Los - Le cose non sono semplici come sembrano di 13Sonne (/viewuser.php?uid=41146)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno: Al Aki, il ritardo e la loquacità ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due: Ko Rah, la pazienza e la dannazione ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre: Ko Rah e il mondo ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro: Le fantastiche sorprese ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Lari Ko Rah
???
-
-
Cercando nella mia storia potreste trovare milioni di ragionevoli motivi
per cui ho fatto ciò che ho fatto.
Dimenticateli.
Dopo pochi secondi riapre gli occhi, lentamente, come se
avesse dimenticato il perché di un simile gesto.
Grosse gocce di pioggia atterrano sul suo volto, formando
quelle lacrime che non accennano a nascere nei suoi occhi. Gli incisivi sono
appoggiati al metallo della pistola e può già sentire il sapore della polvere
da sparo lungo la gola.
Deglutisce a fatica, sente le mani tremare: sa di avere
paura, ma sa anche che quel sentimento non è altro che il suo istinto di
sopravvivenza. Non è una vera emozione, quella.
Chiude di nuovo le palpebre, questa volta per sempre.
Non mi ha spinto nessuno. Nessuna memoria è colpevole di quel gesto,
nulla mi ha portato a fare una cosa del genere.
Ho scelto. Tutto qua.
Il rumore dello sparo confonde i suoi ultimi istanti di
vita: in poco meno di un secondo mille frammenti di pensieri gli passano per la
mente, tutti assieme. In nessuno di questi può trovare la minima traccia di
senso di colpa.
-
-
------------------------------------------------------------------------------------------------------
-
-
Prologo
Ovvero
La prima, impietosa impressione di
madamoiselle Ko Rah ed herr Al Aki
-
-
Aprì gli occhi, trovandosi a fissare la parete della sua
stanza che ancora era in ombra. Alle sue spalle il sole filtrava dalle tende,
riscaldandole la schiena: il pigiama di flanella intrappolava quel calore e lo
rendeva persino insopportabile.
Si distese sulla schiena, mugugnando qualcosa di
intelligibile, finendo così per fissare la lunga fila di orsacchiotti seduti
sulla mensola appena sopra il suo letto.
Quella mattina non aveva voglia di alzarsi o di togliersi
dalla luce del sole, anche se cominciava ad odiare il caldo con tutta se
stessa: per una volta le sarebbe piaciuto poter rimanere nella sua stanza a non
fare nulla per tutto il giorno.
“Coco, sto per
entrare. Sei presentabile?”
Sentita la voce appena fuori dalla sua camera lei alzò la
schiena di scatto, sfigurandosi il volto in una smorfia di fastidio: se per il
nomignolo affettuoso o per la voce in se, quello non era comprensibile.
Aprì la bocca per rispondere al fratello ma le parole le
morirono in gola quando questo aprì la porta, tenendo in equilibrio con una
mano un vassoio che doveva contenere la sua colazione: un pane, piccolo e
tondo, e una tazza fumante che, probabilmente, conteneva del latte.
Il ragazzo le sorrise allegramente, senza curarsi dello
sguardo infastidito di lei.
“Ben svegliata, Coco! Pensavo che oggi volessi
dormire fino a mezzogiorno!” cinguettò il ragazzo appoggiando il vassoio
sul comodino accanto al letto di lei.
L’occhio sinistro della ragazza ebbe un tic improvviso,
segno evidente di quanto trovasse seccante essere li in quel preciso istante.
Le sole parole bastavano ad irritarla: tanto per dire, di solito lei era quella che si svegliava presto e
lui quello che poteva arrivare a
dormire fino al pomeriggio.
Tuttavia era un particolare irrilevante se confrontato con
la reazione che il tono di voce del ragazzo le procurava: tale infondata
allegria forse non era fuori luogo, ma di sicuro riusciva ad urtarle i nervi
come poco altro.
“Ho già preparato i
bagagli ieri sera, sai, ho preferito rimanere leggero quindi ho preso solo un
po’ di vestiti e, uh, del cibo e, bhè, altre, uh, cose da viaggio, sai, uh…
cose… tipo,” il ragazzo cominciò a balbettare agitando la mano sinistra,
senza avere la minima idea di come finire la frase, “uh… cose… da viaggio. Importanti. Da viaggio.”
Il sospiro che la ragazza si lasciò sfuggire ricordò
leggermente un ringhio. “Immagino di si.”
Poi prese il pane e ne strappò un morso con i denti,
cominciando a masticare lentamente.
“Eeesattamente!”
esclamò il ragazzo, soddisfatto. La sorella lo scrutò di sottecchi, continuando
a masticare: per quanto il fratello usasse abitualmente fare cose del genere, lei
ancora trovava strano il modo in cui, quando era soddisfatto di qualcosa,
pronunciava le parole. In una sola parola (come quel ‘esattamente’ di poco
prima) passava da un tono normale ad uno più basso di voce per poi di nuovo
normale, in uno strano vocalizzo: il risultato, se non proprio inquietante,
lasciava sempre chiunque piuttosto spiazzato.
“La carrozza dovrebbe
passare fra un’ora e qualcosa, quindi, sai, abbiamo il tempo per visitare Maali
e Venner. Devo ringraziarli per averci aiutato negli ultimi anni e… bhè, tu
devi ringraziare Livet per averti dato quel… coso. E, uh, che altro?”
La ragazza ingoiò il boccone, trattenendosi dal far notare
al fratello che avrebbe dovuto avere un po’ più di rispetto per il
‘coso’, visto che era stato il principale motivo per cui non si era già
suicidata per la noia.
“…Nient’altro. Rimango
affascinato dalla perfezione della mia pianificazione della mattina!"
Lei grugnì, trattenendosi per la seconda volta dal rendere
noto al fratello quanto lo trovasse irritante, e cominciò a sorseggiare il
latte caldo.
Non le piaceva particolarmente, il latte. Aveva un gusto
strano- ma d’altronde era il miglior modo di cominciare la giornata, visto che
dava abbastanza energia e riempiva lo stomaco fino al pranzo.
Il ragazzo prese a giocherellare con una ciocca dei propri
capelli, avvolgendola e lisciandola con le dita. “Già già. Per pranzo probabilmente saremo ancora in viaggio, ma ho
fatto dei panini. Rimarrai sorpresa dalla bontà di quei panini.” Si voltò
verso di lei, sfoggiando un sorriso maniacale che andava da un orecchio
all’altro. “La tua lingua fuggirà per
potersi unire in matrimonio con uno di quei panini!”
La ragazza trangugiò l’ultimo sorso di latte, appoggiando
poi la tazza sul vassoio. “Esci dalla
mia camera.”
“Eh?” chiese il
ragazzo, voltandosi verso di lei con uno sguardo interrogativo.
“Esci dalla mia
camera.”
Ci mise pochi secondi per capire che il fratello non avrebbe
accennato a muoversi, ma compreso ciò le saltarono istantaneamente i nervi.
“Esci. Dalla. Mia.
Camera!”
Il ragazzo emise un grido portando istintivamente le braccia
al petto prima di scattare in piedi e fuggire dalla stanza.
Appena il fratello chiuse (o per meglio dire, sbatté) la
porta, la ragazza ricominciò a mangiare il pane, nuovamente rilassata. Odiava
che un’altra persona all’infuori di lei stesse nella sua camera per più di due
secondi: era una cosa che aveva ripetuto (spesso anche strillato) al fratello
più volte, ma questo sembrava sempre non ricordarselo.
Digrignò i denti, arrivando alla conclusione che, molto
probabilmente, lo faceva solo per infastidirla.
La porta della camera si aprì di nuovo, formando un piccolo
spiraglio da cui il fratello guardava dentro. Lei lo fissò, momentaneamente
troppo sorpresa per avere una qualche reazione.
“Il, ehm, vassoio,
lo, uh, lo porti in cucina?” chiese lui, balbettando a metà fra l’imbarazzato
e il terrorizzato.
La ragazza sospirò, facendo poi un impercettibile movimento
con la testa che il fratello decise di prendere per un ‘sì’.
“Sparisci.”
-
--------------------------------------------------------------------------------------------
-
-
Note d'Autore: Uh,
non so cosa dire. Questa storia mi intriga parecchio. Stavo pensando a
dei personaggi per un Gdr e mi è venuto fuori... questo. Ah, mia
dolce dolce ispirazione!
Oh, il titolo. Dovete sapere che Los è tedesco. Los, da solo,
vuol dire "via"... in inglese viene meglio: "go". Los alla fine di una
parola vuole invece dire "senza".
Il senso di tale parola nel titolo? Capirete a tempo debito!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo Uno: Al Aki, il ritardo e la loquacità ***
Capitolo uno Al Aki
Capitolo Uno
Ovvero
Herr Al Aki, il suo disturbo ossessivo-compulsivo
e la sua brillante ed inarrestabile parlantina
-*-
Venner sospirò impercettibilmente, appoggiato ad un muretto
ad un lato della strada. D’innanzi a lui era parcheggiata la carrozza in cui Ko
Rah era salita senza perdere tempo: la sua voglia di comunicare col
mondo era, come al solito, piuttosto bassa, tanto che aveva già acceso il Wired
e aveva cominciato a giocarci furiosamente.
Ogni tanto, però, la ragazzina scambiava qualche parola con
sua moglie Maali e la figlia Livet: Venner era abbastanza lontano da non
riuscire a sentire una sola parola di ciò che stavano dicendo, ma teorizzò che
si trattasse solo di alcuni discorsi d’addio e non volle immischiarsi.
Preferì invece continuare ad osservare Al Aki mentre
litigava col cocchiere, la cui unica colpa era stata quella di arrivare
leggermente in ritardo rispetto all’orario prefissato. Il ragazzo era un
continuo agitare di mani, emettere acuti senza senso, pestare i piedi a terra
perché il cocchiere non lo degnava di uno sguardo, troppo occupato a caricare i
bagagli.
A Venner sfuggì una risata, unica
prova di quanto lo spettacolo lo stesse divertendo: come tutti i Sakiro,
infatti, indossava una maschera che non lasciava intuire nemmeno il colore
degli occhi.
I Sakiro erano un popolo strano. Estremamente avanzati per
quanto riguardava la tecnologia (il Wired che Ko Rah trovava così tanto
appassionante era in principio della figlia, Livet), avevano però un
preciso tabù nel mostrare anche un solo lembo della propria pelle: di solito,
quindi, si vedevano sempre con maglie a maniche lunghe, pantaloni, guanti- e,
per l’appunto, delle maschere in quella che sembrava porcellana.
Venner non era un eccezione: indossava degli abiti bianchi,
candidi, riprendendo l’argento della sua maschera e il bianco dei capelli che,
lunghi, gli ricadevano sulla schiena, alcune ciocche legate da dei nastrini
azzurri, altre lasciate semplicemente libere.
L’unica che non si faceva simili problemi era Livet: continuava ad indossare la sua maschera, ma spesso trovava
che fosse troppo caldo per indossare qualcosa con maniche lunghe e preferiva
delle gonne o dei pantaloncini lunghi fino al ginocchio.
I genitori la lasciavano fare, all’inizio leggermente
perplessi ma poi accettando quel cambiamento: in fondo, in quel villaggio disabitato,
abitavano solo loro e i due fratelli.
Al Aki si avvicinò a lui, con un sorriso: Venner non poté
fare a meno di notare come fosse ancora rosso in volto per la sfuriata.
