Los - Le cose non sono semplici come sembrano

di 13Sonne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno: Al Aki, il ritardo e la loquacità ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due: Ko Rah, la pazienza e la dannazione ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre: Ko Rah e il mondo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro: Le fantastiche sorprese ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Lari Ko Rah

???

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Cercando nella mia storia potreste trovare milioni di ragionevoli motivi per cui ho fatto ciò che ho fatto.
Dimenticateli.

 

Dopo pochi secondi riapre gli occhi, lentamente, come se avesse dimenticato il perché di un simile gesto.
Grosse gocce di pioggia atterrano sul suo volto, formando quelle lacrime che non accennano a nascere nei suoi occhi. Gli incisivi sono appoggiati al metallo della pistola e può già sentire il sapore della polvere da sparo lungo la gola.
Deglutisce a fatica, sente le mani tremare: sa di avere paura, ma sa anche che quel sentimento non è altro che il suo istinto di sopravvivenza. Non è una vera emozione, quella.
Chiude di nuovo le palpebre, questa volta per sempre.

 

Non mi ha spinto nessuno. Nessuna memoria è colpevole di quel gesto, nulla mi ha portato a fare una cosa del genere.
Ho scelto. Tutto qua.

 

Il rumore dello sparo confonde i suoi ultimi istanti di vita: in poco meno di un secondo mille frammenti di pensieri gli passano per la mente, tutti assieme. In nessuno di questi può trovare la minima traccia di senso di colpa.

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Prologo

Ovvero

La prima, impietosa impressione di
madamoiselle Ko Rah ed herr Al Aki

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Aprì gli occhi, trovandosi a fissare la parete della sua stanza che ancora era in ombra. Alle sue spalle il sole filtrava dalle tende, riscaldandole la schiena: il pigiama di flanella intrappolava quel calore e lo rendeva persino insopportabile.
Si distese sulla schiena, mugugnando qualcosa di intelligibile, finendo così per fissare la lunga fila di orsacchiotti seduti sulla mensola appena sopra il suo letto.
Quella mattina non aveva voglia di alzarsi o di togliersi dalla luce del sole, anche se cominciava ad odiare il caldo con tutta se stessa: per una volta le sarebbe piaciuto poter rimanere nella sua stanza a non fare nulla per tutto il giorno.
“Coco, sto per entrare. Sei presentabile?”
Sentita la voce appena fuori dalla sua camera lei alzò la schiena di scatto, sfigurandosi il volto in una smorfia di fastidio: se per il nomignolo affettuoso o per la voce in se, quello non era comprensibile.
Aprì la bocca per rispondere al fratello ma le parole le morirono in gola quando questo aprì la porta, tenendo in equilibrio con una mano un vassoio che doveva contenere la sua colazione: un pane, piccolo e tondo, e una tazza fumante che, probabilmente, conteneva del latte.
Il ragazzo le sorrise allegramente, senza curarsi dello sguardo infastidito di lei.
“Ben svegliata, Coco! Pensavo che oggi volessi dormire fino a mezzogiorno!” cinguettò il ragazzo appoggiando il vassoio sul comodino accanto al letto di lei.
L’occhio sinistro della ragazza ebbe un tic improvviso, segno evidente di quanto trovasse seccante essere li in quel preciso istante. Le sole parole bastavano ad irritarla: tanto per dire, di solito lei era quella che si svegliava presto e lui quello che poteva arrivare a dormire fino al pomeriggio.
Tuttavia era un particolare irrilevante se confrontato con la reazione che il tono di voce del ragazzo le procurava: tale infondata allegria forse non era fuori luogo, ma di sicuro riusciva ad urtarle i nervi come poco altro.
“Ho già preparato i bagagli ieri sera, sai, ho preferito rimanere leggero quindi ho preso solo un po’ di vestiti e, uh, del cibo e, bhè, altre, uh, cose da viaggio, sai, uh… cose… tipo,” il ragazzo cominciò a balbettare agitando la mano sinistra, senza avere la minima idea di come finire la frase, “uh… cose… da viaggio. Importanti. Da viaggio.”
Il sospiro che la ragazza si lasciò sfuggire ricordò leggermente un ringhio.Immagino di si.”
Poi prese il pane e ne strappò un morso con i denti, cominciando a masticare lentamente.
“Eeesattamente!” esclamò il ragazzo, soddisfatto. La sorella lo scrutò di sottecchi, continuando a masticare: per quanto il fratello usasse abitualmente fare cose del genere, lei ancora trovava strano il modo in cui, quando era soddisfatto di qualcosa, pronunciava le parole. In una sola parola (come quel ‘esattamente’ di poco prima) passava da un tono normale ad uno più basso di voce per poi di nuovo normale, in uno strano vocalizzo: il risultato, se non proprio inquietante, lasciava sempre chiunque piuttosto spiazzato.
“La carrozza dovrebbe passare fra un’ora e qualcosa, quindi, sai, abbiamo il tempo per visitare Maali e Venner. Devo ringraziarli per averci aiutato negli ultimi anni e… bhè, tu devi ringraziare Livet per averti dato quel… coso. E, uh, che altro?”
La ragazza ingoiò il boccone, trattenendosi dal far notare al fratello che avrebbe dovuto avere un po’ più di rispetto per il ‘coso’, visto che era stato il principale motivo per cui non si era già suicidata per la noia.
“…Nient’altro. Rimango affascinato dalla perfezione della mia pianificazione della mattina!"
Lei grugnì, trattenendosi per la seconda volta dal rendere noto al fratello quanto lo trovasse irritante, e cominciò a sorseggiare il latte caldo.
Non le piaceva particolarmente, il latte. Aveva un gusto strano- ma d’altronde era il miglior modo di cominciare la giornata, visto che dava abbastanza energia e riempiva lo stomaco fino al pranzo.
Il ragazzo prese a giocherellare con una ciocca dei propri capelli, avvolgendola e lisciandola con le dita. “Già già. Per pranzo probabilmente saremo ancora in viaggio, ma ho fatto dei panini. Rimarrai sorpresa dalla bontà di quei panini.” Si voltò verso di lei, sfoggiando un sorriso maniacale che andava da un orecchio all’altro. “La tua lingua fuggirà per potersi unire in matrimonio con uno di quei panini!”
La ragazza trangugiò l’ultimo sorso di latte, appoggiando poi la tazza sul vassoio. “Esci dalla mia camera.”
“Eh?”
chiese il ragazzo, voltandosi verso di lei con uno sguardo interrogativo.
“Esci dalla mia camera.”
Ci mise pochi secondi per capire che il fratello non avrebbe accennato a muoversi, ma compreso ciò le saltarono istantaneamente i nervi.
“Esci. Dalla. Mia. Camera!”
Il ragazzo emise un grido portando istintivamente le braccia al petto prima di scattare in piedi e fuggire dalla stanza.
Appena il fratello chiuse (o per meglio dire, sbatté) la porta, la ragazza ricominciò a mangiare il pane, nuovamente rilassata. Odiava che un’altra persona all’infuori di lei stesse nella sua camera per più di due secondi: era una cosa che aveva ripetuto (spesso anche strillato) al fratello più volte, ma questo sembrava sempre non ricordarselo.
Digrignò i denti, arrivando alla conclusione che, molto probabilmente, lo faceva solo per infastidirla.
La porta della camera si aprì di nuovo, formando un piccolo spiraglio da cui il fratello guardava dentro. Lei lo fissò, momentaneamente troppo sorpresa per avere una qualche reazione.
“Il, ehm, vassoio, lo, uh, lo porti in cucina?” chiese lui, balbettando a metà fra l’imbarazzato e il terrorizzato.
La ragazza sospirò, facendo poi un impercettibile movimento con la testa che il fratello decise di prendere per un ‘sì’.
“Sparisci.”

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Note d'Autore: Uh, non so cosa dire. Questa storia mi intriga parecchio. Stavo pensando a dei personaggi per un Gdr e mi è venuto fuori... questo. Ah, mia dolce dolce ispirazione!
Oh, il titolo. Dovete sapere che Los è tedesco. Los, da solo, vuol dire "via"... in inglese viene meglio: "go". Los alla fine di una parola vuole invece dire "senza".
Il senso di tale parola nel titolo? Capirete a tempo debito!

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno: Al Aki, il ritardo e la loquacità ***


Capitolo uno Al Aki
Capitolo Uno

Ovvero

Herr Al Aki, il suo disturbo ossessivo-compulsivo
e la sua brillante ed inarrestabile parlantina


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Venner sospirò impercettibilmente, appoggiato ad un muretto ad un lato della strada. D’innanzi a lui era parcheggiata la carrozza in cui Ko Rah era salita senza perdere tempo: la sua voglia di comunicare col mondo era, come al solito, piuttosto bassa, tanto che aveva già acceso il Wired e aveva cominciato a giocarci furiosamente.

Ogni tanto, però, la ragazzina scambiava qualche parola con sua moglie Maali e la figlia Livet: Venner era abbastanza lontano da non riuscire a sentire una sola parola di ciò che stavano dicendo, ma teorizzò che si trattasse solo di alcuni discorsi d’addio e non volle immischiarsi.
Preferì invece continuare ad osservare Al Aki mentre litigava col cocchiere, la cui unica colpa era stata quella di arrivare leggermente in ritardo rispetto all’orario prefissato. Il ragazzo era un continuo agitare di mani, emettere acuti senza senso, pestare i piedi a terra perché il cocchiere non lo degnava di uno sguardo, troppo occupato a caricare i bagagli.
A Venner sfuggì una risata, unica prova di quanto lo spettacolo lo stesse divertendo: come tutti i Sakiro, infatti, indossava una maschera che non lasciava intuire nemmeno il colore degli occhi.

I Sakiro erano un popolo strano. Estremamente avanzati per quanto riguardava la tecnologia (il Wired che Ko Rah trovava così tanto appassionante era in principio della figlia, Livet), avevano però un preciso tabù nel mostrare anche un solo lembo della propria pelle: di solito, quindi, si vedevano sempre con maglie a maniche lunghe, pantaloni, guanti- e, per l’appunto, delle maschere in quella che sembrava porcellana.
Venner non era un eccezione: indossava degli abiti bianchi, candidi, riprendendo l’argento della sua maschera e il bianco dei capelli che, lunghi, gli ricadevano sulla schiena, alcune ciocche legate da dei nastrini azzurri, altre lasciate semplicemente libere.
L’unica che non si faceva simili problemi era Livet: continuava ad indossare la sua maschera, ma spesso trovava che fosse troppo caldo per indossare qualcosa con maniche lunghe e preferiva delle gonne o dei pantaloncini lunghi fino al ginocchio.
I genitori la lasciavano fare, all’inizio leggermente perplessi ma poi accettando quel cambiamento: in fondo, in quel villaggio disabitato, abitavano solo loro e i due fratelli.

