfarzoso, l’atmosfera metteva una certa inquietudine. Mi avvicinai dal portiere, e chiesi, un po’ imbarazzata, quale fosse la casa dello psicologo che aveva scelto mia madre.
   Entrai nell’ascensore, quarto piano. Camminai fino al portone dello psicologo, presi un gran respiro e suonai.
   « Salve, tu devi essere Sofia, giusto? » mi chiese lo psicologo, aprendo la porta, con un sorriso non del tutto rassicurante.
Io annuii piano, e lui mi tese la mano.
   « Piacere » disse.
   « Piacere mio » risposi, molto imbarazzata.
Non volevo che quell’uomo mi vedesse come l’ennesima pazza da analizzare. Io non ero pazza, volevo urlarlo al mondo intero! Perché dovevo sprecare il mio tempo in inutili chiacchiere, quando sapevo perfettamente di essere sana? O forse, tutto ciò che vivevo, era frutto della mia pazzia?
   « Accomodati » mi disse, indicando un lettino che aveva l’idea di essere molto comoda.
Mi ci stesi, goffamente. Iniziò col farmi delle domande stupide, come che età avessi o che scuola frequentassi. Ma poi iniziarono le domande più approfondite, riguardanti ciò che mi stava succedendo.
   Dal tono di voce intuii che voleva in qualche modo rassicurarmi, come se per paura non gli dicessi la verità. Io, d’altro canto, mi ero sbloccata e stavo raccontando la storia, fornendo numerosi particolari. Il tutto con un’espressione molto seria, che, secondo me, serviva a far capire allo psicologo che tutta la storia era vera.
   Invece, lui mi guardò con tenerezza, quasi volesse compatirmi.
   Ad ogni domanda io rispondevo tranquillamente, invece lui non diceva nulla, si limitava a prendere appunti.
   « Dimmi, cara, come ti sei sentita quando il rumore è cessato di colpo? » mi chiese lui, ad un certo punto.
Lo guardai, ero confusa. Non ero ancora arrivata a quel punto del racconto. Lui mi guardò un attimo negli occhi, e con orrore notai che aveva lo stesso sguardo della professoressa che era rimasta sulla porta. Provai a dire qualcosa, ma le parole mi morirono in gola nello stesso attimo in cui aprii la bocca.
   « Sì? » mi incoraggiò.
   « Io, dottore, ecco… Io non ero ancora… Ancora arrivata a quel punto. Come fa… » ma non feci in tempo a finire la frase.
Il suo sguardo divenne furioso, come quello di chi ha appena mandato a monte un piano progettato da mesi, un piano perfetto.
   « Per oggi può andare bene » disse in tono brusco, sistemando alcuni fogli sulla scrivania.
   « Ma… » dissi.
   « Ho detto BASTA COSÌ. Fuori! » mi urlò, furibondo.

Non me lo feci ripetere ulteriormente. Uscii velocemente dallo studio, scesi le scale in un baleno, correndo il più veloce possibile mi allontanai da quella casa. Ero terrorizzata. 






Ciao a tutti, finalmente riesco ad aggiornare! 
Ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo (♥) chi ha inserito la storia tra seguite eccetera eccetera.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e spero che recensirete! 
Un bacio a tutti, al prossimo capitolo!

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Capitolo 3
*** Perché? ***


Capitolo 3

Perché?







Avevo paura. Correvo più veloce che potevo per andare via da quel maledetto palazzo, che mi aveva fatto una cattiva impressione sin da subito. Lungo la strada urtavo persone, ma non mi importava, non chiedevo nemmeno scusa; l’unica cosa che mi interessava era tornare a casa il più presto possibile.
Le parole dello psicologo mi rimbombavano nella testa. Davvero ne sapesse più di quanto pensassi? E se era così, com’era possibile? O forse ero io che non mi ricordavo di avergliene parlato, perché in realtà stavo diventando matta e non mi rendevo più conto di ciò che facevo?
Non riuscivo a trovare le risposte. Forse stavo esagerando, ma non mi sembrava di aver perso il controllo della mia mente.
E poi, anche se avessi esagerato, non c’era niente che potesse giustificare quella reazione, il suo sguardo. O forse stavo immaginando anche quello?
Scossi la testa e cercai di non pensarci. Con un po’ di fortuna, in qualche giorno avrei dimenticato tutto. Non sarei mai più tornata in quel palazzo e avrei continuato la vita di sempre, senza che quelle domande assurde mi tormentassero.

Correvo ormai da tempo, e normalmente sarei già stata senza fiato, ma in quel momento non mi rendevo nemmeno conto di quanto stessi correndo. Me ne accorsi solo quando arrivai, finalmente, a casa mia, e mi fermai, facendo una fatica immensa a respirare. Cercai in fretta le chiavi dentro la borsa, ma quando le trovai mi tremavano le mani e dovetti fare numerosi tentativi prima di riuscire ad infilarle.
Perché avevo così paura? In fondo non era successo niente di così spaventoso, ma io morivo di paura. In effetti ero sempre stata una persona molto paurosa, ma mai fino a quel punto. Era più una cosa istintiva, e io non riuscivo a capirne il motivo.

Entrai a casa, facendo anche le scale di corsa, sempre per quella stupida paura che s’era impossessata di me. Suonai il campanello di casa a lungo e più volte, dimenticandomi di avere le chiavi in borsa.
Mia madre non apriva, e il panico stava iniziando ad invadermi, finché dopo due o tre minuti la porta si aprì.
Entrai velocemente e mi lasciai cadere su un divano, riprendendo finalmente un respiro normale. Mia madre mi guardò sospettosa, ma non disse niente finché io non fui tornata completamente a respirare normalmente.
«Che ti succede? Perché hai il fiatone?» mi chiese.
«Sono venuta di corsa» spiegai io, iniziando a pensare ad una scusa plausibile.
«Non potevi prendere il pullman?» continuò lei.
Scossi la testa, ma non risposi.
«Mi vuoi spiegare che succede?» chiese lei, iniziando ad innervosirsi.
Ecco uno dei motivi per i quali io e lei non andavamo d’accordo: pretendeva di sapere sempre tutto, e di avere chiara ogni situazione. Per lei non era accettabile il fatto che avessi corso perché mi andava, voleva a tutti i costi sapere il perché.
«Il dottore… Lui mi ha… Spaventata» confessai infine, certa che la risposta non sarebbe piaciuta a mia madre.
«E cos’avrebbe detto di tanto spaventoso?» chiese lei, con tono lievemente ironico.
«Ha parlato di un particolare che non gli avevo raccontato. Come gliel’ho fatto notare mi ha sbattuta fuori» risposi. Sapevo già come avrebbe reagito mia madre.
Lei mi guardò per un attimo, poi fece schioccare la lingua e riprese a fare ciò che stava facendo prima che arrivassi.
«Ma ti prego, ne ho abbastanza delle tue fesserie. Forse uno psicologo non fa al caso tuo, perché ormai sei irrecuperabile. Ho una figlia che si inventa le cose» disse in tono acido, l’ultima frase più rivolta a se stessa che a me.
L’avevo immaginato, ma quelle parole mi fecero male lo stesso. Era così difficile capire che non stavo mentendo? O forse era davvero come diceva lei?
In ogni caso, io mi sentivo abbandonata, e allo stesso tempo avevo paura per quello che mi succedeva. Non era normale, me ne accorgevo anche da sola.
Contro la mia volontà, iniziarono a scendermi delle lacrime. Appena mi sentii bagnare le guance corsi in bagno, per evitare l’ennesima sgridata di mia madre. Iniziavo ad odiarla.
Mi asciugai le lacrime, ma quando guardai le mie mani notai una cosa che mi spaventò parecchio: erano rosse. Mi guardai allo specchio e capii, per quanto la cosa fosse assurda. Piangevo lacrime rosse, ‘lacrime’ che avevano tutto l’aspetto di essere sangue. Le occhiaie erano sempre al loro posto, ormai ero sicura che non se ne sarebbero mai andate di lì.
Il terrore mi invase di nuovo. Piansi fino a non avere più ‘lacrime’ da piangere, e infine mi lavai la faccia, guardando con orrore il lavandino che diventava rosso ogni volta che mi sciacquavo.
Cosa mi stava succedendo? Perché ero l’unica a vedere quelle cose? Perché proprio io? Probabilmente non l’avrei mai saputo.
Passai tutto il resto della sera chiusa in camera, tormentandomi con quelle domande.