“Ehi, Venner,”
biascicò Aki, la voce leggermente rauca,
“visto che roba? Per colpa di questo ritardo mi è slittata tutta la giornata!”
Aki sbuffò, attorcigliando una ciocca di capelli attorno
all’indice, ancora leggermente irritato.
Il sospiro che Venner si lasciò sfuggire rimbombò nella
maschera. “Sei come tuo padre,”
disse poi in un bisbiglio.
Il ragazzo lo guardò, gli occhi spalancati per la sorpresa,
mentre Venner continuava con una punta di divertimento nella voce, “ti preoccupi delle cose più stupide.”
Aki tentò in tutti i modi di apparire offeso, ma finì col
sfoggiare un sorriso a trentadue denti.
Venner scrollò le spalle, voltandosi dalla parte opposta di
Aki. Non capiva il perché di quell’allegria da parte del ragazzo: sicuro,
probabilmente aveva voluto bene al padre, ma non aveva mai creduto che sarebbe
arrivato al punto di accettare una critica con un sorriso.
“Oh bhè. Il fatto è
che l’ultimo giorno per registrarsi è domani, e preferirei poter sbrigare le
pratiche questa sera.” Aki sbuffò, facendo un veloce calcolo mentale di
quanto tempo quel ritardo potesse avergli sottratto. “Che seccatura. E il viaggio? Vogliamo parlare di quanto mortalmente
noioso sarà il viaggio? Non posso neanche dormire, o mangiare fino alla morte-
ti ho gia detto quanto buoni sono i panini che ho fatto?” Ridacchiò,
orgoglioso di se stesso, prima di rabbuiarsi nuovamente. “Immagino di non poter sperare nella compagnia di Ko. Ngh, morirò!”
“Non sei obbligato,
lo sai.” Biascicò Venner, continuando a guardare da un’altra parte.
Per pochi secondi cadde il silenzio fra i due. Venner non
sembrava volersi voltare verso Aki, mentre quest’ultimo fissava il vuoto con
sguardo spento, come se quelle parole gli avessero succhiato qualsiasi linfa vitale.
“Non sei obbligato,”
ripeté Venner.
Il ragazzo sorrise mestamente, senza rispondere.
“Al!”
Aki fece appena in tempo a rendersi conto che qualcuno
l’aveva chiamato prima di venire attaccato da una ragazza ridacchiante.
Venner si voltò, fissando per pochi istanti la figlia abbracciare Aki
mentre quest’ultimo emetteva dei gridolini spaventati.
“Livet,” disse
poi con calma, attirando l’attenzione dei due diciannovenni, “lascia in pace Aki. È già nervoso per il
viaggio e per il terribile ritardo” Venner sottolineò le due parole,
esaltandole in modo quasi ridicolo, prima di continuare, “non vorrai forse fargli venire un colpo?”
Aki si gonfiò il petto, tentando di darsi un’aria minacciosa.
Inutilmente. “Ritardo?”
esclamò Livet, lasciando Aki e facendo una smorfia incredula, “un ritardo nella scaletta di Al? Al! L’ossessivo-compulsivo
Al!”
“Non sono
ossessivo-compulsivo!” gridò Aki prima di incrociare le braccia sul petto e
fare un broncio degno di un bambino di sei anni.
Livet gli lisciò i capelli, apparentemente intenerita da
quella dimostrazione di immaturità. “Certo
che non lo sei.”
Maali arrivò appena in tempo per distrarre Aki dal gridare
una seconda volta.
“Al, la carrozza è
pronta,” disse lei, chinandosi verso il ragazzo. Aki non poté non
addolcirsi: anche se non poteva vederle il viso, Maali riusciva a far avvertire
il proprio sorriso attraverso la porcellana.
“Grazie, Maali.”
Aki le sorrise, prima di voltarsi verso Livet, assumendo
un’espressione leggermente imbarazzata.
“Uhm… Grazie per, uh,
il, ehm, sai… uh…” rimase in silenzio per qualche secondo, agitando la mano
sinistra in aria e aprendo e chiudendo la bocca, alla disperata ricerca del
termine tecnico, “…coso. Che hai
regalato a Coco.”
Lei rimase in silenzio per qualche secondo, cercando di
capire di cosa stesse parlando, prima di emettere un ‘Oooh!’ di comprensione.
“Il Wired!” Aki
scrollò le spalle, annuendo a ciò che aveva detto Livet. Lei non poté fare a
meno di continuare a stuzzicarlo. “Voi
siete così arretrati! Noi,” e la ragazza batté un pugno sul proprio petto,
cercando di dare, con quel gesto pregno di orgoglio, a quel ‘noi’ un
significato che si estendeva a tutta la razza dei Sakiro, “li abbiamo inventati secoli fa, quei giocattoli! Mentre voi
continuate ad usare le lettere, noi…”
“Livet, per favore.”
Disse Venner, interrompendola prima che potesse continuare con la propria
arringa. Sapeva benissimo che avrebbe potuto parlare per molto tempo, ed Aki
sembrava già fin troppo nervoso.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, prima di voltarsi verso
Maali tornando a sorridere. “Grazie
anche a te Maali. E, bhè,” balbettò, imbarazzato, voltandosi verso Venner, “a te, ovviamente. Non c'è l'avremmo fatta senza di voi.”
Maali fece segno con la mano di lasciare perdere, poi si
chinò e gli diede un veloce abbraccio.
“Ricordatevi di
scrivere, d’accordo?” sussurrò lei lasciandolo andare.
Aki annuì.
“Ti vuoi muovere?!”
Il ragazzo sobbalzò sul posto nel sentire le grida della sorella, spaventato, e prima che
potesse davvero rendersi conto di ciò che stava facendo aveva chiuso dietro di se la porta della carrozza.
-*-
-
-.:.-*-.:.-
-
-*-
Al Aki non si era sbagliato quando, sette ore prima, in
presenza di Venner, aveva detto che il viaggio sarebbe stato mortalmente
noioso. Non dormì, non mangiò – no, neanche quando venne l’ora di pranzo,
preferendo così lasciare che i suoi favolosi panini venissero divorati da Ko Rah con
una voracità che, solitamente, era il silenzioso modo della ragazza per dire ‘è
una delle cose più buone che ho mangiato nella mia vita’ – e, come aveva
predetto, non riuscì ad instaurare un dialogo duraturo con la sorella.
In compenso si lamentò.
Si lamentò di quanto presto aveva dovuto svegliarsi per una
carrozza che alla fine era persino arrivata in ritardo, dell’orario in cui
erano partiti, della lentezza del viaggio, del caldo asfissiante, della brezza
che non faceva altro che fargli finire i capelli sul viso, della nausea che le
buche e i sassi della strada gli facevano venire, di quanto gli sarebbe
piaciuto poter sgranchire le gambe, della sua disgraziata scelta di partire il
penultimo giorno utile per registrarsi.
L’odio che provava Ko Rah verso il fratello era ormai
diventato palpabile - era diventato difficile persino respirare - quando il
ragazzo si decise, finalmente, a guardare il paesaggio che sfrecciava dalla
finestra della porta e a stare in silenzio.
La ragazza non ci poteva credere. Per cinque secondi rimase
incantata, rapita dal silenzio del luogo: poi si buttò a capofitto nel Wired,
pronta a battere per l’ennesima volta il suo record personale.
Stava allegramente uccidendo l’ultimo boss del gioco quando
suo fratello decise di farle una domanda. “Cosa
ricordi della mamma?”
La domanda la prese di sorpresa, facendole rischiare di
essere colpita dal mostro.
“Nulla,” mugugnò
lei, tornando a pestare tasti con una rapidità che aveva dell’eccezionale.
“Oh, andiamo,”
continuò Aki con voce lamentosa, “devi
pur ricordare qualcosina!”
L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un tic improvviso. “Avevo tre anni quando è morta. Non la
ricordo.”
Qualcosa, nel sorriso di Al Aki, sembrò incrinarsi: fu
qualcosa che durò solo pochi secondi, comunque, e nulla che la sorella notò.
“Andiamo, qualcosa
ricorderai di sicuro, no?”
Le mani di Ko Rah presero a tremare leggermente, segno
dell’estremo nervosismo che le provocava, in quel momento, avere una
discussione che implicasse qualcosa di più di un monosillabo. “Non la ricordo.”
“Eddai!” uggiolò
Aki, facendole perdere qualsiasi concentrazione in meno di un secondo.
Mise il gioco in pausa, sospirando. Era ovvio che quel
giorno l’unica cosa che potesse fare era giocare nelle brevi pause fra un discorso
e l’altro del fratello.
“Bene. Ricordo
qualcosa,” ringhiò Ko Rah, esasperata. Se quello era l’unico modo per far
smettere il fratello, allora non poteva fare altro.
Aki sembrava rinvigorito dalla notizia. “Davvero?” chiese, allegramente, prima di aggiungere “che cosa ricordi?”
Ko Rah sbuffò. “Le
piaceva la calma. Adorava i biscotti. Sorrideva un sacco.” Socchiuse gli
occhi, concentrandosi, “e profumava di…
arance.”
Il ragazzo aggrottò la fronte, perplesso. “Arance?”
“Se non ti va bene
smetto di parlare,” ringhiò la ragazza. Aki non si azzardò a continuare.
“Hm. Le piaceva stare
al sole e… si divertiva a passare il suo tempo con Maali. E, uh, le piacevano i
bambini.”
Aki stava sorridendo, e la cosa distraeva Ko Rah, tanto che
non riuscì più a continuare. Si voltò verso di lui, squadrandolo con un
occhiata interrogativa.
“Lo so benissimo che
non ti ricordi niente di lei,” disse Aki, continuando a sorridere.
Per la seconda volta in dieci minuti, l’occhio sinistro
della ragazza ebbe un inquietante tic nervoso.
“Volevo soltanto
sapere come la immaginavi.” Ridacchiò, divertito da se stesso, “non mi aspettavo che la descrivessi così
allegra.”
Ko Rah scrollò le spalle, tornando al suo amato videogioco. “Solo perché io non lo sono non vuol dire
che non possa immaginare gli altri esserlo.”
In meno di un secondo l'espressione cambiò, come se avesse
accusato un colpo tremendo. Ko Rah non lo stava guardando, eppure
riusciva a sentire sulla
sua pelle lo sguardo triste del fratello, come riusciva a vedere, con
la coda
dell’occhio, quella smorfia sofferente sul suo volto.
Lei non sapeva cosa aveva detto di sbagliato: non lo sapeva
e non le importava. Probabilmente erano problemi suoi.
Tutto ciò che importava era che la cosa la stava distraendo.
“Togliti quell’aria
da cane bastonato dalla faccia, Aki. Mi stai dando fastidio.”
-*-
-
*_/*_*
-
-*-
Passarono altre otto ore prima che la carrozza arrivasse a
destinazione. Il fastidio che Ko Rah provava verso le continue lamentele del
fratello erano arrivate al punto di dare dolore fisico: quando scese dalla
carrozza non v’era un solo muscolo che non le dolesse.
La cittadina che, dopo tante sofferenze, avevano finalmente
raggiunto si chiamava Nant.
Durante l’anno non era molto di più di un semplice crocevia:
la popolazione del luogo non doveva superare le duecento anime. Sopravviveva
grazie al commercio e agli avventurieri che si fermavano nelle numerose locande
che troneggiavano sulla via centrale.