Al Aki si avvicinò a lui, con un sorriso: Venner non poté fare a meno di notare come fosse ancora rosso in volto per la sfuriata.
“Ehi, Venner,” biascicò Aki, la voce leggermente rauca, “visto che roba? Per colpa di questo ritardo mi è slittata tutta la giornata!”
Aki sbuffò, attorcigliando una ciocca di capelli attorno all’indice, ancora leggermente irritato.
Il sospiro che Venner si lasciò sfuggire rimbombò nella maschera. “Sei come tuo padre,” disse poi in un bisbiglio.
Il ragazzo lo guardò, gli occhi spalancati per la sorpresa, mentre Venner continuava con una punta di divertimento nella voce, “ti preoccupi delle cose più stupide.”
Aki tentò in tutti i modi di apparire offeso, ma finì col sfoggiare un sorriso a trentadue denti.
Venner scrollò le spalle, voltandosi dalla parte opposta di Aki. Non capiva il perché di quell’allegria da parte del ragazzo: sicuro, probabilmente aveva voluto bene al padre, ma non aveva mai creduto che sarebbe arrivato al punto di accettare una critica con un sorriso.
“Oh bhè. Il fatto è che l’ultimo giorno per registrarsi è domani, e preferirei poter sbrigare le pratiche questa sera.” Aki sbuffò, facendo un veloce calcolo mentale di quanto tempo quel ritardo potesse avergli sottratto. “Che seccatura. E il viaggio? Vogliamo parlare di quanto mortalmente noioso sarà il viaggio? Non posso neanche dormire, o mangiare fino alla morte- ti ho gia detto quanto buoni sono i panini che ho fatto?” Ridacchiò, orgoglioso di se stesso, prima di rabbuiarsi nuovamente. “Immagino di non poter sperare nella compagnia di Ko. Ngh, morirò!”
“Non sei obbligato, lo sai.”
Biascicò Venner, continuando a guardare da un’altra parte.
Per pochi secondi cadde il silenzio fra i due. Venner non sembrava volersi voltare verso Aki, mentre quest’ultimo fissava il vuoto con sguardo spento, come se quelle parole gli avessero succhiato qualsiasi linfa vitale.
“Non sei obbligato,” ripeté Venner.
Il ragazzo sorrise mestamente, senza rispondere.
“Al!”
Aki fece appena in tempo a rendersi conto che qualcuno l’aveva chiamato prima di venire attaccato da una ragazza ridacchiante.
Venner si voltò, fissando per pochi istanti la figlia abbracciare Aki mentre quest’ultimo emetteva dei gridolini spaventati.
“Livet,” disse poi con calma, attirando l’attenzione dei due diciannovenni, “lascia in pace Aki. È già nervoso per il viaggio e per il terribile ritardo” Venner sottolineò le due parole, esaltandole in modo quasi ridicolo, prima di continuare, “non vorrai forse fargli venire un colpo?”
Aki si gonfiò il petto, tentando di darsi un’aria minacciosa.
Inutilmente. “Ritardo?” esclamò Livet, lasciando Aki e facendo una smorfia incredula, “un ritardo nella scaletta di Al? Al! L’ossessivo-compulsivo Al!”
“Non sono ossessivo-compulsivo!”
gridò Aki prima di incrociare le braccia sul petto e fare un broncio degno di un bambino di sei anni.
Livet gli lisciò i capelli, apparentemente intenerita da quella dimostrazione di immaturità. “Certo che non lo sei.”
Maali arrivò appena in tempo per distrarre Aki dal gridare una seconda volta.
“Al, la carrozza è pronta,” disse lei, chinandosi verso il ragazzo. Aki non poté non addolcirsi: anche se non poteva vederle il viso, Maali riusciva a far avvertire il proprio sorriso attraverso la porcellana.
“Grazie, Maali.”
Aki le sorrise, prima di voltarsi verso Livet, assumendo un’espressione leggermente imbarazzata.
Uhm… Grazie per, uh, il, ehm, sai… uh…” rimase in silenzio per qualche secondo, agitando la mano sinistra in aria e aprendo e chiudendo la bocca, alla disperata ricerca del termine tecnico, “…coso. Che hai regalato a Coco.”
Lei rimase in silenzio per qualche secondo, cercando di capire di cosa stesse parlando, prima di emettere un ‘Oooh!’ di comprensione.
“Il Wired!” Aki scrollò le spalle, annuendo a ciò che aveva detto Livet. Lei non poté fare a meno di continuare a stuzzicarlo. “Voi siete così arretrati! Noi,” e la ragazza batté un pugno sul proprio petto, cercando di dare, con quel gesto pregno di orgoglio, a quel ‘noi’ un significato che si estendeva a tutta la razza dei Sakiro, “li abbiamo inventati secoli fa, quei giocattoli! Mentre voi continuate ad usare le lettere, noi…”
“Livet, per favore.”
Disse Venner, interrompendola prima che potesse continuare con la propria arringa. Sapeva benissimo che avrebbe potuto parlare per molto tempo, ed Aki sembrava già fin troppo nervoso.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, prima di voltarsi verso Maali tornando a sorridere. “Grazie anche a te Maali. E, bhè,” balbettò, imbarazzato, voltandosi verso Venner, “a te, ovviamente. Non c'è l'avremmo fatta senza di voi.”
Maali fece segno con la mano di lasciare perdere, poi si chinò e gli diede un veloce abbraccio.
“Ricordatevi di scrivere, d’accordo?” sussurrò lei lasciandolo andare.
Aki annuì.
“Ti vuoi muovere?!”
Il ragazzo sobbalzò sul posto nel sentire le grida della sorella, spaventato, e prima che potesse davvero rendersi conto di ciò che stava facendo aveva chiuso dietro di se la porta della carrozza.

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-

-.:.-*-.:.-

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-*- 

Al Aki non si era sbagliato quando, sette ore prima, in presenza di Venner, aveva detto che il viaggio sarebbe stato mortalmente noioso. Non dormì, non mangiò – no, neanche quando venne l’ora di pranzo, preferendo così lasciare che i suoi favolosi panini venissero divorati da Ko Rah con una voracità che, solitamente, era il silenzioso modo della ragazza per dire ‘è una delle cose più buone che ho mangiato nella mia vita’ – e, come aveva predetto, non riuscì ad instaurare un dialogo duraturo con la sorella.
In compenso si lamentò.
Si lamentò di quanto presto aveva dovuto svegliarsi per una carrozza che alla fine era persino arrivata in ritardo, dell’orario in cui erano partiti, della lentezza del viaggio, del caldo asfissiante, della brezza che non faceva altro che fargli finire i capelli sul viso, della nausea che le buche e i sassi della strada gli facevano venire, di quanto gli sarebbe piaciuto poter sgranchire le gambe, della sua disgraziata scelta di partire il penultimo giorno utile per registrarsi.
L’odio che provava Ko Rah verso il fratello era ormai diventato palpabile - era diventato difficile persino respirare - quando il ragazzo si decise, finalmente, a guardare il paesaggio che sfrecciava dalla finestra della porta e a stare in silenzio.
La ragazza non ci poteva credere. Per cinque secondi rimase incantata, rapita dal silenzio del luogo: poi si buttò a capofitto nel Wired, pronta a battere per l’ennesima volta il suo record personale.
Stava allegramente uccidendo l’ultimo boss del gioco quando suo fratello decise di farle una domanda. “Cosa ricordi della mamma?”
La domanda la prese di sorpresa, facendole rischiare di essere colpita dal mostro.
“Nulla,” mugugnò lei, tornando a pestare tasti con una rapidità che aveva dell’eccezionale.
“Oh, andiamo,” continuò Aki con voce lamentosa, “devi pur ricordare qualcosina!”
L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un tic improvviso. “Avevo tre anni quando è morta. Non la ricordo.”
Qualcosa, nel sorriso di Al Aki, sembrò incrinarsi: fu qualcosa che durò solo pochi secondi, comunque, e nulla che la sorella notò.
“Andiamo, qualcosa ricorderai di sicuro, no?”
Le mani di Ko Rah presero a tremare leggermente, segno dell’estremo nervosismo che le provocava, in quel momento, avere una discussione che implicasse qualcosa di più di un monosillabo. “Non la ricordo.”
“Eddai!”
uggiolò Aki, facendole perdere qualsiasi concentrazione in meno di un secondo.
Mise il gioco in pausa, sospirando. Era ovvio che quel giorno l’unica cosa che potesse fare era giocare nelle brevi pause fra un discorso e l’altro del fratello.
“Bene. Ricordo qualcosa,” ringhiò Ko Rah, esasperata. Se quello era l’unico modo per far smettere il fratello, allora non poteva fare altro.
Aki sembrava rinvigorito dalla notizia. “Davvero?” chiese, allegramente, prima di aggiungere “che cosa ricordi?”
Ko Rah sbuffò. “Le piaceva la calma. Adorava i biscotti. Sorrideva un sacco.” Socchiuse gli occhi, concentrandosi, “e profumava di… arance.”
Il ragazzo aggrottò la fronte, perplesso. “Arance?”
“Se non ti va bene smetto di parlare,”
ringhiò la ragazza. Aki non si azzardò a continuare.
“Hm. Le piaceva stare al sole e… si divertiva a passare il suo tempo con Maali. E, uh, le piacevano i bambini.”
Aki stava sorridendo, e la cosa distraeva Ko Rah, tanto che non riuscì più a continuare. Si voltò verso di lui, squadrandolo con un occhiata interrogativa.
“Lo so benissimo che non ti ricordi niente di lei,” disse Aki, continuando a sorridere.
Per la seconda volta in dieci minuti, l’occhio sinistro della ragazza ebbe un inquietante tic nervoso.
“Volevo soltanto sapere come la immaginavi.” Ridacchiò, divertito da se stesso, “non mi aspettavo che la descrivessi così allegra.”
Ko Rah scrollò le spalle, tornando al suo amato videogioco. “Solo perché io non lo sono non vuol dire che non possa immaginare gli altri esserlo.”
In meno di un secondo l'espressione cambiò, come se avesse accusato un colpo tremendo. Ko Rah non lo stava guardando, eppure riusciva a sentire sulla sua pelle lo sguardo triste del fratello, come riusciva a vedere, con la coda dell’occhio, quella smorfia sofferente sul suo volto. 
Lei non sapeva cosa aveva detto di sbagliato: non lo sapeva e non le importava. Probabilmente erano problemi suoi.
Tutto ciò che importava era che la cosa la stava distraendo.
“Togliti quell’aria da cane bastonato dalla faccia, Aki. Mi stai dando fastidio.”

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*_/*_*

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Passarono altre otto ore prima che la carrozza arrivasse a destinazione. Il fastidio che Ko Rah provava verso le continue lamentele del fratello erano arrivate al punto di dare dolore fisico: quando scese dalla carrozza non v’era un solo muscolo che non le dolesse. 

La cittadina che, dopo tante sofferenze, avevano finalmente raggiunto si chiamava Nant.
Durante l’anno non era molto di più di un semplice crocevia: la popolazione del luogo non doveva superare le duecento anime. Sopravviveva grazie al commercio e agli avventurieri che si fermavano nelle numerose locande che troneggiavano sulla via centrale.
Il vero momento di splendore, ciò che gli abitanti di Nant aspettavano come una manna dal cielo, era l’inizio del torneo: la cittadina era scelta come luogo neutrale in cui i concorrenti potevano iscriversi e in cui, il giorno dell’apertura della gara, sarebbero partiti per portare a termine la prima prova. Le iscrizioni duravano un mese, e per quel mese tutte le locande erano occupate.