La mattina del giorno seguente mi sveglia, come sempre, di cattivo umore. Mi trascinai automaticamente verso il bagno, e quando alzai gli occhi assonnati verso lo specchio, notai una fantastica sorpresa: le occhiaie erano sparite. Il mio viso era perfettamente normale.
In un primo momento pensai che fosse solo un sogno, e dopo essermi accertata di essere sveglia, credeti che fosse solo uno scherzo degli occhi appannati dal sonno.
Dopo che mi lavai la faccia, con acqua che era veramente acqua, potei ammirare la fantastica normalità del mio viso.
Non mi sembrava vero, ormai mi ero rassegnata all’idea delle occhiaie. Il mio viso, che non mi era mai piaciuto, ora mi sembrava bellissimo, senza quelle orribili occhiaie.
Per la prima volta dopo tanto tempo fui contenta di dover uscire di casa. Le altre persone non si sarebbero accorte del cambiamento, ma io, per la prima volta, non avrei avuto paura di farmi vedere in pubblico. Ero davvero felice.

Arrivai a scuola, dopo che durante tutto il tragitto avevo osservato il mio normalissimo volto, e andai subito a cercare la mia migliore amica.
Era seduta su una panchina, da sola, e leggeva. Quando arrivai non dissi nulla, per vedere dopo quanto tempo mi avrebbe notata.
Dopo ben due minuti si accorse della mia presenza, mi salutò senza alzare lo sguardo, perché stava finendo di leggere una pagina.
«Hai studiato per…» iniziò a chiedere, ma si interruppe quando alzò lo sguardo, e urlò.
Mi voltai di scatto, convinta che stesse succedendo qualcosa dietro di noi, ma non c’era niente di strano.
Quando tornai a guardarla, lei mi fissava, terrorizzata.
«A-a-avevi ragione» balbettò.
«Su cosa?» chiesi, allarmata. Era davvero spaventata.
«Quando p-parlavi di o-occhiaie. L-le v-vedo anche io, adesso» rispose.
Il mondo mi crollò addosso, e non scherzo.
Finalmente erano sparite, e ora lei le vedeva? Che razza di scherzo era quello?
«Non sei per niente divertente!» sbottai, convinta che mi stesse facendo un brutto scherzo.
«S-sono seria, g-guardati» disse, e mi porse uno specchietto.
Mi guardai, e come pensavo non c’era nemmeno l’ombra di un’occhiaia.
«Non ho niente! Le ho avute questi giorni, ma oggi sono scomparse. Cosa stai dicendo? Non ho nulla!» dissi, mentre gli occhi diventavano lucidi. Mi succedeva sempre quando mi innervosivo.
A quel punto lei urlò di nuovo, e mi guardò, se possibile, ancora più spaventata.
«Che c’è?» chiesi, brusca.
Lei non rispose, ma indicò gli occhi.
Mi asciugai le lacrime con una mano, e quando la guardai vidi che le lacrime erano perfettamente trasparenti. Niente più rosso, niente sangue.
«Cos’ho che non va?» chiesi di nuovo, mentre le lacrime ritornavano.
Lei non disse niente, ma urlò. Mi sentii così sbagliata, così mostruosa. Perché quando le vedevo io, nessuno le vedeva, e quando le vedevano gli altri, io ero l’unica a non vederle?
Iniziai a farmi prendere dal panico, realizzando che se le vedeva lei, le vedevano tutti. In pochi minuti la gente si era moltiplicata, e notai che un gruppetto di ragazzi si avvicinava alla nostra panchina, attirato dalle urla della mia amica.
Dovevo scappare, nessuno doveva vedermi in quelle condizioni, nessuno. Mi fermai a pensare un attimo a che cosa fare, ma ormai era troppo tardi. Il gruppo di ragazzi ci aveva raggiunte, e stavano urlando. Le lacrime mi scendevano sempre più copiose, e dunque ormai la mia faccia doveva essere ricoperta di sangue.
Cosa c’era di sbagliato in me?
Tutte le persone intorno a noi urlavano, e io mi sentivo girare la testa, incapace di fare qualcosa. La gente era sempre più numerosa, quando all’improvviso tutto divenne silenzioso.
Potevo ancora vedere le loro facce piene di terrore, le loro bocche spalancate dalle urla, ma io non sentivo più nulla. Il mondo sembrava essersi spento, e io sentivo l’equilibrio mancare sempre di più, finché mi ritrovai a terra e persi conoscenza. 





Ciao a tutti. Non aggiornavo da tipo... Troppo tempo, e mi dispiace. Purtroppo l'ispirazione era venuta a mancare, e piuttosto che scrivere un capitolo orrendo ho preferito aspettare. 
Ringrazio chi è stato così paziente da aspettare tutto questo tempo. So che dopo un'attesa del genere probabilmente v'immaginavate chissà quale meraviglia di capitolo, ma questo è tutto. Spero di non aver deluso le aspettative di nessuno.
Ringrazio come sempre chi ha letto e recensito lo scorso capitolo, chi ha la storia tra seguite, preferite e ricordate.
Non mettetevi scrupoli e ditemi cosa ne pensate di questo capitolo.
Ora vi saluto, e spero che il prossimo non arrivi dopo mesi. 
Grazie ancora a tutti, un bacio e a presto.


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Capitolo 4
*** Buio ***


Capitolo 4
Buio



Mi risvegliai a terra dopo non so quanto tempo. Inizialmente mi domandai perché fossi lì, ma poi la memoria tornò, insieme al terrore. Mi guardai intorno, tutta la gente era intorno a me.
«Ti senti bene?» chiese la mia amica.
Non riuscivo a parlare, così annuii lentamente, ma non mi sentivo per niente bene. Faticai parecchio per mettermi a sedere, e avevo la sensazione che qualcosa non stesse andando come sarebbe dovuto andare. Poi capii: perché non urlavano, guardando la mia faccia?
«Il… Sangue… Ce l’ho… Ancora?» riuscii finalmente a dire.
Tutti mi guardarono perplessi.
«Sangue? Di cosa stai parlando?» chiese la mia amica.
«Io avevo… Voi stavate urlando…» non riuscivo a formulare una frase sensata.
«Nessuno stava urlando, questa gente è qui perché ti ha vista cadere all’improvviso dalla panchina e si è spaventata. Ma è tutto a posto» aggiunse con un’occhiataccia rivolta alle persone, come per dire loro di andarsene.
«Ho… Sete» dissi.
Due minuti dopo, la mia amica era di ritorno con una bottiglietta d’acqua, che finii nel giro di qualche secondo.
«Ora sì che va meglio» dissi, «Prima di svenire, stavo piangendo sangue. L’hai visto anche tu, l’hanno visto tutti».
Lei mi guardò come se avessi detto la scemenza più grande di sempre.
«Piangere sangue?» ridacchiò, «Andiamo, sei sicura di non aver sbattuto la testa troppo forte?».
«Sto bene» risposi all’istante, prima che potessero venirle dubbi.
Ero ancora un po’ confusa, i ricordi erano vaghi, ma ero sicura che tutti avessero visto le mie lacrime di sangue. Non avrei mai potuto dimenticare la sua faccia terrorizzata.
«Uhm, ok. Di cosa stavamo parlando? Ah, ora ricordo…» disse lei, e iniziò a parlare di banalità, come se niente fosse.
Possibile che avesse dimenticato tutto? Mi sembrava impossibile. Ma forse era meglio così, forse non mi avrebbe più parlato, se avesse ricordato qualcosa.

Tornata a casa, ero decisa a capirci qualcosa in più. Dovevo tornare al punto di partenza, dove tutto quell’orrore era cominciato: lo specchio del mio bagno.
Mi piazzai lì davanti e spalancai gli occhi, finché non iniziarono a uscire delle lacrime. Come sospettato, erano lacrime perfettamente normali. Allora mi avvicinai allo specchio e esaminai i miei occhi. Non avevo nemmeno l’ombra di occhiaie. Sembrava che si divertissero ad apparire e scomparire nei momenti meno opportuni. Mi prendevano in giro.
Disperata, tirai un pugno allo specchio, realizzando solo una frazione di secondo prima dell’impatto che cosa sarebbe successo. Mia madre mi avrebbe uccisa, se avessi frantumato lo specchio.
Ma poi accadde una cosa veramente strana: il mio pugno affondò nello specchio, come se fosse stato fatto di acqua. Avevo le allucinazioni?
Riprovai, stavolta andando lentamente con un dito. Anche questo affondò.
Sapevo che c’era qualcosa di strano, che sarei dovuta uscire all’istante dal bagno e fare finta di nulla, ma ero troppo curiosa per farlo. Salii lentamente sul lavandino, in ginocchio. Piegai la testa in avanti, fino a toccare lo specchio. Infilai la testa, ma vedevo solo buio.
Non era abbastanza, volevo sapere di più. Mi avvicinai ulteriormente allo specchio, e vi entrai completamente.
Fu come cadere nel vuoto, tranne per il fatto che quello non era il vuoto. Mi trovavo in un qualcosa che sembrava buio allo stato liquido, ma molto denso. Potevo respirare, tutto ciò era stranissimo; se mi trovavo dentro un liquido strano, come potevo respirare?
Restai perfettamente immobile e scoprii che in questo modo non scendevo più. Mi chiesi per l’ennesima volta: “Dove diamine mi trovo?”.
Vedevo come delle ombre più scure che si muovevano, sentivo strani rumori in lontananza, ma ogni volta che mi giravo verso le ombre o i rumori, questi sparivano.
Erano ciò di cui avevo più paura. 