Il vero momento di splendore, ciò che gli abitanti di Nant
aspettavano come una manna dal cielo, era l’inizio del torneo: la cittadina era
scelta come luogo neutrale in cui i concorrenti potevano iscriversi e in cui,
il giorno dell’apertura della gara, sarebbero partiti per portare a termine la
prima prova. Le iscrizioni duravano un mese, e per quel mese tutte le locande erano
occupate.
Al Aki era semplicemente entusiasta: con le due borse in
spalla e la sorella che lo seguiva senza alzare gli occhi dal Wired, si
guardava attorno ricordando un bambino in un negozio di dolciumi.
Non era tanto la cittadina a stupirlo, quanto tutta la gente
che, sebbene la tarda ora, continuava a brulicare per strada: quel miscuglio di
colori diversi, quel caos di voci era qualcosa di completamente diverso dalla quiete del
villaggio deserto in cui era nato e cresciuto.
Sospirò, guardandosi attorno con sguardo trasognato, prima
che il suo sguardo fosse catturato dalla costruzione posta in centro alla
piazza.
“Coco, entra pure in
camera se vuoi,” trillò Aki gentilmente, facendo cadere le due borse a
terra, “io ti raggiungo dopo!"
Ko Rah, ancora leggermente confusa dal modo con cui il
fratello si era liberato dei bagagli, non diede alcun segno di voler sapere
cosa dovesse fare.
Alzò gli occhi dal Wired, seguendo per pochi secondi i
movimenti di Aki: con passi leggeri, quasi i sassi che componevano la strada
fossero in realtà tappetini elastici, si stava dirigendo verso la chiesetta del
luogo.
Borbottando fra se e se, Ko Rah tornò al suo amato Wired, calciando con calma
i due bagagli all’interno della locanda più vicina.
-*-
-
-*-
-------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Nota d'Autore: Spero che vi piaccia questo capitolo. Sul serio. Al Aki e Ko Rah devono ancora iscriversi ma... yay!
X meg89: Spero che ti convinca ^O^
X inuziku_rukiaXP: Grazie! Mi scaldi il cuore, mio tessssorro *_* (inquietante? Si. Molto.)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo Due: Ko Rah, la pazienza e la dannazione ***
Capitolo 3 los
Capitolo Due
ovvero
Madamoiselle Ko Rah, la sua pazienza e la bellezza nascosta nella parola dannazione
Ko Rah non accennava a parlare. La coda di fronte al bancone
della locanda si stava accorciando lentamente- troppo lentamente, per una
ragazza che non sopportava essere in una stanza con più di due persone.
Mugugnò qualcosa fra sè e sè, continuando ad ignorare l’uomo
che, dietro di lei, continuava a parlare: nella mente della diciassettenne
quelle continue chiacchiere divenivano distorti rumori di sottofondo che, per
quanto non comprendesse, limavano sempre di più la sua calma.
Emise un sospiro che ricordò un ringhio quando si rese conto
che mancavano solo tre persone perché arrivasse finalmente il suo turno. Doveva
ringraziare il fratello se, dopo due ore, ancora non aveva trovato posto in una
taverna: il ragazzo infatti si era completamente dimenticato di rivelarle dove
aveva avuto intenzione di dormire- o anche solo se aveva riservato una camera.
Così la ragazza aveva dovuto entrare in ogni locanda della contrada, chiedendo
se fosse stata riservata una camera sotto nome ‘Lari’ o, al massimo, se ci
fosse un letto libero.
Quella era l’ultima taverna rimasta, ed ovviamente aveva la
fila più lunga: a quanto pareva era l’unica ad avere ancora delle camere
libere.
“E tu?” chiese infine l’uomo dietro di lei, riportandola
alla realtà.
Ko Rah mugugnò qualcosa, non cercando minimamente di dare un
senso logico alle proprie parole.
L’uomo insistette, cercando di dare l’impressione che, dopo
due ore in cui non aveva fatto altro che rivelarle la sua vita, i suoi sogni e
quanto fosse ovvio che avrebbe vinto il torneo, gli importasse davvero del
perché la ragazza fosse lì.
“Saprai, ovviamente, perché sei qui, no?” Disse infine,
dando a quella frase un tono a metà fra il divertito e l’incuriosito. Più il
primo che il secondo, a dire il vero.
Ko Rah si voltò appena verso di lui, senza degnarsi di
staccare lo sguardo dal bancone che, oramai, era solo a pochi centimetri di
distanza. “No.”
L’uomo – doveva chiamarsi Hel… Helker? – rimase a fissarla,
stupito dalla risposta, e lei finalmente fece un passo in avanti.
Il padrone della taverna arrossì ancora prima che la giovane
potesse parlare: il solo udire la risatina imbarazzata dell’uomo le fece
galleggiare la mente in un mare di dolorosa irritazione.
“Piccola,” disse l’uomo, senza accorgersi dell’istantaneo
guizzo d’odio che la sola parola aveva causato nella ragazza, “mi dispiace, ma
ora siamo pieni.”
La ragazza ringhiò sottovoce, cercando di mantenere la
calma: il suo cervello stava dicendole di voltarsi, uscire dalla taverna e
cominciare a strillare fino a che il fratello non fosse comparso alla sua
presenza, per poi distruggerlo con le proprie nude mani.
Si trattenne: alzò lo sguardo per incontrare gli occhi del
locandiere e, con voce roca, parlò.
“Immagino che non
ci sia nulla da fare.”
La frase, mascherata come una cortese constatazione, era in realtà
un ovvio campanello d’allarme: il tono con cui era stato pronunciato ‘immagino’
lasciava infatti presumere quanto i nervi della ragazza stessero per cedere.
Il locandiere passò in rassegna qualcosa sotto il bancone,
assumendo una smorfia di disappunto.
“Forse,” mormorò l’uomo, incerto, “forse c’è una camera.”
La ragazza rimase immobile, senza proferire verbo.
“La camera è prenotata sotto il nome Stern Mann,” continuò
lui, titubante. La ragazza non accennò a muoversi. “Tuttavia doveva arrivare
due ore fa. La camera è tua.”
Ko Rah fece un vago cenno con la testa, porgendo la mano
destra, solo per venire poi spinta a terra dall’uomo appena dietro di lei.
“Sono io Stern Mann!” gridò lui, strappandogli quasi di mano la
chiave. Il locandiere rimase a fissarlo, sorpreso, ma poi si riscosse
facendo un debole sorriso.
“Le… auguro una buona notte, allora.”
.:,-*-,:.
Helter, arrivato in cima alle scale, si stiracchiò, stanco
per la giornata.
Sorrise fra se e se, giocherellando con le chiavi, immerso
nei propri pensieri: probabilmente già pregustava la nottata di puro riposo che
l’aspettava, oppure era proiettato più in là nel tempo, immaginandosi quando,
dopo aver vinto il torneo, avrebbe riabbracciato la propria amata.
Alzò lo sguardo, cercando la propria camera: dovette
socchiudere gli occhi per tentare di mettere a fuoco i numeri incisi nel legno
delle porte, ma trovò quasi subito la 303.
“Quella è la mia stanza.”
Sobbalzò, portando la mano ad un pugnale e puntandolo al
collo di chi aveva appena tentato di spaventarlo.
S’irrigidì, sorpreso. “Ragazzina?”
Ko Rah non si mosse. Gli occhi erano puntati contro di lui
in uno sguardo colmo di malcelata irritazione, per nulla preoccupata dalla lama
che era appoggiata contro il collo.
Helter aggrottò la fronte, perplesso: l’ultima volta che
aveva visto la ragazzina era al pian terreno, sdraiata a terra per la spinta
che le aveva dato. Com’era possibile che lo avesse raggiunto in così poco
tempo, in completo silenzio?
“Il tuo nome,” continuò lei, sottolineando ogni parola con
quanto più astio le fosse possibile, “non è Stern Mann.”
L’uomo piegò le labbra in un sorriso di scherno, riportando
il pugnale nel fodero. Dire che la ragazza era arrabbiata era poco: sotto
quell’apparente freddezza era nascosto un campo di mine- un passo falso e
probabilmente sarebbe esplosa.
Scrollò le spalle, cercando di apparire mortificato: gli
riuscì solo una smorfia divertita. “Io mi merito quella stanza, piccola.”
Un lampo di pura furia attraversò gli occhi di Ko Rah
mentre questa stringeva i pugni così forte che avevano preso a tremare senza
controllo.
“Aww,” disse Helter, intenerito, prima di darle una leggera
carezza sulla testa, “sei un amore.”
Poi si voltò, bagaglio in spalla e chiave in mano, per
entrare nella sua ambita camera.
:.*,..,*.:
Chiuse la porta dietro di se, guardandosi attorno.
La stanza era accogliente, anche se leggermente spartana.
Non vi erano particolari decorazioni, nulla di più di un letto, un tavolo, una
sedia e delle candele per illuminare l’ambiente.
Appoggiò la propria borsa a terra, sfregandosi le mani
soddisfatto. La camera era riscaldata, probabilmente grazie al calore delle
cucine, e per una notte non poteva sicuramente lamentarsi.
Si tolse il mantello, appoggiandolo sul letto, mentre con
gli occhi cercava dove fosse il bagno: lo trovò subito, contando che era pochi
metri d’innanzi a lui, alla sua destra.
Si avvicinò alla porta, facendo una smorfia al pensiero di
quanto dovesse essere sporco: aveva sicuramente bisogno di darsi una
rinfrescata, prima di andare a dormire.
Aprì la porta, prendendo un colpo quando vide che qualcuno
lo stava guardando: fu solo dopo pochi secondi che finalmente si rese conto che
era solo uno specchio.
“Stanco,” mormorò Helter, ridacchiando nervosamente, “solo
stanchezza.”
Aveva bisogno di acqua fredda: sì, ormai stava dormendo in
piedi. Aveva solo bisogno di svegliarsi un pochino.
Aprì il rubinetto, dando un’ultima, sospettosa occhiata allo
specchio: si era davvero spaventato per nulla, ed avrebbe dovuto metterci
alcuni minuti per ritornare calmo.
Era ridicolo, certo.
Prima di abbassare il volto per inumidirsi la fronte diede
un ultimo sguardo allo specchio, inquieto, trovandosi a fissare due occhi
dorati.
Per un secondo gli sembrò che gli mancasse la terra da sotto
i piedi. Non riusciva a pensare a nulla: il terrore aveva preso il posto di
ogni pensiero coerente.
Si voltò, pronto a gridare, ma si trovò a fissare il vuoto.
Un’allucinazione. Dalle labbra di Helter uscì, a fatica, una
risatina isterica: solo un’allucinazione.
“Stanchezza,” borbottò a sottovoce, tentando disperatamente
di tranquillizzarsi. Si girò di nuovo verso il lavandino, incerto se
sciacquarsi la fronte o cercare il conforto nel sonno: alla fine decise per la
seconda, chiudendo il rubinetto.
Alzò lo sguardo, distratto, e si sentì
morire dentro.
Non poteva essere un’allucinazione. Non poteva esserselo
immaginato. Non poteva esserci stato prima.
Continuava a tremare, Helter, mentre il suo sguardo spaventato
saltava da una sillaba all’altra della frase.
“La camera è mia.”
Gli sembrava persino di sentire la voce della ragazzina,
mentre, nella sua mente, le sillabe assumevano quell’ordine.