Al Aki era semplicemente entusiasta: con le due borse in spalla e la sorella che lo seguiva senza alzare gli occhi dal Wired, si guardava attorno ricordando un bambino in un negozio di dolciumi.
Non era tanto la cittadina a stupirlo, quanto tutta la gente che, sebbene la tarda ora, continuava a brulicare per strada: quel miscuglio di colori diversi, quel caos di voci era qualcosa di completamente diverso dalla quiete del villaggio deserto in cui era nato e cresciuto.
Sospirò, guardandosi attorno con sguardo trasognato, prima che il suo sguardo fosse catturato dalla costruzione posta in centro alla piazza.
“Coco, entra pure in camera se vuoi,” trillò Aki gentilmente, facendo cadere le due borse a terra, “io ti raggiungo dopo!"
Ko Rah, ancora leggermente confusa dal modo con cui il fratello si era liberato dei bagagli, non diede alcun segno di voler sapere cosa dovesse fare.
Alzò gli occhi dal Wired, seguendo per pochi secondi i movimenti di Aki: con passi leggeri, quasi i sassi che componevano la strada fossero in realtà tappetini elastici, si stava dirigendo verso la chiesetta del luogo.
Borbottando fra se e se, Ko Rah tornò al suo amato Wired, calciando con calma i due bagagli all’interno della locanda più vicina.

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Nota d'Autore: Spero che vi piaccia questo capitolo. Sul serio. Al Aki e Ko Rah devono ancora iscriversi ma... yay!

X meg89: Spero che ti convinca ^O^
X inuziku_rukiaXP: Grazie! Mi scaldi il cuore, mio tessssorro *_* (inquietante? Si. Molto.)

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Capitolo 3
*** Capitolo Due: Ko Rah, la pazienza e la dannazione ***


Capitolo 3 los
Capitolo Due

ovvero

Madamoiselle Ko Rah, la sua pazienza e la bellezza nascosta nella parola dannazione

Ko Rah non accennava a parlare. La coda di fronte al bancone della locanda si stava accorciando lentamente- troppo lentamente, per una ragazza che non sopportava essere in una stanza con più di due persone.
Mugugnò qualcosa fra sè e sè, continuando ad ignorare l’uomo che, dietro di lei, continuava a parlare: nella mente della diciassettenne quelle continue chiacchiere divenivano distorti rumori di sottofondo che, per quanto non comprendesse, limavano sempre di più la sua calma.
Emise un sospiro che ricordò un ringhio quando si rese conto che mancavano solo tre persone perché arrivasse finalmente il suo turno. Doveva ringraziare il fratello se, dopo due ore, ancora non aveva trovato posto in una taverna: il ragazzo infatti si era completamente dimenticato di rivelarle dove aveva avuto intenzione di dormire- o anche solo se aveva riservato una camera. Così la ragazza aveva dovuto entrare in ogni locanda della contrada, chiedendo se fosse stata riservata una camera sotto nome ‘Lari’ o, al massimo, se ci fosse un letto libero.
Quella era l’ultima taverna rimasta, ed ovviamente aveva la fila più lunga: a quanto pareva era l’unica ad avere ancora delle camere libere.
“E tu?” chiese infine l’uomo dietro di lei, riportandola alla realtà.
Ko Rah mugugnò qualcosa, non cercando minimamente di dare un senso logico alle proprie parole.
L’uomo insistette, cercando di dare l’impressione che, dopo due ore in cui non aveva fatto altro che rivelarle la sua vita, i suoi sogni e quanto fosse ovvio che avrebbe vinto il torneo, gli importasse davvero del perché la ragazza fosse lì.
“Saprai, ovviamente, perché sei qui, no?” Disse infine, dando a quella frase un tono a metà fra il divertito e l’incuriosito. Più il primo che il secondo, a dire il vero.
Ko Rah si voltò appena verso di lui, senza degnarsi di staccare lo sguardo dal bancone che, oramai, era solo a pochi centimetri di distanza. “No.”

L’uomo – doveva chiamarsi Hel… Helker? – rimase a fissarla, stupito dalla risposta, e lei finalmente fece un passo in avanti.
Il padrone della taverna arrossì ancora prima che la giovane potesse parlare: il solo udire la risatina imbarazzata dell’uomo le fece galleggiare la mente in un mare di dolorosa irritazione.
“Piccola,” disse l’uomo, senza accorgersi dell’istantaneo guizzo d’odio che la sola parola aveva causato nella ragazza, “mi dispiace, ma ora siamo pieni.”
La ragazza ringhiò sottovoce, cercando di mantenere la calma: il suo cervello stava dicendole di voltarsi, uscire dalla taverna e cominciare a strillare fino a che il fratello non fosse comparso alla sua presenza, per poi distruggerlo con le proprie nude mani.
Si trattenne: alzò lo sguardo per incontrare gli occhi del locandiere e, con voce roca, parlò.
Immagino che non ci sia nulla da fare.”
La frase, mascherata come una cortese constatazione, era in realtà un ovvio campanello d’allarme: il tono con cui era stato pronunciato ‘immagino’ lasciava infatti presumere quanto i nervi della ragazza stessero per cedere.
Il locandiere passò in rassegna qualcosa sotto il bancone, assumendo una smorfia di disappunto.
“Forse,” mormorò l’uomo, incerto, “forse c’è una camera.”
La ragazza rimase immobile, senza proferire verbo.
“La camera è prenotata sotto il nome Stern Mann,” continuò lui, titubante. La ragazza non accennò a muoversi. “Tuttavia doveva arrivare due ore fa. La camera è tua.”
Ko Rah fece un vago cenno con la testa, porgendo la mano destra, solo per venire poi spinta a terra dall’uomo appena dietro di lei.
“Sono io Stern Mann!” gridò lui, strappandogli quasi di mano la chiave. Il locandiere rimase a fissarlo, sorpreso, ma poi si riscosse facendo un debole sorriso.
“Le… auguro una buona notte, allora.”

 

.:,-*-,:.

 

Helter, arrivato in cima alle scale, si stiracchiò, stanco per la giornata.
Sorrise fra se e se, giocherellando con le chiavi, immerso nei propri pensieri: probabilmente già pregustava la nottata di puro riposo che l’aspettava, oppure era proiettato più in là nel tempo, immaginandosi quando, dopo aver vinto il torneo, avrebbe riabbracciato la propria amata.
Alzò lo sguardo, cercando la propria camera: dovette socchiudere gli occhi per tentare di mettere a fuoco i numeri incisi nel legno delle porte, ma trovò quasi subito la 303.
“Quella è la mia stanza.”
Sobbalzò, portando la mano ad un pugnale e puntandolo al collo di chi aveva appena tentato di spaventarlo.
S’irrigidì, sorpreso. “Ragazzina?”
Ko Rah non si mosse. Gli occhi erano puntati contro di lui in uno sguardo colmo di malcelata irritazione, per nulla preoccupata dalla lama che era appoggiata contro il collo.
Helter aggrottò la fronte, perplesso: l’ultima volta che aveva visto la ragazzina era al pian terreno, sdraiata a terra per la spinta che le aveva dato. Com’era possibile che lo avesse raggiunto in così poco tempo, in completo silenzio?
“Il tuo nome,” continuò lei, sottolineando ogni parola con quanto più astio le fosse possibile, “non è Stern Mann.”
L’uomo piegò le labbra in un sorriso di scherno, riportando il pugnale nel fodero. Dire che la ragazza era arrabbiata era poco: sotto quell’apparente freddezza era nascosto un campo di mine- un passo falso e probabilmente sarebbe esplosa.
Scrollò le spalle, cercando di apparire mortificato: gli riuscì solo una smorfia divertita. “Io mi merito quella stanza, piccola.”
Un lampo di pura furia attraversò gli occhi di Ko Rah mentre questa stringeva i pugni così forte che avevano preso a tremare senza controllo.
“Aww,” disse Helter, intenerito, prima di darle una leggera carezza sulla testa, “sei un amore.”
Poi si voltò, bagaglio in spalla e chiave in mano, per entrare nella sua ambita camera.

 

:.*,..,*.:

 

Chiuse la porta dietro di se, guardandosi attorno.
La stanza era accogliente, anche se leggermente spartana. Non vi erano particolari decorazioni, nulla di più di un letto, un tavolo, una sedia e delle candele per illuminare l’ambiente.
Appoggiò la propria borsa a terra, sfregandosi le mani soddisfatto. La camera era riscaldata, probabilmente grazie al calore delle cucine, e per una notte non poteva sicuramente lamentarsi.
Si tolse il mantello, appoggiandolo sul letto, mentre con gli occhi cercava dove fosse il bagno: lo trovò subito, contando che era pochi metri d’innanzi a lui, alla sua destra.
Si avvicinò alla porta, facendo una smorfia al pensiero di quanto dovesse essere sporco: aveva sicuramente bisogno di darsi una rinfrescata, prima di andare a dormire.
Aprì la porta, prendendo un colpo quando vide che qualcuno lo stava guardando: fu solo dopo pochi secondi che finalmente si rese conto che era solo uno specchio.
“Stanco,” mormorò Helter, ridacchiando nervosamente, “solo stanchezza.”
Aveva bisogno di acqua fredda: sì, ormai stava dormendo in piedi. Aveva solo bisogno di svegliarsi un pochino.
Aprì il rubinetto, dando un’ultima, sospettosa occhiata allo specchio: si era davvero spaventato per nulla, ed avrebbe dovuto metterci alcuni minuti per ritornare calmo.
Era ridicolo, certo.
Prima di abbassare il volto per inumidirsi la fronte diede un ultimo sguardo allo specchio, inquieto, trovandosi a fissare due occhi dorati.
Per un secondo gli sembrò che gli mancasse la terra da sotto i piedi. Non riusciva a pensare a nulla: il terrore aveva preso il posto di ogni pensiero coerente.
Si voltò, pronto a gridare, ma si trovò a fissare il vuoto.
Un’allucinazione. Dalle labbra di Helter uscì, a fatica, una risatina isterica: solo un’allucinazione.
“Stanchezza,” borbottò a sottovoce, tentando disperatamente di tranquillizzarsi. Si girò di nuovo verso il lavandino, incerto se sciacquarsi la fronte o cercare il conforto nel sonno: alla fine decise per la seconda, chiudendo il rubinetto.
Alzò lo sguardo, distratto, e si sentì morire dentro.

Non poteva essere un’allucinazione. Non poteva esserselo immaginato. Non poteva esserci stato prima.
Continuava a tremare, Helter, mentre il suo sguardo spaventato saltava da una sillaba all’altra della frase.

La camera è mia.