Salve a tutti! Lo so che sono in un ritardo pazzesco, ma facciamo finta di niente. Spero che il capitolo vi sia piaciuto (anche se effettivamente è un po' corto). Ringrazio chi segue la storia e ha recensito lo scorso capitolo.
La cosa positiva è che sono in vacanza, quindi aggiornerò regolarmente, diciamo tra due settimane. 
A presto! 

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Capitolo 5
*** Presentazioni ***


Capitolo 5
Presentazioni


 


Rimasi immersa in quel buio per non so quanto tempo. Potevano essere ore, minuti, ma mi sembrava che il tempo non passasse mai.
Con la coda dell’occhio continuavo a intravedere delle ombre, più scure del buio che mi circondava, anche se sembrava impossibile. Era così buio che non riuscivo nemmeno a vedere i palmi delle mie mani nemmeno se le mettevo davanti agli occhi.
Ero terrorizzata. Avevo sempre avuto paura del buio, e questa paura col tempo era solo aumentata.
L’unica cosa che temevo di più del buio erano le ombre. Vedere ombre inspiegabili che si muovono, senza riuscire a capire se fossero vere o frutto della mia immaginazione, tutto questo mi terrorizzava e stava succedendo proprio ora.
Il cuore batteva a mille, le mani sudavano. Quanto ancora sarei dovuta rimanere lì? E perché? Volevano farmi forse morire di paura, o si divertivano a vedere come mi spaventavo per delle cose apparentemente così innocue?
Poi la situazione cambiò. Inizialmente piano, poi sempre più forte, sentii di nuovo quel sibilo che avevo sentito a scuola, il giorno in cui tutto era cominciato. Come la volta precedente, quel suono si insinuò nelle mie orecchie, facendomi gridare di dolore. L’unica cosa che potevo fare era premere le mani sulle orecchie, ma non era sufficiente. Anche questa volta, il suono non veniva da nessuna parte, era dentro la mia testa. Avrei voluto potermi accasciare a terra e raggomitolarmi, come quel giorno a scuola, ma appena muovevo le gambe, il mio corpo riprendeva a fluttuare nel buio.
«Basta» urlai, ma non cambiò niente. Anzi, se possibile, il suono si fece più forte. Sentivo che la mia testa era sul punto di esplodere.
«Fallo smettere, ti prego» supplicai, rivolta a nessuno in particolare.
Con mia grande sorpresa, il suono cessò all’improvviso. Le orecchie pulsavano ancora, ma il dolore si affievolì rapidamente.
Pensavo che niente potesse essere peggio di quel suono, ma mi sbagliavo.
Due occhi azzurri, tendenti al grigio, apparvero dal nulla nel buio. Li riconobbi. Erano gli stessi occhi di quella strana professoressa, che avevo visto sempre lo stesso giorno. Anzi, proprio mentre quel suono mi stava tormentando. Ricordai precisamente l’effetto che mi avevano fatto quegli occhi, quello sguardo glaciale.
Non riuscivo a fissarli, non capivo cosa stesse succedendo e questo mi spaventava tantissimo. Ma non c’era via d’uscita, dovevo affrontare le mie paure. Forse quella era una sfida: dovevo riuscire a superare quelle stupide paure. Mi convinsi della mia teoria.
Ma non appena provai a fissarli, questi svanirono. Strabuzzai gli occhi più volte, ma niente. La paura aumentava.
Provai a chiudere gli occhi e a prendere dei respiri profondi. Chiudere gli occhi era totalmente inutile, visto il buio che mi circondava.
Restai così per una decina di secondi, ma non mi calmai per niente. Anzi, stare con gli occhi chiusi mi metteva ancora più angoscia. Decisi di lasciar perdere.
Appena riaprii gli occhi, eccoli di nuovo: i due occhi glaciali mi fissavano. Sostenni lo sguardo, ma dopo pochissimo tempo scomparvero nuovamente.
«Che storia è questa?» mi rivolsi nuovamente a nessuno in particolare, ma qualcuno doveva pur essere responsabile di tutto ciò.
Nessuno mi rispose, ma in compenso sentii come un soffio. Un lieve flusso di aria fredda mi sfiorò prima il collo, poi la spalla. Dopo poco tempo aumentò, e iniziai a sentire quell’aria fredda dappertutto.
Mi presi la testa con le mani e provai a raggomitolarmi su se stessa, quella posizione mi faceva sentire più sicura. Fu difficile, ma riuscii a mettermi in una posizione abbastanza simile a quella desiderata.
Fissavo il punto dove immaginavo si trovassero le mie ginocchia, e mi resi conto che li vedevo, i due occhi mi fissavano ancora.
Alzai lo sguardo e scomparirono. Lo abbassai di nuovo, ed ecco che mi sentivo nuovamente osservata. Riuscivo anche ad intravedere quell’azzurro penetrante.
«Ma che storia è questa?» ripetei, «Ti guardo e non ti vedo, non ti guardo e ti vedo!» mi accorsi che la mia voce tremava. Dovevo calmarmi, non sarei mai riuscita a sconfiggerlo, chiunque fosse. Dovevo convincerlo che non mi spaventava, dovevo fingere di essere tranquilla.
«Vedo che ci sei arrivata» ridacchiò una voce vagamente familiare.
Dove l’avevo già sentita?
«Chi sei?» urlai. Si capiva perfettamente che ero spaventata, non sarei mai riuscita a convincere del contrario proprio nessuno.
«Oh, mi conosci molto bene. Più di chiunque altro. Scommetto che in poco tempo te ne renderai conto» continuò la voce.
Non capivo nemmeno da dove provenisse, nemmeno la più vaga idea. Ma non poteva essere dentro la mia testa, o forse stavo davvero impazzendo?
Per un momento sperai che fosse un sogno. In fin dei conti, quante volte avevo sognato cose del genere, che sembravano essere reali, e poi mi ero risvegliata nel mio letto, sana e salva?
«Non è un sogno. Non è la realtà.» mi rispose la voce.
Riusciva a leggermi nella mente? Questo era un problema.
«Sì, posso» rispose lui. Era inquietante.
Se poteva leggermi nella mente, potevo benissimo smettere di parlare. Magari, non sentendo il tremolio della mia voce, avrei potuto convincerlo di non essere spaventata. Mi pentii di quel pensiero non appena lo formulai.
«Non puoi, io sento tutto quello che provi tu. I tuoi pensieri, le tue emozioni, tutto, è tutto mio» rispose, «E sentire la tua voce spaventata è piacevole» aggiunse, con quel tono scherzoso che mi irritava tantissimo.
«Chi sei?» chiesi di nuovo. Il fatto che potesse sentire tutte quelle cose mi spaventava sempre di più. Ormai mi chiedevo se ci fosse un limite alla paura che una persona può provare.
«No, in effetti non c’è» ridacchiò, «Ma è tempo di presentarmi, non collaboro mai senza dire chi sono».
Collaborare? Come poteva solo pensare che avrei collaborato con… Con qualunque cosa fosse?
«Lo farai, lo fanno sempre tutti» rispose, tranquillo.
«Tutti? Hai… Hai già preso altre persone?» chiesi. Quanti altri avevano subito quell’orrore, prima di me?
«Oh, tantissimi. Ma non sono io che vi prendo, siete voi che venite da me» spiegò.
«Noi? Io non sono andata da nessuna parte!» risposi.
«Non in senso letterale» disse.
Continuavo a non capire.
«Ma dicevo, è arrivato il momento delle presentazioni. Di te so tutto, ovviamente, so cose di te che nemmeno tu sai. Io…»
«Non è possibile! Tu non puoi sapere niente di me» lo interruppi, ma non ne ero totalmente sicura nemmeno io.
«Io sono, non mi interrompere, la Paura» disse.
«La… Cosa?» chiesi. Il mio cuore non avrebbe resistito ancora per molto, me lo sentivo.
«La Paura. Il Buio, le Ombre, i mostri sotto al letto o nell’armadio, o lo Specchio, chiamami come vuoi. Anche se preferisco “La Paura”, ha un suono così bello e credo che mi rispecchi nel modo migliore».
All’improvviso ricordai dove avevo già sentito quella voce: era il “dottore” dal quale mia madre mi aveva mandato, pensando che fossi pazza. Niente aveva più senso.
Non gli dissi che l’avevo riconosciuto, tanto sicuramente lo sapeva già.
«Ma come puoi essere la paura? La paura non è un essere umano, non ha un corpo!» dissi.
A questo punto rise, come se avessi detto la battuta più divertente del mondo. Io non mi stavo divertendo proprio per niente.
«Ti sembra che io abbia un corpo?» chiese.
In effetti non lo vedevo e non capivo da dove venisse la voce, ma prima avevo visto i suoi occhi. Di quello ne ero più che sicura.
«Gli occhi? Oh, questi sono solo piccoli trucchetti. Anche a me piace divertirmi!» rispose ancora prima che potessi dirlo ad alta voce.
«Sei uno spettro» conclusi, pensando al flusso d’aria di prima.
«Un altro trucchetto» disse con voce annoiata.
Continuava a prendersi gioco di me, non lo sopportavo. «Chi sei?» chiesi, per l’ennesima volta.
«Te l’ho detto!» rispose con lo stesso tono di voce, «Sono la Paura».
Quelle ultime tre parole mi colpirono come uno schiaffo. Non era possibile. Doveva essere solo uno scherzo crudele del mio cervello.
«Oh, hai sentito benissimo» disse, e a quel punto non c’erano più dubbi.
«Mamma?» mormorai, con un filo di voce. 