Per pochi secondi la voce fredda ed arrabbiata della ragazza
continuò a rimbombargli nella mente, ripetendo quella frase ad oltranza: poi la
luce delle candele tremò per un’istante, e quando il cuore di Helter riprese a
battere Ko Rah era apparsa accanto a lui, i pugni stretti e le labbra serrate.
“La camera,” mormorò lei, atona, “è mia.”
Il momento dopo Helter era appoggiato contro la porta,
tentando di chiudere la ragazza all’interno.
I suoi sforzi furono vani: la porta venne aperta con così
tanta forza che l’uomo si trovò a volare contro il proprio letto.
“La camera è mia,” ringhiò Ko Rah, il braccio disteso in
avanti reso improvvisamente rigido e la mano chiusa a pugno.
Helter gridò, terrorizzato: strane scintille avevano preso a
danzare attorno al pugno chiuso della ragazza, e un’inquietante ronzio aveva
cominciato ad avvertirsi in sottofondo.
“La camera,” ringhiò nuovamente la ragazza, socchiudendo gli
occhi in uno sguardo omicida mentre un alone violetto si formava attorno a lei,
“è mia.”
“Va bene!”
Helter si buttò sulla chiave, lanciandola poi contro la
ragazza: anche se questo movimento era stato fatto con disperazione, nel
tentativo di farle del male, la chiave semplicemente si materializzò nel
palmo sinistro di Ko Rah.
Qualcosa di simile ad un ghigno di soddisfazione si fece
strada sul volto di Ko Rah, mentre portava la chiave alla tasca: Helter, dal
canto suo, era troppo occupato a non scoppiare a piangere per fare altro oltre
a prendere la borsa e guadagnarsi la porta.
“Cosa speri di fare?”
L’uomo si raggelò, senza riuscire ad appoggiare la mano alla
maniglia. La ragazza non aveva ancora finito?
Cos’altro voleva da lui?
“Pensi davvero,”
Ko Rah calcò la parola di una crudele ironia, prima di continuare, “di poter
vincere quando non sei nemmeno stato capace di tenerti una chiave?”
Helter si morse il labbro, appoggiandosi al muro. Lei fece
un passo in avanti, mortalmente seria nel suo discorso. “Le persone devono
capire quando fermarsi.”
Fece un nuovo passo in avanti, assumendo nuovamente l’aura
violacea. “Le persone devono capire quando è ridicolo continuare.”
“I-io,” balbettò Helter, spaventato. Gli stava dicendo che
non aveva alcuna speranza, però non riusciva ad essere arrabbiato: la paura
stava a poco a poco lasciando spazio alla disperazione più cupa, sotto gli
occhi attenti della diciassettenne che continuava a fissarlo, neutra.
“V-voglio solo che m-mia moglie possa t-tornare d-da me.”
“Non è possibile.” La frase era stata detta con un tono così
freddo da recidere qualsiasi speranza rimastagli, senza possibilità di
guarigione.
“Ma,” cominciò lei, facendo un nuovo passo in avanti,
trovandosi ormai a pochi centimetri da Helter.
Era molto più bassa di lui, eppure, fra i due, quella che
dominava l’altro era lei. “Se lei non può raggiungere te, tu puoi raggiungere
lei.”
La disperazione, come un veleno, gli aveva raggiunto il
cuore, facendolo marcire senza alcuna pietà: il dolore fu così forte, così
terribile che gli occhi gli si riempirono di lacrime.
In quel momento non contava più cosa voleva fare, ma
soltanto come farlo smettere.
-+:.:*:.:+-
Al Aki era felice di non dover portare i bagagli. La
sorella, nella breve oretta in cui il ragazzo era occupato a salvare la propria
anima, era semplicemente scomparsa così lui aveva speso quasi tutto il proprio tempo a
chiedere in ogni taverna se l’avessero vista.
In molti rispondevano che non ricordavano, altri dicevano
che sì, l’avevano vista, ma non risiedeva da loro.
Così, girando e comprando alcuni piccoli souvenir, comprese
che mancava solo una locanda e che Ko Rah doveva per forza essere lì: da quello
che aveva sentito in paese, poi, era anche l’unico posto ad essere abbastanza
grande da avere ancora delle stanze libere la vigilia dell’inizio del torneo.
C’era una doppia speranza, alla fine: quella di trovare la
sorella e quella di trovare una camera. Nel suo geniale piano, infatti, era presente
l’idea del riposare, non del dove.
Era ormai alla locanda, con due borse di vestiti e amenità
varie fra le mani, quando qualcosa fece un fracasso tremendo alle sue spalle.
Il povero ragazzo si buttò a terra, borse e braccia aattorno alla
testa, temendo il peggio: ci mise alcuni minuti per capire che stava abbastanza
bene e che null’altro sembrava in procinto di cadere.
Si alzò in piedi, borbottando qualcosa sottovoce, quando si
rese conto che c’era della gente che continuava ad indicarlo.
Tentò di pulirsi una guancia con una manica, riuscendo
soltanto a sporcarsi ancora di più di polvere: allora alzò un braccio, tentando
di far capire che gli dispiaceva ma non poteva farci nulla.
La gente lo ignorò, continuando a borbottare qualcosa con
aria scandalizzata.
Al Aki aggrottò la fronte, leggermente offeso. Era piuttosto
rude ignorare così una persona che tentava di instaurare una discussione.
Sbuffò, scuotendo la testa, e finalmente l’occhio gli cadde
su ciò che era caduto.
La bocca gli si spalancò istintivamente, dando, assieme agli
occhi sgranati, la perfetta idea di quanto il suo cervello fosse stato reso
fuori uso dalla sorpresa.
Un uomo era atterrato su un carro di fieno: per quanto vi
fosse la remota possibilità che fosse ancora vivo, il sangue e, in generale, la
posizione scomposta del corpo gli lasciarono intendere che tale probabilità era
molto distante.
“Uh…” Al non sapeva cosa dire, mentre dei guaritori si
facevano avanti, tentando di capire quali fossero le condizioni dell’uomo.
“…Ehilà.” Disse infine con forzato entusiasmo.
Il suo saluto fu
perso nel vuoto.
--.;*;.--
“Coco, hai trovato una camera!”
Ko Rah mugugnò appena, senza minimamente alzare lo sguardo dal
suo beneamato Wired.
Al Aki sorrideva, chiudendo la porta dietro di se con un
calcio: la ragazza aggrottò leggermente la fronte, notando che quello era una
delle ennesimi irritanti abitudini del fratello.
“Ho comprato dei vestiti,” continuò lui, alzando le due
borse e appoggiandole al tavolo.
Lei borbottò qualcosa in risposta, facendo un cenno con la
testa per fargli capire che aveva recepito il messaggio.
Al Aki prese un completo nero, elegante quanto di buon
gusto. Lo appoggiò su se stesso, specchiandosi poi allo specchio per vedere
come poteva stare.
Ridacchiò, felice come un bambino. “Ehi, Coco, ti va di
darmi alcuni pareri su quello che ho comprato?”
La ragazza alzò gli occhi al cielo, sbuffando.
“Grazie! Sai,” cominciò, prendendo un altro completo dalla borsa,
“pensavo che fosse ridicolo spendere soldi per queste… uh… hm… cose.
Tuttavia, ecco, stavo pensando che… cioè,” ridacchiò, allegro, “non ho mai
avuto occasione di prendere tutti questi vestiti e, insomma, non sono
adorabili?!”
“Immagino,”
ringhiò la ragazza, mentre l’occhio sinistro era preda di un tic nervoso.
--
---
--
-----------------------------------------------------------------------------------------
--
---
--
Nota d'Autore: mhm. Non mi piace molto come è venuto. Mi dispiace.
Vitani, tu mi onori con le tue recensioni
e...grazie ^O^ davvero. I commenti riescono a curare le ferite mai
sanate che la mia autostima mi inflisse prima di fuggire con gli
argenti.
Fofolina, grazie. Sono felice che ti piaccia e...
bhè, ho fatto il disegno solo per te XD se a qualcun'altro
interessa, il disegna è fra gli originali del forum. COOMUNQUE.
Grazie. Aki è un tesoro OçO ed ovviamente potrò
concedertelo quando non deve recitare... se gli dai i vestitini belli
*_*
Ok. Grazie a chi legge. ^O^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo Tre: Ko Rah e il mondo ***
Capitolo Tre
Capitolo Tre
Ovvero
Madamoiselle Ko Rah e la sua peculiare maledizione
Ko Rah non sapeva esattamente che ore fossero o l’esatto
susseguirsi di eventi che l’aveva portata lì in quel momento.
Sapeva che suo fratello l’aveva svegliata strillando
qualcosa a proposito di un ritardo inaccettabile o qualcosa del genere. Non
aveva potuto ignorarlo, visto che, per forza di cose, si erano ritrovati a
dividere lo stesso letto singolo. Si era alzata, appoggiando la schiena alla
spalliera del letto, e aveva cercato con lo sguardo il suo Wired: se lo
sentiva, lo sapeva che quel giorno ne
avrebbe avuto bisogno per sopravvivere.
Prima che potesse prenderlo e accenderlo, però, Al Aki le
aveva lanciato contro dei vestiti, gridando qualcosa che Ko Rah, troppo presa
ad odiarlo profondamente, non riuscì a comprendere: il resto della mattinata
era stato un continuo tentativo della ragazzina di avvicinarsi per ucciderlo-
tentativi che fallivano grazie all’estrema iperattività del ragazzo.
Così aveva continuato fino a quando, senza neanche sapere
come ne perché, Ko Rah non si era trovata a correre dietro ad Al Aki, che la
teneva per un polso, verso una scrivania posizionata in un angolo della piazza.
Borbottò qualcosa sotto voce, stringendo i denti con forza.
In quel momento, Al Aki stava passando da ‘normalmente irritante’ a
‘insopportabile’, e Ko Rah non aveva la minima intenzione di festeggiare
quell’evoluzione nel carattere del fratello.
“Aah, siamo in
ritardo ritardo ritardo ritardo!”
Ko Rah socchiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un ringhio.
“Immagino.”
Come al solito, Al Aki non notò minimamente con quanto odio
la sorella avesse pronunciato quella parola. Annuì veementemente, compiaciuto
che qualcuno stesse, più o meno, dandogli ragione.
“Lo so! Aah, avrei
dovuto iscrivermi ieri ma era così tardi e, insomma,” Al Aki si arrestò sul
posto, socchiudendo gli occhi nel tentativo di capire se l’uomo dietro la
scrivania stesse dormendo oppure fosse solo intento a leggere qualcosa, “vendevano dei vestiti così carini e, ecco,
non ero sicuro che, hm, che, uh,” un sorriso allegro si fece strada sul suo
volto appena vide che l’impiegato era ancora vivo e vegeto, “aah, signore!”
L’impiegato, un uomo secco e decisamente annoiato, alzò gli
occhi dalla scrivania, cercando l’origine di quel rumore: prima ancora di
trovarla, comunque, Al Aki si era lanciato verso la sua scrivania e aveva
sbattuto la mano sul tavolo.
“Dobbiamo
iscriverci!”
L’uomo lo squadrò con calma, il sopracciglio inarcato in uno
sguardo scettico.
“Quanti anni
avresti?”
“Uh, hm,” Al Aki
ridacchiò, giocherellando nervosamente con una ciocca dei propri capelli. “Diciannove, perché?”