Gli sembrava persino di sentire la voce della ragazzina, mentre, nella sua mente, le sillabe assumevano quell’ordine.
Per pochi secondi la voce fredda ed arrabbiata della ragazza continuò a rimbombargli nella mente, ripetendo quella frase ad oltranza: poi la luce delle candele tremò per un’istante, e quando il cuore di Helter riprese a battere Ko Rah era apparsa accanto a lui, i pugni stretti e le labbra serrate.
“La camera,” mormorò lei, atona, “è mia.”

Il momento dopo Helter era appoggiato contro la porta, tentando di chiudere la ragazza all’interno.
I suoi sforzi furono vani: la porta venne aperta con così tanta forza che l’uomo si trovò a volare contro il proprio letto. 

“La camera è mia,” ringhiò Ko Rah, il braccio disteso in avanti reso improvvisamente rigido e la mano chiusa a pugno.
Helter gridò, terrorizzato: strane scintille avevano preso a danzare attorno al pugno chiuso della ragazza, e un’inquietante ronzio aveva cominciato ad avvertirsi in sottofondo. 

“La camera,” ringhiò nuovamente la ragazza, socchiudendo gli occhi in uno sguardo omicida mentre un alone violetto si formava attorno a lei, “è mia.”

“Va bene!”
Helter si buttò sulla chiave, lanciandola poi contro la ragazza: anche se questo movimento era stato fatto con disperazione, nel tentativo di farle del male, la chiave semplicemente si materializzò nel palmo sinistro di Ko Rah.
Qualcosa di simile ad un ghigno di soddisfazione si fece strada sul volto di Ko Rah, mentre portava la chiave alla tasca: Helter, dal canto suo, era troppo occupato a non scoppiare a piangere per fare altro oltre a prendere la borsa e guadagnarsi la porta.

“Cosa speri di fare?”
L’uomo si raggelò, senza riuscire ad appoggiare la mano alla maniglia. La ragazza non aveva ancora finito?
Cos’altro voleva da lui?
 

“Pensi davvero,” Ko Rah calcò la parola di una crudele ironia, prima di continuare, “di poter vincere quando non sei nemmeno stato capace di tenerti una chiave?”

Helter si morse il labbro, appoggiandosi al muro. Lei fece un passo in avanti, mortalmente seria nel suo discorso. “Le persone devono capire quando fermarsi.” 

Fece un nuovo passo in avanti, assumendo nuovamente l’aura violacea. “Le persone devono capire quando è ridicolo continuare.”

“I-io,” balbettò Helter, spaventato. Gli stava dicendo che non aveva alcuna speranza, però non riusciva ad essere arrabbiato: la paura stava a poco a poco lasciando spazio alla disperazione più cupa, sotto gli occhi attenti della diciassettenne che continuava a fissarlo, neutra.
“V-voglio solo che m-mia moglie possa t-tornare d-da me.” 

“Non è possibile.” La frase era stata detta con un tono così freddo da recidere qualsiasi speranza rimastagli, senza possibilità di guarigione.
“Ma,” cominciò lei, facendo un nuovo passo in avanti, trovandosi ormai a pochi centimetri da Helter.
Era molto più bassa di lui, eppure, fra i due, quella che dominava l’altro era lei. “Se lei non può raggiungere te, tu puoi raggiungere lei.” 

La disperazione, come un veleno, gli aveva raggiunto il cuore, facendolo marcire senza alcuna pietà: il dolore fu così forte, così terribile che gli occhi gli si riempirono di lacrime.
In quel momento non contava più cosa voleva fare, ma soltanto come farlo smettere.

 

-+:.:*:.:+-

 

Al Aki era felice di non dover portare i bagagli. La sorella, nella breve oretta in cui il ragazzo era occupato a salvare la propria anima, era semplicemente scomparsa così lui aveva speso quasi tutto il proprio tempo a chiedere in ogni taverna se l’avessero vista.
In molti rispondevano che non ricordavano, altri dicevano che sì, l’avevano vista, ma non risiedeva da loro.
Così, girando e comprando alcuni piccoli souvenir, comprese che mancava solo una locanda e che Ko Rah doveva per forza essere lì: da quello che aveva sentito in paese, poi, era anche l’unico posto ad essere abbastanza grande da avere ancora delle stanze libere la vigilia dell’inizio del torneo.
C’era una doppia speranza, alla fine: quella di trovare la sorella e quella di trovare una camera. Nel suo geniale piano, infatti, era presente l’idea del riposare, non del dove.

Era ormai alla locanda, con due borse di vestiti e amenità varie fra le mani, quando qualcosa fece un fracasso tremendo alle sue spalle.
Il povero ragazzo si buttò a terra, borse e braccia aattorno alla testa, temendo il peggio: ci mise alcuni minuti per capire che stava abbastanza bene e che null’altro sembrava in procinto di cadere.
Si alzò in piedi, borbottando qualcosa sottovoce, quando si rese conto che c’era della gente che continuava ad indicarlo.
Tentò di pulirsi una guancia con una manica, riuscendo soltanto a sporcarsi ancora di più di polvere: allora alzò un braccio, tentando di far capire che gli dispiaceva ma non poteva farci nulla.
La gente lo ignorò, continuando a borbottare qualcosa con aria scandalizzata.
Al Aki aggrottò la fronte, leggermente offeso. Era piuttosto rude ignorare così una persona che tentava di instaurare una discussione.
Sbuffò, scuotendo la testa, e finalmente l’occhio gli cadde su ciò che era caduto.

La bocca gli si spalancò istintivamente, dando, assieme agli occhi sgranati, la perfetta idea di quanto il suo cervello fosse stato reso fuori uso dalla sorpresa.
Un uomo era atterrato su un carro di fieno: per quanto vi fosse la remota possibilità che fosse ancora vivo, il sangue e, in generale, la posizione scomposta del corpo gli lasciarono intendere che tale probabilità era molto distante.
“Uh…” Al non sapeva cosa dire, mentre dei guaritori si facevano avanti, tentando di capire quali fossero le condizioni dell’uomo.
“…Ehilà.” Disse infine con forzato entusiasmo. 
Il suo saluto fu perso nel vuoto.

 

--.;*;.--

 

“Coco, hai trovato una camera!”
Ko Rah mugugnò appena, senza minimamente alzare lo sguardo dal suo beneamato Wired.
Al Aki sorrideva, chiudendo la porta dietro di se con un calcio: la ragazza aggrottò leggermente la fronte, notando che quello era una delle ennesimi irritanti abitudini del fratello.
“Ho comprato dei vestiti,” continuò lui, alzando le due borse e appoggiandole al tavolo.
Lei borbottò qualcosa in risposta, facendo un cenno con la testa per fargli capire che aveva recepito il messaggio.
Al Aki prese un completo nero, elegante quanto di buon gusto. Lo appoggiò su se stesso, specchiandosi poi allo specchio per vedere come poteva stare.
Ridacchiò, felice come un bambino. “Ehi, Coco, ti va di darmi alcuni pareri su quello che ho comprato?”
La ragazza alzò gli occhi al cielo, sbuffando.
“Grazie! Sai,” cominciò, prendendo un altro completo dalla borsa, “pensavo che fosse ridicolo spendere soldi per queste… uh… hm… cose. Tuttavia, ecco, stavo pensando che… cioè,” ridacchiò, allegro, “non ho mai avuto occasione di prendere tutti questi vestiti e, insomma, non sono adorabili?!”
Immagino,” ringhiò la ragazza, mentre l’occhio sinistro era preda di un tic nervoso.

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Nota d'Autore: mhm. Non mi piace molto come è venuto. Mi dispiace.

Vitani, tu mi onori con le tue recensioni e...grazie ^O^ davvero. I commenti riescono a curare le ferite mai sanate che la mia autostima mi inflisse prima di fuggire con gli argenti.

Fofolina, grazie. Sono felice che ti piaccia e... bhè, ho fatto il disegno solo per te XD se a qualcun'altro interessa, il disegna è fra gli originali del forum. COOMUNQUE. Grazie. Aki è un tesoro OçO ed ovviamente potrò concedertelo quando non deve recitare... se gli dai i vestitini belli *_*

Ok. Grazie a chi legge. ^O^

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Capitolo 4
*** Capitolo Tre: Ko Rah e il mondo ***


Capitolo Tre

Capitolo Tre

Ovvero

Madamoiselle Ko Rah e la sua peculiare maledizione

Ko Rah non sapeva esattamente che ore fossero o l’esatto susseguirsi di eventi che l’aveva portata lì in quel momento.
Sapeva che suo fratello l’aveva svegliata strillando qualcosa a proposito di un ritardo inaccettabile o qualcosa del genere. Non aveva potuto ignorarlo, visto che, per forza di cose, si erano ritrovati a dividere lo stesso letto singolo. Si era alzata, appoggiando la schiena alla spalliera del letto, e aveva cercato con lo sguardo il suo Wired: se lo sentiva, lo sapeva che quel giorno ne avrebbe avuto bisogno per sopravvivere.
Prima che potesse prenderlo e accenderlo, però, Al Aki le aveva lanciato contro dei vestiti, gridando qualcosa che Ko Rah, troppo presa ad odiarlo profondamente, non riuscì a comprendere: il resto della mattinata era stato un continuo tentativo della ragazzina di avvicinarsi per ucciderlo- tentativi che fallivano grazie all’estrema iperattività del ragazzo.
Così aveva continuato fino a quando, senza neanche sapere come ne perché, Ko Rah non si era trovata a correre dietro ad Al Aki, che la teneva per un polso, verso una scrivania posizionata in un angolo della piazza.
Borbottò qualcosa sotto voce, stringendo i denti con forza. In quel momento, Al Aki stava passando da ‘normalmente irritante’ a ‘insopportabile’, e Ko Rah non aveva la minima intenzione di festeggiare quell’evoluzione nel carattere del fratello.
“Aah, siamo in ritardo ritardo ritardo ritardo!”
Ko Rah socchiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un ringhio. Immagino.”
Come al solito, Al Aki non notò minimamente con quanto odio la sorella avesse pronunciato quella parola. Annuì veementemente, compiaciuto che qualcuno stesse, più o meno, dandogli ragione.
“Lo so! Aah, avrei dovuto iscrivermi ieri ma era così tardi e, insomma,” Al Aki si arrestò sul posto, socchiudendo gli occhi nel tentativo di capire se l’uomo dietro la scrivania stesse dormendo oppure fosse solo intento a leggere qualcosa, “vendevano dei vestiti così carini e, ecco, non ero sicuro che, hm, che, uh,” un sorriso allegro si fece strada sul suo volto appena vide che l’impiegato era ancora vivo e vegeto, “aah, signore!”