Ciao a tutti! Spero che questo capitolo vi piaccia. Ringrazio chi segue la storia e recensisce, ma anche chi l'ha messe tra preferite o ricordate e chi legge in silenzio. 
Mi trovate su facebook: Sofia Meow, Twitter: @_sofimeow e su Ask: http://ask.fm/ksjfhgkjdfshg
 
Ancora grazie a tutti, a presto con il prossimo capitolo! 

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Capitolo 6
*** L'Accordo ***


Capitolo 6
L'Accordo







Sentii la creatura sghignazzare dentro la mia testa. Non riuscivo più a vederla da nessuna parte.
«Tu sei mia madre?» chiesi, praticamente sottovoce.
Rise ancora. Stavolta il suono veniva dalla mia destra; mi girai, ma c’era solo buio, nient’altro.
«Rispondimi» dissi. Mi tremava la voce.
«Che bisogno c’è di rispondere, quando sai già la risposta?» disse la creatura. Era alla mia sinistra, ma io non avevo avvertito nessuno spostamento.
Come fa a muoversi in questo modo? Perché non la vedo? Pensai.
«Piccoli trucchetti, tesoro» rispose.
«Sei davvero mia madre? O è solo un’illusione?» provai ancora.
Nessuna risposta.
Non può essere lei. Non mi farebbe mai una cosa del genere, sono pur sempre sua figlia, pensai, e me ne pentii all’istante. Era difficile
«Tu la odi. Ops, tu mi odi» disse la creatura.
Non volevo crederle, era semplicemente impossibile. Era vero: io e mia madre non eravamo mai andate d’accordo, ma questo? Mia madre era umana, una persona normale.
«Uff, è difficile convincerti, eh? D’accordo, è un’illusione» confessò la creatura.
Probabilmente in quel momento ripresi a respirare. Lo sapevo, lo sapevo. Non poteva essere lei.
«Ferma, ferma. Questo non vuol dire che io non sia tua madre, o meglio: che tua madre non sia io» disse.
Un brivido percorse il mio corpo. Cosa voleva dire? Mi ero stancata di tutti quegli indovinelli. L’unica cosa che sapevo è che non era mia madre, non c’erano dubbi.
«Non capisco» dissi, cercando di non apparire troppo spaventata.
Inutile. Quella cosa mi può sentire, cercai di mettermelo in testa una volta per tutte.
«Non c’è bisogno che tu capisca» mi rispose con tono tranquillo, cosa abbastanza ironica vista la situazione in cui eravamo. «Quello che voglio è proporti un accordo».
«Un… Cosa?»
«Un accordo, mi hai capito benissimo» ripeté.
«Cosa vuoi che faccia?» chiesi. Temevo per ciò che poteva chiedermi. Potevo solo vagamente immaginare quale orrore fosse il suo accordo, e sinceramente non volevo saperlo. Volevo solo andare via da lì –ovunque quel posto fosse– e tornare a casa, alla mia vita di sempre. Mi pentii per ogni volta in cui mi ero lamentata della mia noiosissima vita, perché in quel preciso istante avrei dato qualsiasi cosa per riaverla indietro.
«Oh, niente di che» rispose la creatura, ridacchiando. Ora potevo vederla: aveva di nuovo preso le sembianze di mia madre. Bastarda. «Devi solo fare un lavoretto molto semplice per me».
Chiesi mentalmente che tipo di lavoro fosse, ma non mi rispose. Vuole tenermi sulle spine. Si diverte a vedermi in questo stato.
«Prima ti ho detto che siete voi a venire da me, voi mi cercate» disse, ignorando completamente la mia domanda.
Annuii, incapace di parlare. Volevo solo che questa storia finisse al più presto, invece la creatura –o qualsiasi cosa fosse– se la prendeva con comodo.
Certo, pensai, sa che ogni secondo in questo posto mi mette i brividi e vuole vedermi terrorizzata più a lungo possibile. Aveva una sua logica.
«Ti ricordi il primo giorno che ci siamo incontrati?» chiese.
Per un attimo aggrottai la fronte, di cosa stava parlando? Non ci eravamo mai visti prima di allora. Ma poi capii: le occhiaie, il sangue e tutto il resto dipendevano da lui –o lei­–. Intendeva il giorno in cui per la prima volta avevo visto quell’orrore sul mio viso.
Ovviamente lo ricordavo. Come avrei potuto fare altrimenti?
Nonostante potesse leggere nella mia mente, non continuò il discorso. Dedussi che voleva sentirmi parlare, voleva sentire la paura nella mia voce.
«Sì, me lo ricordo» risposi.
«Te lo ricordi molto bene?» chiese.
In quel momento tanti frammenti di ricordi tornarono nella mia mente. Percepii addirittura il terrore che avevo provato quel giorno.
Cercai di scacciare via quei brutti pensieri, e risposi: «Me lo ricordo perfettamente».
«Quindi ricorderai cos’hai detto esattamente, mmh, tre minuti e mezzo prima di incontrarci?» chiese.
Riflettei un attimo. Mi ero appena svegliata, non avevo detto nulla… No, non detto, pensato… Cosa avevo pensato? Ah, ma certo. “Voglio morire”.
Per un attimo il mio cuore cessò di battere. Non riuscivo a respirare, e per lo spavento persi l’equilibrio che avevo raggiunto con fatica e inziai a scendere lentamente, senza sapere verso cosa. Con uno schiocco delle dita, la creatura mi sollevò immediatamente e mi rimise in equilibrio.
«Sono… Sono qui per quello?» riuscii infine a dire.
La creatura rise. «Oh, no! Certo che no! Sapevo benissimo che non lo volevi davvero, era solo uno scherzetto. Mi diverte sempre vedere un po’ di terrore. Be’, sentire, in effetti… Te l’avevo detto? Io posso provare qualsiasi cosa tu provi. È divertente, ma soprattutto utile».
La guardai con disgusto, come ci si può divertire per una cosa simile? «Mi fai schifo» dissi, mettendo dentro quelle parole tutto l’odio che potevo provare.
Un secondo pensiero mi passò per la testa: come poteva riuscire a fare tutto ciò?
La creatura sghignazzò nuovamente. «Non mi crederesti mai, se te lo dicessi».
«Dimmelo» le urlai contro. «Dimmi cosa sei!».
Mi guardò con uno sguardo serio, tutto il divertimento di poco prima aveva abbandonato i suoi occhi. «Ragazzina, smettila».
«Voglio sapere cosa sei e perché mi trovo qui, voglio sapere perché non mi lasci in pace, voglio sapere perché…» un dolore fortissimo interruppe la mia frase. Non capivo nemmeno da dove provenisse, tutto ciò che riuscivo a sentire era dolore. Dolore ovunque, sembrava che il mio corpo fosse sul punto di esplodere.
«Fallo smettere! Basta! Ti prego!» supplicai.
«Prometti» disse in tono gelido. «Giura che non farai mai più la bambina cattiva».
«Lo prometto! Lo giuro» urlai, senza esitazione.
La creatura si prese qualche secondo ancora di calma, e mi guardò tranquillamente contorcermi per il dolore. Sembrava vagamente interessata allo spettacolo. Poi tutto cessò, e fu come riprendere a vivere.
«Dimmi cosa devo fare» dissi, sperando che quella frase non la facesse arrabbiare di nuovo. Non ero sicura di poter sopportare quel dolore un’altra volta.
«Con calma» disse. «Ora finisco il discorso e tu non mi interrompi».
Non avevo alcuna intenzione di disobbedire.
«Ti ho detto che siete voi che venite da me, e tu ti sei chiesta cosa volessi dire» continuò. «Per “voi” intendo tutti. Tutti voi, esseri umani. Voi cercate la paura, a voi piace la paura. Andate a vedere quelli che chiamate “film horror”, vi travestite da mostri, fate cose incoscienti per provare il brivido dell’emozione, o stupidaggini del genere. Ma non sapete a cosa andata in contro. Non vi rendete conto che state sfidando qualcosa più grande di voi. E poi vi chiedete come mai io vi trovo».
Tutta quella storia era così inquietante che non poteva essere vera. Ogni volta che qualcuno cerca la paura finisce con l’incontrare quest’essere? Non era credibile.
«Ovviamente, non tutti mi incontrano» rispose alla domanda che non avevo formulato. «A dire il vero, voi privilegiati siete pochissimi».
Privilegiati? Darei qualsiasi cosa per passare il “privilegio” a qualcun altro.
«Questo non è possibile. Io vi scelgo con molta cura. Tu sei una persona molto paurosa, non è vero?» chiese.
Purtroppo sapevo che aveva ragione. Ero la persona più paurosa che conoscevo, talmente paurosa da non essere in grado di guardare nessun film horror. Talmente paurosa da non poter camminare in una stanza buia, o semplicemente restare a casa da sola. E tutta quella paura mi aveva portata lì.
«Oh, ti conosco bene!» ridacchiò. «Ti conosco meglio di quanto tu conosca te stessa».
La cosa mi metteva i brividi, ma stavo iniziando a credere che avesse ragione. E non era niente di buono. Questo voleva dire che conosceva ogni mio punto debole, ogni mia paura, piccola o grande. Poteva costringermi a fare di tutto, aveva il totale controllo su di me.
«Ora arriviamo alla questione importante» disse.
Trattenni il fiato, ecco che finalmente arrivavamo al punto. Da un lato avevo paura, ma dall’altra avevo la sensazione che tutta questa situazione sarebbe finita.
«Voglio che trovi un’altra persona paurosa quanto te. O più di te, ancora meglio» disse.
Non sembrava una cosa tanto terribile, ma poi continuò.
«Voglio che tu le faccia provare paura, come io ho fatto con te. La dovrai torturare con la paura, la dovrai far impazzire. E infine la spingerai a venire da me. Potrai utilizzare tutte le mie capacità –ah, non pensare di rigirarmele contro, non ci pensare nemmeno. Io ti controllerò ogni istante, non potrai mai vincere contro di me, toglitelo dalla testa. Mi aspetto che tu faccia un buon lavoro, lo dico anche nei tuoi interessi».
Ero senza parole. Non potevo, non potevo e basta. Solo l’idea di far vivere ad un’altra persona tutto quello che avevo passato era impensabile, mi sentivo male al solo pensiero.
«Come puoi chiedermi una cosa del genere?» chiesi, e crollai. Scoppiai a piangere.
«Smettila» mi ordinò, glaciale, e le lacrime cessarono immediatamente.
«Non posso» mormorai.
«Non puoi, ma davvero? Va bene. Allora eccoti un piccolo assaggio di cosa ti succederà se non accetti» schioccò le dita e scomparve.
Successe tutto insieme: sentivo le zampette di un’infinità di insetti percorrermi il corpo, alcuni mordevano. Cercai di togliermeli di dosso, ma ovunque toccassi sentivo dei vermi, e di conseguenza ritraevo immediatamente le mani, disgustata. Poi vidi di nuovo le ombre con la coda dell’occhio,correnti d’aria che mi sfiorarono, come se qualcosa di invisibile mi stesse passando accanto. Poi sentii un ronzio vicinissimo alla mia faccia. Una vespa. Una dannatissima vespa.
Volevo correre, correre più lontano che potevo per allontanarmi da lei, ma ovviamente non potevo muovermi. Sembrava quasi che la vespa si divertisse a volarmi vicinissima alle orecchie, agli occhi… Ma certo, era ovvio. La vespa non era altri che quella creatura.
Mi ritrovai ad implorarla di non pungermi. Il mio terrore per le vespe era enorme. Ma nonostante tutte le preghiere, la vespa mi punse sull’occhio.
Il dolore fu atroce. Avevo provato solo la puntura di ape, una volta, ed era stato terribile. Ma niente in confronto a questo. Iniziai ad insultare mentalmente la vespa con le peggiori parole che mi venivano in mente, ed ecco che ne arrivarono altre. Non riuscii a capire quante fossero, non volevo. Volevo solo che mi lasciassero in pace. Ma presumevo che fossero moltissime.
Fu quando mi punsero per la terza volta che decisi. Non mi importava se qualcun altro doveva soffrire, non mi importava se qualcun altro doveva subire ciò che avevo subito io. L’unica cosa che mi interessava era non provare più tutto quel dolore e tutta quella paura.
«MI ARRENDO» urlai «FARÒ TUTTO QUELLO CHE VUOI». Nessuno mi rispose. 