L’altro sbuffò, dandogli un nuovo sguardo di sufficienza. “Sei un ragazzino.”
Al Aki si gonfiò il petto, tentando di darsi un’aria
minacciosa: Ko Rah, dietro di lui, si limitò a sbuffare qualcosa e ad accendere
il Wired, ringhiando sottovoce.
“Va bene, va bene…
Santo Cielo…”
L’impiegato mormorò sottovoce una serie di improperi che Al
Aki non riuscì a comprendere- non sapeva se era semplicemente troppo basso il
tono di voce o se stava proprio parlando un’altra lingua, fatto stava che non
capiva assolutamente nulla.
Intinse la penna nell’inchiostro, quindi l’appoggiò sul
foglio. “Nome e cognome, arma, razza.”
“Uh-uh!” Al Aki
batté le mani l’una contro l’altra, sorridendo allegramente, “Allora, io sono Al Aki Lari, lei invece è
mia sorella Ko Rah…”
“No,” l’uomo lo
interruppe, appoggiando la schiena contro lo schienale della sedia e tornando a
guardarlo negli occhi, “non potete
partecipare assieme.”
Al Aki lo fissò, lo sguardo vacuo ovvia prova che non aveva
la minima idea di cosa intendesse dire: vedendolo in quel modo, l’impiegato
alzò gli occhi al cielo, sbuffando. “Non
potete registrarvi assieme. Potete registrarvi a parte e poi partecipare
assieme, come un gruppo, ma solo uno di voi due potrà realizzare il desiderio.”
Al Aki, che per tutto il tempo in cui l’altro gli aveva
spiegato quella regola non aveva fatto altro che fissarlo con la bocca
socchiusa, annuì, dando segno di aver capito.
“Oh! Deve esserci un
errore,” ed alzò la mano destra, indicando la sorella alle sue spalle, “lei è la mia arma.”
Le nocche di Ko Rah divennero bianche per il modo con cui
stava stringendo il Wired: stava serrando le mascelle con così tanta forza che
i denti avevano cominciato a scricchiolare pericolosamente, e l’impiegato fu
sicuro di aver sentito qualcosa, come un disturbo nell’atmosfera- era come se
l’aria si fosse fatta improvvisamente più densa, difficile da respirare.
“…Davvero?”
Il tono dell’uomo era così sorpreso da mettere da parte,
almeno per qualche secondo, la sufficienza con cui si era rivolto loro fino a
pochi secondi prima.
L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un improvviso tic nervoso. “Immagino
di sì.”
“Già già!” Al Aki
cominciò ad agitare una mano in aria, tentando di aiutarsi, con quel gesto, nel
suo discorso. “Vede, Coco è estremamente
forte ma, bhè, ha bisogno di me per il, uh, sa, hm, il, eh, hm, il… fattore…
strategico, e,” Aki fece una smorfia, aggrottando la fronte nel tentativo
di concentrarsi: dietro di lui, Ko Rah lo stava fulminando con lo sguardo, i
muscoli così tesi per il fastidio che cominciavano persino a farle male, “insomma, io sono, uh, lei... hm, ecco
tutto.”
L’impiegato lo fissò per qualche secondo, le mani giunte sul
ventre ed un’espressione vuota sul volto, nella vaga ricerca di riportare un
po’ di ordine logico fra i propri pensieri.
Sbatté le palpebre, due o più volte: poi, aprì e chiuse la
bocca, alla ricerca di qualcosa da dire.
“Uh,” fu tutto
ciò che trovò nella propria mente.
Al Aki annuì, in un qualche modo intenerito. “Già.”
Uno sbuffo inferocito sfuggì dalle labbra di Ko Rah, che in
quel momento stava sfogando tutta la propria frustrazione pestando i tasti del
Wired.
“Uh,” ripeté
l’impiegato, quasi ipnotizzato dal silenzio che era appena calato fra i tre:
scosse la testa, tentando di risvegliarsi dal torpore. “La situazione è piuttosto complicata. Non so quante volte sia già
capitato qualcosa del genere, dovrei consultare il regolamento.”
Il volto di Al Aki si sfigurò in una smorfia: l’idea di
dover aspettare qualcosa del genere non gli faceva per nulla piacere. “Immagino sarà un procedimento lungo, hm?”
L’impiegato annuì, scrollando le spalle in un gesto che
poteva essere di scusa.
Al Aki sospirò, già annoiato dalla situazione, quindi si
voltò verso la sorella, sorridendo. “Coco,
se vuoi fare un giro per la città puoi approfittarne.”
Ko Rah mugugnò qualcosa sottovoce, in quello che sembrava un
incomprensibile borbottio d’accondiscendenza.
.
-.:/*:.-
.
Ko Rah non amava rimanere in mezzo alla gente più dello
stretto necessario. Tuttavia avevano pagato la stanza dell’albergo solo per una
notte e probabilmente l’avevano già data a qualcun altro, quindi non le
rimaneva altro da fare che trovare un angolo di strada abbastanza calmo e
isolato e giocare fino a quando il fratello non avesse finito la registrazione.
Purtroppo non sembravano esserci simili posti. Sbuffò,
quindi decise di optare per una panchina su cui c’era seduto qualcuno.
Era un tizio che doveva essere pochi anni più grande del
fratello, in quel momento occupato a fissare il vuoto. Al di là all’apparenza
stravagante – l’orecchino con una gemma o gli occhialini viola erano soltanto
due dei particolari meno appariscenti – , insomma, sembrava avere una certa
propensione per il silenzio e per lo stare nel proprio angolino, senza
disturbare il resto del mondo.
Ko Rah si sedette all’altro lato della panchina, prendendo
il Wired dalla tasca.
“Non mi dire, anche
tu partecipi al torneo?”
Un’improvvisa, inarrestabile ondata d’odio l’assalì,
facendola tremare impercettibilmente.
“Sì, eh? Bene,”
il ragazzo ridacchiò, sporgendosi verso di lei, “sei sicuramente la ragazza più carina che ho visto finora.”
C’era qualcosa che Ko Rah non riusciva a sopportare,
qualcosa che riusciva perfino a farle dimenticare i comportamenti di suo fratello,
e quella cosa erano le persone che ci provavano con lei.
Non che, avendo vissuto in un paesino deserto fino al giorno
prima, lei potesse avere una grande esperienza in quel senso: tuttavia, quando
si lasciava convincere ad andare in città per comprare qualcosa, a volte si era
trovata con un ragazzo che continuava a ronzarle attorno.
Era una cosa che odiava. Quel continuo violare il suo spazio
vitale solo per parlarle le dava sui nervi. Com’era possibile che non capissero
che voleva solamente in pace?
Strinse le mascelle fin quasi a farsi scricchiolare i denti.
Com’era possibile che non capissero che li odiava con tutto il suo cuore?
“Sparisci.”
Il ragazzo sorrise, ignorando completamente il tono di Ko
Rah. “Mi chiamo Mihel. Spada Sacra. E
tu?”
“Ko Rah.” Per un
solo, piccolo secondo la ragazza ebbe un fremito all’occhio sinistro. “A quanto pare sono l’arma di mio
fratello.”
Per un secondo lo sgomento bloccò il ragazzo, che rimase a
fissarla con la bocca aperta: poi decise che, dopo tutto, la cosa poteva anche
essere normale. Forse.
“Uh, hm.”
La risatina nervosa che scappò dalle labbra di Mihel la
lasciò momentaneamente spaesata. Non sapeva realmente perché, ma per qualche
secondo si dimenticò di odiarlo con tutto il cuore e gli sembrò persino che, al
suo posto, ci fosse il fratello.
Fu solo uno smarrimento momentaneo, alla fine del quale Ko
Rah riprese a sperare che il ragazzo si decidesse a lasciarla in pace.
“Bhè… bel nome.”
Ko Rah emise un leggero ringhio- a quanto pareva Mihel non aveva recepito il messaggio. “Potrei offrirti qualcosa, che ne dici?”
Si voltò verso di lui, rivolgendogli un’occhiata omicida. “No.”
“Oh, andiamo! Magari
ti-”
“Scusate.”
Mihel si ritirò al suo posto, aggrottando la fronte in un
gesto irritato: fra lui e la ragazza, infatti, si era appena seduto un ragazzo
probabilmente troppo interessato dai propri appunti per capire di essersi
appena messo in mezzo.
Da parte sua, Ko Rah accolse la notizia di una nuova persona
con estremo fastidio: sembrava che il mondo avesse preso coscienza del suo
sedersi a quella panchina e avesse deciso di attirare quanta più gente
possibile in quel posto.
“Dicevo,”
continuò poi Mihel, decidendo che il ragazzo, alla fin fine, non doveva dare
molti problemi, “potrebbe farti bene
bere qualcosa.”
“Sto. Per.
Ucciderti.”
“Aw…”
Mihel si appoggiò sullo schienale della panchina tornando a
guardare il vuoto, questa volta con un leggero broncio sul volto.
Ko Rah decise di non perdere il tempo in inutili
ringraziamenti al Cielo e alla fortuna: prese il Wired e cominciò a giocarci, sperando
che la prossima volta che il ragazzo avesse deciso di parlare si fosse accorto
che stava tentando di battere un record e decidesse, finalmente, di chiudere la
sua maledettissima bocca.
Non amava avere gente attorno, ma apprezzava quando veniva lasciata in
pace: le ci volle poco per tornare ad un umore accettabile.
Premeva tasti, uccideva i nemici del gioco, e intanto
cominciava ad abituarsi ad avere accanto quel tizio strano – qualsiasi fosse il
suo nome – , che si faceva i fatti suoi scribacchiando qualcosa di gran lena.
Cosa, a Ko Rah non era dato sapere: forse erano appunti in un’altra
lingua o forse il tizio aveva solamente un’orrenda grafia (molto più probabilmente
tutte e due le opzioni), fatto stava che non riusciva a comprendere nulla di
quanto scriveva.
Le andava bene. D’altronde, ciò che poteva realmente
attirare la sua attenzione era proprio il tizio in sé: doveva essere poco più
vecchio di Mihel, ma la vivacità dello sguardo, che ogni tanto vagava qua e là
per la piazza, lo rendeva, in un qualche modo, più simile ad un bambino.
Ko Rah trattenne a malapena un borbottio, eliminando
l’ultimo boss del livello al pensiero che, forse, solo il fratello riusciva a
sembrare così allegro.
Oltre a ciò, il tizio aveva un aspetto decisamente strano: i
capelli, legati alla bell’e meglio in un piccolo codino stretto alla nuca,
erano bianchi, il volto pieno di graffi e piccole cicatrici- sotto un occhio un
taglio era stato cucito.
Gli occhi, poi. L’occhio sinistro era azzurro ghiaccio,
quello destro marrone chiaro.
E poi c’era l’altro tizio, quello irritante: Mihel.
Ko Rah ringhiò qualcosa sottovoce, scegliendo una nuova
partita per ricominciare dall’inizio: per un qualche strano motivo la vicinanza
con quel ragazzo continuava ad esserle insopportabile, anche se in quel momento
si era ritirato nel suo angolo.
Per quanto non fosse decisamente brutto, bastava guardarlo
per capire che sarebbe sempre e solo stato lui a dover compiere il primo passo
con qualcuno: qualcosa, nella sua persona, lo rendeva irritante.