L’impiegato, un uomo secco e decisamente annoiato, alzò gli occhi dalla scrivania, cercando l’origine di quel rumore: prima ancora di trovarla, comunque, Al Aki si era lanciato verso la sua scrivania e aveva sbattuto la mano sul tavolo.
“Dobbiamo iscriverci!”
L’uomo lo squadrò con calma, il sopracciglio inarcato in uno sguardo scettico.
“Quanti anni avresti?”
“Uh, hm,”
Al Aki ridacchiò, giocherellando nervosamente con una ciocca dei propri capelli. “Diciannove, perché?”
L’altro sbuffò, dandogli un nuovo sguardo di sufficienza. “Sei un ragazzino.”
Al Aki si gonfiò il petto, tentando di darsi un’aria minacciosa: Ko Rah, dietro di lui, si limitò a sbuffare qualcosa e ad accendere il Wired, ringhiando sottovoce.
“Va bene, va bene… Santo Cielo…”
L’impiegato mormorò sottovoce una serie di improperi che Al Aki non riuscì a comprendere- non sapeva se era semplicemente troppo basso il tono di voce o se stava proprio parlando un’altra lingua, fatto stava che non capiva assolutamente nulla.
Intinse la penna nell’inchiostro, quindi l’appoggiò sul foglio. “Nome e cognome, arma, razza.”
“Uh-uh!”
Al Aki batté le mani l’una contro l’altra, sorridendo allegramente, “Allora, io sono Al Aki Lari, lei invece è mia sorella Ko Rah…”
“No,”
l’uomo lo interruppe, appoggiando la schiena contro lo schienale della sedia e tornando a guardarlo negli occhi, “non potete partecipare assieme.”
Al Aki lo fissò, lo sguardo vacuo ovvia prova che non aveva la minima idea di cosa intendesse dire: vedendolo in quel modo, l’impiegato alzò gli occhi al cielo, sbuffando. “Non potete registrarvi assieme. Potete registrarvi a parte e poi partecipare assieme, come un gruppo, ma solo uno di voi due potrà realizzare il desiderio.”
Al Aki, che per tutto il tempo in cui l’altro gli aveva spiegato quella regola non aveva fatto altro che fissarlo con la bocca socchiusa, annuì, dando segno di aver capito.
“Oh! Deve esserci un errore,” ed alzò la mano destra, indicando la sorella alle sue spalle, “lei è la mia arma.”
Le nocche di Ko Rah divennero bianche per il modo con cui stava stringendo il Wired: stava serrando le mascelle con così tanta forza che i denti avevano cominciato a scricchiolare pericolosamente, e l’impiegato fu sicuro di aver sentito qualcosa, come un disturbo nell’atmosfera- era come se l’aria si fosse fatta improvvisamente più densa, difficile da respirare.
“…Davvero?”
Il tono dell’uomo era così sorpreso da mettere da parte, almeno per qualche secondo, la sufficienza con cui si era rivolto loro fino a pochi secondi prima.
L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un improvviso tic nervoso. Immagino di sì.”
“Già già!”
Al Aki cominciò ad agitare una mano in aria, tentando di aiutarsi, con quel gesto, nel suo discorso. “Vede, Coco è estremamente forte ma, bhè, ha bisogno di me per il, uh, sa, hm, il, eh, hm, il… fattore… strategico, e,” Aki fece una smorfia, aggrottando la fronte nel tentativo di concentrarsi: dietro di lui, Ko Rah lo stava fulminando con lo sguardo, i muscoli così tesi per il fastidio che cominciavano persino a farle male, “insomma, io sono, uh, lei... hm, ecco tutto.”
L’impiegato lo fissò per qualche secondo, le mani giunte sul ventre ed un’espressione vuota sul volto, nella vaga ricerca di riportare un po’ di ordine logico fra i propri pensieri.
Sbatté le palpebre, due o più volte: poi, aprì e chiuse la bocca, alla ricerca di qualcosa da dire.
“Uh,” fu tutto ciò che trovò nella propria mente.
Al Aki annuì, in un qualche modo intenerito. “Già.”
Uno sbuffo inferocito sfuggì dalle labbra di Ko Rah, che in quel momento stava sfogando tutta la propria frustrazione pestando i tasti del Wired.
“Uh,” ripeté l’impiegato, quasi ipnotizzato dal silenzio che era appena calato fra i tre: scosse la testa, tentando di risvegliarsi dal torpore. “La situazione è piuttosto complicata. Non so quante volte sia già capitato qualcosa del genere, dovrei consultare il regolamento.”
Il volto di Al Aki si sfigurò in una smorfia: l’idea di dover aspettare qualcosa del genere non gli faceva per nulla piacere. “Immagino sarà un procedimento lungo, hm?”
L’impiegato annuì, scrollando le spalle in un gesto che poteva essere di scusa.
Al Aki sospirò, già annoiato dalla situazione, quindi si voltò verso la sorella, sorridendo. “Coco, se vuoi fare un giro per la città puoi approfittarne.”
Ko Rah mugugnò qualcosa sottovoce, in quello che sembrava un incomprensibile borbottio d’accondiscendenza.

 

.

-.:/*:.-

 .

Ko Rah non amava rimanere in mezzo alla gente più dello stretto necessario. Tuttavia avevano pagato la stanza dell’albergo solo per una notte e probabilmente l’avevano già data a qualcun altro, quindi non le rimaneva altro da fare che trovare un angolo di strada abbastanza calmo e isolato e giocare fino a quando il fratello non avesse finito la registrazione.
Purtroppo non sembravano esserci simili posti. Sbuffò, quindi decise di optare per una panchina su cui c’era seduto qualcuno.
Era un tizio che doveva essere pochi anni più grande del fratello, in quel momento occupato a fissare il vuoto. Al di là all’apparenza stravagante – l’orecchino con una gemma o gli occhialini viola erano soltanto due dei particolari meno appariscenti – , insomma, sembrava avere una certa propensione per il silenzio e per lo stare nel proprio angolino, senza disturbare il resto del mondo.
Ko Rah si sedette all’altro lato della panchina, prendendo il Wired dalla tasca.
“Non mi dire, anche tu partecipi al torneo?”
Un’improvvisa, inarrestabile ondata d’odio l’assalì, facendola tremare impercettibilmente.
“Sì, eh? Bene,” il ragazzo ridacchiò, sporgendosi verso di lei, “sei sicuramente la ragazza più carina che ho visto finora.”
C’era qualcosa che Ko Rah non riusciva a sopportare, qualcosa che riusciva perfino a farle dimenticare i comportamenti di suo fratello, e quella cosa erano le persone che ci provavano con lei.
Non che, avendo vissuto in un paesino deserto fino al giorno prima, lei potesse avere una grande esperienza in quel senso: tuttavia, quando si lasciava convincere ad andare in città per comprare qualcosa, a volte si era trovata con un ragazzo che continuava a ronzarle attorno.
Era una cosa che odiava. Quel continuo violare il suo spazio vitale solo per parlarle le dava sui nervi. Com’era possibile che non capissero che voleva solamente in pace?
Strinse le mascelle fin quasi a farsi scricchiolare i denti. Com’era possibile che non capissero che li odiava con tutto il suo cuore?
“Sparisci.”
Il ragazzo sorrise, ignorando completamente il tono di Ko Rah. “Mi chiamo Mihel. Spada Sacra. E tu?”
“Ko Rah.”
Per un solo, piccolo secondo la ragazza ebbe un fremito all’occhio sinistro. “A quanto pare sono l’arma di mio fratello.”
Per un secondo lo sgomento bloccò il ragazzo, che rimase a fissarla con la bocca aperta: poi decise che, dopo tutto, la cosa poteva anche essere normale. Forse.
“Uh, hm.”
La risatina nervosa che scappò dalle labbra di Mihel la lasciò momentaneamente spaesata. Non sapeva realmente perché, ma per qualche secondo si dimenticò di odiarlo con tutto il cuore e gli sembrò persino che, al suo posto, ci fosse il fratello.
Fu solo uno smarrimento momentaneo, alla fine del quale Ko Rah riprese a sperare che il ragazzo si decidesse a lasciarla in pace.
“Bhè… bel nome.” Ko Rah emise un leggero ringhio- a quanto pareva Mihel non aveva recepito il messaggio. “Potrei offrirti qualcosa, che ne dici?”
Si voltò verso di lui, rivolgendogli un’occhiata omicida. “No.”
“Oh, andiamo! Magari ti-”
“Scusate.”

Mihel si ritirò al suo posto, aggrottando la fronte in un gesto irritato: fra lui e la ragazza, infatti, si era appena seduto un ragazzo probabilmente troppo interessato dai propri appunti per capire di essersi appena messo in mezzo.
Da parte sua, Ko Rah accolse la notizia di una nuova persona con estremo fastidio: sembrava che il mondo avesse preso coscienza del suo sedersi a quella panchina e avesse deciso di attirare quanta più gente possibile in quel posto.
“Dicevo,” continuò poi Mihel, decidendo che il ragazzo, alla fin fine, non doveva dare molti problemi, “potrebbe farti bene bere qualcosa.”
“Sto. Per. Ucciderti.”
“Aw…”

Mihel si appoggiò sullo schienale della panchina tornando a guardare il vuoto, questa volta con un leggero broncio sul volto.
Ko Rah decise di non perdere il tempo in inutili ringraziamenti al Cielo e alla fortuna: prese il Wired e cominciò a giocarci, sperando che la prossima volta che il ragazzo avesse deciso di parlare si fosse accorto che stava tentando di battere un record e decidesse, finalmente, di chiudere la sua maledettissima bocca.


Non amava avere gente attorno, ma apprezzava quando veniva lasciata in pace: le ci volle poco per tornare ad un umore accettabile.
Premeva tasti, uccideva i nemici del gioco, e intanto cominciava ad abituarsi ad avere accanto quel tizio strano – qualsiasi fosse il suo nome – , che si faceva i fatti suoi scribacchiando qualcosa di gran lena. Cosa, a Ko Rah non era dato sapere: forse erano appunti in un’altra lingua o forse il tizio aveva solamente un’orrenda grafia (molto più probabilmente tutte e due le opzioni), fatto stava che non riusciva a comprendere nulla di quanto scriveva.
Le andava bene. D’altronde, ciò che poteva realmente attirare la sua attenzione era proprio il tizio in sé: doveva essere poco più vecchio di Mihel, ma la vivacità dello sguardo, che ogni tanto vagava qua e là per la piazza, lo rendeva, in un qualche modo, più simile ad un bambino.
Ko Rah trattenne a malapena un borbottio, eliminando l’ultimo boss del livello al pensiero che, forse, solo il fratello riusciva a sembrare così allegro.
Oltre a ciò, il tizio aveva un aspetto decisamente strano: i capelli, legati alla bell’e meglio in un piccolo codino stretto alla nuca, erano bianchi, il volto pieno di graffi e piccole cicatrici- sotto un occhio un taglio era stato cucito.
Gli occhi, poi. L’occhio sinistro era azzurro ghiaccio, quello destro marrone chiaro.
 