Ciao a tutti! Probabilmente ormai sarete abituati ai miei ritardi, ma mi scuso comunque.
Comunque, parliamo del capitolo! Vi aspettavate che sarebbe andata così? Spero che l'idea vi piaccia. 
Grazie per chi segue la storia e a chi recensisce i capitoli. Grazie di sopportarmi nonostante le attese infinite tra un capitolo e l'altro. 
A presto, un bacio. 
Facebook: Sofia Meow
Twitter: @_sofimeow

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Capitolo 7
*** Confusione ***


Capitolo 7
Confusione







Mi svegliai nel mio letto, a casa mia. La luce entrava dalla finestra socchiusa e illuminava la mia stanza. Tutto era normale.
Guardai l’ora: erano le sette. Guardai il calendario: era novembre, un lunedì. Dovevo andare a scuola.
Andai a lavarmi la faccia, assonnata. Avevo paura di guardarmi allo specchio, ma non capivo perché. I miei pensieri erano ancora offuscati dal sogno che stavo facendo… Un sogno. Improvvisamente i ricordi del buio e della Paura mi colpirono come un pugno. Era un sogno, o erano ricordi? Cercai di togliermi quel pensiero dalla mente, era sicuramente un sogno. Ma quindi anche le occhiaie e il sangue lo erano? Le occhiaie. Era come avere un vuoto di memoria e ricordare tutto all’improvviso. Mi guardai allo specchio: il mio viso era perfettamente normale.
Non c’erano dubbi, era stato solo un sogno…

Andai a fare colazione e trovai mia madre che apparecchiava la tavola, mettendoci biscotti, marmellata e altre cose deliziose. Sorrideva. Non avevo mai visto mia madre sorridere a quell’ora della mattina, o forse sì? Non me lo ricordavo. Tutto quello che ricordavo era una madre sempre scontrosa e facilmente irritabile, non una madre che prepara la colazione con il sorriso stampato in faccia.
«Buongiorno, tesoro, cosa preferisci?» mi chiese, sempre sorridente.
Ero confusa. Con un cenno indicai la caffettiera.
«Ma devi mangiare qualcosa, lo sai! La colazione è il pasto più importante della giornata» disse, e iniziò a spalmare della marmellata su una fetta di pane. Ero troppo confusa per poterle rispondere.

Tutto procedette normalmente. Mi preparai e andai a scuola, seguii le lezioni, come se niente fosse cambiato. Ma avevo una strana sensazione addosso, una sensazione indescrivibile. Era come se non fossi a mio agio, come se fossi nel posto sbagliato. Ma non aveva senso.
Tornai a casa, e mia madre non era in casa. Probabilmente stava ancora lavorando.
Iniziai a cucinare qualcosa per il pranzo, nonostante coi fornelli fossi una frana.
Mentre aspettavo che il cibo cuocesse, mi sentii mancare l’aria. Le gambe iniziarono a tremare e caddi per terra. La vista mi si appannò, ed era come se qualcuno  mi stesse stringendo nel suo pugno lo stomaco. Respiravo con fatica, non sapevo cosa mi stesse succedendo. La testa era leggera, la realtà scivolava via…

Ed ecco che ero di nuovo nel luogo buio. Stavolta non fluttuavo ed ero completamente sola. Mi sentivo di nuovo bene.
«Vieni fuori» urlai, «So che ci sei tu dietro a tutto questo!».
Realizzai che era quello di prima ad essere un sogno, e non le occhiaie, il buio e la Paura. Non capivo bene se fosse un sogno o un’allucinazione, sapevo solo che non era la realtà. Eppure sembrava tutto così reale.
Urlai nuovamente, urlai più volte, ma nessuno mi rispose. Stavolta non c’era niente di terrorizzante, a parte il buio. Che cosa voleva, quell’essere? Avevo detto di sì, avevo accettato, ma non mi lasciava in pace.