La ragazza aggrottò la fronte, ragionando brevemente sul
fatto che, forse, poteva essere solamente lei a trovarlo irritante: poi
l’occhio le cadde per pochi secondi sulla figura scomposta del ragazzo,
accasciato pigramente alla panchina, un sorrisetto indecifrabile sulle labbra e
lo sguardo perso nel vuoto, e si convinse che no, quell’irritazione faceva
semplicemente parte della sua persona.
La pelle era olivastra ma le labbra, stranamente, erano
bianco perla: Ko Rah ragionò sul fatto che non doveva essere normale, ma
contando che era cresciuta in un villaggio abitato da
cinque persone di cui tre mascherate raggiunse la conclusione che delle labbra non dovevano fare molta
differenza.
Gli occhi erano marroni, i capelli erano corti, castani, ma
una ciocca alla sinistra del volto era lunga fino al mento e legata con
perline. Strano, forse, ma dopo l’orecchino con gemma rossa e occhialini
fucsia, Ko Rah non riusciva davvero a raggiungere il minimo stupore.
A quelle piccole stranezze si univano poi i vestiti: forse
non erano davvero così appariscenti come la profonda irritazione verso di lui
voleva farle credere, ma fra braccialetti, maglia rosa e collanine, lei
dubitava fosse possibile per lui far perdere le proprie tracce.
Ko Rah inarcò un sopracciglio, colta da un improvviso
dubbio. Due giorni e lei aveva incontrato tre tizi strani: era il torneo che
attirava persone poco raccomandabili o era Ko Rah che aveva attaccata alla
schiena una specie di calamita per gente fuori dal comune?
Un goblin rischiò di colpire il protagonista del gioco:
bastò per far dimenticare a Ko Rah qualsiasi domanda potesse avere. Non
importava- non quanto finire di nuovo quella partita.
“Salve, bambolina.”
Per pochi secondi Ko Rah accarezzò l’idea di prendere il
Wired e lanciarlo contro Mihel, poi si accorse che il ragazzo non aveva
parlato. Anzi, in quel momento stava fissando qualcuno con un’espressione
leggermente feroce.
“Stavo parlando a-
ah, fa lo stesso. Tu,” Il ragazzo, un tipetto minuto, si
era voltato verso Mihel, fissandolo con la fronte aggrottata nel tentativo di
trovare un aggettivo adatto per definirlo. “…Tu.
Ciao. Io e il mio amico,” e indicò l’uomo alla sua destra, che in quel
momento lo fissava leggermente spaesato, “non
siamo di qui e dovremmo raggiungere il negozio del fabbro Fal, ma ci siamo
persi. Sapreste-”
“Sparisci.”
Il ragazzino si bloccò, fissando Mihel a bocca aperta:
questo si limitò a ricambiare lo sguardo con un’espressione inferocita, quasi
lo sfidasse a rispondere.
“Uh… no, non hai
capito.”
“No, tu non hai
capito,” ringhiò Mihel, sporgendosi verso il ragazzo con un’espressione
minacciosa sul volto. “Chi ti credi di
essere per chiamarla ‘bambolina’? Non ci credi forse abbastanza importanti per
chiamarci per nome?”
Ko Rah, che aveva deciso di lasciar perdere e tornare ai
suoi videogiochi appena il discorso si era spostato a Mihel, ebbe a malapena un
fremito quando sentì pronunciare di nuovo la parola ‘bambolina’: per quanto
quel termine partisse già svantaggiato per il semplice fatto di essere un
vezzeggiativo e di riferirsi alla sua persona, c’era come attenuante che,
almeno, non era stato pronunciato nel tentativo di accattivarsi le sue
simpatie.
Non cambiava molto, comunque: lo sopportava a malapena,
quindi fu solo dopo una dolorosa fitta di fastidio che lei decise di tornare al
suo videogioco.
Il ragazzo invece non riusciva ad elaborare la situazione:
da una parte fissava Mihel come se fosse un idiota contagioso, dall’altra
tentava di tranquillizzare con leggeri cenni della testa l’amico, che aveva
cominciato a sussurrare qualcosa in quella che sembrava un’altra lingua.
“Io… hm. Va… bene.”
Il ragazzino alzò le mani in segno di resa, decidendo infine di lasciar perdere
e continuare in modo ragionevole, “come
ti pare. Mi chiamo Veven, lui è Ecke, piacere di conoscerti.”
L’amico, nel sentire il suo nome, passò lo sguardo da Veven
a Mihel, facendo poi un cenno con la testa verso l’ultimo, lo sguardo ancora
completamente smarrito.
Veven si chinò leggermente, mimando con la mano destra una
riverenza. “Ora, sapresti dirci da che
parte è la bottega del-”
“No.”
Mihel si alzò in piedi, torreggiando sopra Veven
minacciosamente- nulla di troppo difficile, contando che questo era piccolo e
minuto. “Non mi va di dirti nulla,
quindi o sparisci o ti faccio fuori. Chiaro?”
Di nuovo, Veven dovette fermarsi ad osservarlo per alcuni
secondi per convincersi che quella non era solo un’allucinazione molto vivida.
“Tu… non sei
completamente normale, giusto?”
Ko Rah mugugnò qualcosa sottovoce, stizzosa replica che
doveva probabilmente essere una risposta alla domanda di Veven: nessuno dei due
ci fece caso, comunque, perché Mihel, divenuto rosso in volto, spinse il
ragazzino.
Ecke univa lo smarrimento più totale allo stupore, senza
capire cosa stesse succedendo e se dovesse intervenire oppure no: confuso,
rimase immobile, fissando il più piccolo con sguardo supplicante.
Veven non se ne accorse, tanto era rimasto scioccato dalla
spinta. Fissava Mihel a bocca aperta, lottando con tutte le sue forze per
convincersi che sì, quel tizio lo aveva davvero spinto senza alcun ragionevole
motivo.
“Tu mi hai spinto?!” la
voce gli uscì esageratamente stridula: sarebbe stata anche piuttosto comica, se
solo Ko Rah non stesse cercando in tutti i modi di concentrarsi sul suo gioco. “Ecke! Sie
danste meg!”
Ecke sembrò risvegliarsi: si voltò verso Mihel con sguardo
inferocito e gli afferrò la maglietta, aprendo la bocca per dire qualcosa.
“Vogliamo
smetterla?!”
Veven, Ecke e Mihel si voltarono verso il ragazzo che, fino
a quel momento, era rimasto seduto, troppo assorto dalla scrittura per rendersi
conto di cosa succedeva attorno a lui.
Per quanto non sembrasse molto più forte di nessuno dei tre,
il tono con cui era sbottato li aveva calmati in meno di un secondo: perfino in
quel momento, in cui il suo sguardo era tutto meno che minaccioso, non potevano
fare a meno che fissarlo con timore reverenziale.
“Sentite, non vi
chiedo di interrompere il… vostro…” il ragazzo aggrottò la fronte, senza
sapere come continuare, “…balletto
del maschio più maschio, ma almeno spostatevi. Sul serio,
è già una tortura scrivere senza
un tavolo! Io- oooh!”
Persino Ko Rah non poté rimanere totalmente indifferente nel sentirlo
fare un simile… suono.
Il ragazzo, non sembrò rendersi conto del modo in cui i
presenti lo fissavano, troppo concentrato nello studiare Veven: era evidente
che avesse trovato qualcosa che lo interessava, ma nessuno dei tre riuscì a
comprendere cosa potesse aver attirato la sua attenzione.
La strana luce nei suoi occhi lasciava però intendere che fosse
un interesse che andava al di là del semplice aspetto fisico.
“Affascinante,
semplicemente affascinante!” Si
alzò in piedi, tirando le labbra viola in un sorriso allegro. “Il mio nome è Alhanaliam. Cappellaio Matto.”
Ridacchiò leggermente, scotendo la testa. “Chiamami
pure Liam. Il tuo nome è…?”
“Uh… Veven.” Il
ragazzo si morse un labbro, esitante all’idea di dover rivelare il proprio
titolo. Non riusciva a farsi piacere quel soprannome: gli sembrava fin troppo pomposo,
era semplicemente ridicolo. “Fuoco
oscuro."
Ecke s'irrigidì avvertendo l'esitazione dell'amico: subito rivolse un'occhiata feroce a Liam, tentando di capire cosa potesse aver detto per infastidire Veven.
“Fuoco oscuro?
Forte!” Alhanaliam sorrise, ignorando completamente di essere sotto il
giudizio di Ecke. “Oltre che
appropriato. Intendo dire, sei un mezzosangue, giusto?”
Veven aggrottò la fronte, assumendo involontariamente
un’espressione imbronciata. “Prego?”
“Mezzosangue. Ibrido.
Come dite voi? Non penso ci siano tanti altri sinonimi…” Liam schioccò le
dita, illuminandosi. “Oh, certo, forse
hai pensato fossi razzista? Tranquillo! Trovo che il mescolamento delle razze,
quando possibile, sia estremamente… affascinante! Sono caratteri che si
uniscono, che danno forma ad un’altra razza- il primo passo verso
l’evoluzione.”
Mihel aveva in quel momento assunto l’espressione confusa
che fino a poco prima era propria di Ecke e, assieme a quest’ultimo, fissava
Alhanaliam a bocca aperta, senza riuscire a capire cosa stesse succedendo.
“Già, già- posso
chiederti le razze dei tuoi genitori? E magari un dettagliato elenco di
malus-bonus?”
Veven si portò una mano alla tempia, un gesto dettato più
dal nervosismo che da un reale dolore: oltre a fargli domande strane, dietro lo
sguardo di Liam si poteva scorgere una luce maniacale estremamente inquietante.
“Sono… Elfo. E Elkie.
Io…” scostò lo sguardo, irritato. Ecke, al suo fianco, non aspettava che un
segno per agire- forse quella poteva essere una soluzione per liberarsi di
quel tizio strano.
Veven sbuffò, tamburellando nervosamente le dita su un
braccio. “Non è esattamente una cosa che
faccio tutti i giorni! Intendo dire, non ho mai guardato se-”
Alhanaliam gli graffiò un braccio con un coltellino,
interrompendolo.
“Male!” E dicendo
ciò fece cadere la lama dentro un’ampolla, fermandosi poi a fissarla
estasiato, ignaro del fatto che se Ecke ancora non gli si era lanciato addosso era
solo perché troppo occupato ad accertarsi che Veven, spavento a parte, stesse
bene. “Bisogna avere sempre una
realistica idea di ciò che si può fare e ciò che non si può fa-”
“Tanto per renderlo
noto,” esclamò Mihel alzando difensivamente le braccia, “io sono un normalissimo purosangue.”
“Oh! Quindi, in
teoria, dovresti essere un esempio della tua razza! Giusto?”
Mihel lo fissò in silenzio, soppesando mentalmente le
proprie chance.
“Quale risposta non
ti porterà a tagliarmi un braccio?”
Liam sorrise, facendogli una linguaccia.
Un ringhio alle loro spalle li riportò alla realtà,
facendogli ricordare con un brivido lungo la schiena che, seduta sulla
panchina, dimenticata da tutti, c’era pure Ko Rah.
Non li degnò di uno sguardo, non alzò nemmeno gli occhi
dallo schermo: semplicemente, tentando di controllarsi e di concentrarsi sul
proprio gioco, alzò leggermente il Wired in modo che tutti e tre potessero
vederlo.