E poi c’era l’altro tizio, quello irritante: Mihel.
Ko Rah ringhiò qualcosa sottovoce, scegliendo una nuova partita per ricominciare dall’inizio: per un qualche strano motivo la vicinanza con quel ragazzo continuava ad esserle insopportabile, anche se in quel momento si era ritirato nel suo angolo.
Per quanto non fosse decisamente brutto, bastava guardarlo per capire che sarebbe sempre e solo stato lui a dover compiere il primo passo con qualcuno: qualcosa, nella sua persona, lo rendeva irritante.
La ragazza aggrottò la fronte, ragionando brevemente sul fatto che, forse, poteva essere solamente lei a trovarlo irritante: poi l’occhio le cadde per pochi secondi sulla figura scomposta del ragazzo, accasciato pigramente alla panchina, un sorrisetto indecifrabile sulle labbra e lo sguardo perso nel vuoto, e si convinse che no, quell’irritazione faceva semplicemente parte della sua persona.
La pelle era olivastra ma le labbra, stranamente, erano bianco perla: Ko Rah ragionò sul fatto che non doveva essere normale, ma contando che era cresciuta in un villaggio abitato da cinque persone di cui tre mascherate raggiunse la conclusione che delle labbra non dovevano fare molta differenza.
Gli occhi erano marroni, i capelli erano corti, castani, ma una ciocca alla sinistra del volto era lunga fino al mento e legata con perline. Strano, forse, ma dopo l’orecchino con gemma rossa e occhialini fucsia, Ko Rah non riusciva davvero a raggiungere il minimo stupore.
A quelle piccole stranezze si univano poi i vestiti: forse non erano davvero così appariscenti come la profonda irritazione verso di lui voleva farle credere, ma fra braccialetti, maglia rosa e collanine, lei dubitava fosse possibile per lui far perdere le proprie tracce.
 

Ko Rah inarcò un sopracciglio, colta da un improvviso dubbio. Due giorni e lei aveva incontrato tre tizi strani: era il torneo che attirava persone poco raccomandabili o era Ko Rah che aveva attaccata alla schiena una specie di calamita per gente fuori dal comune?
Un goblin rischiò di colpire il protagonista del gioco: bastò per far dimenticare a Ko Rah qualsiasi domanda potesse avere. Non importava- non quanto finire di nuovo quella partita.
“Salve, bambolina.”
Per pochi secondi Ko Rah accarezzò l’idea di prendere il Wired e lanciarlo contro Mihel, poi si accorse che il ragazzo non aveva parlato. Anzi, in quel momento stava fissando qualcuno con un’espressione leggermente feroce.
“Stavo parlando a- ah, fa lo stesso. Tu,” Il ragazzo, un tipetto minuto, si era voltato verso Mihel, fissandolo con la fronte aggrottata nel tentativo di trovare un aggettivo adatto per definirlo. “…Tu. Ciao. Io e il mio amico,” e indicò l’uomo alla sua destra, che in quel momento lo fissava leggermente spaesato, “non siamo di qui e dovremmo raggiungere il negozio del fabbro Fal, ma ci siamo persi. Sapreste-”
“Sparisci.”

Il ragazzino si bloccò, fissando Mihel a bocca aperta: questo si limitò a ricambiare lo sguardo con un’espressione inferocita, quasi lo sfidasse a rispondere.
“Uh… no, non hai capito.”
“No, tu non hai capito,”
ringhiò Mihel, sporgendosi verso il ragazzo con un’espressione minacciosa sul volto. “Chi ti credi di essere per chiamarla ‘bambolina’? Non ci credi forse abbastanza importanti per chiamarci per nome?”
Ko Rah, che aveva deciso di lasciar perdere e tornare ai suoi videogiochi appena il discorso si era spostato a Mihel, ebbe a malapena un fremito quando sentì pronunciare di nuovo la parola ‘bambolina’: per quanto quel termine partisse già svantaggiato per il semplice fatto di essere un vezzeggiativo e di riferirsi alla sua persona, c’era come attenuante che, almeno, non era stato pronunciato nel tentativo di accattivarsi le sue simpatie.
Non cambiava molto, comunque: lo sopportava a malapena, quindi fu solo dopo una dolorosa fitta di fastidio che lei decise di tornare al suo videogioco.
Il ragazzo invece non riusciva ad elaborare la situazione: da una parte fissava Mihel come se fosse un idiota contagioso, dall’altra tentava di tranquillizzare con leggeri cenni della testa l’amico, che aveva cominciato a sussurrare qualcosa in quella che sembrava un’altra lingua.
“Io… hm. Va… bene.” Il ragazzino alzò le mani in segno di resa, decidendo infine di lasciar perdere e continuare in modo ragionevole, “come ti pare. Mi chiamo Veven, lui è Ecke, piacere di conoscerti.”
L’amico, nel sentire il suo nome, passò lo sguardo da Veven a Mihel, facendo poi un cenno con la testa verso l’ultimo, lo sguardo ancora completamente smarrito.
Veven si chinò leggermente, mimando con la mano destra una riverenza. “Ora, sapresti dirci da che parte è la bottega del-”
“No.”

Mihel si alzò in piedi, torreggiando sopra Veven minacciosamente- nulla di troppo difficile, contando che questo era piccolo e minuto. “Non mi va di dirti nulla, quindi o sparisci o ti faccio fuori. Chiaro?”
Di nuovo, Veven dovette fermarsi ad osservarlo per alcuni secondi per convincersi che quella non era solo un’allucinazione molto vivida.
“Tu… non sei completamente normale, giusto?”
 

Ko Rah mugugnò qualcosa sottovoce, stizzosa replica che doveva probabilmente essere una risposta alla domanda di Veven: nessuno dei due ci fece caso, comunque, perché Mihel, divenuto rosso in volto, spinse il ragazzino.
Ecke univa lo smarrimento più totale allo stupore, senza capire cosa stesse succedendo e se dovesse intervenire oppure no: confuso, rimase immobile, fissando il più piccolo con sguardo supplicante.
Veven non se ne accorse, tanto era rimasto scioccato dalla spinta. Fissava Mihel a bocca aperta, lottando con tutte le sue forze per convincersi che sì, quel tizio lo aveva davvero spinto senza alcun ragionevole motivo.
“Tu mi hai spinto?!”
la voce gli uscì esageratamente stridula: sarebbe stata anche piuttosto comica, se solo Ko Rah non stesse cercando in tutti i modi di concentrarsi sul suo gioco. “Ecke! Sie danste meg!”
Ecke sembrò risvegliarsi: si voltò verso Mihel con sguardo inferocito e gli afferrò la maglietta, aprendo la bocca per dire qualcosa.
 

“Vogliamo smetterla?!”
Veven, Ecke e Mihel si voltarono verso il ragazzo che, fino a quel momento, era rimasto seduto, troppo assorto dalla scrittura per rendersi conto di cosa succedeva attorno a lui.
Per quanto non sembrasse molto più forte di nessuno dei tre, il tono con cui era sbottato li aveva calmati in meno di un secondo: perfino in quel momento, in cui il suo sguardo era tutto meno che minaccioso, non potevano fare a meno che fissarlo con timore reverenziale.
“Sentite, non vi chiedo di interrompere il… vostro…” il ragazzo aggrottò la fronte, senza sapere come continuare, “…balletto del maschio più maschio, ma almeno spostatevi. Sul serio, è già una tortura scrivere senza un tavolo! Io- oooh!”
Persino Ko Rah non poté rimanere totalmente indifferente nel sentirlo fare un simile… suono.
Il ragazzo, non sembrò rendersi conto del modo in cui i presenti lo fissavano, troppo concentrato nello studiare Veven: era evidente che avesse trovato qualcosa che lo interessava, ma nessuno dei tre riuscì a comprendere cosa potesse aver attirato la sua attenzione.
La strana luce nei suoi occhi lasciava però intendere che fosse un interesse che andava al di là del semplice aspetto fisico.
“Affascinante, semplicemente affascinante!” Si alzò in piedi, tirando le labbra viola in un sorriso allegro. “Il mio nome è Alhanaliam. Cappellaio Matto.” Ridacchiò leggermente, scotendo la testa. “Chiamami pure Liam. Il tuo nome è…?”
“Uh… Veven.”
Il ragazzo si morse un labbro, esitante all’idea di dover rivelare il proprio titolo. Non riusciva a farsi piacere quel soprannome: gli sembrava fin troppo pomposo, era semplicemente ridicolo. “Fuoco oscuro."
Ecke s'irrigidì avvertendo l'esitazione dell'amico: subito rivolse un'occhiata feroce a Liam, tentando di capire cosa potesse aver detto per infastidire Veven.
“Fuoco oscuro? Forte!” Alhanaliam sorrise, ignorando completamente di essere sotto il giudizio di Ecke. “Oltre che appropriato. Intendo dire, sei un mezzosangue, giusto?”
Veven aggrottò la fronte, assumendo involontariamente un’espressione imbronciata. “Prego?”
“Mezzosangue. Ibrido. Come dite voi? Non penso ci siano tanti altri sinonimi…”
Liam schioccò le dita, illuminandosi. “Oh, certo, forse hai pensato fossi razzista? Tranquillo! Trovo che il mescolamento delle razze, quando possibile, sia estremamente… affascinante! Sono caratteri che si uniscono, che danno forma ad un’altra razza- il primo passo verso l’evoluzione.”
Mihel aveva in quel momento assunto l’espressione confusa che fino a poco prima era propria di Ecke e, assieme a quest’ultimo, fissava Alhanaliam a bocca aperta, senza riuscire a capire cosa stesse succedendo.
“Già, già- posso chiederti le razze dei tuoi genitori? E magari un dettagliato elenco di malus-bonus?”
Veven si portò una mano alla tempia, un gesto dettato più dal nervosismo che da un reale dolore: oltre a fargli domande strane, dietro lo sguardo di Liam si poteva scorgere una luce maniacale estremamente inquietante.
“Sono… Elfo. E Elkie. Io…” scostò lo sguardo, irritato. Ecke, al suo fianco, non aspettava che un segno per agire- forse quella poteva essere una soluzione per liberarsi di quel tizio strano.
Veven sbuffò, tamburellando nervosamente le dita su un braccio. “Non è esattamente una cosa che faccio tutti i giorni! Intendo dire, non ho mai guardato se-”
Alhanaliam gli graffiò un braccio con un coltellino, interrompendolo.
“Male!” E dicendo ciò fece cadere la lama dentro un’ampolla, fermandosi poi a fissarla estasiato, ignaro del fatto che se Ecke ancora non gli si era lanciato addosso era solo perché troppo occupato ad accertarsi che Veven, spavento a parte, stesse bene. “Bisogna avere sempre una realistica idea di ciò che si può fare e ciò che non si può fa-”
“Tanto per renderlo noto,”
esclamò Mihel alzando difensivamente le braccia, “io sono un normalissimo purosangue.”
“Oh! Quindi, in teoria, dovresti essere un esempio della tua razza! Giusto?”

Mihel lo fissò in silenzio, soppesando mentalmente le proprie chance.
“Quale risposta non ti porterà a tagliarmi un braccio?”
Liam sorrise, facendogli una linguaccia.