Provai di nuovo quella sensazione orribile. Mi risveglia sul pavimento della mia cucina, con un odore fortissimo di bruciato. Ero svenuta e avevo avuto un’allucinazione, non c’era altra spiegazione.
Mia madre era tornata a casa e mi stava schiaffeggiando la guancia per farmi svegliare. Ma per quanto tempo ero rimasta priva di sensi?
Mi alzai con fatica e bevvi un lungo sorso d’acqua. Dopo di che mi affrettai a spegnere tutti i fornelli; ormai il pranzo era andato. Diedi un pugno al tavolo della cucina per il nervoso, ma mia madre mi mise una mano sulla spalla e la strinse forte.
«Calmati, non è successo niente. Penserò io al pranzo» mi disse.
Ma non era per quello che ero nervosa. Cercai di reprimere le lacrime, ma fallii. Non appena mia madre vide i miei occhi riempirsi di lacrime, mi abbracciò e mi chiese cose stesse succedendo.
Tra un singhiozzo e l’altro le raccontai tutto, a partire dalla prima volta che avevo visto le occhiaie fino a ciò che avevo visto mentre ero svenuta. Le parlai dell’orribile sensazione che avevo costantemente addosso, le spiegai di come ogni volta non capissi se stessi semplicemente sognando o se fossero ricordi.

Alla fine del racconto mi diede una pacca sulla spalla e mi sorrise; uno di quei sorrisi che si fanno alle persone che non sono sane di mente. Ecco, ora mia madre pensava che fossi pazza, perfetto.
«È stato solo un brutto sogno» disse in tono rassicurante, «A volte, quando si sviene, si hanno le idee confuse. Ma non ti preoccupare, passerà».
E andò a cucinare. Rimasi seduta, con la testa appoggiata ad una mano e il gomito sul tavolo. Pensavo a quello che mi aveva detto, chiedendomi se forse avesse ragione. Alla fine decisi che probabilmente era così.
Dopo svariati minuti di ragionamenti, decisi che avevo troppa fame. Chiesi a mia madre quanto ancora mancasse per il pranzo, ma non mi rispose. Glielo domandai di nuovo, più forte, ma ancora nulla. Mi sembrava di parlare ad una persona che ascolta della musica con le cuffiette, ma nelle orecchie lei non aveva proprio nulla.
Così mi alzai e le posai una mano sul braccio, ripetendo la domanda. Fu come toccare l’aria. Scossi la testa, chiudendo e riaprendo velocemente gli occhi. Provai a toccarla nuovamente, ma successe la stessa cosa. A quel punto urlai, con tutto il fiato che avevo in gola. Lei si girò finalmente verso di me, e mi sorrise; aveva gli occhi color ghiaccio, mentre sapevo perfettamente che i suoi occhi erano castani. Tutto si fece dello stesso colore freddo e intenso dei suoi occhi, e la realtà scivolò via nuovamente.


Stavo camminando da sola, tra gli scaffali di un supermercato enorme. Arrivavo a malapena allo scaffale centrale. Passai davanti al reparto giochi e guardai entusiasta tutte le bambole: presto sarebbe stato il mio settimo compleanno e me ne avrebbero regalata qualcuna. Non riuscivo proprio ad aspettare.
Passai molto tempo ad ammirare tutti quegli splendidi giochi, sognando di possederli tutti. La mamma mi aveva detto di aspettarla perché doveva andare a prendere una cosa, e questo era il posto migliore per aspettarla.
Passarono venti minuti e lei non era ancora venuta a prendermi, così mi avvicinai alle casse per vedere se stesse facendo la fila, ma lei non c’era; tornai al reparto giochi.

Ormai non sapevo più quanto tempo era passato, sapevo solo che si stava facendo tardi e dovevo ancora finire i compiti che la maestra di italiano mi aveva assegnato. Ma dove era la mia mamma? Iniziavo ad avere paura. Non mi aveva mai lasciata da sola in un posto così grande. Mi aveva promesso che sarebbe tornata.
Chiesi ad una signora che ore fossero, e scoprii che erano passate due ore. Il supermercato stava per chiudere.
Ero sempre stata molto timida, così non mi azzardai a chiedere aiuto a nessuno, mi limitai a piangere in silenzio. I passanti probabilmente pensavano che mi avessero detto di no per qualche gioco.
Ormai era chiaro che mia madre non fosse più lì; si era dimenticata di me. Uscii dal supermercato e guardai nei parcheggi: ormai le macchine erano pochissime, e gli ultimi clienti se ne stavano andando.
Mi misi seduta sul marciapiede, stringendomi nel mio cappotto. Iniziava a fare freddo. Non sapevo che fare, volevo solo tornare a casa dalla mia mamma. Perché mi aveva abbandonata? Si era resa conto della mia assenza? Stava venendo a prendermi?
Passai il resto del tempo a fissare la strada, sicura che da un momento all’altro sarebbero apparsi i familiari fari della sua macchina. Ma non successe niente. Così mi appisolai, nonostante avessi cercato di restare sveglia… E dormii finché non sentii una mano afferrarmi la spalla. 




Hola! Sono stata impegnatissima con i preparativi per Hogwarts e ho scritto questo capitolo sul treno, ma ora sono riuscita a postare -a Hogwarts c'è il Wi-Fi, finalmente!! (Keep Dreaming...).
Comunque, so che in questo non c'è praticamente horror, ma è un capitolo di passaggio, più o meno... Be', mi scuso in anticipo se lo troverete noioso o qualcos'altro (teoricamente non è in anticipo visto che questa nota la leggerete dopo il capitolo, ma lasciatemi perdere). 
Spero che vi piaccia comunque; in caso contrario, non fatevi problemi a dirvi cosa non vi è piaciuto. Le critiche servono sempre a migliorare! 
Ora vi saluto, a presto. In questo periodo ho davvero pochissimo tempo per scrivere, ma non preoccupatevi, non abbandonerò la storia. Spero di riuscire ad aggiornare presto, grazie a tutti quelli che continueranno a seguire la storia nonostante la lunga attesa 

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Capitolo 8
*** Illusione ***


Capitolo 8
Illusione



Dopo ore –o forse giorni– di silenzio e buio, riuscii finalmente a vedere qualcosa. Ormai i miei occhi erano così abituati all’oscurità che anche la più tenue luce quasi mi accecò. Dopo qualche istante, riuscii a vedere oltre il bagliore. Stavo guardando l’interno di una casa, e dentro vi erano persone che stavano facendo colazione, o forse stavano pranzando; ancora non ero in grado di distinguere i particolari. Una cosa che notai subito, però, fu che non mi stavano prestando la minima attenzione, quasi fossi stata invisibile. Ma com’ero finita là? E chi erano quelle persone?
Una volta in grado di distinguere i particolari, mi resi conto che non ero esattamente dentro la stanza, ma la stavo osservando da qualche parte. Ma non da una finestra. Mi girai, e l’oscurità era sempre al solito posto, presenza costante degli ultimi giorni. A quel punto cercai di capire da dove stessi osservando la scena. Non era decisamente una finestra, e un buco nella parete era semplicemente improbabile. Piuttosto, era come un portale liscio, dal quale io potevo vedere loro, ma loro non potevano vedere me. Quella specie di portale rifletteva la luce verso la mia direzione. Poteva essere… Uno specchio? Era l’unica cosa sensata che mi venisse in mente.
Ma come potevo vedere attraverso uno specchio? Doveva essere per forza uno scherzo della Paura, alla fine era proprio tramite uno specchio che l’avevo ‘conosciuta’. Mi chiesi se in quel momento mi stesse osservando, o se stesse leggendo i miei pensieri. Lei mi osserva sempre, mi dissi, e in seguito cercai di scacciare quel pensiero raccapricciante dalla mia mente. Ultimamente sembrava essere sparita. Anche se in quel luogo avevo una concezione distorta del tempo, sapevo comunque che era passato molto tempo dall’ultima volta che l’avevo vista, o meglio… percepita. E con lei era sparito anche il senso di paura. Ha un suo senso, mi dissi. Non me n’ero accorta prima di quel momento, per in tutto quel tempo di attesa infinita ero sempre stata tranquilla. Annoiata, probabilmente, ma non di certo spaventata. Era strano, molto strano, considerato il terrore dei primi momenti. Avevo una malsana voglia di percepire il brivido della paura, di sentire il cuore accelerare ad ogni giochetto della Paura, volevo scoprire tutti i suoi misteri. Volevo provare paura. Insomma, che senso aveva vivere, se non si provava quella folle sensazione? Volevo che la Paura tornasse, e volevo che mi spaventasse con nuovi trucchi, nuovi misteri… Volevo tornare alla mia vita normale, e sentire di nuovo il respiro mancare ogni volta che mi guardavo allo specchio, proprio come la prima volta che avevo visto il sangue e le occhiaie… Iniziai persino ad ammirare quel suo gioco. Chissà quante risate si doveva essere fatta la cara Paura, quando aveva osservato la mia reazione, la reazione di un piccola ragazza, stupida e indifesa, che ha il terrore di provare paura. Una ragazza così diversa da ciò che ero ora, che non voleva altro che provare paura, e ancora più paura, e ancora più paura.
Fissai la scenetta di famiglia per qualche secondo, e poi un brivido mi percorse la schiena. Ma a cosa stavo pensando? Avevo seriamente desiderato la paura? Che cosa mi stava succedendo?
Non avrei mai e poi mai voluto rivivere quei momenti di terrore, per niente al mondo. Se la Paura pensava di farmi trascorrere in quel modo il resto della mia vita, be’, meglio morire subito. In quel momento formulai anche un altro pensiero: la Paura era via da molto, troppo tempo. Stava architettando qualcosa, probabilmente, e presto sarebbe tornata. Non sapevo cosa aspettarmi. Sapevo solo che avevo paura.