“Sto giocando.”
L’occhio sinistro di Ko Rah ebbe un tic improvviso, unico segno tangibile di
quanto poco mancasse perché esplodesse. “Non
lo vedete che sto giocando?”
--
---
--
-----------------------------------------------------------------------------------------
--
---
--
Nota d'Autore: MALEDIZIONE! MALEDIZIONE! MALEDIZIONE!
Questo capitolo doveva essere molto più lungo. In questo
capitolo la storia doveva entrare nel vivo, il torneo sarebbe
finalmente cominciato, avremmo scoperto il titolo dato a Ko Rah e Al
Aki...
Ma era troppo lungo, non riuscivo a continuare e, purtroppo, sono già in ritardo di un mese.
Mi dispiace così tanto.
Vitani: Li ho corretti gli errori che mi hai detto? Mi sembra di sì, ma, ecco, ho una memoria terribile...
Fofolina: Bhè, per quanto riguarda i personaggi spero di averti accontentata!
Mi dispiace davvero tanto, ma fra scuola e... e... bhà. Mi dispiace tanto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo Quattro: Le fantastiche sorprese ***
Capitolo Quattro
Capitolo Quattro
o
La seconda parte del Capitolo Tre
ovvero
Quali meravigliose sorprese
Al Aki rimaneva sempre sorpreso dalla piega che potevano
prendere certi fatti se solo ci si spiegava: una formalità burocratica che
avrebbe potuto protrarsi per più di qualche ora si era drasticamente ridotta a
soli quindici minuti grazie all’aggiunta di alcuni piccoli particolari che
prima aveva omesso.
Così aveva deciso di cercare la sorella e portarla a
comprare dei vestiti: perché era vero che la ragazza aveva portato degli
indumenti, ma Al sarebbe stato dannato se prima di lasciare il paese non fosse
riuscito a comprarle almeno un bel completo.
Se lei lo chiedeva, comunque, la motivazione sarebbe stata
qualcosa tipo ‘un vestito per ogni clima’.
Non vi era poi un reale problema nel cercare la sorella, o
almeno, non c’era in quel momento. Non avevano più la camera, quindi lei era
costretta a rimanere fuori. Sicuramente non aveva ne fame ne sete, quindi non
doveva essere andata da qualche parte per mangiare. L’unica possibile scelta,
insomma, era cercare negli angoli bui in cui era possibile sedersi.
Fu fortunato. Ci vollero solo dieci minuti per individuare
la panchina su cui era seduta. Si poteva dire che, avendo lei i capelli blu,
dieci minuti fossero quantomeno eccessivi: c’era però da dire che aveva
scartato le panchine con più di due persone a priori.
Trovarla seduta accanto a qualcuno fu insieme una felice
visione e un avvenimento inquietante.
“Coco!” Al
sorrise, decidendo di essere estremamente felice e che no, le cicatrici sul
volto del tizio accanto a Ko Rah non potevano essere state procurate da lei. “Vedo che ti sei fatta degli amici!”
La ragazza mormorò qualcosa sottovoce: Al Aki decise di
prendere quel borbottio incomprensibile per una frase affermativa.
Mihel alzò lo sguardo, aggrottando la fronte appena vide che
a parlare era stato un ragazzo più giovane di lui.
Sembrava conoscere la ragazza. Come era possibile che
conoscesse la ragazza?
Mihel serrò le labbra, assumendo un’espressione inferocita.
“Chi sei tu?”
Il ragazzo si voltò verso di lui, gli occhi sgranati e la
bocca a forma di ‘o’, in un inequivocabile espressione di sorpresa. Si riprese
subito, comunque: compreso che Mihel stava davvero parlando con lui, questo
decise di sorridere e fare un elegante quando estremamente ridicolo inchino.
Rimessosi in piedi ridacchiò, divertito da se stesso. “Al Aki Lari! Oh, magari vuoi sapere anche
il titolo che mi è stato affibbiato, eh?” una risatina sfuggì nuovamente
dalle sue labbra mentre arrotolava una ciocca di capelli fra le proprie dita. “Eh! Non ne sono estremamente soddisfatto,
perché, cioè, da una parte è fin troppo da ragazza ed ha qualcosa che, cioè,
insomma, sembra così pomposo, ma,”
ed a quella parola Al Aki si mise impettito, la mano sinistra portata sotto il
gomito destro e l’altra mano ad accarezzargli il mento, forse nel tentativo di
far comprendere meglio il dubbio interno che lo dilaniava, “dall’altro è così carino e, uh, forte! Già, proprio forte!”
Al Aki fece un enorme sorriso che quasi sembrava risplendere
di luce propria: Mihel si limitò a fissarlo con un’occhiata omicida, silenzioso
suggerimento a tagliare il discorso.
“Ebbene, il mio
titolo è ‘Piccola Morte’!” Al fece una piccola smorfia, incerto. “Come ti sembra?”
“Tu,” ringhiò
Mihel indicando, lentamente, Ko Rah, “la
conosci?”
Il ragazzo aggrottò la fronte, perplesso. “Mia sorella?” spostò lo sguardo verso
Ko Rah, che si limitò a fare un piccolo ringhio. “Certo che la conosco! Sarebbe strano il contrario, no?”
Mihel distese la fronte mentre un barlume di consapevolezza
sembrava farsi strada nel suo sguardo. Avrebbe voluto rimarcare ciò che aveva
compreso ad alta voce, ripetendo più volte ‘tua sorella’ fino a quando tale
concetto non avesse smesso di avere un suono così meraviglioso e il ragazzo –
il fratello – non si fosse seccato e avesse deciso di rispondere che sì,
era vero, c’era un legame di parentela fra lui e Ko Rah: tuttavia un’immotivata
allegria gli bloccò le parole sul nascere, modificandole in “Piacere di
conoscerti, fratellone!”
Si alzò in piedi, tutto d’un tratto energico e pimpante, e
gli diede un’amichevole pacca sulla spalla, dimenticando completamente che
pochi secondi prima aveva ragionato sulla possibilità di saltargli al collo.
Anche Al Aki sembrò dimenticarsene, più preoccupato di
massaggiarsi la spalla dolente che di ricordarsi del pericolo appena evitato. “Piacere
di essere diventato tuo fratello, ragazzo sconosciuto che non ho mai incontrato
prima!”
Per quanto Ko Rah fosse occupata a giocare con il Wired,
qualcosa che di solito riusciva a distrarla completamente dal mondo esterno,
non poté trattenersi dall’emettere un ringhio feroce.
Come al solito, nessuno dei due ragazzi sembrò notarla.
“Eh… eh.” Mihel ridacchiò, incerto sul come intendere
le parole di Al Aki. “Uh… sì, bhé, il mio nome è Mihel. Spada Sacra.
Allora,” e dicendo questo tornò a rilassarsi, ficcando le mani in tasca e
spostando il peso sulla gamba destra, “come mai partecipate al torneo? Tua sorella”
sottolineò l’ultima parola con un tono esageratamente euforico, ancora eccitato
da quella nuova scoperta, “non mi ha risposto.”
Al Aki schioccò la lingua, lisciandosi una ciocca di capelli
con un’espressione pensosa. “Sì, bhè, mi avrebbe sorpreso se l’avesse fatto.
Temo di non averle detto perché vogliamo partecipare al torneo.” Ridacchiò
brevemente, gettando un’occhiata colma d’affetto alla sorella. “Ammirabile
fiducia, no? Intendo dire,” ed emise una nuova risatina, lasciando stare i
propri capelli e agitando la mano nel vuoto, “non ha chiesto nulla! Niente!
Ora che ci penso sono piuttosto commosso perché, seriamente, chi lo avrebbe mai
fatto? È un amore!”
Ko Rah ringhiò sommessamente. “Immagino di sì.”
Mihel alzò un sopracciglio, eloquente segnale di quanto poco
ci avesse capito del monologo di Al Aki. Aprì la bocca, probabilmente per
ribattere o quantomeno per rendere noto che, se anche gli aveva risposto, lui
non aveva compreso, ma poi la richiuse, senza sapere cosa dire con precisione.
“Oh.”
“Eeeeeesattamente!” Ko Rah mormorò qualcosa
sottovoce, in quello che era un segnale per far capire al fratello quanto
trovasse inquietante quel suo gorgheggiare sulle parole: in tutta risposta, Al
Aki si limitò a ridacchiare, trattenendosi a stento dal carezzarle la testa. “Già,
già. Avevo ora in mente di, sai, fare un giro per questa deliziosa cittadina e,
perché no! Mangiare qualcosa, anche se, bhè, quello sarà più o meno per l’ora
di pranzo e-”
“L’ora di pranzo?” disse Mihel, interrompendolo, con
la fronte aggrottata in un’espressione perplessa.
Vedendo quella strana espressione sul volto dell’altro Al
Aki sembrò perdere parte della propria gioiosa sicurezza, arrivando a stringere
di qualche dente il sorriso ed assumendo una smorfia che, più che allegra,
sembrava terribilmente forzata. “Uh, sì. Pranzo.”
Mihel assottigliò ancor di più lo sguardo, piegando la
schiena leggermente all’indietro: non sembrava più perplesso, bensì confuso,
come se l’informazione che Al Aki gli aveva appena dato stesse cozzando contro
una qualche legge su cui si basava la sua concezione della realtà.
Si inumidì le labbra, raccogliendo le idee: Al lo osservò in
trepidante attesa, quasi sporgendosi verso di lui. “Il torneo… Non inizia
circa alle…”
Come disse quelle incerte parole si interruppe, guardandosi
attorno alla ricerca di qualcosa. Al Aki lo guardava, attendendo speranzoso che
finisse la frase, ma Mihel sembrava aver spostato la sua attenzione su qualcosa
che non riusciva a trovare.
Poi, d’un tratto, sembrò che qualcosa gli avesse colpito lo
stomaco perché Mihel impallidì, sgranando gli occhi.
“Oddio!” esclamò lui con una vocina stridula che
sarebbe stata comica, se solo Al Aki ci avesse capito qualcosa. Mihel, reso
momentaneamente cieco dalla rivelazione che aveva appena ricevuto, sembrò non
vedere l’espressione sconcertata sul volto di Al o il modo in cui questo era
arretrato per il timore- semplicemente scattò, scomparendo fra la gente che in
quel momento riempiva la piazza del paesino.
Al Aki aprì e richiuse la bocca, cercando invano di
comprendere cosa era appena successo o cosa doveva fare: la parte più
irragionevole della sua mente gli diceva di correre, che qualsiasi cosa ci
fosse era meglio non rimanere lì, ma dall’altra parte sua sorella non accennava
a muoversi.
Non che Ko Rah fosse riuscita a rimanere completamente
impassibile. Aveva osservato la scena con la coda dell’occhio ed aveva persino
inarcato un sopracciglio quando quel tizio irritante aveva strillato ed era
scappato via: tuttavia, sembrava pensare la ragazzina mentre pestava i tasti
del Wired, se doveva prestare attenzione a tutto ciò che c’era di strano
attorno a lei non avrebbe mai avuto il tempo di finire per l’ennesima volta il
suo gioco.
“Ooh, affascinante!”
Al Aki aveva fatto appena in tempo a rendersi conto che
qualcuno aveva parlato quando Alhanaliam gli afferrò una ciocca di capelli,
osservandone le punte con attenzione. “Rosso carminio! Se non è un colore di
capelli curioso questo, non so cos’altro possa essere!”