Un ringhio alle loro spalle li riportò alla realtà, facendogli ricordare con un brivido lungo la schiena che, seduta sulla panchina, dimenticata da tutti, c’era pure Ko Rah.
Non li degnò di uno sguardo, non alzò nemmeno gli occhi dallo schermo: semplicemente, tentando di controllarsi e di concentrarsi sul proprio gioco, alzò leggermente il Wired in modo che tutti e tre potessero vederlo.
“Sto giocando.” L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un tic improvviso, unico segno tangibile di quanto poco mancasse perché esplodesse. “Non lo vedete che sto giocando?”


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Nota d'Autore: MALEDIZIONE! MALEDIZIONE! MALEDIZIONE!

Questo capitolo doveva essere molto più lungo. In questo capitolo la storia doveva entrare nel vivo, il torneo sarebbe finalmente cominciato, avremmo scoperto il titolo dato a Ko Rah e Al Aki...
Ma era troppo lungo, non riuscivo a continuare e, purtroppo, sono già in ritardo di un mese.
Mi dispiace così tanto.

Vitani: Li ho corretti gli errori che mi hai detto? Mi sembra di sì, ma, ecco, ho una memoria terribile...
Fofolina: Bhè, per quanto riguarda i personaggi spero di averti accontentata!

Mi dispiace davvero tanto, ma fra scuola e... e... bhà. Mi dispiace tanto.

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro: Le fantastiche sorprese ***


Capitolo Quattro

Capitolo Quattro

o

La seconda parte del Capitolo Tre

ovvero

Quali meravigliose sorprese

Al Aki rimaneva sempre sorpreso dalla piega che potevano prendere certi fatti se solo ci si spiegava: una formalità burocratica che avrebbe potuto protrarsi per più di qualche ora si era drasticamente ridotta a soli quindici minuti grazie all’aggiunta di alcuni piccoli particolari che prima aveva omesso.
Così aveva deciso di cercare la sorella e portarla a comprare dei vestiti: perché era vero che la ragazza aveva portato degli indumenti, ma Al sarebbe stato dannato se prima di lasciare il paese non fosse riuscito a comprarle almeno un bel completo.
Se lei lo chiedeva, comunque, la motivazione sarebbe stata qualcosa tipo ‘un vestito per ogni clima’.

Non vi era poi un reale problema nel cercare la sorella, o almeno, non c’era in quel momento. Non avevano più la camera, quindi lei era costretta a rimanere fuori. Sicuramente non aveva ne fame ne sete, quindi non doveva essere andata da qualche parte per mangiare. L’unica possibile scelta, insomma, era cercare negli angoli bui in cui era possibile sedersi.
Fu fortunato. Ci vollero solo dieci minuti per individuare la panchina su cui era seduta. Si poteva dire che, avendo lei i capelli blu, dieci minuti fossero quantomeno eccessivi: c’era però da dire che aveva scartato le panchine con più di due persone a priori.
Trovarla seduta accanto a qualcuno fu insieme una felice visione e un avvenimento inquietante.
 
“Coco!” Al sorrise, decidendo di essere estremamente felice e che no, le cicatrici sul volto del tizio accanto a Ko Rah non potevano essere state procurate da lei. “Vedo che ti sei fatta degli amici!”
La ragazza mormorò qualcosa sottovoce: Al Aki decise di prendere quel borbottio incomprensibile per una frase affermativa.