Mi svegliai, come ogni mattina. La luce del sole splendeva attraverso la finestra; doveva essere tardi. Qualcuno bussò dolcemente alla mia porta.
 «Svegliati, tesoro, la colazione è pronta» disse una voce gentile.
Mi alzai, strofinandomi gli occhi e passando una mano tra i capelli arruffati. Per un momento ebbi come un vuoto di memoria; non ricordavo quella stanza. Non ricordavo quella voce. Era tutto… sbagliato.
Ma poi la memoria tornò all’istante: quella era la mia vita, ma certo, che mi era preso?
I miei genitori, entrambi sorridendi, mi accolsero calorosamente a tavola, dove potevo vedere ogni genere di dolce. La strana sensazione tornò, ma cercai di non pensarci, concentrandomi sui dolci.
Dopo la colazione andai a prepararmi. Quando mi avvicinai allo specchio per truccarmi, notai un particolare che mi colpì. I miei occhi non erano castani? Ero convinta che lo fossero. Poi guardai meglio, e cercai di immaginarmi con gli occhi di quel colore. Ma no, ovviamente, i miei occhi avevano sempre avuto quel colore azzurrino, tendente al colore del ghiaccio. Era ciò che mi piaceva di più del mio viso.
La giornata trascorse in modo tranquillo. Scoprii che quel giorno non avevo scuola, e così i miei genitori mi fecero compagnia. Raccontai loro alcune cose successe i giorni precedenti, cose di cui mi ricordavo nel momento esatto in cui le dicevo. Eppure mi sembrava di non averle mai vissute. I miei genitori ridevano ad ogni cosa che dicevo, ed erano sempre sorridenti. Ad un certo punto notai che anche i loro occhi erano dello stesso azzurro-ghiaccio dei miei, anche se di mattina mi erano sembrati di un verde acceso. Ancora la sensazione strana, ancora una scrollata di spalle. Certo: i miei genitori avevano sempre avuto gli occhi di quel colore. Era giusto così. Stavamo ancora ridendo per una battuta di mio padre, quando la risata di mia madre si trasformò lentamente in un lamento agonizzante, che mi fece accapponare la pelle. Anche mio padre si unì a quel verso orribile, e le mie orecchie cominciarono a fischiare, mentre loro due si trasformavano in delle ombre indistinte…



Le tenebre mi circondavano. Dovevo essere svenuta, avevo sognato di avere una famiglia normale, con una vita normale, felice. Per un attimo mi cullai con quel pensiero e chiusi gli occhi, cercando di tornare a sognare. Ma poi mi venne in mente l’ultima scena del sogno, così riaprii di scatto gli occhi. Due cerchietti di un azzurro intenso mi fissavano. Cercai di muovermi, per allontanarmi da quella che sapevo essere la Paura. Ma, ovviamente, non potevo più muovermi. L’oscurità mi tratteneva, come se qualcuno mi avesse afferrato polsi e caviglie. Cercai di urlare, ma scoprii di non esserne più in grado. Così mi costrinsi a fissare gli occhi della Paura.
Sei tornata, pensai. Sapevo che mi avrebbe sentita.
«Non me ne sono mai andata» rispose con il suo solito tono divertito, che riusciva ad irritarmi e spaventarmi allo stesso tempo.
Quindi puoi diventare invisibile? Domanda stupida. La Paura era allo stesso tempo anche l’Oscurità.
«Volendo… Certo. Ma con te non sarebbe divertente» ridacchiò «A dire il vero, sono sempre stata con te. E tu mi hai sempre vista, solo che hai deciso di ignorarmi».
Cosa vuol dire? Io non ti ho vista per molto tempo… Pensavo te ne fossi andata.
«Mmh» la Paura fece un verso quasi irritato, e si avvicinò ancora di più. «Questo non va bene, stai mentendo a te stessa. E io non voglio che tu lo faccia. Voglio che tu sia sincera, perché se no le cose si complicano».
La odiavo, quando parlava così. A dire il vero la odiavo sempre, ma in quei momenti la odiavo molto di più. Ovviamente, non capii una singola parola di quello che disse. Non stavo mentendo a me stessa, tutto ciò non aveva senso.
«Oh, lo so che ora penserai che sono una povera pazza che dice cose senza senso solo per spaventarti» il suo tono sembrava quasi comprensivo «È sempre così, eppure tu dovresti ricordarlo?».
Ricordare? Una marea di domande inondò la mia mente. Era sempre così: con una singola frase era capace di creare un’infinità di dubbi.
Vuoi dire che sono già stata qui?
Questa volta la Paura rise davvero. La sua risata gelida e priva di allegria non faceva altro che aumentare la tensione che mi tormentava.
«Così è troppo facile, non credi? Quello che voglio è che tu arrivi a scoprire tutto da sola. E per fare questo, è necessario che tu sia sincera con te stessa».
Ancora quella storia, ancora dubbi. Mi imposi di non pensare niente, così forse l’avrebbe finita di parlare. Ma smettere di pensare mi riuscì totalmente impossibile.
«Non mi puoi combattere» scandì bene ogni sillaba. «Puoi solo fare ciò che ti dico. È la cosa migliore, credimi. Hai pensato a quella proposta, sì?».
La proposta. Come poteva essermi uscita di mente. La sua crudele, egoistica e terribile richiesta. Non ci avevo minimamente pensato, e questo lei doveva saperlo. A dire il vero, ero convinta di essermi arresa, di aver urlato che accettavo il suo orribile patto. Ma forse doveva essere stata solo un’allucinazione, anche se ora mi sembrava molto più reale. Molto più reale delle ultime cose che ricordavo… E all’improvviso tornò tutto: le numerose allucinazioni, il continuo passaggio da realtà, oscurità, illusione… Per ben due volte avevo vissuto la scena della famigliola felice, che volesse dire qualcosa? Con la Paura non potevo pensare che avesse lasciato anche un piccolo particolare al caso, eppure… Ormai non riuscivo a capire più cosa fosse vero e cosa fosse falso, e una speranza prese vita dentro me: forse anche questa era finzione…
«No, questo è reale, te lo posso assicurare» rispose prontamente la Paura. Ma che valore aveva la sua parola?
«La mia parola» rispose in tono infuriato «vale questo». Schioccò le dita, e nel giro di un secondo fui in almeno dieci situazioni diverse, alcune di queste terribili, episodi che quasi avevo rimosso dalla mia testa.
«Come hai fatto?» chiesi, quando finalmente riuscii a parlare.
«Io-posso-fare-tutto» rispose in tono annoiato «Mi sembrava di aver già chiarito quel punto».
Non sapevo cosa dire, né cosa pensare. Così restai in silenzio, pensando solo a quanto fosse buio il buio in cui eravamo.
«Abbiamo perso abbastanza tempo. Ora è arrivato il momento delle cose serie. Il patto: sì o no?» disse la Paura.
Il momento era arrivato. Sarei stata davvero in grado di torturare qualcuno proprio come aveva fatto lei? Avrei retto tutto quello? O forse avrei retto una vita, o un’eternità di sofferenze? Sapevo di essere egoista, ma sapevo anche che non sarei mai stata forte abbastanza per sopportare tutto quello.
«Sì». La mia voce era roca.
La Paura esplose in una risata agghiacciante, senza controllo. Un forte vento iniziò a soffiare da tutte le parti, mentre la sua risata riecheggiava, e l’oscurità iniziò a tramutarsi in luce…
«Questo» disse in tono deciso, una volta ripreso il controllo di sé «è il momento in cui capirai chi sei veramente».