Mentre Liam continuava nella sua minuziosa ispezione, Al Aki
non poté fare a meno di chiedersi come potesse il suo essere un colore
‘curioso’. Sua sorella aveva i capelli blu scuro, i suoi genitori avevano avuto
i capelli viola e, probabilmente, tutti gli altri appartenenti della sua
famiglia – forse persino razza – avevano dei colori simili al suo. Ciò che
davvero era curioso era che quel tizio avesse i capelli bianchi e non
appartenesse alla razza dei Sakiro- anche se, a dire il vero, forse apparteneva
alla razza dei Sakiro, ma si limitava solamente a non indossare una maschera.
Il che, continuò a ragionare Al Aki, sarebbe stato quantomeno curioso visto che
Venner e Maali sembravano sempre sorpresi nel vedere che la figlia osava andare
in giro con abiti che mostravano le braccia: c’era però da dire che Venner e
Maali erano distanti dalla civiltà da parecchio tempo, quindi forse le cose
potevano essere cambiate.
Al Aki piegò leggermente la testa d’un lato, schioccando
rumorosamente la lingua. “Sei un Sakiro?”
Alhanaliam lo fissò per qualche secondo, alzando per pochi secondi
le sopracciglia in un’espressione vagamente sorpresa. “Perché?”
Sembrava, con quella semplice parola, che qualsiasi emozione
che lo aveva animato fino a pochi secondi prima fosse scomparsa. Se fosse stato
possibile, Al Aki avrebbe definito lo sguardo di Liam con il termine ‘annoiata
sorpresa’: in effetti era solo l’impossibilità dei due termini di esistere
nella stessa frase che gli faceva avvertire tale espressione come sbagliata.
Sorrise, non esattamente a proprio agio. “Uh, ecco, hm,
sai, i capelli. Intendo dire, i capelli sono bianchi e, uh, tipo, pensavo che
fosse perché… ecco.”
Continuò a sorridere, reso più sicuro dal suono della
propria voce. Poco importava che avesse semplicemente balbettato una frase con
poco senso compiuto: aveva parlato e ciò bastava a farlo sentire, in un qualche
modo, meglio.
Alhanaliam continuò a squadrarlo con quello sguardo
incomprensibile, soppesando le parole dell’altro secondo chissà quale
ragionamento interno: poi sorrise.
Sembrò quasi che fosse stata accesa una luce, perché il
volto di Liam sembrò tingersi di una qualche dolcezza che, davvero, era
difficile da ottenere contando quanto strani fossero i suoi occhi e i vari
tagli che rompevano la regolarità del viso.
“Oh. Oh! Un’osservazione sensata, analitica, scientifica!”
Al Aki allargò il proprio sorriso, gonfiandosi il petto per
la gioia che tale strano complimento gli procurava.
“Anche totalmente inesatta ma,” aggiunse Alhanaliam,
lasciando la frase in sospeso e congelando il povero Al Aki sul posto. Liam
sventolò la mano destra, tentando di far capire che era un sciocchezza,
davvero: poi riprese. “i Sakiro hanno i capelli bianchi perché è l’unico
modo che hanno per ottenere un po’ di sole. Sai, con la loro peculiare idea che
mostrare un lembo di pelle sia estrema maleducazione non riescono mai a farsi
una soddisfacente abbronzatura.”
Al Aki assorbì la notizia in silenzio. Per quanto ne sapeva
poteva essere sensato, ma contando che non ne sapeva molto non aveva davvero
idea se ciò fosse vero o no.
Forse avrebbe dovuto chiederlo a Venner e Maali in una
lettera.
Poi si riscosse – o,
più precisamente, si ricordò che Alhanaliam continuava a stringere un ciuffo
dei suoi capelli– ed alzò timidamente una mano, tentando di far capire
all’altro che aveva bisogno della sua attenzione.
Liam non comprese perfettamente il messaggio. “Oh già!
No, non sono un Sakiro. I miei capelli una volta erano azzurri. Nel senso,”
e alzò la mano libera per fermare qualsiasi reazione di Al Aki- che, a dire il
vero, non aveva dato segno di voler parlare. “Non che sia vecchio. Ho solo
settantasette anni.”
Al Aki sgranò gli occhi, dimenticandosi per qualche secondo
il particolare dei suoi capelli in grave pericolo e concentrandosi sul fatto
che- aveva sentito bene? Settantasette anni? Ne doveva avere qualcosa di più di
venticinque, trenta al massimo.
“Lo so, lo so…” Alhanaliam aveva inteso l’espressione
esterrefatta di Al Aki e cominciò così a giustificarsi, interrompendosi
solamente per uno sbuffo avvilito. “I tagli mi invecchiano terribilmente, vero?”
Per qualche secondo Al Aki aprì la bocca con l’idea di
rispondere, di dire qualcosa. Poi si rese conto che, davvero, aveva troppe
risposte a disposizione per riuscire a sceglierne una soddisfacente in meno di
cinque minuti: così decise di cambiare discorso, ricordando in quel momento che
c’era l’inquietante possibilità che Alhanaliam decidesse che valeva la pena
tirargli i capelli. “A proposito dei miei capelli,” e così dicendo
ridacchiò leggermente, “potresti, tipo, lasciarli?”
Alhanaliam lo scrutò per qualche secondo, la fronte
corrugata nel tentativo di capire di cosa stesse parlando: poi,
improvvisamente, qualcosa nel suo sguardo si illuminò, probabilmente
ricordandosi che non solo stava stringendo un ciuffo di capelli di Al Aki, ma
che c’era anche un motivo dietro a quel gesto.
“Oooh, giusto. Stavamo parlando del tuo curioso colore di
capelli che deve sicuramente avere un- i tuoi occhi!” E con un acuto
strilletto Alhanaliam attirò più vicino a se Al Aki, utilizzando, con grande
rammarico del più giovane, i capelli che stava stringendo da ormai dieci
minuti. Ignorando completamente il grido di dolore di Aki (dolore reso ancor
più insopportabile dal fatto che era da dieci minuti che temeva quell’azione),
Liam fece un enorme sorriso reso in un qualche modo inquietante dalla scintilla
di interesse che si era accesa nel suo sguardo. “I tuoi occhi! Che colore
estremamente affascinante! Cioè, sì, anche tua sorella ha lo stesso colore ma…
ehm…” ed un ringhio proveniente da dietro le spalle di Alhanaliam sembrò
chiarificare il concetto che il ragazzo sembrava non aver coraggio di
pronunciare.
“Senza contare che chissà in quale stato sono, visto
tutto il tempo che passa giocare con quel coso.” Liam borbottò qualcosa
sottovoce, apparentemente infastidito da qualcosa: poi continuò, allegro come
prima. “Ma tu! Capelli rosso carminio, occhi gialli! Probabilmente è un
qualcosa di razza, vero? Intendo dire, anche tua sorella ha gli occhi dello
stesso colore. O forse è solo la vostra famiglia.”
Al Aki si sentiva estremamente a disagio e non solo perché
Alhanaliam continuava a studiarlo, o perché il tono della sua voce stava
andando dall’allegro al vagamente minaccioso: era soprattutto la mano di Liam,
quella ficcata dentro una tasca, che, si vedeva, stava stringendo qualcosa. Un
inquietante particolare che, se le cose fossero state normali, Al non avrebbe
neanche notato, troppo immerso nei suoi grandiosi piani per notare i dettagli.
“Uh, ah, ehm, uh, ehi!” Al Aki tentò di
indietreggiare, senza troppi risultati. “Hai, uh, hai notato il modo in cui,
ehm, Mihel è fuggito? Cioè, insomma, ha parlato dell’inizio del torneo e poi si
è, tipo, volatilizzato.”
Alhanaliam socchiuse gli occhi, perplesso. “Mihel? Chi…”
si interruppe, portando la mano libera al mento, quasi ciò dovesse aiutarlo a
concentrarsi. Al Aki trattenne a stento un sospiro di sollievo: qualsiasi cosa
stesse facendo, per lo meno aveva smesso di stringere qualsiasi arma si celasse
nelle sue tasche. “L’inizio del torneo? Aspetta, che ore sono?”
“Sono… l’ultima volta che ho guardato mancavano un sacco
di minuti alle dieci.”
Alhanaliam sgranò gli occhi, quasi l’informazione l’avesse
colpito allo stomaco, prima di fare uno scatto felino verso sinistra- una vista
piuttosto sorprendente, contando che Liam non dava l’impressione di essere un
tipo particolarmente agile.
Concorrenti.
Al Aki lasciò cadere la testa sul petto, lasciando che
quelle parole rimbombassero nella sua mente. Alhanaliam e, pareva, tutti gli
altri partecipanti, si erano anch’essi fermati, portando le mani alla testa in
gemiti di dolore.
Se anche avesse voluto tentare di aiutarli non ci sarebbe
riuscito. Sembrava che il suo corpo fosse impietrito, come se il solo ricevere
quella voce richiedesse tutte le sue energie.
Il torneo comincia ora. La prima prova consiste nel
raggiungere Nalos entro il tempo limite. Superatela e vi avvicinerete al vostro
desiderio.
Ko Rah. Quel nome lo riscosse, dandogli la forza di
distrarsi dalla voce. Sua sorella come stava?
Spostò appena lo sguardo – uno sforzo che appariva
incredibile, in quel momento – , riuscendo così a far entrare Ko Rah nel suo
campo visivo.
Avrebbe sospirato di sollievo se solo ci fosse riuscito. La
ragazza continuava a giocare, senza dar segno di sentire male o, quantomeno, di
notare che attorno a lei milioni di persone sembravano in preda di emicranie.
Fallite e verrete squalificati.
Al Aki annaspò in cerca d’aria, libero da quella presa
mentale che fino a poco prima l’aveva reso una specie di statua pensante.
Attorno a lui le persone cominciavano ad affannarsi verso l’uscita della
cittadina: di fronte, Ko Rah continuava a giocare, isola felice nel bel mezzo
del caos.
Al portò le mani alla fronte, ancora confuso. Una voce nella
sua mente, il torneo era iniziato- e il pranzo che aveva progettato? E i
vestiti che voleva comprare alla sorella?
La guardò, aprendo e chiudendo la bocca, tentando di dar
voce al fiume di pensieri che in quel momento lo stava travolgendo e che si
infrangevano contro il freddo ed indifferente muro che Ko Rah simboleggiava.
“Siamo in ritardo ritardo ritardo ritardo ritardo!”
-
--
-
----------------------------------------------------------
-
--
-
Buon Anno Nuovo!
Anil13: Grazie.
Nel senso, grazie per aver letto tutto. E, sì, grazie per avermi
dato le tue impressioni. Lo so, ma purtroppo questa storia ha bisogno
di molto tempo per ingranare... e mi dispiace. Il terzo capitolo va
rifatto. RIFATTO. E va messo assieme a questo. Che è stato una
spece di mini-parto. Ad ogni modo, scusa, davvero.
Vitani: Io ti adoro. Tanto.
Intendo dire, tu, uha. Dopo così tanto tempo tu, tu, uha. E
comunque, per favore, non pensare al TUO ritardo. Riesco a dare nuovi
capitoli solo in questi ultimi tempi -.- E solo questa storia e
Sunspots, fra l'altro... devo ancora lavorare su tutti gli altri T-T
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=253327
|