Mihel alzò lo sguardo, aggrottando la fronte appena vide che a parlare era stato un ragazzo più giovane di lui.
Sembrava conoscere la ragazza. Come era possibile che conoscesse la ragazza?
Mihel serrò le labbra, assumendo un’espressione inferocita.
“Chi sei tu?”
Il ragazzo si voltò verso di lui, gli occhi sgranati e la bocca a forma di ‘o’, in un inequivocabile espressione di sorpresa. Si riprese subito, comunque: compreso che Mihel stava davvero parlando con lui, questo decise di sorridere e fare un elegante quando estremamente ridicolo inchino.
Rimessosi in piedi ridacchiò, divertito da se stesso. “Al Aki Lari! Oh, magari vuoi sapere anche il titolo che mi è stato affibbiato, eh?” una risatina sfuggì nuovamente dalle sue labbra mentre arrotolava una ciocca di capelli fra le proprie dita. “Eh! Non ne sono estremamente soddisfatto, perché, cioè, da una parte è fin troppo da ragazza ed ha qualcosa che, cioè, insomma, sembra così pomposo, ma,” ed a quella parola Al Aki si mise impettito, la mano sinistra portata sotto il gomito destro e l’altra mano ad accarezzargli il mento, forse nel tentativo di far comprendere meglio il dubbio interno che lo dilaniava, “dall’altro è così carino e, uh, forte! Già, proprio forte!”
Al Aki fece un enorme sorriso che quasi sembrava risplendere di luce propria: Mihel si limitò a fissarlo con un’occhiata omicida, silenzioso suggerimento a tagliare il discorso.
“Ebbene, il mio titolo è ‘Piccola Morte’!” Al fece una piccola smorfia, incerto. “Come ti sembra?”
“Tu,”
ringhiò Mihel indicando, lentamente, Ko Rah, “la conosci?”
Il ragazzo aggrottò la fronte, perplesso. “Mia sorella?” spostò lo sguardo verso Ko Rah, che si limitò a fare un piccolo ringhio. “Certo che la conosco! Sarebbe strano il contrario, no?”
Mihel distese la fronte mentre un barlume di consapevolezza sembrava farsi strada nel suo sguardo. Avrebbe voluto rimarcare ciò che aveva compreso ad alta voce, ripetendo più volte ‘tua sorella’ fino a quando tale concetto non avesse smesso di avere un suono così meraviglioso e il ragazzo – il fratello – non si fosse seccato e avesse deciso di rispondere che sì, era vero, c’era un legame di parentela fra lui e Ko Rah: tuttavia un’immotivata allegria gli bloccò le parole sul nascere, modificandole in “Piacere di conoscerti, fratellone!”
Si alzò in piedi, tutto d’un tratto energico e pimpante, e gli diede un’amichevole pacca sulla spalla, dimenticando completamente che pochi secondi prima aveva ragionato sulla possibilità di saltargli al collo.
Anche Al Aki sembrò dimenticarsene, più preoccupato di massaggiarsi la spalla dolente che di ricordarsi del pericolo appena evitato. “Piacere di essere diventato tuo fratello, ragazzo sconosciuto che non ho mai incontrato prima!”
Per quanto Ko Rah fosse occupata a giocare con il Wired, qualcosa che di solito riusciva a distrarla completamente dal mondo esterno, non poté trattenersi dall’emettere un ringhio feroce.
Come al solito, nessuno dei due ragazzi sembrò notarla.
“Eh… eh.” Mihel ridacchiò, incerto sul come intendere le parole di Al Aki. “Uh… sì, bhé, il mio nome è Mihel. Spada Sacra. Allora,” e dicendo questo tornò a rilassarsi, ficcando le mani in tasca e spostando il peso sulla gamba destra, “come mai partecipate al torneo? Tua sorella sottolineò l’ultima parola con un tono esageratamente euforico, ancora eccitato da quella nuova scoperta, “non mi ha risposto.”
Al Aki schioccò la lingua, lisciandosi una ciocca di capelli con un’espressione pensosa. “Sì, bhè, mi avrebbe sorpreso se l’avesse fatto. Temo di non averle detto perché vogliamo partecipare al torneo.” Ridacchiò brevemente, gettando un’occhiata colma d’affetto alla sorella. “Ammirabile fiducia, no? Intendo dire,” ed emise una nuova risatina, lasciando stare i propri capelli e agitando la mano nel vuoto, “non ha chiesto nulla! Niente! Ora che ci penso sono piuttosto commosso perché, seriamente, chi lo avrebbe mai fatto? È un amore!”
Ko Rah ringhiò sommessamente. Immagino di sì.”
Mihel alzò un sopracciglio, eloquente segnale di quanto poco ci avesse capito del monologo di Al Aki. Aprì la bocca, probabilmente per ribattere o quantomeno per rendere noto che, se anche gli aveva risposto, lui non aveva compreso, ma poi la richiuse, senza sapere cosa dire con precisione.
“Oh.”
“Eeeeeesattamente!”
Ko Rah mormorò qualcosa sottovoce, in quello che era un segnale per far capire al fratello quanto trovasse inquietante quel suo gorgheggiare sulle parole: in tutta risposta, Al Aki si limitò a ridacchiare, trattenendosi a stento dal carezzarle la testa. “Già, già. Avevo ora in mente di, sai, fare un giro per questa deliziosa cittadina e, perché no! Mangiare qualcosa, anche se, bhè, quello sarà più o meno per l’ora di pranzo e-”
“L’ora di pranzo?”
disse Mihel, interrompendolo, con la fronte aggrottata in un’espressione perplessa.
Vedendo quella strana espressione sul volto dell’altro Al Aki sembrò perdere parte della propria gioiosa sicurezza, arrivando a stringere di qualche dente il sorriso ed assumendo una smorfia che, più che allegra, sembrava terribilmente forzata. “Uh, sì. Pranzo.”
Mihel assottigliò ancor di più lo sguardo, piegando la schiena leggermente all’indietro: non sembrava più perplesso, bensì confuso, come se l’informazione che Al Aki gli aveva appena dato stesse cozzando contro una qualche legge su cui si basava la sua concezione della realtà.
Si inumidì le labbra, raccogliendo le idee: Al lo osservò in trepidante attesa, quasi sporgendosi verso di lui. “Il torneo… Non inizia circa alle…”
Come disse quelle incerte parole si interruppe, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa. Al Aki lo guardava, attendendo speranzoso che finisse la frase, ma Mihel sembrava aver spostato la sua attenzione su qualcosa che non riusciva a trovare.
Poi, d’un tratto, sembrò che qualcosa gli avesse colpito lo stomaco perché Mihel impallidì, sgranando gli occhi.
“Oddio!” esclamò lui con una vocina stridula che sarebbe stata comica, se solo Al Aki ci avesse capito qualcosa. Mihel, reso momentaneamente cieco dalla rivelazione che aveva appena ricevuto, sembrò non vedere l’espressione sconcertata sul volto di Al o il modo in cui questo era arretrato per il timore- semplicemente scattò, scomparendo fra la gente che in quel momento riempiva la piazza del paesino.
Al Aki aprì e richiuse la bocca, cercando invano di comprendere cosa era appena successo o cosa doveva fare: la parte più irragionevole della sua mente gli diceva di correre, che qualsiasi cosa ci fosse era meglio non rimanere lì, ma dall’altra parte sua sorella non accennava a muoversi.
Non che Ko Rah fosse riuscita a rimanere completamente impassibile. Aveva osservato la scena con la coda dell’occhio ed aveva persino inarcato un sopracciglio quando quel tizio irritante aveva strillato ed era scappato via: tuttavia, sembrava pensare la ragazzina mentre pestava i tasti del Wired, se doveva prestare attenzione a tutto ciò che c’era di strano attorno a lei non avrebbe mai avuto il tempo di finire per l’ennesima volta il suo gioco.
“Ooh, affascinante!”
Al Aki aveva fatto appena in tempo a rendersi conto che qualcuno aveva parlato quando Alhanaliam gli afferrò una ciocca di capelli, osservandone le punte con attenzione. “Rosso carminio! Se non è un colore di capelli curioso questo, non so cos’altro possa essere!”
Mentre Liam continuava nella sua minuziosa ispezione, Al Aki non poté fare a meno di chiedersi come potesse il suo essere un colore ‘curioso’. Sua sorella aveva i capelli blu scuro, i suoi genitori avevano avuto i capelli viola e, probabilmente, tutti gli altri appartenenti della sua famiglia – forse persino razza – avevano dei colori simili al suo. Ciò che davvero era curioso era che quel tizio avesse i capelli bianchi e non appartenesse alla razza dei Sakiro- anche se, a dire il vero, forse apparteneva alla razza dei Sakiro, ma si limitava solamente a non indossare una maschera. Il che, continuò a ragionare Al Aki, sarebbe stato quantomeno curioso visto che Venner e Maali sembravano sempre sorpresi nel vedere che la figlia osava andare in giro con abiti che mostravano le braccia: c’era però da dire che Venner e Maali erano distanti dalla civiltà da parecchio tempo, quindi forse le cose potevano essere cambiate.
Al Aki piegò leggermente la testa d’un lato, schioccando rumorosamente la lingua. “Sei un Sakiro?”
Alhanaliam lo fissò per qualche secondo, alzando per pochi secondi le sopracciglia in un’espressione vagamente sorpresa. “Perché?”
Sembrava, con quella semplice parola, che qualsiasi emozione che lo aveva animato fino a pochi secondi prima fosse scomparsa. Se fosse stato possibile, Al Aki avrebbe definito lo sguardo di Liam con il termine ‘annoiata sorpresa’: in effetti era solo l’impossibilità dei due termini di esistere nella stessa frase che gli faceva avvertire tale espressione come sbagliata.
Sorrise, non esattamente a proprio agio. “Uh, ecco, hm, sai, i capelli. Intendo dire, i capelli sono bianchi e, uh, tipo, pensavo che fosse perché… ecco.”
Continuò a sorridere, reso più sicuro dal suono della propria voce. Poco importava che avesse semplicemente balbettato una frase con poco senso compiuto: aveva parlato e ciò bastava a farlo sentire, in un qualche modo, meglio.
Alhanaliam continuò a squadrarlo con quello sguardo incomprensibile, soppesando le parole dell’altro secondo chissà quale ragionamento interno: poi sorrise.
Sembrò quasi che fosse stata accesa una luce, perché il volto di Liam sembrò tingersi di una qualche dolcezza che, davvero, era difficile da ottenere contando quanto strani fossero i suoi occhi e i vari tagli che rompevano la regolarità del viso.
“Oh. Oh! Un’osservazione sensata, analitica, scientifica!”
Al Aki allargò il proprio sorriso, gonfiandosi il petto per la gioia che tale strano complimento gli procurava.
“Anche totalmente inesatta ma,”
aggiunse Alhanaliam, lasciando la frase in sospeso e congelando il povero Al Aki sul posto. Liam sventolò la mano destra, tentando di far capire che era un sciocchezza, davvero: poi riprese. “i Sakiro hanno i capelli bianchi perché è l’unico modo che hanno per ottenere un po’ di sole. Sai, con la loro peculiare idea che mostrare un lembo di pelle sia estrema maleducazione non riescono mai a farsi una soddisfacente abbronzatura.”
Al Aki assorbì la notizia in silenzio. Per quanto ne sapeva poteva essere sensato, ma contando che non ne sapeva molto non aveva davvero idea se ciò fosse vero o no.
Forse avrebbe dovuto chiederlo a Venner e Maali in una lettera.
Poi si riscosse –  o, più precisamente, si ricordò che Alhanaliam continuava a stringere un ciuffo dei suoi capelli– ed alzò timidamente una mano, tentando di far capire all’altro che aveva bisogno della sua attenzione.
Liam non comprese perfettamente il messaggio. “Oh già! No, non sono un Sakiro. I miei capelli una volta erano azzurri. Nel senso,” e alzò la mano libera per fermare qualsiasi reazione di Al Aki- che, a dire il vero, non aveva dato segno di voler parlare. “Non che sia vecchio. Ho solo settantasette anni.”
Al Aki sgranò gli occhi, dimenticandosi per qualche secondo il particolare dei suoi capelli in grave pericolo e concentrandosi sul fatto che- aveva sentito bene? Settantasette anni? Ne doveva avere qualcosa di più di venticinque, trenta al massimo.
“Lo so, lo so…” Alhanaliam aveva inteso l’espressione esterrefatta di Al Aki e cominciò così a giustificarsi, interrompendosi solamente per uno sbuffo avvilito. “I tagli mi invecchiano terribilmente, vero?”
Per qualche secondo Al Aki aprì la bocca con l’idea di rispondere, di dire qualcosa. Poi si rese conto che, davvero, aveva troppe risposte a disposizione per riuscire a sceglierne una soddisfacente in meno di cinque minuti: così decise di cambiare discorso, ricordando in quel momento che c’era l’inquietante possibilità che Alhanaliam decidesse che valeva la pena tirargli i capelli. “A proposito dei miei capelli,” e così dicendo ridacchiò leggermente, “potresti, tipo, lasciarli?”
Alhanaliam lo scrutò per qualche secondo, la fronte corrugata nel tentativo di capire di cosa stesse parlando: poi, improvvisamente, qualcosa nel suo sguardo si illuminò, probabilmente ricordandosi che non solo stava stringendo un ciuffo di capelli di Al Aki, ma che c’era anche un motivo dietro a quel gesto.
“Oooh, giusto. Stavamo parlando del tuo curioso colore di capelli che deve sicuramente avere un- i tuoi occhi!” E con un acuto strilletto Alhanaliam attirò più vicino a se Al Aki, utilizzando, con grande rammarico del più giovane, i capelli che stava stringendo da ormai dieci minuti. Ignorando completamente il grido di dolore di Aki (dolore reso ancor più insopportabile dal fatto che era da dieci minuti che temeva quell’azione), Liam fece un enorme sorriso reso in un qualche modo inquietante dalla scintilla di interesse che si era accesa nel suo sguardo. “I tuoi occhi! Che colore estremamente affascinante! Cioè, sì, anche tua sorella ha lo stesso colore ma… ehm…” ed un ringhio proveniente da dietro le spalle di Alhanaliam sembrò chiarificare il concetto che il ragazzo sembrava non aver coraggio di pronunciare.
“Senza contare che chissà in quale stato sono, visto tutto il tempo che passa giocare con quel coso.” Liam borbottò qualcosa sottovoce, apparentemente infastidito da qualcosa: poi continuò, allegro come prima. “Ma tu! Capelli rosso carminio, occhi gialli! Probabilmente è un qualcosa di razza, vero? Intendo dire, anche tua sorella ha gli occhi dello stesso colore. O forse è solo la vostra famiglia.”
Al Aki si sentiva estremamente a disagio e non solo perché Alhanaliam continuava a studiarlo, o perché il tono della sua voce stava andando dall’allegro al vagamente minaccioso: era soprattutto la mano di Liam, quella ficcata dentro una tasca, che, si vedeva, stava stringendo qualcosa. Un inquietante particolare che, se le cose fossero state normali, Al non avrebbe neanche notato, troppo immerso nei suoi grandiosi piani per notare i dettagli.
“Uh, ah, ehm, uh, ehi!” Al Aki tentò di indietreggiare, senza troppi risultati. “Hai, uh, hai notato il modo in cui, ehm, Mihel è fuggito? Cioè, insomma, ha parlato dell’inizio del torneo e poi si è, tipo, volatilizzato.”
Alhanaliam socchiuse gli occhi, perplesso. “Mihel? Chi…” si interruppe, portando la mano libera al mento, quasi ciò dovesse aiutarlo a concentrarsi. Al Aki trattenne a stento un sospiro di sollievo: qualsiasi cosa stesse facendo, per lo meno aveva smesso di stringere qualsiasi arma si celasse nelle sue tasche. “L’inizio del torneo? Aspetta, che ore sono?”
“Sono… l’ultima volta che ho guardato mancavano un sacco di minuti alle dieci.”

Alhanaliam sgranò gli occhi, quasi l’informazione l’avesse colpito allo stomaco, prima di fare uno scatto felino verso sinistra- una vista piuttosto sorprendente, contando che Liam non dava l’impressione di essere un tipo particolarmente agile.

Concorrenti.

Al Aki lasciò cadere la testa sul petto, lasciando che quelle parole rimbombassero nella sua mente. Alhanaliam e, pareva, tutti gli altri partecipanti, si erano anch’essi fermati, portando le mani alla testa in gemiti di dolore.
Se anche avesse voluto tentare di aiutarli non ci sarebbe riuscito. Sembrava che il suo corpo fosse impietrito, come se il solo ricevere quella voce richiedesse tutte le sue energie.

Il torneo comincia ora. La prima prova consiste nel raggiungere Nalos entro il tempo limite. Superatela e vi avvicinerete al vostro desiderio.

Ko Rah. Quel nome lo riscosse, dandogli la forza di distrarsi dalla voce. Sua sorella come stava?
Spostò appena lo sguardo – uno sforzo che appariva incredibile, in quel momento – , riuscendo così a far entrare Ko Rah nel suo campo visivo.
Avrebbe sospirato di sollievo se solo ci fosse riuscito. La ragazza continuava a giocare, senza dar segno di sentire male o, quantomeno, di notare che attorno a lei milioni di persone sembravano in preda di emicranie.

Fallite e verrete squalificati.

Al Aki annaspò in cerca d’aria, libero da quella presa mentale che fino a poco prima l’aveva reso una specie di statua pensante. Attorno a lui le persone cominciavano ad affannarsi verso l’uscita della cittadina: di fronte, Ko Rah continuava a giocare, isola felice nel bel mezzo del caos.
Al portò le mani alla fronte, ancora confuso. Una voce nella sua mente, il torneo era iniziato- e il pranzo che aveva progettato? E i vestiti che voleva comprare alla sorella?
La guardò, aprendo e chiudendo la bocca, tentando di dar voce al fiume di pensieri che in quel momento lo stava travolgendo e che si infrangevano contro il freddo ed indifferente muro che Ko Rah simboleggiava.

“Siamo in ritardo ritardo ritardo ritardo ritardo!”



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Buon Anno Nuovo!

Anil13:
Grazie. Nel senso, grazie per aver letto tutto. E, sì, grazie per avermi dato le tue impressioni. Lo so, ma purtroppo questa storia ha bisogno di molto tempo per ingranare... e mi dispiace. Il terzo capitolo va rifatto. RIFATTO. E va messo assieme a questo. Che è stato una spece di mini-parto. Ad ogni modo, scusa, davvero.

Vitani: Io ti adoro. Tanto. Intendo dire, tu, uha. Dopo così tanto tempo tu, tu, uha. E comunque, per favore, non pensare al TUO ritardo. Riesco a dare nuovi capitoli solo in questi ultimi tempi -.- E solo questa storia e Sunspots, fra l'altro... devo ancora lavorare su tutti gli altri T-T

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