Non aggiornavo da troppo tempo, scusatemi. Spero che vi sia piaciuto questo capitolo, e ringrazio chi segue la storia e ha recensito gli scorsi capitoli. Mi auguro di riuscire ad aggiornare prima di, uhm, quattro mesi. 
A presto.


 

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Capitolo 9
*** Inizia il divertimento ***


Capitolo 9
Inizia il divertimento


Mi ritrovai sola, nell’oscurità.  Per un istante avevo dimenticato tutto ciò che era successo, ma mi tornò ben presto in mente. Ancora un po’ stordita, come sempre dopo che la Paura si mostrava, girai lentamente su me stessa. Ed eccola là: la fonte di luce. Stavolta potevo osservare la camera di una ragazza, la stessa ragazza che avevo visto la volta precedente.
Mi avvicinai lentamente, fino a toccare la superficie del portale. Aspettavo una superficie solida, che mi bloccasse, invece scoprii che niente mi separava dalla camera. Entrai prima con le mani, poi con la testa e infine con tutto il corpo. Senza nemmeno rendermene conto, ero dentro la stanza.
La ragazza stava a pochi metri da me, ma non mi vedeva. Si era girata più o meno nello stesso momento in cui ero entrata, ma ora fissava un punto vicino ai miei piedi; era ovvio: non poteva vedermi.
Mi chiesi se la Paura aveva fatto lo stesso con me. Eppure la ragazza era normale: nessuna occhiaia, niente sangue, niente di niente. Si guardò allo specchio –ovvero il mio misterioso portale- e nemmeno lei sembrò notare qualcosa di strano.
La guardai negli occhi e fui invasa dai suoi pensieri e dai suoi segreti. Una valanga di informazioni mi travolse e quasi crollai a terra. Era incredibile l’effetto che poteva fare condividere due menti allo stesso tempo.
Decisi di riprovare: se volevo avere qualche speranza di riuscire a torturarla, mi dissi, conoscere la mia vittima sarebbe stato un buon punto di partenza.
La guardai nuovamente negli occhi, stavolta cercando di limitare il flusso di pensieri. Non so nemmeno come, ma ci riuscii. Iniziai ad elaborare le informazioni più semplici: nome, età, colore preferito… Scoprii che si chiamava Alessandra, che aveva diciassette anni, che amava il giallo e che aveva una cotta incredibile per un suo amico, ma che era troppo timida per rivelarglielo. Il pensiero all’inizio mi fece sorridere, ma poi mi ricordai del perché le stavo rubando quelle informazioni e mi raggelai. L’idea di quella ragazzina innamorata mi parve improvvisamente ridicolo. Iniziai a ridere fra me e me, pensando a quanto sarebbe stato facile e divertente torturare una ragazza così debole. E poi, ancora, provai disgusto per me stessa per aver formulato simili pensieri.
Che la Paura stesse corrompendo la mia sanità mentale? Forse l’aveva già fatto da tempo e non me ne ero resa conto; forse stavo diventando un essere crudele come lei. No, scossi la testa. Non sarei mai diventata come la Paura. O forse lo ero già, mentre credevo di essere normale?
Continuai ad osservare Alessandra, mentre le rubavo lentamente altri pensieri e ricordi, mentre memorizzavo i volti delle persone che conosceva.
Ad un tratto qualcuno bussò alla porta, e il padre della ragazza entrò in camera.
«Ale, tutto bene?» chiese.
La ragazza annuì, e in seguito il padre andò a sedersi accanto a lei, sul letto. Le mise un braccio intorno alla spalla.
«Sei sicura? Lo sai che con me puoi parlare» disse ancora.
«Certo, papà, lo so. Va tutto bene, non ti preoccupare» rispose lei.
Mentre osservavo la scena, divenni curiosa… Mi domandavo… Mi domandavo se fossi in grado di leggere anche i pensieri del padre. Così, ripetei lo stesso procedimento anche su di lui, e con mia grande sorpresa mi ritrovai dentro la sua mente. Non solo potevo leggere i suoi pensieri, potevo decidere cosa pensare e cosa fare. In sostanza, potevo controllarlo.
Immaginai che la mia opera di tortura stesse iniziando. Pensai alle cose più crudeli che un padre possa dire ad una figlia, ma decisi di non farmi prendere dal delirio di onnipotenza e di andare più sul leggero.
«E così ti piace un ragazzo che non ti calcolerà mai?» dissi, sogghignando.
La ragazza arrossì violentemente e mi guardò, o meglio, guardò suo padre incredula.
«Papa! Ma che dici? Non…»
«Andiamo! So riconoscere i sintomi dell’amore, e sei sempre stata un po’… particolare… Non mi stupirebbe se il ragazzo che ti piace non ricambiasse» dissi.
Mi resi conto troppo tardi di stare esagerando. La ragazza mi guardò con gli occhi pieni di lacrime, e decisi di lasciar perdere. Abbandonai la mente del padre, che si riprese con un brivido.
«Tesoro mio, perché stai piangendo? Cos’è successo?» chiese il padre.
«Cos’è successo? Hai il coraggio di chiedermelo? Mio padre mi ha appena detto che sono troppo sfigata per avere un ragazzo e mi chiedi perché sto piangendo?» urlò la ragazza, la voce spezzata dal pianto.
«Cosa? No, no! Non ho mai detto niente del genere…» disse il padre, confuso. «Dicevo che sei… Sì, che sei una ragazza speciale e che probabilmente non ti merita» aggiunse poi, in seguito allo sguardo accusatorio della figlia.
Diedi un’occhiata ai suoi pensieri e seppi che era semplicemente terrorizzato; era più che sicuro di non aver detto niente del genere e si stava chiedendo se sua figlia fosse impazzita.
Tutto sommato fui soddisfatta del mio lavoro. Seminare incertezza era realizzante. D’ora in avanti, però, avrei dovuto fare attenzione.

Scoprii di non avere più bisogno di mangiare o di dormire, così passai tutta la giornata ad osservare i movimenti di Alessandra, a leggere ogni suo pensiero e pian piano venni a conoscenza di tutti i suoi piccoli e grandi segreti. Lessi il pensiero a tutte le persone che incontrò, in modo da farmi un’idea sulla gente che frequentava e su cosa pensavano di Alessandra. Con molto piacere, notai che erano ben poche le persone a cui piaceva veramente. Sarebbe stata una preda facile, come previsto.
Dopo qualche ora di assolutamente niente, di notte, decisi che era arrivato il momento di divertirmi. Pescai dalla sua mente una delle sue paure più grandi, e decisi che fargliela vivere sotto forma di sogno non sarebbe stata una cattiva idea.
Quella stupida ragazza aveva il terrore dei serpenti e soffriva di claustrofobia… Così la rinchiusi in una camera minuscola, e ci aggiunsi diversi serpenti, che le strisciavano addosso. Nel sogno gridava, piangeva, non riusciva a respirare; nella realtà si agitava e sudava. Ci misi tutto l’impegno per farle sembrare il sogno più reale possibile, ma ancora dovevo padroneggiare quella capacità. La Paura non mi aveva insegnato nessuna tecnica.
Quando la ragazza si svegliò, urlando, provai piacere. Ero riuscita a metterle paura. Si sedette e iniziò a bere lunghe sorsate d’acqua, e mentre la osservavo, tutta la gioia svanì. Ma cosa stavo facendo? Che aveva fatto di male perché le facessi questo?
Iniziai a prendere in considerazione l’idea di urlare alla Paura che non avevo intenzione di continuare, che poteva pure torturarmi quanto voleva, non importava… Ma poi mi resi conto che mi stavo comportando da persona debole. Mi ero davvero intenerita davanti a una povera ragazzina spaventata per un brutto sogno? Non doveva succedere di nuovo. 



Ciao a tutti! Mi scuso -come sempre, ormai- del ritardo... Ma che ci volete fare, non ho proprio tempo. 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e ringrazio chi ha letto e recensito gli scorsi capitoli. 
A presto! 

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